ROMEO COMO Il canto...

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ROMEO COMO Il canto dell’acqua L’invaso di Occhito

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ROMEO COMO

Il canto dell’acqua

L’invaso di Occhito

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Ai miei colleghi di ieri e di oggi

Foggia, palazzo del Consorzio per la Bonifica della Capitanata.

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Il canto dell’acqua

Aria di primavera

“Ibam forte …”, con passo oraziano, per corso Roma a Foggia. Lo

sguardo non seguiva le armoniche e geometriche linee del “Palazzo della

Bonifica” che mi stava di fronte e dove avevo lavorato per trentacinque

anni, ma in modo alquanto inatteso, seguiva immagini che mi rimanda-

vano lontano nel tempo.

Una breve sosta. Seduto lì accanto, nei giardini di piazza Italia, av-

vertivo chiaro il benefico effetto del rivivere quegli spazi del mio passa-

to. Voci e suoni che l’eco della gaia sonorità della fontana che mi stava

di fronte lasciava riemergere. Respiravo l’aria di quel primo giorno di

primavera del 1975. Giorno in cui, giunto di buon’ora al lavoro, notai

come nel corridoio della Direzione dei Servizi Agrari si agitasse un certo

fermento.

Il direttore, dottor Guido Rotella, con piglio quasi militaresco: «Co-

mo, vai giù in garage, ti aspetta l’autista Forcella!»

«Per andare dove, direttore?», chiesi sorpreso.

«Al distretto nove», rispose il dottor Francesco Floris, capo della Se-

zione Irrigazione e mio superiore, con un gesto riparatore, quasi a giu-

stificarsi per non avermi tempestivamente informato.

Ad attendermi giù in garage c’erano due miei cari collaboratori, il pe-

rito agrario Renato Mancini e il geometra Francesco Sanguedolce.

Lungo il percorso ebbi sufficienti ragguagli sull’inattesa uscita.

L’evento cui si andava incontro chiariva quel fermento che avevo notato

al mio arrivo in ufficio. Si andava alla verifica della funzionalità

dell’impianto del primo distretto collettivo “alla domanda”, il distretto

nove, agri di Lesina e Poggio Imperiale, esteso per circa settemila ettari

e suddiviso in numerose unità irrigue, i comizi.

Di fatto, la Direzione Ingegneria affidava il distretto nove nella mani

della Direzione Agraria. Si trattava della simbolica apertura della pri-

ma stagione irrigua dell’impianto pubblico “Nord Fortore”.

Giunti nell’agro di Lesina, in prossimità di una presa idrica azienda-

le, erano ad attenderci gli operai addetti alla manutenzione ed esercizio

del distretto, nonché la guardia irrigua addetta alla sorveglianza

dell’impianto, ma soprattutto a vigilare sulla manomissione da parte

degli utenti dei misuratori volumetrici apposti sui manufatti di presa

idrica.

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Consorzio per la Bonifica della Capitanata: Distretto 9.

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Dopo un breve preambolo del direttore Rotella, gli operai aprirono la

“bocchetta”, ponendola in direzione verticale.

Ed ecco uscir fuori un getto violento d’acqua, spinto da una pressione

di circa tre atmosfere.

“Laudato sii … per sora acqua!”

Un misto di meraviglia, di orgogliosa sorpresa e un compiaciuto ap-

plauso accompagnarono il fragore di quel getto. Ricordo come mi venne

spontaneo poggiare la mano sulla spalla di Primiano, l’operaio che mi

era accanto. Ero commosso. Mi allontanai per meglio osservare quel get-

to. Per un momento preferii restar solo, in disparte, raccolto nella mia

intima emozione.

Era quello l’inizio della “quarta fase” della bonifica: l’irrigazione

pubblica. Dopo aver attraversato quella della conquista la prima,

della difesa la seconda, della trasformazione la terza – eccoci ora ad

affrontare la quarta. E l’avvio dell’esercizio irriguo del distretto nove

era stato affidato a me, agronomo del Consorzio. Di qui l’emozione e il

conseguente pensiero volto a cogliere la valenza della mia nuova fun-

zione che andava ad inserirsi nel contesto di un iter che ancora una

volta delineava su quella terra la sua impronta storica, epocale.

Quel getto era l’avvio di un cambiamento che si era certi avrebbe

assunto di lì a poco non soltanto esiti economici e sociali ad esso confi-

dati, ma, in modo incisivo, caratteri di natura antropologica.

Quel getto prepotente diretto verso il cielo assolato mi rimandava

alla certezza di vivere un evento eccezionale, fuori dal comune. Quasi

che quell’acqua avesse trovato la volontà di stupire, dopo aver percor-

so nel sottosuolo il sentiero approntato dall’uomo, per riaffermare il

suo atto creativo su quella terra, sul sitibondo Tavoliere.

Contemplavo la potenza di quella limpida forza della natura nel

suo elevarsi, svelando al cielo azzurro la sua bellezza e offrirsi simbolo

della purezza.

Mi avvicinai a quel getto. Tesi la mano. Il bisogno di toccarlo nella

sua intimità superava finanche il piacere di guardarlo. La mano ba-

gnata avvertiva il fremito imponente di quel flusso impregnato di de-

licata freschezza.

Vedevo ora la terra e l’uomo abbandonarsi alla gioia della realizza-

zione di un sogno. Quel rumore gaio, quel risveglio della natura guidata

dall’uomo, segnava la stagione d’un rinnovamento, la realizzazione di

un bisogno implorato e appagato da parte d’una gente adusa a vivere su

una terra bruciata dal sole e poi con violenza inondata dal monte.

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L’umore nuovo della terra

Vedevo quelle gocce ricadere al suolo per poi penetrare nelle sue in-

time vene. L’infimo grumo di terra sembrava purificarsi nell’assorbire la

potenza feconda racchiusa in ognuna di quelle gocce iridescenti.

Che gioia vedere quel rapido soccorso, quel breve rivolo sinuoso di lì

a poco andar giù a capofitto a dissetare l’ultima radice. Nel suo elevarsi

e rapido cadere, quell’acqua impregnava il mio immaginario, svelando-

mi la sua dimensione virtuosa, capace di produrre quel magico impasto,

origine del risveglio delle forze rigeneratrici della terra.

Quel dissetarsi della terra lo vivevo non come metafora, ma come fat-

to vivente, reale. I rinsecchiti “raditi”, l’arida “crusta” calcarea, il duro e

ruvido “suglione”, di lontano, quasi avvertissero l’odore di quell’acqua,

erano tutti lì, in trepida attesa di poter soddisfare il loro avido assorbi-

mento.

Quella “bocchetta” del distretto nove sembrava esser cosciente di

quell’ascesa verso il cielo e della responsabilità ad essa affidata di esser

sorgente di nuova vita. Mi chinai per raccogliere l’umore nuovo della

terra.

Dalla frana all’alluvione

Il mio immaginario mi rimandava alla sorgente lontana, lì al monte

a me ben noto, segnato dal dramma della frana; là dove l’uomo aveva da

poco frenato l’ardore prorompente, selvaggio e talvolta distruttivo del

fiume Fortore che, or non è molto, alimentava a valle e nella piana il

dramma dell’alluvione – vissuta come furore della natura ostile – in uno

con i torrenti che, selvaggi anch’essi, scesi dal monte e attraversato il

Tavoliere, confluivano paralleli nel torrente Candelaro.

La regolazione delle acque

Dopo aver raccolto e resa benefica quella forza della natura, ora po-

tevi avvertire l’orgoglio di quanti, ingegneri, tecnici e operai, ebbero ad

operare nella realizzazione – previo ripartitori, interposizione di sifoni

ora dritti ora rovesci, di regolatori di pressione e portata – per

l’opportuno deflusso e poi superamento degli ostacoli naturali.

Ostacoli superati dall’idea di progetto suggerita dalla scienza idrau-

lica prima e dalla sua concreta realizzazione dopo. Quasi a imprimere il

marchio della potenza creatrice dell’opera del bonificatore.

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L’esito benefico

Ed ecco, in quel tardo mattino di primavera, vedere quell’acqua ca-

dere sulla terra dopo aver baciato il sole, insinuarsi quale Dea madre

della vegetazione, lenire il dolore d’una terra ulcerata dal deficit idrico e

straziato dalle forze immani e contrapposte tra i micropori del glomeru-

lo di terra e il pelo radicale di una pianta avvizzita, morente.

Come d’incanto, come per magia, ecco l’opera dell’uomo tesa a soddi-

sfare il desiderio della piana, simulando la provvidenziale e benefica ca-

duta dell’acqua dal cielo.

Si scioglie, così, l’angoscia, restituendo serenità ad una terra stretta

nella morsa dell’arsura, come l’aurora placa l’ansia della notte.

Remote assonanze

Quelle immagini dinamizzavano vieppiù il mio pensiero che riandava

ad un lontano passato che accomuna questa terra alle più antiche “civil-

tà dei fiumi” dell’Egitto e della Mesopotamia. Terre segnate da un co-

mune destino: come difendersi dall’acqua,

come utilizzare l’acqua. La terra della Dau-

nia ne esprime la sintesi. Già nel periodo

neolitico si trovò a dover affrontare queste

due esigenze.

La “civiltà capannicola” dauna, al termine

d’una lunga migrazione approdata sulla

sponda del lago Salso, sull’odierna collinetta

dell’Amendola, nel corso della rivoluzione

agricola, diventa padrone di alcuni mezzi di

intervento sull’ambiente come l’agricoltura e

l’allevamento, adattando la natura al proprio

bisogno. E Lì, sui lievi rialzi dell’Amendola, il

Dauno, non più nomade e raccoglitore, tro-

vava il geniale e originale rimedio nella co-

struzione dei famosi “fossati a C”, volti alla

difesa e all’utilizzazione dell’acqua.

Questo rimando storico al lontano neoliti-

co mi chiariva quanto fosse di antica data la

lotta dell’uomo di questa terra contro le forze

Stele Daunia ritrovata in contrada Cupola dall’archeologo Silvio Ferri.

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La Dea Madre.

Passo di Corvo, ricostruzione di un fossato a C.

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della natura e di come, nel corso dei secoli, l’avesse ogni volta risolta in

modo del tutto originale: dai “fossati a C” alle “vasche di colmata” e

all’uso delle idrovore; dall’irrigazione delle dune di Zapponeta, miracolo

dei renaroli lungo gli arenili, gli sciali; alla irrigazione di vigneti e olive-

ti, prim’ancora dell’impiego dei metodi attuali, con il “pisciarello”, si-

stema non so se antesignano della modalità “a goccia” oppure ingegnosa

soluzione per by-passare i costi per molti troppo onerosi richiesti dal me-

todo israeliano.

Quando al calar che fanno …

Nel girarmi, notai più in là, sulle prode di un fosso, un giovane pa-

store intento a badare al suo piccolo gregge. Volsi lo sguardo verso

l’ampia distesa del Tavoliere immersa nell’orizzonte reso indistinto dal

chiarore della caligine e perdersi nella lontana transumanza. Rivivevo

“il calo” per calli e tratturi, delle innumerevoli greggi, mandrie e

l’insieme di pastori, butteri, “casari”, “quatrali” e cani. Il procedere

“dell’uomo del tratturo” seguiva la legge di natura, proprietario dello

spazio che l’innumerevole passo degli armenti occupava dinamicamente

nel suo errare e ben difeso dal cane fedele.

Particolare della locazione di Candelaro (ASFg, Atlante Michele, 1686).

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Il pensiero poi approdava al regime della “Dogana della mena delle

pecore” istituita nel 1447 dal re Alfonso d’Aragona e passato poi,

nell’arco di circa quattrocento anni a Spagnoli, Austriaci e Borboni.

Ritornavano vivide le mie pagine sulla transumanza. Rivedevo la

piana suddivisa nelle ventitré locazioni entro le quali, a macchia di leo-

pardo, si giustapponeva, in un precario equilibrio, l’economia agricola a

quella pastorale transumante. Sistema quest’ultimo che si caratterizzò

per il succedersi di diversi “modi di vivere”: dal sistema della “conta”

degli armenti (dal 1447 al 1553), a quello della “professazione” (fino al

1615); poi, al sistema della “transazione” fino al 1661 e d’allora in poi al

ripristino della professazione volontaria, cui i Francesi posero fine nel

1806.

Un lunghissimo arco di tempo nel quale il Tavoliere passò dal regno

Aragonese, al viceregno spagnolo e austriaco per ritornare poi regno sot-

to i Borboni.

Un lunghissimo periodo nel quale si susseguirono crisi economiche,

epidemie, disastrose morie di armenti, nonché aspri contrasti tra il

mondo agricolo e quello pastorale, tra il grande e il piccolo proprietario

di armenti.

Foggia, Piazza XX Settembre: a sinistra, il settecentesco Palazzo Dogana; a destra, la sede dell’Archivio di Stato di Foggia.

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Il Tavoliere, una terra nella quale un mondo di piccoli proprietari di

terra e/o di armenti, in uno con il mondo proletario di braccianti, pasto-

ri, butteri, “casari” e “quatrali”, si trovò stretto nella morsa d’una classe

baronale, di monte e di valle, tesa sempre a rafforzare la propria autori-

tà e privilegi fondiari; e al contempo stretti nella morsa di una classe

clericale tesa ad accrescere il suo potere politico e morale. Funzionari

regi, nobili, laici e clericali, eccoli tutti nella loro brama di conquista su

quelle terre prima aspramente contese fra Angioini e Aragonesi. In bre-

ve, quella classe minima e proletaria fu costretta a vivere sotto una

struttura amministrativa che continuava a sostenersi sull’antico siste-

ma feudale.

L’istituto aragonese della Dogana cadde al tempo del decennio fran-

cese con le leggi eversive della feudalità; riprese con la restaurazione

borbonica; venne definitivamente abolita con la Legge per

l’affrancamento delle terre del Tavoliere. Nel giro di qualche decennio

tutto il demanio pervenne ai privati e iniziò allora l’attività agricola.

Le nuove forme insediative

Il divieto del dissodamento e della messa a coltura dei pascoli di fat-

to aveva impedito ogni forma di insediamento che in passato aveva de-

stato l’attenzione di Federico II e poi, nel periodo successivo, Carlo

d’Angiò. Questi fu tra i primi ad attuare le migrazioni di contadini, fa-

vorendo la colonizzazione dell’agro di Lucera mediante l’immigrazione

di provenzali, dopo averlo distrutto per scacciare i saraceni rimasti fe-

deli agli svevi.

Ma la malaria scacciò dalla pianura i provenzali e i sopravvissuti si

rifugiarono nel Subappennino Dauno, dove fondarono Celle San Vito e

Faeto e dove ancora oggi si parla un dialetto francese.

Lungo il Candelaro e nella parte costiera del Tavoliere, fin dai tempi

antichi, la malaria ne aveva ostacolato l’insediamento.

L’opera di colonizzazione riprende all’epoca di Ferdinando IV di Bor-

bone che nel 1774 assegna cinquemila versure1, insedia 500 famiglie,

crea otto borgate rurali2.

Dopo la colonizzazione ferdinandea, da considerare a tutti gli effetti

una riforma fondiaria, bisogna attendere il 1934 per sentir parlare di

borgate e di colonizzazione3.

1 La versura è pari a poco meno di un ettaro e mezzo. 2 Stornara, Stornarella, Orta, Ordona, Carapelle, S. Ferdinando, Margherita, Trinitapoli. 3 R. CIASCA, Storia della Bonifica del Regno di Napoli, Laterza, Bari, 1928.

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La iattura del disordine idraulico

Verso la fine dell’800, il Tavoliere si presentava ancora malarica, con

vaste zone acquitrinose e maleodoranti; il Candelaro, il Farano e molti

altri canali, minori e no, erano senza regimazione.

La terra recava ancora i segni evidenti di una pastura remota, arcai-

ca e legata alla realtà della malaria4. Lo indiziavano i nomi delle con-

trade: Alma Dannata, accosto al monte di Salpi; Lupara, tra Salpi e Ce-

rina5, sinonimo di località malsana: marana, luogo paludoso, incolto.

Tutt’intorno, ampi residui di terra salda resa ispida da cespugli di

rovi; più in là l’informe rudere d’una posta, viva testimonianza di un

lontano passato, depositario della dignità di un lavoro duro faticoso, av-

volto dall’abbraccio del selvatico rampicante; di lontano, sparute tracce

di strutture di servizio della Dogana: una chiesetta, una panetteria le-

sta a dispensare pane, almeno un rotolo e mezzo al giorno, per

l’acquasale e anche per il cane fedele6. Di lontano ancora lo stridio

dell’urto della zappa del bracciante, «piegato come giunco», contro la

dura crosta d’una terra «priva di attenzioni celesti e premure stagio-

nali»7, prima rovinosamente inondata e poi resa arida dalla siccità e dal

sole cocente.

Ecco la pianura,

«ove non si scorge un albero che infrangesse la violenza del vento […] La

malignità dell’aere vieta all’uomo di soffermarsi in questa regione durante

la state […] Se da Foggia, in luglio e agosto, muovi verso San Severo, o Man-

fredonia, o verso Casaltrinità o verso Cerignola, o da questo comune verso

Barletta, credi discorrere per 20 miglia un deserto d’Africa. Ivi, per quanto,

lungi si distenda la vista, non discopri un albero né una capanna per risto-

rarti dal soffocante caldo, né incontri nel lungo cammino anima vivente che

nel caso di bisogno ti possa dar soccorso [...]. Ben valutando questi gravissi-

mi ostacoli che l’industria de’ privati non può superare, mostravamo la ne-

cessità di farli cessare, prima di volgere le mire a’ grandi miglioramenti che

si possono operare in questa fertilissima contrada»8

.

È questa la voce di Afan de Rivera, direttore generale dei Lavori

Pubblici e della Bonificazione, che, nel 1824, partendo dall’esame delle

condizioni del territorio, rivoluziona il piano d’intervento di risanamen-

4 D. LAMURA, Terra Salda, ed. Simone, Napoli, 1958, p. 116. 5 Città morta. Ivi. 6 S. RUSSO (a cura di), Sulle tracce della Dogana, C. Grenzi Editore, Foggia 2008, p.13. 7 D. LAMURA, op, cit., pp. 37 e 59. 8 C. AFAN DE RIVERA, Siccità e paludi nel Tavoliere, in Cinquant’anni di bonifica nel Tavoliere, Aa. Vv., Bastogi, Foggia, 1984, p. 297.

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to agendo per bacini igrografici, nella consapevolezza del necessario

rapporto monte-piano implicante interventi con diversità di metodi sul-

le differenti aree da bonificare.

Sottolineava, inoltre, come non si sarebbe potuto esercitare una

agricoltura efficiente ove non vi si fosse potuto stabilire una numerosa

popolazione coltivatrice. Aggiungeva, poi, «non v’ha chi non discerna la

somma utilità delle irrigazioni in un suolo che nella state s’inaridisce e

rimane privo di vegetazione».

Nella piana, l’agricoltura, del tipo estensiva cerealicolo-pastorale,

immersa nell’economia del maggese, si svolgeva in masserie di due tipi:

l’antica posta o masseria delle pecore dedita alla pastorizia e confinata

sui terreni più superficiali e un po’ acquitrinosi, e la masseria di campo

coltivata a seminativo era provvista di una mezzana o pascolo per gli

animali da lavoro dell’azienda, retaggio della Dogana delle pecore. Al di

fuori dei cereali vernini, della fava e un po’ di veccia, poco altro si colti-

vava. La rotazione tipica era la terziaria: un anno maggese con la far-

chia, erbaio vernino primaverile, seguito da grano duro e poi dal tenero

o avena.

L’opera di redenzione

L’opera di risanamento idraulico iniziato nel decennio francese, vie-

ne ripresa dai Borboni. Nel 1830, a seguito dell’interessamento di Afan

de Rivera, il governo borbonico diede l’avvio della bonifica del lago Salpi

e delle opere di arginatura lungo il Candelaro, il Salsola e il Cervaro.

Ma per l’insufficienza delle manutenzioni, argini e foci aperte a mare

andarono a male; le colmate del lago Versentino, del pantano Salso e

delle paludi minori non vennero eseguite.

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L’opera di redenzione

avrebbe dovuto assicu-

rare all’agricoltura oltre

10 mila ettari e assicu-

rare l’irrigazione di va-

ste aree mediante la

utilizzazione delle ac-

que freatiche e di quelle

superficiali9.

Dal 1875 al 1926 si

ebbero numerosi inter-

venti volti ad arginare i

gravi problemi idraulici

delle aree limitrofe dei

laghi di Lesina e di Va-

rano segnate dall’im-

perversare di una ele-

vata recrudescenza del-

la malaria. Interventi

che, purtroppo, non eb-

bero il crisma della sistematicità.

Dai primi del ‘900 e per quasi 30 anni, il Genio Civile diede inizio al-

la sistemazione del Candelaro, con arginature in tutto il tratto ricaden-

te nell’agro di San Giovanni Rotondo ed oltre per 15 chilometri, dalla

confluenza del Celone fino allo sbocco nelle vasche di colmata.

Successivamente, i lavori di definitiva sistemazione idraulica del

torrente e dei terreni soggetti a estesi e frequenti allagamenti da eson-

dazione e per deficienza di scolo, vennero ripresi a partire dal 1928, dal

Consorzio di bonifica delle Valli del Cervaro e Candelaro il cui com-

prensorio si estendeva per 127 mila ettari.

Lo squilibrio d’un rapporto naturale

Il susseguirsi delle “quotizzazioni”, del disboscamento dissennato per

far fronte alla lotta contro il brigantaggio, dell’ulteriore dissodamento

dei pascoli nel corso della “battaglia del grano”, ingenerarono in tutta

l’area collinare dai caratteri montuosi estesi fenomeni di dissesto idro-

geologico.

Intensi fenomeni erosivi aggredivano in particolare il Subappennino

Dauno, terra estremamente fragile: un flish pliocenico per larga parte

9 R. CIASCA, Storia delle bonifiche del Regno di Napoli, Laterza, Bari 1928, p. 120.

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un impasto di marne e argille varicolori incoerenti, sconvolte da piogge

brevi di notevole intensità nel periodo autunnale dopo le lavorazioni “a

rittochino” dell’esile strato pedologico.

La pressione demografica sulla campagna aveva dato origine sul

monte a gravi fenomeni di patologia fondiaria. La terra si presentava

col suo volto segnato da rughe profonde, frammentata, polverizzata, di-

spersa in innumerevoli fazzoletti di terra verso i quali si partiva entu-

siasti alla semina per ritornare rassegnati al raccolto.

Dalle rughe profonde di quella terra, lacrime dense di fango sconvol-

gevano, violente, la piana.

Di qui la visione lungimirante del Serpieri d’una bonifica “integrale”,

volta al riequilibrio del rapporto monte-piano che considerasse in modo

sistemico, interrelato le componenti idrauliche, agrarie, fondiarie, infra-

strutturali del rapporto medesimo.

I piani di bonifica

Ciò non di meno, dopo l’azione di appoderamento dell’Opera Nazio-

nale Combattenti (ONC), si susseguirono tre piani di bonifica e con essi

lo svolgersi delle loro diverse fasi: dalla bonifica idraulica alla trasfor-

mazione agraria e fondiaria del Tavoliere.

Nel 1933, a seguito della fusione dei 9 consorzi elementari di bacino

del Tavoliere, l’area in esame ricadde nella giurisdizione del Consorzio

generale per la bonifica e la trasformazione fondiaria della Capitanata

che, in attuazione delle direttive del Piano generale di bonifica Curato,

a seguito della Legge Serpieri, impostata sui principi ispiratori della bo-

nifica integrale, iniziava una vasta opera di redenzione dell’agro10. Si

diede vita ad un intensa attività prima di bonifica idraulica intesa a ri-

solvere e ad eliminare il più grosso ostacolo alla vita e allo sviluppo del

territorio: la malaria. Ma, di fatto, il Piano Curato finì per seguire solo

in parte la inderogabile nozione di integralità del Serpieri.

Il Curato, in uno con i suoi collaboratori, pose in evidente rilievo nel

suo piano come le “finalità produttive del bonificamento” si potevano

conseguire anche “senza l’ausilio dell’irrigazione”, pur essendo questa possibi-

le

«anche su vastissima scala in relazione alle molteplici e importanti disponi-

bilità idriche attuali o tecnicamente disponibili nel nostro comprensorio,

nonché in relazione all’andamento altimetrico e alla natura della maggior

parte dei terreni»11.

10 G. COLACICCO, Le borgate di Bonifica del Tavoliere, Foggia, 1958. 11 R. CURATO, Piano Generale per la bonifica del comprensorio, Roma 1933, pp. 132-135.

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In breve, l’irrigazione era possibile ma non necessaria, stante agli

esiti del calcolo di convenienza economica su un ordinamento colturale

cerealicolo-zootecnico sul quale il piano era impostato. E ciò veniva di-

mostrato con un breve esempio, dal sapore e tono didascalico, su una

azienda tipo di 200 ettari e partendo da due assunti: da un carico bovi-

no di 4 ettari per capo grosso - «misura minima tra le prevedibili nel

primo periodo della trasformazione agraria» - e su una alimentazione

del bestiame basata «sul ristretto impiego di fieno e sul largo impiego di

paglia di cereali corretta dall’aggiunta di mangimi concentrati e in par-

ticolare di quello producibile localmente (fave)».

Curato concludeva sconsigliando l’attuazione della grande irrigazio-

ne, mediante la costruzione di invasi fuori comprensorio, in particolare

quello di Occhito, comportanti opere onerose di raccolta, adduzione e

distribuzione per il privato e richiedente l’intervento dello stato. Solu-

zione che avrebbe comportato «mutamenti della legislazione attuale»

del regime e l’avvio di complessi studi di dubbio esito positivo. Tutt’al

più poteva considerarsi conveniente l’impiego della piccola irrigazione

sul basso Tavoliere basata sulla utilizzazione delle acque sotterranee

soprattutto freatiche disponibile nel sottosuolo dell’azienda e ove le spe-

se del sollevamento l’avessero consentito.

Ergo, l’irrigazione costituiva «un aspetto veramente secondario della

trasformazione fondiaria della Capitanata e non quel mezzo miracoloso

che avrebbe dovuto mutare profondamente la fisionomia della provin-

cia». E ciò in quanto l’agricoltura del Tavoliere avrebbe conservato «la

sua fondamentale caratteristica di agricoltura asciutta in clima subari-

do», anche nella previsione di un nuovo ordinamento produttivo.

Il dottor Rotella in un suo lavoro ci ricorda che il Curato non mancò

di tracciare le direttive miranti a ovviare ai gravi inconvenienti presen-

ti nel vasto agro: la fissazione di una famiglia colonica ogni 30 ettari nei

terreni inadatti alle colture erbacee; la fissazione di una famiglia ogni

16 ettari nei restanti terreni del comprensorio12.

In sostanza, il piano Curato sollevava lo Stato dal suo impegno di

necessario sostegno nel caso della realizzazione della grande irrigazione

nell’area del nord Tavoliere. Al contempo, non presupponeva quella de-

cisiva e necessaria mobilità fondiaria volta a risolvere o quanto meno a

migliorare lo squilibrio sussistente tra il mondo proprietario e il mondo

proletario. Vi sarebbe stata una crescita di giornate lavorative, una cre-

scita di unità produttive, ma il regime fondiario non avrebbe subito

12 AA. VV., Cinquant’anni di bonifica nel Tavoliere, Bastogi ,Foggia 1984, p. 103.

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quella variazioni in grado di assorbire l’enorme volume di mano d’opera

bracciantile che premeva alle porte delle aziende e nelle piazze.

Problema questo al centro del pensiero del Serpieri il quale, oltre a

perorare la causa del riequilibrio monte-piano, seguendo il pensiero di

Afan de Rivera, poneva al centro l’altra condicio sine qua non: il riequi-

librio del rapporto tra il mondo proprietario e il mondo proletario. Di

qui la sua richiesta di un urgente, necessario e incisivo intervento ri-

compositivo del regime fondiario. Proposta che troverà l’opposizione dei

gerarchi del regime in combutta con la classe degli “agrari”, maggiore

detentrice della proprietà latifondistica.

Il Tavoliere prima del Piano Curato (Carta n. 12 del Piano). Da notare le sparute e puntiformi aree irrigue.

L’appoderamento

Nel 1934 il Consorzio Generale di Bonifica della Capitanata realiz-

zava il primo borgo, Mezzanone, con funzione di servizio per tutta l’area

in via di appoderamento da privati e dall’Opera Nazionale Combattenti.

Oltre alla chiesa e alla canonica, ospitava un ambulatorio, una scuola,

la caserma dei carabinieri, l’ufficio comunale e consorziale, alloggi per

esercenti, botteghe di generi di prima necessità, magazzini e officina.

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Anni ’50: il piano consortile di risanamento idraulico.

Anni ’50: carta delle acque e loro potenzialità irrigue (da COLACICCO G., La carta delle acque sotterranee del Tavoliere 1° supplemento, 1956).

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La borgata, fu fornita di elettricità, di pozzi per l’acqua potabile, di

un’efficiente rete fognaria. Oggi, continua la sua benemerita funzione

umanitaria di servizio: di “casa di accoglienza” di extracomunitari e no.

Nel 1938, con le nuove direttive contenute nel Piano Carrante-

Medici-Perdisa, un piano di colonizzazione, vennero realizzati gli appo-

deramenti da parte anche dell’ONC con la costruzione delle borgate di

Stazione di Cervaro, di Giardinetto-Troia, di Incoronata e di Segezia

che ancor oggi mostra il bel campanile di piacentiniana fattura.

L’appoderamento si estese su una vasta area di circa mille ettari con la

realizzazione di poderi di ampiezza media di 30 ettari.

Nel 1942 seguirono le borgate di Tavernola e Siponto, che in seguito

assumerà una particolare e affermata fisionomia turistica

Nel 1946, nella fase di ricostruzione del dopoguerra, si avviava una

azione contro la coltura estensiva attuata dalla proprietà latifondistica

con le “Nuove direttive di massima del Piano di trasformazione fondia-

ria del Tavoliere” redatte da Mazzocchi-Alemanni.

Queste direttive furono applicate per i miglioramenti fondiari e in

parte per gli interventi successivi della Riforma Fondiaria, sia per

l’impostazione degli ordinamenti che per le opere edilizie necessarie al-

la colonizzazione.

Nel 1951 con l’istituzione della Sezione Speciale della Riforma Fon-

diaria, sulle terre espropriare vennero realizzati poderi in media di 8

ettari dotati di tutti gli annessi aziendali, ivi compresi un piccolo ulive-

to-vigneto e una prima dotazione di capi zootecnici.

Contemporaneamente il Consorzio di bonifica avviava una vasta

opera di viabilità di penetrazione, in uno con numerose strade interpo-

derali, provvedendo anche alla elettrificazione rurale delle contrade ap-

poderate e no.

Negli anni ’60, il richiamo dello sviluppo industriale del Nord e

dell’Europa ingenerava un esodo rurale che investì in pieno non soltan-

to l’area montana, ma anche le zone di riforma. Nel giro di qualche an-

no le case coloniche della Riforma e i poderi dell’ONC rimasero vuoti e

inutilizzati, chiudendosi, così, l’intensa opera di colonizzazione. Ma fu

negli anni ’70 che nel comprensorio del Consorzio per la bonifica della

Capitanata si pervenne ad una nuova fase tuttora in corso: la fase

dell’irrigazione collettiva di bonifica.

Con l’irrigazione si passava da una agricoltura estensiva cerealicola

ad un’altra intensiva impostata prevalentemente su colture a più eleva-

20

L’appoderamento del Consorzio Generale di bonifica della Capitanata. (da COLACICCO G., 1951).

to reddito, industriali e ortive da pieno campo volte al mercato richie-

dente e non più all’autoconsumo.

Nel contempo, nell’ambito del rapporto monte-piano, all’inizio degli

anni ’70, il direttore Guido Rotella affidava allo scrivente, da poco as-

sunto, lo studio preliminare dell’ambiente fisico e socio-economico dei

territori del Subappennino Dauno - classificati negli anni ’60 di bonifica

montana - per la redazione del Piano di Bonifica montana del Subap-

pennino Dauno. Piano che ricevette anche l’approvazione degli organi

della Regione Puglia nel 1973.

21

Particolare dell’appoderamento dell’O.N.C.

L’indignatio della piana

Ma è d’uopo ricordare che contro il permanere dell’ineguale latifondo

degli “agrari”, a sommuovere lo Stato fu determinante l’ondata dirom-

pente delle masse bracciantili con le ben note lotte di divittoriana me-

moria.

Azione d’urto del mondo proletario, esasperato perfino da

quell’improponibile e fragile “imponibile di mano d’opera”, che indusse

lo Stato, ora repubblicano e non più regio, ad una parziale riforma fon-

diaria. Parziale in quanto limitata allo “scorporo” della grande azienda.

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Particolare dell’appoderamento dell’Ente Riforma.

Di lì a poco, tramite la nascente Cassa per il Mezzogiorno, ecco fi-

nalmente, un piano incisivo, volto alla realizzazione di invasi idrici –

tra essi la costruzione della diga in terra battuta più grande d’Europa,

la diga di Occhito – e dei conseguenti impianti irrigui collettivi estesi su

tutto il Tavoliere. Senza dire della quota di quell’acqua destinata

all’industria e, tramite apposito potabilizzatore di Finocchito, a sopperi-

re alle esigenze idriche di larga parte della popolazione della Capitana-

ta.

Di qui la commozione nel rivivere quel giorno, per me radioso, nel

quale si dava l’avvio all’irrigazione pubblica.

Fase questa non ultima, perché la bonifica ha un inizio e non una fi-

ne: “un’attività in perfetto rinnovamento”, come amava definirla un al-

tro suo grande artefice, Eliseo Iandolo.

Qualche settimana dopo, il 2 aprile, il distretto andò regolarmente in

servizio. Per ogni ettaro effettivamente irrigato veniva garantita la di-

sponibilità di 4.100 metri cubi d’acqua.

Agli utenti il servizio comportava nell’anno, per ogni ettaro servito, un

costo fisso di 7.200 lire e uno variabile di 31 mila lire nel caso di consumo

23

idrico effettivo. La “tariffa binomia” assicurava un sistema quasi acque-

dottistico: l’utente, aprendo la valvola di presa, vedeva uscire l’acqua in

pressione, senza la necessità di dover ricorrere a motore, carburante e

pompa.

Il Consorzio di bonifica e i suoi compiti

Sono passati più di quarant’anni. Oggi l’intero impianto irriguo del

Nord Fortore è in esercizio; sono state costruite nuove dighe (Capacciot-

ti, Capaccio); sono stati realizzati nuovi impianti irrigui, in particolare il

comprensorio irriguo della Sinistra Ofanto; è in piena attività il settore

dell’assistenza irrigua; l’attività del settore montano; altre opere e atti-

vità sono in itinere, altre ancora in programma.

Mette conto ricordare che la legislazione regionale considera la

bonifica “quale fondamentale attività pubblica, univocamente ricono-

sciuta, per la salvaguardia e difesa del suolo e dell’ambiente e per la

tutela e utilizzazione delle risorse idriche”.

Attività, comportante, sul piano realizzativo e gestionale, la par-

tecipazione di quanti, privati inclusi, da essa traggono beneficio.

Un’attività in ordine all’articolo 44 della Costituzione, che definisce la

bonifica come uno degli strumenti essenziali per il conseguimento del

razionale sfruttamento del suolo e per stabilire, al tempo stesso, equi

rapporti sociali.

E in Capitanata, la bonifica, dopo aver attraversato la prima fase

della conquista, la seconda della

difesa e la terza della trasfor-

mazione, si è trovata ad af-

frontare la quarta, dell’irrigazio-

ne e nel contempo quella del go-

verno del territorio e delle risorse

naturali13. Fase che incominciò

in quel due aprile del 1975 con

l’irrigazione pubblica – a fronte

di quella privata sostenuta da

una falda deficitaria – ma che

al contempo si poneva anche a

custodia d’un ecosistema volto

al risanamento, ivi inclusa la

tutela e la qualità delle acque. Arrigo Serpieri in visita alle opere di bonifica.

13 Annunciata nel Convegno di San Dona di Piave del 5 giugno 1992.

24

Il Tavoliere oggi. La nuova realtà: i comprensori consortili irrigui.

Il Consorzio per la bonifica della Capitanata14, di consolidata com-

petenza in fatto di territorio, ambiente e uso delle acque, continua,

così, ad assolvere quel ruolo fondamentale affidatogli: di essere ente

duttile al cambiamento. I suoi fini si compendiano, in una organica

politica di sviluppo e di crescita civile, volta all’uso corretto del ter-

ritorio e alla contemporanea azione di protezione del suolo e di sal-

vaguardia dell’ambiente. Di qui l’importanza del suo ruolo.

14 II Comprensorio consortile si estende per una superficie di circa 442 mila ettari, ai quali vanno aggiunti 98 mila ettari montani, 68 mila dell’area del Sub-Appennino Dauno e 30 mila dell’area del Fortore sui quali assomma anche la competenza di bonifica montana nell'ambito del rapporto monte-piano.

25

Lo schema dell’impianto irriguo del Fortore.

Oggi, di fronte a un equilibrio ecologico mondiale quasi a pezzi, è

doveroso e necessario porre in questa nostra terra la dovuta più alta

attenzione ai problemi della difesa del suolo a monte – Gargano e

Subappennino – e desertificazione a valle, laggiù nell’antico Tavolie-

re, assetato d’acqua e di giustizia.

26

I nuovi pericoli

Il fenomeno della desertificazione va inteso come lento processo irre-

versibile di degrado della struttura del suolo agrario non sufficiente-

mente dotato della sostanza organica necessaria per la conservazione di

quell’aggregazione glomerulare, unica forma che consente al seme e alla

futura pianta di beneficiare dell’apporto idrico, energia vitale e alimen-

to.

Nel Tavoliere, fra le cause più temibili, si annoverano i cambiamenti

climatici in atto, la siccità, la salinizzazione delle acque da pozzi e dei

terreni, l’erosione, le tecniche agricole non sempre razionali. Ricerche

recenti confermano la tendenza all’aumento delle temperature medie e

una diminuzione delle piogge annuali.

Nonostante l’estesa realizzazione di complessi impianti irrigui (com-

plessi Fortore e Sinistra Ofanto), la Capitanata presenta un bilancio

idrico costantemente deficitario15.

Anche il bilancio idrico - differenza tra la evapotraspirazione e le

piogge - relativo ai mesi invernali va rovinosamente avvicinandosi a ze-

ro. Il che evidenzia il pericolo di una penuria idrica cronica estesa non

solo ai mesi primaverili ed estivi, ma anche ai mesi invernali. Condizio-

ne questa che può pregiudicare l’allontanamento dal suolo, con le piogge

autunnali e invernali, i quantitativi di sali che si accumulano nel terre-

no a seguito dell’apporto irriguo nella stagione estiva e autunnale. E ciò

è ancor più serio nel caso di prelievo da pozzi, con compromissione a

lungo termine della sostenibilità dei sistemi agricoli e l’accentuarsi del

temuto processo di desertificazione.

La bonifica come morale

Questi i nuovi preminenti compiti affidati alla bonifica, tesa ancor

più a svolgere un compito morale prima ancora di quello ad esso asse-

gnato come ente di diritto pubblico. Seguendo una paidèia informata a

una politèia16. Vale a dire tesa a quel giusto rapporto, a quell’armonia

delle parti del sistema sia esso fisico che sociale, cui tende il pensiero

scientifico e, non ultimo, come indicava il buon Serpieri, quello di un

avveduto bonificatore.

15 Il complesso Fortore, a fronte di una disponibilità di 185 milioni di metri cubi d’acqua, pre-senta un fabbisogno idrico di 39 milioni di metri cubi, di cui 80 potabili e 60 per uso industriale. Il complesso irriguo Sinistra Ofanto presenta una disponibilità di 55 Mmc e un fabbisogno di 76 Mmc: un deficit medio complessivo di circa ben 239 milioni di metri cubi. 16 FRANCESCO ADORNO, La Politèia (Repubblica) di Platone. La Politica di Aristotele, Il Tripode, Napoli, 1994, p. 13.

27

L’altro pericolo

Grazie all’irrigazione, oggi il Tavoliere è tra i primi produttori di der-

rate alimentari. Il pomodoro da industria copre poco meno della metà

della produzione nazionale “un business da 3 miliardi di euro costruito

sulle braccia di migliaia di persone invisibili. Braccia prima foggiane,

poi dei migranti. Invisibili come la mafia”17.

L’insorgere pauroso di contatti tra gruppi aventi norme culturali di

comportamento del tutto devianti, va ingenerando una dilatazione ec-

cessiva e progressiva dell’illegalità.

Processo che, se non frenato, può solo condurre ad una rivalità sem-

pre più spinta e perfino al collasso dell’intero sistema non solo economi-

co. Vanificando gli sforzi enormi sostenuti dall’opera di bonifica iniziata

quasi cento anni fa. Un’epoca di pericolo come quella che stiamo viven-

do, richiede più che mai la guida e l’autorevolezza di uomini e tecnici cui

non viene meno competenza, ingegnosità, coraggio, saggezza, umiltà e

soprattutto passione civile.

Qualità queste che dispongono soprattutto alla necessaria e insosti-

tuibile collaborazione, al pari, come suggerisce l’antropologo, “di quegli

uomini che uccisero il primo mammut”18; oppure al pari di quanti, ahi-

mè, minoranze, seguirono e ancor oggi seguono, affascinati, il sentiero

tracciato dal racconto degli indiani Digger: “In principio Dio diede ad

ogni popolo una tazza d’argilla e da quella tazza essi bevvero la vita!”19

Le mani sulla campagna

Ma ecco ancora quel gesto disumano e feroce, come d’artiglio di rapa-

ce, sottrarre quella tazza d’argilla dalle mani dolenti dell’ultimo brac-

ciante. Disgregando, così, quell’esile già precario rapporto sociale, in

questa antica terra non più sitibonda, che un malevolo e mal celato abu-

so di potere può ad essa ricondurre.

Di qui il necessario permanere dell’indignatio civile, prodromo, se di-

sattesa, d’una pericolosa nuova tensione sociale.

Di qui il nuovo concetto dell’ineludibile “integralità” che, superando la

soglia della “bonifica”, sia capace di estendersi su tutti i rami e gli an-

fratti della società civile e politica.

17 ROBERTO SAVIANO, La mia Califoggia di speranza, in “L’Espresso”, agosto 2017. 18 CARLETON S. COON, Storia dell’uomo, Garzanti, 1970, p. 422. 19 RUTH BENEDICT, Modelli di cultura, Feltrinelli, 1974, p. 5.

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Braccianti, di Mino Lo Savio (70x100).

29

Congedo

Sfogliando le pagine antiche e di oggi di questa terra, ecco salire

un’onda che continua a commuovere l’animo mio; a sorprendere il mio

pensiero e far sì che potessi vedermi non più come semplice agronomo

del Consorzio per la Bonifica della Capitanata – per giunta in quiescen-

za – ma figlio di quella passione civile che la storia di questa terra, in

uno con la mia, mi ha dato in dono.

Ecco il Tavoliere: prima terra dei Dauni, poi granaio di Roma, poi a

lungo malarica, poi lasciata al pascolo, poi a lungo soggetta a mo-

nocoltura cerealicola, poi bonificata, colonizzata e oggi volta ad

un’agricoltura irrigua e intensiva. Domani l’attende un nuovo duro la-

voro, per buona parte non certo previsto, affidato non soltanto ad un en-

te duttile al mutare degli eventi fisici e sociali, ma richiedente la deter-

minata partecipazione dell’intera società. Pena il collasso d’una lunga,

dolorosa e inutile fatica.

Un respiro profondo, per poi riporre in bell’ordine, quasi in segreto,

nell’angolo più intimo della memoria, quelle pagine segnate dal cammi-

no faticoso di questa terra, insieme con gli spazi del mio passato e con

essi, il ricordo di quel meraviglioso primo giorno di primavera del 1975.

Mi riavviai verso casa. Un nodo alla gola. Una lacrima … la lasciai

andare … Volgeva lo sguardo verso i miei fraterni collaboratori, Renato

e Francesco. Due affetti che mi mancavano e mi mancheranno. Addio

miei cari!

Un breve sorriso accompagnava l’eco di quella gaia sonorità che a

mano a mano si allontanava. Era l’antico canto dell’acqua…

Palena, 15 agosto; Foggia, 24 gennaio 2018

30

Da: S. CICCONE (a cura di e con la collaborazione di R. COMO), Cinquant’anni di bonifica nel Tavoliere, Foggia 1984.

31

ROMEO D. A. COMO (Palena, CH) - Ha conseguito il diploma di maturità presso il Liceo Scientifico “V. Cuoco” di Napoli. Laureato in Scienze Agrarie col massimo dei voti presso l’Università “Federico II” di Napoli. Ha conseguito il diploma di specializzazione in Pianificazione Economica e Sviluppo Rurale presso le sedi di Bari e di Montpellier dell’Istituto di Alti Studi Agronomici. Ha svolto la sua attività professionale di agronomo presso il Consorzio per la Bonifica della Capitanata di Foggia, e di collaboratore fisso alla Rivista bonifica, diretta dal meridionalista e scrittore Salvatore Ciccone. Collabora con il “Centro Studi e Socio-Religiosi in Puglia” diretto dalla professoressa Liana Bertoldi Lenoci. Membro della Società di Storia Patria per la Puglia. Dedito agli studi di Antropologia Culturale e di Storia della Transumanza. Autore e compositore di musica. Vive a Foggia.

AUTORE di: Dagli erbaggi ai panni lana, Palena e la Mena delle pecore, Bastogi (2006); Da Palena a Canosa, transumanza e solidarietà, Edizioni Pugliesi (2007); il Canto del Borgo, Bastogi (2007); Quando al calar che fanno - dalla Valle Aventina alla locazione di Arignano, la mena delle pecore nel periodo della prima professazione 1553-1615, Bastogi (2011) (Premio Capitanata 2012); La Dogana di Foggia nel periodo della transazione 1615-1660 (2014); Le condizioni igienico sanitarie di Foggia dagli Aragonesi agli Spagnoli, Archivio Storico Pugliese LXVIII, 2015; Forca Palena dagli Angioini agli Aragonesi, Foggia, 2017; La Beata Florisenda da Palena, saggi di Benedetto Mazzara e Aniceto Chiappini (a cura di), Foggia, 2017.

COAUTORE di: Le donne raccontano – Palena dopo l’8 settembre 1943, Bastogi(2004); E raccontano ancora …, Bastogi (2005); Il tribunale ecclesiastico di prima istanza nel-la Diocesi nullius di Canosa: Acta Criminalia, Edizioni Pugliesi(2008); Dei curiosi pro-cessi istruiti nella curia di Canosa tra la fine del ‘500 e la metà del ‘700, Edizioni Pu-gliesi (2009).

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