Roberto Vecchioni. Miti e parole di un lanciatore di coltelli

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“Basta anche un niente per esser felici basta vivere come le cose che dici” Incontro con Roberto Vecchioni

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La riproduzione di parti di questo testo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma

senza autorizzazione scritta è severamente vietata,

fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi

Prima edizione: ottobre 2011

© 2011 Arcana Edizioni Srl

Via Isonzo 34, Roma

Tutti i diritti riservati

Copertina: Laura Oliva

Tutte le foto presenti nel libro

provengono dall’archivio di Roberto Vecchioni

ISBN: 978-88-6231-201-1

www.arcanaedizioni.com

Ernesto Capasso

Roberto VecchioniMiti e parole

di un lanciatore di coltelli

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a Silvia, tenero fiore del maggio odorosoa Sandra che lo ha colto

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Indice

“Basta anche un niente per esser felici /

basta vivere come le cose che dici”

Incontro con Roberto Vecchioni 11

I coltelli, l’amore e le parole

Un inizio 21

Speranza 23

Lessico familiare 33

Figli 43

Le sentinelle del futuro 49

Le donne e l’amore 57

Voci di madre 77

Amici 85

L’altro se stesso 93

La poesia 105

La signora vestita di nero 115

Miti e leggende 125

Gli amori di carta e le storie 135

Il lanciatore di coltelli sono io, siamo tutti noi. I coltelli sono i pensieri, le nostre forme d’espressione.

Ci sono stati i grandi lanciatori: Raffaello, Einstein. Poi ci sono quelli come me, gli imitatori: faccio del mio meglio, provo a emozionare e qualche volta riesco a prendere una stella.

ROBERTO VECCHIONI

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“Basta anche un niente per esser felici basta vivere come le cose che dici”Incontro con Roberto Vecchioni

Cammino per l’ampia strada che costeggia il lungomare di Napoli, la

mia città, in un pomeriggio di primavera inoltrata. Guardando il pano-

rama, riaffiora in me un verso di Dante: “La dolcezza ancor dentro mi

suona”. Mi soffermo a guardare il castello che domina il paesaggio.

Castel dell’Ovo, chiamato così per una leggenda legata a un uovo magi-

co appartenuto al poeta Virgilio, è il più antico della città. Sorgendo su

un isolotto roccioso, “Megaris”, il palazzo è per una metà sulla terra e

per l’altra totalmente immerso nel mare. Osservandolo, in attesa del-

l’incontro con Roberto, mi è sembrato una metafora appropriata del

percorso musicale e letterario di Vecchioni. Le canzoni e i libri del pro-

fessore abitano in una terra di mezzo sempre in bilico tra il sogno e la

realtà, tra il desiderio e il rimpianto, fra la nostalgia del passato e la fede

in un domani migliore. “Il Castel dell’Ovo fa parte della mia infanzia,

io sono figlio di napoletani, ci sono stato tante volte”, mi dice Roberto

che, sorridente, mi accoglie nella hall di un hotel nei dintorni.

Signor Vecchioni, uno dei suoi dischi più intensi è: IL LANCIATORE DI COL-

TELLI, pubblicato nel 2002, a cui ci siamo ispirati per il titolo di questo

11

Il sogno 145

I luoghi 155

Le parole e gli sguardi 167

Le favole 179

Ippopotami, giudici e fantasmi 189

Il viaggio 199

Il dialogo con Dio 209

Il tempo 219

Pessoa, Catullo e le speranze,

un epilogo 235

APPENDICI 237

Il professore e i poeti 239

Roberto Vecchioni e l’arte della narrazione 253

Nota biografica 269

Discografia 271

Note 303

Bibliografia 313

Ringraziamenti 317

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Che cosa le manca di più, oggi?

Mi mancano molte cose, tantissime. Mi manca vedere gli uomini

più felici, più allegri, contenti. Vedo sempre persone tristi, arrabbiate

con la propria vita, con la società in cui vivono, con la patria che non

gli dà nulla. Ecco è per gli altri che sono in pensiero, non per me.

E per se stesso, cosa insegue?

Io mi accontento di quel che ho, l’ho già scelto quello che ho. Ho

scelto di non contrabbandarmi in nessun modo, di fare anche cose

fuori dalla mia portata intellettuale, se servono e l’ho fatto partecipan-

do a Sanremo. Non ho preoccupazioni per me, le mie preoccupazioni

sono per gli altri. Quindi tenterò con le parole, con la musica e con i

sentimenti soprattutto, di supportare i discorsi degli altri rappresen-

tando uno stile di vita a cui non sono capace di dare una risposta.

Prima ha parlato delle parole. Nel suo romanzo Le parole non le por-

tano le cicogne, le definisce: “Soffi dell’anima dinanzi all’ignoto per defi-

nirlo e non averne più paura”. Se dovesse scegliere due o tre parole che mag-

giormente le fanno compagnia e le sono care, quali sceglierebbe?

Indipendenza, carità, gioia, armonia con se stessi, queste sono le

cose per me fondamentali. Più ancora di libertà, che pure è bella come

parola, o di amore per se stessi.

Tra carità e amore, quale predilige?

Carità mi piace più di amore come concetto perché la carità è rivol-

ta agli altri, nell’amore c’è sempre qualcosa di egoistico, invece, la carità

è rivolta agli altri.

Altre parole?

La semplicità…

E la coerenza?

La coerenza non è un concetto che mi coinvolge più di tanto.

Dipende da che cosa si intende per “coerenza”, non è mica facile stabi-

lirlo. Io penso di avere una mia coerenza però qualche volta posso

anche travisare, andare fuori, se ne ho bisogno per arrivare a un fine

diverso.

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libro. Che significato hanno, nel suo cammino artistico, questa figura e

questa canzone?

Storia e leggenda del lanciatore è una canzone fondamentale perché è

una storia totale. È la storia della speranza e degli ideali che si trasmet-

tono da nonno a padre a figlio. Racconta del vero significato che hanno

i coltelli che certamente non vengono intesi come un mezzo per offen-

dere ma rappresentano le esternazioni, i pensieri.

C’è un bersaglio non ancora raggiunto verso cui, in questo momento,

vorrebbe indirizzare un pensiero, una suggestione, “un coltello”?

In questo periodo sto facendo tantissimo, penso, anche più di quel-

lo che mi è permesso perché in realtà non è che io sia un grande poli-

tico, un sociologo o altro. C’è un’enorme differenza tra il ruolo del

poeta, qualunque tipo di poeta, anche piccolo, come lo intendo io, e

quello del pensatore, del maestro di pensiero. C’è una differenza note-

vole: il poeta lavora d’istinto mentre il maestro di pensiero ha a che

vedere con la scienza vera e propria. Va da sé quindi che trovare solu-

zioni per i problemi delle persone, degli uomini, della vita, della civiltà,

della cultura non è una cosa che posso permettermi di fare.

Per che cosa uno scrittore di canzoni può trovare soluzioni?

Quello che posso fare è trovare soluzioni per l’anima. Aiutare le per-

sone a relazionarsi a se stesse, suggerire agli altri l’importanza dell’abi-

tudine alla coerenza e cose di questo genere. Tutto questo ha poco a che

vedere con un’analisi politica, partitica o di parte, anche se la mia parte

è abbastanza nota, io sono più a Sinistra che a Destra. Però non è que-

sto quello che faccio e che voglio fare, non è cercare di mettere insie-

me gli uomini, né far capire a uno come è l’altro e così via.

Qual è, secondo lei, oggi, il compito di uno “scrittore di parole”?

Io tento, nel mio piccolo, di far capire a ogni uomo com’è dentro,

com’è nella sua intimità, nella sua trasparenza o non trasparenza. Cerco

di spingere le persone a porsi delle domande per poi far sì che in un

secondo momento le facciano anche agli altri. Il compito di uno scrit-

tore di parole, di sentimenti è leggermente diverso da quello di un

costruttore di idee politiche e sociali. Talvolta possono seguire strade

comuni ma si tratta comunque di un diverso modo di esprimersi.

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Gli artisti hanno la capacità di captare, di sentire prima degli altri il

segnale di un cambiamento?

Questo non saprei stabilirlo. Me l’hanno detto in tanti che l’artista

riesce a cogliere ogni cosa prima degli altri, anche molto prima. Sì,

forse è vero, perché l’ho visto e l’ho letto in tanti autori certamente più

grandi di me. Questa forma di preveggenza esiste perché l’artista cal-

cola in un modo infinitesimale con l’anima e con la sensibilità, non

certo con la ragione, alcune cose che stanno per avvenire, per avverar-

si e che agli altri sfuggono anche perché nel vivere quotidiano degli

altri c’è forse fin troppa realtà. L’artista, invece, riesce ogni tanto a

vagheggiare e quindi riesce a captare l’evolversi delle cose.

Realtà e immaginazione, l’uomo è sempre in bilico tra due mondi e due

anime?

L’uomo è entrambe le cose: desiderio e delusione, sogno e recrimi-

nazione. Siamo sempre entrambe le cose.

Questo mi fa venire in mente il tema del doppio che è centrale nelle sue

canzoni. Lei spesso si è specchiato in personaggi storici e letterari, in poeti

e scrittori: Arthur Rimbaud, Alda Merini, Fernando Pessoa, Jorge Luis

Borges. Fra tutti questi specchi, ce n’è uno il cui riflesso le somiglia di più?

Amo molto il tema del doppio. Poeti e personaggi li ho anche cam-

biati un po’ per farli somigliare a me. Quello a cui mi sento più vicino è

Borges, per la sua grandezza, la sua unicità, il suo percorrere universi

improvvisamente complicati, mescolati, infiniti, ma mediabili, accettabi-

li, a volte comprensibili, a volte no. Borges è stato un grandissimo genio.

In che cosa Roberto Vecchioni si distacca da Jorge Luis Borges?

Da lui mi distacco per alcune cose, per esempio io ho molta più

fede. Io credo nell’aldilà, credo sinceramente che non tutto finisca qui.

Qual è stata la lezione che lo scrittore argentino, di cui quest’anno ricor-

re il venticinquennale dalla scomparsa, ci ha lasciato?

La sua lezione agli uomini è stata fantastica. L’unico peccato è che

non abbia preso il Nobel che si meritava.

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Quali sono dunque le parole fondamentali, oggi, per Roberto Vecchioni?

La carità, l’armonia con se stessi e con gli altri e… la pazienza.

Pazienza intesa nel suo senso etimologico, da pathos, cioè questo sof-

frire la vita e accettarla come gli stoici, come un fatto necessario,

importantissimo, per non abbattersi mai. Il fine è questo… non abbat-

tersi mai di fronte alle situazioni e non dare la colpa agli altri. Questo

è un vecchio vezzo italiano, dar sempre la colpa a qualcuno quando la

colpa è anche tua.

Prima ha parlato della necessità di non abbattersi, c’è una parola che

ritorna nel suo percorso artistico ed è: speranza. Chiamami ancora amore

è stata definita dal giornalista Michele Serra sul quotidiano «la

Repubblica»: “Un manifesto della speranza”. Che valore ha per lei, oggi, la

speranza?

La speranza era una delle più belle dee dei latini. La spes era una delle

divinità che i latini amavano di più. Non è mai definitiva, è il contro-

canto a tutte le altre divinità. Tutto quello che succede nel commercio,

nella poesia, nel lavoro, in qualsiasi cosa, ha accanto la speranza, come

divinità che accompagna ogni cosa. È la nostra arma segreta. Dob-

biamo averla sempre, dobbiamo comunicarla ai figli, alle future gene-

razioni perché il momento in cui ti arrendi è il momento fatale, è quel-

lo della fine.

Dunque che requisiti deve avere, per lei, la spes?

La speranza deve essere la cosa che sempre e comunque ti dà il senso

di andare avanti.

E Chiamami ancora amore è una canzone di speranza?

Chiamami ancora amore è assolutamente una canzone di speranza,

d’altronde, devo dire, ha avuto anche dei risultati… perché qualcosa è

cambiato nell’immediato (sorride). Anche se non è questo il punto.

Probabilmente non è quello l’importante. Il mondo non sarà mai per-

fetto e questo lo sappiamo benissimo, gli uomini non saranno mai tutti

uguali, le cose non andranno mai bene per tutti, questo è normale pur-

troppo, però proprio per questo non bisogna mai perdere questa spes,

questa voglia di pensare che il mondo non congiura contro di noi, dob-

biamo essere noi ad andare incontro al mondo.

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Restando sempre nell’ambito poetico, lei, nel primo racconto del libro

Scacco a Dio dal titolo L’importanza di essere Wilde, cita un aforisma dello

scrittore irlandese: “Oggi essere comprensibili equivale a essere scoperti”.

Certo, Oscar Wilde sfuggiva sempre alla comprensione.

Lei, invece, quando si è sentito veramente compreso e scoperto?

Non credo sia importante essere compresi o scoperti. Se esco fuori,

oggi, mi saltano addosso tutti, eppure non sono cambiato negli ultimi

cinque mesi. Per un motivo o per l’altro, perché ho fatto un Sanremo

e l’ho vinto, tutti mi vogliono, tutti mi cercano, ma non è che cambi

la mia vita.

Le ha fatto piacere questo tipo di popolarità?

Lo volevo. Poteva capitare a Renato Zero, a De Gregori, poteva capi-

tare a chiunque, non è importante. Volevo che un cantautore, cioè una

persona che vede la società con un occhio un po’ più critico, un po’

diverso, meno fanciullesco e semplicistico avesse questa popolarità. Lo

volevo e sono contento di averla ottenuta.

La popolarità è quindi un modo per abbattere barriere e steccati tra il

cantautore e il pubblico?

Sì perché c’è sempre un po’ di incertezza, di dubbio, la gente non è

che capisca molto bene, al volo, quel che dicono i cantautori. Le loro

istanze, le loro canzoni sono a volte un po’ complicate, come il loro

modo di essere. Quindi bisogna trovare una via di mezzo e dire: io

adesso vi faccio ascoltare questa canzone però andate a sentire anche

altre cose che sono un po’ più complicate ma altrettanto importanti.

Rimanendo nell’ambito delle canzoni, in un altro dei racconti di

Scacco a Dio, dal titolo Voce ’e notte uno dei personaggi, a un certo

punto dice: “Gli uomini cantano quel che non riescono a dire con le paro-

le”. C’è qualcosa che finora Roberto Vecchioni non è riuscito a esprimere

con le parole ma soltanto con la musica?

Tanto. Dipende dalle parole, dal momento, con chi parli, con chi

sei, di che cosa parli. Non è facile sempre farsi capire con le parole e

nemmeno con tutti.

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Parlando sempre di grandi scrittori a lei cari, c’è una frase di Cesare

Pavese che dice: “Non si ricordano i giorni, si ricordano i momenti”. C’è

un momento della sua carriera che le è rimasto nel cuore?

Mamma mia… Ce ne sono due o tre. Il primo disco che ho fatto,

mi ha fatto quasi morire per l’emozione: per me era il massimo. È stato

tanto tempo fa, sto parlando del 1970-71, tantissimo tempo fa. Quello

è stato un momento molto emozionante, bellissimo, fantastico.

Il secondo momento?

Vincere il premio Tenco è stato un bel momento, con il riconosci-

mento alla carriera.

E Sanremo?

Sanremo non è stato meno emozionante, ma sapevo che era un’altra

cosa. Non sono andato al Festival per fare una figuretta, ci sono anda-

to per vincere. Per me significava portare avanti un discorso sulla can-

zone d’autore e anche prendermi una bella responsabilità sulle spalle

per tanti altri che non se l’erano presa. La canzone d’autore non è sem-

pre così difficile, complessa, complicata o snob come si è abituati a cre-

dere, può essere anche molto popolare.

Sanremo allora rientra tra i momenti da ricordare?

Sì, vincere Sanremo è stato un bel momento ma è venuto dopo.

Anche se avessi perso, sapevo benissimo che comunque l’operazione

era riuscita. L’avevo capito già da prima, dai giornalisti, da tutti, dai

commenti. Sapevo che dovevo farlo. Non arrivando a fare la vittima

sacrificale perché non è quello il senso anche perché non mi sono sacri-

ficato per niente.

Quali sono state dunque le cose più belle della sua carriera?

Le cose più belle nella mia carriera sono stati alcuni concerti che mi

ricordo. Il piacere immenso di vedere gente applaudire per cinque, sei

minuti. A Roma, non più tardi di cinque o sei anni fa, ho ricevuto

dieci minuti di applausi. Sapevo che non era una cosa da prima coper-

tina, da 500mila copie. Forse era anche un fatto un po’ elitario però di

grandissima qualità e valore e mi ha emozionato tantissimo.

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A proposito di amore, c’è una frase dello Zibaldone di Giacomo

Leopardi che mi sembra si sposi perfettamente con la sua poetica. Leopardi

scrive: “Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando”. Vorrei chie-

derle in che misura nelle sue canzoni e nei suoi libri l’amore e la vita si

intrecciano e si sovrappongono.

Partiamo da Leopardi. Si è sempre pensato che Leopardi non amas-

se niente e nessuno, invece non è vero assolutamente perché aveva un

amore per la vita straordinario. È tipico dei pessimisti avere un amore

meraviglioso per la vita.

E l’amore nella vita di Roberto Vecchioni come si colloca?

Nella mia vita l’amore è il tema fondamentale. L’amore è questo mira-

colo straordinario che fa unire in un certo punto temporale, spaziale, spi-

rituale e animale due cose, due persone, due oggetti, due situazioni ed è

una delle prove infinitesimali dell’esistenza di un disegno. Perché non è

possibile che esista una cosa così bella che sia soltanto un prodotto della

natura o del rapporto fisico con un’altra persona. L’amore tra gli uomini

è prima di tutto emozionale, intellettuale, di intelligenza, di sensibilità.

Si è mai chiesto perché fra tante donne un uomo ne voglia una soltanto

che magari agli occhi degli altri è meno bella di tante altre? La bellezza,

che pure è importante, non è la sola cosa che conta.

Che cos’è importante, secondo lei, nei rapporti d’amore tra le persone?

L’importante è la corrispondenza che è data dall’amore.

Ad esempio?

Io vedo molto più bella la mia compagna, ho molto più piacere ad

andare a dormire la sera con mia moglie perché sono in armonia con

lei, piuttosto che andare con una mai vista, strafiga, che però non mi

dà niente.

In una sua canzone, Piccolo amore, contenuta nell’album BEI TEMPI del

1985, lei canta: “Piccolo letto / dove puoi dormire / che è un altro modo

poi di far l’amore”, l’amore è dunque un sentimento molteplice e onni-

comprensivo?

L’amore è onnicomprensivo… poi soprattutto adesso che ho la mia

età. Magari a vent’anni ti va bene tutto però dopo si bada al piacere dello

stare con la persona che si ama. Questo piacere è sacro.

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Ad esempio?

L’esempio più semplice è che quando canti per amore, quando vuoi

dire una parola d’amore a una donna è più facile cantarla che dirla.

Cantandola le arriva subito, a dirgliela, invece, è un discorso normale,

quasi scontato.

Che valore ha, secondo lei, una canzone per una donna?

Una canzone per una donna è importantissima, è come un fiore, è

sincera, è vera. Il canto imprime più sincerità al discorso parlato.

In un brano del 1997, Quest’uomo, contenuto nell’album EL BANDO-

LERO STANCO, lei canta la fragilità di un padre di fronte ai figli. Le canzo-

ni possono essere viste come uno strumento per abbattere barriere e rivela-

re se stessi?

Penso che le canzoni abbiano sempre assolto questo compito, otte-

nendo anche i risultati cercati. Le barriere sono state abbattute. Molte

melodie sono arrivate nell’immaginario, nel senso di vivere la vita della

gente, sono state comprese, accettate, capite e sono state tradotte in

speranza, carità, amore.

Quale funzione deve avere per lei, oggi, una canzone?

La funzione della canzone è simile a quella del cinema d’essai, del

teatro, della bella arte. La canzone fa conoscere all’uomo la sua fragilità

ma insieme anche la sua grandezza.

Prima accennava al suo disco d’esordio, il 2011 segna i quarant’anni

dall’uscita del suo primo 33 giri, PARABOLA, al cui interno era contenuta

Luci a San Siro, composta, in realtà, due anni prima, nel 1969, lei aveva

26 anni. A distanza di oltre quarant’anni, cambierebbe qualcosa di quel-

la canzone?

Luci a San Siro è così, deve essere così, doveva essere così e l’attimo

dopo che ho finito di scriverla, ho detto: “Questa mi resterà per sem-

pre”, e non l’ho mai detto per nessun’altra mia canzone. Luci a San Siro

era fondamentale. Avevo capito… che c’era tutto dentro: non vender-

si mai, amare fino allo spasimo, essere traditi, piangere l’amore, trovar-

ne un altro. C’era tutto…

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Page 11: Roberto Vecchioni. Miti e parole di un lanciatore di coltelli

I coltelli, l’amore e le parole…Un inizio

“Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando”, scrive Gia-

como Leopardi, in una pagina dello Zibaldone, datata 1819. Le canzo-

ni di Roberto Vecchioni potrebbero racchiudersi in questo aforisma del

genio di Recanati, ossia un desiderio ostinato di vivere alimentato da

un motore inesauribile e incessante: l’amore. Se si vuol trovare un senso

a questa esistenza, l’unica strada è amare, senza smettere neanche per

un minuto: “E allora penserò che niente ha avuto un senso / a parte

questo averti amata, / amata in così poco tempo”1. Il cuore brucia di

passione come un incendio in una radura in piena notte, le scintille

inondano il cielo che si colora di luci come in un bombardamento

aereo, le stelle rimangono fisse in alto a guardare quanto sta accaden-

do, il sogno di un mondo migliore forse è ancora possibile. L’utopia di

un domani senza divisioni e conflitti affiora nelle parole che come let-

tere d’amore indirizzate al mondo affidano alla voce il canto di una

nuova nascita, di un’epifania luminosa. Tenaci e combattivi i versi di

Roberto Vecchioni sfidano i modelli fatui di una società falsamente

opulenta orientata più verso la ricerca di un risultato che di un signifi-

cato. Canzoni come coltelli tesi a trafiggere la rassegnazione, l’indiffe-

renza e le ombre della sera. Gli idoli, i potenti non sono altro che figu-

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In che senso l’amore è un sentimento sacro?

Il sentimento d’amore è religioso perché è giusto fare l’amore con la

persona a cui si vuol bene e che ti illumina l’esistenza e non con un’al-

tra che è la più strafiga del mondo ma che non ti illumina niente.

In conclusione, se dovesse scegliere il verso di una sua canzone che sente,

in questo momento, maggiormente la rappresenti, quale sceglierebbe?

Quello di Canzone per Alda Merini è bello. Prima lei mi ha ricorda-

to la Merini. Quel verso che dice: “Basta vivere come le cose che dici”.

Questo verso mi prende ancora oggi tantissimo. Mi è venuto dai

discorsi con Alda naturalmente: “Basta anche un niente per esser felici

/ basta vivere come le cose che dici”. Quello è veramente il senso del-

l’esistenza.

Le canzoni forse non cambiano il mondo o le persone ma hanno la

capacità di spalancare porte su noi stessi e sugli altri e in particolare

quelle di Roberto Vecchioni spesso riescono nel difficile compito di

abbattere barriere e aprire serrature interiori.

Saluto Roberto, lasciandolo ai suoi impegni, portandomi dentro la

felice sensazione di aver conversato con un artista e un uomo pacifica-

to con se stesso e con gli altri. Mai domo, lo scrittore di parole e sen-

timenti conserva immutata la voglia di lanciare coltelli, pensieri, idee,

esternazioni verso gli altri e verso se stesso, per continuare a vedere la

vita, la vita… davvero, perché come recita una delle strofe di Storia e

leggende del lanciatore: “E volavano su nel cielo / come ricordi, come

paure, / queste piccole cose di uomo / che sono ritorni, che sono

avventure / e anch’io ogni tanto prendevo una stella, / e illuminavo

uno sputo di cielo / e potevo finalmente vederla, la vita, / vederla,

vederla davvero!”.

Giugno 2011

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SPERANZA

La speranza è un sogno fatto da svegli.ARISTOTELE

rine di cartone di fronte al flusso impetuoso dell’esistenza che spazza

via ogni cosa, solo l’amore rimane, perché: “Il mondo sarà salvato dalla

bellezza”2. Anche quella di una canzone che se pure, come sostiene

Francesco Guccini: “È il fatto di un momento”, non esita a intrecciare

le sue note ai nostri respiri, le sue armonie ai pensieri.

Forse siamo davvero tutti lanciatori di coltelli, anime alla ricerca di

un bersaglio da colpire, di un sogno da afferrare, di una mano da strin-

gere. “I coltelli”, spiega Vecchioni, “sono i pensieri, le nostre forme di

espressione. Il lanciatore di coltelli non tira per raggiungere un risulta-

to preciso. L’artista non è uno scienziato, non è un politico, non deve

dire una verità. L’artista deve dare sensazioni, emozioni. Le emozioni

sono i disegni dei coltelli attorno a una sagoma”3. Alla ricerca delle

traiettorie indefinite e fuggevoli che l’artista disegna indirizziamo la

rotta del viaggio lungo itinerari di musica e parole.

Percorsi, stazioni di partenza, porti dove attraccare le ancore di un

infinito viaggiare, angoli di visuali, finestre affacciate sulle distese del-

l’ispirazione artistica, attraverso cui far vibrare le corde di un racconto

lungo oltre quarant’anni. È il 1971 quando un giovane cantautore

milanese di origini napoletane firma il suo primo album: PARABOLA.

All’interno un brano che non passerà inosservato: Luci a San Siro.

Passano quarant’anni, suoni, parole e indecifrabili nostalgie, e il pro-

fessore che sogna si presenta sul palco del teatro Ariston di Sanremo e

vince la 31esima edizione del Festival con Chiamami ancora amore,

aggiudicandosi anche il premio della Critica intitolato a Mia Martini.

“Questa è la storia di uno di noi […]”, direbbe Adriano Celentano,

anche lui nato (per caso o forse no…) nelle vie sterminate e suadenti

della musica, in quella terra senza confini né padroni dove le parole

diventano: “Soffi dell’anima dinanzi all’ignoto per definirlo e non aver-

ne più paura”4.

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fuori dal cuore delle donne e degli uomini il dolore sopito e rimosso

della guerra, ha esorcizzato le ombre con una frase scolpita nel legno

robusto della memoria: “Ha da passa’ ’a nuttata”, un grido liberatorio,

teso a scardinare la ruggine che imprigiona le parole, la nebbia delle

coscienze. Uno schiaffo contro la paura capace di tradursi in una paro-

la sola e audace: speranza. Da maneggiare con cura, con guanti di seta

per non sciuparla, per non lasciarla cadere nelle sabbie mobili della

banalità e della retorica.

Il professore che sogna conosce l’alchimia delle lettere che unite

insieme sono in grado di evocare mondi e memorie e così quando scri-

ve Chiamami ancora amore firma quella che il giornalista Michele Serra

ha definito sulle pagine del quotidiano «la Repubblica»: “Un manife-

sto della speranza”, una canzone contro i signori del dolore, ma soprat-

tutto una melodia per… per i ragazzi che scendono nelle piazze per

difendere un libro vero, per l’operaio che perde il suo lavoro, per le idee

che sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo. Lanciati

con fantasiosa precisione verso il bersaglio, i coltelli affilano la traietto-

ria fino a raggiungere il centro: “Che questa maledetta notte / dovrà

pur finire”, rimando implicito all’antico monito di Eduardo. Dopo

quella raccontata da De Filippo, nel 1945, un’altra notte oscura la

società con i suoi tentacoli violenti e subdoli. Raccontare il dolore non

è rassegnarsi alla sua ombra ma combatterlo, stanarlo con lo sguardo

dei poeti. “Quello che ho messo nella canzone”, spiega Vecchioni, “è di

tutti non soltanto mio. È di tutti anche quella immensa frase di

Eduardo De Filippo che è il centro di Chiamami ancora amore ossia

‘Ha da passa’ ’a nuttata’ ovvero questa maledetta notte dovrà ben fini-

re. Non sono un profeta ma un romantico e un idealista. Finché ci

saranno quelli che hanno i nervi, il sangue e la poesia per dire queste

cose, questa nottata finirà”6. Un rimedio da contrapporre al silenzio

cupo della sera è la forza travolgente della scrittura: “E scrivere d’amo-

re / scrivere d’amore / anche se si fa ridere / anche quando la guardi /

anche mentre la perdi / quello che conta è scrivere”7, canta Vecchioni

nel brano Le lettere d’amore. La scrittura è speranza, il canto dilegua la

tristezza provocata dal tramonto del sole proiettando lungo le superfi-

ci dell’anima squarci di infinito, ricordi assoluti e indelebili di prima-

vere mai sfiorite, la cui fragranza ritorna a farsi sentire nelle narici. I

coltelli lanciati verso il bersaglio evocano trascendenze sognanti, in

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Chiamami ancora amore

(R. Vecchioni – C. Guidetti – R. Vecchioni)

2011

Perché le idee sono voci di madre

che credevamo di avere perso

e sono come il sorriso di Dio

in questo sputo d’universo.

L’ingenuità di un uomo considerato straniero nella propria casa, l’one-

stà che non vuol lasciare il campo ai miti del consumo e del facile

benessere. “La guerra non è finita!”, Gennaro lo ripete a ogni persona

che incontra: amici, conoscenti, ma soprattutto familiari. È fuggito da

un campo di concentramento, è tornato nella sua abitazione, ma non

se ne sente più parte. Il figlio fa il ladro, la moglie la borsa nera, la figlia

aspetta un bambino da un soldato americano ritornato in patria.

“Quando dissi l’ultima battuta: ‘Ha da passa’ ’a nuttata’ e scese il

pesante velario, ci fu silenzio ancora per otto, dieci secondi poi scop-

piò un applauso furioso e anche un pianto irrefrenabile. Io avevo detto

il dolore di tutti”5. Eduardo De Filippo, lo sciamano capace di tirare

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Page 14: Roberto Vecchioni. Miti e parole di un lanciatore di coltelli

Copri l’amore, ragazzo,

ma non nasconderlo sotto il mantello:

a volte passa qualcuno,

a volte c’è qualcuno che deve vederlo.

Aveva un nonno poeta e una moglie a cui scrisse lettere d’amore da

un luogo ostile: il carcere. Rinchiusero la sua ispirazione ma la farfalla

può volare, come ci mostra Van Gogh, anche nel grigio cortile di una

prigione. Lui chiese asilo alla scrittura, inventando un mondo oltre le

sbarre dove la giustizia fosse ancora possibile. Nel 1948, due anni

prima di essere scarcerato, Nazim Hikmet scrisse un canto d’amore alla

vita: “Prendila sul serio / ma sul serio a tal punto / che a settant’anni,

ad esempio, pianterai degli ulivi non perché restino ai tuoi figli / ma

perché non crederai alla morte / pur temendola / e la vita peserà di più

sulla bilancia”12. La vita è un dono. Il professore lo sa, la speranza e la

vita sono una cosa sola. Il sogno è la strada da percorrere per ritrovare

l’entusiasmo perduto, una realtà parallela da attraversare con l’animo

ingenuo e stupito dei bambini. La lirica del poeta prigioniero fa brec-

cia nell’ispirazione dell’artista che a essa attinge per scrivere Sogna,

ragazzo, sogna. Nel testo dell’autore turco è forte il richiamo alla vita,

alla forza e alla fragilità del suo incanto, l’invocazione a vivere ogni

giorno fino all’ultimo istante con tenacia e combattività. In Vecchioni,

pur conservando la risolutezza di Hikmet, il verso diventa più dolce,

poiché protagonista del brano è l’amore, il sentimento universale che

permette di sognare e di “spostare i fiumi con il pensiero”. In partico-

lare, in un verso, è possibile cogliere buona parte del percorso poetico

del professore: “Copri l’amore ragazzo / ma non nasconderlo sotto il

mantello / a volte passa qualcuno / a volte c’è qualcuno che deve veder-

lo”. Nel riferimento alla vita, quale forza inarrestabile, cogliamo uno

dei punti salienti del percorso letterario di Vecchioni che nelle sue can-

zoni non manca mai di inserire delle vere e proprie dichiarazioni d’a-

more all’esistenza, vista nelle sue accezioni più ampie, dall’amore per la

propria donna a quello per i valori civili di una comunità, da quello per

le parole e le idee a quello per il sogno. Un sentimento conflittuale, a

volte burrascoso in grado però di portare dentro una tensione etica e

morale accompagnata da una costante positività di toni e contenuti.

SOGNA RAGAZZO SOGNA è il titolo del cd che l’artista pubblica, nel

1999. Sulla copertina un ragazzo sta in equilibrio su una sfera. In bili-

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grado di disegnare lungo le rive della coscienza frammenti di speranza.

Forse per questo la canzone, nel corso degli ultimi cinquant’anni, si è

imposta sul silenzio della poesia senza musica. “A differenza della poe-

sia”, scrive Donatella Bisutti, “che nella seconda metà del Novecento

sembra esprimere soprattutto una visione negativa e senza speranza

della vita, la canzone ha conservato per lo più una componente utopi-

stica, ha interpretato una spinta combattiva verso il cambiamento, una

speranza anche ingenua in un mondo migliore dove l’ingiustizia venga

finalmente abolita e la felicità sia possibile”8. La canzone è speranza,

desiderio di un mondo possibile dove vivere in pace. “Non esaltate il

talento / che è sempre più spento / non li avviate al bel canto, al tea-

tro, alla danza / ma se proprio volete / raccontategli il sogno di un’an-

tica speranza”9, canta Giorgio Gaber in Non insegnate ai bambini.

“Ero a Roma quando ho scritto Chiamami ancora amore. Non riu-

scivo ad addormentarmi e chissà perché mi sono venuti in testa alcuni

flash di sogni. Prima di tutto, mi sono ricordato di quando, da bambi-

no, giravo per i prati della Valle d’Aosta, dove trascorrevo le vacanze.

Mi pareva tutto bellissimo e tra me e me dicevo: ‘Com’è bella l’Italia’.

Poi altri flash di quando andavo all’università e parlavo con i miei

amici della voglia di cambiare e discutevo con loro del futuro che vede-

vamo roseo. Da quel momento ho imparato poco alla volta il valore

della cultura. La cultura salva da tutto. Imparavo e leggevo e non mi

bastava mai”10. Scrivere aiuta a capire, a sapere che non sei solo. L’uomo

alla ricerca del sapere, come l’Ulisse dantesco, è un individuo in cam-

mino, mai stanco, mai piegato dalle onde e dalla burrasca, è come un

naufrago incapace di ritrovare la strada di casa. Itaca è vicina, il fuoco

è acceso, il rumore dei ceppi penetra nelle ossa con la dolcezza di un

canto di sirena, il sentiero è lungo e non ha fine perché: “Fatti non

foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza”11. Quella

conoscenza che, come il tepore di un mattino primaverile, ti fa sentire

libero di vivere, di amare e provare la dolcezza che suona dentro.

Sogna, ragazzo, sogna

(R. Vecchioni)

1999

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Page 15: Roberto Vecchioni. Miti e parole di un lanciatore di coltelli

un inedito: Stagioni nel sole, una cover di Le moribond di Jacques Brel,

riadattata in italiano. È la storia di un uomo che sta per morire tra-

sformata da Vecchioni in un inno alla vita e alla speranza: “Ma tu vivi-

le sempre / e vivile per me / le stagioni nel sole continuano con te”.

Qualche problema con la famiglia Brel affiora perché Roberto, nella

riscrittura, è solito reinventare e, questa volta, il cerchio si stringe e lui

non è così libero.

Amico, padre, compagna, figlio, quattro punti cardinali, isole a cui

aggrapparsi prima di partire a bordo di un treno pagato da Dio, inter-

locutori dell’anima a cui il narratore si rivolge ricordando la vita tra-

scorsa. La primavera, le stelle nel mare, le stagioni da vivere al sole con

il sogno di un futuro luminoso, la dolce utopia capace di insinuare il

dubbio che nulla è scontato, ma che ogni cosa può essere messa in

discussione e ricostruita daccapo. “Charlot abita in quella parte della

vita costituita da quella lunghissima stagione che è l’infanzia, l’adole-

scenza, periodo che attraverso il filtro della memoria portiamo sempre

con noi”15. Come il Vagabondo dei Tempi moderni americani, l’artista

mette dentro le storie pezzi del suo passato. “La vita è come una scato-

la di cioccolatini”, ripete ossessivamente Forrest Gump. All’autore non

interessa la scatola ma i cioccolatini che la riempiono.

Stagioni nel sole chiude la prima parte dello spettacolo: Luci a San

Siro di questa sera. Quando il poeta dei vecchi amanti la scrisse non fece

presa e tredici anni dopo a interpretarla fu il cantautore canadese Terry

Jacks con il titolo di Seasons In The Sun. “Già a dieci anni”, racconta

Vecchioni, “sentivo musica americana degli anni Quaranta e le prime

chansons francesi, Piaf, Montand perché accoppiavano bellissimi con-

cetti di parole alla musica. Jacques Brel è stato il massimo dal punto di

vista formale, aveva una capacità di renderti visiva un’immagine, Brel

è un pittore del corpo che fa sentire la fisicità delle cose”16. Una fisicità

che vive nelle parole cantate dell’artista capace di scandire il verso dan-

dogli fiato con la voce. Brel e Vecchioni, maestri consolidati del palco-

scenico, affidano all’interpretazione un ruolo fondamentale per tra-

smettere la propria arte. Ci risiamo con l’eterno dualismo canzone e

poesia, la prima non può prescindere dall’esecuzione e a essa si lega in

maniera indissolubile, la seconda è una voce muta in grado di risuona-

re nel silenzio delle stanze interiori.

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co tra realtà e astrazione, in una terra di mezzo, in grado di coniugare

il quotidiano e la visione. Vale sempre la pena di credere e lottare anche

se si perde perché conta più il sentiero che la meta raggiunta. “La vita

è così forte / che attraversa i muri per farsi vedere”13. Facendo suo il

messaggio catartico del poeta prigioniero, Vecchioni rivolgendosi a un

ipotetico giovane uomo, canta gli stati d’animo per cui vale la pena

vivere: l’amore, la poesia, gli ideali. L’esistenza è come una grande sca-

tola di mogano, ciò che conta non è l’involucro ma quello che c’è den-

tro. “La capacità di accoppiare sogno e realtà è molto difficile”, spiega

l’autore, “e credo si acquisisca con l’età. Per i ragazzi il sogno è un rime-

dio perché li aiuta a superare alcune fasi difficili della loro crescita e

alcune realtà nelle quali non sempre si trovano. Per un adulto invece

credo che il sogno debba essere il compendio della realtà; bisogna avere

un grande rispetto per la realtà e avere il coraggio di affrontarla. Spesso

questo coraggio si trova dentro ai propri sogni”14.

Stagioni nel sole

(J. Brel – R. Vecchioni)

2005

Addio mio piccolo futuro

piccolo raggio in questa notte scura

dal giorno che ti ho preso in braccio:

non devi avere mai paura

io sarò sempre nel tuo viaggio.

La Francia era la sua patria spirituale, ma in realtà era nato in Belgio.

Il poeta dei “vecchi amanti” che, insieme al fratello maggiore Georges

Brassens, aveva scaldato il cuore di Fabrizio De André, con il suo canto

d’amore per la vita, attraversa l’ispirazione del professore che nel 2005

ritorna alle origini. Stanco di batterie e distorsioni si affida al silenzio

armonioso di due strumenti: contrabbasso e pianoforte, in compagnia

dei quali riaccende le luci di San Siro. Luci a San Siro di questa sera è il

titolo dello spettacolo acustico che Roberto porta in giro per i teatri ita-

liani insieme a Patrizio Fariselli e Paolino Dalla Porta. Nasce: IL CON-

TASTORIE un cd live con la rivisitazione in chiave jazz di molti classici e

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Page 16: Roberto Vecchioni. Miti e parole di un lanciatore di coltelli

fini né padroni dove vivere in pace fa capolino nelle sue parole perché

come dice Paul Valéry: “Il modo migliore per realizzare i propri sogni è

svegliarsi”19. “Shalom”, dice Vecchioni, “parla di un ragazzo ebreo che,

per un attimo, vede la realtà con gli occhi di un altro popolo e anche se

lo ama, dice al padre: me ne devo andare. Ho pensato ai romanzi degli

scrittori israeliani, in particolare a Yehoshua, ai suoi personaggi che vivo-

no un conflitto interiore profondo e non riescono a scegliere. Ho cerca-

to di far capire il disagio di un popolo veramente sottomesso da un altro,

senza offendere gli ebrei”20. Il coltello viaggia nell’aria cercando di coglie-

re l’essenza di un dramma che da secoli affligge popoli e nazioni. Siamo

nel 2002, l’album è IL LANCIATORE DI COLTELLI, insieme a IL CIELO CAPO-

VOLTO, uno dei più intensi e ispirati dell’artista.

Speranza

(R. Vecchioni – R. Pareti)

1971

Ma guarda che la vita non è la vita non è

la prima porta aperta in fretta

senza bussare: è il balcone più grande

che guarda sul mare.

Come un aquilone che non interrompe il volo, guidato dalle mani

entusiaste di un bambino, la parola speranza, naviga con continuità

nelle canzoni. “Ma mi basta darti speranza, / ma mi basta darti speran-

za”21, canta Roberto. Se come sostiene Aristotele: “La speranza è un

sogno fatto da svegli”, la vita non può essere vissuta a pieno senza amar-

la. “’A vita sceglie ’a chi ’a vo’ bene”, recita un antico proverbio napole-

tano. Questo amore è un elemento chiave per comprendere e sentire il

mondo artistico di Vecchioni: “È vero che sono un entusiasta, che amo

la vita, che sono spesso felice, ma è anche vero che, proprio perché la

amo tanto, quando mi capita qualcosa di doloroso, mi pare che la vita

mi abbia pugnalato alla schiena, mi abbia tradito e ne soffro moltissi-

mo. Momenti di euforia, di vera esaltazione e altri di abbattimento, di

disperazione si alternano dentro di me con estrema facilità”22.

Prodotto da Renato Pareti, PARABOLA segna l’esordio a 33 giri del-

l’artista. Prima di debuttare come solista, Vecchioni fa una lunga gavet-

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Shalom

(R. Vecchioni)

2002

Come mi pesa questo canto,

padre, tu non sai quanto!

Ma non lo senti che è più forte

la vita della morte?

È un professore che cerca la pace nella guerra, un ossimoro, una

scommessa e una sfida che vale la pena di affrontare. Insegna letteratu-

ra comparata all’università, fino a quarant’anni ha scritto soltanto rac-

conti poi è venuto il tempo del romanzo, di una narrazione più lunga

e articolata. Due temi lo appassionano più degli altri, il rapporto tra

popoli diversi e i legami familiari: il padre e il figlio, la moglie e il mari-

to, il nonno e il nipote, mondi che si incontrano, pianeti distanti acco-

munati dalla stessa orbita. Il nome del professore è Abraham Yehoshua

e vive ad Haifa. Il coltello è affilato e il lancio serrato, la circonferenza

disegnata intorno al bersaglio è quanto mai marcata, i lineamenti sono

polvere di stella. Il cantautore racconta una storia: un padre e un figlio

ne sono gli indiscussi protagonisti. Entrambi sono israeliani, sentono e

vivono il respiro incendiario della guerra fin sotto la pelle. Stanco delle

divisioni e delle lacerazioni, il ragazzo decide di partire, di andare alla

ricerca di un mondo senza odio e divisioni. Il suo canto si alza come

un’onda che vuole spazzare via il rancore: “Shalom, padre, shalom, io

vado via”17. La vita conta più della morte. Il dialogo è in realtà un

monologo del figlio che canta le proprie ragioni a un genitore rimasto

ancorato a un passato di ostilità. Non si può vincere senza gli altri, sol-

tanto insieme possiamo sconfiggere le ombre, riscoprendo il senso di

una comunità. “Ci manca, anche se avessimo / soltanto noi ragione, /

l’umiltà di non vincere / che fa uguali le persone”18.

Gli eroi del professore non sono né i santi né i potenti, ma quelli che,

come direbbe Fabrizio De André, viaggiano in direzione ostinata e con-

traria. I ragazzi che trovano la forza di opporsi al mondo asfittico dei

padri, quelli che lottano per un ideale a costo di rimanere senza niente.

Il giovane israeliano grida il suo addio a un mondo di oscurità, urlando

che la vita vale più della morte. La dolce utopia di una terra senza con-

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Page 17: Roberto Vecchioni. Miti e parole di un lanciatore di coltelli

LESSICO FAMILIARE

La famiglia è la patria del cuore.GIUSEPPE MAZZINI

ta, come autore, per altri. È ricca la lista delle collaborazioni con gran-

di nomi della musica italiana. Insieme all’amico Andrea Lo Vecchio

frequenta il mondo musicale. Nel 1968, come ricorda Sergio

Secondiano Sacchi in Voci a San Siro, si laurea con una tesi in letteratu-

ra latina sul libro terzo del Corpus Tibullianum, sulle elegie di Ligdamo

e Neera, con la votazione di 108 su 110. È l’anno in cui Roberto e

Andrea vengono scelti da una nota casa discografica per scrivere una

canzone che Gigliola Cinquetti porterà a Sanremo. Messo da parte Il

bene di luglio che sarà interpretato da Bruno Lauzi, la scelta cade su

Sera. Il Sessantotto è anche l’anno del servizio di leva in cui Roberto

incontra un nuovo amico e collaboratore: Renato Pareti. Tra i cantan-

ti con cui lavora, in questi anni, ci sono due personaggi molto diversi

tra loro: Iva Zanicchi e Umberto Bindi. Il 1969 è l’anno di Luci a San

Siro che dopo essere stata interpretata dal cantante Rossano, sarà inci-

sa dal suo autore, solo due anni dopo, nell’album d’esordio. Nei primi

anni Settanta c’è l’incontro con Gianni Morandi che diventerà suo

grande amico, per lui Roberto scrive: Raffaella una santa non è e

Rosabella. Per Fausto Leali, Tu non meritavi una canzone. Il grande suc-

cesso come autore arriva con Donna Felicità per i Nuovi Angeli, una

melodia molto orecchiabile che strizzando l’occhio alla Signorina

Felicita della lirica di Guido Gozzano, si piazza ai primi posti delle clas-

sifiche di vendita. I consensi ottenuti come paroliere lo portano sulla

strada del disco d’esordio. È il 1971, l’album che contiene, nelle note

di copertina, una presentazione scritta dal padre Aldo, vanta al proprio

interno, tra gli altri, brani come: Luci a San Siro, Parabola ripresa, in

chiave jazz, nel 2005, nel cd IL CONTASTORIE, Io non devo andare in via

Ferrante Aporti, Povero ragazzo, cantata poi da Dori Ghezzi.

“Una sola cosa ti ammiro”, scrive Aldo Vecchioni nelle note di coper-

tina del disco, “combatti una battaglia perduta; i tuoi valori sono stati

dimenticati da troppo tempo. Tu credi e oggi non bisogna credere, biso-

gna prendere, tu ami e oggi bisogna essere ‘amanti’; tu hai Dio e un desi-

derio infinito di ordine: oggi vince chi l’ordine lo sovverte. Ecco, forse

solo questo ti ammiro, sei controcorrente con la tua generazione e la tua

battaglia è perduta. Secondo me ti ha fatto male la laurea in lettere anti-

che: anche gli avvocati e i ragionieri pensano al loro mestiere e raramen-

te si sognano di essere al centro dell’universo. Comunque, tra i tanti a me

non è capitato il più stupido”.

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