Roberto Greci Le corporazioni. Associazioni di mestiere ... · Il crollo dell'impero romano con le...

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1 Roberto Greci Le corporazioni. Associazioni di mestiere nell’Italia del Medioevo [Edito a stampa in «Storia e Dossier», 99 (1995), pp. 71-97. © Roberto Greci. Distribuito in formato digitale da Itinerari Medievali] 1. Dall’Età antica al Medioevo Il crollo dell'impero romano con le alterne vicende di potere che ne seguirono, con l'insicurezza derivante dalle travagliate vicende belliche, de- mografiche ed economiche, coincise con la fine di una plurisecolare esperienza che aveva individuato nella città un ganglio vitale della vita economica. L'Occidente, si è soliti dire, si ruralizzò progressivamente. In gran parte d'Europa l'immagine della città, e cioè il suo ruolo e le sue prerogative, venne offuscandosi. Di contro, crebbero di importanza le campagne.E questo non solo per il fatto che il settore principale dell'economia ormai divenuto quello agrario (fenomeno che già si era manifestato nell'età precedente e, nel corso del Medioevo, in quasi tutte le regioni d'Europa) ma anche perché è nelle campagne che si radicarono le sedi del potere con le loro istanze di coordinamento, anche economico. Il monastero, il grande ente ecclesiastico che intratteneva legami con i vertici politici della società altomedievale e che aveva cospicui interessi materiali su un quadro territoriale vastissimo, resta l'emblema della nuova organizzazione dell'economia. La curtis ebbe in effetti la capacità di attirare a sé ogni aspetto della produzione, agricola e non. In essa vi erano capitali che consentivano l'acquisizione delle materie prime e l'impiego di uomini che potevano dedicarsi alla lavorazione, al trasporto, allo smercio entro e fuori i confini di questa complessa realtà amministrativa, usufruendo spesso e volentieri di grossi privilegi di natura fiscale. Infatti, se nella stessa curtis poteva concentrarsi la dialettica della domanda e dell'offerta, è assolutamente certo ormai che in essa poté realizzarsi, come alcuni hanno notato, un regime di totale autosufficienza economica. Non si può dire che la città sparisse: in Italia soprattutto rimase una realtà ben tangibile, anche se di importanza assai ridotta. Nella città si insediò l'autorità vescovile e vi si conservarono, per così dire, i germi e la memoria di un'articolazione sociale complessa che derivava da tradizione ben consolidata. Intorno all'autorità vescovile, nell'evanescenza progressiva di salde forme di potere pubblico, la varia realtà sociale urbana lentamente si coordinò, tenuta insieme da necessità primarie quali, per esempio, l'organizzazione della difesa dalle ricorrenti invasioni. Vi era comunque un bisogno ancor più basilare e quotidiano che affondava le radici nelle connotazioni demografiche, prima ancora che

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Roberto Greci Le corporazioni. Associazioni di mestiere nell’Italia del Medioevo [Edito a stampa in «Storia e Dossier», 99 (1995), pp. 71-97. © Roberto Greci. Distribuito in formato digitale da Itinerari Medievali] 1. Dall’Età antica al Medioevo Il crollo dell'impero romano con le alterne vicende di potere che ne seguirono, con l'insicurezza derivante dalle travagliate vicende belliche, de-mografiche ed economiche, coincise con la fine di una plurisecolare esperienza che aveva individuato nella città un ganglio vitale della vita economica. L'Occidente, si è soliti dire, si ruralizzò progressivamente. In gran parte d'Europa l'immagine della città, e cioè il suo ruolo e le sue prerogative, venne offuscandosi. Di contro, crebbero di importanza le campagne.E questo non solo per il fatto che il settore principale dell'economia ormai divenuto quello agrario (fenomeno che già si era manifestato nell'età precedente e, nel corso del Medioevo, in quasi tutte le regioni d'Europa) ma anche perché è nelle campagne che si radicarono le sedi del potere con le loro istanze di coordinamento, anche economico. Il monastero, il grande ente ecclesiastico che intratteneva legami con i vertici politici della società altomedievale e che aveva cospicui interessi materiali su un quadro territoriale vastissimo, resta l'emblema della nuova organizzazione dell'economia.

La curtis ebbe in effetti la capacità di attirare a sé ogni aspetto della produzione, agricola e non. In essa vi erano capitali che consentivano l'acquisizione delle materie prime e l'impiego di uomini che potevano dedicarsi alla lavorazione, al trasporto, allo smercio entro e fuori i confini di questa complessa realtà amministrativa, usufruendo spesso e volentieri di grossi privilegi di natura fiscale. Infatti, se nella stessa curtis poteva concentrarsi la dialettica della domanda e dell'offerta, è assolutamente certo ormai che in essa poté realizzarsi, come alcuni hanno notato, un regime di totale autosufficienza economica. Non si può dire che la città sparisse: in Italia soprattutto rimase una realtà ben tangibile, anche se di importanza assai ridotta. Nella città si insediò l'autorità vescovile e vi si conservarono, per così dire, i germi e la memoria di un'articolazione sociale complessa che derivava da tradizione ben consolidata. Intorno all'autorità vescovile, nell'evanescenza progressiva di salde forme di potere pubblico, la varia realtà sociale urbana lentamente si coordinò, tenuta insieme da necessità primarie quali, per esempio, l'organizzazione della difesa dalle ricorrenti invasioni. Vi era comunque un bisogno ancor più basilare e quotidiano che affondava le radici nelle connotazioni demografiche, prima ancora che

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sociali, del centro urbano. Era questo, soprattutto, che contribuiva alla persistenza dell’equazione città=sede di mercato, ovvero città=luogo “naturalmente” deputato alle attività specializzate e complementari rispetto a quelle praticate nelle campagne circostanti.

Forse la continuità di strutture e di funzioni fu maggiore nella parte d’Italia rimasta in mani bizantine (Romania) che non nell’Italia padana longobarda (Langobardia); ma va comunque detto che, già prima di questa storica frattura, la decadenza delle città padane era stata fortissima e solo in parte compensata – pare – in età teodoriciana.

In ogni caso, all’inizio dell’VIII secolo, le città della Langobardia appaiono terminali di un’importante corrente commerciale “internazionale” che consentiva lo scambio del sale raccolto sulla costa adriatica con i prodotti agricoli dell’interno della Padania. In un ambiente ancora selvaggio, anzi inselvatichito per la mancata manutenzione di tante opere di impianto romano (canalizzazioni e strade), i fiumi costituirono il principale supporto dei commerci, tanto che si è potuto parlare – per l’alto Medioevo – di un processo di «fluvializzazione dei trasporti». Il Po, con la rete dei suoi numerosi affluenti, garantì linfa vitale alle città dell’Italia settentrionale e fu senza dubbio una delle principali cause della loro sicura e robusta ripresa.

Ma bastano poche notizie e qualche impresione per pensare che le città – tutte le città – rimanessero quelle che erano state nell’età antica o che comunque conservassero le tracce di una struttura economica allora appositamente creata per fronteggiare la crisi? Possiamo, di conseguenza, pensare che non solo nel tono del commercio, ma anche nell’organizzazione della produzione artigianale l’età antica facesse sentire in qualche modo i suoi influssi? Nello specifico (e per richiamare i termini di una in parte superata tenzone scientifica) possiamo o non possiamo ravvisare una continuità?

Per rispondere a queste domande dobbiamo innanzitutto sapere quale era l’organizzazione del lavoro in età tardo-antica e dobbiamo anche cercare di penetrare un periodo – l’alto Medioevo – che, nonostante tutto, rimane per molti versi ancora veramente buio: la documentazione, assai scarsa, non riflette certo quegli aspetti della quotidianità che andiamo inseguendo.

Quanto abbia influito l’idea di una continuità tra età antica ed età medievale lo si può arguire, al di là di ogni enfatizzazione, dal termine stesso che ancor oggi usiamo per indicare le forme di associazionismo di mestiere vigenti nel Medioevo. La parola “corporazione” non la si trova nelle fonti medievali (l’assemblea delle corporazioni bolognesi, però, si chiamava corporale). In esse ricorrono termini assai diversi da zona a zona: societas, fratalea, paraticum, ars, universitas, e altri ancora. Corpus e corporatio sono invece termini ricorrenti nelle fonti classiche. Va però detto che, da principio, essi indicavano solo i livelli superiori di una svariatissima realtà associativa (per esempio l’importante corpus naviculariorum di Ostia).

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È in una fase successiva che questi termini si diffusero in seguito all’assunzione nell’articolato vocabolario giuridico dell’età dei Severi. L’associazionismo professionale romano era definito più comunemente col termine collegium, che poneva in rilievo il legame intercorrente tra gli associati, un legame che si concretizzava nel comune rispetto di comuni norme. E allo stesso modo erano definite collegia anche quelle società che avevano la funzione, tutta privata, di garantire – in cambio di alcuni reciproci doveri – onorevoli sepolture per i loro membri.

Varietà terminologiche alludono a realtà differenziate o a realtà che mutano nel tempo. Non dimentichiamo che le fonti legislative, le più eloquenti in materia, sottolineano vigorosamente, per loro natura, i rapporti intercorrenti tra queste realtà e il potere politico, e registrano una progressione di interesse che parte dalle riforme diocleziane e costantiniane per culminare nelle codificazioni teodosiane (V secolo) e giustinianee (VI secolo). Ciò posto, è ben vero che i collegia del mondo romano subirono, in epoche diverse, alcuni innegabili cambiamenti. Numerosi sono gli indizi in tal senso.

Sia le associazioni di età regia (ci si riferisce qui all’istituzione, voluta da Numa Pompilio, di collegi di flautisti, orefici, falegnami, tintori, calzolai, cuoiai, vasai, bronzisti, che è forse il riflesso di un bisogno d’ordine tipico del II secolo), sia quelle esistenti al tempo delle Dodici Tavole (metà del V sec. a. C.) rivelano in realtà un’originaria dimensione privata. Sulla loro organizzazione e sul loro ruolo entro la società del tempo, però, sappiamo veramente poco.

Già in età repubblicana i collegia iniziarono a manifestare valenze politiche, tant’è che – a detta di Dione Cassio – vennero temporaneamente soppressi a seguito della vicenda catiliniana (64-58 a.C.).

Non si trattò, con tutta probabilità, di episodi contingenti, se di lì a poco Giulio Cesare – con la famosa lex Julia – inaugurò un sistema di controllo statale sui collegia.

La legge, che conosciamo solo indirettamente, prevedeva la loro soppressione a meno che non fossero ritenuti pubblicamente utili, e come tali dotati di apposite autorizzazioni senatorie. Si cominciava a instaurare così un sistema in cui i collegia, diventando elementi integranti dell’amministrazione statale, venivano ripagati con la concessione di una serie di privilegi particolari.

Ma fu nel II secolo d.C. che la storia delle associazioni di mestiere dovette registrare profondi mutamenti in sintonia con le pulsazioni della società. Mentre in precedenza le autorizzazioni senatorie venivano concesse con grande circospezione, a partire dalla decisione di un senatoconsulto forse d’età claudiana o neroniana, si permise anche ai poveri di organizzarsi in associazioni «unde defuncti sepeliantur». Si trattava della premessa all’estensione e alla generalizzazione di un diritto; ne approfittarono senz’altro, con scopi di mutuo soccorso, coloro che esercitavano il me-

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desimo mestiere. Non sappiamo se questa corsa a organizzarsi in corporazioni fosse spontanea o non sottendesse anche (o prevalentemente) sollecitazioni da parte dell’autostatale, sempre più interessata a delegare alle associazioni di mestiere funzioni pubbliche non più gestibili.

Questa seconda ipotesi sembra la più plausibile, se è vero che alcuni imperatori favorirono robustamente i collegia per garantire maggiore efficienza ai servizi (specie quelli di tipo annonario). Tutto questo, in realtà, non significava ancora assoggettamento totale delle associazioni allo Stato. I legami di dipendenza erano funzionali solo alle necessità di controllo sui servizi loro affidati. Per il resto i collegia continuavano ad avere una vita propria.

Prive di obiettivi economici (non esistevano norme per regolare per esempio la concorrenza tra i membri o per garantire una standardizzazione dei prodotti), queste associazioni potevano però avere straordinarie potenzialità sotto il profilo politico. Personaggi influenti si ponevano volentieri a capo dei collegia e, nel loro ruolo di patroni, garantivano la protezione degli associati presso l’autorità pubblica. Per gli artigiani era un modo efficace di difendersi rispetto a uno Stato sempre più burocratico e intrusivo, per i patroni un ottimo sistema per formarsi una fedele clientela. Tutto ciò non escludeva ovviamente che coesione sociale e comunità di interessi favorissero accordi anche di natura economica e che esigenze pratiche convincessero i figli a continuare le attività paterne.

Solo a partire dagli ultimi Severi fino a Costantino un grande ma poco documentato travaglio contribuì a rendere prioritarie e irreversibili queste ultime caratteristiche: i collegia professionali divennero corpi (corpora) chiusi, obbligatori ed ereditari.

La causa della trasformazione va senza dubbio ricercata nella grave crisi sociale ed economica dell’impero intorno alla fine del III secolo. Si presentò insomma la necessità, da parte dello Stato, di vincolare i collegia a quei servizi pubblici già in precedenza loro assegnati e le persone, con le loro discendenze, ai collegia medesimi, data la crescente impossibilità di un libero reclutamento. Si trattava di risoluzioni assai drastiche e – per così dire – di emergenza, anche sedi un’emergenza prolungata nel tempo, giacché tale sistema “vincolistico e coattivo” lo ritroviamo ancora nel Codice teodosiano. Era necessario, nell’asprezza della crisi generale, mantenere in vita le città con le loro popolazioni e gli eserciti impegnati nelle loro campagne, ormai sempre più frequenti . Il regime coattivo arrivò al punto di prevedere – almeno nel caso di mestieri che si ritenevano indispensabili, come nel caso dei fornai – l’arruolamento coatto di oziosi, carcerati, stranieri.

Ma si trattava pur sempre – come si è detto – di un regime di emergenza. E ciò lo si può arguire dal fatto che tale impalcatura coattiva venne alquanto abbandonata nel corso del V secolo, quando evidentemente la situazione consentì un ritorno alla libera professione privata. Allora gli stessi collegia

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destinati tradizionalmente ai munera pubblica (costituiti dai servizi annonari, da quelli antincendio e così via) continuarono a garantire le loro funzioni ma solo in circostanze eccezionali o periodicamente, e comunque in cambio di ben precisi privilegi e immunità.

A fianco di questi controlli e dipendenze, i collegiati si ritrovarono dunque più liberi di operare autonome scelte professionali ed economiche, anche se a illanguiditi controlli imperiali si sostituirono in verità concorren-ziali autorità cittadine tramite il patronato di curiali o di vescovi (fine VI secolo).

2. Le due Italie È questa, come si è detto, l’età veramente oscura per le associazioni di mestiere; quella che ha potuto favorire, tra gli storici, prese di posizione e teorie genetiche molto distanti tra loro (continuità o non continuità rispetto alla situazione tardo-antica). Sono poche le fonti che ci documentino concretamente e dettagliatamente la vita economica delle città e i tipi di organizzazione che modellavano tale economia. La frattura avvenuta tra Italia longobarda e Italia bizantina ci fa supporre che in quest’ultima l’eredità romana perdurasse meglio e più a lungo. Ma d’altra parte, lo si è visto, le due Italie non erano affatto impermeabili tra loro e gli scambi, soprattutto commerciali, non dovettero pressoché mai interrompersi. Risulta difficile, pertanto, pensare che l’Italia longobarda fosse il luogo della totale negazione della tradizione, quando questa fosse ancora utile e vitale. La cosa sicura è che ritroviamo tracce di associazioni professionali in entrambe le aree. Gregorio Magno (VI-VII secolo) ci parla dei tintori di Roma, dei saponai di Napoli, dei panettieri di Otranto. Si tratta forse di realtà analoghe a quelle presenti, col nome di scholae, a Ravenna, ove si conserva memoria di una schola negociatorum, di una schola macellatorum e di quella scola piscatorum Patoreno menzionata in un contratto del 943 a cui però, di recente, è stata negata la qualifica di associazione su base professionale. A Roma, nell’XI secolo, esisteva una schola ortulanorum a fianco di scholae di calzolai, di calderai, di pescatori.

In area longobarda mercatores e negociatores avevano raggiunto rapidamente, dal canto loro, una posizione sociale ragguardevole. All’interno di queste categorie si era addirittura realizzata una discreta articolazione che consentiva alla legislazione emanata da Astolfo (VIII secolo) di individuare al loro interno dei maiores, dei sequentes e dei mi-nores. Quanto agli artigiani, le fonti ci parlano dei magistri commacini, costruttori itineranti dai compensi calmierati per legge.

Ma soprattutto le Honorantiae civitatis Papiae, che nell’XI secolo ci descrivono la situazione vigente nel X, attestano diverse forme di associazionismo professionale in Langobardia.

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Ciò non è davvero sufficiente per concludere che anche nell’Italia longo-barda esistesse una organizzazione dei mestieri analoga a quella persistente nell’Italia bizantina, ma è significativo il fatto che anche in altre città del Regno, e non solo nella capitale Pavia, realtà similari lasciassero memoria di sé nella documentazione: così a Piacenza, per esempio, si ricorda in particolare una comunità di saponai che erano tenuti a versare un regolare tributo annuo alla camera regia (VIII secolo).

La notizia relativa a Piacenza è in perfetta sintonia con quanto sappiamo della realtà pavese. Infatti le Honorantiae parlano proprio dei rapporti tra gruppi professionali e fisco regio. I mercanti, per esempio, vengono ricordati per imposizioni o esenzioni di pedaggi lungo gli itinerari commerciali; e si tratta di itinerari di portata internazionale che uniscono l’Europa continentale alla penisola e dei quali, procedendo da ovest a est, la fonte enumera le dogane.

Qui i funzionari regi riscuotevano regolarmente decime dai mercanti forestieri che portavano nella penisola cavalli, schiavi, tessuti, metalli grezzi e lavorati.

Da tali prelievi erano però esenti, a se guito di precisi accordi bilaterali, i mercanti anglosassoni, ma anche i veneti, i salernitani, i gaetani e gli amalfitani (un’ulteriore testimonianza della serrata circolazione di merci e di esperienze tra le due Italie).

Quanto ai mercanti pavesi, dotati di ministri, l’esenzione da qualsivoglia tributo appare tradizionalmente garantita da particolari concessioni imperiali che a noi non sono in verità pervenute, ma che con tutta probabilità erano ben presenti ancora a re Federico I, quando volle concedere ai mercanti pavesi un importante privilegio: «Concediamo anche ai nostri fedeli pavesi che i loro mercanti se ne possano andare liberamente e sicuramente per acqua e per terra lungo tutta l’Italia senza aggravio alcuno secondo il buon vecchio e giusto uso» (1164). Oltre ai mercanti coi loro ministri, le Honorantiae ricordano monetieri e cercatori d’oro, ministeria ben regolamentati e tenuti a precisi obblighi nei confronti della camera regia, in quanto – con tutta evidenza – titolari di prerogative pubbliche (l’esercizio della zecca e lo sfruttamento dei fiumi). E oltre a queste particolarissime attività sono esplicitamente menzionate anche professioni equiparabili a quelle che in seguito vedremo organizzate in corporazioni artigianali.

Abbiamo infatti i pescatori, riuniti in unità sottoposte ciascuna a un proprio magister (il quale era tenuto a prelevare dal suo gruppo il tributo utile al rifornimento della mensa del re quando questi fosse presente in città); abbiamo i cuoiai, la cui attività era limitata a un numero chiuso di esercenti (dodici, affiancati da dodici juniores) tenuti a rifornire annualmente la camera di dodici pelli; abbiamo i barcaioli (nautae) che dovevano nominare due boni homines magistri al fine di garantire, quando necessario, la disponibilità di apposite barche per il trasporto dei sovrani. Infine abbiamo i ministeriales saponarii, che erano tenuti a rifornire la

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camera di cento libbre di sapone annue in cambio del regime di monopolio garantito alla loro attività. Questa, infatti, è la prerogativa che emerge dall’organizzazione dei mestieri documentata a Pavia nell’alto Medioevo: vale a dire la sua funzionalità a una concezione monopolistica di determinate attività.

Insomma, se si volesse elevare il caso pavese a emblema di una situazione generale, bisognerebbe ipotizzare, per l’alto Medioevo, elementi di continuità e di omogeneità più duraturi di quanto non si pensi. E allora, per le questioni che qui interessano, verrebbe rafforzata l’idea della persistenza di importanza e di funzioni delle città o quanto meno di alcune città. La vera cesura sarebbe invece avvenuta dopo il Mille e andrebbe collegata all’indebolimento – allora sì definitivo – di un potere pubblico superiore (regio) e dei suoi apparati. Solo in questo clima e date per scontate interrelazioni (di volta in volta bisognose di verifiche e chiarimenti) con particolari situazioni pregresse, sorge il fenomeno dell’associazionismo di mestiere così come si presenterà poi in piena età comunale e che noi chiamiamo "corporazione". A differenza di qualsiasi altro precedente noto (collegia d’età imperiale, scholae di area bizantina, ministeria longobardi) la corporazione si presenta, in sostanza, come una libera associazione dotata di capi propri, di propri beni, di proprie leggi (statuti); alle sue radici vi sono condizioni assolutamente inedite: robuste spinte demografiche, consistente inurbamento, accelerato sviluppo dell’economia, forte dinamismo sociale, connessioni con coraggiose sperimentazioni politiche.

Per un simile associazionismo di mestiere è difficile sostenere le ragioni della semplice continuità. Alcuni elementi della quale, invece, sembra che vadano ravvisati nell’organizzazione di quei mestieri che non furono in grado di organizzarsi in corporazione, per esempio gli addetti al vettovagliamento e ai trasporti. Per loro la dipendenza dall’autorità pubblica rappresentò infatti una caratteristica costante che sarà poi ereditata dall’età comunale.

3. Tra economia e politica La comparsa e la diffusione di associazioni di mestiere nelle città italiane sono fenomeni tipici del XII secolo.

E vero, come ha sostenuto Cinzio Violante, che il «complesso di organismi corporativi autonomi, coesistenti e paralleli al potere di governo comunale, non si potrebbe intendere fuori dalle istituzioni di tipo feudale»; infatti «l'organamento gerarchico e il frazionamento della società (e del potere pubblico) in tante articolazioni e giunture consentivano alle forze sociali più vive di aggrupparsi e di concentrarsi in quei nuclei organici che furono le corporazioni delle arti». E forse proprio per questo, nel momento del loro apparire, le arti erano guidate da esponenti tratti dalla piccola

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nobiltà che in realtà non esercitavano il mestiere e che per questo loro impegno venivano regolarmente ricompensati dagli artigiani. Così pure l'autorità vescovile poté esercitare un'autorità su parte dell'associazionismo di mestiere, su quello almeno non incardinato tradizionalmente nel sistema di compiti di carattere pubblico che il Comune si trovò a ereditare.

Se tutto questo è vero, è vero anche che il sicuro espandersi del fenomeno, la sua dilagante tendenza a ricoprire tutta la varia gamma di attività urbane, l'esplosione di un vero e proprio florilegio statutario e – quindi – l'affrancamento sicuro da qualsiasi precedente vincolo di tipo pubblico o signorile andò di pari passo con l'instaurazione di nuovi raccordi politici, con l'affermazione del "popolo" all'interno del Comune, di quella forza politica, cioè, che contrastò il ceto aristocratico fino a quel momento politicamente predominante e che aveva una preistoria fondata già su esperienze associative a base topografica e dai connotati anche militari. Il conflitto dei Comuni con l'Impero dell'età di Federico I Barbarossa fu in effetti un momento saliente di questa storia, un momento di forte accelerazione; così come le oscillazioni del potere imperiale dopo la morte di Enrico VI e la riaccensione dei conflitti nell'età di Federico II rappresentarono fasi di consolidamento degli orientamenti sociale e politici.

Pur nella grande varietà di situazioni locali, fu proprio il progressivo definirsi del ruolo giocato dalle associazioni di mestiere nel contesto delle lotte politiche cittadine (e poi nella mappa delle istituzioni comunali) che diede un eccezionale spessore documentario a questo tipo di solidarietà.

Più evidente addirittura delle stesse primarie finalità associative (quelle economico-lavorative), il raccordo con la sfera politica è potuto quindi diventare il parametro fondamentale per una definizione tipologica del corporativismo. Non molto diversamente dal Valsecchi, i cui lavori risalgono a più di cinquant'anni fa, Victor Rutenburg, il medievista sovietico cui l'Einaudi assegnò negli anni Settanta il saggio sulle corporazioni entro la Storia d'Italia diretta da Romano e da Vivanti, ha constatato – a partire soprattutto dalle fonti normative – che il movimento associativo italiano comprendeva una svariata gamma di situazioni; in certi casi la corporazione rimaneva confinata nella pura difesa – in realtà debole – degli interessi di categoria, pur facilitando comunque una serie di di prima istanza e con una giurisdizione delegata non solo per questioni strettamente inerenti all'arte, ma anche allargata a molteplici settori pubblici» (A.I. Pini).

Così, a Bologna come a Firenze, diventa pienamente evidente il rapporto arti-"popolo", arti-istituzioni cittadine e le corporazioni si pongono come organismi deputati a esprimere anziani e priori, vale a dire loro diretti rappresentanti preposti ad affiancare (e perfino a surrogare) le massime magistrature comunali.

Tutto questo, sul piano dell'associazionismo di mestiere, determinò – tra le altre cose – una gerarchizzazione tra arti. Pensiamo infatti all'ufficializzazione che a Firenze venne fatta tra arti maggiori (le più ricche,

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le più potenti, le più utili alla collettività), arti medie e arti minori. Ma pensiamo anche al più semplificato ambiente padano in cui venne comunque sancita una dipendenza netta tra mercanti da un lato e paratici artigiani dall'altro; così accadde a Cremona, a Parma, a Pavia, a Piacenza.

E a Como, di fronte a uno stretto legame venutosi a instaurare tra mercanti e lanieri, prese esplicitamente corpo una societas paraticorum che raggruppava al suo interno la totalità delle associazioni artigianali.

Oltre alla strutturazione di rapporti di dipendenza tra arti, la dimensione politica delle corporazioni favorì una gerarchizzazione dei rapporti anche all'interno delle singole specialità. Per esempio l'esclusione dai diritti associativi dei lavoratori dipendenti, apprendisti e donne pure presenti in quasi tutti i settori produttivi. In tal modo lo spirito solidaristico che stava all'origine di tali esperienze associative si andò progressivamente e inesorabilmente annacquando.

La gerarchizzazione a tutti i livelli della struttura corporativa certo costituiva (laddove era funzionante il nesso arti-politica) una semplificazione oggettiva della dinamica del potere all'interno della città (una dinamica che spesso appare convulsa). In alcuni casi costituì addirittura (garantendo il controllo dell'economia e della società cittadina) la premessa per un'affermazione dei poteri signorili: così a Verona, nel 1262, Mastino della Scala realizzò il suo predominio sulla domus mercatorum locale.

Quando, a fine Duecento, vennero emanate in alcune città italiane (a Bologna e a Firenze, per esempio) severe disposizioni antimagnatizie, questo processo di gerarchizzazione si era già precisato; è anche per questo che non possiamo attribuire alla legislazione contro nobili, milites e potenti il banale significato di un'affermazione degli umili (il "popolo" artigiano) contro i grandi.

Per esempio, se è vero che a Firenze, a seguito degli Ordinamenti di Giustizia, la pienezza dei diritti politici si otteneva solo tramite l'appartenenza a un'arte, è pur vero che esistevano differenze profonde tra chi lavorava continue a un mestiere manuale e chi invece, era il caso dei grandi mercanti, poteva essere solo iscritto «in libro seu matricula alicuius artis».

Sempre più marcata, cioè, era la distanza tra chi sosteneva un'attività impegnando capitali e chi viveva di un'attività che richiedeva essenzialmente lavoro. Ed erano i primi che, grazie ad alchimie elettorali o ad accordi informali, regolavano i meccanismi delle rappresentanze.

Per ritornare comunque all'esito finale dei rapporti tra struttura corporativa e politica cittadina, bisogna anche fare presente (per escludere una deterministica consequenzialità tra corporazioni e regimi signorili) il caso in cui proprio l'assenza o l'estrema debolezza delle associazioni artigiane favorirono parimenti l'affermazione – diretta e finanche anticipata – di poteri signorili.

A Ferrara dovette accadere questo e gli Este, per sicurezza, nel 1287

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decretarono la soppressione di qualsiasi corporazione; prima fra tutte quella dei barcaioli, la cui attività era essenziale nella vita economica della città, imperniata in gran parte sulle attività di trasporto e di transito fluviali, che pertanto i signori non volevano condizionata da interessi monopolistici.

Particolare risulta poi il caso di Milano ove, forse per l'imponente sviluppo "industriale" già ampiamente ricordato da Bonvesin Della Riva, l'importante ruolo della Universitas Mercatorum locale sembrò a un certo punto offuscarsi.

Ad ogni modo l'emarginazione del ceto mercantile durante la fase "popolare" di fatto produsse alla fine risultati analoghi a quelli che si ebbero in altre città: l'appoggio dato ai mercanti dai Visconti pare siano infatti alla base dei successi della famiglia e dei suoi sviluppi signorili.

Anche i Visconti, poi, eliminarono la pericolosità "naturalmente" insita nei paratici, orientandosi verso un liberismo apparentemente radicale ed emanando, nel 1326, un'apposita provvisione.

In seguito, a Milano come a Ferrara, i paratici ricomparvero e anche in numero notevole; però la loro autonomia e il loro peso diretto sulla politica furono spenti.

Dipendenti (anche nella capacità di statuire) dal controllo signorile, le corporazioni, nel nuovo quadro di potere, divennero funzionali ai bisogni fiscali dello Stato o docili interlocutori di una politica economica dirigistica che comunque tendeva a ravvisare anche nel ricorso al privilegio uno strumento proficuo. Si trattava peraltro di una politica economica non più calibrata esclusivamente sulla città, ma estesa al contado e – laddove la dimensione territoriale dello Stato lo consentisse – proiettata anche sulle città soggette e sui loro distretti.

Tutto ciò è in parte esemplificato dal caso toscano e, in particolare, dalle vicende dei sarti pisani studiate da Cinzio Violante.

Dopo la soggezione all'arte dei mercanti, che anche a Pisa come altrove tendeva a coordinare gerarchicamente molte associazioni artigiane, all'inizio del XV secolo, a seguito della dominazione fiorentina sulla città, i sarti parvero finalmente acquistare una reale autonomia.

Infatti, nel 1454, venne redatto il loro primo statuto valido per città e contado.

A prima vista non vi erano rapporti di dipendenza da magistrature della città dominante. La necessaria approvazione dello statuto (procedura tutt'altro che formale giacché arrivò dopo un anno dalla presentazione) spettava però a una commissione esaminatrice composta da rigattieri fiorentini. In realtà, dunque, si andava formalizzando una dipendenza giurisdizionale della corporazione pisana dalla corporazione fiorentina della quale, per uno di quei fenomeni di gerarchizzazione tra arti di cui si parlava, anche i sarti fiorentini già facevano parte.

Era pertanto un peggioramento, dato che la dipendenza giurisdizionale non poteva non tradursi anche in una dipendenza economica dalla

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concorrenza "forestiera". 4. Lo splendore delle botteghe Dalle notizie che ci forniscono gli statuti delle arti emergono alcune costanti che in qualche modo ci consentono di parlare di un’organizzazione corporativa della produzione.

Cellula di questo sistema era la bottega, la cui esistenza era garantita da una severa normativa elaborata dall’associazione, tesa a creare condizioni paritarie tra tutti gli artigiani tanto nella fase di acquisizione delle materie prime (disponibilità e costi), quanto nella fase della lavorazione del prodotto (aspetti tecnici e gestione della mano d’opera) e infine in quella del suo esito commerciale. Dentro la bottega, due erano le figure fondamentali: il maestro e il suo discepolo. Il rapporto che in età medievale si veniva a instaurare tra queste due persone era un rapporto che, pur definito da precisi contratti notarili e da una serie di norme collettive che erano imposte dalla cor-porazione, tendeva in sostanza a risolversi nella pluralità di esigenze della famiglia artigiana. Il maestro, infatti, si impegnava non solto a insegnare l’arte al ragazzo, sfruttandone così la sempre maggiore capacità produttiva, ma anche a vestirlo, a calzarlo, a garantirgli vitto e alloggio ospitandolo stabilmente: molti erano gli apprendisti provenienti da luoghi non vicini del contado, ove ritornavano nei periodi di “ferie” che per lo più coincidevano con la mietitura e la vendemmia.

In certi casi il maestro, cui era consentito un forte potere coercitivo vere o presunte inadempienze contrattuali da parte del giovane, era tenuto anche a garantire l’insegnamento della lettura e della scrittura. L’integrazione del ragazzo, di solito intorno ai dodici anni, in questa seconda famiglia era tale che frequenti erano i casi di unioni tra apprendisti e figlie di maestri; questi matrimoni garantivano fra l’altro la trasmissione di attività altrimenti destinate a cessare.

L’avviamento professionale vero e proprio, accanto ai molti lavori domestici riservati al ragazzo, si esauriva per lo più nell’osservazione attenta dell’opera dell’artigiano, nella ripetizione dei suoi gesti, nell’ascolto dei suoi consigli. In un secondo momento il giovane cominciava ad attendere a operazioni secondarie e particolari, semplici e ripetitive; e solo alla fine – dopo qualche anno dì apprendistato – poteva sperare di raggiungere pienamente l’abilità professionale del maestro. Questo semplice sistema produttivo però non restò sempre eguale a se stesso per tutta l’età medievale. Molte cose mutarono dal momento in cui apparvero le corporazioni con i loro consoli e i loro statuti tutti tesi a proteggere interessi e autonomia delle varie categorie.

Nel corso del XIII secolo cambiò prima di tutto l’intensità della vita economica urbana, potenziata dal rapido aumento demografico, dal sensibile

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aumento della domanda, dal forte sviluppo di alcune fra le produzioni trainanti che richiedevano l’impiego di tecniche nuove, in alcuni casi di vera e propria avanguardia (si pensi all’industria tessile). E si modificò anche il rapporto tradizionale tra capitale e lavoro.

L’impianto di attività particolarmente complesse richiedeva una disponi-bilità finanziaria di fatto assai maggiore di quella di cui poteva disporre il semplice artigiano. Dietro questi mutamenti vediamo per lo più emergere con potenza le figure dei mercanti, attivissimi operatori economici non più itineranti ma stabilmente residenti nella città e provenienti, almeno in Italia, da una grande varietà di ambienti.

Tutto questo concorse a modificare la struttura complessiva del sistema corporativo. Alcune associazioni scomparvero o vennero private della loro autonomia, altre uscirono allo scoperto a causa del progredire

di un’organizzazione del lavoro che, a seconda dell’importanza delle operazioni e della ricchezza che una certa specialità assicurava, determinava indipendenza o, al contrario, soggezione gerarchica di alcune categorie ad

altre. Si crearono sostanziose differenze tra costellazioni di corporazioni e confini netti tra associazioni di serie A e di serie B.

Le distanze, maturate sul piano economico, si accentuavano poi se proiettate sul piano politico; in certi casi – come in quello fiorentino – venivano formalizzate (arti maggiori e arti minori) con conseguenze facilmente intuibili ad ogni livello. In altri casi ciò non avvenne; anche se è comunque possibile riconoscere un distacco tra il prestigio, i diritti, le ini-ziative delle associazioni di mestiere: a Bologna, per esempio, i mercanti e i cambiatori detenevano una posizione privilegiata rispetto a tutte le altre corporazioni.

Quanto al costituirsi di più intimi legami di dipendenza tra singole arti, i casi giunti fino a noi rispecchiano la grande varietà di situazioni.

Ancora un esempio bolognese: la corporazione dei fabbri, che in origine raggruppava al suo interno la totalità delle persone che lavoravano i metalli di qualsiasi natura e di qualsiasi foggia, a un certo punto dovette accettare il fatto che gli orefici costituissero infine una propria, autonoma “società” (XIV secolo), la

quale era in precedenza “nascosta” tra i molti altri membri della corporazione “madre”. In alcuni casi il processo è inverso: pensiamo al settore tessile e a quello dell’abbigliamento, che nel corso del basso Medioevo conobbero un grande incremento.

Le corporazioni dei sarti, per esempio, vennero spesso e volentieri progressivamente subordinate al controllo interessato delle corporazioni mercantili; i tintori, invece, furono costantemente soggetti all’arte della lana.

Ma emblematici restano gli sviluppi dell’arte serica, un tipo di produzione sviluppatasi in Italia settentrionale nel basso Medioevo a causa di robuste emigrazioni, per motivi politici, di artigiani lucchesi.

Sembra proprio che in settori come quello serico, che abbisognava di

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strutture produttive nuove e complesse, germinassero elementi tendenti a superare la tradizionale autonomia della bottega artigiana e il tradizionale sistema corporativo.

Una spia di queste trasformazioni può essere ravvisata senza dubbio nella formazione di una crescente categoria di salariati a fianco di maestri e apprendisti.

Trasformazione e superamento, si diceva, ma anche tenace sopravvivenza. E infatti assai interessante vedere come certe specialità, tendenzialmente ad alto rischio di rimanere “schiacciate” dalla complessità di nuove produzioni, ambissero a organizzarsi in corporazioni; questo ci induce a pensare che il legame associativo, da tempo sperimentato, continuava a essere visto come una garanzia per ottenere reali autonomie o quanto meno per difendersi dall’aggressività imprenditoriale del ceto mercantile. A questo proposito si può citare il caso particolare, e ben documentato, delle corporazioni genovesi.

Accanto ai seaterii (i mercanti-imprenditori perno di tutto il processo produttivo) ruotavano le categorie addette esclusivamente alla produzione: filatori, tintori e tessitori.

A tutti questi artigiani gli statuti del 1432, che sancivano la supremazia dei seaterii, vietavano categoricamente di riunirsi in associazioni autonome. I tintori però, nel 1465, ottennero di redigere delle norme specifiche per fissare quantomeno le consuetudini praticate.

Anche i filatori arriveranno a un simile risultato, ma non prima del 1598 e dopo una serie di fallimenti e di estenuanti lotte. Tra questi due casi, tra loro ben lontani a causa della innegabile distanza economica esistente tra le due categorie, si collocavano i tessitori. Eredi di un’autonomia fondata sul possesso del telaio (non a caso la loro “arte” era già riconosciuta a metà del Quattrocento), essi dovettero comunque ingaggiare una lotta poderosa per difendersi dall’aggressività del mercante imprenditore.

I seaterii proibirono loro di tenere più di due telai a testa, di tessere per proprio conto o per chi non fosse iscritto all’arte della seta, di fare lavorare filati fuori città; con ciò si voleva chiaramente contenere l’accrescimento economico di queste piccole imprese. Interessante appare l’evoluzione della produzione serica nella città di Venezia, già fiorente a fine Duecento.

Dagli statuti dell’arte del 1278 emerge una struttura corporativa salda e omogenea nonostante la cospicua varietà di competenze e di fasi lavorative. Solo al momento dell’immatricolazione il lavoratore doveva dichiarare il ramo di attività professato: torcitura, bollitura, tintura, orditura, tessitura.

In seguito, nel XV secolo, ritroveremo queste specialità dotate di forte autonomia, anche se il mercante-imprenditore continuava a garantire la sintesi dell’intero processo. Tale frammentazione di interessi e di obiettivi doveva generare uno scarso coordinamento e rivelarsi alla fine controproducente.

Non fu forse un caso, dunque, se a un certo punto (XVI secolo)

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l’industria della seta veneziana cedette di fronte alle più recenti e “meglio” organizzate produzioni delle città o dei centri minori della terraferma.

E insomma nella progressiva separazione tra capitale e lavoro che si misura la trasformazione della realtà produttiva urbana organizzata in corporazioni. Ma si evidenziarono novità anche in quelle che, per il tipo di produzione cui erano destinate, mantennero più delle altre i tradizionali connotati artigianali. E questo contrasta con l’idea di staticità che il liberismo ha contribuito a diffondere intorno al fenomeno corporativo.

Per esempio la “crisi” trecentesca generò processi di marcata autodifesa, di vero e proprio “corporativismo” nel senso peggiore e odierno del termine. Sono tendenze evidenti soprattutto nella normativa via via invalsa in materia di apprendistato; le regole che presiedevano al tirocinio si fecero sempre più rigide e dure o, per converso, sempre più garanti della superiorità contrattuale del maestro/datore di lavoro. Questo costituì un forte ostacolo all’ampliamento e al rinnovamento delle maestranze, favorì di fatto la trasmissione ereditaria del mestiere e – tendenzialmente – anche l’immobilismo tecnologico: sono le “colpe”, le negatività addebitate al corporativismo di ascendenza medievale.

Lo sviluppo della manifattura da un lato e la “crisi” economica che provocò mutamenti nell’organizzazione tradizionale della realtà produttiva artigiana dall’altro, generarono (come effetto più evidente) la comparsa e lo sviluppo di una mano d’opera salariata e fluttuante, in minima parte incar-dinata nel tessuto sociale urbano, nella struttura produttiva, nella realtà corporativa che si presentava sempre più come momento di naturale coagulo degli interessi della classe imprenditoriale.

Venendo a mancare la mediazione della struttura corporativa e il controllo sociale che essa garantiva, ecco esplodere un po’ ovunque (ma soprattutto laddove la manifattura tessile era una realtà corposa dell’economia urbana) manifestazioni di scontento che degenerarono in tumulti veri e propri; pensiamo a quelli registrati a Firenze, Perugia e Siena nel secondo Trecento. Questa aggressività della classe imprenditoriale e la deviazione del solidarismo verso troppo egoistiche pratiche monopolistiche sollecitarono persino interventi di uomini di chiesa. Personaggi come san Bernardino da Siena, come sant’Antonino da Firenze non esitarono (lo sappiamo dalle prediche che di loro ci sono rimaste) a stigmatizzare comportamenti sempre più lesivi della dignità umana e lo sfruttamento si-stematico degli strati più deboli di lavoratori (donne comprese).

Essi non arrivavano tuttavia a pensare che la struttura corporativa fosse in qualche modo contraria al bene comune; volevano vederne limitati eccessi e degenerazioni. Le nuove emergenze sociali, che l’economia corporativa aveva contribuito almeno in parte a determinare, vennero però dalle stesse corporazioni in qualche modo efficacemente affrontate. E per fare ciò le corporazioni attinsero al loro patrimonio di tradizioni.

I rapporti e le sovrapposizioni tra movimento corporativo e movimento

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confraternale si perdono lontano nel tempo. Pensiamo solo a quella confraternita su base professionale accuratamente studiata dal Simeoni, che sembra fosse alla base dell’arte ferrarese dei callegari, effettivamente documentata già all’inizio del XII secolo.

Non è certo un caso, d’altronde, che tra le varie ipotesi genetiche del movimento corporativo quella della derivazione dalle confraternite religiose abbia in genere riscosso un buon successo. Molte associazioni professionali del pieno Medioevo evidenziano, nei loro statuti, caratteristiche di solidarietà comuni a quelle presenti nelle confraternite coeve (per esempio l’assistenza ai soci malati, la garanzia di esequie e di sepoltura dignitose, gli aiuti alle vedove, le celebrazioni di liturgie di suffragio).

Nel Duecento – in particolar modo nell’ambito dell’Italia settentrionale – esistevano perfino numerose fondazioni ospedaliere “corporative”: quelle dei sarti, dei mugnai e dei mercanti di Piacenza, quella delle Quattro Arti di Parma, quelle dei mercanti e dei tavernai di Modena, quelle del cambio e della mercanzia di Perugia.

In altri casi (a Venezia) ogni corporazione si trovava affiancata dalla corrispondente confraternita (la scuola) atta a soddisfare ogni esigenza di tipo religioso e assistenziale degli artigiani. Ebbene, anche questa realtà venne a modificarsi nel tardo Medioevo sotto la spinta delle difficoltà economiche e sociali sopra evocate e delle critiche dei moralisti. La spinta assistenziale cominciò a proiettare al di fuori delle corporazioni verso istituzioni apposite già esistenti o create all’uopo. E si trattava di istituzioni in cui l’elemento laico si affiancava sempre più robustamente al tradizionale referente ecclesiastico. Così l’arte della Lana fiorentina si impegnò con di vera e propria assistenza, vennero direttamente delegati alle arti. E decisamente emblematico il caso particolare dei calafati; nel loro statuto del 1437, a differenza di quanto si stabiliva nella redazione del 1271, emergono diversi spunti che hanno fatto parlare addirittura di vere e proprie anticipazioni medievali in materia di previdenza sociale.

Per sovvenire agli inevitabili bisogni grandi contributi destinati in particolare alla confraternita di Orsanmichele; così l’arte di Calimala fondò, sempre a Firenze, l’Ospedale degli Innocenti e gestì – su mandato del Comune – l’Opera di San Giovanni Battista che, tra le altre cose, provvedeva a elargire generose elemosine ai poveri.

Le arti dunque diventarono, a vario titolo e in vario modo, elementi importanti della politica assistenziale del tardo Medioevo.

Si trattava di interventi assistenziali di dimensioni assai più vaste, globalmente, di quelle garantite dalla solidarietà corporativa, orientate non tanto ai soci ma agli strati inferiori della popolazione cittadina entro i quali la manifattura reclutava la mano d’opera salariata e sui quali bisognava operare un sempre più attento controllo sociale.

A Venezia, dove il sistema corporativo era assai controllato dall’autorità pubblica, certi provvedimenti di politica sociale, più che di alcuni anziani

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maestri, ormai incapaci di reggere al confronto coi colleghi più giovani, si stabilì che ogni calafato attivo ne assumesse un certo numero in proporzione a quello degli altri dipendenti. Tra questi artigiani anziani si effettuavano distinzioni al fine di non danneggiare il datore di lavoro: quelli perfettamente abili ricevevano un salario pari a quello dei «lavorieri» giovani, e i meno vigorosi ricevevano un salario dimezzato. Non v’è dubbio che queste «angarie de’ vetrani», vigenti nel territorio veneto fossero una larvata forma di pensione. E si trattava di un sistema pensionistico intelligente, perché consentiva che il «maestro vetrano morisse al suo posto, combattente egli pure di una nobile e grande battaglia, onorato dai giovani, esempio ai giovani, guida ai giovani nel menare il rude e intelligente colpo dell’ascia: retribuito infine per i suoi consigli, come lo era stato per la sua opera».

5. Corporazioin e spazio urbano È un luogo comune pensare che gli artigiani delle corporazioni medievali si dislocassero sul territorio urbano secondo logiche precise, che ogni attività avesse a propria disposizione luoghi appositi non confondibili con quelli destinati ad altre attività, vuoi per uno spontaneo dislocarsi di certe produzioni in spazi contigui, vuoi per un intervento impositivo delle autorità pubbliche. A conferma di questo starebbe anche la toponomastica cittadina sopravvissuta a molti cambiamenti.

Nei centri storici italiani, infatti, non è certo difficile incontrare una “via degli orefici”, una “via dei calzolai”, una “via degli spadai”... Il luogo comune, come quasi sempre accade, è un po’ vero e un po’ falso. E vero che in certi casi la città medievale conobbe una sorta di specializzazione economica delle aree urbane. Un poeta genovese della fine del Duecento poteva infatti verseggiare: «... per le contrae / sun le boteghe ordenae / che queli che sun d’un’arte / stan quaxi inseme de tute parte». E non si trattava di una invenzione poetica, dal momento che, sempre nello stesso secolo, i documenti genovesi ci restituiscono una toponomastica in sintonia con i versi del poeta: vi erano infatti la «contrata scutariorum ante forum sancti Laurentii» e la «contrata barileriorum», la «contrata corrigiariorum», il «carrubeus pellipariorum» e il «carrubeus ferrariorum»... A Bologna e a Firenze, invece, questa “zonizzazione” appare meno marcata.

In questi casi se concentrazione c’è, pare dipendere piuttosto da concrete e materiali esigenze produttive, dalla vicinanza a infrastrutture indispensabili alle singole attività. L’arte della lana,l’arte del cuoio, per esempio, abbisognavano di corsi d’acqua sia per sfruttarne la forza motrice, sia per lavare materia prima e prodotti. A volte la concentrazione dipendeva da superiori necessità ecologiche o di sicurezza: pensiamo alla decisione veneziana di fine Duecento di trasferire tutta la produzione vetraria cittadina

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nell’isola di Murano per scongiurare il rischio di incendi. In generale, però, sembrerebbe di poter escludere rigide pratiche

coercitive. Anzi: se scorriamo le matricole degli iscritti alle varie corporazioni (a Bologna ciò è possibile) vediamo che artigiani e botteghe erano sparsi un po’ovunque in città e che eventuali addensamenti sono riconducibili a ragioni di tipo economico.

Nessun piano preordinato, quindi, almeno nel corso del Duecento. Ci sembra tuttavia che la varietà di situazioni dipenda da un succedersi di fasi e di tendenze. Forse vi fu un periodo (XII secolo) in cui dovette essere fre-quente la concentrazione “volontaria”, in qualche modo attestata dall’esistenza di domus artigiane in cui lavoravano i singoli produttori che ad esse facevano capo anche per l’acquisto collettivo di materie prime e di strumenti di lavoro (è il caso dei callegari bolognesi e, più avanti nel tempo, dei fabbri e dei vinattieri fiorentini).

In seguito, con il vivace e tumultuoso sviluppo urbano, dovette prevalere la moltiplicazione e la disseminazione delle imprese artigiane su tutto il territorio urbano. Solo più avanti nel tempo, al decadere delle istituzioni comunali e all’affermazione dei regimi signorili, la necessità delle pubbliche autorità di esercitare stretti controlli sulle attività produttive (un controllo invero più fiscale che economico) determinò la tendenza a favorire o a imporre la concentrazione di attività similari negli stessi spazi. In tutto questo giocavano un loro ruolo anche motivi culturali e, in particolare, ideali urbanistici “nuovi”: il bisogno già rinascimentale (e ben percepibile a partire dal XIV secolo) di allontanare dal centro cittadino le attività ritenute umili e vili per riservarlo alle professioni più prestigiose (mercatura, banca, oreficeria...).

Questa concezione urbanistica, in realtà, dipendeva a sua volta da mutamenti intervenuti nella società e nella politica del basso Medioevo: un crescente processo di discriminazione nei confronti degli strati più bassi della popolazione, una sempre più ridotta dinamica sociale, un’affermazione decisa di forme di governo oligarchico/signorili che negavano alle corporazioni – e agli artigiani che ne facevano parte – ruoli di protagonisti della vita pubblica.

Neppure l’attività che più di altre sembrò preannunciare un’organizzazione di tipo industriale, la manifattura tessile, era organizzata secondo una rigida concezione spaziale. Si trattava piuttosto di un insieme di operazioni ben distinte e divise tra loro, un sistema diffuso al centro del quale, elemento unificatore del ramificato processo, stava il lanaiolo con la sua bottega. In questa bottega, però, non si filava, non si ordiva, non si tesseva; queste operazioni si svolgevano nel domicilio dei lavoranti che spesso non abitavano neppure nella città ma nelle campagne circostanti e che spesso erano contadine bisognose di incrementare, anche di poco, le entrate familiari.

Successivamente il tessuto veniva condotto nelle gore per la lavatura, nei

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tiratoi e nelle gualchiere per la follatura, nelle tintorie per la coloratura: tutte attività che richiedevano invece spazi adeguati e abbondante disponibilità d’acqua. Alla fine il panno transitava nelle botteghe di cimatori, rimendatori, conciatori le quali, per ragioni di comodità, si disponevano solitamente nei pressi della bottega del lanaiolo ove avvenivano alcune semplici operazioni iniziali e finali, ma soprattutto la vendita.

Le botteghe della lana, a Firenze, erano tradizionalmente ripartite in quattro circoscrizioni o conventi. Quello di San Martino era il più importante e si addensava intorno alla chiesa di San Martino del Vescovo; esso contava, nel 1381-1382, 92 aziende su un totale di 283 ed era in grado di realizzare la metà dei panni annualmente prodotti in città.

Vi era poi il convento di San Pier Scheraggio in via del Palagio; quello di San Pancrazio, in via della Vigna Nuova e quello d’Oltrarno nel quartiere di Santo Spirito (via Maggio). Erano i titolari di queste botteghe, i mercanti-imprenditori, che facevano parte dell’arte della Lana. Artigiani e lavoratori impegnati nelle varie fasi del processo costituivano associazioni subordinate all’arte maggiore oppure erano semplicemente e singolarmente “sottoposti” ad essa.

Il più delle volte la bottega del lanaiolo era sede di una “compagnia”, ovvero di una società in nome collettivo dalla durata triennale o quinquennale (ma rinnovabile).

In origine la compagnia aveva una struttura familiare e i suoi componenti erano contemporaneamente soci d’opera e di capitale; successivamente si ebbero differenziazioni forti tra compagnia e compagnia e si arrivò anche al caso in cui la distinzione tra finanziatori e operatori all’interno della società era nettissima. Varia era anche, naturalmente, l’entità del capitale societario, e quindi la dimensione dell’attività facente capo a una singola bottega. Fluttuazioni rilevanti si notano soprattutto in corrispondenza dei periodi di grande espansione

o di netta contrazione della domanda. All’inizio del XV secolo il capitale sociale medio che possiamo attribuire

a queste imprese in Firenze non superava i 6000 fiorini; comunque sino a tutti gli anni Settanta del Trecento si ebbero imprese che superavano tranquillamente i 10.000 fiorini (la compagnia degli Albizzi per esempio).

Quanto alla capacità produttiva delle singole botteghe, va detto che essa era piuttosto scarsa. Nei periodi più felici poteva arrivare a registrare una media di 130/140 panni l’anno (con punte eccezionali che toccavano i 200 e oltre); nei periodi di magra invece (dopo il tumulto dei Ciompi, per esempio) non si andava oltre una media di 70 panni l’anno.

L’aspetto materiale della bottega della lana era il seguente: a piano terra erano di solito ubicati un paio di locali che servivano come deposito e punto di vendita; al di sopra erano situati i “palchi”, locali adibiti alla cernita della lana e alle operazioni di preparazione della medesima. Si trattava di proce-dimenti semplici, svolti da personale scarsamente specializzato e

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attrezzature limitate e di poco costo. Divettatori, vergheggiatori e scamattini usavano bacchette di legno su

graticci lignei; pettinatori e scardassatori erano dotati di pettini e scardassi, strumenti “con denti minuti e torti di filo

sottile di ferro” solo di poco più cari degli strumenti precedenti; rivenditori e dizzeccolatori maneggiavano pinze e coltelli; i cimatori (se la cimatura veniva fatta in bottega) erano dotati di forbici.

Nei palchi questi lavoranti stavano per lo più seduti su panche intorno a un tavolo. Ma spesso accadeva che anche queste semplici operazioni venissero svolte in locali separati dalla bottega, i quali assumevano pertanto i connotati di piccoli opifici affollati di stadere, casse, cesti, cofani, bigonci, orci, conche, pentolini per olio e sapone, secchi, barili, trespoli. I salariati lì concentrati costituivano un proletariato che, in periodi di forte espansione, rischiava di ribellarsi creando seri pericoli per la produzione e per l’ordine sociale cittadino, escluso com’era dai diritti corporativi. Il tumulto dei Ciompi del 1378 lo sta a dimostrare. Ma la saldezza dell’organizzazione corporativa dei lanaioli e poi la riduzione numerica di questo proletariato, conseguentemente al ridimensionamento del settore, contribuirono a li-mitare tali rischi e a riaprire una fase di minore conflittualità tra datori di lavoro e lavoratori. In altri casi i rischi sociali (così come i rischi economici derivanti da una lievitazione delle pretese di una mano d’opera consapevole della propria indispensabilità) furono aggirati tramite un processo di trasferimento della produzione cittadina nei centri minori del contado.

6. Schede Scheda 1 La struttura economica della capitale d’oriente. Bisanzio la favolosa Il problema delle origini delle corporazioni medievali sembra risolversi decisamente a favore della continuità se guardiamo a Bisanzio. Qui ci troviamo di fronte alla perdurante efficacia della tradizione legislativa roma-na attualizzata dalla codificazione giustinianea, nonché alla persistenza di complesse strutture sociali urbane.

A Costantinopoli si produceva veramente tutto: suppellettili più o meno pregiate per la casa, strumenti in metallo, preziosi finemente lavorati, vetri e tessuti. Fiorentissimo era quindi anche il commercio; nei mercati si potevano trovare tutte le qualità di generi alimentari e le materie utili all’artigianato e all’industria.

Sulla struttura di questa realtà economica ci è rimasta una testimonianza assai importante, eccezionale se paragonata al silenzio che avvolge, in Occidente, questi aspetti della vita altomedievale. Alludiamo al Libro del

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Prefetto, una raccolta di norme risalente a Leone VI il Saggio, imperatore della dinastia macedone (X secolo), destinate a regolamentare la vita interna di molte professioni, ognuna delle quali dotata di una sua propria orga-nizzazione; tali norme definivano il rapporto tra quelle che possiamo chiamare in qualche modo "corporazioni" e l’autorità pubblica, ovvero quel Prefetto o Eparco che presiedeva non solo all’ordine pubblico ma anche alla vita economica della capitale. Ebbene, da questa importante fonte apprendiamo che, se si prescinde da una serie di laboratori imperiali destinati alla produzione in regime diretto e monopolistico della porpora o del "fuoco greco", cioè di beni la cui lavorazione doveva restare segreta nel primario interesse dello Stato, la struttura economica di Bisanzio era costituita essenzialmente dalla piccola impresa, il cosiddetto ergastérion. Nell’ergastérion si concentrava sia l’attività produttiva che l’attività commerciale ed erano i titolari di queste botteghe che, riuniti in "corpi" presieduti da un capo, decidevano l’ammissione di eventuali nuovi esercenti sulla base dell’onestà personale e dell’abilità professionale.

L’ingresso in "corporazione", tuttavia, dopo il versamento di una conveniente tassa di ingresso, doveva essere confermato dai funzionari del Prefetto. Questo sistema, che coniugava autonomia e controllo pubblico, garantiva allo Stato la conoscenza aggiornata e precisa della realtà produttiva della capitale, ma consentiva nel contempo di imporre regole di interesse generale a difesa della qualità e dei consumatori. Impediva anche la concorrenza spietata e sleale tra artigiani e commercianti di un medesimo settore, concorrenza che non escludeva il ricorso a illeciti accordi tra imprenditori aggressivi e proprietari di immobili, finalizzati alla lievitazione degli affitti delle botteghe.

Va comunque detto che, nonostante la struttura complessa e articolata dell’insieme, per i mestieri più diffusi (edilizia, ceramica, carpenteria, mosaico) non risultano regolamenti limitanti la libertà dei privati. Questo fa pensare che buona parte dell’economia della capitale, contrariamente a quello che si è soliti pensare di Bisanzio, fosse essenzialmente un’economia liberale, poco condizionata da pesanti interventi (normativi o fiscali) pubblici.

Quanto all’organizzazione interna dell’impresa artigiana, sappiamo che essa era per lo più a conduzione familiare; frequente era l’utilizzazione della mano d’opera di qualche schiavo-aiutante e delle donne di famiglia (soprat-tutto nell’attività tessile).

Ciò determinava un bel risparmio e consentiva a volte all’imprenditore di poter dirigere un secondo ergastérion innalzandosi così, anche se mai troppo, sulla media dei soci/concorrenti.

Se è vero infatti che il costo di uno schiavo specializzato era assai alto, per uno schiavo generico potevano bastare 20 nomismata (soldi d’oro), cifra all’incirca equivalente a quella dell’affitto annuo di una bottega.

Operai salariati specializzati erano invece figure rare, cui la normativa

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riservava condizioni contrattuali in qualche modo favorevoli (per esempio contratti di durata mensile e non giornaliera). La loro retribuzione annua (280 giorni lavorativi) poteva ammontare a circa 25 nomismata; si trattava di una cifra appena utile all’operaio per evitare la miseria, ma rilevante per l’imprenditore il quale, con la medesima somma, poteva – come si è visto – comperarsi uno schiavo generico e così risolvere definitivamente il problema della mano d’opera.

Questo sistema corporativo bizantino, proprio per gli aspetti di dipendenza nei confronti dei poteri pubblici, non solo è stato direttamente collegato (e ragionevolmente) al sistema dei collegia tardo-antichi, ma da alcuni studiosi è stato anche utilizzato per giustificare la particolare conno-tazione che, nel quadro generale dell’associazionismo di mestiere italiano, presenta Venezia. Un’ipotesi che, in verità, pare enfatizzare eccessivamente i rapporti e le somiglianze tra la città lagunare e Bisanzio. Scheda 2 L’arretratezza del sud La situazione meridionale si presenta diversa da quella dell’Italia centro-settentrionale. A fine Medioevo, al Sud il tenore di vita era assai più basso che al Nord, l’economia era quasi esclusivamente fondata sull’agricoltura, la società assai poco articolata. Nelle città meridionali, che a differenza di quelle dell’Italia centro-settentrionale avevano una scarsissima autonomia politica, lo spirito di cooperazione non era diffuso, il lavoro manuale era scarsamente considerato e di conseguenza il movimento corporativo, quando presente, era estremamente fragile.

Le cause di tutto questo vanno di pari passo con l’affermazione di una monarchia “feudale e terriera”, quella normanna, e nel conseguente scarso sviluppo economico e politico della città.

Non è quindi un caso se nel Regno di Napoli i corpi d’arte appaiono con evidenza documentaria solo a partire dal 1347, quando Giovanna I d’Angiò «chiamò gli artigiani [di Napoli] ad una certa ingerenza nell’amministrazione ed esaudì la già respinta richiesta circa l’organizzazione dei corpi d’arte». La svolta politica della regina era dettata dal bisogno di contenere la forza e il malcontento degli strati più bassi della società urbana, che si erano già più volte sollevati, e sanciva defintivamente il pieno coinvolgimento del ceto artigiano nell’utilizzazione dei proventi delle gabelle cittadine.

Le associazioni artigiane vennero da questo momento legalmente riconosciute ed ebbero una loro autonomia normativa e giurisdizionale. Potevano nominare semestralmente loro rappresentanti e indire assemblee per discutere affari comuni.

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Nello stesso privilegio di Giovanna I, però, risulta che già prece-dentemente a Napoli esistevano delle arti e una «università dei popolari artigiani». Si trattava allora di organismi senza alcuna capacità giuridica?

In realtà, se si esclude la notizia di un corpus o ars di saponai napoletani, un collegio giuridicamente riconosciuto e organizzato come quelli romani e – forse – di un’ars pistorica a Otranto (siamo in entrambi i casi nel VI secolo) nell’Italia meridionale per secoli non abbiamo tracce di associazioni di mestiere.

II silenzio continua in età normanna e in età sveva. In perfetta sintonia con tale silenzio si colloca la legislazione di Federico II (1231) che infatti parla di singoli artigiani sottoposti a un rigoroso controllo statale su eventuali frodi, esercitato dai pubblici ufficiali (baiuli), e della “corporazione” dei siclarii di Brindisi, esenti da imposte e non soggetti alla giurisdizione ordinaria, che però era formata in realtà non da artigiani liberi bensì da controllatissimi addetti a un monopolio statale.

E così in seguito, ai tempi di Carlo I e di Carlo II, l’esistenza a Napoli come a Maddaloni di collegamenti tra esercenti la medesima attività (maestri bottai, carradori, tegolai, fabbri, conciatori di cuoio) testimonia sempre ed esclusivamente il bisogno di difendersi dalle molestie, dalle eccessive pretese dei funzionari pubblici, cioè da uno Stato estremamente invadente, specie sotto il profilo fiscale.

Ciononostante sembra chiaro che esperienze di natura associativa divennero più frequenti e significative al tempo di Roberto d’Angiò. Fra il 1318 e il 1342 notizie relative ai pescatori napoletani, ai confettai e ai bastasii di Trani, agli speziali, ai pescivendoli e ai cuoiai di Napoli, ai fabbri di Isernia, ai beccai e ai mercanti di panni di Barletta, ai cuoiai di Salerno movimentano e vivacizzano il quadro precedente.

È vero che le fonti che ci tramandano queste notizie sono per lo più di natura giudiziaria (contestazione dell’operato dei funzionari pubblici o – viceversa – richiesta della protezione regia a fronte di antichi obblighi verso enti ecclesiastici). Ma allo stesso tempo è vero anche che qualcosa stava effettivamente cambiando.

In occasione delle Assise napoletane che dovevano fissare i prezzi delle vettovaglie e le modalità di vendita dei generi alimentari o di interesse collettivo compaiono, nei primi anni del Trecento, i capita arcium, cioè dei veri e propri rappresentanti di categoria.

Se, d’altronde, nel 1339 re Roberto impediva espressamente al popolo minuto e agli artigiani di partecipare alla vita pubblica, la cosa era evidentemente temuta; il divieto venne rinnovato dalla stessa Giovanna I, la quale però, come si è visto, fu poi costretta a invertire la tradizionale politica proibizionista nel 1347.

Da questo momento anche nel Mezzogiorno si avviò un processo corporativo documentato dalla frequente emanazione di statuti (il primo rimastoci è quello degli orefici napoletani del 1380).

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La storia di queste associazioni, comunque, restò profondamente diversa da quella delle più antiche corporazioni centro-settentrionali. II loro jus statuendi non si ricollegava a un’autonomia comunale (del resto fragile) ma solo a concessioni e privilegi regi, quindi – di fatto – a graziose concessioni elargite dall’alto. Teoricamente il sovrano poteva in ogni momento revocare i diritti concessi, diritti fra l’altro che i ceti dirigenti non esitavano – al momento opportuno – a mettere in discussione.

Scheda 3 La confederazione delle arti Nell’ambito dell’evoluzione tardo-medievale del sistema corporativo va ricordata e debitamente sottolineata anche l’istituzione delle Mercanzie.

Se ne conoscono a Firenze come a Lucca, a Bologna come a Siena. Con questo termine non si allude a una pura e semplice corporazione di mercanti, ma a qualcosa di diverso e di più complesso rispetto al fenomeno corporativo originario, alla teoria e alla legislazione che lo sosteneva.

Sul piano economico, fra l’altro, la Mercanzia costituì forse una delle risposte alla crisi trecentesca in quelle città in cui il movimento corporativo era rimasto una realtà forte. Si trattava della concentrazione di varie e preesistenti arti le quali, pur non perdendo la propria singolare autonomia, venivano a costituire un organismo confederale in nome di interessi dichiarati comuni.

Alla base di tali realizzazioni vi era il bisogno di coordinamento, la necessità – ancora più evidente in un periodo di crisi – di superare le contraddizioni di un sistema troppo parcellizzato che fra l’altro non trovava più un momento unificante nella dimensione politica e che rischiava veramente di compromettere, per difendere interessi particolari, quelli economici generali, di più ampio respiro. Furono le Mercanzie che, sfrut-tando sapientemente il lento processo di gerarchizzazione tra le arti, seppero porsi come interlocutrici privilegiate del potere politico e fecero di tutto per facilitarne l’intervento sia nel settore economico, sia nella rete di infrastrutture, senza le quali non era assolutamente pensabile un buon svol-gimento delle attività commerciali: costruzione di strade e di porti, esazione di pedaggi, organizzazione di rappresaglie.

Si trattò dunque di un momento di vera e propria razionalizzazione e non soltanto di un’ulteriore svolta nel senso della gerarchizzazione tra realtà produttive e gruppi sociali.

Certo, l’elemento artigianale venne forse atrovarsi in posizione ancor più sottomessa ai gruppi e agli interessi mercantili, i quali riuscivano, tramite l’amplificazione degli interventi legislativi e giurisdizionali e il coinvolgimento della professionalità dei giuristi, a legittimare comunque il proprio intervento in materie di pertinenza anche pubblica: monete,

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fallimenti, affitti, società, lettere di cambio e via dicendo. Questa concentrazione di funzioni entro le Mercanzie consentì

progressivamente agli statuti delle arti di amplificare i contenuti più squisitamente tecnico-professionali (in realtà poco presenti nella normativa corporativa medievale), regolamentando sempre più i singoli momenti dell’attività produttiva in un modo che talora risulta finanche esasperato.

Tutto ciò verrà avvertito, in piena età moderna, come limitazione esiziale per l’economia e starà alla base della soppressione delle arti del XVIII secolo.

Nonostante tutto, tra Cinque e Settecento, le corporazioni avevano continuato a svolgere funzioni importanti, a dispetto delle critiche ricorrenti e radicali.

Non è un caso se, subito dopo la soppressione, vi fu chi avvertì il bisogno di trovare qualcosa che sostituisse fattivamente, soprattutto negli aspetti positivi, l’ossatura scomparsa. E così in Lombardia il Regio Visitatore delle Manifatture, con una consulta del 10 novembre 1785, proponeva con convinzione l’individuazione di una «legislazione che garantisca il pubblico dalle fraudi; che contenga nei loro doveri gli artigiani e che impedisca il discredito interno ed esterno delle nostre manifatture». In fondo si trattava, né più né meno, di un tentativo di rivisitazione di ciò che, fino a quel momento, aveva offerto la vecchia struttura corporativa di ascendenza medievale. Scheda 4 Corporazioni e gerarchie Non tutte le corporazioni avevano, all’interno di una città, pari importanza. E la medesima corporazione – anzi – poteva godere, in città diverse, di un diverso prestigio sociale.

Questo dipendeva da molti fattori: dall’ineguale rilevanza dei vari settori economici nelle singole realtà urbane, dal più o meno consistente numero di persone preposte alle varie attività, dal differente livello culturale richiesto dalle specifiche competenze, dal ruolo politico – che non era certo paritario, come s’è detto – giocato dalle corporazioni.

Misurare tutte queste disparità non è affatto facile. A volte esse sono palesi perché alcune associazioni innalzarono sedi monumentali in città, perché intrattennero rapporti privilegiati con chiese e ordini religiosi di cui conosciamo il maggiore o minore prestigio, perché si trasformarono perfino in committenti d’arte.

Recentemente lo studioso Antonio Ivan Pini ha proposto un utile strumento di analisi per avere idee più chiare sulle gerarchie interne a un movimento tutt’altro che compatto: si tratta dell’ordine con cui le associazioni erano solite sfilare nelle processioni organizzate per celebrare

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importanti ricorrenze religiose o civili. In tali occasioni la società cittadina si autorappresentava secondo gli schemi propri dei suoi ceti dirigenti e ogni corporazione, rispettando precedenze stabilite da una sapiente regia, raggruppava in bell’ordine i suoi soci, rivestiti di abiti particolari, utili anch’essi a segnalare un’immediata alterità e una tangibile differenza rispetto agli appartenenti ad altre corporazioni.

I risultati dell’analisi di Pini evidenziano diversità di rilievo tra città e città e soprattutto tra Settentrione e Centro Italia.

Ricorderemo solo che medici e speziali, al vertice della società fio-rentina, godevano di un prestigio medio-basso nelle città settentrionali (forse solo per pregiudizi mentali quali il tabù del sangue); che i tavernieri, in posizione dignitosa a Padova e a Torino, si situavano invece ai gradini più bassi della scala sociale a Milano, Brescia, Cremona e Modena; che la buona posizione dei tessili a Firenze e Perugia non era affatto comune alle stesse categorie attive nell’Italia settentrionale ove, viceversa, a un buon livello si collocavano gli artigiani che lavoravano il ferro e il cuoio.

A parte queste e altre differenze, tuttavia, si possono individuare mediamente cinque strati sociali entro i quali è possibile collocare le varie categorie dei cittadini corporati: quello superiore {di cui facevano parte notai, giudici, mercanti e cambiatori); quello medio-superiore (metallurgici, cuoiai); quello medio(tessili, pellicciai, salaroli); quello medio-inferiore (falegnami, muratori, ciabattini, barbieri, pittori, addetti al vettovagliamento e ai trasporti extraurbani); infine c’era quello inferiore (al quale appartenevano ortolani, facchini, albergatori, fornaciai e vetrai). Scheda 5 Regole e contratti

Le fonti utili per ricostruire la storia corporativa sono molte. Alcune sono state prodotte dalle stesse arti nel corso della loro esistenza: si tratta di statuti, matricole, atti di giurisdizione, sigilli, fonti iconografi che, registrazioni contabili. Altre invece sono più indirette ma non per questo meno importanti: si pensi agli statuti cittadini, ai documenti giudiziari, agli atti notarili, alle opere di predicatori e moralisti e perfino alle agiogra fie. L’attenzione che conviene prestare a queste ultime dipende dal fatto che – nel momento della massima espressione dei ceti produttivi urbani e delle loro organizzazioni – cominciarono ad apparire beati e santi provenienti da ambienti artigiani.

Qualche esempio: il mercante cremonese Omobono, il calzolaio piacentino Raimondo Palmerio, l’orefice Facio da Cremona, il brentatore (ovvero portatore di vino) Alberto da Villa d’Ogna, il venditore di pettini Pietro Pettinaio, proveniente da Siena. Qui di seguito, a titolo documentario,

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riportiamo in traduzione un brano degli statuti dei mercanti piacentini risalenti al Duecento e lo schema formalizzato di un contratto notarile di ap-prendistato del XIV secolo.

Gli statuti dei mercanti piacentini Che la piazza del Borgo non sia ingombrata E non permetterò che nessun rivenditore di carne, pesci, frutta e altri generi alimentari, o albergatore o qualunque altra persona tenga banchi o recipienti con pesci o altri ingombri o gabbie per polli o ceste da pane o ceste di altro tipo in piazza del Borgo, dalla torre di Gotentesta fino alla casa di Castello Villano, fuori dai portici per rivendere carne, pesce, frutta o altro all’infuori del sabato. Ai contravventori imporrò 12 denari di multa ogni volta.

Che il mercato del filo si tenga in piazza S. Andrea Farò in modo che il mercato del filo che si è soliti tenere il venerdì in Borgo si svolga nella piazza di S. Andrea del Borgo e ordinerò a tutti coloro che, maschi e femmine, comperano e vendono filo che il venerdì non lo com-perino, né lo vendano se non in tale piazza e non al di fuori dei confini delimitati da una parte dalla strada e dall’altra dall’andito del fu Bergognino dei Bergognini, fino alla casa di Alberto Musini.

Della verifica delle misure dei cambiatori e degli altri Entro il primo febbraio eleggerò due cambiatori che facciano verificare tutte le misure dei cambiatori (paragonandole) con la misura del comune dei mercanti, e i pesi e le bilance che riscontreranno essere esatti saranno restituiti ai loro possessori senza indugio, quelli che risultano non esatti siano fatti regolare il meglio che si può e abbiano tali incaricati per ogni misura che fanno regolare un denaro di compenso e non di più.

Della larghezza e lunghezza delle pezze di fustagno Non permetterò che le pezze da 25 braccia e mezzo siano inferiori alle 25 braccia e mezzo di lunghezza, né alle 2 braccia di passo per la larghezza.

Che i consoli dei mercanti facciano in modo che i rettori del comune proibiscano l’esportazione del filo e del semilavorato Farò in modo che i rettori del comune di Piacenza proibiscano a nome del comune che i forestieri comprino e portino fuori della città e del distretto di Piacenza il filo e il semilavorato piacentino e che ogni mese facciano bandire tale ordinanza per tutta la città.

Degli osti e albergatori Ordino a tutti gli osti che non permettano che i loro ospiti ritirino i propri

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bagagli se non dopo aver pagato i loro debiti ai venditori o ai creditori secondo la volontà dei venditori e creditori: otto giorni dopo che tali ospiti avranno comperato, senza frode li faranno pagare ai loro creditori e ven-ditori tutto ciò che dovevano, secondo la volontà dei creditori e venditori. Se qualche oste si comporterà in modo diverso o se mi giungerà qualche lamentela, costringerò lui a pagare e inoltre lo multerò di 10 soldi.

Che i forestieri non vendano nella città di Piacenza drappi, fustagni o tela E stabilito che nessuna persona né mercante forestiero può né deve vendere panni di lino, né di lana né di fustagno nella città di Piacenza né nel suo distretto, se non sia prima accolto come cittadino e abbia giurato obbedienza ai consoli dei mercanti affinché non commetta frode nella sua arte.

Della tassa pagata dai forestieri a chili ospita E stabilito e confermato che ciascun forestiero che viene a Piacenza per vendere o comperare paghi un denaro come tassa a chi lo ospita. E i cittadini di Piacenza non paghino né siano tenuti a pagare nessuna tassa.

Un contratto bolognese di apprendistato Antonio, con apposito patto, ha messo suo figlio Michele a bottega presso maestro Corrado calzolaio perché impari l’arte della calzoleria nei prossimi cinque anni. Egli ha promesso solennemente, senza eccezione alcuna di diritto odi fatto, di far sì che detto Michele suo figlio perseveri, per l’intera durata del suddetto periodo, ad abitare continuativamente col suddetto maestro Corrado eseguendo fedelmente e diligentemente tutto ciò che il detto maestro gli comanderà relativamente alla teoria e alla pratica della sua arte.

Farà in modo altresì che si impegni a custodire e a salvaguardare le cose del maestro o quelle di chiunque altro che fossero nella di lui bottega, a non commettere furti e a non tenere mano a chi volesse commetterli, a non fuggirsene o comunque a non separarsi dal maestro fino al compimento del suddetto termine. Se il ragazzo contravvenisse in qualche cosa, Antonio dovrà risarcire opportunamente il suddetto Corrado indennizzandolo; in particolare farà sì che lo stesso Michele risarcisca il maestro con il proprio lavoro, rimanendo presso di lui oltre il termine pattuito per un numero di giorni pari a quelli in cui l’apprendista si fosse allontanato contro il volere dei maestro.

Inoltre darà al maestro, portandoglieli a casa, un’oca, ovvero anche due focacce e due capponi, ogni anno in occasione della festa di Santo Stefano.

Parimenti il maestro Corrado, come controparte, ha promesso al suddetto Antonio, stipulante per sé e per i suoi eredi e a nome del suddetto Michele, di insegnare e di istruire con cura Michele nell’arte suddetta dandogli ogni

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anno un paio di calzature. Tutto ciò le parti hanno promesso vicendevolmente e solennemente. Nota bibliografica Pur nella difficoltà di muoversi entro una produzione storiografica imponenete, sarà opportuno segnalare i seguenti titoli: fino agli anni Settanta, il tema in Italia era affrontato a partire dai classici lavori di P.S. Leicht, Corporazioni romane e arti medievali, Einaudi, Torino 1937 e di F. Valsecchi, Le corporazioni nell’organismo politico del Medioevo, Zanichelli, Bologna 1935. L’argomento, infatti, venne sostanzialmente abbandonato dalla storiografia postbellica.

Solo dopo l’invito a riaffrontare su nuove basi, non solo storico-giuridiche, il problema della continuità o meno dell’associazionismo di mestiere (sollecitato dall’importante saggio di L. Ruggini, Le associazioni professionali nel mondo romano-bizantino, in Artigianato e tecnica nella società dell’Alto medioevo occidentale, “Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo”, XVIII, I, Spoleto 1971, pp. 59-193) e per reagire alla riproposizione di percorsi noti, avanzata dal saggio di V. Rutenburg, Arti e corporazioni, in Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1975, V/1, pp. 613-642, si è assistito a un crescente convergere sul tema corporativo di storici medievisti (e modernisti) sensibili ai nuovi orien-tamenti della storia economica, sociale (e della mentalità), religiosa, politico-istituzionale.

Per quanto riguarda gli studi svolti in questi anni, si veda a titolo esemplificativo, la molteplicità di temi trattati nel convegno Artigiani e salariati. Il mondo del lavoro nell’Italia dei secoli XII-XV, Centro italiano di studi di storia e d’arte di Pistoia, Pistoia 1984. In ogni caso, per restare ancorati il più possibile alla specificità dell’esperienza corporativa, segnaliamo A.I. Pini, Città, comuni e corporazioni nel Medioevo italiano, Clueb, Bologna 1986 e R. Greci, Corporazioni e mondo del lavoro nell’Italia padana medievale, Clueb, Bologna 1988. Relativamente alla realtà fiorentina, oltre al lavoro di A. Doren, Le arti fiorentine, Le Monnier, Firenze 1940, è utile ricordare il bel lavoro di F. Franceschi, Oltre il “tumulto”. I lavoratori fiorentini dell’Arte della Lana fra Tre e Quattrocento, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1993. Sulla proiezione in età moderna dell’esperienza corporativa, si veda C. Mozzarelli (a cura di), Economia e corporazioni. ll governo degli interessi nella storia d’Italia dal medioevo all’età contemporanea, Giuffrè, Milano 1988 e Itinerarium. Università, corporazioni e mutualismo ottocentesco. Fonti e percorsi storici, Atti del convegno di studi tenutosi a Gubbio 12-14 gennaio1990, a cura di E. Menestò e G. Pellegrini, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1994. Non si dimentichi il quadro di studi europeo: S.A. Epstein, Wage, Labor and Guild in Medieval Europe, Chapel Hill and

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London, The University of North Carolina 1991 e Confradias, gremios, solidaridades en la Europ Medieval, XIX Semana de Estudios Medievales de Esytella, Gobierno de Navarma, Pamplona 1993.