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Robeo Castaldo Mario Cifariello Gino Roncaglia AMBIENTI DI APPRENDIMENTO TRA MONDO FISICO E MONDO DIGITALE

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Roberto CastaldoMario CifarielloGino Roncaglia

AMBIENTI DI APPRENDIMENTO TRA MONDO FISICO E MONDO DIGITALE

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Introduzione

Questo non è un corso centrato sull’uso delle tecnologie, ma

piuttosto sulla riflessione – sia metodologica, sia immedia-

tamente operativa – legata ai cambiamenti in atto non solo

nelle forme di apprendimento e di insegnamento, ma anche

nel loro contesto istituzionale, culturale e sociale. È una ri-

flessione che speriamo possa essere occasione di approfon-

dimento, di scoperta e di acquisizione di competenze con-

cretamente utili, ma anche concettualmente ben fondate.

Questo corso approfondisce in particolare:

• nel primo modulo, il concetto di ambiente di appren-

dimento, le differenze (e la necessaria integrazione)

tra ambienti fisici e ambienti online, gli strumenti e le

strategie per un buon design funzionale degli ambienti

di apprendimento e per la migliore integrazione tra am-

bienti fisici e ambienti online;

• nel secondo modulo, il tema delle comunità di appren-

dimento, la gestione delle relazioni, delle attività dei di-

versi ruoli all’interno delle comunità di apprendimento,

il rapporto tra comunità di apprendimento e comunità

di pratica;

• nel terzo modulo, le diverse tipologie di piattaforme

online disponibili per gestire e facilitare l’apprendimen-

to, e le modalità per il loro uso in ambito scolastico;

Il corso prevede, oltre agli incontri, anche materiali di lavoro,

tra i quali la dispensa e suggerimenti per attività. Le dispense

costituiscono un po’ il filo conduttore del corso, e contengo-

no rimandi ai materiali multimediali (filmati, presentazioni,

programmi e risorse online…) che vi suggeriamo di utilizzare.

Coordinamento editoriale: Mattia MelaCoordinamento redazionale: Dario Giovanni Alì, Sonia Raffa Redazione: Jennifer Santoro (duDAT Srl - Bologna)Progetto grafico e impaginazione: Daniela Cirillo (duDAT Srl - Bologna)

Per segnalazioni o suggerimenti relativi ai presenti materiali mailto: [email protected]

L’Editore è presente su Internet agli indirizzi: http://www.mondadorieducation.it e http://www.rizzolieducation.it

Gruppo MondadoriCopyright 2017 © Rizzoli Libri S.p.A. Mondadori Education

Chiuso in redazione a ottobre 2017

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INDICE

Cambiare spazi e strumenti per cambiare la didattica

1.1 Il concetto di ambiente di apprendimento .................................................................................................................................................................... 4

1.2 Dagli ambienti fisici a quelli digitali e misti ................................................................................................................................................................10

Comunità di apprendimento: fare e studiare social

2.1 Ambienti (fisici e virtuali) e comunità di apprendimento ............................................................................................................................15

2.2 Dalle comunità di apprendimento ai social network .......................................................................................................................................17

2.3 Vita da comunità online: ruoli, attività collaborative, social e privacy .............................................................................................18

Piattaforme diverse per scopi diversi

3.1 Tipologie e uso delle piattaforme online per la gestione dell’apprendimento .......................................................................28

1.

2.

3.

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1. CAMBIARE SPAZI E STRUMENTI PER CAMBIARE LA DIDATTICA

1.1 Il concetto di ambiente di apprendimento In questo percorso, al centro della nostra attenzione sarà il concetto di ambiente di appren-dimento. Un concetto la cui importanza è davvero difficile sottovalutare: anche i migliori do-centi, anche i migliori contenuti rischiano di produrre risultati minimi se il contesto in cui si svolgono le attività di apprendimento è incapace di garantire da un lato le infrastrutture necessarie all’efficacia dell’azione formativa, dall’altro un ambiente funzionale, collaborativo e piacevole, in grado di aiutare la motivazione.

Prima di approfondire la nozione di ambiente di apprendimento – che per ora abbiamo in-trodotto facendo appello solo alla normale intuizione linguistica – vorrei raccontare un’espe-rienza personale che mi ha molto colpito. Era l’aprile 2015 e mi trovavo alla London Book Fair, la Fiera del libro di Londra, per partecipare alla terza edizione di un incontro dal titolo signifi-cativo: What Works? Successful Education Policies, Resources and Technologies. Come suggeri-sce il titolo, obiettivo dell’incontro era fare il punto sulle strategie educative che funzionano. Una delle tavole rotonde era dedicata al confronto tra le politiche formative di alcuni tra i Paesi che nei vari test internazionali (a partire da quelli OCSE-PISA) risultavano di maggior successo: tra gli altri Singapore, Finlandia, Corea del Sud, Canada.

Sappiamo bene che in molti casi gli indici di misurazione delle performance formative, che si vorrebbero oggettivi e neutrali, non lo sono affatto, e personalmente non sono affatto un sostenitore dell’idea che un dato complesso e in parte sfuggente come quello di successo formativo, fortemente dipendente anche da precondizioni che non riguardano solo il siste-ma formativo, si possa misurare in maniera affidabile attraverso pochi indicatori e test uguali per tutti. Ma non vi è dubbio che almeno alcuni tra i dati che emergono da queste analisi abbiano un loro significato e un loro valore, se non altro indicativo, e che – soprattutto se analizzati nella loro evoluzione diacronica – permettano di delineare un quadro, anche se parziale e sommario, dei risultati delle politiche formative adottate.

Ora, sarebbe naturale aspettarsi che a punteggi assai vicini (e assai alti) corrispondano po-litiche formative e – più in generale – sistemi formativi abbastanza simili. Ma la realtà è ben diversa: sistemi formativi come quello della Finlandia o quello di Singapore sembrano esse-re entrambi assai efficaci, ma sono tra loro diversissimi. In un caso prevale l’apprendimento personalizzato, nell’altro un apprendimento fortemente standardizzato; in un caso vengo-no utilizzate risorse di apprendimento assai differenziate, nell’altro libri di testo comuni e

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soggetti ad approvazione statale; gli stessi riferimenti adottati dai due sistemi in tema di teorie dell’apprendimento sono diversissimi. Chi fosse abituato a considerare l’apprendimen-to come dipendente unicamente da metodi e contenuti, resterebbe spiazzato: pur senza pensare che il successo formativo sia necessariamente legato solo a un singolo modello, differenze così forti suggeriscono evidentemente il rilievo anche di altri fattori.

Ebbene, se si confrontano sistematicamente i sistemi formativi di maggior successo ci si accorge che solo un fattore è davvero comune: la maggior parte degli studenti dichiara di studiare volentieri. E il primo motivo di questo giudizio è legato strettamente all’ambiente in cui si svolge l’apprendimento: le scuole sono percepite come belle, funzionali e ricche di servizi (dalla piscina alla palestra, dalla mensa alla biblioteca, dalle aule e spazi comuni – di norma anche all’aperto – alle dotazioni informatiche e di rete). Inoltre, intorno ad ambienti fisici belli, funzionali e ricchi di servizi si sviluppano più facilmente ambienti relazionali al-trettanto funzionali e soddisfacenti. Una bella scuola è insomma uno dei fattori essenziali del successo formativo; anzi: sembra essere il singolo fattore più strettamente correlato al successo formativo, anche in sistemi scolastici assai diversi.Come vedremo, il concetto di ambiente di apprendimento non include solo l’organizzazione fisica degli spazi (in effetti, capiamo subito quanto sia stretto il legame tra spazi e servizi): anche l’organizzazione fisica degli spazi è importante.

Le nostre scuole sono tradizionalmente organizzate intorno a uno spazio fisico di apprendi-mento spesso poco e male curato, per lo più centrato sull’aula di classe, in genere fortemente standardizzata (e abbastanza triste) per quanto riguarda arredi e configurazione. Alle aule di classe si affiancano – se siamo fortunati – due o tre spazi laboratoriali di tipo diverso (aula in-formatica, biblioteca…), una palestra e un’aula docenti. Una bella scuola, invece, prevede una pluralità assai più ampia di luoghi da vivere: le aule non sono necessariamente solo legate alle classi, sono comunque vivaci e funzionali, e lasciano a studenti e docenti ampia libertà di movimento e di riconfigurazione degli spazi.

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Guardate le due immagini qui sopra 1: la prima delle due aule è moderna e luminosa, ma anonima e fortemente costrittiva: non consente nessuna riconfigurazione, gli studenti sono rinchiusi nei banchi, le uniche attività suggerite da questo spazio sono la lezione frontale e lo studio lean forward (vedi box di approfondimento). Nel secondo esempio l’ambiente è più caldo, l’aula è facilmente riconfigurabile per attività diverse, ci sono spazi di movimento. La seconda aula non è più lussuosa della prima (anzi, gli arredi costano di meno), ma è molto più funzionale rispetto a un ventaglio assai più ampio di attività.

Le buone pratiche internazionali suggeriscono inoltre una organizzazione degli spazi che pre-veda molte alternative ai locali di classe, anche per spezzare più frequentemente la gabbia del gruppo-classe: spazi destinati a lettura e attività lean back (in particolare nella biblioteca scolastica), spazi per lo studio in piccoli gruppi, spazi laboratoriali (non solo informatica o fisi-ca ma anche, per fare solo qualche esempio, educazione sanitaria e alimentare, laboratori di scrittura, laboratori fotografici, dibattiti e gruppi di lettura…), spazi sportivi e ricreativi (anche per attività musicali, teatrali, mostre ecc.), spazi di ristoro e mensa, spazi esterni nel verde…

In generale, nelle esperienze europee e internazionali più avanzate il concetto stesso di aula di classe è sempre più spesso messo in discussione: da un lato le aule laboratoriali discipli-nari si rivelano assai più efficaci – anche per le discipline umanistiche – e permettono una ristrutturazione collaborativa degli spazi (realizzazione di murales, personalizzazione degli arredi e delle dotazioni in funzione della disciplina insegnata); dall’altro, come si è visto, spazi più flessibili offrono maggiori occasioni per il superamento del gruppo classe e per la diffe-renziazione e l’arricchimento dello spettro di attività didattiche e di apprendimento praticate.

1 Immagini tratte da Flickr, con licenza che ne consente il riutilizzo anche commerciale: https://goo.gl/bvR4Au e https://goo.gl/sWRh5v.

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APPROFONDIMENTO: Lean Forward e Lean backPer capire come progettare gli ambienti di apprendimento è utile interrogarsi sulle situazioni concrete di

fruizione dell’informazione (non necessariamente scritta, ma anche sonora, visiva e multimediale). Pos-

siamo classificarle in qualche modo in base alle loro diverse caratteristiche? Almeno a un primo livello,

la distinzione più utile e immediata è quella tra situazioni di fruizione a) lean forward, b) lean back, c)

secondaria e d) in mobilità 1.

La fruizione lean forward è quella che si ha quando siamo protesi in avanti verso l’informazione, come

facciamo scrivendo, studiando un libro seduti alla scrivania (contemporaneamente sottolineiamo, pren-

diamo appunti…), oppure lavorando al computer. In genere è caratterizzata da un uso attivo dell’infor-

mazione: non ci limitiamo ad assorbire informazione ma la elaboriamo e modifichiamo. Ci aspettiamo

dunque contenuti informativi che si prestino a un lavoro di selezione e di elaborazione attiva, in una

situazione di fruizione che assorbe completamente la nostra attenzione.

Una situazione di questo genere permette di lavorare bene con informazione fortemente interattiva (per

esempio ipertestuale), come facciamo quando navighiamo in rete, e non è un caso che la modalità di

fruizione dei videogiochi sia anch’essa lean forward. Perfino quando usiamo, magari seduti sul divano, un

videogioco collegato allo schermo del televisore, la nostra fruizione non è distesa e rilassata: a dispetto

del divano, siamo protesi in avanti verso lo schermo, e pienamente attivi.

Nel mondo dei media digitali, la lettura o lo studio lean forward tendono a trasformarsi in quella che Derrick

De Kerckhove ha battezzato screttura, unione di lettura e scrittura 2. In maniera in parte analoga, George

Landow parla dei lettori degli ipertesti caratterizzandoli come wreaders, insieme scrittori e lettori del testo 3.

Proprio per il suo carattere fortemente attivo, la lettura lean forward richiede però soluzioni non costrit-

tive: un tavolo aperto è molto più efficace di un banco chiuso, lo spazio necessario sul tavolo può variare

in funzione delle diverse attività, in alcuni casi (per esempio attività collaborative o disegno) può essere

addirittura preferibile stare in piedi anziché seduti.

La modalità lean back è invece caratterizzata da una fruizione rilassata, appoggiati all’indietro (per

esempio, in poltrona), di una informazione che ci assorbe ma da cui possiamo lasciarci trasportare senza

1 Un’utile discussione della differenza tra situazioni di fruizione lean forward e lean back è in Giulio Lughi, Cultura dei nuovi media. Teorie, strumenti, immaginario, Guerini studio, Milano 2006, p. 168. La forma in cui utilizzo qui questa distinzione è quella già proposta (con riferimento specifico alla lettura) in Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione, Laterza, Roma-Bari 2010.

2 Cf. Derrick De Kerckhove, Biblioteche e nuovi linguaggi: come cambia la lettura, in Claudio Gamba e Maria Laula Trapletti (a cura di), Le teche della lettura: leggere in biblioteca al tempo della rete, Editrice Bibliografica, Milano 2006, pp. 23-33.

3 George Landow (ed.), Hyper/Text/Theory, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1994, p. 14. Curiosissimo e suggestivo l’errore di stampa che troviamo in Maria Teresa Di Natale, Potere di Link. Scritture e letture dalla carta ai nuovi media, Bonanno, Acireale 2009, p. 41, in cui il termine diventa «wreaters», aggiungendo alla connotazione della scrittura e della lettura quella del mangiare il testo: un’idea che ricorda la lettura per morceaux, frammenti di testo «strappati coi denti», risultato della metodologia della decomposizione applicata da Derrida al linguaggio: Cf. George Landow, Hypertext. The convergence of contemporary critical theory and technology, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1992; trad. it. Ipertesto. Il futuro della scrittura, Baskerville, Bologna 1993, p. 11, con riferimento a J. Derrida, Glas, Denoël, Paris 1974, 19822. Alle edizioni successive di questo testo di Landow avremo occasione di far riferimento in seguito.

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la necessità di interventi attivi di elaborazione e manipolazione. È il modo in cui in genere leggiamo un ro-

manzo, o guardiamo un film o un documentario. La nostra attenzione è anche in questo caso completa-

mente catturata da quel che vediamo o leggiamo, ma – finché essa resta viva – non ci è richiesto di agire

o interagire con l’informazione stessa se non a livello mentale. È solo quando l’attenzione cala – magari

perché quel che stiamo guardando non ci piace o non ci interessa – che subentra un intervento attivo

per modificare il contenuto del flusso informativo (per esempio cambiamo canale, e nel farlo spesso,

significativamente, ci protendiamo in avanti).

La fruizione lean back è quella tipica della televisione e del cinema, almeno quando stiamo guardando

qualcosa che ci interessa e che assorbe tutta la nostra attenzione. E le biblioteche hanno imparato da

tempo che occorre offrire ai propri utenti non solo sedie rigide davanti a un tavolo, ma poltrone comode

e in generale ambienti più morbidi. La creazione di ambienti morbidi e adatti al lean back è riconosciuta

oggi come una delle priorità anche nell’ambito delle biblioteche scolastiche, ma sono purtroppo ancora

pochi gli ambienti scolastici pensati tenendo conto di questa esigenza.

A volte, però, informazione che sarebbe destinata a una fruizione lean back viene invece assorbita in for-

ma di fruizione secondaria, o in background. In questo caso la nostra attenzione non è completamente

assorbita dall’informazione che riceviamo, che rappresenta per noi una sorta di background informativo

verso il quale ci rivolgiamo solo a tratti. Esempio tipico è quello, assai frequente, in cui la televisione o la

radio sono accese in una stanza in cui si chiacchiera o si stanno facendo anche altre cose.

Un’informazione spesso programmaticamente pensata in funzione di situazioni di fruizione secondaria

è quella pubblicitaria, almeno quando il suo obiettivo è – più che catturare totalmente l’attenzione del

fruitore – quello di far passare un messaggio in forma quasi inconsapevole, per esempio attraverso mec-

canismi di ripetizione (come accade nel caso di un jingle pubblicitario ben scelto). Anche la musica usata

come sottofondo per altre attività configura una tipica situazione di fruizione secondaria. Non sfuggirà

qui il collegamento tra l’idea di fruizione secondaria dell’informazione e l’idea di formazione informale:

in molti casi, situazioni di formazione informale possono essere progettate dal formatore, quasi in forma

di trappole formative, e possono essere basate su un uso sapiente di informazione destinata a una fru-

izione secondaria.

Le situazioni di fruizione secondaria sembrano moltiplicarsi anche in relazione al diffondersi di quello che

potremmo chiamare multitasking informativo: lo studente ascolta una lezione conservando in un orec-

chio l’auricolare del lettore MP3 dal quale contemporaneamente ascolta musica; leggiamo il giornale

ascoltando la radio o la televisione… In questi casi, sempre più frequenti in un mondo in cui gli strumenti

di accesso e distribuzione dell’informazione si moltiplicano incessantemente, possiamo in genere di-

stinguere un canale informativo a fruizione primaria e un canale informativo a fruizione secondaria. Ma

i confini tra le due tipologie sono labili, e la nostra attenzione può spostarsi con estrema facilità da una

fonte informativa all’altra, nel momento in cui in qualche messaggio proveniente dal canale in fruizione

secondaria supera la nostra soglia di attenzione.

Infine, le situazioni di mobilità determinano una ulteriore tipologia di uso dell’informazione. Si potrebbe

essere tentati di considerare la fruizione in mobilità come un caso particolare di fruizione secondaria,

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ma va osservato che non necessariamente l’informazione ricevuta in mobilità viene fruita in maniera

secondaria: quando ascoltiamo il lettore MP3 sull’autobus o nella metropolitana, quando leggiamo un

libro in treno, e spesso persino quando telefoniamo camminando o ascoltiamo l’autoradio in macchina,

la nostra attenzione cosciente è impegnata solo in minima parte dalle azioni richieste dalla situazione di

mobilità e può concentrarsi sul canale informativo, anche se normalmente lo fa per periodi di tempo più

brevi e più frequentemente interrotti.

È difficile sopravvalutare l’importanza di un’attenta considerazione delle situazioni di fruizione e del tipo

di attenzione impegnata 4, nell’organizzazione tanto degli spazi quanto delle modalità dell’apprendimen-

to, e più in generale sui format e sulle modalità di organizzazione e distribuzione di informazione di ogni

genere: da quella ricreativa a quella giornalistica, da quella di lavoro alla comunicazione interpersonale.

Per esempio, gli interrogativi legati allo sviluppo del video in mobilità, nei suoi vari possibili format, sono

in gran parte legati proprio al tipo di attenzione che un utente in mobilità può dedicare a contenuti vi-

deo, che impegnano direttamente non solo l’udito ma anche la vista. Questa fruizione è sicuramente da

escludere nel caso per esempio della guida, ma potrebbe funzionare, per esempio, per un viaggio in treno

o in aereo, in cui il problema è spesso proprio quello di ammazzare il tempo (non a caso gli schienali delle

poltrone d’aereo hanno ormai quasi sempre un video incorporato). Ma quali format funzionano in questi

casi? Probabilmente format molto più brevi e modulari, compatibili comunque con una situazione non

ottimale dal punto di vista dei rumori, delle distrazioni esterne ecc.

Per chiudere questo approfondimento, è evidentemente necessaria qualche considerazione sul rapporto

tra le modalità di fruizione dell’informazione appena considerate e l’organizzazione degli ambienti di

apprendimento: tanto nel progettare ambienti fisici, quanto nel progettare ambienti virtuali e strumenti

online, occorre sempre interrogarsi anche su questo fattore. Per esempio: siamo sicuri che sedie e banchi

progettati unicamente per il lean forward siano sempre la scelta migliore per ogni tipo di attività di ap-

prendimento? Se vogliamo far vedere un film o un documentario, un’aula specifica con poltroncine po-

trebbe essere assai più adatta, mentre – come si è detto – una biblioteca scolastica, così come del resto

una biblioteca di pubblica lettura, dovrebbe sempre prevedere spazi specifici per la lettura lean back. E

anche in una palestra scolastica, non solo nei centri fitness, avere anche la possibilità di diffondere un po’

di musica (o magari di ascoltare un audiolibro) potrebbe rappresentare in molte situazioni un vantaggio.

4 Le categorie fin qui considerate sono per molti versi diverse dalla celebre distinzione proposta da McLuhan (Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1995, pp. 31-42) tra media caldi (come la radio o il cinema, che estendono un unico senso fino a una alta definizione e dunque richiedono un minor lavoro di completamento attivo da parte del fruitore) e media fred-di (come il telefono e la televisione, o almeno la televisione tecnicamente assai limitata degli anni ’50 e ’60, che offrono poco e richiedono dunque un maggior lavoro di partecipazione e completamento); una distinzione che tuttavia aveva anch’essa a che fare con la considerazione del tipo di attenzione richiesta all’utente.

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Tutto questo può sembrare, nella situazione concreta di molte scuole italiane, un libro dei sogni. Ma una riconfigurazione più funzionale e accattivante degli spazi, anche in presenza di forti vin-coli, è molto spesso possibile, ed è tema che si presta benissimo ad attività di co-progettazione che coinvolgano gli studenti: diamo loro in mano una pianta della scuola e proviamo a chiedere loro suggerimenti sull’organizzazione degli spazi; in molti casi – accanto certo a soluzioni poco sensate o poco praticabili – verranno fuori anche idee interessanti e realizzabili.

1.2 Dagli ambienti fisici a quelli digitali e misti Le considerazioni fatte finora, si dirà, c’entrano assai poco con il digitale, che dovrebbe essere al centro dei nostri interessi in questa sede. Eppure, come vedremo, i collegamenti ci sono.Partiamo dal collegamento tra spazi e servizi, e pensiamo per esempio a un’aula informatica. L’aula informatica replica spesso, con poca fantasia, l’organizzazione di una tradizionale aula di classe: cattedra del docente e di fronte, in file ordinate, computer tutti uguali. È il modello della lezione frontale, riproposto pari pari anche nel caso delle nuove tecnologie.

Ma questo setting funziona solo per alcuni scopi: va benissimo, per esempio, se dobbiamo somministrare test o prove, o se serve far lavorare gli studenti in ambienti software identici e strettamente controllati. Ma se il nostro scopo è per esempio quello di gestire la redazione di un sito web o di una rivista d’istituto, o far svolgere compiti che richiedono o suggerisco-no una maggiore libertà nella scelta degli strumenti usati, quella stessa organizzazione de-gli ambienti e degli strumenti diventa poco funzionale o addirittura dannosa: molto meglio avere postazioni differenziate per funzioni e dotazioni (postazioni grafiche, postazioni per il montaggio audio-video, postazioni di scrittura, postazioni con diversi sistemi operativi e di-versi ambienti software per verificare i risultati del lavoro svolto, poltroncine per lavorare con i tablet…), magari organizzate in isole tra le quali sia facile spostarsi.

Se proviamo a considerare sotto questo punto di vista un altro dei setting tradizionali delle nostre scuole, l’aula con computer e videoproiettore, ci accorgiamo ancora una volta che l’uso delle tecnologie è spesso accompagnato da scarsissima fantasia e da poca riflessione sul design concreto delle situazioni di apprendimento. Nel 99% dei casi, infatti, il computer collegato al videoproiettore è collocato sulla scrivania del docente, e suggerisce dunque im-plicitamente un uso quasi esclusivamente legato alla lezione frontale. Eppure basterebbe un minimo di iniziativa per sperimentare soluzioni diverse: perché non pensare per esempio a un’isola con computer e videoproiettore distinta tanto dalla cattedra quanto dal resto del-la classe? Questo ne permetterebbe comunque l’uso da parte del docente in caso di lezio-ne frontale tradizionale (che il docente debba sempre far lezione dalla cattedra è un altro esempio di inutile rigidità degli spazi…), ma suggerirebbe comunque anche altri impieghi, e in particolare l’uso anche da parte degli studenti durante relazioni o interrogazioni.

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AMBIENTI DI APPRENDIMENTO TRA MONDO FISICO E MONDO DIGITALE

Considerazioni analoghe si possono fare per gli spazi virtuali delle piattaforme per l’e-learning, di cui ci occuperemo tra breve. L’allestimento di questi spazi non è certo di tipo fisico, ma – proprio come nel caso degli spazi fisici – deve essere guidato anche dalla necessità di ren-dere il più possibile piacevoli e funzionali tutti gli aspetti dell’esperienza di chi partecipa al processo di apprendimento.

Anche qui, vorrei richiamare una esperienza personale che mi ha molto colpito. Una dozzina di anni fa ho seguito il magnifico lavoro fatto da uno dei nostri migliori esperti di didattica e nuove tecnologie, Francesco Leonetti, nell’allestimento della piattaforma per il master in e-learning che dirigevo all’Università della Tuscia. La piattaforma si basava su Moodle, ma includeva diver-se espansioni e personalizzazioni selezionate o direttamente programmate da Francesco. Tra di esse, una chat integrata da un canale audio. Oggi non sarebbe nulla di innovativo – le aule virtuali sono assai diffuse e includono anche il video – ma all’epoca era un’aggiunta non banale. La nostra idea era che il canale audio potesse essere usato per trasformare la chat testuale in un’audioconferenza, che ci sembrava più funzionale e partecipativa.

Ebbene, il canale audio fu effettivamente molto apprezzato dai corsisti. Però non lo usarono affatto – come ci aspettavamo noi – per discutere anche a voce tra loro. Lo usarono invece per trasmettere musica, continuando a usare la tradizionale chat testuale per le discussioni e il lavoro collaborativo. Anziché creare una stanza con chat audio, avevamo involontariamen-te creato una stanza di chat… con jukebox!

La lezione fu duplice: da una parte – e questo avremmo dovuto saperlo – non è sempre e necessariamente vero che l’interazione vocale sia più efficace di quella scritta: anche se par-lare è più veloce che scrivere, leggere è più veloce che ascoltare; in una chat audio si deve necessariamente parlare uno alla volta, mentre in una chat testuale tutti possono scrivere (e leggere) più o meno contemporaneamente. Dall’altra, capimmo che rendere piacevole e vissuto l’ambiente virtuale è altrettanto impor-tante – se non più importante – di tanti altri aspetti. Anzi, a quel punto il jukebox fu istituzio-nalizzato: Francesco aggiunse la possibilità di scegliere e richiamare direttamente i brani audio preferiti, e lavorò per rendere giocosa anche l’interfaccia di scelta; un paio di anni dopo, il jukebox audio fu sostituito dalla possibilità di richiamare video musicali su YouTube (e lo stesso box video veniva all’occasione usato per lezioni in streaming). Non so se oggi ci siano altri corsi online che offrono sessioni di lavoro con musica, ma nel nostro caso fu una scelta assai felice. Che si affiancava peraltro alla conferenza di intervallo o caffè in cui discutere di temi non legati al corso (ottima per creare relazioni tra i parteci-panti), e a qualcosa di simile a quelli che oggi si chiamano badges, e che allora ancora non esistevano (ne parleremo in seguito).

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Insomma, anche gli ambienti virtuali richiedono una esplicita attività di design funzionale, orientato a massimizzare non solo l’efficacia e il numero dei servizi offerti e la loro facilità d’uso, ma anche la soddisfazione e il piacere che si provano nell’utilizzarli.

Naturalmente, gli ambienti virtuali utilizzati in processi di apprendimento sono diversi e di diverso genere: piattaforme per l’erogazione di corsi con tracciamento delle attività, come Moodle (piattaforme di questo tipo sono chiamate in genere Learning Management System, in sigla LMS); piattaforme-deposito dedicate in primo luogo alla gestione di contenuti di ap-prendimento (Learning Content Management System, LCMS); piattaforme dedicate all’ero-gazione di corsi MOOC (Massive Open Online Courses, ovvero corsi con un largo o larghissimo numero di partecipanti, di norma aperti e gratuiti, in cui molto spesso si rinuncia al tutorato individuale e al tracciamento degli utenti); ambienti virtuali 3D (come Second Life o EdMon-do), ma anche piattaforme non specificamente dedicate all’apprendimento, magari rivolte a tipologie specifiche di contenuti (video, audio, immagini…).

In tutti questi casi il concetto di ambiente di apprendimento non si applica solo alla piattafor-ma in sé, ma anche e soprattutto al modo in cui essa viene utilizzata, personalizzata, integrata all’interno di attività che – in particolare nel mondo della scuola – prevedono spesso anche una interazione in presenza.

Per fare un esempio abbastanza diffuso, Moodle è certo uno strumento di apprendimento, ma le caratteristiche di un ambiente di apprendimento basato sull’uso di Moodle non dipen-dono solo dalle caratteristiche specifiche di Moodle come strumento. Dipendono anche (e soprattutto) da come è configurato e utilizzato, dal template e dai plug-in installati, dalle scelte grafiche (il design grafico è – o dovrebbe essere – sempre e anche design funzionale), dalle attività che vengono previste (per esempio, dall’organizzazione e dalle tematiche dei forum), dall’integrazione con le attività in presenza, dalla struttura che viene data alle relazio-ni tra i partecipanti (come nel caso del forum intervallo già menzionato).

Sulla base di queste considerazioni – e di questi esempi – proviamo a tornare sul tema da cui eravamo partiti e che avevamo inizialmente accantonato: quello di definire il concetto di ambiente di apprendimento. Nel box qui sotto trovate la definizione che ne propone il Glossary of education reform (http://edglossary.org/learning-environment/).

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AMBIENTI DI APPRENDIMENTO TRA MONDO FISICO E MONDO DIGITALE

La definizione, come vedete, è assai ampia (e ancora più ampia è, se possibile, quella propo-sta dalla versione inglese di Wikipedia, alla pagina https://en.wikipedia.org/wiki/Learning_en-vironment), ma corrisponde credo bene a quel che emerge dalle considerazioni fatte fin qui.

Potremmo dire, provando a riassumere, che il termine ambiente di apprendimento corri-sponde all’organizzazione complessiva degli spazi – non solo fisici, ma anche virtuali e re-lazionali – nei quali l’apprendimento ha luogo. È un’organizzazione che dovrebbe essere funzionale, amichevole e piacevole. Per essere funzionale, l’organizzazione degli spazi deve rispondere alle premesse metodologiche e culturali e agli obiettivi dell’apprendimento, sfrut-tando al meglio le caratteristiche specifiche degli strumenti usati. Per essere piacevole, deve tener conto delle reazioni e delle preferenze di chi apprende, favorendone il coinvolgimento e la motivazione. Per essere amichevole deve tener conto delle abitudini e competenze pre-esistenti, preferendo le soluzioni semplici a quelle inutilmente complicate e tenendo conto anche della componente emotiva (e non solo di quella razionale) dei processi di appren-dimento, anche attraverso la capacità di il favorire e quasi coltivare la nascita di relazioni positive tra i vari soggetti coinvolti.

Definizione: learning environment Learning environment refers to the diverse physical locations, contexts, and cultures in which students

learn. Since students may learn in a wide variety of settings, such as outside-of-school locations and outdoor

environments, the term is often used as a more accurate or preferred alternative to classroom, which has

more limited and traditional connotations—a room with rows of desks and a chalkboard, for example.

The term also encompasses the culture of a school or class—its presiding ethos and characteristics,

including how individuals interact with and treat one another—as well as the ways in which teachers

may organize an educational setting to facilitate learning—e.g., by conducting classes in relevant natural

ecosystems, grouping desks in specific ways, decorating the walls with learning materials, or utilizing

audio, visual, and digital technologies. And because the qualities and characteristics of a learning

environment are determined by a wide variety of factors, school policies, governance structures, and

other features may also be considered elements of a learning environment.

Educators may also argue that learning environments have both a direct and indirect influence on

student learning, including their engagement in what is being taught, their motivation to learn, and

their sense of well-being, belonging, and personal safety. For example, learning environments filled with

sunlight and stimulating educational materials would likely be considered more conducive to learning

than drab spaces without windows or decoration, as would schools with fewer incidences of misbehavior,

disorder, bullying, and illegal activity. How adults interact with students and how students interact with

one another may also be considered aspects of a learning environment, and phrases such as positive

learning environment or negative learning environment are commonly used in reference to the social

and emotional dimensions of a school or class.

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Il concetto di ambiente di apprendimento è quindi in relazione necessaria e immediata an-che con chi abita quell’ambiente (docenti, collaboratori, studenti…), così come uno spazio urbano non è solo un ambiente fisico ma anche relazionale, e non è concepibile senza i suoi abitanti. In tal modo, l’ambiente di apprendimento contribuisce a far sì che i protagonisti del processo di apprendimento si trasformino in una comunità: un altro modo per guardare all’ambiente di apprendimento, dunque, è considerarlo come il luogo (ancora una volta fisico, ma anche virtuale e relazionale) abitato da una comunità di apprendimento e organizzato in funzione delle necessità, delle aspettative, delle caratteristiche particolari e specifiche di quella comunità.Per questi motivi, è sempre opportuno un monitoraggio analitico (e continuo) delle carat-teristiche e dell’efficacia di tutti gli ambienti di apprendimento utilizzati e delle loro carat-teristiche e dotazioni, non solo tecnologiche. Monitoraggio che può essere svolto attraverso la somministrazione periodica di questionari e attraverso incontri e discussioni specifiche, ma che dovrebbe prevedere anche la misurazione di dati oggettivi: dati relativi, per esem-pio, all’uso dei diversi strumenti, servizi e luoghi (fisici e virtuali) offerti, e alle relazioni che vi vengono instaurate (per esempio, l’uso concreto delle diverse tipologie di forum previste all’interno di una piattaforma e-learning). Queste attività dovrebbero aiutare tutti i soggetti coinvolti nel processo di apprendimento non solo a comprendere le caratteristiche, le fun-zionalità, le opportunità e i limiti degli ambienti usati, ma anche a collaborare attivamente alla loro progettazione e al loro miglioramento.

L’apertura verso modelli di apprendimento costruttivi e cooperativi non può insomma non avere conseguenze sul design e l’organizzazione degli ambienti di apprendimento al cui in-terno praticare le attività di esplorazione e costruzione collaborativa dei saperi e delle com-petenze. Il design dell’apprendimento passa necessariamente anche per il design collabora-tivo e condiviso dei suoi ambienti e dei suoi strumenti.

Suggerimento di attività: Provate a descrivere la vostra scuola e i suoi spazi, fisici e virtuali, considerati sotto il profilo della definizione

e delle considerazioni fatte finora sul concetto di ambiente di apprendimento. Quali caratteristiche di tale

ambiente vi sembrano efficaci e funzionali, e quali invece andrebbero modificate? Quali azioni o iniziative

potrebbero portare alle modifiche che vi sembrano auspicabili?

Provate poi a discuterne con colleghi e studenti, meglio se all’interno di piccoli focus group misti: quali dif-

ferenze ci sono tra il punto di vista dei docenti e quello degli studenti? Quali proposte di miglioramento

emergono? Riassumete le considerazioni e le proposte del focus group in un breve documento, magari ac-

compagnato da fotografie e filmati.

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2. COMUNITÀ DI APPRENDIMENTO: FARE E STUDIARE SOCIAL

2.1 Ambienti (fisici e virtuali) e comunità di apprendimento Abbiamo parlato fin qui soprattutto di ambienti di apprendimento, tanto fisici quanto virtuali; o, per meglio dire, abbiamo visto come gli ambienti di apprendimento siano nella maggior parte dei casi il risultato dell’interazione di componenti fisiche (come l’organizzazione degli spazi scolastici), componenti virtuali (come la tipologia e l’organizzazione delle piattaforme e degli strumenti digitali utilizzati), e componenti relazionali (in primo luogo, le forme dell’in-terazione tra i protagonisti del processo di apprendimento). È bene soffermarsi con la necessaria attenzione anche su quest’ultimo aspetto, che permet-te di introdurre un altro dei concetti fondamentali nel campo delle teorie dell’apprendimen-to: quello di comunità di apprendimento.Si è già detto che, proprio come una città non può essere progettata o descritta solo in ter-mini di luoghi fisici, così un ambiente di apprendimento non può essere efficacemente pro-gettato o descritto senza tener conto delle persone che dovranno abitarlo, delle loro carat-teristiche ed esigenze, dei loro obiettivi formativi, delle relazioni interpersonali che possono essere stabilite.

Il concetto di comunità di apprendimento è stato definito in molti modi diversi; per i nostri scopi, ci interessa sottolineare soprattutto questi tre aspetti:1. una comunità di apprendimento comprende persone che, pur con ruoli che possono es-

sere diversi, partecipano insieme e collaborativamente a un processo di apprendimento che aiuta a far crescere le conoscenze e le competenze di ciascuno, sulla base non solo di obiettivi individuali ma anche di strategie e obiettivi comuni e condivisi;

2. una comunità di apprendimento è sempre legata all’uso di ambienti di apprendimen-to condivisi, per quanto possibile costruiti collaborativamente; la progettazione di tali ambienti (fisici, virtuali, relazionali) avviene anche in funzione delle caratteristiche, delle necessità, degli interessi, degli obiettivi individuali e collettivi delle comunità di apprendi-mento che li abitano;

3. le comunità di apprendimento sviluppano al loro interno dinamiche relazionali (auspica-bilmente collaborative e cooperative, ma talvolta anche competitive o conflittuali) di cui è opportuno essere consapevoli e che è necessario saper gestire, sia attraverso scelte, mo-difiche, personalizzazioni degli strumenti e degli ambienti di apprendimento utilizzati, sia attraverso una definizione funzionale dei ruoli. In alcuni casi questi ruoli sono differenziati in partenza, in altri nascono nel corso del processo di apprendimento; è bene comunque evitare ruoli troppo rigidi, e favorirne un’evoluzione il più possibile dinamica e flessibile; così,

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per esempio, se i ruoli di insegnante e discente sono e devono essere comunque diversi, in un processo di apprendimento cooperativo e nell’uso di forme di peer-education anche questi ruoli possono essere messi in gioco e talvolta utilmente capovolti.

La gestione positiva dei diversi ruoli è un aspetto centrale nell’efficacia delle comunità di apprendimento: anche per questo, è importante che quando ci sono ruoli definiti (non solo docente e studente, ma anche, per esempio, relatore su un certo tema, coordinatore di un gruppo di lavoro, responsabile della grafica, ecc.) questi ruoli siano riconosciuti e riconoscibi-li, e nel contempo, quando possibile, esercitati a rotazione. Sappiamo per esempio che in certi tipi di dibattito o di gioco educativo era tradizionalmente usato un cappello particolare, da far girare per designare di volta in volta chi ha la responsabilità di parlare o di guidare un’at-tività; nella mia scuola elementare – fine anni ’60 del secolo scorso… – al bibliotecario (ruolo svolto a rotazione e che implicava la responsabilità della gestione della piccola biblioteca di classe, già all’epoca in un certo senso virtuale, perché realizzata chiedendo a ogni studente una scheda relativa al libro preferito e la disponibilità a prestarlo agli altri) spettava una coc-carda verde con un libro stilizzato. Ebbene, negli ambienti digitali è possibile rappresentare, differenziare e moltiplicare i diversi ruoli, per esempio attraverso l’uso di avatar o bollini spe-cifici. Lo svolgimento collaborativo di un project work rappresenta un esempio perfetto per distribuire ruoli e responsabilità, in modo che ciascun partecipante abbia un suo compito (associato a responsabilità e riconoscimento, e legato alle sue particolari inclinazioni e ai suoi interessi specifici).Le strategie utilizzate per attribuire ruoli possono variare: la scelta più ovvia è di basarsi su inclinazioni, interessi e competenze, ma a volte può essere utile capovolgere questo crite-rio o affiancare in una determinata responsabilità studentesse e studenti con maggiori e minori competenze specifiche, con l’obiettivo di favorire un percorso di peer-tutoring. L’uso di strumenti online suggerisce anche il riconoscimento di figure specifiche: in particolare, è essenziale riconoscere e assegnare la funzione di documentare le attività svolte all’interno di un determinato progetto, identificando gli strumenti migliori per farlo (il log-book o diario di progetto non deve essere necessariamente solo testuale: in molti casi può includere anche immagini, video ecc.).Anche grazie a una gestione flessibile e dinamica dei ruoli interni, molte comunità di appren-dimento possono (e dovrebbero) trasformarsi progressivamente in comunità di pratica 2,

2 Comunità di pratica: Il concetto di comunità di pratica deriva da una proposta dell’antropologo e studioso di teorie cognitive Jean Lave e – soprattutto – del teorico dell’educazione Etienne Wenger, che nel 1998 ha dedicato al tema un testo assai influente (Etienne Wenger, Communities of Practice: Learning, Meaning, and Identity. Cambridge University Press, Cambridge 1998, trad. it. Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006). Per una presentazione generale di questo concetto è possibile far riferimento alla sintesi contenuta in Etienne e Beverly Wenger-Trayner, Introduction to Communities of Practice, 2015, online alla pagina http://wenger-trayner.com/introduction-to-communities-of-practice/, nonché alle voci Comunità di pratica su Wikipedia italiana (https://it.wikipedia.org/wiki/Comuni-t%C3%A0_di_pratica) e Community of practice su Wikipedia inglese (https://en.wikipedia.org/wiki/Community_of_practice).

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che affiancano o sostituiscono a strutture e ruoli più rigidamente definiti (e al primato della formazione formale) tipologie di apprendimento cooperativo e informale legato a compe-tenze, interessi e attività comuni. Nel contesto della scuola, il passaggio da comunità di ap-prendimento fortemente strutturate a comunità di pratica non è sempre facile, ma almeno in alcuni casi dovrebbe essere attivamente cercato e favorito. Pensiamo per esempio alla realizzazione di giornali o blog di classe o di progetto, a progetti legati all’uso di audio o video, alla promozione della lettura attraverso la costituzione di gruppi di lettura, alla progettazione di esperimenti o attività, alla pratica del debate, alla simulazione d’impresa…

Come è facile capire, sono proprio molte attività legate al mondo del digitale e dell’online a poter favorire la creazione di comunità di apprendimento anche diverse dal gruppo classe, e maggiormente orientate in direzione delle comunità di pratica. La gestione efficace di questi processi, anche attraverso la progettazione di ambienti di apprendimento adegua-ti, costituisce sicuramente una delle sfide e insieme delle prospettive più interessanti nate dall’incontro tra scuola e media digitali.

2.2 Dalle comunità di apprendimento ai social networkCome abbiamo visto, le comunità di apprendimento (e le comunità di pratica) costituiscono l’ambiente relazionale – a sua volta profondamente radicato negli ambienti fisici e virtuali – al cui interno si svolge l’apprendimento. E se consideriamo la pervasività dell’ecosistema comunicativo digitale ci rendiamo facilmente conto di come ormai di fatto non esista più un apprendimento puramente offline. Che ci piaccia o no, anche nella più tradizionale delle scuole, in aule uguali a quelle di vent’anni fa, svolgendo le stesse attività di vent’anni fa, lo smartphone in mano ai nostri studenti (e in mano nostra) spezza ogni illusione di continuità. E lo smartphone è solo un elemento – anche se probabilmente il più importante – di una re-altà complessa che comprende la disponibilità diffusa delle connessioni alla rete, il passaggio generalizzato alla scrittura digitale (davanti al quale il foglio e la penna dei compiti in classe sembrano un curioso reperto archeologico), la nuova centralità delle immagini, l’universo relazionale rappresentato dai social network… Le comunità di apprendimento si muovono ormai comunque e naturalmente in un ecosistema ibrido, in cui la dimensione della comuni-cazione digitale e delle risorse di rete è sempre presente.

Prendere coscienza di questa situazione è – per un educatore – condizione imprescindibile per la più efficace progettazione tanto dell’insegnamento quanto dell’apprendimento. An-cora dieci anni fa poteva aver senso distinguere e separare apprendimento in presenza, ap-prendimento a distanza e l’integrazione delle due pratiche nel cosiddetto blended learning. Oggi, di fatto, l’apprendimento è in certa misura sempre e comunque blended: dovremo do-sare il peso delle varie attività e gli strumenti utilizzati in funzione delle necessità e delle possibilità, ma ignorare la componente rappresentata dagli ambienti e dalle piattaforme di

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interazione online costituirebbe un errore sia pratico sia teorico dalle conseguenze assai pesanti sull’efficacia del sistema formativo. In che modo, e attraverso quali strumenti, riconfigurare le pratiche didattiche e formative, le metodologie, gli strumenti, le forme dell’apprendimento? Intorno a questo interrogativo si muovono in buona sostanza tutti i moduli del nostro corso. In questa sezione, lo affronteremo con riferimento a uno degli elementi specifici più innovativi – e più pervasivi – dell’ecosiste-ma della comunicazione digitale: i social network.

2.3 Vita da comunità online: ruoli, attività collaborative, social e privacy

Come già evidenziato in precedenza, l’apprendimento in rete può porsi, concettualmente e praticamente, come l’occasione per allargare e potenziare un’attività che è sempre stata sociale e basata sullo scambio, sulla condivisione: la vita in classe, i compagni, i trucchi per collaborare senza che il professore se ne accorga, fare i compiti assieme, chiedere aiuto al compagno più bravo… Tutto questo, anche focalizzandoci solo sulla vecchia scuola analogi-ca, è fortemente incentrato sulla nascita e sull’evoluzione di rapporti tra individui. Tutti noi, anche di generazioni non proprio giovanissime, ne siamo i testimoni.

L’introduzione della rete, la possibilità di appoggiarsi ad ambienti virtuali, e quindi di ampliare (nello spazio e nel tempo) gli ambienti di apprendimento, facilitano e potenziano a dismisura l’aspetto sociale del fare e dello stare a scuola, anche perché il fattore su cui concentrare la nostra attenzione 8che può porsi al contempo come inizio di un ragionamento, ma anche come il più ambizioso degli obiettivi) è il piacere di apprendere.Se è vero che indipendentemente dall’approccio e dalle varie scuole di pensiero, o addirittura di modelli scolastici, il successo formativo si registra soprattutto laddove gli alunni mostrano piacere nell’andare a scuola, ecco che proprio questo piacere di apprendere deve porsi alla nostra attenzione come propellente insostituibile per la costruzione di un Sistema Educativo di buon livello. In questo senso, ambienti e comunità virtuali possono rappresentare un’arma di partecipazione, coinvolgimento e motivazione potentissima.

C’è però da precisare che la nascita, lo sviluppo e la diffusione delle applicazioni e degli am-bienti social è, al netto delle storie da film e dagli afflati poetici assai lontani dalla realtà, le-gata a dinamiche puramente aziendali (tutte le piattaforme social oggi in auge fanno capo a fiorenti società che, in quanto tali, hanno il legittimo e unico obiettivo di fatturare e far soldi). Sono dinamiche che non sempre si sposano in maniera perfetta con i processi di apprendi-mento e le necessità di allievi e docenti. Questo non vuol dire che non abbia senso usare applicazioni come Facebook e Twitter in ambiti strettamente didattici, crediamo anzi che uno dei compiti della scuola sia quello di

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riappropriarsi del suo ruolo guida senza demonizzare ciò che è sempre stato considerato alieno (ma non per questo a ragione).È tradizionalmente grande la distanza tra scuola e mondo produttivo e imprenditoriale, ma come può essa posizionarsi – quasi per definizione - lontano dal mondo del quale dovrebbe fornire il libretto d’istruzioni, non avvicinando i nostri ragazzi ai meccanismi economici/tec-nologici/sociali con cui tutti loro dovranno presto o tardi misurarsi?

Attenzione, questo non vuol dire conformarsi in maniera passiva, la forza di un cittadino del ventunesimo secolo risiede nella sua libertà di pensiero e nella sua capacità di esercitare in maniera autonoma questo potere. Nulla di male quindi nel criticare un modello sperando di poterlo poi cambiare… Ma per criticare bisogna conoscere, e anche bene, ciò che si vor-rebbe migliorare. Ben venga quindi il tentativo di superare approcci e modelli che si riten-gono non consoni, ma questo deve necessariamente passare attraverso approfondite fasi di. Questo vale per i modelli economici, per i nuovi strumenti digitali che stanno letteralmente cambiando – in pochi anni - la nostra vita, e per i nuovi mestieri (basati proprio sulla nascita e il proliferare di questi strumenti) che sempre di più promettono (o minacciano) di sostituire quelli considerati vecchi e desueti.

Oggi l’economia non è più fondata sulla costruzione delle cose (fabbriche, industrie, arti-gianato), quanto sulla diffusione e sull’utilizzo delle informazioni (social network, big data, Internet delle cose…). Anche andando a monetizzare il valore delle grandi aziende ICT, Facebook in primis, ci si accorge che il potere economico è e sarà sempre di più nelle mani di chi ha saputo anticipare e prevedere mode e modelli, e ha saputo modificare prima degli altri la propria vision aziendale, proponendo prodotti virtuali di massa per cui la massa nulla deve pagare. Non sembri un paradosso, perché è questo è il modello di funzionamento di tutti i social network, nei quali gli utenti (cioè coloro che credono di essere gli utilizzatori di un prodotto gratuito) non sempre comprendono di essere essi stessi il prodotto: sono loro in prima persona a fornire ai gestori dei social network i dati personali che da questi ultimi verranno prontamente monetizzati. È un meccanismo potente, pervasivo e lecito, anche per-ché tutti gli utenti di un qualsiasi servizio web, prima di diventare tali dichiarano di aver letto (pur non avendolo mai fatto) la contrattualistica che disciplina il rapporto fornitore-utente, ed è anche un meccanismo che oggi genera molti più posti di lavoro di quanto succedeva in passato con le fabbriche e le grandi industrie.

Basti pensare che Facebook, come azienda, oggi vale otto volte l’American Airlines (la più antica e grande compagnia aerea degli USA), per capire come tutto ciò sia vero, oltre che irreversibile… Piaccia o meno.La scuola dovrebbe favorire l’accrescimento culturale di tutti i suoi allievi, magari evitando – per esempio – di proporre come obiettivo il conseguimento di competenze appartenenti

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a profili professionali scomparsi da anni, o di adottare libri di testo scritti più di dieci anni or sono, nei quali si studia – stancamente ed esclusivamente – il funzionamento delle aziende di vent’anni fa.

Come si può, in questi casi non certo virtuosi, deplorare la scarsa propensione allo studio da parte dei nostri allievi e denunciare la perdita di autorevolezza dell’intero Sistema Scuola? Noi, al loro posto, faremmo altrettanto: ci lamenteremmo di quello che ci apparirebbe inutile, e cercheremmo tutte le scappatoie per fuggire da un’istituzione incapace di farci percepire anche il minimo concreto valore.Inoltre non va dimenticato che proprio questi nuovi strumenti digitali, molti dei quali basati su dinamiche sociali, sono proprio quelli che oggi i nostri ragazzi già utilizzano, in maniera for-se inconsapevolmente massiccia e totalizzante. Quanti dei nostri allievi non hanno un profilo su Facebook? Quanti di loro non comunicano utilizzando WhatsApp? Forse, provare ad allontanare i nostri allievi dalle comunità virtuali che siamo istintivamente portati a temere non fa altro che aumentare il rischio che essi corrono, visto che alla fine il pericolo deriva dalla non conoscenza!

Forse è vero che in passato la scuola era considerata un’isola felice, lontana dalle storture del mondo reale, ma è altrettanto vero che oggi questo modello isolazionista genera solo allievi che utilizzano comunque i social network, ma senza mai aver avuto alcuna guida, inconsa-pevoli quindi dei rischi che si possono trovare in rete, e privi delle competenze digitali che qualsiasi professione richiede già da oggi. La scuola deve servire a sfatare i miti non a rafforzarli, a smontare i pregiudizi non ad alimen-tarli e a imparare a pensare autonomamente.

La varietà di ambienti virtuali oggi presente in rete è davvero enorme, e si traduce in una gran quantità di applicazioni concorrenti, ma anche in una grande diversità di obiettivi specifici e modalità di utilizzo. In generale ha senso parlare di comunità virtuale laddove, grazie all’utiliz-zo della rete Internet o del web 3, si vengono a formare delle aggregazioni sociali nelle quali gli individui che ne fanno parte (in numero rilevante) intrattengono conversazioni online per un periodo di tempo, e con livelli di partecipazione tali da far nascere reti di relazioni personali 4. Il tutto avviene esclusivamente grazie alla rete, vista come media aggregatore, e indipen-dentemente da qualsivoglia tipologia di confine (geografico, politico, culturale, economico).

3 Sia ben chiara la differenza tra Internet e il web: Internet è la rete globale ad accesso pubblico che connette vari dispositivi in tutto il mondo, e si identifica quindi nella totalità dei computer e delle reti di computer interconnesse tra loro. Il web è invece uno dei servizi offerti da Internet, ed è l’insieme delle risorse (testuali e multimediali) presenti su tutti i siti e tutte le pagine web, collegati tra loro mediante il meccanismo dell’ipertesto.

4 Howard Rheingold. The Virtual Community. Homesteading on the Electronic Frontier, Addison-Wesley, 1993.

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Volendo abbozzare una classificazione delle comunità virtuali online possiamo certamente far riferimento alle diverse modalità di interazione che esse rendono possibili:• interazione sincrona: tutto avviene in tempo reale, per cui serve la presenza contempora-

nea degli utenti coinvolti dall’interazione tramite sistemi di messaggistica testuale (chat), audio o video;

• interazione asincrona: la comunicazione avviene in tempi differiti e gli utenti coinvolti possono non essere collegati in contemporanea (email, bacheche elettroniche ecc.).

Ma possiamo anche far riferimento ai diversi modelli comunicativi che tali comunità sono in grado di supportare e promuovere:• one to one: comunità basate sull’interazione (testuale, audio, video…) uno a uno, tra due

individui membri della comunità;• many to many: permette a uno o a più membri della comunità di interagire (secondo

svariate dinamiche e regole) con più individui anch’essi membri della comunità.

Tra le svariate tipologie di comunità virtuali possiamo evidenziarne alcune che forse risultano le più utilizzate come tipologia e come modalità di interazione tra i membri, nonché partico-larmente utili ai fini del loro utilizzo in classe (e fuori): • forum di discussione: è uno strumento asincrono, dove discussioni e risposte da parte

dei membri non seguono il realtime. È utile per fornire supporto agli utenti su argomenti tecnologici o per raccogliere opinioni e suggerimenti sugli argomenti più vari…;

• newsgroup (gruppo di discussione): è anch’esso uno strumento asincrono e non molto diverso dal forum;

• mailing list: è un metodo di comunicazione unidirezionale e si concretizza nella ricezione da parte dei membri di messaggi email;

• chat: come già detto è un media essenzialmente sincrono, e permette la nascita di di-scussioni tra due o più membri;

• messaggistica istantanea (instant messaging): non è molto diversa dalla chat, ma ha spesso molte funzionalità in più, tra cui la possibilità di avviare chiamate audio o video, e supporta anche la modalità asincrona;

• wiki: è un esempio molto interessante di comunità virtuale, nella quale tutti gli utenti sono chiamati a creare in modalità collaborativa documenti che verranno pubblicati sul web. In questa modalità operativa, tutti possono svolgere le stesse tipologie di attività, senza distinzione di ruoli e tutti partecipano indistintamente alla nascita e alla raccolta dei do-cumenti. L’esempio più conosciuto di Wiki è Wikipedia 5, della quale si parlerà ampiamente in seguito;

5 Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale.

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• blog: è una sorta di sito web, in cui il gestore (il blogger) pubblica periodicamente dei messaggi (testuali o multimediali) che vengono visualizzati da tutti gli utenti che vi si collegano o che si iscrivono a esso, generalmente in ordine di pubblicazione inverso par-tendo dal contributo più recente. È una sorta di diario sui più svariati argomenti, con però la possibilità da parte dei membri di commentare e di avviare discussioni asincrone sugli argomenti proposti dal blogger;

• social network: sono strumenti in grado di creare reti sociali tra individui, che dal mo-mento dell’iscrizione (quasi sempre gratuita) sono in grado di pubblicare testi, immagini e video a beneficio degli altri membri della comunità. Twitter e Facebook sono forse i social network più conosciuti.

Questa classificazione è ovviamente da considerarsi come indicativa. La disponibilità gratuita di questi strumenti e l’elevato numero di attività che le comunità virtuali permettono di implementare rappresentano il vero salto qualitativo tra il cosiddetto web 1.0 (utente visto essenzialmente come fruitore del messaggio) e web 2.0 (utente autore e fruitore allo stesso tempo). Il web 2.0 si pone alla base della cosiddetta Terza rivoluzione industriale e dei cambiamenti epocali che stanno continuamente riscrivendo il nostro modo di vivere, comunicare e di apprendere.Sotto quest’ottica, l’adozione ragionata di tali strumenti e il loro inserimento negli ambienti di apprendimento è uno degli orizzonti didattici da esplorare con maggiore convinzione ed entusiasmo. Si pone come un filo rosso in grado di connettere concretamente scuola e so-cietà civile, e rappresenta un’occasione irripetibile per ridisegnare il rapporto tra istituzione scolastica e allievi, avvicinando due mondi troppo spesso visti da ambo le parti come distanti e inconciliabili, magari passando attraverso un serio percorso di adattamento e destruttura-zione dei rispettivi ruoli.

Sì, perché la definizione stessa di comunità virtuale ha come conseguenza diretta la distru-zione e la successiva ricostruzione dei confini fisici del singolo individuo e del suo rapporto con la nuova idea di comunità. Questa in tempi relativamente brevi passa da concetti ben stratificati come quello di famiglia, classe o comitiva a un nuovo mondo legato alla presenza virtuale di chi online si trova a costruire rapporti con persone che mai avrebbe potuto co-noscere altrimenti, o a gestire attività prima limitate ad ambienti ristretti nello spazio e nel tempo.

Ma anche il rapporto che ciascuno di noi ha con se stesso è messo in discussione e de-strutturato: le comunità virtuali tendono a ridisegnare anche la percezione del nostro stesso io, che talvolta trova nella nebbia della virtualità una buona occasione per affermarsi, pur restando fisicamente nascosto tra sedia e tastiera. Tendenzialmente si registra una riduzione

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del livello di inibizione 6, ci si sente protetti dalla lontananza fisica e spesso anche la condizio-ne di subordinazione di fronte a persone di livello gerarchico superiore risulta affievolita. Per i nostri allievi, introdotti all’uso di ambienti virtuali assieme al (o ai) docente(i) potrebbe essere questa una buona occasione per affrontare e superare remore e timidezze che, in classe, spesso limitano le loro performance.

C’è anche da evidenziare che, in molti casi, le comunità virtuali sono basate esclusivamente sulla comunicazione testuale: basti pensare a sistemi di messaggistica come WhatsApp, il cui utilizzo prevalente è proprio quello di chat testuale, in modalità one to one o di gruppo. Questa egemonia del testo rende ancora più opportuna e interessante una riflessione su come l’uso delle parole abbia subito delle mutazioni, portando i membri delle comunità vir-tuali a usare parole vecchie con significati e accezioni nuovi, ma anche favorendo l’introdu-zione di neologismi fortemente, anzi esclusivamente legati alle realtà e alle dinamiche che solo in rete si possono riscontrare.

Lo stesso concetto di comunità, come appena visto, si è andato modificando; oggi quando si utilizza questo termine, quasi automaticamente si fa riferimento alle comunità virtuali e a come essere proliferano grazie ai social network, e il pensiero va ai gruppi di WhatsApp o di Facebook, o ai followers (seguaci) di Twitter.Pensiamo inoltre a parole da sempre molto utilizzate con un significato preciso e forte, come amico che contiene al suo interno la radice del verbo amare, e a come un social network come Facebook (che chiama amici i contatti dei membri della comunità virtuale) abbia contribuito a modificarne profondamente il significato, allargandone e sfumandone l’area semantica.• Pre-Facebook: amico è chi risulta legato da un sentimento di vivo e scambievole affetto

(tra due o più persone), ispirato in genere da affinità di sentimenti e da reciproca stima 7.• Post-Facebook: amico è un membro della comunità che ha chiesto, e ottenuto, di entrare

in contatto con un altro membro; persone a volte mai viste e conosciute, con cui scam-biare fotografie e delle quali leggere le opinioni quando le pubblicano nella loro bacheca.

Naturalmente non è questo il luogo per dare giudizi etici o morali sui cambiamenti portati dai social network in particolare e in generale dalle comunità virtuali; quel che si vuole eviden-ziare è il peso di questi cambiamenti: sono direttamente proporzionali allo sforzo che l’intera comunità scolastica deve esercitare per non restare avulsa da tali spinte evolutive e per non

6 Il paradosso di Internet Kraut, R. E., Patterson, M., Lundmark, V., Kiesler, S., Mukhopadhyay, T., & Scherlis, W., Internet paradox: A social technology that reduces social involvement and psychological well-being?, American Psychologist, 53, (9), 1998.

7 http://www.treccani.it/vocabolario/amico/ - http://www.treccani.it/vocabolario/amicizia/.

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aumentare quindi il gap già troppo elevato con la società civile, culturale, economica e pro-duttiva, e la distanza con i nostri ragazzi. Nel frattempo, a causa della oggettiva limitazione imposta dalla modalità solo testo, inizia-no ad affermarsi modalità alternative di comunicazione, in grado di arricchire il testo puro per trasmettere, oltre alle parole, anche gli stati d’animo o comunque delle componenti extra-verbali: nascono le emoticons (Emoji). Sono le cosiddette faccine, che sembra siano state utilizzate per la prima volta nel settembre del 1982 dall’informativo statunitense Scott Fahlman. Il loro utilizzo è oggi talmente diffuso che addirittura esiste una codifica UNICODE 8 che di fatto ne standardizza l’uso.

Ma, facendo un altro passo avanti, le comunità virtuali sono state così forti da modificare il significato di parole importanti e molto usate, e da inventare rimedi alla comunicazione solo testuale. Ma in più la loro pervasività ha addirittura permesso la nascita di nuovi vocaboli, al-cuni legati al gergo tecnico, altri considerabili delle vere e proprie invenzioni linguistiche: ter-mini come taggare (etichettare) o bannare (espellete) nascono come estensione del verbo inglese il cui significato identifica l’azione (to tag, to ban…), mentre parole completamente nuove come webete (utilizzata dal giornalista Enrico Mentana nel 2016 per stigmatizzare il comportamento di un membro di Twitter, in realtà inserita nel 2003 dal matematico Maurizio Codogno nel suo Gergo Telematico 9) mostrano come dietro la totalità di tutte le comunità virtuali – in Italia come nel resto del mondo – vi sia una grande vitalità, anche intellettuale, costituita dalla somma logica delle intelligenze di tutti gli individui che ne fanno parte. Si tratta di una grande ricchezza e varietà di idee, opinioni, modi di vedere le cose e di pensa-re, un gigantesco melting pot, un vero e proprio crogiuolo culturale in continuo movimento, in cui tutti hanno la possibilità di confrontarsi e di rispecchiarsi, dando il loro contributo e giovandosi del contributo degli altri membri. È un modello virtuale di società ben più che democratica, idealmente basata sulla totale libertà di espressione e sulla libera partecipa-zione da parte di tutti i suoi membri, i quali – di contro – sono anche liberi di fornire contributi negativi e distruttivi.

Ma questa è la conseguenza inevitabile del nuovo grado di libertà che le comunità virtuali regalano (letteralmente) a tutti i loro membri: si entra gratuitamente per il piacere di con-frontarsi e di conoscere nuove persone, ci si ritrova davanti a una specie di tela bianca sulla quale si è liberi di disegnare, con qualsiasi colore, e di dar forma collettivamente a un ag-gregato in grado di valicare tutti i confini culturali, linguistici, religiosi, economici, sociali, nel quale è possibile tutto e il suo contrario.

8 UNICODE: http://www.unicode.org/charts/PDF/U1F600.pdf.

9 Gergo Telematico: http://xmau.com/gergo/w.html.

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Vediamo un nuovo grado di libertà, dicevamo, fondato sulla libertà quasi incontrollata e in-controllabile, sulla semplicità e sulla deresponsabilizzazione, davanti al quale serve consape-volezza e la voglia di arricchire l’intera comunità con contributi fondati sulla responsabilità (autoriale e morale) e sul recupero della complessità come valore basilare di ogni cultura non degenere.

Come già evidenziato in precedenza, tutte queste destrutturazioni hanno un impatto notevo-le sulla vita di ciascuno di noi, e possono assumere caratteristiche e presentare conseguenze potenzialmente distruttive (se non gestite da una personalità in grado di riadattarsi a realtà nuove). Ma possono anche generare effetti estremamente interessanti ed esiti virtuosi da un punto di vista strettamente didattico, se orientate alla rimodulazione intenzionale e consa-pevole di un ambiente di apprendimento.

La libertà assoluta concessa da una comunità virtuale va, soprattutto in ambito scolastico, gestita in qualche modo. Ma gestire non vuol dire ingabbiare, semmai coincide col ten-tativo di cercare e trovare il giusto compromesso tra autonomia individuale e buon senso comune, delineando – magari in maniera non troppo statica – il confine tra collaborazione e cheating 10, tra team working e copia&incolla. La sfida cioè, è lasciare a ciascun allievo la possibilità di esprimersi liberamente e di collaborare con gli altri compagni di classe e con i docenti, senza che tutto questo possa rallentare e ostacolare gli obiettivi di apprendimento, la cui gestione deve sempre e comunque restare saldamente nelle mani del Consiglio di Classe e del docente.

Il rischio è la trasformazione di uno strumento potenzialmente facilitante per i processi di apprendimento in una fonte di problemi e complicazioni di ogni genere. Ecco perché, quan-do si parla di comunità virtuali, è estremamente importante parlare anche di regole e ruoli, che – in pieno approccio social – avranno un’efficacia maggiore se anche il loro processo di definizione verrà condiviso con gli allievi. Non sembri strano, ma – anche nelle comunità virtuali – i nostri ragazzi apprezzano il ruolo del docente che riesce a porsi senza imporsi e a guidare con autorevolezza senza abusare dell’autorità che deriva dal suo ruolo istituzionale.

Volendo fornire delle semplici linee guida, una comunità virtuale avente finalità squisitamen-te didattiche dovrà essere costruita (indipendentemente dallo strumento utilizzato) ricor-dando che:• è indispensabile la definizione di una strategia ben chiara, definita e condivisa con l’intero

Consiglio di Classe e naturalmente con la dirigenza;

10 Cheating: dall’inglese, letteralmente: imbroglio.

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• non sono gli strumenti a fare comunità, ma i suoi membri: bisogna sempre focalizzare l’attenzione sulle reali necessità degli studenti e degli insegnanti coinvolti;

• la presenza di linee guida (possibilmente create con il contributo di tutti i membri, e non calate dall’alto) è uno dei fattori chiave;

• uno dei pilastri delle comunità virtuali è la fiducia: tra docenti e allievi deve potersi instau-rare un’interazione basata sulla fiducia reciproca, in grado di cementare le attività;

• coinvolgimento continuo e riconoscimento pubblico (all’interno della comunità) in pre-senza di progressi e buoni risultati raggiunti dai membri sono fattori essenziali.

La scuola è chiamata oggi più che mai a dare il suo contributo di libertà e di responsabilità, e deve orientare la sua azione alla valorizzazione delle enormi potenzialità di queste comunità che possono davvero rappresentare un’occasione di riscatto per individui e interi popoli, ma anche rivelarsi portatrici di nuove forme di disagio e oppressione.

APPROFONDIMENTO: Bring Your Own DeviceTra le motivazioni più frequentemente addotte per giustificare la resistenza da parte di istituzioni scola-

stiche e singoli docenti a cambiare prospettiva è la Direttiva del Ministro dell’Istruzione datata 15 marzo

2007 1, contenente linee di indirizzo e indicazioni in materia di utilizzo di telefoni cellulari durante l’attività

didattica, nella quale si vieta espressamente l’utilizzo dei telefoni cellulari da parte di alunni e docenti. La

Direttiva recitava testualmente:

«In via preliminare, è del tutto evidente che il divieto di utilizzo del cellulare durante le ore di lezione risponda a una generale norma di correttezza che, peraltro, trova una sua codificazione formale nei doveri indicati nello Statuto delle studentesse e degli studenti, di cui al D.P.R. 24 giugno 1998, n. 249. In tali circostanze, l’uso del cel-lulare e di altri dispositivi elettronici rappresenta un elemento di distrazione sia per chi lo usa che per i compagni, oltre che una grave mancanza di rispetto per il docente configurando, pertanto, un’infrazione disciplinare san-zionabile attraverso provvedimenti orientati non solo a prevenire e scoraggiare tali comportamenti ma anche, secondo una logica educativa propria dell’istituzione scolastica, a stimolare nello studente la consapevolezza del disvalore dei medesimi.»

E ancora…

«Il divieto di utilizzare telefoni cellulari durante lo svolgimento di attività di insegnamento - apprendimento, del resto, opera anche nei confronti del personale docente (cfr. Circolare n. 362 del 25 agosto 1998), in considera-zione dei doveri derivanti dal CCNL vigente e dalla necessità di assicurare all’interno della comunità scolastica

1 https://archivio.pubblica.istruzione.it/normativa/2007/allegati/prot30_07.pdf.

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le migliori condizioni per uno svolgimento sereno ed efficace delle attività didattiche, unitamente all’esigenza educativa di offrire ai discenti un modello di riferimento esemplare da parte degli adulti.»

Si tratta di un punto fermo che ha condizionato, dobbiamo ammetterlo, la transizione verso il digitale,

anche considerando che nel 2007 parlare di didattica digitale era molto più pionieristico di quanto non

lo sia oggi; bisogna anche evidenziare che nella direttiva si parla espressamente di telefoni cellulari, ma

non di tablet o di altre tipologie di dispositivi fissi o mobili. Da ciò potremmo dedurre lo spirito e l’obiettivo

della direttiva, che vieta l’uso dei telefoni cellulari non in quanto smartphone (in grado quindi di collegarsi

alla rete Internet e di fruire di siti e servizi web, anche didattici) ma in quanto telefoni, in grado di arrecare

disturbo al regolare andamento delle lezioni. Tale interpretazione sembrerebbe suffragata dall’introdu-

zione di un documento importante e ambizioso come il Piano Nazionale per la Scuola Digitale 2 soprattut-

to se facciamo riferimento all’Azione #6 – Politiche attive per il BYOD (Bring Your Own Device) 3:

«Le disposizioni finora adottate (tra cui la Direttiva del Ministro del 15.3.2007, Linee di indirizzo e indicazioni in materia di utilizzo di “telefoni cellulari”) con cui si disciplina l’utilizzo di dispositivi personali durante le attività didattiche hanno affrontato spesso in modo troppo drastico la questione, generalmente chiudendo a ogni pos-sibilità di uso misto, senza discriminare tra il fascio di attività potenzialmente svolte nell’ambiente scolastico. A tale scopo, il MIUR, in collaborazione con AGID e il Garante per la Privacy, svilupperà apposite linee guida in aggiornamento delle attuali disposizioni, per promuovere il Bring Your Own Device, con standard e pratiche chia-re, identificando i possibili usi misti dei dispositivi privati nella pluralità di attività scolastiche, che vanno dalla compilazione del registro elettronico alla partecipazione alle attività progettuali tra studenti e docenti.»

Si tratta di un passaggio importante, all’interno di una misura che lo studio dell’approccio BYOD e quindi

la possibilità di utilizzare in classe anche gli smartphone degli studenti, aprendo la strada a una serie di

misure future in questo senso.

2 http://www.istruzione.it/scuola_digitale/index.shtml.3 http://schoolkit.istruzione.it/pnsd/azione-6-politiche-attive-byod-bring-your-own-device/.

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3. PIATTAFORME DIVERSE PER SCOPI DIVERSI3.1 Tipologie e uso delle piattaforme online per la gestione dell’apprendimento

Abbiamo già avuto occasione di ricordare alcune tra le principali tipologie di piattaforme online per la gestione di attività e contenuti di apprendimento. Proviamo adesso a consi-derare questo mondo in maniera più sistematica, partendo da una distinzione che, come sarà chiaro da quanto detto finora – è certo un po’ (anzi, molto) astratta e riguarda concetti comunque strettamente correlati, ma può comunque aiutare in uno sforzo di sistematizza-zione: la distinzione tra (a) l’ambiente di apprendimento e le attività che vi si svolgono, (b) i contenuti di apprendimento utilizzati o prodotti nell’ambito di queste attività, e (c) le intera-zioni, le relazioni, i ruoli che vengono a stabilirsi all’interno della comunità di apprendimento.

La creazione di un ambiente di apprendimento online e la gestione delle attività che vi si svolgono è compito specifico dei cosiddetti LMS (Learning Management System). Le piat-taforme che appartengono a questa categoria – tra le principali Moodle, Edmodo, Docebo… – permettono di gestire un corso interamente online o le componenti online di un corso blended. Mettono a disposizione strumenti di programmazione e gestione delle attività e del loro calendario, di gestione dei partecipanti (con assegnazione dei ruoli e tracciamento delle attività svolte, attraverso la registrazione dei dati sul lavoro svolto in piattaforma da ogni singolo partecipante e dei relativi tempi), di discussione e lavoro collaborativo (forum, accesso a eventuali aule virtuali ecc.), nonché di inserimento e gestione dei contenuti di apprendimento effettivamente utilizzati, che vengono collegati alle singole attività previste.

Al contrario, i depositi (o repository) per contenuti di apprendimento – per i quali si usa spes-so l’acronimo LCMS, Learning Content Management System – non sono di norma collegati a un corso specifico, ma sono centrati sulla produzione, descrizione, conservazione e sull’ac-cesso a grandi quantità di materiali utilizzabili poi in corsi e contesti diversi. Un LCMS è in-somma una sorta di biblioteca virtuale di contenuti, che possono poi essere di volta in volta ‘recuperati’ nell’ambito di corsi (e di LMS) specifici.

Il concetto di LCMS, come si capirà, è piuttosto generale: concretamente abbiamo spesso a che fare con strumenti che sono distinti a seconda della tipologia di contenuto (lesson plan, presentazioni, immagini, video…) e che possono mettere l’accento sulla funzione di progetta-zione e di produzione, su quella di descrizione e conservazione, o su entrambi. Così, per fare qualche esempio, SlideShare (https://www.slideshare.net/) è un ambiente per la conservazione organizzata – più che per la produzione – di slide e presentazioni video;

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mentre la piattaforma per la gestione di lesson plan messa a disposizione da RAI Scuola (http://www.raiscuola.rai.it/startLezioni.aspx) è in primo luogo uno strumento di produzione di contenuti, e solo in seconda battuta un deposito per conservarli.

A differenza degli LMS, i LCMS non consentono invece di norma il tracciamento delle attività dei singoli corsisti all’interno di un corso; da questo punto di vista possono essere ricondotte a questa categoria anche molte piattaforme per la gestione di MOOC, ovvero corsi – spesso gratuiti - aperti a un numero potenzialmente assai ampio di utenti.

Infine, i social network orientati all’apprendimento (un buon esempio tutto italiano è Fidenia - https://www.fidenia.com/), e più in generale le piattaforme di social learning, hanno il loro fuoco sulla gestione delle interazioni all’interno delle comunità di apprendimento, e conside-rano dunque innanzitutto la dimensione sociale e relazionale, pur permettendo di norma la creazione di corsi e attività e l’uso al loro interno di contenuti di apprendimento.

APPROFONDIMENTO: Piattaforme online e bisogni didattici«L’e-learning non è una soluzione tecnologica, ma un nuovo modo di sviluppare conoscenze.»

L’e-learning, la cui pratica nelle università e nelle aziende è consolidata da tempo, offre alcuni vantaggi

rispetto alla didattica in presenza, per tre motivi principali:

• il superamento della costrizione spazio-temporale;

• l’interattività (ossia mettere in comunicazione fattiva la comunità di apprendimento);

• l’integrazione e l’utilizzo della rete Internet nella didattica, come fonte dinamica di contenuti e co-

noscenze.

È impensabile che tale modalità sostituisca la scuola in presenza, ma la sua introduzione costringe a

ripensare al modo di fare scuola e le sue pratiche influenzano positivamente anche l’impianto didattico

tradizionale. Questo soprattutto per la valenza che si dà ancora oggi ai semplici contenuti di apprendi-

mento a scapito del raggiungimento di specifici obiettivi didattici ed educativi (esercizio del pensiero

critico, abitudine alla partecipazione cooperativa, collaborativa e inclusiva), più facilmente perseguibili

attraverso questa pratica innovativa.

L’e-learning naturalmente non si improvvisa. Con la disponibilità tecnologica oggi in nostro possesso è as-

sai facile installare una piattaforma e popolarla di contenuti. Questa modalità appartiene all’ e-learning

1.0 che ha però manifestato, nel giro di pochi anni, tutti i suoi limiti. Oggi si parla di e-learning 2.0 dove

si dà maggior importanza all’interazione: le persone interagiscono se hanno qualcosa da comunicare e

questi processi vanno stimolati e guidati. Chi desidera introdurre l’e-learning nella propria didattica deve

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dunque seguire un percorso di formazione specifico. Numerosi sono gli esempi di didattica scolastica

con l’e-learning, ma sono ancora relativamente pochi quelli che vanno nella direzione sopra citata. È

opportuno anche che siano più docenti a collaborare a un progetto di e-learning: sono necessarie infatti

competenze diversificate, tempo e desiderio di rimettersi in gioco, modificando magari le proprie con-

vinzioni per adottare diverse modalità comunicative di natura multimediale.

Non ci sono limiti di età all’utilizzo dell’ e-learning; anzi, tutti gli ordini e gradi di scuola possono essere

coinvolti, utilizzandolo intanto come integrazione alla didattica tradizionale: i contenuti diventano sem-

pre disponibili (coinvolgendo magari, se possibile, gli studenti stessi nelle attività di costruzione, aggior-

namento e integrazione). Oppure possono essere supporto alle attività di recupero: già alcuni istituti su-

periori hanno attivato i corsi di recupero online rendendo più fruibile e meno dispendiosa questa attività,

anche in termini di tempo per studenti e docenti.

Una scuola che decide di realizzare dei corsi in modalità e-learning deve per prima cosa decidere qua-

le piattaforma utilizzare, considerando che, per quanto riguarda gli studenti, una buona piattaforma

e-learning deve:

• consentire allo studente l’iscrizione ai corsi;

• facilitare, dovunque e in qualunque momento, l’accesso alle lezioni online;

• tracciare i singoli progressi di studio;

• consentire un’interazione con il corpo docente e - dove previsto - con gli altri studenti.

Per quanto riguarda invece gli insegnanti, una piattaforma efficace deve:

• permettere di caricare e organizzare i contenuti didattici (learning object creati con appositi software

o con strumenti messi a disposizione dalla stessa piattaforma e-learning);

• monitorare l’andamento dei corsi;

• interagire con lo studente e con l’intero corpo docente.

Come facilmente verificabile attraverso una semplice ricerca, sono attualmente disponibili innumerevoli

piattaforme online LMS (e LCMS) per realizzare progetti di e-learning tra le quali è possibile scegliere

quella più adatta alle proprie esigenze. Magari ci si potrà indirizzare anche verso una doppia piattafor-

ma secondo le due tipologie dominanti: una che favorisca la formazione e l’apprendimento asincro-

no (Moodle o Docebo), l’altra per la creazione di classi virtuali e la partecipazione attiva degli studenti

(Edmodo, Google Classroom, Fidenia). Unico avvertimento è non creare servizi ridondanti o che si sovrap-

pongano, compromettendo la proficua gestione delle risorse e delle interazioni.

Ci limiteremo, a puro titolo esemplificativo (ma anche per averne fatto, in tempi e modi diversi, concreto

uso didattico) due piattaforme open-source.

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AMBIENTI DI APPRENDIMENTO TRA MONDO FISICO E MONDO DIGITALE

MOODLE La piattaforma MOODLE 1 è un sistema LCMS che può essere liberamente installato da qualunque utente.

È probabilmente la piattaforma e-learning più diffusa, utilizzata in 227 Paesi (in Italia Moodle viene usata

in 343 enti formativi tra cui almeno 50 università). È’ un progetto in continuo sviluppo ed è volto a creare

un ambiente educativo fondato sui principi pedagogici del costruttivismo sociale 2. La piattaforma si

presenta con un’interfaccia semplice, estremamente intuitiva e di notevole usabilità, consentendo l’ac-

cesso a tutte le informazioni correlate sia lato insegnante sia lato studente, con un’attenzione crescente

alla sicurezza. Consente una gestione stratificata della piattaforma con i ruoli per gli utenti (docenti e

studenti) e un’ampia disponibilità di attività quali: forum, blog, diari, quiz, sondaggi, compiti, chat ecc..

Prevede il tracciamento delle attività degli allievi e crea automaticamente report dettagliati.

Sono previste anche features aggiuntive a pagamento, come la possibilità d’integrarsi col sistema ammi-

nistrativo d’istituto e richiamare i dati su iscrizioni, famiglie e staff, oppure strutturare i corsi per categoria

«materia» o «anno», facilitando la comunicazione interna scuola-famiglia o scuola-studente.

EDMODO Con una interfaccia grafica molto simile a Facebook (si veda lo screenshot più sotto), EDMODO è una

piattaforma didattica che consente di gestire la propria classe come gruppo virtuale, in un ambiente

sicuro e controllato (si accede con password personale). La piattaforma è gratuita, semplice nell’uso, in

quanto non richiede alcuna installazione né download; è disponibile inoltre anche come App per iOs e

per Android.

Su EDMONDO i docenti possono assegnare compiti e fornire spiegazioni, inviare testi, schemi esplicativi,

immagini e video, o segnalare approfondimenti relativi agli argomenti spiegati in classe.

Da parte loro, gli studenti possono collaborare tra di loro in gruppi di studio, chiedere chiarimenti ad altri

alunni e ai professori, proporre materiali di studio ai compagni di classe.

Per rispondere alle più diffuse preoccupazioni della scuola e degli insegnanti riguardo all’uso che gli stu-

denti potrebbero fare della piattaforma, EDMONDO prevede che:

• ogni gruppo classe sia controllato e gestito dall’insegnante;

• gli studenti abbiano bisogno di un codice di accesso per poter fare parte della classe. Se uno studen-

te rende noto il codice fuori dalla classe, il docente può cambiarlo, senza influire sugli studenti che

fanno già parte della classe;

• gli studenti possano comunicare soltanto con l’intera classe o con l’insegnante (non sono ammessi

messaggi privati tra studenti e messaggi anonimi;

1 Moodle: in origine un acronimo di Modular Object-Oriented Dynamic Learning Environment, “Ambiente di Apprendimento Di-namico Modulare Orientato agli Oggetti”, ma è anche un verbo che descrive il processo di vagare attraverso qualcosa che spesso porta a momenti di introspezione e creatività.

2 Costruttivismo sociale: per approfondire consulta la pagina dedicata del sito Moodle italia https://docs.moodle.org/archive/it/Costruzionismo_sociale.

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• l’insegnante può moderare le interazioni, cancellare i messaggi e rendere silente uno studente o

l’intera classe;

• è anche possibile l’accesso in piattaforma ai genitori per visualizzare le attività dei propri figli.

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AMBIENTI DI APPRENDIMENTO TRA MONDO FISICO E MONDO DIGITALE

APPROFONDIMENTO: L’interoperabilità Grazie alle possibilità offerte (costruzione e condivisione di lesson plan o learning objects di diversa na-

tura, blog, wiki, testmaker), capaci di venire incontro a molteplici esigenze, la piattaforma didattica co-

stituisce a nostro parere uno strumento prezioso, ricco di opportunità oggi irrinunciabili per ogni scuola

e per ogni insegnante.

Tuttavia, al di là delle oggettive difficoltà (organizzative o di competenze) che possono presentarsi

nell’affrontare la scelta di una piattaforma, il quadro finora esposto evidenzia l’intrinseca complessità

dell’offerta attuale. Da una parte vi sono infatti le molte piattaforme degli editori rivolte prevalentemente

al docente (che le può adottare in autonomia e che – dato generalmente il loro il legame con il libro di

testo in adozione – si trovano a convivere all’interno di una stessa classe (editori diversi, piattaforme di-

verse); dall’altra le numerose piattaforme generaliste (per esempio Moodle), dall’altra ancora un registro

elettronico che in molti casi offre interessanti funzionalità di supporto alla didattica.

Avviene allora che i docenti e soprattutto gli studenti siano chiamati a utilizzare piattaforme diverse, che

magari non comunicano tra loro, o lo fanno in modo insufficiente.

Si tratta di una situazione chiaramente non sostenibile nel medio termine, tanto che già nel Decreto

Carrozza del 2013 si evidenziava come non fosse ipotizzabile che studenti e docenti fossero costretti a

utilizzare nell’uso quotidiano una pluralità di piattaforme di fruizione differenti, escludendo al contempo

l’imposizione dall’alto di una piattaforma di fruizione unica.

Per questa ragione si pensò alla costituzione di un tavolo di lavoro a livello nazionale per affrontare pro-

prio il tema dell’interoperabilità delle piattaforme, ovvero del modo con cui piattaforme diverse dovreb-

bero poter dialogare tra loro (consentendo per esempio l’accesso con lo stesso ID utente, scambiandosi

dati ecc.) in modo da facilitarne l’uso da parte di insegnanti e studenti. Il MIUR però, da allora, non ha dato

seguito a questa dichiarazione di intenti, raccolta invece, sia pure con esiti non ancora soddisfacenti,

da un gruppo allargato di editori, sociatà di sviluppo di piattaforme e-learning e di registri elettronici,

poi confluito in un “tavolo dell’interoperabilità” che recentemente ha visto l’ingresso decisivo dell’AIE. In

attesa di ulteriori sviluppi sul tema e attendendo la creazione di una rete di piattaforme e-learning im-

prontata alla piena interoperabilità, rimane a nostro avviso opportuno che il loro uso a scuole sia limitato

a un numero ragionevole attraverso una selezione concordata dagli insegnanti per il conseguimento di

obiettivi (disciplinari e soprattutto interdisciplinari) comuni.

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BIBLIOGRAFIA E LINK UTILI• R. Kraut, M. Patterson, V. Lundmark, S. Kiesler, T. Mukhopadhyay, W. Scherlis, Il paradosso di

Internet. Internet paradox: A social technology that reduces social involvement and psychological well-being?, American Psychologist, 53, (9), 1998.

• M. T. Di Natale, Potere di Link. Scritture e letture dalla carta ai nuovi media, Bonanno, Acireale 2009• C. Gamba e M. L. Trapletti, Le teche della lettura: leggere in biblioteca al tempo della rete,

Editrice Bibliografica, Milano 2006.• G. Landow, Hyper/Text/Theory, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1994. • G. Landow, Hypertext. The convergence of contemporary critical theory and technology, Johns

Hopkins University Press, Baltimore 1992. • G. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura, Baskerville, Bologna 1993. • G. Lughi, Cultura dei nuovi media. Teorie, strumenti, immaginario, Guerini studio, Milano 2006.• M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1995. • H. Rheingold. The Virtual Community. Homesteading on the Electronic Frontier, Addison-Wesley,

1993.• G. Roncaglia, La quarta rivoluzione, Laterza, Roma-Bari 2010.• E. Wenger, Communities of Practice: Learning, Meaning, and Identity. Cambridge University

Press, Cambridge 1998. trad. it. Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006).

• https://archivio.pubblica.istruzione.it/normativa/2007/allegati/prot30_07.pdf.• http://schoolkit.istruzione.it/pnsd/azione-6-politiche-attive-byod-bring-your-own-device/.• http://www.unicode.org/charts/PDF/U1F600.pdf.• Etienne e Beverly Wenger-Trayner, Introduction to Communities of Practice, 2015:

- http://wenger-trayner.com/introduction-to-communities-of-practice/. - https://it.wikipedia.org/wiki/Comunit%C3%A0_di_pratica. - https://en.wikipedia.org/wiki/Community_of_practice.

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Gino Roncaglia ha curato tutte le l’unità.

Mario Cifariello ha curato l’unità 3 per la parte “Piattaforme online e bisogni didattici e interoperabilità.”

Roberto Castaldo ha curato l’unità 2 per la parte “Vita da comunità online: ruoli, attività collaborative, social e privacy.”

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