RIVOLUZION A TAVOLEA All'improvviso il cibo à diventato «food» E … · follia». Che cos'hanno...

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4 Q SABATO 10 1OTTOB LaVerità • RIVOLUZIONE A TAVOLA All'improvviso il cibo à diventato «food» E invece di mangiare facciamo esperienze Settanta alcuni facevano con il rock: il cibo è il centro di inte- resse. La cosa interessante, dal punto di vista del marketing, è che i foodies sono molto giova- ni, contrariamente a quello che si pensa. Tantissimi hanno tra i 25 e i 45 anni. Certo, poi ci sono persone di età più avan- zata, ma il fatto che il numero di giovani sia così alto è un se- gnale importante. Anni fa, per dire, al Politecnico realizzam- mo una ricerca sui frigoriferi degli studenti. Alcuni avevano nel frigo le lattine di Coca e nient'altro. Uno addirittura non aveva la corrente e usava il frigo per metterci la bianche- ria. Questi giovanifoodies sono diversi. Spesso le aziende si ri- volgono solo a consumatori di età avanzata, che però oggi ci sono e domani non ci sono più. Il giovan efoodie è molto inte- ressante, perché ha abitudini diverse. Non pensa più «devo fare la spesa, andare a casa e cucinare». Pensa: che cosa mangio, dove mangio?». Ecco una delle tante conse- guenze: in casa si cucina sem- pre meno, si va sempre di più al ristorante. Anche perché i le- gami sociali sono più sottili, i single aumentano, non c'è bi- sogno di cucinare per una fa- miglia rumorosa e affamata. «Negli ultimi cinque-sei anni», conferma Carlo Meo, «il crollo dei consumi nella grande di- stribuzione è drammatico. In compenso aumentano gli in- troiti della somministrazione. Anche Eataly incassa facendo da mangiare e non vendendo i prodotti. Nessuno in Italia mangia più a casa se ha un lavo- ro e si sposta, 0 se studia e lo mantengono i genitori». Questo stile di vita, tuttavia, sembra piuttosto costoso. Per essere un foodie - viene dapen- sare - devi aprire il portafogli. Anzi, spalancarlo. «In realtà questo è un modo di ragionare un po' vecchio», sorride Meo. «Spesso il foodie rinuncia ad altre cose. Se sei appassionato di dischi, compri quelli e non altro. Il foodie è svelto, spende senza farsi fregare. E poi, di- ciamolo, il mondo dei foodies e dei food blogger ha una forte componente di scrocco. Si va agli eventi, si seguono le inau- gurazioni... Un tempo, nel vec- chio mondo, uscire a cena 0 a pranzo era un lusso. Oggi se hai 25 anni e non vai ai concer- ti, non vai al cinema, la musica la scarichi su internet 0 magari ti mantengono i tuoi... Beh, al- lora spendi per il cibo. Magari non necessariamente i risto- ranti stellati, ma ci sono pure gli hamburger premium, i su- shi bar...». La rivoluzione culinaria ormai è inarrestabile. Ma bisogna fa- re attenzione. Perché II food è un mondo spietato: c'è il ri- schio di esserne divorati. O RIPRODUZIONE RISERVATA Per i giovani, cenare fuori è meglio che andare a un concerto A patto che i locali sappiano «raccontare una storia» PERFEZIONE Esotismo, raffinatezza, gusto e materie prime: il sushi racchiude in sé il concetto «food» mangia peggio è divenuto la ca- pitale internazionale del food. Tutto è partito da lì, poi sono nati gli chef star, e il cibo legato all'esperienzialità è divenuto la nuova tendenza. Il cibo non è più il prodotto che ci riempie la pancia, ma ciò che fa provare delle emozioni. In Italia il vero boom di questa tendenza si è avuto negli ultimi due 0 tre an- ni, attraverso fenomeni come Eataly, il supermercato gour- met, e come Masterchef». Già, oggi non ci si può limitare ad addentare una bistecca 0 a ingollare una forchettata di spaghetti. Oggi non si mangia soltanto. Si «fa esperienza». «Che si tratti di un cappotto 0 di un telefonino, ne abbiamo armadi e scaffali pieni. Nel mondo del retail non c'è più l'acquisto funzionale. Devi co- struire una esperienza, e co- struirla significa narrarla. Se vuoi aprire un ristorante, devi interpretare le esigenze di consumo. Devi capire che tipo di esperienza vuoi narrare e poi agire di conseguenza. Devi trovare la location adatta, devi avere il design degli interni coerente con l'esperienza che hai programmato. Dal sito web ai social fino al menu, devi co- municare in modo corretto. Il personale non deve essere sol- tanto cortese, ma in linea con il concetto che hai sviluppato. Bisogna curare tutti questi dettagli, che sono, come dire, scientifici. Oggi tutti si butta- no nel food pensando che sia semplice. In realtà è estrema- mente complicato». La trasformazione, dicevamo, è stata totale. E ha avuto conse- guenze notevoli su piani diver- si. «Partiamo dalle aziende», dice Meo. «Si sono rese conto che non basta più guardarsi al- lo specchio e dirsi: "Siamo bra- vi, esistiamo da più di 50 anni e facciamo prodotti di qualità". Bisogna che questi prodotti siano resi vendibili: il pedigree non è sufficiente. Prima esi- steva un mercato, nella grande distribuzione, fatto di sconti e promozioni. Poi, è avvenuto un passaggio culturale. Si è passati dal vendere il prezzo a vendere la qualità. Per quanto riguarda le singole persone, la trasformazione più importan- te riguarda senz'altro il diver- timento. Il food è divertimen- to, è ciò di cui si discute. Poi, certo, c'è anche una compo- nente di esagerazione. Carica- ture come quella del somme- lier fatta da Antonio Albanese sono dietro l'angolo». Assieme a [food, sono nati [foo- dies. «Il termine è stato inven- tato una decina di anni fa da un giornalista del britannico Guardian», racconta Meo. «I foodies sono persone che fan- no del cibo uno stile di vita, una cultura. Provano prodotti, vanno nei ristoranti nuovi, leg- gono tutti i blog online per sa- pere quali sono le novità. Fan- no con il food ciò che negli anni ^FRANCESCOB0RG0N0V0 ^•Hh Come sem- I M P re > tutt0 è ac- lijl caduto senza che ce ne ren- y^M^u dessimo conto. A un certo pun- to, il cibo ha smesso di essere semplice- mente cibo. È diventato qual- cos'altro di estremamente più complesso e, in molti casi, più stucchevole. È diventato food. A quel punto, il cambiamento è stato inarrestabile e ha trasci- nato nella slavina ristoranti, pizzerie, supermercati, persi- no le trattorie sotto casa. Sia- mo stati investiti da un proflu- vio di sushi bar, polpetterie, spaghetterie, fusion-etno- sciccherie... L'atto stesso del mangiare è mutato radical- mente. Ma quando, esatta- mente, è avvenuto questo Big Bang dell'universo gastrono- mico? Lo spiega Carlo Meo, tra i maggiori esperti di «marke- ting esperienziale» al mondo, docente al Politecnico di Mila- no, amministratore delegato di M&T e autore di un appro- fondito libro sull'argomento: Food Marketing ( Hoepli). «Quella del food è una tenden- za che nasce nei tardi anni Ot- tanta, specialmente nel mon- do anglosassone», racconta. «Se dobbiamo identificarne il luogo di nascita, dobbiamo pensare a Londra. Il luogo in cui, secondo lo stereotipo, si LO STORICO CHRISTOPH RIBBAT «Ci siamo trasformati in una società di camerieri» Una storia d'Europa attra- verso le cucine e i saloni dei ri- storanti. Un progetto ambizio- so, ma lo scrittore Christoph Ribbat è riuscito nell'impresa e il risultato è Al ristorante (Marsilio, 210 pagine, euro 16,50), un libro piacevole da leggere e ricco di aneddoti, dettagli, curiosità e riflessioni. Come e quando nascono i ri- storanti in Europa? «La lettura politica sarebbe questa: una nuova élite sociale nasce nella Francia del XVIII secolo e ha bisogno di un luogo f )er mostrare pubblicamente a sua diversità economica e culturale. La lettura gourmet, invece, sostiene che è avvenu- to perché la cucina francese divenne più raffinata ed il ri- storante avrebbe rappresenta- to uno step di questo processo. Io tendo a propendere per la prima spiegazione». Leggendo il suo libro sembra di capire che i ristoranti siano nati con una vocazione all'iso- lamento del cliente. «Erano certamente diversi dai caffè, che erano un'istituzione più aperta. Nei ristoranti le persone avevano il loro tavolo privato e si presumeva che nes- suno si unisse. L'architettura era differente: c'erano nicchie e persino stanze separate. Era di certo uno spazio pubblico, ma rinforzava anche certi con- fini sociali e culturali». Oggi questa tendenza all'iso- lamento è esplosa. Si mangia connessi ai social network, pensando a fotografare i piatti più che alla convivialità. «Da storico, non definirei tutto ciò un fenomeno nuovo. Nei ri- storanti del tardo XVIII secolo c'erano eleganti specchi così che le persone potessero guar- darsi mangiare. 250 anni do- po, gli smartphone hanno la funzione di specchi. Quindi è davvero la stessa cosa. Sono si- curo che la cultura della risto- razione sopravvivrà a questa follia». Che cos'hanno in comune i ri- storanti di oggi con i primi ap- parsi in Europa? «Il servizio è ancora importan- COPERTIN A A/R/storante te: il cameriere, la cameriera. L'architettura, il design dello spazio del ristorante contano ancora molto. È ancora uno spazio unico che dovrebbe es- sere tutto improntato al cibo. Ma, se lo si guarda con atten- zione, si scopre che il mangia- re non è poi così importante: è la conversazione, la presenza fisica di così tante persone e il modo in cui il consumo e la fa- tica si incontrano». La globalizzazione che influs- so ha avuto sui ristoranti? «Per 200 anni il ristorante ha giocato un ruolo in ciò che noi chiamiamo globalizzazione. Il termine stesso, "ristorante" si è diffuso in lingue diverse. Gli chef e i camerieri avevano car- riere internazionali, la cucina francese, italiana, cinese si so- no diffuse in tutto il globo. Non direi che la globalizzazione ha cambiato i ristoranti. I risto- ranti hanno guidato il proces- so stesso della globalizzazio- ne. In meglio 0 in peggio...». Spesso, parlando di storia dei ristoranti, dimentichiamo la parte che riguarda il persona- le delle cucine. Quali vicende nasconde? «Ci sono storie di estrema di- seguaglianza, lavoro durissi- mo, violenza in cucina ecc. La cucina del ristorante, nasco- sta alla nostra vista, può essere un posto davvero orrendo. Allo stesso tempo è anche un posto di creatività, lavoro di gruppo di successo, un posto dove le persone hanno sviluppato idee nuove sul come la gente dovrebbe mangiare e comuni- care». Oggiicuochi sono divenuti su- perstar. Come è successo? «C'erano cuochi famosi persi- no nel XIX secolo. Oggi c'è una diversa cultura mediatica. Ci sonosemplicementemoltesu- perstar, in generale. In più, c'è questa mania del cibo nella cultura globale contempora- nea. Per alcune persone il cibo ha rimpiazzato la religione, per altri il cibo sembra più im- portante dei dibattiti politici. E fantastico per gli chef super- star. Non sono sicuro durerà». Pensa che nel futuro ci saran- no sempre più clienti di risto- ranti e sempre meno persone che cucinano a casa? «Sarebbe triste se le persone non cucinassero più. Non sono un esperto della questione. Tuttavia, direi che il tipo di cu- cina casalinga che spesso lo- diamo sentimentalmente ri- chiede un sacco di lavoro duro e non pagato. Per la maggior parte fatto dalle donne. Se la nostra dipendenza dal risto- rante rende possibile per le persone lavorare meno a casa, non la vedrei necessariamente come una cosa così negativa. Come individuo, tuttavia, odierei il fatto di vedere la cuci- na casalinga sparire. È vera- mente ciò che ci rende esseri umani». Nel libro leiscrive che oggi sia- mo tutti camerieri. «All'inizio del XX secolo, i ca- merieri erano figure bizzarre. Le persone non erano abituate a farsi servire. Un cameriere sorride ai suoi clienti. Un ca- meriere lavora in pubblico. Lui 0 lei crea certe emozioni nelle altre persone. Devono essere sembrati strani a una società in cui un sacco di gente lavora- va in fattorie 0 fabbriche. Oggi, molti di noi fanno quello cne solo i camerieri facevano all'e- poca. Sorridere al lavoro, mo- strare competenza emoziona- le e sociale, e farlo persino quando non se ne ha voglia. La- vorare nei servizi e il lavoro emozionale ci hanno trasfor- mati tutti in camerieri». Fran.Bor.

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4 Q SABATO 1 0 1OTTOB LaVerità

• RIVOLUZIONE A TAVOLA

All'improvviso il cibo à diventato «food» E invece di mangiare facciamo esperienze

Settanta alcuni facevano con il rock: il cibo è il centro di inte-resse. La cosa interessante, dal punto di vista del marketing, è che i foodies sono molto giova-ni, contrariamente a quello che si pensa. Tantissimi hanno tra i 25 e i 45 anni. Certo, poi ci sono persone di età più avan-zata, ma il fatto che il numero di giovani sia così alto è un se-gnale importante. Anni fa, per dire, al Politecnico realizzam-mo una ricerca sui frigoriferi degli studenti. Alcuni avevano nel frigo le lattine di Coca e nient'altro. Uno addirittura non aveva la corrente e usava il frigo per metterci la bianche-ria. Questi giovani foodies sono diversi. Spesso le aziende si ri-volgono solo a consumatori di età avanzata, che però oggi ci sono e domani non ci sono più. Il giovanefoodie è molto inte-ressante, perché ha abitudini diverse. Non pensa più «devo fare la spesa, andare a casa e

cucinare». Pensa: che cosa mangio, dove mangio?». Ecco una delle tante conse-guenze: in casa si cucina sem-pre meno, si va sempre di più al ristorante. Anche perché i le-gami sociali sono più sottili, i single aumentano, non c'è bi-sogno di cucinare per una fa-miglia rumorosa e affamata. «Negli ultimi cinque-sei anni», conferma Carlo Meo, «il crollo dei consumi nella grande di-stribuzione è drammatico. In compenso aumentano gli in-troiti della somministrazione. Anche Eataly incassa facendo da mangiare e non vendendo i prodotti. Nessuno in Italia mangia più a casa se ha un lavo-ro e si sposta, 0 se studia e lo mantengono i genitori». Questo stile di vita, tuttavia, sembra piuttosto costoso. Per essere un f ood ie - viene dapen-sare - devi aprire il portafogli. Anzi, spalancarlo. «In realtà questo è un modo di ragionare

un po' vecchio», sorride Meo. «Spesso il foodie rinuncia ad altre cose. Se sei appassionato di dischi, compri quelli e non altro. Il foodie è svelto, spende senza farsi fregare. E poi, di-ciamolo, il mondo dei foodies e dei food blogger ha una forte componente di scrocco. Si va agli eventi, si seguono le inau-gurazioni... Un tempo, nel vec-chio mondo, uscire a cena 0 a pranzo era un lusso. Oggi se hai 25 anni e non vai ai concer-ti, non vai al cinema, la musica la scarichi su internet 0 magari ti mantengono i tuoi... Beh, al-lora spendi per il cibo. Magari non necessariamente i risto-ranti stellati, ma ci sono pure gli hamburger premium, i su-shi bar...».

La rivoluzione culinaria ormai è inarrestabile. Ma bisogna fa-re attenzione. Perché II food è un mondo spietato: c'è il ri-schio di esserne divorati.

O RIPRODUZIONE RISERVATA

Per i giovani, cenare fuori è meglio che andare a un concerto A patto che i locali sappiano «raccontare una storia»

PERFEZIONE Esotismo, raffinatezza, gusto e materie prime: il sushi racchiude in sé il concetto «food»

mangia peggio è divenuto la ca-pitale internazionale del food. Tutto è partito da lì, poi sono nati gli chef star, e il cibo legato all'esperienzialità è divenuto la nuova tendenza. Il cibo non è più il prodotto che ci riempie la pancia, ma ciò che fa provare delle emozioni. In Italia il vero boom di questa tendenza si è avuto negli ultimi due 0 tre an-ni, attraverso fenomeni come Eataly, il supermercato gour-met, e come Masterchef». Già, oggi non ci si può limitare ad addentare una bistecca 0 a ingollare una forchettata di spaghetti. Oggi non si mangia soltanto. Si «fa esperienza». «Che si tratti di un cappotto 0 di un telefonino, ne abbiamo armadi e scaffali pieni. Nel mondo del retail non c'è più l'acquisto funzionale. Devi co-struire una esperienza, e co-struirla significa narrarla. Se vuoi aprire un ristorante, devi interpretare le esigenze di consumo. Devi capire che tipo di esperienza vuoi narrare e poi agire di conseguenza. Devi trovare la location adatta, devi avere il design degli interni coerente con l 'esperienza che hai programmato. Dal sito web ai social fino al menu, devi co-municare in modo corretto. Il personale non deve essere sol-tanto cortese, ma in linea con il concetto che hai sviluppato. Bisogna curare tutti questi dettagli, che sono, come dire, scientifici. Oggi tutti si butta-

no nel food pensando che sia semplice. In realtà è estrema-mente complicato». La trasformazione, dicevamo, è stata totale. E ha avuto conse-guenze notevoli su piani diver-si. «Partiamo dalle aziende», dice Meo. «Si sono rese conto che non basta più guardarsi al-lo specchio e dirsi: "Siamo bra-vi, esistiamo da più di 50 anni e facciamo prodotti di qualità". Bisogna che questi prodotti siano resi vendibili: il pedigree non è sufficiente. Prima esi-steva un mercato, nella grande distribuzione, fatto di sconti e promozioni. Poi, è avvenuto un passaggio culturale. Si è passati dal vendere il prezzo a vendere la qualità. Per quanto riguarda le singole persone, la trasformazione più importan-te riguarda senz'altro il diver-timento. Il food è divertimen-to, è ciò di cui si discute. Poi, certo, c'è anche una compo-nente di esagerazione. Carica-ture come quella del somme-lier fatta da Antonio Albanese sono dietro l'angolo». Assieme a [food, sono nati [foo-dies. «Il termine è stato inven-tato una decina di anni fa da un giornalista del britannico Guardian», racconta Meo. «I foodies sono persone che fan-no del cibo uno stile di vita, una cultura. Provano prodotti, vanno nei ristoranti nuovi, leg-gono tutti i blog online per sa-pere quali sono le novità. Fan-no con i l food ciò che negli anni

^FRANCESCOB0RG0N0V0

^ • H h • Come sem-I M P r e > t u t t 0 è ac-l i j l caduto senza

che ce ne ren-y ^ M ^ u dessimo conto.

A un certo pun-to, il cibo ha

smesso di essere semplice-mente cibo. È diventato qual-cos'altro di estremamente più complesso e, in molti casi, più stucchevole. È diventato food. A quel punto, il cambiamento è stato inarrestabile e ha trasci-nato nella slavina ristoranti, pizzerie, supermercati , persi-no le trattorie sotto casa. Sia-mo stati investiti da un proflu-vio di sushi bar, polpetterie, spaghetterie, fusion-etno-sciccherie... L'atto stesso del mangiare è mutato radical-mente. Ma quando, esatta-mente, è avvenuto questo Big Bang dell'universo gastrono-mico? Lo spiega Carlo Meo, tra i maggiori esperti di «marke-ting esperienziale» al mondo, docente al Politecnico di Mila-no, amministratore delegato di M&T e autore di un appro-fondito libro sull'argomento: Food Marketing ( Hoepli). «Quella del food è una tenden-za che nasce nei tardi anni Ot-tanta, specialmente nel mon-do anglosassone», racconta. «Se dobbiamo identificarne il luogo di nascita, dobbiamo pensare a Londra. Il luogo in cui, secondo lo stereotipo, si

LO STORICO CHRISTOPH RIBBAT

«Ci siamo trasformati in una società di camerieri» • Una storia d'Europa attra-verso le cucine e i saloni dei ri-storanti. Un progetto ambizio-so, ma lo scrittore Christoph Ribbat è riuscito nell 'impresa e il risultato è Al ristorante (Marsilio, 210 pagine, euro 16,50), un libro piacevole da leggere e ricco di aneddoti, dettagli, curiosità e riflessioni. Come e quando nascono i ri-storanti in Europa? «La lettura politica sarebbe questa: una nuova élite sociale nasce nella Francia del XVIII secolo e ha bisogno di un luogo

f)er mostrare pubblicamente a sua diversità economica e

culturale. La lettura gourmet, invece, sostiene che è avvenu-to perché la cucina francese divenne più raffinata ed il ri-storante avrebbe rappresenta-to uno step di questo processo. Io tendo a propendere per la prima spiegazione». Leggendo il suo libro sembra di capire che i r is torant i siano nati con una vocazione all'iso-lamento del cliente. «Erano certamente diversi dai

caffè, che erano un'istituzione più aperta. Nei ristoranti le persone avevano il loro tavolo privato e si presumeva che nes-suno si unisse. L'architettura era differente: c'erano nicchie e persino stanze separate. Era di certo uno spazio pubblico, ma rinforzava anche certi con-fini sociali e culturali». Oggi questa tendenza all'iso-lamento è esplosa. Si mangia connessi ai social network, pensando a fotografare i piatti più che alla convivialità. «Da storico, non definirei tutto ciò un fenomeno nuovo. Nei ri-storanti del tardo XVIII secolo c'erano eleganti specchi così che le persone potessero guar-darsi mangiare. 250 anni do-po, gli smartphone hanno la funzione di specchi. Quindi è davvero la stessa cosa. Sono si-curo che la cultura della risto-razione sopravvivrà a questa follia».

Che cos'hanno in comune i ri-s torant i di oggi con i primi ap-parsi in Europa? «Il servizio è ancora importan-

COPERTIN A A/R/storante

te: il cameriere, la cameriera. L'architettura, il design dello spazio del ristorante contano ancora molto. È ancora uno spazio unico che dovrebbe es-sere tutto improntato al cibo. Ma, se lo si guarda con atten-zione, si scopre che il mangia-re non è poi così importante: è la conversazione, la presenza fisica di così tante persone e il

modo in cui il consumo e la fa-tica si incontrano». La globalizzazione che influs-so ha avuto sui r is torant i? «Per 200 anni il r istorante ha giocato un ruolo in ciò che noi chiamiamo globalizzazione. Il termine stesso, "ristorante" si è diffuso in lingue diverse. Gli chef e i camerieri avevano car-riere internazionali, la cucina francese, italiana, cinese si so-no diffuse in tutto il globo. Non direi che la globalizzazione ha cambiato i ristoranti. I risto-ranti hanno guidato il proces-so stesso della globalizzazio-ne. In meglio 0 in peggio...». Spesso, parlando di storia dei r is toranti , dimentichiamo la par te che riguarda il persona-le delle cucine. Quali vicende nasconde?

«Ci sono storie di estrema di-seguaglianza, lavoro durissi-mo, violenza in cucina ecc. La cucina del ristorante, nasco-sta alla nostra vista, può essere un posto davvero orrendo. Allo stesso tempo è anche un posto di creatività, lavoro di gruppo

di successo, un posto dove le persone hanno sviluppato idee nuove sul come la gente dovrebbe mangiare e comuni-care». Oggiicuochi sono divenuti su-pers tar . Come è successo? «C'erano cuochi famosi persi-no nel XIX secolo. Oggi c'è una diversa cultura mediatica. Ci sonosemplicementemoltesu-perstar, in generale. In più, c'è questa mania del cibo nella cultura globale contempora-nea. Per alcune persone il cibo ha rimpiazzato la religione, per altri il cibo sembra più im-portante dei dibattiti politici. E fantastico per gli chef super-star. Non sono sicuro durerà». Pensa che nel fu tu ro ci saran-no sempre più clienti di risto-rant i e sempre meno persone che cucinano a casa? «Sarebbe triste se le persone non cucinassero più. Non sono un esperto della questione. Tuttavia, direi che il tipo di cu-cina casalinga che spesso lo-diamo sentimentalmente ri-chiede un sacco di lavoro duro

e non pagato. Per la maggior parte fatto dalle donne. Se la nostra dipendenza dal risto-rante rende possibile per le persone lavorare meno a casa, non la vedrei necessariamente come una cosa così negativa. Come individuo, tuttavia, odierei il fatto di vedere la cuci-na casalinga sparire. È vera-mente ciò che ci rende esseri umani». Nel libro leiscrive che oggi sia-mo tu t t i camerieri . «All'inizio del XX secolo, i ca-merieri erano figure bizzarre. Le persone non erano abituate a farsi servire. Un cameriere sorride ai suoi clienti. Un ca-meriere lavora in pubblico. Lui 0 lei crea certe emozioni nelle altre persone. Devono essere sembrati strani a una società in cui un sacco di gente lavora-va in fattorie 0 fabbriche. Oggi, molti di noi fanno quello cne solo i camerieri facevano all'e-poca. Sorridere al lavoro, mo-strare competenza emoziona-le e sociale, e farlo persino quando non se ne ha voglia. La-vorare nei servizi e il lavoro emozionale ci hanno trasfor-mati tutti in camerieri».

Fran.Bor.