Rivista Corte dei conti

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RIVISTA DELLA CORTE DEI CONTI Rivista della Corte dei conti - www.rivistacorteconti.it Anno LXXII - n. 4 - Luglio-Agosto 2019 4 IN QUESTO FASCICOLO: › Etica nella pubblica amministrazione › Danno erariale e prerogative della Corte dei conti › La funzione di parifica della Corte dei conti Quantitative easing 2.0 › Danno all’immagine prima e dopo il c.g.c. › Tutela degli interessi diffusi innanzi alla giurisdizione amministrativa e contabile › Fondo per le politiche della famiglia › Rappresentante dell’ente pubblico partecipante in società partecipata › Servizio sanitario militare: revisione organizzativa

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RIVISTADELLA

CORTE DEI CONTI

Rivista della Corte dei conti - www.rivistacorteconti.itAnno LXXII - n. 4 - Luglio-Agosto 2019

4

IN QUESTO FASCICOLO:

› Etica nella pubblica amministrazione

› Danno erariale e prerogative della Corte dei conti

› La funzione di parifica della Corte dei conti

› Quantitative easing 2.0

› Danno all’immagine prima e dopo il c.g.c.

› Tutela degli interessi diffusi innanzi allagiurisdizione amministrativa e contabile

› Fondo per le politiche della famiglia

› Rappresentante dell’ente pubblico partecipantein società partecipata

› Servizio sanitario militare: revisioneorganizzativa

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Direttore responsabile: Tommaso Miele

Coordinatori Area giurisdizione: Daniela Morgante Area controllo: Paola Cosa, Andrea Luberti

Comitato scientifico Umberto Allegretti – Stefano Battini – Marco Cammelli – Francesco Capalbo – Vincenzo Caputi Jambrenghi – Be-niamino Caravita di Toritto – Sabino Cassese – Lucia Cavallini Cadeddu – Roberto Cavallo Perin – Vincenzo Ce-rulli Irelli – Mario P. Chiti – Marcello Clarich – Giovanna Colombini – Maurizio Converso – Alfredo Corpaci – Guido Corso – Giorgio Costantino – Marco D’Alberti – Mariano D’Amore – Giacinto della Cananea – Gian Candi-do De Martin – Giuseppe Di Gaspare – Mario Dogliani – Giuseppe Farneti – Erminio Ferrari – Fabrizio Fracchia – Claudio Franchini – Franco Gallo – Fabio Giulio Grandis – Giampaolo Ladu – Alberto Massera – Bernardo Giorgio Mattarella – Antonio Pedone – Rita Perez – Cesare Pinelli – Giuseppe Pisauro – Aristide Police – Stefano Pozzoli – Giulio Salerno – Aldo Sandulli – Maria Alessandra Sandulli – Massimo Siclari – Domenico Sorace – Luisa Torchia – Aldo Travi – Luciano Vandelli – Alberto Zuliani.

Redazione: Ernesto Capasso

Editing: coordinamento - Anna Rita Bracci Cambini Giulia Borgia – Agnese Colelli – Stefano De Filippis – Eleonora Di Fortunato – Valeria Gallo – Lucia Pascucci – Paola Pellecchia.

Hanno collaborato alla redazione di questo fascicolo: Luigi Balestra; Monica Bergo; Aldo Carosi; Emilio Fabbiani; Gabriele Fava; Emanuele Fratto Rosi Grippaudo; Ar-turo Iadecola; Amedeo Lepore; Enrico Marinaro; Francesco Saverio Marini; Giuseppe Maria Mezzapesa; Marcello Minenna; Carlo Mirabile; Alessandro Antonio Pracilio; Angelo Maria Quaglini; Massimiano Sciascia; Vito Tenore; Samantha Zebri.

La pubblicazione dei contributi proposti alla redazione della Rivista è sottoposta ad una procedura di peer review che garantisce il doppio anonimato (double blind), dell’autore e del valutatore.

La Rivista della Corte dei conti è a cura del Servizio Massimario e Rivista

La rivista è consultabile anche in: www.rivistacorteconti.it

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RIVISTADELLA

CORTE DEI CONTI

Rivista della Corte dei conti Anno LXXII - n. 4Luglio-Agosto 2019

Pubblicazione bimestrale di servizio

Direttore responsabileTommaso Miele

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N. 4/2019

SOMMARIO

Editoriale

Amedeo Lepore

Dalla Storia agli Stati generali della Contabilità 1

Dottrina

- Aldo Carosi, L’etica nella pubblica amministrazione e nel controllo 5

- Luigi Balestra, Responsabilità per danno erariale e prerogative della Corte dei conti 16

- Emanuele Fratto Rosi Grippaudo, Danno erariale e riparazione pecuniaria: profili nazionali ed euro-

pei di un rapporto tra deterrenti alla corruzione 28

- Marcello Minenna, Quantitative easing 2.0: dalla nazionalizzazione alla condivisione dei rischi 36

- Monica Bergo, Le funzioni della parifica della Corte dei conti alla luce della più recente giurispru-

denza costituzionale 45

- Samantha Zebri, L’evoluzione del baratto amministrativo tra collaborazione civica e partenariato so-

ciale 53

- Carlo Mirabile, I compensi agli amministratori di aziende speciali, anche in forma consortile. La se-

zione delle autonomie, in funzione nomofilattica, ne verifica la possibile legittimità 70

- Massimiano Sciascia, Evoluzione della tutela degli interessi diffusi innanzi alle giurisdizioni ammini-

strativa e contabile 79

- Alessandro Antonio Pracilio, La questione delle deroghe alla Costituzione e l’introduzione del princi-

pio del pareggio di bilancio 83

- Giuseppe Maria Mezzapesa, Il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti sulle delibere

Cipe 96

Note a commento

- Andrea Luberti, Controllo sugli equilibri finanziari delle aziende sanitarie locali, applicazione dei cri-

teri civilistici e legittimazione alla questione di costituzionalità 144

- Andrea Luberti, I parametri costituzionali di valutazione della legittimità delle misure finanziarie nei

confronti di pubblici dipendenti e pensionati 248

- Arturo Iadecola, La Corte costituzionale e il danno all’immagine dell’amministrazione prima e dopo il

codice di giustizia contabile 255

- Emilio Fabbiani, Decreto n. 72/2019 Corte di appello di Bari. Nota di commento 292

Controllo 105

Pareri 155

Giurisdizione 191

Altre Corti 217

Recensioni 298

Indici 299

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EDITORIALE

di Amedeo Lepore

Dalla Storia agli Stati generali della Contabilità

Napoli ospiterà dal 7 al 9 novembre 2019, presso la

sede monumentale di un’antica istituzione come il Pio

Monte della Misericordia, un Convegno internazionale

sul ruolo e sull’importanza della Contabilità e della sua

Storia nel quadro dell’evoluzione dell’economia, delle

istituzioni, dell’impresa e della finanza dai tempi di Lu-

ca Pacioli a oggi. L’appuntamento di quest’anno ha

come titolo “Tra storia, economia e finanza. La contabi-

lità pubblica e privata in Europa in Età moderna e con-

temporanea” ed è sorto dall’incontro tra istituzioni ita-

liane e spagnole, per poi ampliarsi a una più estesa di-

mensione internazionale, coinvolgendo personalità di

tutto il mondo. I promotori dell’iniziativa sono stati un

gruppo di studiosi di varie discipline economiche, stori-

che e giuridiche, a cominciare dagli storici economici,

riuniti intorno alla figura emblematica di Esteban

Hernández Esteve, pionere a livello globale della Storia

della Contabilità, che hanno trovato la condivisione e

l’autorevole sostegno della Corte dei conti italiana e

della Comisión de Historia de la Contabilidad della

Asociación Española de Contabilidad y Administración

de Empresas spagnola. In questo modo, da un progetto

seminale di carattere accademico, si è sviluppata una

più ampia prospettiva, che ha visto, sulla base della pre-

senza della Corte dei conti e dell’AECA, l’adesione di

molte università (Università della Campania Luigi

Vanvitelli, Università del Sannio, Università di Napoli

Federico II, Università di Napoli L’Orientale, Universi-

tà di Napoli Parthenope, Università di Salerno, Univer-

sità Suor Orsola Benincasa, Universitas Mercatorum

delle Camere di commercio italiane, Università del Mo-

lise, Università di Bari Aldo Moro, Università della Ba-

silicata, Università di Chieti-Pescara Gabriele

D’Annunzio, Università di Perugia, Università di Urbi-

no Carlo Bo, Universidad de Burgos, Universidad Pablo

Olavide de Sevilla), centri di ricerca e società scientifi-

che (Consiglio Nazionale delle Ricerche, Società Italia-

na degli Storici Economici, Associazione Studi Storici

sull’Impresa, Società Italiana di Storia della Ragioneria,

Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna, Asso-

ciazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico,

Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzo-

giorno – SVIMEZ, Centro studi “Mario Pancrazi”, Co-

mitato Italia-Spagna per la Storia Economica), organiz-

zazioni internazionali e associazioni professionali

(American Accounting Association, International Pu-

blic Sector Accounting Standards Board, Associação

Portuguesa de Técnicos de Contabilidade, Consiglio

Nazionale e Ordini dei Dottori Commercialisti e degli

Esperti Contabili) e altri enti (Pio Monte della Miseri-

cordia, Fondazione Banco di Napoli, Società Napoleta-

na di Storia Patria, Banca di Credito Popolare, Liber-

bank spagnola). Questa vasta e qualificata partecipazio-

ne rappresenta l’impulso iniziale per fare del Convegno

un evento permanente, dedicato ogni anno a un con-

fronto sull’evoluzione della contabilità pubblica e pri-

vata tra le istituzioni, gli studiosi, gli operatori di settore

e la Corte dei conti di un Paese estero con funzioni ana-

loghe a quella italiana. Infatti, la Corte dei conti – o, in

alcuni ordinamenti giuridici, il Tribunale dei conti –

esiste in vari Paesi di civil law, per la maggior parte di

tradizione latina (Francia, Italia, Spagna, Portogallo,

Belgio, Romania, vari territori francofoni e alcuni su-

damericani, come il Brasile), ma anche in altre realtà,

come la Turchia.

Secondo Hernández Esteve, “la Storia della Conta-

bilità offre una possibilità affascinante e inaspettata di

collegare le ricerche contabili con le scienze sociali e

umane” e, soprattutto, è molto curioso che una discipli-

na, che è insegnata in pochissime università, sia oggetto

di un crescente interesse e abbia raggiunto ai nostri

giorni un tanto ampio livello di notorietà e diffusione.

La preparazione del Convegno ha preso abbrivo da que-

sta consapevolezza e dalla volontà di continuare questa

sfida, oltre che dall’esigenza di raccordare il vasto cam-

po della ricerca scientifica con l’esperienza istituziona-

le, a partire dal ruolo della Corte dei conti italiana e del

Tribunal de Cuentas spagnolo, e con le competenze

operative di tutti gli addetti del settore, per definire le

tre sessioni tematiche in cui si articoleranno i lavori.

Lo spazio principale di discussione è riservato alle

origini e all’evoluzione della contabilità pubblica e pri-

vata in Europa. In particolare, Italia e Spagna hanno

sperimentato per prime, rispettivamente, l’esperienza

della contabilità impiegata nei conti pubblici e quella

della partita doppia applicata ai conti della Corona. Per

il nostro Paese, questa storia ha avuto esordio a Napoli,

con l’istituzione della Regia Camera della Sommaria,

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durata dal 1444 al 1807, ma che si può far risalire al

1269 e che fu sostituita nei suoi compiti dalla Regia

Corte dei conti, nel 1802, insieme alla Gran Corte dei

conti, nel 1817, per giungere finalmente, nell’Italia uni-

ta, alla costituzione della Corte dei conti (1862) e

all’avvio di una notevole trasformazione dei conti pub-

blici, delle loro forme di revisione e di controllo, della

gestione delle relative controversie, sviluppatasi nel

corso di oltre un secolo e mezzo. Per quanto riguarda la

realtà iberica, il sistema della partita doppia – introdotto

da Luca Pacioli come metodo organico di scrittura con-

tabile nella descrizione contenuta nella Summa de

arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita,

pubblicata a Venezia nel 1494 – fu utilizzato, origina-

riamente, nella contabilità della Real Hacienda, a partire

dal 1592, con la promulgazione della “Real Cédula”,

che stabiliva la formazione della nuova “Contaduría del

Libro de Caja” e promuoveva quel Paese come centro

di diffusione del primato dei “conti allo stile spagnolo”,

come venne riconosciuto in Inghilterra. Muovendo da

questi punti di partenza, si può rivolgere un’attenzione

specifica alla tematica della contabilità pubblica, dal

periodo immediatamente precedente l’Età Moderna fino

ai nostri tempi, con particolare riferimento alle basi e

all’evoluzione delle metodologie, dei contenuti, delle

norme e delle modalità di accertamento e di verifica. In

questo contesto, la condivisione dell’iniziativa con una

prestigiosa istituzione come la Corte dei conti italiana,

in un proficuo confronto con la corrispondente istitu-

zione spagnola, fornisce un’occasione importante di in-

terazione tra la ricostruzione di carattere storico-

economico, gli studi scientifici e la loro applicazione in

un ambito concreto di controllo, ma anche di stimolo e

di promozione, di una gestione finanziaria rigorosa, del-

la regolarità dell’attività amministrativa e dell’impiego

appropriato ed efficace delle risorse pubbliche.

In parallelo, il Convegno si impegna a trattare il te-

ma della contabilità privata dall’epoca di Pacioli a oggi,

esaminando sia l’aspetto dello sviluppo delle tecniche e

delle pratiche contabili che quello del rapporto tra stru-

menti di contabilità e finanza, gestione aziendale e di-

namiche dell’impresa. Su questo versante, una parte del

confronto scientifico sarà dedicato alla connessione

sempre più stretta tra Storia della Contabilità e Storia

d’Impresa, specialmente durante la lunga epoca del ca-

pitalismo e delle sue profonde trasformazioni. La con-

tabilità, infatti, ha seguito i cambiamenti del sistema

economico, delle forme di produzione, di scambio e di

distribuzione, della catena del valore, passando, nel cor-

so del tempo, da una funzione di controllo e valutazione

interna a una sempre più spiccata propensione

all’informazione degli stakeholders, delle istituzioni e

dei clienti dell’azienda, con forme articolate di verifica

e di monitoraggio esterno. In questo quadro, si può ri-

prendere l’indicazione di uno studioso del valore di An-

tonio Miguel Bernal, che ha sostenuto la necessità di

indirizzare un impegno di ricerca specifico alle fonti

private della contabilità, arrivando alla conclusione che

sia l’analisi contabile e microeconomica a permettere

una conoscenza effettiva di questa materia, soprattutto

quando si tratta di comprendere le opzioni che determi-

nano il rapporto costi-benefici. Questa impostazione ha

sicuramente il pregio di evidenziare l’esistenza di un

trait d’union fondamentale tra Storia della Contabilità,

Storia d’Impresa e Storia Economica, offrendo

l’opportunità di contribuire a irrobustire con nuovi con-

tenuti il legame tra questi settori, in un’ottica interdisci-

plinare, in grado di coinvolgere insieme agli storici

economici, anche gli economisti aziendali, gli esperti e i

rappresentanti delle istituzioni contabili.

Un ultimo argomento di approfondimento è legato

alla contabilità delle istituzioni creditizie e assistenziali,

a cominciare dai banchi pubblici napoletani, nella più

ampia problematica dello studio degli assetti e delle

procedure gestionali, giuridiche, finanziarie e contabili,

che segnarono l’attività degli istituti, sia pubblici che

privati operanti nel Regno di Napoli a partire dal XVI

secolo, e che hanno caratterizzato queste materie fino

all’epoca contemporanea. Questa parte dei lavori si

connette anche all’inestimabile patrimonio di uno dei

più importanti archivi finanziari, contabili ed economici

del mondo, come quello del Banco di Napoli, la cui se-

de ospiterà una visita alla sua imponente documenta-

zione storica. Inoltre, questo stesso tema si presta a

un’analisi delle vicende dell’istituzione che ospita il

Convegno, il Pio Monte della Misericordia, e che pos-

siede un archivio di grande interesse, reperti, registri e

documenti contabili, oltre a una lunga attività, per molti

aspetti collegati con i contenuti dell’iniziativa.

Un elemento presente in tutti e tre gli ambiti di di-

battito indicati è quello dell’attualizzazione della rileva-

zione contabile e finanziaria, delle sue origini e della

sua evoluzione, delle sue fonti e della sua storiografia,

delle sue strette connessioni con la finanza, l’impresa e

l’economia. A questo proposito, nell’ambito del Con-

vegno, è prevista una sede di confronto specifica per

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trattare, di fronte al rischio concreto di un declino

dell’Europa, il problema di come mettere in relazione

una grande innovazione del rinascimento commerciale

ed economico, come la contabilità, alle necessità di dare

nuovo slancio all’economia, all’amministrazione,

all’impresa e alla politica europea. Infine, il Convegno

ospiterà una tavola rotonda tra alcune delle più autore-

voli riviste internazionali di Storia della Contabilità,

con la partecipazione qualificante proprio della “Rivista

della Corte dei conti”, arricchendo l’intero programma

di novembre con un contributo di riflessione specifico e

con un ulteriore tassello per delineare una parte

dell’intelaiatura da costruire per la prosecuzione e lo

sviluppo dell’evento nel corso dei prossimi anni.

L’obiettivo complessivo sorto dall’incontro tra la

Corte dei conti, gli studiosi promotori dell’iniziativa e

le università aderenti, che si tratterà di sperimentare a

Napoli, è quello di realizzare in modo strutturato e per-

manente gli “Stati generali della Contabilità pubblica e

privata”, coinvolgendo, dopo la Spagna, ogni anno un

Paese diverso e aprendo la discussione ai temi più rile-

vanti e innovativi presenti sulla scena internazionale,

mantenendo un costante legame tra l’approfondimento

storico-economico e l’attualità dell’esperienza delle isti-

tuzioni contabili, degli operatori del settore e delle im-

prese. In via del tutto inedita, questa manifestazione

culturale tenterà di dimostrare come i due sistemi, quel-

lo della contabilità pubblica (inaugurato presso la Regia

Camera della Sommaria in epoca premoderna e incen-

trato oggi sui criteri dettati dalla legge n. 196 del 2009 e

successive modifiche e integrazioni) e quello della con-

tabilità privata (propugnato nella Summa di Luca Pacio-

li intorno alla fine del XV secolo e incardinato oggi sui

principi contabili nazionali fissati dall’Organismo Ita-

liano di Contabilità – OIC), costituiscono, in definitiva,

due facce della stessa medaglia, denominata sistema-

Paese. Il complesso della finanza nazionale in tenden-

ziale equilibrio è senz’altro uno dei presupposti essen-

ziali per la vita di ogni Stato moderno, soprattutto

nell’attuale quadro geopolitico, caratterizzato da una

globalizzazione, che spesso si presenta in forma di “ar-

cipelago”, ma che diffonde i suoi effetti a ogni livello

economico, sociale e istituzionale e che ha, come una

delle premesse – insieme alle capacità di sviluppo, che

favoriscono primariamente la creazione di condizioni di

stabilità – per la partecipazione alla competizione inter-

nazionale, l’ordine dei conti pubblici. Tuttavia, altret-

tanto decisivi per la crescita sociale ed economica di

ogni comunità nazionale appaiono la sana gestione dei

bilanci relativi alle imprese produttive, lo stato di salute

del tessuto bancario e assicurativo, la corretta alloca-

zione delle risorse, sempre più rilevanti, affidate al “ter-

zo settore”. Per questi motivi, non si comprende perché,

in Italia, circa la metà del Pil nazionale, più o meno cor-

rispondente all’intero sistema di finanza pubblica, sia

gestita secondo “principi contabili generali” (ispirati ai

noti criteri di efficienza, efficacia ed economicità),

mentre siano molto diversi o, comunque, distonici i ca-

noni che regolano l’utilizzo della restante metà del no-

stro prodotto. Del resto, non è un caso che, a livello in-

ternazionale, i “principi guida del controllo delle finan-

ze pubbliche” adottati dall’International Organisation of

Supreme Audit Institutions (INTOSAI),

un’organizzazione affiliata all’ONU, rappresentativa di

tutte le istituzioni superiori di controllo nel mondo, non

siano sostanzialmente lontani dai “principi contabili in-

ternazionali IAS/IFRS”, dettati dall’International Ac-

counting Standards Board (IASB).

Anche su questa tematica e sulla sua declinazione,

osservata in Italia e Spagna, potrà venire un significati-

vo contributo già dal Convegno del 7, 8 e 9 novembre,

preparando il terreno per le prossime edizioni

dell’evento internazionale, che approfondiranno più

compiutamente l’argomento e si porranno al centro del

confronto globale sulla contabilità, sulla sua storia e

sulle sue innovazioni fondamentali. Al temine dei lavori

del Convegno di Napoli, verrà sancito l’accordo per la

realizzazione dell’obiettivo principale sorto dalla piena

condivisione dell’organizzazione dell’iniziativa di

quest’anno da parte della Corte dei conti, definendo le

modalità per l’articolazione degli “Stati generali della

Contabilità pubblica e privata” come conferenza per-

manente di studio e di lavoro, in grado di mobilitare le

energie vitali delle istituzioni contabili, delle università

e degli studiosi, delle organizzazioni professionali e

delle competenze tecniche a livello internazionale. Con

questo spirito di apertura e con questa propensione

all’impegno operoso, rivolgiamo un fervido invito alla

magistratura contabile italiana per la più estesa parteci-

pazione e per il più ampio contributo di idee a questo

nuovo campo di elaborazione e di ricerca.

* * *

([email protected])

([email protected])

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N. 4/2019 PARTE I – DOTTRINA

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L’ETICA NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E NEL CONTROLLO (*)

di Aldo Carosi

Abstract: La relazione riguarda i profili attinenti allo svolgimento dell’attività amministrativa e delle relative attività di controllo. L’etica viene inquadrata in stretta connessione con la prassi e con gli obiettivi a quest’ultima sottesi. L’analisi viene svolta attraverso un confronto a matrice tra amministrazione attiva e controllo. Dopo una serrata critica ai tecnicismi fini a se stessi l’Autore conclude esortando tutti gli operatori impegnati nell’attività di revi-sione e controllo a svolgere tale compito illustrando con chiarezza le proprie posizioni e utilizzando un lessico comprensibile ai cittadini, agli amministrati e ai portatori di interesse. In tale prospettiva vengono richiamate le più significative pronunce della Corte costituzionale in tema di trasparenza, di rispetto dei principi di rappresen-tanza democratica e di rispetto dell’equità intergenerazionale relativamente al mantenimento degli equilibri di bi-lancio.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Attività amministrativa e resa delle prestazioni sociali quali oggetto del controllo. – 2.1. La dirigenza pubblica in Italia. – 2.2. Organizzazione e coaching nell’amministrazione della cosa pubblica. – 2.3. L’attinenza alla missione specifica dell’ente quale elemento conformante dell’organizzazione. – 3. I controlli nell’attività amministrativa e le loro finalità. – 3.1. Il profilo funzionale delle tecniche di controllo. – 3.2. I profili organizzativi. – 3.3. L’indipendenza e il coraggio. – 4. Il controllo di legalità. – 5. I controlli finanziari e l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale italiana. – 6. Brevi considerazioni conclusive.

1. Premessa

È con vero piacere che apro questa interessantissima iniziativa culturale organizzata dall’Università di Pisa.

Il tema che mi è stato dato è affascinante e si raccorda a quei profili di complementarietà tra scienze economiche e scienze giuridiche tante volte affermati come obiettivi indefettibili ma sovente traditi da prassi divaricate.

Devo porgere un sentito ringraziamento a Giovanna Colombini per avermi fortemente voluto. Ma – quel che è più importante – devo anche formularle vive congratulazioni per la completezza e la qualità dei temi e dei relatori che è riuscita coinvolgere ottenendo l’adesione di personalità di assoluto rilievo.

Mi auguro che questa iniziativa abbia seguito coinvolgendo anche altre branche del sapere i cui contenuti, alla lu-ce della crescente complessità del mondo contemporaneo, possono arricchire e migliorare la qualità della valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività amministrativa.

Passando al tema che mi è stato affidato, è utile sottolineare come il concetto di etica sia assiologicamente colle-gato a un giudizio di valore espresso in relazione a un paradigmatico modello comportamentale.

È un termine di eterna giovinezza, che da Aristotele ai giorni nostri è stato utilizzato con molta frequenza: oggi si può dire che sia addirittura “abusato”. E la prima cosa da chiedersi è se tale sproporzionata utilizzazione non sia da porre in relazione all’era dei frequenti contrasti contemporanei sullo status deontologico dei singoli individui. Su Twitter, su Facebook, su qualsiasi blog, nel dibattito politico, appaiono continuamente opinioni del tutto eccentriche, spacciate assertivamente in relazione ai concetti di buono, giusto, lecito o sconveniente. Da ciò emergono implicita-mente modelli comportamentali avulsi dall’id quod plerumque accidit, come se parlare di etica in questo modo for-nisse nutrimento e legittimazione ai modelli più spinti di egocentrismo.

A me è stato assegnato di parlare dell’etica dei controlli nell’ambito della pubblica amministrazione e, senza la pretesa di ridurre a unità una materia particolarmente complessa e controversa, vorrei farlo trattando contemporanea-mente del controllo e dell’oggetto del controllo, che è l’attività amministrativa e la resa delle prestazioni sociali.

2. Attività amministrativa e resa delle prestazioni sociali quali oggetto del controllo

Mi trovo ora a parlare di questo argomento in un contesto importante, quello della Summer school in public audi-ting and accountability, e vorrei condividere con i nostri ospiti riflessioni sincere e non banali sul cattivo esito di tan-te riforme che nel nostro Paese hanno caratterizzato sia l’azione amministrativa che i relativi controlli.

Tratterò l’argomento in generale ma non potrò fare a meno di portare esempi concreti ispirati dalla realtà italiana, quella che conosco direttamente e che da anni mi coinvolge e mi ha coinvolto come attore, come osservatore e come giudice.

Da questa esperienza ho ricavato una sorta di idiosincrasia per gli stereotipi che, non di rado, negli ultimi anni hanno caratterizzato anche le parole chiave delle diverse riforme adottate nel nostro Paese.

(*) Intervento alla 2019 Summer School in public auditing and accountability, European Court of Auditors, University of Pisa, Acca,

Pisa, 8-12 luglio 2019.

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N. 4/2019 PARTE I – DOTTRINA

6

Efficacia, efficienza, economicità, misurazione della performance, dipendenti fannulloni, managerialità, “liberarsi dai lacciuoli legislativi” sono hastag con i quali i riformatori hanno spesso riassunto gli obiettivi o bollato i fenomeni da combattere. Non si può dire che in Italia le cure da cavallo, prescritte all’amministrazione a partire dagli anni No-vanta per attuare queste parole d’ordine, abbiano sortito gli esiti sperati.

Negli anni Novanta del secolo scorso in Italia si è provveduto a introdurre controlli di gestione nell’amministrazione e controlli esterni sulla gestione affidati, per lo più, alla Corte dei conti. Nuovi controlli che si collegavano a un nuovo modo di amministrare in cui il legislatore italiano aveva previsto una drastica separazione tra livello politico e livello amministrativo. I controlli strategici e quelli di gestione dovevano supportare rispettivamente il miglioramento delle politiche pubbliche e quello della gestione amministrativa.

L’obiettivo era certamente condivisibile perché si trattava di integrare i tradizionali controlli di legittimità e quelli contabili con tecniche finalizzate a valutare le performance pubbliche e la customer satisfaction.

Anche se la qualità del drafting normativo era scarsa, l’idea era – almeno in astratto – giusta: da un lato, dotare le amministrazioni di un controllo direzionale in grado di raccogliere in tempo reale l’andamento della gestione e di cor-reggerla per renderla più efficiente, efficace ed economica; dall’altro, assicurare un controllo esterno successivo o concomitante di un organo neutrale, quale la Corte dei conti, in grado di valutare i risultati e, contemporaneamente, anche la qualità dei controlli interni dell’amministrazione. Un simile approccio necessitava chiaramente di non ab-bandonare le vecchie tecniche di natura contabile e di sindacato sulla legittimità dell’azione amministrativa, bensì in-tegrarle nella prospettiva di un miglioramento dei risultati complessivi della cura di interessi pubblici.

Tale obiettivo sincretico richiedeva, ovviamente, una conoscenza profonda dei vari settori dell’amministrazione, dato che alcuni di essi si prestano all’introduzione delle tecniche di controllo aziendali, come quello di gestione, men-tre altri, per esempio quelli istituzionali facenti capo ai ministeri, appaiono insuscettibili di valutazioni analoghe a quelle che ispirano la gestione delle società a fine di lucro.

Anziché processi di evoluzione culturale coerenti con tale assunto, si sono ingaggiate, tra cultori della materia e magistrati della stessa Corte dei conti, molte battaglie ideologiche, non di rado inconcludenti, tra le quali spiccava quella fra gli assertori della tradizionale contabilità finanziaria e quelli della cosiddetta contabilità accrual. In un con-testo di prassi creative e per lo più asistematiche, le famose “e” della buona amministrazione – efficacia, efficienza, economicità – sono state abusate fino a scalfirne il significato intuitivamente simpatetico. Senza un contenuto e un metodo specifico esse sono divenute meri sostantivi o aggettivi generici e atecnici. Ricordo lunghi e noiosi seminari di aziendalisti privati, prestati all’indottrinamento dei pubblici funzionari – anche per la colpevole insistenza di stra-tegie politiche e amministrative che cercavano di delegare a costoro la specificazione tecnica della suddetta termino-logia –, nei quali si arrivava financo a invitare i dipendenti pubblici a disapplicare norme giuridiche nei casi in cui es-se avessero rallentato l’azione amministrativa. Immaginate l’effetto di tutto ciò in un Paese afflitto da un forte deficit di legalità.

In realtà, questi soloni imprestati alla docenza in un campo per loro sconosciuto ignoravano e forse ancora ignora-no che la managerialità dell’agire amministrativo consiste nel trovare la strada più snella dentro la legge, non contro la legge. L’ipertrofia normativa va combattuta dal legislatore e da chi ha la direzione politica del Paese, non dal primo aspirante stregone che magari cerca di giustificare la sua ignoranza circa i canoni dell’azione amministrativa con la farraginosità della legge. Se poi un simile modo di pensare contagia anche i controllori è evidente l’inevitabile corto circuito di attività di I e di II livello che si avvitano su se stesse.

Come già rilevato, è solo con riguardo a taluni profili della gestione della cosa pubblica che la compatibilità con le regole economiche e industriali si rende evidente, mentre per le altre attività il metro di misura è molto diverso. E, comunque, la misurazione dell’attività amministrativa, salvo rare eccezioni, non è mai un’attività appartenente alla branca delle scienze esatte ma è connotata dalla soggettività e dagli orientamenti di chi valuta. Per tale motivo, anche la misurazione sconta l’ambiguità dei parametri adottati per il suo esercizio e non può assurgere a metro di paragone infallibile per tutti i settori in cui la cura degli interessi pubblici si dispiega.

2.1. La dirigenza pubblica in Italia

Mi rendo conto – prima di addentrarmi nelle tematiche dei controlli direzionali – di non potermi sottrarre allo scomodo tema della dirigenza pubblica in Italia, che avrebbe dovuto costituire la cerniera forte tra strategie politiche e loro attuazione e quindi anche tra controllo strategico e controllo di gestione.

Lo spoil system introdotto negli anni Novanta, e più volte modificato nel corso del tempo, non ha funzionato. Sin-teticamente se ne possono ricordare i fenomeni più distorsivi: a) proliferazione abnorme di figure dirigenziali; b) mo-bilità esasperata che ha impedito il formarsi di professionalità specifiche; c) abnorme sperequazione retributiva tra dirigenza e quadri intermedi; d) assenza di procedure di valutazione adeguate.

Quanto alla abnorme proliferazione di figure dirigenziali, tale fenomeno non solo ha causato una dilatazione della spesa, ma ha prodotto anche “personaggi in cerca di autore” in quelle situazioni caratterizzate da intrinseca inadegua-tezza alla direzione, da concreta assenza di funzioni direttive (quanti dirigenti senza potere), da affannosa ricerca di nuovi e più remunerativi incarichi che ha causato lo sviluppo di curricula inversamente proporzionali all’esperienza e alle conoscenze specifiche.

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Proprio la ricerca di nuovi e più vantaggiosi incarichi ha provocato una mobilità esasperata della dirigenza, che sovente ha abbandonato senza preavviso la direzione di importanti apparati amministrativi per lucrare incarichi più remunerativi.

In un sistema così instabile e così condizionato dall’investitura politica, il referente naturale dei pubblici funziona-ri è stato piuttosto il rapporto personale con “chi conta” piuttosto che la cura dell’interesse pubblico e i controlli fina-lizzati al suo miglioramento. Mantenersi virtuosi in questo contesto richiede un grande sforzo intellettuale, una capa-cità di pensare in positivo, una capacità di sottrarsi alle mode transeunti senza tuttavia estraniarsi dal proprio ruolo sociale e professionale.

Certamente non aiuta questo percorso di “autonomia virtuosa” la forte sperequazione retributiva tra dirigenti e quadri intermedi: giovani funzionari motivati e preparati si scontrano spesso con posizioni precostituite e consolidate in un comodo “aureo immobilismo” culturale e operativo. E molti cedono alla tentazione di considerare il loro lavoro come uno spazio temporale da utilizzare per preparare più vantaggiosi concorsi.

Non è questa la sede per proporre articolate ricette di cambiamento per gli assetti organizzativi delle pubbliche amministrazioni italiane. Tuttavia, proprio il profilo culturale ed etico di una socialità “vocata e onesta” può mettere al centro dell’attenzione del Governo e del Parlamento i problemi concreti dell’agire amministrativo.

La visione sociale del lavoro pubblico comporta che gli obiettivi siano concretamente individuati in “ruoli opera-tivi”, in grado di valorizzare leadership naturali prima ancora che formalmente ed economicamente riconosciute.

Solidarietà, circolazione di informazioni, spazi di effettiva formazione professionale (perché il sistema di forma-zione e aggiornamento dei pubblici funzionari deve essere dominato in Italia dal monopolio di scuole pubbliche fi-nanziate a prescindere dalla qualità dell’offerta anziché mettere queste ultime in concorrenza con quelle private che si autofinanziano?) possono invertire la rotta e sollecitare chi governa e detta le regole a inversioni di tendenza.

Più questo auspicato fenomeno di socializzazione verrà dal basso, più si potrà incidere positivamente sull’operato della pubblica amministrazione, evitando quel dirigismo ondivago che ha massacrato intere generazioni di funzionari.

Si dice che i politici dovrebbero stare più spesso in mezzo alla gente comune per coglierne le vere esigenze: ebbe-ne, sarebbe anche opportuno che lo facessero in tutte le amministrazioni e le unità organizzative che operano sul terri-torio. E, perché questo avvenga, è necessario che il diverso approccio collegiale ai problemi si propaghi dalla base, dal momento che per introdurre innovazioni positive deve sempre esistere un humus appropriato pronto a riceverle.

2.2. Organizzazione e coaching nell’amministrazione della cosa pubblica

Forse si potrebbe riassumere l’insieme di queste riflessioni con il seguente motto: “Dobbiamo sempre essere noi stessi nell’interpretare il compito che ci viene affidato, nella consapevolezza che sempre di un compito si tratta e non di una libera interpretazione della nostra presenza in una struttura pubblica”.

Capacità di divulgazione, cuore, equilibrio e passione possono essere le stelle comete per conciliare i fini sociali da perseguire nell’amministrazione con le vocazioni individuali. La molteplicità dei contributi individuali verso uno specifico fine può produrre effetti sorprendenti in termini di risultati. Insomma, il benessere organizzativo e la pre-venzione del disagio lavorativo possono diventare il doping della buona amministrazione.

Per realizzare una scala veramente meritocratica senza urtare e disincentivare i componenti di una comunità di la-voro occorre dare l’esempio maieutico di guidare, coinvolgere, far comprendere ai meno dotati il motivo per cui il ruolo più importante viene assegnato ai soggetti eccellenti.

Una parola d’ordine che ha creato guasti inauditi nella gestione dei pubblici dipendenti è il termine “fannulloni” con il quale, in determinati periodi, sono stati bollati tutti i pubblici dipendenti. Non bisogna essere un allenatore di una squadra di qualche disciplina sportiva per comprendere che l’autostima di un gruppo diventa indefettibile stru-mento di successo nell’attività che viene esercitata.

Per risollevare le sorti della produttività di una struttura occorre ridare mezzi e fiducia alla stessa, non confonder-ne tutti gli elementi in una critica basata su luoghi comuni o elementi statistici. Qualche volta il “fannullonismo” non è neppure imputabile a chi lo pratica ma a chi dirige, il quale ne tollera la presenza senza nemmeno provare a utilizza-re il nullafacente. Probabilmente perché il superiore presenta gli stessi caratteri del preteso fannullone. In ogni caso, non si è mai vista una squadra di successo disistimata dal suo allenatore.

Concetti come “cambiamento nel rispetto della persona”, “benessere dell’organizzazione in tempi di contenimento della spesa”, “welfare aziendale per la salute” trovano rappresentanza nei principi più elevati della nostra Costituzio-ne e – quel che più importa – sono paradigmi guida per chi dirige.

Un approccio umano nella gestione e nel controllo dell’amministrazione deve trovare nutrimento nella ragione, nella coerenza e nel cuore. Certamente importante è il concetto di fare squadra perché implica un modo diverso da quello piramidale che vede un dirigente chiuso nella torre eburnea del proprio potere e una serie di sottoposti adibiti a compiti di mera esecuzione. Nel gioco di squadra occorre che tutti i giocatori conoscano l’obiettivo, il loro ruolo, il modo di interagire col vicino e col superiore. A quest’ultimo è affidato il compito di impiegare buona parte del pro-prio tempo per spiegare strategie e obiettivi e assegnare a ciascuno le attività da svolgere e il proprio campo di azione. Compito certamente arduo nel degradato contesto amministrativo contemporaneo ove è difficile rintracciare – al di fuori di un alluvionale sovrapporsi di prassi – il senso di appartenenza a un’unica comunità.

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E, tuttavia, pensare in positivo, suggerire l’evoluzione di prassi obsolete, rivitalizzare uffici ormai dimenticati, promuovere sinergie e nuove specializzazioni costituiscono l’unica alternativa a una cinica rassegnazione.

Se in generale l’etica viene intesa come insieme di norme e valori di un individuo o di un gruppo, nel mondo am-ministrativo essa si configura come riflessione speculativa sulle norme e sui valori che caratterizzano l’attività della pubblica amministrazione: quindi non ha senso pensare a una sommatoria di “morali individuali” tra loro svincolate bensì alla condivisione e conciliazione, laddove la condivisione sia controversa, di norme e valori secondo una spie-gazione razionale e motivata della propria appartenenza a una organizzazione comune finalizzata a una missione pubblica.

Nella pubblica amministrazione i profili gestori più importanti sono probabilmente quelli legati alle modalità con cui si percepisce il proprio ruolo, la motivazione a esprimere la propria personalità nel lavoro d’ufficio, la compren-sione e messa a sistema delle problematiche personali scaturenti dalle particolari condizioni di lavoro e dalle trasfor-mazioni culturali, in questo periodo molto rapide. L’etica amministrativa non consiste in un giudizio tout court sulla condotta nella vita lavorativa, sul grado di felicità delle persone che sono chiamate ad operare: è invece collegato alla sua essenza il riferimento alle finalità perseguite e al grado di responsabilità che ciascun individuo assume all’interno dell’organizzazione.

Si dovrebbe sempre creare un circuito virtuoso attraverso il quale il dirigente illustra e divulga gli obiettivi di volta in volta perseguiti e i collaboratori, ciascuno nella scala professionale interpretata, vengono a conoscenza, e di conse-guenza assumono, precise responsabilità.

In sostanza, dovrebbe essere alla base di qualsiasi attività finalizzata a rendere un servizio alla collettività, un pro-cesso conoscitivo collettivo e collegiale, che dai vertici scorre fino ai ruoli meno elevati, attraverso paradigmi autocri-tici tesi a migliorare i risultati.

In Italia, il primo ostacolo a una visione collettiva e collegiale dei propri compiti e dei propri ruoli deriva – come già sottolineato – dai meccanismi di cooptazione della dirigenza, troppo spesso svincolati dal merito specifico e, so-prattutto, dalla conoscenza concreta dei contesti in cui si viene a operare.

L’abuso dei curricula, intesi come cursus honorum di attività molteplici ed eterogenee, ha prodotto l’avvicendarsi continuo, talvolta parossistico, di figure di vertice, poco incentivate e poco propense all’impegno esclusivo, poiché tale impegno potrebbe andare a detrimento della cooptazione politica, fondamentale per ambire a incarichi sempre più importanti.

2.3. L’attinenza alla missione specifica dell’ente quale elemento conformante dell’organizzazione

Probabilmente la dirigenza pubblica dovrebbe essere caratterizzata dall’esperienza, dalla stabilità e dall’indipendenza, quantomeno tecnica, dai vertici politici. Un dirigente così strutturato potrebbe veramente avviare, – sotto i dovuti controlli poiché l’autoreferenza spesso produce situazioni di inerzia e di rendita parassitaria – quel processo di valorizzazione delle risorse umane per l’inveramento dei migliori valori etici, per la tutela dell’eguaglianza, della parità dei sessi, per la lotta alle discriminazioni.

Anche la tutela dei lavoratori trova i suoi naturali limiti nella deontologia professionale: non si possono difendere comportamenti assenti, inerti e boicottanti. Le garanzie non possono diventare difesa strumentale di volontarie ineffi-cienze e di egoistici comportamenti; più in generale può dirsi che la managerialità dell’agire amministrativo non deve essere confusa con l’assistenza sociale ma deve essere concepita come veicolo di valorizzazione delle risorse umane e strumentali per il perseguimento del bene collettivo.

Proprio questa considerazione, unitamente a quelle precedenti, può fornire linfa per combattere le sacche di obiet-tiva inefficienza e le strutture obsolete che proliferano nel nostro sistema amministrativo.

Spesso i rami secchi sono prodotti dall’incuria del legislatore, il quale, preso dall’ansia di disegnare continuamen-te nuovi scenari, non si preoccupa di riqualificare o risistemare strutture create per finalità ormai superate e abbando-nate a se stesse in un limbo di disattenzione. Disattenzione non necessariamente sgradita ai funzionari eticamente meno provveduti ma certamente non cercata da coloro che intendono ancora dare un senso al proprio lavoro quotidia-no.

In queste strutture fatiscenti devono prevalere nuove prassi di autoriqualificazione piuttosto che di “eversione” per effetto di radicali innovazioni normative, non di rado carenti di risorse e di puntuali disegni organizzativi.

Un esempio drammatico di tale disfunzione è stata, in Italia, la riforma provvisoria delle province – prima della entrata in vigore della riforma costituzionale che le sopprimeva; riforma poi bocciata dagli elettori – che ha disartico-lato questi enti senza ridurne le spese fisse e di personale e senza assicurare la continuità dei servizi, che per molto tempo sono rimasti privi di un ente pubblico titolare, di un finanziamento e di una effettiva erogazione.

In definitiva, la difesa delle identità personali nell’organizzazione amministrativa deve essere rispettosa del plura-lismo delle idee ma anche contrassegnata dal limite interno dell’inerenza alla missione assegnata in funzione dei ser-vizi da rendere alla collettività.

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3. I controlli nell’attività amministrativa e le loro finalità

Descritte per sommi capi le disfunzioni che caratterizzano in Italia la cura degli interessi pubblici e formulato l’auspicio che la professionalità e l’autorevolezza di chi dirige possa riscoprire una dimensione sinergica, collegiale e collettiva dell’azione amministrativa, si può passare alle problematiche del controllo il quale – sotto il profilo orga-nizzativo e funzionale – presenta connotati analoghi a quelli dell’amministrazione attiva in una sorta di relazione a matrice.

Per questo motivo molte delle riflessioni sull’amministrazione attiva valgono anche nel campo del controllo.

I controlli possono inerire ai soli profili di legalità o riguardare la gestione in una prospettiva direzionale e corret-tiva. A loro volta possono essere interni o esterni. Possono far capo a un magistrato, come avviene per la Corte dei conti italiana, oppure a una struttura burocratica e piramidale, come avviene per molte istituzioni di controllo sparse per il mondo.

Comunque siano strutturati e quale che sia il loro obiettivo specifico, i controlli di gestione (1) presentano l’esigenza di una pianificazione organizzata in funzione degli obiettivi che si intendono raggiungere.

L’amministrazione e i servizi pubblici sono oggi talmente complessi che la figura del controllore monocratico è recessiva e difficilmente compatibile con le multidisciplinari esigenze della società contemporanea.

Anche per il controllore l’etica deve essere corredata da preparazione culturale e professionale, presupposti inde-fettibili dell’attività di valutazione. Non si possono accettare incarichi finalizzati al sindacato su attività di cui non si conoscono specificità e funzionamento.

3.1. Il profilo funzionale delle tecniche di controllo

Poi c’è il profilo funzionale: nella deontologia del controllore la stella cometa deve essere sempre lo scopo in rela-zione al quale l’attività viene svolta. È tale obiettivo a delimitare il perimetro operativo del controllore nello stermina-to universo delle potenzialità conoscitive contemporanee.

Prendiamo l’esempio dei “big data”, che sono così estesi in termini di volume, velocità di risposta e varietà di me-todi analitici di estrazione. Come analizzare, estrapolare e mettere in relazione un’enorme mole di dati eterogenei allo scopo di scoprire i legami causali delle specifiche attività che si vengono ad indagare?

La risposta può ricavarsi proprio tenendo conto dei requisiti del “controllore di qualità”, il quale deve conoscere almeno i rudimenti dei sistemi informatici con cui si confronta ma deve imparare a correggerne la rigidezza e la schematicità con riguardo alle particolari esigenze dell’attività conoscitiva e di valutazione che porta avanti.

Un riferimento paradigmatico può essere l’immensa banca dati che in Italia riguarda gli enti locali: numeri enormi attinenti a bilanci, costi e fabbisogni standard costituiscono una galassia sconfinata e non perimetrabile. In relazione a tale messe di dati le diverse istituzioni coinvolte in controlli e monitoraggi, nonché i portatori di interesse e le asso-ciazioni di categoria traggono con diverse metodologie le più diverse conclusioni, non di rado confliggenti e talvolta anche stravaganti.

(1) È utile richiamare la distinzione tra controllo sulla gestione, per il quale vale il principio della pianificazione e della selezione del-

le attività oggetto di valutazione e il cui esito è una relazione, e controllo di legittimità-regolarità, per il quale, di regola, il principio è quello della generalità del sindacato e il cui esito è una decisione nella forma-sentenza. Mette conto ricordare tale distinzione come rias-sunta dalla Corte costituzionale nelle seguenti decisioni: “I controlli delle sezioni regionali della Corte dei conti – previsti a partire dalla emanazione dell’art. 1, cc. 166 ss., l. 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2006) e poi trasfusi nell’art. 148-bis Tuel – hanno assunto progressivamente caratteri cogenti nei confronti dei destinatari (sent. n. 60/2013), proprio per prevenire o contrastare gestioni contabili non corrette, suscettibili di alterare l’equilibrio del bilancio (art. 81 Cost.) e di riverberare tali disfunzioni sul conto consolidato delle pubbliche amministrazioni, vanificando conseguente-mente la funzione di coordinamento dello Stato finalizzata al rispetto degli obblighi comunitari […]. In particolare, il controllo di legit-timità e regolarità contabile attribuito alla Corte dei conti per questi particolari obiettivi si risolve in un esito dicotomico (sent. n. 179/2007 e n. 60/2013), nel senso che ad esso è affidato il giudizio se i bilanci preventivi e successivi siano o meno rispettosi del patto di stabilità, siano deliberati in equilibrio e non presentino violazioni delle regole espressamente previste per dette finalità. Fermo restando che questa Corte si è già pronunciata, dichiarando infondato il conflitto di attribuzione sollevato dalla stessa Provincia autonoma di Bol-zano contro l’esercizio di questo tipo di controllo sugli enti locali da parte della locale sezione della Corte dei conti (sent. n. 60/2013), il sindacato di legittimità e regolarità sui conti circoscrive la funzione della magistratura contabile alla tutela preventiva e concomitante degli equilibri economici dei bilanci e della sana gestione finanziaria secondo regole di coordinamento della finanza pubblica conformate in modo uniforme su tutto il territorio, non interferendo con la particolare autonomia politica ed amministrativa delle amministrazioni destinatarie (sent. n. 39/2014)” (sent. n. 40/2014); “La forma della sentenza (articolata in motivazione in diritto e dispositivo) con cui si configurano le delibere di controllo sulla legittimità dei bilanci e delle gestioni finanziarie a rischio di dissesto – e la sottoposizione di tali delibere alla giurisdizione esclusiva delle sezioni riunite della Corte dei conti in speciale composizione – determinano un’integrazione della funzione giurisdizionale e di quella di controllo, geneticamente riconducibile al dettato costituzionale (artt. 100 e 103 Cost.) in ma-teria di contabilità pubblica, ove sono custoditi interessi costituzionalmente rilevanti, sia adespoti (e quindi di difficile giustiziabilità), sia inerenti alle specifiche situazioni soggettive la cui tutela è affidata, ratione materiae, alla giurisdizione a istanza di parte della magistratu-ra contabile (artt. 11, c. 6, lett. a ed e, e 172 ss. del d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174, recante Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’art. 20 della l. 7 agosto 2015, n. 124)” (sent. n. 18/2019).

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In questo complesso scenario può orientarsi proficuamente solo chi conosce il mondo delle autonomie territoriali poiché è necessario essere a conoscenza di peculiarità in grado di filtrare e correggere ictu oculi alcune letture super-ficiali dei big data. È utile richiamare alcune componenti del “bagaglio del controllore appropriato”: a) la consapevo-lezza che le regole di controllo modificano il comportamento del controllato (2); b) la necessità che chi raccoglie, chi conferisce, chi immette i dati sia controllato (3); c) i difetti di impostazione della banca dati in relazione allo scopo conoscitivo che ci si prefigge (4).

In definitiva si può dire che le tecniche di controllo – anche quelle più avanzate – sono sempre conformate dalle finalità che con dette tecniche si intendono perseguire e proprio tale aspetto teleologico deve dominare l’attività di estrazione dei dati e correggerne l’insignificanza derivante dal rigido sistema di archiviazione.

Quanto detto di per sé esclude uno dei miti dell’ultimo decennio del secolo scorso e del primo di quello attuale, vale a dire la ricerca e il perfezionamento del “metro unico” a indicatori variabili quale strumento di misurazione dell’attività amministrativa (5). Ma proprio la natura funzionale delle tecniche di controllo implica, da un lato, che la misurazione sia sempre “relativa allo scopo” e, dall’altro, che la stessa è a rischio di forte manipolazione quando il piano di controllo sconta i pregiudizi assiomatici di chi lo imposta.

E proprio il profilo funzionale serve a scriminare due tipologie di controllo assolutamente diverse: il controllo di natura macroeconomica che si basa sulla lettura aggregata di dati ricercando linee di tendenza piuttosto che disfun-zioni (le quali possono essere evocate in astratto ma mai imputate automaticamente a ciascuno dei componenti dell’aggregato); quello analitico riservato a singoli enti e apparati ove l’elemento statistico deve essere necessaria-mente integrato e corretto con la lettura degli epifenomeni che caratterizzano la singolarità.

3.2. I profili organizzativi del controllo

Come già rilevato, la complessità della realtà amministrativa contemporanea rende recessiva la figura monocratica del controllore quale che sia il suo status e la peculiarità dei fini attesi. Oggi sono la sinergia operativa, il coordina-mento e la capacità di direzione a fare la differenza.

Chi dirige e coordina un gruppo lo deve fare in modo autorevole e maieutico ma non autoritario, così da far senti-re a tutti i componenti della squadra di controllo, che interagiscono nella lettura di bilanci e documenti amministrativi e tecnici, l’importanza del proprio ruolo e del proprio contributo.

Ho notato che anche all’interno di prestigiose multinazionali della revisione e della consulenza non sempre i me-todi di lavoro si ispirano a tali caratteristiche. Sebbene nella rappresentazione di tali attività venga reclamizzato che anche stagisti e impiegati generici possono aspirare ad una rapida espressione delle proprie potenzialità, l’attività di supporto ai gradi più elevati del management si svolge con l’applicazione di formule matematiche ripetitive, delle quali viene curato l’addestramento tecnico ma non spiegato il significato e lo scopo ultimo.

Un fenomeno che – con i dovuti e doverosi distinguo – potrebbe essere paragonato metaforicamente alla disuma-nizzazione della catena di montaggio in fabbrica: per rispettare lo standard produttivo dell’azienda il revisore base compie solo e unicamente quelle operazioni prefissate e non può derogare assolutamente dalla procedura standard. Lo scorrere della catena non permette al revisore il “lusso” di interrogarsi sulle finalità e sulla appropriatezza della pro-

(2) Così, ad esempio, quando vi è stato un mutamento legislativo circa la gestione dell’avanzo di amministrazione da parte degli enti

locali, la cui utilizzazione era prima preclusa e poi consentita, l’incremento macroeconomico del numero e del valore assoluto degli avanzi non può essere considerato sintomo inequivocabile di maggiore virtuosità, ben dovendosi verificare il motivo degli scostamenti anomali individuati dopo la modifica normativa, i quali in molti casi derivano dalla manipolazione dei dati immessi nel sistema. E questo è compito di un controllore in grado di selezionare in modo significativo le fattispecie da analizzare.

(3) Sempre con riguardo alla imponente banca dati attinente agli enti locali, sta emergendo nel corso dei controlli esercitati dalle se-zioni regionali di controllo della Corte dei conti un notevole scostamento tra i dati effettivi dei singoli enti locali con quelli immessi nel sistema. Anche in questo caso i “controllori appropriati” che non si limitano a commentare l’aggregazione, quale che sia, hanno indivi-duato tra le cause più frequenti la deresponsabilizzazione e l’impreparazione specifica di chi immette i dati nel sistema e di chi li elabora. Quando, invece, si chiede la certificazione o l’attestazione di dati analitici i responsabili delle ragionerie e degli altri uffici dell’ente sono molto più attenti alla coerenza interna degli elaborati che trasmettono,

(4) Questo è un fenomeno molto più inquietante perché riguarda in generale la progettazione dei sistemi e la loro utilizzazione da parte dei controllori. Succede sempre più spesso che il sistema sia progettato in base a logiche ingegneristiche standardizzate ma incom-patibili con le finalità della creazione della banca dati. Quando il controllore se ne accorge deve sottostare “alla dittatura della macchina” e modificare lui stesso la propria prassi perdendo di vista lo scopo del controllo e la incisività dello stesso. Così, ad esempio, accade per alcuni sistemi premiali disposti dal legislatore per gli enti pubblici che pagano le fatture a breve termine sulla base dei dati immessi dai soggetti pubblici interessati o addirittura secondo un sistema centralizzato predisposto dal ministero competente. L’assenza di qualsiasi efficace collegamento con sistemi di verifica degli ordini e della loro registrazione fa sì che questi meccanismi premiali diventano degli effettivi “boomerang” perché ogni anomalia nella gestione delle forniture finisce per diventare un debito fuori bilancio fenomeno che solo il controllore preparato è in grado di collegare alle falle del sistema di selezione dei dati.

(5) Importare metodologie standardizzate, come, ad esempio, l’utilizzazione di manuali del controllo settoriali che cercano di rendere generali profili di assoluto dettaglio se rapportati all’universo amministrativo, non aiuta a rendere un prodotto di qualità e ad acquisire la stima di coloro che vengono controllati nonché dei livelli amministrativi più elevati ai quali i rapporti di controllo di regola vengono indi-rizzati.

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cedura stessa. Per coltivare la speranza di un avanzamento graduale nelle gerarchie occorre comunque adeguarsi a questo tipo di manovalanza intellettuale.

Al contrario, la direzione e il coordinamento dei controllori di base dovrebbe essere accompagnato dall’analisi de-gli aspetti chiave della revisione, con l’esame delle tematiche più ricorrenti e delle relative risposte di revisione, avendo presenti le singole peculiarità degli enti o degli organismi assoggettati al controllo.

Ciò consente di coinvolgere il revisore nell’efficace perseguimento degli obiettivi previsti dal piano di controllo.

3.3. L’indipendenza e il coraggio del controllore

È probabilmente inappropriato parlare dell’indipendenza del controllore dopo i profili funzionali e organizzativi soprattutto con riguardo ad un tema come quello dell’etica, rispetto al quale indipendenza, coraggio e probità si pon-gono in rapporto di “identità specificativa”. E tuttavia mi è sembrato utile inserire in coda tali riflessioni perché in fondo l’indipendenza è un motore di conformazione degli assetti organizzativi e teleologici del controllo. La capacità di reggere pressioni politiche e ambientali; di superare i pregiudizi; di avere il coraggio nell’assumere posizioni im-popolari, quando ciò è necessario, sono qualità connaturate al “buon controllo”.

Uno degli eroi più illustri e commoventi della nostra storia repubblicana è l’avvocato Giorgio Ambrosoli, il quale – nominato commissario liquidatore della Banca privata italiana e delle attività finanziarie del banchiere siciliano Mi-chele Sindona – fu assassinato da un sicario ingaggiato per farlo tacere.

Nel corso della sua opera di controllo Ambrosoli fu oggetto di pressioni e intimidazioni finalizzate a vanificare il corso della giustizia. Egli era consapevole di rischiare e in una struggente lettera alla moglie ebbe a scrivere: “è in-dubbio che in ogni caso pagherò a molto caro prezzo l’incarico […] ho avuto in mano un potere enorme e discrezio-nale e ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del Paese […]. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […]. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa”.

Certamente non si può pretendere dal controllore una dote di eroismo come quella che ci ha lasciato il fulgido esempio dell’avvocato milanese e tuttavia – senza necessariamente sconfinare nel rischio della vita – occorre trovare energie e motivazioni per contrastare con l’integrità morale e l’indipendenza atteggiamenti opportunistici e l’indolente adeguamento “a quello che fan tutti”.

La chiave per far questo sta probabilmente nel mantenere un rigore sistematico nella elaborazione delle proprie opinioni e un saldo ancoraggio al senso della propria funzione così da mantenere una indipendenza “munita” nelle scelte interpretative e argomentative. In tal modo il distacco dalle opinioni prevalenti nei contesti transeunti della so-cietà contemporanea – ove senza autorevolezza e rigore qualsiasi voce si perde nell’universo del controvertibile, dell’effimero e dell’inutile – può consentire di fornire un contributo decisivo ai contesti sociali in cui si opera.

4. Il controllo di legalità

L’indelebile ricordo di Ambrosoli mi consente di esprimere la personale predilezione che ho – tra le varie tipolo-gie di controllo – per il controllo di legalità.

In una democrazia rappresentativa il principio di legalità è un bene intrinseco che va al di là della bontà o meno di una legge perché nessuno può permettersi di bypassare una prescrizione normativa quando esiste eventualmente una Corte suprema come la Corte costituzionale italiana preposta al controllo di legittimità delle leggi.

Il controllo più importante è quello neutrale svolto al servizio della collettività, esercitato per curare gli interessi finanziari – sovente senza un “padrone processuale” – e perseguire la sana gestione finanziaria.

La sana gestione finanziaria è una garanzia per le fasce più deboli della popolazione poiché, se nessuno frena la malversazione del danaro pubblico, i conseguenti dissesti cadranno piuttosto sugli indifesi che sulle classi più abbien-ti.

Ma il controllo di legalità – e più in generale tutti i controlli – devono essere esercitati in modo comprensibile all’uomo di media diligenza. I tecnicismi devono essere declinati con un linguaggio divulgativo in modo che l’amministrato sia informato dei risultati conseguiti da chi ha ricevuto il mandato elettorale e sappia meglio orientarsi sulle future scelte elettorali.

Il controllo – e soprattutto quello sui bilanci – è il carburante della vera accountability, il rendiconto morale che l’eletto deve rendere alla fine del proprio mandato.

Senza un’informazione obiettiva e neutrale chiunque, attraverso la potenza dei mass media e delle convenzioni egocentriche contemporanee, può spacciare il proprio mediocre operato per un capolavoro e ottenere immeritate ri-conferme fino a produrre guasti irrimediabili che ricadranno sulle generazioni future.

5. I controlli finanziari e l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale italiana

La Corte costituzionale italiana non si occupa direttamente di audit e accountability ma di recente ha intercettato spesso questioni interdipendenti con il corretto esercizio di queste attività, dalle quali si possono ricavare spunti che interagiscono con l’etica del controllore, come prima sinteticamente specificata.

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La crisi economica iniziata nel 2009, le conseguenti ristrettezze economiche – unitamente a rilevanti fatti giuridici come la sottoscrizione del trattato cosiddetto Fiscal compact e la modifica di una parte significativa della nostra Co-stituzione afferente alla materia finanziaria – hanno fatto sì che la legislazione ordinaria si occupasse di drastici tagli e riduzioni significative di spesa, con forte ricaduta sugli enti della finanza pubblica allargata e in particolare sulle au-tonomie territoriali, le quali sono impegnate nella resa di fondamentali prestazioni sociali a favore delle comunità amministrate.

Tutto ciò ha provocato l’esplosione di un formidabile contenzioso, in primis tra Stato e autonomie, avente ad og-getto le reciproche relazioni finanziarie (6).

Quel che è importante ai nostri fini è che tali fenomeni così sinteticamente riassunti hanno comportato una pro-fonda trasformazione della contabilità pubblica poiché tagli, riduzioni di risorse e limiti di spesa sono stati operati at-traverso una complessa normativa tecnica, che ha assunto, sempre più spesso, rango di legislazione primaria.

Siccome il merito delle controversie risulta non di rado dipendente dalla redazione dei bilanci, delle norme finan-ziarie e di altre disposizioni a essi consustanziali, la Consulta ha dovuto sviluppare tecniche di sindacato capaci di rendere effettiva la giustiziabilità di disposizioni illegittime, quando dalla correlazione di numeri ed enunciati legisla-tivi è risultato inequivocabile il contrasto con i precetti costituzionali.

Uno degli effetti di questa evoluzione giurisprudenziale è stata la lettura del principio del pareggio di bilancio, in-teso – conformemente alla dottrina più autorevole (Luciani) – non come pareggio finanziario assoluto ma come pre-cetto finalizzato alla realizzazione dell’equilibrio dinamico tra risorse disponibili e spese autorizzabili.

Il pareggio, infatti, è un’entità ideale e virtuale perché – quand’anche ipostatizzato in una legge di previsione di bilancio – risulta unicamente un’ipotesi programmatica, soggetta all’inevitabile erosione da parte delle tante soprav-venienze, interne ed esterne alla gestione finanziaria.

L’equilibrio, invece, è il fine della gestione finanziaria, poiché opera in modo mobile e tendenziale nella prospet-tiva di correggere tutte le sopravvenienze che alterano l’equilibrio dei “piatti della bilancia” inerenti rispettivamente alle risorse e alle spese.

L’interpretazione costituzionale è quindi ispirata all’esigenza di trasformare un “sindacato numerico” del tutto formale in un giudizio finanziariamente concreto, teso a conferire effettività al precetto costituzionale. Di qui una concezione funzionalizzata del diritto del bilancio, che ha consentito di affermare la sua appartenenza alla categoria dei “beni giuridici”, quale “bene pubblico” (Corte cost., sent. n. 184/2016), in quanto è lo strumento attraverso cui si dà sintesi e certezza alle scelte fondamentali in materia economica e finanziaria nella comunità di riferimento, scelte che sono inevitabilmente declinate in un’ottica temporale e di continuità dell’amministrazione.

L’importanza di questa prospettiva si allarga al problema dell’effettività dei diritti soggettivi e delle prestazioni costituzionalmente rilevanti, che solo attraverso idonee risorse stanziate in bilancio possono essere garantiti e soddi-sfatti. Questo dato di evidente realtà, che interessa in particolare i diritti sociali, rende il bilancio un bene rilevante non solo per la comunità, ma, altresì, per la persona, ovvero per i singoli individui che compongono la comunità stes-sa (sent. n. 275/2016). Infatti, al di là del complesso scenario costituzionale derivante dalla interazione di molteplici epifenomeni fattuali e giuridici con principi cardine della nostra Costituzione, occorre comunque sottolineare come in Italia (e anche in altre democrazie occidentali) si sia verificata una rilevante compressione delle prestazioni sociali e come ciò abbia fatto sì che – sempre più spesso – questioni inerenti alla pretesa lesione di diritti fondamentali per ef-fetto dei tagli siano state sollevate dinanzi alla Corte costituzionale in relazione a fattispecie normative di carattere finanziario.

Il bilancio è sede di scelte nell’allocazione delle limitate risorse disponibili: una illustre studiosa, Lorenza Carlas-sare, ha affermato che la limitatezza delle risorse e la necessità che i bilanci pubblici siano sempre in equilibrio do-vrebbero indurre una classificazione delle spese secondo un ordine di priorità di natura costituzionale. E le priorità dovrebbero vedere al vertice della piramide i livelli essenziali delle prestazioni sociali, quali standard indefettibili per assicurare la tutela sostanziale dei diritti della persona secondo i canoni dell’art. 2 e dell’art. 3, c. 2, Cost.

Proprio in questa prospettiva si delinea l’importanza dei controlli e delle professionalità tecniche che sono funzio-nalmente collegati alla corretta redazione e gestione dei bilanci poiché spesso l’effettività delle pronunce della Con-

(6) Lo Stato, nel ruolo di custode dei vincoli di finanza pubblica sottoscritti in sede europea, ha disposto forti tagli ai flussi finanziari

verso gli enti di base che sono quelli in grado di fornire la maggior parte delle prestazioni sociali ai cittadini. Gli enti territoriali hanno più volte convenuto in giudizio lo Stato per tutelare la loro autonomia finanziaria. Vi è stata comunque una composizione a geometria variabile delle contrapposte posizioni processuali perché sovente è stato il Governo ad invocare la sana gestione finanziaria come pre-supposto della buona amministrazione così come l’autonomia finanziaria delle autonomie territoriali è stata rivendicata in contrasto o sinergicamente in riferimento alla tutela di interessi finanziari diffusi. La Corte costituzionale ha cercato di dirimere queste complesse questioni finanziarie attraverso il richiamo alla leale collaborazione istituzionale. Più di recente – di fronte a una dialettica politica oltre-modo vivace – ha finito per affermare che comunque la disciplina delle relazioni finanziarie tra Stato e regioni non è affare di disputa d’onore per sancire una prevalenza, quale che sia, tra due contendenti ma deve tendere al benessere dei cittadini, sotto il profilo dell’erogazione dei servizi sociali e soprattutto dei livelli essenziali delle prestazioni (nella fattispecie si trattava dei livelli essenziali di assistenza-Lea, sent. n. 169/2016).

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sulta dipende dall’esatta percezione di ciò che complesse disposizioni tecniche intendono raggiungere. Sotto questo profilo è dirimente la possibilità di attingere a documenti “di qualità”, redatti da esperti finanziari e contabili in modo chiaro e trasparente, declinando i tecnicismi più spinti (e talvolta inutilmente oscuri) in proposizioni idonee a illustra-re la dimensione economico-finanziaria delle norme sottoposte a giudizio di costituzionalità. Ecco perché il controllo di legalità deve essere sempre posto al vertice dell’attività di audit: proprio il confronto tra fattispecie contabile e pre-scrizione normativa consente di illuminare il significato di quest’ultima ai fini del giudizio di costituzionalità nei suoi confronti.

Ulteriore corollario di tali considerazioni è che il bagaglio culturale del controllore non deve essere limitato al profilo meramente formale, sia esso consistente nella conoscenza della normativa che delle tecniche contabili, bensì integrato da altre conoscenze in grado di percepire e far percepire ai destinatari delle relazioni di controllo il senso delle scelte e della ricaduta pratica che una determinata gestione delle risorse comporta.

È evidente – quando le relazioni tecnico-finanziarie sono utilizzate in sede di giudizio costituzionale – che i loro contenuti vanno a interagire con le problematiche afferenti alla gerarchia dei principi contenuti nella nostra Carta co-stituzionale. Ciò proprio in ragione della interdipendenza dei parametri costituzionali finanziari con quelli inerenti ai servizi e alle prestazioni sociali nonché ai rapporti con le autonomie territoriali. Sebbene sia costante l’orientamento della Consulta circa il fatto che nessun principio costituzionale possa diventare “tiranno” rispetto agli altri, è stato af-fermato in modo altrettanto chiaro che quando la tutela riguarda i livelli essenziali delle prestazioni sociali, la garan-zia di questi ultimi è assicurata solo attraverso l’adeguatezza del finanziamento.

Ad esempio, tale regola è rappresentata proprio in una norma che sembra riguardare piuttosto ragionieri e revisori che giudici costituzionali: l’art. 20 del d.lgs. n. 118/2011, il quale prevede l’esatta “perimetrazione” delle risorse e della relativa spesa destinata all’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea). Ciò in quanto solo una corretta separazione contabile può garantire l’indefettibile erogazione dei livelli essenziali di assistenza dalle altre prestazioni sanitarie che, ancorché utili, devono sempre essere assoggettate alla regola della sostenibilità economica.

È stato così stabilito che «la trasversalità e la primazia della tutela sanitaria rispetto agli interessi sottesi ai conflitti Stato-regioni in tema di competenza legislativa, impongono una visione teleologica e sinergica della dialettica finan-ziaria tra questi soggetti, in quanto coinvolgente l’erogazione di prestazioni riconducibili al vincolo di cui all’art. 117, c. 2, lett. m), Cost. Se, al fine di assicurare la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep), alla cui categoria, come detto, appartengono i Lea, “spetta al legislatore predisporre gli strumenti idonei alla realizzazione ed attuazione di esso, affinché la sua affermazione non si traduca in una mera previsione programmatica, ma venga riempita di con-tenuto concreto e reale, è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” (sent. n. 275/2016), non vi è dubbio che le regioni stesse debbano collaborare all’individuazione di metodologie parametriche in grado di separare il fabbisogno finanziario destinato a spese in-comprimibili da quello afferente ad altri servizi sanitari suscettibili di un giudizio in termini di sostenibilità finanzia-ria» (sent. n. 169/2016).

In tale contesto diventa fondamentale la correttezza del controllo di legalità finanziario-contabile, sia sul piano del merito delle controversie, sia con riguardo alla possibilità – nel caso della Corte dei conti in sede di controllo di legit-timità sui bilanci – di investire la Corte costituzionale di questioni inerenti all’applicazione di norme legislative so-spettate di incostituzionalità (Corte cost. n. 181/2015, n. 89/2017, n. 49/2018, n. 18/2019).

Questa Corte ha affermato che la programmazione e la proporzionalità tra risorse assegnate e funzioni esercitate sono intrinseche componenti del «“principio del buon andamento [il quale] – ancor più alla luce della modifica inter-venuta con l’introduzione del nuovo primo comma dell’art. 97 Cost. ad opera della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale) – è strettamente correlato alla coerenza della legge finanziaria”, per cui “organizzare e qualificare la gestione dei servizi a rilevanza sociale da rendere alle popolazioni interessate […] in modo funzionale e proporzionato alla realizzazione degli obiettivi previsti dalla legislazione vigente diventa fondamentale canone e presupposto del buon andamento dell’amministrazione, cui lo stesso legislatore si deve attenere puntualmente” (sent. n. 10/2016)» (sent. n. 169/2016).

Ecco un formidabile punto d’incontro tra giudizio costituzionale e accounting: i costi e i fabbisogni dei livelli es-senziali delle prestazioni devono essere rapportati e “sviluppati finanziariamente” con riguardo agli standard fissati dal legislatore statale.

La statuizione costituzionale è “giuridicamente completa” per quel che riguarda le prestazioni da garantire e deve essere completata – secondo i principi di legge – con riguardo alle popolazioni interessate, ai costi e ai fabbisogni concreti.

Altro fattore di primaria importanza è costituito dalla lealtà nelle relazioni finanziarie tra Stato e autonomie. Il principio di leale collaborazione richiede un confronto autentico, orientato al superiore interesse pubblico, sicché su ciascuna delle parti coinvolte ricade un preciso dovere di collaborazione e di discussione, articolato nelle necessarie fasi dialogiche (sent. n. 19/2015). La dialettica tra Stato e regioni sul finanziamento dei Lea dovrebbe consistere in un leale confronto sui fabbisogni e sui costi che incidono sulla spesa costituzionalmente necessaria, tenendo conto della disciplina e della dimensione della fiscalità territoriale nonché dell’intreccio di competenze statali e regionali in que-sto delicato ambito materiale. Ciò al fine di garantire l’effettiva programmabilità e la reale copertura finanziaria dei

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servizi, la quale – data la natura delle situazioni da tutelare – deve riguardare non solo la quantità ma anche la qualità e la tempistica delle prestazioni costituzionalmente necessarie. Ne consegue ulteriormente che, ferma restando la di-screzionalità politica del legislatore nella determinazione – secondo canoni di ragionevolezza – dei livelli essenziali, una volta che questi siano stati correttamente individuati, non è possibile limitarne concretamente l’erogazione attra-verso indifferenziate riduzioni della spesa pubblica. In tale ipotesi verrebbero in essere situazioni prive di tutela in tutti i casi di mancata erogazione di prestazioni indefettibili in quanto l’effettività del diritto ad ottenerle “non può che derivare dalla certezza delle disponibilità finanziarie per il soddisfacimento del medesimo diritto” (sent. n. 275/2016).

La prospettiva non è quindi quella di una sterile contrapposizione tra Governo e autonomie territoriali per la ri-vendicazione delle rispettive competenze ma di una dialettica finalizzata ad assicurare la buona amministrazione e la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni alle collettività di riferimento, ciascuno secondo un collaborativo e leale apporto che può cadere sotto il maglio del sindacato costituzionale quando sia esercitato in modo scorretto, così da vanificare le finalità ultime della tutela della persona.

La lealtà nelle relazioni finanziarie deve essere quindi funzionalizzata al benessere dei singoli e deve connotarsi di trasparenza nelle scelte e nell’impiego delle risorse della collettività. Quindi deontologia nella motivazione delle scel-te e nella ostensione dei risultati raggiunti (accountability): in buona sostanza la veste di tali profili deontologici è proprio la trasparenza dei bilanci e della spendita delle risorse.

Molti dei connotati deontologici fin qui evocati finiscono, a ben vedere, per integrare il concetto di trasparenza dei conti pubblici, efficacemente illustrato nella sentenza della Corte costituzionale n. 184/2016, trasparenza alla quale deve essere assicurato anche il contributo dei tecnici della materia finanziaria e contabile.

6. Brevi considerazioni conclusive

Il mondo dell’audit è un mondo di grandi dimensioni e di diversificate finalità: quando si parla di audit pubblico occorre tener presente che il vertice degli obiettivi non è certo il parametro del profitto ma quello della verifica della corretta ed efficace spendita delle risorse pubbliche.

Le scienze aziendali – alle quali le riforme dell’ultimo decennio del secolo scorso hanno guardato forse con trop-po ottimismo e con eccessiva sudditanza culturale – hanno quali riferimenti indefettibili il fabbisogno di mercato, la disciplina dei finanziamenti, il costo del lavoro e delle materie prime, l’intensità della concorrenza. L’ordinamento della pubblica amministrazione non riguarda l’imprenditore se non di riflesso quando in relazione alla sua attività egli valuta la funzionalità degli apparati e la convenienza delle leggi che riguardano l’attività stessa.

Vi è poi un fenomeno di crescente importanza che è quello delle lobbying imprenditoriali, ormai legalizzate, le quali cercano di indirizzare – con modi più o meno leciti – la normazione verso i propri interessi. Si tratta di attività che ricadono fortemente sulle comunità amministrate e il cui impatto viene non di rado oscurato da tecnicismi mate-matici assertivamente definiti come neutrali.

Ci si deve chiedere allora se sia possibile dare – in sede di valutazione – una risposta numerica certa a fenomeni politico-sociali come quello dell’amministrazione pubblica, dove gli aspetti qualitativi sono di enorme importanza. Ad avviso dei più, per fortuna, l’utilizzo di metodi matematici e informatici deve essere integrato – nell’analisi dei fenomeni amministrativi – da conoscenze ispirate alla sensibilità politica, giuridica e professionale, in sostanza da co-noscenze acquisite dallo studio della dinamica delle istituzioni e della società. Infatti, il sistema democratico ispirato alla rappresentanza parlamentare comporta, con riguardo a concetti giuridici ed economici molto elaborati, una tra-sposizione in enunciati comprensibili per il cittadino di media diligenza, affinché la sostanza di problemi fondamenta-li inerenti alle collettività amministrate non rimanga prerogativa di pochi iniziati.

Per decifrare in modo utile e corretto l’attività amministrativa e la corretta erogazione delle prestazioni sociali non ci si può limitare alla semplice interazione tra diritto ed economia, ma occorre tenere presente anche l’evoluzione del-le molte branche scientifiche che oggi ci consentono di leggere la natura umana – la genetica, l’ambiente, la fisica – in modo sorprendentemente interattivo con molti fenomeni che attraversano la nostra società, condizionandone be-nessere e bisogni.

Quindi il problema di un controllo veramente posto nell’interesse generale non è tanto quello di copiare e prende-re a riferimento modelli di sviluppo aziendale, ma quello di contenerli e indirizzarli verso il rispetto dei principi car-dine del nostro ordinamento e – in particolare – di quelli garantiti dalla nostra Costituzione.

A ben vedere si tratta di indirizzare il controllo verso la significatività, la comprensibilità, la divulgabilità in modo da far comprendere ad amministratori ed amministrati il senso e la consistenza delle politiche amministrative che si vanno a configurare in concreto.

Ma divulgare e rendere comprensibili conclusioni tecniche è arte che richiede altissime qualità: una grande capa-cità culturale di illustrare con parole accessibili fenomeni complessi; una dimensione morale impermeabile ai mille condizionamenti e interessi che provengono dalla società e in particolare dal mondo degli affari. Ciò è oggi reso an-cor più difficile dalla convivenza di ordinamenti statali sempre più compressi dalla sconfinata spazialità della globa-lizzazione.

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Tuttavia, se si vuol dare un senso alla parola controllo occorre trovare una consistenza ed una effettività ai suoi esiti; altrimenti il controllo non diventerà altro che una foglia di fico per abbellire un prodotto, senza chiedersi se tale prodotto risulti effettivamente il corretto epilogo di una macchina amministrativa costosa e complessa.

Le regole tecniche non devono essere il veicolo per bypassare quelle giuridiche: troppe volte abbiamo visto certi-ficazioni di processi rilasciate da soggetti privati inerenti a servizi indefettibili come la sanità, l’istruzione, la previ-denza cadere sotto l’intervento del giudice penale e di quello contabile. Semmai occorre scrivere meglio le regole giuridiche affinché le loro fattispecie applicative possano premiare la scienza e coscienza del tecnico che le mette in pratica.

Un bisogno di effettività e di trasparenza sembra attraversare le aspettative sempre più disorientate delle collettivi-tà amministrate e quelle dei giudici di merito che non di rado sono tentati, sbagliando profondamente, di integrare con le loro pronunce tessuti normativi inadeguati, se non addirittura fuorviati.

In questo contesto, come si è visto, la Corte costituzionale italiana è costretta sempre più spesso ad addentrarsi e pronunciarsi sui tecnicismi, vigilando affinché essi non finiscano per lesionare i principi cardine della nostra Carta costituzionale.

La riflessione finale di un “controllore con i capelli bianchi”, nato in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale e i big data non appartenevano neppure alla fantascienza – e che ha sempre studiato l’evoluzione scientifica con gli affa-scinati “occhi di bambino” ma ha contemporaneamente cercato di inquadrarla criticamente nella mutevole storia degli accadimenti umani – è quella di consigliare allo specialista dell’audit di non confinare tutto il proprio tempo nell’ambito della sua specifica conoscenza ma di guardarsi attorno, di aggiornare la mappa del sapere complessivo in cui si trova ad occupare un marginale spazio, di porsi l’ansia delle domande e di scorgere, per dirla con Irti (7), il fondo filosofico dei propri strumenti di lavoro.

* * *

(7) N. Irti, Nichilismo giuridico, Bari, Laterza, 2004.

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RESPONSABILITÀ PER DANNO ERARIALE E PREROGATIVE DELLA CORTE DEI CONTI (*)

di Luigi Balestra (**)

Abstract: La Corte dei conti è titolare di un ruolo fondamentale nel controllo del corretto impiego delle risorse pubbliche, in termini sia di deterrenza, sia di correzione degli esiti delle condotte illecite dei pubblici funzionari che abbiano cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale all’ente con il quale abbiano un rapporto di dipendenza o comunque di collaborazione. Negli ultimi decenni si è assistito a un fenomeno di progressiva dilatazione dei concetti di “bene” e di “patrimonio pubblico” oggetti di tutela in sede contabile, che ha determinato il sorgere di nuove figure di danno, quali il danno “da tangente”, “alla concorrenza”, “da disservizio”, “all’immagine” della p.a. Il tema della responsabilità erariale ascrivibile agli organi di gestione e di controllo delle società partecipate ha dato luogo ad un cospicuo contenzioso, affrontato sia dalla Cassazione che dal legislatore – con l’art. 12 del d.lgs. n. 175/2016 –, che ha però lasciato taluni punti oscuri, dall’omessa menzione degli organi di controllo, oltre che degli amministratori e dei dipendenti della società, ai confini della giurisdizione contabile nei confronti delle società in house.

Sommario: 1. Carta costituzionale e funzioni della Corte dei conti. – 2. Segue: la funzione giurisdizionale. – 3. Gli elementi costitutivi dell’illecito amministrativo-contabile. L’autore della condotta: dal rapporto organico al rap-porto di servizio. – 4. La condotta illecita e il limite dell’insindacabilità delle scelte discrezionali. – 5. L’elemento soggettivo dell’illecito: la colpa grave e il “dolo erariale”. – 6. Recenti sviluppi in tema di danno erariale. – 7. Prerogative della Corte dei conti nella determinazione del danno e regime dell’obbligazione risarcitoria. – 8. I confini (incerti) della giurisdizione contabile in materia di responsabilità degli organi e dei soci di società pub-bliche. – 9. A mo’ di conclusione.

1. Carta costituzionale e funzioni della Corte dei conti

La Corte dei conti è un istituto di antica tradizione, essendo stata istituita nel 1862 (l. 14 agosto 1862, n. 800), al fine di vigilare sulle amministrazioni pubbliche e così prevenire cattive gestioni. La Corte dei conti assunse fin dall’epoca la veste di una “magistratura”, essendo emersa la “assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile” (1).

Le linee fondamentali dell’ordinamento della Corte furono determinate con il r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, tutt’ora in vigore, ancorché sia stato fatto oggetto di successive modifiche in considerazione delle nuove e sopravvenute esi-genze dello Stato moderno (basti pensare alla creazione delle autorità amministrative indipendenti, che ha condotto a ridisegnare alcune funzioni dell’istituto). Successivamente, la Costituzione ha individuato in modo organico le fun-zioni attribuite alla Corte sancendo, per quel che concerne il controllo, all’art. 100, c. 2, che la Corte esercita il con-trollo preventivo di legittimità sugli atti del Governo e quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato, inol-tre essa partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti.

Le prime due tipologie di funzioni indicate (il controllo preventivo in ordine alla legittimità degli atti del Governo e quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato) sono proprie della Corte già dall’Ottocento, mentre l’ultima, vale a dire il “controllo di gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria”, è stata successivamente contemplata dalla Costituzione, a garanzia degli equilibri del bilancio dello Stato.

Nell’ambito delle prime due funzioni su indicate, la Corte si trova dunque nella delicata posizione di ente ausilia-rio del Governo di modo che, al fine di evitare possibili condizionamenti, la Carta costituzionale – nel gioco di pesi e contrappesi tra poteri che la caratterizza – garantisce in modo espresso l’indipendenza della Corte medesima e dei suoi componenti, prevedendo anche un collegamento diretto con il Parlamento, al quale essa è tenuta a riferire sul ri-sultato del riscontro eseguiti (art. 100, cc. 2 e 3, Cost.). Ne deriva come la Corte sia organo di rilevanza costituzionale e autonomo potere dello Stato, che oggi – invero – offre ausilio non più solo allo Stato, ma anche alle regioni e agli altri enti locali (2); come tale, essa è legittimata a difendere le proprie prerogative anche (ed eventualmente) in sede di conflitto di attribuzioni.

(*) Lo scritto riproduce, con integrazioni e l’aggiunta delle note, il testo dell’intervento tenuto al XIV Convegno iberoamericano di

diritto costituzionale, Buenos Aires, 22 maggio 2019.

(**) Ordinario di Diritto civile all’Università di Bologna.

(1) Giusta il pensiero di Camillo Benso conte di Cavour: cfr. <www.corteconti.it>.

(2) Corte cost. 27 gennaio 1995, n. 29, in Foro it., 1996, I, 1157, con nota di G. D’Auria, I nuovi controlli della Corte dei conti da-vanti alla Corte costituzionale.

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In sintesi, la Corte riveste il ruolo di organo autonomo e, al tempo stesso, ausiliario: ruoli che, nondimeno, non si collocano, né si dipanano, secondo logiche dicotomiche; anzi, essi si integrano vicendevolmente, essendo chiaro che il carattere ausiliario non comporta alcuna subalternità, cosa che sarebbe incompatibile con la funzione (anche) giuri-sdizionale, parimenti demandata alla Corte (art. 103, c. 3, Cost.).

Ruolo ausiliario e indipendenza conducono dunque la Corte a fungere da garante nella valutazione degli interessi pubblici, mediante un’attività strumentale rispetto a quella del Governo, ma ontologicamente ben distinta. Il Governo, infatti, quale organo politico, è portatore di interessi intrinsecamente “di parte”; la Corte, al contrario, è in una posi-zione di necessaria neutralità, onde perseguire la migliore ponderazione possibile degli stessi (3). Alla stregua del di-segno tracciato dalla Carta costituzionale, può quindi distinguersi: a) il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo (4); b) il controllo successivo su tutti gli atti amministrativi della pubblica amministrazione – dunque non solo quelli provenienti dal Governo – qualificabili come atti di spesa (ciò significa che gli atti di spesa effettuati dal Governo soggiacciono al controllo sia preventivo, che successivo della Corte) (5); c) la terza funzione che l’art. 100 Cost. attribuisce alla Corte è data dal controllo sugli enti ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria, vale a dire gli enti sovvenzionati e dunque a carico del bilancio statale (la più precisa individuazione di tali soggetti è poi de-mandata alla l. n. 259/58). Tale contribuzione ordinaria può assumere varie forme, potendosi attuare sia mediante la dazione di contributi periodici, sia, per esempio, mediante la concessione del potere, in capo all’ente medesimo, di imporre tasse. Le differenti modalità di contribuzione sono ad ogni modo idonee ad influire sulla tipologia di control-lo effettuato dalla Corte; nel primo caso, infatti, la Corte si limita al vaglio delle risultanze contabili (comprensive delle relazioni degli organi di revisione), mentre nel secondo un magistrato afferente alla Corte stessa partecipa diret-tamente alle riunioni degli organi amministrativi dell’ente sovvenzionato.

2. Segue: la funzione giurisdizionale

La giurisdizione riservata alla Corte (art. 103, c. 2, Cost.) è estesa e quanto mai eterogenea. Al di là dell’attribuzione di specifiche materie – quali, per esempio, quelle concernenti il trattamento pensionistico dei dipen-denti pubblici civili e militari – manca una nitida perimetrazione delle competenze affidate all’istituto. Il nucleo cen-trale di una siffatta competenza è ad ogni modo da individuare nella responsabilità contabile e amministrativa (pur rientrando nel potere del legislatore di scorporare determinate materie per affidarle ad altre magistrature) (6).

Con l’espressione “responsabilità amministrativa” si intende fare riferimento a quelle condotte del pubblico am-ministratore, poste in essere nell’ambito delle proprie funzioni, che abbiano cagionato un danno patrimoniale (si pensi per esempio al c.d. assenteismo), ovvero non patrimoniale (si pensi al danno all’immagine, su cui v. infra), all’ente con il quale questi abbia un rapporto di dipendenza o comunque di collaborazione (7).

Nell’ambito della responsabilità amministrativa, tra le più rilevanti fattispecie si annoverano quelle che danno ori-gine alla responsabilità dei c.d. “agenti contabili” (“responsabilità contabile”), vale a dire tutti coloro che hanno la di-sponibilità di danaro pubblico, che possono essere chiamati dalla Corte a rendere il conto della propria gestione in un procedimento di natura strettamente giurisdizionale, il quale, in caso di esito positivo per il convenuto, si conclude con il c.d. “discarico”, mentre nell’ipotesi di esito negativo si risolve, invece, nella nascita di un obbligo risarcitorio a carico del dipendente, cui possono accompagnarsi ulteriori sanzioni.

La non facile individuazione, alla stregua di canoni di sicura precisione, delle materie sottoposte alla giurisdizione della Corte di conti si accompagna alla difficoltà di individuare con precisione l’ambito soggettivo di incidenza. Co-me meglio si vedrà nel prosieguo, infatti, sia la normativa (8), spesso poco incisiva, sia le soluzioni giurisprudenziali, hanno condotto ad una progressiva dilatazione del novero dei potenziali soggetti passivi, di modo che la giurisdizione

(3) A.M. Sandulli, Funzioni pubbliche neutrali e giurisdizione, in Riv. dir. proc., 1964, 200; sul punto, pur con un diverso punto di

vista, G. Carbone, Art. 100, in G. Branca, A. Pizzorusso (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, Zanichelli-Soc. ed. del Foro italiano, 2006, 76.

(4) Detto controllo risulta circoscritto (ai sensi della l. n. 400/1988; cfr. anche Corte cost. 14 luglio 1989, n. 406, in Cons. Stato, 1989, II, 1005) solo ad alcuni atti, fra i quali, per esempio, i provvedimenti del Consiglio dei ministri, gli atti normativi a rilevanza ester-na, esclusi quelli aventi forza di legge. La tipologia di atti soggetti al controllo è individuata ex lege, ma può essere ampliata dalla deci-sione del Presidente del Consiglio e dalla Corte dei conti di assoggettare pur solo temporaneamente alcuni provvedimenti, laddove si sia-no manifestate, in sede di controllo successivo, reiterate e diffuse irregolarità (art. 3, c. 1, lett. f, l. n. 20/1994).

(5) Ove, ovviamente, preventivo e successivo sono due momenti individuati in considerazione dell’integrazione di efficacia dell’atto.

(6) La Corte costituzionale ha anche di recente riaffermato, richiamando i propri precedenti, che “il legislatore, nella sua discrezio-nalità, potrebbe anche attribuire la cognizione di alcune delle materie ricadenti nella nozione di ‘contabilità pubblica’ alla giurisdizione di un giudice diverso (sentenza n. 641 del 1987 e, tra le altre, sentenza n. 189 del 1984)”, nonché che “l’ambito della giurisdizione della Corte dei conti, ‘lungi dall’essere incondizionato’ (sentenza n. 129 del 1981), deve contenersi, oltre che all’interno dei confini della ma-teria ‘contabilità pubblica’, anche entro ‘i limiti segnati da altre norme e principi costituzionali’ (sentenze n. 773 del 1988, n. 129 del 1981 e n. 110 del 1970)” (così Corte cost. 20 luglio 2018, n. 169, in Foro it., 2018, 11, I, 3358). In dottrina, A. Brancasi, L’ordinamento contabile, Torino, Giappichelli, 2005, 404.

(7) Sulla tipologia di vincolo richiesta ai fini della sussistenza della giurisdizione della Corte, cfr. par. seguente.

(8) Il riferimento è, in particolare, al r.d. n. 1214/1934, “Testo unico delle leggi sulla Corte dei conti” e al r.d. n. 2440/1923, “Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”.

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contabile si è andata estendendo dal primigenio riferimento ai soli dipendenti degli enti pubblici strettamente intesi, ai dipendenti delle società sorte dalla privatizzazione di alcuni di tali enti, sino a ricomprendere finanche coloro che ab-biano un rapporto di dipendenza o assidua collaborazione (il termine è qui volutamente generico, cfr. meglio infra, par. 3), a carattere squisitamente privatistico, con società totalmente o prevalentemente partecipate dal soggetto pub-blico.

L’elemento discretivo, ai fini dell’individuazione della sussistenza della giurisdizione contabile, è allora da rinve-nire nella configurabilità di un danno c.d. erariale, vale a dire nell’incidenza negativa – e, per quanto si è detto sin qui, anche indiretta – di una determinata condotta sulle risorse pubbliche.

3. Gli elementi costitutivi dell’illecito amministrativo-contabile. L’autore della condotta: dal rapporto organico al rapporto di servizio

Le plurime norme che nel tempo (9) si sono succedute al fine di individuare i protagonisti dell’illecito erariale e, correlativamente, affermare la giurisdizione della Corte dei conti, hanno sempre fatto riferimento, con formulazioni volutamente ampie, a “funzionari”, “agenti”, “impiegati”, “ufficiali”, legati alla pubblica amministrazione da quello che suole definirsi un “rapporto organico” (10). Accedendo ad un’interpretazione estensiva dei termini impiegati dal legislatore, la giurisprudenza della Corte dei conti ha rivendicato la propria giurisdizione – con soluzione avallata dal-la Corte di cassazione (11) – in tutti i casi in cui sia ravvisabile un “rapporto di servizio funzionale” tra un soggetto e la p.a. (a prescindere dalla relativa fonte, volontaria, coattiva, onoraria, o, financo, de facto), ovverosia ogni qualvolta il primo partecipi all’espletamento delle funzioni attribuite alla seconda, quindi alla gestione delle risorse pubbliche, a prescindere da un organico inserimento in essa. Così, ad esempio, è stata riconosciuta la giurisdizione contabile con riguardo alla responsabilità degli albergatori per l’omesso versamento al comune dell’imposta di soggiorno corrispo-sta dai clienti alla struttura ricettiva o, ancora, con riferimento al danno indirettamente cagionato dai curatori falli-mentari allo Stato, condannato a risarcire il danno da eccessiva durata della procedura concorsuale (12).

L’ambito della giurisdizione della Corte è stato esteso anche ai casi in cui il rapporto di servizio intercorra tra l’ente pubblico e una persona giuridica o, comunque, un soggetto collettivo (benché l’art. 1 della l. n. 20/1994 evochi, come si dirà meglio a breve, il principio di personalità nella responsabilità erariale): è il caso, per esempio, della re-sponsabilità erariale di società private destinatarie di contributi pubblici che li abbiano impiegati per finalità differenti da quelle contemplate (13) o, ancora, delle banche che operino quali tesorieri di enti locali ovvero delle cliniche pri-vate accreditate presso il Servizio sanitario nazionale (14).

(9) A partire dagli artt. 81 ss. r.d. n. 2440/1923 (“Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale

dello Stato”) e 52 ss. r.d. n. 1214/1934 (“Testo unico delle leggi sulla Corte dei conti”).

(10) Recentemente, per esempio, Corte conti, Sez. I centr. app., 23 ottobre 2018, n. 410 (in questa Rivista, 2018, fasc. 5-6, 140, con nota di D. Morgante, Il notaio come agente contabile: responsabilità contabile e per danno all’immagine per il caso dell’omesso river-samento all’ente impositore delle somme incamerate dalle parti contraenti a titolo di imposte relative agli atti rogati), ha statuito che “Il notaio, nel momento in cui riceve dai contraenti il denaro destinato al pagamento delle imposte previste dalla legge in relazione all’atto rogato è tenuto, nei termini previsti dalle norme di settore, a riversarlo all’amministrazione finanziaria, rivestendo, per ciò stesso, la qua-lifica di agente contabile pubblico: il che rende ammissibile nei suoi riguardi l’esercizio da parte del pubblico ministero contabile, oltre che dell’azione di responsabilità contabile, anche dell’azione di risarcimento per il danno arrecato all’immagine dell’ente pubblico impo-sitore, da reputarsi esperibile non solo avverso il pubblico dipendente, ma altresì contro il soggetto legato da rapporto di servizio con la pubblica amministrazione”. Al contrario, Sez. giur. reg. Lazio 5 dicembre 2018, n. 558 (ibidem, 162, con nota di D. Morgante, Comitato pubblico-privato organizzatore dei mondiali di nuoto di Roma 2009: non sussiste giurisdizione della Corte dei conti) ha statuito che “Non sussiste la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti di un comitato a partecipazione pubblico-privato per il danno cagionato all’ente (nella specie, Roma Capitale) dal pagamento di una sanzione tributaria irrogatagli a seguito della riqualificazione fiscale (da “non commerciale” a “commerciale”) dell’attività del comitato stesso, trattandosi di soggetto di diritto privato, partecipato paritariamente dal Comune di Roma e dalla Fin (Federazione italiana nuoto), quest’ultima a sua volta di natura privatistica, non rinvenendosi nelle di-sposizioni statutarie del predetto comitato i requisiti del controllo analogo proprio delle società in house e non limitandosi le risorse im-piegate dal comitato in parola a quelle facenti parte del capitale di dotazione, ma includendo, in misura considerevole, confondendosi con quello, ingenti introiti di origine e natura privatistica, quali quelli derivanti dai diritti televisivi, dalle vendite dei biglietti, dalle sponso-rizzazioni, dallo svolgimento di manifestazioni e gare”. Cfr. anche V. Tenore, Responsabilità: profili sostanziali, in V. Tenore (a cura di), La nuova Corte dei conti: responsabilità, pensioni, controlli, Milano, Giuffrè, 2018, 181 ss.; A. Brancasi, op. cit., 404.

(11) Da ultimo, v. Cass., S.U., 18 maggio 2015, n. 10094, in Foro it., 2016, I, 2525, con nota di G. D’Auria, La Cassazione dice “no” alla responsabilità erariale degli amministratori di partiti politici e dei rappresentanti sindacali nella contrattazione collettiva per i dipendenti pubblici.

(12) È discusso, invece, se la giurisdizione contabile sia configurabile a fronte di un danno imputabile ad un professionista esterno al-la p.a. che abbia svolto, a favore di questa, attività di consulenza o di altro tipo (ad esempio, patrocinio legale). La casistica richiamata nel testo, unitamente ad altre ipotesi, si rinviene in V. Tenore, op. cit., 201.

(13) V., da ultimo, Cass., S.U., 14 settembre 2017, n. 21927: «in tema di danno erariale, è configurabile un rapporto di servizio tra la p.a. erogatrice di un contributo ed i soggetti privati. Ove sia funzionale alla realizzazione di un progetto, l’erogazione del contributo è infatti strettamente legata all’effettività della relativa realizzazione, costituente la finalità di interesse pubblico giustificatrice dell’investimento di denaro pubblico. Il beneficiario è pertanto vincolato alla realizzazione dell’obiettivo proposto, approvato e finanzia-to, a tale stregua assumendo, nell’ambito di un “rapporto di servizio” non “organico” bensì funzionale, il ruolo di compartecipe – anche solo di mero fatto (cfr. Cass., S.U., 21 maggio 2014, n. 11229; 20 giugno 2012, n. 10137; 22 novembre 2010, n. 14825) – dell’attività del

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Ai fini dell’affermazione della giurisdizione contabile non è sufficiente la mera sussistenza di un rapporto di ser-vizio, ma è necessario anche che la condotta dannosa sia stata posta in essere in occasione dell’esercizio delle funzio-ni pubbliche attribuite al funzionario; trattasi comunque di requisito inteso in modo non rigoroso, in quanto la Corte di cassazione ha fatto propria una nozione assai lata di “occasionalità necessaria”, così riconoscendo la giurisdizione contabile anche laddove il comportamento del funzionario, assunto sì in occasione del servizio, si ponga tuttavia qua-le illecita deviazione dell’attribuzione dello stesso, piegata a interessi personali (anche criminosi) (15).

Da quanto sin qui osservato emerge l’ampiezza dell’ambito di incidenza soggettivo della giurisdizione contabile, con correlativa limitazione delle esenzioni soggettive. L’esenzione che viene più frequentemente in rilievo nelle aule di giustizia è compendiata nell’art. 1, c. 1-ter, l. n. 20/1994, giusta il quale “Nel caso di atti che rientrano nella com-petenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”. Tale previsione, frutto e manifestazione della tendenza alla separazione tra organi politici ed uffici amministrativi che ha caratterizzato le riforme degli ultimi decenni, è stata nondimeno oggetto di un’interpretazione volta ad evitare che la stessa potesse tradursi in un’eccessiva deresponsabilizzazione della politica. In tale ottica, la giurisprudenza contabile ha dunque ri-tenuto che l’esimente in parola possa operare solamente nei confronti di organi politici di derivazione elettiva, i quali, a fronte di questioni di particolare complessità tecnico-amministrativa, esulanti dalle proprie personali competenze, si siano in buona fede (ad esempio, in base ad errori commessi nella fase istruttoria del procedimento) limitati ad avalla-re atti rientranti nella sfera di competenza degli uffici amministrativi (16).

Con riguardo al soggetto responsabile, si rende qui necessaria un’ultima precisazione. L’illecito erariale, come in-vero qualunque illecito, civile o penale, può essere frutto di condotte imputabili a più soggetti, legati o meno da un rapporto di servizio alla p.a. Il concorso di persone nell’illecito amministrativo – esclusa la giurisdizione contabile con riferimento alla responsabilità dell’estraneo, che potrà eventualmente risultare destinatario di un’azione promossa dalla p.a. danneggiata in sede civile – risulta retto da disposizioni parzialmente differenti rispetto a quelle proprie dell’illecito civile comune. Deve in particolare porsi in adeguato rilievo, in quanto distonica rispetto a quanto con-templato nel contesto dell’illecito civilistico (art. 2055 c.c.), la regola operazionale giusta la quale ciascun funzionario può essere chiamato a risarcire il danno cagionato solamente in misura proporzionale alla quota parte di illecito al medesimo direttamente addebitabile (17).

La responsabilità solidale residua come ipotesi eccezionale e ricorre, ai sensi dell’art. 1, c. 1-quinquies, l. n. 20/1994, solo allorquando i concorrenti si siano illecitamente arricchiti in conseguenza della loro condotta, ovvero nei casi in cui abbiano agito con dolo (si pensi, ad esempio, a una pluralità di funzionari che accettino somme di denaro per soprassedere su illeciti accertati e sull’irrogazione delle relative sanzioni (18)). È interessante osservare come, sotto questo rilevante profilo, si assista a una divaricazione, per quel che concerne il trattamento, a seconda che l’illecito sia commesso a titolo di dolo ovvero di colpa (grave). Tale differenziato regime evidenzia in questo specifi-co contesto – di modo che anche per questo profilo si assiste, ad avviso di chi scrive, a una divergenza di significativa portata – la natura spiccatamente sanzionatoria attribuita dal legislatore alla regola della solidarietà.

Altra rilevante specificità del concorso di persone nell’illecito erariale, questa volta di matrice giurisprudenziale, e che riconferma la peculiarità dell’istituto della responsabilità amministrativo-contabile, è l’affermazione generalizza-ta, in favore del co-autore dell’illecito che abbia agito con colpa grave, a fronte della responsabilità dolosa del con-corrente, del beneficium excussionis. In altri termini, nel caso di illecito erariale ascrivibile, in base a differenti criteri di imputazione soggettiva (colpa grave e dolo), a più funzionari, si è consolidata la regola giusta la quale il patrimo-nio del concorrente in colpa (grave) può essere aggredito – entro i limiti della somma cui lo stesso sia stato condanna-

soggetto pubblico erogatore del contributo finalizzato alla realizzazione del pubblico interesse (cfr. Cass., S.U., 25 gennaio 2013, n. 1774). Attesa l’irrilevanza, da un canto, della qualità del soggetto che gestisce il denaro pubblico, il quale ben può essere un soggetto di diritto privato destinatario della contribuzione (v. Cass., S.U., 16 luglio 2012, n. 12108); e, per altro verso, del titolo in base al quale la gestione del pubblico denaro è svolta, che può consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio ma anche in una concessione amministrativa o in un contratto di diritto privato – ivi compreso quello di sponsorizzazione (v. Cass., S.U., 23 settembre 2009, n. 20434; 1 marzo 2006, n. 4511; 19 febbraio 2004, n. 3351) –, è la natura del danno conseguente alla mancata realizzazione degli scopi perseguiti con la contribuzione ad assumere invero decisiva rilevanza (cfr. Cass., S.U., 4 novembre 2009, n. 23332)».

(14) Peraltro, alle volte, ad essere convenuta in giudizio dalla procura erariale non è la società, bensì direttamente gli amministratori, in proprio; ciò avviene, segnatamente, allorché la condotta dolosa di costoro, foriera di danno, sia stata tenuta al di fuori dell’esercizio delle funzioni istituzionali inerenti alla carica sociale: Corte conti, Sez. II centr. app., 1 giugno 2012, n. 347.

(15) Cass., S.U., 22 febbraio 2002, n. 2628, in questa Rivista, 2002, fasc. 2, 280.

(16) Cfr. V. Tenore, op. cit., 216, ove ampi riferimenti giurisprudenziali.

(17) La regola, già affermata dall’art. 82 r.d. n. 2440/1923, è, ad oggi, scolpita nel c. 1-quater dell’art. 1 della l. n. 20/1994, che così dispone: “Se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la par-te che vi ha preso”. Corte cost. 30 dicembre 1998, n. 453, in questa Rivista, fasc. 6, 198, ha giudicato la disciplina della responsabilità erariale costituzionalmente legittima, rilevando come la stessa si collochi “nell’ambito di una nuova conformazione dell’istituto della re-sponsabilità amministrativa e contabile, secondo linee volte, tra l’altro, ad accentuarne i profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori”.

(18) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Toscana, 6 giugno 2011, n. 202, ivi, 2011, fasc. 3-4, 340.

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to, ovvero per l’intero, nel caso in cui abbia conseguito un illecito arricchimento – solo dopo l’inutile escussione del patrimonio dell’autore “principale” della condotta illecita (19).

Accade sovente che un fenomeno di concorso nella causazione del danno sia conseguenza della struttura collegia-le dell’organo amministrativo che abbia assunto la decisione da cui è scaturito il danno stesso. Il problema, affidato in passato all’elaborazione giurisprudenziale, è stato risolto dal legislatore del 1996, mediante la novellazione del c. 1-ter dell’art. 1 della l. n. 20/1994, che, a seguito dell’intervento legislativo, oggi dispone che “nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole”. L’eventuale collegialità della decisione, integrante l’illecito erariale, non è incompatibile, naturalmente, con la regola della parziarietà della responsabilità: invero, il giudice contabile è chiamato a valutare partitamente la posizione di ciascuno dei membri del collegio, vagliando, con riferimento a ciascuno, il concreto contributo causale, anche sotto il profilo dell’elemento psicologico dell’illecito, prestato nell’assunzione della decisione (20).

4. La condotta illecita e il limite dell’insindacabilità delle scelte discrezionali

La condotta del pubblico funzionario sottoposta al vaglio della giurisdizione contabile consiste sovente nell’adozione di un provvedimento amministrativo o nella stipulazione di un contratto. Ben può venire in rilievo al-tresì una condotta omissiva ed anzi in epoca recente si è assistito al proliferare di fattispecie di responsabilità ammini-strativa omissiva, quale conseguenza dei sempre più numerosi obblighi di vigilanza e di controllo che vedono come destinatari i pubblici amministratori (21).

Un’ipotesi di responsabilità omissiva peculiare è connessa al dovere, ad oggi sancito all’art. 52 del codice di giu-stizia contabile (22), che grava sui soggetti al vertice delle articolazioni amministrative e sugli organi di revisione e controllo, di segnalare prontamente alla competente procura della Corte dei conti i fatti che possano dare luogo a re-sponsabilità erariale e di cui abbiano preso notizia nell’esercizio delle proprie funzioni. Si configura una responsabili-tà per il danno derivante dall’omessa o ritardata denuncia, il quale potrebbe essere identificato – come espressamente sancito dal legislatore (art. 1, c. 3, l. n. 20/1994) (23) – financo nel danno prodotto proprio dal fatto manchevolmente non denunziato ed eventualmente prescrittosi a causa di tale inerzia, dalla quale deriva l’impossibilità per la p.a. di ottenere ristoro del pregiudizio subìto (24).

Nel merito, è bene porre in luce come il giudizio contabile non abbia ad oggetto diretto la legittimità o l’illegittimità del provvedimento amministrativo, la validità o l’invalidità del contratto concluso dalla p.a. Ed invero la Corte dei conti (analogamente al giudice amministrativo) non può sindacare le scelte effettuate dai pubblici ammi-nistratori nell’ambito della discrezionalità tecnica loro concessa (come chiaramente ricorda l’art. 1 della l. n. 20/1994). Il limite della discrezionalità amministrativa, che esprime il fondamentale principio della separazione dei poteri e, segnatamente, della c.d. “riserva di amministrazione”, non è tuttavia ostativo ad un sindacato contabile su quelle scelte che, pur formalmente legittime, siano state assunte in spregio ai principi di buon andamento, economici-tà ed efficienza dell’azione amministrativa (art. 1, c. 1, l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo); in altri ter-mini, il provvedimento amministrativo non può sfuggire ad un controllo di intrinseca ragionevolezza della scelta e di proporzionalità della medesima in relazione ai fini perseguiti dall’ente pubblico (25). Così, è stata ritenuta palesemen-

(19) Cfr., da ultimo, Corte conti, Sez. II centr. app., 10 aprile 2017, n. 209.

(20) Per un caso in cui è stata riconosciuta una responsabilità prevalente in capo a un assessore, v. Corte conti, Sez. III centr. app., 28 gennaio 2013, n. 69.

(21) È stato configurato, ad esempio, il danno erariale imputabile a degli amministratori comunali per non aver posto in liquidazione una società in house ormai inattiva; ipotesi di responsabilità omissiva si configurano sovente anche per la mancata adozione di misure preventive di sicurezza e di una stringente procedimentalizzazione, anche sotto il profilo delle tempistiche, dell’azione amministrativa.

(22) Che si riporta: “1. Ferme restando le disposizioni delle singole leggi di settore in materia di denuncia di danno erariale, i respon-sabili delle strutture burocratiche di vertice delle amministrazioni, comunque denominate, ovvero i dirigenti o responsabili di servizi, in relazione al settore cui sono preposti, che nell’esercizio delle loro funzioni vengono a conoscenza, direttamente o a seguito di segnala-zione di soggetti dipendenti, di fatti che possono dare luogo a responsabilità erariali, devono presentarne tempestiva denuncia alla procu-ra della Corte dei conti territorialmente competente. Le generalità del pubblico dipendente denunziante sono tenute riservate. – 2. Gli or-gani di controllo e di revisione delle pubbliche amministrazioni, nonché i dipendenti incaricati di funzioni ispettive, ciascuno secondo le singole leggi di settore, sono tenuti a fare immediata denuncia di danno direttamente al procuratore regionale competente, informandone i responsabili delle strutture di vertice delle amministrazioni interessate”.

(23) Che si riporta: “Qualora la prescrizione del diritto al risarcimento sia maturata a causa di omissione o ritardo della denuncia del fatto, rispondono del danno erariale i soggetti che hanno omesso o ritardato la denuncia. In tali casi, l’azione è proponibile entro cinque anni dalla data in cui la prescrizione è maturata”.

(24) Merita precisare, in proposito, che l’obbligo di denunzia del funzionario pubblico non trova un limite nel principio, di matrice penalistica, nemo tenetur se detegere, di modo che detto obbligo rimarrebbe cogente anche se, per ipotesi, la denuncia potrebbe esporre lo stesso denunciante a procedimento per responsabilità erariale; così per Corte conti, Sez. riun., 30 gennaio 2018, n. 2.

(25) Sul punto, recentemente, v. Cass., S.U., 24 dicembre 2018, n. 33365: “L’amministrazione, in via generale, deve provvedere ai suoi compiti con mezzi, organizzazione e personale propri, cosicché nel giudizio di responsabilità amministrativa la Corte dei conti può valutare se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da per-seguire, rientrando nel suo ambito cognitivo l’accertamento della responsabilità amministrativa del sindaco che abbia conferito incarichi a soggetti estranei all’amministrazione comunale al di fuori dei casi previsti dalla legge e non a causa di eventi straordinari ai quali non

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te irragionevole, e quindi travalicante il limite della discrezionalità, la scelta dei competenti organi della p.a. di resi-stere temerariamente in giudizio a fronte di pretese attoree palesemente fondate (26); la decisione di corrispondere al Presidente e ai singoli consiglieri di amministrazione di una società pubblica compensi del tutto esorbitanti (27) o, ancora, la decisione dei dirigenti di Poste Italiane s.p.a. di acquistare a fini speculativi, quindi con deviazione dai fini istituzionali di detto ente, prodotti finanziari derivati rivelatisi altamente diseconomici (28).

In conclusione, su questo profilo, è bene ricordare l’operatività delle cause di giustificazione escludenti l’antigiuridicità della condotta, normalmente operanti con riferimento all’illecito, civile e penale: legittima difesa, sta-to di necessità, adempimento del dovere imposto dalla legge o da un superiore gerarchico. Quanto a quest’ultima, va specificato che l’obbedienza all’ordine manifestamente illegittimo non esclude la responsabilità per il funzionario se questi, prima di darvi esecuzione, non abbia esercitato il potere-dovere di rimostranza, attribuitogli dalla legge (art. 17 d.p.r. n. 3/1957) o dai principali c.c.n.l., ossia non abbia contestato l’ordine ricevuto (29).

5. L’elemento soggettivo dell’illecito: la colpa grave e il “dolo erariale”

L’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo-contabile offre significativi spunti di riflessione se comparato a quanto sancito nell’illecito aquiliano. Vale infatti la regola – che invece, prima della novellazione apportata alla l. n. 20/1994 (art. 1, c. 1) dalla di poco successiva l. n. 639/1996, operava solo con riferimento ad alcune categorie di di-pendenti pubblici – per cui il pubblico funzionario può essere chiamato a rispondere solamente nei casi in cui abbia agito con dolo o colpa grave, con conseguente irrilevanza delle condotte connotate da minimale scostamento dalle regole, generiche o specifiche, che presidiano l’efficiente esercizio dell’azione amministrativa, ovvero caratterizzate da lieve negligenza e/o imperizia.

Considerata la crescente e imponente mole, nonché complessità, dei doveri che l’ordinamento pone in capo ai pubblici funzionari e al fine di evitare inefficienti “ingessamenti” della macchina amministrativa, potenzialmente de-rivanti dal timore degli operatori nei confronti dello spettro del giudizio contabile (c.d. “paura della firma”), il legisla-tore, con una scelta valutata legittima dalla Corte costituzionale (30), ha inteso innalzare la soglia del grado di colpa rilevante. L’analisi della giurisprudenza della Corte dei conti rivela che la colpa grave, categoria che pur rifugge – al pari di ogni categoria in epoca contemporanea – da astratte generalizzazioni, è quella che si estrinseca in una marcata violazione degli obblighi di servizio o delle regole di condotta, concretizzandosi nell’inosservanza, alla stregua delle peculiarità del caso concreto, di un livello minimo di diligenza ovvero in una palese imperizia e/o superficialità (31).

Nell’ambito del giudizio sulla colpa, il giudice contabile è dunque chiamato a valutare la difformità del compor-tamento tenuto in concreto dal funzionario pubblico all’uopo comparandolo con quello, diligente, prudente e perito, che avrebbe assunto il funzionario medio che sia titolare di analoghe mansioni. A tal fine, assurgono a sintomi di un inescusabile e grave errore l’aver violato un chiaro e inequivoco precetto normativo o l’aver errato nella percezione di elementi di fatto o di una realtà giuridica che non dava luogo a dubbi; di contro, l’errore interpretativo, se frutto di un quadro d’incertezza applicativa o, a fortiori, se fondato su atti interni a carattere esplicativo (quali le circolari inter-pretative), esclude senz’altro una colpa qualificabile come grave (32). Per espressa previsione normativa (cfr. il già richiamato art. 1, c. 1, l. n. 20/1994), evidentemente vòlta ad impedire che valutazioni espresse in sede di esercizio di funzioni di controllo siano disattese in sede giurisdizionale, “in ogni caso è esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall’emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legitti-mità, limitatamente ai profili presi in considerazione nell’esercizio del controllo”.

Con riguardo all’elemento psicologico rilevante in via alternativa, il c.d. “dolo erariale” o “contabile”, si registra-no, nella giurisprudenza della Corte dei conti, orientamenti non univoci circa il fatto se esso debba inerire alla mera consapevolezza di violare gli obblighi di servizio ovvero se debba comprendere anche la volontà dell’evento lesivo. La prima opinione si richiama al tratto distintivo rispetto al dolo penalistico cosicché, al fine di integrare gli estremi dell’elemento soggettivo in questione, l’elemento volitivo è riguardato unicamente in relazione al mancato adempi-

possa farsi fronte con la struttura burocratica esistente, trattandosi di un controllo giurisdizionale fondato sui canoni di razionalità, effi-cienza ed efficacia che costituiscono corollario del principio costituzionale del buon andamento della p.a. e che assumono, dunque, rile-vanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell’azione amministrativa”. In dottrina: G. Bottino, Responsabilità ammi-nistrativa per danno all’erario, in Enc. dir., Annali, vol. X, 2017, 771 ss.

(26) Corte conti, Sez. III centr. app., 10 maggio 2016, n. 179.

(27) Corte conti, Sez. app. reg. Siciliana, 24 giugno 2014, n. 297, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 287, con nota di richiami.

(28) Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 11 luglio 2011, n. 1044, ivi, 2011, fasc. 3-4, 294.

(29) Su questi aspetti, v. V. Tenore, op. cit., 235 ss.

(30) Corte cost. 20 novembre 1998, n. 371, in Gazzetta giur., 1998, fasc. 44, 40.

(31) Corte conti, Sez. riun., 21 maggio 1998, n. 23, in questa Rivista, 1998, fasc. 3, 128 (m).

(32) Per un esempio, v. Corte conti, Sez. III centr. app., 30 gennaio 2015, n. 55, ivi, 2015, fasc. 1-2, 200, con nota di richiami, ove si chiarisce che: “per pacifico orientamento giurisprudenziale non può ravvisarsi colpa grave in ipotesi di erronea applicazione di norme non sufficientemente chiare e per le quali si registrano difformi decisioni giurisdizionali”.

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mento del dovere di servizio (33). L’opinione affermativa, di contro, richiede, affinché sia integrato l’estremo del do-lo – con tutte le significative ricadute che da ciò discendono, alcune delle quali già illustrate –, anche la volontà di produrre l’evento dannoso, e ciò in linea con la tesi che accredita la natura extracontrattuale della responsabilità am-ministrativa (34). A ben riflettere, se la mera consapevolezza della violazione di un obbligo non sembra idonea a in-tegrare – in un sistema che intende marcare in modo significativo le differenze tra dolo o colpa – gli estremi del dolo, in una prospettiva specularmente opposta pare eccessivo, se si ha riguardo alle elaborazioni avutesi in sede penale e civile, richiedere la volontà di cagionare l’evento dannoso. In guisa che parrebbe ragionevole ed equilibrato richiama-re non già la volontà – e, quindi, una specifica determinazione in tal senso – di cagionare l’evento dannoso, bensì la consapevolezza che dalla condotta possa scaturire l’evento dannoso.

6. Recenti sviluppi in tema di danno erariale

Negli ultimi decenni – a cagione dell’emersione, negli anni Novanta del secolo scorso, di un’articolata situazione di corruttela nell’amministrazione – si è assistito a un fenomeno di progressiva dilatazione dei concetti di bene e di patrimonio pubblico oggetto di tutela in sede contabile, la quale ha determinato il sorgere di nuove figure di danno, dai contorni, talvolta, sfumati e fluidi (35).

In primo luogo, nella ricorrente giurisprudenza contabile in materia di appalti pubblici ha fatto il proprio ingresso, tra le ipotesi di danno diretto al patrimonio erariale (36), il c.d. danno “da tangente”: la Corte dei conti è giunta ad identificare una posta di danno risarcibile nel maggior costo dell’opera o del servizio pubblico sopportato dall’amministrazione appaltante, quale riflesso del costo della “mazzetta” sostenuto dall’imprenditore aggiudicatario, sull’assunto che il pagamento della stessa viene, in ultima analisi, “riversato” sull’amministrazione attraverso o il rin-caro dell’offerta presentata dal corruttore o attraverso economie di spesa o, ancora, attraverso l’esecuzione di lavori supplementari, a costi maggiorati. La liquidazione di detta voce di danno è sovente effettuata secondo criteri equitati-vi e presuntivi che suppliscono, in accordo con il disposto dell’art. 1226 c.c., alla pratica difficoltà, quando non all’impossibilità, di offrire una prova precisa del relativo ammontare: concretamente, secondo il prevalente orienta-mento giurisprudenziale, il danno può presumersi essere pari, almeno, all’importo della tangente corrisposta al fun-zionario (37). Accanto al danno “da tangente” è, in tempi più recenti, emersa una figura di danno – il “danno alla concorrenza” – da taluni invero ritenuta sovrapponibile a quella appena esaminata. Dalla violazione delle norme di legge che impongono l’attivazione delle procedure ad evidenza pubblica per la conclusione o il rinnovo di contratti deriva, infatti, una maggior spesa per la p.a. Tale maggior spesa – costituente il danno erariale – viene solitamente individuata in una parte di quanto riconosciuto al contraente a titolo di utile d’impresa, sul rilievo che esso – costi-tuente il quid pluris attribuito al privato rispetto all’arricchimento comunque conseguito dalla p.a. in virtù

(33) Cfr. Corte conti, Sez. III centr. app., 9 febbraio 2017, n. 74: “A differenza del dolo penalistico (art. 43 c.p.), nel quale è necessa-

ria quantomeno la previsione, da parte dell’agente, delle conseguenze dell’azione o dell’omissione posta in essere, nel dolo contabile, de quo agitur, è irrilevante che le conseguenze dannose siano abbracciate dalla previsione dell’agente”.

(34) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, 7 giugno 2013, n. 175, ivi, 2013, fasc. 3-4, 429: «in linea con la tesi che accredita la na-tura extracontrattuale della responsabilità amministrativa, il dolo consiste nella volontà dell’evento dannoso, che si accompagni alla vo-lontarietà della condotta antidoverosa (cfr. Corte conti, Sez. II, 26 ottobre 2011, n. 549, Sez. I, 14 novembre 2011, n. 516, Sez. riun. 10 giugno 1997, n. 56). Di talché “per la sussistenza del c.d. dolo erariale non basta la consapevole violazione degli obblighi di servizio ma serve la volontà di produrre l’evento dannoso. Il dolo si può concretare ove si cumulino, con la conoscenza della causa del danno, dati della realtà che comprovino il ricorrere di ulteriori consapevolezze circa l’effettività e lo specifico contenuto del danno medesimo. In altri termini, il dolo c.d. ‘erariale’ va inteso come stato soggettivo caratterizzato dalla consapevolezza e volontà dell’azione o omissione con-tra legem, con specifico riguardo alla violazione delle norme giuridiche che regolano e disciplinano l’esercizio delle funzioni ammini-strative ed alle sue conseguenze dannose per le finanze pubbliche” (cfr. Corte conti, Sez. I, 14 novembre 2011, n. 516, Sez. II, 26 ottobre 2011, n. 549, Sez. Toscana, 7 ottobre 2002, n. 739, Sez. III, 28 settembre 2004, n. 510, Sez. Veneto, 28 gennaio 2004, n. 104)».

(35) Il moltiplicarsi delle figure di danno – fenomeno che, come noto, ha interessato anche la responsabilità extracontrattuale civili-stica – è il riflesso della ricerca giurisprudenziale di sempre nuovi interessi meritevoli di tutela e riferibili alla collettività, come ricorda G. Bottino, op. cit., 784.

(36) Da intendersi come il danno consistente nella perdita o nel deterioramento dei beni pubblici (danno emergente), ovvero nel mancato, illegittimo, ingresso delle risorse nelle casse pubbliche (lucro cessante).

(37) Cfr. Corte conti, Sez. I centr. app., 26 ottobre 2017, n. 428: «nel c.d. “danno da tangente” assume rilevanza il maggior costo dell’opera commissionata o della prestazione richiesta, in ragione del maggior onere sopportato dall’imprenditore per somme corrisposte al funzionario infedele per ottenere favoritismi; questi non sono, necessariamente, circoscritti soltanto alla fase di aggiudicazione della gara di appalto, ma si concretizzano anche dopo, per esempio con un’attenuazione del rigore richiesto al funzionario in verifiche e con-trolli successivi. In altre parole, la tangente non avrebbe ragion d’essere, non giustificandosi in altro modo, esclusa la liberalità tra sog-getti tra cui non vi è alcun rapporto pregresso, se non quello dell’esecuzione delle opere di cui al contratto, che nell’ottenimento di van-taggio da parte dell’imprenditore, evidentemente non dovuto. In quest’ambito è legittima la presunzione […] della traslazione dell’importo corrisposto al funzionario corrotto da parte del corruttore sul prezzo del bene o servizio, in termini di maggior costo ovvero di minori controlli, con possibili riflessi sulla qualità del servizio e conseguente aggravio di costi sull’amministrazione».

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dell’esecuzione del contratto, nullo in quanto concluso senza previa gara – sarebbe risultato verosimilmente inferiore all’esito della necessaria gara (38).

Altra categoria di pregiudizio all’erario, oggetto di una vivace discussione in dottrina e in giurisprudenza, è quella del danno “da disservizio”. In essa viene fatta rientrare una variegata pluralità di ipotesi di danno, fattispecie accomu-nate dal fatto che il servizio pubblico è erogato all’utenza in modo qualitativamente o quantitativamente non congruo (sino ad essere del tutto “desostanziato”) rispetto alle risorse nello stesso investite, alla luce di parametri di efficienza e di efficacia e ciò a cagione della condotta antidoverosa del funzionario. Così, è stato individuato un danno nel pre-giudizio all’efficienza del servizio giustizia (dunque nel mancato raggiungimento delle utilità ritraibili dalle risorse impiegate, id est la retribuzione corrisposta) cagionato dal comportamento del magistrato, il quale, durante il periodo di congedo per malattia, si dedichi ad un’intensa attività sportiva (39). Analogamente, sono stati ritenuti risarcibili i costi sostenuti dall’ente pubblico per eseguire i dovuti controlli e accertamenti sugli agenti pubblici infedeli – quanti-ficati in quella parte di retribuzione inutiliter erogata ai funzionari accertatori –, così come quelli sopportati per la riorganizzazione della funzionalità del servizio (40).

Merita, infine, un seppur breve cenno la complessa tematica del c.d. danno all’immagine della p.a., ossia quello arrecato alla credibilità e al decoro, dunque anche al buon andamento, della p.a., che sovente è il frutto della risonan-za mediatica – con impatto scandalistico – cui vanno incontro le condotte particolarmente riprovevoli tenute dai fun-zionari. A séguito di alcuni recenti provvedimenti legislativi (41), oggetto di pungenti critiche in dottrina (42), l’azione risarcitoria per danno all’immagine può essere esercitata dalla procura solamente in presenza di fatti di reato (43) e, salve alcune peculiari ipotesi (44), previa conclusione (sfavorevole all’inquisito) del processo penale. Una del-le fattispecie più frequenti, in proposito, è quella dell’assenteismo del pubblico dipendente, a contrasto della quale sono state introdotte, nel tempo, norme sempre più stringenti (d.lgs. n. 150/2009, art. 69; d.lgs. n. 118/2017), così es-

(38) Chiarisce il rapporto tra le due figure di danno Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, 13 gennaio 2011, n. 11, in questa Rivista,

2012, fasc. 5-6, 318, con affermazione condivisa dalla più recente Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 12 febbraio 2018, n. 28 (pro-nunciata sulle vicende che hanno riguardato alcuni appalti di Expo), che: “il danno da ‘tangente’ (o da ‘maggiorazione del prezzo dell’appalto’) verrebbe in concreto a risarcire il segmento di costo pari alla differenza tra prezzo effettivamente pagato dall’appaltante e valore ‘di mercato’ della prestazione ottenuta (per così dire: il ‘sovra-profitto’ che l’impresa corruttrice ha illecitamente lucrato rispetto a quello che avrebbe ottenuto la stessa o un’altra impresa appaltatrice nel rispetto delle regole), mentre il danno ‘alla concorrenza’ verrebbe a risarcire il contiguo segmento di costo pari alla differenza tra il valore ‘di mercato’ e il costo dei soli fattori produttivi relativi all’opera o al servizio illecitamente appaltati (il solo ‘profitto’ che l’impresa corruttrice avrebbe ottenuto praticando un prezzo concorrenziale)”.

(39) Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, 13 giugno 2011, n. 382.

(40) Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, 18 novembre 2015, n. 176.

(41) L’art. 4, c. 1, lett. g), delle norme transitorie del c.g.c. (d.lgs. n. 174/2016) ha soppresso il primo periodo dell’art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009, convertito con modificazioni dalla l. n. 102/2009, che risulta dunque ora formulato come di seguito: “Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale». L’art. 7 della l. n. 97/2001, che faceva riferimento esclusivo ai delitti di cui al capo I, titolo II, libro II, c.p. (delitti contro la p.a.), è stato abrogato: si ritiene, dunque, che possa essere perseguito il dan-no all’immagine in presenza di qualsiasi ipotesi di reato commesso dal funzionario. salva la pregiudizialità penale. Recentemente, Corte conti, Sez. riun. giur., 15 ottobre 2018, n. 11 (in questa Rivista, 2018, fasc. 5-6, 131, con nota di D. Morgante, Autonomia e alternatività del processo contabile rispetto ai giudizi e procedimenti di altra natura: il punto delle Sezioni riunite sulla sospensione del giudizio) ha precisato che “La sospensione necessaria del giudizio davanti al giudice contabile, essendo legata alla ‘dipendenza’ della decisione della controversia dalla definizione di un’altra causa, non postula un mero collegamento degli effetti pratici derivanti dalle due emanande sen-tenze, quali sono ad esempio le conseguenze patrimoniali nei rapporti tra le parti dei differenti giudizi, ma richiede l’esistenza di un vin-colo di vera e propria consequenzialità logico-giuridica tra le due emanande pronunce, in virtù del quale uno dei due giudizi, oltre ad es-sere in concreto pendente ed a coinvolgere le stesse parti, investa una questione di carattere pregiudiziale, cioè un indispensabile antece-dente logico-giuridico della fattispecie trattata nell’altro, il cui esito assume quindi il valore della indispensabilità e, perciò, della pregiu-dizialità”.

(42) Volte a censurare sia la normativa di cui al d.l. n. 78/2009, sia Corte cost. 1 dicembre 2010, n. 355 (ivi, 2010, fasc. 6, 213), che ha dichiarato infondata la relativa questione di legittimità costituzionale: A. Vetro, Sentenza della Corte costituzionale 1° dicembre 2010 n. 355 sul danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni e la problematica sulla vincolatività dell’interpretazione della normativa esaminata dalla Consulta, in <www.respamm.it.>; F. Pavoni, La Corte costituzionale salva il lodo Bernardo, in Resp. civ. e prev., 2011, 794; V. Tenore, op. cit., 296 ss.

(43) Cass. pen. 20 giugno 2018, n. 41012, nella specie si trattava di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

(44) È il caso, ad esempio, dei reati commessi dai c.d. “furbetti del cartellino”, ex art. 55-quater, c. 3-quater, d.lgs. n. 165/2001: “Nei casi di cui al comma 3-bis, la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti avvengono entro venti giorni dall’avvio del procedimento disciplinare. La procura della Corte dei conti, quando ne ricorrono i presuppo-sti, emette invito a dedurre per danno d’immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento. L’azione di respon-sabilità è esercitata, con le modalità e nei termini di cui all’articolo 5 del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modi-ficazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, entro i (centocinquanta) giorni successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga. L’ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l’eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento, oltre inte-ressi e spese di giustizia”.

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sendosi venuta a configurare anche una responsabilità “a cascata” in capo al dirigente che non abbia effettuato le ne-cessarie verifiche sulla presenza del personale.

Tale danno non può che essere liquidato secondo parametri equitativi, valorizzando l’oggettiva gravità e il numero delle condotte lesive, in relazione al grado di diffusione delle stesse presso l’opinione pubblica (45).

7. Prerogative della Corte dei conti nella determinazione del danno e regime dell’obbligazione risarcitoria

La responsabilità per danno erariale, come già per alcuni aspetti posto in luce, appare caratterizzata da profili di disciplina peculiari – se confrontati con le regole codicistiche dettate in materia di fatto illecito – che rappresentano sicura espressione del contesto pubblicistico in cui si dipana l’illecito.

Un elemento di specialità, ulteriore rispetto a quelli già esaminati, deve essere rinvenuto nella tradizionale prero-gativa del giudice contabile – riconducibile alle leggi del primo Novecento, tutt’ora vigenti, con cui è stata data orga-nicità al sistema di contabilità pubblica (46) – di ridurre l’entità del risarcimento dovuto dal funzionario alla p.a. dan-neggiata, una volta liquidato in base alle regole generali e ripartito il peso pro quota sugli eventuali concorrenti nell’illecito. Nel fare applicazione di questo strumento di adattamento del quantum debeatur alle peculiarità del caso concreto, la Corte dei conti è chiamata a prendere in esame circostanze di natura eminentemente soggettiva, quali i precedenti (positivi) di carriera del convenuto, la sua esperienza lavorativa e la (giovane) età, lo stato emotivo o di salute al momento in cui ha tenuto la condotta fonte di danno erariale, il contegno successivo all’evento lesivo, even-tualmente lodevolmente inteso a mitigarne gli effetti dannosi, così come circostanze di natura oggettiva, quali le par-ticolari condizioni di tempo e di luogo in cui si è consumato l’illecito, l’eventuale disorganizzazione dell’amministrazione nella quale il convenuto si è trovato ad operare, la oggettiva complessità e difficoltà dell’incarico da questi svolto (47).

Come è stato correttamente affermato, il potere di riduzione del giudice contabile può essere invero assimilato al potere-dovere del giudice penale di graduare la misura della pena in relazione alla gravità del fatto di reato, nei suoi elementi materiali e psicologici (art. 133 c.p.). Allorquando la ragione della riduzione del quantum debeatur sia da ricercarsi nelle difficoltà organizzative e strutturali della p.a. di appartenenza del responsabile, può peraltro richia-marsi anche la fondamentale disposizione civilistica sul concorso colposo del creditore nella causazione del danno (art. 1227 c.c.) (48). È interessante osservare, in una prospettiva più generale, come si sia al cospetto di un’incipiente ed embrionale tendenza del sistema della responsabilità a dare rilievo, nell’ambito della liquidazione del danno, al contegno del danneggiante, al di fuori dunque di una logica rigorosamente riparatoria e compensativa (49).

Un altro tratto distintivo, rispetto al diritto comune della responsabilità civile, si coglie considerando il regime di circolazione dell’obbligazione risarcitoria da illecito amministrativo-contabile. Invero, il legislatore italiano, nella più volte richiamata l. n. 20/1994 (art. 1, c. 1) (50), ha sancito, in via generale, una regola che in precedenza costituiva oggetto di talune espresse previsioni normative aventi carattere eccezionale (51). È contemplata, invero, l’intrasmissibilità agli eredi del debito risarcitorio, che dunque è destinato ad estinguersi per effetto della morte dell’autore dell’illecito, eccezion fatta per l’ipotesi in cui quest’ultimo si sia arricchito grazie all’illecito compiuto – è il caso, segnatamente, della percezione di tangenti – e tale illegittima locupletazione si sia trasmessa, iure hereditatis, ai suoi successori.

Vien da osservare come la combinazione della già ricordata regola della parziarietà dell’obbligazione risarcitoria, con quello della sua intrasmissibilità mortis causa, possa condurre ad esiti pregiudizievoli sotto il profilo della salva-guardia dell’interesse pubblico. Ed è probabilmente in considerazione di queste ragioni di opportunità che, secondo un certo indirizzo della giurisprudenza contabile, criticato dalla dottrina (52), la traslazione nell’asse ereditario degli

(45) Con particolare riferimento al danno all’immagine conseguente ai reati commessi contro la p.a., va infine ricordata la recente di-

sposizione, inserita all’interno dell’art. 1 della l. n. 20/1994 (si tratta del c. 1-sexies), con cui si è stabilito che l’entità del danno “si pre-sume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal di-pendente”.

(46) Cfr. artt. 83 r.d. n. 2440/1923 e 52 r.d. n. 1214/1934.

(47) A tal riguardo, mette conto segnalare che, all’interno della recentissima riforma della responsabilità medica, è stato espressa-mente ribadito il potere-dovere del giudice contabile di tenere conto “delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche della struttu-ra sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato” (art. 9, c. 5, l. n. 24/2017). Per questa e ulte-riore casistica si può far rinvio a V. Tenore, op. cit., 350.

(48) Sulla ratio del potere di riduzione v. la rassegna di opinioni in V. Tenore, op. cit., 347 ss.

(49) Si può evocare l’art. 7, c. 3, l. n. 24/2017, con riguardo alla responsabilità dell’esercente la professione sanitaria: “Il giudice, nel-la determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 del-la presente legge e dell’articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge”.

(50) L’ultimo periodo del quale così dispone: “Il relativo debito si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito ar-ricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi”.

(51) Per esempio, v. l’abrogato art. 58, c. 4, l. n. 142/1990.

(52) O. Geraci, Il carattere personale della responsabilità amministrativa. profili processuali, in Foro amm., 2001, 790 ss.; V. Teno-re, op. cit., 431.

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illegittimi profitti che il de cuius ha tratto dalla propria condotta illecita costituisce oggetto di una presunzione iuris tantum che dev’essere vinta dagli eredi evocati in giudizio (53).

8. I confini (incerti) della giurisdizione contabile in materia di responsabilità degli organi e dei soci di società pub-bliche

Quanto sinora detto sull’illecito amministrativo-contabile e sulle prerogative giurisdizionali della Corte di conti consente di affrontare il tema della responsabilità erariale ascrivibile agli organi di gestione e di controllo, ma non so-lo, delle società partecipate da enti pubblici.

Si tratta di una materia assai complessa, che ha dato luogo ad un cospicuo contenzioso, appuntatosi specialmente sul problema dell’individuazione del giudice competente, e sulla quale, proprio al fine di risolvere le criticità manife-statesi nella prassi, è di recente intervenuto il legislatore (“Testo unico in materia di società a partecipazione pubbli-ca”, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175).

Prima di illustrare le soluzioni legislative consacrate in questo provvedimento è, tuttavia, opportuno dare conto, in estrema sintesi, dello stato della giurisprudenza formatasi prima della sua entrata in vigore. Dopo un’iniziale, genera-lizzata, affermazione della giurisdizione contabile in materia di responsabilità degli amministratori di società pubbli-che – fondata essenzialmente sul criterio dell’utilizzo delle risorse pubbliche e sull’assunto che tra amministratori e ente pubblico socio può essere individuato un rapporto funzionale di servizio (54) –, nel 2009 la Suprema Corte, a Sezioni unite, ha sancito la necessità di distinguere tra il danno arrecato al patrimonio della società – affidato alla co-gnizione del giudice ordinario e soggetto alle comuni regole civilistiche – e il danno cagionato direttamente al socio pubblico, di competenza del giudice contabile e disciplinato dalle speciali regole proprie dell’illecito erariale in pre-cedenza esposte (55). A questa soluzione interpretativa, elaborata su un ordito normativo pressoché del tutto silente (56), una decisione resa dalle medesime Sezioni unite nel 2013 aveva poi apportato una precisazione, chiarendo che nel caso di società in house – ovvero di quei soggetti che, seppur organizzati secondo moduli privatistici, fungano da longa manus dell’ente pubblico, possessore della totalità del capitale sociale e beneficiario in via prevalente della sua attività – la giurisdizione spetta al giudice contabile; alla base di tale decisione l’idea era che la funzione in house providing valesse ad instaurare un rapporto di servizio diretto tra gli organi sociali e l’ente controllante, così potendo-si squarciare il velo societario (57).

(53) Corte conti, Sez. II centr. app., 5 settembre 2006, n. 289, in questa Rivista, 2006, fasc. 5, 49.

(54) Cass., S.U., 26 febbraio 2004, n. 3899, in Foro it., 2005, I, 2675, con nota di G. D’Auria, Amministratori e dipendenti di enti economici e società pubbliche: quale “revirement” della Cassazione sulla giurisdizione di responsabilità amministrativa?

(55) Cass., S.U., 19 dicembre 2009, n. 26806, in questa Rivista, 2009, fasc. 6, 218. Tra gli esempi di danno arrecato direttamente al socio pubblica amministrazione, la Cassazione menziona il danno all’immagine discendente dalla mala gestio degli amministratori.

(56) Il problema del riparto di giurisdizione e quello della disciplina applicabile in tema di responsabilità di amministratori e dipen-denti di società pubbliche era risolto, con esclusivo riferimento a quelle quotate, dalla disposizione di cui all’art. 16-bis d.l. n. 248/2007, convertito con modificazioni dalla l. n. 31/2008, giusta il quale “Per le società con azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipa-zione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici, inferiore al 50 per cento, nonché per le loro controllate, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclu-sivamente alla giurisdizione del giudice ordinario”. Si deve inoltre ricordare la previsione, riferita non al tema della responsabilità degli organi sociali, ma al regime giuridico della società a partecipazione pubblica, di cui all’ultimo periodo dell’art. 4, c. 13, d.l. n. 95/2012, introdotto dalla legge di conversione n. 135/2012, il quale così recita[va]: “Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”. La norma è stata sostanzialmente “trasfusa”, con contestuale sua abrogazione, all’interno del testo unico d.lgs. n. 2016/175, il cui art. 1, c. 3, dispone che: “Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”.

(57) Cass., S.U., 25 novembre 2013, n. 26283, ivi, 2013, fasc. 5-6, 530, con nota di richiami: “Il danno eventualmente inferto al pa-trimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo, è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico”.

I criteri di riparto tra la giurisdizione ordinaria e quella contabile, enucleati in Cass. n. 26806/2009 e n. 26283/2013, citt., sono stati riconfermati dalle medesime Sezioni unite della S.C. nelle recenti sentenze: 5 dicembre 2016, n. 24737, ivi, 2017, fasc. 1-2, 571, con nota di richiami (“La centrale di committenza costituita dalla Regione Piemonte ai sensi dell’art. 1, c. 455, l. n. 296/2006, pur avendo assunto la forma della società per azioni, si configura, in sostanza, come un ente pubblico regionale, in tal senso deponendo la sua struttura orga-nizzatoria ed operativa, quale emerge tanto dalla l. reg. n. 19/2007, che ne ha disposto la costituzione, quanto dal modo in cui le relative prescrizioni sono state trasfuse nello statuto. La lesione al suo patrimonio sociale, pertanto, si configura come un danno erariale ed i suoi amministratori e dipendenti, che l’hanno cagionato, sono, per l’effetto, assoggettati alla giurisdizione contabile, fermo restando che la veste formale e, dunque, la sua qualità di soggetto societario conservano rilevanza a tutti gli altri effetti”); 15 maggio 2017, n. 11983, ibi-dem, fasc. 3-4, 485, con nota di richiami (“queste Sezioni unite hanno già avuto numerose occasioni per sottolineare che, nella società di diritto privato a partecipazione pubblica, il pregiudizio patrimoniale arrecato dalla mala gestio dei suoi organi sociali di norma non inte-gra il danno erariale, in quanto si risolve in un vulnus gravante in via diretta esclusivamente sul patrimonio della società, soggetta alle regole di diritto privato e dotata di autonoma e distinta personalità giuridica rispetto ai soci. L’azione di responsabilità per danno erariale si può, invece, configurare sia quando l’azione di responsabilità miri al risarcimento di un danno che – come nel caso del danno all’immagine – sia stato arrecato al socio pubblico direttamente, e non come mero riflesso della perdita di valore della partecipazione so-

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Nel quadro così sommariamente delineato si è inserito, come detto, l’art. 12 del sopra ricordato testo unico, alla cui stregua “I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house. È devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2”; e ancora: “Costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, ab-biano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione”.

Plurimi sono i problemi interpretativi che il dettato normativo suscita, a partire dall’omessa menzione, nell’inciso con cui si chiude il primo periodo del c. 1, degli organi di controllo, oltre che degli amministratori e dei dipendenti della società (58). Non facilmente intellegibile è, poi, il riferimento ivi compiuto alle società in house, che, secondo la disciplina del testo unico non sono solamente le società partecipate in toto dall’ente pubblico, ma anche quelle parte-cipate da soggetti privati (pur entro certi limiti e a determinate condizioni) (59): non è chiaro, infatti, se, sulle azioni di responsabilità promosse contro gli organi di tali società, il legislatore abbia inteso imporre in ogni caso la giurisdi-zione contabile – in linea con la decisione della Cassazione del 2013 – oppure se quest’ultima sussista solamente in presenza di un danno erariale, da definirsi alla luce delle indicazioni contenute nel secondo periodo del c. 1 e del c. 2 della disposizione in esame.

Quest’ultimo nodo interpretativo, concernente l’individuazione dell’esatta nozione di danno erariale nell’ambito dell’attività svolta dalle società a partecipazione pubblica, si presenta come maggiormente delicato, prestandosi le dispo-sizioni in esame a una, quantomeno, duplice lettura.

Secondo taluni, infatti, la giurisdizione contabile dovrebbe ammettersi, in via generale, su tutte le azioni di responsa-bilità promosse contro gli organi sociali ex artt. 2392 ss. c.c.; e, purtuttavia, la Corte dei conti potrebbe, una volta accer-tata la relativa responsabilità, condannare gli autori dell’illecito solamente nei limiti della quota di partecipazione dell’ente pubblico il cui valore sia stato dagli stessi pregiudicata (in tal senso militerebbe il richiamo ai “limiti della quo-

ciale conseguente al danno arrecato alla società, sia nei confronti di chi, essendone incaricato, non abbia esercitato i poteri ed i diritti so-ciali spettanti al socio pubblico al fine d’indirizzare correttamente l’azione degli organi sociali o di reagire opportunamente agli illeciti da questi ultimi commessi (tra varie, Cass., S.U., ord. 12 ottobre 2011, n. 20941; ord. 3 maggio 2013, n. 10299 e 27 ottobre 2016, n. 21692). In alcuni casi particolari, tuttavia, si è affermata la sussistenza della giurisdizione contabile in relazione alle azioni di risarcimento del danno cagionato da componenti del consiglio di amministrazione e da dipendenti, facendo leva, di là dalla forma rivestita di società di capitali, sulla natura sostanziale di ente pubblico, emergente dalla sua struttura organizzatoria ed operativa (si veda, al riguardo, Cass., S.U., 5 dicembre 2016, n. 24737, che ha aggiunto al catalogo dei casi già esaminati da queste Sezioni unite, ivi enumerati, quello della centrale di committenza costituita dalla Regione Piemonte ai sensi della l. n. 296/2006, art. 1, c. 455). Accanto a queste ipotesi singolari, la giurisdizione della Corte dei conti è stata ravvisata anche con riguardo alle azioni di responsabilità proposte nei confronti di organi o dipendenti delle società in house, per tali dovendosi intendere quelle costituite da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servi-zi, che esplichino la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e che siano assoggettate a forme di controllo della gestio-ne analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici (tra varie, Cass., S.U., 25 novembre 2013, n. 26283.; 10 marzo 2014, n. 5491; ord. 22 dicembre 2016, n. 26643), avuto riguardo alle previsioni contenute nello statuto della società nel momento cui risale la condotta ipotizzata come illecita (in particolare, Cass., S.U., 26 marzo 2014, n. 7177)”); ord. 27 dicembre 2017, n. 30978, ivi, 2018, fasc. 1-2, 472, con nota di richiami (“Le azioni di responsabilità nei confronti dei dipendenti di società a partecipazione pubblica, facente parte del Gruppo Ferrovie dello Stato, sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario, e non a quella del giudice contabile, posto che né la capogruppo né la società satellite hanno le caratteristiche delle cosiddette ‘società legali’ o delle società in house providing e conside-rato che, comunque, la natura privatistica della holding e il collegamento di derivazione infragruppo convergono in una piattaforma che stempera il legame della società controllata con l’ente pubblico, facendo emergere l’autonomia e la specificità aziendale di quest’ultima società, quale sintomatica riprova del regime civilistico cui è assoggettata, in conformità a quanto stabilito dall’art. 4, c. 13, d.l. n. 95/2012, convertito con modificazioni nella l. n. 135/2012 (vigente ratione temporis), che, in assenza di diverse disposizioni, impone all’interprete di applicare la disciplina del c.c. in materia di società di capitali”) e 20 marzo 2018, n. 6929 (“può qui bastare un integrale richiamo alla completa ed esaustiva premessa e disamina in diritto di Cass., S.U., 27 dicembre 2017, n. 30978, che può riassumersi nella natura eccezionale della giurisdizione contabile e nella conseguente possibilità di ravvisarla in tre ipotesi: in caso di società in house o in house providing (per le quali è ribadita la necessità del triplice presupposto della partecipazione totalitaria da parte di enti pubblici e di-vieto di cessione delle partecipazioni a privati, dello svolgimento di attività almeno prevalente in favore degli enti soci, nonché del con-trollo analogo a quello degli enti sui propri uffici con prevalenza sulle ordinarie forme civilistiche; e pur sempre ove tali presupposti sus-sistano al momento della condotta dannosa); in caso di danno provocato direttamente al patrimonio non della società, ma dell’ente pub-blico; in caso di danno cagionato dal rappresentante dell’ente pubblico partecipante che abbia esercitato od omesso di esercitare il suo potere in modo tale da pregiudicare il valore della partecipazione”).

(58) La lacuna, frutto probabilmente di una trascuratezza del legislatore, può essere tuttavia colmata – e quindi la giurisdizione con-tabile estesa anche agli organi di controllo – facendo riferimento alle previsioni della legge-delega, ove si fa riferimento anche ad essi (art. 18, c. 1, lett. c, l. n. 124/2015).

(59) Cfr. artt. 1, lett. o), e 16 d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175.

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ta di partecipazione pubblica” di cui all’ultimo periodo del c. 1), poiché questo pregiudizio finisce per concretarsi in una lesione del patrimonio della p.a. (60).

Diversamente, altra parte della dottrina, dopo aver sottolineato l’esito cui l’opzione interpretativa ora riportata con-duce – gli organi sociali responsabili, infatti, sarebbero chiamati a risarcire all’erario, e non già alla società, quota parte del danno causato, mentre la restante parte soltanto potrebbe essere recuperata, previo vittorioso esperimento dell’azione in sede civile, al patrimonio della società e, dunque, andare a vantaggio anche dei soci privati –, sostiene che l’art. 12 cit. andrebbe interpretato alla luce della distinzione, accolta dalle Sezioni unite del 2009 poc’anzi richiamate, tra danno al patrimonio sociale e danno arrecato direttamente al patrimonio dell’ente socio pubblico (61). Tale ultimo danno può pe-raltro scaturire – lo precisa il c. 2 dell’art. 12, recependo l’elaborazione della giurisprudenza contabile e civile che le Se-zioni unite del 2009 avevano inaugurato (62) – non solo dalla condotta negligente degli organi sociali, ma pure da quella dei funzionari dell’ente pubblico chiamati ad assumere le determinazioni in ordine all’esercizio dei diritti che all’ente stesso spettano in quanto socio e che sono idonee a provocare una diminuzione del valore della partecipazione, con de-trimento, dunque, delle risorse pubbliche. Tra le ipotesi di pregiudizio prodotto dai rappresentanti dell’ente pubblico par-tecipante (e che dispone della maggioranza dei voti) assume particolare rilievo quella consistente nel trascurare di deli-berare il promovimento dell’azione di responsabilità sociale verso gli amministratori, al fine di reintegrare il patrimonio della società e, quindi, indirettamente il valore della partecipazione del socio pubblico. In tal modo, si è osservato, si po-trebbe far fronte al rischio che l’inerzia della p.a., titolare delle partecipazioni, si traduca in un danno all’erario (63), an-che se non manca chi propone di riconoscere al procuratore della Corte dei conti la legittimazione ad agire in via surro-gatoria, a fronte dell’inerzia della società, a tutela dei diritti di questa (64).

9. A mo’ di conclusione

Non par dubbio che la Corte dei conti, nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali in materia di responsabilità, sia titolare di un ruolo fondamentale nella prospettiva del corretto impiego delle risorse pubbliche, e ciò sia che si intenda valorizzare, in relazione all’esercizio delle anzidette prerogative, una portata in termini di deterrenza, sia che si voglia porre l’accento sulla correzione degli esiti distorti delle condotte illecite dei pubblici funzionari.

Con riflessione più generale, se si ha riguardo alla fisionomia della Corte dei conti si coglie con intuitiva evidenza la posi-zione di centralità in cui essa è collocata nel sistema tracciato dalla Carta costituzionale, posto che a tale fondamentale organo – vera e propria istituzione – è demandato, attraverso l’attribuzione di plurime e delicate funzioni, il compito di fungere da pre-sidio in vista della salvaguardia dell’interesse pubblico ogniqualvolta per la sua declinazione si debba impiegare danaro pub-blico. L’efficienza dell’azione dei pubblici poteri si misura anche – e non potrebbe essere diversamente – in ragione di un cor-retto impiego e allocazione delle risorse di cui detti poteri dispongono al fine del perseguimento dei fini istituzionali. In una dinamica del genere descritto si coglie, con una percezione che non può non essere immediata, quale sia il ruolo che è chiama-ta a ricoprire la Corte. Ruolo che, è bene sottolinearlo, non implica ex se una contrapposizione con la pubblica amministrazio-ne, ma concorre a delineare un sistema – delicato e complesso, ma che deve essere in grado purtuttavia di anelare a una com-posizione armonica – in cui ciascuno incarna ruoli ed è titolare di prerogative fondamentali le quali, nel loro insieme, contri-buiscono all’efficiente esercizio dell’azione dei pubblici poteri. Il tutto affinché comportamenti, atti e procedimenti – che di detta azione costituiscano estrinsecazione – risultino ispirati a logiche virtuose. A tutto ciò contribuisce significativamente an-che l’esercizio della fondamentale funzione giurisdizionale al cospetto dell’illecito erariale.

* * *

(60) M. Atelli, Sub art. 12, in G. Meo, A. Nuzzo (diretto da), Testo unico sulle società pubbliche, Bari, Cacucci, 2016, 169; M. Lupi,

La responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica, in <www.giustiziacivile.com>, 9 febbraio 2018.

(61) C. Ibba, La responsabilità, in C. Ibba, I. Demuro (diretto da), Le società a partecipazione pubblica. Commentario tematico ai d.lgs. 175/2016 e 100/2017, Bologna, Zanichelli, 2017, 181 ss.

(62) La quale ha trovato conferme nelle successive pronunce: si veda, da ultimo, Cass., S.U., 12 febbraio 2019, 4132: “In punto di giurisdizione, deve essere ribadita la giurisprudenza di queste Sezioni unite, secondo la quale appartiene alla sfera di competenza della Corte dei conti l’azione esercitata dalla procura contabile nei confronti di chi, quale rappresentante dell’ente pubblico partecipante o co-munque titolare del potere di decidere per esso, abbia, con il proprio comportamento, pregiudicato il valore della partecipazione e quindi arrecato un danno al patrimonio dell’ente, trascurando colpevolmente di esercitare i propri poteri e diritti inerenti alla posizione di socio pubblico (al fine di indirizzare correttamente l’azione degli organi sociali), oppure, come nella fattispecie (in base alla prospettazione at-torea), esercitando tali diritti in modo non conforme al dovere di diligente cura del valore di detta partecipazione, con effetto direttamente pregiudizievole per il patrimonio dell’ente pubblico (cfr., in particolare, tra le sentenze sopra citate, Cass., S.U., n. 21962/2016 – con la quale si è affermata la giurisdizione contabile nei confronti dei sindaci di due comuni in relazione al danno cagionato agli enti dalla sot-toscrizione, da parte dell’amministratore delegato della società partecipata, su richiesta dei due sindaci, di un contratto di sponsorizzazio-ne per una manifestazione sportiva – e Cass., S.U., n. 11139/2017 – con la quale è stata parimenti ritenuta sussistente la giurisdizione della Corte dei conti in ordine alla domanda di risarcimento del danno patrimoniale proposta dal procuratore contabile nei confronti del delegato del sindaco di un comune che, esercitando i poteri spettanti a quest’ultimo quale rappresentante dell’ente, aveva arrecato un danno patrimoniale al comune, deliberando un aumento del numero e del compenso dei consiglieri di amministrazione di una società par-tecipata integralmente dall’ente)”.

(63) Discorreva di questa ipotesi già Cass., S.U., 12 ottobre 2011, n. 20491.

(64) C. Ibba, op. cit., 187, ove ulteriori riferimenti.

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DANNO ERARIALE E RIPARAZIONE PECUNIARIA: PROFILI NAZIONALI ED EUROPEI

DI UN RAPPORTO TRA DETERRENTI ALLA CORRUZIONE

di Emanuele Fratto Rosi Grippaudo

Abstract: Il presente contributo è diretto ad approfondire, utilizzando quale spunto la recentissima sentenza della Cas-sazione penale, Sez. VI, 14 marzo 2019, n. 12541, se sia legittimo il cumulo tra l’istituto della riparazione pecu-niaria di cui all’art. 322-quater c.p. o della restituzione del prezzo o profitto del reato di cui all’art. 444, c. 1-ter c.p.p. e la responsabilità amministrativa per danno erariale, in particolare quello patrimoniale da tangente e quello non patrimoniale all’immagine, liquidate dalla Corte dei conti. Il dubbio su una possibile “intrusione” della giuri-sdizione penale nelle prerogative della magistratura contabile, così da neutralizzare ogni effetto dell’azione della procura erariale per sopravvenuta carenza di interesse, è giustificato sia dalla terminologia utilizzata dal legislato-re nel disciplinare l’istituto sia dagli effetti che il cumulo con la responsabilità amministrativa provoca, ossia l’imputazione allo stesso soggetto di plurime ipotesi di responsabilità patrimoniale per un identico importo (o per il duplum) e dovute alla medesima condotta.

Sommario: 1. Il casus belli. – 2. Il contesto normativo. – 3. La posizione assunta dalla Suprema Corte. – 4. Natura e valore probatorio della sentenza di patteggiamento nel giudizio erariale. – 5. Danni erariali patrimoniali: il c.d. danno da tangente. – 6. Danni erariali non patrimoniali: il c.d. danno all’immagine della pubblica amministra-zione – 7. Quadruplicazione dell’entità riparatoria e perplessità del cumulo in termini di ne bis in idem.

1. Il casus belli

Con la Sentenza in epigrafe (1), la Suprema Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla legalità dell’applicazione della riparazione pecuniaria ex art. 322-quater c.p., prevista per i delitti commessi contro la pubbli-ca amministrazione a seguito di giudizio definito con il rito del c.d. “patteggiamento” (artt. 444 ss. c.p.p.).

Il caso affrontato riguarda l’imputato per delitti di corruzione, il quale, richiesto pronunciamento a suo carico ex artt. 444 ss. c.p.p., veniva condannato dal giudice al versamento, in favore della pubblica amministrazione di apparte-nenza, di una somma a titolo di riparazione pecuniaria, ai sensi dell’art. 322-quater c.p.

L’imputato, dunque, domandava ai giudici di legittimità l’annullamento del decisum limitatamente alla parte in cui prevedeva condanna alla riparazione pecuniaria: ad avviso della difesa, invero, il giudice aveva applicato una “pena illegale”, in quanto l’art. 322-quater c.p. fa conseguire la riparazione esclusivamente ad una “sentenza di con-danna”, dunque alla sentenza resa all’esito di giudizio ordinario ovvero di giudizio abbreviato, non anche in caso di applicazione della pena.

2. Il contesto normativo (2)

L’art. 322-quater c.p., introdotto con la l. 27 maggio 2015, n. 69, prevede che “Con la sentenza di condanna per i reati previsti dagli artt. 314, 317, 318, 319-ter, 319-quater, 320, 321 e 322-bis, è sempre ordinato il pagamento di una somma pari equivalente al prezzo o profitto del reato a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno”. Tale formulazione è frutto di recente intervento normativo che, con la l. 9 gennaio 2019, n. 3, ai fini della determinazione del quantum della riparazione pecuniaria, ha sostituito il precedente riferimento al “quanto indebitamente ricevuto” dall’agente funzionario pubblico con l’attuale “somma equivalente al prezzo o al profitto del reato”.

L’istituto della riparazione pecuniaria, che nelle ipotesi delittuose richiamate costituisce presupposto per benefi-ciare della sospensione condizionale della pena ex art. 165, c. 4, c.p., ha sollevato perplessità sin dalla sua entrata in

(1) La pronuncia è stata annotata anche da A. Scarcella, Spazzacorrotti: la riparazione pecuniaria può ordinarsi solo con sentenza di

condanna, in <www.quotidianogiuridico.it>, 16 aprile 2019.

(2) Approfondimenti sulla l. 27 maggio 2015, n. 69, e successive modifiche e integrazioni, in particolare sull’istituto della riparazione pecuniaria e la nuova condizione di ammissibilità al rito patteggiamento, sono presenti in: A. Cisterna, In G.U. la legge 69/2015, c.d. an-ticorruzione: una mezza rivoluzione, ivi, 4 giugno 2015; V. Mongillo, Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla legge n. 69 del 2015, in Libro dell’anno del diritto 2016, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2016; F. Marra, La restituzione del profitto del reato è condizione di natura processuale per il patteggiamento, in <www.quotidianogiuridico.it>, 28 aprile 2017; M. Gam-bardella, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, 44; M. Pelissero, Le nuove misure di contrasto alla corruzione: ancora un inasprimento della risposta sanzionatoria, in <www.quotidianogiuridico.it>, 11 settembre 2018; N. Pisani, Il disegno di legge “spazza corrotti”: solo ombre, in Cass. pen., 2018, 3589.

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vigore in quanto difficilmente riconducibile a una “pena accessoria” o a una “misura di sicurezza”: il funzionario è condannato a corrispondere una somma di denaro, la cui individuazione è rimessa alla discrezionalità del giudice, in favore dell’amministrazione pubblica di appartenenza, a prescindere, ed anzi in aggiunta, al risarcimento del danno cagionato al prestigio ed al buon andamento della pubblica amministrazione Così formulata, la riparazione ex art. 322-quater, avente natura esclusivamente economica, presenta tratti di affinità alla “riparazione pecuniaria” prevista all’art. 12 l. 18 febbraio 1948, n. 47, applicabile in caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa (3).

Come evincibile dai lavori preparatori della l. 27 maggio 2015, n. 69, l’art. 322-quater introduce una nuova e di-versa sanzione per l’infedeltà del pubblico ufficiale e per il danno cagionato all’amministrazione, con spiccata finalità dissuasiva, in aggiunta alle ulteriori sanzioni già previste dall’ordinamento per i delitti contro la p.a. La “riparazione pecuniaria”, dunque, per espressa intenzione legislativa, assume la connotazione di una “sanzione civile accessoria” alla condanna per i reati individuati dalla norma: trattasi di una tipica obbligazione civilistica che, tuttavia, ponendosi in aggiunta alla previsione del risarcimento del danno, assume una connotazione punitiva.

3. La posizione assunta dalla Suprema Corte

Richiamata la natura dell’art. 322-quater c.p., il collegio ritiene di condividere la tesi difensiva (4): trattandosi di sanzione, sebbene di tipo civilistico, la riparazione pecuniaria non può essere applicata fuori dai casi in cui essa è espressamente prevista, in ossequio ai principi di legalità e tassatività in materia penale. Richiedendo quale presuppo-sto una “sentenza di condanna”, la riparazione pecuniaria può trovare applicazione solo nei casi di giudizio ordinario o abbreviato; il rito ex artt. 444 ss. c.p.p., prescindendo dall’accertamento della penale responsabilità dell’imputato, resta escluso, essendo la pronuncia “solo” equiparata ad una condanna (5).

Tale interpretazione deriva dal dato sistematico: ogniqualvolta il legislatore abbia voluto estendere una sanzione pecuniaria ai casi di definizione del giudizio mediante il c.d. patteggiamento, ha espressamente previsto tale rito tra i presupposti. Basti richiamare le norme in tema di confisca obbligatoria (per citarne alcune, artt. 466-bis e 644, ultimo comma, c.p.), le quali stabiliscono espressamente che la misura di sicurezza patrimoniale consegue anche in caso di sentenza ex art. 444 ss. c.p.p. Analoghe considerazioni valgono per l’art. 322-ter c.p., immediatamente precedente all’art. 322-quater c.p., il quale, nel prevedere la confisca dei beni che costituiscono prezzo o profitto dei reati pre-supposto ivi indicati, fa riferimento expressis verbis all’applicazione della pena.

Non solo. La l. 27 maggio 2015, n. 69, che ha introdotto l’art. 322-quater c.p., ha anche riformato l’accesso all’applicazione della pena per gli imputati di delitti contro la p.a., subordinandolo “alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato”, non anche alla riparazione pecuniaria (6). Una interpretazione estensiva della ripara-zione pecuniaria anche in caso di sentenza ex artt. 444 ss. c.p.p. (nella forma ordinaria o c.d. allargata), sarebbe, dun-que, irragionevole, in quanto l’imputato sarebbe assoggettato al doppio versamento di una somma di denaro eguale nel tantundem (prezzo o profitto del reato), sia pure a titolo diverso (restitutorio e riparatorio).

Conclude, allora, la Corte, richiamando il canone interpretativo del favor rei, che, in tema di reati contro la p.a., il patteggiamento di una pena, anche nella forma c.d. allargata, preclude l’applicazione della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater c.p., mancando il presupposto di legge della “sentenza di condanna”.

(3) La disposizione richiamata facoltizza la persona offesa a richiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 c.p., una

somma a titolo di riparazione, da determinare in relazione alla gravità dell’offesa e alla diffusione dello stampato.

(4) Analizzato il ricorso, anche il sostituto procuratore generale concludeva chiedendo l’annullamento della sentenza in parte qua.

(5) Ai sensi dell’art. 445, c. 1-bis, c.p.p., così come modificato dall’art. 1, c. 1, lett. a), l. 12 giugno 2003, n. 134, “Salvo quanto pre-visto dall’articolo 653, la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di con-danna”.

(6) Sull’argomento, cfr. Cass. pen., Sez. VI, 30 gennaio 2019, n. 16872, in <www.dirittoegiustizia.it>, 24 maggio 2019, ove si affer-ma che “l’effetto dell’adempimento della condizione processuale di ammissibilità del rito di cui al comma 1-ter dell’art. 444 c.p.p. è quello, da un lato, di impedire all’imputato qualsiasi vantaggio di natura economica direttamente derivante dal reato e, dall’altro, di con-sentirgli di escludere l’applicazione, con la sentenza pronunciata ex art. 444 c.p.p., della confisca ex art. 322-ter del profitto (o del prez-zo) del reato o, in caso di sentenza di condanna ordinaria, anche della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater a favore dell’amministrazione di appartenenza”. Cfr. anche Cass. pen., Sez. VI, 28 febbraio 2017, n. 9990, in Rep. Foro it., 2017, voce Pena (ap-plicazione su richiesta), n. 13 secondo cui “la restituzione integrale del profitto del reato ex art. 444 c.p.p., comma 1-ter deva avvenire a cura esclusiva dell’imputato e non possa essere perciò sostituita da adempimenti di terzi estranei al reato”.

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4. Natura e valore probatorio della sentenza di patteggiamento nel giudizio erariale (7)

Le conseguenze sotto il profilo erariale di una sentenza pronunciata a seguito di giudizio definito con “applicazio-ne della pena su richiesta” sono anch’esse da ricercare all’interno del codice di procedura penale.

In particolare, rileva quanto statuito dall’art. 651, c. 1, c.p.p., che riconosce alla sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi per le restitu-zioni o il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato (8).

Un’efficacia che la medesima disposizione chiarisce subito essere limitata alla sussistenza del fatto, alla sua illi-ceità penale e all’affermazione che l’imputato l’ha commesso, e che, quindi, non si estende alla sussistenza del nesso di causalità tra condotta illecita ed evento di danno erariale (9).

Al giudice contabile è, dunque, preclusa ogni statuizione che venga a collidere con i presupposti logico-giuridici della pronuncia penale, comprensivi della condotta, dell’evento e del nesso di causalità materiale, mentre gli è con-sentito vagliare, ad esempio, elementi quali la colpa o le cause di giustificazione (10).

La medesima argomentazione non può essere svolta con riguardo alla sentenza di “patteggiamento”, dalla Corte costituzionale (11) e dal legislatore equiparata “solo” a determinati fini, ma non identificabile, con una sentenza di condanna e che, ai sensi dell’art. 444, c. 1-bis, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi.

(7) Sull’argomento, si vedano le seguenti opere di dottrina: S. Cimini, A. Police, Definizione concordata delle controversie e proces-

so contabile, in Foro amm.-CdS., 2003, 3910; A. Traversi, La difesa nel giudizio di responsabilità per danno erariale da reato, Milano, Giuffrè, 2018, 115 ss., con ampia rassegna giurisprudenziale; V. Tenore, A. Napoli, Studio sulla responsabilità amministrativo-contabile davanti alla Corte dei conti, Napoli, Esi, 2019, 10 ss.; C. Chiarenza, P. Evangelista, Il giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei conti, in V. Tenore (a cura di), La nuova Corte dei conti. Responsabilità, pensioni, controlli, Milano, Giuffrè, 2018, 808; A. Iadecola, Rapporti con il giudizio penale, in A. Canale, F. Freni, M. Smiroldo (a cura di), Il nuovo processo davanti alla Corte dei conti, Milano, Giuffrè, 2017, 602, con ampia rassegna giurisprudenziale; M. D’Auria, Il rapporto tra giurisdizioni. Il giudice penale, in C. Mirabelli, E. F. Schiltzer (a cura di), Trattato sulla nuova configurazione della giustizia contabile, Napoli, Editoriale scientifica, 2018, 91. Recenti pronunce giurisprudenziali sul tema sono Corte conti, Sez. giur. reg. Toscana, 19 giugno 2019, n. 259; Sez. giur. reg. Abruzzo 17 maggio 2019, n. 41, in questa Rivista, 2019, fasc. 3, 194; Sez. app. reg. Siciliana 4 giugno 2019, n. 53, Sez. giur. reg. Veneto 17 maggio 2019, n. 73, ibidem, 211, e, infine, Sez. II centr. app. 6 febbraio 2019, n. 27, che presenta una significativa ricostruzione della posizione della giu-risprudenza contabile sulla natura della sentenza di patteggiamento e sul valore degli accertamenti in essa effettuati e di cui si ripropone un estratto: «Ed invero, la giurisprudenza pacifica delle sezioni d’appello di questa Corte ha uniformemente evidenziato che la sentenza a pena patteggiata, pur non avendo efficacia di giudicato nei giudizi civili ed amministrativi ex art. 445, comma 1-bis c.p.p., per altro verso è equiparata dalla stessa disposizione ad una pronuncia di condanna, avendo il giudice penale accertato la commissione di un fatto-reato a carico dell’imputato, sulla cui qualificazione giuridica hanno previamente concordato il pubblico ministero e le parti, ed avendo egli verificato la congruità della pena rispetto alla gravità del fatto e, soprattutto, l’insussistenza di condizioni legittimanti l’immediato pro-scioglimento dell’imputato ex art. 129 c.p.p. (Sez. I centr. app. nn. 209 e 97/2008). Pertanto, essa ben può essere valutata dal giudice con-tabile in quanto presuppone il consenso dell’imputato e, quindi, un suo particolare atteggiamento psicologico che può essere esaminato al pari degli altri elementi di giudizio (Sez. I centr. app. n. 103/2003; nn. 149 e 282/2004). Tale riscontro probatorio circa l’effettivo com-pimento dei fatti costituenti reato potrà essere disatteso dal giudice solo con adeguata motivazione ed ove il soggetto autore del contesta-to illecito spieghi e renda idonea prova delle ragioni per cui ha ammesso una sua responsabilità penale in realtà insussistente ed il giudice non lo abbia tuttavia assolto (Sez. I centr. app. nn. 149 e 3/2004). Ne consegue che nei giudizi diversi da quello penale, pur non essendo precluso al giudice l’accertamento e la valutazione dei fatti in modo difforme da quello contenuto nella sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p., questa assume particolare valore probatorio, vincibile solo attraverso specifiche prove contrarie (Sez. I centr. app. n. 209/2008/A; n. 187/2003/A). Anche la Corte di cassazione ha ribadito più volte che la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. “costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia pre-stato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile” (v. Cass. civ., Sez. lav., n. 9358/2005; n. 19251/2005; n. 23906/2007; n. 3980/2016; Sez. V, n. 24587/2010 e n. 13034/2017; S.U. n. 17289/2006). Secondo consolidata giuri-sprudenza, quindi, tutti gli elementi utili per la conoscenza dei fatti, comunque acquisiti, in sede processuale e preprocessuale penale, possono essere oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice contabile, in quanto concorrono, ex art. 116 c.p.c., alla formazione del libero convincimento sull’esistenza del danno e della responsabilità amministrativa (così, Sez. I centr. app. n. 314/2017)».

(8) L’art. 651 c.p.p. trova applicazione in presenza dei seguenti presupposti: il convenuto nel giudizio di responsabilità amministrati-vo-contabile deve essere lo stesso soggetto condannato dal giudice penale; la sentenza penale deve avere per oggetto gli stessi fatti conte-stati dal pubblico ministero contabile; la condanna deve essere irrevocabile; la sentenza deve essere stata emessa a seguito di dibattimen-to o di giudizio abbreviato, salvo che, nel secondo caso, vi sia stata opposizione della parte civile che non abbia accettato il rito speciale.

(9) La regola trova applicazione limitatamente alle ipotesi in cui il fatto accertato in sentenza non si configuri come reato di danno. Qualora, invece, il danno sia elemento costitutivo dell’illecito penale, la sua esistenza si ritiene implicita e si ritiene che essa non possa formare oggetto di ulteriore accertamento, negativo o positivo, se non con riferimento al soggetto che lo abbia subito o alla misura di es-so (cfr. Cass. civ., S.U., 25 febbraio 2010, n. 4549, in Rep. Foro it., 2010, voce Giudizio (rapporto tra il giudizio civile o amministrativo e il penale) e pregiudizialità penale, n. 12).

(10) Cfr. Corte conti, Sez. I centr. app., 22 luglio 1993, n. 117, in questa Rivista, 1993, fasc. 4, 82, e Sez. riun., 22 ottobre 1992, n. 808, ivi, 1992, fasc. 6, 47.

(11) Cfr. Corte cost. 6 giugno 1991, n. 251, in Giur. cost., 1991, 2056, dove è stato «escluso, dunque, che la sentenza adottata ai sensi dell’art. 444 del codice di rito possa assumere le caratteristiche proprie di una sentenza di condanna basata sull’accertamento pieno della “fondatezza dell’accusa penale”».

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Tuttavia, la magistratura contabile (12), in linea con l’orientamento prevalente della Corte di cassazione (13), at-tribuisce alle sentenze rese ai sensi dell’art. 444 c.p.p. una efficacia probatoria “qualificata” che consenta al giudice erariale, così com’è consentito al giudice di merito (14), di utilizzare quale elemento di prova il riconoscimento di re-sponsabilità inglobato nella statuizione penale senza necessità di ulteriori riscontri aliunde, in assenza di valide argo-mentazioni di segno contrario.

In sostanza, si ha un’inversione dell’onere della prova, dovuta a una costante assimilazione giurisprudenziale della richiesta di patteggiamento a una tacita ammissione di colpevolezza, superabile attraverso un robusto quadro probato-rio diretto a spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (15).

Tuttavia, non sono allegabili generiche ragioni personali, dovendo procedersi a un esame delle risultanze oggetti-ve offerte dalle parti (16), e il giudice erariale, qualora intenda disattendere le risultanze della sentenza pronunciata dal giudice penale, deve “vestire” il proprio pronunciamento di un’adeguata motivazione.

Una volta acclarata l’efficacia probatoria della sentenza di “patteggiamento” nel processo celebrato innanzi alla Corte dei conti, occorre verificare quali tipologie di eventi di danno per l’erario provoca una sentenza come quella oggetto del presente commento.

5. Danni erariali patrimoniali: il c.d. danno da tangente (17)

Il processo penale giunto a conclusione con la sentenza di “patteggiamento” vedeva il destinatario del provvedi-mento giurisdizionale rivestire la qualifica di imputato per i delitti di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e di corruzione in atti giudiziari.

È opinione della giurisprudenza contabile che la percezione di una tangente in danno della pubblica amministra-zione di appartenenza sia sempre foriera di danno erariale, quanto meno nella sua accezione patrimoniale.

Tale pregiudizio assume il nomen di “danno da tangente” (18) e compartecipa a una casistica giurisprudenziale ampia e variegata in ordine alle numerose fattispecie criminose (19) che lo hanno concepito.

La percezione di una tangente può essere causa di un danno erariale diretto o indiretto all’amministrazione di rife-rimento del corrotto, a seconda che le derivi dalla sottrazione di somme ad essa destinate a vario titolo o dall’esecuzione di servizi, opere e forniture per un valore minore del corrispettivo versato.

Nella prima delle due ipotesi, caratteristica della “tangentopoli fiscale”, la liquidazione del danno non presenta particolari difficoltà, coincidendo con l’importo non incassato dall’amministrazione; nella seconda ipotesi, caratteri-stica della “tangentopoli contrattuale”, il danno va ricavato sottraendo al corrispettivo versato dall’amministrazione il valore della prestazione.

Qualora risulti impossibile liquidare danno emergente e lucro cessante attraverso i criteri ordinari, l’orientamento maggioritario della magistratura contabile vi provvede utilizzando un particolare criterio equitativo, detto della “tra-slazione della tangente” (20).

(12) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, 12 settembre 2017, n. 101; Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, 22 gennaio 2015, n. 5;

Sez. giur. reg. Piemonte, 14 ottobre 2014, n. 121.

(13) Cfr. Cass. civ., S.U., 31 luglio 2006, n. 17289, in Rep. Foro it., 2006, voce Prova civile in genere, n. 52.

(14) Cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. trib., 10 dicembre 1998, n. 11301; e 17 gennaio 2001, n. 630, in Rass. avv. Stato, 2001, fasc. 2, 367, con nota di C. Giorgiantonio, La sentenza di patteggiamento costituisce un rilevante elemento di prova ai fini dell’accertamento del reddito imponibile.

(15) Cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. lav., 7 febbraio 2019, n. 3643, e Sez. trib. 24 maggio 2017, n. 13034, in Vita not., 2017, 879. Contra: Cass. civ., Sez. III, 30 luglio 2018, n. 20170, secondo cui la sentenza di patteggiamento non ha efficacia vincolante, ma rappre-senta un fatto storico, da valutare unitamente alle altre risultanze probatorie, giacché è idonea a rivestire un’efficacia indiziaria.

(16) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, 21 marzo 2012, n. 43, e 3 novembre 2009, n. 222, in Ragiusan, 2010, fasc. 315, 145.

(17) Sull’argomento, si vedano le seguenti opere di dottrina: A. Traversi, op. cit., 71 ss.; V. Tenore, A. Napoli, Studio sulla respon-sabilità, cit., 204 ss.; V. Tenore, La responsabilità amministrativo-contabile: profili sostanziali, in V. Tenore (a cura di), La nuova Corte dei conti, cit., 287 ss.; F. D’Angelo, Il danno da tangente, in A. Canale, F. Freni, M. Smiroldo (a cura di), op. cit., 1229; M. Dentamaro, Alcune più significative fattispecie di danno erariale. Il danno da tangente, in C. Mirabelli, E. F. Schiltzer (a cura di), op. cit., 251; M. Sinisi, Sistema anticorruzione e responsabilità amministrativa: vecchie e nuove fattispecie di responsabilità e tipologie di danno eraria-le, in M. Andreis, R. Morzenti Pellegrini (a cura di), Cattiva amministrazione e responsabilità amministrativa, Torino, Giappichelli, 2016, 92.

(18) Per un’accurata definizione del “danno da tangente”, si veda V. Tenore, A. Napoli, Studio sulla responsabilità, cit., 204: “Per danno da tangente si intende il pregiudizio direttamente riconducibile alla dazione illecita in favore di un funzionario pubblico da parte di un terzo sul presupposto che le somme (recte, le utilità) indebitamente percepite dall’agente pubblico abbiano quale naturale controparti-ta favoritismi e irregolarità che incidono negativamente sul patrimonio erariale (es. maggiori costi sostenuti dalla p.a. per aggiudicare appalti truccati, minori introiti fiscali derivanti da omessi accertamenti tributari, etc.)”.

(19) Trattasi, in prevalenza, delle ipotesi di percezione da parte di amministratori o funzionari pubblici di denaro o altre utilità per l’aggiudicazione di appalti o per omessi o parziali accertamenti fiscali.

(20) Cfr., ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, 15 marzo 2019, n. 36, e Sez. giur. Lombardia 21 aprile 2016, n. 79, in questa Rivista, 2016, fasc. 1-2, 317, con nota di richiami.

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Tale criterio, che trova l’avallo della giurisprudenza di legittimità (21), determina l’entità del pregiudizio subito in misura non inferiore al valore dell’illecita dazione, sull’assunto che risponde a una logica elementare ed è di espe-rienza comune la costatazione che il vantaggio che il corruttore intenda ottenere sia pari almeno al quantum illecita-mente erogato, vera e propria voce “minimale” di danno risarcibile (22), il cui “peso” si riversa sull’amministrazione di appartenenza del corrotto, che con le sue controprestazioni di favore la espone a costi superiori attraverso i mecca-nismi più svariati (23), provocando così un danno erariale.

Questo l’orientamento maggioritario, cui se ne contrappongono almeno altri due di minore diffusione.

Secondo un più rigoroso indirizzo, la dazione illecita di danaro costituisce non una presunzione che il danno era-riale si sia effettivamente verificato, ma un semplice indizio diretto in tal senso, che la procura deve affiancare a ogni mezzo di prova affinché possa ritenersi verificata l’effettiva sussistenza di un pregiudizio alle casse pubbliche (24).

A corredo, si sostiene che non tutte le condotte corruttive sono foriere di danno erariale, assumendo una particola-re rilevanza il fine che giustifica la dazione (25), e che, ad ogni modo, non è giustificata alcuna deroga ai principi ge-nerali dell’ordinamento sulla prova, il cui onere resta saldamente in capo alla procura contabile (26).

Secondo un orientamento di segno diametralmente opposto, invece, il danno da tangente andrebbe quantificato in un importo superiore rispetto alla somma illecitamente percepita dal pubblico amministratore, in quanto, ove si opi-nasse diversamente, l’azione corruttiva non presenterebbe alcun beneficio (27).

Se la giurisprudenza contabile quasi all’unanimità ritiene che dalla percezione illecita di danaro o altra utilità deri-vi sempre un danno patrimoniale all’erario, sotto forma di “danno da tangente”, lo stesso non può dirsi per altre voci di danno erariale patrimoniale (ad esempio, il danno da disservizio, per la trattazione del quale si rinvia a sedi più op-portune (28)), né per il danno erariale non patrimoniale.

6. Danni erariali non patrimoniali: il c.d. danno all’immagine della p.a. (29)

Il danno all’immagine è un pregiudizio non patrimoniale, ma suscettibile di valutazione economica, che si verifica quando l’agente pubblico, in situazioni legate da occasionalità necessaria con compiti di servizio (30), adotta una condotta lesiva delle disposizioni (in primis, l’art. 97 Cost.) poste a tutela delle competenze, delle funzioni e delle re-sponsabilità dei funzionari pubblici, provocando la perdita del prestigio, del buon nome, dell’autorevolezza e della credibilità sociale della pubblica amministrazione nei riguardi dei cittadini o di una categoria di soggetti (fruitori o prestatori di servizi od opere) che nel corretto funzionamento di tale apparato, a tutti gli effetti una formazione sociale ex art. 2 Cost. (31), presentano (o quantomeno dovrebbero presentare) un senso di affidamento e fiducia.

(21) Cfr. Cass. civ., S.U., 2 aprile 1993, n. 3970, in Giust. civ., 1994, 3, I, 767, con nota di A. Corsetti, F. Padula, Danno da “tangen-

te” e giurisdizione della Corte dei conti.

(22) In tal senso, v. Cass. civ., Sez. III, 16 febbraio 2010, n. 3672, in Foro amm.-CdS, 2010, 29, e Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 16 gennaio 2018, n. 21.

(23) Con riferimento alle commesse pubbliche, la tangente può essere “scaricata” sulla controparte sia in sede di contrattazione, in termini di maggior costo, sia in una fase successiva all’aggiudicazione stessa, in termini di minori controlli (cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, n. 123/2014); con riferimento all’amministrazione finanziaria, lo “scarico” della tangente consiste in una minore entrata tributaria (cfr. Corte conti, Sez. giur. Lombardia, 10 dicembre 2003, n. 1478 in questa Rivista, 2003, fasc. 6, 101 (m)).

(24) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, 27 maggio 2019, n. 320, che richiama Sez. riun. 28 maggio 1999, n. 16/Qm, in questa Ri-vista, 1999, fasc. 3, 76; Sez. giur. reg. Lazio 6 giugno 2002, n. 1725, ivi, 2002, fasc. 3, 156 (m), e Sez. giur. reg. Lombardia n. 79/2016, cit.

(25) Ad esempio, la tangente versata nel corso di una verifica fiscale potrebbe essere diretta a evitare una lunga permanenza degli ispettori nella sede sociale, passibile di nocumento al buon andamento organizzativo interno, e non necessariamente a beneficiare di un trattamento di favore. Allo stesso modo, la tangente versata nel corso di una gara d’appalto potrebbe essere diretta a ottenere un vantag-gio di tipo curricolare.

(26) Cfr. Corte conti, Sez. II centr. app. 27 dicembre 2004, n. 406.

(27) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 15 marzo 2017, n. 33, e Sez. III centr. app. 6 settembre 2012, n. 572.

(28) Per una trattazione approfondita dell’argomento, si veda M. Nunziata, Azione amministrativa e danno da disservizio, Torino, Giappichelli, 2018. Cfr. anche G. Crepaldi, Il danno da disservizio: nozione e forme di tutela, in Resp. civ. e prev., 2016, 781.

(29) Sull’argomento, si vedano le seguenti opere di dottrina: A. Amendola, Il danno all’immagine della pubblica amministrazione, in <www.deiustitia.it>, 1 aprile 2016; R. Caridà, Amministrazione pubblica e responsabilità, Pisa, Plus, 2011, 96; A. Laino, Profili erariali del danno all’immagine delle persone giuridiche, in F. Aversano, A. Laino, A. Musi, Il danno all’immagine delle persone giuridiche. Profili civilistici, penalistici ed erariali, Torino, Giappichelli, 2012, 135. A. Traversi, op. cit., 76 ss.; V. Tenore, A. Napoli, Studio sulla responsabilità, cit., 208 ss.; V. Tenore, La responsabilità amministrativo-contabile: profili sostanziali, cit., 291 ss.; V. Varone, Il danno all’immagine, in A. Canale, F. Freni, M. Smiroldo (a cura di), op. cit., 1187; M. Dentamaro, op. cit., 239; S. Foà, Nuove tipologie e clas-sificazioni del danno erariale alla luce della giurisprudenza contabile, in M. Andreis, R. Morzenti Pellegrini (a cura di), op. cit., 25; V. Raeli, Il danno all’immagine della p.a. tra giurisprudenza e legislazione, in <www.federalismi.it>, 9 luglio 2014; F. Elefante, Il danno da lesione all’immagine della p.a.: un esempio emblematico di involuzione verso l’incertezza giuridica, in Il nuovo diritto amministrati-vo, 2014, fasc. 6, 27.

(30) Spetta, evidentemente, all’a.g.o. conoscere di quei danni arrecati al di fuori di contesti istituzionali od occasioni di servizio.

(31) Cfr., ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, 25 settembre 2014, n. 116.

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La tutela dell’immagine, del buon nome, della reputazione e della credibilità non è una prerogativa delle sole per-sone fisiche, ma si estende anche alle persone giuridiche e, tra queste, a quelle di diritto pubblico, alle quali viene così permesso di operare in modo efficace, efficiente, imparziale e trasparente nei confronti dei propri dipendenti e dei propri amministrati, nel rispetto di quell’art. 97 della Costituzione che fa dell’imparzialità e del buon andamento i principi guida dell’azione amministrativa (32).

Tuttavia, a differenza delle persone fisiche e delle persone giuridiche non pubbliche, la p.a. vede tutelata solo in parte la propria immagine, avendo il legislatore (33) limitato la risarcibilità, anche in sede penale (34), con esclusivo riferimento ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (35), accertati con sentenza penale di condanna (e di patteggiamento (36)) passata in giudicato (37).

Affinché si verifichi un danno all’immagine di una pubblica amministrazione è necessario (38) che la condotta il-lecita abbia provocato clamore mediatico (c.d. clamor fori), attraverso la divulgazione, a mezzo della stampa o di un pubblico dibattimento o di altro mezzo di comunicazione, nella comunità amministrata di notizie riportanti compor-tamenti pregiudizievoli per il prestigio dell’amministrazione tenuti da un soggetto in rapporto di servizio con la stes-sa.

Parte della giurisprudenza ritiene che la soglia di offensività sia superabile solo attraverso l’eco giornalistico (39); altra parte ritiene invece sufficiente una diffusione circoscritta ai soggetti che operano all’interno dell’amministrazione pubblica (40).

Ad ogni modo, la lesione si concretizza, nel momento in cui determinati fatti vengono portati a conoscenza del pubblico, in quanto solamente in tale istante la notizia è in grado di ingenerare la distorta convinzione che il compor-tamento patologico sia una caratteristica usuale dell’ente pubblico (41).

Di conseguenza, secondo la tesi propugnata dalle sezioni riunite (42), il pregiudizio trova collocazione sistemati-ca, quanto a natura, nella categoria del danno esistenziale (43), riconducibile (rectius inglobato), alla luce dei più re-centi indirizzi della Corte di legittimità e della Consulta nell’alveo del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. (44).

(32) Cfr. Corte conti, Sez. riun., 23 aprile 2003, n. 10/Qm, in Foro it., 2005, III, 74, con nota di richiami; annotata da G. Di Leo in

Lavoro nelle p.a., 2003, 984.

(33) V. l’art. 51, c. 7, d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174, in base al quale: “La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché de-gli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse, è comunicata al competente procuratore regiona-le della Corte dei conti affinché promuova l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.

(34) Cfr. Cass. civ., S.U, 12 aprile 2012, n. 5756, in Foro it., 2013, I, 281, con nota di G. D’Auria.

(35) Trattasi di quei reati elencati nel libro II, titolo II, capo I, c.p. L’azione di responsabilità per danno all’immagine proposta a se-guito di condanna penale passata in giudicato per un reato non incluso nel predetto capo è inammissibile; cfr, in merito, Corte conti, Sez. II centr. app., 4 giugno 2019, n. 189, e Cass. pen., Sez. VI, 27 settembre 2017, n. 48603. Contra: Corte conti, Sez. giur. reg. Sardegna, 17 gennaio 2018, n. 21, che ha aggiunto al novero anche i reati di cui all’art. 353 (“Turbata libertà degli incanti”) e 353-bis (“Turbata libertà del procedimento di scelta del contraente”), pur non rientrando nel predetto capo, in quanto fattispecie ritenute più gravi rispetto all’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), che, per il principio di assorbimento, le attrae nell’alveo dei reati che possono cagionare un danno all’immagine della pubblica amministrazione; Sez. giur. reg. Lombardia 14 marzo 2014, n. 47, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 336, con nota di richiami (annotata da F. Cerioni, Risarcibile il danno all’immagine in tutti i casi di accertamento con sentenza definitiva del-la commissione di un reato contro la p.a., in <www.amministrativamente.com>, 2014, che ha inteso il riferimento ai reati contro la p.a. come esteso ad ogni reato che offenda beni o valori di cui l’amministrazione è portatrice o garante nell’interesse generale. Fa eccezione alla regola l’espressa previsione di responsabilità per danno all’immagine da mancata pubblicazione dei dati, documenti o informazioni a pubblicazione obbligatoria di cui all’art. 37 del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, così come modificato dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97.

(36) Cfr., ex multis, Corte conti, Sez. II centr. app., 11 giugno 2019, n. 202, in cui si legge: «La sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo 444 c.p.p., rientra nell’alveo concettuale di “sentenza irrevocabile di condanna” e, conseguentemente, nel caso di specie, di “commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza pas-sata in giudicato”». Cfr. anche Sez. giur. reg. Lombardia 27 gennaio 2012, n. 31, in questa Rivista, 2012, fasc. 1-2, 297; Sez. II centr. app. 9 maggio 2011, n. 206, ivi, 2011, fasc. 3-4, 197, con nota di richiami.

(37) L’assenza del giudicato penale di condanna rende inammissibile l’azione di responsabilità amministrativa per danno all’immagine della p.a. (cfr., ex multis, Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 28 ottobre 2011, n. 1519, ibidem, fasc. 5-6, 277) e nulli gli atti istruttori adottati dal pubblico ministero erariale (cfr., ex multis, Corte conti, Sez. II centr. app., n. 206/2011, cit.). Cfr. anche Corte conti, Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, 11 aprile 2019, n. 53, in questa Rivista, 2019, fasc. 2, 205, con nota di G. Natali, in cui sono indicate le condizioni cumulative (e non alternative) che devono sussistere affinché il pubblico ministero erariale possa esercitare l’azione di re-sponsabilità amministrativa per danno all’immagine: la presenza di un reato contro la p.a. e il giudicato penale di condanna.

(38) Cfr. Corte conti, Sez. I centr. app., 26 ottobre 2017, n. 428, ove viene affermato a chiare lettere che, in assenza del clamor fori, il giudice erariale non è in condizione di condannare i convenuti, nonostante l’indubbia riprovevolezza delle loro condotte.

(39) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 29 gennaio 2014, n. 22.

(40) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Valle d’Aosta, 28 maggio 2019, n. 11, che richiama Sez. II centr. app. 10 maggio 2017, n. 271; cfr. anche Corte conti, Sez. II centr. app., 13 gennaio 2015, n. 5.

(41) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 6 ottobre 2017, n. 143.

(42) Cfr. Corte conti, Sez. riun., n. 10/2003/Qm, cit.

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Inoltre, il danno all’immagine della p.a., inizialmente qualificato come “danno-evento” (45), è stato recentemente riqualificato come “danno-conseguenza” (46), richiedendo la giurisprudenza erariale per la sua integrazione, oltre all’esistenza del fatto-reato, la presenza di una lesione che sia conseguenza diretta dalla condotta infedele, a prescin-dere dalle spese necessarie al ripristino dell’immagine stessa.

La liquidazione del già menzionato danno avviene attraverso parametri equitativi, a norma dell’art. 1226 c.c., e secondo i criteri indicati, valorizzando l’oggettiva gravità del fatto, le modalità di realizzazione dell’illecito, l’eventuale effetto emulativo suscitato dal fatto, il grado di diffusività dell’episodio nell’ambito della collettività, il deterioramento della qualità della vita dei cittadini (47).

Tali parametri, tuttavia, hanno subito l’introduzione di un automatismo sanzionatorio da parte del legislatore, che, con riferimento alle fattispecie connotate da percezioni di denaro da parte del dipendente e da assenteismo sul posto di lavoro, ha stabilito l’importo minimo, rispettivamente, nel “doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente” (48) e in una somma non inferiore a sei mensilità stipendiali (49).

Infine, di particolare interesse è la recente giurisprudenza della Corte dei conti, avallata dal giudice di legittimità (50), che, dopo aver esteso la qualifica di agente contabile ai gestori di strutture ricettive (51) e ai notai (52), rispetti-vamente per il “maneggio” delle imposte di soggiorno e delle imposte previste per il compimento degli atti rogati, ha riconosciuto, per l’ipotesi di mancato versamento delle medesime al comune e all’Agenzia delle entrate, non solo la responsabilità contabile, bensì, anche, la responsabilità amministrativa per danno all’immagine degli stessi enti pub-blici impositori.

Analizzate le diverse voci di danno erariale che il reato patteggiato nella sentenza in commento è in grado di pro-vocare, non resta che verificare se l’ordinamento consenta un cumulo tra la responsabilità amministrativa che ne deri-verebbe e la sanzione comminata a titolo di riparazione pecuniaria dal giudice penale.

7. Quadruplicazione dell’entità riparatoria e perplessità del cumulo in termini di ne bis in idem (53)

Il problema della moltiplicazione dei versamenti di somme eguali nel tantundem (il prezzo e il profitto del reato) è già stato risolto in sede penale e la soluzione è esposta a chiare lettere in questa come in altre sentenze della Corte di legittimità: l’adempimento della condizione processuale di ammissibilità del rito di cui all’art. 444 c.p.p. esclude la comminazione della sanzione di riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater c.p., perché quest’ultima viene liqui-data sono in presenza di una sentenza di “condanna” vera e propria e la sentenza di patteggiamento, nonostante l’equiparazione disposta dall’art. 445 c.p.p. (nel caso di specie) non viene considerata tale.

Tuttavia, alla luce di quanto esposto in precedenza, l’apertura del processo erariale sembrerebbe porre un proble-ma di bis in idem (54), soprattutto perché la liquidazione (equitativa) del danno erariale da tangente corrisponde con

(43) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, 17 maggio 2019, n. 78, che richiama Cass. civ., S.U., n. 5756/2012, cit.

(44) Per maggiori approfondimenti sull’argomento del danno non patrimoniale, v. la seguente giurisprudenza di legittimità: Cass. civ., Sez. III, 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, in Foro it., 2003, I, 2273, con nota di E. Navarretta, Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il nuovo diritto vivente, e nota di richiami di L. La Battaglia; annotate da G. Ponzanelli, Ricomposizione dell’universo non pa-trimoniale: le scelte della Corte di cassazione, e F.D. Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La Corte di cassazione e il danno alla persona, in Danno e resp., 2003, 826; A. Procida Mirabelli Di Lauro, L’articolo 2059 c.c. va in paradiso, ibidem, 831; M. Franzoni, Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta per il danno alla persona, in Corriere giur., 2003, 1031; P. Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass. 8828/2003, P. Ziviz, E poi non rimase nessuno, in Resp. civ., 2003, ri-spettivamente 685 e 703; S.U. 1 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975, in Resp. civ. e prev., 2009, 38, con note di P.G. Mona-teri, Il pregiudizio esistenziale come voce del danno non patrimoniale, e D. Poletti, La dualità del sistema risarcitorio e l’unicità della categoria dei danni non patrimoniali; annotate da G. Ponzanelli, La prevista esclusione del danno esistenziale e il principio di integrale riparazione del danno: verso un nuovo sistema di riparazione del danno alla persona, in Nuova giur. civ., 2009, II, 90; S. Landini, Dan-no biologico e danno morale soggettivo nelle sentenze della Cass., S.U., 26972, 26973, 26974, 26975/2008, in Danno e resp., 2009, 45.

(45) Cfr. Corte conti, Sez. riun., n. 10/2003/Qm, cit. Per maggiori approfondimenti sulla distinzione tra “danno evento” e “danno conseguenza” si veda P. Cendon, Responsabilità civile, vol. I, Torino, Utet, 2017, 115 ss.

(46) Cfr. Corte conti, Sez. I centr. app., 16 aprile 2019, n. 90, e Sez. I centr. app. 5 febbraio 2018, n. 53, che richiamano Corte conti, Sez. riun., 18 gennaio 2011, n. 1/Qm, in questa Rivista, 2011, fasc. 1-2, 136.

(47) Sui criteri utilizzati per la liquidazione del danno all’immagine della p.a., v. Corte conti, Sez. giur. reg. Trentino-Alto Adige, Trento, 1 marzo 2019, n. 6, e Sez. II centr. app. 30 maggio 2019, n. 181, che richiamano i criteri fissati in Corte conti, Sez. riun., n. 10/2003/Qm, cit.

(48) Trattasi dell’art. 1, c. 62, l. 6 novembre 2012, n. 190, che ha introdotto l’art. 1-sexies nella l. 14 gennaio 1994, n. 20.

(49) Trattasi dell’art. 1, c. 1, d.lgs. 20 giugno 2016, n. 116, che ha introdotto l’art. 55-quater, c. 3-quater, nel d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

(50) Cfr. Cass. civ., S.U., 24 luglio 2018, n. 19654, in Guida al dir., 2018, fasc. 34, 26.

(51) Cfr. Corte conti, Sez. I centr. app., 24 gennaio 2019, n. 20.

(52) Cfr. Corte conti, Sez. I centr. app., 23 ottobre 2018, n. 410, in questa Rivista, 2018, fasc. 5-6, 140, con nota di D. Morgante, Il notaio come agente contabile: responsabilità contabile e per danno all’immagine per il caso dell’omesso riversamento all’ente imposito-re delle somme incamerate dalle parti contraenti a titolo di imposte relative agli atti rogati.

(53) Sul rapporto tra danno erariale e riparazione pecuniaria ex l. n. 69/2015, v. le seguenti opere di dottrina: V. Tenore, A. Napoli, Studio sulla responsabilità, cit., 22 ss.; V. Tenore, La responsabilità amministrativo-contabile: profili sostanziali, cit., 56 ss.

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l’importo della tangente, ossia con il prezzo e, in diverse occasioni, il profitto del reato, il cui importo è già stato cor-risposto ai sensi dell’art. 322-quater c.p.

Dubbi che devono ritenersi infondati e che il legislatore ha espressamente scongiurato attraverso una clausola di salvezza contenuta nello stesso art. 322-quater, lasciando “impregiudicato il diritto al risarcimento del danno”.

Difatti, la natura, sì “speciale” (55), ma pur sempre patrimoniale a prevalente funzione risarcitoria-recuperatoria della responsabilità amministrativa permette il cumulo tra l’eventuale condanna in sede erariale a rifondere il danno da tangente e il danno all’immagine e la comminazione in sede penale della somma liquidata a titolo di sanzione pe-cuniaria, essendo diverso il titolo delle due liquidazioni (56).

Che l’istituto disciplinato nell’art. 322-quater abbia natura sanzionatoria risulta anche da una serie di elementi di contesto: gli obblighi “riparativi” vengono liquidati dal giudice penale indipendentemente dalla costituzione di parte civile; sono commisurati nel loro ammontare a prescindere del valore effettivo del danno provocato all’amministrazione, che potrebbe persino non verificarsi; non producono interessi.

D’altronde, in questo senso è da sempre orientata la giurisprudenza di legittimità (57) in relazione all’affine art. 12 della l. 18 febbraio 1948, n. 47, qualificata come “pena privata” con la funzione di rafforzare la sanzione penale e cumulabile al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.

La stessa soluzione può trovare applicazione nell’ipotesi in cui l’imputato abbia optato per il rito di cui all’art. 444 c.p.p., versando all’amministrazione una somma corrispondente al prezzo o al profitto del reato commesso.

Pur non potendosi parlare tecnicamente di bis in idem, non essendo disposto il versamento in esecuzione di un provvedimento, l’effettuazione di una dazione patrimoniale avente natura restitutoria, pur non impedendo l’esercizio dell’azione erariale, ne determinerebbe l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse (58).

Tuttavia, risulta ictu oculi la similitudine dell’istituto di cui al c. 1-ter dell’art. 444 c.p.p. all’istituto della riparazione pe-cuniaria, con il quale condivide, lo si legge nella sentenza in commento, tutto fuorché il titolo e il campo di applicazione.

Difatti, l’utilizzo che fa la disposizione sul patteggiamento del verbo “restituire” è da considerarsi atecnico, in quanto le somme, indicate nel capo d’imputazione, che l’autore del reato dovrebbe versare per accedere al rito specia-le, così come quelle rese a titolo di riparazione pecuniaria, non reintegrano alcunché all’amministrazione, lasciando impregiudicata ogni azione erariale diretta al risarcimento del danno.

In conclusione, la responsabilità patrimoniale sanzionatoria da riparazione pecuniaria o la “restituzione” prevista dall’art. 444, c. 1-ter, c.p.p., comminata dal giudice penale, e la responsabilità patrimoniale restitutoria da danno erariale patrimoniale e non patrimoniale, irrogata dalla Corte dei conti, possono coesistere, potendo provocare, in vicende quali quella decisa dalla sentenza in commento, una “quadruplicazione” dell’entità riparatoria (l’importo che l’imputato potrebbe trovarsi a dover corri-spondere alla p.a. potrebbe, complessivamente, ammontare al quadruplo della tangente, dovendo costui versare alla p.a.: il va-lore della tangente a titolo di riparazione pecuniaria o di “restituzione” ai sensi dell’art. 444, c. 1-ter, c.p.p.; il medesimo valore della tangente a titolo di danno da tangente; il doppio di tale valore a titolo di danno all’immagine), senza che ne derivi, rispet-tivamente, alcuna violazione del divieto di bis in idem o la caducazione dell’azione instaurata dalla procura contabile.

* * *

(54) Il divieto di ne bis in idem, ossia il divieto di doppia sanzione penale per la medesima condotta (idem factum) realizzata dalla

stessa persona (eadem persona), è previsto dall’art. 7 della Cedu. Secondo la nota sentenza Corte Edu 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, affinché una sanzione possa essere considerata “accusa in materia penale” devono sussistere tre criteri alternativi e non cu-mulativi: la qualificazione giuridica della misura in questione nel diritto nazionale; la natura stessa della misura; la natura e il grado di severità della sanzione. Sul principio del ne bis in idem, v. la recente opera di G. Bausilio, Il principio del ne bis in idem, Vicalvi, Key, 2017; per le problematiche che pone innanzi alla magistratura contabile, v. P. Santoro, Il bis in idem nel processo contabile e dintorni, in questa Rivista, 2019, fasc. 1, 68.

(55) Sulla natura della responsabilità amministrativa, v. A. Police, La natura della responsabilità amministrativa, in F.G. Scoca (a cura di), La responsabilità amministrativa ed il suo processo, Padova, Cedam, 1997, 145.

(56) Sul rapporto tra la giurisdizione erariale e il principio del ne bis in idem, v. Corte Edu 13 maggio 2014, ric. n. 20148/09, Rigolio c. Italia, recepita da Corte conti, Sez. riun., 18 giugno 2015, n. 28, in questa Rivista, 2015, fasc. 3-4, 278, e da Cass. civ., S.U., 22 dicem-bre 2009, n. 27092, in Foro it., 2010, I, 1472, con nota di G. D’Auria, Non esiste (con eccezioni) la responsabilità erariale per i danni cagionati alle società pubbliche dai loro amministratori. La Corte di Strasburgo, seguita dalle diverse corti nazionali, ha stabilito che la condanna della Corte dei conti è cumulabile con la condanna emessa dal giudice penale in quando, alla stregua dei tre criteri “Engel”: non è qualificata dal nostro ordinamento come sanzione penale, bensì come condanna diretta al ripristino del danno patito dalle finanze della p.a. nei limiti di imputazione ritenuti ascrivibili all’autore della condotta; non ha natura penale, in quanto non è posta alla tutela er-ga omnes di valori primari della collettività intera, come, invece, lo è l’azione penale; non possiede un’afflittività penalistica ai sensi dell’art. 6 Cedu, come ogni altra condanna pecuniaria.

(57) Cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. III, 29 luglio 2015, n. 16054. Cfr. anche la recente Cass. civ., S.U., 5 luglio 2017, n. 16601 (in questa Rivista, 2017, fasc. 3-4, 520, con nota di A.M. Quaglini, Sull’ingresso dei “danni punitivi” nell’ordinamento italiano; annotata da A. Briguglio, Danni punitivi e delibazione di sentenza straniera: turning point “nell’interesse della legge”, in Resp. civ. e prev., 2017, 1597), in materia di punitive damages, dove la “riparazione pecuniaria” disciplinata nella legge sulla stampa viene espressamente qualifi-cata in termini sanzionatori.

(58) Cfr. Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 23 febbraio 2004, n. 194, in questa Rivista, 2004, fasc. 1, 117.

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QUANTITATIVE EASING 2.0: DALLA NAZIONALIZZAZIONE ALLA CONDIVISIONE DEI RISCHI

di Marcello Minenna

Abstract: Alla luce dell’ipotesi di riaprire il Quantitative easing, l’articolo affronta una possibile reingegnerizzazione del programma secondo un’impostazione a rischi condivisi diversamente da quanto previsto nel piano originale basato sulla segregazione dei rischi.

Sommario: 1. Verso un nuovo Quantitative easing. – 2. Un’analisi storica del Quantitative easing. – 3. Le criticità del Quantitative easing. – 4. Una proposta di reingegnerizzazione del Qe a rischi condivisi.

1. Verso un nuovo Quantitative easing

Le banche centrali delle principali aree valutarie di fronte al rallentamento dell’economia globale sono all’opera per valutare come intervenire al meglio nel prossimo autunno.

Con dichiarazioni sempre più esplicite iniziate il 17 giugno (1) (2) scorso la Banca centrale europea (Bce) ha fatto capire che presto, probabilmente già a settembre (3), riaprirà le danze sul Quantitative easing (Qe) e che taglierà i tas-si entro l’anno. Coerentemente, le probabilità di ribasso dei tassi implicite nei dati di mercato sono ormai pari al 100% (cfr. Figura 1).

Figura 1: Probabilità di una modifica dei tassi di interesse al prossimo meeting Bce del 12 settembre 2019

Gli spazi di manovra non sono tanti tenuto conto che la Bce già opera in area di tassi negativi avendo posto da ot-tobre 2016 il livello dei tassi sui depositi delle banche (4) a -0,4% (5). Questo significa che le banche devono pagare

(1) Intervento dell’allora presidente della Bce Mario Draghi al Forum dei banchieri centrali, Sintra, 17-19 giugno 2019. Per un elenco

completo degli interventi al forum, v. <www.ecb.europa.eu>.

(2) M. Draghi, L. de Guindos, Press conference, in <www.ecb.europa.eu>, 25 July 2019.

(3) Il prossimo 12 settembre 2019 sì terrà uno dei meeting periodici del Consiglio della Bce in cui vengono prese le decisioni di poli-tica monetaria.

(4) Si tratta del tasso di interesse sui depositi presso la banca centrale (deposit facility rate) che la Bce fissa ogni sei settimane nell’ambito delle decisioni di politica monetaria. Questo tasso definisce l’interesse che le banche percepiscono sui loro depositi overnight

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la Bce per tenervi depositato il denaro; giusto per aver un termine di paragone prima del fallimento di Lehman Bro-thers lo stesso tasso era positivo e pari al 3,25% (cfr. Figura 2).

Figura 2: Andamento del tasso sui depositi presso la Bce nel periodo 2006-2019

Non è quindi un caso che l’attenzione sulle scelte di politica monetaria si concentri sulla riapertura del Qe: stime di operatori di mercato ipotizzano che il ritmo degli acquisti dei titoli possa arrivare mediamente a 50 miliardi di euro al mese.

2. Un’analisi storica del Quantitative easing

Un refresh in prospettiva storica del noto programma di acquisti varato dalla Bce è utile. Il programma di acquisto dei titoli di debito pubblico dell’Eurozona (c.d. Pspp), iniziato a marzo 2015, rappresenta la parte preponderante del Qe avviato dalla Bce nell’ottobre 2014 e sospeso a dicembre 2018. Nel tempo gli acquisti di titoli di Stato (govies) da parte dell’Eurosistema – cioè la Bce e le banche centrali nazionali dell’area euro (Bcn) – hanno rappresentato tra l’80% ed il 95% del totale degli acquisti di titoli del Qe (cfr. Figura 3). Si cominciò con 60 miliardi al mese, aumen-tati a 80 a partire da aprile 2016, per poi ritornare a 60 miliardi nell’aprile 2017; a gennaio 2018 gli acquisti vennero dimezzati a 30 e da settembre fino alla fine del 2018 furono nuovamente dimezzati per arrivare a 15 miliardi di euro mensili; da gennaio 2019 l’Eurosistema – raggiunto un ammontare di govies in portafoglio di ben oltre 2000 miliardi di euro, e cioè intorno al 20% del debito pubblico complessivo dell’Eurozona – ha interrotto gli acquisti limitandosi a rifinanziare il debito in scadenza. È evidente che, con un simile stock di debito pubblico in portafoglio, anche il sem-plice rifinanziamento del debito in scadenza mantiene uno stimolo monetario di una certa consistenza all’interno dell’area valutaria.

(per la durata di un giorno lavorativo) presso la banca centrale. Dal giugno 2014 il tasso è negativo. Per ulteriori dettagli v. <www.ecb.europa.eu/explainers/tell-me/html/what-is-the-deposit-facility-rate.en.html>.

(5) Ecb, Monetary policy decisions, 10 March 2016, in <www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2016/html/pr160310.en.html>.

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Figura 3: Andamento storico degli acquisti netti mensili di titoli effettuati nell’ambito del Qe

L’acquisto dei govies per il 90% è effettuato direttamente dalle Bcn e solo per il 10% dalla Bce; la Banca d’Italia

nel tempo è arrivata a detenere oltre 320 miliardi di euro di titoli di Stato italiani (Btp) a cui si sommano circa 30 mi-liardi di Btp acquistati direttamente dalla Bce (cfr. Figura 4).

Figura 4: Acquisti netti mensili e cumulati di titoli di Stato effettuati dalla Banca d’Italia nell’ambito del Qe

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Per finanziare gli acquisti di govies le Bcn prendono a prestito denaro dalla Bce: questo meccanismo apparente-mente neutrale permette alla Bce di non esporsi direttamente al rischio-sovrano dei titoli di Stato acquistati (sia esso di default o di ridenominazione del debito in altra valuta in caso di eurexit); il rischio in questione resta infatti in capo alle Bcn acquirenti, che invece risultano indebitate con la Bce per un importo in euro che non è esposto a simili rischi di perdita di valore. I flussi finanziari conseguenti nei vari scenari possibili replicano la struttura di un derivato di credito (credit default swap) che la Bce ha de facto acquistato da ciascuna Bcn per proteggersi dal rischio-sovrano del corrispondente paese membro (6).

Questa ingegneria finanziaria degli acquisti non consente quindi la condivisione dei rischi (risk sharing) nell’Eurosistema – se non per la quota, minima, di acquisti effettuata direttamente dalla Bce – e spinge verso la loro nazionalizzazione (o segregazione) nei vari paesi membri (risk segregation).

La Banca d’Italia compra Btp da banche, fondi, assicurazioni ed altri operatori (intermediari) non italiani che ri-ducono così la loro esposizione al rischio-Italia oppure da soggetti residenti che tendenzialmente con il ricavato inve-stono in attività esposte a rischi diversi da quello nazionale.

La risultante di queste dinamiche è che l’evoluzione degli acquisti presenta un’elevata correlazione con l’andamento del saldo passivo della Banca d’Italia nel sistema Target2 (cioè il sistema di regolamento dei pagamenti interbancari transfrontalieri a livello dell’Eurozona), come è possibile verificare osservando la Figura 5. Per tale mo-tivo il saldo Target2 è una buona stima statistica (proxy) di quanti rischi sono stati nazionalizzati dalla Banca d’Italia per via del Qe.

Figura 5: Correlazione tra l’andamento del saldo Target2 e gli acquisti cumulati di titoli di Stato da parte dalla Banca d’Italia nell’ambito del Qe

Nella struttura del Qe le regole non riguardano solo chi sia deputato all’acquisto dei titoli ma anche quanti govies le Bcn sono autorizzate ad acquistare. È previsto che gli acquisti siano proporzionali alla quota di capitale (capital key) della Bce detenuta dalle diverse banche centrali nazionali. Limitatamente ai primi 3 azionisti durante gli anni di svolgimento del programma di acquisti le quote erano rispettivamente pari a: 25,6% per la Bundesbank (Germania), 20,1% per la Banque de France (Francia) e 17,5% per la Banca d’Italia.

Nel concreto, l’analisi storica degli acquisti effettivi mostra moderate deviazioni dal criterio della capital key (cfr. Figura 6).

(6) Per un’illustrazione più dettagliata di questo aspetto v. M. Minenna, Why Europe’s Qe resembles a Ccs trade?, in

<www.risk.net>, 2 luglio 2015

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Figura 6: Andamento storico delle deviazioni dal criterio della capital key per i principali paesi dell’Eurozona

Per comprendere questi scostamenti è utile richiamare alcune ulteriori regole che caratterizzano l’architettura del Qe e che hanno subìto delle variazioni nel tempo (7) (8) (9) (10) (11).

Inizialmente era stato stabilito un limite massimo del 25% agli acquisti di uno specifico titolo di Stato (ossia di una singola emissione). L’esistenza di un limite scaturiva dall’esigenza di ripartire gli acquisti sul maggior numero possibile di govies così da ridurre i rischi di illiquidità per specifiche emissioni e possibili conseguenti speculazioni; il livello della soglia invece era conseguente alle caratteristiche delle clausole di azione collettiva (Cac) (12) che dal gennaio 2013 accompagnano i govies di nuova emissione con scadenza superiore all’anno. Queste consentono infatti ad investitori che possiedano più del 25% di una specifica emissione di interferire con una ordinata procedura di ri-strutturazione del debito pubblico di un paese membro (senza ipotizzare l’eurexit) ovvero con la decisione di un paese membro di ridenominare il proprio debito in altra valuta.

Sarebbe stato quindi singolare se le Bcn ovvero la Bce avessero avuto la possibilità di superare questo limite poi-ché ciò avrebbe dato loro il potere di interferire con eventuali scelte dei governi nazionali in materia di gestione dei rischi del debito pubblico.

Originariamente era stato inoltre fissato un rendimento minimo per i govies acquistabili – pari al tasso riconosciu-to sui depositi bancari presso la Bce – al fine di neutralizzare il più possibile l’impatto del Qe nel bilancio delle Bcn e della Bce e ridurre gli incentivi per il sistema bancario ad aumentare i depositi in Bce.

Se una banca centrale dell’Eurosistema compra infatti un titolo di Stato che ha un rendimento inferiore al tasso di deposito in Bce, è evidente che questa consegua una perdita pari a tale differenza. Mutatis mutandis, se una banca ha in portafoglio un titolo di Stato che ha un tasso più negativo di quello dei depositi in Bce, essa avrà utilità a vendere quel titolo alla banca centrale ed a depositare in Bce i proventi di tale vendita per conseguire una minor perdita.

Infine, all’avvio del Qe, non era consentito acquistare govies con una vita residua inferiore a due anni; questa scel-ta era funzionale ad evitare continui rifinanziamenti dei titoli in scadenza con conseguente esposizione dei portafogli delle Bcn e della Bce stessa alla volatilità della curva dei tassi di interesse.

(7) Decisione Ecb/2015/10 del 4 marzo 2015.

(8) Decisione Ecb/2015/33 del 5 novembre 2015.

(9) Decisione Ecb/2015/48 del 16 dicembre 2015.

(10) Decisione Ecb/2016/8 del 18 aprile 2016.

(11) Decisione Ecb/2017/1 del 11 gennaio 2017,

(12) Queste clausole furono previste dall’accordo intergovernativo di fine 2012 relativo all’istituzione del Meccanismo europeo di stabilità.

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Riepilogando, si trattava di regole sostanzialmente orientate ad una prudente ed indipendente gestione dei rischi dei govies nei portafogli titoli dell’Eurosistema.

3. Le criticità del Quantitative easing

Eppure nel tempo – man mano che gli acquisiti procedevano incrementando gli attivi dei bilanci di Bcn e Bce ed i titoli negoziati sui mercati si riducevano – queste regole sono state ammorbidite: già a settembre 2015 il tetto sugli acquisti di una singola emissione di titoli di Stato fu portato dal 25% al 33%; a gennaio 2017 venne autorizzato l’acquisto di govies con rendimento implicito anche al di sotto del livello dei tassi sui depositi presso la Bce e il limite minimo in termini di vita residua dei titoli di Stato acquistabili fu abbassato da due anni ad uno. In più, nel tempo è stata estesa la pletora delle cosiddette “agenzie nazionali” ammissibili, ossia dei soggetti emittenti che erano di fatto considerati equiparabili al governo centrale dei vari paesi membri ai fini della policy di acquisti del Qe.

Questi aggiustamenti delle regole del Qe sono stati sostanzialmente dovuti al tentativo di restare il più fedeli pos-sibile al criterio della capital key che, non essendo proporzionato alla quantità di debito in circolazione dei vari Stati membri, ha creato un anomalo effetto-scarsità sui titoli di Stato di alcuni paesi. Tralasciando paesi più piccoli come il Belgio o l’Irlanda, l’effetto in questione è stato particolarmente pronunciato sui Bund per via della predilezione loro accordata dal suddetto criterio. Come risultato, ben presto per la Bundesbank e la Bce è diventato difficile trovare ti-toli governativi tedeschi acquistabili nell’ambito del Qe, con un conseguente eccesso di domanda che ha spinto al ri-basso i rendimenti di tali titoli e ne ha prosciugato il flottante presente sul mercato secondario.

Alla luce di queste considerazioni è possibile esaminare le dinamiche degli scostamenti degli acquisti effettivi di govies rispetto al criterio della capital key. Nel primo anno di vita del Qe gli scostamenti sono stati minimi e positivi, vista la rilevante disponibilità di titoli su tutte le scadenze; gli scostamenti sono aumentati nel secondo anno di vita del programma anche in relazione all’incremento degli acquisti a 80 miliardi di euro mensili. A inizio 2017 – nono-stante l’aggiornamento di alcune regole d’ingaggio del Qe – l’acuirsi degli scostamenti positivi ha trovato eccezione solo per la Germania e, addirittura, nella primavera 2018 la scarsità di Bund ha comportato scostamenti negativi dalla capital key (cfr. Figura 6). Nei mesi successivi, con la riduzione degli acquisti da parte dell’Eurosistema, anche gli scostamenti si sono normalizzati, rilevando qualche maggiore variabilità per la Spagna, che gradualmente stava au-mentando la propria quota di titoli di Stato con rendimento negativo.

In definitiva, la regola della capital key non è stata poi così granitica in questi anni, così come non lo sono state le altre regole di controllo dei rischi definite all’epoca di avvio del programma.

Peraltro, la capital key non è l’unico fattore che spiega le differenze nei rischi di portafoglio di govies detenuti nell’Eurosistema. È infatti previsto che le banche centrali deputate agli acquisti operino al meglio la selezione dei ti-toli da comprare per non alterare l’andamento dei mercati (cioè la struttura a termine dei tassi di interesse e la relativa volatilità dei govies).

La vita media residua (Weighted average maturity o Wam) dei titoli di Stato presenti nel portafoglio delle Bnc (cfr. Figura 7) è differente, evolve nel tempo e non riflette quella del debito complessivo del paese membro. Queste dinamiche riflettono la disponibilità e la redditività dei govies sulle varie scadenze e la tendenziale riduzione riflette esigenze di controllo dei rischi, dato che maggiore è la durata dei govies detenuti in portafoglio e maggiore è il rischio sopportato.

Figura 7: Andamento storico della Wam dei titoli di Stato acquistati dalle Bcn nell’ambito del Qe

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Figura 8: Vita media residua del debito governativo per i principali Stati dell’Eurozona

4. Una proposta di reingegnerizzazione del Qe a rischi condivisi

Weighted average maturity e capital key – alla luce delle dinamiche osservate – possono costituire elementi di flessibilità nella reingegnerizzazione del Quantitative easing; una reingegnerizzazione che metta al centro l’analisi dei rischi dell’Eurozona e che quindi segua la legge di conservazione della massa di Lavoisier (“nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma”). A tal fine vanno considerati alcuni aspetti critici: 1) la scarsità di Bund acquistabili nell’ambito del Qe a regole date; 2) la circostanza che i tassi negativi stanno contribuendo a deteriorare la solidità del sistema-Germania e da qui dell’intera Eurozona (13); 3) la contraddizione in termini rappresentata dall’esistenza di uno strutturale differenziale di rendimento (spread) tra titoli emessi da Stati appartenenti alla stessa area valutaria (14) (15); 4) l’esigenza, per un ordinato funzionamento del sistema finanziario, di titoli di Stato privi di rischio (safe-assets) per una quantità di gran lunga superiore all’ammontare di Bund in circolazione (16).

Il rafforzamento della nostra area valutaria richiede dunque interventi in grado di condividere i rischi nell’Eurosistema, e in questa prospettiva sono ipotizzabili tre reingegnerizzazioni. La prima richiederebbe l’abbandono graduale della capital key in favore di un algoritmo che privilegi gli acquisti da parte delle banche cen-trali dell’Eurosistema in base al livello dello spread ed al rapporto tra debito pubblico e Pil; in base ai dati attuali, gli acquisti del nuovo Qe sarebbero composti per il 50% da Btp, per il 25% da titoli di Stato spagnoli (Bonos), per il 10% da titoli di Stato francesi (Oat) e per il restante 15% da titoli emessi dagli altri Stati membri.

La seconda reingegnerizzazione consisterebbe nell’attribuzione alle Bcn di opportuni margini di manovra – sem-pre determinati in base al livello dello spread ed al rapporto tra debito pubblico e Pil – per incrementare la vita media residua dei govies detenuti in portafoglio. Maggiore è la Wam e maggiore è infatti l’effetto “congelamento” dei rischi

(13) C. Altavilla et al., Is there a zero lower bound? The effects of negative policy rates on banks and firms, in

<www.ecb.europa.eu>, giugno 2019.

(14) L. Gambetti, A. Musso, The macroeconomic impact of the Ecb’s expanded asset purchase programme (App), ibidem, giugno 2017.

(15) F. Eser, Tracing the impact of the Ecb’s asset purchase programme on the yield curve, ibidem, luglio 2019.

(16) C. Brand, L. Ferrante, A. Hubert, From cash- to securities-driven euro area repo markets: the role of financial stress and safe asset scarcity, ibidem, gennaio 2019.

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nel bilancio della banca centrale acquirente. Ovviamente una simile operatività dovrebbe trovare un qualche coordi-namento nelle politiche di rifinanziamento dei debiti pubblici da parte dei paesi membri, per evitare scarsità di titoli su specifiche scadenze. Questo margine di manovra differenziato dovrebbe consentire alla Banca d’Italia di riposizio-nare gli acquisti verso Btp con scadenza superiore ai 15 anni ed arrivare così, prima degli altri paesi membri, a supe-rare i 10 anni di vita media residua dei titoli di Stato in portafoglio. Ovviamente la stessa Bce potrebbe supportare la strategia di allungamento della Wam dei debiti governativi, rendendo idonei per l’acquisto i titoli ultra-long (nel pri-mo Qe la Bce si è fermata a 30 anni).

Entrambi gli interventi rappresentano forme differenziate e implicite di risk-sharing, dato che la Bce, garantendo il finanziamento dell’operatività delle Bcn, acconsentirebbe all’assunzione di maggiori livelli di rischiosità per alcuni paesi membri rispetto ai livelli attuali.

L’ultima soluzione di reingegnerizzazione del Qe sarebbe un risk-sharing swap, vale a dire uno scambio nelle po-sizioni relative della Bce e delle varie Bcn per consentire alla prima di subentrare alle seconde nei nuovi acquisti netti che dovrebbero partire a breve come pure nel rifinanziamento dei govies in scadenza; già ad aprile 2016 si verificò una simile operatività, allorquando la quota degli acquisti effettuati direttamente dalla Bce passò dall’8% al 10%. Il subentro graduale della Bce nel programma di acquisto dei titoli di Stato dell’Eurozona equivarrebbe all’abbandono definitivo dell’impostazione originaria che prevedeva la risk-segregation. Di conseguenza verrebbe anche smontato il citato meccanismo di assicurazione dai rischi sovrani – tramite credit default swap – che la Bce ha de facto posto in essere finanziando le Bcn per le somme necessarie all’acquisto dei govies previsto dal Qe. Questa operatività avrebbe anche il pregio di normalizzare nel tempo il saldo positivo monstre di quasi 1000 miliardi di euro della Bundesbank nel sistema Target2 ed i connessi deficit equi-ripartiti di Banca d’Italia e Banco de España.

I mercati apprezzerebbero la nuova impostazione attraverso un’operatività tesa ad azzerare i differenziali di ren-dimento tra i titoli di Stato dei vari paesi membri, come avvenne negli anni immediatamente antecedenti alla partenza dell’Euro. All’epoca gli operatori finanziari, infatti, nel presupposto che l’euro avrebbe rispettato il paradigma tradi-zionale della condivisione dei rischi e avrebbe avuto quindi un’unica struttura a termine dei tassi d’interesse, iniziaro-no a comprare i titoli di Stato a rendimento più elevato ed a vendere quelli meno redditizi per lucrarne il differenziale accelerando la convergenza delle curve dei tassi dei vari paesi membri (17).

Sarebbe un po’ come tornare all’anno zero della partenza dell’euro e superare gradualmente i limiti di scelte di po-licy – prese in seguito alla crisi finanziaria globale – che hanno privilegiato gli interessi nazionali a quelli di aumenta-re la resilienza dell’Eurozona. D’altronde, all’indomani del fallimento di Lehman Brothers, lo stesso presidente della Bce Jean-Claude Trichet dava per acquisito che una valuta potesse avere solo una struttura a termine dei tassi di inte-resse (18).

Se la ridefinizione del Qe dovesse riguardare semplicemente l’aumento dal 33% al 50% della quota di una speci-fica emissione di titoli di Stato acquistabili dalle banche centrali dell’Eurosistema, difficilmente si otterrebbero risul-tati tali da rimuovere le sopradescritte anomalie della nostra area valutaria, guadagnando al più un po’ di tempo da spendere in un contesto economico-finanziario che appare in rapido deterioramento.

Di recente Olli Rehn, governatore della banca centrale finlandese e membro del board della Bce, ha dichiarato che: “quando lavori con i mercati finanziari, spesso è meglio fare overshooting che undershooting, [e quindi] è im-portante presentare un pacchetto politico significativo e di grande impatto a settembre piuttosto che tentennare”. Ci auguriamo di essere stupiti.

Referenze

Altavilla C. et al. (2019), Is there a zero lower bound? The effects of negative policy rates on banks and firms, <www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecb.wp2289~1a3c04db25.en.pdf?e0c348b9bd29608f0dc3854a26f2464f>.

Brand C., Ferrante L., Hubert A. (2019), From cash- to securities-driven euro area repo markets: the role of fi-nancial stress and safe asset scarcity, <www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecb.wp2232~c3399f4b01.en. pdf?4a5b7f70c587493dc299cc2d1768aa1e>.

Draghi M., L. de Guindos (2019), Press conference, Frankfurt am Main, 25 July 2019, <www.ecb.europa.eu/ press/pressconf/2019/html/ecb.is190725~547f29c369.en.html>.

Ecb (2019), 20 years of European economic and monetary Union, Forum dei banchieri centrali, Sintra, 17-19 giugno 2019, <www.ecb.europa.eu/pub/conferences/html/20190617_ecb_forum_on_central_banking.en.html>.

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Ecb (2016), What is the deposit facility rate?, <www.ecb.europa.eu/explainers/tell-me/html/what-is-the-deposit-facility-rate.en.html>.

(17) M. Minenna, La moneta incompiuta, Roma, Ediesse, 2013.

(18) J.-C. Trichet, L. Papademos, Introductory statement with Q&A, in <www.ecb.europa.eu>, 6 November 2008.

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Ecb (2016), Monetary policy decisions 10 March 2016, <www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2016/ html/pr160310.en.html>.

Ecb (2016), Decisione Ecb/2016/8 del 18 aprile 2016, <www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/celex_ 32016d0008_en_txt2.pdf>.

Ecb (2015), Decisione Ecb/2015/10 del 4 marzo 2015, <www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/oj_jol_ 2015_121_r_0007_en_txt.pdf>.

Ecb (2015), Decisione Ecb/2015/33 del 5 novembre 2015, <www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/celex_ 32015d0033_en_txt.pdf>,

Ecb (2015), Decisione Ecb/2015/48 del 16 dicembre 2015, <www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/oj_jol_ 2015_344_r_0001_en_txt.pdf>.

Eser F. (2019), Tracing the impact of the Ecb’s asset purchase programme on the yield curve, <www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecb.wp2293~41f7613883.en.pdf?36492d92dc3dd55d1a60977740c06db6>.

Gambetti L., Musso A. (2017), The macroeconomic impact of the Ecb’s expanded asset purchase programme (App), <www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecb.wp.2075.en.pdf>.

Minenna M. (2015), Why Europe’s Qe resembles a Ccs trade?, <www.risk.net>.

Minenna M. (2013), La Moneta Incompiuta, Roma, Ediesse.

Trichet J.-C., L. Papademos (2008), Introductory statement with Q&A, <www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2008/html/is081106.en.html>.

* * *

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LE FUNZIONI DELLA PARIFICA DELLA CORTE DEI CONTI

ALLA LUCE DELLA PIÙ RECENTE GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE

di Monica Bergo

Abstract: Il presente contributo esamina alcune recenti pronunce della Corte costituzionale accomunate dall’ammissione al vaglio di legittimità costituzionale dei ricorsi indicentali in sede di parifica del rendiconto generale delle regioni da parte delle sezioni regionali della Corte dei conti per parametri diversi da quelli generalmente ammessi a tutela degli equilibri economico-finanziari (artt. 81 e 119 Cost). Questa innovazione non solo è funzionale ad illuminare alcune zone d’ombra dell’ordinamento, ma – richiamando alla giuridicità della copertura – orienta la tutela degli equilibri di bilancio alla garanzia di diritti fondamentali dell’ordinamento, rivelando la vocazione unitaria dei principi contenuti nelle diverse parti della Costituzione.

Sommario: 1. Introduzione. – 2. La Corte dei conti come giudice a quo in sede di parifica. – 3. Equilibrio di bilancio e obbligo di copertura. – 4. Giuridicità della copertura e tutela dei diritti. – 5. Riflessioni conclusive.

1. Introduzione

Come noto, per una ormai costante giurisprudenza costituzionale, la Corte dei conti può sollevare questioni di le-gittimità costituzionale come giudice a quo in sede di giudizio di parifica nei riguardi di tutte le disposizioni di legge che determinino effetti non consentiti dai principi posti a tutela degli equilibri economico-finanziari e da tutti gli altri precetti che custodiscono la sana gestione finanziaria (ex plurimis, Corte cost. n. 181/2015) (1).

Nella giurisprudenza in materia di contabilità pubblica i parametri invocati in questi giudizi sono stati essenzial-mente circoscritti agli artt. 81 e 119 Cost., anche in relazione a norme interposte specificamente emanate (2).

In alcune recenti sentenze, la Corte costituzionale ha giudicato ammissibile anche l’invocazione di parametri che attengono “all’an della spesa”, innestando nell’ordinamento alcune novità di evidente rilevanza, specie in relazione ai rapporti fra i nuovi poteri della magistratura contabile quale “giudice della parificazione” e i principi costituzionali di natura finanziaria, in primis quelli contenuti nell’art. 81 Cost.

2. La Corte dei conti come giudice a quo in sede di parifica

Con ricorso incidentale, la Corte dei conti, Sezione regionale della Liguria, in sede di giudizio di parifica del ren-diconto generale della regione relativo al 2016, ha sollevato questione di legittimità costituzionale di due disposizioni di legge, l’art. 10 della l. reg. 10/2008, istitutiva della vice-dirigenza, e l’art. 2 della l. reg. n. 42/2008, che ne discipli-nava la retribuzione, per violazione degli artt. 117, c. 2, lett. l.), e 81, c. 3, Cost (3).

La peculiarità del caso è rappresentata dal parametro richiamato dal giudice rimettente, che ha ravvisato la viola-zione dell’obbligo di copertura come conseguenza di un’altra violazione, ossia l’invasione regionale di una compe-tenza legislativa esclusiva statale.

La disciplina del trattamento giuridico ed economico dei dipendenti pubblici rientra, infatti, nella materia “ordi-namento civile”, che ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. l), Cost., compete unicamente al legislatore statale, il quale l’ha demandata alla contrattazione collettiva nazionale, da svolgersi sulla base di atti di indirizzo del Ministro per la fun-zione pubblica e diretti poi all’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) per la parte relativa all’importo massimo delle risorse finanziarie da destinarvi (4).

(1) Sull’evoluzione del sistema dei controlli, ex multis, v. A. Carosi, Il controllo di legittimità-regolarità della Corte dei conti sui bi-

lanci degli enti territoriali anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, in F. Capalbo (a cura di), Il controllo di legit-timità-regolarità della Corte dei conti, Napoli, Editoriale scientifica, 2019, 15-53; R. Scalia, La giustiziabilità delle decisioni assunte dalle sezioni regionali nell’area della legittimità-regolarità della gestione finanziario-contabile, in <www.federalismi.it>, 28 giugno 2017; M. Luciani, Generazioni future, distribuzione temporale della spesa pubblica e vincoli costituzionali, in Dir. e società, 2008, spec. p. 158; G. Rivosecchi, Controlli della Corte dei conti e incidente di costituzionalità, in Dir. pubbl., 2017, 366, il quale osserva come l’accesso alla Consulta per la Corte dei conti nel giudizio di parifica fosse ammesso nel nostro ordinamento fin dagli anni ’60, purché non fossero questioni relative a leggi di bilancio o a leggi di spesa, “atteso che, in tale giudizio, la Corte dei conti non applica né l’una né le altre, trattandosi, soprattutto in origine, di un raffronto non già tra atti e leggi, ma tra scritture contabili”.

(2) Per un esame della giurisprudenza in materia, sia consentito un rinvio a M. Bergo, Coordinamento della finanza pubblica e auto-nomia territoriale. Tra armonizzazione e accountability, Napoli, Editoriale scientifica, 2018.

(3) Il testo della sent. n. 196/2018 fa riferimento all’art. 81, c. 4, Cost., ante riforma costituzionale del 2012. Come noto, per effetto della l. cost. n. 1/2012 il principio sulla copertura è ora contenuto nel c. 3 dell’art. 81. Nel presente contributo si fa pertanto riferimento al testo del vigente art. 81 Cost.

(4) Corte cost. n. 214/2016, in Foro amm., 2016, 2307.

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Alla luce di queste considerazioni, la Corte costituzionale con la sentenza n. 196/2018 ha riconosciuto che le di-sposizioni impugnate dalla Corte dei conti hanno violato il principio della copertura di cui all’art. 81, c. 3, Cost. non in via diretta, ma in conseguenza della violazione di principi indefettibili ricavati dalla sfera di competenza legislativa statale cui la materia in questione afferisce.

Il giudice delle leggi ha, infatti, precisato che la violazione dell’art. 117, c. 2, lett. l), Cost. ridonda sull’art. 81, c. 3, Cost., ossia la lesione della sfera di competenza statale si riverbera a cascata sull’equilibrio della finanza pubblica. In altri termini, avendo il legislatore regionale istituito un ruolo – quella della vice-dirigenza – in una materia al di fuori della propria competenza, è illegittima non solo tale disposizione, ma anche quella che ne riversa gli effetti sul bilancio della regione.

Il vizio di costituzionalità quindi non afferisce intrinsecamente alla posta di spesa ove sono allocate le competenze a favore dei vice-dirigenti (Fondo per il trattamento accessorio del personale ex art. 2 della legge regionale n. 42 del 2008), ma deriva dal fatto che l’istituzione e la retribuzione dei vice-dirigenti stessi non trova copertura giuridica nell’ordinamento, e l’assenza di copertura giuridica si riflette inevitabilmente sulla imputabilità della spesa al bilancio regionale, poiché ne intacca la legittimità-regolarità di cui la Corte dei conti in sede di controllo sugli enti territoriali è custode (su cui infra).

Il giudice delle leggi ha osservato che il parametro richiamato dal rimettente “delinea settori nei quali l’intervento regionale produttivo di spesa si traduce immediatamente nell’alterazione dei principi di sana gestione della finanza pubblica allargata nonché degli equilibri economico-finanziari degli enti, che spetta alla Corte dei conti garantire pro-prio in sede di giudizio di parificazione” (5).

Si tratta di una apertura interpretativa di non poco conto, che merita di essere indagata.

Come noto, ai sensi dell’art. 1, c. 5, d.l. n. 174/2012, convertito dalla l. n. 213/2012, le sezioni regionali di control-lo della Corte dei conti eseguono la parifica del rendiconto generale della regione (6). Si tratta di un controllo dalla funzione di accertamento della conformità – in termini di regolarità e legittimità – dei “fatti” contabili rappresentati nel rendiconto rispetto ai parametri normativi vigenti (7).

Compito precipuo della Corte dei conti in sede di parifica del rendiconto generale della regione è perciò garantire la legalità degli atti ad essa sottoposti, attraverso un controllo preordinato massimamente alla verifica della tenuta complessiva del rendiconto (una sorta di test antecedente all’approvazione definitiva dell’atto) (8), in termini di veri-dicità e attendibilità dei saldi e di sostenibilità in concreto e in via prospettica degli equilibri rappresentati, con prin-cipale riferimento ai principi di cui agli artt. 81, 97 e 119, Cost. (9). Tali principi si pongono, infatti, come "coordina-te giuridico-economiche “essenziali” ai fini della “parificabilità” dei rendiconti regionali, non solo in chiave di corri-spondenza formale di poste contabili ma soprattutto in termini di veridicità, attendibilità e sostenibilità di tali risul-tanze rispetto al conseguimento dell’obiettivo primo, e cioè l’equilibrio effettivo e strutturale del bilancio regionale quale “bene della collettività”» (10). Conseguentemente rientrano nel campo della parifica anche tutte le disposizioni di legge incidenti su fatti di gestione rappresentati nel rendiconto.

Nel caso di cui alla sentenza n. 196/2018, la Corte dei conti ha ritenuto di non poter parificare il capitolo di spesa in esame e ha sollevato la richiamata questione di legittimità costituzionale, sull’assunto che solo l’accoglimento del-la medesima questione avrebbe potuto impedire la parificazione della voce, con conseguente eliminazione della spesa contestata, della cui legittimità la magistratura rimettente dubitava.

(5) Comunicato stampa alla sent. n. 196/2018.

(6) Sul d.l. n. 174/2012 e sulla legge di conversione n. 231/2012, v., ex plurimis, B. Caravita di Toritto, Sulla vocazione del nostro tempo per una riforma della Corte dei conti e la ricostruzione unitaria delle sue funzioni, in <www.federalismi.it>, 2 maggio 2012; D. Morgante, I nuovi presidi della finanza regionale e il ruolo della Corte dei conti nel d.l. n. 174/2012, ibidem, 9 gennaio 2012; N. Vice-conte, Legislazione sulla crisi e consigli regionali: riduzione dei costi della politica o della democrazia?, in Istituzioni del federalismo, 2013, 29; T. Tessaro, Il “decreto enti locali”, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2013; F. Guella, Il carattere “sanzionatorio” dei controlli finanziari di fronte alle prerogative dei consigli regionali e dei gruppi consiliari: ricadute generali delle questioni sollevate dalle autonomie speciali, in commento a Corte cost. 39/2014, in <www.osservatorioaic>, aprile 2014; L. Buffone, A. Cardone, I controlli della Corte dei conti e la politica economica della Repubblica: rules vs. discretion?, in Regioni, 2014, 841; B. Caravita, E. Jorio, La Cor-te costituzionale e l’attività della Corte dei conti (una breve nota sulle sentenze nn. 39 e 40 del 2014), in <www.federalismi.it>, 19 mar-zo 2014; M. Salvago, I nuovi controlli della Corte dei conti sulla gestione finanziaria regionale (art. 1, d.l. n. 174 del 2012) nei più re-centi approdi della giurisprudenza costituzionale, ibidem, 12 ottobre 2015; C. Pagliarin, Note a margine del giudizio di parificazione sul rendiconto generale della regione, in <www.diritto.regione.veneto.it>, 2015.

(7) Cfr. V. Pinto, Il giudizio di parifica del rendiconto regionale, in F. Capalbo (a cura di), op. cit., spec. pp. 220-228. Nonché F. Su-cameli, Il giudizio di parificazione del rendiconto delle regioni, in A. Canale et al. (a cura di), La Corte dei conti. Responsabilità, conta-bilità, controllo, Milano, Giuffrè, 2019, 1021-1058.

(8) Dal punto di vista temporale, infatti, tale controllo si posiziona in una fase antecedente all’approvazione definitiva del rendiconto, poiché oggetto specifico della parifica è la proposta di rendiconto approvata dalla giunta regionale, prima dell’approvazione della suddet-ta da parte del consiglio regionale.

(9) Ibidem. In questa sede peraltro l’A. richiama Corte conti, Sez. contr. reg. Basilicata, n. 45/2016.

(10) Corte conti, Sez. contr. reg. Basilicata, n. 45/2016, come citata da V. Pinto, op. cit.

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Ove avesse applicato tali norme, la Corte dei conti “si sarebbe trovata nella condizione di validare un risultato di amministrazione non corretto, in quanto relativo a una spesa […] la cui copertura è stata individuata nell’incremento e nell’illegittima destinazione delle risorse del Fondo per il trattamento accessorio, in contrasto con la contrattazione collettiva nazionale di comparto” (11).

Non si tratta di una pronuncia isolata, in quanto la Corte costituzionale è giunta a una soluzione analoga in due successive decisioni, le sentenze nn. 138 e 146/2019.

Con la sentenza n. 146/2019 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune norme della Regione Campania che prevedevano un nuovo trattamento economico accessorio per il personale regionale; trattamento che, oltre a non essere coerente con i criteri indicati dai contratti collettivi di comparto, era innanzi tutto in contrasto con la riserva di competenza esclusiva assegnata al legislatore statale dall’art. 117, c. 2, lett. l), Cost. in materia di ordina-mento civile.

Come nel caso di cui alla sentenza n. 196/2018, anche in questa fattispecie il ricorso è originato dalla Corte dei conti, Sezione regionale per la Campania, in sede di parifica del rendiconto regionale. Il giudice contabile ha addotto l’illegittimità delle disposizioni di spesa per violazione dei parametri di cui all’art. 117, c. 2, lett. l), Cost. Il giudice delle leggi ha riconosciuto che la violazione della competenza legislativa statale si risolve in una violazione dell’obbligo di copertura, precisando che «tale spesa, non autorizzata dal legislatore statale e dunque non divenuta oggetto di rinvio alla contrattazione di comparto, non può trovare per ciò stesso legittima copertura finanziaria. Essa incide negativamente sull’equilibrio dei bilanci e sulla sostenibilità del debito pubblico, in violazione degli artt. 81 e 97, primo comma, Cost. Il nesso funzionale che connette la violazione della competenza statale in materia di “ordi-namento civile” con la tutela del bilancio inteso quale bene pubblico viene in rilievo in modo netto nello specifico ca-so sottoposto al vaglio di questa Corte» (12).

La sentenza n. 138/2019, invece, origina da un’ordinanza delle Sezioni riunite per la Regione autonoma Trentino-Alto Adige della Corte dei conti nei giudizi di parificazione dei rendiconti generali della Provincia autonoma di Bol-zano e della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol per l’esercizio finanziario 2017, avente ad oggetto al-cune disposizioni di leggi regionali in materia di trattamento economico dei dipendenti pubblici.

Le disposizioni impugnate dal giudice rimettente prevedevano la corresponsione ai dirigenti provinciali e regiona-li, a titolo di assegno personale pensionabile, di emolumenti corrispondenti a indennità di direzione e di coordinamen-to, anche in assenza di formale incarico e di espletamento di alcuna funzione (13).

Come nel caso della sentenza n. 196/2018, disciplinando un aspetto della retribuzione dei dipendenti provinciali, tali norme risultavano in contrasto con l’art. 117, c. 2, lett. l), Cost., poiché incidenti sulla materia “ordinamento civi-le”, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, la cui regolamentazione dovrebbe essere uniforme su tutto il terri-torio nazionale. Inoltre, tali norme risultano illegittime in riferimento all’art. 117, c. 2, lett. o), Cost., invadendo la materia pensionistica, di competenza esclusiva dello Stato, per effetto della prescrizione che conferiva a dette inden-nità la natura di assegno personale pensionabile.

La Corte costituzionale ha così ammesso il ricorso delle Sezioni riunite della Corte dei conti per il Trentino-Alto Adige per un parametro diverso rispetto all’art. 81 Cost., che incide anche in questo caso sull’an della spesa.

In definitiva, le violazioni dell’art. 117, c. 2, lett. l) e lett. o), determinano una ridondanza sull’art. 81 Cost., poiché generano una indebita alterazione sulla spesa del personale e sul conseguente risultato di amministrazione. Le dispo-sizioni censurate incidono, insomma, sull’articolazione della spesa del bilancio consuntivo 2017, sul quantum della stessa, sulla determinazione del risultato di amministrazione e su profili retributivi espressamente esclusi dal legisla-tore nazionale nell’esercizio della sua competenza esclusiva.

Attenta dottrina ha messo in evidenza come l’allargamento dei parametri ammessi rischia di creare un varco po-tenzialmente illimitato alla Corte costituzionale da parte della Corte dei conti, per un numero indefinito di possibili ricorsi avverso tutte le disposizioni regionali passibili di violare anche indirettamente le disposizioni sulla tutela dell’equilibrio dei bilanci (14).

Peraltro, non appare condivisibile l’osservazione secondo cui si potrebbe far valere il vizio di incompetenza sine die, ogni qualvolta si manifesti un impatto negativo sulla spesa, tale da pregiudicare il saldo di equilibrio (15); infatti, nella sentenza n. 138/2019 il giudice delle leggi ha espressamente circoscritto il sindacato di costituzionalità alle di-

(11) Corte cost. n. 196/2018, Considerato in diritto, 2.1. In assenza di uno scrutinio volto ad accertare la sospettata legittimità costitu-

zionale di leggi incidenti su fatti di gestione rappresentati nel rendiconto, quest’ultimo dovrebbe essere parificato anche se attuativo di norme ritenute costituzionalmente illegittime.

(12) Corte cost. n. 146/2019, Considerato in diritto 5.

(13) Le norme che hanno superato il vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale sono le seguenti: artt. 1, c. 3, 2 e 17, c. 2, l. prov. Bolzano n. 9/2017; art. 1 l. prov. Bolzano n. 1/2018; art. 4, c. 1, terzo periodo, e c. 3, l. reg. Trentino-Alto Adige n. 11/2017.

(14) Cfr. F.S. Marini, La disomogeneità dei controlli e la legittimazione della Corte dei conti a sollevare questioni di costituzionali-tà: una giurisprudenza in espansione, in <www.federalismi.it>, 10 luglio 2019.

(15) P. Santoro, La ridondanza del vizio di incompetenza legislativa nel giudizio di parificazione, (Corte costituzionale sentenza n. 196/2018), in <www.contabilità-pubblica.it>, 2019.

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sposizioni che risultano “eziologicamente collegate alla decisione di parificazione”, considerando ammissibili solo le questioni inerenti a disposizioni che “impongono di validare, ai fini della determinazione del risultato di amministra-zione e del sindacato di legittimità della spesa, le partite che contengono le somme inerenti alla elargizione delle in-dennità prive del requisito sinallagmatico e ai conseguenti oneri di natura pensionistica” (16).

Coerentemente con tale assunto, la sentenza n. 138/2019 determina espressamente l’inammissibilità di ogni que-stione che non riguardi la funzione di parificazione, ovvero di tutto ciò che non spiega “alcun effetto giuridico nei confronti delle spese sottoposte a parificazione” (17). Vengono così escluse questioni, pur astrattamente fondate, che non riguardano le spese oggetto di parifica (18).

In tal modo, l’assenza di diretta ricaduta sulla parificazione funge da filtro atto a circoscrivere le questioni ammis-sibili.

Nelle richiamate pronunce è senza dubbio dominante la preoccupazione della Consulta di ridurre le c.d. zone d’ombra, ossia quelle questioni inerenti alla tutela di interessi adespoti, cioè prive di un “padrone processuale” in gra-do di portarle davanti al giudice delle leggi.

Giova ricordare, in proposito, che ai sensi dell’art. 127, c. 2, Cost., il Governo può impugnare una legge regionale che ecceda la sua competenza solo entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione. Non sempre però tale azione di con-trollo governativo è caratterizzata dal rispetto dei canoni di imparzialità, malgrado il giudice delle leggi abbia richia-mato più volte lo Stato a farsi interprete del ruolo di custode della finanza pubblica allargata (19).

(16) Corte cost. n. 138/2019, Considerato in diritto, 4.

(17) Corte cost. n. 138/2019, Considerato in diritto, 5.

(18) Corte cost. n. 138/2019, Considerato in diritto, 4: «Prima di procedere all’esame della rilevanza delle questioni sollevate con le ordinanze in esame, occorre, tuttavia, individuare il petitum sostanziale delle predette, dal momento che non tutte le disposizioni censura-te risultano eziologicamente collegate alla decisione di parificazione. Il percorso argomentativo dei giudici a quibus evidenzia come, ai fini della parificazione, le disposizioni rilevanti siano quelle provinciali e regionali – sopravvenute dopo la precedente disapplicazione, da parte della medesima Corte dei conti, dei contratti collettivi nelle parti contemplanti le contestate erogazioni – che impongono di vali-dare, ai fini della determinazione del risultato di amministrazione e del sindacato di legittimità della spesa, le partite che contengono le somme inerenti alla elargizione delle indennità prive del requisito sinallagmatico e ai conseguenti oneri di natura pensionistica. Ed è pro-prio questo profilo eziologico della rilevanza che deve essere scrutinato. In concreto, le norme che rivestono tale pregiudizialità sono le seguenti: a) art. 1, comma 3, della legge prov. Bolzano n. 9 del 2017; b) art. 2 della legge prov. Bolzano n. 9 del 2017; c) art. 17, comma 2, della legge prov. Bolzano n. 9 del 2017; d) art. 1 della legge prov. Bolzano n. 1 del 2018; e) art. 4, comma 1, terzo periodo e comma 3, della legge reg. Trentino-Alto Adige n. 11 del 2017. Per quanto si dirà espressamente in prosieguo, analogo diretto collegamento non si riscontra per altre disposizioni impugnate. Evidenti ragioni sistematiche inducono, pertanto, a circoscrivere il petitum a quella parte della legislazione in grado di condizionare direttamente la decisione delle sezioni riunite della Corte dei conti. – 5. Alla luce di quanto premes-so, sono, invece, inammissibili le questioni sollevate nei confronti delle disposizioni della Provincia autonoma di Bolzano antecedenti alla stipula del primo contratto collettivo provinciale disciplinante il rapporto di lavoro dei dirigenti provinciali e quelle che non riguar-dano la copertura legislativa delle spese contestate. Le disposizioni antecedenti sono quelle contenute nell’art. 28 della legge prov. Bol-zano n. 10 del 1992. Tali disposizioni non erano vigenti al momento in cui il giudice contabile è stato chiamato ad assumere la decisione circa la parificazione delle contestate partite di spesa. Infatti, l’art. 2, comma 1, lettera o), della legge n. 421 del 1992 – disposizione im-perativa e inderogabile ascrivibile alla materia di competenza esclusiva statale “ordinamento civile” – stabilisce che la privatizzazione del pubblico impiego deve essere caratterizzata dalla “abrogazione delle disposizioni che prevedono automatismi che influenzano il trat-tamento economico fondamentale ed accessorio, e di quelle che prevedono trattamenti economici accessori, settoriali, comunque deno-minati, a favore di pubblici dipendenti sostituendole contemporaneamente con corrispondenti disposizioni di accordi contrattuali anche al fine di collegare direttamente tali trattamenti alla produttività individuale e a quella collettiva ancorché non generalizzata ma correlata all’apporto partecipativo”. L’art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 – norma di analogo tenore della precedente – prevede che le disposizioni antecedenti alla sottoscrizione dei contratti collettivi del quadriennio 1998-2001, cessano in ogni caso di produrre effetti dal momento della sottoscrizione stessa (in tal senso, sentenza n. 196 del 2018). […] Da quanto evidenziato deriva inequivocabilmente l’inammissibilità delle questioni sollevate nei riguardi di disposizioni antecedenti all’ultimo contratto collettivo di comparto, poiché esse non spiegano alcun effetto giuridico nei confronti delle spese sottoposte a parificazione. Esulano inoltre dall’odierno giudizio le questioni di legittimità costituzionale sollevate sulle disposizioni che trovano applicazione “a far data dal 1° giugno 2018” e, quindi, sull’art. 1, comma 1, della legge prov. Bolzano n. 9 del 2017, sull’art. 3 della legge prov. Bolzano n. 1 del 2018 e sull’art. 4, comma 1, primo e se-condo periodo della legge reg. Trentino-Alto Adige n. 11 del 2017, oltre a quelle che evidentemente non riguardano le tematiche oggetto del giudizio (art. 1, comma 2, e art. 17 comma 1, della legge prov. Bolzano n. 9 del 2017)”.

(19) Oltre alle sentenze qui in commento, altrettanto significative al riguardo sono le considerazioni della Corte costituzionale nelle sent. n. 19/2015 e 107/2016, dove si legge che «nel suo compito di custode della finanza pubblica allargata lo Stato deve tenere compor-tamenti imparziali e coerenti per evitare che eventuali patologie nella legislazione e nella gestione dei bilanci da parte delle autonomie territoriali possa riverberarsi in senso negativo sugli equilibri complessivi della finanza pubblica. In proposito, questa Corte ha già preci-sato che il coordinamento degli enti territoriali deve essere improntato a canoni di ragionevolezza e di imparzialità nei confronti dei sog-getti chiamati a concorrere alla dimensione complessiva della manovra (sentenza n. 19 del 2015)”» (Considerato diritto, 3), su cui v. L. Mollica Poeta, L’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione per violazione dell’art. 81 Cost. Riflessioni a margine di Corte cost., sent. n. 107 del 2016, in <www.osservatorioaic.it>, 31 gennaio 2017. Su questo fenomeno, descritto anche in termini di “federalismo clientela-re”, v., in particolare, i vari contributi di L. Antonini, L’ultimo regalo di Renzi a Chiamparino, in Panorama, 22 dicembre 2016; Id., Il segno dei tempi: dal Veneto al Molise quale futuro per il regionalismo italiano?, in <www.federalismi.it>, 22 febbraio 2017; nonché Id., La Corte costituzionale a difesa dell’autonomia finanziaria: il bilancio è un bene pubblico e l’equilibrio di bilancio non si persegue con tecnicismi contabili espropriativi, in <www.rivistaaic.it>, 31 gennaio 2018.

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In questo scenario, la scelta del giudice delle leggi di ammettere al vaglio di costituzionalità i ricorsi in sede di pa-rifica della Corte dei conti anche per criteri che incidono solo in via mediata sull’equilibrio dei bilanci può essere sa-lutata con favore.

Già da tempo peraltro autorevole e concorde dottrina segnala che proprio per evitare i c.d. coni d’ombra, o piutto-sto ritardi nell’accertamento delle violazioni dei principi posti a tutela della sana gestione finanziaria, sarebbe auspi-cabile un intervento del legislatore costituzionale a disciplinare il potere della Corte dei conti di sollevare in via diret-ta, davanti alla Consulta, le questioni di legittimità costituzionale in materia di spesa pubblica (20).

Occorre, infine, sottolineare come la complessità insita nelle norme tecnico-contabili trova nella Corte dei conti, e in particolare nel giudizio in sede di parificazione, un giudice specializzato idoneo a individuare le violazioni di pa-rametri costituzionali (come è evidente nel caso della sent. n. 138/2019) (21).

In questo senso, nella citata sentenza la Corte costituzionale ha espressamente indicato le cause che concorrono a creare zone d’ombra nell’ordinamento, precisando come spesso “gli interessi erariali alla corretta spendita delle risor-se pubbliche […] non hanno, di regola, uno specifico portatore in grado di farli valere processualmente in modo diret-to”; ovvero le disposizioni contestate non sempre vengono impugnate nei termini dal Governo, che di fatto è l’“unico soggetto abilitato a far valere direttamente l’invasione di materie di competenza legislativa statale, divenendo intan-gibili per effetto della decorrenza dei predetti termini e della decadenza conseguentemente maturata” (22).

3. Equilibrio di bilancio e obbligo di copertura

Secondo qualche isolata opinione non si potrebbe far discendere dalla violazione delle norme sul riparto di com-petenze una violazione dell’obbligo di copertura, obbligo che peraltro non sarebbe applicabile alle leggi di bilancio (23).

Questa affermazione non appare condivisibile poiché la teoria labandiana del bilancio (24) – cui sembrano fare ri-ferimento tali nostalgiche opinioni – risulta pacificamente superata non solo dalla più autorevole e concorde dottrina, ma dalla stessa giurisprudenza costituzionale, già antecedentemente all’approvazione della modifica dell’art. 81 Cost., il cui nuovo terzo comma prevede che ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri – ivi inclusa la legge di bilancio – deve provvedere ai mezzi per farvi fronte (25).

(20) Così A. Pace, Pareggio di bilancio: qualcosa si può fare, ibidem, 29 settembre 2011; A. Carosi, Il controllo di legittimità-

regolarità della Corte dei conti, cit., 46; F.S. Marini, op. cit., 14.

(21) Il tema della complessità delle norme tecniche di contabilità pubblica si intreccia a un argomento ricorrente della giustizia costi-tuzionale, relativo ai poteri istruttori della Corte costituzionale e alla loro disciplina, su cui la dottrina è molto ampia. Ex multis, v. A. Baldassarre, I poteri conoscitivi della Corte costituzionale e il sindacato di legittimità astratto, in Giur. cost., 1973, 1497; A. Cerri, I po-teri istruttori della Corte costituzionale nei giudizi sulle leggi e sui conflitti, ivi, 1978, 1335; M. Luciani, I fatti e la Corte: sugli accerta-menti istruttori del giudice costituzionale nei giudizi sulle leggi, ivi, 1987, 556; T. Groppi, I poteri istruttori della Corte costituzionale nel giudizio sulle leggi, Milano, Giuffrè, 1997; R. Bin, La Corte e la scienza, in A. D’Aloia (a cura di), Bio-tecnologie e valori costitu-zionali: il contributo della giustizia costituzionale, Torino, Giappichelli, 2005, 1; Q. Camerlengo, I poteri istruttori della Corte costitu-zionale e l’accesso agli elementi scientifici nel giudizio di costituzionalità, in A. D’Aloia (a cura di), op. cit., 166; G.A. Ferro, Modelli processuali ed istruttoria nei giudizi di legittimità costituzionale, Torino, Giappichelli, 2012; G.P. Dolso, Prospettive inedite sui poteri istruttori della Corte costituzionale, in Regioni, 2017, 225; M. D’Amico, F. Biondi (a cura di), La Corte costituzionale e i fatti: istrutto-ria ed effetti delle decisioni, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018; V. Marcenò, La solitudine della Corte costituzionale dinanzi alle que-stioni tecniche, in Quaderni costituzionali, 2019, 393.

(22) Corte cost. n. 138/2019, Considerato in diritto, 6.

(23) Il riferimento è a C. Forte, M. Pieroni, Prime osservazioni relative alla sentenza n. 196 del 2018 della Corte costituzionale, in <www.federalismi.it>, n. 16 giugno 2019, spec. 10-11.

(24) Sul problema della natura della legge di bilancio, oltre agli studi classici di P. Laband, Das Budgetrecht nach den Bestimmungen der Preußischen Varfassungs-Urkunde unter Berucksichtigung der Verfassung des Norddeutschen Bundes, Berlin, De Gruyter, 1971, rist. dell’ed. 1871, trad. it. C. Forte, Il diritto del bilancio, Milano, Giuffrè, 2007; v., specie per l’interpretazione dell’art. 81 Cost., V. Onida, Le leggi di spesa nella Costituzione, Milano, Giuffrè, 1969, spec. 466 ss.; S. Bartole, Art. 81, in G. Branca (a cura di), Commenta-rio della Costituzione. La formazione delle leggi, Tomo II. Artt. 76-82, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro italiano, 1979; A. Brancasi, Legge finanziaria e legge di bilancio, Milano, Giuffrè, 1985; N. Lupo, Art. 81, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Com-mentario alla Costituzione, Torino, Utet; Id., Costituzione e bilancio. L'articolo 81 della Costituzione tra attuazione, interpretazione e aggiramento, Roma, Luiss University Press, 2007; M. Luciani, L’equilibrio di bilancio e i principi fondamentali: la prospettiva del con-trollo di costituzionalità, in Il principio dell’equilibrio di bilancio secondo la riforma costituzionale del 2012 (Atti del seminario, Roma, 22 novembre 2013), Milano, Giuffrè, 2014; Id., Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini, in Aa.Vv., Scritti in onore di Antonio D’Atena, Milano, Giuffrè, 2015, 1673. Nonché, di recente, M. Laze, La natura giuridica della legge di bilancio: una questione ancora attuale, in <www.rivistaaic>, 17 aprile 2019.

(25) A differenza quindi dell’originario art. 81 Cost., che invece individuava nella legge di bilancio un atto dalla natura duplice, di approvazione del “conto” predisposto dal Governo, e di autorizzazione, attraverso l’attribuzione di un “fondamento normativo a qualsiasi voce di entrata e di spesa”, alla “gestione delle risorse stanziate su ciascun capitolo”, la nuova versione sembra dotata di maggiore co-genza: cfr. G. Rivosecchi, Leggi di bilancio e leggi di spesa nel quadro del nuovo articolo 81 della Costituzione, in Aa.Vv., Dalla crisi economica al pareggio di bilancio: prospettive, percorsi e responsabilità (Atti del 58° Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 20-22 settembre 2012), Milano, Giuffrè, 2013, 386-387. Sul rapporto fra il documento che incorpora il bilancio e il bilancio strettamente inteso, v. le autorevoli considerazioni di S. Buscema, Bilancio dello Stato, in Enc. dir., vol. V, 1959, il

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Numerose pronunce della Corte costituzionale fin dal 2012 hanno affermato il superamento della concezione della legge di bilancio quale legge formale.

Può essere utile al riguardo ricordare che nel 1990 vi era stata un’anticipazione isolata di questo approdo, con la sentenza n. 260, in cui la Corte aveva affermato che sebbene “dall’art. 81 della Costituzione derivi un principio di tendenziale equilibrio finanziario dei bilanci dello Stato […] da questa premessa non può logicamente conseguire che sussista in materia un limite assoluto alla cognizione del giudice di costituzionalità delle leggi. Al contrario, ritenere che quel principio sia riconosciuto in Costituzione non può avere altro significato che affermare che esso rientra nella tavola complessiva dei valori costituzionali, la cui commisurazione reciproca e la cui ragionevole valutazione sono lasciate al prudente apprezzamento di questa Corte. In altri termini, non si può ipotizzare che la legge di approvazione del bilancio dello Stato o qualsiasi altra legge incidente sulla stessa costituiscano una zona franca sfuggente a qualsia-si sindacato del giudice di costituzionalità, dal momento che non vi può essere alcun valore costituzionale la cui at-tuazione possa essere ritenuta esente dalla inviolabile garanzia rappresentata dal giudizio di legittimità costituzionale” (Considerato diritto, 3).

Questa posizione è stata recuperata dalla Corte dapprima implicitamente, con le sentenze nn. 70 e 192/2012, e in seguito in modo espresso, con la sentenza n. 188/2015 (Considerato diritto, 2), per legittimare l’ammissibilità delle questioni rivolte contro disposizioni di bilancio.

Questo excursus viene ripreso e confermato nella successiva sentenza n. 10/2016, in cui la Corte ha ribadito che la definizione di legge di bilancio come atto sostanziale si deve alla sentenza n. 260/1990, con la quale è stata superata “la risalente concezione dottrinaria, […] secondo cui quella di bilancio sarebbe una legge meramente formale priva di prescrizioni normative” (26). La Corte ha così osservato che «l’evoluzione legislativa in materia finanziaria ha pre-sentato sovente fattispecie (ad esempio quella decisa con sent. n. 188/2015) in cui anche attraverso i semplici dati numerici contenuti nelle leggi di bilancio e nei relativi allegati possono essere prodotti effetti novativi dell’ordinamento. Questi ultimi costituiscono scelte allocative di risorse, suscettibili di sindacato in quanto rientranti “nella tavola complessiva dei valori costituzionali”» (27).

Ma anche la Ragioneria generale dello Stato ha avuto modo di precisare la natura sostanziale della legge di bilan-cio, in tal modo risolvendo definitivamente una questione che per troppo tempo è rimasta offuscata dall’ossequio a elaborazioni concettuali risalenti al passato e a forme di governo diverse (28): “la legge di bilancio conterrà [...] anche norme tese ad apportare modifiche alla legislazione di entrata o di spesa e potrà disporre misure e interventi volti a favorire lo sviluppo e la crescita economica del Paese. […] Il bilancio – nella nuova veste sostanziale – è destinato a rappresentare il principale strumento di decisione sulla allocazione delle risorse, nonché il principale riferimento della verifica dei risultati delle politiche pubbliche” (29). Quand’anche fosse esatta la tesi della legge formale, non si po-trebbe sottrarre al giudizio della Corte costituzionale una legge di bilancio che innovasse la legislazione vigente, co-me più volte accaduto prima della riforma costituzionale del 2012 (30).

La discrezionalità del legislatore nell’allocazione delle risorse incontra perciò non solo limiti quantitativi, ma an-che qualitativi. Lo stesso vincolo di copertura finanziaria delle spese – come ha precisato la Corte nelle sentenze n. 196/2018 e n. 138/2019 – ha una valenza innanzitutto giuridica. È dunque la giuridicità della copertura – che non è solo copertura economico-finanziaria, ma anche normativa – che ne consente la giustiziabilità.

quale osserva che “il bilancio assume la sua rilevanza giuridica in quanto fa parte integrante del provvedimento approvativo”; così in A. Carosi, Il controllo di legittimità-regolarità della Corte dei conti sui bilanci degli enti territoriali anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., 33.

(26) Corte cost. n. 10/2016 (in questa Rivista, 2016, fasc. 1-2, 362, con nota di richiami), Considerato in diritto, 2, dove la Corte pe-raltro non manca di rilevare il proprio precedente che aveva alimentato il dibattito sulla natura formale della legge di bilancio, ossia la sent. n. 7/1959, in cui veniva affermato che “La legge del bilancio – che si tratti dello Stato o che si tratti della regione – è una legge formale che non può portare nessun innovamento nell’ordine legislativo, sì che da essa non possono derivare né impegni, né diritti della regione diversi da quelli preesistenti alla legge stessa”, Considerato in diritto.

(27) Corte cost. n. 10/2016, cit., Considerato in diritto, 2. Nello stesso senso v. anche Corte cost. n. 275/2016, in Foro it., 2017, I, 2591, in cui la Corte ha ricordato che «nella materia finanziaria non esiste “un limite assoluto alla cognizione del giudice di costituzio-nalità delle leggi”. Al contrario, ritenere che il sindacato sulla materia sia riconosciuto in Costituzione “non può avere altro significato che affermare che esso rientra nella tavola complessiva dei valori costituzionali”, cosicché “non si può ipotizzare che la legge di appro-vazione del bilancio o qualsiasi altra legge incidente sulla stessa costituiscano una zona franca sfuggente a qualsiasi sindacato del giu-dice di costituzionalità, dal momento che non vi può essere alcun valore costituzionale la cui attuazione possa essere ritenuta esente dal-la inviolabile garanzia rappresentata dal giudizio di legittimità costituzionale” (sentenza n. 260 del 1990)», Considerato in diritto, 14.

(28) M. Laze, op. cit., il quale sottolinea come le tesi di Laband erano assolutamente strumentali alle esigenze governative del Re di Prussia.

(29) Ragioniere generale dello Stato, Audizione presso le Commissioni riunite bilancio di Camera e Senato, 14 luglio 2015.

(30) Con riferimento alla giustiziabilità delle nuove disposizioni sull’equilibrio di bilancio, v. G. Scaccia, La giustiziabilità della re-gola del pareggio di bilancio, in <www.rivistaaic.it>, 25 settembre 2012; nonché G. Rivosecchi, L’equilibrio di bilancio dalla riforma alla giustiziabilità, cit.

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4. Giuridicità della copertura e tutela dei diritti

La giurisprudenza richiamata sembra rivelare che lungo l’asse di attuazione delle nuove regole riconducibili al principio dell’equilibrio di bilancio si sta affermando una più nitida difesa della portata sistematica delle regole di fi-nanza pubblica.

In questo senso, nella sentenza n. 138/2019 il giudice delle leggi ha ricordato che l’avanzo di amministrazione «non può essere inteso come una sorta di utile di esercizio, il cui impiego sarebbe nell’assoluta discrezionalità dell’amministrazione. Anzi, l’avanzo di amministrazione “libero” delle autonomie territoriali è soggetto a un impiego tipizzato, in cui non rientrano dazioni retributive e previdenziali non contemplate dalla legge» (31).

Se l’avanzo di amministrazione non può essere utilizzato arbitrariamente, vi sono altri profili di costituzionalità che in qualche modo risultano collegati al tema oggetto delle sentenze n. 196 e n. 138. Si allude al fatto che, in un pe-riodo di penuria di risorse accentuato dalla lunga crisi economica, le scelte in materia finanziaria debbano essere va-lutate secondo una scala di priorità e di proporzionalità (32).

Utilizzando un termine comune – e forse inflazionato, probabilmente a causa della sua debole carica imperativa – si può sostenere che la spesa pubblica dovrebbe orientarsi a spesa “etica” (33), ossia dovrebbe essere ispirata alla tu-tela dell’intera collettività amministrata.

La fisionomia di questa “spesa etica” può essere rintracciata sempre nella giurisprudenza costituzionale che specie negli ultimi anni ha elaborato una serie di principi che concorrono alla edificazione del “diritto del bilancio” (34) e possono rappresentare una sorta di bussola per il legislatore al fine di orientare in modo “virtuoso” l’impiego delle risorse pubbliche. Si pensi, solo per fare qualche esempio, ai principi di equità intra e inter-generazionale, di traspa-renza e di veridicità, nonché di giuridicità della copertura.

Paradigmatica in proposito è la sentenza n. 169/2017, in cui il giudice delle leggi ha espressamente indicato che esistono delle priorità di spesa, ammonendo le regioni “all’individuazione di metodologie parametriche in grado di separare il fabbisogno finanziario destinato a spese incomprimibili da quello afferente ad altri servizi sanitari suscet-tibili di un giudizio in termini di sostenibilità finanziaria” (35).

Dello stesso tenore appare la sentenza n. 275/2016, nella quale si afferma che “è la garanzia dei diritti incompri-mibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” (36) e ha per esempio censurato la scelta regionale di condizionare la destinazione di fondi all’istruzione dei disabili alla disponibi-lità finanziaria determinata dalle leggi di bilancio.

Nella sentenza n. 6/2019, parimenti, il giudice delle leggi ha richiamato il principio della “priorità dell’impiego delle risorse disponibili” (37), e lo ha definito come un “meccanismo” in grado di “connotare il principio dell’equilibrio dinamico come giusto contemperamento, nella materia finanziaria, tra i precetti dell’art. 81 Cost., la salvaguardia della discrezionalità legislativa e l’effettività dei vincoli costituzionali” (38).

In questa prospettiva, la discrezionalità del legislatore regionale – ma altrettanto vale per il legislatore statale – nell’allocare le risorse pubbliche deve perciò esercitarsi nel rispetto dei principi dell’equilibrio dei bilanci e della co-pertura giuridica delle spese, principi teleologicamente orientati a garantire una allocazione delle risorse che non pre-giudichi il nucleo fondamentale dei diritti.

(31) Corte cost. n. 138/2019, Considerato in diritto, 7.1.

(32) Sul punto, ex plurimis, v. quantomeno L. Carlassare, Diritti di prestazione e vincoli di bilancio, in <www.costituzionalismo.it>, 1 dicembre 2015; M. Luciani, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche nei sessant’anni della Corte costituzionale, in <www.rivistaaic.it>, 25 luglio 2016; L. Antonini, Il diritto alla salute e la spesa costituzionalmente necessaria: la giurisprudenza accen-de il faro della Corte, in <www.federalismi.it>, 22 novembre 2017 e bibliografia ivi richiamata; nonché A. Carosi, La Corte costituzio-nale tra autonomie territoriali, coordinamento finanziario e garanzia dei diritti, in <www.rivistaaic.it>, 20 novembre 2017.

(33) Sul concetto di etica nella pubblica amministrazione, v. A. Carosi, Ethics in public administration and in auditing, Lezione pres-so la “2019 Summer School in public auditing and accountability”, Pisa, 8-12 luglio 2019, in corso di pubblicazione.

(34) Su questo, v. C. Bergonzini, Trasparenza e veridicità dei bilanci: l’annullamento del rendiconto oggetto di manipolazioni con-tabili, in Regioni, 2018, 507.

(35) Corte cost. n. 169/2017, Considerato in diritto, 9.3.2.

(36) Corte cost. n. 275/2016, cit., Considerato in diritto, 11, su cui, ex multis, v. E. Furno, Pareggio di bilancio e diritti sociali: la ri-definizione dei confini nella recente giurisprudenza costituzionale in tema di diritto all’istruzione dei disabili, in <www.giusrcost.org>, 16 marzo 2017.

(37) Elaborato dalla Corte costituzionale fin dalla sent. n. 250/2013 (in Foro it., 2015, I, 36, con nota di G. D’Auria), il principio di priorità dell’impiego delle risorse disponibili vincola la discrezionalità del legislatore al rispetto di precise priorità da accordare “per le spese obbligatorie e, comunque, per le obbligazioni perfezionate, in scadenza o scadute”, Considerato in diritto, 3.2.

(38) Corte cost. n. 6/2019, Considerato in diritto, 4.1.3.1, in cui la Corte costituzionale ha precisato che «in presenza di un difetto di copertura di spese obbligatorie accertato in sede di giudizio costituzionale, è stato statuito che la doverosità dell’adozione di appropriate misure da parte della regione – pur rimanendo ferma la discrezionalità della stessa nell’adozione della propria programmazione economi-co-finanziaria – viene a costituire un limite nella determinazione delle politiche di bilancio di futuri esercizi, circoscrivendone la portata attraverso il “rispetto del principio di priorità dell’impiego delle risorse disponibili” (sentenza n. 266 del 2013) per coprire le spese deri-vanti dalle pronunce del giudice costituzionale (in tal senso anche sentenze n. 188 del 2016 e n. 250 del 2013)».

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5. Riflessioni conclusive

Volendo tracciare una rotta che raccolga le coordinate essenziali delle sentenze qui in commento, si può indivi-duare come punto di partenza il ricorso incidentale della Corte dei conti in sede di parifica per parametri che inerisco-no alla “giuridicità della copertura”, che dà voce a interessi diversamente destinati al “silenzio processuale” (39).

Il secondo punto, direttamente consequenziale al primo, è rappresentato dalla scelta del giudice delle leggi di am-mettere tali ricorsi incidentali della Corte dei conti al fine di ridurre le zone d’ombra presenti nell’ordinamento. L’accoglimento del ricorso ha consentito di evitare la parifica – e quindi l’inserimento nel rendiconto – di quelle po-ste che avrebbero utilizzato risorse pubbliche in modo illegittimo, perché impiegate senza copertura giuridica. Va ri-cordato in proposito che “copertura economica delle spese ed equilibrio di bilancio sono due facce della stessa meda-glia” (40) ed è proprio a tutela dei principi dell’equilibrio di bilancio (art. 81 Cost.) che la Consulta ha respinto le ec-cezioni della Provincia autonoma di Bolzano (sent. n. 138/2019) attraverso le quali la provincia argomentava che le retribuzioni contra legem trovavano comunque copertura nell’avanzo di amministrazione realizzato dall’ente territo-riale. In altre parole, un risultato positivo di amministrazione non può essere gestito con la libertà di una plusvalenza societaria ma deve essere gestito secondo le norme poste a tutela della sana gestione finanziaria (41).

Fra le righe delle sentenze in commento si possono quindi ritrovare quelle indicazioni “di metodo” al legislatore nell’allocazione virtuosa delle risorse pubbliche che soprattutto in un momento di scarsità occorre adeguatamente modulare secondo specifiche direttive legislative e – quando ne ricorrono i presupposti – per la cura prioritaria dei diritti fondamentali degli individui.

Il punto di approdo si avvista allora al levarsi della nebbia che affligge certe concezioni isolazionistiche dei prin-cipi finanziari inseriti nella Carta (42), e si raggiunge nel momento in cui tali principi vengono correttamente intesi come funzionali alla realizzazione dei principi fondamentali dell’ordinamento, primi fra tutti quelli contenuti negli artt. 2 e 3, c. 2, Cost.

Alla luce di questa ricostruzione, la decisione del giudice delle leggi di ammettere al vaglio di costituzionalità i ri-corsi della Corte dei conti in sede di parifica per parametri che solo apparentemente esulano dalla tutela degli equili-bri di bilancio, se da un lato supplisce per via pretoria ad una latitanza normativa (43), al contempo illumina le zone d’ombra dell’ordinamento, collocandosi nell’alveo di questo filone giurisprudenziale, che àncora la tutela della sana gestione finanziaria alla garanzia del nucleo fondamentale dei diritti.

* * *

(39) Cfr. A. Carosi, Il controllo di legittimità-regolarità della Corte dei conti, cit., 50, il quale ricorda che la Corte dei conti nel con-

trollo di legittimità-regolarità di fatto contribuisce ad illuminare il cono d’ombra in cui verrebbero a trovarsi le disposizioni normative in contrasto con i principi posti a tutela dell’equilibrio dei bilanci e della sana gestione finanziaria. Sul ruolo della Corte dei conti rispetto al controllo sugli equilibri dei bilanci, v. anche V. Cerulli Irelli, Sulla funzione di controllo della Corte dei conti, in G. Farneti, S. Pozzoli (coord. da), Enti locali e sistema dei controlli. Riflessioni e proposte, Milano, Giuffrè, 2007, 41; G. De Sanctis, Linee guida e strumenti per lo svolgimento dell’attività delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, in questa Rivista, 2006, VI, 330; P. Maltese, I controlli della Corte dei conti: personaggi ancora in cerca di autore, ibidem, 372; M. Ristuccia, I controlli sulle autonomie nel nuovo quadro istituzionale. I rapporti tra il controllo e le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti, ibidem, 188.

(40) Corte cost. n. 274/2017, Considerato in diritto, 4.

(41) Corollario di questo passaggio non ben compreso da alcuni autori è la vincolatività del principio di unità del bilancio degli enti territoriali il quale comporta che il complesso unitario delle entrate finanzia la totalità delle spese dell’amministrazione (mentre le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento) cosicché un avanzo di amministrazione emer-gente proprio nel corso della procedura di approvazione del rendiconto non può essere estrapolato per giustificare la copertura di una spesa illegittima. Sarebbe come dire: siccome ho realizzato delle economie attraverso una gestione virtuosa, ne destino una parte ad una spesa illegittima.

(42) Illuminante in proposito è la sent. n. 85/2013, in Foro it., 2014, I, 441, dove la Corte costituzionale ricorda che: «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona», Considerato in diritto, 9.

(43) Cfr. F.S. Marini, op. cit., 14.

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L’EVOLUZIONE DEL BARATTO AMMINISTRATIVO

TRA COLLABORAZIONE CIVICA E PARTENARIATO SOCIALE

di Samantha Zebri

Abstract: La collaborazione pubblico-privato si sostanzia, nell’ambito dell’attuale quadro normativo e culturale di ri-ferimento, nell’amministrazione condivisa dei “beni comuni”, che rappresentano l’evoluzione del concetto di “pubblico” in favore di una nuova e più responsabile concezione dei beni da condividere tra concittadini, non solo nel momento del loro uso ma anche nei relativi doveri di cura. La co-progettazione e la co-gestione delle attività sussidiarie in cui può estrinsecarsi la suddetta collaborazione sono state interessate negli ultimi sei anni da un’importante evoluzione operativa, normativa e giurisprudenziale: la riflessione su alcune concrete esperienze di cittadinanza attiva concepite e sperimentate a livello locale ha ispirato la redazione dell’art. 24 del d.l. n. 133/2014, che ha introdotto nel nostro ordinamento un particolare strumento di promozione della sussidiarietà orizzontale basato sul riconoscimento di agevolazioni tributarie (informalmente ribattezzato “baratto amministra-tivo”); la discussione sulle modalità operative di tale strumento e le valutazioni espresse dalla Corte dei conti (più volte chiamata a pronunciarsi al riguardo) hanno portato all’approvazione, in particolare, degli artt. 189 e 190 del d.lgs. n. 50/2016 (nuovo codice dei contratti), con cui sono state ulteriormente sviluppate – in chiave contrattuale e a superamento dello strumento di cui all’art. 24 del d.l. n. 133/2014 (abrogato nel 2017) – le modalità operative della sussidiarietà orizzontale distinguendo quest’ultima (oggetto dell’art. 189) dal contratto di partenariato socia-le (art. 190, formalmente rubricato “Baratto amministrativo”). Il presente approfondimento, sintesi della mia re-cente tesi di specializzazione in materia, illustra le caratteristiche e di passaggi più salienti con l’obiettivo di con-tribuire ad offrire un pionieristico quadro normativo ed operativo delle potenzialità del (contratto di) “baratto am-ministrativo” di cui all’art. 190 del d.lgs. n. 50/2016. Poche, ancora ad oggi, le esperienze effettivamente realizza-te, anche perché ancora inesplorati sono rimasti proprio i passaggi da chiarire affinché le amministrazioni interes-sate possano consapevolmente valutare l’opportunità di ricorrere a queste nuove forme di partenariato e dettarne un’idonea disciplina regolamentare ed operativa. La difficoltà è data dal fatto che la relativa disciplina deve essere concretamente ricercata mediante una lettura integrata e ragionata di varie fonti (tra cui il d.lgs. n. 50/2016, nuovo codice dei contratti, e il d.lgs. n. 117/2017, codice del terzo settore) nel rispetto dei punti fermi già autorevolmente individuati dalle varie sezioni regionali della Corte dei conti, interpellate dai comuni per fare luce su aspetti appli-cativi potenzialmente impattanti in termini di responsabilità contabile.

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il concetto di “baratto amministrativo”. – 3. Sussidiarietà e baratto nel nuovo codi-ce dei contratti. – 4. Partenariato sociale. – 5. Attività di interesse generale e codice del terzo settore. – 6. Disci-plina contrattuale del baratto amministrativo. – 7. La valutazione della convenienza del ricorso al baratto e l’accessibilità a tale strumento. – 8. Le agevolazioni barattabili. – 9. Conclusioni.

1. Introduzione

La fattiva promozione della sussidiarietà orizzontale ha permesso di offrire spazio ed opportunità alle esperienze sociali di collaborazione, favorendone il radicamento sul territorio, lo sviluppo e la capacità di interazione con le isti-tuzioni.

Lo strumento del “baratto amministrativo” nasce in campo tributario (in particolare con riferimento all’art. 24 d.l. n. 133/2014) – quale espressione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, c. 4, Cost. – per consen-tire agli enti locali di promuovere e stimolare, con appositi incentivi tributari, la collaborazione dei cittadini nella cu-ra, recupero e sviluppo di beni comuni.

Il principio di sussidiarietà orizzontale si pone come principio aperto a raccogliere le esperienze sociali di collabo-razione. Si parla di “baratto” perché in tali ipotesi la prestazione sussidiaria è offerta a titolo oneroso, ossia in cambio delle previste agevolazioni tributarie. Proprio questo aspetto segna il confine tra baratto amministrativo e volontaria-to: la previsione dell’incentivo fiscale introduce una logica economica incompatibile con lo spirito di solidarietà che contraddistingue l’attività di volontariato, in cui la prestazione è personale, spontanea, gratuita e non soggetta a vin-coli obbligatori, come indirettamente confermato anche dal nuovo codice del terzo settore (d.lgs. n. 117/2017) (1).

Promuovendo la sussidiarietà orizzontale il legislatore – prima con l’art. 24 del d.l. n. 133/2014, poi con gli artt. 189, 190 e 191 del d.lgs. n. 50/2016 – ha cercato di valorizzare l’autonomia, la libertà e la responsabilità dei singoli e dei gruppi anche in settori in precedenza riservati alla competenza esclusiva degli apparati amministrativi.

(1) In tal senso, Corte conti, Sez. autonomie, n. 16/2017.

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In un momento storico di crisi (anche di risorse pubbliche) come quello attuale, la collaborazione pubblico-privato acquista nuova valenza consentendo di mettere in rete risorse (anche, ma non solo) economiche; tuttavia, è nella cul-tura della c.d. cittadinanza attiva che si concretizza il vero salto di qualità; l’attuazione del principio di sussidiarietà sospinge verso una nuova modalità di amministrazione: un’amministrazione “condivisa” per la cura dei beni comuni.

La stessa terminologia si è evoluta: il concetto di “bene comune” valorizza – meglio del concetto di “bene pubbli-co” – gli aspetti di condivisione che caratterizzano l’utilità e gli oneri di cura di tali beni in modo molto più ampio e significativo della loro pubblica proprietà. Possono essere definiti “beni comuni urbani” i beni che i cittadini e l’amministrazione, anche attraverso procedure partecipative e deliberative, riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, attivandosi di conseguenza nei loro confronti ai sensi dell’art. 118, ultimo c., Cost., per con-dividere la responsabilità della loro cura o rigenerazione al fine di migliorarne la fruizione collettiva (2). Il bene co-mune è, in tale ottica, un bene funzionale al benessere (di singoli e collettività), che si caratterizza per l’essere e dover restare in condizioni di ottimale fruizione pubblica (3).

Gli enti locali possono sostenere attivamente la libera e volontaria partecipazione di singoli ad attività operative (a carattere non industriale o commerciale) di servizio alla persona e di tutela di beni comuni anche regolamentando operativamente il ricorso allo strumento del baratto amministrativo (di cui all’art. 190 del d.lgs. n. 50/2016).

Con l’espressa abrogazione (4) dell’art. 24 del d.l. n. 133/2014 – disposta nel 2017 dopo circa un anno di parallela vigenza sia dell’art. 24 che dell’art. 190 del d.lgs. n. 50/2016 in materia di baratto amministrativo – il quadro risulta semplificato e definitivamente radicato nell’ambito del partenariato pubblico-privato: il “baratto amministrativo” (nome con cui è formalmente rubricato lo strumento offerto dall’art. 190) si è svincolato dal concetto di sussidiarietà orizzontale aprendosi a nuovi sviluppi in chiave puramente contrattuale.

Il codice dei contratti e quello del terzo settore, sia pure su piani diversi e trasversali, devono essere interpretati ed applicati nell’ottica dell’integrazione e del coordinamento perché, come già emerge dal quadro di sintesi, l’attività amministrativa anche istituzionale è caratterizzata da una sempre maggior partecipazione (anche a livello di co-programmazione e di co-progettazione) del cittadino che, da solo o in gruppo, a vario titolo si sostituisce (secondo criteri di sussidiarietà ed adeguatezza) alla p.a. nello svolgimento di attività di interesse generale (citate dall’art. 118, c. 4, Cost. e oggi positivizzate, nel contesto del codice del terzo settore, al suo art. 5) per finalità civiche, solidaristi-che e di utilità sociale.

La p.a., nel servirsi di questi nuovi strumenti, è chiamata ad una complicata opera di interpretazione ed applica-zione integrata delle norme tramite la mediazione di appositi regolamenti comunali che devono disciplinarne e presi-diarne l’accesso. È in tale ottica che occorre ripercorrere la recente evoluzione di questi strumenti, con particolare ri-ferimento a quello oggetto della presente analisi: il c.d. “baratto amministrativo”.

2. Il concetto di “baratto amministrativo”

La parziale rinunciabilità o la definizione agevolata dei propri crediti nei confronti dei cittadini è divenuta, specie in tempo di crisi, un tema di interesse e discussione negli enti locali, alla ricerca di sistemi solidaristici per attenuare il disagio sociale causato dalle precarie condizioni economiche e in considerazione della difficile riscossione dei crediti presso talune fasce della cittadinanza.

Alcuni comuni, nell’adottare misure agevolative ai sensi dell’art. 24 del d.l. n. 133/2014, non si erano limitati ad individuare e commisurare agevolazioni aventi ad oggetto future riduzioni o esenzioni dal pagamento di un tributo (o di un’entrata patrimoniale sostituiva di esso, come il Cosap), ma avevano introdotto anche agevolazioni miranti a consentire al cittadino di “barattare” con il comune un proprio debito (non necessariamente di carattere tributario) in cambio di un’attività sussidiaria variamente intesa, anche a carattere di prestazione d’opera. A tal fine il citato art. 24 del d.l. n. 133/2014 era stato interpretato in modo estensivo privilegiandone la finalità promozionale (latamente inte-sa) anche a scapito del tenore letterale. Così facendo vi era chi ipotizzava la possibilità di “barattare” un debito – an-che tributario – già esistente verso il comune con un’attività sussidiaria a favore della collettività: una forma di “ba-ratto” riconducibile all’art. 1197 c.c. (datio in solutum).

(2) Il ruolo dell’amministrazione tende – nell’esperienza operativa maturata fino ad oggi presso i comuni che hanno sperimentato

questa nuova dimensione – ad esplicarsi in due direzioni: stimolare e coordinare l’azione dei cittadini; elaborare e attuare sistemi di go-vernance stabili e duraturi. Gli ambiti di sviluppo di questa nuova modalità di fare amministrazione sono vastissimi e toccano aspetti e beni di grande impatto civico. Basti pensare alla manutenzione delle scuole e dei parchi, al recupero di beni pubblici in disuso perché possano tornare al servizio della collettività. La delicatezza di questa modalità è direttamente proporzionale alla sua importanza e al ri-schio di strumentalizzazioni che porterebbero inevitabilmente al fallimento di un’esperienza che, se ben gestita, può sicuramente rappre-sentare una svolta epocale dei rapporti tra comuni (sempre più disponibili al confronto e all’ascolto) e cittadini (sempre più attivi e re-sponsabilizzati) per la tutela e la valorizzazione del territorio comunale, inteso davvero come “bene comune” in tutti i suoi molteplici aspetti, ivi compresi quelli progettuali e gestionali.

(3) Nella definizione di “beni comuni” rientrano beni materiali (ad esempio, strade, piazze, parchi, ecc.), beni immateriali (ad esem-pio, interventi sociali, educazione, formazione, ecc.), beni digitali (ad esempio, siti, applicazioni, social, ecc.).

(4) Abrogazione ad opera dell’art. 217, c. 1, lett. rr), d.lgs. n. 50/2016, come modificato dall’art. 129, c. 1, lett. m), d.lgs. n. 56/2017.

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Contabilmente parlando, il rinunciare ad incassare un credito tributario già maturato (o l’accettarne il pagamento in modo diverso) assume peraltro una valenza totalmente diversa dal riconoscere agevolazioni sui tributi:

a) le agevolazioni tributarie operano “pro futuro”: il deliberare norme di riduzione o esenzione di tributi (per loro funzione e natura aventi l’effetto di autorizzare il minor versamento o l’abbuono del tributo “corrente” e futuro) con-sente al comune di stimare e considerare la minore entrata nelle stesse previsioni di bilancio ai fini dei necessari equi-libri, senza pregiudizio quindi dei crediti già maturati a proprio favore in relazione ai tributi ed alle entrate di esercizi già consuntivati o consuntivabili;

b) in caso di “baratto” inteso come datio in solutum, invece, viene concesso al cittadino – a certe condizioni, per esempio in caso di morosità incolpevole e/o di inesigibilità o dubbia esigibilità – di adempiere ai propri obblighi tri-butari verso il comune (anche relativi ad esercizi finanziari passati confluiti nella massa dei residui attivi dell’ente) ponendo in essere – in luogo del pagamento del tributo dovuto – una delle attività concordate. In tal caso, di fatto, il comune rinuncia ad incassare i propri crediti a fronte di un beneficio (l’utilità sociale derivante dall’attività alternati-va prestata) di difficile valutazione economica ed a cui non necessariamente corrisponde uno stanziamento di spesa: la criticità riguarda soprattutto le ipotesi di attività “sussidiaria” per le quali non sia previsto a bilancio alcuno stan-ziamento in parte spesa con conseguente impossibilità di “compensare” finanziariamente relative spese e stanziamenti (5). Al riguardo la Sezione di controllo della Corte dei conti per l’Emilia-Romagna (6) ha stabilito l’assenza di mar-gini di operatività dell’allora vigente art. 24 della l. n. 133/2014, pena la compromissione degli equilibri contabili del bilancio dell’ente, con conseguente danno erariale in caso di squilibrio di bilancio dovuto alla barattata rinuncia ad incassare crediti tributari consolidati in carenza di corrispondenti e correlate minori spese legate alle attività di inte-resse generale ottenute in cambio. Secondo la Corte, infatti, tale ipotesi non rientra nell’ambito di applicazione della norma per mancanza di inerenza tra agevolazione tributaria ed attività svolta e può determinare effetti pregiudizievoli sugli equilibri di bilancio, considerato che i debiti tributari del cittadino sono iscritti tra i residui attivi dell’ente. Sen-za contare che la stessa ratio legis dell’allora vigente art. 24 del d.l. n. 133/2014 ostava alla possibile compensazione tra “debito” ed “attività sussidiaria”, che appariva incoerente con la promozione della sussidiarietà sottesa a tale nor-ma e potenzialmente in grado di snaturare e mercificare la vocazione “strumentale” di queste agevolazioni (quali “mezzo” di promozione della cittadinanza attiva, senza diventarne il “prezzo”). Fermo restando in ogni caso che la necessità di poter quantificare a priori le agevolazioni a fronte di determinate attività anche ai fini del controllo pre-suppone la quantificazione del valore dello scambio (sia ex ante che ex post).

3. Sussidiarietà e baratto nel nuovo codice dei contratti

Con il nuovo codice dei contratti (d.lgs. n. 50/2016), all’art. 190 è stato introdotto l’istituto del (nuovo) “baratto amministrativo”, rendendolo autonomo dagli interventi di sussidiarietà orizzontale di cui al precedente art. 179.

L’art. 190 – collocato nella parte IV, denominata “Partenariato pubblico privato contraente generale”, al titolo I, “partenariato pubblico privato” – è rubricato “Baratto amministrativo”.

Il suddetto titolo I si apre con l’art. 180 sul partenariato pubblico-privato, definito contratto a titolo oneroso e di-sciplinato dall’art. 3, c. 1, lett. eee) (7). L’art. 189 tratta di interventi di sussidiarietà orizzontale confinandola alle at-tività espressamente indicate nella norma, privilegiando la dimensione collettiva dell’azione privata ed ammettendo implicitamente varie modalità di incentivazione della sussidiarietà, tra cui la possibilità di prevedere incentivi alla ge-stione diretta anche (ma non solo e non necessariamente) tramite agevolazioni tributarie, adottando apposito regola-mento (8).

Nel nuovo codice dei contratti emerge pertanto il seguente quadro:

(5) È proprio questo l’aspetto su cui si è concentrata la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l’Emilia-Romagna nel

deliberare il proprio parere contrario al baratto inteso come datio in solutum, senza però entrare nel merito dei seguenti connessi (assorbi-ti) temi:

a) rapporto (e relativi equilibri) tra ammontare del debito e valore economico dell’eventuale prestazione sostituiva del pagamento;

b) legittimità di limitazioni per l’accesso al beneficio (l’estinzione di un’obbligazione pecuniaria con modalità diversa dal pagamen-to) ai possessori di specifici requisiti (soggettivi o oggettivi, anche inerenti l’inesigibilità o dubbia esigibilità dei crediti e/o la valutazione dell’incolpevolezza o meno della morosità), così da riservarne l’applicazione a specifiche categorie di debitori.

(6) Corte conti, Sez. contr. reg. Emilia-Romagna, 24 marzo 2016, n. 27, in questa Rivista, 2016, fasc. 1-2, 114, con nota di richiami.

(7) Seguono gli artt. 181 (Procedure di affidamento), 182 (Finanziamento del progetto), 183 (Finanza di progetto), 184 (Società di progetto), 185 (Sull’emissione di obbligazioni e titoli da parte della società di progetto), 186 (Privilegio sui crediti), 187 (Locazione fi-nanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità), 188 (Contratto di disponibilità).

(8) È evidente come in tali ipotesi il comune conservi autonomo potere decisionale e regolativo relativamente all’iniziativa privata che, significativamente, si sostanzia in una “proposta operativa” (come tale attinente alla mera esecuzione) e non in un progetto (come invece quelli di cui all’art. 190). A favore del gruppo attuatore delle opere di interesse locale di cui al c. 2 sono previste ex lege (ai sensi dell’art. 189, c. 5) specifiche agevolazioni consistenti nell’esclusione incondizionata di oneri fiscali ed amministrativi (ad eccezione dell’imposta sul valore aggiunto) e nella detraibilità delle spese dalle imposte sui redditi, senza necessità di “inerenza” o “corrispettività”. Interessante notare come la previsione dell’art. 189 del codice ricalchi abbastanza da vicino – ma in una dimensione più generale – quan-to disposto dall’art. 4 della l. n. 10/2013 in materia di verde pubblico, disposizione abrogata proprio dallo stesso codice dei contratti.

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1) la “sussidiarietà” (di cui all’art. 189) è appannaggio di consorzi e gruppi e può riguardare:

- la gestione manutentiva di aree riservate a verde pubblico e degli immobili di origine rurale riservati alle attività collettive sociali e culturali di quartiere (con esclusione degli immobili ad uso scolastico);

- la formulazione e realizzazione, senza oneri per l’ente, di proposte operative di pronta realizzabilità aventi ad oggetto opere di interesse locale; utile rilevare, al riguardo, come in questa fattispecie di sussidiarietà l’iniziativa pri-vata significativamente si sostanzi in “proposte operative” (come tali, attinenti alla mera esecuzione) e non in “pro-getti” (come invece quelli di cui al baratto amministrativo di cui all’art. 190);

2) la cessione di immobili in cambio di opere non riguarda né la sussidiarietà né il baratto amministrativo, essendo volutamente prevista e disciplinata al diverso art. 191;

3) il baratto amministrativo è ricondotto allo schema del partenariato sociale, quale tipologia di contratto di parte-nariato pubblico-privato avente ad oggetto lo scambio tra realizzazione del progetto privato ed agevolazioni tributarie per un fine sociale, rappresentato dall’utilità espressamente riconosciuta dalla legge alla promozione della partecipa-zione alla vita di comunità. Si tratta di utilità concreta che, sulla base del relativo contratto di baratto amministrativo, dovrà poter essere individuata, misurata, controllata e socialmente rendicontata. I cittadini, singoli o associati, assu-mono a proprio carico la progettata modalità di cura di un ben individuato bene comune senza perseguire alcun fine di lucro: il beneficio (l’agevolazione tributaria) deve infatti “corrispondere” al valore dell’attività svolta, senza mar-gini di profitto;

4) il baratto amministrativo non può riguardare la costruzione ex novo di un’opera pubblica realizzata a spese del privato (disciplinata dallo specifico art. 20 del medesimo d.lgs. n. 50/2016).

Lo strumento introdotto dall’art. 190 presenta aspetti del tutto innovativi, rispetto a quello dell’art. 24 del d.l. n. 133/2014, che al momento della sua entrata in vigore restava peraltro norma vigente: a differenza dello strumento di cui all’art. 24 (riservato ai comuni), quello previsto dall’art. 190 è a disposizione di tutti gli enti territoriali, quindi la sua soggettiva applicabilità si dilata. Altri tratti salienti sono la sua avvenuta “contrattualizzazione” e l’acquisita au-tonomia dal principio di sussidiarietà orizzontale a cui restano invece legati gli “interventi” ora disciplinati dall’art. 189 del medesimo codice. In base al c. 1 dell’art. 190 del d.lgs. n. 50/2016 gli enti territoriali possono definire con apposita delibera (9) i criteri e le condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale, sulla base di pro-getti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione ad un preciso ambito territoriale che a tal fine – a differenza che nell’ipotesi di cui all’art. 24 del d.l. n. 133/2014 – non occorre necessiti di riqualificazione.

Nell’art. 190, alla facoltà di deliberare criteri e modalità per i contratti di partenariato si contrappone l’obbligo di introdurre apposite agevolazioni tributarie a carico dell’ente che abbia esercitato la suddetta facoltà: in questo caso, a differenza che nell’ipotesi dell’art. 189, c. 1, l’agevolazione tributaria costituisce la controprestazione ex lege che l’ente si assume nei confronti del privato (sua controparte nel baratto) in cambio della realizzazione del progetto avente ad oggetto una delle ivi indicate attività.

Ai sensi del c. 1 dell’art. 190 gli enti locali individuano – in relazione alla tipologia degli interventi – riduzioni o esenzioni di tributi corrispondenti al tipo di attività svolta dal privato o dall’associazione, ovvero comunque utili alla comunità di riferimento in un’ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini alla stessa.

Molti gli aspetti che risultano svaniti, rispetto alla formulazione dell’art. 24 del d.l. n. 133/2014: il requisito dell’inerenza tra attività svolta e beneficio; i limiti imposti alle ipotesi di esenzione da tributi; la priorità riconosciuta alle comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute. In tale diverso contesto sembrerebbe quindi esservi più spazio per ipotesi di datio in solutum tra debito ed attività socialmente utile.

4. Partenariato sociale

Il partenariato – quale confronto tra parti diverse (soggetti pubblici o privati, forze economiche e sociali) sulla rea-lizzazione di interventi finalizzati allo sviluppo economico e del territorio e alla promozione ed integrazione sociale – è un metodo ampiamente diffuso a livello comunitario, fondato sul propositivo e fattivo dialogo tra le parti quale strumento di co-progettazione, di messa in rete e di condivisione in grado di sfruttare al meglio contributi e risorse dei singoli per lo sviluppo e il benessere dell’intera comunità.

La definizione del “contratto di partenariato pubblico-privato” è contenuta nell’art. 3, lett. eee), del medesimo de-creto legislativo, secondo cui ha forma scritta e titolo oneroso. Il contratto di partenariato di cui all’art. 190 (definito

(9) Spetta comunque agli enti territoriali definire – discrezionalmente, con apposita delibera – i criteri e le condizioni sulla cui base

concludere contratti di partenariato sociale, anche con riferimento ai requisiti progettuali ed alle successive fasi esecutive e di controllo-collaudo. Criteri e condizioni che, nel contesto dell’art. 190, devono essere fissati in relazione alla realizzazione di un vero e proprio rap-porto contrattuale pubblico-privato definito “contratto di partenariato sociale”, basato sull’iniziativa progettuale di cittadini singoli o as-sociati relativa ad un preciso ambito territoriale (anche non necessariamente da riqualificare). Nel fissare tali criteri e condizioni gli enti locali formalizzano e definiscono l’obiettivo perseguito con l’operatività accordata a tale strumento: andare oltre la promozione del vo-lontariato a titolo gratuito per ricercare, in cambio di agevolazioni tributarie, la diretta responsabilizzazione dei cittadini nella cura dei beni comuni (o più semplicemente, in certe realtà locali), con possibile regolamentazione – quale ulteriore strumento di welfare e nel ri-spetto degli equilibri di bilancio – di ipotesi di datio in solutum del debito tributario di particolari tipologie di contribuenti.

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“sociale”) differisce dall’ordinario contratto di partenariato pubblico-privato di cui agli artt. 180 ss., con conseguente diversa disciplina applicabile legata al diverso tipo di “oggetto”, di “causa” e di contraente privato.

Resta fermo quanto disposto dall’art. 179 del d.lgs. n. 50/2016, secondo cui alle procedure di affidamento in mate-ria di (generico) partenariato pubblico-privato (in cui rientrano anche gli interventi di sussidiarietà e il baratto, elenca-ti nel medesimo titolo I) si applicano:

- le disposizioni di cui alla parte I (10), III (11), V (12) e VI (13), in quanto compatibili;

- le disposizioni della parte II, titolo I (14), in quanto compatibili con le previsioni della presente parte, a seconda che l’importo dei lavori sia pari o superiore alla soglia di cui all’art. 35, ovvero inferiore, nonché le ulteriori disposi-zioni della parte II indicate all’art. 164, c. 2; le medesime disposizioni si applicano, in quanto compatibili, anche ai servizi.

Secondo i principi relativi al confronto concorrenziale (15) elencati dall’art. 1 della legge delega n. 11/2016 (16), il codice riconosce quindi la possibilità di concludere contratti di partenariato sociale caratterizzati dalla sinallagmati-cità fra riduzione di tributi locali e lavori eseguiti per la collettività, da ricondursi comunque alla disciplina del codice dei contratti pubblici (art. 179).

Il baratto-contratto di partenariato sociale (a norma dell’art. 190) deve essere stipulato nel rispetto di quanto pre-stabilito dall’ente territoriale nell’apposita deliberazione con cui il comune può decidere di ricorrere a questo tipo di contratti, fissandone – con consistente margine di discrezionalità tecnica – criteri e condizioni di realizzazione.

Si tratta quindi di un contratto soggetto alle disposizioni codicistiche di cui all’art. 179 (ove compatibili) e caratte-rizzato da:

1) criteri e condizioni di stipula necessariamente pre-individuati dall’ente locale (verosimilmente dal consiglio comunale con apposito regolamento, ex art. 42 Tuel, e considerato poi che – in tali casi – occorre regolamentare an-che le agevolazioni tributarie ex art. 52 d.lgs. n. 446/1997; in tal senso anche Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 313/2016). Sono aspetti importanti e delicati perché relativi alla concreta disciplina delle modalità di ricorso a tale strumento, alla fissazione delle relative condizioni, all’individuazione dei partner privati, allo svolgimento delle varie fasi (dalla presentazione dei progetti fino alla fase di controllo-collaudo e dell’effettivo riconoscimento dell’agevolazione);

2) oggetto individuato dalla legge (art. 190 d.lgs. n. 50/2016): si tratta infatti di contratti che devono avere ad og-getto progetti presentati da cittadini (senza preferenza per le iniziative più strutturate rispetto alle iniziative individua-li) in relazione a determinate attività ed a precisi ambiti territoriali; nel contratto di baratto l’attività di interesse gene-rale che il privato (singolo o associato) si impegna a svolgere a favore dell’ente territoriale e della collettività deve essere riconducibile a quelle indicate dall’art. 190, individuata con precisione ed “adeguata” (17) a soddisfare le sot-tese esigenze sociali;

3) equilibrio sinallagmatico del rapporto basato sulla “corrispondenza”: il privato si deve contrattualmente impe-gnare a svolgere dette attività in misura “adeguata” (quindi nel rispetto di standard ed obiettivi da prevedere nel con-tratto di baratto amministrativo) ed a tali attività occorre assegnare un “valore” di scambio sulla cui base riconoscere, quale controprestazione, un certo quantum di agevolazione tributaria (riduzione del tributo anche fino alla sua totale esenzione, ove ammesso dal relativo regolamento tributario) ai fini della necessaria “corrispondenza” che nel baratto deve improntare il rapporto tra attività ed agevolazione (18). Detto valore può non essere di agevole quantificazione, in assenza di dati o parametri oggettivi e circostanziati; in ogni caso le modalità con cui viene quantificato dovrebbe-ro essere preventivamente disciplinate dall’ente nella delibera richiamata dall’art. 190 in materia di criteri e modalità per la stipula di contratti di partenariato sociale e, a fini di trasparenza, nel medesimo contratto si dovrebbe dare mo-tivatamente atto del relativo concreto calcolo. L’avvenuta contrattualizzazione degli strumenti di promozione della sussidiarietà orizzontale determina l’insorgere di un rapporto sinallagmatico tra le prestazioni con conseguente neces-

(10) Parte I del codice, “Ambito di applicazione, principi, disposizioni comuni ed esclusioni”.

(11) Parte III, “Contratti di concessione”.

(12) Parte V, “Infrastrutture e insediamenti prioritari”.

(13) Parte VI, “Disposizioni finali e transitorie”.

(14) Parte II (“Contratti di appalto per lavori servizi e forniture”), titolo I, “Rilevanza comunitaria e contratti sotto soglia”.

(15) Principi di non discriminazione, trasparenza e parità di trattamento.

(16) Concernente le deleghe del Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue in materia di conces-sioni e di contratti pubblici, nonché di riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, sulla cui base è stato adottato il d.lgs. n. 50/2016 (nuovo codice dei contratti).

(17) Al riguardo, l’art. 3, c. 5, Tuel, introducendo il requisito dell’adeguatezza dell’esercizio delle attività istituzionali esercitate su autonoma iniziativa dei cittadini (singoli o associati), impone infatti di individuare parametri normativi su cui valutare tale adeguatezza, magari tramite la sottoscrizione di apposita convenzione con cui il cittadino prenda atto e si impegni al rispetto di tutti i limiti e le regole afferenti all’attività da svolgere.

(18) Si tratta, ad avviso di chi scrive, di prestazioni corrispettive che devono essere in rapporto di corrispondenza, ma non necessa-riamente di equivalenza economica, anche perché nel partenariato sociale il fine comune non è il lucro, bensì l’utilità sociale.

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sità di un loro equilibrio secondo criteri di “corrispondenza” o, teleologicamente, di utilità per la comunità di riferi-mento nell’ambito del recupero del valore sociale della partecipazione alla vita di comunità;

4) la causa (ex lege) del contratto di baratto mira alla realizzazione di una specifica utilità sociale (l’utilità per la comunità di riferimento in un’ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini alla stessa, di cui all’art. 190).

Resta ferma la necessità che le modalità di individuazione del contraente e la procedura contrattuale garantiscano partecipazione, trasparenza, pluralismo e non discriminazione. Come confermato dalle numerose pronunce al riguar-do della Corte dei conti, il ricorso allo strumento del baratto amministrativo non deve determinare l’elusione delle re-gole cogenti di evidenza pubblica (19), né l’aggiramento dei vincoli di finanza pubblica (20), né l’acquisizione di be-ni o servizi in violazione di precisi e puntuali divieti stabiliti dalla normativa finanziaria, anche di carattere quantitati-vo (cfr., ad esempio, l’art. 6 del d.l. n. 78/2010).

Con l’art. 190 il legislatore sembra aver definitivamente abbandonato ogni preconcetta preferenza per le iniziative collettive, accordando paritario rilievo alle iniziative dei singoli (21). Interessante al riguardo il contributo della Corte dei conti (22) secondo cui è legittimo un coinvolgimento di cittadini volontari singoli in attività inerenti le funzioni istituzionali del comune, pur con le necessarie limitazioni che presuppongono una preventiva regolamentazione da parte del comune stesso.

5. Attività di interesse generale e codice del terzo settore

Nel deliberare criteri e condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale gli enti territoriali, pro-prio in considerazione del particolare tipo di attività oggetto di baratto, devono tener conto anche del recente codice del terzo settore (d.lgs. n. 117/2017), entrato in vigore il 3 agosto 2017. La disciplina regolamentare comunale del partenariato sociale deve garantire il rispetto dei principi fondamentali in materia di contratti pubblici (in primis tra-sparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento) anche a tutela dei valori di partecipazione, solidarietà e pluralismo di cui sono espressione gli enti del terzo settore, l’associazionismo, il volontariato, la cultura e la pratica del dono. “Spontaneità” ed “autonomia” – per espressa previsione di legge: art. 2 di tale codice – appaiono caratteri-stiche salienti dell’iniziativa dei cittadini, singoli o associati: si tratta di due aspetti meritevoli di valorizzazione sia in chiave ermeneutica, che nella redazione di eventuali regolamenti e contratti di partenariato sociale ai sensi dell’art. 190 del codice dei contratti.

Il codice del terzo settore rileva, ai fini qui in esame, soprattutto con riferimento agli artt. 1, 2, 5, 55, 56 e 71.

In particolare, all’art. 5 di tale codice sono elencate le attività di interesse generale esercitabili dagli enti del terzo settore in via esclusiva o principale. Tra tali attività (il cui elenco ai sensi dell’art. 5, c. 2, è aggiornabile con d.p.c.m.) figurano, oltre al resto: interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio (lett. f), organiz-zazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale (lett. i), organizzazione e gestione di attività turistiche, di interesse sociale, culturale o religioso (lett. k), riqualificazione di beni pubblici inutilizzati (lett. z).

L’art. 55 del medesimo codice detta principi e disposizioni interessanti anche ai fini dell’operatività del “baratto amministrativo” in esame, con particolare riferimento ai principi ed alla co-progettazione. In base al successivo art. 56 (rubricato “Convenzioni”) le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. n. 165/2001 possono sottoscri-vere, con le organizzazioni del terzo settore, dettagliate convenzioni finalizzate allo svolgimento in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale, se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato.

L’art. 71, c. 2, del codice del terzo settore (rubricato “Locali utilizzati”) prevede ipotesi di “comodato” a favore di enti del terzo settore, mentre il successivo c. 3 individua casi di “concessione a canone agevolato” ad enti del terzo settore: ai sensi di tale norma i beni culturali immobili di proprietà dello Stato, delle regioni, degli enti locali e degli altri enti pubblici – per l’uso dei quali attualmente non è corrisposto alcun canone e che richiedono interventi di re-stauro – possono essere dati in concessione a enti del terzo settore, che svolgono le attività indicate all’art. 5, c. 1, lett. f), i), k), o z), con pagamento di un canone agevolato, determinato dalle amministrazioni interessate, ai fini della ri-qualificazione e riconversione dei medesimi beni tramite interventi di recupero, restauro, ristrutturazione a spese del concessionario, anche con l’introduzione di nuove destinazioni d’uso finalizzate allo svolgimento delle attività indi-

(19) Corte conti, Sez. contr. reg. Molise, n. 21 gennaio 2016, n. 12, in Rep. Foro it., 2016, voce Contratti pubblici, n. 358.

(20) Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 182/2015.

(21) In effetti, l’art. 118, c. 4, Cost., lungi dal dettare preferenze, prevede che le p.a. favoriscano l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà. Anche nell’art. 3, c. 5, Tuel (d.lgs. n. 267/2000) il legislatore considera disgiuntamente e paritariamente i privati cittadini e le organizzazioni di carattere sociale.

(22) Al riguardo, la Corte dei conti (Sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, 3 agosto 2017, n. 54) evidenzia come la suddetta norma costituzionale consideri l’autonoma iniziativa dei cittadini con il medesimo favore (a prescindere dal fatto che detta iniziativa sia ricon-ducibile a singoli cittadini piuttosto che ad aggregazioni organizzate di volontari) arrivando ad ipotizzare la legittimità – a date condizio-ni ed entro certi limiti – di polizze assicurative stipulate dall’ente a favore di volontari singoli impiegati, nell’ambito della disciplina re-golamentare emanata dall’ente, in attività di interesse generale.

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cate (ferme restando le disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lgs. n. 42/2004). Inte-ressante notare come le attività indicate dalle citate lettere dell’art. 5, c. 1, corrispondano alle attività di interesse ge-nerale rilevanti nell’operatività del baratto amministrativo di cui all’art. 190 del d.lgs. n. 50/2016. La suddetta con-cessione d’uso è finalizzata alla realizzazione di un progetto di gestione del bene che ne assicuri la corretta conserva-zione, nonché l’apertura alla pubblica fruizione e la migliore valorizzazione.

Al riguardo appare importante verificare se vi sia parziale sovrapponibilità (23) tra il baratto amministrativo e le convenzioni di co-progettazione laddove la parte privata sia un ente del terzo settore, anche ai fini dell’individuazione della corretta disciplina normativa applicabile. Dato che le norme non sembrano incompatibili tra loro, parrebbe pos-sibile prevedere agevolazioni ex art. 190 destinate a trovare applicazione sulla base delle convenzioni di cui all’art. 56 del codice del terzo settore, ove rientranti nei requisiti regolamentati dal comune in materia di partenariato sociale.

In caso di partenariato con un ente del terzo settore occorre ad ogni modo tener presente il fatto che detto ente rientra di per sé nella nozione comunitaria di “operatore economico”. I principi comunitari qualificano infatti come “operatore economico” qualunque soggetto che offra sul mercato le proprie prestazioni, indipendentemente dalla qua-lifica giuridico-imprenditoriale rivestita. Anche la giurisprudenza, da tempo, ammette l’abilitazione a partecipare alle gare pubbliche in capo a figure del c.d. “terzo settore”, per loro natura prive di finalità lucrative, vale a dire di sogget-ti che perseguano scopi non di stretto utile economico, bensì sociali o mutualistici (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13 set-tembre 2016, n. 3855; 16 gennaio 2015, n. 84; Sez. III, 17 novembre 2015, n. 5249; 27 luglio 2015, n. 3685).

Occorre tuttavia evidenziare che l’art. 143, laddove prevede la possibilità di appalti riservati al terzo settore, non effettua un’individuazione dei soggetti ad esso riconducibili, limitandosi genericamente a richiedere il rispetto degli indicati requisiti. Al riguardo lo stesso d.lgs. n. 117/2017 si mostra lacunoso sia con riguardo alle modalità di selezio-ne dei soggetti del terzo settore, sia in relazione al coordinamento con la disciplina delle gare riservate previste dal codice dei contratti.

Resta però il fatto che il codice del terzo settore nel trattare il tema del partenariato pubblico-privato disciplina un sistema competitivo tra pari, in ossequio ai principi di imparzialità, trasparenza, parità di trattamento.

La Corte di giustizia, cercando un equilibrio tra tutela della concorrenza e promozione della solidarietà, ha giusti-ficato l’affidamento diretto quando esso sia “obiettivamente motivato dall’applicazione dei principi di universalità, solidarietà, efficienza economica e adeguatezza”, nonché dai principi costituzionali e dalla normativa interna a soste-gno del volontariato (24). La stessa Autorità nazionale anticorruzione (Anac) ha dettato apposite linee guida per l’affidamento di servizi ai soggetti del terzo settore e alle cooperative sociali (delib. n. 32/2016), con indicazioni volte ad assicurare l’affidabilità morale e professionale degli operatori, il rispetto dei principi di pubblicità, trasparenza, non discriminazione ed economicità, la qualità delle prestazioni e la migliore soddisfazione dei bisogni dell’utenza.

L’autonoma iniziativa dei cittadini nel baratto amministrativo si traduce in esperienze sociali di collaborazione improntate al principio di sussidiarietà orizzontale sancito dall’art. 118, c. 4, Cost., che mira a valorizzare l’autonomia, la libertà e la responsabilità dei singoli e dei gruppi anche in settori che in precedenza venivano riservati alla competenza esclusiva degli apparati amministrativi. Gli enti pubblici sono, dunque, chiamati a incoraggiare l’estrinsecarsi dell’attività privata finalizzata alla realizzazione di dette esperienze, favorendo, quando possibile, il soggetto privato nello svolgimento dell’attività di interesse generale attraverso opportune attività di programmazione, coordinamento, controllo, promozione ed, eventualmente, anche gestione.

La Sezione autonomie della Corte dei conti (25) ha recentemente ed autorevolmente chiarito che gli interventi di sussidiarietà orizzontale sono aperti anche alla partecipazione libera di volontari singoli, in presenza di modalità di accesso e di svolgimento dell’attività regolamentate in coerenza con le previsioni del codice del terzo settore. A se-conda del tipo di regolamentazione e della effettiva volontarietà e gratuità dell’apporto individuale si potrà ricondurre tale rapporto a puro volontariato o a baratto amministrativo. L’onerosità del contratto di partenariato, nonostante il sotteso fine sociale, impedisce di considerare come “volontariato” l’attività del cittadino barattata con l’agevolazione tributaria: l’attività del volontario è infatti sempre spontanea, personale, gratuita e priva di vincoli, a differenza dell’attività posta in essere in adempimento del contratto di baratto amministrativo, che come tale resta invece sogget-ta alle regole codicistiche dell’evidenza pubblica.

6. Disciplina contrattuale del baratto amministrativo

Il contratto di partenariato costituisce forma di collaborazione dei cittadini con l’amministrazione per la cura, il recupero e lo sviluppo di beni comuni, caratterizzata dall’onerosità della prestazione in virtù del legame esistente con

(23) L’ipotesi di cui all’art. 71, c. 2, in materia di comodato di beni pubblici, non pare invece direttamente riconducibile al baratto

amministrativo, rappresentando un’ulteriore specifica modalità di promozione e supporto della sussidiarietà.

(24) Corte giust., Sez. V, 11 dicembre 2014, C-113/13, in Foro it., 2015, IV, 145, con nota di A. Albanese, La Corte di giustizia ri-medita sul proprio orientamento in materia di affidamento diretto dei servizi sociali al volontariato (ma sembra avere paura del proprio coraggio); 28 gennaio 2016, C-50/14, ivi, 2016, IV, 142, con nota di richiami. La stessa Autorità nazionale anticorruzione (Anac) ha det-tato apposite linee guida per l’affidamento di servizi ai soggetti del terzo settore e alle cooperative sociali (delib. n. 32/2016).

(25) Corte conti, Sez. autonomie, n. 26/2017.

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le previste agevolazioni tributarie. La previsione di un’agevolazione tributaria dimostra una logica economica incom-patibile con lo spirito di solidarietà che contraddistingue l’attività di volontariato, la cui prestazione è personale, spontanea, gratuita e priva di vincoli obbligatori.

Il contratto di “baratto amministrativo” non rientra tra i contratti di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990 e non è quindi soggetto alla relativa disciplina generale: il baratto è infatti disciplinato specificatamente da una norma specia-le (l’art. 190 del d.lgs. n. 50/2016) e non può considerarsi species del genus “contratti integrativi o sostitutivi di prov-vedimento”, perché con il contratto di baratto le parti (ente territoriale e cittadini) non mirano a sostituire convenzio-nalmente un provvedimento, bensì si accordano tra loro affinché determinati compiti di cura in capo all’ente possano essere affidati direttamente ai cittadini che se ne vogliano far carico in cambio di corrispondenti agevolazioni tributa-rie.

Il baratto amministrativo è incluso tra le forme di partenariato pubblico-privato, ma non sembra poter rientrare nella definizione comunitaria di appalto o concessione, con conseguente sua esclusione (26) dall’ambito di applica-zione della relativa disciplina: non ha finalità lucrativa (le agevolazioni sembrano più simili ad una rifusione dei co-sti) e i cittadini non sono “operatori economici” (27), tanto è vero che il baratto appare strumento effettivamente ri-servato (e da riservare) ai non imprenditori (28). Il baratto amministrativo in cui sia parte un privato cittadino non qualificabile come operatore economico, pertanto, pur potendo avere ad oggetto lavori o servizi, non sarebbe soggetto alle norme codicistiche relative ad appalti o concessioni. La medesima disciplina potrebbe invece trovare applicazio-ne laddove parte del baratto sia un ente del terzo settore rientrante nella nozione comunitaria di “operatore economi-co”.

L’ambito di operatività del codice dei contratti (d.lgs. n. 50/2016) è però più esteso di quello delle direttive comu-nitarie: ai sensi del suo art. 1, c. 1, esso trova applicazione ai contratti di appalto e di concessione delle amministra-zioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori aventi ad oggetto l’acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere, nonché ai concorsi pubblici di progettazione; a dette ipotesi si aggiungono poi le casistiche particolari di cui al suc-cessivo c. 2.

La disciplina normativa del contratto di partenariato sociale (“baratto amministrativo”) ex art. 190 d.lgs. n. 50/2016 deve essere pertanto ricercata in via interpretativa rispettandone le caratteristiche, che suggeriscono soluzioni semplici idonee a non scoraggiare o defaticare i cittadini che vogliano cimentarsi, da non professionisti, in queste at-tività sociali e solidali. Tale istituto appare solo tratteggiato dal codice dei contratti, presentando pertanto lacune pro-cedimentali che devono essere colmate dai regolamenti deliberati in materia dagli enti locali che decidano di attivarlo.

Se si ritiene di poter qualificare il contratto di baratto amministrativo come “incluso” nel codice, è possibile rite-nere ad esso applicabili i principi di cui all’art. 30 (libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporziona-lità, pubblicità, antieconomicità, efficacia, tempestività, correttezza). In caso di contratto di partenariato sociale la cui conclusione sia promossa dall’ente, è ipotizzabile che l’ente possa optare per una delle procedure previste dal codice, con preferenza se possibile per quelle più semplificate (ad esempio, quelle dell’art. 36, c. 2), in considerazione del contesto. In caso invece di partenariato su iniziativa dei cittadini, l’ente dovrà selezionare il proprio partner privato attraverso una procedura selettiva rispettosa dei principi di cui al citato art. 30 del codice e da prevedere e descrivere nel regolamento ad hoc che l’ente deve preventivamente deliberare ai sensi dell’art. 190 del codice.

In tale ottica rilevano in particolare:

a) i principi di affidamento di cui all’art. 4 (economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica);

b) i principi di aggiudicazione di cui all’art. 30, con particolare riferimento al c. 1, in cui si afferma la centralità della garanzia di qualità delle prestazioni ed in cui si richiamano principi fondamentali tra cui quello di economicità, che può essere subordinato (nei limiti in cui è espressamente consentito dalle norme vigenti e dal codice) a pre-formalizzati criteri ispirati a esigenze sociali, nonché alla tutela della salute, dell’ambiente, del patrimonio culturale e alla promozione dello sviluppo sostenibile, anche dal punto di vista energetico;

c) le regole per i contratti sottosoglia (art. 36);

d) le cause di esclusione (art. 80 per i requisiti generali).

L’avvenuta “contrattualizzazione” del baratto amministrativo ed il richiamo dell’art. 179 alla disciplina codicistica anche con riferimento agli artt. 189 e 190 (sussidiarietà e baratto amministrativo) fanno sì che i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici – ai sensi dell’art. 40 del d.lgs. n. 163/2006 e del d.p.r. n. 34/2000, e ora dell’art. 84

(26) Art. 3, lett. ii), uu), vv), d.lgs. n. 50/2016.

(27) Art. 3 d.lgs. n. 50/2016: “p) ‘operatore economico’, una persona fisica o giuridica, un ente pubblico, un raggruppamento di tali persone o enti, compresa qualsiasi associazione temporanea di imprese, un ente senza personalità giuridica, ivi compreso il gruppo euro-peo di interesse economico (Geie) costituito ai sensi del d.lgs. 23 luglio 1991, n. 240, che offre sul mercato la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi”.

(28) In tal senso anche Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 313/2016.

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del nuovo codice – debbano essere qualificati, anche nell’ambito di convenzioni concluse tra l’amministrazione e soggetti privati (29) (cfr. Autorità vigilanza contratti, delib. del n. 104/2007 e det. n. 24/2001) (30).

In materia di baratto amministrativo e sussidiarietà orizzontale opera anche il recente codice del terzo settore, che non a caso all’art. 5 individua le “attività di interesse generale” evocate dall’art. 118, c. 4, Cost.; si tratta di un codice che disciplina le attività degli enti, ma che può comunque trovare indiretta applicazione anche nei confronti dei singo-li, sia per analogia che tramite recepimento dei suoi principali principi e criteri nei regolamenti in materia degli enti locali.

Lo stesso art. 190 elenca le tipologie di attività in relazione alle quali è destinato ad operare. Parrebbe trattarsi di elenco tassativo, come già ipotizzato per l’art. 24 del d.l. n. 133/2014: il parallelismo tra le due norme è agevole, an-che perché le attività a tal fine elencate dall’art. 190 corrispondono tendenzialmente a quelle già richiamate nell’art. 24 del d.l. n. 133/2014; anzi, il testo dell’art. 190 omette di riportare la generica formula di chiusura dell’art. 24, che ammetteva “in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano”. Al riguardo, nell’art. 190 si segnala però un’importante novità: l’introduzione dell’attività di valorizzazione di aree verdi, piazze o strade mediante iniziative culturali di vario genere, destinata ad ampliare significativamente la tipologia di attività su cui svolgere la progettazione finalizzata alla conclusione di contratti di partenariato sociale. I contratti di partenariato sociale riconducibili al baratto amministrativo si caratterizzano quindi per l’aver necessariamente ad oggetto l’elaborazione e realizzazione di progetti afferenti ad una delle ivi elencate attività e tipologie di beni (31).

Ammesso che l’espressione “progetto” sia usata in senso tecnico (e che quindi occorra un progetto con le caratte-ristiche di cui all’art. 23 del codice dei contratti), ai fini della realizzazione di un contratto di partenariato la delibera dell’ente con cui sono regolamentati criteri e condizioni dovrà indicare il richiesto livello di progettazione.

In base al codice il progetto per i lavori normalmente si articola su tre livelli, per i servizi su uno solo. Nel baratto l’iniziativa dei privati concorre e convive con quella assunta dall’ente territoriale, per cui:

a) in caso di iniziativa di partenariato da parte dell’ente territoriale, in base alle regole generali dovrebbe ricadere sull’ente solo il primo livello di progettazione, mentre gli altri due livelli restano a carico dei privati;

b) in caso di iniziativa privata, il progetto presentato dai privati deve essere tale da consentire l’esecuzione dell’intervento con rispetto delle norme codicistiche sui livelli e contenuti della progettazione. La finalità sociale dell’intervento però consente forme di affiancamento e assistenza da parte dell’ente territoriale.

Il mantenimento entro limiti di importo che non necessitano di qualificazione della stazione appaltante permette maggior snellezza e flessibilità sia organizzativa che funzionale.

Per un ottimale funzionamento dell’istituto appare importante che l’ente riesca a dotarsi di idonea struttura orga-nizzativa che segua questi contratti e la relativa realizzazione, garantendo anche adeguati controlli di qualità.

Il ruolo dell’ente deve essere non solo propositivo (quando esso stesso si faccia promotore di qualche progetto di partenariato sociale), ma anche di supporto tecnico e progettuale, di coordinamento esecutivo e di controllo finale. Appare quindi coerente che anche in tali casi venga individuato un Rup e, in caso di partenariato avente ad oggetto “lavori”, un direttore dei lavori (in caso di lavori occorre anche prevedere un collaudo finale); in caso invece di parte-nariato avente ad oggetto “servizi” occorre nominare un direttore dell’esecuzione e prevedere una verifica di confor-mità.

Ad ogni modo, posto che il partenariato sociale si fonda su una logica molto diversa dai partenariati pubblico-privati (caratterizzati dall’allocazione del rischio a carico del privato, dalla centralità del piano economico-finanziario, ecc.), non è ipotizzabile un’acritica ed automatica sua assoggettabilità alla relativa integrale disciplina.

7. La valutazione della convenienza del ricorso al baratto e l’accessibilità a tale strumento

Secondo la Corte dei conti (32), l’ente territoriale è tenuto ad assicurare una gestione economica dei beni pubblici, così da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie. Ciò in attuazione del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.), declinabile in primis nell’economicità della gestione amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990).

Conseguentemente l’azione amministrativa deve:

- da un lato, garantire livelli ottimali di soddisfazione dell’interesse pubblico generale attraverso l’impiego di ri-sorse proporzionate;

(29) Ciò peraltro in linea con quanto già precedentemente deciso in una fattispecie riferita all’art. 15 del d.lgs. n. 228/2001, che pre-

senta molte analogie con la ipotesi in esame (parere Anac 4 novembre 2010, n. AG40-10).

(30) In tal senso, Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 313/2016, cit.

(31) a) pulizia, manutenzione, abbellimento, valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere – bene di riferimento: aree verdi, piazze o strade; b) decoro urbano, recupero e riuso con finalità di interesse generale – bene di riferimento: aree e beni immobili inutilizzati.

(32) Corte conti, Sez. contr. reg, Veneto, 5 ottobre 2012, n. 716, in questa Rivista, 2013, fasc. 1-2, 210.

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- dall’altro, conseguire il massimo valore ottenibile dall’impiego delle risorse a disposizione (33).

Il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un inte-resse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni (come nelle ipotesi di cui all’art. 32, c. 8, l. n. 724/1994 e all’art. 32 l. n. 383/2000) (34).

In tali ipotesi la mancata redditività del bene è comunque compensata (35) dalla valorizzazione di un altro bene ugualmente rilevante che trova il suo riconoscimento e fondamento nell’art. 2 della Costituzione.

Sono però eccezioni che fanno riferimento ad una categoria ben individuata di soggetti e che sono giustificate solo dall’assenza di scopo di lucro (da accertarsi in concreto (36)) dell’attività concretamente svolta dal soggetto destinata-rio di tali beni.

Ai fini di una legittima deroga al principio di redditività, in qualsiasi atto di disposizione di un bene appartenente al patrimonio comunale occorre accertare:

- la concreta assenza di uno scopo di lucro;

- il rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità e le norme regolamentari dell’ente.

Se la disposizione del bene è attuata con un provvedimento amministrativo, la concessione ad un soggetto di un’utilità a condizioni diverse da quelle previste dal mercato concretizza un “vantaggio economico” (37) ai sensi dell’art. 12 della l. 7 agosto 1990, n. 241.

Secondo il principio affermato dalla stessa Corte dei conti (38), la scelta di disporre di un bene pubblico ad un ca-none di importo diverso da quello corrispondente al suo valore di mercato deve avvenire a seguito di “un’attenta pon-derazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale (39) dell’ente, in cui però deve tenersi nella massima considerazione l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestio-ne del patrimonio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, c. 6, Cost.)”.

Al riguardo sono da soppesare sia l’economicità del ricorso al partenariato sociale (in termini di risparmio di costi per l’ente rispetto ad un affidamento sul mercato), sia gli altri misurabili vantaggi che lo rendano comunque più con-veniente anche in caso di sua eventuale anti-economicità.

Pertanto, i comuni, nell’individuare le fattispecie su cui rendere operativo il baratto, devono prioritariamente rego-lamentare appositi parametri per misurarne e valutarne economicamente i vantaggi (anche in termini di sviluppo so-ciale, culturale, ecc., della comunità). Al riguardo la delibera di approvazione del relativo regolamento, sebbene non soggetta ad onere motivazionale ai sensi della l. n. 241/1990, potrà opportunamente dare atto della suddetta valuta-zione a dimostrazione della ragionevolezza e del carattere non discriminatorio delle scelte effettuate.

Lo stesso art. 30, c. 1, del codice dei contratti consente di derogare al criterio dell’economicità in presenza di una apposita norma di legge: nel caso del baratto, l’art. 190 del codice non prevede nulla al riguardo, tuttavia è possibile rinvenire tale presupposto di legge nell’ordinamento degli enti locali e delle loro funzioni sociali – compresa la disci-plina degli enti del terzo settore (ad esempio, l’art. 71 del d.lgs. n. 117/2017, il codice del terzo settore) –, in cui sono previste ipotesi di deroga alla gestione economica dei beni pubblici con compensazione della mancata redditività del bene attraverso la valorizzazione di un altro bene di pari rilevanza.

L’ente dovrebbe garantire, comunque, un’adeguata forma di pubblicità anche laddove l’atto di affidamento fosse di diritto privato.

(33) In questo senso si è espressa anche Corte conti, Sez. reg. contr. Veneto, n. 33/2009, che ha affermato, con riferimento alla ces-

sione gratuita di un immobile comunale, come questa non possa considerarsi una modalità tipica di valorizzazione del patrimonio proprio perché “non reca alcuna entrata all’ente e costituisce un utilizzo non coerente con le finalità del bene, ma addirittura una fonte di depau-peramento e, dunque, di danno patrimoniale per l’ente”.

(34) Al riguardo rilevano sia l’art. 32, c. 8, l. 23 dicembre 1994, n. 724 (in ordine alla considerazione degli “scopi sociali” che posso-no giustificare un canone inferiore a quello di mercato per la locazione di beni del patrimonio indisponibile dei comuni), sia l’art. 32 del-la l. 7 dicembre 2000, n. 383 (che consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non uti-lizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali).

(35) In questo senso anche Corte conti, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 349/2011.

(36) La sussistenza o meno dello scopo di lucro (inteso come attitudine a conseguire un potenziale profitto d’impresa) deve essere accertata in concreto, verificando non solo lo scopo o le finalità perseguite dall’operatore, ma anche e soprattutto le modalità concrete con le quali viene svolta l’attività che coinvolge l’utilizzo del bene pubblico messo a disposizione.

(37) In questo senso, Corte conti, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 349/2011, cit.

(38) Cfr. Corte conti, Sez. reg. contr. Veneto, n. 33/2009, cit., in cui viene anche ribadito che “l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione dei principi di buon andamento e di sana gestione ed impone all’ente di ricercare tutte le alternative possibili che consentano un equo temperamento degli interessi in gioco, adot-tando la soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor sacrificio possibile degli interessi compresenti”.

(39) La valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco e la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto disposi-tivo sono rimesse esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento.

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L’utilità con cui viene barattato lo svolgimento dell’attività di interesse generale è un qualcosa di strumentale alla realizzazione del comune fine sotteso allo stesso contratto di baratto di cui all’art. 190 del codice: nel partenariato so-ciale si attua una condivisione di risorse finalizzate a creare, con la realizzazione dell’attività di interesse generale, l’utilità sociale a cui è finalizzato il contratto.

Con tale contratto si realizza una solidale compartecipazione pubblico-provata alla progettazione e gestione di at-tività di interesse generale in funzione della creazione dell’utilità sociale richiamata dalla stessa norma.

Secondo la Corte dei conti, Sezione di controllo del Veneto (delib. n. 313/2016) la prestazione lavorativa a favore di un comune può essere effettuata solo nell’ambito del rapporto di pubblico impiego legalmente instaurato, ragion per cui le “prestazioni richieste ai beneficiari di provvidenze comunali stanziate [...] non possono che rivestire forme di collaborazione sociale senza corrispettività con il contributo economico elargito”. La stessa sezione (40) ha anche osservato che l’art. 24 del d.l. n. 133/2014 e gli artt. 189 e 190 del d.lgs. n. 50/2016 si riferiscono a fattispecie in parte diverse, pur essendo accomunate dalla prospettiva di esaltazione del principio di sussidiarietà, che viene anzi assunto espressamente (già nella rubrica dell’art. 189) come canone dell’azione amministrativa nell’ambito relativo alla tutela del territorio e della sua manutenzione e che si traduce, in concreto, nel consentire alle amministrazioni interessate la possibilità di adottare forme procedimentali estremamente semplificate. In caso di interventi e situazioni caratterizzati da assenza di controprestazione (41), si verte in ipotesi diverse dal “baratto amministrativo” (caratterizzato, oltre che dalla coattività, anche dal legame sinallagmatico tra agevolazioni ed attività barattate) (42). In tale ottica l’attività og-getto di baratto realizzata dal privato deve quindi intendersi liberamente offerta ed eseguita senza profili di corrispet-tività economica con il beneficio offerto dall’ente; il contratto di baratto amministrativo disciplina tale attività nell’ottica di una sua co-progettazione e può essere assimilato alle convenzioni di cui al codice del terzo settore.

Si segnala, al riguardo, la diversa sensibilità della Corte dei conti, Sezione di controllo della regione Puglia (delib. 30 giugno 2017, n. 95, in materia di servizio civico comunale (43)), secondo cui il “baratto” di cui all’art. 190 è uno scambio di utilità tra p.a. e singolo-aggregazione sociale in cui non trovano applicazione le regole del volontariato (per il quale è concepibile il solo rimborso spese) (44).

Circa l’accessibilità al “baratto amministrativo” da parte delle imprese, la già citata Corte dei conti Veneto (45) – pur riconoscendo la differenza tra impresa e operatore economico, ai fini del codice dei contratti (ma sottolineando che in ogni caso la seconda definizione ricomprende in sé la prima: art. 3, c. 1, lett. p, d.lgs. n. 50/2016) – sottolinea il rischio di elusione delle regole di evidenza pubblica e dell’obbligo del confronto concorrenziale (Corte giust. 12 lu-glio 2001, in causa C-399/98) ove queste misure fossero utilizzabili da parte delle imprese.

Peraltro, anche il Consiglio di Stato (46) ha escluso l’utilizzabilità del “baratto amministrativo” a favore di impre-se, rilevando come in tale prospettiva le imprese (e gli eventuali aiuti alle stesse) nulla abbiano a che fare con il fe-nomeno della sussidiarietà orizzontale. Un’eventuale convergenza fra interessi dei soggetti imprenditoriali privati e interessi degli enti locali non rappresenterebbe, ad avviso dei giudici, un’espressione di sussidiarietà orizzontale.

8. Le agevolazioni barattabili

Gli enti locali che abbiano optato per dotarsi di criteri e condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale sono obbligati – stante l’espressa e perentoria previsione di cui all’art. 190 stesso – ad individuare riduzioni o esenzioni di tributi corrispondenti al tipo di attività svolta dal privato o dall’associazione, ovvero comunque utili alla comunità di riferimento in un’ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini alla stessa.

(40) Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 313/2016, cit.

(41) Al riguardo, Corte conti, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 123/2015.

(42) Conclude pertanto sul punto la citata Corte conti Veneto evidenziando come – su tali basi – le prestazioni richieste ai beneficiari di provvidenze comunali stanziate siano da ricondurre a forme di collaborazione sociale senza corrispettività con il contributo economico elargito. In caso contrario ne deriverebbero oneri riflessi, fiscali, assistenziali e contributivi a carico dell’ente territoriale di difficile con-figurabilità pratica e giuridica (Sezione contr. reg. Lombardia, n. 123/2015, cit.).

(43) Per Corte conti, Sez. contr. reg. Puglia, n. 95/2017 la qualità di volontario è infatti incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa parte. In senso con-trario, per quanto riguarda la rilevanza dell’apporto individuale del volontario, Corte conti, Sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 54/2017, cit.

(44) Recentemente, Corte conti, Sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia (delib. n. 54/2017, cit.), ha sostenuto – in controtendenza – di ritenere legittima la stipula, con relativo accollo degli oneri da parte dell’ente, di polizze assicurative a favore dei volontari singoli impie-gati (nell’ambito della disciplina regolamentare emanata dall’ente) in attività di interesse generale, con conseguente rimessione degli atti al presidente della Corte dei conti. Conseguentemente si è pronunciata la Sezione delle autonomie nella delib. n. 26/2017, cit., enuncian-do il seguente principio di diritto: “Gli enti locali possono stipulare, con oneri a loro carico, contratti di assicurazione per infortunio, ma-lattia e responsabilità civile verso terzi a favore di singoli volontari coinvolti in attività di utilità sociale, a condizione che, con apposita disciplina regolamentare, siano salvaguardate la libertà di scelta e di collaborazione dei volontari, l’assoluta gratuità della loro attività, l’assenza di qualunque vincolo di subordinazione e la loro incolumità personale”.

(45) Nella già richiamata Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 313/2016.

(46) Decisione 20 marzo 2000, n. 1493, parere 2691/02, in Ad. 5-II-2003; parere 1440/03 in Ad. 25-VIII-2003.

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Rispetto a quanto previsto dall’art. 24 del d.l. n. 133/2014, le riduzioni ed esenzioni che gli enti territoriali devono riconoscere in caso di contratti di partenariato sociale appaiono – oltre che necessitate – assai discrezionali.

Anche nel nuovo contesto dell’art. 190 queste agevolazioni tributarie devono trovare fondamento in atti di natura regolamentare soggetti, come tali, al vaglio di legittimità del giudice amministrativo.

La formulazione dell’art. 190 prescinde dal concetto di “inerenza” (cui erano invece legate le agevolazioni tributa-rie deliberabili ai sensi dell’art. 24 del d.l. n. 133/2014), optando per un non meglio definito requisito di “corrispon-denza”: conseguentemente, stante questa evidente scelta di discontinuità, appare difficile poter interpretare il nuovo requisito della “corrispondenza” in modo sostanzialmente analogo a quello dell’inerenza.

Incerto, in questo contesto, se “corrispondenti” al tipo di attività svolta debbano essere le riduzioni o esenzioni in sé (il termine “corrispondenti” si presta, in effetti, ad evocare il concetto di “corrispettivo”, quindi di equivalenza economica quale controprestazione) o, genericamente, i tributi oggetto di riduzione-esenzione; in quest’ultimo caso andrebbe capito in cosa debba consistere tale “corrispondenza” e in che cosa si differenzi dalla non richiamata “ine-renza”.

Ad avviso di chi scrive, il requisito della corrispondenza nel contesto del baratto è legato all’agevolazione e alla sua individuazione-quantificazione, in combinato disposto con il criterio di adeguatezza.

Più difficile ipotizzare la corrispondenza come criterio di individuazione del tributo in sé: oggetto di agevolazione sembra poter essere un qualunque tributo (non necessariamente inerente, come invece nell’art. 24), fermi restando gli impliciti limiti legati al tipo di tributo ed al necessario rispetto dei principi (ad esempio, ragionevolezza, non discri-minazione) ed obblighi (ad esempio, il dovere di concorso alle spese pubbliche) di matrice costituzionale e generale.

Come già osservato dalla Corte dei conti (47), deve ritenersi sostanzialmente illecita qualsiasi azione o omissione volta a procrastinare l’adempimento degli obblighi tributari espressione di ineludibili doveri di solidarietà (art. 23 Cost.) e la cui inosservanza determina sperequazioni non accettabili rispetto a chi osserva tempestivamente e scrupo-losamente gli obblighi medesimi (ex multis, anche Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, 23 settembre 2015, n. 527).

Secondo la sezione, “la prestazione offerta dal cittadino, infatti, non solo deve corrispondere, in valore, alla misu-ra delle imposte locali agevolate, ma la relativa delibera assunta dall’ente pubblico territoriale deve altresì motivare la decisione di avvalersi dell’istituto del baratto sulla base di una attenta valutazione di tutti gli interessi coinvolti che dimostri la convenienza, anche economica, della scelta effettuata. Ciò vale quindi per le prestazioni dedotte in rela-zione all’adempimento della c.d. Tari, ma pone nel contempo non marginali interrogativi – a cui deve dare risposta l’apposita delibera adottata dall’ente in virtù delle norme citate – circa la latitudine della misura del c.d. baratto am-ministrativo, con riferimento all’adempimento di tributi aventi vincolo di destinazione, come ad esempio l’imposta di soggiorno: dovendosi infine escludere l’applicabilità dell’istituto alle entrate extratributarie, alla luce del chiaro detta-to della norma”.

Certo è che le molteplici possibilità interpretative del suddetto requisito espongono a contenzioso ed al rischio di strumentalizzazione dell’agevolazione.

A ciò si somma la grande elasticità concessa – sempre in tema agevolazioni tributarie – dall’altro requisito (alter-nativo e residuale) di legge: infatti secondo l’art. 190 a “giustificare” riduzioni o esenzioni di tributi è sufficiente la circostanza che esse siano “comunque utili alla comunità di riferimento in un’ottica di recupero del valore sociale del-la partecipazione dei cittadini alla stessa”. Qui il requisito si dilata enormemente trasformandosi in un requisito fun-zional-teleologico privo (quanto meno ad un primo esame) di oggettivi punti di riferimento.

La declinazione del concetto di “utilità” nei confronti della comunità di riferimento e l’ipotizzare in cosa consista l’ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini si prestano a valutazioni molto variegate e dif-formi, anche qui con il rischio di lasciare eccessivi spazi a facili strumentalizzazioni. La discrezionalità concessa all’ente territoriale appare davvero vasta, fermo restando che questa utilità – per forza di cose da ipotizzarsi ex ante – va verificata ex post quanto meno a fini conoscitivi, di rendicontazione e orientativi per le scelte future.

C’è un’altra importante considerazione da fare, che accomuna sia questo istituto che quello dell’oggi abrogato art. 24 del d.l. n. 133/2014: regolamentare agevolazioni tributarie significa ragionare di obbligazioni tributarie future, non di debiti tributari maturati in relazione ad annualità pregresse ed ormai consolidati.

La Corte dei conti (48) si era già espressa negativamente con riferimento all’art. 24 del d.l. n. 133/2014, e tale de-libera sembrerebbe poter trovare applicazione, per questi aspetti, anche all’istituto dell’art. 190 del d.lgs. n. 50/2016.

Pertanto, anche laddove in questo nuovo contesto il tema della “barattabilità” debito-attività sussidiaria tornasse a ripresentarsi sotto nuove sembianze (49), svincolato dal requisito dell’inerenza, ad alimentare dubbi ostativi restereb-

(47) Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 313/2016, cit.

(48) Corte conti, Sez. contr. reg. Emilia-Romagna, n. 27/2016, cit., che boccia la possibilità di consentire che l’adempimento di tribu-ti locali – anche di esercizi finanziari passati confluiti nella massa dei residui attivi dell’ente stesso – possa realizzarsi sotto forma di da-tio in solutum, ex art. 1197 c.c., da parte del cittadino debitore che baratti il tributo dovuto con lo svolgimento di una delle attività di cura o valorizzazione del territorio comunale previste dalla norma.

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bero gli effetti pregiudizievoli sugli equilibri di bilancio riconducibili a contratti di baratto aventi ad oggetto i già ma-turati debiti tributari del cittadino (a maggior ragione quelli iscritti nei residui attivi dell’ente).

Si segnala tuttavia al riguardo la posizione assunta dalla Corte conti, Sezione di controllo per il Veneto (50), che sembra ammettere la possibilità – in regime di art. 190 – di “compensazione” tra debiti (o crediti) di cui uno solo esi-stente (essendo l’altro futuro e peraltro del tutto eventuale) unicamente a seguito dell’integrale e soddisfacente realiz-zazione dell’opera o del servizio (in tal senso, Sez. contr. reg. Molise n. 12/2016).

La medesima Corte dei conti (51), interrogata sulla barattabilità di debiti tributari di un’impresa, ha osservato co-me la l. n. 11/2016 (52) riconfermi la possibilità di concludere contratti di partenariato sociale contemplando nuova-mente il sinallagma fra riduzione di tributi locali e lavori eseguiti per la collettività, ma riconducendolo tuttavia defi-nitivamente all’alveo del codice dei contratti pubblici, retto in primis dai principi (art. 1 l. n. 11/2016) del confronto concorrenziale.

In base all’art. 179 del d.lgs. n. 50/2016 le norme del codice si applicano anche alle casistiche di cui agli artt. 189 e 190: in attuazione dei principi contenuti nella l. n. 11/2016, l’art. 189 del codice prevede espressamente l’affidamento in gestione “nel rispetto dei principi di non discriminazione, trasparenza e parità di trattamento”.

Proprio alla luce dell’avvenuta inclusione dell’istituto del baratto amministrativo all’interno del nuovo codice dei contratti, la medesima sezione osserva che, qualora il comune decidesse di esercitare le facoltà concesse dagli artt. 189 e 190, tutti i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici (53) dovrebbero essere qualificati, anche nell’ambito di convenzioni concluse tra l’amministrazione e soggetti privati (54).

La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia (delib. 24 giugno 2016, n. 172), ha confermato la possibilità, a determinate condizioni, di accordare agevolazioni tributarie ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 50/2016 evidenziando:

a) come tale norma preveda “circostanziate riduzioni-esenzioni di tributi corrispondenti al tipo d’attività svolta dal privato”;

b) l’esclusione della barattabilità di tributi locali relativi ad esercizi finanziari passati e confluiti nella massa dei residui attivi;

c) l’ammissibilità – per quanto concerne i crediti di natura extratributaria – del ricorso al baratto amministrativo (salva verifica della natura disponibile di tali crediti);

d) l’impossibilità di compensare i debiti del contribuente verso il comune con la realizzazione di appalti di lavori-opere-servizi affidati senza gara (55).

Interessante è l’excursus con cui la medesima Corte inquadra il tema della barattabilità ex art. 190 dei crediti non tributari (connessi ad esempio con l’erogazione di servizi pubblici o di prestazioni a domanda individuale), in linea di principio aventi natura disponibile (56). L’assenza di una norma specifica di divieto, unitamente alla carenza di una previsione legislativa speculare all’art. 190 del d.lgs. n. 50/2016, fa propendere i giudici per l’applicazione del princi-pio generale previsto dall’art. 1, c. 1-bis, l. n. 241/1990, laddove il credito dell’ente territoriale rivesta natura extratri-butaria (salva la qualificazione dell’entrata extratributaria come indisponibile e salva la previsione legale della sua destinazione, in tutto o in parte, ad altro ente pubblico o allo Stato). Come rimarcato dai giudici, la capacità generale della pubblica amministrazione è conformata da norme peculiari che la limitano e la regolano: nel caso in esame rile-vano le regole di contabilità pubblica (r.d. n. 2440/1923 e r.d. n. 827/1924), le norme in tema di enti locali (art. 204

(49) Ai sensi dell’art. 190, il “baratto” acquista infatti forma contrattuale (partenariato sociale) e si svincola dal requisito

dell’“inerenza” valorizzato Corte conti, Sez. contr. reg. Emilia-Romagna, parere n. 27/2016, cit., avente ad oggetto l’art. 24 del d.l. n. 133/2014.

(50) Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 313/2016, cit., par. IV.2.

(51) Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 313/2016, cit.

(52) Legge concernente le deleghe del Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue in materia di concessioni e di contratti pubblici, nonché di riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.

(53) Ai sensi dell’art. 40 del d.lgs. n. 163/2006 e del d.p.r. n. 34/2000, e ora dell’art. 84 del nuovo codice.

(54) Cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 104/2007 e n. 24/2001. Ciò peraltro in linea con quanto già precedente-mente deciso in una fattispecie riferita all’art. 15 del d.lgs. n. 228/2001, che presenta molte analogie con la ipotesi in esame (parere Anac 4 novembre 2010, n. AG40-10, cit.).

(55) Nella medesima delibera della Corte dei conti trovano espressa conferma i seguenti salienti aspetti oggetto della precedente di-samina relativa all’art. 190:

1) l’area d’intervento concerne i servizi strumentali, le iniziative culturali e il recupero di beni pubblici;

2) l’utilità retrocessa dall’amministrazione per la prestazione eseguita non prevede lucro, bensì riduzione o esenzione di tributi corri-spondenti all’attività svolta dal privato o dall’associazione, in funzione dell’utilità che ne deriva alla pubblica amministrazione locale;

3) il baratto amministrativo necessita di previa regolamentazione a carattere generale, riveste natura temporanea (con progetti finaliz-zati), ambiti territoriali limitati e non può riguardare i debiti tributari pregressi.

(56) Corte conti, Sez. contr. reg. Lombardia, 24 giugno 2016, n. 172, in questa Rivista, 2016, fasc. 5-6, 207, con nota di richiami.

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Tuel), i principi dell’evidenza pubblica nella formazione dei contratti e le discipline comunitaria e nazionale in mate-ria di appalti pubblici (d.lgs. n. 50/2016), particolarmente rispettose dei profili della procedura selettiva nella scelta dei soggetti ammessi alle agevolazioni, della parità di trattamento di medesime situazioni soggettive, della trasparen-za dell’azione amministrativa, della forma scritta ad substantiam di ogni contratto stipulato dalla pubblica ammini-strazione, della non discriminazione. L’inderogabilità delle norme in tema di contratti d’appalto con la pubblica am-ministrazione, nonché l’attuazione indefettibile dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione è stata, peraltro, ribadita da una recente pronuncia resa dalla Sezione regionale di controllo per il Molise (delib. n. 12/2016), sulla cui base va esclusa la possibilità di compensare i debiti del contribuente verso il comune con la realizzazione di appalti di lavori, di opere o di servizi affidati senza gara.

Emerge quindi – nella delibera della suddetta Corte – un quadro in cui nel ricorrere al baratto amministrativo di cui all’art. 190 l’ente deve:

1) assicurare la corretta gestione delle entrate (anche extratributarie), che soggiacciono ai principi in tema di equi-libri e di vincoli di bilancio, affinché sia scongiurato il rischio di diminuzione di entrate derivante da politiche espan-sive sul baratto amministrativo;

2) concepire il baratto amministrativo quale strumento sussidiario e complementare per assicurare forme di parte-nariato sociale, nel rispetto della salvaguardia dei vincoli e degli equilibri finanziari dell’ente territoriale;

3) predeterminare – in attuazione dei vigenti principi di legalità finanziaria – fattispecie tipizzate (quali forme la-tamente compensative per l’adempimento di debiti extratributari) basate sulla sostituzione della prestazione personale in luogo del pagamento dell’originaria obbligazione pecuniaria.

Al riguardo vengono offerte preziose indicazioni:

a) l’attività personale sostitutiva non può che estrinsecarsi su base volontaria al servizio della collettività di riferi-mento;

b) sotto il profilo contabile, la quantificazione in termini monetari della prestazione sostitutiva dovrà essere prede-terminata e congruamente correlata alla natura dell’attività da svolgere, secondo criteri obiettivi riferibili alla durata della prestazione (oraria o giornaliera) o al risultato da raggiungere, con previsione degli oneri riflessi, anche di tipo assicurativo e antinfortunistico;

c) l’amministrazione dovrà porre in essere gli strumenti di controllo necessari ad assicurare che la prestazione so-stitutiva sia effettivamente eseguita e/o che il risultato prefissato sia completamente raggiunto, prima di procedere al-la contabilizzazione dell’utilitas a sgravio, compensazione o riduzione del credito extratributario;

d) gli interventi di “perimetrazione” del baratto amministrativo trovano adeguata attuazione nella predisposizione di appositi bandi pubblici che, sotto il profilo soggettivo, individuino aprioristicamente i beneficiari ammessi alle pre-stazioni sostitutive secondo criteri neutrali, idonei a graduare le situazioni di disagio sociale (ad esempio mediante certificazione Isee) o di difficoltà economica derivante da eventi non colposi (ad esempio, morosità incolpevole per perdita di attività lavorativa); e che, sotto il profilo oggettivo, delimitino gli ambiti, i tempi e i modi di resa dell’attività socialmente utile o del servizio;

e) la riscossione agevolata, la riduzione e, in extrema ratio, l’esenzione dal pagamento del credito extratributario potranno riguardare il montante del debito pregresso secondo modalità che comunque garantiscano la correlazione fra quanto dovuto e la prestazione sostitutiva da eseguirsi a beneficio della collettività, a condizione che tali forme di ba-ratto amministrativo non arrechino un vulnus agli equilibri di bilancio dell’ente territoriale e non generino fenomeni elusivi dell’adempimento di obbligazioni regolarmente contratte dal cittadino con l’amministrazione di riferimento.

9. Conclusioni

Sintetizzando i punti salienti di questa analisi è possibile trarre le seguenti conclusioni:

1) il baratto amministrativo di cui all’art. 190 del codice dei contratti – quale strumento meramente sussidiario e complementare – è un contratto (definito di partenariato sociale) distinto ed autonomo dalle altre forme di sussidiarie-tà (come quelle degli artt. 189 e 191 del medesimo codice).

In particolare, il baratto amministrativo ha ad oggetto ex lege due specifiche tipologie di beni immobili:

- le aree verdi, le piazze e le strade;

- le aree e gli immobili inutilizzati.

Conseguentemente, non potrà ad esempio contemplare ipotesi di progetti relativi ad immobili utilizzati, o da co-struire ex novo, posto che le stesse attività contemplate dall’art. 190 fanno riferimento a prestazioni di servizi (manu-tenzione, pulizia, ecc.) o all’effettuazione di lavori finalizzati al recupero o al riuso.

Interessante notare come il nesso tra baratto e attività sussidiarie contempli interventi (recupero e riuso) espressio-ne della nuova visione urbanistica ispirata alla rigenerazione urbana, già emergente in molte normative regionali (57);

(57) Tra cui la l. reg. Emilia-Romagna n. 24/2017.

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2) il baratto, quale contratto, trova disciplina nel codice dei contratti. Occorre però ricostruire quali norme contrat-tuali siano effettivamente applicabili a questo tipo di partenariato. Una prima esplicita indicazione in tal senso è offer-ta dall’art. 179 del codice stesso. Inoltre la disciplina applicabile pare poter essere diversa a seconda che il contraente sia un privato cittadino piuttosto che un’associazione riconducibile agli enti del terzo settore: infatti nel primo caso il cittadino non è qualificabile come “operatore economico” ai sensi della normativa comunitaria, per cui il relativo contratto non è soggetto alla relativa disciplina, con conseguente maggior snellezza ed informalità procedimentale; se però il contraente privato è riconducibile al mondo del terzo settore e quindi rientra tra gli operatori economici trova applicazione la suddetta disciplina comunitaria, fermi restando comunque gli specifici regimi di riserva previsti sia dal codice dei contratti che dal codice del terzo settore;

3) il contratto di baratto amministrativo vede stabiliti dalla legge (art. 190) in modo abbastanza puntuale il tipo di attività e relativi beni coinvolti, il novero dei soggetti interessati dall’applicazione dell’istituto, le prestazioni baratta-bili (“progetti” in cambio di agevolazioni “corrispondenti”), la finalità di utilitas sociale.

L’attività personale sostitutiva deve estrinsecarsi su base volontaria al servizio della collettività di riferimento.

La stipula del contratto di baratto sembra poter essere promossa, da regolamento, sia su iniziativa di parte privata che dell’ente territoriale. Non appare ipotizzabile il ricorso al baratto amministrativo da parte di un’impresa profit, mentre restano perplessità con riferimento all’impresa sociale: la preoccupazione è quella di evitare sia l’elusione del-le regole di evidenza pubblica e dei vincoli di finanza pubblica, che la violazione di specifici divieti imposti dalla normativa finanziaria. Tant’è che anche per il baratto amministrativo appare doveroso selezionare il partner privato in modo semplificato, ma pur sempre rispettoso dei principi di evidenza pubblica, a garanzia del buon andamento dell’attività e dei principi di uguaglianza e non discriminazione. L’avvio del baratto si incentra su un “progetto”, che deve essere presentato dal proponente secondo modalità e tempi che spetta all’ente territoriale regolamentare. Questa progettualità distingue il baratto dagli interventi di sussidiarietà di cui all’art. 189 del codice, basati invece su mere proposte operative di pronta realizzabilità presentate all’ente tramite il procedimento descritto dalla stessa norma soggetto a silenzio-diniego;

4) il contratto in esame, come tale, è chiamato a bilanciare le esigenze di tutela della concorrenza del mercato e di stabilità della finanza pubblica con la tutela e la promozione dell’interesse pubblico allo sviluppo sociale, a cui è te-leologicamente orientata la causa stessa del (contratto di) partenariato sociale di cui all’art. 190 del codice.

Ciò alla luce della recente apertura dell’Unione europea che, in materia di contratti pubblici, ha manifestato l’intenzione di rafforzare l’integrazione comunitaria anche sotto l’aspetto sociale attraverso il ricorso a strumenti di sussidiarietà orizzontale che operano su un piano diverso da quello del mercato (ad esempio, appalti riservati, parte-nariato per l’innovazione, clausole sociali). Ad ogni modo, essendo contratto pubblico, è anch’esso soggetto alla rela-tiva disciplina (nei limiti di cui all’art. 179 del codice stesso), fondata sui principi relativi al confronto concorrenziale.

Il partenariato sociale si fonda su una logica molto diversa dai partenariati pubblico-privati (fondati sul rischio al-locato a carico del privato, sulla centralità del piano economico-finanziario, ecc.) e proprio per questo non appare as-soggettabile in modo acritico alla relativa integrale disciplina (58).

Il ricorso allo strumento del c.d. baratto amministrativo non deve in ogni caso determinare elusione delle regole cogenti di evidenza pubblica (59), né l’aggiramento dei vincoli di finanza pubblica (60), né l’acquisizione di beni o servizi in violazione di precisi e puntuali divieti stabiliti dalla normativa finanziaria, anche di carattere quantitativo.

È esclusa quindi la possibilità di barattare la realizzazione di appalti di lavori-opere-servizi affidati senza gara, per non violare le previsioni che governano i contratti pubblici ed i sottesi principi, tra cui la tutela della concorrenza e la trasparenza. L’avvenuta inclusione dell’istituto del baratto amministrativo all’interno del nuovo codice dei contratti comporta altresì che tutti i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici (61) dovrebbero essere qualificati, anche nell’ambito di convenzioni concluse tra l’amministrazione e soggetti privati (62);

5) per quanto concerne criteri e modalità di realizzazione dei contratti di partenariato, la norma stessa rinvia alla delibera comunale, riconducibile ermeneuticamente al potere regolamentare degli enti territoriali ex art. 117 Cost., che appare anche chiamata a:

- regolamentare le modalità di ricorso a tale tipologia di contratto sulla scorta di una valutazione socio-economica che porti ad individuare gli interventi in relazione ai quali attivare il baratto amministrativo al posto di un affidamento sul mercato. Il comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato soltanto economico in senso stretto nell’utilizzazione dei beni patrimoniali, ma – come ente a fini generali – deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata. L’eventuale scelta di disporre di un bene pubblico ad un canone

(58) Aspetti approfonditi nel cap. 4 di questo scritto.

(59) Corte conti, Sez. contr. reg. Molise, n. 12/2016, cit.

(60) Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 182/2015, cit.

(61) Ai sensi dell’art. 40 del d.lgs. n. 163/2006 e del d.p.r. n. 34/2000, e ora dell’art. 84 del nuovo codice.

(62) Ciò peraltro in linea con quanto già precedentemente deciso in una fattispecie riferita all’art. 15 d.lgs. n. 228/2001, che presenta molte analogie con la ipotesi in esame (Anac 4 novembre 2010, n. AG40-10, cit.).

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di importo diverso da quello corrispondente al suo valore di mercato deve avvenire a seguito di “un’attenta pondera-zione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale (63) dell’ente, in cui però deve tenersi nella massima considerazione l’interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patri-monio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, c. 6, Cost.)” (64). I comuni pertan-to, nell’individuare le fattispecie su cui rendere operativo il baratto, devono prioritariamente regolamentare appositi parametri per misurare e valutare economicamente i vantaggi (anche in termini di sviluppo sociale, culturale, ecc. del-la comunità) connessi al ricorso al baratto amministrativo. Al riguardo la delibera di approvazione del relativo rego-lamento, sebbene non soggetta ad onere motivazionale ai sensi della l. n. 241/1990, potrà opportunamente dare atto della suddetta valutazione a dimostrazione della ragionevolezza e del carattere non discriminatorio delle scelte effet-tuate;

- disciplinare operativamente il relativo procedimento (i criteri e le modalità per la realizzazione dei contratti di partenariato sociale, tra cui: il tipo di progettualità necessaria, le modalità di scelta dei progetti dei cittadini e di finan-ziamento della relativa spesa, la valutazione di congruità, gli standard, il controllo sull’esecuzione dell’attività e sui suoi risultati, le agevolazioni riconoscibili in relazione alla tipologia di intervento, ecc.), nel rispetto di un quadro normativo di riferimento purtroppo molto composito e legislativamente non coordinato, che spazia dal codice dei contratti al codice del terzo settore, coinvolgendo ratione materiae anche la disciplina urbanistica ed edilizia naziona-le e regionale. In mancanza di linee guida specifiche (al momento l’Anac si è espressa solo in relazione ai contratti conclusi con enti del terzo settore senza affrontare specificatamente lo strumento in sé), l’uniformità di applicazione dell’istituto resta affidata alle pronunce delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, che si sono espresse su vari aspetti non sempre, tuttavia, in modo conforme. Pareri rilevanti anche ai fini delle responsabilità erariali (art. 95, c. 4, d.lgs. n. 174/2016, in materia di elemento soggettivo e nesso causale, e art. 69, c. 2, del medesimo decreto in caso di comportamento conforme al parere);

6) i contratti di partenariato sociale sono certamente caratterizzati dalla sinallagmaticità tra la riduzione di tributi locali e le (progettate e realizzate) attività di interesse generale a favore della collettività, ma avendo finalità sociale non sono orientati al lucro: le stesse agevolazioni tributarie che rappresentano la controprestazione a favore di chi rea-lizzi i progetti oggetto del contratto devono essere “corrispondenti”, quindi presumibilmente di valore al massimo equivalente alle spese ed ai costi sopportati dal privato per realizzare il progettato intervento. La concreta individua-zione del valore da riconoscere all’attività sussidiaria da barattare con l’agevolazione tributaria è certamente una fase ad elevata criticità: i parametri di valutazione devono essere oggettivi ed uniformi, per cui quando possibile occorre fare riferimento a prezzi di mercato, indici e ogni altro elemento oggettivo. Sotto il profilo contabile, la quantificazio-ne in termini monetari della prestazione sostitutiva dovrà essere predeterminata e congruamente correlata alla natura dell’attività da svolgere, secondo criteri obiettivi riferibili alla durata della prestazione (oraria o giornaliera) o al risul-tato da raggiungere, con previsione degli oneri riflessi, anche di tipo assicurativo e antinfortunistico;

7) la tipologia di agevolazioni “barattabili” con l’ente territoriale è responsabilmente e motivatamente (65) disci-plinabile dagli enti nei relativi regolamenti tributari in funzione del tipo di tributo e del tipo di attività di interesse ge-nerale oggetto di baratto. Il regolamento tuttavia, per sua natura, detta norme di carattere generale ed astratto, ragion per cui la ricerca di una vera “corrispondenza” tra agevolazione tributaria ed attività di interesse generale deve trovare spazio nello stesso contratto di partenariato, che individuerà, oltre al resto, anche il valore della controprestazione ba-rattata in cambio dell’agevolazione tributaria. Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti si sono compat-tamente orientate per l’agevolabilità a tal fine solo delle obbligazioni tributarie pro futuro, con esclusione quindi della barattabilità di debiti tributari pregressi, in relazione ai quali i debitori fiscali (a differenza dei cittadini non indebitati verso l’ente) restano obbligati giuridicamente verso l’ente senza godere di libertà di scelta.

Al riguardo, la Sezione regionale di controllo per il Veneto (66) ha affermato che il ricorso al baratto amministra-tivo per debiti tributari pregressi è inammissibile perché determina inaccettabili sperequazioni nei confronti di chi adempie tempestivamente e integralmente ai propri obblighi tributari, ipotizzando così anche una possibile violazione del principio costituzionale di uguaglianza. Sembra restare aperto – anche alla luce delle citate pronunce della Corte dei conti – il tema della “barattabilità” delle entrate extratributarie (ammessa da Corte conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia (67) e negata dalla sopra citata Sezione di controllo per il Veneto), in relazione alle quali

(63) La valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco e la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell’atto disposi-

tivo sono rimesse esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell’ente, che si assume la responsabilità della scelta, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento.

(64) Cfr. Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 33/2009, cit. Nella stessa pronuncia viene inoltre ribadito che “l’interesse alla con-servazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione dei principi di buon an-damento e di sana gestione ed impone all’ente di ricercare tutte le alternative possibili che consentano un equo temperamento degli inte-ressi in gioco, adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor sacrificio possibile degli interessi compresenti”.

(65) Come precisato dalla stessa Ifel in entrambe le sue note, il comune deve ovviamente giustificare la scelta compiuta con elementi ispirati a responsabilità e ragionevolezza nella quantificazione del trattamento agevolativo.

(66) Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 313/2016, cit.

(67) Corte conti, Sez. contr. reg. Lombardia, n. 176/2016.

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la stessa Corte sembra aprire alla possibilità (negata per la materia tributaria in ragione dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria ex art. 23 Cost (68) e delle ricadute sugli equilibri di bilancio degli enti territoriali) di ri-conoscere la barattabilità di debiti pregressi in considerazione dell’autonomia di diritto privato delle p.a. (art. 1, c. 1-bis, l. n. 241/1990) ed a condizione che vengano rispettati gli equilibri di bilancio, fornendo al riguardo agli enti ap-posite indicazioni operative;

8) nevralgico anche il tema del controllo, a tutela della puntuale esecuzione del contratto e della misurazione della qualità delle attività oggetto di baratto in termini di “utilità” sociale legata alla promozione della partecipazione alla comunità cittadina: servono indicatori (oggettivi e misurabili) che siano coerenti con l’attività “barattata” e con i cri-teri adottati nell’individuazione del valore delle prestazioni (attività di interesse generale ed agevolazione tributaria) oggetto di baratto.

Tanti quindi i temi che gravitano intorno a questo strumento contrattuale finalizzato alla co-programmazione e co-gestione pubblico-privata di attività di interesse generale: molti giuridici, altri contabili, altri ancora di opportunità politica e morale. Tante le possibilità, ma anche le insidie. La finalità dichiarata è indubbiamente meritevole, ma in uno stato di diritto il solo fine non conta: occorrono regole chiare e uniformi (anche procedimentali) che contribui-scano – nella loro oggettività e trasparenza – a costruire e mantenere il delicato equilibrio tra tutti gli interessi in gio-co meritevoli di tutela.

* * *

(68) Interessante al riguardo rilevare come nel baratto amministrativo la p.a. si serva del tributo come modalità di pagamento di un

servizio ottenuto da privati, senza quindi disporne tecnicamente sotto l’aspetto tributario. Ciò comunque resta una pratica assai difficile da conciliare con la regolare tenuta dei bilanci degli enti, al di là appunto dei rilievi sull’effettivo rilievo in materia del principio di indi-sponibilità del diritto tributario. Si pensi poi a tributi come l’imposta di soggiorno (che ha gettito vincolato) o la Tari (tassa rifiuti), il cui gettito è destinato a coprire integralmente i costi del servizio di nettezza urbana: in tali casi la mancata entrata tributaria impatta inevita-bilmente sulla disciplina del tributo e sulla legittimità delle scelte inerenti tale barattabilità.

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I COMPENSI AGLI AMMINISTRATORI DI AZIENDE SPECIALI, ANCHE IN FORMA CONSORTILE

LA SEZIONE DELLE AUTONOMIE, IN FUNZIONE NOMOFILATTICA,

NE VERIFICA LA POSSIBILE LEGITTIMITÀ

di Carlo Mirabile

Abstract: Nella deliberazione della Sezione delle autonomie, in funzione nomofilattica, assume rilievo centrale l’excursus della Sezione stessa sull’art. 6, c. 2, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122. La Sezione verifica, conformemente a quanto già rilevato dalla Corte costituzionale con la sent. n. 161/2012, che la norma trova applicazione solo nei confronti delle aziende speciali, anche in forma con-sortile, che ricevano contributi pubblici. Con un’attenta analisi la Sezione evidenzia che non possono ritenersi “contributi” né il fondo di dotazione dell’azienda speciale, né il corrispettivo da questa percepito per la prestazio-ne del servizio.

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’art. 5 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122. La ratio della norma. – 3. L’orientamento della Corte dei conti in materia di compensi agli ammini-stratori di forme associative di enti locali, aventi per oggetto la gestione di servizi e funzioni pubbliche, e la sua estensione agli amministratori di aziende speciali, anche in forma consortile, ante delibera della Sezione delle au-tonomie. – 4. L’art. 6 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122. – 5. Le ragioni poste alla base della non erogabilità di compensi agli amministratori dei consorzi-impresa, ante de-libera della Sezione delle autonomie. La sentenza della Corte costituzionale n. 161/2012. – 6. La deliberazione della Sezione delle autonomie. Il principio affermato dalla medesima, nel rispetto della sentenza della Corte co-stituzionale n. 161/2012 e le motivazioni. – 7. Brevi conclusioni.

1. Premessa

La Sezione delle autonomie, con delib. n. 9/2019, resa nell’adunanza del 28 maggio 2019, ha esercitato la propria funzione nomofilattica in ordine ad eventuali contrasti sulla legittimità dell’erogazione ad amministratori di aziende speciali di compensi per l’attività da loro svolta.

La delibera della Sezione riguarda, dunque, l’art. 6, c. 2, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, per cui sussiste l’obbligo di garantire la gratuità degli incarichi conferiti ai membri de-gli organi amministrativi di vertice delle aziende speciali che ricevono contributi dallo Stato (1).

L’intervento della Sezione ruota intorno a due fondamentali questioni: la prima, in ordine alla qualificazione giu-ridica del capitale di dotazione, e cioè se il suddetto capitale si possa considerare o meno contribuzione pubblica. La seconda sull’incidenza dell’art. 1, c. 554, l. n. 147/2013 (2), e cioè se l’erogazione di compensi possa oggi ritenersi ammissibile, in virtù della norma sopravvenuta.

(1) “2. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto la partecipazione agli organi collegiali, anche di amministra-

zione, degli enti, che comunque ricevono contributi a carico delle finanze pubbliche, nonché la titolarità di organi dei predetti enti è onorifica; essa può dar luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute ove previsto dalla normativa vigente; qualora siano già previsti i gettoni di presenza non possono superare l’importo di 30 euro a seduta giornaliera. La violazione di quanto previsto dal pre-sente comma determina responsabilità erariale e gli atti adottati dagli organi degli enti e degli organismi pubblici interessati sono nulli. Gli enti privati che non si adeguano a quanto disposto dal presente comma non possono ricevere, neanche indirettamente, contributi o utilità a carico delle pubbliche finanze, salva l’eventuale devoluzione, in base alla vigente normativa, del 5 per mille del gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. La disposizione del presente comma non si applica agli enti previsti nominativamente dal decreto legislativo n. 300 del 1999 e dal decreto legislativo n. 165 del 2001, e comunque alle università, alle camere di commercio, agli enti del servizio sanitario nazionale, agli enti indicati nella tabella C della legge finanziaria ed agli enti previdenziali ed assistenziali nazionali”.

(2) “554. A decorrere dall’esercizio 2015, le aziende speciali e le istituzioni a partecipazione di maggioranza, diretta e indiretta, del-le pubbliche amministrazioni locali titolari di affidamento diretto da parte di soggetti pubblici per una quota superiore all’80 per cento del valore della produzione, che nei tre esercizi precedenti abbiano conseguito un risultato economico negativo, procedono alla riduzio-ne del 30 per cento del compenso dei componenti degli organi di amministrazione. Il conseguimento di un risultato economico negativo per due anni consecutivi rappresenta giusta causa ai fini della revoca degli amministratori. Quanto previsto dal presente comma non si applica ai soggetti il cui risultato economico, benché negativo, sia coerente con un piano di risanamento preventivamente approvato dall’ente controllante”.

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La questione sottoposta alla Sezione delle autonomie trae origine dal rinvio della Sezione regionale di controllo Lazio (3) che aveva manifestato i propri dubbi interpretativi sull’applicabilità del menzionato art. 6, c. 2, sottolinean-do come potesse essere opportuna una rimeditazione dell’orientamento tradizionale.

La questione stessa era ed è di non poco momento, in quanto incide – in maniera determinante – sull’erogabilità o meno di compensi agli amministratori delle aziende speciali.

È, infatti, evidente che se il fondo fosse qualificabile come contribuzione o se la norma sopravvenuta non avesse funzione di sterilizzazione della originaria statuizione, contenuta nell’art. 6, c. 2, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, gli am-ministratori non avrebbero alcun diritto di percepire compensi e ove ciò avvenisse si integrerebbe un’ipotesi di danno erariale, insieme a tutte le altre conseguenze previste nella norma.

La deliberazione della Sezione delle autonomie, di cui ci si occuperà più specificamente nel prosieguo, si segnala pure perché non solo fornisce adeguate e precise indicazioni sul fondo di dotazione, ma perché consente anche una sintetica ricostruzione logico-sistematica in ordine all’erogazione di compensi agli amministratori di tali aziende.

In questo scritto, traendo spunto dalla delibera, si cercherà dunque di individuare chiaramente quelli che sono gli obblighi di erogazione (o di non erogazione) di compensi agli amministratori, obblighi che possono essere pieni, atte-nuati o vietati.

Il punto di riferimento, la bussola, in questa indagine non può che essere il d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, e specificamente gli artt. 5 e 6.

Su tali articoli ci si soffermerà, verificando per ciascuno di essi lo stato dell’orientamento della Corte dei conti e come sul medesimo possa oggi incidere la delibera della Sezione delle autonomie.

2. L’art. 5 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122. La ratio della norma

Occorre innanzitutto premettere come sia l’art. 5 di cui si tratta, sia il successivo art. 6 vengono comunemente ascritti fra le norme di contenimento dei costi della macchina pubblica.

Ma con delle sostanziali differenze, almeno nell’individuazione dei destinatari.

L’art. 5 è, infatti, così rubricato: “Economie negli organi costituzionali, di governo e negli apparati pubblici”; dal-la stessa rubrica della norma si evince come essa sia diretta nei confronti di soggetti che esercitano specifiche funzio-ni pubbliche (Presidenza della Repubblica, Senato, Camera, Corte costituzionale, ministri e sottosegretari di Stato, organi di autogoverno delle magistrature e del Cnel, titolari di cariche elettive, e fra essi anche consiglieri comunali, provinciali e circoscrizionali).

L’articolo poi, al c. 7, aggiunge che: “agli amministratori di comunità montane e di unioni di comuni e comunque di forme associative di enti locali, aventi per oggetto la gestione di servizi e funzioni pubbliche non possono essere attribuite retribuzioni, gettoni, e indennità o emolumenti in qualsiasi forma siano essi percepiti”.

Occorre soffermarsi sulla ratio della norma testé citata, per poi verificare l’allineamento logico fra la norma stessa e quanto fin qui espresso dalla Corte dei conti.

Vale infatti la pena anticipare che la Corte (4) – in precedenti occasioni, che si esamineranno funditus – aveva espresso l’opinione che nella locuzione forme associative di enti locali, aventi per oggetto la gestione di servizi e fun-zioni pubbliche rientrassero le aziende speciali anche consortili e che di conseguenza agli amministratori di tali aziende non dovessero essere erogati compensi.

Tornando alla ratio della norma, si evidenzia come essa, in primo luogo, intenda prendere in considerazione (solo) gli amministratori locali.

Infatti, ai sensi degli artt. 27, c. 2, e 32, c. 3, del Testo unico enti locali (di seguito “Tuel”, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), gli amministratori di comunità montane e di unioni di comuni citati nell’incipit della norma stessa sono, e non possono che essere, sindaci, assessori o consiglieri comunali (5), perché – per legge – è stabilito che loro e solo loro possono ricoprire tale ruolo.

La norma che dispone l’azzeramento dei compensi trova quindi piena giustificazione nel ritenere il loro compenso onnicomprensivo, atto a coprire anche ulteriori cariche comunque connesse all’esercizio della funzione ricoperta.

(3) Corte conti, Sez. contr. reg. Lazio, n. 6/2019.

(4) Corte conti, Sez. autonomie, 20 febbraio 2014, n. 4, in Rep. Foro it., 2014, voce Comune e provincia, n. 362. Per l’art. 2, c. 1, Tuel “si intendono per enti locali i comuni, le province, le città metropolitane, le comunità montane, le comunità isolane e le unioni di comuni”. Si rammenta inoltre come l’originario testo del d.l. n. 78/2010, prima della legge di conversione, al posto della locuzione (am-ministratori) di forme associative di enti locali, aventi per oggetto la gestione di servizi e funzioni pubbliche, stabiliva che i destinatari del divieto di duplicazione fossero (gli amministratori) di enti territoriali diversi da quelli di cui all’articolo 114 della Costituzione. Fa-cendo riferimento espresso agli enti locali si è dunque inteso allineare la norma alla definizione del Tuel.

(5) L’art. 27, c. 2, per le comunità montane prevede che: “la comunità montana ha un organo rappresentativo e un organo esecutivo composti da sindaci, assessori o consiglieri dei comuni partecipanti”. Ugualmente l’art. 32, c. 3, per le unioni di comuni stabilisce che “lo statuto deve comunque prevedere che gli altri organi siano formati da componenti delle giunte e dei consigli dei comuni associati, garan-tendo la rappresentanza delle minoranze”.

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Ciò consente ragionevolmente (e giustamente) di evitare duplicazioni di compensi in favore di soggetti già titolari di funzione (e di compenso).

È chiaro perciò che la norma si indirizza specificamente ad amministratori pubblici – e solo ad essi –, che sono soggetti diversi e che esercitano funzioni diverse rispetto a quelle degli amministratori di aziende speciali.

Per quel che riguarda poi l’entità giuridica presso cui gli amministratori prestano la loro opera, ancora una volta ci si trova davanti a soggetti diversi dalle aziende speciali.

Ed è lo stesso Tuel che lo ribadisce.

L’art. 2, c. 1, Tuel stabilisce chiaramente come le norme sugli enti locali non si applicano: “ai consorzi che gesti-scono attività aventi rilevanza economica ed imprenditoriale”.

Dunque, sussiste una significativa discontinuità in ordine all’erogabilità di compensi agli amministratori di forme associative di enti locali, aventi per oggetto la gestione di servizi e funzioni pubbliche e a quelli delle aziende specia-li, anche in forma consortile, perché sussistono sostanziali discontinuità sia fra i soggetti, sia fra le entità giuridiche amministrate (6).

Gli amministratori di forme associative di enti locali, aventi per oggetto la gestione di servizi e funzioni pubbli-che, come si è detto in apertura, sembrerebbero, tuttavia, essere stati identificati – in alcune occasioni – dalla Corte dei conti come destinatari del divieto di duplicazione dei compensi, contenuto nel più volte citato art. 5.

Si ritiene quindi di doversene occupare nel successivo punto.

3. L’orientamento della Corte dei conti in materia di compensi agli amministratori di forme associative di enti locali, aventi per oggetto la gestione di servizi e funzioni pubbliche, e la sua estensione agli amministratori di aziende spe-ciali, anche in forma consortile, ante delibera della Sezione delle autonomie

Il punto di partenza del tema che si intende trattare – in stretta connessione con quanto detto in precedenza – non può che essere la delibera della Sezione delle autonomie, n. 4/2014 (7), riguardante l’Agenzia per la mobilità piemon-tese che con proprio statuto aveva assunto forma di consorzio per l’esercizio, in forma obbligatoriamente associata, delle funzioni degli enti territoriali in materia di trasporto pubblico locale.

La deliberazione è stata talvolta interpretata e posta alla base di successive pronunce per cui il divieto di duplica-zione di compensi dell’art. 5 più volte citato non è stato perimetrato (solo) nei confronti degli amministratori di forme associative di enti locali, aventi per oggetto la gestione di servizi e funzioni pubbliche, ma esteso agli amministratori di aziende speciali, anche in forma consortile.

A dire il vero, però, nella citata delibera della Sezione delle autonomie un’affermazione del genere non era conte-nuta.

Caso mai, e lo vedremo più avanti, il divieto di compensi agli amministratori di aziende speciali, incluse quelle consortili, avrebbe potuto-dovuto essere fondato su altra norma e su ben altre ragioni, rinvenibili anche nei precedenti citati dalla recentissima deliberazione della Sezione delle autonomie che oggi si commenta.

La Sezione delle autonomie nel 2014 rappresentava solo che: “I consorzi costituiti per l’esercizio di una o più fun-zioni appartengono, insieme alle unioni, al novero delle forme di collaborazione intercomunale di carattere struttu-rale che danno vita ad una soggettività giuridica ed in quanto tali destinatari di un’unica disciplina. Nell’ambito di disciplina così come più volte sopra ricostruita, per quanto di interesse della presente questione di massima, fra le forme associative di enti locali aventi per oggetto la gestione di servizi e funzioni pubbliche ai cui amministratori, ai sensi dell’articolo 5, comma sette, del d.l. n. 78/2010, non possono essere attribuite retribuzioni, gettoni indennità o emolumenti in qualsiasi forma, deve ritenersi che rientrino anche i componenti dei consigli di amministrazione dei consorzi”.

Dunque, la Sezione delle autonomie prendeva in considerazione esclusivamente i consorzi, insieme alle unioni di comuni, che possono essere costituiti allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di competenza dei comuni stessi, ex art. 32, c. 1, Tuel (8).

L’attenzione della Sezione si concentrava pertanto sui consorzi di funzioni e non su quelli svolgenti attività di im-presa.

Sul punto vale la pena ricordare che, anche se è venuta meno la distinzione fra consorzi (di funzioni) e aziende consortili (che assumono direttamente servizi di natura imprenditoriale) (9), essa di fatto sopravvive.

(6) Orientamento espresso anche dalla recente dottrina. Cfr. J. Bercelli, Corte dei conti e compenso degli amministratori di aziende

speciali consortili, in <www.giuristidiamministrazione.com>, 17 marzo 2019.

(7) Corte conti, Sez. autonomie, n. 4/2014, cit.

(8) L’art. 32 del Tuel così recita: “L’unione di comuni è l’ente locale costituito da due o più comuni, di norma contermini, finalizzato all’esercizio associato di funzioni e servizi. Ove costituita in prevalenza da comuni montani, essa assume la denominazione di unione di comuni montani e può esercitare anche le specifiche competenze di tutela e di promozione della montagna attribuitegli in attuazione dell’articolo 44, secondo comma, della costituzione delle leggi in favore dei territori montani”.

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Lo rammenta la stessa Corte dei conti. Infatti, nella relazione 2017 della Sezione delle autonomie su Gli organi-smi partecipati dagli enti territoriali, a proposito dei consorzi di sviluppo industriale, qualificati dalla legge come enti pubblici economici, la sezione rammenta che essi possono diventare una modalità di gestione dei servizi pubblici lo-cali e delle funzioni strumentali dell’ente, distinguendosi in consorzi di servizi e consorzi di funzioni (10).

Alla deliberazione della Sezione delle autonomie n. 4/2014 ne seguiva altra di identico tenore della Sezione regio-nale di controllo per il Piemonte (11).

Anche in questo caso si trattava tuttavia di un consorzio di funzioni (12) e non di un consorzio-impresa.

Singolare invece è il caso del Consorzio Azienda trasporti funicolari Malcesine-Monte Balbo (ente pubblico eco-nomico).

Della vicenda la Sezione regionale di controllo per il Veneto ebbe ad occuparsi per ben due volte.

Con un primo parere (13) la sezione ritenne che il divieto di compenso per gli amministratori si applicasse a tutti i consorzi indistintamente, e cioè sia di funzioni che aziende consortili.

Il secondo fu ben più complesso del precedente (14).

In tale parere la sezione espressamente affermava che la sterilizzazione dei compensi non poteva essere stabilita a priori, ma che dipendeva dalla natura giuridica del consorzio, peraltro, non evidenziata in sede di richiesta di parere.

In assenza di elementi atti ad individuare la natura giuridica del consorzio, il parere non poté essere reso dalla se-zione. Tuttavia, quanto affermato in via di principio era di notevole importanza.

Per la sezione, infatti, sussistevano-potevano sussistere discipline diverse a seconda della natura giuridica del con-sorzio, proprio per la suddetta differenziazione.

E si torna dunque al punto di partenza e all’interpretazione inizialmente esposta, il cui risultato può essere sinte-tizzato e confermato come appresso.

Consorzio di funzioni: divieto di compensi, consorzio-impresa: legittimità della corresponsione dei compensi, con i caveat che saranno appresso evidenziati.

Il risultato sopra indicato non era tuttavia del tutto scontato, prima della deliberazione della Sezione delle autono-mie in commento. Esisteva, infatti, un orientamento della Corte nel senso che anche agli amministratori dei consorzi-imprese dovesse applicarsi la non erogabilità dei compensi.

Le indicazioni provenienti dalle sezioni in tal senso sono state affrontate dalla Sezione delle autonomie, che – in funzione nomofilattica – nel corpo della propria delibera le ha espressamente rammentate e superate.

4. L’art. 6 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122

Prima dell’esame della deliberazione della Sezione delle autonomie, occorre tuttavia evidenziare che – nel caso in esame – è cambiata la norma di riferimento. Non si è più nell’ambito di applicazione dell’art. 5 prima citato, ma dell’art. 6, sempre della stessa legge.

Importante rilevare già la rubrica delle due norme: diversa.

Non ci si trova più, infatti, ad occuparsi delle economie negli organi costituzionali, di governo e negli apparati pubblici, bensì della riduzione dei costi degli apparati amministrativi.

È dunque l’art. 6 la norma che trova applicazione per le aziende speciali, anche consortili, non certamente l’art. 5, che – come sottolineato – riguarda i consorzi per l’esercizio di funzioni.

L’art. 6 citato detta una compiuta ed efficace disciplina e, al c. 2, specificamente si occupa della partecipazione agli organi collegiali, anche di amministrazione, degli enti che comunque ricevono contributi a carico delle finanze pubbliche, stabilendo che – per tale partecipazione – non è ammissibile l’erogazione di alcun compenso agli ammini-stratori.

In ciò la norma sembra speculare all’art. 5.

(9) La distinzione era disciplinata dagli artt. 21-23 del r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578, e dagli artt. 88-101 del d.p.r. 4 ottobre 1986, n.

902, individuabile nella vecchia normativa (r.d. 3 marzo 1934, n. 383, abrogato dall’art 274 del T.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).

(10) Cfr. Corte conti, Sez. autonomie, n. 27/2017, p. 32, ove si legge, tra l’altro, che “le fondazioni partecipate dagli enti locali ri-spondono all’esigenza di disporre di uno strumento flessibile, caratterizzato dalla commistione dell’elemento patrimoniale con quello ‘associativo’, funzionale a una sorta di partenariato pubblico-privato; modello che implica il rispetto dei principi di sana gestione e delle regole della contabilità pubblica, dal momento che l’utilizzo di risorse pubbliche, anche attraverso l’adozione di moduli privatistici, im-pone particolari cautele e obblighi”.

(11) Corte conti, Sez. contr. reg. Piemonte, 5 febbraio 2016, n. 7.

(12) Nella fattispecie, si trattava di un consorzio che svolgeva tutte le funzioni di governo di bacino, relative al servizio dei rifiuti ur-bani, esercitando nel contempo funzioni di governo e poteri di vigilanza nei confronti dei soggetti gestori, con conseguente adozione del-le deliberazioni.

(13) Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, 10 gennaio 2017, n. 1.

(14) Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, 20 settembre 2017, n. 527.

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Vi sono però sostanziali differenze nei soggetti e nelle situazioni.

Mentre da un lato – art. 5 – avevamo soggetti che già ricevono un compenso in funzione della loro carica, e da qui la logica di evitare duplicazioni di compensi, nella fattispecie dell’art. 6 ci si trova in presenza di persone che svolgo-no attività di gestione di strutture che sono vere e proprie imprese.

Immaginare che tali persone non debbano percepire alcun compenso per la loro attività, alla quale è comunque connesso un rischio, che può avere immediati riflessi patrimoniali (sul loro patrimonio), è sicuramente immaginare troppo; bene ha fatto la Sezione delle autonomie a riportare ordine nella materia, considerato che l’orientamento della non erogabilità di compensi a tali amministratori si era affermato, anche all’interno della Corte, in tempi persino coe-vi a quelli in cui la Sezione Lazio si poneva i dubbi interpretativi, poi risolti dalla delibera in commento.

5. Le ragioni poste alla base della non erogabilità di compensi agli amministratori dell’azienda speciale, ante delibe-ra della Sezione delle autonomie. La sentenza della Corte costituzionale n. 161/2012

1. La Sezione delle autonomie – nel corpo della delibera – ha quindi fatto correttamente riferimento agli orienta-menti contrari all’erogazione di compensi agli amministratori delle aziende speciali.

Ci si limiterà a prendere in considerazione tali precedenti, che sono non solo i più recenti, ma anche i più signifi-cativi.

Tali precedenti possono essere, inoltre, esaminati congiuntamente, essendo fondati su argomentazioni comuni, con l’unica avvertenza che riguardano fattispecie diverse.

Procedendo cronologicamente: il primo è della Sezione regionale di controllo per il Veneto che, nell’adunanza del 4 settembre 2018 (15), rendeva il proprio parere in ordine alla richiesta formulata dal Comune di Verona sull’applicabilità alle aziende speciali del più volte citato art. 6, c. 2.

La questione in particolare riguardava l’Agec (Azienda gestione edifici comunali), già organo del Comune di Ve-rona poi trasformata in ente pubblico.

Il secondo è costituito dalla deliberazione della Sezione regionale di controllo per il Piemonte n. 22/2019, resa in camera di consiglio dell’1 marzo 2019 e depositata il 19 marzo 2019 e riguardante la futura costituzione di un’azienda speciale consortile da parte del Comune di Mariondo Torinese.

Entrambi i precedenti sopra ricordati si rifanno all’autorità della sentenza della Corte costituzionale n. 161/2012 (16).

Vista l’importanza attribuita a tale sentenza nei citati precedenti è opportuno sintetizzarne il contenuto, limitata-mente a quanto di interesse.

2. Il Presidente del Consiglio dei ministri aveva – fra l’altro – impugnato, prospettandone l’illegittimità costitu-zionale ex art. 117, c. 3, Cost., l’art. 11, cc. 8 e 9, l. reg. Abruzzo 24 giugno 2011, n. 17, Riordino delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza (Ipab) e disciplina delle aziende pubbliche di servizi alla persona (Asp). L’articolo, come declinato nei due commi, prevedeva rispettivamente che al presidente dell’azienda competesse un’indennità determinata in misura percentuale su quella spettante ai direttori generali delle aziende unità sanitarie locali dell’Abruzzo e che a ciascuno dei componenti del consiglio di amministrazione ne fosse riconosciuta una pari al sessanta per cento di quella spettante al presidente.

Tali previsioni, secondo la ricorrente Presidenza del Consiglio, si sarebbero poste in contrasto con il principio di coordinamento della finanza pubblica espresso dall’art. 6, c. 2, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, convertito dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, secondo cui la partecipazione agli organi collegiali, anche di amministrazione, degli enti che comunque ricevono contributi a carico delle finanze pubbliche, nonché la titolarità dei predetti enti sono onorifiche e possono dar luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute ove previsto dalla normativa vigente; qualora già previsti, i gettoni di presenza non avrebbero potuto superare l’importo di 30 euro a seduta giornaliera.

La regione evidenziava come presupposto del divieto sancito dall’art. 6, c. 2, d.l. n. 78/2010 fosse costituito dal fatto che l’ente ricevesse contributi a carico delle finanze pubbliche. Secondo la regione, poiché nessuna norma della legge impugnata prevedeva l’erogazione di contributi o finanziamenti pubblici a favore delle Asp e poiché la norma interessata non si riferiva agli enti previsti dal d.lgs. n. 165/2001 – nel cui novero rientrerebbero le Asp quali enti pubblici non economici regionali – la disposizione non avrebbe dovuto trovare applicazione.

La Corte costituzionale accoglieva il ricorso del Presidente del Consiglio e cassava la legge regionale in parte qua, con sent. n. 161/2012.

Il ragionamento della Corte è di notevole importanza e sembra opportuno che almeno il principio generale enun-ciato sia qui di seguito riportato.

(15) Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, n. 371/2018.

(16) Corte cost. 27 giugno 2012, n. 161, in Giur. cost., 2012, 2179. Per approfondimenti, v. A. Santuari, Le ex-Ipab Asp sono equipa-rate ad enti locali, in <www.personaedanno.it>, 6 luglio 2012.

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La Corte, infatti, rilevava come sussistessero diversi elementi, sia testuali che conseguenti all’interpretazione si-stematica delle norme in materia, che inducessero a ritenere il contrario di quanto sostenuto dalla regione resistente; soprattutto la Corte affermava che nella locuzione generale di enti: “che comunque ricevono contributi a carico delle finanze pubbliche rientravano non solo quelli che ricevono erogazioni finanziarie bensì tutti quelli che ricevono qua-lunque beneficio in risorse pubbliche, in grado di incrementare le componenti attive del bilancio dell’ente destinata-rio o di diminuirne quelle passive”.

Successivamente all’affermazione del suddetto principio, la Corte costituzionale effettuava un esame davvero ap-profondito del modello Asp, verificando a trecentosessanta gradi se sussistessero situazioni riconducibili all’erogazione di contributi (17). Poiché la verifica risultava positiva – essendo stata rilevata l’esistenza di contribu-zioni – la Corte – come rammentato – dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, cc. 8 e 9, l. reg. Abruzzo 24 giugno 2011, n. 17.

3. Sulla scia della sentenza della Corte costituzionale – come anticipato – si è formato l’orientamento della Corte dei conti contrario all’erogabilità di compensi agli amministratori di aziende speciali anche di natura consortile.

Tuttavia, per una corretta interpretazione della sentenza del giudice delle leggi, forse sarebbe stato opportuno – come oggi fa la Sezione delle autonomie – rammentare che la non erogabilità è connessa (dipende d)alla circostanza che l’azienda speciale riceva contributi pubblici.

(17) L’esame della Corte – come evidenziato – fu davvero estremamente approfondito. Vale la pena qui di seguito riportarlo nella

sua interezza perché esso può costituire precedente in caso di ulteriori successivi esami. Così si esprimeva la Corte: «In proposito non v’è dubbio che le costituende Asp ricevano diversi cespiti di natura pubblica, sia di carattere finanziario che patrimoniale. Il decreto legi-slativo di riordino n. 207 del 2001, infatti, prevede all’art. 4, comma 1, che “Le istituzioni riordinate in aziende di servizi o in persone giuridiche private a norma del presente decreto legislativo conservano i diritti e gli obblighi anteriori al riordino. Esse subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza di cui alla legge 17 luglio 1890, n. 6972, dalle quali derivano”. Pertanto sia i cespiti immobiliari che i contributi ed i finanziamenti già attribuiti dalle pubbliche amministrazioni rientrano nelle operazioni di successione.

Inoltre, le operazioni di trasformazione delle Ipab in Asp sono incentivate dal legislatore nel rispetto della finalità di attuare il pro-cesso di riorganizzazione: così gli atti relativi al riordino sono ad esempio esenti dalle imposte di registro, ipotecarie e catastali (art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 207 del 2001).

Con riguardo all’aspetto strettamente finanziario non può ignorarsi come esse acquisiscano le dotazioni di cassa delle preesistenti Ipab, alle quali hanno indubbiamente concorso i contributi regionali ad esse precedentemente spettanti per effetto delle leggi della Re-gione Abruzzo 2 ottobre 1998, n. 110, recante “Norme sulle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (Ipab) aventi sede ed ope-ranti nel territorio regionale” (art. 9, commi 1 e 2: “1. La Regione eroga contributi a favore delle Ipab al fine di favorire il migliora-mento dei servizi erogati agli utenti. 2. A tale scopo vengono stanziati nel bilancio regionale fondi per l’erogazione di: a) contributo in c/capitale per costruzioni e ristrutturazioni fabbricati; b) contributi in interessi su mutui per gli interventi di cui sopra; c) contributi per riqualificazione e formazione del personale; d) garanzie per i mutui Cdp”), e 29 novembre 1999, n. 125, recante “Interventi per l’attivazione di Rsa pubbliche” (art. 2, comma 3: “Ai fini del finanziamento dei predetti adeguamenti – ossia, per adeguare le strutture delle Ipab che svolgono in via prevalente attività socio-sanitaria di assistenza ad anziani non autosufficienti, disabili o inabili comunque denominati –, si provvede con le risorse stanziate nel bilancio regionale di cui al successivo art. 7 nonché, con parte del risparmio otte-nuto dalla decurtazione del 13% del tetto di spesa per l’acquisto di prestazioni dalle strutture private accreditate, ai sensi della l. reg. n. 37/1999”).

L’erogazione di tali contributi rimane confermata fino al completamento del riordino delle Istituzioni (art. 21, comma 4, della legge regionale impugnata). A sua volta, il d.lgs. n. 207 del 2001 dispone che le regioni definiscano “le risorse regionali eventualmente dispo-nibili per potenziare gli interventi e le iniziative delle istituzioni nell’ambito della rete dei servizi” (art. 2, comma 2, lettera c) e che, per “incentivare e potenziare la prestazione di servizi alla persona nelle forme dell’azienda pubblica di servizi alla persona” stabiliscano “i criteri per la corresponsione di contributi ed incentivi alle fusioni di più istituzioni” (art. 19, comma 1), eventualmente anche discipli-nando procedure semplificate di fusione ed istituendo forme di incentivazione mediante iscrizione nel proprio bilancio di un apposito fondo cui destinare una quota delle risorse di cui all’art. 4 – rubricato “Sistema di finanziamento delle politiche sociali” – di cui alla legge n. 328 del 2000 (art. 19, comma 2).

La stessa legge regionale n. 17 del 2011 prevede l’inserimento delle Asp nel sistema integrato di interventi e servizi sociali realizzato sul territorio regionale (art. 1, comma 3) e la legge n. 328 del 2000 precisa che “la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali si avvale di un finanziamento plurimo a cui concorrono, secondo competenze differenziate e con dotazioni finanziarie affe-renti ai rispettivi bilanci” gli enti locali, le regioni e lo Stato (art. 4, comma 1).

Inoltre, l’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 207 del 2001 prevede che l’Asp “informa la propria attività di gestione a criteri di efficienza, efficacia ed economicità, nel rispetto del pareggio di bilancio da perseguire attraverso l’equilibrio dei costi e dei ricavi, in questi com-presi i trasferimenti” effettuati dalle pubbliche amministrazioni, mentre l’art. 14, comma 1, lettera e), dello stesso decreto prevede la redazione di un piano di valorizzazione del patrimonio immobiliare anche attraverso eventuali dismissioni, evidentemente produttive di corrispettivi finanziari.

Dal punto di vista più specificamente patrimoniale l’art. 7, commi 4, 6 e 7, della legge regionale n. 17 del 2011 prevede che i comu-ni, nella fase di costituzione delle Asp, assicurino “il necessario apporto patrimoniale”, sia in sede di confluenza nei nuovi soggetti degli organismi comunali preposti ai servizi alla persona (comma 4), sia in caso di partecipazione volontaria (comma 6), sia in caso di confe-rimento alle Asp di beni già trasferiti ai comuni a seguito di pregresse estinzioni (comma 7).

Sotto il profilo sistematico non è altresì indifferente, ai fini della qualificazione della natura pubblica delle risorse gestite dalle Asp, il regime di controllo e vigilanza sulle aziende stesse, attribuito al competente servizio dell’assessorato regionale (art. 18 della legge regionale) ed il potere sostitutivo della regione, di cui all’art. 19 della stessa legge impugnata”.

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Lo stesso approfondito esame effettuato dalla Corte costituzionale, finalizzato ad individuare l’esistenza di contri-buti, dimostra, ragionando a contrariis, che – nel caso in cui contributi non vi siano – v’è piena possibilità di erogare compensi agli amministratori.

Da quanto appena affermato fino alla deliberazione della Sezione delle autonomie il passo è breve.

Lo si rappresenterà più avanti.

6. La deliberazione della Sezione delle autonomie. Il principio affermato nel rispetto della sentenza della Corte costi-tuzionale n. 161/2012 e le motivazioni

Si è detto sopra che per arrivare a quanto affermato dalla Sezione delle autonomie il passo era breve. Fondamen-talmente la Corte costituzionale affermava il principio che per l’applicazione dell’art. 6 più volte citato (e quindi per la non erogabilità di compensi agli amministratori) era necessario che l’ente ricevesse contributi pubblici.

Non era dunque sufficiente che si trattasse esclusivamente di uno degli enti ricompresi nella norma, ma l’ente stesso doveva essere anche titolare di contributi.

La sezione ribadisce lo stesso principio della Corte costituzionale e cioè che l’applicazione dell’art. 6, c. 2, è stret-tamente dipendente dalla sussistenza di contributi a favore dell’ente-impresa. Dunque: a) inapplicabilità dell’art. 6 per aziende speciali non titolari di contributi; b) applicabilità di detto articolo se esse hanno ricevuto contributi.

La specificità della deliberazione della Sezione delle autonomie è costituita dal fatto che espunge ex professo dal concetto di contributo il fondo di dotazione.

Uno dei punti fondamentali della deliberazione riguarda, infatti, proprio il fondo di dotazione della azienda spe-ciale, anche consortile.

La Sezione delle autonomie – come si è rappresentato – mettendo ordine in materia, afferma che il fondo non co-stituisce contributo.

Si era, infatti, man mano affermato l’orientamento che l’azienda speciale, per il semplice fatto di disporre di un fondo di dotazione, fosse titolare di contributo; il fondo, secondo il suddetto orientamento, corrispondeva, in una re-lazione biunivoca, al contributo e viceversa; pertanto non v’era necessità di alcuna ulteriore indagine, perché l’azienda consortile sarebbe rientrata de plano fra i soggetti non tenuti ad erogare compensi agli amministratori, in base all’art. 6, c. 2.

Un’iniziale chiara e significativa obiezione era stata sollevata rispetto a tale orientamento sotto un profilo mera-mente logico: così ragionando – si evidenziava – non una delle aziende speciali si sarebbe sottratta alla disposizione dell’art. 6, c. 2, perché tutte le aziende per legge devono possedere un fondo.

Tale eccezione viene ora correttamente inquadrata dalla Sezione delle autonomie, che la trasforma da logica in giuridica, rammentando che il fondo costituisce elemento costitutivo dell’azienda, imprescindibile alla sua esistenza.

La sezione, però, non si ferma qui. Con una sintesi molto efficace effettua un’introduzione preliminare sull’azienda speciale, delineandone i tratti caratteristici e sottolineando che – ex art. 114, c. 1, Tuel – è un soggetto di diritto a sé stante, indipendente e diverso dall’ente locale, ossia lo strumento per la gestione di un servizio pubblico.

Rammenta poi che l’azienda speciale, rientrando nella categoria degli enti pubblici economici, è tenuta a tutta una serie di adempimenti di natura civilistica (iscrizione e deposito del bilancio al Registro delle imprese, assoggettabilità alla disciplina di diritto privato per quel che riguarda il profilo dell’impresa, i rapporti con i dipendenti) e agli adem-pimenti fiscali propri delle società di diritto privato.

Infine, evidenzia come l’azienda speciale, pur rimanendo nell’alveo della pubblica amministrazione, anche se ope-rante con caratteristiche imprenditoriali, è stata espunta dalla nozione di amministrazione pubblica in senso stretto.

Successivamente la Sezione delle autonomie svolge un’ulteriore operazione che è quella di verificare la contiguità dell’azienda speciale (18), dell’ente-impresa, alla società per azioni pubblica, per affermare che il fondo di dotazione è del tutto assimilabile al capitale sociale. Tale operazione si svolge in due fasi. La prima con riguardo alle modifiche apportate all’art. 114 Tuel dal d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, come modificato dal d.lgs. 10 agosto 2014, n. 126; la se-conda con riferimento anche al d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (di seguito Tusp).

Con le modifiche all’art. 114 Tuel, infatti, secondo la sezione emerge un ordinamento contabile improntato ad un sistema economico patrimoniale coerente con la natura imprenditoriale riconosciuta all’azienda (19).

E la sezione si sofferma sul punto, sottolineando come il capitale-fondo di dotazione dell’azienda speciale si deb-ba intendere quale garanzia patrimoniale minima a favore dei creditori aziendali da inscrivere, unitamente alle riserve di legge e statutarie, quale autonoma voce del patrimonio netto nel passivo dello stato patrimoniale.

Esattamente come per le società di capitali.

(18) Interessante è anche notare come in estrema sintesi la Sezione delle autonomie equipari in tutto e per tutto l’azienda speciale

consortile a quella prevista dall’art. 114 Tuel. Afferma infatti la sezione che la prima si caratterizza solo per la presenza di un organo in più e cioè l’assemblea consortile (cfr. delib., p. 8).

(19) Delib., p. 8.

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Al riguardo, poi, sottolinea altri due dati di notevole importanza su: i) il bilancio delle aziende speciali che, secon-do lo schema tipo del Ministero del tesoro (20), prevede l’iscrizione del valore del capitale di dotazione dell’azienda quale componente del patrimonio netto, analogamente a quanto previsto dall’art. 2424 c.c. per lo stato patrimoniale della società per azioni; ii) la compatibilità della trasformazione di una società pubblica in azienda speciale, sul rilie-vo che entrambi i soggetti appena citati sono dotati di patrimonio separato, a garanzia dei terzi e dei creditori (21).

In buona sostanza, dunque, il fondo di dotazione dell’azienda speciale, come anche dell’ente-impresa, in nulla si differenzia dal capitale di una società, svolgendo la medesima funzione ed essendo trattato, ai fini del bilancio, con le stesse modalità.

In questa situazione, quindi, si può affermare che il fondo di dotazione non costituisce un contributo pubblico.

Il risultato suindicato è ulteriormente avvalorato, per la sezione, dalle norme riguardanti le società pubbliche.

La sezione rileva, infatti, come siano stati rivolti alle società pubbliche e alle aziende speciali gli stessi precetti, sia pure in contesti normativi differenti, ma ciò solo per effetto della quasi contemporanea entrata in vigore del Tusp (22). In definitiva, quindi, il trattamento riservato agli amministratori delle aziende speciali anche consortili deve es-sere equiparato a quello delle società pubbliche, purché – come detto – le suddette aziende non ricevano contributi. Fra i contributi non rientrano il fondo di dotazione dell’azienda speciale e il corrispettivo da questa percepito per la prestazione del servizio.

La sezione, in limine, svolge, infatti, un ulteriore approfondimento sul concetto di contributo, occupandosi del corrispettivo percepito dalle aziende speciali a fronte del servizio reso.

Evidenzia in proposito come neppure quest’ultimo possa essere ascritto a contributo, perché ha natura sinallagma-tica ed è riportato in bilancio nella voce A1 del conto economico (Ricavi dalle vendite).

La precisazione della sezione sul punto appare quanto mai opportuna, in quanto tronca sul nascere eventuali, ulte-riori ipotesi di applicabilità dell’art. 6, c. 2, ove tale corrispettivo fosse considerato contributo.

In definitiva, il trattamento riservato agli amministratori delle aziende speciali, anche consortili, deve essere equi-parato a quello delle società pubbliche, purché le suddette aziende non ricevano contributi.

Fra i contributi, come detto, secondo la Sezione delle autonomie non vanno annoverati il fondo di dotazione e i corrispettivi percepiti per effetto della prestazione del servizio, mentre sicuramente vanno considerati come contributi eventuali somme corrisposte alle aziende speciali ai sensi dell’art. 114, c. 6, Tuel e dell’art. 11-ter del d.lgs. n. 118/2011 (23).

In definitiva, quindi la sezione delibera che l’art. 6, c. 2, più volte citato si applichi alle aziende speciali anche consortili che “vivano” delle risorse dell’ente locale. Le altre aziende speciali che non ricevano contributi effettue-ranno una decurtazione del 30 per cento dei compensi dei loro amministratori, qualora: a) siano affidatarie dirette di servizi e b) abbiano riportato perdite negli ultimi tre esercizi.

Riepilogando, si può affermare, sul divieto di erogazione di compensi agli amministratori di aziende speciali che:

- tale obbligo sussiste per aziende che ricevono contributi (divieto assoluto). Non sono però contributi né il fondo di dotazione, né il corrispettivo per il servizio;

- l’obbligo non sussiste per aziende che non ricevono contributi (piena legittimità dell’erogazione);

- ove le aziende sub b) siano affidatarie di servizi ed abbiano riportato perdite negli ultimi tre esercizi, deve essere diminuita del 30 per cento l’erogazione di compensi ai loro amministratori (erogazione attenuata).

7. Brevi conclusioni

1. La delibera della Sezione autonomie rappresenta un valido ed efficace intervento della Corte dei conti per forni-re coerenti linee di indirizzo, in ordine ad una questione che ha presentato non pochi elementi di complessità.

Si è rappresentato, infatti, in apertura del presente scritto, come per le aziende speciali, anche consortili, in un primo tempo – per la gratuità degli incarichi – si fosse fatto riferimento all’art. 5 e non all’art. 6 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, assimilando i consorzi impresa ai consorzi di funzioni e applicando una norma che per soggetti e per oggetto non avrebbe dovuto essere utilizzata.

(20) Lo schema tipo di bilancio di esercizio delle aziende di servizi dipendenti dagli enti territoriali è stato approvato dal Ministero

del tesoro con d.m. 26 aprile 1995, ai sensi del d.p.r. 4 ottobre 1986, n. 902. In particolare, è l’art. 44 dello schema tipo che dispone l’iscrizione nei termini di cui si è detto.

(21) Cfr. Corte conti, Sez. autonomie, 21 gennaio 2014, n. 2, in Giur. comm., 2015, II, 919, con nota di G. Carraro, Trasformazione eterogenea regressiva di società a capitale pubblico.

(22) L’art. 1, c. 554, l. n. 147/2013, nella sua originaria formulazione, era diretto tanto alle società pubbliche quanto alle aziende spe-ciali. L’entrata in vigore del Tusp ha di fatto shiftato la disposizione. Il c. 554 è rimasto di pertinenza delle aziende speciali, mentre per le società pubbliche la disposizione è stata replicata nell’art. 21, c. 3.

Analogamente per le misure di conferimento a fondo perdite in caso di risultato di esercizio negativo per l’esercizio precedente. Per le aziende speciali si applica l’art. 1, cc. 551 e 552, della legge sopra citata, per le società pubbliche l’art. 21, cc. 1 e 2, Tusp.

(23) Sempre nella delib. in commento, p. 11.

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Poi si è citato quell’orientamento all’interno della Corte stessa che, basandosi sulla sentenza della Corte costitu-zionale n. 161/2012, aveva individuato de plano negli amministratori delle aziende speciali, anche consortili, i sog-getti destinatari dell’art. 6, c. 2, della legge citata.

Ciò talvolta sul presupposto che il fondo di dotazione dovesse essere considerato un contributo pubblico.

Oggi la Sezione delle autonomie con la sua deliberazione fa chiarezza.

Stabilisce il principio che l’applicazione dell’art. 6, c. 2, ha come destinatari solo gli amministratori di aziende speciali che godano di contributi pubblici.

Fra tali contributi non si possono ascrivere il fondo di dotazione e il corrispettivo per la prestazione del servizio erogato dall’azienda speciale.

Infine, costituiscono sicuramente contributi, con conseguente applicazione dell’art. 6, c. 2, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, quelli percepiti dalle aziende speciali ex art. 114, c. 6, Tuel e dell’art. 11-ter del d.lgs. n. 118/2011.

2. Se si volessero rassegnare alcune considerazioni finali sulla delibera non solo in punto di diritto, ma anche in linea generale, si dovrebbe evidenziare come la Corte superi quel concetto di “taglio a tutti i costi” che sembra aver guidato l’azione del legislatore e della Corte stessa in questi ultimi anni.

Il superamento di tale concetto appare quanto mai opportuno.

Stabilire che gli amministratori di un’azienda speciale non dovessero percepire compensi, che la carica fosse me-ramente onorifica, sembrava infatti un atto o di sfida o di miopia.

Di sfida perché solo chi avesse voluto sfidare la sorte avrebbe assunto un incarico, in alcuni casi davvero gravoso, potenzialmente atto a creare conseguenze dannose a livello di patrimonio personale, o di miopia perché in tal modo si sarebbero allontanati i migliori che, senza nemmeno un’incentivazione economica, non avrebbero certo accettato un incarico di gestione.

Con il postulato della gratuità si sarebbe, poi, ulteriormente impoverito di risorse il sistema pubblico a favore del comparto privato.

La deliberazione della Sezione delle autonomie sembra trovare un corretto punto di equilibrio nel riconoscere compensi agli amministratori di aziende speciali, anche consortili, che agiscono a pieno titolo come imprese sul mer-cato e che non possono che essere soggette, come le società pubbliche, alle regole del mercato stesso, anche per quel che riguarda i compensi degli amministratori.

Diverso il caso di aziende che – come evidenzia la Corte – “vivono” di contributi.

In tal caso l’aspetto della contribuzione pubblica assume un rilievo prevalente e la gratuità dell’incarico trova fon-damento nella corretta considerazione che tali aziende, proprio in virtù della contribuzione, meno sono imprese e più sono soggetti pubblici.

Certamente – se si vuole rendere un’opinione completa – non si può non sottolineare come probabilmente anche tale assunto andrebbe ripensato; in quanto anche nel caso di aziende che vivano di contributi pubblici sussistono pro-fili di responsabilità degli amministratori e la necessità di attirare le migliori risorse per la gestione della macchina pubblica.

L’auspicio è dunque che, con criteri di equità e ragionevolezza, il concetto della gratuità per chi presta attività di gestione per soggetti pubblici possa essere adeguatamente ripensato nell’ottica suindicata.

Ma è un auspicio de iure condendo.

Ad oggi l’interpretazione della norma è, e non può che essere, quella resa della Sezione delle autonomie.

* * *

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EVOLUZIONE DELLA TUTELA DEGLI INTERESSI DIFFUSI

INNANZI ALLE GIURISDIZIONI AMMINISTRATIVA E CONTABILE

di Massimiano Sciascia (*)

Sommario: 1. Sviluppo e affermazione della nozione di interesse diffuso. – 2. Configurazione giuridica degli interessi diffusi. – 3. Le problematiche sulla legittimazione attiva innanzi alla giurisdizione amministrativa. – 4. Le pro-blematiche sulla legittimazione attiva nella giurisdizione contabile. – 5. Rapporti ed interferenze tra le due giuri-sdizioni.

1. Sviluppo e affermazione della nozione di interesse diffuso

La teorica dell’interesse diffuso costituisce un’importante tappa nel lungo e tortuoso processo di affermazione e trasposizione sul piano giuridico di posizioni sostanziali a carattere superindividuale di rilevanza pubblica e a caratte-re altruistico.

La costruzione dello Stato di diritto secondo una visione autoritaria ereditata dell’assolutismo monarchico, specie nei rapporti del settore pubblico con i cittadini, ha tra l’altro determinato il fenomeno della concentrazione negli enti pubblici esponenziali, particolarmente quelli territoriali, degli interessi dei consociati uti cives.

Tali interessi sono cioè rimessi alla cura delle amministrazioni territoriali e prima di tutto dello Stato, divenendo loro competenze istituzionali, sicché sono stati formalmente intestati ad essi stessi.

La conseguenza è stata l’espropriazione di tali beni a danno dei cittadini, i quali possono incidere, in un regime democratico, solo attraverso lo strumento elettorale, che spesso risulta evanescente nel concreto.

Ma il c.d. distacco del Paese reale dal Paese legale, manifestatosi prepotentemente a livello socio-politico negli ul-timi decenni del secolo scorso con la crisi del rapporto tra Stato e cittadini, ha determinato il sorgere di una nuova co-scienza sociale particolarmente nei settori di maggiore sensibilità, quale salute e ambiente, cui sono seguiti altri, quali paesaggio e beni culturali, nonché i c.d. beni comuni, quali il mare, l’aria, ecc. (1)

Purtroppo a tale recente evoluzione sociale, che pure è oggetto di considerazione a livello costituzionale, non ha corrisposto l’adeguamento degli strumenti giuridici per consentirne la piena e diretta tutela da parte dei cittadini, tal-ché si sono dovuti utilizzare mezzi tradizionali, ancorché attraverso forzature a volte difficili.

Ma permane l’incertezza nella corretta definizione concettuale di tali posizioni, che presentano aspetti anche con-traddittori, scontando i limiti della costruzione degli interessi legittimi.

2. Configurazione giuridica degli interessi diffusi

Gli interessi de quibus si configurano invero quali espressione di diritti facenti capo alle varie collettività, in quan-to le uniche posizioni giuridiche sostanziali attive sono costituite, oltre che dai poteri, dai diritti soggettivi; chiara-mente si tratta di diritti collettivi, di cui cioè è titolare non un individuo, bensì la comunità interessata.

Ma la dottrina amministrativistica (2), conformemente alla sistematica giurisprudenziale (3), continua a considera-re tale categoria degli interessi diffusi quali interessi che possono divenire “legittimi” solo allorché si concretino in capo ad associazioni protezionistiche o similia.

Mai come in questa vicenda si rivelano i limiti della teorica dominante sull’interesse legittimo, cui ci si sforza sempre di attribuire un valore sostanziale, piuttosto che inserirlo nel campo dei meri c.d. diritti d’azione connessi a diritti soggettivi.

Va osservato che, a latere dello sviluppo di tale forma di tutela innanzi al giudice amministrativo, ignorata dalla dottrina del settore, si è sviluppato un altro filone ad opera della più illuminata giurisprudenza della Corte dei conti, che, sin dagli anni Settanta, ha elaborato la nozione di danno ambientale, e più in generale di danno da lesione di di-ritti collettivi, quale danno erariale (4).

(*) Professore straordinario di Diritto amministrativo presso l’Università telematica “Pegaso”.

(1) M. Cresti, Contributo allo studio della tutela degli interessi diffusi, Milano, Giuffrè, 1992, 94.

(2) Aa.Vv., Le azioni a tutela degli interessi collettivi (Atti del convegno, Pavia, 11-12 giugno 1974), Padova, Cedam, 1976; Aa.Vv., Rilevanza e tutela degli interessi diffusi: modi e forme di individuazione e protezione degli interessi della collettività (Atti del 23° conve-gno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 22-24 settembre 1977), Milano, Giuffrè, 1978.

(3) Nella vicenda “Italia nostra”, v. Cons. Stato, Sez. V, 9 marzo 1973, n. 253; Cass., S.U., 8 maggio 1978, n. 2207; Cons. Stato, Ad. plen., 19 novembre 1979, n. 24; Tar Campania, Napoli, Sez. I, 15 gennaio 2008, n. 204; Cons. Stato, Sez. VI, 16 luglio 1990, n. 728, in Foro it., 1991, III, 485, con nota di richiami. In dottrina, v. N. Trocker, Gli interessi diffusi nell’opera della giurisprudenza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1987, 1112.

(4) P. Maddalena, Giurisdizione contabile e tutela degli interessi diffusi, in Cons. Stato, 1982, 291.

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Si prende le mosse dal considerare che la conservazione e la tutela dei beni comuni – quali il suolo, il mare, l’aria con i connessi valori protezionistici della salute, dell’ambiente, del paesaggio, dei beni culturali, degli equilibri eco-nomici del Paese, ecc. – costituiscono utilità per tutti i cittadini, espressione di diritti appartenenti alle collettività ter-ritoriali aggregate ai vari livelli istituzionali.

In quanto tali, la cura amministrativa di tali diritti è ordinariamente affidata a comuni, province, regioni e Stato, con i loro enti strumentali, divenendo, come già riferito, competenze istituzionali di tali enti.

Ma tale sistematica, nell’evoluzione della coscienza civile e sociale, non è stata più ritenuta bastevole, conside-rando che spesso essi sono compressi tra altre competenze.

Di tale esigenza emergente si è fatta carico da un lato il giudice amministrativo, nella sua competenza generale di legittimità e poi in quella esclusiva, e dall’altro la Corte dei conti, giudice naturale dei pregiudizi pubblici (5).

3. Le problematiche sulla legittimazione attiva innanzi alla giurisdizione amministrativa

Il problema maggiormente incidente è costituito dalla legittimazione ad azionare tali posizioni soggettive afferenti a res communes omnium e considerate erroneamente res nullius.

Infatti l’interesse diffuso, nell’impostazione tradizionale, risulta adespota, cioè privo di titolare, talché non si di-stingue in concreto da un interesse di fatto, cioè non protetto da alcuna norma.

Ne deriva l’impossibilità di adire il giudice amministrativo, innanzi al quale è necessaria una legittimazione indi-viduale, salvo riconoscerla in capo a soggetti collettivi, a carattere associativo o istituzionale, che statutariamente si pongono quali portatori “differenziati” di tali interessi (6).

In questo modo l’interesse diffuso perde la sua caratteristica di “adespota”, nei limiti in cui l’ordinamento consen-te di individuarne un portatore legittimato a esercitare le relative azioni (7).

Come è stato giustamente osservato (8), la necessaria presenza di un soggetto esponenziale – oltre a non modifi-care l’ormai superata impostazione autoritativa, che tra l’altro deresponsabilizza i cittadini – determina, altresì, una sorta di “mutazione genetica” dell’interesse, che viene separato dai singoli componenti il gruppo di riferimento, così espropriati del potere di far valere giudizialmente le proprie ragioni (9).

Alla pari degli interessi di categoria (così detti interessi collettivi (10)), gli interessi diffusi, attraverso la loro im-putazione a un soggetto collettivo imposta da un’opzione normativa o meglio esegetica, subiscono un processo di sin-tesi e divengono interessi individualizzati dell’organizzazione (11).

In termini pratici questa impostazione evita il rischio che, ampliata la legittimazione a ricorrere, si introduca una generale azione popolare potenzialmente in grado di snaturare lo stesso processo amministrativo (12).

Ma tale esigenza non può sacrificare il cittadino, che sarebbe costretto, in violazione dell’art. 2 della Costituzione, a partecipare ad un ente associativo costituente un gruppo intermedio per esercitare diritti fondamentali che dovrebbe-ro ricadere, innanzitutto, nella titolarità dei singoli individui pregiudicati direttamente dalla lesione di essi (13).

Appare evidente inoltre che la necessaria intermediazione del gruppo organizzato (14) si pone in contrasto con l’art. 24 della Costituzione, allorché la sottostante posizione sostanziale sia riconosciuta oggettivamente come degna

(5) F.G. Scoca, Tutela dell’ambiente: la difforme utilizzazione della categoria dell’interesse diffuso da parte dei giudici amministra-

tivo, civile e contabile, in Dir. soc., 1985, 645; R. Donzelli, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, Napoli, Jovene, 2008, 420.

(6) R. Villata, Legittimazione processuale (dir. proc. amm.), in Enc. giur., vol. V; R. Ferrara, Interesse e legittimazione al ricorso (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Digesto pubbl., vol. VIII, 1993, 471

(7) M.S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. I, Milano, Giuffrè, 1990, 180. C. Punzi, La tutela giudiziale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, in Riv dir. proc., 2002, 649.

(8) M. Nigro, Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, in Foro it., 1987, V, 15; Id., Formazioni sociali, poteri privati e libertà del terzo, in Politica del diritto, 1975, 585.

(9) A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2010, 91.

(10) B. Caravita, Interessi diffusi e collettivi, in Dir. e società, 1982, 187; S. Pugliatti, Diritto pubblico e diritto privato, in Enc. dir., vol. XII, 1964; M.S. Giannini, La tutela degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi, in Aa.Vv., Le azioni a tutela degli inte-ressi collettivi, cit., 23.

(11) A. Orestano, Interessi seriali, diffusi e collettivi: profili civilistici di tutela, in S. Menchini (a cura di), Le azioni seriali, Napoli, Esi, 2008, 24.

(12) M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, il Mulino, 1983, 135; Id., Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, cit., 9; S. Cassese, Gli interessi diffusi e la loro tutela, in L. Lanfranchi (a cura di), La tutela degli interessi collettivi e diffusi, Torino, Giappichelli, 2003, 569; D. Borghesi, Azione popolare, in Enc. giur., vol. VII, 1988; L. Paladin, Azione popolare, in Noviss. dig. it., vol. II, 1958, 91; F. Astone et al. (a cura di), Cittadinanza ed azioni popolari (Atti del convegno, Co-panello, 29-30 giugno 2007), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010; V. Crisafulli, Azione popolare, in Noviss. dig. it., vol. II, 1937, 140; F. Manganaro, L’azione di classe in un’amministrazione che cambia, in <www.giustamm.it>, 2010.

(13) A. Barbera, Commento dell’art. 2 della Costituzione, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, Zani-chelli, Roma, Soc. ed. del Foro italiano, 1991, 50.

(14) Gli organismi devono perseguire statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela ambientale, devono possedere un adeguato grado di rappresentatività e stabilità e devono avere un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizio-

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di protezione giuridica, senza cha abbia alcun rilievo su tale qualificazione la verifica della legittimazione, afferente esclusivamente alla possibilità astratta che il ricorrente possieda la posizione di cui si affermi titolare (15).

In altri termini la protezione concerne una posizione sostanziale ritenuta meritevole di tutela, che non può essere limitata nella possibilità concreta di accesso, alterando il necessario rapporto tra il profilo sostanziale della rilevanza giuridica di un interesse e la legittimazione ad agire nel processo (16).

Su tale linea è stata approvata la l. n. 31/2019, che ha generalizzato nel nostro ordinamento la class action a tutela degli interessi individuali omogenei.

De iure condendo, sarebbe auspicabile da l’introduzione di un’azione popolare esercitabile da qualunque interes-sato a tutela dei più rilevanti beni collettivi e comuni nonché il riconoscimento della legittimazione attiva innanzi al giudice amministrativo del pubblico ministero funzionante presso la Corte dei conti. In particolare questa legittima-zione straordinaria di un organo rappresentante la comunità dei cittadini consentirebbe la chiusura del sistema, laddo-ve un pregiudizio derivi da un atto illegittimo che permarrebbe, con effetti ulteriormente dannosi, nonostante un giu-dicato contabile di condanna.

4. Le problematiche sulla legittimazione attiva nella giurisdizione contabile

Più agevole è risultata la soluzione, sul piano risarcitorio, per la giurisdizione della Corte dei conti, in cui funziona un organo attivo costituito dal pubblico ministero contabile, il quale ha giustamente ritenuto che la mancata protezio-ne di tali valori, da parte di chi vi sia istituzionalmente tenuto, ridondi a danno erariale per vari motivi (17).

Si rileva da un lato un danno diretto per la lesione in quanto tale del bene comune e dall’altro un danno indiretto per le spese rese necessarie al ripristino del bene comune pregiudicato.

Sono state così avviate numerose azioni con successivi giudizi e condanne di coloro che avrebbero dovuto vigilare ed agire a tutela di tali beni e valori comuni.

In relazione al diritto collettivo di maggiore impatto sociale, quale l’ambiente, la materia è stata oggetto in tempi relativamente recenti di un organico intervento legislativo con l’approvazione di un apposito testo unico giusto il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.

Sono stati, in pratica, confermati i punti di arrivo della giurisprudenza amministrativa e contabile per i diversi pro-fili di tutela giurisdizionale.

Ma il problema è molto più ampio, in quanto a fianco dell’ambiente, in cui incide una normativa speciale introdot-ta dal codice dell’ambiente, sussistono altri rilevantissimi aspetti analoghi come il paesaggio, i beni culturali, gli equi-libri economici del Paese, ecc.

La struttura del giudizio di responsabilità della Corte dei conti rende ammissibile la concentrazione della legitti-mazione attiva nel procuratore contabile, che raffigura il pubblico ministero; organo quest’ultimo istituzionalmente rappresentante la collettività dei cittadini, che risulta titolare di diritti collettivi, nella cui nozione rientra la teorica dell’interesse diffuso.

Gli enti esponenziali, pubblici e privati, sono a loro volta legittimati a partecipare al giudizio instaurato dal pub-blico ministero, attraverso lo strumento dell’intervento ad adiuvandum.

Ciò non toglie, anzi è senz’altro auspicabile, che de iure condendo si introduca un’azione popolare direttamente rimessa ai cittadini singoli o associati, con intervento obbligatorio del pubblico ministero contabile.

5. Rapporti ed interferenze tra le due giurisdizioni

L’autonomia, nonché la diversità di piani su cui si muovono, caratterizzano i rapporti esistenti tra il giudizio con-tabile e il giudizio amministrativo dall’altro, nell’ipotesi in cui tali tipologie di giudizi riguardino lo stesso oggetto e lo stesso fatto.

I due giudizi hanno caratteri propri che li distinguono nettamente, sia riguardo alla causa petendi (18) sia per quanto attiene al petitum (19), specie nell’esercizio da parte del giudice amministrativo della tradizionale competenza di legittimità (20), sì da giustificare l’assoluta separatezza.

ne collettiva che si assume leso (Cons. Stato, Sez. IV, 16 febbraio 2010, n. 885, in Foro amm.-CdS, 2010, 305). I medesimi requisiti sono abitualmente utilizzati anche fuori dalla materia ambientale per ammettere al giudizio soggetti collettivi portatori di interessi diffusi (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 26 ottobre 2009, n. 2549, in Foro amm.-CdS, 2009, 2415 (m); Tar Lazio, Roma, Sez. III, 30 marzo 2010, n. 5169).

(15) R. Villata, op. cit.; R. Ferrara, op. cit., 471.

(16) A. Proto Pisani, Introduzione sulla atipicità dell’azione e la strumentalità del processo, in Foro it., 2012, V, 4; C. Cudia, Gli in-teressi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2012, 92 ss.). L’idea di fondo è che la dimensione plurima debba risaltare esclusivamente nei termini di un’aggregazione di più interessi individuali, di modo che ogni membro del gruppo può essere titolare dell’interesse in questione e legittimato ad agire uti singulus, mentre i soggetti collettivi assumono una le-gittimazione (non esclusiva, ma) aggiuntiva.

(17) M. Sciascia, La giurisdizionalità della funzione di controllo della Corte dei conti a tutela degli interessi diffusi, in questa Rivi-sta, 1981, 747.

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Anche nella materia dei c.d. interessi diffusi o diritti collettivi gli interventi dei due apparati giurisdizionali si muovono su piani separati senza particolari interferenze e senza che i giudicati possano vincolare in alcun aspetto i giudizi presso l’altra giurisdizione.

L’atto amministrativo, quando costituisce un aspetto della condotta illecita esaminata dal giudice contabile, viene in rilievo su di un piano oggettivo e, differentemente dalla giurisdizione amministrativa, non come semplice connota-to da riconoscere o negare ad un atto in relazione ai motivi di impugnazione di carattere formale ed alle circostanze susseguenti (ad esempio, consolidamento per decorso del tempo, inoppugnabilità, ecc.) (21); d’altronde la Corte dei conti si limita ad accertare ed eventualmente condannare, considerando che proprio l’illegittimità dell’atto illegittimo costituisce generalmente il presupposto dell’accertamento di responsabilità nella sua adozione.

Allo stesso modo non costituisce causa di insindacabilità in sede di giudizio contabile l’inoppugnabilità dell’atto per decorso dei termini (22).

Con l’attribuzione al giudice amministrativo di poteri di condanna per danni connessi, particolarmente, nell’espletamento di servizi pubblici, non possono non trovare applicazione i principi enunciati al proposito dei giu-dizi civili per danno c.d. indiretto a pubbliche amministrazioni (23).

I principi dell’autonomia e della separatezza dei due giudizi portano anche ad escludere la sussistenza di un rap-porto di pregiudizialità tra giudizio civile e giudizio contabile, con la conseguenza che un’eventuale sospensione ne-cessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c. è ammissibile solo nel caso in cui serva a “prevenire quel conflitto di decisioni che si manifesta quando il contenuto di una di esse rivela l’ingiustizia dell’altra, così risultando determinante l’accertamento della sussistenza di una condizione di indispensabile antecedenza sia logica che giuridica e che si strutturi poi con efficacia di giudicato”.

* * *

(18) Difatti la causa petendi in questo risulta essere la situazione giuridica, in genere un interesse legittimo, che si presume lesa da un

provvedimento amministrativo posto in essere contra legem; nel giudizio contabile invece essa si concretizza in un fatto illecito, che nei giudizi di responsabilità consiste nella condotta antigiuridica del pubblico agente che si sostanzia in un’attività materiale, attiva o omissi-va, ritenuta lesiva, altresì, di un diritto avente natura patrimoniale facente capo allo Stato o ad altro ente pubblico.

(19) Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, 13 gennaio 1997, n. 2, in questa Rivista, 1997, fasc. 1, 117: “Nel giudizio amministrativo di legittimità il petitum si sostanzia nella sentenza di annullamento o di riforma dell’atto impugnato, nel giudizio contabile si concreta, in-vece, in una richiesta risarcitoria di un danno ingiusto ovvero in un accertamento di un fatto o di un diritto. Presentandosi la legittimità non quale presupposto ma quale elemento costitutivo dell’illecito, l’esame dell’atto amministrativo, pur costituendo un antecedente logi-co e cronologico nell’ambito della vicenda dannosa, rientra nell’oggetto principale del processo, senza poterlo inquadrare nelle pregiu-diziali. Innanzi al giudice contabile l’atto si presenta quale componente del fatto dannoso e viene esaminato in tale veste sotto ogni pro-filo rilevante per la configurazione dell’illecito”. Nello stesso senso, Corte conti, Sez. riun., ord. 15 ottobre 2018, n. 1.

(20) Corte conti, Sez. I, 10 luglio 1985, n. 163, in Foro it., 1987, III, 293, con nota di richiami.

(21) In ragione della differente ottica con cui sono presi in considerazione, non si può ipotizzare un effettivo contrasto di giudicati sullo stesso atto, riguardando il giudicato amministrativo la sussistenza di determinati vizi, eminentemente di natura formale, limitata-mente a quelli evidenziati a scelta del ricorrente come motivi del gravame in contrapposizione dialettica con le argomentazioni dei sog-getti controinteressati resistenti, nonché la concorrenza di situazioni sopravvenute ad efficacia sanante ex nunc (quale, ad esempio, il de-corso del tempo, ecc.), mentre il giudicato contabile la legalità intesa come conformità concreta e piena (cioè non solo formale, ma anche e soprattutto sostanziale) dell’atto alla fattispecie normativa sotto il profilo oggettivo, senza alcuna diretta influenza del profilo soggetti-vo, rappresentato dalla lesione di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo. Ne deriva, logicamente, che l’affermazione della legit-timità di un provvedimento da parte del giudice amministrativo, necessariamente parziale e relativa, non toglie che l’atto possa presentare altri aspetti di legalità formale e sostanziale, come tali causativi di danno erariale.

(22) Corte conti, Sez. II centr. app., 22 maggio 1991, n. 208: ove sia intervenuta una sentenza del giudice amministrativo che abbia affermato la legittimità di un provvedimento posto dal procuratore regionale presso la Corte dei conti a fondamento della pretesa di risar-cimento del danno erariale, tale sentenza non ha efficacia preclusiva della responsabilità giudicata dalla Corte dei conti.

(23) Un profilo specifico, di particolare interesse, attinente ai rapporti tra i due giudizi, è quello relativo alla ipotesi in cui l’amministrazione abbia, nell’esercizio dei propri poteri di autotutela, disposto il recupero di somme illegittimamente erogate, ed i relati-vi provvedimenti di recupero siano stati impugnati innanzi al Tar. La prevalente dottrina e la giurisprudenza ritengono che il giudizio sul-la liceità del comportamento posto in essere dai convenuti non è affatto influenzato dalla decisione del giudice amministrativo riguardo alla legittimità dei provvedimenti amministrativi di recupero impugnati. È chiaro però che l’accoglimento o il rigetto dei ricorsi proposti avrà influenza in ordine all’entità del danno prodotto, poiché, se l’atto amministrativo di recupero supererà l’esame del giudice ammini-strativo, il danno erariale verrà meno o quantomeno, si ridurrà nella sua effettiva portata. Situazione diametralmente diversa si delinea, allorché un giudicato amministrativo statuisca l’illegittimità di un atto, in quanto esso ha natura costitutiva disponendo l’annullamento dello stesso. Un siffatto giudicato ha efficacia vincolante in riferimento al vizio accertato irrevocabilmente dal giudice amministrativo ed al fatto storico della espunzione del provvedimento dal mondo giuridico, ancorché il giudice contabile sia libero di inquadrare tale situa-zione nella costruzione dell’eventuale illecito derivato.

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LA QUESTIONE DELLE DEROGHE ALLA COSTITUZIONE

E L’INTRODUZIONE DEL PRINCIPIO DEL PAREGGIO DI BILANCIO

di Alessandro Antonio Pracilio

Abstract: La legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio nell’ordinamento giuridico italiano, ha determinato la revisione e la letterale riscrittura degli artt. 81, 97, 117 e 119 Cost. Ciò pone nuovamente all’attenzione del giurista un tema classico del diritto costituzionale: la distinzio-ne – se esistente – tra leggi costituzionali e leggi di revisione della Costituzione. Il dilemma, mai definitivamente risoluto, conduce ad interrogarsi circa l’ammissibilità o meno di deroghe alla Costituzione mediante leggi costitu-zionali, ben inteso che qualsivoglia conclusione incide sull’assetto dei rapporti tra potere costituente e potere co-stituito di revisione costituzionale. Così, in un momento storico-politico connotato da una notevole tendenza al “revisionismo costituzionale”, il presente scritto intende proporre un’analisi del tema alla luce di un nuovo ap-proccio interpretativo incentrato sul concetto di “rottura” della Costituzione.

Sommario: 1. Posizione del problema. – 2. Una premessa: inquadramento della figura giuridica della deroga alla Costituzione. – 3. Leggi “di revisione della Costituzione” e “altre leggi costituzionali”. – 4. Le leggi costituziona-li come leggi di deroga alla Costituzione. – 5. Leggi costituzionali di deroga e “rottura” della Costituzione: criti-ca della tesi sulla natura provvedimentale delle rotture. – 6. I limiti alla possibilità di introdurre deroghe nei con-fronti di disposizioni della Costituzione recanti “autorotture”: una nuova tesi. – 7. Conclusioni.

1. Posizione del problema

Come noto, con la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano il cosiddetto “principio del pareggio di bilancio”, che da allora tanta parte ha rivestito e continua a rivestire nelle fun-zioni giurisprudenziali e di controllo della magistratura contabile. La portata prescrittiva del principio nasce dall’intendimento di imporre allo Stato il perseguimento di politiche anticicliche, cioè di segno opposto a quello della congiuntura economica, di talché nelle fasi di recessione – nelle quali il gettito delle entrate fiscali si riduce ed au-mentano in maniera automatica le spese dovute agli ammortizzatori sociali – l’equilibrio tra entrate e spese sia co-struito rendendo le seconde eccedenti rispetto alle prime, mentre nelle fasi di espansione economica – in cui il gettito fiscale aumenta e gli ammortizzatori sociali generano minore spesa – l’equilibrio sia costruito in maniera esattamente opposta, cioè con una eccedenza delle entrate rispetto alle spese (1).

È altresì noto toto coelo come l’introduzione del principio del pareggio di bilancio sia stata accompagnata in Italia da una copiosa elaborazione dottrinale (2) volta a scrutinare, di caso in caso, i diversi profili problematici ad essa col-legati, non ultima la questione dell’opportunità stessa della costituzionalizzazione, in un momento di grave crisi eco-nomico-finanziaria, di regole ascrivibili a politiche economiche rigorosamente restrittive.

Per questa ragione, lo scopo del presente scritto non è quello di insistere ulteriormente sugli aspetti di merito già trattati in autorevoli studi, bensì quello di analizzare l’introduzione del principio in parola come problema formale ovvero “di metodo”, se ricondotto nel più ampio tema delle fonti del diritto.

Orbene, la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, ha modificato e letteralmente riscritto gli artt. 81, 97, 117 e 119 della Carta costituzionale. Eppure, a ben vedere, l’art. 138 Cost. parla, con riferimento agli strumenti normativi atti alla modifica costituzionale, di “leggi di revisione della Costituzione” e di “altre leggi costituzionali” (3). Ora, se

(1) Cfr. A. Brancasi, Il principio del pareggio di bilancio in Costituzione, in <www.osservatoriosullefonti.it>, 2012.

(2) Senza alcuna pretesa di esaustività, si rinvia a: A. Brancasi, L’introduzione del principio del c.d. pareggio di bilancio: un esempio di revisione affrettata della Costituzione, in Quaderni costituzionali, 2012, 108; D. Cabras, L’introduzione del principio del c.d. pareggio di bilancio: una regola importante per la stabilizzazione della finanza pubblica, ibidem, 111; G. D’Auria, Sull’ingresso in Costituzione del principio del “pareggio di bilancio” (a proposito di un recente parere delle Sezioni riunite della Corte dei conti), in Foro it., 2012, III, 55; D. De Grazia, L’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione (tra vincoli europei e zelo del legislatore), in Giur. cost., 2012, 2483; C. Goretti, Costituzione e pareggio di bilancio: gli effetti della riforma costituzionale del 2012 sulla decisione di bilancio, in Il Filangieri, 2012, 203; N. Lupo, La revisione costituzionale della disciplina di bilancio e il sistema delle fonti, ibidem, 89; M. Mazziotti Di Celso, Note minime sulla legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, in Giur. cost., 2012, 3791; D. Piccione, Revisione e legislazione costituzionale ai tempi delle crisi (riserve sul procedimento di codificazione costituzionale del principio di pareggio del bi-lancio. In ricordo di Federico Caffè, a venticinque anni dalla scomparsa), ibidem, 3859.

(3) Art. 138 Cost.: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Ca-mera nella seconda votazione.

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l’atto normativo recante le nuove norme sul pareggio di bilancio è espressamente qualificato come “legge costituzio-nale”, non si comprende invero quale debba essere la funzione delle “leggi di revisione della Costituzione” di cui all’art. 138.

Già si è consapevoli del rischio a cui può condurre un’operazione ermeneutica affetta da elefantiasi interpretativa e da scrupolose operazioni di categorizzazione, ma ignorare la distinzione tra legge di revisione della Costituzione e legge costituzionale potrebbe significare addirittura eludere la portata precettiva dell’art. 138 della Carta costituziona-le, a meno che non si voglia tacciare di ipertrofia normativa la redazione della disposizione ad opera dei Costituenti e relegare dunque la distinzione in essa contenuta nell’alveo dell’insignificanza giuridica, svuotandola di contenuta prescrittivo.

Di qui l’opportunità di indagare circa la possibilità di considerare la legge costituzionale in parola, se intesa quale elusione delle forme prescritte dall’art. 138 della Carta, come una fattispecie di vera e propria deroga alla Costituzio-ne. Pertanto, l’introduzione del principio del pareggio di bilancio, lungi dal rimaner confinata ad esclusivo tema di politica economica e contabilità pubblica, pare possa costituire l’occasione per far tornare in auge – dopo un certo as-sopimento della dottrina italiana sul tema – il problema delle deroghe alla Costituzione come questione di teoria ge-nerale del diritto e dello Stato.

Si intende dunque recuperare, con il presente scritto, il tema della distinzione tra leggi di revisione della Costitu-zione e leggi costituzionali, onde poter analizzare – dapprima e su un piano più generale – l’ammissibilità o meno di deroghe alla Costituzione nell’ordinamento giuridico, riconducendo poi le regole del pareggio di bilancio introdotte nel 2012 entro il più ampio tema delle fonti del diritto.

2. Una premessa: inquadramento della figura giuridica della deroga alla Costituzione

La cessazione della vigenza di una norma può verificarsi in conseguenza di circostanze ed eventi diversi, con ef-fetti che variano di volta in volta. La revisione costituzionale, intesa come “modifica del testo delle disposizioni costi-tuzionali vigenti” (4), provoca tale cessazione mediante l’istituto della “abrogazione”, il cui effetto consiste nella “cessazione dell’efficacia della norma giuridica precedente, che non sarà più idonea a produrre effetti giuridici” (5). L’abrogazione è in tal senso presupposta dall’art. 138 Cost. quando, ammettendo che leggi successive possano anche “modificare” disposizioni formalmente costituzionali, purché adottate con l’apposita procedura, consente un’abrogazione totale o parziale di tali disposizioni (6).

Nettamente diversa dalla revisione costituzionale è invece la figura della “deroga”. In particolare, le deroghe alla Costituzione si concretano, secondo la definizione che ne dà Carl Schmitt, in “violazioni di disposizioni costituzionali in uno o più casi determinati, ma come eccezione, ossia con il presupposto che le disposizioni trasgredite per il resto continuino immutate ad esser valide e non sono quindi né definitivamente soppresse né temporaneamente private del-la loro vigenza” (7).

Si comprenderà, di tal modo, che la preferenza per la norma derogatoria “non si esprime né con riferimento all’efficacia della norma (come per l’abrogazione), né con riferimento alla sua validità (come per l’ipotesi di annul-lamento), ma guardando all’ambito di applicazione delle norme” (8). In questo modo la disposizione di deroga, ascri-vendosi alla categoria della “eccezione normativa”, sottrae di fatto particolari ipotesi alla generale disciplina dettata da una norma-principio per assoggettarle invece a disciplina diversa. Anzi, non solo qui non è posta in essere nessuna modifica della normativa costituzionale vigente, “ma è addirittura presupposto che la disposizione costituzionale de-rogata continui immutata ad aver validità” (9).

Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quin-

to dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.

Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.

(4) C. Schmitt, Verfassungslehre, Berlin, Duncker & Humblot, 1928; trad. it. A. Caracciolo (a cura di), Dottrina della Costituzione, Milano, Giuffrè, 1984, 141.

(5) R. Bin, G. Pitruzzella, Le fonti del diritto, Torino, Giappichelli, 2009, 6-7.

(6) Cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1993, 6a ed., vol. II, 212.

(7) C. Schmitt, op. cit., 141. Ma v. anche C. Mortati, Costituzione (dottrine generali e Costituzione della Repubblica italiana), in Enc. dir., vol. XI, 1962, par. 35, il quale definisce la deroga alla Costituzione una “espressione adoperata per designare le modifiche ap-portate ad essa, nelle forme a ciò prescritte, ma rivolte a derogare solo per singole fattispecie a determinate norme, le quali pertanto ri-mangono in vigore continuando a regolare tutte le altre”. Si potrebbe pensare, a titolo di esempio, ad una legge costituzionale che preve-da una proroga della legislatura oltre quella prevista dall’art. 60 Cost., in nome di una esigenza eccezionale. O ancora, ad un singolo pro-lungamento del periodo di durata in carica del Presidente della Repubblica in virtù di una pericolosa incapacità del Parlamento di funzio-nare a causa della divisione dei partiti.

(8) R. Bin, G. Pitruzzella, op. cit., 15.

(9) C. Schmitt, op. cit., 150.

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Le norme in conflitto rimangono così entrambe valide ed efficaci, mentre “l’interprete opera solo una scelta circa la norma da applicare (l’altra norma semplicemente “non è applicata”), dando la prevalenza alla norma speciale, che di conseguenza deroga quella generale” (10), ma relativamente ad uno specifico caso concreto, en vue d’un cas don-né.

Ragionando in questi termini, si può allora ben sostenere che la deroga si distingua dall’abrogazione poiché la norma derogata, al contrario di quella abrogata, resta in vigore ed anzi, se la norma speciale dovesse a sua volta esse-re abrogata o annullata, riespanderebbe il suo ambito di applicazione (11). In altre parole, la deroga – come categoria dell’eccezione – non presenta di regola quella natura di permanenza e definitività dei suoi effetti che invece connota la revisione, la quale provoca una stabile e generale modifica del testo costituzionale (12).

Ora, fondando ogni ulteriore considerazione su questa distinzione, autorevole dottrina ha sostenuto che, intesa la deroga come limitazione di una più larga fattispecie normativa, la norma costituzionale derogata non potrebbe mai dirsi abrogata, neppure in parte (13). Eppure, la diversità dei modi di atteggiarsi delle deroghe sembra evidenziare esattamente l’opposto, cioè l’opportunità di non sottovalutare l’efficacia che in potenza possiede l’effetto derogatorio.

Infatti, diversamente da quel che accade in caso di deroghe disposte contemporaneamente alla disciplina generale (14), la norma derogata diventa “fragile” quando la deroga sia disposta da norma posteriore, nel qual caso gioca un ruolo fondamentale l’elemento temporale della durata della deroga: si potrà avere così “sospensione” della norma co-stituzionale, ove la deroga abbia carattere temporaneo; “abrogazione parziale”, ove abbia carattere permanente e de-finitivo (15). Ne consegue evidentemente che, pur ascrivendosi la deroga alla categoria dell’eccezione, “in essa nulla esclude che lo stato di precarietà possa protrarsi indefinitivamente nel tempo e assumere nei fatti la caratteristica pro-pria dell’abrogazione” (16), poiché è innegabile che “limitare la fattispecie originaria di una norma per sottrarle una classe, astrattamente prevista, di ipotesi che altrimenti vi rientrerebbero, non altro significa che abrogarla parzialmen-te” (17).

Detto altrimenti, non costituendo la temporaneità un attributo certo della norma di deroga, si chiarisce come il meccanismo derogatorio abbia per sua natura una intrinseca capacità di normalizzare i suoi effetti, al punto da provo-care una sorta di “cristallizzazione della fattispecie”, la quale finisce per tradursi in una vera e propria forma anomala

(10) R. Bin, G. Pitruzzella, op. cit., 15-16.

(11) A tal proposito v. P. Carnevale, Riflessioni sul problema dei vincoli all’abrogazione futura: il caso delle leggi contenuti clausole di “sola abrogazione espressa” nella più recente prassi legislativa, in Dir. e società, 1998, 416, secondo cui “la deroga, diversamente dall’abrogazione, non ha la caratteristica di evento irrimediabile, giacché, mentre la norma abrogata perde definitivamente e irreversibil-mente la sua efficacia, quantomeno per il futuro – tranne il caso eccezionale della reviviscenza –, la norma derogata subisce il meno gra-ve effetto di sospensione dell’efficacia, in quanto tale precario e reversibile, sia pur alla condizione della cessazione dell’efficacia della norma in deroga”.

(12) In questo senso, v. G.U. Rescigno, voce Deroga (in materia legislativa), in Enc. dir., vol. XII, 1964, 304.

(13) S. Pugliatti, voce “Abrogazione” (teoria generale e abrogazione degli atti normativi), in Enc. dir., vol. I, 1958, 151: “Qui non si può parlare di abrogazione, neppure parziale, ma piuttosto si deve ritenere che in virtù di una norma particolare, anzi eccezionale, il fatto concreto venga sottratto alla valutazione del precetto normale”; G. Motzo, Disposizioni di revisione materiale e provvedimenti di “rottu-ra” della Costituzione, in Rass. dir. pubbl., 1964, 364: “In codesta ipotesi non è possibile attribuire valore di modifica esplicita ad un provvedimento il cui contenuto, lungi dal manifestare una volontà di revisione, detta soltanto statuizioni derogatorie per la singola circo-stanza individuata. Né ad esso potrebbero, ovviamente, seguire effetti abrogativi”.

(14) Giacché, se la deroga è simultaneamente disposta, come avviene ad esempio nei casi di disposizioni transitorie che accompa-gnano la disciplina generale, neppure può sorgere un problema di abrogazione, data la mancanza del necessario presupposto della succes-sione temporale delle norme.

(15) Cfr. ancora V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., vol. II, 222. Ciò, però, non significa che la deroga non abbia una sua autonoma esistenza concettuale. La riconduzione di questa figura a quella dell’abrogazione, infatti, vale solo per l’ipotesi descritta nel testo, mentre tale confusione non ha ragion d’essere, e pertanto la deroga si mantiene come tale, quando l’effetto derogatorio sia di-sposto contemporaneamente alla disciplina generale o quando sia disposto da fonti subordinate specificamente autorizzate per il singolo caso. In questa seconda ipotesi, le norme derogate diventano “suppletive”, ma non per questo perdono vigore, e tornano infatti ad avere piena applicazione cessando la deroga.

(16) P. Carnevale, op. cit., 420.

(17) V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., vol. II, 222. Una interessante ipotesi di lavoro è stata offerta dai disegni di legge costituzionale n. 1942 e n. 1942-A (II legislatura), relativi alla “Facoltà di istituire con legge ordinaria giudici speciali in materia tributaria”. Nella specie, sarebbe stata disposta una deroga nei confronti del I e II cpv. dell’art. 102 Cost.: “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Non possono essere istituiti giudici straordi-nari o giudici speciali”. Dal punto di vista letterale (e nelle intenzioni del Governo), il disegno non lasciava desumere se non un generico obiettivo di mutare la portata del principio generale sancito nell’art. 102, senza disporre variazioni testuali della Costituzione. Dal punto di vista materiale, però, l’art. 102 sarebbe risultato trasformato dalla disposizione progettata in modo tale che il limite costituito dal gene-rale divieto di istituzione di giudici speciali sarebbe stato semplicemente rimosso, senza residui, per quel che attiene alla normazione sul contenzioso tributario. Come sostiene G. Motzo, op. cit., 367-368, nota 60, “si può allora ritenere che la deroga non sarebbe stata in pra-tica più tale, dal momento stesso in cui fosse stata operata, poiché la rimozione del divieto si sarebbe risolta, anche formalmente, in una parziale abrogazione materiale della norma dell’art. 102 Cost.”.

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di revisione costituzionale (18). Ed invero proprio da siffatte premesse deriva che, pur non essendo errata la iniziale considerazione dell’autonomia esistente tra la deroga e la revisione, bisogna riconoscere come intercorrente tra esse un rapporto di specialità là dove “la revisione (come genus) comprende logicamente la deroga (quale sua sottospe-cie)” (19). Se quindi si assume la deroga quale minus della revisione, si può logicamente dedurre che essa soggiaccia agli stessi, se non addirittura maggiori, limiti formali e materiali imposti alla revisione (20).

3. Leggi “di revisione della Costituzione” e “altre leggi costituzionali”

La questione della temporaneità o permanenza delle deroghe alla Costituzione non esclude che si debba comun-que accertare se, da un punto di vista sostanziale, le disposizioni della Carta tollerino di essere derogate per fattispe-cie singole ovvero – con formulazione inversa – se a determinati atti possa attribuirsi quella forza necessaria a dero-gare a disposizioni costituzionali (21).

A ben riflettere, lo strumento che per sua natura sembra porsi come l’atto normativo più idoneo a realizzare dero-ghe alla Carta fondamentale è la legge costituzionale. Questa tipologia di legge, infatti, è abilitata dalla stessa Costi-tuzione ad intervenire in materia costituzionale ma, allo stesso tempo, non provoca necessariamente una modifica del testo costituzionale (22), di guisa che la disposizione derogata rimane valida per tutte le altre fattispecie non coinvolte dall’effetto derogatorio.

In linea strettamente logica, però, è evidente che tali affermazioni implichino come presupposto e premessa il ri-conoscimento delle leggi costituzionali come autonoma e generale categoria legislativa, distinta da quella delle diver-se “leggi di revisione”, di cui all’art. 138 Cost. Tale distinzione, tuttavia, non è affatto cosa pacifica.

La maggioranza degli studiosi ritiene che leggi costituzionali e leggi di revisione costituiscano una categoria uni-taria, soggetta alla stessa disciplina procedimentale e agli stessi limiti (23); e che quindi, in particolare, le “altre leggi costituzionali” previste dall’art. 138 siano solo quelle alle quali espressamente si riferiscono singole disposizioni del-la Costituzione, come leggi che debbano essere formalmente costituzionali (come, ad esempio, quelle previste dagli artt. 71, 116, 132 e 137). Vari sono tra l’altro gli argomenti utilizzati: i lavori preparatori, nel corso dei quali la cate-goria delle leggi costituzionali si è affiancata a quella (la sola prevista dall’art. 130 del progetto) delle leggi di revi-sione costituzionale per volontà di Perassi, che al contempo escluse esplicitamente ogni differenza “tra le leggi che modificano la costituzione e le altre leggi costituzionali” (24); l’assenza di qualsiasi distinzione formale nel titolo o nella numerazione di dette leggi (25); la commistione nell’uso delle due formule da parte dello stesso testo della Co-stituzione, che per esempio all’art. 7 parla di leggi di revisione costituzionale per le modifiche ai Patti lateranensi non

(18) La preoccupazione ingenerata dalla possibilità di cui si sta trattando è tra l’altro ben evidenziata da F. Modugno, Ricorso al po-

tere costituente o alla revisione costituzionale? (Spunti problematici sulla costituzionalità della l. cost. n. 1/1997), in Giur. it., 1998, 620, il quale ritiene che la deroga dovrebbe essere operata per il tramite dello stesso procedimento previsto per la revisione, e anzi essa sareb-be soggetta a limiti addirittura maggiori di quelli della revisione, in quanto “l’uso dello strumento della revisione […] presuppone al con-trario il mantenimento di un quid, sia pure revisionato, ovvero la sostituzione di un quid con un aliud, laddove il provvisorio è spesso foriero di conseguenze irremovibili”.

(19) M. Piazza, I limiti alla revisione costituzionale nell’ordinamento italiano, Padova, Cedam, 2002, 329-330. In questo senso, v. anche G.U. Rescigno, op. cit., 304.

(20) In tal senso, v. P. Barile, U. De Siervo, voce Revisione della Costituzione, in Noviss. dig. it., vol. XV, 1968, 35; S.M. Cicconetti, La revisione della Costituzione, Padova, Cedam, 1972, 38, il quale afferma espressamente: “conseguenza, questa, che discende immedia-tamente dalla premessa secondo cui, dovendosi ammettere la deroga laddove è permessa la abrogazione, non si può più ammettere la prima laddove è vietata la seconda”.

(21) Osserva giustamente H. Ehmke, Verfassungsänderung und Verfassungsdurchbrechung, in Arch. öff Rechts, 1953, 388 ss., che la questione dell’aspetto formale delle deroghe presuppone che si sia già accettata l’ammissibilità di queste da un punto di vista sostanziale. Criticano, ai fini della ammissibilità delle deroghe, la rilevanza della loro immissione nel testo della Costituzione, qualora tale immissio-ne testuale non sia prevista da alcuna disposizione positiva, C. Schmitt, op. cit., 151 ss.; G. Leibholz, Die Verfassungsdurchbrechung. Rechtsproblem der Deutschen Einheit und der europäischen Einigung. Ein Beitrag zur Dogmatik der Verfassungsänderung, Berlin, Duncker & Humblot, 1997, 9 ss.

(22) Basti pensare, solo a titolo di esempio, alle “leggi costituzionali” abilitate dall’art. 71 ad estendere la potestà di iniziativa legisla-tiva ad organi ed enti diversi da quelli a cui la Costituzione già riconosce tale potere.

(23) V. T. Groppi, Art. 138, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario della Costituzione, Torino, Utet, 2006, vol. III. A sostegno di tale concezione unitaria v., tra gli altri, V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., vol. II, 84-89; M. Villo-ne, Legge costituzionale, in Enc. giur., vol. XVIII, 1990; L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, il Mulino, 1996, 167; A. Piz-zorusso, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, Zanichelli, Roma, Società editrice del Foro italiano, 1975, 714; S. Bartole, R. Bin, Commentario breve alla Costituzione, Padova, Cedam, 2008, 138.

(24) Espressione con la quale egli si riferiva soltanto a quelle previste espressamente nel testo del progetto (fino a quel punto dal solo art. 109, sugli statuti speciali): A.C., 3 dicembre 1947, in La Costituzione italiana nei lavori preparatori, Roma, 1970, V, 4322.

(25) Al riguardo, il t.u. n. 1092/1985 sulla pubblicazione degli atti normativi, all’art. 16, c. 2, stabilisce che le leggi di revisione e le leggi costituzionali assumano una numerazione unitaria e progressiva, distinta da quella delle leggi ordinarie. Per cui è vero che “nella prassi le leggi di revisione e le altre leggi costituzionali costituiscono una categoria unitaria”, come sostenuto in S. Bartole, R. Bin, op. cit., 1209.

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accettate dalle due parti, in assenza di norme costituzionali da modificare, e invece all’art. 132 di leggi costituzionali per un procedimento, quello di creazione di nuove regioni, da cui deriva una modifica all’elenco dell’art. 131.

Di contro, un insigne Maestro del diritto costituzionale quale Carlo Esposito ha sempre ritenuto di dover confuta-re tali rilievi sostenendo che, ad ammettere che le uniche leggi costituzionali siano quelle tassativamente previste in Costituzione, “bisognerebbe dedurne che nel nostro ordinamento non sia in genere possibile di disporre con legge co-stituzionale nei molti casi nei quali la Costituzione stabilisce che la regolamentazione di una materia, a garanzia dei sottoposti, è riservata alle leggi ordinarie” (26). Al contrario, sostiene l’Autore, il rispetto della storia e della ratio della riserva di legge non dovrebbe impedire alle leggi costituzionali di disporre in luogo di quelle ordinarie, “poiché lo scambio è a tutto vantaggio di coloro in cui favore è istituita la riserva di legge” (27). Perciò, anche se nelle mate-rie riservate alle leggi ordinarie non potesse provvedersi con legge costituzionale, dovrebbe dirsi che la legge costitu-zionale potrebbe vigere “perché è immanente in essa una legge ordinaria o perché essa ha tutti i titoli per vigere come legge costituzionale declassata ad ordinaria” (28).

Tuttavia, pare che tale autorevole ricostruzione possa valere solamente nei casi in cui non sussista una riserva di legge, giacché in tali ipotesi, essendoci “libero concorso” di fonti, la fonte gerarchicamente superiore è sempre in grado, con la sua presenza, di limitare quelle ad essa inferiori, sino ad assorbirle del tutto, sostituendovisi o paraliz-zandone l’efficacia: si tratterebbe cioè di una mera “preferenza” tra fonti (29). Al contrario, quando una fonte ne esclude altre da un certo ambito o da certi particolari oggetti, ad essa riservati, viene meno ogni relazione di tipo ge-rarchico, risolvendosi ogni possibile rapporto tra fonti esclusivamente in termini di “competenza” (30). Nel caso di “riserva” quindi, a differenza che nell’ipotesi di “preferenza”, la violazione del limite della riserva determina invalidi-tà delle norme della fonte priva di competenza (31), anche se non sia stata preceduta da quella competente, cioè a prescindere dall’esistenza di un contrasto tra norme (32).

Non essendo possibile, quindi, basare sulle osservazioni dell’autorevole dottrina richiamata la distinzione tra leggi di revisione e altre leggi costituzionali, occorre guardare a quelle disposizioni della Costituzione che rinviano a leggi costituzionali (33). In tali casi, infatti, è la stessa Costituzione “che specifica e delimita l’oggetto ed il fine delle leggi costituzionali” (34), dovendosi già solo per questo escludere che, anziché integrare la disciplina di un certo istituto, come vuole la Carta costituzionale, quest’ultime possano liberamente modificare le restanti parti, così derogando alle norme costituzionali (35). Ma la piena equiparazione tra leggi di revisione e leggi costituzionali implicherebbe, ove quei limiti di integrazione fossero oltrepassati, “la difficoltà di farne derivare l’invalidità della legge costituzionale, essendo questa sempre convertibile in legge di revisione” (36). Di conseguenza, le leggi costituzionali non incontre-rebbero mai limiti cogenti maggiori e diversi da quelli che incontrano le leggi di revisione.

(26) C. Esposito, Costituzione, legge di revisione della Costituzione e “altre” leggi costituzionali, in D. Nocilla (a cura di), Diritto

costituzionale vivente. Capo dello Stato ed altri saggi, Milano, Giuffrè, 1992, 365-366, per il quale, evidentemente, una conclusione del genere provocherebbe una ingiustificata mortificazione dell’essenza della riserva di legge, la quale verrebbe così depauperata della sua funzione che è quella di “costituire un limite al libero provvedere in via amministrativa e in genere senza previa regolamentazione legi-slativa”.

(27) C. Esposito, Costituzione, cit., 366. “Ed invero”, continua l’autore, “nelle leggi costituzionali esistono tutti gli elementi o i mo-menti procedurali propri delle leggi ordinarie, dall’esame in commissione all’approvazione nei due rami del Parlamento, fino alla pro-mulgazione e pubblicazione”.

(28) C. Esposito, Costituzione, cit., 366-367, il quale precisa che con questo non significa che sia consentito alle leggi costituzionali tutto quello che, nel proprio campo, è consentito alle leggi ordinarie. Così, per esempio, è da escludere “che leggi costituzionali possano delegare all’esecutivo di emettere atti con forza di legge costituzionale” (nota 17).

(29) Ricostruisce la differenza tra “preferenza” di una fonte e “riserva” di legge V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., vol. II, 235; ma cfr. anche Id., Gerarchia e competenza nel sistema delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, 790.

(30) Così V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., vol. II, 232-233, il quale continua: «È intuitivo che l’introduzione di una “forma legale costituzionale”, distinta e superiore rispetto alla “forma legale ordinaria”, e cioè, di un sistema a costituzione “rigida”, an-ziché “flessibile”, rappresenta un elemento di perturbazione dello schema gerarchico tradizionale. […] Con ciò stesso la previsione di apposite leggi (formalmente costituzionali) per modificare le disposizioni del testo costituzionale o integrarle dà luogo all’enuclearsi di una nuova categoria di fonti normative, parificate – all’ingrosso – alla Costituzione rigida, aprendosi così una problematica, per l’innanzi inesistente, sui rapporti tra queste apposite leggi e le rimanenti leggi ordinarie. […] Giacché comporta altresì la possibilità che la stessa legge costituzionale incontri limiti (negativi) di materia, atteggiandosi in tali casi in rapporto di “separazione”, e non già di prevalenza, nei confronti delle fonti esclusivamente autorizzate – invece – a regolare gli oggetti che sono ad essa sottratti».

(31) Cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., 63: «la riserva di legge si esprime in una “formula organizzativa”, come sempre avviene d’altronde quando si regolano rapporti tra poteri e competenze. In quanto formula organizzativa, anzi, la riserva di legge non è che una specie del più ampio genere delle “riserve” di competenza in genere».

(32) Così V. Crisafulli, Gerarchia e competenza, cit., 790 ss.

(33) Si pensi in particolare agli artt. 71, 116, 132, 137 Cost.

(34) Cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., vol. II, 87.

(35) Così V. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, Milano, Giuffrè, 1959, 133 ss.; S. Bartholini, I rapporti tra i supremi organi regionali, Padova, Cedam, 1961, 84 ss.

(36) V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., vol. II, 87.

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Basti pensare, solo per fornire un esempio che valga a dimostrare l’esattezza di questo ragionamento, agli “statuti speciali adottati con leggi costituzionali”, previsti dall’art. 116 per le regioni dotate di autonomia “speciale” (37). In questo caso, stante la possibilità di derogare alla Costituzione per singole regioni, la perfetta fungibilità tra leggi co-stituzionali e leggi di revisione si farebbe problematica ed insuperabile (38); mentre, come evidente, le singole dero-ghe apportate dallo Statuto regionale non provocano un mutamento del testo costituzionale, né tantomeno una revi-sione della Costituzione che sia valida in generale per l’intero ordinamento giuridico.

4. Le leggi costituzionali come leggi di deroga alla Costituzione

Al riconoscimento delle leggi costituzionali come autonoma categoria legislativa segue ora la necessità di capire se tra queste siano ammissibili anche leggi recanti deroghe alla Costituzione o se, diversamente, esse siano sempre e solo integrative della Costituzione.

Si deve ancora all’Esposito l’affermazione per cui l’ordinamento italiano, “ammettendo leggi di revisione e accan-to ad esse semplici leggi costituzionali, ha risoluto in senso positivo la vecchia disputa relativa all’ammissibilità di leggi costituzionali in deroga o in rottura della Costituzione pure dove la possibilità della deroga non sia espressa-mente prevista dal testo costituzionale” (39).

Allo stesso tempo, non appaiono trascurabili le preoccupazioni di Horst Ehmke, secondo cui – potendo il Parla-mento utilizzare la legge costituzionale, oltre che per modifiche espresse e per soddisfare le riserve di legge costitu-zionale, anche per deroghe a norme costituzionali e per ogni altra ipotesi per la quale intenda seguire tale via – tale fonte finisca per rivestirsi di una “competenza universale” (40). Il rischio è che la discrezionalità del Parlamento nel disciplinare nuove materie con legge costituzionale possa determinare un irrigidimento dell’ordinamento, con il peri-colo che, sostituendosi ad un ordinamento democratico “l’assolutismo di ogni qualsivoglia maggioranza parlamentare qualificata” (41), una temporanea maggioranza parlamentare rinforzata possa impedire il mutamento delle proprie leggi e il superamento delle proprie decisioni da parte delle meno forti maggioranze del domani (42).

Nel rispondere a tali preoccupazioni, Costantino Mortati ammetteva leggi costituzionali di deroga solo quando queste non contrastino “con i fini della Costituzione, ma anzi tendono a salvaguardarli di fronte ad eventi sopravve-nuti, che senza una disciplina in deroga ne comprometterebbero la soddisfazione” (43). Sicché è possibile osservare come in questa visione, in luogo della totale inammissibilità di deroghe propugnata da Ehmke, si ponga l’accento sul presupposto giustificativo che condiziona la validità della deroga alla Costituzione.

Certamente, il rischio insito in una tesi di tal genere è quello di rimettere a valutazioni soltanto di natura politica il titolo giustificativo di una deroga alla Costituzione, vanificando i tentativi di assoggettare a limiti giuridici il ricorso ad essa. Eppure – a parte il fatto che sembrerebbe essere proprio questa la soluzione adottata dalla Corte costituziona-

(37) Cfr. R. Bin, G. Pitruzzella, op. cit., 179 ss.: «Si tratta di leggi costituzionali territorialmente differenziate, che possono derogare

per singole regioni a norme del testo costituzionale entro i limiti di quanto necessario per assicurare alle regioni stesse “forme e condi-zioni particolari di autonomia”».

(38) Cfr. S. Bartole, R. Bin, op. cit., 1040 ss.: “Introducendo una disciplina derogatoria rispetto alla Costituzione, lo statuto prende la forma di una legge costituzionale, in ossequio al principio di rigidità costituzionale […] Sarebbe inesatto, però, ritenere che le disposi-zioni contenute negli statuti speciali siano indistintamente sullo stesso piano delle disposizioni costituzionali. […] Le norme statutarie trovano una serie di limiti impliciti ricavabili sia dal principio fondamentale dell’unità della Repubblica sia dalle specifiche norme costi-tuzionali che prevedono per le regioni differenziate forme e condizioni particolari di autonomia. […] Difatti, le norme statutarie non sono in grado di derogare qualsiasi norma costituzionale”.

(39) C. Esposito, Costituzione, cit., 362 e 365. E non varrebbe eccepire in contrario che nelle specifiche ipotesi di leggi costituzionali previste dalla Costituzione – come quelle richiamate dagli artt. 71 (legge abilitata ad estendere la potestà di iniziativa legislativa), 132 (fusione di regioni esistenti o creazione di nuove regioni mediante legge costituzionale), 137 (legge costituzionale abilitata alla disciplina della Corte costituzionale e dell’attività di controllo di costituzionalità) – il rapporto tra le fonti è di sola integrazione: contro ogni tenta-tivo di trarre conseguenze generali dal fatto che in tali casi le leggi considerate non possono derogare alla Costituzione (come invece fan-no S. Bartholini, op. cit., 84 ss., e G. Balladore Pallieri, op. cit., 133 ss., i quali sostengono che le leggi costituzionali non possano mai contraddire la Costituzione, ma solo integrarla, e che pertanto le leggi costituzionali si identifichino con le leggi integrative della Costitu-zione), è da osservare che “se così fosse, si dovrebbe dedurre che dalla circostanza che talune disposizioni costituzionali non sono sog-gette a revisione, allora in via generale tutte le leggi di revisione non possono procedere in genere ad alcuna revisione” (così C. Esposito, Costituzione, cit., 374).

(40) H. Ehmke, op. cit., 400 ss.

(41) Ibidem.

(42) Come se, nella discrezionalità di adottare leggi costituzionali, il Parlamento avesse la libertà di aggiungervi una sorta di “clauso-la di eternità della legge”: sul fronte italiano, la preoccupazione di Ehmke viene riproposta da L. Paladin, op. cit., 167 ss.

(43) C. Mortati, op. cit., par. 35. A ben vedere, Mortati sembra aver qui recuperato e attualizzato la lezione che secoli prima elargì Niccolò Machiavelli quando, a proposito della ineludibile necessità di tollerare deroghe agli ordinamenti giuridici in situazioni emergen-ziali di pericolo per la Repubblica, scriveva: “perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno dagli accidenti istraordi-nari. […] E però le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo. […] Perché quando in una repubblica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli” (N. Machiavelli, Il principe, Roma, Blado, 1532). Sul legame tra il pensiero di Machiavelli e quello di Mortati relativamente al fenomeno delle deroghe, v. T. Klitsche de la Grange, Il salto di Rodi. Saggi di teoria della costituzione, Roma, Pellicani, 1998.

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le, la quale nella sentenza n. 168/1963 dichiara espressamente la legittimità costituzionale di “quelle norme alle quali il Parlamento, per finalità di carattere politico, intenda attribuire efficacia di legge costituzionale” (44) – valutazioni di ordine sostanziale, derivanti da una “politicizzazione” del concetto di “deroga”, “sono forse inevitabili” (45), poi-ché connesse ad un criterio di diritto costituzionale.

Inoltre, esse rimarrebbero comunque oggetto del sindacato giurisdizionale, che in questo caso opererebbe in tutta la sua ampiezza (46): come ha stabilito la Corte costituzionale nella storica sentenza n. 1146/1988, in tale evenienza si introdurrebbe, accanto al principio di rigidità formale, un controllo basato sul “principio di rigidità in senso sostan-ziale”. D’altronde, lo stesso Carlo Esposito, tra i maggiori sostenitori dell’ammissibilità di deroghe alla Costituzione, ha precisato come la possibilità per le leggi costituzionali di derogare alla Costituzione non sia scevra ed immune da limiti e condizioni. Tali deroghe, infatti, vengono ritenute non ammissibili, oltre ai richiamati casi in cui la Costitu-zione stessa implicitamente le esclude, in tutti i casi in cui la Carta fondamentale “riserva una competenza a fini di garanzia a determinati organi” (47).

In altri termini, le deroghe alla Costituzione sembrano legittime solo a determinate condizioni, ovverosia quando non alterino disposizioni di garanzia o diritti fondamentali. In tal senso, leggi costituzionali che privassero determina-ti cittadini della libertà personale, domiciliare, di corrispondenza, di manifestazione del pensiero, o leggi costituziona-li che giudicassero dell’illegittimità di una legge sostituendosi alla Corte costituzionale, dovrebbero dirsi per ciò solo incostituzionali, poiché provocherebbero una “usurpazione del potere degli organi competenti” (48).

Nondimeno, il riconoscimento di siffatti limiti porrebbe fine anche alle preoccupazioni di chi sostiene l’inammissibilità di leggi costituzionali di deroga perché in contrasto con il principio di eguaglianza (49). Infatti, a rigor di logica e di teoria generale, da quel principio non deriva in generale l’inammissibilità di ogni norma che stabi-lisca eccezioni nei confronti di altre norme (essendo le statuizioni eccezionali o singolari giustificate quando si riferi-scano a situazioni tra loro obiettivamente diverse), bensì soltanto l’inammissibilità di eccezioni obiettivamente ingiu-stificate e perciò arbitrarie, assurde o irragionevoli.

Pertanto, sembra più esatto ritenere che – anziché trarre dal principio di eguaglianza argomenti a favore dell’inammissibilità di deroghe alla Costituzione - sia opportuno appellarsi al “divieto di motivazione non obiettiva” (50) e ai divieti di “abuso” (51), “arbitrio” (52) ed “egoismo dell’organo” (53), come possibili strumenti per una veri-fica di costituzionalità delle deroghe.

Peraltro, nelle teorie di Esposito e di Mortati ricorre un elemento comune: esso consiste nel riconoscere l’ammissibilità di leggi costituzionali di deroga alla Costituzione solo quando ricorrano ben precisi presupposti, e so-prattutto quando la deroga invocata non sia suscettibile di alterare il senso della garanzia complessiva della Costitu-zione, ovvero la sua continuità. In tal modo, le deroghe rientrerebbero nella naturale “Dynamik des Verfassungsle-bens” (54) e la possibilità di incidere sulla regola delle regole troverebbe un fondamento giustificativo netto ed espli-cito: fondamento che “non sembra poter coincidere con vaghi, quando non approssimativi, richiami all’opportunità di riforme della Costituzione non più rinviabili” (55).

5. Leggi costituzionali di deroga e “rottura” della Costituzione: critica della tesi sulla natura provvedimentale delle rotture

Se si muove dal riconoscimento della possibilità di deroghe alla Costituzione mediante leggi costituzionali, si esclude conseguentemente quella opinione – che pure è propria di gran parte della dottrina – secondo cui deroghe alla Costituzione sarebbero ammissibili solo con provvedimenti non aventi forza di legge.

(44) In dottrina, v. F. Pierandrei, La Corte costituzionale e le “modificazioni tacite” della Costituzione, in A. Lefèbvre-D’Ovidio, F.

Messineo (a cura di), Scritti giuridici in onore di Antonio Scialoja, Bologna, Zanichelli, 1952, vol. IV, 351: «Per “leggi costituzionali” vanno intese vanno intese tutte le leggi che vengono approvate con il procedimento rafforzato, sia la loro emanazione preveduta o non dalla costituzione scritta, si riferiscano esse a materia ritenuta “costituzionale” o a qualsiasi altro oggetto a cui le forze politiche dominan-ti attribuiscano una così alta importanza, da ritenere necessario regolarle con particolare forza».

(45) Così F.R. De Martino, Le deroghe all’art. 138 della Costituzione. L’esperienza repubblicana, Napoli, Esi, 2014, 149.

(46) In tal senso, ancora F.R. De Martino, op. cit., 150.

(47) C. Esposito, Costituzione, cit., 362, nota 14.

(48) Ibidem.

(49) Tale preoccupazione è espressa in particolare da E. Jacobi, Reichsverfassungsänderung, in O. Schreiber (Hrsg.) Die Reichsgeri-chtpraxis im deutschen Rechtsleben, Berlin, De Gruyter, 1929, 264 ss., i cui rilievi sono analizzati anche da S.M. Cicconetti, op. cit., 41-42.

(50) Si richiama a tale divieto, derivandolo dal principio di eguaglianza, F. Schlueter, Das Verfassungsdurchbrechende Gesetz, Göt-tingen, R.- u. staatswiss. Diss 1937, 58 ss.

(51) Si appella al “Missbrauchverbot” come limite delle deroghe alla Costituzione C. Schmitt, op. cit., 152, 153.

(52) Si richiama al “Willkürverbot” G. Leibholz, op. cit., 15 ss.

(53) Pone anche il divieto di “Organ-Egoismus” F. Schlueter, op. cit., 58 ss.

(54) Come ritenuto da G. Leibholz, op. cit., 2 ss. e 22 ss.

(55) F.R. De Martino, op. cit., 151.

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In particolare, parte della dottrina tedesca ritiene opportuno distinguere il fenomeno della deroga da quello della cosiddetta “rottura” della Costituzione (Verfassungsdurchbrechung), poiché quest’ultima sarebbe caratterizzata “dall’essere un’eccezione temporanea e straordinaria connotata da puntualità e specificità, mentre la deroga (Abwei-chung) sarebbe permanente e dotata dello stesso requisito della generalità posseduto dalla norma derogata” (56).

Questa distinzione viene basata sul recupero di quelle obiezioni volte a contestare il potere del legislatore costitu-zionale di disporre deroghe singolari per via del carattere di generalità che si ritiene coessenziale ad ogni forma di normazione (57). In altri termini, chi considera la generalità quale carattere naturale della legge è condotto a negare l’inclusione di disposizioni singolari in tale categoria di atti e a considerarle quali “misure” (Massnahmen), rispetto alle quali lo Stato agisce non già in veste di legislatore, bensì nella pienezza della sovranità, nella sua essenziale su-premazia di fronte alla legge (58).

Ne deriva che per questa parte della dottrina l’intervento in rottura si concreterebbe solo in una prevalente appli-cazione della norma adottata (la letteratura tedesca parla di “Anwendungsvorrang”) e pertanto esso non andrebbe qua-lificato come autenticamente “derogatorio”, non configurandosi al riguardo alcuna reale collisione tra le due norme. In particolare è Carl Schmitt a sostenere che le rotture della Costituzione, contenendo semplici provvedimenti per il caso singolo, non sarebbero leggi bensì il prodotto di un “un atto apocrifo di sovranità” (59).

Ora, però, una semplice considerazione suggerisce di non condividere la tesi in esame se riferita all’ordinamento italiano. Da un punto di vista dogmatico, difatti, quel rilievo rimane privo di fondamento qualora se ne contesti la premessa – e cioè che la generalità e l’astrattezza sarebbero caratteri essenziali della legge – e si accetti, invece, il concetto secondo cui la legge si caratterizza esclusivamente per via “della capacità di innovare l’ordine preesistente indipendentemente dal fatto che tale effetto innovativo si realizzi attraverso statuizioni generali o singolari” (60). È

(56) Difatti, l’utilizzo di due termini diversi – “deroga” e “rottura” – è indice della distinzione concettuale operata dalla dottrina tede-

sca. Lo stesso Carl Schmitt, tradizionalmente ritenuto il primo a rendere fecondo lo studio dei fenomeni derogatori della Costituzione, utilizza l’espressione “rottura” confessando (C. Schmitt, op. cit., 141) di averla mutuata da una relazione tenuta da Jacobi, il quale, muo-vendo da uno studio sui poteri del Presidente del Reich riconosciuti dall’art. 48 Wrv, per primo introdusse l’utilizzo del termine nel dirit-to costituzionale (E. Jacobi, Die Diktatur des Reichspräsidenten nach art. 48 der Reichsverfassung, in Aa.Vv. Veröffentlichungen der Vereinigung Deutscher Staatsrechtslehrer, Berlin, De Gruyter, 1924, vol. I, 109 ss.). Compiuta tale precisazione, però, la dottrina italiana non sembra attribuire troppo peso alla distinzione lessicale in questione. Anzi, la dottrina maggioritaria – che ha per sé le autorità di Esposito, Mortati e Crisafulli – utilizza indistintamente le due espressioni, caricandole di valenza sinonimica e relegando la differenza terminologica nell’alveo dell’irrilevanza giuridica. Certamente, la peculiarità linguistica è amplificata dal fatto che né il costituente né la giurisprudenza si siano mai preoccupati di dare una definizione compiuta del fenomeno, di guisa che “il definiens di deroga varia a se-conda dell’opinione degli interpreti” (T. Klitsche de la Grange, op. cit.). Per cui, se si respinge la tesi secondo cui la deroga sarebbe cosa diversa dalla rottura, ne deriva che l’unica funzione della diversità dei due termini si possa rintracciare, se proprio si vuole, nell’indicazione del differente “livello” normativo in cui l’effetto derogatorio si esplica. Infatti, taluni sostengono che nella prassi, gene-ralmente, “è invalsa l’adozione non già del termine deroga (che si usa comunemente con riguardo alla legge), bensì l’uso del termine rot-tura, senza che il termine assuma alcuna connotazione di disvalore. In ogni caso, il fenomeno che il concetto vuole intendere è quello di circoscritta frattura dell’armonia con la Costituzione, che la deroga-rottura va a determinare” (così G. Morbidelli et al., Diritto pubblico comparato, Torino, Giappichelli, 2012, 98 ss.).

(57) Sta di fatto che ancora oggi incide l’eco delle ideologie che formarono la matrice dello Stato moderno, secondo le quali la legge è e dev’essere generale, considerando “i sudditi come corpo e le azioni come astratte, mai un uomo come individuo, né un’azione parti-colare”, secondo la magistrale definizione di Rousseau (J.J. Rousseau, Il contratto sociale, 1762). Assumendo quindi la generalità come garanzia dell’esigenza politica di eguaglianza, molti ritengono ancora che “nessun elemento si rinviene che possa indurre a pensare che il sistema costituzionale abbia inteso discostarsi dallo schema tradizionale, storicamente fondato sopra tali argomentazioni” (come V. Cri-safulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., vol. II, 28 ss., al quale si rinvia per tali argomenti).

(58) Cfr. C. Mortati, op. cit., par. 35.

(59) C. Schmitt, op. cit., 150 ss.: “Per natura simili trasgressioni sono provvedimenti, non norme, quindi non leggi nel senso pubbli-cistico della parola e pertanto nemmeno leggi costituzionali. La loro necessità risulta dalla speciale condizione di un caso singolo, da una situazione irregolare non prevista. Si dimostra con ciò la superiorità dell’esistente sulla mera normatività”. Inoltre, a tal proposito, Sch-mitt ricorda espressamente la formulazione di C. Bilfinger, Exekution, diktatur und föderalismus, in Djz, 1926, 174, secondo il quale “l’atto apocrifo di sovranità è generalmente accettato come prodotto di un procedimento non propriamente corretto, ma non addirittura anticostituzionale”.

(60) S.M. Cicconetti, op. cit., 36. Il dogma della generalità e astrattezza come caratteri essenziali della legge è stato criticato, tra gli altri, da autori quali Jellinek, Laband, Heller e, per la dottrina italiana, da C. Esposito, Lineamenti di una dottrina del diritto, Fabriano, Tesa, 1930, 186; D. Donati, I caratteri della legge in senso materiale, in Riv. dir. pubbl., 1910, 298. Contra, V. Crisafulli, Lezioni di di-ritto costituzionale, cit., vol. II, 33 ss., secondo cui il cosiddetto criterio della “novità della legge” non direbbe nulla di più e di diverso da quel che già esprime il concetto di fonte, nel senso cioè che si tratti di fatti che innovano l’ordinamento normativo. In altri termini, non si uscirebbe dal giro vizioso e il criterio si dissolverebbe nella ovvia constatazione che tutti i fatti giuridici introducono qualcosa di nuovo nell’ordinamento. In tal senso innoverebbero anche le sentenze e i provvedimenti amministrativi. Viene sostenuto in particolare che “non innovano al diritto oggettivo i provvedimenti in deroga o sospensione di norme di diritto, in quanto a ciò autorizzati da norme che attri-buiscono a determinate autorità il potere di adottarli in presenza di determinate circostanze di fatto, perché neppure questi sostituiscono od integrano la norma vigente”. Tuttavia, il vizio di un simile ragionamento, se ben inteso, si rivela proprio nella presunzione che vi sia sempre un’autorizzazione ad adottare una norma derogatoria in presenza di determinati presupposti. Di conseguenza, il corretto approc-cio della questione non può non essere che, al di fuori dei casi in cui vi siano esplicite disposizioni di diritto positivo, nel silenzio “dovrà ritenersi che il legislatore costituente ha, nel suo campo, quei medesimi poteri che il legislatore ordinario ha rispetto alle leggi ordinarie,

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certamente vero che rispetto alla normazione costituzionale, in ragione della funzione che le è propria di porre i prin-cipi ispiratori comuni a tutti i comportamenti particolari, si avverte in maniera ancora più forte il carattere di generali-tà, ma al contempo “non sembra che al principio della generalità debba assegnarsi siffatto valore universale ed asso-luto, né sembra che le norme per il fatto di essere singolari perdano la loro natura di leggi” (61). Se così fosse le rottu-re dovrebbero essere ricondotte alla natura di “atti sostanzialmente amministrativi o leggi-provvedimento, aventi il carattere di actio più che di ratio” (62), in grado di provocare la crisi della struttura gerarchica del sistema ordina-mentale.

La soluzione della questione deve perciò essere desunta non da presupposti aprioristici bensì dai princìpi dell’ordinamento positivo. Si tratta anzitutto di distinguere l’ipotesi dell’espressa inibizione da parte della Costituzio-ne di ogni deroga particolare (come per esempio avviene in Germania in virtù dell’art. 19 n. 1 GrundGesetz, secondo cui un diritto fondamentale coperto da riserva di legge non può essere limitato per casi singoli; oppure per effetto de-gli artt. 3, 13, 16, 21 della Costituzione italiana, che sanciscono uguale riserva di legge generale) dall’altra di man-canza di ogni disposizione al riguardo. Ma “non sembra che la inibizione possa, almeno in via generale, farsi rientrare in quei princìpi fondamentali che, caratterizzando il regime, sono da ritenere assolutamente intangibili e perciò sot-tratti anche alla potestà dell’organo di revisione” (63).

Inoltre, non varrebbe a superare l’impasse, e quindi a giustificare la capacità di provvedimenti privi di forza di legge di derogare a disposizioni costituzionali, neppure appellarsi alla necessità quale fonte suprema e autonoma del diritto, così come risultante dalla contingenza eccezionale, ovverosia dalla speciale condizione di un caso singolo o da una situazione irregolare non prevista (64). Infatti, sul piano generale, giustificare le misure derogatorie in nome della necessità significherebbe richiamare i principi relativi al fondamento giuridico delle attività extra ordinem, “de-gradando le deroghe a mere situazioni di fatto, come tali suscettibili di una legittimazione solo ex post” (65), cioè se e nella misura in cui riescano in concreto ad essere attuate ed accettate come valide. Ma questo farebbe pervenire all’inaccettabile risultato di eliminare ogni criterio utile per distinguere tali necessarie deroghe “dalle altre che tendo-no a sovvertire l’ordinamento nel quale operano ed a porsi come instaurative di uno nuovo e differente” (66).

A ciò si aggiunga che, dal punto di vista del diritto positivo, la legittimità di questo tipo di misure derogatorie è esclusa proprio dalla giurisprudenza costituzionale, che non ha perso occasione per negare il preteso valore di giusti-ficazione eziologica della necessità e del principio di conservazione dell’ordinamento giuridico (Salus reipublicae suprema lex). Il giudice delle leggi ha infatti escluso questa possibilità addirittura in relazione ad un decreto-legge, come tale avente forza di legge, chiarendo in un’occasione – nonostante l’Avvocatura dello Stato fosse in quel caso di diverso avviso sostenendo “che tutte le norme impugnate troverebbero giustificazione nella necessità di far fronte a difficoltà economiche del nostro Paese di tale gravità da mettere a repentaglio la stessa salus rei publicae e da con-sentire, perciò, una deroga temporanea alle regole costituzionali di distribuzione delle competenze fra Stato e Regio-ni” (67) – che la “Costituzione esclude che uno stato di necessità possa legittimare lo Stato ad esercitare funzioni le-gislative in modo da sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali, previste, in particolare, dall’art. 117 Cost” (68).

In virtù di quanto detto viene all’evidenza che, a prescindere dal fatto “che possono esservi deroghe anche di ca-rattere generale, valide per una serie indeterminata di casi (69)”, quel che è “determinante per caratterizzare la rottura non è la singolarità della statuizione in deroga quanto la sua eccezionalità rispetto ad una regola (70)”.

alle quali non è imposto il limite della generalità o vietato di derogare a leggi anteriori” (così C. Esposito, La validità delle leggi, Milano, Giuffrè, 1964, 187).

(61) C. Mortati, op. cit., par. 35.

(62) E. Forsthoff, Ueber Massnahme-Gesetze, in E. Forsthoff, K. Frey, Rechtsstaat im Wandel, München, Beck, 1976; trad. it. C. Amirante (a cura di), Stato di diritto in trasformazione, Milano, Giuffrè, 1973, 101 ss.

(63) C. Mortati, op. cit., par. 35, il quale prosegue: “Infatti non è ammissibile un’assoluta preclusione a far fronte a quelle fra le esi-genze di svolgimento della vita dello Stato (imprevedibili nei particolari aspetti che il corso del tempo può loro conferire) alle quali non si rende possibile provvedere se non con l’emanazione di norme in deroga di quelle previste in forma generale dalla Costituzione”.

(64) Per giustificare la validità e la forza di tali provvedimenti, si richiama alla necessità, tra gli altri, C. Schmitt, op. cit., 150-153.

(65) C. Mortati, op. cit., par. 36.

(66) Ibidem.

(67) Corte cost. 7 giugno 2012, n. 148, in questa Rivista, 2012, fasc. 3-4, 431.

(68) Corte cost. n. 148/2012, cit. Cfr. inoltre la sentenza gemella 14 giugno 2012, n. 151, ibidem, 435.

(69) C. Mortati, op. cit., par. 35.

(70) Ibidem. Ma già K. Loewentein, Erscheinungsformen der Verfassungsänderung, Tübingen, Mohr, 1968 (ristampa), 171 ss., face-va rientrare nel concetto di rottura della Costituzione anche deroghe con il carattere della generalità. Inoltre è di E. Menzel, in M.A. Nig-gli (Hrsg.), Kommentar zum BGG, art. 79, 7 ss., l’affermazione secondo cui le rotture possono consistere tanto in una “spezielle” quanto in una “generelle Abweichung”.

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6. I limiti alla possibilità di introdurre deroghe nei confronti di disposizioni della Costituzione recanti “autorotture”: una nuova tesi

Un fondamentale argomento speso da chi sostiene l’inammissibilità di deroghe alla Costituzione è quello fondato sulla presenza nel testo costituzionale di disposizioni in deroga ad altre in esso sancite, per le quali è stata coniata l’espressione “autorotture della Costituzione” (Selbst-verfassungsdurchbrechungen) (71). Tali ipotesi si possono rin-tracciare, per individuare alcuni esempi validi per l’ordinamento italiano, nel primo comma della XII disposizione finale che deroga all’art. 49 Cost.; nella XIII disposizione transitoria in relazione all’art. 48; nell’art. 68 e nell’art. 122, c. 4, che contemporaneamente derogano agli artt. 3 e 21; e ancora nell’art. 116 in relazione all’art. 123; negli artt. 73, 83, 90 e 138 in deroga all’art. 64, c. 3.

Orbene, la espressa previsione da parte del Documento costituzionale di tali “autorotture” consentirebbe, secondo alcuni, di ritenere che in via di principio la nostra Costituzione ammetta soltanto quelle deroghe che si atteggino ad “autorotture” o “deroghe autorizzate” (72). In altre parole, viene sostenuto che, avendo la stessa Costituzione previsto singole e specifiche fattispecie derogatorie, essa avrebbe implicitamente risolto in senso negativo la questione della generale ammissibilità di rotture, sancendo un assoluto divieto di estensione delle deroghe previste.

Affermando il carattere esemplificativo e non tassativo delle “autorotture”, altri ritengono invece che sussista un implicito consenso all’estensione delle rotture già previste, poiché la Costituzione, ponendo essa stessa talune dero-ghe, avrebbe rivelato la natura derogabile delle proprie disposizioni (73). Anzi, è stato sostenuto che in via di logica quest’ultima soluzione appare preferibile non appena si osserva che, se davvero dall’elenco delle “autorotture” si po-tesse già desumere l’illegittimità di tutte le deroghe non rientranti in tale enumeratio, allora si dovrebbe concludere, inevitabilmente, per la natura pleonastica di quelle disposizioni che esplicitamente vietano modifiche tacite e deroghe alla Costituzione, finendo per ciò solo con il privare di ogni rilevanza la distinzione tra i documenti costituzionali che hanno precetti del genere (come la legge fondamentale tedesca) e quelli che invece tacciono sul tema (come la Costi-tuzione italiana).

Ragionando entro i poli di questa dialettica interpretativa, la dottrina sembra dunque essere approdata ad una si-tuazione di stallo. Addirittura c’è chi si è arreso dinanzi a questo argomento – che sembra affetto da una sorta di am-bivalenza ermeneutica o neutralità semantica – evidenziando come dalla presenza di “autorotture” nel testo costitu-zionale non possa trarsi “alcuna deduzione sia nel senso dell’assoluto divieto di estensione delle deroghe previste, sia nel senso contrario del tacito consenso a tale estensione” (74).

Senonché, se non si vuole traghettare il concetto di “autorottura” nell’irrilevanza giuridica e ridurlo così a lemma di una narrazione di questo genere, privandolo di ogni capacità connotativa e quindi di ogni utilità ai fini della disci-plina delle deroghe, occorre rintracciare in una diversa intenzione dei Costituenti il significato sotteso alla presenza di “autorotture” nella Carta fondamentale.

Non sembra eccessivamente azzardato supporre che gli Autori della Costituzione, attraverso le disposizioni di “autorottura”, abbiano voluto sancire essi stessi, in materie ed ambiti ritenuti più sensibili e perciò degni di particola-re protezione, i limiti alla derogabilità delle disposizioni costituzionali; mentre, laddove manchino ipotesi di “autorot-ture”, tacendo al riguardo, gli stessi non abbiano escluso una generale possibilità di deroghe.

In altre parole, piuttosto che ritenere la presenza di deroghe disposte dalla Costituzione come fonte ed indice dell’ammissibilità o inammissibilità di deroghe in generale, sembra più esatto considerare le “autorotture” come limi-ti per il legislatore alla possibilità di aggiungere ulteriori deroghe rispetto a quelle già previste dalla Carta ab origine. Impostando in tali termini il ragionamento, ne deriverebbe l’illegittimità di leggi costituzionali in deroga alle disposi-zioni della Costituzione recanti “autorotture”, mentre lo stesso discorso non reggerebbe per leggi di revisione costitu-zionale, in quanto tali abilitate anche alla modifica delle disposizioni in questione.

Per cui, detto ancora diversamente, mentre non sarebbe possibile introdurre ulteriori eccezioni a ciò che già di per sé costituisce un’eccezione, frutto della scelta del Costituente, sarebbe legittimo invece revisionare l’eccezione stabi-lita in Costituzione in maniera permanente e generale, cioè valida per l’intero ordinamento, seppur chiaramente entro i limiti propri della revisione costituzionale. Ciò significherebbe, in ultima istanza, la non assoluta coincidenza dei limiti alle leggi costituzionali con i limiti alle leggi di revisione espressa della Costituzione.

Così, per esempio, potrebbe dirsi costituzionalmente illegittima la legge costituzionale emanata per estendere le immunità parlamentari di cui al secondo e terzo comma dell’art. 68 Cost. ai membri del Consiglio regionale, trattan-

(71) Tali “autorotture” si distinguono dalle cosiddette “rotture autorizzate” (ermächtigten Verfassungsdurchbrechungen), con le quali

la dottrina si riferisce alle ipotesi in cui la Costituzione autorizza singole leggi costituzionali o addirittura leggi ordinarie a derogare a proprie disposizioni. Esempi in tal senso si possono rinvenire, tra gli altri, nel c. 3 dell’art. 116 o nel c. 2 della XII disposizione transitoria e finale. Ad ogni modo, per una specifica analisi della differenza tra le autorotture e le rotture autorizzate, cfr. S.M. Cicconetti, op. cit., 32-33; nonché G. Morbidelli et al., op. cit., 98-99.

(72) V. G. Motzo, op. cit., 373-374; H. Ehmke, op. cit., 403 ss.

(73) In tal senso, tra gli altri, P. Barile, U. De Siervo, op. cit., 788 ss.; S.M. Cicconetti, op. cit., 32 ss.

(74) Così Mortati, op. cit., par. 35.

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dosi di un’inammissibile deroga alla deroga (75); o egualmente, dovrebbe esser considerata incostituzionale la revi-sione realizzata in deroga al procedimento di cui all’art. 138, proprio in quanto tale articolo già disciplina le modalità di adozione delle leggi di deroga (76).

7. Conclusioni

Accolto entro questi termini il senso delle “autorotture” della Costituzione, e con esso il limite alla possibilità di introdurre deroghe alle disposizioni costituzionali che le prevedono, non si esclude che possano sussistere nel nostro ordinamento ipotesi nelle quali sarebbero precluse leggi costituzionali di deroga ma non leggi costituzionali di revi-sione (77). Nondimeno, dovendosi ammettere la deroga laddove è permessa l’abrogazione e non potendosi quindi più ammettere la prima laddove è vietata la seconda, sembra potersi aggiungere che le leggi costituzionali in rottura della Costituzione non incontrino limiti validi soltanto per esse, bensì anche gli stessi limiti che incontrano le leggi di revi-sione costituzionale (78).

Pertanto, cercando di trarre una regola generale, sembra potersi concludere che dove non può intervenire una leg-ge di revisione della Costituzione, si deve escludere altresì la legittimità di leggi costituzionali di deroga; mentre, lad-dove quest’ultime incontrino un limite insuperabile, non è esclusa la possibilità di una legge di revisione che apporti una stabile e generale modifica della regola. In particolare, quest’ultima ipotesi si potrebbe rintracciare:

a) in tutti i casi di “autorotture” della Costituzione, laddove si segua, come innanzi detto, la tesi per cui esse costi-tuirebbero un limite alla possibilità di aggiungere ulteriori deroghe, senza escludere però che la disposizione costitu-zionale coinvolta possa essere revisionata;

b) in quelle disposizioni della Costituzione che prevedono leggi costituzionali integrative di quanto statuito nel te-sto e che perciò solo escludono la possibilità di deroghe a quanto già previsto (79);

c) in quelle disposizioni che riservano una competenza a fini di garanzia a determinati organi (80), poiché sembra impossibile non sostenere la illegittimità di una legge costituzionale che, ad esempio, privasse determinati cittadini della libertà personale o di corrispondenza o di manifestazione del pensiero (81): si tratterebbe di un’inaccettabile usurpazione del potere degli organi competenti, da sanzionare certamente con la censura dell’incostituzionalità.

Infine, una parte della dottrina aggiunge (d) anche quelle disposizioni della Carta che sembrano escludere il ricor-so a leggi costituzionali che non siano anche leggi di revisione (82), con ciò negando che in tali casi possano valida-mente realizzarsi deroghe alla Costituzione. Quest’ultima ipotesi però non è condivisa all’unanimità, ed in effetti è quella che dà luogo a maggiori dubbi in dottrina (83). In particolare, per quanto riguarda le norme di diritto interna-zionale generalmente riconosciute, vigenti nel nostro ordinamento in virtù del meccanismo di cui all’art. 10 Cost., la tesi secondo cui esse potrebbero esser modificate da leggi di revisione ma non derogate da leggi costituzionali (84) è tanto poco convincente da aver indotto chi pur l’ha autorevolmente sostenuta a dover ammettere che tale conclusione

(75) Ma analoga considerazione si potrebbe fare a proposito di una legge costituzionale volta ad estendere la prerogativa di cui

all’art. 122, c. 4, ai membri della giunta regionale: in tale fattispecie, la Corte costituzionale ha chiarito che tale estensione è inammissibi-le poiché “i membri della giunta regionale godono dell’immunità prevista dall’art. 122, c. 4, Cost. solo in quanto consiglieri regionali ed esclusivamente in relazione all’attività svolta in ambito consiliare” (così, da ultimo, sent. n. 195/2007). Per una concretizzazione di quest’ipotesi, v. la l. reg. Basilicata n. 42/2000, che estende l’immunità in questione ai membri della giunta non consiglieri.

(76) Conforme in tal senso A. Pace, L’instaurazione di una nuova Costituzione, in Id., Potere costituente, rigidità costituzionale, au-tovincoli legislativi, Padova, Cedam, 2002, 142, secondo cui «è di tutta evidenza che se l’art. 138 Cost. – o altra norma similare – preve-de un certo procedimento speciale di revisione, tale norma, così come non può essere modificata in modo da rendere, per quanto detto, più flessibile la costituzione scritta, così a fortiori non può essere nemmeno “derogata” una tantum al fine di consentirne modificazioni a cui, altrimenti, non sarebbe possibile pervenire». Dello stesso avviso anche F. Modugno, Il problema dei limiti alla revisione costituzio-nale, in Giur. cost., 1992, 1651 ss., 1680 ss.

(77) Cfr. S.M. Cicconetti, op. cit., 38 ss.

(78) In tal senso, cfr. C. Mortati, op. cit., par. 35; P. Barile, Potere costituente, Torino, Unione tipografica torinese, 1966, 447; P. Ba-rile, U. De Siervo, op. cit., 788 ss.; S.M. Cicconetti, op. cit., 37 ss.

(79) Il riferimento è principalmente agli artt. 71, 116, 132, 137 Cost. Al riguardo cfr. S. Bartholini, op. cit., 80 ss.; nonché C. Esposi-to, Costituzione, cit., 372 ss.

(80) Cfr. C. Esposito, Costituzione, cit., 362-363, nota 14.

(81) Si pensi al caso di leggi costituzionali in deroga agli artt. 13, 15 e 21 Cost.

(82) Cfr. C. Esposito, Costituzione, cit., 379 ss., il quale si riferisce essenzialmente agli artt. 7 e 10 Cost., relativamente alla possibili-tà di derogare alle norme internazionali generalmente riconosciute e ai Patti lateranensi.

(83) Per i quali v. S.M. Cicconetti, op. cit., 39.

(84) V. C. Esposito, Costituzione, cit., 380 ss.: “Mentre però l’art. 10 del testo costituzionale con la sua categorica statuizione impe-disce la entrata in vigore, e comunque determina l’inefficacia di ogni disposizione legislativa contraria alle norme internazionali gene-ralmente riconosciute (anche se si tratti di disposizione presa con legge costituzionale) esso non ha alcuna efficacia nei confronti di di-sposizioni attuali o future immense nel testo costituzionale”. In altri termini, se ben inteso, secondo tale dottrina le norme internazionali entrate nell’ordinamento in virtù dell’art. 10 Cost. non possono essere derogate, neppure mediante legge costituzionale; tuttavia, la loro validità ed efficacia potrebbe essere messa in discussione attraverso una legge di revisione che apporti modifiche espresse al testo della Costituzione.

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non valga qualora “la disposizione della legge costituzionale contrastante con l’adattamento del diritto italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciuto tenda espressamente a derogare al disposto dell’art. 10” (85).

Invece, per quanto riguarda l’opinione secondo la quale “resta escluso dalla dizione dell’art. 7 che leggi costitu-zionali diverse da quelle di revisione della Costituzione possano disciplinare oggetti regolati dai Patti Lateranensi” oppure “che possano sospendere o limitare nel singolo caso, nel singolo tempo, tale efficacia con disposizioni in rot-tura della Costituzione” (86), essa poggia sulla lettera dell’art. 7 che testualmente si riferisce al “procedimento di re-visione costituzionale”, piuttosto che a “leggi di revisione costituzionale”. Senonché, proprio tale circostanza viene intesa da alcuni nel senso che la disposizione abbia voluto far riferimento al fatto che una legge unilaterale di modifi-ca dei Patti debba essere approvata secondo lo speciale procedimento di revisione previsto dall’art. 138, e non tanto nel senso di escludere il ricorso a leggi costituzionali (87).

Per cui, come si vede, sulla base di questa connessione tra i limiti alle leggi costituzionali di deroga e i limiti alle leggi di revisione costituzionale, è da stabilire se la deroga trovi nella norma della Costituzione cui si riferisce solo un ostacolo formale, superabile mediante la sua previa rimozione da operare mediante la generica modifica della mede-sima, o invece anche un impedimento sostanziale non rimovibile. È quindi un siffatto criterio che può determinare, di volta in volta, se la deroga alla Costituzione sia da considerare una “rottura” o invece un illegittimo tentativo di revi-sione: figura quest’ultima che si realizza quando la modifica apportata tenta di operare il sovvertimento di un elemen-to costituzionale fondamentale che contrassegna l’identità dello Stato.

Di sicuro non è questo il caso della l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, dalla cui analisi ha preso le mosse il presente lavo-ro. Tuttavia, con specifico riguardo ad essa, pare possibile formulare le seguenti considerazioni conclusive.

La legge che ha introdotto in Italia il principio del pareggio di bilancio ha espressamente modificato – e dunque revisionato – taluni articoli della Costituzione, pur recando essa nel titolo la qualifica di “legge costituzionale” e non di revisione. Conformemente a quanto previsto dal t.u. n. 1092/1985 recante disposizioni sulla produzione degli atti normativi, l’atto legislativo in parola ha assunto – rispetto alle leggi costituzionali e di revisione – una numerazione unitaria e progressiva, distinta da quelle delle leggi ordinarie. Tale annotazione certamente potrebbe essere ridotta a mera precisazione linguistico-testuale, prestando il fianco ad obiezioni volte a disconoscerne una effettiva valenza giuridica. Eppure – si ritiene – il tema resterebbe come problema generale attinente al sistema delle fonti del diritto.

Invero, l’incertezza – pur solo linguistica – con cui l’odierno legislatore nomina gli strumenti normativi di cui di-spone potrebbe generare un’incontrollata attività di normazione costituzionale, tale da far smarrire la distinzione tra puntuali deroghe o integrazioni alla disciplina costituzionale vigente, da un lato, e vere e proprie revisioni della Carta fondamentale, dall’altro. Ne deriverebbe, da ultimo, l’inibizione degli strumenti che l’ordinamento giuridico appresta alla tutela della rigidità costituzionale, degli spazi di esercizio della sovranità e, per il loro tramite, di quelli che diret-tamente accedono ai meccanismi di controllo della responsabilità politica.

Nondimeno, l’insignificanza giuridica del nomen iuris, nella cui direzione si rischia di procedere, obbliga ad un’interpretazione sostanzialistica della legge che sia in grado di superare l’inattendibilità del dato linguistico. Nel momento in cui la legge si “estranea” dall’intendimento del legislatore costituzionale è la valutazione dell’interprete a determinare la qualificazione dell’atto legislativo e quindi, con essa, l’individuazione dei relativi limiti ed effetti.

La rimessione di tali operazioni al sistema dell’interpretazione, ontologicamente diffuso e parcellizzato, costringe l’interprete ad una indebita - e pur necessaria - intromissione nella tipica attività di selezione ed impiego delle fonti per quel che attiene alla relativa portata modificativa. Ad una sì esclusiva prerogativa degli organi della funzione le-gislativa è connessa una precisa responsabilità circa il grado di performatività ordinamentale della fonte, dalla cui identificazione essa direttamente discende.

L’incrinatura cui peraltro si rischia di consegnare lo stesso principio di separazione dei poteri, per effetto della supplenza alla quale viene costretto l’interprete, risulta essere una criticità attuale ed immane all’ordinamento giuridi-co e pertanto capace di incidere sul concreto svolgersi del potere costituito. Infatti, coerentemente col quadro sin qui tracciato, la sussistenza di limiti al potere di revisione costituzionale, inteso quale esercizio del potere costituito, deve potersi verificare non solo in relazione ai casi di esplicita modifica del testo costituzionale, ma anche quando la revi-sione della Costituzione non si pone espressamente come tale, bensì come degenerazione e stabilizzazione di un effet-to derogatorio perpetuato, per l’appunto, con legge costituzionale.

Lo smarrimento della distinzione tra leggi di revisione e leggi costituzionali, in cui la riforma del pareggio di bi-lancio pare essere incappata, produce lo svuotamento del contenuto prescrittivo dell’articolo 138 della Costituzione. Eludere le disposizioni della clausola di revisione costituzionale rende incerti i poteri e i confini del procedimento at-traverso cui attualizzare, e al contempo conservare, il supremo patto sociale.

(85) C. Esposito, Costituzione, cit., 382, nota 42.

(86) C. Esposito, Costituzione, cit., 386-387.

(87) Cfr. S.M. Cicconetti, op. cit., 39.

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La prescrizione di metodi, limiti e strumenti nel testo costituzionale si spiega con la necessità di disegnare spazi riconoscibili di modifica, evoluzione, involuzione e “rottura” del quadro delle tutele nel loro massimo grado conside-rate. La forma – intesa tanto come processo quanto come atto normativo – è indice endemico di riconoscibilità e sin-dacabilità di contenuti con cui il legislatore costituzionale torna a ridefinire i propri limiti e così i confini di quel che è costituzionalmente ammesso.

Gettare ombra sul rapporto tra la Costituzione e le leggi deputate alla sua revisione significa mettere a repentaglio il diritto di ogni popolo di “rivedere, riformare e cambiare la propria Costituzione”, giacché una “generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future” (88).

* * *

(88) Art. 28 della Costituzione giacobina del 1793.

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IL CONTROLLO PREVENTIVO DI LEGITTIMITÀ DELLA CORTE DEI CONTI

SULLE DELIBERE CIPE (*)

di Giuseppe Maria Mezzapesa

Abstract: In materia di investimenti pubblici, la funzione di controllo preventivo di legittimità svolta dalla Corte dei conti da un lato consente di prevenire annullamenti in via giudiziale di interventi di portata finanziaria rilevante, dall’altro impedisce l’avvio di opere destinate a non concludersi o comunque a procedere con diverse criticità, tanto sul fronte delle risorse necessarie, quanto per aspetti tecnici o procedurali suscettibili di incidere sulla rego-larità e sicurezza delle opere. Trattasi, peraltro, di un controllo in grado di inibire l’efficacia di atti illegittimi, svolto con modalità che attribuiscono a questa funzione una pregnanza sempre maggiore, in quanto esercitata in un’ottica che non è solo quella di uno sterile sindacato di verifica di corrispondenza al dato normativo, ma di ac-compagnamento dell’amministrazione, in una fase preventiva, nella realizzazione di percorsi che mirano ad essere sempre più corretti, tempestivi ed efficienti. Le principali criticità rilevate in sede di controllo preventivo di legit-timità sulle delibere del Cipe sono riconducibili a tre macro-aree: la non corretta o esaustiva indicazione dei qua-dri finanziari e della sostenibilità finanziaria dei costi correlati; la presenza di vizi di legittimità nelle procedure; il rinvenimento di carenze sotto il profilo tecnico.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il controllo preventivo della Corte dei conti. – 3. Il controllo sulle delibere Cipe. – 3.1. I tempi e le modalità del controllo. – 3.2. I principali vizi di legittimità rilevati. – 4. Qualche considerazione con-clusiva.

1. Premessa

L’oggetto del presente articolo, strettamente connesso al più generale tema degli investimenti e delle opere pub-bliche, desta particolare interesse, non solo in ragione dell’entità delle risorse pubbliche coinvolte, ma anche per le stringenti esigenze di tutela degli interessi, non solo finanziari, della collettività.

I cittadini, come noto, da un lato alimentano per massima parte le entrate del bilancio dello Stato, dall’altro sono i fruitori dei servizi pubblici, risultando dunque portatori sia dell’interesse ad una corretta e diligente attività di accer-tamento e riscossione delle entrate, sia dell’interesse ad una sana gestione delle finanze pubbliche che garantisca l’efficienza dei servizi resi. Ma, come negli ultimi anni emerge sempre con maggior forza nel dibattito dottrinario, a fronte di tali interessi, per quanto caratterizzati da forte intensità, non è presente nell’ordinamento una forma di prote-zione specifica, anche in ragione della difficile disciplina dei corrispondenti doveri. In particolare, si rileva la assenza di un organico sistema sanzionatorio per gli enti o apparati pubblici, fatte salve le ipotesi di responsabilità ammini-strativa degli agenti contabili, ove ne ricorrano i presupposti (1).

Inoltre, il contenuto stesso di tali doveri appare per lo più determinato in chiave finalistica, risultando, invece, il profilo degli strumenti e delle procedure per pervenire a tali scopi, esclusivamente relegato alla rigorosa osservanza delle regole giuscontabili.

Pertanto, è affidato al rispetto di queste ultime ogni garanzia in ordine alla corretta gestione delle entrate e delle spese pubbliche e, dunque, ogni pretesa della collettività ad una sana gestione che garantisca l’efficienza dei servizi.

In tale contesto viene ad affermarsi, ancora con maggior vigore, il ruolo della Corte dei conti di garante indipen-dente e neutrale, a presidio delle regole e dei vincoli alla cui osservanza sono tenuti tutti i soggetti che agiscono all’interno dello Stato-ordinamento; un mandato, dunque, che sempre più la magistratura contabile è chiamata a svol-gere avendo quale referente ultimo la collettività stessa.

Queste considerazioni se, da un lato, sembrano aprire nuove prospettive per gli ambiti propri della contabilità pubblica e, correlativamente, per quelli che possono divenire nuovi presidi per la magistratura contabile, dall’altro portano a vedere con occhi nuovi alle potenzialità dei più tradizionali controlli della stessa Corte dei conti, quali il controllo preventivo di legittimità.

(*) L’articolo riporta considerazioni già oggetto dell’intervento svolto dall’autore nel corso della Giornata di studio “Investimenti e

opere pubbliche”, Roma, Corte dei conti, 1 febbraio 2019.

(1) Si rinvia a La tutela degli interessi finanziari della collettività nel quadro della contabilità pubblica: principi, strumenti, limiti (Atti del 63° Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 21-23 settembre 2017), ed in particolare alla Introduzione di A. Martucci di Scarfizzi, in questa Rivista, 2017, fasc. 5-6, 521.

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2. Il controllo preventivo della Corte dei conti

Come noto, nella nostra architettura costituzionale la Corte dei conti è inserita sia tra gli organi a tutela della lega-lità, del buon andamento dell’azione amministrativa e degli equilibri di finanza pubblica (art. 100, c. 2), sia tra gli or-gani giurisdizionali (art. 103, c. 2).

Da detta doppia investitura deriva la centralità del ruolo di garanzia della corretta gestione delle pubbliche risorse rivestito dalla magistratura contabile che, se nell’espletamento delle funzioni giurisdizionali fa parte a tutti gli effetti dell’ordine giudiziario, anche nell’esercizio del controllo continua ad essere organo neutrale, autonomo ed indipen-dente.

Del resto, le funzioni di controllo svolte dalla Corte dei conti non vanno semplicemente ad affiancarsi alle funzio-ni giurisdizionali intestate alla stessa magistratura, in quanto oltre a esserci importanti punti di contatto cui il nuovo codice di giustizia contabile ha dato particolare rilevanza (2), è ravvisabile una vera e propria comunanza di radici.

È infatti riconoscibile una sorta di iurisdictio che, sin dalle origini, è apparsa unitaria ed integrata, poiché è alla Corte dei conti nell’esercizio complessivo delle sue funzioni che è attribuito il compito di assicurare la legalità rispet-to al bilancio. Quest’ultimo è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale quale bene pubblico in sé, in quanto stru-mento di programmazione, gestione e informazione della collettività (3); è, dunque, il pregiudizio recato a tale bene a dover essere l’oggetto centrale degli accertamenti compiuti a diverso titolo dalla magistratura contabile (4). Pertanto, sia la funzione giurisdizionale, sia il controllo, nelle variegate estrinsecazioni che la legge, di pari passo all’evolversi dell’ordinamento contabile, ha riconosciuto (5), si giustificano in correlazione alla necessità, costituzionalmente fon-data, di un unico magistrato speciale, “giudice del diritto e perito del fatto contabile” (6).

L’esercizio delle funzioni di controllo, in particolare in alcuni contesti, consente un giusto contemperamento tra le esigenze di un sindacato sull’attività finanziaria e sulla gestione patrimoniale, effettuato da un giudice terzo e indi-pendente, e quelle del buon andamento dell’azione amministrativa, rispetto alle quali risulterebbero poco idonei i tempi e le forme del processo. Ferme restando, tuttavia, anche nell’esercizio delle funzioni di controllo, adeguate ga-ranzie di difesa, nonché il pieno contraddittorio, sia in sede istruttoria che attraverso la pubblica adunanza (7).

In ogni caso, le deliberazioni che concludono i procedimenti di controllo “non possono qualificarsi atti ammini-strativi, pur non essendo sentenze in senso stretto. Trattasi infatti di atti atipici promananti da organo appartenente all’ordine giudiziario, in posizione di indipendenza e terzietà” (8).

Queste caratteristiche sono particolarmente evidenti in una delle più tradizionali funzioni attribuita alla Corte dei conti, ovvero il controllo preventivo di legittimità sugli atti, svolto dalla Sezione centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato, nonché, sugli atti delle amministrazioni periferiche dello Stato, dalle sezioni regionali di controllo.

Nell’esercizio di questa funzione, unico parametro di riferimento è la legittimità del provvedimento, ovvero il di-ritto obiettivo, in piena analogia a quanto accade innanzi all’autorità giurisdizionale amministrativa. Peraltro, la no-

(2) Cfr. F. Longavita, I rapporti tra funzioni giurisdizionali e funzioni di controllo, in A. Canale, F. Freni, M. Smiroldo (a cura di) Il

nuovo processo davanti alla Corte dei conti, Milano, Giuffrè, 2017.

(3) Cfr. Corte cost. n. 184/2016 (in questa Rivista, 2016, fasc. 5-6, 484, con nota di richiami); nn. 228 e 247/2017. In dottrina, cfr. M. Degni, P. De Ioanna, Il bilancio è un bene pubblico, Roma, Castelvecchi, 2017.

(4) Cfr., in tal senso, A. Carosi, Il controllo di legittimità-regolarità della Corte dei conti sui bilanci degli enti territoriali anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, in F. Capalbo (a cura di), Il controllo di legittimità-regolarità della Corte dei conti, Napoli, Editoriale scientifica, 2018.

(5) Il riferimento è a tutte le variegate espressioni della funzione di controllo della Corte, il cui fondamento comune è sempre stato, principalmente, ravvisato nell’art. 100, c. 2, Cost. Secondo la dottrina, infatti, tutto il controllo sulla gestione del denaro pubblico trova la sua legittimazione in questa previsione costituzionale strutturata con formula di ampia portata, tale da poter essere interpretata “quale base abilitativa per l’istituzione Corte dei conti all’esercizio del controllo del percorso del denaro pubblico, nel segno dell’economicità, dell’efficacia e della proficuità della sua gestione, in ogni momento, sotto ogni aspetto e soprattutto dovunque esso si trovi”, V. Caputi Jambrenghi, Il nuovo sistema dei controlli della Corte dei conti sui bilanci delle autonomie territoriali, in questa Rivista, 2016, fasc. 3-4. Cfr. sul tema anche alcune significative sentenze della Consulta: Corte cost. n. 46/2008 (in Foro it., 2009, I, 625, con nota di richiami); n. 371/1998 (in Gazzetta giur., 1998, fasc. 44, 40); n. 24/1993 (in questa Rivista, 1993, fasc. 1, 199); n. 773/1988 (ivi, 1988, fasc. 4, 225); n. 641/1997, n. 241/1984 (ivi, 1984, 1011); n. 189/1984 (in Foro it., 1985, I, 38, con nota di L. Verrienti, Responsabilità amministrativa di amministratori e di dipendenti di enti locali: osservazioni circa i rapporti tra la giurisdizione della Corte dei conti e quella del giudice ordinario); n. 185/1982 (in Giur. cost., 1982, I, 2018); n. 129/1981 (ivi, 1981, I, 1281, con nota di G.M. Lombardi, L’autonomia contabi-le degli organi costituzionali: garanzia o privilegio?); n. 102/1977; n. 68/1971.

(6) Cfr. Ordinanza di rimessione alla Corte cost. n. 70/2018 della Sezione regionale di controllo per la Campania, cui ha fatto seguito la sentenza della Consulta n. 18/2019.

(7) Tanto, sia in virtù delle previsioni di cui al r.d. n. 1214/1934, sia grazie ad una interpretazione delle stesse alla luce della riforma del c.d. giusto processo (art. 111, cc. 1 e 2, Cost.) che ha consentito l’estensione del principio anche ai controlli di legittimità-regolarità successivi al testo unico del 1934.

(8) Corte conti, Sez. riun. giur., spec. comp., n. 15/2017, in questa Rivista, 2017, fasc. 3-4, 231, con nota di richiami.

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zione di legittimità di riferimento è univoca, non avendo alcun fondamento nel diritto positivo la possibilità di enu-clearne una specifica per il controllo operato dalla Corte (9).

Ma quel che preme maggiormente evidenziare, al fine di cogliere a pieno la valenza di questo tipo di controllo, è come, rispetto al sindacato dell’autorità giurisdizionale amministrativa, non solo non sussiste il vincolo del principio di corrispondenza fra richiesto e pronunciato, esercitandosi il controllo della Corte dei conti sull’intero atto, ma, nei casi tassativi per cui il medesimo è previsto dalla legge, lo stesso non dipende dalla sola eventuale iniziativa di sog-getti interessati.

Pertanto, in relazione alle finalità e al rilievo finanziario che possono rivestire in un determinato periodo storico determinate categorie di atti, questi sono assoggettati, in via necessaria, ad un controllo volto ad accertarne la con-formità a legge, dal cui solo esito positivo può derivare l’efficacia degli stessi (10).

Una funzione dunque, la cui presenza nel nostro ordinamento ha una notevole rilevanza sistematica, in quanto as-sicura un vaglio di legittimità su atti rispetto ai quali risulterebbero, per ragioni diverse, non sufficienti le guarentigie giurisdizionali, ovvero non del tutto appropriate le sole garanzie assicurate dal controllo successivo. Tanto vale, in particolare, rispetto ad atti che, per caratteristiche endemiche, per la tempistica dei rispettivi procedimenti, ovvero per la ristrettezza dei controinteressati, risultano difficilmente suscettibili di provocare contenziosi innanzi all’autorità giurisdizionale, ovvero rispetto ai quali le potenzialità e l’ampiezza di altre forme di controllo appaiono non idonei a coprire interamente le istanze di tutela degli interessi coinvolti.

Inoltre, nel controllo preventivo di legittimità, quel necessario giusto contemperamento tra le esigenze di legalità e del buon andamento dell’azione amministrativa è particolarmente evidente, concentrandosi in capo ad un organo ma-gistratuale, nell’esercizio delle proprie funzioni, la verifica a monte sulla legittimità di atti, la cui efficacia dipende da questo vaglio preventivo.

Non stupisce, dunque, che alla riduzione degli atti assoggettati al controllo preventivo di legittimità disposta, ri-spetto all’ordinamento previgente, dall’art. 3 della l. n. 20/1994, abbia fatto seguito, nel tempo, una costante revisione degli atti allo stesso sottoposti (11).

Infatti, la costatazione della insufficienza del sindacato di mera legittimità a cogliere la complessità dell’azione amministrativa, non estendendosi il medesimo all’impatto sulla realtà economico-sociale prodotto dall’atto controlla-to (12), può apparire corretta solo nella misura in cui mira al rafforzamento di altre tipologie di controllo, in coerenza con l’evoluzione dell’ordinamento amministrativo e contabile; non appare, invece, assolutamente idonea a scardinare le potenzialità e la necessarietà del controllo preventivo di legittimità.

Un ragionamento, quest’ultimo, il cui valore si apprezza maggiormente ove si osserva il rinnovato volto di questa tipologia di controllo che ha assunto sempre di più un ruolo conformativo dell’azione amministrativa. Infatti, senza pervenire alla estrema conseguenza della ricusazione del visto di legittimità, l’attività svolta dagli uffici di controllo risulta spesso già di per sé funzionale a evitare che le pubbliche amministrazioni adottino provvedimenti non confor-mi a legge. Negli ultimi anni, è da un lato aumentata l’incidenza dei provvedimenti ritirati a seguito di rilievo forma-le, avendo in più occasioni le amministrazioni ritenuto di dover adeguare i contenuti degli atti alle osservazioni della Corte; dall’altro, si sono incrementati i rilievi avviso, ovvero le osservazioni che accompagnano la registrazione degli atti, ai quali le amministrazioni sono tenute a conformarsi (13).

(9) Sono dunque sindacabili, in tale sede, anche i vizi riconducibili all’eccesso di potere. In tal senso, A. Baldanza, Funzioni di con-

trollo, in V. Tenore (a cura di), La nuova Corte dei conti, Milano, Giuffrè, 2018. Sul tema, P. Stella Richter, Il controllo preventivo della Corte dei conti, in Parlamento, Governo e controllo nei convegni Cogest, Roma, Tip. Rinascimento, 1996.

(10) Se rientra nella discrezionalità del legislatore restringere o ampliare l’ambito del controllo preventivo di legittimità della Corte a tassative categorie di atti, tuttavia, la stessa legge rimette alle Sezioni riunite della Corte dei conti la possibilità, con deliberazione moti-vata, di stabilire che singoli atti di notevole rilievo finanziario, individuati per categorie ed amministrazioni statali, siano assoggettati a controllo per un periodo determinato (cfr. art. 3, c. 3, l. n. 20/1994). D’altro canto, anche il Presidente del Consiglio dei ministri può rite-nere di richiedere, al Presidente della Corte dei conti, la sottoposizione temporanea di alcuni atti al controllo preventivo di legittimità, in relazione a situazioni di diffusa e ripetuta irregolarità rilevate in sede di controllo successivo (cfr. art. 3, c. 1, lett. l, l. n. 20/1994).

(11) Da ultimo, il legislatore ha inteso ampliare l’ambito di operatività del controllo preventivo della Corte dei conti sulla legittimità e sulla regolarità dei contratti secretati, con l’art. 162, c. 5, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, al quale ha fatto seguito la deliberazione delle Se-zioni riunite della Corte dei conti 8 giugno 2016, n. 1, con cui si costituito l’apposito ufficio di controllo previsto dalla legge. Inoltre, fra gli altri ambiti di controllo preventivo di legittimità di recente individuati si richiamano: l’art. 14, c. 5, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, re-cante “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”, in materia di “Crisi d’impresa di società a partecipazione pubblica” e, in particolare, con riguardo ai provvedimenti di autorizzazione degli interventi di aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, rilascio di garanzie a favore delle società partecipate, disposti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con gli altri ministri competenti, soggetti a registrazione della Corte dei conti; il d.l. 17 ottobre 2016, n. 189, convertito dalla l. 15 dicembre 2016, n. 229, recante “Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016”, per i provvedimenti di natura regolatoria ed organizzativa, ad esclusione di quelli di natura gestio-nale, adottati dal commissario straordinario.

(12) G. D’Auria, I controlli, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2003.

(13) Cfr. Inaugurazione anno giudiziario 2018, Relazione sull’attività, in <www.corteconti.it>: “Il procedimento del controllo pre-ventivo si pone dunque sempre più spesso per la pubblica amministrazione come l’occasione per correggere le anomalie riscontrate,

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3. Il controllo sulle delibere Cipe

Ai sensi dell’art. 3, c. 1, l. 14 gennaio 1994, n. 20, sono sottoposti al controllo preventivo di legittimità anche i provvedimenti dei comitati interministeriali di riparto o di assegnazione dei fondi e le altre deliberazioni emanate nel-le materie riguardanti, in particolare, la programmazione comportante spese e l’attuazione di norme comunitarie.

Vengono dunque in rilievo, principalmente, le delibere emanate dal Comitato interministeriale per la programma-zione economica (Cipe), per gran parte delle quali l’art. 41, c. 5, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modifi-cazioni dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, ha ridotto i termini per il controllo da parte della Corte a 40 giorni, rispetto ai 60 previsti per la generalità degli atti delle amministrazioni dello Stato (14). Sono assoggettate, in particolare, a questa riduzione tutte quelle afferenti alle opere strategiche, riguardanti, fra l’altro, i contratti di programma che fi-nanziano in toto o in parte predominante gli investimenti infrastrutturali. Restano escluse, invece, delibere quali quel-le relative al fondo sanitario o alle garanzie dello Stato.

Al riguardo va precisato come quest’ultima norma faccia riferimento alle opere incluse nel programma delle opere strategiche previste dalla legge obiettivo 21 dicembre 2001, n. 443, nell’ambito di una generale volontà di accelerare la realizzazione delle stesse.

Il competente Ufficio di controllo della Corte, nel pieno rispetto della ratio normativa, ha da sempre adottato una interpretazione estensiva della norma, applicando la riduzione dei tempi del controllo anche a fattispecie di provve-dimenti di più ampia portata (ad esempio, ai contratti di programma, per quanto provvedimenti complessi riferiti an-che ad altre opere).

Successivamente, il codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) ha abrogato la disciplina speciale con cui sono state programmate, progettate e realizzate le infrastrutture strategiche dal 2001 (secondo la c.d. “legge obiettivo”), introducendo contestualmente una nuova disciplina per la programmazione e la realizzazione delle infra-strutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese, da definirsi attraverso il Documento pluriennale di pianificazione (Dpp), strumento allo stato non ancora adottato. A partire dal 2015 è stata, dunque, avviata una revi-sione della programmazione delle infrastrutture strategiche, attraverso una selezione di priorità rinvenibile negli alle-gati al Def. In questa fase di transizione, dalla vecchia alla nuova programmazione, fino alla approvazione del primo Dpp, gli strumenti di pianificazione e di programmazione già approvati secondo le procedure vigenti alla data di en-trata in vigore del codice “valgono come programmazione degli investimenti in materia di infrastrutture e trasporti” (art. 201, c. 9, c.g.c.) (15).

Pertanto, a seguito della abrogazione della sopra richiamata legge obiettivo (unitamente alla disciplina speciale at-traverso cui le medesime opere strategiche erano programmate, progettate e realizzate dal 2001), il quadro normativo di riferimento del controllo sulle delibere in esame è mutato, facendo sorgere alcune questioni.

È apparsa pacifica l’applicazione della riduzione dei tempi alle delibere aventi ad oggetto modificazioni, ovvero approvazioni di ulteriori lotti funzionali o eventuali varianti di progetto riguardanti opere strategiche già precedente-mente avviate (16). Si è ritenuta parimenti applicabile la stessa riduzione dei termini anche alle opere rientranti nel Programma infrastrutture strategiche, le cui procedure sono state avviate solo dopo l’introduzione delle modifiche normative in parola.

mediante ritiro o riforma dell’atto del quale sono stati contestati profili di illegittimità. Il controllo preventivo viene così a stimolare, nell’amministrazione controllata, processi di autocorrezione e a innescare, con sempre maggiore frequenza, doverose misure di autotu-tela, volte a rimuovere le irregolarità e a ripristinare una situazione di legalità, formale e sostanziale”.

(14) Il Comitato interministeriale per la programmazione economica adotta decisioni di carattere economico e in particolare di finan-ziamento di investimenti e spesa in conto capitale in infrastrutture stradali, autostradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali, di difesa dell’assetto idrogeologico, di spesa sanitaria, programma, e ripartisce il Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc).

(15) “Con l’allegato al Def 2015 sono state individuate venticinque opere prioritarie rientranti nell’ambito del Programma delle infra-strutture strategiche (tra le quali il collegamento ferroviario Torino-Lione, le tratte AV/AC Milano-Verona, Napoli-Bari e Palermo-Catania-Messina, le pedemontane lombarda e veneta, il quadrilatero Marche-Umbria, l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, la S.S. 106 Jonica, gli itinerari stradali Agrigento-Caltanissetta e Sassari-Olbia, le metropolitane M4 di Milano, Sfm di Bologna, Sistema tranviario fiorentino, la linea C di Roma, le linee 1 e 6 di Napoli, la Circumetnea e il nodo ferroviario di Palermo, il Mose). Successivamente, con l’allegato al Def 2017 sono stati individuati programmi e interventi prioritari invarianti, che includono interventi in corso, approvati e finanziati e con obbligazioni giuridicamente vincolanti (ossia con contratto approvato o oggetto di accordi internazionali). In tali pro-grammi e interventi invarianti sono stati inclusi taluni interventi rientranti precedentemente nella programmazione delle infrastrutture strategiche (tra cui alcune delle venticinque opere prioritarie del Def 2015), e sono stati aggiunti nuovi interventi prioritari non inclusi nella vecchia programmazione (prevalentemente contenuti nei contratti di programma Anas e Rfi e nel Piano operativo infrastrutture, di competenza del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, finanziato con le risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione)”, cfr. Ca-mera dei deputati, Ufficio Studi, Infrastrutture strategiche e prioritarie. Programmazione e realizzazione, 2018.

(16) Si tratta di opere approvate ai sensi dell’art. 165 (approvazione del preliminare), ovvero ai sensi dell’art. 167, c. 5 (contestuale approvazione di preliminare e definitivo), d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (abrogato dall’art. 217 del d.lgs. n. 50/2016, nuovo codice dei contratti pubblici). Infatti, la previgente disciplina trova ancora applicazione a tutte le procedure, anche autorizzative, avviate prima del 19 aprile 2016, ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 214, c. 11, e 216, cc. 1, 1-bis e 27, del nuovo codice.

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Resta, invece, da chiarire, evidentemente attraverso uno specifico intervento normativo, l’applicazione dei mede-simi termini ridotti anche alle opere “prioritarie” incluse ora nell’allegato infrastrutture al Def e che, ai sensi degli artt. 200 e 201 del nuovo codice dei contratti pubblici, devono rientrare nei non ancora attuati Dpp.

Da ultimo, anche per ovviare a criticità evidenziate in sede di controllo dalla Corte dei conti, con delibera Cipe n. 82/2018, pubblicata in G.U., Serie generale, 3 aprile 2019, n. 79, si è modificato il regolamento interno del Comitato precedentemente approvato con delibera n. 62/2012. La natura delle decisioni assunte in tale consesso, infatti, ha reso necessario un miglioramento del processo decisionale, al fine di ottenere una accelerazione dei tempi di conclusione dell’iter procedimentale, unitamente a maggiori garanzie di certezza sui finanziamenti destinati alla realizzazione dei progetti e dei programmi di intervento pubblico.

In particolare, si è intervenuti su due aspetti che, in maniera anche connessa fra loro, incidono particolarmente sul-la tempistica di perfezionamento delle delibere, nonché sull’esplicazione dei relativi controlli: l’organizzazione delle attività istruttorie; le verifiche effettuate da parte del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef), attraverso la Ra-gioneria generale dello Stato (Rgs), successivamente alle sedute del Comitato. È evidente che i tempi di queste ultime verifiche dipendono anche dalla completezza e dalla piena condivisione della documentazione nelle fasi anteriori, co-sì come il miglioramento di entrambi gli aspetti evidenziati ha dirette conseguenze sull’espletamento dei controlli fi-nali effettuati dalla Corte dei conti sulle delibere in parola.

Sotto il primo profilo, il nuovo regolamento detta precise norme finalizzate ad assicurare l’adeguatezza dell’istruttoria delle proposte oggetto di esame del Comitato, che devono contenere un set informativo coerente e de-finito in grado di migliorare il processo istruttorio. In particolare, viene stabilita l’irricevibilità delle proposte carenti, e dunque l’impossibilità di inserimento all’ordine del giorno di proposte con documentazione incompleta. Inoltre, vengono introdotte nuove regole sulla necessità che le proposte contengano schede di monitoraggio dello stato di at-tuazione degli interventi di investimento pubblico, identificati con il relativo codice unico di progetto (Cup), nonché sull’obbligo di asseverazione sulla completezza e correttezza dei dati anagrafici, finanziari, fisici e procedurali con-cernenti l’opera o il progetto relativo alla proposta stessa, che confluiscono nella banca dati delle amministrazioni pubbliche (Bdap) istituita presso la Rgs. Quest’ultima previsione è chiaramente intesa a consentire, a valle delle sedu-te, miglioramenti nel monitoraggio delle decisioni del Cipe.

Sotto il secondo profilo, vengono mantenute le verifiche di finanza pubblica del Ministero dell’economia e delle finanze sui testi delle delibere, effettuate a valle delle riunioni del Comitato. Tuttavia, a fini acceleratori, è stata intro-dotta la regola generale secondo la quale le delibere, trascorsi inutilmente quindici giorni dalla data di invio al Mef senza alcun riscontro, sono comunque sottoposte alla sottoscrizione del segretario e del presidente del Cipe (o di chi ha presieduto) dandone comunicazione, da parte del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica (Dipe), al suddetto ministero (art. 5, c. 7).

Si tratta di una disposizione che in primo luogo intende rendere compatibile, dal punto di vista della tempistica, questo passaggio procedurale con il rispetto del termine previsto dal già richiamato art. 41, c. 4, d.l. n. 201/2011, ai sensi del quale le delibere assunte dal Cipe devono essere formalizzate e trasmesse al Presidente del Consiglio dei ministri per la firma entro trenta giorni dalla seduta, al fine di garantire certezza alla destinazione dei finanziamenti.

In ogni caso, quest’ultime esigenze risultano coerenti con quelle connesse alle verifiche sui saldi di finanza pub-blica che, peraltro, non appaiono costrette in termini troppo stringenti. Al riguardo occorre porre l’attenzione sul ruo-lo e sulla funzione di controllo svolto dal Mef-Rgs nell’intero processo deliberativo del Cipe, ove partecipa fattiva-mente in tutti i diversi passaggi dell’attività istruttoria e deliberativa. In particolare, infatti, viene confermata la preli-minare nota di seduta, redatta congiuntamente con l’amministrazione finanziaria, in cui sono già indicati i punti iscrit-ti all’ordine del giorno, l’oggetto della decisione da adottare, nonché le eventuali osservazioni e prescrizioni di com-petenza dello stesso ministero, sottoposte alla valutazione del Comitato e da acquisire eventualmente al verbale.

Va inoltre osservato come lo stesso nuovo regolamento alla regola generale aggiunga la previsione di due ecce-zioni con cui si è inteso contemperare l’esigenza di procedere con speditezza al perfezionamento delle delibere che non presentino particolari criticità con quella di mantenere un rigoroso controllo del Mef sul testo delle delibere più rilevanti per gli aspetti di finanza pubblica e su quelle considerate urgenti: la prima consiste nella possibilità, per il Mef, ove ritenga che una delibera debba essere necessariamente sottoposta a un controllo più approfondito, di inter-rompere il termine previsto con una comunicazione al Dipe; la seconda eccezione prevede che il termine di quindici giorni non si applichi alle delibere che sono state sottoposte al Cipe fuori dall’ordine del giorno e dunque senza l’istruttoria della riunione preparatoria (c.d. delibere “fuori sacco” (17)).

Le disposizioni descritte, dunque, mirano ad ottenere una accelerazione delle procedure tese alla formalizzazione delle delibere, peraltro in osservanza a segnalazioni ripetutamente formulate dalla stessa Corte dei conti, che ha rite-nuto, in più occasioni, particolarmente grave l’eccessivo lasso di tempo intercorrente tra la data di seduta in cui è stata adottata la delibera e la sua sottoposizione al controllo preventivo di legittimità, in quanto fattore di criticità che, tra l’altro, pregiudica un razionale e significativo esercizio della funzione stessa del controllo.

(17) Si tratta in ogni caso di argomenti “fuori sacco”, il cui inserimento deve essere motivato, così come prevede il nuovo art. 4, c. 3,

del regolamento.

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Va però parimenti sottolineato, come le nuove previsioni regolamentari non abbiano alcun effetto sulla comple-tezza dell’assetto istruttorio e documentale sul quale il controllo preventivo di legittimità della Corte deve esercitarsi. In particolare, il nuovo regolamento (art. 10) continua a prevede, esplicitamente, che le delibere adottate dal Comitato sono inoltrate alla Corte dei conti per il controllo di cui all’art. 3 della l. n. 20/1994, unitamente agli esiti delle verifi-che degli effetti sulla finanza pubblica svolte dal Mef (18). Si riconosce, dunque, che, ai fini del controllo di legittimi-tà, l’acquisizione dell’esito di dette verifiche costituisce, comunque, presupposto essenziale ai fini istruttori. Una esi-genza, peraltro, coerente con il quadro normativo, ove si osserva che il predetto art. 41, c. 4, d.l. n. 201/2011, nello stabilire il termine di trenta giorni dalla seduta, fa riferimento ai tempi intercorrenti tra quest’ultima e la sottoposizio-ne delle delibere alla firma del Presidente del Consiglio, e non anche ai tempi di invio delle delibere alla Corte, per la quale dispone soltanto la riduzione di un terzo dei termini previsti all’art. 3, c. 2, l. n. 20/1994 e ss.mm., per i provve-dimenti di cui alla l. n. 443/2001.

3.1. I tempi e le modalità del controllo

Nonostante la complessità dell’esame di questa particolare tipologia di atti, l’attività istruttoria si conclude entro il ventesimo giorno per le delibere di cui all’art. 41, c. 5, sopra richiamato (per le quali il termine complessivo è di 40 giorni), o comunque entro il trentesimo per le altre (per le quali il termine complessivo è 60 giorni) (19). Pertanto, i tempi di registrazione, a chiusura dell’istruttoria, nei casi in cui non vengano formulati rilievi, sono decisamente bre-vi.

Ma anche ove risulti necessaria una richiesta di chiarimenti e la successiva eventuale registrazione sia accompa-gnata da un rilievo avviso, i giorni utilizzati dall’ufficio di controllo sono di qualche giorno superiori, cumulandosi a quelli utilizzati dalle amministrazioni per rispondere ai rilievi mossi nel corso dell’istruttoria (20).

È evidente, dunque, quanto poco incidano i tempi del controllo della Corte sulla speditezza delle procedure in pa-rola, rispetto alla complessità dell’attività richiesta. Ma soprattutto occorre sottolineare, a fronte di un controllo svolto in un arco temporale così ridotto, quanto rilevante sia il contributo reso dal medesimo, laddove è in grado di prevenire l’erronea allocazione e il conseguente spreco di risorse finanziarie pubbliche, di evitare l’inutile svolgimento di attivi-tà amministrative e di salvaguardare, conseguentemente, le aspettative e le esigenze, in termini di servizi resi, della collettività.

Sottolineare questo aspetto appare tanto più necessario, quanto meno evidenti sono, per la loro intrinseca natura, le modalità attraverso le quali il controllo in parola si estrinseca.

Nell’ultimo biennio (2017-2018) sono state soltanto due le delibere Cipe cui la sezione ha denegato il visto, con-dividendo i rilievi, in ordine alla illegittimità delle medesime, sollevati dall’ufficio competente (Sezione centrale del controllo di legittimità su atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato, delib. n. 8/2017 e n. 6/2018) (21).

Un dato che di per sé non coglie assolutamente l’intensità, ma soprattutto gli effetti concreti del controllo svolto sulla legittimità delle delibere esaminate, teso a superare l’extrema ratio della ricusazione del visto.

Il coinvolgimento della sezione riguarda un numero limitato di provvedimenti, in quanto l’attività svolta dagli uf-fici di controllo, di norma, è già di per sé funzionale a evitare che le pubbliche amministrazioni adottino provvedi-menti non conformi a legge. Un dato generale che trova ampia conferma con riguardo alle delibere Cipe.

In primo luogo, occorre sottolineare l’incidenza dei provvedimenti ritirati a seguito di rilievo formale. Tanto av-viene quando le amministrazioni ritengono di dover adeguare i contenuti degli atti alle osservazioni della Corte. Il procedimento del controllo preventivo si pone, infatti, sempre più, per la pubblica amministrazione, come l’occasione per correggere le anomalie riscontrate, mediante ritiro o riforma dell’atto del quale sono stati contestati profili di ille-gittimità. Ciò implica che anche atti di maggior rilievo possano trovare il loro momento di chiusura in fase non colle-giale, dunque con il visto del magistrato istruttore e del consigliere delegato e senza che ne sia data evidenza in deli-berazioni, pur essendosi ravvisato, ab orgine, un vizio di illegittimità. Il controllo preventivo va infatti a stimolare, nell’amministrazione controllata, processi di autocorrezione e a innescare, con sempre maggiore frequenza, doverose misure di autotutela, volte a rimuovere le irregolarità e a ripristinare una situazione di legalità, formale e sostanziale (22). Un fenomeno quest’ultimo assai ricorrente rispetto alle delibere Cipe. Solo nel 2018 sono stati otto i casi di ri-

(18) In tal senso già l’art. 11, c. 1, del regolamento approvato con delibera Cipe n. 62/2012.

(19) Trattasi di un controllo molto articolato da svolgersi su un numero rilevante di documenti allegati, quali pareri, relazioni tecni-che e istruttorie di altre amministrazioni o diversi organi che intervengono nel procedimento.

(20) I tempi utilizzati dalle amministrazioni corrispondono, per lo più, a tutti i giorni concessi dalla legge, pari sempre, rispettivamen-te, a 30, ovvero a 20 per le delibere cui si applica la riduzione dei termini.

(21) Si ricorda che il procedimento inizia con l’invio dell’atto sottoposto a controllo al competente ufficio della Corte dei conti. Ove l’atto sia ritenuto legittimo (sia dal magistrato istruttore che dal consigliere delegato), è ammesso al visto e alla registrazione e da quel momento acquista efficacia, cioè produce effetti giuridici. Nell’eventualità in cui l’ufficio della Corte competente (ovvero anche soltanto uno dei due magistrati assegnati a tale funzione) dubiti della legittimità dell’atto, lo stesso è deferito alla Sezione perché si pronunci in via definitiva sulla registrazione o meno dello stesso.

(22) Cfr. Inaugurazione anno giudiziario 2018, Relazione sull’attività, cit.

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chiesta di ritiro delle delibere, per un riesame delle stesse, cui ha fatto seguito, in alcuni casi, la riproposizione dell’atto emendato dei vizi. In un caso, la richiesta di ritiro ha fatto seguito al deferimento dell’atto all’esame colle-giale, prevenendo in ogni caso la decisione della sezione (23). A conferma di quanto questa sia una prassi consolida-ta, basti rilevare come nel nuovo regolamento del Cipe, approvato con la delibera n. 82/2018 già sopra ampiamente richiamata, sia stata introdotta una nuova disciplina avente ad oggetto proprio le delibere ritirate dal controllo preven-tivo di legittimità su richiesta del ministro proponente (art. 10). Il nuovo regolamento, con una disposizione tesa a ri-spondere ad esigenze di certezza giuridica e trasparenza, prescrive che le medesime delibere si intendono definitiva-mente revocate ove non rinviate, su istanza del medesimo ministero, alla Corte dei conti ai fini del suddetto controllo, entro sei mesi dalla data del ritiro (24).

Risulta poi affermata ormai da tempo una linea di tendenza che interpreta in maniera sempre più diffusa il control-lo preventivo di legittimità come funzione, tra l’altro, conformativa dell’azione della pubblica amministrazione. Nu-merosi sono, infatti, anche rispetto ai provvedimenti in materia di investimenti pubblici, i rilievi avviso, ovvero le os-servazioni che accompagnano la registrazione degli atti, con cui, a seconda dei casi, la Corte fornisce precisazioni da tenere tassativamente in conto nell’interpretazione e nell’esecuzione dell’atto, ovvero semplicemente svolge una fun-zione di indirizzo per il futuro, a fronte di irregolarità non tali da rendere necessaria, nell’immediato, la censura della mancata registrazione. Si tratta, in ogni caso, di rilievi cui le amministrazioni devono conformarsi in quanto detto adeguamento è a sua volta verificato dalla Corte stessa in occasione del controllo sugli atti successivamente posti in essere.

3.2. I principali vizi di legittimità rilevati

Le principali criticità rilevate in sede di controllo preventivo di legittimità da parte della Corte dei conti sulle deli-bere del Cipe che sono state oggetto di osservazione da parte dell’ufficio competente ovvero, in alcuni casi, rappre-sentate in delibere della sezione con cui si è negata la registrazione, possono ricondursi a tre grandi macro-aree: la non corretta o esaustiva indicazione dei quadri finanziari e della sostenibilità finanziaria dei costi correlati; la presen-za di vizi di legittimità nelle procedure; il rinvenimento di carenze sotto il profilo tecnico, potenzialmente incidenti sulla bontà e sicurezza delle opere.

Limitandosi ai contenuti delle delibere della sezione, si osserva come già nella già citata delibera n. 6/2018, con la quale è stato ricusato il visto sulla delibera Cipe n. 87 del 22 dicembre 2017, risultino presenti, grossomodo, tutte queste criticità. Il caso riguardava l’approvazione del progetto definitivo dell’intervento “Bretella di collegamento tra l’Autostrada Tirrenica A12 e il porto di Piombino, S.S. n. 398 Val di Cornia – lotto 7, tratto 1” che è risultata illegit-tima risultando presenti i vizi di seguito sintetizzati.

In primo luogo, si è rilevata la mancata chiara definizione della “funzionalità” dell’opera, in quanto originaria-mente connessa alla realizzazione anche di un’altra tratta (tratto 2) non facente parte dell’opera programmata. Appare evidente la assoluta rilevanza sostanziale di questa carenza tecnica, in quanto solo la piena funzionalità di uno stralcio assicura e giustifica l’impiego di risorse per la realizzazione di un intervento utilizzabile già di per sé.

Si è inoltre osservata la mancata sottoposizione del progetto al parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici (Cslp), essendo stato acquisito, invece, per una non corretta interpretazione delle norme susseguitesi nel tempo, il pa-rere espresso dal Comitato tecnico del Provveditorato interregionale delle opere pubbliche. Anche in tal caso è palese la rilevanza del vizio di illegittimità contestato, in quanto i due organi consultivi non possono ritenersi equivalenti, distinguendo chiaramente il dettato normativo la diversa competenza, in ragione del valore dell’intervento.

Infine, si è rilevata la mancata valorizzazione, nel quadro economico dell’opera, di alcune voci di costo, ritenendo le stesse integrabili con i ribassi d’asta in fase di gara. Su quest’ultimo punto la Corte dei conti ha osservato, da un lato, che l’inserimento di tali importi nel quadro economico avrebbe potuto determinare un limite di spesa dell’intervento maggiore rispetto a quello previsto, dall’altro, che l’eventuale realizzazione di minori risorse scaturen-ti dai ribassi d’asta avrebbe potuto comportare la necessità di ulteriori risorse non programmate e, dunque, non neces-sariamente disponibili. Sotto questo profilo, appare particolarmente evidente come un controllo di legittimità preven-tivo, assicurando il rispetto della legge, nel contempo riesca a prevenire l’impiego di risorse per opere non destinate ad un sicuro completamento e ad un utilizzo certo da parte della collettività.

Non rari, tuttavia, anche negli esercizi passati, i casi di censure della Corte dei conti su delibere che, approvando la realizzazione di interventi in assenza di finanziamenti certi, rischiavano di dare avvio ad opere suscettibili, nel cor-

(23) Il caso ha riguardato la delibera Cipe n. 8 del 28 febbraio 2018 di approvazione del progetto definitivo denominato “Itinerario

Caianello (A1)-Benevento: adeguamento a 4 corsie della S.S. 372 Telesina – lotto 1: dal km 37+000 al km 60+900”. Rispetto a questo intervento programmato con la delibera indicate, l’Ufficio di controllo aveva rilevato diversi profili di illegittimità, così sintetizzabili: mancato ricorso alla Conferenza dei servizi; mancata approvazione nel deliberato del Programma di risoluzione delle interferenze; im-propria determinazione della percentuale dell’importo da destinare alle opere e misure compensative dell’opera; mancata presentazione del piano economico-finanziario analitico dell’intervento. Trattavasi, dunque, di vizi di legittimità sia procedurali che sostanziali, diretti a inficiare la successiva realizzazione dell’opera.

(24) Della circostanza viene informato il Cipe nella prima seduta utile e la proposta di una nuova delibera può essere riproposta all’esame del Comitato con le procedure ordinarie.

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so di esecuzione, di necessitare di ulteriori risorse, per intervenute varianti sostanziali ed economiche, cui non si sa-rebbe potuto fare fronte. Di tale criticità può essere responsabile altresì una progettazione preliminare non sempre adeguata, con ritardi che si traducono non raramente in richieste di lodi arbitrali determinanti un ulteriore incremento dei costi. Si richiama, al riguardo, la delibera n. 14/2013, con cui già si chiariva la illegittimità di provvedimenti per i quali un’inidonea programmazione finanziaria, e in particolare la mancanza di indicazioni chiare e congrue sulle fonti di copertura, potesse pregiudicare la realizzazione di un’opera pubblica. In tale sede si precisava come il manteni-mento di aspetti contraddittori nell’approvazione di un progetto preliminare, in particolare su profili rilevanti quali l’articolazione dell’opera, fosse in contrasto con le esigenze di chiarezza richiesti dall’ordinamento.

Sempre in tema di corretta definizione del quadro delle risorse destinate alla realizzazione di un’opera, si richiama la delibera n. 8/2017, già citata, con cui è stata dichiarata illegittima la delibera Cipe n. 43 del 10 luglio 2017 (“Tra-sporto rapido costiero (Trc) Rimini Fiera-Cattolica – 1° stralcio funzionale tratta Rimini FS-Riccione FS – Assegna-zione finanziamento”). In tale sede si è precisato che, pur nell’ovvia considerazione che un’opera debba essere realiz-zata in tutte le sue componenti per essere resa funzionale, non è conforme a legge la delibera Cipe con la quale si pre-vede l’acquisto di materiale rotabile, da impiegare su linea di trasporto rapido costiero, utilizzando risorse statali de-stinate ad infrastrutture strategiche. La copertura per l’acquisto di materiale rotabile, stante il carattere oggettivamente locale, avrebbe adeguatamente potuto essere trovata all’interno delle risorse destinate al trasporto rapido di massa o al trasporto pubblico locale (25).

Parimenti non pochi, negli anni, i casi accertati di vizi di legittimità nelle procedure, ove il valore aggiunto dato dalla presenza di un controllo preventivo consiste nell’inibire, da subito, interventi suscettibili di annullamenti suc-cessivi in via giudiziaria, ovvero comunque di bloccare opere potenzialmente carenti sotto profili tecnico-sostanziali tutelati dalle norme violate (26). Si richiama al riguardo la delibera n. 13 del 29 settembre 2016, avente ad oggetto la delibera Cipe n. 19/2016 con cui il Comitato approvava il progetto definitivo dell’interconnessione A35-A4, preve-dendone modalità e termini di realizzazione. In questo caso il vizio procedurale consisteva nel mancato perfeziona-mento in via amministrativa, e conseguentemente nella mancata sottoposizione al controllo di legittimità della Corte stessa, dell’atto aggiuntivo del 10 marzo 2016, al quale la delibera faceva riferimento. La sezione, in questo caso, ha registrato il provvedimento, essendosi approvato medio tempore l’atto aggiuntivo in parola, circostanza rilevante e decisiva ai fini dell’esame della fattispecie dedotta in sede collegiale, che è stata pertanto rivalutata nel suo contenuto, in armonia con il provvedimento sopravvenuto. Unitamente al dato formale, infatti, l’integrazione del presupposto mancante ha consentito una verifica sostanziale di coerenza della delibera all’esame rispetto al quadro provvedimen-tale, come integrato dal più volte citato atto aggiuntivo (27).

Fra le carenze rilevate sotto il profilo tecnico, potenzialmente incidenti sulla bontà e sicurezza delle opere, molte attengono alla correttezza dei piani economico-finanziari e dei relativi cronoprogrammi. La Corte dei conti, con la deliberazione n. 14/2015, ha al riguardo precisato che, in tema di opere pubbliche di competenza statale, la circostan-za che intervenga un rilevante incremento del finanziamento dell’opera determina l’esigenza di modificare il piano economico-finanziario e di realizzare un nuovo crono-programma. In particolare, ha chiarito che la circostanza che detto incremento finanziario sia stata disposto ex lege a valere su un nuovo contratto di programma non può prescin-dere dalle valutazioni economiche del Cipe, la cui funzione non può limitarsi a prenderne atto e ad approvare inter-venti, nella fattispecie di delocalizzazione, che pure determinano nuovi costi (28).

4. Qualche considerazione conclusiva

L’analisi sin qui svolta porta agevolmente a qualche considerazione conclusiva su un controllo, quale quello pre-ventivo di legittimità, la cui rilevanza sistematica, per le modalità di svolgimento dello stesso, non sempre viene col-ta, restando il preminente lavoro istruttorio di verifica non conosciuto, in quanto non riportato in atti pubblici.

Sono considerazioni che, svolte con riferimento allo specifico settore della programmazione degli interventi pub-blici, hanno tuttavia una valenza generale, da declinarsi con riguardo alle differenti specifiche esigenze volta per volta tutelate e rispetto alle quali il controllo preventivo di legittimità svolge un ruolo reputato necessario dal legislatore.

(25) Il principio della non finanziabilità di forniture di materiale rotabile attraverso risorse statali destinate a infrastrutture strategiche

era stato già sostenuto nella precedente delibera della stessa Sezione n. 14 del 5 ottobre 2016, avente ad oggetto una fattispecie in cui la fornitura di materiale rotabile appariva preponderante rispetto al valore dell’infrastruttura.

(26) Si ricorda, in tema, la già richiamata delibera Cipe n. 8/2018, rispetto alla quale, fra l’altro, l’Ufficio di controllo competente aveva rilevato il mancato ricorso alla Conferenza dei servizi, un vizio procedurale che andava a cumularsi ad altri vizi di legittimità so-stanziali, potenzialmente tutti diretti a inficiare la successiva realizzazione dell’opera. In questo caso, a seguito di deferimento, prima dell’adunanza l’amministrazione proponente ha preferito ritirare la delibera, in autotutela.

(27) In particolare, l’atto aggiuntivo consentiva e di superare le perplessità in ordine all’invarianza del piano economico-finanziario. Infatti, il non perfezionamento del provvedimento de quo aveva determinato una situazione di incertezza circa la copertura finanziaria.

(28) Nel caso di specie, oggetto della decisione collegiale era la delibera Cipe n. 44 del 10 novembre 2014, avente ad oggetto l’approvazione del progetto esecutivo di messa a dimora delle rocce e terre da scavo, in variante al progetto definitivo del Nuovo colle-gamento ferroviario Arcisate-Stabio approvato con la delibera Cipe n. 7/2008, denominato “Sistemazione ambientale mediante conferi-mento delle terre da scavo nei siti (area Csfb02 e ex cava Femar)”.

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In materia di investimenti pubblici, questa rilevante funzione svolta dalla Corte dei conti, quale organo magistra-tuale terzo anche nell’espletamento di funzioni di controllo, risulta imprescindibile, non solo in quanto suscettibile di prevenire successivi annullamenti e blocchi in via giudiziale di interventi dalla portata finanziaria rilevante, ma so-prattutto perché impedisce l’avvio di opere destinate a non concludersi o comunque a procedere con diverse criticità, tanto sul fronte delle risorse necessarie, quanto per aspetti tecnici e procedurali suscettibili di incidere sulla regolarità e sicurezza delle opere.

Si tratta, peraltro, di potenzialità che la Corte dei conti riesce a mettere in campo in tempi che, già assai ridotti in sé, rappresentano un momento infinitesimamente breve rispetto all’intero procedimento su cui intervengono, il cui valore è, invece, estremamente significativo se confrontato agli aggravi, sia in termini di risorse finanziare infruttuo-samente spese e di attività amministrative inutilmente impiegate, sia in termini di mancate utilità per la collettività, che la presenza di questo controllo contribuisce sostanzialmente a limitare.

Inoltre, rispetto ad atti aventi ad oggetto procedure riguardanti la programmazione ed attuazione degli investimen-ti pubblici, un sindacato da parte di un organo magistratuale nelle forme del controllo risponde alla esigenza di assi-curare, in una materia così delicata, verifiche che sono, da un lato, affidate a un soggetto terzo tecnico e competente, dall’altro, realizzate nel rispetto di esigenze di celerità incompatibili con i tempi e le forme del processo, dove, corret-tamente, le esigenze di celerità cedono il passo a quelle di garanzia degli interessi e delle situazioni giuridiche facenti capo a soggetti specifici.

È evidente che, in un settore così articolato, il controllo preventivo di legittimità è solo un primo importante tas-sello che non esclude la assoluta rilevanza di ulteriori controlli, in particolare di quelli successivi sulla gestione. Que-sti ultimi sono, infatti, in grado di prendere in considerazione la complessità dell’azione amministrativa posta in esse-re, gli effetti sulla realtà economico-sociale prodotti dall’atto controllato e, in particolare, le criticità emerse in sede di esecuzione, tanto più ove riescano ad estrinsecarsi in un momento significativamente utile, determinando processi di autocorrezione rispetto ad attività in corso.

Resta tuttavia ferma la piena rilevanza di un controllo preventivo, in grado di inibire ab initio l’efficacia di atti il-legittimi, peraltro con modalità che, anche se non sempre evidenti, attribuiscono a questa funzione una pregnanza sempre maggiore, in quanto esercitata in un’ottica che non è solo quella di uno sterile sindacato di verifica di corri-spondenza al dato normativo, ma di accompagnamento dell’amministrazione, in una fase preventiva, nella realizza-zione di percorsi che mirano ad essere sempre più corretti, tempestivi ed efficienti.

* * *

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CONTROLLO

Sezione centrale controllo legittimità

4 – Sezione controllo legittimità; deliberazione 25 lu-glio 2019; Pres. Dainelli, Rel. Guarany; Ragioneria territoriale dello Stato di Macerata.

Istruzione pubblica – Personale Ata – Concorso pubblico riservato – Passaggio di ruolo – Presta-zioni di servizio pre-ruolo – Riconoscimento – Provvedimento conforme a legge. D.p.r. 23 agosto 1988, n. 399, norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo per il triennio 1988-1990 del 9 giugno 1988 relativo al personale del com-parto scuola, art. 4, c. 13; d.lgs. 30 giugno 2011, n. 123, riforma dei controlli di regolarità amministrativa e contabile e potenziamento dell’attività di analisi e valutazione della spesa, a norma dell’art. 49 l. 31 di-cembre 2009, n. 196, art. 10.

È conforme a legge il provvedimento con il quale l’amministrazione, nei casi di passaggio di ruolo del personale Ata, a seguito di concorso pubblico riserva-to, provvede alla ricostruzione della carriera ricono-scendo integralmente il servizio prestato da detto per-sonale fino all’immissione in ruolo con la correspon-sione delle conseguenti differenze retributive.

Diritto – 1. Il collegio è chiamato preliminarmente a pronunciarsi, ai sensi dell’art. 3, c. 3, del regolamen-to per l’organizzazione delle funzioni di controllo del-la Corte dei conti n. 14/2000 e successive modifica-zioni, per la soluzione della questione di massima in ordine alla corretta applicazione della vigente disci-plina normativa in materia di ricostruzione della car-riera nei casi di passaggio di ruolo del personale am-ministrativo, tecnico e ausiliario (Ata), a seguito di concorso pubblico riservato.

A tal riguardo, vertendosi in tema di controllo suc-cessivo, non appare superfluo, preliminarmente, ri-chiamare le indicazioni rese dalle Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti laddove, con delib. n. 9/2012, è stato precisato che il controllo de-mandato alla Corte ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. 30 giugno 2011, n. 123, “per il contenuto della valuta-zione (conformità a legge) e per le procedure da se-guire, non possa che essere ricondotto nell’ambito del controllo di legittimità, seppur successivo a causa dell’intervenuta efficacia dei provvedimenti medesimi. Detto procedimento di controllo – da attuare con le consuete modalità procedimentali – si potrà conclu-dere con esito positivo ovvero con una dichiarazione di non conformità a legge, a seguito della quale l’amministrazione adotterà le consequenziali misure di competenza anche in relazione agli eventuali profili di responsabilità del dirigente”.

Ne consegue l’applicabilità delle consuete modali-tà procedimentali, inclusa, la pronuncia della Sezione centrale in adunanza generale, nella composizione in-tegrata da tutti i consiglieri delegati delle sezioni re-

gionali, per la risoluzione di questioni di massima di particolare importanza, per le quali il Presidente della Corte dei conti ravvisi la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 3, c. 3, del sopra richiamato Regolamen-to di organizzazione.

Ciò posto, nel merito, al fine di chiarire i termini della questione oggetto di esame è necessario rico-struire la vicenda e delineare il quadro normativo che regola la materia.

Il contrasto interpretativo maturato tra la Ragione-ria territoriale di Macerata e l’Istituto scolastico Bra-mante attiene alle modalità da osservare per la rico-struzione della carriera del personale amministrativo, tecnico e ausiliario (Ata) del comparto scuola.

In particolare, la ragioneria territoriale, in linea con la prassi seguita dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, opterebbe per l’utilizzo del criterio della temporizzazione di cui all’art. 6 del d.p.r. n. 345/1983, mentre l’Istituto Bramante, con i due decreti del 2017, si è basato sul criterio dell’integrale riconoscimento dell’anzianità pregressa previsto dall’art. 4, c. 13, d.p.r. n. 399/1988.

Con i decreti in data 15 novembre 2017, l’Istituto Bramante, a seguito della specifica richiesta formulata in data 31 ottobre 2017 dalle interessate, ha provvedu-to, in modalità cartacea, alla ricostruzione di carriera con la valutazione integrale del servizio pregresso, come previsto dall’art. 4, c. 13, d.p.r. n. 399/1988, sic-come più favorevole al dipendente.

A detti fini, l’Istituto ha, invero, rivisitato l’intero percorso di carriera delle assistenti amministrative, facendo esclusiva applicazione del criterio della an-zianità complessiva e modificando la valutazione dell’anzianità utile ai fini giuridici ed economici effet-tuata al momento del passaggio di ruolo (1 settembre 2001) e, conseguentemente, disattendendo l’applicazione del criterio della temporizzazione pre-visto dall’art. 6 del d.p.r. n. 345/1983, all’epoca, rite-nuto quello più favorevole.

I nuovi decreti si differenziano dai precedenti del 2002 e del 2003 per la valutazione diversa della resi-dua anzianità utile per il passaggio alla successiva po-sizione.

Nei decreti del 2017 tale anzianità, alla data del passaggio di ruolo e 13 cioè all’1 settembre 2001, è maggiore (più di tre anni per entrambi i casi), consen-tendo di anticipare il passaggio alla fascia economica più favorevole, rispetto a quanto previsto dai prece-denti decreti.

Tale aspetto è evidenziato nelle tabelle che corre-dano la memoria della Ragioneria territoriale dello Stato di Macerata prodotta in data 10 luglio 2019, in vista dell’odierna adunanza.

Ad avviso del collegio, inconferente si appalesa, il richiamo alle previsioni di cui all’art. 34 c.c.n.l. com-parto scuola del 26 maggio 1999 – operato dall’Istituto Bramante a sostegno della legittimità dei provvedimenti in esame – in quanto relative a diversa fattispecie (istituzione del profilo professionale di Di-

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rettore dei servizi generali e amministrativi Dsga e in-dividuazione dei requisiti di accesso in sede di prima applicazione), non riferibile, neppure per analogia, a quella che ne occupa.

2. La problematica in esame è stata, in più occa-sioni, scrutinata dalla magistratura – contabile, ordina-ria e anche da quella euro unitaria – che è intervenuta, soprattutto, in tema di personale docente fissando al-cuni principi che di seguito sono illustrati.

Con riguardo al personale docente, la sentenza del-la Corte di cassazione a Sezioni unite del 6 maggio 2016, n. 9144, ha censurato la prassi osservata dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricer-ca e ha riconosciuto il diritto alla ricostruzione inte-grale della carriera, e non già nei limiti della c.d. tem-porizzazione.

Ciò in virtù di una sostanziale equiparazione del servizio reso dal personale a tempo determinato rispet-to a quello a tempo indeterminato che trova fonda-mento nel principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato di cui alla direttiva del Consiglio dell’Unione europea 1999/70/Ce del 28 giugno 1999.

A diverse conclusioni è pervenuta la Corte di giu-stizia dell’Unione europea con la sentenza resa dalla Sesta Sezione in data 20 settembre 2018.

La Corte di giustizia ha ritenuto astrattamente am-missibile il differenziato regime previsto dalla norma-tiva nazionale – e il mancato computo integrale dei periodi di servizio pre-ruolo ai fini della ricostruzione di carriera – laddove finalizzato a ”rispecchiare le dif-ferenze tra l’esperienza acquisita dai docenti assunti mediante concorso e quella acquisita dai docenti as-sunti in base ai titoli, a motivo della diversità delle materie, delle condizioni e degli orari in cui questi ul-timi devono intervenire, in particolare nell’ambito di incarichi di sostituzione di altri docenti”.

La Corte ha, peraltro, fatto salve le verifiche da parte del giudice del rinvio circa la sussistenza, in concreto, dei suddetti fattori di giustificazione.

In tale contesto interpretativo si inscrivono le nu-merose pronunce del giudice del lavoro che ha ritenu-to, in maniera pressoché univoca, di riconoscere il di-ritto alla integrale ricostruzione della carriera, ai fini giuridici ed economici, e alla conseguente correspon-sione delle differenze retributive non percepite in fa-vore del personale docente.

Analogo diritto è stato riconosciuto in favore del personale amministrativo.

Recenti pronunce del giudice del lavoro, in linea con il percorso argomentativo della richiamata deci-sione della Corte di giustizia europea, hanno eviden-ziato come non possa ritenersi che “la professionalità del personale Ata a termine sia diversa da quella del personale di ruolo, atteso che il personale Ata, salvo diverse allegazioni contrarie dell’amministrazione (as-senti nel caso di specie), svolge sempre le stesse man-sioni indipendentemente dal termine dell’assunzione. La professionalità del personale Ata non risulta infatti

influenzata (come avviene per i docenti) dalla maggio-re o minore continuità con cui le relative mansioni siano state eseguite nel corso degli anni” (cfr. Trib. Trapani, Sez. lav., 29 marzo 2019).

In ragione di ciò sono state ritenute insussistenti quelle ragioni oggettive che giustificano per il perso-nale Ata assunto a tempo determinato un trattamento differenziato nel computo dell’anzianità professionale rispetto al personale assunto a tempo indeterminato.

Parimenti, la magistratura contabile si è espressa sulla tematica in esame. In particolare, è stato sottoli-neato come gli istituti della temporizzazione e il rico-noscimento del servizio pre-ruolo siano alternativi e non complementari, rimarcando il diritto del dipen-dente di optare per la soluzione più favorevole (cfr. Sez. contr. reg. Siciliana, n. 73/2016).

3. Così ricostruito il quadro normativo e interpreta-tivo di riferimento, il collegio ritiene che debba rico-noscersi alle due dipendenti il diritto all’integrale ri-conoscimento del periodo pre-ruolo e, conseguente-mente, dichiararsi la conformità a legge dei provve-dimenti adottati in data 15 novembre 2017 dall’Istituto Bramante.

Come può rilevarsi dai prospetti allegati alla me-moria fatta pervenire in vista della adunanza di questa sezione dalla competente ragioneria territoriale, gli stessi integrano, invero, un trattamento più favorevole per le dipendenti, laddove si abbia riguardo non solo all’inquadramento economico all’atto del passaggio in ruolo, ma anche al complessivo sviluppo della carriera e delle progressioni stipendiali.

In questa prospettiva, alla luce del chiaro disposto dell’art. 6 del d.p.r. n. 345/1983 e dell’art. 4, c. 13, d.p.r. n. 399/1988, nonché degli orientamenti dianzi richiamati che il collegio condivide, si deve riconosce-re che l’istituto della temporizzazione e quello della valutazione del servizio pre-ruolo sono alternativi.

In sostanza, si tratta di due criteri che, per le loro distinte caratteristiche e per le diverse finalità che per-seguono, non possono che essere utilizzati in momenti separati.

Il primo criterio è diretto ad operare nel momento del passaggio in ruolo, per consentire nell’immediato una ricostruzione della carriera in via provvisoria, con l’individuazione di una anzianità di servizio conven-zionale. Il secondo criterio, invece, opera nel succes-sivo momento della conferma in ruolo, dopo il periodo di prova, per procedere alla ricostruzione della carrie-ra in via definitiva, con il dovuto riconoscimento inte-grale di tutti i servizi svolti fino all’immissione in ruo-lo.

Da ciò deriva che l’istituto della temporizzazione, applicato doverosamente dalla amministrazione in fa-se di primo inquadramento, diviene recessivo rispetto al criterio della integrale ricostruzione di carriera qua-le istituto generale che permette il recupero della an-zianità residua, evitando una penalizzazione stipendia-le nei confronti di soggetti inquadrati in prima istanza

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all’atto del passaggio in ruolo con una anzianità infe-riore a quella effettiva.

Ciò evidentemente, a fronte di specifica istanza del dipendente che intenda far valere il diritto di cui è tito-lare.

Del resto, il diverso avviso propugnato dalla Ra-gioneria territoriale dello Stato e le stesse deduzioni formulate nell’odierna adunanza dal rappresentante della Ragioneria generale dello Stato sembrano fonda-re su circostanze fattuali (modalità di funzionamento del sistema Sidi) e su motivi di opportunità (eventuali ricadute di carattere economico) che, pur meritevoli di considerazione, non appaiono, tuttavia, dirimenti ai fini delle valutazioni di legittimità demandate a questo collegio.

Quanto poi alla problematica della prescrivibilità del diritto a richiedere la ricostruzione della carriera sulla base dell’effettiva anzianità di servizio, il colle-gio rileva in primo luogo che trattasi di un diritto non soggetto a prescrizione.

Ciò in quanto l’anzianità di servizio non è uno sta-tus o un elemento costitutivo di uno status del lavora-tore subordinato, né un distinto bene della vita oggetto di un autonomo diritto, rappresentando, piuttosto, la dimensione temporale del rapporto di lavoro di cui in-tegra il presupposto di fatto di specifici diritti, quali quelli all’indennità di fine rapporto o agli scatti di an-zianità; essa, pertanto, non può essere oggetto di atti di disposizione, traslativi o abdicativi (cfr. Cass. 1 set-tembre 2003, n. 12756; 26 aprile 2018, n. 10131)”.

Ciò, nondimeno, sono da ritenere soggette a pre-scrizione le differenze retributive nei modi e nei limiti previsti dalla vigente disciplina normativa e dalla con-solidata giurisprudenza in materia.

4. Conclusivamente, il collegio in adunanza gene-rale ritiene che la questione di massima proposta deb-ba essere definita come segue:

“Nei casi di passaggio di ruolo del personale Ata, a seguito di concorso pubblico riservato, per la rico-struzione della carriera ai fini giuridici ed economici sussiste il diritto al riconoscimento integrale del ser-vizio prestato fino all’immissione in ruolo, ai sensi dell’art. 4, c. 13, d.p.r. n. 399/1988, con la correspon-sione delle conseguenti differenze retributive nei modi e nei limiti previsti dalla vigente disciplina normativa e dalla consolidata giurisprudenza in materia”.

Per l’effetto, i sopra richiamati provvedimenti sot-toposti allo scrutinio della sezione sono ritenuti con-formi a legge.

P.q.m., l’adunanza generale della Sezione centrale del controllo di legittimità dichiara, previa risoluzione della questione di massima, ai sensi dell’art. 3, c. 3, del vigente regolamento, che i provvedimenti deferiti sono conformi a legge, ammettendoli al visto e alla registrazione.

* * *

Sezione centrale controllo gestione

12 – Sezione centrale controllo gestione; deliberazio-ne 28 giugno 2019; Pres. Chiappinelli, Rel. Cosa; Pre-sidenza del Consiglio dei ministri, Fondo per le po-litiche della famiglia.

Amministrazione dello Stato e pubblica in genere – Fondo per le politiche della famiglia – Gestione 2012-2018 – Relazione al Parlamento. L. 14 gennaio 1994, n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 3; d. l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazio-ni dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimen-to e la razionalizzazione della spesa pubblica; l. 27 di-cembre 2006, n. 296, recante disposizioni per la for-mazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007), art. 1, cc. 1250, 1251, 1251-bis, 1252 e 1260; l. 23 dicembre 2014, n. 190, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015), art. 1, c. 1321; l. 28 dicembre 2015, n. 208, recante disposi-zioni per la formazione del bilancio annuale e plurien-nale dello Stato (legge di stabilità 2016); l. 27 dicem-bre 2017, n. 205, recante disposizioni per la formazio-ne del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (leg-ge di bilancio 2018), art. 1, c. 254; d.l. 12 luglio 2018, n. 86, convertito con modificazioni dall’art. 1, l. 9 agosto 2018, n. 97, art. 3; l. 30 dicembre 2018, n. 145, recante disposizioni per la formazione del bilancio an-nuale e pluriennale dello Stato (legge di bilancio 2019 e bilancio pluriennale 2019-2021) art. 1, cc. 482, 483, 484.

La relazione riferisce sulle risultanze dell’indagine condotta in merito alla gestione 2012-2018 delle ri-sorse del Fondo per le politiche della famiglia, istitui-to ai sensi dell’art. 19 d.l. n. 223/2006, al fine di rea-lizzare interventi per la tutela della famiglia in tutte le sue componenti e le sue problematiche generazionali, nonché per supportare l’Osservatorio nazionale sulla famiglia con riferimento agli anni 2012-2018.

L’analisi, articolata sugli annuali provvedimenti di riparto del Fondo, fornisce ampia rassegna dell’utilizzo delle risorse, con particolare riguardo a quelle relative alla quota Stato, destinate prevalente-mente al funzionamento dell’apparato istituzionale, compresi gli organismi collegiali operanti a livello nazionale e allo svolgimento, in modalità esternalizza-ta (convenzioni stipulate con l’Istituto degli Innocenti di Firenze, con il Formez e con l’Istat), delle numero-se competenze, affidate al Dipartimento, che non di-spone al suo interno delle risorse umane e professio-nali necessarie a farvi fronte.

Le risultanze dell’istruttoria evidenziano criticità e carenze sia sul piano della programmazione che su quello del monitoraggio degli interventi, in particola-re di quelli affidati alle regioni che richiedono indub-biamente un rinnovato impegno da parte del Diparti-mento, chiamato a gestire una fase di riforma

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dell’intero settore delle politiche per la famiglia e la disabilità che involge anche le finalità istituzionali dello stesso Fondo.

Sintesi – L’indagine ha avuto ad oggetto la gestio-ne delle risorse del Fondo per le politiche della fami-glia, istituito ai sensi dell’art. 19 d.l. 4 luglio 2006, n. 223, nel periodo 2012-2016, esteso agli anni 2017 e 2018, partendo dagli approdi di una precedente inda-gine, approvata da questa sezione con delib. n. 2/2012.

La tematica si inquadra nell’ambito delle politiche sociali e in particolare di quelle per il sostegno alla famiglia nelle sue componenti generazionali e nelle sue problematiche relazionali affidate al Dipartimento delle politiche per la famiglia, istituito ai sensi del d.p.c.m. 29 ottobre 2009 e la cui organizzazione inter-na è stata definita con d.p.c.m. 31 dicembre 2009.

Il fondo ha sviluppato per il periodo considerato dalla presente analisi un volume di risorse pari a com-plessivi 87,38 milioni di euro (a fronte dei 754,58 mln stanziati nel quadriennio 2007-2010) ed è stato ricon-fermato nelle sue linee essenziali dalle novelle intro-dotte dalla l. 30 dicembre 2018, n. 145, che ne hanno potenziato in modo significativo la dotazione per le annualità 2019-2021 (si è passati da 4,5 mln del 2018 a 104,8 mln per il 2019).

L’istruttoria è stata condotta nei confronti del Di-partimento per le politiche della famiglia della Presi-denza del Consiglio dei ministri, le cui competenze, come definite dal citato provvedimento dell’ottobre 2009, spaziano dalla gestione delle risorse del Fondo al finanziamento delle politiche per la famiglia, dalla promozione delle azioni dirette a contrastare la crisi demografica e a sostenere la maternità e la paternità, alle iniziative volte a favorire la conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di cura della famiglia. Competenze che risultano essere state implementate dall’art. 3 d.l. 12 luglio 2018, n. 86, che ha attribuito al ministro con delega per la famiglia e a disabilità funzioni precedentemente svolte dal Ministero del la-voro e delle politiche sociali, fra cui quelle relative all’infanzia e all’adolescenza, nonché quelle in mate-ria di coordinamento delle politiche volte a garantire la tutela e la promozione dei diritti delle persone con disabilità e a favorire la loro partecipazione e inclu-sione sociale. L’analisi derivante dall’istruttoria con-dotta ha consentito di evidenziare gli aspetti connessi tanto alla gestione della quota statale, risultata netta-mente prevalente per le annualità considerate, ecce-zion fatta per le ultime due, quanto alle funzioni di coordinamento e monitoraggio esercitate nei confronti delle regioni, con riferimento alla quota ad esse desti-nata dagli annuali provvedimenti di riparto.

L’analisi sviluppata con riferimento agli annuali provvedimenti di riparto adottati nel corso del periodo considerato, fornisce ampia dimostrazione dell’utilizzo delle risorse, con particolare riguardo a quelle relative alla quota Stato, destinate prevalente-mente al funzionamento dell’apparato istituzionale, compresi gli organismi collegiali operanti a livello na-

zionale e allo svolgimento, in modalità esternalizzata (v. molteplici convenzioni-accordi stipulate con l’Istituto degli Innocenti di Firenze, con il Formez e con l’Istat), delle numerose competenze, riguardanti anche la gestione delle risorse del fondo, affidate al suddetto dipartimento. Specifici approfondimenti sono stati condotti per illustrare gli interventi attuati con le risorse in quota Stato ed evidenziare in che misura gli stessi siano stati in grado di realizzare le finalità indi-viduate nel Piano nazionale.

Le risultanze dell’istruttoria, che non sono state in-tegrate dalle controdeduzioni scritte da parte dell’amministrazione interessata, evidenziano alcune criticità e carenze che richiedono indubbiamente un rinnovato impegno da parte del Dipartimento, chiama-to a gestire, alla luce delle novità introdotte dalla leg-ge di bilancio 2019, oltre che dal citato decreto n. 86/2018, una fase di riforma dell’intero settore delle politiche per la famiglia che involge anche le finalità istituzionali del fondo. Quest’ultimo, infatti, a seguito della riorganizzazione del settore è stato interessato da un sostanzioso incremento della dotazione finanziaria (quella stanziata per l’anno 2019, pari originariamente a 104 mln, supera di gran lunga quanto attribuito complessivamente dai decreti di riparto nel periodo osservato ammontante a 87,4 mln) e risulta attualmen-te destinato a contrastare la crisi demografica, finan-ziando misure di sostegno alla famiglia, alla natalità, alla maternità e alla paternità, ma anche ad assicurare iniziative in favore della componente anziana dei nu-clei familiari e in generale ad interventi diretti ai nu-clei familiari “a rischio”.

Una fase di riorganizzazione che si profila quanto mai idonea ad una revisione di prassi operative nella gestione del fondo rilevate negli anni e che hanno di-mostrato di non essere in grado di assicurare piena-mente l’efficiente ed efficace spendita delle risorse.

L’analisi ha portato in emersione la mancanza di una programmazione, tanto a livello nazionale quanto a livello locale, al passo con l’evoluzione delle esi-genze dei destinatari delle provvidenze, quanto mai rapida e bisognosa del più puntuale rispetto delle tem-pistiche dettate dalle norme che collegano la pro-grammazione a livello nazionale al corretto e efficace funzionamento dell’Osservatorio nazionale e della Conferenza nazionale. Al riguardo, basti pensare che tutta la gestione osservata ha avuto a riferimento l’unico documento programmatico adottato nel perio-do considerato e cioè il Piano nazionale 2012, che non è stato successivamente aggiornato, aggiornamento che rappresenta, ancora oggi, una finalità primaria e un obiettivo non più procrastinabile.

Ulteriore aspetto oggetto di specifico approfondi-mento nel corso dell’istruttoria e che necessita di un’attenta riflessione da parte dell’amministrazione è quello dell’attività di monitoraggio, strettamente con-nessa sia alla programmazione che all’altrettanto cen-trale funzione di coordinamento affidata allo stesso Dipartimento. Il monitoraggio, esercitato con il sup-porto dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, grazie

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alle convenzioni rinnovate annualmente, ha mostrato una natura prevalentemente statistica, vocata più ad evidenziare andamenti e a mettere a fuoco fenomeni che non a verificare l’efficacia e la regolarità dei sin-goli interventi realizzati. Appare auspicabile, al ri-guardo, una riflessione approfondita sulle modalità di definizione e di raccolta degli elementi informativi utili allo svolgimento di una proficua attività di moni-toraggio, in grado di evidenziare carenze e potenziali-tà della programmazione di settore.

Sul piano del controllo finanziario contabile dell’erogazione delle risorse a favore delle regioni il sistema attualmente in essere si è dimostrato di natura eminentemente cartolare e svolto a prescindere da una rendicontazione completa degli interventi posti in es-sere. Oltre a ciò, l’indagine ha evidenziato che le inte-se intervenute negli anni hanno sancito modalità ridut-tive dell’ambito del controllo in itinere ed ex post da parte del Dipartimento, collegando l’erogazione del saldo ad una relazione intermedia, che da ultimo è sta-ta sostituita dalla presentazione dell’istanza da parte della regione interessata, corredata della necessaria documentazione ovvero del piano finanziario e di quello delle attività. Un simile modus procedendi ha reso quanto meno difficoltoso l’esercizio da parte del-le competenti strutture dell’amministrazione di un ef-fettivo controllo sulla corretta spendita delle risorse del fondo da parte delle regioni, non solo in termini finanziario-contabili quanto anche in termini di obiet-tivi conseguiti rispetto a quelli programmati.

Le finalizzazioni e gli obiettivi istituzionali ricon-ducibili alle novità introdotte dalle cennate novelle del 2018 e del 2019 dovranno costituire riferimento fon-dante per l’adeguamento dell’organizzazione del set-tore delle politiche per la famiglia, in generale, e del funzionamento del fondo, in particolare. Al riguardo, si ritiene utile quanto opportuna una riflessione da parte dell’amministrazione anche in ordine alla quan-tità e qualità di risorse impiegate per la realizzazione di finalità che a livello nazionale rappresentino una risposta concreta alle esigenze della famiglia nelle sue diverse componenti generazionali e nelle sue proble-matiche relazionali. Infatti, queste ultime hanno rap-presentato in diversi esercizi del periodo considerato dalla presente analisi una parte residuale della destina-zione annuale rispetto alla prevalenza delle spese di funzionamento e di quelle per l’espletamento, con modalità esternalizzata, delle competenze istituzionali. (Omissis)

Capitolo VII. Esiti del contraddittorio, considerazioni conclusive e raccomandazioni

L’analisi condotta in merito alla gestione del Fon-do per le politiche della famiglia ha evidenziato alcu-ne criticità e carenze che si riportano di seguito artico-late per punti.

1. Mancanza di un’adeguata programmazione al passo con l’evoluzione delle esigenze dei destinatari delle politiche sociali in generale e di quelle per la famiglia, in particolare; evoluzione quanto mai rapida

e bisognosa del più puntuale rispetto delle tempistiche dettate dalle norme in materia. Al riguardo, l’intera gestione osservata ha avuto a riferimento un unico do-cumento programmatico: il Piano nazionale adottato nel 2012, al quale hanno fatto riferimento tanto le ini-ziative a livello nazionale che quelle adottate a livello territoriale.

Tale circostanza dimostra la necessità di una mag-giore attenzione alla programmazione degli interventi in materia di politiche della famiglia, anche in consi-derazione delle maggiori risorse delle quali il fondo disporrà, grazie al significativo incremento disposto dalla legge di bilancio 2019 anche per gli esercizi 2020 e 2021. Le espresse considerazioni trovano ulte-riore conforto nelle previsioni dell’anzidetta legge di bilancio 2019, che hanno confermato al Piano la fun-zione già riconosciutagli dalla legge finanziaria 2007, di quadro conoscitivo promozionale e orientativo di settore e ne hanno collegato la ciclicità a quella dei lavori della Conferenza nazionale della famiglia, che deve tenersi almeno ogni due anni, anche allo scopo di fare il punto sullo stato di attuazione della program-mazione in essere.

Il mancato rispetto della tempistica prevista per la convocazione della Conferenza nazionale, che nel pe-riodo considerato dalla presente indagine (2012-2018) si è tenuta una sola volta, nel settembre del 2017, ha evidentemente rappresentato un ostacolo all’adozione di un nuovo documento programmatico, che appare quanto mai urgente, attese le novità medio tempore intervenute e le istanze emergenti dal tessuto sociale. Al riguardo, si può ritenere che gli esiti della Confe-renza nazionale, tenutasi a Roma nel settembre 2017, rappresentino una base di partenza per la predisposi-zione di un nuovo Piano nazionale, non più procrasti-nabile, anche in vista della definizione dei livelli es-senziali delle prestazioni, auspicata già dal 2007 per quanto riguarda, in particolare, i servizi integrativi per l’infanzia.

2. Mancanza di certezza delle risorse a disposizio-ne delle politiche di settore, da imputarsi, per un ver-so, all’adozione, nella maggior parte dei casi, tardiva dei provvedimenti di riparto del fondo (prassi rispetto alla quale il decreto adottato per l’anno 2019 rappre-senta una positiva inversione di tendenza), rendendo, di fatto, impossibile l’adozione dei relativi impegni entro lo stesso esercizio; per altro verso, da ricollegar-si ai tagli lineari, operati in corso d’anno dalle mano-vre finanziarie, che hanno significativamente inciso sugli stanziamenti iniziali e che certo non hanno age-volato la definizione di un adeguato quadro program-matico per la gestione delle risorse del fondo.

3. Reiterato ricorso da parte dell’amministrazione, a fronte delle numerose finalità del fondo, al supporto di organismi esterni (fra cui l’Istituto degli Innocenti di Firenze, il Formez e l’Istat) ai quali sono stati affi-dati, attraverso lo strumento della convenzione prima e dell’accordo poi, specifiche attività gestionali. L’esternalizzazione ha riguardato, altresì, le compe-tenze relative al funzionamento degli Osservatori na-

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zionali, sia quello per la famiglia che quello per l’infanzia. Sono state esternalizzate, inoltre, le attività di monitoraggio della realizzazione dei progetti a li-vello nazionale e degli interventi attuati dalle regioni, a valere sulle risorse distribuite pro quota dagli annua-li provvedimenti di riparto, nonché quelle realizzate ai fini del coordinamento delle politiche per la famiglia. Tale osservazione, pur prendendosi positivamente atto di quanto rappresentato dall’amministrazione in sede di adunanza pubblica, appare quanto mai rilevante, in considerazione delle novità introdotte dalla citata leg-ge di bilancio 2019, oltre che dal d.l. 12 luglio 2018, n. 86, che attribuiscono ulteriori competenze al Dipar-timento per le politiche della famiglia e aprono una fase di ristrutturazione del settore oggetto di delega. Fase che si profila idonea, fra l’altro, ad una revisione di alcune prassi operative, in atto ormai da anni, che hanno dimostrato nel passato di non essere in grado di assicurare l’efficiente ed efficace spendita delle risor-se del fondo.

4. Mancato perseguimento di alcune delle finalità istituzionali del fondo nel periodo considerato. Si in-tende fare riferimento, in particolare, alla riorganizza-zione dei consultori familiari, che risulta, peraltro, fra gli obiettivi confermati dalle disposizioni della citata legge di bilancio 2019, e che costituiva specifica voce fra le funzioni oggetto degli annuali provvedimenti di delega, oltre che alla qualificazione del lavoro degli assistenti familiari e agli interventi volti ad incentivare la permanenza nella comunità familiare di persone parzialmente o totalmente non autosufficienti.

Le attività finanziate a valere sulle risorse del fon-do in quota Stato hanno avuto finalità prevalentemente di studio, di raccolta e analisi di dati, anche statistici, nonché di predisposizione di reportistica riguardante il monitoraggio degli interventi finanziati; molto limitate sono state le iniziative che hanno avuto un’incidenza diretta sui soggetti, portatori degli interessi tutelati.

5. Mancanza di uniformità nelle modalità indivi-duate per l’erogazione delle risorse a favore delle re-gioni nelle diverse Intese intervenute in sede di Confe-renza unificata negli anni considerati dalla presente analisi, la quale non ha consentito l’instaurarsi di una prassi operativa omogenea, peraltro, auspicabile in vi-sta del miglioramento dei controlli in itinere ed ex post, che nella gestione riguardata hanno ricoperto un ruolo secondario rispetto a quello delle verifiche ex ante, esercitate propedeuticamente all’assegnazione delle risorse. Oltre a ciò, non può non sottolinearsi l’andamento non univoco delle disposizioni recate da-gli ultimi provvedimenti di riparto delle risorse del fondo che, in alcuni anni, hanno chiamato in causa il potere di avocazione dello Stato nei confronti delle regioni inadempienti e la previsione (come nell’Intesa 2018) del recupero delle risorse stanziate, mentre in altri anni, pur mantenendo ferma la facoltà di recupero delle risorse non impegnate, hanno ridotto, nella so-stanza, l’importanza del controllo del Dipartimento, anticipando l’erogazione del saldo al momento della presentazione della domanda. In questo senso si au-

spica un ripensamento delle modalità attualmente uti-lizzate per il monitoraggio delle iniziative finanziate dalle regioni a valere sulle risorse del fondo e una omogeneizzazione delle modalità di raccolta dei dati forniti dalle regioni, al fine di rendere gli stessi effica-cemente rappresentativi dell’effettivo utilizzo delle stesse risorse.

6. Scarsa incisività del ruolo svolto dall’Osservatorio nazionale per la famiglia, nonostan-te la sua composizione, in forza delle disposizioni di cui al c. 1250 della l. n. 296/2006, consenta la rappre-sentatività, a livello paritetico, delle amministrazioni statali e di quelle locali, oltre che dell’associazionismo e del terzo settore, giustificando, in qualche misura, la pletoricità dell’organismo in questione. Tali disposi-zioni risultano confermate anche dalle novelle intro-dotte dalla legge di bilancio per il 2019, che rinviano alla successiva adozione di appositi regolamenti go-vernativi la ridefinizione della sua struttura. È, peral-tro, auspicabile che tale piena rappresentatività sia concretamente indirizzata a realizzare nell’Osservatorio nazionale per la famiglia il “labora-torio delle politiche di settore”; ruolo che, nei fatti, non sembra essere stato svolto fino ad ora in modo adeguato. In tal senso, non può ritenersi soddisfacente l’attività condotta nel periodo considerato, non solo se si ha riguardo al numero di volte in cui il predetto or-ganismo si è riunito (in alcuni anni addirittura una sola volta), ma anche se si considera il ricorso effettuato in più occasioni all’adozione di provvedimenti di affi-damento all’esterno di studi e ricerche, nonostante la costituzione di appositi gruppi di lavoro, che, in alcu-ne annualità, come ad esempio nel 2017, per quanto riferito dall’amministrazione, hanno operato attiva-mente, con ricadute importanti sulla definizione delle politiche di settore.

7. Mancata programmazione e realizzazione, nel periodo considerato dalla presente analisi, di iniziative ex art. 9 l. n. 53/2000, in materia di conciliazione dei tempi di lavoro e di cura della famiglia. Al riguardo, pur prendendosi doverosamente atto del positivo cam-bio di rotta operato nello schema di riparto delle risor-se per l’anno 2019, che contiene specifici riferimenti a tale obiettivo, appare necessario rimarcare che le di-sposizioni istitutive del fondo ricomprendevano e ri-comprendono le anzidette misure fra le finalità princi-pali che lo stesso è chiamato a perseguire. Finalità, tuttora, vigenti – e non superate dalle norme in mate-ria di lavoro successivamente intervenute, che inte-grano la strumentazione a disposizione dei lavoratori e dei datori di lavoro – che non hanno trovato spazio adeguato nella gestione delle risorse del fondo per il periodo considerato dalla presente analisi.

8. Natura prevalentemente statistica dell’attività di monitoraggio svolta dal Dipartimento con il supporto dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, in grado di evidenziare andamenti e mettere a fuoco fenomeni più che di verificare adeguatamente l’efficienza, l’efficacia e la regolarità dei singoli interventi realiz-

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zati. Sotto questo profilo appare da riconsiderare l’attuale sistema di controllo per l’erogazione delle risorse nei confronti degli enti territoriali, che si è mo-strato di natura prevalentemente cartolare piuttosto che di valutazione sull’efficienza ed efficacia degli interventi posti in essere.

9. Bassa capacità di impegno delle risorse stanziate nel corso degli esercizi analizzati e il ricorso reiterato all’istituto del riporto per l’utilizzo delle ingenti eco-nomie accumulatesi nel corso degli anni, dimostrative del protrarsi, nonostante l’esistenza di un Piano nazio-nale, del carattere parcellizzato degli interventi posti in essere per finalità prettamente connesse al funzio-namento degli organismi preposti alla realizzazione delle politiche pubbliche di settore.

10. Necessità nell’attuale fase di riorganizzazione del settore, pur nella continuità delle strutture deputate alla cura degli interessi della famiglia, di un rinnovato impegno da parte del Dipartimento, chiamato a gestire tale fase, e a vagliare, anche alla luce delle criticità fino ad ora emerse, la percorribilità di soluzioni che consentano di superare prassi operative che negli anni considerati dalla presente analisi hanno dimostrato di non essere in grado di assicurare l’efficiente ed effica-ce utilizzo delle limitate risorse che sono state a dispo-sizione delle finalità istituzionali del fondo, ora con-notato da ben più cospicua dotazione finanziaria a fronte di nuovi, ulteriori obiettivi da perseguire.

13 – Sezione centrale controllo gestione; deliberazio-ne 23 luglio 2019; Pres. Chiappinelli, Rel. Romano; Programma straordinario di intervento per la riqualifi-cazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia e il Piano nazionale per la riqualificazione sociale e cul-turale delle aree urbane degradate.

Enti territoriali – Aree degradate – Riqualificazio-ne sociale, culturale e ambientale – Relazione al Parlamento. L. 28 dicembre 2015, n. 208, disposizioni per la for-mazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016), art. 1, cc. 974-978; d.l. 25 luglio 2018, n. 91, convertito dalla l. 21 settembre 2018, n. 108, proroga di termini previsti da disposi-zioni legislative; l. 30 dicembre 2018, n. 145, bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021, art. 1, cc. 913-917.

Il Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e sicurezza delle periferie del-le città metropolitane e dei comuni capoluogo di pro-vincia e il Piano nazionale per la riqualificazione so-ciale e culturale delle aree urbane degradate sono in-dirizzati ad aree urbane definite, caratterizzate da si-tuazioni di marginalità economica e sociale, degrado edilizio e carenza dei servizi. Ai comuni è stata attri-

buita la facoltà di elaborare i progetti di riqualifica-zione.

Pur risultando i due temi distinti, essi riguardano ambiti di riferimento, oggettivi e soggettivi, parzial-mente coincidenti che hanno indotto la Corte ad ac-corpare gli argomenti in un’unica indagine.

Dalla relazione emerge che all’iniziativa è stata attribuita una dotazione finanziaria iniziale di 500 mi-lioni di euro, utili per il finanziamento dei primi 24 progetti, sul totale dei 120 comunque approvati dall’apposito d.p.c.m. del 6 dicembre 2016. Alla co-pertura dei progetti approvati è stabilito si provveda sia con finanziamenti a carico del bilancio dell’ente proponente, sia attraverso cofinanziamenti a carico di bilanci di altri enti pubblici o privati.

La relazione riferisce al Parlamento circa la com-prensione delle procedure di approvazione, dei cro-noprogrammi relativi ai progetti approvati, delle mo-dalità di erogazione delle somme stanziate, delle pro-cedure di controllo e monitoraggio nonché dello stato di avanzamento dei progetti relativi sia al “Program-ma” che al “Piano”.

La sezione richiama l’attenzione sul diffuso ritardo nello sviluppo di ambedue le iniziative e sul notevole sfasamento quanto ai tempi previsti per l’attuazione del disposto normativo di settore.

L’indagine ha consentito di accertare che, con ri-guardo al Programma, sono stati avviati soltanto i primi 24 progetti mentre, per i successivi 96 si è de-terminato un rallentamento dovuto principalmente all’emanazione del d.l. n. 91/2018, con il quale è stato disposto il differimento dell’efficacia delle convenzio-ni al 2020, termine che nella legge di bilancio 2019-2021 è stato poi anticipato al 2019.

La sezione sottolinea che entrambe le progettualità si trovano ancora nella fase iniziale, che sarà, dun-que, necessario un rilevante intervallo temporale af-finché le attività d’interesse vengano sviluppate al punto da poter essere compiutamente valutate e rac-comanda alle amministrazioni di intervenire con ini-ziative che consentano di recuperare o contenere i ri-tardi segnalati e di semplificare il quadro, sia norma-tivo che procedurale, di riferimento al fine di realizza-re azioni più fluide e scorrevoli.

Sintesi – L’indagine, avente per oggetto “Il Pro-gramma straordinario di intervento per la riqualifica-zione urbana e la sicurezza delle periferie delle Città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia” (di seguito Programma) e “Il Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate” (di seguito Piano), ha lo scopo di verificare i tempi e le modalità di attuazione di entrambe le pro-gettualità, il loro stato di avanzamento e i risultati sin qui conseguiti. L’accorpamento degli argomenti in una unica indagine è derivato dalla considerazione che, pur risultando distinti i due temi, essi riguardava-no ambiti di riferimento, oggettivi e soggettivi, par-zialmente coincidenti, come è stato poi possibile ri-scontrare dall’analisi dei dati forniti dalle amministra-

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zioni interessate, che hanno evidenziato alcune so-vrapposizioni fra gli interventi proposti.

L’attività istruttoria condotta ha evidenziato che sia il Programma sia il Piano si trovano ancora alla fase iniziale e ciò ha reso possibile lo sviluppo di un controllo concomitante della gestione.

Alla stregua dei dati acquisiti è possibile eviden-ziare un diffuso ritardo nello sviluppo di ambedue le iniziative in riferimento, dovuto a diverse concause quali: la complessità degli adempimenti richiesti agli enti, la minore demoltiplicazione delle competenze dirigenziali dovuta anche al limitato ricorso a deleghe, la discontinuità dell’azione di impulso amministrativo; hanno inciso, con riferimento alla dilatazione dei tem-pi relativi al Programma, anche le modifiche legislati-ve recentemente introdotte prima dal d.l. 25 luglio 2018, n. 91, convertito dalla l. 21 settembre 2018, n. 108 e successivamente modificate dall’art. 1, cc. 913-917, l. 30 dicembre 2018, n. 145, recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021”. In par-ticolare, circa il Programma si evidenzia che, dei 120 comuni interessati, le relative attività sono state avvia-te solo per i primi 24 progetti, mentre, per il Piano, sono ancora in corso le approvazioni delle Conven-zioni riguardanti i primi 46 comuni e non è stata sin qui erogata alcuna anticipazione.

Emerge la conseguente opportunità che la Presi-denza del Consiglio, oltre a rendere più efficaci le modalità di monitoraggio attraverso sopraluoghi, attui ogni iniziativa, normativa, organizzativa e comunque semplificatoria, idonea a prevenire ulteriori ritardi nonché elabori e applichi ogni misura atta a realizzare un sistema di parametri e indicatori capace di misurare l’effettivo impatto degli interventi all’esame. (Omis-sis)

Capitolo IV – Considerazioni conclusive e raccoman-dazioni

1. Considerazioni conclusive

L’attività istruttoria condotta con riferimento sia al Programma (straordinario di intervento per la riquali-ficazione urbana e sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia), sia al Piano (nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree degradate), ha reso evidente che entrambe le progettualità si trovano ancora nella fase iniziale e che sarà necessario attendere un rilevante intervallo di tempo prima che le attività d’interesse vengano sviluppate al punto da poter essere compiu-tamente valutate attraverso tutti i parametri enunciati nella traccia d’indagine. Nondimeno l’attività positi-vamente sviluppata nella logica del controllo conco-mitante, alla stregua dei dati informativi acquisiti, permette la formulazione di alcune osservazioni e rac-comandazioni.

Come dimostrato dall’avvenuta erogazione delle descritte anticipazioni, il Programma appare ad uno stadio leggermente più avanzato rispetto al Piano, per

il quale le medesime anticipazioni sono state solo par-zialmente disposte.

Per quanto riguarda il Programma si evidenzia, inoltre, che dei 120 comuni interessati le attività, in sostanza, possono valutarsi concretamente avviate so-lo per i primi 24, mentre, per i restanti, la cui attuazio-ne era stata inizialmente sospesa (d.l. n. 91/2018) e fatta slittare al 2020, la l. n. 145/2018 ha disposto, con decorrenza dal 2019, la possibilità di procedere ai soli rimborsi delle spese di progettazione già sostenute: è ragionevole ritenere che ciò comporterà ulteriori ral-lentamenti, anche in relazione alla osservata necessità di modifica (e successivo controllo) delle relative convenzioni.

Ancor più embrionale risulta lo stato di avanza-mento del Piano, per il quale sul totale delle prime 46 convenzioni finanziabili, per le quali risulta essere sta-to disposto l’impegno di spesa sulla base delle dispo-nibilità finanziarie (delle quali 25 registrate nel corso del 2018, e 21 ancora in corso di esame nel 2019) ri-sulta erogata la somma di 4.776.872,89 euro su un to-tale impegnato di 16.572.909,66 euro.

2. Osservazioni conclusive e raccomandazioni

Quanto sopra se impedisce, oggettivamente, di de-finire una puntuale valutazione riguardante l’intero tema d’indagine, permette comunque lo sviluppo delle seguenti osservazioni:

- la gestione delle progettualità sin qui esaminata si qualifica condotta nell’alveo del formale rispetto delle norme e delle disposizioni che regolano la materia, come indicano anche l’avvenuto, positivo controllo di legittimità del materiale documentale acquisito, l’assenza di specifico contenzioso, nonché la verifica degli ulteriori dati forniti dall’amministrazione in fase istruttoria;

- altrettanto non può affermarsi con riferimento sia al rispetto delle previste tempistiche attuative delle di-sposizioni di settore che, conseguentemente, alla dura-ta dei relativi procedimenti. Emerge, nel complesso, un eccessivo ritardo causato da più ragioni che vanno sinteticamente individuate nella: complessità degli adempimenti richiesti, talvolta non adeguati alle diffe-renze organizzative caratterizzanti gli enti destinatari, non tutti dotati di uguali e adeguate risorse gestionali; un carente esercizio della eventuale possibilità di de-lega o comunque di esercizio della funzione vicaria rispetto alle competenze dirigenziali di più alto livello; una minore continuità dell’azione d’impulso ammini-strativo che, pur scontando anche fattori esterni, non è stata in grado di prevenire o superare le ripetute situa-zioni di stallo venute a determinarsi nell’attuazione di disposizioni indubitabilmente complesse;

- il sito istituzionale del Dipartimento per le pari opportunità nonché quelli di molti dei comuni asse-gnatari degli interventi non sono esaustivi rispetto agli obblighi di completa trasparenza e accessibilità, ri-guardanti anche i progetti approvati facenti parte delle progettualità considerate, ai sensi del disposto del d.lgs. 13 marzo 2013, n. 33;

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- considerato che il Dipartimento ha fatto richiesta di un sistema informativo dedicato ai fini della gestio-ne del Piano, si osserva che tale esigenza potrebbe es-sere coordinata con gli adempimenti già in essere per la realizzazione e utilizzazione del richiesto analogo sistema per la gestione dei progetti inerenti al Pro-gramma di riqualificazione delle periferie.

Ne consegue l’opportunità di formulare all’amministrazione la viva raccomandazione ad in-tervenire con ogni utile iniziativa che, per il tratto a venire, permetta di recuperare o di contenere i ritardi segnalati e semplificare il quadro di riferimento, sia normativo che procedurale, al fine di determinare una maggior fluidità e scorrevolezza della propria azione, e ancor più di quella degli enti interessati. A tale ri-guardo l’opportunità di interventi normativi potrebbe essere praticata nel quadro di iniziative generali nell’intendimento di superare le difficoltà operative e i ritardi nella realizzazione del “Piano nazionale per le città”, tanto allo scopo ultimo di scongiurare ulteriori ritardi che, sommandosi a quelli già rilevati, potrebbe-ro risultare tanto considerevoli da mortificare una par-te dell’efficacia degli impegnativi interventi pianifica-ti, quando essi venissero a completarsi in un contesto di riferimento altrimenti modificatosi.

Si auspica, infine, che le progettualità esaminate, considerato il loro notevole onere finanziario, siano assistite dall’impegno dell’amministrazione ad effet-tuare controlli anche attraverso verifiche sui luoghi, nonché dall’impegno ad elaborare ed applicare un si-stema di parametri e indicatori idonei a misurare l’effettivo impatto degli interventi, realizzati o in cor-so di realizzazione, sulle realtà degradate di cui si è inteso prendersi cura, considerata anche la puntuale disponibilità circa le direzioni indicate manifestata dalla delegazione della Presidenza nel corso dell’adunanza pubblica.

16 – Sezione centrale controllo gestione; deliberazio-ne 7 agosto 2019; Pres. Chiappinelli, Rel. Romano; Servizio sanitario militare.

Amministrazione dello Stato e pubblica in genere – Ministero della difesa – Servizio sanitario militare – Revisione organizzativa e riduttiva del settore – Relazione al Parlamento. C.o.m., artt. 181, 182; l. 14 gennaio 1994, n. 20, di-sposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 3; l. 31 dicembre 2012, n. 244, de-lega al Governo per la revisione dello strumento mili-tare nazionale e norme sulla medesima materia, art. 1.

La Sanità militare costituisce un settore di centrale interesse per la Difesa, tale settore è stato recente-mente oggetto di un’attività di riordino degli assetti organizzativi e di ridimensionamento e coesione delle strutture e del personale sanitario delle Forze armate.

La Corte, per tali motivi, si è posta, attraverso l’indagine in esame, l’obiettivo di verificare sia che i processi di revisione riduttiva del settore, previsti dal-

la l. n. 244/2012, siano stati puntualmente attuati e, contestualmente, sia stato assicurato il mantenimento dell’efficienza del servizio, garantendone le capacità operative e che tali obiettivi siano stati perseguiti in base a criteri di economicità.

La sezione ha ritenuto opportuno prendere in esa-me anche l’aspetto della collaborazione con il Servi-zio sanitario nazionale allo scopo di accertare se, e in quale forma, il Ministero della difesa abbia sviluppa-to, in diversi ambiti, le possibili sinergie con quello della Salute, valutando attentamente le effettive inte-razioni fra i due servizi sanitari, e considerando ne-cessario il Ssn quale termine di confronto per le valu-tazioni del caso.

La relazione sottolinea che, rispetto al decentra-mento che ha caratterizzato il settore sanitario sin dalla fine degli anni Settanta, nel nostro ordinamento è stata fatta la scelta di mantenere la competenza sta-tale sulla Organizzazione sanitaria militare e sui ser-vizi sanitari istituiti per le Forze armate.

La sezione, evidenzia come l’aver mantenuto la competenza dello Stato sulla materia all’esame, è di per sé sintomatico della peculiarità del tema e della sua attinenza all’interesse nazionale.

La relazione riferisce, inoltre, che i costi della Sa-nità militare per il 2017 sono stati pari a 113,6 mi-liardi (0,32 per cento della spesa sanitaria pubblica per lo stesso periodo temporale); al riguardo sottoli-nea che una parte rilevante degli oneri connessi all’esercizio della Sanità militare è conseguente a ne-cessità che essendo prettamente militari risultano dif-ficilmente contemperabili con i criteri di gestione, ormai aziendalistici, che caratterizzano quelle del Servizio sanitario nazionale.

Sulla base dei dati analizzati, la Sezione ha osser-vato che la valutazione dell’economicità della gestio-ne sanitaria militare non può prescindere dal proces-so di razionalizzazione e di riduzione dei costi affron-tato a partire dal 2012 e ancora in essere, i cui effetti si sono manifestati attraverso un sensibile calo del numero degli addetti e della relativa spesa, anche di funzionamento.

La Corte in conclusione raccomanda al Ministero della difesa una serie di suggerimenti tra cui quello di proseguire nel processo di razionalizzazione della Sa-nità militare; considerare la possibilità di risolvere il fenomeno delle convenzioni a titolo oneroso e avviare un approfondito esame dello stato di attuazione di quelle realizzate; dare impulso allo sviluppo di sistemi informatici; semplificare i procedimenti di program-mazione finanziaria; monitorare, con sistemi più mo-derni e maggiormente analitici, l’andamento della spesa di funzionamento verificando che la riduzione non comporti una diminuzione delle capacità operati-ve del servizio.

Sintesi – L’indagine sul servizio sanitario militare è stata condotta per accertare se i processi di revisione riduttiva del settore, previsti dalla l. n. 244/2012 e da direttive ministeriali in materia, siano stati attuati e se,

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contestualmente, sia stato assicurato il mantenimento dell’efficienza del servizio stesso, nonché se tali obiet-tivi siano stati perseguiti secondo criteri di economici-tà. Trasversale a buona parte della complessa attività istruttoria è risultata la definizione del rapporto fra il servizio in questione e il Servizio sanitario nazionale (Ssn), quest’ultimo considerato necessario termine di confronto per elaborare più concrete valutazioni. La centralità di questo tema ha richiesto una preventiva rappresentazione, a carattere analitico, del servizio sa-nitario militare, indispensabile per apprezzare, per cia-scuna branca e attività, punti di contatto e di diversifi-cazione con il Ssn; tale adempimento ha poi permesso di applicare, anche per i profili contabili e finanziari, parametri di valutazione standard, per quanto possibile validi sia per l’organizzazione sanitaria militare che per quella civile. È emersa in tal modo una sovrappo-nibilità solo parziale fra le due organizzazioni, diffe-renziate quanto ai rispettivi scopi primari e pertanto regolate da normative intese a perseguire obiettivi operativi solo in parte coincidenti; allo stesso tempo, nondimeno, sono affiorati diversi settori in cui è già in corso una proficua interazione e collaborazione fra le due realtà. Il lavoro istruttorio svolto ha costituito, al-tresì, una utile occasione per verificare la effettiva pra-ticabilità e convenienza di soluzioni organizzative del rapporto fra servizio sanitario militare e Ssn diverse da quella attualmente adottate dalla l. n. 833/1978 e dal codice dell’ordinamento militare.

A tal riguardo:

- quanto al computo complessivo dei costi va con-siderato che una rilevante parte degli oneri connessi all’esercizio della sanità della Difesa sono conseguenti a adempimenti e necessità squisitamente militari, che dovrebbero comunque trovare soddisfazione, anche in un diverso contesto organizzativo;

- del pari, la prospettiva di estese esternalizzazioni di esigenze e funzioni della sanità militare induce a ritenere non particolarmente significative le minori spese che a tali misure potrebbero conseguire.

Inoltre:

- i previsti processi di razionalizzazione e di ridu-zione dei costi della sanità militare, affrontati a partire dal 2012 e tuttora in corso, sono risultati sostanzial-mente incisivi nel solo triennio 2012-2015 che registra un considerevole calo degli addetti e degli oneri, an-che di funzionamento; nell’ultimo triennio non si evi-denziano ulteriori riduzioni, anche se gli effetti delle misure adottate risultano stabilizzati;

- il volume delle diversificate tipologie di presta-zioni complessivamente assicurate dal servizio sanita-rio militare nel periodo 2015-2018, nei vari settori che ne caratterizzano i compiti, permette di affermare che gli obiettivi di efficacia dell’organizzazione sono stati in buona parte raggiunti;

- residuano, per quanto attiene allo specifico profi-lo dell’efficienza, i diversi, seguenti temi su cui si ri-tiene, nonostante quanto sin qui realizzato, sia dovero-so auspicare concreti miglioramenti quali:

- più intense collaborazioni e sinergie con il Ssn;

- riduzione delle convenzioni a titolo oneroso;

- ampliamento dei sistemi informativi della medi-cina militare;

- potenziamento dell’attività di ricerca;

- applicazione per la sanità di sostegno – (al netto delle irrinunciabili esigenze legate alla condizione mi-litare) di parametri e di indicatori di efficienza il più possibile affini a quelli stabiliti per le strutture del Ssn;

- semplificazione dei procedimenti di programma-zione finanziaria riguardanti la sanità militare;

- definitiva implementazione, nel settore, del prin-cipio di interforzizzazione. (Omissis)

Capitolo V – Considerazioni conclusive e raccoman-dazioni

Considerazioni conclusive

I costi della sanità militare per il 2017, risultanti dalla somma di 129,725 milioni per la sanità di sup-porto, 208,445 milioni per quella di aderenza e 31,280 per il funzionamento, pari a 369,451 milioni (29) sono pari a circa lo 0,32 per cento della separata spesa sani-taria pubblica per il medesimo anno, quantificabile in 113,6 miliardi di euro, secondo i dati formalizzati nel rapporto di coordinamento della Finanza pubblica per il 2018, approvato dalle Sezioni riunite in sede di con-trollo, delib. 21 maggio 2018, n. 9 (30).

A fronte di tali dati, la scelta effettuata nel 1978 dalla l. n. 833 (v. precedente nota 3) e confermata nel 2010 attraverso il disposto degli artt. 181 e 182 del codice dell’ordinamento militare, ha fissato la distin-zione fra le strutture sanitarie civili, affidate alle re-gioni e quelle militari, mantenute allo Stato. In sostan-za le disposizioni in parola hanno considerato che, per quanto qui interessa, allo scopo di assicurare il miglior assolvimento dei rispettivi, e in qualche misura diversi e indipendenti compiti, rispettivamente assegnati alle regioni e allo Stato, la migliore soluzione fosse quella di una cooperazione fra articolazioni diverse e diver-samente finalizzate; articolazioni tuttavia caratterizza-te da un certo livello di integrabilità, e dunque capaci, interagendo, di fornire una migliore risposta sia agli ordinari bisogni sanitari del cittadino in quanto tale, sia alle peculiari e aggiuntive necessità di prestazioni che vanno indirizzate al cittadino impegnato nel parti-colare settore della Difesa, a garanzia della efficienza collettiva delle Forze armate.

Non sembra infatti revocabile in dubbio che anche ai militari, per la non trascurabile quantità di rischi a cui sono costantemente esposti durante l’intera vita professionale, vada erogata, come ad altre categorie di

(29) Nel 2018 il medesimo aggregato di spesa risulta pari a

367,778 milioni. (30) Inoltre, secondo i dati Istat pubblicati nel 2017, nel 2014

la spesa media per abitante in Italia, inclusi i costi a carico dei privati, è stata di 2.404 euro, mentre negli altri paesi europei si va dai 3.000-4.000 spesi ad abitante per tedeschi, francesi e britannici, fino ai 5.000 spesi in Danimarca e Svezia o gli oltre 5.500 euro pro capite del Lussemburgo.

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lavoratori, non solo una più fitta vigilanza sanitaria ma vadano altresì assicurati anche specifici interventi, te-rapie, riabilitazioni e cure, decentrati e tempestivi, in relazione al peculiare contesto di riferimento profes-sionale.

È dunque punto fermo che, anche qualora venisse adottata una qualsiasi diversa soluzione organizzativa, ai militari vada assicurata la continuità, quantitativa e qualitativa, delle prestazioni sanitarie sin qui loro ero-gate.

La sanità militare ricopre vaste aree d’intervento quali la medicina del lavoro militare, la medicina lega-le anche in ambito statale, la medicina preventiva e alcuni settori di quella d’emergenza (ad esempio gruppi di biocontenimento, camere iperbariche, ecc.) che vanno a sgravio della sanità civile e che richiedo-no peculiari capacità e specializzazioni nonché attrez-zature e strutture attualmente non disponibili nel con-testo organizzativo del Ssn.

Nella prospettiva di “civili militarizzati”, imposta anche dal contesto delle alleanze internazionali, costo-ro andrebbero specificamente e adeguatamente remu-nerati e andrebbero convenientemente risolti i non semplici problemi di dipendenza e di stato giuridico che ne conseguirebbero, per gli interessati e per le di-verse amministrazioni di riferimento, più acuti nel contesto della sanità d’aderenza.

Le evidenziate esigenze di disporre di strutture sa-nitarie in fase di prontezza operativa, cioè non impe-gnate ma in condizioni di costante disponibilità (stand by), e dunque estranee al circuito aziendale del Ssn, dovrebbero essere egualmente garantite, al pari delle maggiori condizioni di sicurezza e di resilienza orga-nizzativa e logistica da continuare ad assicurare a no-socomi in cui vengano trattati militari.

Le strutture di formazione e di specializzazione dei medici con competenze specifiche nel settore militare, almeno inizialmente, andrebbero anch’esse preservate allo scopo di continuare ad assicurare il necessario know how alla categoria, mentre il Ssn dovrebbe do-tarsi, attraverso specifici concorsi, e nuove spese, di una specifica governance da dedicare al peculiare set-tore; al tempo stesso le Forze armate, interessate a ri-cevere e organizzare le prestazioni dal Ssn, non po-trebbero privarsi in toto delle competenze indispensa-bili a gestirle e a valutarle e pertanto dovrebbero con-servare necessariamente delle strutture dedicate.

A fronte degli enumerati, possibili fattori di spesa va contrapposto, principalmente, quello di potenziale risparmio riferibile ad economie di scala, in ambito civile, che riguarderebbero alcune delle prestazioni squisitamente sanitarie attualmente erogate dall’organizzazione militare.

Al riguardo va ribadito che una rilevante parte de-gli oneri connessi all’esercizio della sanità della Dife-sa sono conseguenti a adempimenti e necessità squisi-tamente militari, difficilmente contemperabili con i criteri di gestione, ormai pienamente aziendalistici, e dunque di massimo sfruttamento dei fattori di produ-zione che, a buona ragione, ormai da tempo caratteriz-

zano le diverse esigenze e necessità delle strutture del Ssn.

Per quanto concerne la valutazione della economi-cità della gestione sanitaria militare, sulla base dei dati dettagliatamente analizzati, la prima osservazione va dedicata al processo di razionalizzazione e di riduzio-ne dei costi della sanità militare, affrontato principal-mente a far data dal 2012 e tuttora in corso. Gli effetti concreti di tali azioni si sono manifestati solo nel triennio 2012-2014 nel quale si evidenzia un significa-tivo calo del numero degli addetti e delle relative spe-se, anche di funzionamento. Nell’ultimo quadriennio invece non si sono registrate ulteriori riduzioni anche se gli effetti delle razionalizzazioni risultano stabiliz-zati. Ciò costituisce motivo di attenzione da parte del-la sezione e di invito all’amministrazione a proseguire più incisivamente nella attuazione delle previste ridu-zioni.

Il dispositivo della sanità militare, nel corso del 2018, si è avvalso complessivamente di circa 6300 unità, comprendenti medici, infermieri, aiutanti di sa-nità, tecnici, e relativo supporto logistico operativo, articolato su due aliquote: quella della sanità di soste-gno, pari a 2460 unità, e quella di aderenza, pari a 3838 unità.

Il volume delle prestazioni complessivamente assi-curate, nei vari settori che caratterizzano i compiti del-la sanità militare, e analiticamente descritte nella rela-zione, permette di affermare che gli obiettivi connessi all’efficacia dell’organizzazione in esame sono stati sostanzialmente raggiunti.

Quanto sopra, tuttavia, non significa affatto che la struttura, l’organizzazione e la gestione del servizio di sanità militare, non presentino ad oggi aspetti ben su-scettibili di un doveroso miglioramento, in special modo per quanto attiene al profilo dell’efficienza.

E segnatamente:

- va rimarcato ulteriormente che il numero del per-sonale complessivamente addetto alla sanità, negli ul-timi anni, non presenta il trend di ulteriore riduzione che deve invece conseguire attraverso il processo at-tuativo della l. n. 244/2012, ancora in corso;

- la fondamentale collaborazione con il Ssn, nono-stante alcuni obiettivi anche attualmente perseguiti, non è sin qui approdata a veri e propri accreditamenti di posti letto, e trova sviluppo in un numero ancora limitato di siti e per temi ristretti;

- le convenzioni a titolo oneroso con medici non appartenenti all’amministrazione dello Stato, pur in calo, risultano tutt’ora in numero non trascurabile;

- i sistemi informativi impiegati velocizzano dei segmenti di procedimenti sanitari ma, pur utili, non sono ancora disponibili e dunque impiegabili da cia-scun appartenente all’area e non permettono una diret-ta comunicazione con analoghi sistemi del Ssn;

- il ciclo della programmazione finanziaria sanita-ria evidenzia aspetti eccessivamente articolati;

- il settore della ricerca registra iniziative riguardo ad importanti temi concernenti la morbilità e mortalità

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del personale della Difesa, già da tempo avviate e del-le quali si attendono conclusioni, o quanto meno indi-cazioni di concrete misure di ulteriore protezione;

- la struttura ordinativa e organizzativa del Policli-nico di Roma, analiticamente esposta, con riguardo al supporto logistico amministrativo, evidenzia vistose ridondanze su cui intervenire, in quanto le 339 unità addette per compiti non sanitari vanno ridotte;

- l’altro fondamentale tema, quello della interfor-zizzazione, non risulta perseguito con la necessaria incisività e determinazione.

Raccomandazioni

All’Amministrazione della difesa e, per quanto d’interesse, al Dicastero della salute, va conseguente-mente raccomandato di:

- proseguire nel processo di razionalizzazione della sanità militare, ottemperando alle riduzioni del perso-nale dei Corpo sanitari direttamente conseguenti all’applicazione della l. n. 244/2012 nonché riesami-nando le relative strutture al fine di accrescerne l’efficienza perseguendo, specie nella macro-area del-la sanità di sostegno – al netto delle peculiari esigenze legate alla condizione militare – parametri il più pos-sibile affini a quelli stabiliti per le strutture del Ssn;

- considerare la possibilità di risolvere in maniera definitiva il fenomeno delle convenzioni a titolo one-roso, o comunque di ridurlo significativamente valu-tando, d’intesa con il Ssn, la prospettiva di ricollocare tali professionisti in strutture civili che abbisognino delle loro specifiche competenze, contemporaneamen-te sostituendoli, in ambito militare attraverso l’esecuzione di un piano pluriennale di mirati recluta-menti svolgere, allo stesso tempo, un puntuale appro-fondimento delle compatibilità dello specifico istituto rispetto alle numerose novelle legislative che hanno connotato il settore giuslavoristico;

- avviare un esame congiunto dello stato di attua-zione delle intese e delle convenzioni sin qui realizza-te, al fine ultimo di mettere a punto una completa e condivisa pianificazione, nel tempo, delle azioni pos-sibili e necessarie a stipularne di nuove, al fine di in-crementare e approfondire la cooperazione in senso binario, a tal fine dando corpo anche ad una “cornice” nazionale in cui iscrivere le singole iniziative;

- imprimere impulso allo sviluppo e diffusione de-gli strumenti e sistemi informatici già in uso curando, nella medesima prospettiva di maggiore omogeneità con il Ssn anche l’aspetto della condivisione dei rela-tivi dati con il Ssn;

- tener conto, altresì, delle specifiche indicazioni già formulate al Snn stesso da questa Sezione centrale di controllo sulla gestione nella propria delib. n. 4/2018, cap. VI, punto 1 delle considerazioni finali e raccomandazioni; ciò potrebbe permettere di avviare, anche nell’ambito della sanità militare, le azioni più idonee a superare il riscontrato deficit di pianificazio-ne e programmazione emerso durante l’adunanza pubblica svoltasi in data 11 luglio 2019, con particola-re riferimento al settore infrastrutturale (adeguamento

antisismico, misure antincendio, ecc.) già posto da questa sezione all’attenzione del Ministero della salute con la richiamata deliberazione per i medesimi temi;

- semplificare i procedimenti di programmazione finanziaria sanitaria;

- proseguire e concretizzare le attività in corso nel settore della ricerca militare, nonché ampliare lo spet-tro della relativa funzione della ricerca sanitaria;

- monitorare il verificare che l’andamento della spesa sanitaria militare di funzionamento, per verifica-re che il trend di riduzione non finisca con l’incidere le capacità operative del servizio, con particolare ri-guardo all’area dell’aderenza;

- intervenire sulle ridondanze del sostegno logisti-co amministrativo dedicato al Policlinico militare;

- elaborare e sviluppare sistemi più moderni e maggiormente analitici di monitoraggio e controllo della spesa sanitaria militare, al fine di garantire sem-pre più nel dettaglio la valutazione dell’efficienza di ciascun reparto sanitario;

- riconsiderare l’argomento dell’interforzizzazione assumendo, se del caso, le diverse iniziative necessa-rie ad imprimere nuovo impulso al tema.

* * *

Sezione controllo enti

89 – Sezione controllo enti; determinazione 18 luglio 2019; Pres. Laterza, Rel. Della Ventura; Rai s.p.a.

Enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria – Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a. – Gestione fi-nanziaria 2017 – Relazione al Parlamento.

L. 21 marzo 1958, n. 259, partecipazione della Corte dei conti al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, art. 12; l. 31 dicembre 2009, n. 196, legge di contabilità e fi-nanza pubblica, art. 1; l. 28 dicembre 2015, n. 220, riforma della Rai e del servizio pubblico radiotelevisi-vo, artt. 1, 2; l. 26 ottobre 2016, n. 198, istituzione del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione e deleghe al governo per la ridefini-zione della disciplina del sostegno pubblico per il set-tore dell’editoria e dell’emittenza radiofonica e televi-siva locale, della disciplina di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle competenze del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. Procedura per l’affidamento in concessione del servi-zio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, art. 9, l. 11 dicembre 2016, n. 232, bilancio di previ-sione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilan-cio pluriennale per il triennio 2017-2019.

La relazione riferisce al Parlamento in merito ai risultati del controllo eseguito sulla gestione finanzia-ria della Rai s.p.a. e del Gruppo per l’esercizio 2017.

La Rai, assoggettata ad un particolare regime giu-ridico, nonostante la veste formale di società per azioni, individuata quale concessionaria in esclusiva

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del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multi-mediale per un decennio a far data dal 30 aprile 2017, ha natura sostanzialmente pubblicistica, è in-quadrata dal legislatore nell’ambito delle c.d. società legali, quelle cioè che da una parte operano sul mer-cato ed offrono servizi ai cittadini e, dall’altra, godo-no di contribuzioni periodiche da parte dello Stato e, pertanto, si finanziano con imposte e tasse.

Come già evidenziato da questa Corte nei prece-denti referti, il quadro normativo cui la Società fa ri-ferimento nella sua attività è profondamente mutato negli ultimi anni, gli interventi normativi hanno inciso sia sull’assetto organizzativo, con particolare riguar-do alla l. n. 220/2015, che ne ha modificato, da un la-to, la cadenza (da triennale a quinquennale) del rin-novo cui è soggetto il contratto nazionale di servizio tra il Ministero dello sviluppo economico e la Rai e, dall’altro, la struttura della governance.

Inoltre, per il 2017 le nuove norme sulla determi-nazione della misura dei canoni di abbonamento alle radiodiffusioni (l. n. 232/2016) hanno previsto una riduzione del canone di abbonamento alla televisione.

In merito alla società si evidenzia un miglioramen-to dell’utile netto, 5,5 milioni nel 2017, rispetto al precedente esercizio, 4,2 milioni, e del patrimonio netto pari a 808,4 milioni nell’esercizio in esame ri-spetto ai 799, 4 del 2016.

Per quanto concerne, invece, i ricavi totali si rile-va una diminuzione del 7 per cento, da 2.627,7 milioni nel 2016 a 2.444 nel 2017, dovuta in particolare, sia alle entrate da pagamento del canone Rai, che nell’esercizio in esame hanno subito una flessione, passando da 1.909,7 a 1.776,6 milioni, sia ai ricavi da pubblicità passati da 615,7 nel 2016 a 567 milioni nel 2017.

Relativamente al patrimonio netto del Gruppo, pur a fronte dell’utile di esercizio pari a 14,3 milioni, si registra una flessione (da 420 mln nel 2016 a 418,3 nel 2017); i ricavi totali, come quelli della società Rai, sono diminuiti del 6,6 per cento rispetto al 2016 (da 2.809,5 a 2.624 mln), e anche i costi operativi complessivi sono passati da 2.745 milioni nel 2016 a 2.590,8 nel 2017 con una flessione del 5,6 per cento.

La Corte in conclusione ribadisce la necessità per la società di attivare misure organizzative, procedura-li e gestionali in grado di eliminare le inefficienze, di proseguire nel percorso di internalizzazione delle at-tività e concentrare gli impegni finanziari sulle strate-gie prioritarie.

Considerazioni conclusive

L’esercizio di Rai s.p.a. chiuso al 31 dicembre 2017 presenta un utile netto di 5,5 mln, in migliora-mento rispetto all’utile di 4,2 mln del precedente eser-cizio 2016.

La struttura patrimoniale della società ha posto in evidenza patrimonio netto pari a 808,4 mln, anch’esso in aumento rispetto al 2016 (799,4 mln).

I ricavi totali sono diminuiti del 7 per cento rispet-to al precedente esercizio, passando da 2.627,7 mln

nel 2016 a 2.444 mln nel 2017. In particolare, le entra-te derivanti dal pagamento del canone radiotelevisivo, che erano significativamente aumentate nel 2016, pas-sando da 1.637,5 mln del 2015 a 1.909,7 mln (+272,2 mln), grazie soprattutto alle nuove modalità di riscos-sione introdotte dalla legge di stabilità 2016 (riscos-sione del canone Tv per uso privato attraverso l’addebito sulle fatture emesse dalle imprese elettri-che), nel 2017 subiscono invece una flessione, pas-sando a 1.776,6 mln.

I ricavi derivanti dalla pubblicità, pari a 615,7 mln nel 2016, diminuiscono anch’essi, ammontando nel 2017 a 567 mln.

Sull’opposto versante, la capogruppo ha sopportato costi complessivi per 2.541,3 mln, in diminuzione del 6,6 per cento rispetto all’esercizio 2016, in cui erano stati pari a 2.721,8 mln.

In particolare, il costo del personale di Rai s.p.a. ammonta nel 2017 a 888,7 ml, diminuito del 4,3 per cento rispetto al 2016 (928,2 mln).

Per quanto riguarda le risultanze del Gruppo Rai, dal conto economico consolidato emerge un risultato dell’esercizio 2017 positivo per 14,3 mln, a fronte dell’utile di 18,1 mln del 2016 (-21 per cento).

Nel 2017 si è registrata una diminuzione del patri-monio netto di gruppo (418,3 mln rispetto ai 420 mln del 2016), pur a fronte del predetto utile d’esercizio pari a 14,3 mln, quale emerge dal conto economico consolidato. Tale risultato è dovuto alla circostanza che una rilevante parte del citato utile d’esercizio è da riferire alla controllata Rai Way, partecipata da Rai s.p.a. nella misura del 64,971 per cento; e infatti, il to-tale del patrimonio netto (480,1 mln, di cui 61,8 riferi-ti a Ray Way) risulta in crescita rispetto al 2016 (476,6 mln, di cui 56,6 di Ray Way).

I ricavi totali hanno evidenziato una diminuzione del 6,6 per cento nei confronti del 2016, passando da 2.809,5 mln a 2.624 mln al termine dell’esercizio in esame. Sono diminuiti, come innanzi specificato, sia i ricavi da canone che quelli pubblicitari.

I costi, pari complessivamente a 2.590,8 mln regi-strano una diminuzione del 5,6 per cento rispetto all’anno precedente (erano stati pari a 2.745 mln).

Il costo del personale del gruppo, risultato nel 2016 pari a 1.031,7 mln, è sceso nel 2017 a 983,3 mln (-4,7 per cento).

Tra le vicende di maggiore rilievo occorse negli ul-timi anni, va citato innanzi tutto il rinnovo della con-cessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, di cui al d.p.c.m. del 28 aprile 2017. La nuova concessione ha durata decennale.

Nella seduta del 22 dicembre 2017 il Consiglio dei ministri ha deliberato lo schema di Contratto naziona-le di servizio tra il Ministero dello sviluppo economi-co e la Rai per il periodo 2018-2022, previo parere della Commissione parlamentare per l’indirizzo gene-rale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. A seguito della pubblicazione in G.U., il predetto contratto è di-venuto efficace a far data dall’8 marzo 2018.

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Vanno poi ricordate le nuove norme sulla determi-nazione della misura dei canoni di abbonamento alle radiodiffusioni, recate dall’art. 1, c. 40, l. 11 dicembre 2016, n. 232 (71), che hanno previsto per l’anno 2017, la riduzione a euro 90 della misura del canone di ab-bonamento alla televisione per uso privato; disposi-zioni confermate anche per l’anno 2018 dall’art. 1, c. 1147, l. 27 dicembre 2017, n. 205 (72).

Per quel che riguarda le strategie operative e ge-stionali, va evidenziato che il Piano industriale 2016-2018 era focalizzato essenzialmente su tre obiettivi: universalità e differenziazione dell’offerta di servizio pubblico; leadership degli ascolti cross piattaforma; sostenibilità economico-finanziaria. Nella seduta del 6 marzo 2019, il consiglio di amministrazione ha appro-vato il Piano industriale 2019-2021, che contiene al proprio interno il Piano editoriale dell’offerta televisi-va, il Piano per l’informazione, il progetto per la rea-lizzazione dei canali dedicati all’offerta estera e in lingua inglese, il Piano per l’informazione istituziona-le, nonché il progetto di tutela delle minoranze lingui-stiche, tutti adempimenti in linea con le previsioni del contratto di servizio 2018-2022.

In generale, tenuto conto della complessiva situa-zione sopra illustrata e delle incertezze legate all’attuale debolezza del mercato pubblicitario, questa Corte conferma la necessità, già evidenziata nel pre-cedente referto, che l’azienda persista nel porre in es-sere ogni misura organizzativa, di processo e gestiona-le idonea ad eliminare residue inefficienze e sprechi, proseguendo, laddove possibile e conveniente, nel percorso di internalizzazione delle attività e concen-trando gli impegni finanziari sulle priorità effettiva-mente strategiche, con decisioni di spesa strettamente coerenti con il quadro di riferimento e un maggiore contenimento dei costi.

Per quel che riguarda le problematiche relative alle assunzioni di personale, questa Corte richiama la so-cietà alla sollecita predisposizione di una completa mappatura delle professionalità esistenti in azienda, quale presupposto per un efficace reclutamento di ri-sorse, sia interne (mobilità) che dall’esterno, oltre che ad un maggiore utilizzo dello strumento del job po-sting.

* * *

(71) “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanzia-

rio 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019”. (72) “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanzia-

rio 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”.

Sezione delle autonomie

17 – Sezione delle autonomie; deliberazione 17 luglio 2019; Pres. Buscema, Rel. Degni; Comune di Mandu-ria.

Enti locali – Comune – Personale – Spesa –Assunzioni personale dirigenziale e non – Modalità di calcolo – Budget unico – Necessità. Enti locali – Comune – Personale – Spesa – Utilizzo resti assunzionali – Modalità. D.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modifica-zioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari, art. 3; l. 28 dicembre 2015, n. 208, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016), art. 1, c. 228; d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, modifiche e integrazioni al d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli artt. 16, cc. 1, lett. a), 2, lett. b), c), d) ed e), e 17, c. 1, lett. a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), l. 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, art. 20, c. 14; l. 27 dicembre 2017, n. 205, bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanzia-rio 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020, art. 1; l. 30 dicembre 2018, n. 145, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di bilancio 2019), art. 1, cc. 446 e 823; d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 convertito con modifi-cazioni dalla l. 28 marzo 2019, n. 26, disposizioni ur-genti in materia di reddito di cittadinanza e pensioni, art. 14-bis, c. 1, lett. a); d.l. 30 aprile 2019, n. 34 (c.d. decreto crescita), convertito con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, art. 33.

Gli enti locali possono cumulare in un unico bud-get le risorse utilizzabili in modo indifferenziato per le assunzioni di personale dirigenziale e non, nel rispet-to dei vincoli finanziari previsti dalla legislazione vi-gente e della programmazione dei fabbisogni di per-sonale per il triennio 2019-2021.

Il criterio individuato vale anche per l’impiego dei resti assunzionali maturati sulla base delle disposi-zioni vigenti ratione temporis, per il cui computo, tut-tavia, deve farsi riferimento al quinquennio preceden-te in senso dinamico ovvero con scorrimento a ritroso rispetto all’anno precedente quello di assunzione. (1)

Premesso – La Commissione straordinaria del Comune di Manduria ha posto una serie di quesiti in ordine alla programmazione dei fabbisogni di perso-nale per il triennio 2019-2021 alla Sezione regionale di controllo per la Puglia. Tra questi, uno riguarda la questione posta all’attenzione della Sezione delle au-

(1) La deliberazione in esame ripercorre e completa il per-

corso giurisprudenziale seguito dalla stessa sezione che aveva definito in alcuni recenti approdi le linee interpretative princi-pali della disciplina in materia di vincoli assunzionali per gli enti locali. (v., in particolare, Sez. autonomie, 22 settembre 2015, n. 28, in questa Rivista, 2015, fasc. 5-6, 157).

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tonomie e cioè se i valori economici delle capacità as-sunzionali 2019-2021 per il personale dirigenziale e non dirigenziale, riferiti alle cessazioni dell’anno pre-cedente, nonché ai resti assunzionali del triennio pre-cedente l’annualità di riferimento, possano essere cu-mulati fra loro al fine di determinare un unico budget complessivo utilizzabile indistintamente per assunzio-ni riferite ad entrambe le tipologie di personale (diri-genziale e non) oppure se, per ognuna delle suddette due categorie, possa essere utilizzato ai fini assunzio-nali esclusivamente il budget calcolato per la categoria considerata.

La sezione rimettente riporta due precedenti pro-nunce (Sezione regionale di controllo per la Lombar-dia e Sezione regionale di controllo per il Lazio) che, sul punto, giungono a conclusioni differenti.

In particolare, la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con delib. n. 222/2018, ha affermato che la capacità assunzionale di personale a tempo in-determinato da parte degli enti locali, di cui all’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014 “non fa distinzione tra personale non dirigenziale e personale dirigenziale”.

Si specifica che il parere richiesto alla Sezione lombarda riguardava la possibilità di “utilizzare la spesa conseguente alla cessazione di personale di qualifica non dirigenziale, applicando le percentuali di facoltà assunzionali previste per tali categorie e ad oggi disponibili, per poter incrementare le facoltà as-sunzionali da destinare ad assunzioni di personale di-rigente”.

La Sezione regionale di controllo per la Lombar-dia, sul presupposto che “dal vigente quadro normati-vo non vengono in definitiva determinati...diversi budget assunzionali” e che “per calcolare il contribu-to alla capacità assunzionale della cessazione del di-rigente, non si applichi qui la norma speciale per il turn over prevista dall’art. 1, c. 228, l. n. 208/2015, che è limitata al personale non dirigenziale”, decide-va nel senso della possibilità di utilizzare la spesa con-seguente alla cessazione di personale dirigenziale e non dirigenziale per il calcolo della capacità assunzio-nale destinabile ad una unità con qualifica dirigenzia-le, secondo le percentuali ordinarie, facendo riferi-mento al solo art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014.

Diversamente, la Sezione regionale di controllo per il Lazio, con delib. n. 21/2018, ha concluso per la ne-cessità di distinguere i due budget, sulla base di una ricostruzione sistematica dello statuto della dirigenza pubblica e della disciplina successiva al d.l. n. 90/2014, evidenziando che “la disciplina successiva al detto decreto, rimodulativa, in senso restrittivo, delle facoltà assunzionali delle pubbliche amministrazioni, da computarsi percentualmente sul turn over, è espressamente riferita dal legislatore al personale con qualifica non dirigenziale, con ciò introducendo un puntuale elemento di differenziazione rispetto alla ca-pacità di reclutamento del personale con qualifica di-rigenziale” e che “l’excursus delineato consente di af-fermare come necessitata la distinzione tra il profilo della dirigenza e quello del personale non dirigenziale

nelle diverse fasi dell’attività preordinata al relativo reclutamento e alla conseguente gestione del rapporto di lavoro instaurato, essendo motivatamente rimessa alla discrezionalità amministrativa la rivalutazione dei fabbisogni di personale in ragione dei mutevoli obiettivi della generale azione amministrativa, con il conseguente obbligo di adeguamento, in primis, delle piante organiche”.

Considerato – (Omissis) Come anticipato, l’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014 reca la disciplina normativa delle facoltà assunzionali, ancorandola ad una percentuale di spesa parametrata a quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente (c.d. turn over), senza prevedere alcuna distinzione di budget tra le ti-pologie di personale.

Non sembra ragionevole, dunque, prevedere vinco-li ulteriori, quali la creazione di budget differenziati per personale dirigente e non dirigente, atteso che, quando il legislatore ha inteso porre limiti e vincoli agli enti lo ha fatto esplicitamente.

La stessa previsione di cui all’art. 1, c. 228, l. n. 208/2015, difatti, che poneva vincoli espressi alle as-sunzioni di personale di qualifica non dirigenziale, va contestualizzata e circoscritta al solo triennio 2016-2018 e, dunque, può considerarsi, ai fini che ci occu-pano, come norma transitoria, ormai superata.

Si cita, ancora, la recente previsione di cui all’art. 35-bis del d.l. n. 113/2018, convertito con modifica-zioni dalla l. 1 dicembre 2018, n. 132, secondo cui “Al fine di rafforzare le attività connesse al controllo del territorio e di potenziare gli interventi in materia di sicurezza urbana, i comuni che nel triennio 2016-2018 hanno rispettato gli obiettivi dei vincoli di finan-za pubblica possono, nell’anno 2019, in deroga alle disposizioni di cui all’art. 1, c. 228, l. 28 dicembre 2015, n. 208, assumere a tempo indeterminato perso-nale di polizia municipale, nel limite della spesa so-stenuta per detto personale nell’anno 2016 e fermo restando il conseguimento degli equilibri di bilancio. Le cessazioni nell’anno 2018 del predetto personale non rilevano ai fini del calcolo delle facoltà assunzio-nali del restante personale”. Emerge, pertanto, che nella sopra citata fattispecie il legislatore ha espressa-mente previsto una disciplina ad hoc per il personale di polizia municipale, rispetto a cui “ove i comuni vo-gliano avvalersi del regime derogatorio transitorio introdotto dall’art. 35-bis, lo stesso determina la creazione di un differenziato regime di reclutamento con contratto a tempo indeterminato per il personale della polizia locale relativamente all’anno 2019, con l’individuazione di un particolare budget assunzionale parallelo a quello ordinario” (Sez. contr. reg. Veneto n. 73/2019).

Tale espressa volontà legislativa non si rinviene, invece, nella disciplina di cui all’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014.

Va ancora menzionato il recente art. 33 del d.l. n. 34/2019, secondo cui “A decorrere dalla data indivi-duata dal decreto di cui al presente comma, anche al fine di consentire l’accelerazione degli investimenti

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pubblici, con particolare riferimento in materia di mi-tigazione rischio idrogeologico, ambientale, manuten-zione di scuole e strade, opere infrastrutturali, edilizia sanitaria e gli altri programmi previsti dalla l. 30 di-cembre 2018, n. 145, le regioni a statuto ordinario possono procedere ad assunzioni di personale a tem-po indeterminato in coerenza con i piani triennali dei fabbisogni di personale e fermo restando il rispetto pluriennale dell’equilibrio di bilancio asseverato dall’organo di revisione, sino ad una spesa comples-siva per tutto il personale dipendente, al lordo degli oneri riflessi a carico dell’amministrazione, non supe-riore al valore soglia definito come percentuale, an-che differenziata per fascia demografica, delle entrate relative ai primi tre titoli delle entrate del rendiconto dell’anno precedente a quello in cui viene prevista l’assunzione, considerate al netto di quelle la cui de-stinazione è vincolata, ivi incluse, per le finalità di cui al presente comma, quelle relative al servizio sanita-rio nazionale ed al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione. Con de-creto del Ministro della pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finan-ze, previa intesa in Conferenza permanente per i rap-porti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono individua-te le fasce demografiche, i relativi valori soglia pros-simi al valore medio per fascia demografica e le rela-tive percentuali massime annuali di incremento del personale in servizio per le regioni che si collocano al di sotto del predetto valore soglia. I predetti parame-tri possono essere aggiornati con le modalità di cui al secondo periodo ogni cinque anni. Le regioni in cui il rapporto fra la spesa di personale, al lordo degli one-ri riflessi a carico dell’amministrazione, e le predette entrate correnti dei primi tre titoli del rendiconto ri-sulta superiore al valore soglia di cui al primo perio-do, adottano un percorso di graduale riduzione an-nuale del suddetto rapporto fino al conseguimento nell’anno 2025 del predetto valore soglia anche ap-plicando un turn over inferiore al 100 per cento. A de-correre dal 2025 le regioni che registrano un rappor-to superiore al valore soglia applicano un turn over pari al 30 per cento fino al conseguimento del predet-to valore soglia. Il limite al trattamento accessorio del personale di cui all’art. 23, c. 2, d.lgs. 27 maggio 2017, n. 75 è adeguato, in aumento o in diminuzione, per garantire l’invarianza del valore medio pro-capite, riferito all’anno 2018, del fondo per la con-trattazione integrativa nonché delle risorse per remu-nerare gli incarichi di posizione organizzativa, pren-dendo a riferimento come base di calcolo il personale in servizio al 31 dicembre 2018. 2. A decorrere dalla data individuata dal decreto di cui al presente comma, anche per le finalità di cui al c. 1, i comuni possono procedere ad assunzioni di personale a tempo inde-terminato in coerenza con i piani triennali dei fabbi-sogni di personale e fermo restando il rispetto plu-riennale dell’equilibrio di bilancio asseverato dall’organo di revisione, sino ad una spesa comples-

siva per tutto il personale dipendente, al lordo degli oneri riflessi a carico dell’amministrazione, non supe-riore al valore soglia definito come percentuale, diffe-renziata per fascia demografica, delle entrate relative ai primi tre titoli delle entrate del rendiconto dell’anno precedente a quello in cui viene prevista l’assunzione, considerate al netto del fondo crediti dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione. Con decreto del Ministro della pubblica amministra-zione, di concerto con il Ministro dell’economia e del-le finanze e il Ministro dell’interno, previa intesa in sede di Conferenza Stato-città e autonomie locali, en-tro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono individuate le fasce demografi-che, i relativi valori soglia prossimi al valore medio per fascia demografica e le relative percentuali mas-sime annuali di incremento del personale in servizio per i comuni che si collocano al di sotto del predetto valore soglia. I predetti parametri possono essere ag-giornati con le modalità di cui al secondo periodo ogni cinque anni. I comuni in cui il rapporto fra la spesa di personale, al lordo degli oneri riflessi a cari-co dell’amministrazione, e le predette entrate correnti dei primi tre titoli del rendiconto risulta superiore al valore soglia di cui al primo periodo adottano un per-corso di graduale riduzione annuale del suddetto rap-porto fino al conseguimento nell’anno 2025 del pre-detto valore soglia anche applicando un turn over in-feriore al 100 per cento. A decorrere dal 2025 i co-muni che registrano un rapporto superiore al valore soglia applicano un turn over pari al 30 per cento fino al conseguimento del predetto valore soglia. Il limite al trattamento accessorio del personale di cui all’art. 23, c. 2, d.lgs. 27 maggio 2017, n. 75 è adeguato, in aumento o in diminuzione, per garantire l’invarianza del valore medio pro capite, riferito all’anno 2018, del fondo per la contrattazione integrativa nonché delle risorse per remunerare gli incarichi di posizione or-ganizzativa, prendendo a riferimento come base di calcolo il personale in servizio al 31 dicembre 2018”.

Con tale previsione, oltre al superamento della lo-gica del c.d. turn over, ciò che rileva è il focus che il legislatore pone – in merito alla futura disciplina delle capacità assunzionali - sulla coerenza con i piani triennali dei fabbisogni di personale, sul rispetto plu-riennale dell’equilibrio di bilancio asseverato dall’organo di revisione, nonché sul riferimento “ad una spesa complessiva per tutto il personale dipen-dente”, non facendo alcun tipo di riferimento a tipolo-gie di personale e relativi budget assunzionali diffe-renziati.

Ne deriva, pertanto, che, anche in logica prospetti-ca e di sistema, l’interesse del legislatore sulle capaci-tà assunzionali si concentra sulla “tenuta finanziaria” degli enti, con un riferimento espresso al “personale a tempo indeterminato”, nonché ad una spesa comples-siva per “tutto il personale dipendente”.

Sul punto, si ritiene utile, peraltro, evidenziare che, ai fini della determinazione del budget assunzionale da parte degli enti, particolare rilievo assume la pro-

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grammazione dei fabbisogni di personale, che ogni amministrazione è tenuta ad effettuare, attraverso lo strumento del piano triennale dei fabbisogni di perso-nale (Ptfp). A tale proposito, l’art. 6, c. 2, d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che “Allo scopo di ottimizzare l’impiego delle risorse pubbliche disponibili e perse-guire obiettivi di performance organizzativa, efficien-za, economicità e qualità dei servizi ai cittadini, le amministrazioni pubbliche adottano il piano triennale dei fabbisogni di personale, in coerenza con la piani-ficazione pluriennale delle attività e della performan-ce, nonché con le linee di indirizzo emanate ai sensi dell’art. 6-ter. Qualora siano individuate eccedenze di personale, si applica l’art. 33. Nell’ambito del piano, le amministrazioni pubbliche curano l’ottimale distri-buzione delle risorse umane attraverso la coordinata attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del personale, anche con riferimento alle unità di cui all’art. 35, c. 2. Il piano triennale indica le risorse fi-nanziarie destinate all’attuazione del piano, nei limiti delle risorse quantificate sulla base della spesa per il personale in servizio e di quelle connesse alle facoltà assunzionali previste a legislazione vigente”.

Con tale norma, il legislatore ha inteso creare un sistema sinergico tra la programmazione dei fabbiso-gni di personale, la performance dell’amministrazione e la pianificazione pluriennale delle attività. Il riferi-mento, poi, alle risorse destinate all’attuazione del piano viene effettuato con riguardo alle “risorse quan-tificate sulla base della spesa per il personale in servi-zio e di quelle connesse alle facoltà assunzionali pre-viste a legislazione vigente”.

Si fa presente, altresì, che il successivo c. 3 dello stesso art. 6 del d.lgs. n. 165/2001, stabilisce che “cia-scuna amministrazione indica la consistenza della do-tazione organica e la sua eventuale rimodulazione in base ai fabbisogni programmati e secondo le linee di indirizzo di cui all’art. 6-ter, nell’ambito del potenzia-le limite finanziario massimo della medesima e di quanto previsto dall’art. 2, c. 10-bis, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, garantendo la neutralità finan-ziaria della rimodulazione. Resta fermo che la coper-tura dei posti vacanti avviene nei limiti delle assun-zioni consentite a legislazione vigente”.

La disciplina normativa in parola, dunque, pone l’accento sulla necessaria programmazione dei fabbi-sogni di personale da parte degli enti, unitamente alla sua eventuale rimodulazione, rimanendo, in ogni caso, nell’ambito del potenziale limite finanziario massimo e garantendo la neutralità finanziaria della rimodula-zione.

Da ciò può desumersi che la ratio legis è volta a responsabilizzare maggiormente gli enti, nel momento in cui effettuano la programmazione dei fabbisogni del personale, garantendo, nel contempo, il rispetto dei limiti finanziari massimi e una correlata neutralità finanziaria nell’ipotesi di una eventuale rimodulazio-ne, senza alcun ulteriore vincolo correlato a budget

differenti, sulla base delle diverse tipologie di perso-nale.

Per quanto riguarda la disciplina normativa di cui all’art. 1, c. 228, l. n. 208/2015 – la cui valenza, come si è detto, era comunque circoscritta al triennio 2016-2018 e alle assunzioni di personale a tempo indeter-minato di qualifica non dirigenziale – la stessa rileva, ai fini che ci occupano, per i c.d. resti assunzionali, atteso che, come già espresso dalla Sezione delle au-tonomie con delib. n. 25/2017/Qm, “c) i resti assun-zionali sono rappresentati dalle capacità assunzionali maturate e quantificate secondo le norme vigenti ra-tione temporis dell’epoca di cessazione dal servizio del personale ma non utilizzate entro il triennio suc-cessivo alla maturazione. Detta quantificazione rima-ne cristallizzata nei predetti termini”.

In disparte l’attualizzazione del periodo di riferi-mento per il calcolo dei resti assunzionali (non più triennio ma quinquennio precedente) alla luce delle recenti novità legislative sopra riportate, pone dei li-miti al c.d. turn over per il personale non dirigenziale, più stringenti rispetto a quelli dell’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014, delineando un budget di spesa ridotto, pari al 25 per cento di quella relativa al personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale, cessato l’anno precedente.

Tale norma, dunque, che imponeva, per il solo triennio 2016-2018, limiti più stringenti alle assunzio-ni di personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale, incide, rispetto al triennio 2019-2021, sul quantum di spesa disponibile, ai fini della determina-zione dei resti assunzionali, che l’ente potrà utilizzare, nel rispetto della previsione generale di cui all’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014 (che, come già detto, non pone al-cuna distinzione tra personale dirigenziale e non diri-genziale) e della programmazione dei fabbisogni di personale, ex art. 6 del d.lgs. n. 165/2001.

Riassuntivamente si ribadisce che:

a) entrambe le disposizioni richiamate si caratte-rizzano per la loro dimensione finanziaria (hanno co-me obiettivo la riduzione della spesa di personale per esigenze di finanza pubblica);

b) l’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014 è una norma a regi-me e prevede la possibilità, dal 2018, di reintegrare interamente le cessazioni dell’anno precedente (il 100 per cento della spesa), senza distinzioni tra categorie di personale. Nel triennio 2016-2018 la percentuale era inferiore e crescente (60 per cento della spesa ne-gli anni 2014 e 2015 e 80 per cento della spesa negli anni 2016 e 2017);

c) l’art. 1, c. 228, l. n. 208/2015 è una norma tran-sitoria, limitata al triennio 2016-2018 e prevede la possibilità di effettuare assunzioni a tempo indetermi-nato di personale non dirigente nella misura del 25 per cento della spesa delle corrispondenti cessazioni dell’anno precedente;

d) la Sezione delle autonomie (n. 16/2016) ha sta-bilito che, nel triennio 2016-2018, la disposizione di cui al punto c), più restrittiva, dovesse prevalere su quella di cui al punto b), “sostituita e da disapplicare”;

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e) la Sezione delle autonomie (n. 25/2017) precisa che: la facoltà assunzionale è uno “spazio finanzia-rio”; vale la norma vigente nell’anno che fissa la “ca-pacità di competenza”, cui si sommano i resti assun-zionali; i resti assunzionali sono quelli maturati nel triennio precedente in base alle norme vigenti ratione temporis.

La richiamata norma transitoria nel triennio 2016-2018 produce due effetti: sulla capacità assunzionale rende possibili assunzioni a tempo indeterminato di personale non dirigenziale pari a un quarto della spesa per cessazioni dell’anno precedente; sui resti assun-zionali produce uno spazio finanziario pari al 25 per cento della spesa, utilizzabile, nel 2019, dalla norma a regime, che non prevede differenziazioni.

P.q.m., la Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima po-sta dalla Sezione regionale di controllo per la Puglia con la delib. n. 30/2019, enuncia i seguenti principi di diritto: “i valori economici delle capacità assunziona-li 2019-2021 per il personale dirigenziale e non diri-genziale riferiti alle cessazioni dell’anno precedente, ai sensi dell’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014, possono esse-re cumulati fra loro al fine di determinare un unico budget complessivo utilizzabile indistintamente per assunzioni riferite ad entrambe le tipologie di perso-nale, dirigenziale e non, in linea con la programma-zione dei fabbisogni di personale, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 165/2001, e nel rispetto dei vincoli finan-ziari previsti dalla legislazione vigente. Tale principio vale anche ai fini dell’utilizzo dei c.d. resti assunzio-nali, per i quali si fa presente che, alla luce delle re-centi novità legislative di cui all’ art. 14-bis, c. 1, lett. a), d.l. n. 4/2019, il riferimento “al quinquennio pre-cedente” è da intendersi in senso dinamico, con scor-rimento e calcolo dei resti, a ritroso, rispetto all’anno in cui si intende effettuare le assunzioni”.

20 – Sezione delle autonomie; deliberazione 24 luglio 2019; Pres. Buscema, Rel. Iamele, Franchi; Linee gui-da.

Corte dei conti – Enti locali – Misure di conteni-mento e razionalizzazione della spesa – Verifiche – Indicazioni metodologiche. D.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modifica-zioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, disposizioni ur-genti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012, art. 6.

La deliberazione approva il documento concernen-te le metodologie per lo svolgimento, in modo omoge-neo, dei controlli da parte delle sezioni regionali, volti alla verifica della corretta attuazione delle misure di-rette alla razionalizzazione della spesa degli enti ter-ritoriali. Ai predetti fini, la Sezione delle autonomie ha individuato negli indicatori della banca dati Open-civitas uno strumento di ausilio per la gestione delle risorse pubbliche locali, nell’ottica del rispetto non

formale degli obblighi di legge, oltre che per l’effettuazione dei controlli necessari alla verifica del-le predette misure. La delibera approva, in uno con le metodologie, un questionario, con il quale le sezioni regionali potranno, sulla base dei dati forniti dal pre-detto sistema Opencivitas, raccogliere gli elementi in-formativi necessari all’espletamento dei controlli re-lativi all’avvenuto rispetto della normativa in materia di riduzione di alcune voci di spesa, nonché all’adozione di misure gestionali tese a superare mo-menti di particolare criticità per gli equilibri finanzia-ri degli enti locali monitorati (in fase di prima appli-cazione quelli selezionati anche in base alla classe demografica di appartenenza). I suddetti elementi in-formativi costituiranno la base per la predisposizione del referto che la Sezione delle autonomie deve rende-re al Parlamento. (1)

Premessa – L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico definisce (1) la revisione della spesa (in seguito, Rs) come un vero e proprio processo di valutazione della performance delle politiche pub-bliche, contraddistinto dalla individuazione ex ante, da parte delle singole amministrazioni, di specifici piani di riduzione della spesa, da perseguirsi attraverso una sua ristrutturazione ad obiettivi immutati (revisione funzionale) ovvero mediante una riparametrazione de-gli stessi (revisione strategica).

(1) Opencivitas è una banca dati gestita da Sose s.p.a. che

raccoglie, con riferimento a specifici servizi (amministrazione, polizia locale, istruzione, viabilità e territorio, rifiuti, sociale e asili nido), elementi informativi riguardanti tutti i comuni e specificatamente la loro spesa storica, i fabbisogni standard, le spese di personale, nonché il peso pro-capite delle diverse voci di bilancio. Sulla base degli anzidetti elementi è realizzabile per gli enti un confronto fra spesa storica e fabbisogni standard, da un lato, e fra livello effettivo delle prestazioni rese e livello quantitativo delle stesse, dall’altro, oltre che è possibile misura-re il rapporto fra costi e risultati della gestione posta in essere. All’interno della banca dati gli enti sono classificati in base alla spesa storica ed ai fabbisogni standard in quattro gruppi: 1. ef-ficienti (quelli che mostrano una spesa storica inferiore ai fab-bisogni e prestazioni superiori allo standard); 2. efficaci in de-ficit (quelli che mostrano una spesa storica superiore ai fabbi-sogni e prestazioni superiori allo standard); 3. inefficaci (quelli che mostrano una spesa storica inferiore ai fabbisogni e presta-zioni inferiori allo standard); 4. inefficienti (quelli che mostra-no una spesa storica superiore ai fabbisogni e prestazioni infe-riori allo standard).

Il questionario approvato con la deliberazione in commento ha lo scopo di assicurare l’omogeneità delle attività di verifica svolte da parte delle sezioni regionali di controllo in attuazione dell’art. 6 d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, e risulta suddiviso in tre sezioni, la prima delle quali riguarda l’assetto normativo, men-tre la seconda pone l’attenzione sul rispetto della riduzione per-centuale delle voci di spesa oggetto di tagli da parte del legisla-tore e, infine, la terza sezione è rivolta a riscontrare l’implementazione di misure gestionali volte a superare even-tuali situazioni di criticità per gli il mantenimento degli equili-bri finanziari degli enti.

(1) Cfr. il documento Oecd, Spending review, Gov-Pgc-Sbo 82013) 6, 28 maggio 2013.

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Sulla base di tali concetti, sembrano lontani da tale accezione di Rs tutti quegli interventi normativi, quel-le manovre di taglio della spesa pubblica che non comportano una riconsiderazione dei processi e dei prodotti offerti dalla pubblica amministrazione o, in altri termini, che prescindono da qualsiasi valutazione dei programmi di spesa e della loro efficacia.

Anche la Sezione delle autonomie, nella delib. n. 20/2014 (2), ha differenziato la Rs “ideale” da quella “storica”: la prima ha l’obiettivo principale di indivi-duare misure di risparmio selettivo e di contrasto agli sprechi, fondate su una valutazione di sistema della spesa pubblica, che ne individui sia le priorità che i meccanismi di controllo, mentre la seconda si è tradot-ta in varie norme, quali, ad esempio, d.l. 7 maggio 2012, n. 52, convertito dalla l. 6 luglio 2012, n. 94 (c.d. spending review n. 1), d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 135 (c.d. spending review n. 2) e d.l. 24 aprile 2014, n. 66, convertito dal-la l. 23 giugno 2014, n. 89.

In coerenza con tale quadro concettuale, anche al-tre articolazioni della Corte hanno dedicato a tale ul-tima tipologia di Rs grande attenzione, affrontando vari suoi profili (3).

1. L’attuale quadro normativo

L’art. 6, c. 3, d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 dispone che “la Sezione delle autonomie della Corte dei conti […] definisce le metodologie necessarie per lo svol-gimento dei controlli per la verifica dell’attuazione delle misure dirette alla razionalizzazione della spesa pubblica degli enti territoriali. Le sezioni regionali effettuano i controlli in base alle metodologie suddette e, in presenza di criticità della gestione, assegnano alle amministrazioni interessate un termine, non supe-riore a trenta giorni, per l’adozione delle necessarie misure, dirette a rimuovere le criticità gestionali evi-denziate e vigilano sull’attuazione delle misure cor-rettive adottate. La Sezione delle autonomie riferisce al Parlamento in base agli esiti dei controlli effettua-ti”.

La norma è stata scrutinata favorevolmente dalla Corte costituzionale che, con sent. n. 39/2014, ha for-

(2) Relazione al Parlamento sugli andamenti della finanza

territoriale per gli anni 2011-2012-2013. (3) Cfr., da ultimo, sul ruolo della Rs nell’ambito delle poli-

tiche di bilancio Corte dei conti, Sez. riun. contr., Rapporto di coordinamento della finanza pubblica 2018, 12 luglio 2018, 159 ss. La Sez. centr. contr. gestione, con delib. n. 23/2014, ha approvato la relazione su “Gli interventi di riduzione degli as-setti organizzativi e delle dotazioni organiche delle ammini-strazioni dello Stato” relativa a 16 ministeri. Numerose sezioni di controllo, pur fuori dallo schema di cui all’art. 6 d.l. n. 174/2012, hanno fornito il loro contributo con approfondite indagini in materia di Rs. Cfr. Sez. contr. reg. Siciliana, n. 417/2013, in materia di partecipate della Regione Siciliana, e n. 402/2013, recante una specifica indagine sulle partecipate delle province e dei comuni capoluogo della regione; Sez. contr. reg. Lazio, in tema di sanità, Relazione di accompagnamento alla decisione di parifica per l’esercizio finanziario 2013-vol. II, par. 7.2.

nito sulle stesse rilevanti coordinate ermeneutiche so-prattutto sotto il profilo della natura di tali verifiche.

È stato innanzitutto escluso che tali norme siano lesive delle autonomie territoriali “in quanto non de-terminano misure repressive e sanzionatorie sugli enti controllati, rimettendo alle amministrazioni controlla-te l’adozione delle misure correttive in esito alle even-tuali situazioni critiche della gestione rilevate dalle sezioni regionali della Corte dei conti”.

D’altra parte, tale disciplina, “in quanto strumenta-le a più tipi di attività di controllo, rimane nell’alveo dei controlli di natura collaborativa e di quelli di le-gittimità-regolarità istituiti per assicurare il rispetto dei vincoli derivanti dal diritto dell’Unione europea, in quanto limitati all’applicazione di metodologie di controllo della spesa pubblica degli enti territoriali funzionali ad assicurare, in vista della tutela dell’unità economica della Repubblica e del coordi-namento della “finanza pubblica allargata” […], la sana gestione finanziaria del complesso degli enti ter-ritoriali, nonché il rispetto […] degli obiettivi di go-verno dei conti pubblici concordati in sede europea”.

Ciò premesso, occorre considerare che gli inter-venti in tema di risparmio di spese sono stati avviati, invero, fin dal 2011, quando la crisi economica impo-neva il ricorso a politiche di bilancio di tipo restrittivo. Nell’attuale quadro normativo, le specifiche norme di legge che si sono succedute – dal d.l. 6 luglio 2012, n. 95 convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 135 (c.d. spen-ding review n. 2) fino alle più recenti disposizioni (l. 30 dicembre 2018, n. 145-legge di bilancio 2019 sul conseguimento del risultato di competenza non nega-tivo, determinato ai sensi del d.lgs. n. 118/2018) – perseguono, da un lato, l’obiettivo del superamento del criterio della spesa storica e, dall’altro, spingono la discrezionalità degli enti ad indirizzarsi verso una rial-locazione selettiva delle risorse, promuovendone un impiego efficiente.

Con riferimento al primo obiettivo, un ruolo im-portante è svolto dai fabbisogni standard, introdotti dall’art. 2, lett. f), l. n. 42/2009, che fungono da crite-rio di ripartizione del fondo di solidarietà comunale, secondo una misura che, nelle leggi di stabilità succe-dutesi dal 2015 al 2018, è stata fissata, rispettivamen-te, nel 20 per cento, 30 per cento, 40 per cento e 55 per cento al fine di determinarne i trasferimenti pere-quativi (4). I fabbisogni standard di ciascun ente, ela-borati da un’apposita Commissione centrale incardina-ta presso il Ministero dell’economia e delle finanze (art. 1, c. 29, legge di stabilità 2016) e annualmente rideterminati con uno specifico decreto, sono stati tra-sfusi in appositi d.p.c.m., che definiscono di anno in anno l’entità di ciascuna assegnazione di risorse ai singoli comuni (art. 1, c. 32, legge di stabilità 2016).

(4) Come nella ripartizione illustrata in precedenza le risorse

sono assegnate agli enti in base a quote percentuali che s’incrementano di anno in anno: 20 per cento nel 2015, 30 per cento nel 2016, 40 per cento nel 2017, 55 per cento nel 2018, e così via.

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Sin dalla loro definizione normativa, i fabbisogni standard hanno svolto un ruolo significativo in tema di Rs, perché declinano le esigenze finanziarie dell’ente locale, assicurando la giusta misura tra costi e presta-zioni. Essi non rappresentano, però, solo un criterio per l’attribuzione delle risorse, tanto è vero che il c. 2 dell’art. 2 citato definisce i costi e i fabbisogni stan-dard come indicatori che, “valorizzando l’efficienza e l’efficacia”, consentono di comparare e valutare l’azione pubblica.

In sintesi, a partire dal 2010, dalla fase dei tagli li-neari alle risorse ancora quantificate in base alla spesa storica, si passa, poi, nel 2015 a prevedere l’allocazione di una quota crescente dei trasferimenti ai comuni a copertura delle funzioni-servizi fonda-mentali, enunciate in base alla differenza tra fabbiso-gni standard e capacità fiscale.

Non va sottaciuta, infine, la circostanza che, dopo un periodo che ha registrato un certo calo di attenzio-ne nei confronti delle problematiche connesse alla Rs, entrambe le risoluzioni parlamentari con le quali è sta-to approvato il Documento di economia e finanza 2019 hanno impegnato il Governo “ad adottare un piano di razionalizzazione, riqualificazione e di revi-sione della spesa pubblica e in particolare delle ammi-nistrazioni pubbliche, di cui all’art. 1, c. 2, l. 31 di-cembre 2009, n. 196, degli enti pubblici, nonché delle società controllate direttamente o indirettamente da amministrazioni pubbliche che non emettono strumen-ti finanziari in mercati regolamentati”.

Il presente documento, pertanto, intende fornire in materia, seppur sotto il profilo limitato agli enti terri-toriali, il contributo neutrale e indipendente di questa Corte.

2. Gli strumenti per le verifiche sulla razionalizzazio-ne della spesa

Definito il quadro normativo, occorre precisare che le linee guida emanate da questa sezione, sebbene sia-no finalizzate, in via primaria, ad uniformare le attivi-tà di verifica svolte dalle sezioni regionali, hanno, al-tresì, lo scopo di sostenere il continuo processo di cambiamento del management degli enti territoriali.

Per tale ragione le metodologie necessarie ad effet-tuare i controlli volti alla verifica dell’attuazione delle misure dirette alla razionalizzazione della spesa pub-blica, utilizzando gli indicatori della banca dati Open-civitas. rappresentano uno strumento di ausilio nella gestione delle risorse pubbliche locali che deve incide-re positivamente nel sistema di governance in cui l’ente è inserito.

In particolare, l’applicazione di tali metodologie deve condurre gli amministratori verso una nuova cul-tura gestionale adattata al relativo contesto ammini-strato, abbandonando definitivamente la mera adesio-ne ad uno schema standardizzato di formalismo com-portamentale burocratico imposto dall’esterno. In con-siderazione delle notizie che forniscono sul piano si-stematico ai decisori pubblici, occorre, pertanto, uti-lizzare gli indicatori e i questionari, oltre che sotto il

profilo dell’osservanza formale di un obbligo, anche per ottimizzare i risultati del processo decisionale, nel-la consapevolezza che il management trasforma le in-formazioni nella selezione delle politiche pubbliche locali.

Le indicazioni fornite da Opencivitas e sistematiz-zate nei questionari elaborati da questa sezione rap-presentano uno schema avanzato per comporre ad uni-tà fattori interni ed esterni all’ente locale e per l’implementazione dei sistemi di programmazione, di controllo, di valutazione e di rendicontazione.

L’analisi degli indicatori Opencivitas e delle risul-tanze delle verifiche eseguite dalle Sezioni regionali di controllo deve promuovere relazioni dialogiche inter-ne all’ente locale consentendo il confronto tra l’Organo politico e la struttura amministrativa sulle scelte operate, sulle attività svolte, sul livello dei ser-vizi resi e, alla luce delle criticità riscontrate, sulle ini-ziative da intraprendere per superare anche eventuali criticità gestionali.

Questa Corte ha più volte sottolineato l’importanza della programmazione nel suo aspetto dinamico e plu-ralistico in un’ottica di maggiore efficienza ed effica-cia dell’azione amministrativa.

Il nuovo modo di intendere la programmazione, la gestione e la rendicontazione delle spese pubbliche valorizza la variabile temporale nell’impiego delle ri-sorse acquisite (Sez. autonomie, n. 4/2015), ponendo l’attenzione sulla sostenibilità della gestione necessa-ria ad assicurare gli equilibri finanziari del bilancio.

Tale aspetto è stato più volte ribadito anche dalla giurisprudenza costituzionale che ha indicato concre-tamente, quale metodo di gestione volto ad assicurare il permanere degli equilibri di bilancio, il rispetto dei principi contabili mediante un coinvolgimento di tutti i responsabili affinché le amministrazioni pubbliche territoriali possano dotarsi di strumenti di programma-zione e di rendicontazione che siano fedelmente rap-presentativi della loro situazione economico-finanziaria e pienamente rispettosi dei canoni della sa-na gestione finanziaria e contabile tutelati dal novella-to art. 97 della Costituzione.

L’ente locale, quale sistema organico che organiz-za gli apparati amministrativi a cui sono intestate le prerogative gestionale per attuare le attività necessarie all’erogazione dei servizi, deve formulare le linee programmatiche tenendo conto anche delle risultanze del controllo di gestione. Questo, infatti, comprende una serie di operazioni attraverso le quali i responsabi-li dei servizi verificano continuamente il perseguimen-to degli obiettivi, assegnati preventivamente, impie-gando le risorse con criteri di economicità.

Funzionalmente la Rs collegata alla compilazione dei questionari deve essenzialmente rientrare, per affi-nità di materia e per la natura delle informazioni che utilizza, nella competenza del responsabile del con-trollo di gestione di ciascun ente locale. In tal senso, le note metodologiche di cui al d.p.c.m. 23 luglio 2014 precisano che il “controllo di gestione ha la finalità di assicurare il coordinamento dei processi di pianifica-

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zione, approvvigionamento, gestione contabile e con-trollo delle risorse economiche e finanziarie dell’ente”.

La valenza della funzione di coordinamento risulta ancora più pregnante con riferimento alla particolare complessità di un ente locale dovuta al suo spiccato polimorfismo funzionale e organizzativo, ai frequenti mutamenti delle competenze attribuite ovvero delle risorse assegnate dalla legislazione nazionale e alle pressanti dinamiche dei contesti (direttamente) gover-nati.

Il sistema informativo Opencivitas, combinato, a monte, con un sistema di controllo e, a valle, con una sana gestione finanziaria, può sostenere i processi di cambiamento culturale e organizzativo indispensabili per adottare effettive misure di Rs, pur mantenendo un adeguato livello di prestazione dei servizi resi alla comunità.

In definitiva, anche secondo i già delineati indirizzi interpretativi della Corte costituzionale il complessivo quadro normativo orienta la verifica dell’attuazione delle misure di razionalizzazione della spesa degli enti locali, da una parte, verso il riscontro dell’ottemperanza alla normativa innanzi citata sul suo contenimento, e, dall’altra, verso la valutazione dell’adeguatezza tra le risorse impiegate e i risultati conseguiti, come presupposto per la sostenibilità e gli equilibri dei bilanci.

Da ciò consegue che, al tradizionale controllo di legittimità-regolarità contabile, occorre affiancare strumenti di verifica che consentano di svolgere un vero e proprio “controllo sulla gestione” dell’ente, av-valendosi di indicatori complessi in grado di cogliere i rapporti tra input-risorse finanziarie e output-livello dei servizi.

Con riferimento agli indicatori citati, l’apposito Gruppo di lavoro istituito presso la Sezione delle au-tonomie ha ritenuto di individuarne una utile fonte nella banca dati Opencivitas (gestita dalla Sose s.p.a., partecipata del Ministero dell’economia e delle finan-ze) che – occorre sottolineare – rende pubblici ai cit-tadini e agli enti stessi, per ciascun comune delle re-gioni a statuto ordinario, i c.d. “fabbisogni standard”, calcolati come le risorse finanziare ottimali in grado di finanziarie le funzioni e i servizi fondamentali intestati agli enti.

Tale calcolo richiede la raccolta di numerosi dati forniti dagli enti stessi (5), oltre all’analisi delle caratte-ristiche territoriali e socio-demografiche dei territori, consentendo, tra l’altro, l’elaborazione di un indicato-re riguardante i servizi resi, definito “livello quantita-tivo delle prestazioni”, che approssima, in via conosci-tiva, la funzione che sarà svolta dai livelli essenziali delle prestazioni (c.d. “Lep” ex art. 117, lett. m, Cost.), una volta che saranno individuati dal legislato-re.

Attualmente la banca dati Opencivitas, quindi, è in grado di fornire, con riferimento a ciascun comune e

(5) Attraverso un questionario predisposto dalla Sose.

per alcuni servizi, un confronto tra spesa storica e fab-bisogno standard, da un lato, e tra livello effettivo del-le prestazioni rese (a fronte della spesa storica soste-nuta) e livello quantitativo delle prestazioni, dall’altro. In tal senso, Opencivitas non è solo un portale d’accesso alle informazioni degli enti locali, ma si profila anche come un’iniziativa che promuove la tra-sparenza e l’accessibilità alle informazioni sulla ge-stione delle risorse pubbliche. In pratica gli enti locali che intendono utilizzare il portale, possono analizzare i risultati gestionali conseguiti nelle funzioni fonda-mentali ed effettuare confronti di benchmark, grazie ad alcuni parametri di giudizio rappresentati dagli in-dicatori idonei a testare l’efficienza e la qualità della spesa, in seno alle funzioni-servizi fondamentali. Gra-zie ad indicatori come l’efficacia, l’efficienza, la spesa pro capite e il peso del personale, gli enti locali sono messi in grado di conoscere il rapporto tra costi e ri-sultati, nonché di misurare i vantaggi che nascono dal ricorso ai fabbisogni standard rispetto alla spesa stori-ca.

I valori assunti da questi due indicatori collocano graficamente ciascun Comune in una matrice divisa in quattro settori che, attribuendo sostanzialmente un ra-ting, individuano, rispettivamente, quattro classi di en-ti: quelli con spesa storica maggiore del fabbisogno e prestazioni inferiori allo standard (inefficienti); quelli con spesa storica inferiore al fabbisogno e prestazioni inferiori allo standard (inefficaci); quelli con spesa storica maggiore del fabbisogno e prestazioni superio-ri allo standard (che possiamo definire efficaci in defi-cit); quelli con spesa storica inferiore al fabbisogno e prestazioni superiori allo standard (efficienti). La ban-ca dati consente, inoltre, grazie ad una sezione apposi-ta, di calibrare la valutazione effettuata sul singolo Comune attraverso il confronto, anche interregionale, con altri enti aventi caratteristiche simili.

Si tratta, in definitiva, di strumenti che, partendo dai profili finanziari, sono in grado di connettere que-sti, in via sintetica, con le capacità gestionali degli en-ti, prospettando all’operatore eventuali linee istruttorie per indagare le cause all’origine della mancata soste-nibilità dei bilanci degli enti stessi.

Nella realtà odierna l’approccio metodologico con-sentito dai fabbisogni standard è considerato come una buona pratica sia con riguardo alla progettazione dei sistemi di finanziamento dei governi locali, ma anche, come fin qui prospettato, per la definizione di un con-trollo innovativo sulla gestione e sulla stabilità finan-ziaria degli enti stessi.

3. Le metodologie della Sezione delle autonomie ex art. 6, c. 3, d.l. n. 174/2012: il questionario normativo e le risultanze in termini di qualità della spesa nella banca dati Opencivitas

Come si è già anticipato, il contenuto della dispo-sizione di cui all’art. 6, c. 3, d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 finisce per orientare l’elaborazione delle metodo-logie previste dalla norma impostandola sulla base di verifiche aventi, da una parte, per parametro le norme

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vigenti in tema di contenimento della spesa e di perse-guimento degli equilibri di bilancio, secondo il criterio della salute finanziaria, e, sotto altro profilo, anche la valutazione degli indicatori gestionali di efficienza e qualità della spesa.

L’ambito d’indagine, pertanto, viene articolato in due settori.

Il primo è volto alla verifica degli adempimenti normativi a fronte delle norme di contenimento della spesa, attraverso lo strumento consolidato del questio-nario normativo, nelle forme già adottate per i control-li di cui all’art. 1, c. 166, l. 23 dicembre 2005, n. 266 (6).

Il secondo, invece, attraverso l’analisi dei dati di-sponibili sulla banca dati Opencivitas, è finalizzato alla valutazione dell’efficacia e della qualità della spe-sa, alla luce degli indicatori di spesa e gestionali de-scritti al paragrafo precedente, nonché delle analisi dei trend di spesa e del benchmarking tra enti.

Più dettagliatamente, il questionario indirizza le verifiche in tre direzioni corrispondenti alla tre sezioni nel quale è suddiviso.

Nella prima sono contenuti i quesiti relativi agli adempimenti giuridici in tema di Rs, cui gli enti sono tenuti a fornire puntuale risposta In particolare, le prime domande (sezione I da 1.1 a 1.24) sono state finalizzate ad evidenziare la razionalizzazione della spesa e il conseguimento dei risparmi, in quanto impu-tabili al ricorso ai soggetti aggregatori, con particolare riguardo ai casi di utilizzo delle convenzioni Consip, ovvero al Mepa o ad altri mercati elettronici. Le do-mande immediatamente successive (sezione II da 2.1 a 2.27) pongono l’attenzione sul rispetto della ridu-zione percentuale di talune tipologie di spesa, con fis-sazioni di limiti di importo e deroghe agli stessi che si rinvengono nelle relative norme (dal d.l. n. 78/2010 al d.l. n. 50/2017).

La terza sezione (quesiti da 3.1 a 3.12) è, invece, volta a riscontrare l’implementazione di eventuali mi-sure gestionali adottate dall’ente che può ricorrervi ogni qual volta versi in circostanze di criticità tali da porre a repentaglio la propria sana gestione. Fanno parte di questa sezione gli ultimi quesiti i quali afferi-scono a scelte discrezionali che attestano il libero ri-corso a interventi improntati al contenimento della spesa.

L’ambito istruttorio relativo alla valutazione dell’efficacia e della efficienza della spesa si avvale, come riferito, delle rilevazioni e delle elaborazioni svolte dalla Sose e pubblicate sulla banca dati Open-civitas (accessibile a qualsiasi utente all’indirizzo <www.opencivitas.it>) con riferimento ai comuni, alle province e alle città metropolitane delle regioni a sta-

(6) Al riguardo si evidenzia che precedentemente una sezio-

ne concernente il contenimento della spesa è stata espunta dai questionari dei controlli citati. Solo relativamente all’esercizio 2014, le relative linee guida sul rendiconto degli enti locali hanno previsto una sezione dedicata al contenimento delle spe-se, con 13 appositi quesiti.

tuto ordinario. Gli ultimi dati disponibili, ad oggi, so-no relativi agli esercizi 2016. Al riguardo la società Sose intende migliorare la tempestività della pubbli-cazione dei risultati, i quali tuttavia, avendo come fon-te i rendiconti degli enti e richiedendo successive complesse elaborazioni con elementi extracontabili, anche a regime presenteranno uno scarto temporale maggiore rispetto alla disponibilità dei dati di consun-tivo.

In particolare, la banca dati offre informazioni re-lative alla spesa relativa alle funzioni e ai servizi “amministrazione”, “polizia locale”, “istruzione”, “viabilità e territorio”, “rifiuti”, “sociale”, “asili nido”, nonché alla spesa relativa al totale delle funzio-ni/servizi.

Le elaborazioni consultabili su Opencivitas sono complessivamente quattro e sono denominate sinteti-camente “Cerca”, “Naviga”, “Confronta” e “Analisi della performance”.

Benché tutte le informazioni contenute nella banca dati rivestano particolare interesse e offrano dati, noti-zie e spunti per una valutazione sulla qualità della spe-sa e, indirettamente, sulle capacità gestionali dell’ente, tuttavia si ritiene che, quali strumenti istruttori, siano particolarmente idonee agli scopi perseguiti, le consul-tazioni riferite alle pagine “Analisi della performance” e “Confronta”, che possono pertanto trovare ingresso, quale parametro uniforme di controllo, all’interno del-le presenti metodologie.

L’illustrazione delle prime due pagine, sintetica-mente indicate come “Cerca” e “Naviga”, è invece contenuta nell’allegata nota metodologica che forni-sce, oltre alle indicazioni per la compilazione e l’invio del questionario, anche ogni nozione utile alla consul-tazione del portale Opencivitas.

La pagina denominata “Confronta”, consente di raffrontare, con riferimento al totale e alle singole funzioni, fino a quattro enti che possono essere scelti sulla base della dimensione demografica (il cui dato viene visualizzato), attraverso gli indicatori della “spesa storica”, dei “fabbisogni standard”, e della dif-ferenza, in valore assoluto e in percentuale, tra queste due grandezze, nonché del livello della spesa e dei servizi, resi attraverso graficamente con simboli (ri-spettivamente dell’euro e delle stelle) in una scala da 0 a 10. È possibile, per altro, tener conto, ai fini del con-fronto, di eventuali informazioni non disponibili per l’ente prescelto, ad esempio relative a “servizi non va-lutabili” o “servizi con spesa storica non valutabile”.

La scelta di consultazione denominata “Analisi della performance” colloca l’ente (7) (o gli enti) ogget-to di valutazione in un grafico, le cui coordinate sono rappresentate dal livello della spesa e dal livello dei servizi erogati, suddiviso in quattro quadranti che cor-rispondo a quattro diverse situazioni possibili: a) i comuni collocati nella parte del grafico in basso a de-stra che “sostengono una spesa storica superiore al

(7) Nel sito si specifica che i comuni “sono visualizzati solo

se valutabili in termini di spesa e di servizi erogati”.

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fabbisogno standard ed erogano servizi in misura mi-nore rispetto ai servizi mediamente offerti dai comuni della stessa fascia di popolazione” (che possiamo de-finire inefficienti); b) in alto a sinistra si collocano i comuni che “una spesa storica inferiore al fabbisogno standard e un livello dei servizi erogato superiore ri-spetto alla media dei comuni della stessa fascia di po-polazione” (che possiamo definire efficienti); c) in basso a sinistra i comuni che “sostengono una spesa storica inferiore al fabbisogno standard ed erogano servizi in misura minore rispetto ai servizi mediamen-te offerti dai comuni della stessa fascia di popolazio-ne” (che possiamo definire inefficaci); d) in alto a de-stra, i comuni che “registrano una spesa storica supe-riore al fabbisogno standard e un livello dei servizi erogato superiore rispetto alla media dei comuni della stessa fascia di popolazione” (che possiamo definire efficaci in deficit).

Le coppie di situazioni a)-b) e c)-d) possono, dun-que, definirsi sostanzialmente opposte.

Tale collocazione grafica, pertanto, visualizza chiaramente, come anticipato, una sorta di valutazione di rating attribuita a ciascun ente.

In un contesto di rinnovata programmazione del controllo, le metodologie esaminate e preordinate all’esame di sana gestione, valorizzano la semplifica-zione e l’alleggerimento delle istruttorie, che sono poi criteri di indirizzo che la Sezione delle autonomie as-sume per prassi, ottimizzando l’utilizzo delle banche dati esistenti presso la stessa Corte o altre amministra-zioni.

4. Le verifiche delle sezioni regionali

Il c. 3 dell’art. 6 del d.l. n. 174/2012 stabilisce che le “Sezioni regionali effettuano i controlli in base alle metodologie suddette anche tenendo conto degli esiti dell’attività ispettiva e, in presenza di criticità della gestione, assegnano alle amministrazioni interessate un termine, non superiore a trenta giorni, per l’adozione delle necessarie misure correttive dirette a rimuovere le criticità gestionali evidenziate e vigilano sull’attuazione delle misure correttive adottate”.

In un primo approccio sperimentale qualora non sia possibile procedere prendendo in considerazione tutti gli enti di competenza, le sezioni regionali do-vranno preliminarmente individuare gli enti da verifi-care.

A tal fine, tenuto conto che, soprattutto per la parte terza del questionario, rappresenteranno interfaccia delle sezioni regionali di controllo i responsabili del controllo di gestione dei singoli enti, si suggerisce di selezionare gli stessi tenendo conto in questa fase ini-ziale di quelli con popolazione residente più numerosa nella regione che, essendo più strutturati dal punto di vista organizzativo, dovrebbero aver già maturato si-gnificative e consolidate esperienze in materia di con-trollo di gestione.

Detto criterio di scelta potrà essere combinato con quello basato sullo “stato di salute finanziaria” dell’ente, quale emerge dai risultati dei riscontri di cui

all’art. 1, cc. 166 ss., l. 23 dicembre 2005, n. 266. In questa sede l’analisi coincide con l’individuazione delle criticità gestionali, o, per così dire, dei possibili “punti di pressione” economico-finanziari che finisco-no per gravare sui saldi di bilancio.

Con riferimento agli enti così individuati, la sezio-ne regionale analizza, da un lato, le risultanze del que-stionario, e, dall’altro, le informazioni gestionali e di benchmarking desunte, rispettivamente, dalle pagine “Analisi della performance” e “Confronta” relative alle caratteristiche della spesa sostenuta e ai risultati conseguiti dall’ente, quali si desumono dalle informa-zioni presenti in Opencivitas.

I dati emersi dall’analisi gestionale, congiuntamen-te agli esiti della verifica sugli adempimenti normativi in tema di contenimento della spesa e alle risultanze dei controlli sulla salute finanziaria, consentiranno quindi di effettuare una valutazione istruttoria a tutto tondo sia sulla sana gestione, sia sulla effettiva soste-nibilità finanziaria del bilancio e degli equilibri dell’ente esaminato.

Ne consegue, pertanto, la natura composita delle presenti metodologie che riflette la stessa natura diffe-renziata dei controlli sulla razionalizzazione della spe-sa. Tali controlli, infatti, uniscono alle verifiche di le-gittimità e regolarità contabile (concernenti gli adem-pimenti normativi indagati, in particolare, con la pri-ma sezione del questionario) le valutazioni più speci-ficamente incentrate sulla sana gestione le quali poi esitano in una vigilanza che, anche attraverso la com-parazione, ha la precipua funzione di indurre l’ente in direzione dell’autocorrezione, sollecitando, peraltro, la selezione e l’adozione delle scelte di spesa più idonee ad assicurare, al contempo, l’efficacia, l’efficienza e l’economicità delle gestioni, a garanzia degli equilibri di bilancio e senza sacrificio delle prestazione rese.

Le sezioni regionali, pertanto, all’esito di tale con-trollo (si raccomanda l’esatto utilizzo della codifica-zione delle delibere alla banca dati deliberazioni – Vsgo – Verifiche e referti sulla revisione della spesa art. 6, c. 3, d.l. n. 174/2012), da un lato accertano le irregolarità contabili, dall’altro evidenziano le criticità gestionali, e, ai sensi del c. 3 dell’art. 6 citato, asse-gnando all’ente un termine non superiore a trenta giorni per l’adozione delle necessarie misure corretti-ve dirette a rimuovere quanto rilevato dalla sezione, e invitando l’ente a dar conto delle iniziative intraprese in modo da consentire all’organo di controllo esterno la vigilanza sull’attuazione delle stesse.

A chiusura di tale ciclo di verifiche, infine, la stes-sa disposizione in commento prevede un referto “mo-notematico” al Parlamento che deve essere predispo-sto dalla Sezione delle autonomie sulla base degli esiti dei controlli effettuati. A tal fine va rappresentata l’esigenza che il campione di enti da verificare da par-te delle sezioni regionali sia determinato statistica-mente in modo significativo per consentire a questa sezione di poter conseguenzialmente riferire al Parla-mento con base informativa di qualità.

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Da ultimo si segnala come le presenti metodologie, pur destinate alle sezioni regionali delle regioni a sta-tuto ordinario, potranno essere di ausilio anche per le attività delle sezioni regionali di controllo delle regio-ni a statuto speciale e delle province autonome che po-tranno utilizzarle nel rispetto dei regimi di autonomia differenziata ad esse applicabili.

23 – Sezione delle autonomie; deliberazione 29 luglio 2019; Pres. Buscema, Rel. Iamele, Uccello, Provvide-ra; Analisi del sistema dei controlli interni degli enti locali.

Corte dei conti – Enti locali – Funzionamento del sistema dei controlli interni – Verifica – Referto al Parlamento. D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, recante il t.u. delle di-sposizioni sugli enti locali (Tuel); l. 5 giugno 2003, n. 131, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica italiana alla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3; d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel mag-gio 2012, art. 3.

La deliberazione approva la relazione predisposta dalla sezione per riferire al Parlamento in ordine allo stato di attuazione dei controlli interni degli enti loca-li, sulla base degli elementi informativi, forniti da 681 comuni e 92 enti di area vasta, attraverso la compila-zione di questionari, approvati dalla stessa sezione con le linee guida per l’anno 2017 e raccolti dal si-stema applicativo “Con.Te.” (Contabilità territoria-le). Le conclusioni ivi rassegnate possono costituire il presupposto per approfondimenti eventuali da parte delle competenti sezioni regionali di controllo. (1)

(1) Il rapporto illustra lo stato dei controlli interni degli enti

locali monitorati (comuni, province e città metropolitane che al 31 dicembre 2016 – da dati Istat – facevano registrare una po-polazione >15.000 abitanti), evidenziando che quelli preventivi di regolarità amministrativo-contabile e quelli successivi di re-golarità amministrativa risultano essere ampiamente diffusi e efficaci. Per quanto concerne il controllo sulla gestione solo in un terzo del campione monitorato è stato riscontrato l’utilizzo di un sistema soddisfacente di reportistica che, comunque, dif-ficilmente ha comportato ricadute significative in termini di programmazione dell’attività dell’ente. L’analisi ha dimostrato, inoltre, che per il controllo strategico mancano nella maggior parte degli enti i presupposti di fattibilità, mentre il controllo sugli equilibri finanziari è stato espletato diffusamente attraver-so l’adozione di misure corrispondenti a quelle suggerite dagli organi di controllo interno per il loro ripristino e/o conserva-zione. La maggior parte degli enti osservati ha affidato il con-trollo sulle società ad una struttura interna ed ha adottato a tal fine il bilancio consolidato secondo il criterio della competenza economica.

In conclusione, la relazione ha evidenziato che le modalità attuative dei controlli interni negli enti monitorati sono del tutto disomogenee e caratterizzate da una sostanziale assenza di mo-duli uniformi. La strutturazione bipolare degli stessi vede la

Premessa – Con il presente Referto al Parlamento, la Sezione delle autonomie torna a fare il punto sul percorso di attuazione del sistema dei controlli interni degli enti locali tenuti alla relazione annuale da adot-tare sulla base delle linee guida previste dall’art. 148 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Tuel).

L’analisi, oltre ad aggiornare il quadro delle meto-dologie di applicazione delle sei diverse tipologie di controlli interni, mira a far luce sulle caratteristiche strutturali e funzionali del sistema nel suo complesso e ad evidenziare il grado di maturazione raggiunto da ogni singolo ente.

Dato il carattere fortemente diversificato del siste-ma di controlli adottato dalle varie amministrazioni, la Corte ha stimato il “rischio di controllo” risultante dalla capacità di ciascuna di esse di prevenire, indivi-duare e correggere le irregolarità gestionali e gli errori contabili più significativi.

Questa valutazione di rischio, tuttavia, è fondata sulle opzioni di risposta prescelte (e validate) dai re-sponsabili degli enti all’interno del questionario alle-gato alle linee guida sui controlli interni effettuati nell’esercizio 2017. È necessario avvertire, al riguar-do, che le valutazioni si fondano esclusivamente sui dati comunicati e non sono stati effettuati riscontri di fatto, né condotte istruttorie nei confronti degli enti. Per tali ragioni, le conclusioni esposte assumono una valenza di valutazione complessiva e sintomatica dell’adeguatezza generale del sistema dei controlli in-terni attuato nella ristretta cerchia degli enti locali di più grandi dimensioni.

D’altra parte, una specifica funzione di valutazione della operatività del sistema dei controlli interni pres-so il singolo ente è appositamente rimessa alle sezioni regionali di controllo, che potranno avvalersi delle conclusioni della presente analisi per svolgere appro-fondimenti nei confronti degli enti che hanno manife-stato sintomi di criticità.

Ogni ente potrà, tuttavia, trarre spunti di valutazio-ne dal livello di funzionalità stimato dalla Corte in rapporto al proprio sistema di controlli interni e a quello di enti consimili, per introdurre gli opportuni correttivi e promuoverne il miglior funzionamento.

Sintesi – Attraverso il sistema dei controlli interni agli enti locali viene attuata una complessa rete di ve-rifiche, che riguardano gli aspetti salienti della gestio-ne secondo diversi approcci; tali riscontri appaiono nell’ultimo periodo di osservazione maggiormente fo-calizzati sugli aspetti della conservazione degli equili-

prevalenza di quelli di regolarità amministrativo-contabile e delle verifiche sugli equilibri finanziari, a fronte dei quali ap-paiono residuali le altre tipologie che, ove in concreto attuate, si mostrano assai differenziate e per strumenti e risorse impie-gati e per modalità attuative adottate. Alla luce delle informa-zioni raccolte nel sistema applicativo Con.Te gli enti monitorati sono stati classificati in 5 gruppi, differenziati a seconda della categoria di rischio controlli alla quale appartengono, indivi-duata, con una prima approssimazione suscettibile di successi-ve modifiche ed integrazioni, sulla base della capacità di corre-zione degli errori gestionali e finanziario-contabili.

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bri. Resta fermo che la valutazione dell’efficienza dell’azione amministrativa da parte dell’organo di controllo, alla luce dei parametri di sana gestione, par-te dall’analisi dell’assetto amministrativo e dell’organizzazione, e termina con la verifica dell’attuazione delle misure correttive.

Dopo il d.l. n. 174/2012, il funzionamento dei con-trolli interni e la valutazione di sana gestione sono di-ventati fattori assimilabili, tanto da dar luogo a riscon-tri che provengono da un punto di osservazione, che permette di rilevare, valutare e correggere le attività controllate, per indirizzarle ad un risultato più effica-ce. Ciò nonostante, le criticità riscontrate sono ancora numerose e concernono soprattutto l’assenza della contabilità analitica, l’insufficienza delle direttive, l’inadeguatezza delle tecniche di campionamento e il carente ricorso ad alcuni indicatori.

Dall’analisi risulta che nel corso del 2017 è stata riservata una maggiore attenzione all’elaborazione dei report, i cui risultati consentono di indirizzare gli or-gani per l’adozione sia di decisioni adeguatamente motivate, che di misure correttive adeguate. La reda-zione dei report è stata particolarmente accurata nel controllo di regolarità amministrativa e contabile, in quello sugli equilibri (in cui vi è il massimo incremen-to rispetto al 2016) e sugli organismi partecipati. I re-port sono propedeutici alla emanazione delle delibere (del consiglio o di giunta) contenenti l’adozione delle misure correttive. I controlli sugli equilibri finanziari sono quelli che maggiormente hanno dato luogo a mi-sure correttive. La numerosità di questi interventi cor-rettivi scaturisce, naturalmente, dal fatto di essere riu-sciti a sottoporre ad esame una vasta gamma di squili-bri.

Sia il controllo preventivo di regolarità ammini-strativa e contabile, che ripercorre i tradizionali prin-cipi di conformità a legge, regolarità e correttezza, che il parere successivo di regolarità contabile risultano di molto estesa adozione. In numerosi casi, il mancato adeguamento alle risultanze del controllo successivo di regolarità rischia di vanificare la stessa attività au-tocorrettiva dell’ente. Questo tipo di controllo ha inte-ressato diverse migliaia di atti, con irregolarità rilevate nel 10 per cento dei casi e sanate in poco meno della metà delle fattispecie.

Solo raramente gli enti, pur a fronte di un parere di regolarità tecnica o contabile negativo, hanno prose-guito nella linea adottata emanando motivate delibere di consiglio o di giunta. Viceversa, nella maggioranza dei casi, il parere negativo ha impedito l’emanazione dei provvedimenti. Le tecniche di campionamento, alla stregua delle quali viene anche esercitato il con-trollo successivo di regolarità, non appaiono ancora affidabili, perché non fondate su criteri statistici, quanto su regole empiriche o di semplice estrazione.

Nel caso in cui nel controllo di regolarità vengano riscontrate irregolarità, devono essere trasmesse ai re-sponsabili dei servizi le necessarie direttive. La valu-tazione degli esiti dipende dalla circostanza se gli or-gani di gestione vi si conformino o meno per recepire

le osservazioni formulate dall’organo del controllo. È questo il momento essenziale che permette di valutare come e quando le correzioni e i miglioramenti siano stati attuati. Il mancato adeguamento alle direttive da parte dei responsabili dei servizi, comporta che ven-gano tralasciate le azioni correttive, cui consegue il mancato raggiungimento del fine ultimo del controllo.

La maggiore consapevolezza dello stato di appli-cazione del controllo di gestione è ravvisabile nel fatto che esso è supportato da una preesistente e vasta cul-tura aziendalistica. Si impernia infatti sul duplice rap-porto tra obiettivi prefissati e azioni realizzate, nonché tra costi e risultati. La comparazione tra questi ultimi consente di pervenire alle note valutazioni di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, così come di rinvenire costantemente, secondo il prin-cipio costituzionale di buon andamento, lo stato di at-tuazione degli obiettivi programmati.

L’ottimale funzionamento del controllo di gestione richiede un sistema di contabilità analitica per centri di costo che non è instaurato diffusamente, anzi la sua adozione parziale comporta che non si riesca a fare ovunque riferimento a costi e ricavi, con l’effetto della mancata adozione sia di indicatori calibrati per verifi-care l’attuazione degli obiettivi, che di metodologie atte a correggere gli scostamenti.

Il sistema di reportistica, risultato soddisfacente in circa un terzo dei casi, non risulta comunque adeguato e sintonizzato sulle esigenze dei destinatari. Se da una parte esso permette di revisionare i programmi e di intervenire con correttivi, dall’altra evidenzia la resi-stenza dei vertici delle amministrazioni ad assorbire le criticità, intervenendo sulla programmazione. Com-plessivamente, la riduzione di report ha comportato la diminuzione delle delibere emanate e, conseguente-mente, dei provvedimenti correttivi assunti.

Nonostante le criticità, il controllo di gestione ri-mane un importante strumento in grado di influenzare l’attività amministrativa in corso di svolgimento, visto che ne ridetermina la programmazione degli obiettivi. Dal controllo di gestione è, inoltre, emerso come la copertura dei costi dei servizi a domanda solo in casi sporadici riguardi la totalità dei servizi. È emerso co-me la copertura di tutti i servizi sia compresa tra la metà e la totalità dei casi, così come la quota di servizi a domanda con una pertinente copertura dei costi si accresca moderatamente. Il grado di conseguimento degli obiettivi è stato considerato alto, in un numero di casi ben superiore alla metà degli enti.

Il controllo strategico, verificando periodicamente lo stato di avanzamento dei programmi, valuta criti-camente l’attuazione dei progetti alla luce dei risultati ottenuti. È infatti grazie al controllo strategico che gli organi di indirizzo politico sono in grado di emanare importanti deliberazioni sullo stato di attuazione dei programmi. In tale sede viene dato conto dell’adeguatezza delle risorse e del grado di soddisfa-zione degli obiettivi; inoltre, l’esito del controllo stra-tegico può anche rimettere in discussione le scelte o indurre a rimeditarle.

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L’analisi del controllo strategico rileva l’insoddisfacente uso della contabilità analitica, a fronte del consapevole e approfondito impiego degli indicatori, soprattutto di efficacia e di efficienza. La maggioranza degli enti consegue gli scopi perseguiti in una percentuale di casi che supera ampiamente il 50 per cento, mentre le delibere ricognitive dello stato di attuazione dei programmi sono, mediamente, almeno una l’anno. I parametri in base ai quali l’organo d’indirizzo politico verifica il suddetto stato della pro-grammazione sono quelli relativi sia al confronto tra obiettivi e risultati, che tra i tempi previsti e le realiz-zazioni.

Il controllo sugli equilibri finanziari attiva i pro-cessi correttivi che interrompono gli andamenti ge-stionali incompatibili con le previsioni di bilancio per ripristinare correttamente i saldi economici e finanzia-ri programmati. Tale attività di controllo si appunta sulle gestioni di competenza, cassa e residui, sulle somme vincolate, sul programma dei pagamenti, sui parametri di deficitarietà, sui vincoli di finanza pub-blica e sull’incidenza degli organismi partecipati. Dall’esperienza emerge la partecipazione consueta al controllo da parte del segretario e quella praticamente generalizzata dei responsabili dei servizi, i quali veri-ficano la compatibilità tra i pagamenti e le disponibili-tà di cassa.

L’indagine ha avuto modo di constatare che le mi-sure atte a ripristinare l’equilibrio sono state abbastan-za numerose e che c’è una tendenziale identità tra quanto richiesto come correttivo e quanto definito nel ripristinare l’equilibrio, con una conseguente concre-tezza e incisività del controllo stesso. Mentre le norme di salvaguardia degli equilibri sono state per lo più applicate, le importanti segnalazioni di criticità del re-sponsabile finanziario a una pluralità di organi (art. 153, c. 6, Tuel) sono state trasmesse con estrema rari-tà. Inoltre, se le situazioni finanziarie di competenza, cassa e residui fossero tenute ancor più sotto controllo, esse si combinerebbero con le verifiche condotte ex art. 1, c. 166, l. n. 266/2005, raggiungendo valutazioni di maggiore consapevolezza. Viceversa, prevale negli enti un atteggiamento limitato ad una logica adempi-mentale per l’osservanza dei vincoli di bilancio.

Nel controllo sulle società partecipate l’ente pro-prietario organizza un idoneo sistema informativo, fi-nalizzato a rilevare i rapporti finanziari con la società, la situazione contabile, gestionale e organizzativa del-la stessa, i contratti di servizio e la loro qualità, non-ché il rispetto delle norme sui vincoli di finanza pub-blica. Tutti questi aspetti si articolano in una moltepli-cità di elementi conoscitivi, indispensabili per effet-tuare il monitoraggio sull’andamento della società e introdurre le misure correttive. La maggioranza degli enti ha anche affidato, correttamente, l’esercizio del controllo a proprie strutture. Il controllo sugli organi-smi partecipati presuppone la redazione del bilancio consolidato secondo la competenza economica, grazie al quale vengono rilevati, tra l’altro, il tasso medio di

raggiungimento degli obiettivi e lo stato di applicazio-ne dei programmi.

Più dei tre quarti degli enti effettua il monitoraggio dei rapporti finanziari, economici e patrimoniali con le partecipate, dimostrando come l’introduzione di tale controllo costituisca la strada più adatta per meglio conoscere l’interezza degli equilibri. In quasi la metà degli enti si redigono report periodici inerenti a diversi profili d’interesse, mentre solo un terzo degli stessi ha pubblicato la Carta dei servizi. Gli indicatori elaborati e applicati sono numerosi, con una preponderanza di quelli di economicità. Risulta, invece, insufficiente il ricorso a indicatori di soddisfazione degli utenti e di deficitarietà.

Il controllo di qualità è quello più inerente a condi-zioni di avanzato sviluppo civico, in cui alle presta-zioni atte a soddisfare i bisogni si rapporta il gradi-mento dell’utenza anche in relazione a quanto indicato nelle Carte dei servizi. La qualità è un profilo bifronte, in cui agli aspetti oggettivi, che riguardano le caratte-ristiche della prestazione, si accompagnano profili soggettivi, afferenti al gradimento dell’utenza. Tutta-via, solo un quarto degli enti ha effettuato analisi sulla qualità effettiva dei servizi, sulla coerenza delle rispo-ste degli utenti alle domande e sull’attitudine dell’ente a ridurre i disagi nei casi di disservizi. Benché questo controllo sia meno diffuso, gli indicatori applicati ri-sultano adeguati e aderenti. Gli standard configurati nella Carta dei sevizi si rinvengono nei casi, non nu-merosi, di corretta programmazione degli standard di qualità. Gli enti che hanno attivato questo controllo lo rivolgono solamente ad alcuni servizi e le rilevazioni sulla soddisfazione degli utenti afferiscono ad una quota ben superiore alla metà dei casi. L’abitudine di numerosi enti a prorogare oltre l’anno la scadenza, già tutt’altro che ravvicinata, delle verifiche di gradimen-to, può essere considerata un aspetto critico.

Un approccio più dinamico e integrato al sistema dei controlli interni, volto a coglierne i connotati di-stintivi di fondo e a valutarne il grado complessivo di conformità al dettato normativo, restituisce uno spac-cato molto eterogeneo di controlli, dalle molteplici ca-ratteristiche strutturali e funzionali.

Sul piano organizzativo, infatti, non sembrano emergere particolari moduli operativi capaci di coagu-lare un numero significativo di enti intorno ad uno schema comune, dotato di tecniche e strumenti condi-visi, di prassi tipizzate e di standard funzionali omo-genei. Ogni ente sembra seguire un percorso a sé, combinando le diverse tipologie di controlli in una lo-gica di sistema del tutto soggettiva e diversamente graduata.

In linea di massima, emerge un sistema incentrato su due principali modalità di controllo: quella di enti che optano per un sistema di controlli interni che gra-vitano intorno a due pilastri centrali (il controllo di re-golarità amministrativo-contabile e il controllo sugli equilibri finanziari), dove le altre tipologie di control-lo, se e quando attivate, assumono un ruolo ausiliario e subalterno; ed altri enti che, invece, rifuggono da

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questa logica bipolare e cercano di presidiare tutti i tipi di controlli con modalità più o meno strutturate e funzionali.

All’interno di questi due schemi operativi si di-stinguono molteplici livelli attuativi della normativa regolamentare, che, per esigenze di classificazione, sono stati ricondotti a cinque classi di rischio di con-trollo, all’interno delle quali è possibile distinguere gli enti in base alla capacità del loro sistema di controlli di prevenire, individuare e correggere efficacemente le irregolarità gestionali e gli errori più significativi della contabilità.

Questi indicatori di rischio, in quanto non sorretti da adeguati riscontri fattuali e in assenza di opportune forme di contraddittorio con gli enti, rivestono un ca-rattere necessariamente astratto e presuntivo delle supposte criticità esistenti nell’ambito dei controlli esaminati, che dovranno trovare conferma in più ap-profonditi elementi di fatto che le sezioni regionali di controllo raccoglieranno nell’ambito degli accerta-menti di loro competenza.

Nei richiamati limiti di inferenza e nelle prospetta-te condizioni pregiudiziali, i profili esaminati (struttu-ra, efficienza ed efficacia dei controlli) hanno permes-so di individuare una fascia di enti ad “alto” rischio di criticità del sistema di controllo interno, in quanto in-capaci di assicurare, con sufficiente attendibilità, che le proprie attività operative vengano svolte nel rispetto delle norme regolamentari, degli atti di programma-zione e della sana gestione finanziaria. L’inesistenza, di fatto, dei controlli strategici, sulle partecipate e sul-la qualità dei servizi, e la contestuale presenza di evi-denti lacune nell’attuazione dei restanti controlli pone questi enti nelle condizioni di non poter evitare il veri-ficarsi di violazioni di leggi e di regolamenti, frodi, abusi, sprechi o altra cattiva amministrazione delle ri-sorse e del patrimonio pubblico. A livello contabile, poi, è alto il rischio di manipolazioni o errori nella re-gistrazione delle transazioni giornaliere, con conse-guenti implicazioni economiche e finanziarie.

Il tratto distintivo degli enti della fascia “interme-dia” di rischio di controllo consiste, invece, nella ge-nerale tendenza al potenziamento del profilo organiz-zativo rispetto a quello funzionale, nel senso di una maggiore attenzione prestata da queste amministra-zioni all’adeguatezza delle strutture di controllo (sotto il profilo della dotazione organica e strumentale) piut-tosto che ai loro processi operativi e al raggiungimen-to delle finalità tipiche assegnate a ciascuna tipologia di controlli. La conseguente scarsa incisività dei con-trolli interni sulle attività gestionali offre terreno ferti-le al persistere di diffuse sacche di resistenza al cam-biamento e di zone d’ombra connotate da ridotta rego-larità e trasparenza.

Altra costante degli enti della classe a rischio “me-dio” e “medio-alto” è data dalla intrinseca carenza del controllo sulla qualità dei servizi erogati, sintomatica di una diffusa sottovalutazione di tale tipologia di con-trollo, capace di intercettare, attraverso la misura della soddisfazione del cittadino, i bisogni dell’utenza e,

quindi, di fornire all’amministrazione le reali dimen-sioni dello scostamento esistente tra i risultati della gestione (validati dagli altri controlli) e il grado di uti-lità effettivamente conseguito. L’assenza di una con-valida appropriata della qualità del prodotto o del ser-vizio concretamente realizzato in rapporto al suo sco-po rischia, infatti, di minare la valenza stessa del si-stema dei controlli e la loro affidabilità, in quanto pri-vi di un termine di raffronto che ne comprovi gli esiti dichiarati alla luce del livello di utilità collettiva rag-giunto e che eviti di confinarne la funzione all’interno di schemi di adempimento meramente autoreferenzia-li.

In ordine agli enti appartenenti alla classe di merito a “basso” rischio, si è potuto apprezzare come i loro sistemi di controllo riescano ad identificare, monitora-re e gestire le principali criticità gestionali con ade-guati livelli di tempestività e qualità, tali da incidere efficacemente sulle scelte operative adottate, in termi-ni di salvaguardia degli equilibri finanziari e patrimo-niali dell’ente, di maggior efficacia ed efficienza dei processi gestionali, di affidabilità dei reporting finan-ziari e di compliance interna. Sono enti che presidia-no, con approccio olistico e integrato, tutti i tipi di controlli senza manifestare particolari criticità nei di-versi settori, offrendo, quindi, la best practice nell’ambito dei controlli interni.

Esaminando, infine, il fenomeno a livello di tipo-logie di enti, emerge come tutte le Città metropolitane si collochino nelle fasce di rischio medio-basso, ad eccezione delle Città di Torino e Reggio Calabria che si inseriscono nella classe di enti ad “alto” rischio di controllo. Le amministrazioni provinciali denotano, invece, maggiori criticità, giacché il 47 per cento delle stesse sono da ascrivere alle due classi di rischio “al-to” e “medio-alto”. Assai eterogenea si presenta la performance dei comuni, passando da quella che ca-ratterizza soprattutto gli enti della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, tra i più numerosi della classe a “basso” rischio di controllo, a quella di segno opposto propria di diversi comuni della Campania e della Sici-lia che si collocano nella classe di rischio più elevata.

Per tutti gli enti rientranti in questa fascia di ri-schio, il controllo delle sezioni regionali competenti sarà particolarmente attento, non potendosi fare asse-gnamento sulla qualità, l’estensione e l’efficacia di sistemi che si presentano così lacunosi e carenti, i qua-li dovrebbero invece costituire l’ossatura centrale dei processi decisionali, programmatici e contabili oltre-ché delle scelte gestionali e organizzative di ogni ente.

* * *

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Sezioni regionali di controllo

Calabria

108 – Sezione controllo Regione Calabria; ordinanza 26 agosto 2019: Pres. e Rel. Lo Presti; Comune di Reggio Calabria.

Contabilità regionale e degli enti locali – Comune – Piano di riequilibrio finanziario pluriennale – Con-trollo della sezione regionale della Corte dei conti – Sentenza di illegittimità costituzionale – Effetti – Intervento legislativo – Questione di legittimità co-stituzionale – Ammissibilità – Non manifesta in-fondatezza.

Cost., artt. 1, 2, 3, 24, 77, 81, 97, 100, 102, 103, 111, 113, 117, 119, 136; l. 11 marzo 1953, n. 87, norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte co-stituzionale, art. 30; d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, artt. 243-bis e 243-quater; d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, mi-sure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi, art. 38, cc. 1-terdecies, 2-bis, 2-ter; l. 28 dicembre 2015, n. 208, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016), art. 1, c. 714; l. 11 dicembre 2016, n. 232, bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio plurienna-le per il triennio 2017-2019, art. 1, c. 434.

È ammissibile, e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell’intervento normativo diretto a consentire, anche agli enti locali che avessero proposto la rimodulazione o riformula-zione del proprio piano di riequilibrio finanziario ai sensi di una disciplina dichiarata costituzionalmente illegittima, di riproporre il piano in modo tale di pro-lungarne la durata sino a un termine di venti anni. (1)

(1) I. - Con l’articolata ordinanza qui commentata la Sez.

contr. reg. Calabria ha proposto una dettagliata serie di censure avverso le disposizioni (emanate tramite la decretazione d’urgenza, anzi, più in particolare, introducendo tali previsioni nella legge di conversione del decreto) di cui ai cc. 2-bis e 2-ter dell’art. 38 del d.l. n. 34/2019.

Tale normativa ha consentito l’estensione della durata del proprio piano di riequilibrio finanziario ai comuni (come, nel caso di specie, quello di Reggio di Calabria), che già avessero presentato una richiesta di rimodulazione o riformulazione del piano ai sensi dell’art. 1, c. 714, l. 28 dicembre 2015, n. 208, norma successivamente dichiarata incostituzionale in parte qua (e, conseguentemente, con esito negativo dell’istanza medesi-ma); senza, tuttavia (come evidenziato nell’ordinanza) imporre un conseguente adeguamento delle proiezioni di spesa e di en-trata.

Si rammenta che la disposizione citata consentiva ai comu-ni sottoposti a procedura di riequilibrio finanziario di modifica-re il piano sotto il profilo temporale e quantitativo, scorporando la quota di disavanzo risultante dalla revisione straordinaria dei residui, arrivando a ripianare la stessa nell’arco di trenta anni e, per l’effetto, prolungandone la durata.

Tale facoltà è stata, tuttavia, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla nota pronuncia 14 febbraio 2019, n. 18 (in que-

sta Rivista, 2019, fasc. 1, 212, con nota di C. Forte e M. Piero-ni, Prime osservazioni a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 18/2019; v. anche il commento di A. Saitta, Dal bilancio quale “bene pubblico” alla “responsabilità costi-tuzionale democratica” e “intergenerazionale”, in Giur. cost., 2019, 216).

Gli effetti concreti della pronuncia sui piani di riequilibrio finanziario rimodulati in base alla normativa dichiarata incosti-tuzionale sono stati precisati (sempre dalla Sez. contr. reg. Ca-labria e sempre in relazione alla tormentata posizione del Co-mune di Reggio di Calabria) con la delib. 6 marzo 2019, n. 31, in questa Rivista, 2019, fasc. 2, 138, nel senso di affermare vi-genza del piano di riequilibrio finanziario originariamente adot-tato.

Per l’affermazione secondo cui i piani di riequilibrio finan-ziario pluriennale, riformulati ai sensi della norma dichiarata illegittima, ove approvati dalle sezioni regionali di controllo entro la data di deposito della sentenza della Corte costituziona-le, dovessero essere considerati intangibili con esclusivo rife-rimento alle quote relative alle annualità già rendicontate, men-tre quelli non approvati entro la data di deposito della sentenza della Corte costituzionale, avrebbero dovuto adeguarsi alla di-sciplina vigente, v. Sez. autonomie, 7 maggio 2019, n. 8, ivi, fasc. 3, 140).

II. - Nel merito, premessa la rilevanza della questione, la Sez. contr. reg. Calabria ha prospettato una serie di questioni di legittimità costituzionale delle norme impugnate che possono essere di seguito riassunte:

i. contrasto con gli artt. 81, 97, c. 1, 117, c. 1 (in combinato disposto con il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 3 del Trattato consolidato dell’Unione europea), 119, c. 6 (in combinato disposto con gli artt. 1, 2 e 3 Cost.), in quanto la protrazione della durata dell’originario riequilibrio (già originariamente di durata de-cennale), non giustificata da peculiari circostanze sopravvenu-te, comporta una lesione del principio dell’equilibrio del bilan-cio, tra l’altro determinando una sostanziale traslazione del de-bito sulle future generazioni;

ii. contrasto (del solo c. 2-bis) con gli artt. 3, 24, 100, 102, 103, 111, 113 Cost., dal momento che l’intervento normativo contestato determina una violazione di quanto già stabilito con deliberazione passata in giudicato e, quindi, intangibile, da par-te della competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti;

iii. contrasto (del solo c. 2-bis) con gli artt. 3, 24, 111, 117 (in combinato disposto con l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fonda-mentali, nonché con l’art. 6 del suo Protocollo addizionale) in quanto la protrazione indebita del piano di riequilibrio finanzia-rio determina un’ingiustificata compromissione del patrimonio dei creditori e delle loro ragioni di credito;

iv. contrasto (del solo c. 2-bis) con gli artt. 3 e 77 Cost., in quanto emanato al di fuori dei presupposti di “necessità e di urgenza”, richiesti per l’emanazione di decreti aventi forza di legge (in proposito, si rammenta che il controllo sui presupposti legittimanti l’adozione di atti aventi forza di legge, pur se con-vertiti, è stato affermato a partire da Corte cost. 23 maggio 2007, n. 171, in Giur. cost., 2007, 1662).

Tale ultimo punto viene argomentato anche in relazione al-la modifica operata alla tabella di cui all’art. 243-bis del d.lgs. 267/2000 (in base al c. 1-terdecies dell’art. 38), del pari intro-dotta in sede di conversione. Le disposizioni in commento sa-rebbero allora del tutto esorbitanti rispetto alle finalità origina-rie del decreto legge e destinate ad avvantaggiare enti locali singulatim individuabili.

III. - Per un primo commento sull’ordinanza v. La Sezione controllo Calabria solleva questione di costituzionalità sul

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Fatto – Il Comune di Reggio Calabria, con delibe-razione della Commissione straordinaria dell’8 feb-braio 2013, n. 17, faceva ricorso alla procedura di rie-quilibrio finanziario di cui all’art. 243-bis Tuel; con successiva delibera n. 142/2013 la Commissione straordinaria integrava e rimodulava, per alcuni aspet-ti, la precedente deliberazione n. 17/2013.

La Sezione di controllo della Corte dei conti per la Calabria, con delib. n. 11/2014, non approvava detto Piano di riequilibrio finanziario pluriennale (d’ora in-nanzi anche Prfp); tale pronuncia veniva impugnata dal comune dinanzi alle Sezioni riunite, in speciale composizione ex art. 243-quater, c. 5, Tuel; con sent. n. 26/2014 il ricorso presentato veniva accolto, con conseguente approvazione del Prfp.

Successivamente, il comune presentava una prima rimodulazione del proprio piano, ai sensi dell’art. 1, c. 714, l. 28 dicembre 2015, n. 208, approvata con deli-bera consiglio comunale n. 42/2016; con delib. n. 120/2016, la Sezione di controllo per la Regione Ca-labria riteneva di non approvare tale modifica del Prfp; tale pronuncia veniva impugnata dal comune di-nanzi alle Sezioni riunite, in speciale composizione ex art. 243-quater, c. 5, Tuel; con sent. n. 13/2017/El, il ricorso presentato veniva respinto, con conseguente conferma della decisione impugnata.

Il Comune di Reggio Calabria, quindi, avvalendosi della riscrittura – in vigore dall’1 gennaio 2017 –dell’art. 1, c. 714, l. n. 208/2015 ad opera dell’art. 1, c. 434, l. n. 232/2016 (c.d. legge di stabilità 2017), con delibera del consiglio comunale n. 23 del 29 maggio 2017 (trasmessa alla sezione di controllo con nota ac-quisita al prot. n. 0004088 dell’1 giugno 2017) presen-tava una ulteriore rimodulazione del piano di riequili-brio che prevedeva:

1) il ripiano della quota di disavanzo risultante dal-la revisione straordinaria dei residui ex art. 243-bis, c. 8, lett. E), Tuel, nel termine non più decennale (pari alla durata del Prfp) ma trentennale, come previsto dalla facoltà di cui all’art. 1, c. 714, l. n. 208/2015 in vigore dall’1 gennaio 2017; più in dettaglio, tale quota di disavanzo (pari a euro 87.246.368,09 al 31 dicem-bre 2014 che, in virtù delle quote già ripianate, am-montava a euro 65.062.759,89 al 31 dicembre 2016) sarebbe stata rimborsata non più attraverso quote de-cennali di euro 11.091.804,10 ciascuna, ma in rate trentennali di euro 2.538.485,47 ciascuna;

2) il rimborso nell’arco di trenta annualità delle an-ticipazioni di liquidità fruite ai sensi dell’art 243-ter e 243-quinquies del Tuel.

“Salva Reggio Calabria”, in <www.dirittoeconti.it>, 7 settem-bre 2019.

Da ultimo, occorre sottolineare che la legittimazione delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, in sede di controllo successivo sui bilanci degli enti locali, alla promozio-ne di questione di legittimità costituzionale, è stata ammessa sempre dalla pronuncia 14 febbraio 2019, n. 18, e confermata, in obiter dictum, dalla sent. 2 maggio 2019, n. 105.

Con delib. n. 86/2017, la Sezione di controllo della Corte dei conti per la Calabria “approvava” la predetta rimodulazione (rectius: ne prendeva atto, stanti i prin-cipi espressi, in merito all’art. 1, c. 714, l. n. 208/2015, dalla delib. n. 13/2016).

Con sentenza 14 febbraio 2019, n. 18, la Corte co-stituzionale dichiarava l’illegittimità dell’art. 1, c. 714, l. 28 dicembre 2015, n. 208, come sostituito dall’art. 1, c. 434, l. 11 dicembre 2016, n. 232.

In conseguenza, con delib. n. 31/2019, la Sezione di controllo della Corte dei conti per la Calabria os-servava che:

- la riscrittura del Prfp del Comune di Reggio Ca-labria, approvata con delibera del consiglio comunale n. 23/2017, era conforme alla normativa all’epoca vi-gente (art. 1, c. 434, l. n. 232/2016, in vigore dal 1 gennaio 2017, che aveva integralmente riscritto art. 1, c. 714, l. n. 208/2015).

- tuttavia, detta ultima norma era stata dichiarata incostituzionale con la sent. n. 18/2019 della Corte co-stituzionale;

- pertanto, facendo applicazione dei principi in or-dine agli effetti della dichiarazione d’illegittimità co-stituzionale e considerando che il piano di riequilibrio, ancora in corso di svolgimento, non poteva essere ri-tenuto un “rapporto esaurito”, era evidente che, con la citata pronuncia di incostituzionalità, era venuto meno il presupposto normativo che aveva consentito il recu-pero trentennale del disavanzo risultante dalla revisio-ne straordinaria dei residui ex art. 243-bis, c. 8, lett. E), Tuel.

- quindi, la citata delibera del consiglio comunale n. 23 del 29 maggio 2017 [con la quale, come già det-to, il comune, avvalendosi della riscrittura – in vigore dall’1 gennaio 2017 – dell’art. 1, c. 714, l. n. 208/2015 ad opera dell’art. 1, c. 434, l. n. 232/2016 (c.d. legge di stabilità 2017), aveva disposto: 1) il ripiano della quota di disavanzo risultante dalla revisione straordi-naria dei residui ex art. 243-bis, c. 8, lett. E), Tuel nel termine non più decennale (pari alla durata del “pia-no”) ma trentennale, come previsto dalla facoltà di cui all’art. 1, c. 714, l. n. 208/2015 in vigore dall’1 gen-naio 2017; più in dettaglio, tale quota di disavanzo (pari a euro 87.246.368,09 al 31 dicembre 2014 che, in virtù delle quote già ripianate, ammontava a euro 65.062.759,89 al 31 dicembre 2016) sarebbe stata rimborsata non più attraverso quote decennali di euro 11.091.804,10 ciascuna, ma in rate trentennali di euro 2.538.485,47 ciascuna; 2) il rimborso nell’arco di trenta annualità delle anticipazioni di liquidità fruite ai sensi dell’art. 243-ter e 243-quinquies del Tuel] era divenuta, priva di supporto normativo e, conseguen-temente, doveva essere dichiarata inefficace;

- in conseguenza, doveva, invece, ritenersi vigente, nei suoi effetti, il precedente Prfp, adottato con la de-liberazione della Commissione straordinaria dell’8 febbraio 2013, n. 17, come integrata dalla deliberazio-ne della Commissione straordinaria del 15 luglio 2013, n. 142 [in particolare, come già detto, questa versione del piano, “approvata” dalla sentenza delle

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Sez. riun. giur. n. 26/2014/El, prevedeva che il Comu-ne di Reggio Calabria recuperasse il disavanzo incluso nel Prfp entro l’esercizio 2022, che segnava il termine finale di durata del piano medesimo; infatti, nella pia-nificazione di cui alle delibere della commissione straordinaria nn. 17 e 142/2013, era previsto che il di-savanzo incluso nel Prfp, derivante dalla revisione straordinaria dei residui ex art. 243-bis, c. 8, lett. E), Tuel, venisse ripianato in quote decennali di euro 11.091.804,10 ciascuna; a partire, invece, dall’esercizio 2017, la “rimodulazione” di cui alla de-liberazione consiglio comunale n. 23/2017 aveva con-sentito il recupero annuale di quote di importo pari a euro 2.538.485,47].

Ciò premesso, questa sezione precisava anche qua-li dovessero essere le modalità di ripiano del disavan-zo non recuperato negli esercizi 2017 e 2018; in tali esercizi, infatti, l’ente, avvalendosi della facoltà previ-sta dall’art. 1, c. 714, l. n. 208/2015, come modificato dall’art. 1, c. 434, l. n. 232/2016, aveva spesato in bi-lancio una rata annuale di disavanzo più “leggera”, rispetto alle precedenti, di euro 8.553.318,63 (euro 11.091.804,10 – euro 2.538.485,47); al riguardo, que-sta sezione affermava che, nella fattispecie, il Comune di Reggio Calabria avrebbe dovuto recuperare le quote del disavanzo non recuperato negli esercizi 2017 e 2018, entro i termini e con le modalità stabilite dall’art. 188, c. 1, Tuel; la citata delib. n. 31/2019, che aveva affermato l’obbligo del Comune di Reggio Ca-labria di adeguare il Piano di riequilibrio ai principi espressi dalla Corte costituzionale con la sent. n. 18/2018, non veniva impugnata dal Comune di Reg-gio Calabria divenendo così definitiva.

Quindi, la Sezione delle autonomie di questa Cor-te, con delib. n. 8/2019 (pronunciandosi in ordine all’individuazione di criteri di orientamento per la ve-rifica da parte delle sezioni regionali di controllo della corretta attuazione degli effetti conseguenti alla sen-tenza della Corte cost. 14 febbraio 2019, n. 18), stabi-liva che “i piani di riequilibrio finanziario pluriennali di cui all’art. 243-bis del Tuel riformulati ai sensi dell’art. 1, c. 714, l. n. 208/2015, norma dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sent. 14 feb-braio 2019, n. 18, approvati dalla competente sezione regionale di controllo, sono intangibili relativamente alle sole quote di disavanzo riferite alle annualità il cui ciclo di bilancio si sia chiuso con l’approvazione del rendiconto. Il disavanzo residuo deve essere ri-pianato considerando il piano originario dell’ente, approvato prima della rimodulazione conseguente all’entrata in vigore dell’art. 1, c. 714, l. n. 208/2015”; in tal modo, veniva ulteriormente confer-mata la vigenza del piano di riequilibrio decennale, originariamente approvato dal Comune di Reggio Ca-labria con deliberazione della Commissione straordi-naria dell’8 febbraio 2013, n. 17 (integrato, per alcuni aspetti, dalla successiva deliberazione n. 142/2013 sempre della Commissione straordinaria).

Successivamente, con l’art. 38, c. 2-bis, d.l. 30 aprile 2019, n. 34 (convertito con modificazioni dalla

l. 28 giugno 2019, n. 58), veniva stabilito che “Gli enti locali che hanno proposto la rimodulazione o riformu-lazione del piano di riequilibrio ai sensi dell’art. 1, c. 714, l. 28 dicembre 2015, n. 208, entro la data del 14 febbraio 2019 di deposito della sentenza della Corte cost. n. 18/2019, anche se non ancora approvato dalla competente sezione regionale della Corte dei conti ovvero inciso da provvedimenti conformativi alla pre-detta sentenza della sezione regionale competente, possono riproporre il piano per adeguarlo alla nor-mativa vigente secondo la procedura dell’art. 1, cc. 888 e 889, l. 27 dicembre 2017, n. 205”.

Quindi, con delibera n. 25 del 12 luglio 2019 (ac-quisita al prot. Corte conti n. 5134 del 18 luglio 2019), il consiglio comunale del Comune di Reggio Calabria comunicava, a questa sezione, l’intenzione di avvaler-si della facoltà di rimodulazione del Prfp, ex art. 38, c. 2-bis, d.l. n. 34/2019, e, con successiva deliberazione di consiglio comunale n. 37 del 30 luglio 2019, appro-vava, quindi, una nuova “riproposizione” del prece-dente Piano di riequilibrio finanziario decennale, ai sensi della norma in questione.

Detto ultimo piano “riproposto” veniva trasmesso in data 7 agosto (cfr. documento acquisito al prot. Corte conti n. 0005475-07/08/2019-SC_CAL-T81) alla Sezione regionale della Corte dei conti per la Ca-labria, per il giudizio di approvazione o di diniego di cui all’art. 38, c. 2-quater, d.l. n. 34/2019.

Ciò premesso, si osserva che, a seguito di detta ul-tima riscrittura, è stata modificata solo la durata del Prfp e, infatti, il nuovo piano di riequilibrio non pre-senta alcuna variazione in punto di:

1. pianificazione di risanamento: le proiezioni di entrata e di spesa dell’ente, necessarie a conseguire il riequilibrio, rimangono quelle di cui al Prfp attual-mente efficace (quello approvato con deliberazione della commissione straordinaria n. 17 dell’8 febbraio 2013 e integrato, parzialmente, con delibera della Commissione straordinaria n. 142 del 15 luglio 2013) e si sviluppano, pertanto, in un orizzonte decennale, che copre il periodo 2013-2022; parimenti decennale è l’orizzonte in cui operano gli accordi stipulati con al-cuni creditori del comune per la riduzione dei “debiti commerciali”;

2. quantificazione del disavanzo: non vengono in-clusi ulteriori disavanzi nel frattempo emersi e/o ma-turati, giacché l’art. 38, c. 2-ter, d.l. n. 34/2019 con-sente solo di “ricalcolare” un disavanzo già incluso nel Prfp, fermo restando che ulteriori disavanzi devo-no seguire il regime di ripiano loro proprio (ad esem-pio art. 188 Tuel, d.m. 2 aprile 2015); pertanto:

- il “disavanzo già oggetto del piano modificato” (cfr. art. 38, c. 2-ter, d.l. n. 34/2019), che era in origi-ne pari a euro 124.144.849,41 (cfr. quantificazione di cui alla delibera consiglio comunale n. 17/2013), al 31 dicembre 2018 ammonta, al netto delle somme già re-cuperate, a euro 49.802.285,65;

- b) gli “altri disavanzi” a cui si riferisce l’art. 38, c. 2-ter, d.l. n. 34/2019, sarebbero costituiti, per come

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dichiarato dall’ente, dal solo “maggior disavanzo”, il cui recupero (n. 30 quote annuali di euro 4.777.943,58 ciascuna) non è stato mai incluso dall’ente nel Prfp (facoltà invece consentita dal testo originario dell’art. 1, cc. 714 e 715, l. n. 208/2015: cfr., in punto applica-tivo, Sez. autonomie, nn. 4 e 32/2015, n. 13/2016).

Sussistono, tuttavia, per il Comune di Reggio Ca-labria, ulteriori passività che seguono piani di rateiz-zazione paralleli al Prfp, ma non sono inclusi in esso e, precisamente: (Omissis).

Diritto – Preliminarmente, si osserva che, come af-fermato dalla recente sent. n. 18/2019 delle Sez. riun. giur. in speciale composizione di questa Corte, il Pia-no di riequilibrio finanziario pluriennale presenta una duplice natura, ricognitiva e programmatica. Sotto il primo profilo, presuppone una corretta rappresenta-zione delle poste contabili e, in particolare, della mas-sa passiva da ripianare e, per l’aspetto programmatico, si sostanzia in un giudizio valutativo circa l’idoneità delle misure previste rispetto all’obiettivo del risana-mento dell’ente, mediante riequilibrio strutturale dei conti (cfr. ex multis, Sez. riun. giur., n. 15/2019/El; Sez. autonomie, 26 aprile 2018, n. 5).

La Corte costituzionale inoltre, con la recente sent. n. 18/2019, ha inquadrato le verifiche della Corte dei conti in materia di Prfp nella categoria del controllo di legittimità-regolarità, in ragione dei caratteri di neutra-lità e indipendenza del controllo della Corte dei conti sui bilanci degli enti locali, che sono strumentali al rispetto degli “obblighi che lo Stato ha assunto nei confronti dell’Unione europea in ordine alle politiche di bilancio” (cfr. anche sent. n. 39/2014); inoltre, con sent. n. 228/2017 (richiamata dalla citata pronuncia n. 18/2019), il giudice delle leggi ha precisato che i con-trolli del titolo VIII del Tuel sono controlli di legitti-mità-regolarità e che appartengono a tale “categoria: a) la determinazione di misure correttive per gli enti in predissesto (art. 243-bis, c. 6, lett. a, Tuel); b) l’approvazione o il diniego del piano di riequilibrio (art. 243-quater, c. 3, Tuel); c) gli accertamenti pro-pedeutici alla dichiarazione di dissesto (art. 243-quater, c. 7, Tuel). Si tratta di funzioni [...] in cui l’attività della Corte dei conti risulta rigorosamente ancorata a parametri legali, tanto che la stessa attivi-tà di controllo è sottoponibile al sindacato giurisdi-zionale delle Sezioni riunite in speciale composizione, in conformità ai principi contenuti nella sent. n. 39/2014 di questa Corte”; pertanto, la circostanza che trattasi di un controllo ancorato a parametri normativi esclude, in sé, che l’azione della magistratura contabi-le possa essere suscettibile di comprimere gli spazi di autonomia finanziaria costituzionalmente riconosciuti agli enti locali.

Come puntualmente evidenziato dalla Sezione del-le autonomie, nella delib. n. 4/2015 “nel piano di rie-quilibrio la congruenza delle previsioni rispetto allo scopo di ripristinare l’equilibrio strutturale del bilan-cio, dipende da numerose e articolate misure dirette ad aumentare le risorse e a diminuire le uscite. Misu-re che si bilanciano nel percorso di riequilibrio e che

non possono essere arbitrariamente rimodulate”; in ragione di ciò, le modifiche dei piani di riequilibrio sono possibili solo entro limiti molto ristretti e tassati-vi e solo ove espressamente concesso dal legislatore con disciplina tipica (cfr., sul punto, delib. n. 32/2015; n. 13/2016; n. 9/2017), giacché la pianificazione di riequilibrio è retta dal generale principio di intangibili-tà, “in ragione del quale si ritengono preclusi adatta-menti del percorso di risanamento in fase di attuazio-ne” (cfr. Sez. autonomie, n. 5/2018).

Ciò posto, questa sezione è oggi tenuta, ai sensi dell’art. 38, c. 2-quater, d.l. 34/2019 (secondo cui “Le rimodulazioni di cui ai cc. 2-bis e 2-ter non sospendo-no le azioni esecutive e, considerata la situazione di eccezionale urgenza, sono oggetto di approvazione o di diniego della competente sezione regionale della Corte dei conti entro venti giorni dalla ricezione dell’atto deliberativo del consiglio comunale”) a valu-tare la modifica, da ultimo intervenuta, del Piano di riequilibrio pluriennale del Comune di Reggio Cala-bria, effettuata ai sensi dell’art. 38, c. 2-bis, d.l. n. 30 aprile 2019, n. 34, convertito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58; tale disposizione stabilisce, infatti, che “Gli enti locali che hanno proposto la rimodulazione o riformu-lazione del piano di riequilibrio ai sensi dell’art. 1, c. 714, l. 28 dicembre 2015, n. 208, entro la data del 14 febbraio 2019 di deposito della sentenza della Corte cost. n. 18/2019, anche se non ancora approvato dalla competente sezione regionale della Corte dei conti ovvero inciso da provvedimenti conformativi alla pre-detta sentenza della sezione regionale competente, possono riproporre il piano per adeguarlo alla nor-mativa vigente secondo la procedura dell’art. 1, cc. 888 e 889, l. 27 dicembre 2017, n. 205”; avvalendosi di tale norma, il Comune di Reggio Calabria, poiché il suo piano di riequilibrio (in precedenza, rimodulato, con delibera consiglio comunale n. 23/2017, ai sensi del citato art. 1, c. 714, l. n. 208/2015) era stato, suc-cessivamente, “inciso da provvedimenti conformativi alla predetta sentenza [...] (n.d.r.: sent. n. 18/2019 della Corte cost.) [...] della sezione regionale compe-tente”, con delibera di consiglio comunale n. 37 del 30 luglio 2019, ha approvato la “riproposizione” del pro-prio piano di riequilibrio, oggetto del presente giudi-zio; nella fattispecie, la citata delib. n. 31/2019 di que-sta sezione è uno dei “provvedimenti conformativi”, alla sent. n. 18/2019 della Corte cost., che, viene so-stanzialmente privato di effetti dall’art. 38, c. 2-bis, d.l. 30 aprile 2019 n. 34, convertito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, onde consentire, all’ente il cui piano di riequilibrio è stato appunto “inciso”, da detta delib. n. 31/2019, di “riproporre il piano per adeguarlo alla normativa vigente secondo la procedura dell’art. 1, cc. 888 e 889, l. 27 dicembre 2017, n. 205”.

Premesso quanto sopra, prima di esaminare, nel merito, detto ultimo Piano di riequilibrio finanziario appare necessario sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, cc. 2-bis e ter, d.l. n. 30 aprile 2019, n. 34, convertito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, anche in combinato disposto con l’art. 1-

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terdecies del predetto decreto, sostitutivo della tabella di cui al c. 5-bis dell’art. 243-bis del d.lgs. n. 267/2000 (Tuel).

Infatti, come meglio si dirà in prosieguo, a giudizio del collegio, appare non manifestamente infondata la sussistenza di un contrasto:

1. dell’art. 38, cc. 2-bis e 2-ter, in combinato di-sposto con il c. 1-terdecies dell’art. 38 medesimo, d.l. n. 34/2019 (convertito con modificazioni dalla l. n. 58/2019), con i parametri stabiliti dagli artt. 81, 97, cc. 1, 117, c. 1, per violazione del parametro interposto del Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 3 del Trattato consoli-dato dell’Unione europea, nonché dell’art. 119, c. 6, Cost., in combinato disposto con gli artt. 1, 2 e 3 Cost., nella parte in cui tali disposizioni consentono al Comune di Reggio Calabria di ripianare il disavanzo oggetto del Prfp in un termine ventennale anziché de-cennale; infatti, le norme della cui costituzionalità si dubita, consentono che uno squilibrio finanziario, di origine risalente nel tempo, venga ripianato in un tem-po doppio rispetto a quello – già non breve, in quanto decennale – originariamente prospettato dal Prfp, in assenza di qualsivoglia giustificazione se non quella riconducibile alla insostenibilità del progetto di risa-namento e ad evitare conseguenze come quella del dissesto finanziario: ciò contrasta con il principio dell’equilibrio di bilancio, sacrificato in nome di esi-genze che appaiono non costituzionalmente degne di tutela; infatti, tale situazione comporta un evidente ri-baltamento, sulle generazioni future, di debiti risalenti nel tempo, oltre alla, altrettanto evidente, conseguenza che risorse di bilancio “liberate” (in virtù dell’alleggerimento della quota annuale di disavanzo da recuperare), lungi dall’essere destinate al risana-mento finanziario dell’ente, possano essere impiegate per espandere la spesa futura, con rischio di creazione di ulteriori disavanzi che saranno a carico delle gene-razioni future;

2. dell’art. 38, c. 2-bis, d.l. n. 34/2019 (convertito con modificazioni dalla l. n. 58/2019), con i parametri stabiliti dagli artt. 3, 102, c. 1, 100, 103, e 113 Cost., nonché agli artt. 24 e 111 Cost., in quanto tale dispo-sizione, consentendo ad ogni comune “inciso da prov-vedimenti conformativi alla predetta sentenza [...] (n.d.r.: n. 18/2019 della Corte cost.) della sezione re-gionale competente” di “riproporre” il Prfp, dà luogo ad una deroga ingiustificata, per quanto si dirà in se-guito, alla intangibilità del decisum della sezione di controllo della Corte dei conti;

3. dell’art. 38, c. 2-bis, d.l. n. 34/2019 (convertito con modificazioni dalla l. n. 58/2019) con gli artt 3, 24, 111 e 117, c. 1, Cost., rispetto al parametro inter-posto dell’art. 1, protocollo 1, nonché dell’art. 6 Cedu; infatti, la facoltà di revisione del Prfp, inserita peraltro in un quadro di costante instabilità legislativa della disciplina concernente la fattispecie delle procedure straordinarie di riequilibrio, determina una situazione di incertezza del diritto, in grado di compromettere la

tutela del patrimonio dei creditori e delle loro ragioni di credito;

4. dell’art. 38, c. 2-bis, d.l. n. 30 aprile 2019, n. 34, convertito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, in combinato disposto con l’art. 38, c. 1-terdecies, c. 1, poiché appa-re in contrasto con l’art. 3 Cost. e adottato dal Gover-no al di fuori dei “casi straordinari di necessità e ur-genza” in violazione dell’art. 77 Cost.

Al riguardo, preliminarmente, si ritiene sussistente la legittimazione della Sezione di controllo della Corte dei conti per la Calabria a sollevare la questione di co-stituzionalità in via incidentale, nell’ambito dei con-trolli sul piano di riequilibrio, secondo i principi, re-centemente affermati dalla Corte costituzionale (cfr. sent. nn. 18 e 105/2019); infatti, sia nella sent. n. 18/2019 che nella sent. n. 105/2019, cui per economia espositiva si fa espresso rinvio, il Giudice delle leggi ha chiaramente affermato la legittimazione della se-zione di controllo della Corte dei conti a sollevare la questione di costituzionalità in via incidentale, nell’ambito dell’attività istituzionale di controllo dei piani di riequilibrio, in ipotesi analoghe alla fattispecie oggetto del presente giudizio (in cui, proprio come nelle ipotesi esaminate dalla Corte costituzionale nelle sentenze da ultimo citate, questa sezione deve valutare la rimodulazione di un piano di riequilibrio, a seguito di una modifica normativa intervenuta durante la vi-genza del piano di riequilibrio medesimo); in partico-lare, infatti, nella sent. n. 18/2019, la Corte costituzio-nale ha affermato che «al problema pregiudiziale del-la legittimazione della sezione di controllo della Corte dei conti a sollevare questioni di legittimità costitu-zionale ai sensi dell’art. 1 della l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzio-nale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte co-stituzionale), e dell’art. 23 l. 11 marzo 1953, n. 87, norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve darsi risposta affermativa, in coerenza con i criteri individuati da questa Corte e in particolare con quelli contenuti nella sent. n. 226/1976, che ha individuato i requisiti necessari e sufficienti affinché le questioni sollevate dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità sugli atti – cui il controllo in considerazione (n.d.r.: il riferimento è al controllo sui piani di riequilibrio) va assimilato – possano considerarsi promanare da un “giudice” nel corso di un “giudizio” (art. 1 l. cost. n. 1/1948). Detti criteri sono stati di recente ribaditi a proposito degli incidenti di costituzionalità sollevati nell’ambito dei giudizi di parificazione dinanzi alla Corte dei conti (sent. n. 196/2018 e n. 188/2015)».

Inoltre, nella fattispecie, si ritiene anche sussistente il requisito della rilevanza della questione di legittimi-tà costituzionale qui di seguito prospettata in quanto il presente giudizio non può essere definito indipenden-temente dalla risoluzione della stessa.

Sul punto, occorre osservare che, come già detto, l’art. 38, c. 2-bis, d.l. n. 30 aprile 2019, n. 34, conver-tito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, interviene nel pro-cedimento di controllo del piano di riequilibrio con-

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sentendo agli enti locali “che hanno proposto la rimo-dulazione o riformulazione del piano di riequilibrio ai sensi dell’art. 1, c. 714, l. 28 dicembre 2015, n. 208, entro la data del 14 febbraio 2019 di deposito della sentenza della Corte cost. n. 18/2019, anche se non ancora approvato dalla competente sezione regionale della Corte dei conti ovvero inciso da provvedimenti conformativi alla predetta sentenza della sezione re-gionale competente” di “riproporre il piano per ade-guarlo alla normativa vigente secondo la procedura dell’art. 1, cc. 888 e 889, l. 27 dicembre 2017, n. 205”.

La “normativa vigente” a cui rinvia il predetto art. 38, c. 2-bis (nonché il successivo c. 2-ter, secondo cui “La riproposizione di cui al c. 2-bis deve contenere il ricalcolo complessivo del disavanzo già oggetto del piano modificato, nel rispetto della disciplina vigente, ferma restando la disciplina prevista per gli altri di-savanzi”) è, poi, sostanzialmente, quella di cui all’art. 243-bis, c. 5-bis, Tuel.

Infatti, la disposizione, da ultimo citata, introduce una “formula aritmetica” volta a dare applicazione al portato del c. 5 del citato art. 243-bis, Tuel, come in-trodotto, a decorrere dall’1 gennaio 2018, dall’art. 1, c. 888, lett. a), l. 27 dicembre 2017, n. 205; il predetto c. 5 specifica, in senso generale e astratto, che la dura-ta del piano di riequilibrio finanziario pluriennale è compresa fra i quattro e i venti anni.

Secondo il primo inciso del c. 5-bis – pure intro-dotto dall’art. 1, c. 888, l. 27 dicembre 2017, n. 205 – “La durata massima del piano di riequilibrio finanzia-rio pluriennale, di cui al primo periodo del c. 5, è de-terminata sulla base del rapporto tra le passività da ripianare nel medesimo e l’ammontare degli impegni di cui al titolo I della spesa del rendiconto dell’anno precedente a quello di deliberazione del ricorso alla procedura di riequilibrio o dell’ultimo rendiconto ap-provato, secondo la seguente tabella”:

Rapporto passività-impegni di

cui al titolo I

Durata massima del piano di rie-

quilibrio finanziario pluriennale

Fino al 20 per cento 4 anni

Superiore al 20 per cento e

fino al 60 per cento

10 anni

Superiore al 60 per cento e fino al 100

15 anni

Oltre il 100 per cento 20 anni

Detta tabella è stata sostituita, dal c. 1-terdecies dell’art. 38 del d.l. 30 aprile 2019, n. 34, nel testo convertito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, nei seguenti termini:

Rapporto passività-impegni di cui al titolo I

Durata massima del piano di rie-quilibrio finanziario pluriennale

Fino al 20 per cento 4 anni

Superiore al 20 per cento e fino al 60 per cento

10 anni

Superiore al 60 per cento e

fino al 100 per cento per i Comuni fino a 60.000 abitanti

15 anni

Oltre il 60 per cento per i co-

muni con popolazione superio-re a 60.000 abitanti e oltre il

100 per cento per tutti gli altri

20 anni

Nella fattispecie, quindi, avvalendosi dell’art. 38, c. 2-bis, d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, e in virtù del rapporto passivi-tà-impegni del titolo I delineato dalla tabella di cui al c. 5-bis dell’art. 243-bis Tuel (come sostituita dall’art. 1-terdecies del citato d.l. n. 34/2019) il Comune di Reggio Calabria ha modificato il Piano di riequilibrio decennale, precedentemente approvato, prolungando-ne appunto la durata a venti anni. (Omissis)

P.q.m., la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Calabria solleva nei termini di cui in motivazione, questione di legittimità costituzionale:

1. dell’art. 38, c. 2-bis e 2-ter, d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, in combinato disposto con l’art. 38, c. 1-terdecies, nella parte in cui tale complesso di disposizioni consente di rimodulare-riformulare il piano di riequilibrio decen-nale, precedentemente approvato, in un termine ultra decennale, poiché appare in contrasto con i parametri stabiliti dagli artt. 81 Cost., 97, c. 1, Cost., 117, c. 1, Cost., per violazione del parametro interposto del Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 3 del Trattato consoli-dato dell’Unione europea, nonché dell’art. 119, c. 6, Cost., in combinato disposto con gli artt. 1, 2 e 3 Cost.;

2. dell’art. 38, c. 2-bis, d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, nella parte in cui consente agli “enti locali che hanno proposto la rimodulazione o riformulazione del piano di riequili-brio ai sensi dell’arti. 1, c. 714, l. 28 dicembre 2015, n. 208, entro la data del 14 febbraio 2019 di deposito della sentenza della Corte cost. n. 18/2019”, anche se “inciso da provvedimenti conformativi alla predetta sentenza della sezione regionale competente” di poter “riproporre il piano per adeguarlo alla normativa vi-gente”, poiché, consentendo l’elusione del decisum di pronunce della magistratura contabile (anche divenute definitive) appare in contrasto con i parametri stabiliti dagli artt. 3, 102 c. 1, 100, 103, e 113 Cost. nonché degli artt. 24 e 111 Cost.;

3. dell’art. 38, c. 2-bis, d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, nella parte in cui, consentendo una ennesima fattispecie di riscrittu-ra del piano di riequilibrio, per comuni già beneficiari di facoltà di rimodulazione-riformulazione, lede la certezza del diritto e la salvaguardia delle esigenze dei terzi amministrati e dei soggetti creditori, poiché ap-pare in contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117, c. 1, Cost., rispetto al parametro interposto dell’art. 1 pro-tocollo 1, nonché dell’art. 6 Cedu;

4. dell’art. 38, c. 2-bis, d.l. n. 30 aprile 2019, n. 34, convertito dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, in combinato disposto con l’art. 38, c. 1-terdecies, c. 1, poiché appa-re in contrasto con l’art. 3 Cost. e adottato dal Gover-no al di fuori dei “casi straordinari di necessità e ur-genza” in violazione dell’art. 77 Cost.

Sospende il giudizio in corso, relativo alla appro-vazione o al diniego, ai sensi dell’art. 38, c. 2-quater, d.l. n. 34/2019 (convertito con modificazioni dalla l.

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58/2019) del piano di riequilibrio riproposto dal Co-mune di Reggio Calabria con delibera consiglio co-munale. n. 37/2019, in attesa della pronunzia della Corte costituzionale sulle questioni prospettate.

* * *

Campania

148 – Sezione controllo Regione Campania; ordinanza 17 luglio 2019; Pres. Longavita, Rel. Sucameli; Azienda sanitaria locale di Caserta.

Contabilità regionale e degli enti locali – Azienda sanitaria locale – Servizi sanitari regionali – Con-tributi in conto capitale – Calcolo nel patrimonio netto e contemporanea utilizzabilità per la steriliz-zazione dei costi di ammortamento – Questione di legittimità costituzionale – Ammissibilità – Non manifesta infondatezza. Cost., artt. 81, 97; c.c., art. 2424; d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, disposizioni in materia di armonizzazio-ne dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio del-le regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli artt. 1 e 2 l. 5 maggio 2009, n. 42, art. 29, c. 1, lett. c).

È ammissibile, e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale della disciplina in materia di contabilità degli enti del servizio sanita-rio regionale, nella parte in cui comprende nel patri-monio netto i contributi in conto capitale, e al con-tempo consente che gli stessi siano utilizzabili per ste-rilizzare i costi di ammortamento. (1)

Premesso che

1. L’oggetto e il parametro del giudizio di controllo

L’odierno procedimento di controllo è attivato e svolto in ragione delle funzioni esercitate dalla Corte dei conti a tutela dell’equilibrio di bilancio, ai sensi dell’art. 20 l. n. 243/2012, attuativa in sede legislativa delle norme della l. cost. n. 1/2012, in un sistema di tutela che si allarga alle disposizioni del d.lgs. n. 118/2011 e al d.l. n. 174/2012.

Segnatamente, il controllo è svolto ai sensi dell’art. 1, c. 3, d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, recante “Disposi-zioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012”, con-vertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, di poco antecedente all’entrata in vigore della l. cost. n. 1/2012.

Esso viene svolto in base alla prefata disposizione normativa (art. 1, c. 3, d.l. n. 174/2012), la quale stabi-lisce che “Le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti esaminano i bilanci preventivi e i rendiconti

(1) Segue la nota di A. Luberti, Controllo sugli equilibri fi-

nanziari delle aziende sanitarie locali, applicazione dei criteri civilistici e legittimazione alla questione di costituzionalità.

consuntivi [...] degli enti che compongono il Servizio sanitario nazionale, con le modalità e secondo le pro-cedure di cui all’art. 1, cc. 166 ss., l. 23 dicembre 2005, n. 266, per la verifica del rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno, dell’osservanza del vincolo previsto in materia di in-debitamento dall’art. 119, c. 6, Cost., della sostenibi-lità dell’indebitamento e dell’assenza di irregolarità suscettibili di pregiudicare, anche in prospettiva, gli equilibri economico-finanziari degli enti. I bilanci preventivi annuali e pluriennali e i rendiconti delle regioni con i relativi allegati sono trasmessi alle com-petenti sezioni regionali di controllo della Corte dei conti dai presidenti delle regioni con propria relazio-ne”.

La norma riproduce la formulazione e i contenuti dell’art. 148-bis Tuel (introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. e, del medesimo d.l. n. 174/2012), con la sola diffe-renza che tale controllo si espleta sugli enti del servi-zio sanitario nazionale, il cui bilancio è organizzato su una contabilità di tipo economico-patrimoniale, senza che il preventivo abbia effetto autorizzatorio, come è tipico della contabilità pubblica finanziaria.

Il budget (art. 25 d.lgs. n. 118/2011), infatti, ha soltanto finalità ed effetti programmatici, vincolando gli enti ad obiettivi che rilevano sotto il profilo del controllo strategico e dei vincoli contabili da realizza-re a rendiconto. Si tratta cioè di bilanci che, pur man-cando della fase della fissazione e verifica dell’equilibrio statico (mediante la fissazione preven-tiva e autorizzatoria della spesa in base alle entrate previste), rimangono governati dalla clausola generale dell’equilibrio dinamico (Corte cost. n. 70/2012). In pratica, l’emersione di squilibri, misurati dai saldi di bilancio, impone un mutamento degli obiettivi di con-to economico (costi e ricavi) e le modifica delle scrit-ture che si rivelassero irregolari.

Scopo del procedimento di controllo di cui all’art. 1, c. 3, d.l. n. 174/2012 (come dell’art. 148-bis Tuel) è, segnatamente, la misurazione degli equilibri conse-guente all’accertamento di irregolarità contabili, tra-mite appositi indici e saldi tecnico-contabili, che nella contabilità economico-patrimoniale sono il Patrimonio netto (Pn) e il risultato di esercizio (utile-perdita).

Il controllo sul bilancio degli enti pubblici, nelle loro varie articolazioni, in questo caso sugli enti del Servizio sanitario nazionale (Ssn), costituisce uno strumento di certezza ed effettività degli equilibri di bilancio, nel sistema della finanza pubblica allargata (art. 20 l. n. 243/2012).

Nel nuovo sistema costituzionale, si conferma quindi la necessità di un giudice del bilancio e segna-tamente la funzione di controllo della Corte (art. 100 c. 2, Cost., prima parte) tramite cui è possibile verifi-care il rispetto del “diritto sul bilancio” e più a monte dei precetti costituzionali in materia di equilibrio. Sic-ché, emerge con evidenza che la verifica della “since-rità” delle poste di bilancio e dei suoi saldi, con l’attribuzione ad essi del valore della certezza, costi-tuisce la primigenia e fondamentale materia di conta-

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bilità pubblica (art. 103, c. 2, Cost.) attribuita diretta-mente dalla Corte, senza interpositio legislatoris.

Il giudizio e l’accertamento contabile, di legittimi-tà-regolarità, assicura la certezza del diritto del bilan-cio e costituisce la garanzia degli interessi adespoti alla informazione corretta sui risultati della gestione e alla funzionalità del bilancio rispetto agli obiettivi fis-sati dalla legge, nei limiti tracciati dalla Costituzione.

In quest’ottica, gli illeciti contabili che la Corte generalmente accerta e sui cui ha giurisdizione e con-trollo sono “illeciti di evento”, nel senso che devono produrre una lesione del precetto dell’equilibrio, alte-rando la rappresentazione del bilancio e l’effettiva ca-pacità di sostenere costi e spese. In altri casi, la legge affida alla Corte la giurisdizione su veri e propri “ille-citi di condotta”, ossia la violazione di taluni parame-tri che arrecano di per sé un sicuro danno all’equilibrio e alla sostenibilità del ciclo di bilancio (artt. 81 e 97 Cost).

Tali illeciti di condotta (fermo restando l’evento in senso giuridico della lesione del bene pubblico bilan-cio), nella fattispecie del controllo di cui all’art. 1, c. 3, d.l. n. 174/2012 coincidono con la violazione “degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno”, con l’inosservanza “del vincolo previsto in materia di indebitamento dall’art. 119, c. 6, Cost.”, con l’accertamento della insostenibilità dell’indebitamento (per violazione di parametri di legge).

In tali casi, infatti, la legge “tipizza” comportamen-ti che costituiscono ex se forme di lesione del bilancio, riconnettendo ipotesi di responsabilità erariale all’accertamento compiuto dalla Corte, iniziato nell’area del controllo e proseguito in quella giurisdi-zionale (cfr. Sez. contr. reg. Campania, n. 240/2017 in relazione al patto di stabilità, nonché le sentenze Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, n. 314/2019 e Sez. giur. reg. Abruzzo, decr. n. 1/2019).

1.1. Sul piano degli effetti giuscontabili – all’accertamento di tali irregolarità e del loro impatto sugli equilibri espressi dal patrimonio netto e dal risul-tato di esercizio – la legge ricollega la necessità di azioni conformative da parte del soggetto controllato, volte a superare le criticità rilevate (art. 1, c. 7, d.l. n. 174/2012), sia in termini di “sincerità” del bilancio, mediante una correzione delle scritture contabili, sia mediante una riprogrammazione delle azioni di ge-stione (art. 25 d.lgs. n. 118/2011), conseguente ad una diversa situazione contabile (c.d. “misure correttive”, le quali consistono in “provvedimenti idonei a rimuo-vere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bi-lancio”).

Il contenuto e l’impatto quantitativo delle misure correttive di cui vengono ope legis onerati gli enti controllati, dunque, presuppongono e dipendono dalla misurazione dello scarto tra equilibri effettivi accertati dalla Corte dei conti ed equilibri certificati dai bilanci approvati, tramite i saldi tipici della contabilità patri-moniale: patrimonio netto e risultato di esercizio.

Giova rammentare che nella contabilità economi-co-patrimoniale (art. 2424 c.c.), il patrimonio netto è il

saldo in grado di esprimere – nella continuità degli esercizi – la complessiva coerenza tra risorse e impe-ghi, in funzione dell’obiettivo dell’organizzazione (in questo caso, “pubblica”, per risorse, fonti giuridiche e scopi), laddove nella contabilità finanziaria tale capa-cità rappresentativa è espressa dal saldo: “risultato di amministrazione” (art. 42 d.lgs. n. 118/2011).

Tali saldi, nelle due contabilità, costituiscono l’oggetto fondamentale dell’accertamento del giudice contabile.

Del resto, proprio di recente, la Corte costituziona-le, con riguardo all’art. 1, c. 3, d.l. n. 174/2012 – seb-bene con riferimento al bilancio consuntivo della re-gione, approvato a valle del giudizio di parifica (art. 1, c. 5, d.l. n. 174/2012) – ha ricordato che “compito del-la Corte dei conti, [...], è accertare il risultato di am-ministrazione, nonché eventuali illegittimità suscetti-bili di pregiudicare, anche in prospettiva, gli equilibri economico-finanziari degli enti (art. 1, c. 3, d.l. 10 ot-tobre 2012, n. 174, [...]), i rimettenti hanno esaurien-temente spiegato l’effetto preclusivo che le disposizio-ni impugnate avrebbero sul controllo di legittimità delle partite di spesa” (sent. n. 138/2019, par. 6 in Di-ritto).

Mutatis mutandis, il thema decidendum del con-trollo sugli enti del servizio sanitario nazionale, previ-sto dall’art. 1, c. 3, d.l. n. 174/2012, è accertare la cor-retta dimensione del patrimonio netto e con esso lo stato degli equilibri, rispetto ai quali discendono per l’ente controllato gli effetti conformativi di cui all’art. 1, c. 7, del medesimo d.l. n. 174/2012.

In buona sostanza: a) l’oggetto del giudizio di con-trollo della Corte dei conti è il bilancio; b) il parame-tro è la clausola generale dell’equilibrio, misurato alla stregua dei coefficienti propri del tipo di contabilità prescelto.

Tale procedimento può portare all’accertamento di irregolarità contabili, che in ragione delle alterazioni anche “prospettiche” degli equilibri (misurati dai saldi fondamentali del patrimonio netto e del connesso ri-sultato di esercizio), comporta, ope legis, l’insorgenza di doveri di comportamento contabile.

Il principale effetto conformativo è l’insorgenza dell’obbligo giuscontabile di adozione di misure cor-rettive da parte dell’ente controllato, consistente nelle necessarie correzioni delle scritture contabili e nella modifica della politica di budgeting (art. 25 d.lgs. n. 118/2011).

In buona sostanza, la quantificazione dello squili-brio è parametro di misurazione delle misure corretti-ve che l’ente controllato è tenuto ad assumere e, quin-di, parametro concreto di un diverso e distinto proce-dimento di controllo (cfr. Sez. contr. reg. Campania, n. 107/2018; Sez. riun. giur., n. 5/2019/El) in cui la Corte dei conti è tenuta a verificare l’adempimento del ridetto obbligo giuscontabile. L’accertamento di un inadempimento rispetto a tale obbligo di diritto pub-blico comporta, ope legis, il c.d. “blocco della spesa” (art. 1, c. 7, d.l. n. 174/2012, seconda parte). Il princi-pale effetto conformativo è dunque rilevante per l’ente

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controllato, ma anche per la stessa Corte dei conti, in quanto costituisce il presupposto di fatto e il parame-tro concreto per lo svolgimento di controlli successivi.

Lo stesso accertamento, peraltro, è foriero di ulte-riori effetti conformativi che non si limitano all’ente controllato, ma si estendono agli altri soggetti pubblici che concorrono all’organizzazione del servizio sanita-rio.

Infatti, come è noto, se da un lato l’organizzazione dei servizi sanitari è di competenza delle regioni, che devono nella loro autonomia (art. 119 Cost.) assicura-re l’equilibrio del loro bilancio e quello delle loro arti-colazioni organizzative (art. 97, c. 1, Cost.), per altro verso, costituisce loro incombenza dotare le aziende sanitarie, strumentali alla svolgimento di tale compe-tenza, di mezzi finanziari sufficienti a erogare i livelli essenziali di assistenza che, in materia di tutela della salute, costituiscono “livelli essenziali delle prestazio-ni” in materia di diritti civili e sociali di cui all’art. 117, c. 2, lett. m) Cost., ossia quelle prestazioni costi-tuzionalmente necessarie per assicurare l’uguaglianza nell’esercizio del diritto fondamentale alla salute (artt. 2, 3 e 32 Cost.), per cui lo Stato deve erogare appositi finanziamenti (art. 119 Cost.; artt. 25 ss., d.lgs. n. 68/2011).

La sufficienza e adeguatezza del finanziamento, prima regionale e poi statale, per assicurare l’erogazione dei Lea, può essere misurata solo tramite bilanci trasparenti e veritieri delle medesime aziende sanitarie.

1.2. L’accertamento della Corte dei conti, infatti, non è privo di effetti giuridici, oltre che sulle ammini-strazioni controllate, anche sugli enti che hanno rispet-to ad esse competenze, poteri e responsabilità (funzio-ni “tutorie”), in ordine al ripristino degli equilibri (re-gioni) e alla garanzia delle prestazioni costituzional-mente necessarie (per lo Stato, cfr. art. 117, c. 2, lett. m) Cost. in punto di competenza, l’art. 120 in merito al potere sostitutivo e l’art. 119, in punto di autonomia e finanziamento solidale).

Infatti, le situazioni di disavanzo sanitario possono determinare l’obbligo della finanza statale e regionale di intervenire a garanzia dei Lea (art. 119, c. 5, Cost.): così lo Stato deve intervenire a garanzia della tenuta complessiva del sistema sanitario regionale (così co-me accaduto con la con l’art. 1, c. 796, lett. b, l. 27 di-cembre 2006, n. 296), mentre per altro verso le regioni provvedono con appositi contributi a ripianare le per-dite dei singoli enti (cfr. art. 29, c. 1, lett. d) del d.lgs. n. 118/2011.

Di conseguenza – essendo il precetto dell’art. 97 c. 1 Cost. una clausola generale che ha come effetto tipi-co costituzionale l’obbligo di ripristino dell’equilibrio violato (Corte cost. n. 192/2012 e n. 250/2013) – men-tre le stesse amministrazioni controllate devono im-mediatamente adottare comportamenti correttivi, sul terreno delle scritture contabili e della riprogramma-zione gestionale, per eliminare le cause dello squili-brio, l’ente regionale deve verificare gli equilibri ed eventualmente compensare il deficit di risorse che il

ciclo di produzione aziendale non è da solo in grado di riassorbire.

Infatti, a garanzia della continuità dell’erogazione del servizio sanitario e per evitare situazioni siffatte, l’art. 1, c. 174, l. 30 dicembre 2004, n. 311, impone alle regioni di garantire il complessivo equilibrio eco-nomico del servizio sanitario, attribuendo poteri di ca-rattere sostitutivo allo Stato, ex art. 8, c. 1, l. 5 giugno 2003, n. 131.

Il successivo c. 180 stabilisce che le regioni devo-no assicurare il complessivo equilibrio economico fi-nanziario del sistema sanitario regionale, provvedendo ad una ricognizione delle cause e alla conseguente elaborazione di un programma operativo di riorganiz-zazione, di riqualificazione o di potenziamento, di du-rata non superiore ad un triennio.

Con riguardo alle singole situazioni aziendali, ai sensi dell’art. 1, cc. 524-536, l. 28 dicembre 2015, n. 208, le regioni devono individuare i singoli enti del sistema sanitario regionale da sottoporre a piani di rientro per il risanamento della propria situazione aziendale, sulla base di una disciplina dettata da un decreto interministeriale, in attesa di emanazione, a seguito della sent. n. 192/2017 della Corte costituzio-nale. L’inadempimento degli obblighi di rientro può determinare la decadenza del manager preposto (c. 534).

Nel caso della Regione Campania, è stato in questo senso adottato il recente decreto n. 46/2018 del Com-missario ad acta, che espressamente ritiene “il manca-to raggiungimento dell’equilibrio economico [...] ov-vero dei risultati programmati [...] motivo di deca-denza automatica del direttore generale dell’azienda sanitaria inadempiente, fatte salve le ulteriori sanzio-ni previste dall’ordinamento”.

2. Natura e funzione rappresentativa del patrimonio netto nella contabilità economico-patrimoniale “pub-blica”

Le variazioni del patrimonio netto da un esercizio all’altro costituiscono un indice deputato ad esprimere gli equilibri economico-finanziari di gestione. Tali va-riazioni sono espresse, principalmente, dal risultato di esercizio (utile-perdite) che a sua volta incide sulla consistenza del patrimonio netto stesso (composto, al suo interno: dal capitale di dotazione, dalle riserve, dagli utili non distribuiti, al netto delle perdite da ri-pianare, cfr. art. 2424 c.c.).

Il Patrimonio netto è anche definito come differen-za tra le attività e passività (saldo) aziendali. Per que-sto, il Pn, considerato nel suo valore assoluto a fine esercizio, esprime, nella continuità di bilancio, l’equilibrio tra le risorse presenti (i finanziamenti con-tabilizzati tra le “passività”) e i loro impieghi (conta-bilizzati tra le “attività”), i quali ultimi devono essere in grado di generare reddito e di sostenere il costo del rinnovo del ciclo aziendale (conto economico), garan-tendo la continuità dell’azienda medesima (principio di continuità).

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Il saldo positivo tra attività e passività (in cui con-siste il patrimonio netto) esprime la capacità dell’azienda di sostenere e finanziare il ciclo azienda-le; il saldo negativo, invece, un deficit di risorse per il quale è evidente che la capacità produttiva dell’azienda è impegnata primariamente a ripianare il debito pregresso, piuttosto che a creare nuovo valore.

In questo senso, per gli enti pubblici in contabilità economico-patrimoniale (art. 2424 c.c.), il Pn rappre-senta un saldo in grado di fornire informazioni simili a quelle rese dal risultato di amministrazione per gli enti territoriali diversi dallo Stato in contabilità finanziaria: così come il risultato di esercizio (utile-perdita) esprime l’equilibrio nel ciclo di reddito in una singola unità temporale (esercizio) alla stregua di quanto fa, in contabilità finanziaria, il risultato di gestione (avanzo-disavanzo di gestione), il Pn, come il risultato di am-ministrazione, mostra se, nella continuità degli eserci-zi, l’ente è ghermito da una situazione debitoria, deri-vante dagli esercizi precedenti, che gli impedisce di impiegare le risorse che si rendono disponibili, prima-riamente, a scopi produttivi di nuovi beni e servizi, a causa della pressione che deriva dal debito pregresso.

Esso si ottiene, infatti, algebricamente come la dif-ferenza tra le attività e le passività rappresentate nello Stato patrimoniale e misura il valore economico della ricchezza propria dell’azienda e se (e in che misura) sussistono le condizioni della proseguibilità dell’attività aziendale. Infatti, astrattamente, il Pn for-nisce un’informazione elementare e cioè quale ric-chezza rimarrebbe all’azienda ove, al tempo “t”, si procedesse a liquidare e pagare tutte le passività gene-rate dai fatti di gestione. La ricchezza che residua de-ve essere peraltro in grado di rifinanziare gli impeghi necessari a riattivare il successivo ciclo di reddito.

Di conseguenza, l’accertamento contabile della reale consistenza del patrimonio netto (per effetto di irregolarità che incidono in diminuzione sul suo valo-re, ad esempio, mediante una riduzione delle attività e/o un aumento delle passività) è in grado non solo di acclarare lo stato degli equilibri, ma anche di costitui-re premessa per il procedimento decisionale da parte degli organi delle pubbliche amministrazioni, che pos-sono così valutare quale spazio è disponibile per un nuovo eventuale indebitamento sostenibile e/o per l’erogazione di maggiori beni e servizi, funzionali allo svolgimento delle proprie attività pubbliche. In caso di patrimonio netto negativo, sarebbe per contro necessa-rio programmare azioni di ripiano, anche sinergiche con altri enti che hanno competenze in materia di ga-ranzia della effettiva erogazione dei Lea (artt. 119 e 120 Cost.), secondo standard di uguaglianza, poiché lo squilibrio può pregiudicare la destinazione delle risor-se verso prestazioni necessarie per legge o Costituzio-ne (art. 117, c. 2, lett. m, Cost.).

2.1. Dal punto di vista della disciplina applicabile, a differenza delle articolate disposizioni dedicate pre-cipuamente al bilancio pubblico in contabilità finan-ziaria, emanate con il d.lgs. n. 118/2011, il regolamen-to contabile rilevante per gli enti del servizio sanitario

nazionale è determinato, per il rinvio effettuato dallo stesso d.lgs. n. 118/2011, dalla disciplina del codice civile e, implicitamente (per il carattere elastico delle norme contabili legali), dalle norme tecniche elaborate dalla scienza aziendale e dai principi contabili degli organi professionali.

Gli enti del servizio sanitario, infatti, adottano il si-stema della contabilità economico-patrimoniale (artt. 26 e 19 lett. b, punto i, c, d, c. 2, d.lgs. n. 118/2011). Inoltre, per la redazione del bilancio d’esercizio, ap-plicano la disciplina civilistica (artt. da 2423 a 2428 c.c.), fatto salvo quanto espressamente disposto dal d.lgs. n. 118/2011 e i suoi allegati, in particolare dagli allegati 2, 2/1, 2/3, 2/4.

2.2. Ciò premesso, fatta salva la disciplina speciale di legge, la struttura e la funzione del patrimonio netto delle aziende sanitarie si identifica con quella civilisti-ca e, tramite la disciplina di diritto comune (art. 2424 c.c., c. 1, lett. A del passivo dello Stato patrimoniale), con la logica contabile del sistema economico-patrimoniale, elaborata dalla scienza ragionieristico - aziendale.

In generale, il passivo dello Stato patrimoniale in-dica tutte le “fonti” di finanziamento dell’attività aziendale, cui corrispondono gli impieghi dell’attivo patrimoniale. All’interno dello stesso, peraltro, occor-re distinguere tra il patrimonio netto e le altre passivi-tà.

L’istituto giuscontabile del “Patrimonio netto” consiste, in primo luogo, in una fonte di finanziamen-to dell’attività aziendale, caratterizzantesi per la pecu-liarità della provenienza e delle aspettative di restitu-zione e remunerazione. Esso, infatti, si connota come “capitale proprio e di rischio”, da trasformare in “im-pieghi” aziendali. Gli impieghi aziendali, pertanto, so-no in primo luogo il risultato della trasformazione del capitale proprio (di rischio), nonché, in secondo luo-go, di quello di terzi.

Dal punto di vista della composizione, nel sistema a partita doppia, esso è composto dal capitale sociale (recte, fondo di dotazione, essenziale per la prosecu-zione dell’attività), dalle riserve e dagli utili non di-stribuiti. A tale valore vanno sottratte le perdite da ri-pianare (cfr. art. 2424 c.c., Voce “A” del Passivo). Il saldo che ne risulta, come si vedrà tra breve, grazie al sistema della partita doppia, è esattamente uguale al saldo complessivo tra “attività” e passività”.

Infatti, e per altro verso, il patrimonio netto va di-stinto dalla passività vere e proprie (art. 2424 c.c. lett. B ss. del Passivo), elencate nelle voci successive del passivo Stato patrimoniale: esse riguardano i debiti della società con i terzi, per la disponibilità di capitale conferito, suscettibile di richieste di restituzione (claims).

In quest’ambito, il patrimonio netto si distingue dalle passività in senso tecnico: a) per la natura, in quanto misura il capitale investito stabilmente dai proprietari dell’azienda (la cui restituzione e remune-razione è del tutto eventuale e aleatoria); b) per la sua funzione informativa, in quanto ogni sua variazione

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esprime un indice sintetico e globale del successo dell’attività aziendale nella continuità temporale e contemporaneamente, se riguardato in termini assolu-ti, indica le condizioni della sua perseguibilità, condi-zionando la successiva programmazione.

In definitiva, nella contabilità economico-patrimoniale il complessivo attivo patrimoniale (gli impieghi delle risorse, “A”) equivale alla somma del valore complessivo delle fonti proprie e di terzi, cioè delle passività (claims, “P”, ovvero il capitale di terzi) e del patrimonio netto (ergo, A=P+Pn). Per tale ragio-ne, il Pn si può definire algebricamente come il valore differenziale tra attività e passività (Pn=A-P).

Si tratta quindi di un saldo che, se negativo, misura l’eventuale deficit di risorse che deve essere reintegra-to. Se positivo, invece, esprime il margine per sostene-re prospetticamente l’aumento dell’indebitamento ver-so il mercato, per effetto della crescita delle passività (aumento del ricorso a capitale di terzi), determinata dallo squilibrio emerso a valle del processo di inve-stimento e di finanziamento della gestione corrente. In ogni caso, il Pn deve assicurare un surplus idoneo a garantire la continuità dell’azienda, tale da conservare quanto meno il fondo di dotazione perché altrimenti, per pagare tutti i debiti, l’azienda dovrebbe disfarsi anche dei suoi beni strumentali essenziali.

2.3. Se il Pn, alla stregua delle passività vere e proprie, finanzia in modo non dissimile e unitario gli impieghi aziendali e il ciclo economico, se ne diffe-renzia profondamente per natura e funzione rappre-sentativa (funzione che esso esercita verso gli stake-holders).

Esso si trova allocato nella sezione finale del Pas-sivo, perché, lato sensu, costituisce un “debito” pecu-liare, per destinatario e per esigibilità. La natura del “debito” che esso rappresenta, infatti, è di tipo aleato-rio: esso esprime il quantum che l’organizzazione sa-rebbe tenuta a restituire ai suoi “mandanti” (principal-stakeholders) una volta esaurito o cessato il mandato aziendale. Tale debito di “organizzazione” e tale resti-tuzione, è doppiamente eventuale e aleatoria, in quan-to subordinata: a) all’evento eccezionale dell’interruzione dell’attività aziendale, b) alla esi-stenza di un surplus patrimoniale rispetto al monte dei debiti verso “terzi”.

Sul primo piano (natura), dunque, per gli investito-ri-proprietari, esso esprime un credito aleatorio e quindi un capitale di rischio, poiché la restituzione e la remunerazione del capitale investito dipendono da un evento, futuro e incerto (il successo dell’attività aziendale, espresso dall’utile), mentre, per l’azienda stessa può essere considerato un “debito di organizza-zione” che diventa esigibile solo in caso di interruzio-ne dell’attività aziendale.

Quanto al secondo piano (funzione), il Pn ha una funzione informativa essenziale per la verifica della capacità dell’azienda di sostenersi, nel tempo, coi ca-pitali investititi. Esso quindi rappresenta un elemento informativo essenziale per la prosecuzione e pro-grammazione della successiva attività aziendale e per

la verifica del merito creditizio o di margini per ulte-riore indebitamento. La sua crescita o la sua diminu-zione, infatti, esprimono il successo o l’insuccesso della mission aziendale.

Inoltre esso misura la ricchezza economica dell’azienda e della sua proprietà pubblica. La sua ri-duzione al di sotto del livello di pareggio equivale alla certificazione che la gestione corrente è risultata inef-ficiente e le sue perdite hanno distrutto la ricchezza originaria. In altri termini: l’accertamento di un Pn negativo equivale alla rilevazione della distruzione integrale del valore economico delle risorse necessarie alla sopravvivenza dell’azienda stessa e della sussi-stenza del pregiudizio-rischio di interruzione della continuità aziendale.

Per contro, la presenza di un surplus esprime la presenza di una eccedenza di ricchezza e misura il margine della sostenibilità di eventuali, future, perdite (per la crescita di debiti e costi a fronte di ricavi insuf-ficienti).

Nelle aziende di erogazione, in assenza di un capi-tale legale, la sua consistenza finale non può essere in ogni caso inferiore a zero e deve corrispondere ad un surplus pari al valore dei beni strumentali essenziali per la prosecuzione dell’azienda. Esso rappresenta quindi l’equilibrio dinamico di bilancio, mettendo in relazione il risultato della gestione con quelli degli esercizi precedenti, alla stregua di quanto avviene con il “risultato.

Cosicché si può affermare che il Pn (e il suo valore assoluto a fine esercizio) esprime gli equilibri di bi-lancio dell’azienda sanitaria consistenti in: a) un “ac-creditamento” in caso di Pn positivo (capitale proprio ”impiegato” nell’azienda); b) un “indebitamento” in caso di Pn negativo (ovvero un deficit di risorse rispet-to alle passività complessive, che deve essere necessa-riamente ripianato, a pena dell’innesto di tensioni di cassa o economiche che possono impedire la prosecu-zione del ciclo di produzione-erogazione).

La variazione del Pn, inoltre, è un indice di per-formance su cui svolgere una valutazione in ordine alla corretta esecuzione del mandato da parte dei diri-genti (cfr. parr. 1.1. e 1.2.), e, insieme alla sua consi-stenza, costituisce la permessa per le successive deci-sioni aziendali, anche in termini di ricorso al finan-ziamento da parte di terzi (art. 25 d.lgs. n. 118/2011), ma soprattutto, nel sistema della contabilità pubblica delle aziende di erogazione, da parte degli stessi pro-prietari aziendali (la regione e lo Stato che devono eventualmente intervenire in funzione di “ripiano per-dite” a garanzia dell’erogazione dei Lea).

Considerato in fatto – (Omissis) 4. La sezione – come anticipato – emetteva ordinanza istruttoria col-legiale (6 maggio 2019, n. 106) con cui, da un lato, reiterava la richiesta di fornire documenti, memorie, informazioni sui temi oggetto della relazione di defe-rimento comunicata con l’ordinanza presidenziale n. 23/2019, dall’altro, chiedeva di dedurre sulla questio-ne di costituzionalità dell’art. 29, c. 1, lett. c), d.lgs. n. 118/2011, sollevata d’ufficio dal collegio.

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5. Con ordinanza presidenziale n. 34 del 10 mag-gio 2019, l’Asl veniva ri-convocata in adunanza pub-blica per il giorno 27 maggio 2019.

Con nota prot. Corte conti, n. 3703 del 22 maggio 2019, l’Asl ha trasmesso articolate memorie, mentre all’adunanza pubblica del 27 maggio 2019, intervenu-ta con i propri rappresentanti, ha fornito informazioni supplementari e precisazioni. (Omissis)

Considerato in diritto – (Omissis) 2. La norma og-getto della questione incidentale di costituzionalità. La quantificazione del patrimonio netto, su cui si “scari-cano” le minori attività patrimoniali irregolarmente accertate (per la somma totale di euro 12.660.087,49, comprensiva anche alla seconda componente), dipen-de dalla disciplina legale dello stesso.

Segnatamente, l’impatto di tale illegittimità sugli equilibri di bilancio, ovvero sul valore finale del pa-trimonio netto (oggetto dell’accertamento contabile), dipende dall’applicazione della disciplina speciale contemplata dall’art. 29 c. 1, lett. c), d.lgs. n. 118/2011.

La disposizione recepisce istruzioni tecniche già applicate nel settore, a mezzo di fonti non normative (cfr. “Linee guida per il bilancio delle aziende sanita-rie” della Ragioneria generale dello Stato, pubblicate con il Bollettino d’informazioni del 6 giugno 1995 ed emanate a valle del decreto ministeriale 20 ottobre 1994 con il quale sono stati definiti, a suo tempo, gli schemi di bilancio per le aziende sanitarie) che tutta-via avevano avuto applicazioni differenziate nei vari ordinamenti regionali. Segnatamente, mentre il decre-to prevedeva la contabilizzazione nel patrimonio netto dei contributi in conto capitale ricevuti dalle regioni (senza null’altro stabilire), le “Linee guida”, per altro verso, prevedevano contemporaneamente la sterilizza-zione dell’ammortamento dei cespiti acquistati, trami-te lo storno a conto economico del valore già contabi-lizzato nel patrimonio netto.

La norma legislativa oggi vigente contiene una re-golamentazione precipua per la contabilizzazione dei contributi in conto capitale (di seguito anche “in conto investimenti”) ricevuti dalla finanza regionale, nell’ambito della contabilità pubblica sanitaria. Segna-tamente: “1. Al fine di soddisfare il principio generale di chiarezza e di rappresentazione veritiera e corretta, nonché di garantire l’omogeneità, la confrontabilità e il consolidamento dei bilanci dei servizi sanitari re-gionali, sono individuate le modalità di rappresenta-zione, da parte degli enti di cui all’art. 19, c. 2, lett. c) e lett. b), punto i), ove ricorrano le condizioni ivi pre-viste, delle seguenti fattispecie: [...] c) i contributi in conto capitale da regione sono rilevati sulla base del provvedimento di assegnazione. I contributi sono iscritti in un’apposita voce di patrimonio netto, con contestuale rilevazione di un credito verso regione. Laddove siano impiegati per l’acquisizione di cespiti ammortizzabili, i contributi vengono successivamente stornati a proventi con un criterio sistematico, com-misurato all’ammortamento dei cespiti cui si riferi-scono, producendo la sterilizzazione

dell’ammortamento stesso. Nel caso di cessione di be-ni acquisiti tramite contributi in conto capitale con generazione di minusvalenza, viene stornata a proven-to una quota di contributo commisurata alla minusva-lenza. La quota di contributo residua resta iscritta nell’apposita voce di patrimonio netto ed è utilizzata per sterilizzare l’ammortamento dei beni acquisiti con le disponibilità generate dalla dismissione. Nel caso di cessione di beni acquisiti tramite contributi in con-to capitale con generazione di plusvalenza, la plusva-lenza viene direttamente iscritta in una riserva del pa-trimonio netto, senza influenzare il risultato economi-co dell’esercizio. La quota di contributo residua resta iscritta nell’apposita voce di patrimonio netto ed è utilizzata, unitamente alla riserva derivante dalla plu-svalenza, per sterilizzare l’ammortamento dei beni acquisiti con le disponibilità generate dalla dismis-sione. Le presenti disposizioni si applicano anche ai contributi in conto capitale dallo Stato e da altri enti pubblici, a lasciti e donazioni vincolati all’acquisto di immobilizzazioni, nonché a conferimenti, lasciti e do-nazioni di immobilizzazioni da parte dello Stato, della regione, di altri soggetti pubblici o privati”.

2.1. La norma consente di contabilizzare il ridetto contributo come un elemento del patrimonio netto (Pn).

La scelta legislativa, sottesa alla classificazione del contributo in conto capitale tra le componenti “specia-li” del patrimonio netto delle aziende di erogazione, appare dipendere: a) dalla circostanza che i contributi derivano dagli stessi proprietari del capitale sociale (la regione e indirettamente il sistema sanitario naziona-le); b) dal fatto che il trasferimento è sostanzialmente gratuito, al netto della necessità di provvedere al ri-spetto del vincolo di destinazione, che, una volta ri-spettato con l’acquisto di un asset di investimento, ri-mane stabilmente allocato nel patrimonio dell’azienda.

2.2. La regola dell’art. 29 c. 1, lett. c), d.lgs. n. 118/2011, peraltro, consente, contemporaneamente, con lo stesso contributo, di “sterilizzare” (“annullare”) sul conto economico gli effetti (economici) degli am-mortamenti dei cespiti acquistati, tecnica che, nor-malmente, presuppone l’estraneità della riserva utiliz-zata a tale scopo, rispetto al patrimonio.

Il legislatore, dunque, ha operato una scelta che conglomera due prospettive: il contributo aumenta stabilmente la ricchezza dell’azienda sanitaria, e allora può essere contabilizzata nel patrimonio netto. Allo stesso tempo, però, il medesimo contributo, poiché è erogato dalla finanza pubblica con tendenziale siste-maticità, può essere utilizzato per annullare il costo di ammortamento dei cespiti acquistati, in quanto non è compito della gestione aziendale provvedere al riac-quisto futuro dei beni medesimi.

Tale scelta conduce a considerare il finanziamento dell’acquisto dei beni durevoli (i beni di investimento) delle aziende sanitarie un onore-dovere diretto del si-stema della finanza pubblica allargata (regione e indi-rettamente, lo Stato) e non già un obiettivo del ciclo

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aziendale dell’ente sanitario e della sua sostenibilità e, quindi, del patrimonio netto su cui si scaricano gli esi-ti positivi o negativi della gestione.

Giova rammentare che l’istituto giuscontabile dell’ammortamento, nella contabilità economico-patrimoniale, è direttamente collegato con gli obiettivi di equilibrio e continuità aziendale. Gli ammortamen-ti, infatti, danno evidenza contabile alla naturale, pro-gressiva perdita di valore cui sono esposte le attività pluriennali aziendali. Tramite una convenzione conta-bile, si “simula” un costo (corrispondente al fenomeno “naturale” del deterioramento del bene per effetto del tempo e dell’uso), per trattenere risorse all’interno dell’azienda per il futuro rinnovo degli assets, a ga-ranzia dell’auto-sostenibilità del ciclo economico e della continuità aziendale.

Tali costi vengono quindi imputati annualmente al conto economico, in diminuzione del valore dei beni ad utilità pluriennale (immobilizzazioni), trattenendo contemporaneamente tale valore all’interno dell’azienda, che viene così sottratto all’utile.

Dal punto di vista giuscontabile, l’ammortamento è il processo tecnico di ripartizione dei costi plurien-nali in costi d’esercizio, secondo il principio di com-petenza economica. Il concetto è ripreso e disciplinato dall’art. 2426 c.c., il quale prevede che “il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui uti-lizzazione è limitata nel tempo deve essere sistemati-camente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”.

Tale costo, dovendo essere ammortizzato in ogni esercizio, è compreso dal conto economico, come pre-visto dall’art 2425 c.c., tra i costi della produzione, al n. 10.

Poiché il conto economico contiene tutti i ricavi e i costi di competenza dell’esercizio, dalla cui differenza si ottiene il risultato economico dell’esercizio (perdi-ta-utile), discende che gli ammortamenti, facendo par-te del conto economico, incidono sullo stato patrimo-niale in via mediata, tramite il risultato di esercizio. Tanto si desume dall’art. 2425 n. 20 c.c. che prevede il risultato di esercizio, al netto delle imposte, come saldo delle diverse voci del conto economico, e dall’art. 2424 c.c., che prevede l’utile o la perdita dell’esercizio tra le componenti dello stato patrimonia-le e precisamente come una voce del patrimonio netto.

2.3. La “sterilizzazione” (l’annullamento) dell’ammortamento, prevista dall’art. 29, c. 1, lett. c), d.lgs. n. 118/2011, determina invece la copertura degli ammortamenti mediante una riduzione della voce di contributi iscritta al patrimonio netto, in tal modo alte-rando il risultato del conto economico, che non è più in grado di esprimere il reale andamento dell’esercizio, impedendo così di determinarne l’esatta perdita (o utile) e quindi, in ultima analisi, lo stesso l’equilibrio dinamico del bilancio delle aziende sanita-rie.

Il dubbio che induce questo giudice a sollevare questione incidentale di costituzionalità attiene all’inconciliabilità logica di questa doppia parallela

scelta tecnica, che rende insanabilmente non veritiero il valore del Patrimonio netto (Pn) finale, inteso come saldo capace di misurare gli equilibri effettivi di bi-lancio e i doveri di bilancio conseguenti, sia per l’azienda sanitaria che per gli organi tutori.

La tecnica dell’art. 29 d.lgs. n. 118/2011 devia, in-fatti, profondamente dalla disciplina civilistica, che ammette tecniche di contabilizzazione diverse e in-conciliabili.

Nella disciplina civilistica, la “sterilizzazione” dell’ammortamento è ammessa solo nel caso in cui i contributi siano stati contabilizzati alla stregua di una passività in senso tecnico e, segnatamente, alla stregua di un “risconto passivo”, a titolo di ricavo pluriennale. Non invece quando si contabilizza tale componente come un elemento del patrimonio netto, che non può mai essere impiegato, per statuto tecnico, a copertura di passività certe e determinate, ma solo di perdite.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, solleva la questione di le-gittimità costituzionale dell’art. 29, c. 1, lett. c), d.lgs. n. 118/2011, in riferimento ai parametri stabiliti degli artt. artt. 97 e 81 Cost., anche in combinato disposto con gli artt. 1, 2, 3 e 32 Cost.

Controllo sugli equilibri finanziari delle aziende sanitarie locali, applicazione dei criteri civilistici e legittimazione alla questione di costituzionalità

Con la pronuncia in commento, la Sezione regio-nale di controllo per la Campania – in sede di verifica dell’equilibrio finanziario di un’azienda sanitaria loca-le ai sensi dell’art. 1, c. 3, d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213 – ha ritenuto ammissibile (per la prima volta in tale sede), nonché non manifestamente infondata, una questione di legittimità costituzionale.

In punto di ammissibilità, la sezione ha tratto spun-to dalla pronuncia della Corte cost. 14 febbraio 2019, n. 18 (1), che ha riconosciuto la legittimazione, quale giudice a quo, delle sezioni regionali della Corte dei conti investite del controllo (successivo) sugli equili-bri finanziari degli enti locali, in considerazione del carattere formalmente e sostanzialmente giurisdizio-nale dell’attività. Il giudice remittente ritiene che le medesime conclusioni possano essere estese anche al controllo operato sugli enti dei servizi sanitari regio-nali, attesa l’identità di natura dell’attività della sezio-ne, che differisce solo per avere ad oggetto enti sotto-posti alla disciplina contabile economico-patrimoniale piuttosto che a quella finanziaria, con opzione giusti-ficata dall’indirizzamento prevalente dell’ente all’erogazione di prestazioni paritetiche.

Nel merito, la questione proposta concerne la di-sciplina in materia di contabilità degli enti dei servizi

(1) In questa Rivista, 2019, fasc. 1, 212, con nota di C. For-

te, M. Pieroni, Prime osservazioni a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 18/2019.

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sanitari regionali, nella parte in cui comprende nel pa-trimonio netto i contributi in conto capitale ricevuti dalla regione, e al contempo consente che gli stessi siano utilizzabili per sterilizzare i costi di ammorta-mento nell’ambito del conto economico. Tale previ-sione determina una deroga ai criteri tecnici implici-tamente richiamati dall’art. 2424 c.c., potenzialmente idonea a pregiudicare l’equilibrio finanziario degli en-ti in questione e l’erogazione dei servizi sanitari sub specie di mancata ostensione dell’erosione del patri-monio netto dell’azienda.

Particolarmente pregevole appare l’iter logico del giudice a quo, che proprio partendo dal carattere so-stanzialmente “privatistico” della contabilità delle aziende sanitarie locali, censura l’esistenza di disposi-zioni normative specifiche che tendono a derogare da-gli schemi concettuali del bilancio come delineato dal c.c.

In punto di fatto, è evidenziato come la previsione secondo cui i contributi provenienti dalla regione sia-no iscritti in un’apposita voce di patrimonio netto, con contestuale rilevazione di un credito verso regione; e che, al contempo, ove impiegati per l’acquisizione di cespiti ammortizzabili, siano successivamente iscritti a sterilizzazione dell’ammortamento medesimo, sia irragionevole e non conforme alle corrispondenti ca-tegorie concettuali della disciplina civilistica. In quest’ultima “la “sterilizzazione” dell’ammortamento è ammessa solo nel caso in cui i contributi siano stati contabilizzati alla stregua di una passività in senso tecnico e, segnatamente, alla stregua di un “risconto passivo”, a titolo di ricavo pluriennale. Non invece quando si contabilizza tale componente come un ele-mento del patrimonio netto, che non può mai essere impiegato, per statuto tecnico, a copertura di passivi-tà certe e determinate, ma solo di perdite”.

L’ordinanza evidenzia, al riguardo, l’incompatibilità tra le categorie ontologiche del pa-trimonio netto e delle passività in senso tecnico, evi-denziando che la contabilizzazione nel primo, o nelle seconde, deve essere fatta discendere dalla valorizza-zione (alternativa) del carattere stabile della contribu-zione pubblica, della sua gratuità e non reclamabilità in restituzione, ovvero del carattere straordinario del sostegno pubblico.

L’irragionevolezza di tale duplice imputazione è argomentata anche in base al tertium comparationis desunto dalla disciplina delle università (artt. 16, 17 e 18 d.lgs. 31 maggio 2011, n. 91 e d.lgs. 27 gennaio 2012, n. 18), anch’esse soggette alla contabilità eco-nomico-patrimoniale.

Degna di nota appare, poi, nella prospettazione della sezione, l’individuazione degli artt. 81 e 97 Cost. (nella loro attuale formulazione) come strumenti fina-lizzati a garantire i livelli essenziali delle prestazioni, anziché come forme di contenimento dell’erogazione dei servizi sociali (2).

(2) Sull’art. 97 dopo la riforma operata dalla l. 20 aprile

2012, n. 1, v. N. Pettinari, Commento sub art. 97, in F. Clemen-ti et al. (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, Bologna, il Mulino, 2018, vol. II, 231.

Nel caso di specie, la rilevanza della questione viene appunto argomentata dal dato che il patrimonio netto dell’azienda sanitaria locale esaminata presenta-va un miglioramento. Esso era dovuto, tuttavia, alla corresponsione di contributi in conto perdite da parte della regione, utilizzati per investimenti, e quindi, se-condo la sezione, più propriamente computabili solo come passività rappresentativa di proventi percepiti nell’esercizio, ma di competenza di esercizi successi-vi.

In alternativa, la riduzione del patrimonio netto emergerebbe (ove tali contributi vi fossero comunque ascritti) dalla diminuzione del risultato di esercizio, correlata all’eliminazione del peculiare meccanismo di sterilizzazione dell’ammortamento.

ANDREA LUBERTI

172 – Sezione controllo Regione Campania; delibera-zione 30 luglio 2019; Pres. Longavita, Rel. Cassaneti, Sucameli; Regione Campania.

Contabilità regionale e degli enti locali – Giudizio di parificazione del rendiconto regionale – Legge regionale – Trattamento accessorio del personale del consiglio regionale – Illegittimità costituzionale – Conseguenze. Cost., artt. 81, 97, 117, c. 2, lett. l); 1; d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, non-ché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremo-tate nel maggio 2012, art. 1; l. reg. Campania, 3 set-tembre 2002, n. 20, art. 2, cc. 2, 4; l. reg. Campania 12 dicembre 2003, n. 25, art. 1, c. 1.

La Sezione regionale di controllo per la Campania ha deliberato di non parificare il rendiconto della Re-gione Campania per l’esercizio finanziario 2016, quanto alle poste passive concernenti i trasferimenti al Consiglio regionale, relative al trattamento acces-sorio del personale erogato senza titolo, salvi i profili sostanziali, anche ai fini della responsabilità erariale, di doveroso recupero del credito nei confronti dei percettori degli emolumenti non dovuti. (1)

(1) Con la decisione in rassegna, resa nell’ambito di un giudizio di parificazione del rendiconto regionale ai sensi dell’art. 1, d.l. n. 174/2012, la Sez. contr. reg. Campania ha escluso la parificazione delle poste corrispondenti agli emolu-menti accessori, interessati dalla recentissima pronuncia Corte cost., 19 giugno 2019, n. 146.

L’arresto ha avuto ad oggetto, in particolare, le erogazioni corrisposte al fondo destinato al trattamento accessorio del per-sonale comandato e distaccato in servizio presso le strutture politiche, istituito dall’art. 2 della l. reg. n. 20/2002, e al fondo integrativo istituito dall’art. 1, c. 1, l. reg. n. 25/2003, finalizza-to a corrispondere tali voci retributive sotto forma di indennità di importo fisso e predeterminato al personale, che svolga pre-stazioni di assistenza all’attività degli organi istituzionali del consiglio.

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Considerato in Fatto e diritto

1. L’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale e la sospensione del giudizio.

Con ord. n. 115/2018 questa sezione sospendeva il giudizio di parificazione sui rendiconti 2015 e 2016 – esitato con decisione parziale di parifica con talune eccezioni, con riserva sulla cassa e “non parifica tec-nica” su alcune partite finanziate con l’applicazione del risultato di amministrazione – limitatamente al so-lo rendiconto 2016, con riguardo ad alcune partite fi-nanziarie su cui hanno avuto impatto le spese per il personale del consiglio regionale.

Segnatamente, la sezione aveva rilevato il carattere pregiudiziale della questione di legittimità costituzio-nale di leggi di spesa che avevano consentito l’erogazione di emolumenti al personale consiliare sulla base di una disciplina di legge regionale che, ad avviso del collegio, sarebbe stata emanata in violazio-ne dell’art. 117 Cost. in combinato disposto con gli artt. 81 e 97 Cost.

La questione veniva sollevata, nella sostanza, sulla legittimità della spesa effettuata dal consiglio regiona-le, il quale si pone come erogatore di spesa di “secon-do livello” rispetto al bilancio della regione, unitaria-mente inteso.

La questione veniva sollevata come preliminare al-la parificazione alle poste di spesa di primo livello (cap. U00008, relativo al trasferimento dei fondi per il funzionamento del consiglio), attraverso le quali i fondi vengono trasferiti dal bilancio regionale al “sot-to-bilancio” del consiglio regionale.

2. L’unità del bilancio e la posta su cui è stato sospe-so il giudizio di parifica.

Come è noto, il sistema di finanziamento regionale della spesa per il personale è frazionato, in quanto il bilancio dell’amministrazione e il bilancio del consi-glio, che della regione è organo, sono separati in punto di gestione.

Dal punto di vista contabile, infatti, il consiglio re-gionale è dotato di un bilancio separato, finanziato tramite il programma 0101 “Organi istituzionali” della

La Corte ha ritenuto che tali norme contrastassero con gli

artt. 81, 97, e 117, c. 2, lett. l), in quanto violative del principio di riserva delle voci retributive del pubblico impiego alla legi-slazione statale e, nei limiti di questa, alla contrattazione collet-tiva.

Dall’illegittimità del trattamento economico corrisposto dal consiglio quale pagatore “di secondo livello” la sezione ha fatto discendere l’impossibilità di procedere alla parificazione delle poste ad esso destinate, passive per la regione in quanto eroga-tore “di primo livello”, salve le ulteriori conseguente civilisti-che e di responsabilità erariale.

Per un’ampia rassegna dell’evoluzione giurisprudenziale in materia di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale proposte nell’ambito del giudizio di parificazione, si rinvia a M. Pieroni, C. Forte, Ancora sulla sentenza n. 196 del 2018 della Corte costituzionale, in questa Rivista, 2019, fasc. 3, 100, e Corte cost. 6 giugno 2019, n. 138, ibidem, 259, con nota di richiami.

Missione 1 “Servizi istituzionali e generali, di gestio-ne” del bilancio di previsione regionale. Ciò accade in base ad un duplice ordine di disposizioni normative.

In primo luogo, in questo senso depone l’art. 67 del d.lgs. n. 118/2011, il quale stabilisce che “1. Le regioni, sulla base delle norme dei rispettivi statuti, assicurano l’autonomia contabile del consiglio regio-nale, nel rispetto di quanto previsto dal d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, e dai principi contabili stabili-ti dal presente decreto riguardanti gli organismi strumentali.

2. Il consiglio regionale adotta il medesimo siste-ma contabile e gli schemi di bilancio e di rendiconto della regione adeguandosi ai principi contabili gene-rali e applicati allegati al presente decreto.

3. La presidenza del consiglio regionale sottopone all’assemblea consiliare, secondo le norme previste nel regolamento interno di questa, il rendiconto del consiglio regionale. Le relative risultanze finali con-fluiscono nel rendiconto consolidato di cui all’art. 63, c. 3. Al fine di consentire il predetto consolidato, l’assemblea consiliare approva il proprio rendiconto entro il 30 giugno dell’anno successivo”.

La disposizione si pone in armonia con i precetti del titolo V introdotto dalla l. cost. n. 3/2001 (artt. 117, c. 3, e 123 Cost.) e con la riserva della competen-za esclusiva allo Stato in materia di armonizzazione contabile di cui alla recente l. cost. n. 1/2012 (art. 117, c. 2, lett. e), ponendo il bilancio del consiglio regiona-le in stretta continuità con quello “generale” della re-gione complessivamente considerata. Di conseguenza la struttura e il funzionamento del bilancio del consi-glio regionale si muove ed ha premessa in quello dell’intera regione, rispetto al quale il consiglio si po-ne, contabilmente, alla stregua di un organismo stru-mentale e come centro di spesa di secondo livello, con effetti sul bilancio e sul rendiconto “generale”.

In questo senso, peraltro, già deponeva

- l’art. 26 dello Statuto regionale (l. reg. 28 maggio 2009, n. 6, successivamente modificato dalla l. reg. 31 gennaio 2014, n. 6) – fonte rinforzata ai sensi dell’art. 123 Cost. – secondo cui il bilancio consiliare è espres-sione dell’autonomia organizzativa, amministrativa e contabile della regione;

- l’art. 4 della l. reg. 30 aprile 2002, n. 7 (legge re-gionale di contabilità), successivamente abrogato dall’art. 12, c. 1, l. reg. 5 dicembre 2017, n. 37 (prin-cipi e strumenti della programmazione ai fini dell’ordinamento contabile regionale).

Declinando tali principi sul piano della spesa per il personale – la quale, come è noto, costituisce uno dei macro-aggregati correnti in grado di incidere sugli equilibri generali di bilancio di qualsiasi ente pubblico – l’art. 67 dello Statuto regionale sancisce l’autonomia organizzativa e di spesa del consiglio. Infatti “2. I di-rigenti della giunta regionale appartengono a un ruo-lo unico; ad essi sono attribuiti, in relazione agli in-carichi affidati, differenti competenze e responsabili-

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tà. 3. Il personale del consiglio regionale è inquadra-to in un ruolo organico distinto”.

In definitiva, tramite il bilancio consiliare, il con-siglio quantifica e organizza le risorse finanziarie stanziate nel bilancio generale della regione per il proprio funzionamento e in particolare per il persona-le:

- sulla base di un processo di programmazione au-tonomo, ma condizionato dagli stanziamenti in spesa sul bilancio “generale”;

- con inevitabile reflusso sulla spesa rendicontata dal bilancio “generale”, la quale deve essere conforme a legge e a Costituzione.

Inoltre, eventuali titoli sostanziali generativi di spesa pluriennale, originati dall’attività gestionale del consiglio in materia di personale, danno luogo ad una spesa pluriennale in grado di condizionare la pro-grammazione della spesa futura.

2.1. Detto in altri termini, sebbene, a livello ammi-nistrativo, il consiglio sia dotato di una propria orga-nizzazione del personale, tale gestione separata non determina rottura dell’unità del bilancio regionale, che a livello finanziario continua a costituire un’entità unica.

Invero, il principio di unità del bilancio, insieme a quelli di integrità e universalità, costituisce “profilo attuativo” dell’art. 81 Cost. (Corte cost. n. 192/2012 e n. 241/2013; cfr. i principi contabili generali, postulati nn. 2 e 4, nell’allegato 1 del d.lgs. n. 118/2011). Poi-ché la singola amministrazione pubblica è un’entità giuridica unica e unitaria, unici e unitari devono essere i documenti di bilancio (sia di previsione che consun-tivi).

L’esistenza di un bilancio consiliare, infatti, non rompe l’unità giuridica e finanziaria della regione, il cui bilancio regionale unitariamente finanzia, in forma decentrata, il funzionamento di un proprio organo do-tato, in questo caso, di autonomia contabile ed orga-nizzativa. Ne consegue che, poiché tutte le entrate cor-renti regionali, a prescindere dalla loro origine, con-corrono alla copertura di tutte le spese correnti e di funzionamento della regione, sussistono l’implicito divieto di sottrarre le stesse al sistema di regole a pre-sidio del coordinamento della finanza pubblica, non-ché l’obbligo di procedere alla verifica del rispetto di tali vincoli attraverso il consolidamento delle voci del bilancio regionale con il bilancio “derivato” del consi-glio. E ciò, tanto in materia di personale, quanto per gli altri aggregati di spesa corrente presi in considera-zione dal Legislatore statale, nell’esercizio del suo po-tere normativo (concorrente) di coordinamento della finanza pubblica e per quanto concerne il trattamento economico, in base alla sua competenza esclusiva in materia di ordinamento civile.

2.2. Il finanziamento del bilancio del consiglio re-gionale (e la rendicontazione della spesa) avviene, come dimostra l’analisi del titolo I del rendiconto “generale”, attraverso i capitoli (“spesa di primo livel-lo”):

- U00006 (anagrafe pubblica degli eletti disposi-zioni sulla trasparenza e l'informazione);

- U00008 (autonomia contabile del consiglio re-gionale, art. 4 l. reg. n. 7/2002);

- U00023 (spese per l’attuazione degli istituti di cui agli artt. 11 e 12 l. reg. n. 13/1996 – quota parte art. 52, c. 26, l. reg. n. 1/2013);

- U00043 (trasferimento al consiglio regionale per l’attuazione degli istituti previsti dalla l. reg. n. 13/1996 e dall’art. 3, l. reg. n. 38/2012);

- U05172 (contributo al garante dei detenuti della Campania per l’attuazione di un progetto sulle carce-ri).

La parifica di tali poste, presupponeva la verifica della conformità delle stesse alle leggi, statali e regio-nali che, nello stesso tempo, costituiscono il titolo (so-stanziale) della spesa e parallelamente stabiliscono lo stanziamento (piano “procedurale” conseguente, che importa la necessità di dotazione annuale dei bilanci di previsione rispettivamente della regione della sua interezza, e di quello specifico del consiglio regionale) per l’erogazione finanziaria.

Considerato che:

- la spesa del consiglio regionale, al netto delle partite conto terzi, è costituita per il 98,2 per cento da spesa corrente (dato medio nel triennio 2014-2016);

- la spesa per il personale del consiglio costituisce più di un terzo della spesa corrente totale (nel triennio 2014-2016, in media, il 34,6 per cento),

l’analisi si era spinta a verificare la correttezza del-la spesa contabilizzata a rendiconto (in particolare nel capitolo U00008, relativo al trasferimento dei fondi per il funzionamento del consiglio) sub specie di con-formità della stessa alle leggi vigenti per l’erogazione di emolumenti a favore del personale del consiglio.

3. La questione di costituzionalità.

La questione sollevata riguardava due norme istitu-tive di appositi fondi del bilancio regionale annual-mente finanziati.

Segnatamente:

- l’art. 2, c. 2, l. reg. Campania n. 20/2002 che di-sponeva l’istituzione di un fondo (Fondo “legge 20”) per il personale comandato o distaccato, in servizio

- presso le strutture organizzative del consiglio re-gionale (art. 9 l. reg. Campania 25 agosto 1989, n. 15, recante “Nuovo ordinamento amministrativo del con-siglio regionale”), e

- presso le segreterie particolari del presidente del consiglio regionale, dei componenti dell’Ufficio di presidenza, dei presidenti delle commissioni, del pre-sidente del collegio dei revisori dei conti (art. 14 l. reg. n. 15/1989);

- l’art. 1, c. 1, l. reg. Campania n. 25/2003, dichia-rata urgente (art. 2), il che ha aggiunto al citato art. 2 l. reg. n. 20/2002 (recte: al suddetto art. 58 l. reg. n. 10/2001) altri tre commi, fra cui il c. 4. Quest’ultimo comma istituiva un ulteriore fondo [il Fondo “Legge 25”] per il personale in servizio;

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- presso le strutture organizzative di cui alla l. reg. 25 agosto 1989, n. 15, art. 2 [le strutture organizzative del consiglio regionale], al fine di assegnare risorse per l’assistenza agli organi istituzionali per l’incremento dell’attività anche legata ai processi di riforma in atto consequenziali alle modifiche del titolo V della Costituzione – parte II che hanno attribuito alle regioni nuove potestà amministrative e legislative.

I fondi venivano istituiti al fine di individuare: “a) risorse per il trattamento economico accessorio da at-tribuire con le stesse quantità e modalità di erogazione del salario accessorio previsto dai Contratti collettivi decentrati integrativi del personale di ruolo del consi-glio regionale”; e “b) risorse per l’incremento dell’attività istituzionale e per l’assistenza agli organi, integrative a quelle previste dalla lettera a)” (art. 58, c. 2, l. reg. Campania n. 10/2001). (Omissis)

3.1. Il parametro costituzionale “ridondante” sugli equilibri di bilancio. Tanto premesso, Il collegio ha ritenuto di sollevare questione pregiudiziale e inciden-tale di costituzionalità, atteso che le amministrazioni regionali, anche per legge, non possono determinare unilateralmente la concessione di trattamenti econo-mici. Norme siffatte, invero, disciplinano un aspetto del trattamento economico dei dipendenti delle regioni (il cui rapporto di impiego è privatizzato); di conse-guenza esse non solo rischiano di porre in crisi il coordinamento della finanza pubblica (materia di competenza concorrente, art. 117, c. 3, Cost.), ma tra-cimano dall’area della competenza normativa regiona-le per invadere ambiti della competenza esclusiva sta-tale, trattandosi di materia afferente l’ambito dell’“ordinamento civile” (art. 117, c. 2, lett. l, Cost. e art. 45, c. 1, d.lgs. n. 165/2001; cfr. in tale senso anche Sez. contr. reg. Lombardia, n. 137/2013).

Infatti già in passato la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme re-gionali che disciplinano la formazione e la costituzio-ne dei fondi per la contrattazione decentrata, a coper-tura del trattamento accessorio, mediante l’individuazione di risorse aggiuntive rispetto alla di-sciplina nazionale (cfr. Corte cost. n. 121/2017, n. 339/2011).

Le disposizioni istitutive di tali trattamenti econo-mici costituiscono disposizioni contabili regionali che violano la riserva esclusiva di legge dello Stato in ma-teria di ordinamento civile.

Tale violazione costituzionale di norme sulle com-petenze ha un impatto sull’equilibrio del bilancio dell’ente pubblico interessato (il consiglio regionale e quindi la regione nel suo insieme), che registra così una spesa superiore a quella virtualmente consentita, sulla base di criteri uniformi su tutto il territorio na-zionale. Nel caso di specie, viene ad essere computata una maggiore spesa per trasferimenti verso il bilancio del consiglio regionale.

La violazione della distribuzione delle competenze normative della Costituzione, prevista per i rapporti tra Stato e regioni (c. 2, art. 117, nello specifico lett. l) ridonda, quindi, in una violazione della competenza

concorrente di coordinamento della finanza pubblica (c. 3), rimbalzando sulla corretta costruzione del bi-lancio e dei suoi equilibri, ai sensi degli artt. 97, c. 1, e 81 Cost. Infatti, in tal modo, viene disposta una spesa regionale che la disciplina statale intende contenere ed evitare, in modo uniforme, su tutto il territorio nazio-nale (art. 3 Cost.), per il raggiungimento di comuni obiettivi di finanza pubblica.

Per tale ragione, nel prendere atto della conformità di tale spesa di secondo livello, alla vigente legge re-gionale del 3 settembre 2002, n. 20 così come succes-sivamente modificata dalla l. reg. 12 dicembre 2003, n. 25 (situazione che dovrebbe indurre il collegio a parificare le ridette partite), la sezione poiché consta-tava la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle leggi re-gionali che tale spesa legittima (per potenziale contra-sto con il combinato disposto degli artt. 81, 97 e 117, c. 2, lett. l), Cost., per mezzo della violazione di nor-me competenziali) sollevava questione e sospendeva il giudizio di parificazione sulle poste di “primo livello” (capitolo U00008, relativo al trasferimento dei fondi per il funzionamento del consiglio), in cui le stesse spese sono confluite.

La Procura regionale della Corte dei conti, ripren-dendo le argomentazioni e le osservazioni di tale rela-zione, rinnovate nelle conclusioni istruttorie del magi-strato incaricato con riguardo al giudizio di parifica 2015 e 2016, ha chiesto alla sezione di sollevare sul punto questione di costituzionalità, e di non parificare nelle more le poste interessate.

La sezione ha poi sollevato la questione, sospen-dendo il giudizio limitatamente alle poste del rendi-conto 2016, interessate indirettamente dagli effetti di tale spesa.

Il giudizio è stato sospeso limitatamente al rendi-conto 2016, escludendo il 2015, in quanto la “rilevan-za” si poneva solo per le ultime scritture rendicontati-ve disponibili, atteso che l’effetto prescrittivo sugli equilibri di bilancio e sulla programmazione di bilan-cio successiva – ampiamente analizzato nell’allegato A della decisione n. 110/2018 – si determina solo con quest’ultimo (salvo gli eventuali effetti retroattivi, sul piano sostanziale, di una pronuncia di accoglimento).

4. La pronuncia della Corte costituzionale

Con sent. n. 146/2019, la Corte costituzionale ha accolto la questione, dichiarando l’incostituzionalità delle norme regionali citate e rilevanti nel giudizio, per violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile.

Infatti, la disciplina statale rinvia, per la disciplina del trattamento economico, e quindi anche di quello accessorio, alla contrattazione nazionale nonché a quella decentrata e integrativa.

In tal senso, l’art. 40, c. 3-bis, Tupi indica come sede idonea la contrattazione decentrata per la desti-nazione di risorse aggiuntive, relative al trattamento economico accessorio, contemporaneamente afferma

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che esso è uno spazio circoscritto e delimitato dai con-tratti nazionali di comparto.

Per cui, la contrattazione non potrà che svolgersi “sulle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti dai collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono”.

Anche di recente, infatti, la Corte costituzionale ha evidenziato che “[i] due livelli della contrattazione sono [...] gerarchicamente ordinati, in specie nel set-tore del lavoro pubblico, poiché solo a seguito degli atti di indirizzo emanati dal ministero e diretti all’Aran per l’erogazione dei fondi, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva nazionale, può aprirsi la sede decentrata e sotto-ordinata di contrat-tazione” (sent. n. 196/2018).

Si aggiunga che il trattamento accessorio, sulla ba-se della disciplina legislativa e contrattuale, deve esse-re giustificato dalla qualità del rendimento individua-le.

Le norme regionali, pertanto, hanno introdotto una disciplina contrastante con la normativa nazionale.

Ciò, in quanto si è violata la riserva esclusiva di disciplina del trattamento economico sul pubblico im-piego “privatizzato” a favore dello allo Stato (117, c. 2, lett. l, Cost. in materia di ordinamento civile).

L’art. 40, c. 3-bis, Tupi, infatti, rinvia ai contratti collettivi la fissazione delle risorse e dei criteri per la remunerazione del personale: la contrattazione collet-tiva nazionale di comparto, in particolare, individua puntualmente le risorse aggiuntive da destinare alle politiche di sviluppo delle risorse umane e della pro-duttività (artt. 15 e 17 del contratto collettivo naziona-le di lavoro sottoscritto l’1 aprile 1999, comparto Re-gioni e autonomie locali; art. 31 c.c.n.l. 22 gennaio 2004 del comparto regioni e autonomie locali) e le àn-cora alla finalità di “promuovere effettivi e significati-vi miglioramenti nei livelli di efficienza e di efficacia degli enti e delle amministrazioni e di qualità dei ser-vizi istituzionali mediante la realizzazione di piani di attività anche pluriennali e di progetti strumentali e di risultato basati su sistemi di programmazione e di controllo quali-quantitativo dei risultati” (così art. 17 c.c.n.l. 1 aprile 1999).

Le norme regionali istitutive dei due fondi “Legge 20” e “Legge 25”, dunque, hanno «introdotto la previ-sione di un nuovo trattamento economico accessorio per il personale regionale che, oltre a non essere coe-rente con i criteri indicati dai contratti collettivi di comparto, è innanzi tutto in contrasto con la riserva di competenza esclusiva assegnata al legislatore sta-tale dall’art. 117, c. 2, lett. l), Cost. in materia di or-dinamento civile. A questa materia, secondo la co-stante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sent. nn. 175 e 72/2017; n. 257/2016; n. 180/2015; nn. 269, 211 e 17/2014), deve ricondursi la disciplina del trattamento giuridico ed economico dei dipendenti pubblici e quindi anche regionali, “retta dalle disposi-zioni del codice civile e dalla contrattazione colletti-va” nazionale, cui la legge dello Stato rinvia» (sent. n. 196/2018 richiamata dalla sent. n. 146/2019).

5. La riassunzione del giudizio.

Con ord. n. 51 del 26 giugno 2019, in applicazione dei principi generali del processo, validi per ogni giu-dizio, ivi comprendendo anche quelli che si celebrano innanzi a questa Corte (v. art. 107 c.g.c.), il presidente della sezione ha fissato con decreto l’odierna adunan-za per la riassunzione del giudizio. (Omissis)

6. Gli effetti sul giudizio a quo della sent. n. 146/2019

L’effetto retroattivo della dichiarazione di illegit-timità costituzionale della legge di spesa comporta l’impossibilità di parificare l’importo di spesa corri-spondente a quanto spesato (con correlata riduzione di cassa) sul capitolo U00008, relativo al trasferimento dei fondi per il funzionamento del consiglio, in corri-spondenza agli importi finanziati con le “Legge 20” e la “Legge 25”.

Atteso peraltro che oggetto del giudizio di parifi-cazione è il rendiconto, e che tuttavia esso è parte in-dissolubile di un bene giuridico unitario (il bene pub-blico bilancio, cfr. Corte cost. n. 184/2016, nn. 80, 228 e 247/2017, n. 49/2018 e ord. n. 7/2019), gli effet-ti del giudicato contabile non si producono su di un atto, o un’attività, ma su un ciclo: il “processo di bi-lancio”. Esso è fortemente intriso dall’elemento tem-porale non sviluppandosi linearmente, secondo un ini-zio e una fine, ma in modo ciclico, senza soluzione di continuità, tra rendicontazione e programmazione, per garantire, appunto, l’“inderogabile principio di conti-nuità tra gli esercizi finanziari” (Corte cost. n. 274/2017 e n. 105/2019).

Questo comporta, quindi, la necessità di effettuare correzioni sul correlato risultato di amministrazione presunto (Corte cost. n. 70/2012). Lo stesso importo non parificato – e corrispondente ad un minore cassa finale – registrata nel rendiconto medio tempore ap-provato con legge dalla regione, comporta quindi i se-guenti effetti:

a) la necessità di procedere alla iscrizione di un credito (per ingiustificato arricchimento verso i per-cettori delle retribuzioni ora senza titolo) che andrà registrato tra le entrate dell’esercizio (maggiori residui attivi) e recuperato dalla regione nei confronti del consiglio regionale, quale organismo strumentale. Ta-le credito – in base all’allegato 4/2 (par. 3.3. ad esem-pio n. 5), d.lgs. n. 118/2011 – non è oggetto di svalu-tazione in quanto credito vantato nei confronti di una pubblica amministrazione, ed è pari – in ragione del titolo sostanziale per l’erogazione di cassa, venuto a mancare – all’ammontare complessivo degli emolu-menti erogati, non prescritti, al personale del consiglio regionale, in base alle leggi “20” e “25”, dichiarate incostituzionali;

c) il conseguente obbligo del consiglio regionale di iscrivere un credito da ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.) nei confronti dei percettori, per so-pravvenuta carenza del titolo: poiché il pagamento a suo tempo effettuato era esistente (in base ad una l. reg. art. 1173 c.c.); non può quindi sussistere un credi-to da indebito oggettivo (art. 2033 c.c.). Infatti, mentre

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le nullità innestano restituzioni da indebito, quelle da annullamento (del titolo per l’erogazione percepita, in questo caso, le leggi dichiarate incostituzionali) gene-rano crediti da ingiustificato arricchimento, da svalu-tare adeguatamente in modo prudenziale, anche oltre lo standard di legge, attesa la natura contenziosa del recupero;

b) la parallela necessità di accendere un accanto-namento nel “fondo oneri” di pari importo nel risulta-to di amministrazione della regione. Tale accantona-mento costituisce rappresentazione contabile del dove-re della regione di recuperare spesa per cui non aveva potere di erogazione, determinando una diminuzione di cassa. L’accantonamento, dunque, costituisce rap-presentazione dell’onere di recupero nei confronti del-la “finanza pubblica allargata”, che residuerà anche in caso di stralcio del credito di recupero nei confronti dei percettori senza titolo.

Tale posta non è dunque collegata al rischio del credito (per il quale sussiste già il Fcde, a titolo di po-sta rettificativa collegata al rischio organizzativo della riscossione e che in ogni caso, in questa ipotesi, non si attiva in quanto si tratta di credito verso una pubblica amministrazione) né al rischio contenzioso (che può sorgere sul recupero di prestazioni su cui si è fatto le-gittimo affidamento a suo tempo), ma agli oneri di corretta partecipazione al sistema della finanza pub-blica allargata.

Il fondo è quindi funzione contabile del dovere giuspubblicistico di solidarietà finanziaria della regio-ne, che ha l’onere di recuperare le risorse erogate in assenza di potere, attivando uno specifico accantona-mento ad “oneri”.

In questo modo, le vicende del credito risultano di-sgiunte dal diritto di recupero che l’ente regione, con-siderata nella sua unitarietà di bilancio, ha comunque acquisito sul proprio bilancio: il fondo, infatti, è costi-tuto da un accantonamento che è destinato a ridursi solo in caso di effettiva restituzione delle risorse da parte dei percettori.

Sicché, a prescindere dalle vicende del credito iscritto nei confronti del consiglio regionale, il “fondo oneri di solidarietà finanziaria”, acceso come accanto-namento, potrà ridursi solo se la regione, nella sua unità di bilancio, avrà realmente incassato le somme da parte dei percettori (anche per mezzo del consiglio regionale, quale responsabile di secondo livello per l’erogazione di spesa, ergo del recupero).

Per contro, anche in caso di stralcio-compensazione-incasso del credito nei confronti del consiglio regionale, il fondo non diminuisce se non in quanto risulti e sia comprovata l’effettiva restituzione di quanto dovuto dai percettori.

In caso di eliminazione del credito dal bilancio re-gionale per una qualsiasi delle cause sopra ricordate, senza che vi sia stato effettivo recupero delle somme dai percettori, quanto accantonato riduce la parte di-sponibile del risultato di amministrazione; in tal caso il fondo agisce in riduzione della parte disponile del risultato di amministrazione (lett. “E” del prospetto

dimostrativo del risultato di amministrazione, allegato 10 del d.lgs. n. 118/2011) e in caso di disavanzo ciò comporta che l’obbligo di recupero nei confronti dei percettori si trasferisce all’intero bilancio, sulla base delle ordinarie regole applicabili al disavanzo emerso. Il tal caso, l’accantonamento si estinguerà solo dopo e per effetto dell’applicazione del minor risultato di amministrazione disponile nel bilancio di previsione successivo.

Il fondamento normativo a conferma dell’obbligo di recupero si può altresì ricavare, in via analogica, dall’art. 9, c. 2, l. n. 243/2012, che in caso violazione del c.d. “pareggio di bilancio” prescrive una forma speciale di recupero: tale norma, infatti, in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo del “saldo non negativo” (fissato agli enti territoriali per garantire il concorso di tutti gli enti della Repubblica al sosteni-mento degli oneri della finanza pubblica allargata), comporta la necessità di “adotta[re] misure di corre-zione tali da assicurarne il recupero entro il triennio successivo, in quote costanti”. Si tratta, in buona so-stanza di un disavanzo speciale, da applicare al bilan-cio di previsione dell’ente territoriale, anche in caso di risultato di amministrazione non negativo. Analoga-mente al caso disciplinato da tale norma, tramite il “fondo oneri di solidarietà finanziaria”, si ottiene lo stesso effetto di recupero e di compressione eventuale del risultato di amministrazione, nell’ottica del ripri-stino della solidarietà della finanza pubblica allargata.

6.1. Va da sé, inoltre, che nonostante credito e fon-do abbiano titoli distinti, essi sono collegati alla stessa vicenda gestionale. Occorre evitare che l’accensione del fondo “oneri” (tra l’altro di pari importo all’iscrizione del credito da recupero acceso nei con-fronti del consiglio regionale e da questo nei confronti dei percettori), sia legato alle vicende di un eventuale Fcde.

Ciò non solo in ragione dell’esclusione espressa dei crediti verso la pubblica amministrazione tra i cre-diti per cui è “obbligatoria” una svalutazione (d.lgs. n. 118/2011, allegato 4/2, par. 3.3. ad esempio n. 5), ma anche per i principi generali della contabilità pubblica che vietano effetto iperprudenziale e impongono inve-ce la prevalenza della sostanza sulla forma.

Per tale ragioni, il credito di recupero non deve es-sere svalutato secondo la disciplina standard di legge, in quanto l’iscrizione del fondo produce lo stesso ef-fetto prudenziale e di tutela degli equilibri perseguito tramite il fondo credito di dubbia esigibilità, rendendo l’accantonamento al Fcde inutiliter dato.

Infatti, “Il principio della prudenza così definito rappresenta uno degli elementi fondamentali del pro-cesso formativo delle valutazioni presenti nei docu-menti contabili del sistema di bilancio. I suoi eccessi devono però essere evitati perché sono pregiudizievoli al rispetto della rappresentazione veritiera e corretta delle scelte programmatiche e degli andamenti effetti-vi della gestione e quindi rendono il sistema di bilan-cio inattendibile” (d.lgs. n. 118/2011, allegato 1, po-stulato n. 9); inoltre “Se l’informazione contabile deve

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rappresentare fedelmente e in modo veritiero le ope-razioni e i fatti che sono accaduti durante l’esercizio, è necessario che essi siano rilevati contabilmente se-condo la loro natura finanziaria, economica e patri-moniale in conformità alla loro sostanza effettiva e quindi alla realtà economica che li ha generati e ai contenuti della stessa, e non solamente secondo le re-gole e le norme vigenti che ne disciplinano la contabi-lizzazione formale” (d.lgs. n. 118/2011, allegato 1, po-stulato n. 19).

6.2. Fatti salvi i profili sostanziali, anche ai fini della responsabilità erariale, di doveroso recupero del credito, ne segue che la mancata parifica della posta passiva (alla quale corrisponde già nel vecchio risulta-to di amministrazione parificato una minore cassa, ora ingiustificata), fa sorgere un credito ex art. 2041 c.c. che però, essendo controbilanciato da un accantona-mento a fondo rischi ed oneri, è finanziariamente neu-tra sul saldo finale del risultato di amministrazione.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, sentite la regione e le ri-chieste del pubblico ministero e sulla base dei dati ac-quisiti e nei limiti delle verifiche effettuate, non pari-fica, sul rendiconto 2016, le poste passive concernenti i trasferimenti al consiglio regionale, in relazione al trattamento accessorio del personale erogato senza ti-tolo, nei termini e nelle quantità ricostruiti in parte motiva.

Sono fatti salvi i profili sostanziali, anche a i fini della responsabilità erariale, di doveroso recupero del credito nei confronti dei percettori materiali degli emolumenti non dovuti.

* * *

Sardegna

53 – Sezione controllo Regione Sardegna; delibera-zione 13 agosto 2019; Pres. Cabras, Rel. Lucarini; Fondazione Teatro lirico di Cagliari.

Fondazioni – Fondazioni lirico-sinfoniche – Teatro lirico di Cagliari – Contratto integrativo aziendale – Accordi a latere – Compatibilità economico-finanziaria – Certificazione negativa. D.l. 8 agosto 2013, n. 91, convertito con modificazioni dalla l. 7 ottobre 2013, n. 112, disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo, art. 11, c. 19.

La Sezione di controllo della Corte dei conti per la Regione Sardegna ha espresso certificazione negativa in ordine alla compatibilità economico-finanziaria del contratto integrativo aziendale 2019-2020 (in materia di premio di risultato) e degli accordi a latere “ipotesi di accordo giornata riposo settimanale” e “premio di

risultato – nota di salvaguardia”, sottoscritti con le organizzazioni sindacali in data 18 gennaio 2019. (1)

Premesso – Con Pec del 17 luglio 2019, acquisita in pari data al prot. n. 4016 della Corte dei conti, sono pervenute alla sezione le tre ipotesi di accordo indica-te in epigrafe, per la prevista procedura di certifica-zione intestata alle sezioni regionali di controllo dall’art. 11, c. 19, d.l. n. 91/2013.

La principale delle menzionate ipotesi riguarda il premio di produzione 2019-2020 che, ai sensi dell’art. 15 c.c.n.l. per il personale dipendente delle Fondazioni liriche e sinfoniche, può essere integrato a livello di contrattazione integrativa aziendale.

L’ipotesi in esame, acquisita al protocollo del Tea-tro Lirico di Cagliari al n. 689 del 22 gennaio 2019, risulta sottoscritta il 18 gennaio 2019 dalla direzione aziendale e dalla Rsu. La stessa è stata tramessa alla sezione con nota di accompagnamento del Sovrinten-dente del 17 luglio 2019. (Omissis)

Considerato – Il controllo della Corte dei conti sui contratti collettivi aziendali delle Fondazioni Lirico sinfoniche, sotto forma di “certificazione”, è stato in-trodotto dall’art. 11, c. 19, d.l. 8 agosto 2013, n. 91, di cui è opportuno richiamare il contenuto:

“il contratto aziendale di lavoro si conforma alle prescrizioni del contratto nazionale di lavoro ed è sot-toscritto da ciascuna fondazione con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative mediante sot-toscrizione di un’ipotesi di accordo da inviare alla Corte dei conti. L’ipotesi di accordo deve rappresen-tare chiaramente la quantificazione dei costi contrat-tuali. La sezione regionale di controllo della Corte dei

(1) Nel caso di specie, la Sez. contr. reg. Sardegna ha deli-

berato in senso negativo sui progetti di accordo, relativi, tra l’altro, al premio di risultato integrativo, ritenendo non attendi-bile la quantificazione dei costi e insussistente la compatibilità con gli strumenti di bilancio.

In particolare, è stato rilevato il contrasto con il parametro temporale di riferimento indicato dall’art. 15 del contratto col-lettivo nazionale di lavoro per i dipendenti delle fondazioni liri-che-sinfoniche ai fini della corresponsione del premio.

Altre censure della sezione hanno riguardato il non corretto riferimento quantitativo alla consistenza numerica del persona-le della fondazione, nonché la copertura finanziaria, ricavata attingendo al Fondo rischi per cause di lavoro (a destinazione vincolata), nonché a incerti risparmi di spesa.

Inoltre, nel progetto trasmesso difettava l’individuazione della copertura finanziaria per l’anno 2020 e, con specifico rife-rimento all’ipotesi di accordo sulla giornata di riposo settima-nale, la delimitazione del personale interessato e la relativa quantificazione dei costi.

Per precedenti deliberazioni di certificazione della Corte dei conti sui contratti collettivi aziendali per i dipendenti delle fondazioni lirico-sinfoniche, in base al d.l. n. 91/2013, Sez. contr. reg. Toscana, 14 aprile 2014, n. 23, in questa Rivista, 2014, fasc. 1-2, 130; Sez. contr. reg. Siciliana, 1 dicembre 2015, n. 334, ivi, 2015, fasc. 5-6, 211.

Per la relazione della Sez. controllo enti al Parlamento in merito alla gestione finanziaria delle fondazioni lirico-sinfoniche v. delib. 28 aprile 2015, n. 44, ivi, 2015, fasc. 3-4, 116.

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conti competente certifica l’attendibilità dei costi quantificati e la loro compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio, deliberando entro trenta giorni dalla ricezione, decorsi i quali la certifi-cazione di intende effettuata positivamente... Se la certificazione è positiva, la fondazione è autorizzata a sottoscrivere definitivamente l’accordo. In caso di certificazione non positiva della sezione regionale di controllo della Corte dei conti competente, le parti contraenti non possono procedere alla sottoscrizione definitiva dell’ipotesi di accordo e la fondazione ria-pre le trattative per la sottoscrizione di una nuova ipotesi di accordo, comunque sottoposta alla procedu-ra di certificazione prevista dal presente comma. Le fondazioni, con apposita delibera dell’organo di indi-rizzo [...] procedono a rideterminare l’organico ne-cessario all’attività da realizzare nel triennio succes-sivo. La delibera deve garantire l’equilibrio economi-co-finanziario e la copertura degli oneri della dota-zione organica con risorse aventi carattere di certezza e stabilità”.

Per una ricostruzione del quadro normativo di rife-rimento, è inoltre opportuno richiamare il contenuto dell’art. 15 del c.c.n.l. per il personale dipendente del-le fondazioni liriche e sinfoniche, espressamente men-zionato dall’ipotesi di accordo in esame.

Il menzionato articolo, rubricato “premio di produ-zione”, prevede due tipi di premio: il primo, per certi aspetti “ordinario”, è disciplinato dai primi tre commi, che di seguito si riportano:

“in occasione delle festività di Pasqua e comunque entro il 15 aprile, verrà corrisposto ai lavoratori, in rapporto al servizio prestato dall’1 gennaio al 31 di-cembre dell’anno precedente, un premio di produzio-ne di importo pari al 3 per cento di una base retribu-tiva annuale composta dai minimi tabellari, dalla in-dennità di contingenza e dagli aumenti periodici di anzianità calcolata in rapporto a 12 mensilità (c. 1).

Nel caso di inizio o cessazione del rapporto di la-voro nel corso dell’anno, il lavoratore non in prova ha diritto a tanti dodicesimi dell’ammontare del pre-mio di produzione per quanti sono i mesi di servizio prestati presso la fondazione, computandosi come me-se intero la frazione di mese eguale o superiore a 15 giorni (c. 2).

In sede di liquidazione individuale del premio di produzione lo stesso verrà ridotto in relazione alle mancate prestazioni lavorative annuali del singolo lavoratore conseguenti a permessi senza assegni, as-senze ingiustificate, aspettativa, sospensione per moti-vi disciplinari, assenze per malattia di durata fino a 4 gg. A tal fine l’ammontare del premio di produzione sarà proporzionalmente ridotto sulla base del rappor-to percentuale risultante tra il totale delle mancate prestazioni lavorative annuali del singolo lavoratore dovute ai motivi di cui sopra ed il totale delle presta-zioni lavorative annuali della categoria di apparte-nenza (c. 3)”.

I successivi cc. 4 e 5 dell’art. 15 c.c.n.l. prevedono il premio di produzione “integrativo” rispetto a quello “base” disciplinato dai precedenti commi.

La disciplina del premio integrativo è, in parte, contenuta nel contratto nazionale (cc. 4 e 5, appunto) e, in altra parte, è demandata alla contrattazione aziendale la cui autonomia è in ogni caso limitata dal-le previsioni contenute nei cc. 4 e 5, secondo cui:

“Il premio di produzione come sopra individuato potrà essere integrato in sede di contrattazione azien-dale sulla base degli indicatori e dei parametri che saranno concordati in tale sede. L’integrazione sarà comunque collegata all’aumento qualitativo e quanti-tativo della produzione e all’incremento della produt-tività desumibile da elementi obiettivi quali ad esem-pio l’incremento rispetto all’anno precedente del nu-mero degli spettacoli realizzati con complessi della fondazione, la riduzione delle prestazioni straordina-rie, la finalizzazione della produzione a specifici pro-getti culturali. Agli effetti della integrazione aziendale del premio di produzione non sarà comunque conside-rata la produzione realizzata nell’ambito dell’attività promozionale per tale intendendo quella specifica-mente prevista e disciplinata dall’art. 29 del presente contratto (c. 4).

La liquidazione individuale dell’integrazione aziendale del premio di produzione dovrà essere rap-portata all’effettiva attività lavorativa del singolo di-pendente, fatti salvi i fattori organizzativi e produttivi non direttamente collegabili al lavoratore (c. 5)”.

Così riepilogato il quadro normativo di riferimen-to, è possibile passare all’esame delle ipotesi di accor-do trasmesse alla sezione, cui la legge demanda un “controllo-certificazione” che si declina in una valuta-zione sulla “attendibilità” della quantificazione dei co-sti effettuata e in una ulteriore valutazione sulla com-patibilità finanziaria ed economica degli stessi.

Sulla attendibilità della quantificazione dei costi.

L’ipotesi di accordo quantifica il premio integrati-vo sulla base di quattro parametri di riferimento (lett. da A a D della bozza di contratto aziendale) che, di-versamente da quanto previsto dal contratto nazionale (art. 15, c. 4) non si riferiscono agli aumenti di produ-zione “rispetto all’anno precedente” (incrementi ri-scontrati nel 2018 rispetto al 2017, per l’erogabilità del premio integrativo nel 2019) ma alla media degli esercizi 2016-2017.

Tale media rappresenta un parametro del tutto estraneo all’art. 15, c. 4, c.c.n.l. e tale da alterare la base del calcolo per la quantificazione degli oneri che, conseguentemente, risulta errata perché muove da un presupposto errato, rappresentato dall’inclusione nel computo dell’esercizio 2016.

Questo errore di fondo appare da solo sufficiente a rendere inattendibile la quantificazione dei costi effet-tuata.

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Secondo il consolidato orientamento giurispruden-ziale, inoltre, l’attendibilità delle quantificazioni pre-suppone una precisa individuazione dei soggetti desti-natari dell’ipotesi contrattuale oltre che della massa salariale di partenza, nel caso di specie limitata, per ciascun lavoratore, agli elementi retribuitivi previsti dall’art. 15, c. 1, c.c.n.l. (minimo tabellare+indennità di contingenza+aumenti periodici di anzianità) (sul punto, cfr. Sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 25/2018).

Nel caso di specie, l’ipotesi di accordo non risulta corredata dalla necessaria indicazione del numero di dipendenti coinvolti dall’ipotesi medesima e le voci retributive computate risultano quattro anziché le tre previste dall’art. 15, c. 1, c.c.n.l., con conseguente er-rore nel presupposto del calcolo dell’indennità pre-miale in esame.

Più nel dettaglio, è possibile osservare che è stata trasmessa alla sezione e, prima ancora, al collegio dei revisori della fondazione, una tabella contenente l’elenco nominativo dei lavoratori con l’indicazione, per ciascuno di essi, delle effettive giornate di lavoro effettuate nel 2018.

Pur non essendo indicato il dato fondamentale, rappresentato dal numero di unità lavorative interessa-te dall’ipotesi contrattuale, dal conteggio effettuato dei singoli nominativi, risulta che l’elenco è composto da n. 307 unità.

Tale dato appare non del tutto coerente con i pre-cedenti dati sulla consistenza numerica del personale dipendente della Fondazione Lirica di Cagliari, per come risultanti dalla delib. n. 58/2018 della Corte dei conti, Sezione controllo enti, che ha evidenziato una consistenza di 228 unità al 31 dicembre 2015 e di 238 unità al 31 dicembre 2016. Si evidenzia, inoltre, che la delib. n. 84/2017 di questa sezione ha riscontrato per il n. 299/2017 rapporti di lavoro di natura subordinata, di cui 232 a tempo indeterminato e 67 a tempo deter-minato.

La tabella innanzi menzionata, invece, sembrereb-be riferire una consistenza di personale al 31 dicembre 2018 di n. 307 unità, ulteriormente aumentata rispetto ai dati innanzi indicati e inidonea a evidenziare l’eventuale computo di lavoratori inquadrati con un contratto non riconducibile al paradigma del rapporto di lavoro subordinato.

È opportuno evidenziare, in proposito, che per la precisa individuazione della base numerica del perso-nale interessato al premio integrativo, si dovrebbe te-ner conto che nella stessa possono confluire unica-mente i soggetti legati alla fondazione da un contratto di lavoro di natura subordinata, con esclusione delle diverse fattispecie contrattuali.

Tale precisazione appare opportuna nel caso in esame, atteso che la documentazione in atti evidenzia la sussistenza di un “fondo rischi per cause di lavoro” e inoltre, la delib. n. 58/2018 della Sezione controllo

enti, innanzi menzionata, evidenzia “un copioso con-tenzioso per la stabilizzazione dei lavoratori assunti [...] per i quali il giudice del lavoro ha accertato vizi genetici nella stipula dei corrispondenti contratti a termine”.

Compatibilità finanziaria

Sotto il profilo della compatibilità “finanziaria”, la sezione ha motivo di dubitare della effettiva copertura finanziaria dei nuovi costi contrattuali perché, dalla documentazione trasmessa, risulta che una parte del finanziamento sarebbe assicurato attingendo al “fondo rischi per cause di lavoro”.

Una tale operazione non è di regola consentita per-ché gli accantonamenti al fondo in esame hanno una destinazione specifica e vincolata, dalla quale non possono essere distratti per diversi utilizzi.

Solo dimostrando il sovradimensionamento del fondo rispetto allo specifico rischio per cui è stato co-stituito, secondo valutazioni di bilancio improntate al canone della prudenza, si potrebbe ridurre l’entità del fondo rischi liberando risorse da utilizzare per altri fi-ni, cosa che non risulta avvenuta nel caso di specie.

Peraltro, giova in proposito osservare che le di-mensioni del contenzioso lavoristico nei confronti del-la fondazione sono espressamente evidenziate dalla Corte dei conti nella delib. n. 58/2018 della Sezione controllo enti.

Altra parte della copertura, inoltre, viene indivi-duata su presunti risparmi futuri di spesa (per indenni-tà e trasferte all’estero e per riferito pensionamento di quattro figure “ad esaurimento”) che, in quanto tali, non attribuiscono alla copertura finanziaria quel ne-cessario carattere di certezza e attualità che invece do-vrebbe accompagnarla, anche in considerazione del fatto che il premio integrativo dovrebbe essere corri-sposto, sussistendone i presupposti, con le medesime scadenze temporali del premio “base”, per come indi-cate dal più volte richiamato art. 15 c.c.n.l.

Nessuna copertura viene inoltre prospettata per il premio integrativo erogabile nel 2020, a fronte di una ipotesi di accordo espressamente riferita al biennio 2019-2020.

Dalle considerazioni che precedono discende l’insussistenza, allo stato degli atti, degli elementi ne-cessari per certificare l’ipotesi di contratto denominata “premio di risultato” così come l’ulteriore ipotesi, ad essa strettamente collegata, denominata “premio di risultato – nota di salvaguardia”.

Stessa sorte deve essere riconosciuta alla terza ipo-tesi di accordo trasmessa alla sezione con la medesima Pec del 17 luglio 2019, denominata “ipotesi di accor-do giornata riposo settimanale”.

La stessa, apparentemente collegata all’ipotesi di integrazione del premio di produzione, risulta sfornita della necessaria quantificazione dei costi, pur essendo un’ipotesi contrattuale potenzialmente onerosa e, pri-

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N. 4/2019 PARTE II – CONTROLLO

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ma ancora, della esatta perimetrazione del personale potenzialmente interessato alla stessa, elementi indi-spensabili, come innanzi evidenziato, per le valutazio-ni della sezione nell’ambito della procedura di certifi-cazione.

Delibera, la certificazione negativa, allo stato degli atti, delle tre ipotesi di accordo in epigrafe indicate e la restituzione degli atti alla fondazione.

* * *

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N. 4/2019 PARTE III – PARERI

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PARERI

Basilicata

56 – Sezione controllo Regione Basilicata; parere 12 luglio 2019; Pres. (f.f.) Lotito, Rel. Gianfranceschi; Comune di Savoia di Lucania.

Enti locali – Comune – Personale – Spesa – Limiti assunzionali. L. 28 dicembre 2015, n. 208, disposizioni per la for-mazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016), art. 1, c. 228; d.lgs. 25 mag-gio 2017, n. 75, modifiche e integrazioni al d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli artt. 16, cc. 1, lett. a), 2, lett. b), c), d) ed e), e 17, c. 1, lett. a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), l. 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministra-zioni pubbliche, art. 20, c. 14; l. 27 dicembre 2017, n. 205, bilancio di previsione dello Stato per l’anno fi-nanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020, art. 1; l. 30 dicembre 2018, n. 145, dispo-sizioni per la formazione del bilancio annuale e plu-riennale dello Stato (legge di bilancio 2019), art. 1, cc. 446 e 823; d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito in leg-ge con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, misure urgenti di crescita economica e per la risolu-zione di specifiche situazioni di crisi, art. 33. Enti locali – Comune – Personale – Spesa – Stabi-lizzazione personale Lsu – Rispetto vincoli turn over e programmazione triennale – Necessità. D.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modifica-zioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari, art. 3; l. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, c. 228; d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, art. 20, c. 14; l. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1; l. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, cc. 446 e 823; d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito in legge con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019, n. 58, art. 33.

A partire dal 2019 gli enti locali con popolazione compresa fra i 1.000 e i 5.000 abitanti possono pro-cedere ad assunzioni di personale a tempo inde-terminato nel limite di un contingente complessiva-mente corrispondente al 100 per cento della spesa so-stenuta per il personale cessato nell’anno 2018; limite al quale possono sommarsi, ove non già utilizzati, i residui dei budget dei cinque anni precedenti riferiti alle corrispondenti percentuali di capacità assunzio-nale di tempo in tempo vigenti.

L’adozione del piano triennale dei fabbisogni di personale rappresenta condicio sine qua non per l’espletamento di qualsiasi procedura di assunzione di personale, ivi comprese le stabilizzazioni di quello impiegato per lavori socialmente utili e per attività di pubblica utilità, consentite nei limiti della dotazione organica e delle capacità assunzionali di tempo vigen-ti ed incrementabili a valere sulle risorse rivenienti dalla corrispondente riduzione del budget per il lavo-ro flessibile. Le stabilizzazioni devono, in ogni caso,

rispettare i limiti di spesa previsti per le assunzioni, con esclusione delle risorse derivanti da leggi regio-nali, contributi statali o altre leggi speciali. (1)

Fatto – 1. Con la nota in epigrafe il sindaco del Comune di Savoia di Lucania ha inoltrato a questa se-zione una richiesta di parere, ai sensi dell’art. 7, c. 8, l. n. 131/2003, relativa alla capacità assunzionale degli enti locali con specifico riguardo alla stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili.

Diritto – (Omissis) Al fine di ampliare le capacità assunzionali degli enti locali il legislatore è intervenu-to, con l’art. 14-bis del d.l. n. 4/2019, convertito con modificazioni dalla l. 28 marzo 2019, n. 26, introdu-cendo due novità sostanziali: a) la possibilità di sosti-tuire i dipendenti che cessano già nel corso dell’anno, senza attendere l’esercizio successivo, ma i recluta-menti possono avvenire soltanto una volta maturata la corrispondente facoltà assunzionale e cioè che ricorra l’imprescindibile presupposto dell’intervenuta cessa-zione, altrimenti non si potrebbe neppure parlare di turn over, ossia di nuova assunzione che sostituisce un’intervenuta cessazione; b) la possibilità di utilizza-re le somme residue non ancora utilizzate dei budget dei precedenti cinque anni, in luogo di tre, con riferi-mento, però, alle percentuali di capacità assunzionali esistenti nei singoli esercizi (7).

In merito alla prima novità, la disposizione richia-mata, introducendo nell’art. 3 del d.l. n. 90/2014 un nuovo c. 5-sexies, consente agli enti locali, “per il triennio 2019-2021, nel rispetto della programmazio-ne del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile”, di computare, ai fini della determinazione delle capa-cità assunzionali per ciascuna annualità, sia le cessa-

(1) La deliberazione in esame ricostruisce in modo puntuale

ed esaustivo la disciplina di tempo in tempo vigente per le as-sunzioni di personale da parte degli enti locali, rendendo il pa-rere fornito all’amministrazione comunale fruibile in tutti i suoi sviluppi argomentativi, attraverso un dettagliato excursus del-la normativa in materia di vincoli alle assunzioni, ivi compre-sa la stabilizzazione del personale destinato a lavori social-mente utili e ad attività di pubblica utilità, oggetto specifico della ri-chiesta di parere. La ricostruzione normativa è completata da una ricca rassegna della giurisprudenza delle Se-zioni di con-trollo sulla tematica trattata, dalla quale emergono gli approdi condivisi dalla Sezione Basilicata che ha reso il parere senza discostarsi dal prevalente indirizzo giurisprudenziale (v. sul punto anche, Sez. autonomie, 1 aprile 2019, n. 4, in questa Ri-vista, 2019, fasc. 2, 133, con nota di P. Cosa; Sez. contr. reg. Basilicata, 5 dicembre 2018, n. 47, ivi, 2018, fasc. 5-6, 55, con nota di P. Cosa, e Sez. contr. reg. Sardegna, n. 16/2009, ivi, 2009, fasc. 3, 74)

(7) La lett. a) del c. 1 dell’art. 14-bis del d.l. n. 4/2019 è in-tervenuta sull’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014 modificando il termine di “tre anni”, contenuto nel terzo periodo di tale comma, in “cinque anni” e, di conseguenza, modificando l’utilizzo dei re-sti assunzionali facendo riferimento “al quinquennio preceden-te” anziché “al triennio precedente”. Secondo il c. 3 dell’art. 14-bis citato le previsioni di cui alla lett. a) del c. 1 si applicano a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conver-sione del presente decreto (leggi dal 30 marzo 2019).

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zioni di servizio verificatesi nell’anno precedente sia quelle programmate nella medesima annualità, ov-viamente successivamente all’avvenuta efficacia della cessazione stessa.

Per quanto riguarda la seconda novità, ossia l’ampliamento dei resti assunzionali, la disposizione suddetta consente agli enti locali, per il finanziamento delle nuove assunzioni, di utilizzare le capacità assun-zionali del quinquennio precedente e non più soltanto quelle del triennio precedente. Per cui nel 2019 posso-no essere utilizzate le capacità assunzionali del 2018, 2017, 2016, 2015 e del 2014, cioè una quota dei ri-sparmi derivanti dalle cessazioni del 2017, 2016, 2015, 2014 e 2013.

In proposito è utile richiamare nuovamente le de-lib. n. 28/2015 e n. 25/2017, con le quali la Sezione delle autonomie della Corte dei conti, in sede nomofi-lattica, si è pronunciata chiarendo le regole per la quantificazione di questi “resti”.

Dopo un mese dall’entrata in vigore (30 marzo 2019) della legge di conversione del d.l. n. 4/2019, il legislatore ha riscritto l’intera disciplina dei vincoli di spesa e assunzionali, cui sono sottoposti gli enti locali e anche le regioni, con il d.l. 30 aprile 2019, n. 34 (c.d. decreto crescita), convertito con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019, n. 58. In particolare, l’art. 33, Assun-zione di personale nelle regioni a statuto ordinario e nei comuni in base alla sostenibilità finanziaria, al c. 2, dedicato ai comuni, cambia le capacità assunzionali degli enti locali, sostituendo il turn over con un siste-ma basato sulla sostenibilità finanziaria della spesa.

In coerenza con la programmazione di cui ai piani triennali dei fabbisogni di personale e fermo restando il rispetto pluriennale dell’equilibrio di bilancio che gli organi di revisione hanno l’obbligo di asseverare, i comuni potranno effettuare assunzioni a tempo inde-terminato purché registrino una spesa di personale so-stenibile da un punto di vista finanziario; i nuovi re-clutamenti sono possibili sino ad una spesa comples-siva per tutto il personale dipendente, al lordo degli oneri riflessi, non superiore al valore soglia definito come percentuale, differenziata per fascia demografi-ca, della media delle entrate correnti relative agli ulti-mi tre rendiconti approvati, al netto del fondo crediti dubbia esigibilità nel bilancio di previsione.

Tuttavia, questo nuovo sistema di determinazione della spesa per assunzioni non è ancora applicabile in quanto la disposizione in parola prevede l’adozione di un decreto interministeriale, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge innanzi menzionato, con il quale saranno individuate le fasce, i valori soglia prossimi al valore medio per singola fascia e le percentuali massime annuali di in-cremento del personale in servizio per i comuni sotto soglia. L’aggiornamento dei parametri di calcolo potrà essere quinquennale.

I comuni, che si collocheranno sopra la soglia, do-vranno rientrare nel parametro fissato, fino al conse-guimento del valore soglia nel 2025, anche applicando un turn over inferiore al 100 per cento. Dal 2025 que-

sti comuni applicheranno un turn over del 30 per cen-to fino al conseguimento del valore soglia.

Deve, pertanto, porsi “la necessaria valutazione della disciplina applicabile nelle more dell’effettiva adozione di detto decreto interministeriale, la cui mancanza non consente di poter orientare le scelte degli enti verso una eventuale diversa valutazione del-le proprie politiche del personale. Si ritiene, in questa sede per le motivazioni addotte in precedenza in rela-zione all’importanza che assume il controllo della spesa corrente di personale come anche affermato e ben evidenziato sopra, dalla Corte costituzionale che gli enti, in attesa dell’adozione del suddetto atto pro-dromico alla compiuta applicazione della nuova di-sciplina, debbano far riferimento ai vincoli assunzio-nali sopra richiamati: ovverosia quelli previsti dall’art. 1, cc. 557 e 562, l. n. 296/2006” (Sez. contr. reg. Veneto, n. 113/2019).

5. Fermo quanto sopra, occorre ribadire che la pos-sibilità, da parte dell’ente locale, di ricorrere ad assun-zioni di personale non è legata esclusivamente alla ca-pacità assunzionale, ma occorre che lo stesso rispetti una serie di vincoli e condizioni di tipo amministrati-vo e contabile.

La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, con delib. n. 12/2012, “nell’ambito degli obblighi ge-nerali, il cui mancato rispetto determina come conse-guenza il divieto di assunzione, con contratti di lavoro sia a tempo indeterminato che flessibile”, ha ricordato che l’ente locale che intende procedere ad una nuova assunzione deve:

a) aver adottato il piano triennale dei fabbisogni del personale (Ptfp) nel rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 165/2001, come modificato dall’art. 4 del d.lgs. n. 75/2017, nonché dell’art. 91 del d.lgs. n. 267/2000 (8). Come per tutti i processi di spe-sa, infatti, anche il reperimento di personale parte da una corretta programmazione e dall’individuazione delle figure professionali da impiegare all’interno dell’amministrazione. Le disposizioni richiamate di-sciplinano l’adozione, da parte delle amministrazioni pubbliche, del piano triennale dei fabbisogni di perso-nale, in coerenza con la pianificazione pluriennale del-le attività e della performance, nonché con le linee di

(8) “Le disposizioni richiamate introducono un elemento di

significativa novità nel tradizionale sistema di organizzazione degli uffici delle pubblica amministrazione e dei relativi rap-porti di lavoro: non è più la dotazione organica a determinare i fabbisogni di personale ma, al contrario, è la valutazione di questi ultimi a orientare la definizione della successiva dota-zione organica” (Sez. contr. reg. Puglia, n. 30/2019).

La Commissione speciale del Consiglio di Stato, nel parere (21 aprile 2017 n. 916) reso sullo schema del decreto di attua-zione della riforma c.d. Madia ha sottolineato che l’abbandono del modello dotazionale “risponde ad una visione flessibile e lungimirante dell’apparato amministrativo e della organizza-zione pubblica, che facoltizza e responsabilizza la singola am-ministrazione, nell’ambito del budget assegnatole, a distribuire il personale in base ad effettive esigenze e non ad aprioristici limiti di organico”.

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indirizzo emanate ai sensi dell’art. 6-ter del d.lgs. n. 165 innanzi citato. Nell’ambito del piano, le ammini-strazioni pubbliche curano l’ottimale distribuzione delle risorse umane attraverso la coordinata attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del persona-le. Il legislatore, inoltre, prescrive che il piano trienna-le debba indicare le risorse finanziarie destinate all’attuazione del piano medesimo, quantificate sulla base della spesa per il personale in servizio e di quelle connesse alle facoltà assunzionali previste a legisla-zione vigente;

b) aver trasmesso la dichiarazione annuale al Di-partimento della funzione pubblica, dalla quale emer-ga l’assenza di personale in sovrannumero o in ecce-denza. L’art. 16 della l. n. 183/2011 ha qualificato l’istituto della verifica delle eccedenze e del personale soprannumerario come condizione preliminare impre-scindibile al fine di poter legittimamente programmare assunzioni. L’art. 33, c. 2, d.lgs. n. 165/2001 ha previ-sto, infatti, che “le amministrazioni pubbliche che non adempiano alla ricognizione annuale di cui al c. 1 non possono effettuare assunzioni o instaurare rap-porti di lavoro con qualunque tipologia di contratto pena la nullità degli atti posti in essere”. Inoltre la mancata attivazione delle procedure in questione da parte del dirigente responsabile è valutabile ai fini del-la responsabilità disciplinare;

c) aver approvato il piano triennale di azioni posi-tive in materia di pari opportunità di cui all’art. 48, c. 1, d.lgs. n. 198/2006. Il mancato adempimento della disposizione in esame determina il divieto di assun-zioni ai sensi dell’art. 6, c. 6, d.lgs. n. 165/2001.

Fermo restando tutte le disposizioni normative vi-genti tempo per tempo, alle quali le amministrazioni devono attenersi nell’esercizio delle facoltà assunzio-nali, possono essere utilmente richiamate, a titolo me-ramente esemplificativo e non esaustivo, sia la delibe-razione della Sezione delle autonomie, sopra citata, che ha individuato i vincoli assunzionali generali, sia due recenti deliberazioni della Sezione regionale di controllo per il Veneto (delib. n. 113/2019 e n. 548/2018), contenenti una ricognizione degli altri vin-coli assunzionali.

6. È opportuno, invece, anche alla luce delle coor-dinate ermeneutiche enucleate dalla giurisprudenza contabile in merito, ritornare sul piano triennale del fabbisogno di personale (Ptfp) che costituisce lo stru-mento programmatorio fondamentale per le politiche assunzionali, in quanto deve operare ex ante rispetto alle decisioni dell’ente in materia di assunzioni.

L’art. 4 del d.lgs. n. 75/2017, avente ad oggetto “Modifiche ed integrazioni al t.u. del pubblico impie-go, di cui al d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165”, nel rispetto dei criteri direttivi contenuti nella legge delega (l. 7 agosto 2015, n. 124), tra i quali la “definizione di obiettivi di contenimento delle assunzioni, differenzia-ti in base agli effettivi fabbisogni” e il “progressivo superamento della dotazione organica come limite al-le assunzioni, fermi restando i limiti di spesa anche al fine di facilitare i processi di mobilità”, non solo ha

modificato l’art. 6 del d.lgs. n. 165/2001, sostituendo i cc. 2 e 3 (9), ma ha anche introdotto l’art. 6-ter, rubri-cato “Linee di indirizzo per la pianificazione dei fab-bisogni del personale”.

È stato efficacemente evidenziato che «Il combina-to disposto del citato art. 6 con il successivo art. 35, c. 4, d.lgs. n. 165/2001 e successive modificazioni e in-tegrazioni – a mente del quale tutte le “determinazio-ni relative all’avvio delle procedure di reclutamento sono adottate (…) sulla base del piano triennale dei fabbisogni” – attribuisce, infatti, a tale provvedimento la natura di condicio sine qua non per ogni eventuale procedura assunzionale di personale nella pubblica amministrazione, indipendentemente dalle modalità di acquisizione. Detto piano deve tenere conto delle in-dicazioni operative di carattere generale fornite dal d.m. 8 maggio 2018, con cui il Ministro per la sempli-ficazione e la pubblica amministrazione ha definito, ai sensi e per gli effetti dell’art. 6-ter del d.lgs. n. 165/2001 e successive modificazioni e integrazioni, le “Linee di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale da parte delle pubbliche amministrazioni”. Ne consegue che le amministrazio-ni pubbliche non possono procedere ad assunzioni di personale al di fuori di quelle programmate prima del 27 luglio 2018, data di efficacia del suddetto decreto» (Sez. contr. reg. Veneto, n. 113/2019) (10).

(9) I cc. 2 e 3 dell’art. 6 del d.lgs. n. 165/2001 stabiliscono

che “2. Allo scopo di ottimizzare l’impiego delle risorse pub-bliche disponibili e perseguire obiettivi di performance orga-nizzativa, efficienza, economicità e qualità dei servizi ai citta-dini, le amministrazioni pubbliche adottano il piano triennale dei fabbisogni di personale, in coerenza con la pianificazione pluriennale delle attività e della performance, nonché con le linee di indirizzo emanate ai sensi dell’art. 6-ter. Qualora siano individuate eccedenze di personale, si applica l’art. 33. Nell’ambito del piano, le amministrazioni pubbliche curano l’ottimale distribuzione delle risorse umane attraverso la coor-dinata attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del personale, anche con riferimento alle unità di cui all’art. 35, c. 2. Il piano triennale indica le risorse finanziarie destinate all’attuazione del piano, nei limiti delle risorse quantificate sulla base della spesa per il personale in servizio e di quelle connesse alle facoltà assunzionali previste a legislazione vigen-te. 3. In sede di definizione del piano di cui al c. 2, ciascuna amministrazione indica la consistenza della dotazione organica e la sua eventuale rimodulazione in base ai fabbisogni pro-grammati e secondo le linee di indirizzo di cui all’art. 6-ter, nell’ambito del potenziale limite finanziario massimo della me-desima e di quanto previsto dall’art. 2, c. 10-bis, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, garantendo la neutralità finanziaria della rimo-dulazione. Resta fermo che la copertura dei posti vacanti av-viene nei limiti delle assunzioni consentite a legislazione vigen-te”.

(10) L’art. 6-ter del d.lgs. n. 165/2001 affida a decreti di na-tura non regolamentare, adottati dal Ministro per la semplifica-zione e la pubblica amministrazione di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, il compito di definire “nel rispet-to degli equilibri di finanza pubblica, linee di indirizzo per orientare le amministrazioni pubbliche nella predisposizione dei rispettivi piani dei fabbisogni di personale ai sensi dell’art. 6, c. 2, anche con riferimento a fabbisogni prioritari o emer-

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Le linee di indirizzo sopra citate, adottate con de-creto del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione dell’8 maggio 2018, pubblicato in G.U. 27 luglio 2018, n. 173, evidenziano che «La nuova visione, introdotta dal d.lgs. n. 75/2017, di su-peramento della dotazione organica, si sostanzia, quindi, nel fatto che tale strumento, solitamente cri-stallizzato in un atto sottoposto ad iter complesso per l’adozione, cede il passo ad un paradigma flessibile e finalizzato a rilevare realmente le effettive esigenze, quale il Ptfp. Per le amministrazioni centrali la stessa dotazione organica si risolve in un valore finanziario di spesa potenziale massima sostenibile che non può essere valicata dal Ptfp. Essa, di fatto, individua la “dotazione” di spesa potenziale massima imposta come vincolo esterno dalla legge o da altra fonte, in relazione ai rispettivi ordinamenti, fermo restando che per le regioni e gli enti territoriali, sottoposti a tetti di spesa del personale, l’indicatore di spesa potenziale massima resta quello previsto dalla normativa vigen-te. Nel rispetto dei suddetti indicatori di spesa poten-ziale massima, le amministrazioni, nell’ambito del Ptfp, potranno quindi procedere annualmente alla ri-modulazione qualitativa e quantitativa della propria consistenza di personale, in base ai fabbisogni pro-grammati, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 2, c. 10-bis, d.l. 6 luglio 2012, n. 95 e garantendo la neu-tralità finanziaria della rimodulazione. Tale rimodu-lazione individuerà quindi volta per volta la dotazione di personale che l’amministrazione ritiene risponden-te ai propri fabbisogni e che farà da riferimento per l’applicazione di quelle disposizioni di legge che as-sumono la dotazione o la pianta organica come pa-rametro di riferimento» (Linee guida, par. 2.1).

L’introduzione del Piano triennale dei fabbisogni del personale risponde “all’esigenza di superare la rigidità insita nel concetto di dotazione organica at-traverso uno strumento programmatico, modulabile e flessibile e finalizzato a rilevare realmente le effettive esigenze sulla base del principio dell’ottimale impiego delle risorse pubbliche” (in questo senso, cfr. Sez. contr. reg. Puglia, nn. 111 e 141/2018; Sez. contr. reg. Campania, n. 140/2018 e, da ultimo, Sez. autonomie, n. 4/2019), superando “l’automatismo nel manteni-mento dei posti in organico nella struttura dell’ente anche nel momento della cessazione dei dipendenti” (Sez. contr. reg. Veneto, n. 548/2018).

“La ratio della riforma consiste, dunque, non nel superamento del concetto di programmazione ma nel-la sua valorizzazione, attraverso l’introduzione di uno strumento che consente di rilevare le effettive esigenze dell’amministrazione” (Sez. contr. reg. Marche, n. 11/2019).

genti di nuove figure e competenze professionali” (c. 1); con riguardo a regioni, enti regionali, sistema sanitario nazionale ed enti locali, i decreti sono adottati previa intesa in sede di confe-renza unificata di cui all’art. 8, c. 6, l. n. 131/2003 (c. 3).

La possibilità di rimodulare la dotazione organica, secondo quanto previsto dall’art. 6, c. 3, d.lgs. n. 165/2001, trova il suo fondamento nell’esigenza, da parte dell’amministrazione, di individuare la dotazio-ne di personale effettivamente rispondente ai propri fabbisogni, individuati prima di effettuare assunzioni di personale. La norma richiamata detta le regole per la eventuale rimodulazione della dotazione organica in caso di scostamenti rispetto ai fabbisogni programmati nel piano triennale da effettuarsi sempre “nell’ambito del potenziale limite finanziario massimo della mede-sima” e “garantendo la neutralità finanziaria della rimodulazione”.

Deve, peraltro, essere evidenziato che “le mutate esigenze del contesto normativo, organizzativo o fun-zionale che giustificano la modifica del piano (Linee guida, par 2, p. 8) non possono che riferirsi a circo-stanze di carattere generale, collegate alle esigenze dell’amministrazione in funzione del raggiungimento dei suoi obiettivi, e non a situazioni di fatto che si do-vessero verificare ex post, correlate al verificarsi di condizioni del tutto eventuali” (Sez. contr. reg. Mar-che, n. 11/2019).

Il piano triennale dei fabbisogni di personale di-venta, quindi, lo strumento programmatico, modulabi-le e flessibile, per le esigenze di reclutamento e di ge-stione delle risorse umane necessarie all’organizzazione. A tal fine, ogni ente dovrà proce-dere alla rilevazione del proprio fabbisogno di perso-nale sia sotto il profilo quantitativo, sia sotto quello qualitativo.

La giurisprudenza contabile ha precisato che “le amministrazioni avranno la facoltà, dunque, di copri-re i posti vacanti nei limiti delle facoltà assunzionali previste dalle norme vigenti, verificando, in ogni caso, l’esistenza di oneri connessi con l’eventuale acquisi-zione di personale in mobilità, fermi restando gli ulte-riori vincoli di spesa dettati dall’ordinamento di setto-re, anche con riferimento alla stipula di contratti a tempo determinato” (Sez. contr. reg. Veneto, n. 113/2019).

Risulta, peraltro, evidente che “l’esistenza di un limite di spesa potenziale massima non ancora inte-grato e di facoltà assunzionali da utilizzare, non è di per sé sufficiente a poter effettuare le assunzioni pre-viste nel Ptfp. Infatti, prescindendo dal rispetto dei vincoli di finanza pubblica e assunzionali vigenti (prima descritti) appare necessario rammentare che nella costruzione del Ptfp l’amministrazione dovrà tenere in debita evidenza l’incidenza delle program-mate assunzioni sui livelli della spesa corrente. Ciò, al fine di verificare che la stessa sia effettivamente so-stenibile nel quadro derivante dall’osservanza degli equilibri di bilancio di cui al d.lgs. n. 118/2011 in quanto l’assunzione di personale, ed in particolare di quello a tempo indeterminato si traduce in una impu-tazione di spesa corrente che incide sul bilancio dell’ente fino alla cessazione del relativo rapporto di lavoro. In pratica, dunque, il Ptfp dovrà necessaria-mente considerare se la spesa per il personale assu-

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mibile, nello stesso contemplata, possa essere sosteni-bile senza incidere negativamente sugli equilibri di bilancio dell’amministrazione. E ciò, anche in una prospettiva pluriennale” (Sez. contr. reg. Veneto, n. 548/2018).

Occorre, altresì, richiamare le linee di indirizzo le quali dispongono che “nell’ambito delle suddette fa-coltà di assunzione vanno ricomprese anche quelle previste da disposizioni speciali di legge provviste della relativa copertura finanziaria, nonché l’innalzamento delle facoltà derivante dall’applicazione dell’art. 20, c. 3, d.lgs. n. 75/2017. In questo senso, l’indicazione della spesa potenziale massima non incide e non fa sorgere effetti più favo-revoli rispetto al regime delle assunzioni o ai vincoli di spesa del personale previsti dalla legge e, conse-guentemente, gli stanziamenti di bilancio devono ri-manere coerenti con le predette limitazioni” (Linee guida, par. 2.1).

7. Alla luce del sopra riportato inquadramento normativo, con specifico riferimento alla questione della stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili (Lsu) oggetto dell’odierna richiesta di parere, occorre ricordare che la disciplina relativa a tale problematica e, più in generale, alla stabilizzazione del personale precario delle pubbliche amministrazioni, è attualmen-te dettata dall’art. 20 del d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, come modificato dalla l. n. 205/2017 (legge di bilan-cio 2018), il quale, nell’ambito della riforma del pub-blico impiego, di cui alla legge delega n. 124/2015, prevede sia una specifica procedura di stabilizzazione, sia l’espletamento di specifiche procedure concorsuali riservate.

In particolare, si prevede, nel triennio 2018-2020, la facoltà per le amministrazioni di procedere alla sta-bilizzazione, in coerenza con il piano triennale dei fabbisogni di personale e con l’indicazione della rela-tiva copertura finanziaria, del personale in possesso di determinati requisiti previsti dalla stessa legge.

Ai fini che qui rilevano viene in evidenza il c. 14 del citato art. 20, il quale dispone che “Le assunzioni a tempo indeterminato disciplinate dall’art. 1, cc. 209, 211 e 212, l. 27 dicembre 2013, n. 147 sono consentite anche nel triennio 2018-2020. Per le finalità di cui al presente comma le amministrazioni interessate posso-no utilizzare, altresì, le risorse di cui ai cc. 3 e 4 o previste da leggi regionali, nel rispetto delle modalità, dei limiti e dei criteri previsti nei commi citati. Ai fini delle disposizioni di cui all’art. 1, cc. 557 e 562, l. 27 dicembre 2006, n. 296, gli enti territoriali calcolano la propria spesa di personale al netto dell’eventuale cofinanziamento erogato dallo Stato e dalle regioni. Le amministrazioni interessate possono applicare la proroga degli eventuali contratti a tempo determinato secondo le modalità previste dall’ultimo periodo del c. 4” (11).

(11) Di recente la giurisprudenza contabile ha precisato che

“le assunzioni previste dall’art. 20, c. 14, d.lgs. n. 75/2017 tro-

Questa sezione ha già avuto modo di affrontare la questione della stabilizzazione del personale utilizzato dagli enti locali in lavori socialmente utili con una de-liberazione (n. 42/2018), che contiene una ricostruzio-ne articolata ed esaustiva tanto dell’istituto del lavoro socialmente utile, quanto della normativa e della giu-risprudenza, non solo contabile, ma anche costituzio-nale e di legittimità, che si è succeduta nel tempo.

Dalle conclusioni rassegnate in detta deliberazione il collegio ritiene non vi siano ragioni per discostarsi.

Occorre, altresì, rilevare che il legislatore è nuo-vamente intervenuto sulle procedure di stabilizzazione con contratti a tempo indeterminato, anche part-time, degli Lsu e degli Lpu. Infatti, con le disposizioni con-tenute nei cc. da 446 a 449 della l. 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019), viene consentito, nel triennio 2019-2021, alle amministrazioni pubbliche utilizzatrici dei lavoratori socialmente utili e dei lavo-ratori impegnati in attività di pubblica utilità di proce-dere alle assunzioni a tempo indeterminato di tali la-voratori, nei limiti della dotazione organica e del pia-no di fabbisogno del personale. Come in passato, non si tratta di un diritto del lavoratore ma di una possibili-tà/facoltà dell’ente datore di lavoro. In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza contabile, afferman-do che “le nuove assunzioni, anche se realizzate nell’ambito di una procedura di stabilizzazione, non costituiscono un obbligo per le amministrazioni ma una facoltà (cfr. Tar Veneto n. 3342/2007) che deve essere esercitata solo qualora ricorrano effettive esi-genze funzionali dell’ente e, comunque, nel rispetto dei principi generali in materia di programmazione del fabbisogno e di dotazione organica ai sensi dell’art. 35, c. 4, d.lgs. n. 165/2001” (Sez. contr. reg. Sardegna, n. 16/2009).

Rientrano nella stabilizzazione tutti gli Lsu-Lpu utilizzati con contratto a tempo determinato, co.co.co. o altre tipologie contrattuali.

L’accesso alla stabilizzazione richiede numerose condizioni, fra le quali la più complessa riguarda il requisito dell’anzianità, con un espresso rinvio all’art. 4, c. 6, d.l. n. 101/2013 ovvero all’art. 20, cc. 1 e 2, d.lgs. n. 75/2017.

Sono previste selezioni riservate, per i profili di accesso per i quali è richiesta la scuola dell’obbligo, e concorsi riservati, per titoli ed esami, per i rimanenti profili, i quali verranno organizzati dal Dipartimento della Funzione pubblica. Per le sole selezioni riserva-

vano giustificazione unicamente nella finalità di razionalizzare la spesa per il finanziamento delle convenzioni con lavoratori socialmente utili nell’ottica di un definitivo superamento delle situazioni di precarietà nell’utilizzazione di tale tipologia di lavoratori” e che “la previa esistenza di una convenzione costi-tuisce requisito imprescindibile per l’assunzione ex art. 20, c. 14, d.lgs. n. 75/2017” per cui “deve escludersi che l’art. 20, c. 14, d.lgs. n. 75/2017 possa trovare applicazione nei confronti dei lavoratori socialmente utili per i quali il comune utilizzato-re non ha stipulato convenzioni” (Sez. contr. reg. Abruzzo, n. 111/2018).

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te, le stabilizzazioni sono considerate quota di accesso dall’esterno.

Le stabilizzazioni sono effettuate nell’ambito delle capacità assunzionali, che possono essere incrementa-te con una corrispondente riduzione del budget per il lavoro flessibile previsto dall’art. 9, c. 28, d.l. n. 78/2010, nel limite massimo della media del triennio 2015-2017.

Per le amministrazioni che intendano procedere al-le stabilizzazioni è necessario che ricorrano due con-dizioni finanziarie: a) la possibilità di sostenere a re-gime la relativa spesa di personale; b) la certificazione della sussistenza delle relative risorse finanziarie da parte dell’organo di controllo interno.

Le disposizioni innanzi citate prevedono anche che possono essere utilizzate le risorse permanenti messe a disposizioni da leggi regionali e dai contributi statali o da altre leggi speciali. In ogni caso, le stabilizzazioni devono rispettare i limiti della spesa del personale prevista dall’art. 1, cc. 557, 557-quater e 562, l. n. 296/2006.

Il limite di spesa non considera il cofinanziamento dello Stato o della regione.

In precedenza, invece, la spesa sostenuta per la stabilizzazione degli Lsu andava inclusa nel computo dell’aggregato di spesa rilevante ai fini del vincolo di cui al c. 557 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, anche qua-lora le relative risorse fossero state finanziate dalla re-gione (cfr. Sez. contr. reg. Basilicata, n. 39/2018 che richiama Sez. autonomie, n. 21/2014).

È necessario, altresì, richiamare la pronuncia della Sezione delle autonomie di questa Corte, la quale ha dichiarato come «nella nozione di “spesa del persona-le” rientrino le spese sostenute per l’acquisizione di prestazioni lavorative, di varia specie e a vario titolo, rese a favore dell’ente, e, pertanto, anche le spese ri-conducibili ai lavoratori socialmente utili, soprattutto ove sostenute per acquisire prestazioni da utilizzare nell’organizzazione delle funzioni e dei servizi dell’ente (in termini, cfr. Sez. contr. reg. Campania, n. 262/2013)» (Sez. autonomie, n. 1/2017).

Di particolare rilevanza appare, inoltre, nelle more del completamento delle procedure di stabilizzazione, la possibilità, stabilita dall’art. 1, c. 446, lett. h), l. n. 145/2018, di prorogare, sino al 31 ottobre 2019, le convenzioni e i contratti a tempo determinato a valere sulle risorse di cui all’art. 1, c. 1156, lett. g-bis), l. n. 296/2006, in deroga alle disposizioni vigenti in mate-ria di termini e percentuali dei contratti flessibili.

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con circ. n. 1 dell’11 gennaio 2019, ha fornito chiarimenti in merito, precisando che le convenzioni stipulate per garantire la prosecuzione delle attività e il pagamento degli assegni Asu-Anf (leggi assegni di sussidio per attività socialmente utili e assegni per il nucleo fami-liare) sono prorogate fino al 31 ottobre 2019. Per quanto riguarda la proroga dei “contratti a tempo de-terminato”, la circolare precisa che rientrano nel cam-po di applicazione della norma esclusivamente quelli previsti per gli Lsu ex art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2000, ex

art. 7 d.lgs. n. 468/1997 nonché per altri Lpu specifi-camente indicati (12).

Precisa, altresì, che rientrano nelle procedure di stabilizzazione gli Lsu ex art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2000 – ancorché incentivante con le risorse statali del Fon-do sociale per occupazione e formazione – effettuate sulla base di programmi, bandi, avvisi pubblici ecc., emessi a decorrere dal 1 gennaio 2019 e fino al 31 di-cembre 2021, i quali, a loro volta, dovranno unifor-marsi alle suddette disposizioni di legge.

Alla luce delle recenti novità legislative in tema di stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili il col-legio, in linea con il proprio precedente parere, ritiene che “ad eccezione e nei limiti delle deroghe espressa-mente codificate dal legislatore nazionale e nei limiti in cui le stesse risultino conformi ai principi contenuti nella normativa costituzionale ed europea in materia - ai fini della stabilizzazione di personale utilizzato in lavori socialmente utili restano fermi tutti i presuppo-sti ed i requisiti previsti dalla normativa, anche costi-tuzionale, vigente in tema di assunzioni di personale alle dipendenze pubbliche, e ciò in virtù della sostan-ziale equiparazione della stabilizzazione di personale Lsu alle procedure volte all’assunzione di personale alle dipendenze della pubblica amministrazione” (Sez. contr. reg. Basilicata, n. 42/2018).

8. Alla luce della ricostruzione del quadro norma-tivo e degli approdi ermeneutici della giurisprudenza contabile è possibile pervenire alle seguenti conclu-sioni.

La sezione ritiene che, in base al combinato dispo-sto dell’art. 6 e dell’art. 35, c. 4, d.lgs. n. 165/2001, lo strumento programmatorio debba necessariamente precedere la fase dell’assunzione di personale, che trova nel piano triennale del fabbisogno di personale il suo indispensabile presupposto. Infatti, sono le effetti-ve esigenze di fabbisogno di personale che costitui-scono il punto di riferimento per le scelte assunzionali dell’amministrazione, fermo restando il rispetto dei vincoli, giuridici e finanziari, previsti dalla normativa vigente. Detto piano, che ogni amministrazione è chiamata ad elaborare in coerenza con la pianificazio-ne pluriennale delle attività e della performance, non-ché, per gli enti territoriali, “nell’ambito dell’autonomia organizzativa ad essi riconosciuta dal-le fonti normative, nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica”, diviene strumento strategico per individua-re le esigenze di personale in relazione alle funzioni istituzionali ed agli obiettivi di performance organiz-zativa, efficienza, economicità e qualità dei servizi ai cittadini. Esso deve tener conto delle indicazioni ope-

(12) La stessa circolare precisa che restano esclusi dalla sta-

bilizzazione i lavoratori socialmente utili ex art. 2, c. 1, d.lgs. n. 81/2000, incentivati con risorse statali, adottati dalle regioni ai sensi dell’art. 78, cc. 2 e 3, l. n. 388/2000 (legge finanziaria 2001) e, soprattutto nel 2018, ai sensi dell’art. 1, c. 1156, lett. g-bis), l. n. 296/2006, nonché del decreto del direttore generale degli ammortizzatori sociali e della formazione 7 agosto 2018, destinate a completarsi nel 2019 e/o nelle prossime annualità.

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rative di carattere generale fornite dalle “Linee di indi-rizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale da parte delle pubbliche amministrazioni” di cui al d.m. 8 maggio 2018.

In particolare, è importante focalizzare l’attenzione sul par. 2.1 di tali linee di indirizzo nella parte in cui affermano che “la stessa dotazione organica si risolve in un valore finanziario di spesa massima sostenibile […] e che per le regioni e gli enti territoriali, sottopo-sti a tetti di spesa per il personale, l’indicatore di spe-sa potenziale massima resta quello previsto dalla normativa vigente […] Nel Ptfp la dotazione organica va espressa, quindi, in termini finanziari”.

L’art. 6, c. 6, d.lgs. n. 165/2001 prevede che le amministrazioni pubbliche che non provvedono agli adempimenti indicati nel medesimo articolo non pos-sono assumere nuovo personale. Secondo le suddette linee di indirizzo “tale sanzione scatta sia per il man-cato rispetto dei vincoli finanziari e la non corretta applicazione delle disposizioni che dettano la disci-plina delle assunzioni, sia per l’omessa adozione del Ptfp e degli adempimenti previsti dagli artt. 6 e 6-ter, c. 5, d.lgs. n. 165/2001”.

Le stesse procedure di stabilizzazione non possono che essere realizzate in coerenza con quanto stabilito nel piano triennale del fabbisogno di personale, indi-cando la relativa copertura finanziaria.

In linea generale, una volta adottato il piano dei fabbisogni, l’ente prima di procedere ad una nuova assunzione deve verificare che non ricorra uno speci-fico divieto di legge, che ricorra l’imprescindibile pre-supposto dell’intervenuta cessazione del personale che si intende sostituire con una nuova assunzione, nonché che venga rispettata la percentuale indicata dal legisla-tore quale sintesi del rapporto che ci deve essere tra il risparmio di spesa derivante dalle cessazioni e il costo delle nuove assunzioni.

Da ultimo, l’art. 1, c. 446, l. 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno fi-nanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), nel consentire e disciplinare le assunzioni dei lavoratori socialmente utili a tempo indeterminato, anche con contratti di lavoro a tempo parziale, ha sta-bilito che le amministrazioni pubbliche “possono pro-cedere all’assunzione nei limiti della dotazione orga-nica e del piano di fabbisogno del personale, nel ri-spetto delle seguenti condizioni: (Omissis) g) calcolo della spesa di personale da parte degli enti territoriali e degli enti pubblici interessati, ai fini delle disposi-zioni di cui all’art. 1, cc. 557, 557-quater e 562, l. 27 dicembre 2006, n. 296, al netto dell’eventuale cofi-nanziamento erogato dallo Stato e dalle regioni”. Ciò significa che non è possibile andare in deroga alle norme relative ai vincoli in materia di spesa del perso-nale neanche per la stabilizzazione dei lavoratori so-cialmente utili.

Al fine di poter ricorrere allo strumento delle stabi-lizzazioni è necessario, ai sensi del c. 4 dell’art. 20 del d.lgs. n. 75/2017, che l’amministrazione abbia rispet-tato per tutto il quinquennio 2012-2016 i vincoli di fi-

nanza pubblica, ossia il rispetto del patto di stabilità, il pareggio di bilancio e il rispetto del tetto di spesa del personale.

La sezione, in conclusione, in linea con quanto già precedentemente stabilito, ritiene che “il personale utilizzato dall’ente nell’ambito della macrocategoria dei lavori socialmente utili può beneficiare delle pro-cedure di stabilizzazione nei termini e nei limiti codi-ficati dalla normativa vigente.

Il tutto fermo restando il rispetto dei presupposti e dei vincoli di legge e finanziari vigenti in materia di assunzione a tempo indeterminato alle dipendenze della pubblica amministrazione, fatta eccezione per le deroghe espressamente codificate dalla normativa na-zionale, tempo per tempo, vigente e nei limiti in cui le stesse risultino conformi ai principi costituzionali in materia” (Sez. contr. reg. Basilicata, n. 42/2018).

In sintesi, l’ente non può far ricorso al processo di stabilizzazione degli Lsu al di fuori del perimetro normativo e delle condizioni delineate dal legislatore nazionale.

L’amministrazione comunale potrà quindi assume-re le proprie determinazioni entro il sopra delineato quadro di riferimento.

* * *

Lombardia

309 – Sezione controllo Regione Lombardia; parere 18 luglio 2019; Pres. (f.f.) Degni, Rel. Caleo; Comune di Voghera.

Enti locali – Comune – Incentivi al personale per funzioni tecniche – Erogazione – Concessioni – Esclusione. D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, attuazione delle direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei tra-sporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici rela-tivi a lavori, servizi e forniture, art. 113; d.lgs. 19 apri-le 2017, n. 56, disposizioni integrative e correttive al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 76; l. 27 dicembre 2017, n. 205, legge di bilancio 2018, art. 1, c. 526; d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito dalla l. 14 giugno 2019, n. 55, disposizioni urgenti per il rilancio del set-tore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici, art. 1.

Gli incentivi per funzioni tecniche possono essere legittimamente erogati, nel rispetto delle ulteriori pre-visioni normative, per le sole attività riferibili ad ap-

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palti e non anche per quelle relative a rapporti di concessione. (1)

Premesse ed esame nel merito – Con la nota sopra citata il sindaco del Comune di Voghera, in vista dell’affidamento in concessione, mediante procedura ad evidenza pubblica, della gestione della segnaletica direzionale, di impianti pubblicitari di servizio, di im-pianti pubblicitari e di cartellonistica stradale sul suolo pubblico, ha investito questa sezione dei seguenti que-siti:

1. “se anche nel caso in cui il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nel-la esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, l’incentivo per funzioni tecniche deb-ba essere determinato sul valore posto a base di gara e quindi sul fatturato presunto”;

(1) Ancora sulla corresponsione degli incentivi per fun-

zioni tecniche nelle concessioni

Con la pronuncia in commento la Sez. contr. reg. Lombar-dia è tornata sul complesso tema dei presupposti per l’erogazione degli incentivi per funzioni tecniche.

Si tratta dei benefici pecuniari riconosciuti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni al fine di incentivare lo svol-gimento interno delle attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di pre-disposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecu-zione dei contratti pubblici, dello svolgimento delle funzioni di responsabile unico del procedimento di direttore dei lavori ov-vero dell’esecuzione o di collaudatore, in luogo dell’affidamento esterno di dette funzioni.

La materia, un tempo disciplinata nel previgente codice de-gli appalti (art. 93, c. 7-ter, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163), è oggi contenuta nell’art. 113 del codice dei contratti pubblici come modificato dall’art. 76 del d.lgs. 19 aprile 2017 n. 56, mentre le specifiche modalità di finanziamento di detti incentivi sono sta-te parzialmente riformulate dall’art. 1, c. 526, l. n. 205/2017.

Il dicastero adito è stato richiesto di pronunciarsi in merito alla spettanza dell’incentivo per funzioni tecniche anche nell’ipotesi in cui in cui il flusso economico derivante dal con-tratto resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, e sulle conseguenti modalità applicative dell’erogazione.

La sezione ha dato puntuale applicazione del dictum di Sez. autonomie, 25 giugno 2019, n. 15, che, esprimendo un orien-tamento di carattere generale, ha ritenuto di non poter accoglie-re la tesi sostenuta da Sez. contr. reg. Veneto, 21 giugno 2018, n. 198, e 27 novembre 2018, n. 455, secondo cui, nonostante il dato letterale della norma, gli incentivi potrebbero essere eroga-ti, oltre che per le attività svolte ai fini dell’affidamento di ap-palti di lavori, servizi e forniture, anche nell’ambito dei proce-dimenti propedeutici all’aggiudicazione di contratti di conces-sione.

Per ulteriori questioni connesse agli incentivi per funzioni tecniche si rinvia alle note di commento (con rassegna dei pre-cedenti giurisprudenziali) a Sez. contr. reg. Veneto, 24 gennaio 2019, n. 17, in questa Rivista, 2019, fasc. 1, 144; Sez. contr. reg. Lombardia, 8 maggio 2019, n. 163, ivi, 2019, fasc. 3, 161, in ordine ai profili di diritto intertemporale della nuova disci-plina; Sez. contr. reg. Veneto, 21 maggio 2019, n. 107, ibidem, 173, in merito ai presupposti per il riconoscimento degli incen-tivi nell’ambito delle attività riferibili a contratti di lavori, ser-vizi o forniture. [A. LUBERTI]

2. “in caso affermativo, considerato che il canone è versato in quote annuali nella misura di euro 20.500 e che l’incentivo, pari a euro 62.500, deve invece es-sere riconosciuto in correlazione all’esigibilità della prestazione effettivamente svolta, se è corretto che l’ente anticipi, a valere sulle risorse correnti di bilan-cio, l’importo da erogare al personale dipendente”;

3. «considerato che l’art. 113, c. 5-bis, d.lgs. n. 50/2016 prevede che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavoro, servizi e forniture” quale condizione per poter considerare detti importi esclusi dal limite di cui all’art. 23, c. 2, d.lgs. n. 75/2017 (Corte conti, Sez. autonomie, n. 6/2018), e che in que-sto caso non vi è un capitolo di spesa in quanto non sono previsti nel bilancio comunale costi correlati al-la gestione della concessione, in questo caso come oc-corre contabilizzare l’importo per incentivi per soddi-sfare la condizione necessaria all’esclusione dal limi-te previsto per il salario accessorio»;

4. se “stante il combinato disposto degli artt. 31, c. 5 e 113, c. 2, ult. cpv., d.lgs. n. 50/2016 e viste le Li-nee guida Anac n. 3, approvate con deliberazione n. 1007 dell’11 ottobre 2017, con cui al punto 10.2 è sta-to definito l’importo massimo e la tipologia dei servizi e forniture per le quali il Rup può coincidere con il direttore dell’esecuzione del contratto, è legittimo, nel caso prospettato, riconoscere l’incentivo per funzioni tecniche nel caso in cui, con provvedimento dirigen-ziale, sia nominato direttore dell’esecuzione il Rup. In caso affermativo se è corretto corrispondere al mede-simo dipendente l’incentivo sia per le funzioni di Rup che di direttore dell’esecuzione del contratto”.

Con la delib. n. 96/2019 cui si fa rinvio, questa se-zione, dopo aver dichiarato inammissibile l’ultimo quesito posto dall’ente in quanto afferente ad una que-stione di ordine meramente gestionale e, come tale ri-messa, alla discrezionalità e responsabilità dell’istante, ha ritenuto opportuno, a monte, deferire al Presidente della Corte dei conti la seguente questione interpreta-tiva di massima di carattere generale: “se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 possa essere riconosciuto, per via regola-mentare, anche in caso di concessioni e se, in siffatta ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il flusso economico derivante dalla concessione resti sostan-zialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, debba essere determinato sul valore posto a base di gara e non con riguardo all’ammontare del canone concessorio”.

Nell’ipotesi in cui la questione di massima sopra illustrata fosse stata definita nel senso dell’ammissibilità degli incentivi per funzioni tecniche in ipotesi di concessioni, la sezione ha ritenuto che le problematiche poste dal comune, in particolare con il terzo e il quarto quesito, potessero dare luogo alle ul-teriori seguenti questioni di massima da porre all’attenzione della sede nomofilattica, dirimenti ai fini della necessità di orientare in termini generali l’autonomia regolamentare dei soggetti interessati:

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“quali siano le corrette modalità di contabilizza-zione degli incentivi per funzioni tecniche in caso di erogazione in relazione ad una procedura di aggiudi-cazione di un contratto di concessione”;

e, sempre in via subordinata:

“se gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanzia-rie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi e individuali, che devono essere os-servati nell’erogazione possano essere esclusi dal vincolo generale di finanza pubblica, posto al com-plessivo trattamento economico accessorio dei dipen-denti pubblici di cui all’art. 23, c. 2, d.lgs. n. 75/2017 anche laddove alimentati non già dalle risorse facenti capo al singolo lavoro, servizio o fornitura di cui all’art. 113, c. 5-bis, d.lgs. n. 50/2016 e successive modificazioni e integrazioni, ma, come in caso di con-cessione, da uno specifico stanziamento previsto nel bilancio dell’amministrazione aggiudicatrice ai sensi del c. 1 dello stesso art. 113”.

Le questioni sopra enunciate sono state, così, ri-messe al Presidente della Corte dei conti per la valuta-zione sull’opportunità di deferimento delle stesse alla Sezione delle autonomie o alle Sezioni riunite, ai sensi dell’art. 6, c. 4, d.l. 10 ottobre 2012 n. 174 (convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213).

Con la delib. n. 15/2019, la Sezione delle autono-mie, investita della questione di massima dal Presi-dente della Corte dei conti con ord. n. 10 del 2 maggio 2019 ai sensi dell’art. 6, c. 4, d.l. n. 174/2012, ha enunciato il seguente principio di diritto:

“Alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, gli incentivi ivi disci-plinati sono destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appal-to e non anche nei casi di contratti di concessione”.

Per la soluzione delle questioni sopra elencate, la Sezione delle autonomie ha ritenuto imprescindibile risolvere la prima parte del primo quesito posto da questa sezione, e cioè “se l’incentivo per funzioni tec-niche di cui all’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni” in quanto dirimente ai fini del riscontro anche dei successivi.

Condividendo le perplessità interpretative ed ap-plicative segnalate da questa sezione remittente, legate alla riconoscibilità dell’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 c.c.p. anche in caso di concessioni, la Sezione delle autonomie ha osservato come “una piana lettura di quest’ultima disposizione non può in-durre invero a ritenere che anche l’art. 113 sia appli-cabile ai contratti di concessione”, dovendosi piutto-sto osservare che “il citato art. 113 è calibrato inequi-vocabilmente sulla tipologia dei contratti di appalto”; ciò in particolare alla luce dell’attuale disposto del c. 5-bis della stessa norma, da cui si desume univoca-mente che i compensi incentivanti “per chiara affer-mazione del legislatore costituiscono un “di cui” delle spese per contratti appalto e non vi è alcun elemento

ermeneutico che possa far ritenere estensibile le di-sposizioni dell’articolo in esame anche alle conces-sioni, non essendo normativamente previsto uno spe-cifico stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture”.

È stato ulteriormente osservato, al riguardo, che la specialità della fattispecie dei compensi incentivanti di cui trattasi “ha richiesto una disciplina espressa e compiuta, che è declinata nell’art. 113, con indicazio-ne degli ambiti, delle modalità di finanziamento e del-le relative procedure di quantificazione e individua-zione delle destinazioni, nonché della natura degli emolumenti accessori (e per quest’ultimo profilo è stato necessario un ulteriore intervento legislativo). Non sembra praticabile, quindi, un’interpretazione estensiva ed analogica”.

In tale prospettiva la Sezione delle autonomie ha condiviso talune criticità applicative prospettate da questa sezione remittente, rimarcando la difficile con-ciliabilità del compenso in esame con le “diverse ca-ratteristiche strutturali delle due tipologie di contratti, in quanto essenzialmente, quelli di appalto comporta-no spese e quelli di concessioni entrate”; inoltre, è sta-to rilevato, “nel caso di operazioni di notevole entità, prevedere di pagare incentivi a fronte di flussi di en-trata che potrebbero essere incerti esporrebbe l’ente al rischio di insostenibilità. Né si può far affidamento su clausole contrattuali, non obbligatorie e del tutto eventuali in quanto non previste per legge, che preve-dano la remunerazione dell’incentivo in capo al con-cessionario”.

In conclusione, la Sezione delle autonomie ha rite-nuto che “per ritenere applicabile anche ai contratti di concessione gli incentivi per lo svolgimento di fun-zioni tecniche si dovrebbe operare uno sforzo erme-neutico estensivo ed analogico tale da riscrivere, di fatto, il contenuto dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, che, come si è visto, è calibrato sui contratti di appal-to (ai quali espressamente si riferisce) e non tiene conto di quelle sostanziali differenze che caratterizza-no i contratti di concessione”.

Questa sezione regionale, pertanto, in applicazione del sopra richiamato principio di diritto, aderisce all’interpretazione seguita dalla Sezione delle auto-nomie in forza della quale, alla luce dell’attuale for-mulazione dell’art. 113 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono destinabili al per-sonale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione.

La risposta negativa alla suddetta questione pre-giudiziale, legata alla stessa possibilità di riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche in caso di contratti di concessione, importa che resti conseguentemente assorbita ogni ulteriore valutazione sugli altri quesiti posti dal Comune di Voghera.

* * *

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Molise

98 – Sezione controllo Regione Molise; parere 26 lu-glio 2019; Pres. Nispi Landi, Rel. Cerqua; Comune di Torella del Sannio.

Enti locali – Comune – Personale – Monetizzazione ferie non godute – Costanza del periodo di preavvi-so per pensionamento – Applicabilità del divieto generale. Cost. art. 36, c. 3; direttiva 2003/88/Ce del 4 novem-bre 2003; d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, disposizioni urgenti per la revi-sione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario, art. 28, c. 11; d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla l. 28 marzo 2019, n. 26, disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni.

Vige per gli enti locali il generale divieto di corri-spondere trattamenti economici sostitutivi delle ferie non godute da parte dei dipendenti anche nel caso in cui questi ultimi abbiano optato per il collocamento in pensione anticipata. Ciò in considerazione della con-creta possibilità per i suddetti dipendenti di godere delle ferie maturate anche nel corso del periodo di preavviso, a fronte del potere-dovere del datore di la-voro di adottare i provvedimenti organizzativi neces-sari per l’assegnazione delle stesse. (1)

(1) La Sezione regionale di controllo per il Molise con la

deliberazione in commento è tornata sulla questione della mo-netizzazione delle ferie non godute da parte di lavoratori dipen-denti degli enti locali.

Nel premettere la rilevanza del diritto alle ferie costituzio-nalmente garantito (art. 36, c. 3, Cost.), la sezione rammenta il limite imposto dall’art. 5, c. 8, d.l. 6 luglio 2012, n. 95 che con-sidera le ferie un diritto irrinunciabile e comunque in nessun caso sostituibile con la corresponsione di trattamenti economi-ci, ivi compresa l’ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro per pensionamento e raggiungimento dei limiti di età. La sua perentorietà ha fatto sorgere dubbi sulla legittimità costituzio-nale delle citate disposizioni che sono state oggetto di specifico pronunciamento da parte della Corte costituzionale con sent. 6 maggio 2016, n. 95. In tale sede, la Consulta ha precisato che la finalità del divieto è quella di arginare l’uso improprio della monetizzazione, sostenendo fortemente le motivazioni che fan-no del diritto alle ferie un diritto irrinunciabile per il lavoratore che, almeno una volta l’anno, deve poter usufruire di un perio-do di congedo retribuito per la reintegrazione delle energie psi-co-fisiche, oltre che per assicurare la sua partecipazione alla vita familiare e la soddisfazione delle sue esigenze socio-culturali. Un diritto che trova adeguato riconoscimento anche a livello di disciplina comunitaria che lo quantifica temporalmen-te in almeno quattro settimane (v. art. 7 direttiva 2003/88/Ce del 4 novembre 2003).

Tale divieto trova come unico limite il ricorrere della fatti-specie in cui l’interruzione del rapporto di lavoro non dipenda dalla volontà del datore di lavoro e neppure da quella del lavo-ratore (decesso o malattia invalidante). Pertanto, esso opera in tutti i casi in cui le vicende estintive del rapporto di lavoro ri-sultano essere governabili dalla volontà del lavoratore e dalla capacità del datore di lavoro. In tutti i casi in cui il lavoratore abbia la possibilità di scelta ed opti per la rinuncia al periodo di

Fatto – 1. Con nota acquisita al protocollo di que-sta sezione n. 1879 del 30 maggio 2019, il sindaco del Comune di Torella del Sannio ha formulato richiesta di parere avente ad oggetto la possibilità, da parte di dipendenti che abbiano optato per il collocamento in pensione anticipata beneficiando dei requisiti previsti dal capo II del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (“Trattamen-to di pensione anticipata «Quota 100» e altre disposi-zioni pensionistiche”), convertito con modificazioni dalla l. 28 marzo 2019, n. 26, di monetizzare le ferie maturate e non godute.

In particolare, il sindaco riferisce che i dipendenti interessati, alla data della comunicazione del preavvi-so, pervenuto sei mesi prima del giorno di decorrenza del trattamento pensionistico, non avevano fruito di tutti i giorni di ferie annuali retribuite maturate nel corso del 2018 – dal momento che, “pur avendo pro-dotto domanda nel mese di dicembre 2018, non sono stati autorizzati per indifferibili esigenze di servizio”–, a cui si sono aggiunte le ferie maturate nel corso dei mesi del 2019 antecedenti alla cessazione dal servizio.

Evidenzia, inoltre, le limitate dimensioni dell’ente (che dispone di cinque dipendenti di ruolo e di un se-gretario in convenzione, con presenza presso il comu-ne per un solo giorno settimanale), che rendono diffi-cile programmare lo smaltimento delle ferie maturate contestualmente all’erogazione quotidiana dei servizi, soffermandosi poi sulla trama normativa astrattamente applicabile alla fattispecie, con particolare riferimento all’art. 12, c. 6, c.c.n.l. di comparto del 9 maggio 2006 (secondo cui le ferie non possono essere assegnate du-rante il periodo di preavviso) e all’apparente contrasto tra il divieto di corresponsione di trattamenti sostituti-

riposo che gli spetterebbe non può chiedere la monetizzazione delle ferie non godute. Di contro viene ribadito che incombe sui datori di lavoro, compresi quelli degli enti di piccole dimensio-ni, l’obbligo di programmare opportunamente le attività lavora-tive della struttura, al fine di favorire l’effettiva fruizione del diritto alle ferie da parte dei dipendenti. Tenendo debitamente conto della necessità di un prudente apprezzamento dei presup-posti al cui ricorrere è possibile giustificare, alla luce delle di-sposizioni vigenti e della giurisprudenza costituzionale, la cor-responsione di trattamenti economici sostitutivi delle ferie non godute.

Sul punto, fondamentale anche per Cass., Sez. lav., 14 giu-gno 2018, n. 15652, è la possibilità di dimostrazione per tabu-las da parte del dipendente prossimo alla pensione delle esigen-ze di servizio, la cui improrogabilità avrebbe reso impossibile la fruizione del congedo per il quale viene richiesta la corre-sponsione dell’indennità sostitutiva.

Pur non potendo il parere, nel caso di specie, e l’attività consultiva, in generale, fornire soluzioni che si ingeriscano nel-la attività di gestione, di competenza esclusiva dell’amministrazione (comunale) richiedente, la sezione ha ri-tenuto di voler precisare un aspetto importante connesso alla fattispecie oggetto di parere. I lavoratori che avevano fatto ri-chiesta di monetizzazione delle ferie non godute, maturate nell’anno precedente, avevano optato per il pensionamento an-ticipato e si trovavano nel periodo di preavviso ricadente nella seconda metà dell’anno, allorquando le suddette ferie avrebbe-ro dovuto, per espressa previsione del c.c.n.l., in ogni caso, es-sere già state utilizzate dai richiedenti. [P. COSA]

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vi di ferie (introdotto dall’art. 5, c. 8, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 135) e la previsione dell’art. 28, c. 11, c.c.n.l. relativo al comparto enti locali per il triennio 2016-2018, secondo cui le ferie maturate e non godute per esigenze di servizio sono monetizzabili solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro.

Conclude, pertanto, chiedendo il parere di questa Corte “circa l’applicazione nel caso di specie dell’istituto della monetizzazione all’atto della cessa-zione delle ferie non fruite dai dipendenti in questione, in considerazione della modalità con cui è venuta a determinarsi la cessazione del rapporto di lavoro”.

Diritto – (Omissis) 4.1. Il diritto alle ferie è previ-sto e disciplinato da una pluralità di risalenti fonti normative, anche di rango costituzionale e comunita-rio, nonché dalle disposizioni dei contratti collettivi nazionali di comparto.

Nel diritto interno, l’art. 36, c. 3, Cost. prevede il diritto del lavoratore ad un periodo di ferie annuali re-tribuite, presidiato dalla espressa prescrizione di irri-nunciabilità e parte di quel “contenuto minimo di tute-la che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato” (Corte cost. 22 mag-gio 2001, n. 158).

Sul piano comunitario, è sufficiente richiamare l’art. 7 della direttiva 2003/88/Ce del 4 novembre 2003, concernente “taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro”, che riprendendo testualmente i contenuti dell’analogo articolo contenuto nell’abrogata direttiva 93/104/Ce del 23 novembre 1993 (come modificata dalla direttiva 2000/34/Ce e recepita con d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66), impone agli Stati di “assumere le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di alme-no 4 settimane”. La rilevanza della norma è tale che, secondo la Corte di giustizia, le relative disposizioni soddisfano i requisiti dell’efficacia diretta, essendo incondizionate e sufficientemente precise, legittiman-do, pertanto, i singoli a farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato membro che abbia omesso di trasporre la direttiva in diritto nazionale en-tro i termini o l’abbia recepita in modo non corretto (C-282/10 24 gennaio 2012, causa Maribel Domin-guez c. Centre informatique du Centre Ouest Atlanti-que e Préfet de la région Centre, punti 33-34). Più di recente, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite è stato espressamente sancito all’art. 31, par. 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cui l’art. 6, par. 1, Tue riconosce il medesimo valore giuridico dei trattati) e la Corte di giustizia è giunta espressamente ad affermare che esso deve essere con-siderato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può deroga-re e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplici-tamente indicati dalla direttiva 2003/88 (C-118/13 12 giugno 2014, causa Gulay Bollacke c. K e K Klaas & Kock B.V. & Co. KG, punto 15 e giurisprudenza ivi citata).

Le modalità di fruizione delle ferie annuali sono disciplinate in maniera dettagliata e puntuale nei con-tratti collettivi di lavoro dei diversi comparti.

Per quanto interessa in questa sede, il c.c.n.l. rela-tivo al personale del comparto Funzioni locali per il triennio 2016-2018 all’art. 28, c. 9 dispone che: “Le ferie sono un diritto irrinunciabile e non sono mone-tizzabili. Esse sono fruite, previa autorizzazione, nel corso di ciascun anno solare, in periodi compatibili con le esigenze di servizio, tenuto conto delle richieste del dipendente”. È vero che, come osservato dal co-mune istante, il successivo c. 11 prevede che le ferie maturate e non godute per esigenze di servizio “sono monetizzabili solo all’atto della cessazione del rap-porto di lavoro”, ma immediatamente dopo aggiunge che tale astratta possibilità può ammettersi esclusiva-mente “nei limiti delle vigenti norme di legge e delle relative disposizioni applicative”.

Un limite legale molto rilevante, nella fattispecie in esame, è quello di recente introdotto dall’art. 5, c. 8 d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 135), espressamente finaliz-zato alla “razionalizzazione” – attraverso la riduzione – “delle spese per acquisti di beni e servizi”, nonché a “garantire il contenimento e la stabilizzazione della finanza pubblica”, anche attraverso misure volte ad assicurare “la razionalizzazione, l’efficienza e l’economicità dell’organizzazione degli enti e degli apparati pubblici”.

La disposizione prevede che “le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica di-rigenziale, delle amministrazioni pubbliche [...] sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici so-stitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobili-tà, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiun-gimento del limite di età. Eventuali disposizioni nor-mative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto”.

4.2. L’apparente perentorietà dell’obbligo di frui-zione delle ferie e del correlato divieto (“in nessun ca-so”) di corresponsione di trattamenti economici sosti-tutivi, introdotti dal d.l. n. 95/2012 e presidiati dalla previsione di sanzione consistente nel recupero delle somme indebitamente erogate nonché da responsabili-tà disciplinare e amministrativa in capo al dirigente responsabile, ha indotto a dubitare della legittimità co-stituzionale della disposizione.

Orbene, la Corte costituzionale, con sent. 6 maggio 2016, n. 95, confermando le prime interpretazioni of-ferte dalla Ragioneria generale dello Stato e dal Dipar-timento della funzione pubblica, nonché gli orienta-menti della magistratura contabile in sede di controllo, ha chiarito che la natura settoriale della nuova dispo-sizione, «introdotta al precipuo scopo di arginare un possibile uso distorto della “monetizzazione” e mi-rante “a riaffermare la preminenza del godimento ef-

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fettivo delle ferie, per incentivare una razionale pro-grammazione del periodo feriale e favorire compor-tamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro”, non può porsi “in antitesi con principi ormai radicati nell’esperienza giuridica italiana ed europea». Per-tanto, il divieto di corrispondere trattamenti economici sostitutivi delle ferie non godute opera nei soli casi di vicende estintive del rapporto di lavoro governabili dalla volontà del lavoratore o dalla capacità organizza-tiva del datore di lavoro. Infatti, aggiunge la Corte, il legislatore correla “il divieto di corrispondere tratta-menti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzio-ne) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungi-mento dei limiti di età) che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di at-tuare il necessario contemperamento delle scelte or-ganizzative del datore di lavoro con le preferenze ma-nifestate dal lavoratore in merito al periodo di godi-mento delle ferie”.

Conseguentemente, quel divieto non può trovare applicazione nei casi in cui l’impossibilità di fruizione delle ferie derivi da eventi del tutto imprevedibili e non attribuibili alla responsabilità né del datore di la-voro, né del lavoratore (Dipartimento funzione pub-blica, n. 40033/2012, ha ritenuto, ad esempio, che “le cessazioni del rapporto di lavoro determinatesi a se-guito di un periodo di malattia, di dispensa dal servi-zio o, a maggior ragione, di decesso del dipendente, configurano vicende estintive del rapporto di lavoro dovute ad eventi indipendenti dalla volontà del lavo-ratore e dalla capacità organizzativa del datore di la-voro”, escludendo pertanto in tali casi l’operatività del divieto).

4.3. Le osservazioni che precedono forniscono utili indicazioni con riferimento alla fattispecie prospettata nella richiesta di parere, fermo restando che non può essere enunciata una soluzione specificamente relativa alle circostanze concrete esposte dal sindaco, essendo devoluta la gestione del singolo caso alle attente scelte dell’ente, da effettuare nel quadro della normativa ap-plicabile.

In particolare, premesso che l’art. 28, c. 14, del ci-tato c.c.n.l. del comparto Funzioni locali consente, ec-cezionalmente, di fruire delle ferie non godute nell’anno di maturazione entro il primo semestre dell’anno successivo, ma solo qualora siano riscontra-bili “indifferibili esigenze di servizio che non abbiano reso possibile il godimento delle ferie nel corso dell’anno”, deve rilevarsi che la sussistenza di tale condizione richiederebbe un evidente rigore probato-rio, idoneo tra l’altro a escludere che le richiamate, indifferibili esigenze conseguano a loro volta a errate scelte organizzative. Peraltro, ogni argomento fondato sulla possibilità di disporre un legittimo differimento diviene recessivo nei casi (come quello esposto nella richiesta) in cui la cessazione dal servizio intervenga nella seconda metà dell’anno, le ferie maturate

nell’anno precedente dovendo, in tal caso, essere state nel frattempo necessariamente smaltite.

Comunque, non può ritenersi ammissibile che l’ente comunichi, genericamente e per un lasso di tempo considerevole, che sussistono ragioni di servi-zio – sempre sindacabili dalle autorità competenti – che impedirebbero ai dipendenti la fruizione delle fe-rie. Del resto, anche nel caso in cui la giurisprudenza è giunta ad escludere la responsabilità per il danno era-riale collegato alla intervenuta monetizzazione delle ferie, ciò è accaduto – peraltro in riferimento a fatti-specie di cessazione del rapporto intervenuta in data antecedente all’entrata in vigore del d.l. n. 95/2012 – in considerazione della ritenuta insussistenza dell’elemento della colpa grave, sul presupposto della sussistenza del danno e sottolineando la necessità di “utilizzare tutti gli strumenti previsti dalla legge per evitare l’accumulo di ferie non godute da parte di un dipendente comunale” (Corte conti, Sez. giur. reg. Molise, 4 marzo 2016, n. 15).

Né la sopravvenienza di una non prevedibile causa di anticipata risoluzione del rapporto (cui il comune richiedente si riferisce, con il richiamo al citato d.l. 28 gennaio 2019, n. 4) appare, da sola, elemento suffi-ciente ad integrare fattispecie di monetizzazione am-missibile, dovendo a tal fine sempre accertarsi che ne sia derivata l’impossibilità di fruizione delle ferie (ve-rifica non agevole nei casi in cui, nonostante la novità normativa, la risoluzione del rapporto sia stata annun-ciata con ampio termine di preavviso).

5. Concludendo sul punto, non può, dunque, che ribadirsi che incombe sugli enti datori di lavoro, anche di piccole dimensioni, programmare le attività lavora-tive al fine di favorire la fruizione delle ferie da parte dei dipendenti, nel contempo valutando con estrema prudenza se in concreto sussistano i presupposti che legittimano, alla luce della prassi e della giurispruden-za anche costituzionale richiamate, la corresponsione di trattamenti economici sostitutivi di ferie non godu-te.

5.1. Le predette conclusioni non trovano ostacolo nel disposto dell’art. 12, c. 6, c.c.n.l. personale com-parto delle regioni e autonomie locali per il biennio economico 2004-2005, sottoscritto in data 9 maggio 2006 (pubblicato in G.U. 18 maggio 2006, n. 114), secondo cui “L’assegnazione delle ferie non può av-venire durante il periodo di preavviso. Pertanto, in caso di preavviso lavorato si dà luogo al pagamento sostitutivo delle stesse”.

Preliminarmente, deve ritenersi che la disciplina in esame vada riferita ai soli termini minimi di preavviso contrattualmente previsti (di regola, da due a quattro mesi, salvi i casi di dimissioni, ai sensi dei cc. 1 e 2 del citato art. 12 c.c.n.l. del 2006), con la conseguenza che essa non opera per il maggior termine di anticipo con cui (come nella fattispecie) la parte che recede abbia effettuato la relativa comunicazione.

5.2. Inoltre, va evidenziato che la previsione con-trattuale, già contenuta nell’art. 39, c. 6, c.c.n.l. di comparto del 6 luglio 1995 (come sostituito dall’art. 7

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del c.c.n.l. del 13 maggio 1996), trova riscontro in sta-tuizioni analoghe contenute in importanti contratti col-lettivi del pubblico impiego privatizzato (tra i più re-centi, cfr. art. 72, c. 6, c.c.n.l. relativo al personale comparto Sanità – triennio 2016-2018; art. 67, c. 6, c.c.n.l. relativo al personale del comparto Funzioni centrali – triennio 2016-2018).

L’introduzione della clausola e la sua conferma nel tempo, nell’ambito dei contratti collettivi nazionali del comparto regioni-enti locali, nonché il riscontro di di-sposizioni analoghe nella disciplina negoziale di altri comparti, inducono a ricercarne il fondamento comu-ne, anche al fine di trarne conferenti indicazioni appli-cative.

5.3. Al riguardo, si osserva che le clausole contrat-tuali in argomento richiamano con evidenza il testo dell’art. 2109 c.c., che al c. 4 dispone quanto segue: “non può essere computato nelle ferie il periodo di preavviso indicato nell’art. 2118”.

È ben vero che la lettera delle disposizioni dei con-tratti collettivi sembra prevedere sic et simpliciter l’impossibilità di fruizione delle ferie successivamente all’inizio di decorrenza del periodo di preavviso, al punto che l’art. 12, c. 6, c.c.n.l. cit., prosegue, te-stualmente, prevedendo l’obbligo di monetizzazione in tutti i casi di “preavviso lavorato” (espressione con cui, tradizionalmente, si individuano le ordinarie fatti-specie in cui la risoluzione del rapporto di lavoro in-terviene solo in esito al compiuto decorso del termi-ne), mentre, al contrario, l’art. 2109, c. 4, c.c. si limita a non consentire la sovrapposizione tra i periodi di fe-rie e di preavviso (“non può essere computato”).

Tuttavia, alla luce dell’oramai vigente divieto di “corresponsione di trattamenti economici sostitutivi” anche in caso di “cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età”, introdotto dal ri-chiamato art. 5, c. 8, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, non po-trebbe sostenersi che la norma contrattuale presuppo-ne la sussistenza di un collegamento necessario tra un’assoluta impossibilità di fruizione delle ferie du-rante il periodo di preavviso e un generale, conseguen-te obbligo di loro monetizzazione: infatti, in caso di preavviso lavorato, superata ormai la regola della ne-cessaria corresponsione del trattamento sostitutivo delle ferie non godute (sostituita dalla regola opposta), dovrebbe concludersi per la conseguente caducazione della regola che ne impediva l’assegnazione.

Appare pertanto più ragionevole ricondurre la ri-chiamata previsione negoziale nell’ambito del meno drastico divieto di “computo nelle ferie” del periodo di preavviso di cui all’art. 2109 c.c., sulla base di consi-derazioni di carattere sistematico – anche in ragione dell’applicabilità ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’art. 2, c. 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (richiamata, per gli en-ti locali, dall’art. 88 Tuel.), delle disposizioni del capo I, titolo II, libro V, c.c. – e come confermato dai ri-chiamati, recenti contratti collettivi di diversi compar-ti, in cui non è ripetuta la disposizione avente ad og-

getto il pagamento sostitutivo in caso di preavviso non lavorato.

5.4. La riconduzione delle disposizioni dei contrat-ti collettivi alla previsione generale dell’ultimo com-ma dell’art. 2109 c.c. consente, dunque, di richiamare i risultati raggiunti in sede di interpretazione della norma.

Come noto, l’individuazione della ratio del divieto di sovrapposizione delle ferie al periodo di preavviso non si è rivelata un’operazione ermeneutica agevole, al punto che molte delle interpretazioni formulate so-no apparse inidonee a giustificare l’applicazione della disposizione riguardo a tutte le fattispecie in concreto ipotizzabili (non a caso, infatti, talora la giurispruden-za civile è giunta a limitarne l’ambito applicativo solo in favore del lavoratore).

Tuttavia, secondo un convincente orientamento, il fondamento può individuarsi nelle diverse finalità cui sono preordinati, rispettivamente, l’istituto del preav-viso e quello delle ferie.

5.4.1. L’istituto del preavviso consente – ove la parte recedente sia il datore di lavoro – al lavoratore di confidare nella possibilità di disporre di un ragionevo-le spazio temporale per reperire una nuova occupazio-ne o per organizzare la propria esistenza nell’imminenza della cessazione del vincolo lavorati-vo, ovvero – nel caso in cui, invece, il diritto di reces-so sia esercitato dal lavoratore – al datore di sostituire con tempestività ed efficacia il dipendente recedente.

Occorre aggiungere che, di recente, la Corte di le-gittimità ha superato il risalente indirizzo giurispru-denziale che predicava la natura “reale” dell’istituto del periodo di preavviso (ritenendo quest’ultimo un presupposto indispensabile per la produzione degli ef-fetti dell’atto di recesso dal rapporto). Infatti, sulla ba-se di univoci dati normativi, è prevalso l’orientamento (riconducibile a Cass., S.U., 29 settembre 1994, n. 7914) che afferma l’efficacia meramente “obbligato-ria” del preavviso, con la conseguenza che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve immediata-mente (salvo l’obbligo di corrispondere l’indennità sostitutiva); al contrario, se la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, opta – avendone interesse – per la continuazione del rapporto lavorativo, ne protrae l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso, durante il cui decorso proseguo-no gli effetti del contratto, compresa ovviamente la maturazione delle ferie.

Viceversa, la giurisprudenza che condivideva la te-si della natura reale del periodo di preavviso ne argo-mentava ad esempio per concludere che ove, durante il suo decorso, fosse sopraggiunta una causa di so-spensione della prestazione lavorativa, ne sarebbe de-rivata la temporanea inefficacia della risoluzione, i cui effetti si sarebbero verificati al termine del conseguen-te periodo di differimento.

5.4.2. Diversamente, la finalità del diritto alle ferie è da sempre individuata nella necessità di garantire al lavoratore la reintegrazione delle energie psico-fisiche

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impiegate durante l’esecuzione della prestazione, non-ché di assicurare la sua partecipazione alla vita fami-liare e sociale e, più in generale, il soddisfacimento delle sue esigenze ricreativo-culturali.

5.4.3. Pertanto, il divieto di interferenza tra ferie e preavviso, previsto – pur con formulazione palese-mente infelice – dall’art. 2109, ultimo comma, c.c., si giustifica esclusivamente con lo scopo di evitare che il datore di lavoro, in caso di suo recesso, possa preten-dere di far fruire le ferie durante il periodo di preavvi-so, essendo quest’ultimo finalizzato anche alla ricerca di una nuova occupazione da parte del lavoratore che ha subito la risoluzione, non compatibile con le esi-genze ricreative che fondano il diritto alle ferie; del pari, la stessa norma intende evitare che il lavoratore, da cui muova l’atto di risoluzione, possa a sua volta pretendere di godere (“scontare” o “computare”) du-rante il termine di preavviso delle proprie ferie resi-due, in quanto vanificherebbe l’esigenza del datore di lavoro di ricevere una prestazione effettiva finalizzata al cosiddetto passaggio delle consegne.

5.4.4. La richiamata finalità del previsto divieto di sovrapposizione tra i giorni di ferie ed il periodo di preavviso, unitamente alla ritenuta natura reale di quest’ultimo, ha in passato consentito di argomentare nel senso che, non potendo dubitarsi che il periodo di preavviso lavorato comporti la maturazione del diritto al numero proporzionalmente correlato di giorni di fe-rie, “lo spostamento del termine finale del preavviso avviene ope legis” (Cass., Sez. lav., 21 novembre 2001, n. 14646), analogamente alle modalità con cui pacificamente si ritiene operare la sospensione del preavviso conseguente alla sopravvenuta malattia, ex art. 2110 c.c.

Peraltro, occorre evidenziare che il più recente pronunciamento intervenuto sul tema del rapporto tra periodo di preavviso e diritto al godimento delle ferie, pur muovendo dalla ritenuta efficacia obbligatoria del primo, ribadisce che durante il decorso del relativo termine “proseguano gli effetti del contratto. E, tra essi, il diritto del lavoratore di godere delle ferie e la maturazione del diritto al numero proporzionalmente correlato di giorni di ferie, sicché lo spostamento del termine finale del preavviso avviene ope legis, del tut-to analogamente a quanto ritenuto dalla più risalente giurisprudenza attributiva al preavviso di una natura reale” (Cass., Sez. lav., 17 gennaio 2017, n. 985).

In ogni caso, applicando i descritti orientamenti al-la fattispecie oggetto della richiesta di parere, la circo-stanza che penda il periodo di preavviso non costitui-sce ostacolo alla concessione delle ferie, con l’unica conseguenza che, in tal caso, ne deriva il differimento ope legis del termine finale.

5.5. Peraltro, occorre ricordare che le conclusioni in ordine alla natura obbligatoria o reale del preavviso di risoluzione conseguono alla ricostruzione sistemati-ca della disciplina legale e pattizia applicabile al rap-porto di lavoro (cfr. Cass., Sez. lav., ord. 26 ottobre 2018, n. 27294).

Orbene, nell’ambito del comparto enti locali, la previsione dell’art. 12, c. 5, c.c.n.l. del 9 maggio 2006, tuttora vigente, attribuisce alla parte che riceve la co-municazione di risoluzione del rapporto di lavoro la facoltà di risolverlo sia all’inizio, sia durante il perio-do di preavviso, con il necessario consenso della parte che ha inviato la medesima comunicazione.

Pertanto, le parti possono sempre accordarsi nel senso di eliminare del tutto ovvero ridurre il periodo di preavviso, risolvendo il rapporto di lavoro senza dover soggiacere al differimento legale del termine (dovuto alla fruizione di giorni di ferie) e senza alcun obbligo di corrispondere indennità pari all’importo della retribuzione spettante per il periodo di mancato preavviso.

5.6. Per completezza, si osserva che le peculiarità della disciplina del rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, oggi connotata dal divieto di corri-spondere “trattamenti economici sostitutivi” delle fe-rie non fruite in seguito alla “cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pen-sionamento e raggiungimento del limite di età”, intro-dotto dall’art. 5, c. 8, d.l. n. 95/2012 cit. (ovviamente, fatte salve le ipotesi sopra ricordate, in cui il divieto non opera), nonché la ricordata facoltà (prevista nei più importanti contratti di comparto) di rinuncia al pe-riodo di preavviso, potrebbero indurre a ritenere che, nel pubblico impiego, l’intervenuta fruizione – nelle more del decorso del termine di preavviso – di una o più giornate di ferie non determini, ope legis e salvo diverso accordo delle parti, il differimento del termine di cessazione del rapporto.

Invero, i predetti dati normativi, nel quadro della natura obbligatoria del preavviso, consentono di anco-rare esclusivamente alla volontà delle parti la discipli-na delle conseguenze dell’intervenuta sovrapposizione tra il periodo di preavviso e il godimento delle ferie.

Al riguardo si consideri, preliminarmente, che l’impossibilità di monetizzazione delle ferie non go-dute impone in capo al datore di lavoro il potere-dovere di adottare i provvedimenti di assegnazione delle ferie anche nel caso di comunicazione di recesso con preavviso da parte del lavoratore. E sebbene la Corte di giustizia ritenga che il rispetto dell’obbligo di assicurare al lavoratore un periodo annuale di ferie re-tribuite derivante, per il datore, dall’art. 7 della diretti-va 2003/88 non si estenda fino al punto di costringere quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente il relativo diritto, nel contempo si af-ferma che egli deve comunque assicurarsi che il lavo-ratore sia messo in condizione di esercitare tale diritto (Corte giust., Grande Sezione, 6 novembre 2018, C-619/16, causa Sebastian W. Kreuziger c. Land Berlin, punto 51). Ove poi, il datore di lavoro dimostri che sia stato il dipendente – “deliberatamente e con piena consapevolezza” – a non voler godere delle ferie, no-nostante sia stato messo nella condizione di esercitare in modo effettivo il proprio diritto, allora potrebbe prospettarsi la perdita del diritto di quest’ultimo di ot-tenere il pagamento delle ferie residue, una volta ces-

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sato il rapporto di lavoro (Corte giust., 6 novembre 2018 cit., punto 54).

Coerentemente, intervenuta la fruizione di ferie successivamente all’inizio di decorrenza del periodo di preavviso, sulle parti, nell’ambito di un comporta-mento che deve sempre essere ancorato al rispetto dei canoni di lealtà e correttezza, incombe il dovere di ve-rificare la sussistenza delle condizioni per esercitare concordemente la facoltà di rinuncia parziale o totale al periodo di preavviso (tenendo conto che essa è pre-vista nell’interesse principale della parte che riceve la comunicazione di risoluzione) o di differimento del termine.

In questa prospettiva, in caso di dissenso, ferma la cessazione del rapporto di lavoro per effetto del de-corso del termine di preavviso, non si determina alcun vuoto di tutela, restando in ogni caso azionabili, in fa-vore della parte che dimostri di aver subito ingiusto pregiudizio (il lavoratore o il datore, a seconda della concreta fattispecie), gli ordinari rimedi civilistici pre-visti dall’ordinamento, in primo luogo la tutela risarci-toria o l’obbligo di versamento dell’indennità sostitu-tiva di mancato preavviso.

L’indicata soluzione ermeneutica consentirebbe di superare agevolmente le difficoltà che sorgono nel tentativo sia di conciliare il differimento ope legis del termine con particolari ipotesi di risoluzione del rap-porto di lavoro (si pensi ai casi di pensionamento per raggiunti limiti di età) o con esigenze di interruzione non posticipata del rapporto meritevoli di tutela, sia di spiegare i motivi per i quali il divieto di sovrapposi-zione tra preavviso e ferie comporterebbe la parziale inoperatività della regola aurea che collega al decorso del preavviso l’effetto estintivo del rapporto di lavoro.

In ogni caso, a prescindere dalla ricostruzione si-stematica accolta, resta ferma la possibilità per il dato-re di lavoro di permettere il godimento delle ferie ma-turate dal lavoratore anche nel corso del periodo di preavviso, al fine di scongiurare il rischio della loro non consentita monetizzazione.

* * *

Puglia

72 – Sezione controllo Regione Puglia; parere 9 luglio 2019; Pres. Stanco, Rel. Rummo; Comune di Ortelle.

Enti locali – Comune – Personale – Spesa –Assunzioni personale – Scorrimento graduatorie – Modalità di applicazione. D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, art. 91; d. lgs. 25 maggio 2017, n. 75, modifiche e integrazioni al d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli artt. 16, cc. 1, lett. a), e 2, lett. b), c), d) ed e), e 17, c. 1, lett. a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), l. 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle am-ministrazioni pubbliche, art. 4; l. 30 dicembre 2018, n. 145, disposizioni per la formazione del bilancio an-

nuale e pluriennale dello Stato (legge di bilancio 2019), art. 1, cc. 360 ss.

Lo scorrimento delle graduatorie da parte dell’ente locale in un momento successivo alla loro approvazione trova dei limiti temporali di applicazio-ne nella disciplina vigente di tempo in tempo (nella fattispecie il consueto termine triennale è stato esteso in forza di quanto previsto dalla legge di bilancio del 2019 a ricomprendere le graduatorie risalenti all’anno 2010) e un criterio basilare da rispettare nel-le disposizioni recate dall’art. 91 del Tuel che impon-gono la necessaria identità, in termini di profili pro-fessionali, dei posti messi originariamente a concorso rispetto a quelli oggetto delle nuove esigenze assun-zionali espresse dallo stesso ente nella programma-zione triennale dei fabbisogni di personale.

Fatto – Con nota del 13 maggio 2019 il sindaco del Comune di Ortelle ha formulato una richiesta di parere ex art. 7, c. 8, l. 5 giugno 2003, n. 131 in mate-ria di interpretazione corretta dell’art. 91, c. 4, d.lgs. n. 267/2000 sull’utilizzo delle graduatorie concorsuali, alla luce delle linee di indirizzo sulla programmazione triennale del fabbisogno di personale. In particolare, nel richiamare l’art. 6 del d.lgs. n. 165/2001, come in-trodotto dall’art. 4 del d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 e le linee di indirizzo emanate dal Ministro per la sem-plificazione e la pubblica amministrazione dell’8 maggio 2018, anche in considerazione di quanto af-fermato dalla Sezione regionale di controllo per il Ve-neto con delib. n. 189/2018, il sindaco chiede se “sia ammissibile procedere, pur sempre nel rispetto delle capacità assunzionali previste a legislazione vigente e degli altri presupposti previsti dall’ordinamento, allo scorrimento di proprie graduatorie ancora vigenti per dare copertura a posti previsti nella programmazione triennale dei fabbisogni del personale, ma per i quali non ricorre il presupposto richiesto dall’art. 91, c. 4, d.lgs. n. 267/2000, vale a dire di posti che si siano resi vacanti e disponibili successivamente alla pubblica-zione della graduatoria che si intenderebbe scorrere”.

Diritto – (Omissis) Passando al merito, il parere ri-chiesto dal sindaco di Ortelle investe diversi aspetti relativi alle disposizioni e ai vincoli in materia di as-sunzioni che occorre preliminarmente richiamare. In particolare, i vincoli di spesa e assunzionali vigenti; le modalità di reclutamento nella pubblica amministra-zione (mobilità, scorrimento delle graduatorie in vigo-re), le novità introdotte dal Piano triennale dei fabbi-sogni di personale (Ptfp) e dalle relative linee guida ministeriali.

1. In primis, si ritiene necessario segnalare che, prima ancora di addivenire alla decisione della coper-tura di un posto vacante, l’ente locale deve verificare il rispetto della normativa in materia di vincoli di spe-sa e di vincoli assunzionali vigenti, sia di carattere ge-nerale sia di carattere locale.

In particolare, tra i vincoli di carattere generale:

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- l’adozione del Piano triennale dei fabbisogni del personale nel rispetto degli equilibri di finanza pubbli-ca e in osservanza delle linee di indirizzo ministeriali, ed eventuale rimodulazione della dotazione espressa in termini di spesa potenziale massima ai sensi del combinato disposto dei rimodulati cc. 2, 3 e 6-ter, d.lgs. n. 165/2001 come modificati dall’art. 4 del d.lgs. n. 75/2017.

- la comunicazione, da parte di ciascuna ammini-strazione pubblica, del predetto Piano triennale al Di-partimento della funzione pubblica, da effettuarsi en-tro trenta giorni dalla relativa adozione;

- la dichiarazione annuale da parte dell’ente, con apposito atto ricognitivo da comunicare al Diparti-mento della funzione pubblica, dalla quale emerga l’assenza di personale in sovrannumero o in eccedenza (art. 33 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Le amministra-zioni pubbliche che non adempiono alla ricognizione annuale sopra richiamata non possono effettuare as-sunzioni o instaurare rapporti di lavoro con qualunque tipologia di contratto pena la nullità degli atti posti in essere. Inoltre, la mancata attivazione delle procedure di cui al cit. art. 33 da parte del dirigente responsabile è valutabile ai fini della responsabilità disciplinare;

- l’approvazione del Piano triennale di azioni posi-tive in materia di pari opportunità di cui all’art. 48, c. 1, d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 recante “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’art. 6 della l. 28 novembre 2005, n. 246”. Il mancato adempimento della disposizione in esame determina il divieto di assunzioni ai sensi dell’art. 6, c. 6, d.lgs. n. 165/2001.

Accanto ai vincoli definibili di carattere generale, il legislatore ha previsto ulteriori vincoli ai quali pos-sono essere soggette le amministrazioni locali. Per ciò che riguarda le amministrazioni territoriali (non sog-gette ad autonomia differenziata) tali vincoli assun-zionali specifici sono identificati come segue:

-·rispetto dei termini per l’approvazione di bilanci di previsione, rendiconti, bilancio consolidato e del termine per l’invio alla banca dati delle amministra-zioni pubbliche ex art. 13, l. n. 196/2009, dei relativi dati, nei 30 giorni dalla loro approvazione, d.l. n. 113/2016, art. 9, c. 1-quinquies;

-·trasmissione delle informazioni richieste da parte degli enti beneficiari di spazi finanziari concessi in attuazione delle intese e dei patti di solidarietà ai sensi del d.p.c.m. n. 21 del 21 febbraio 2017 (art. 1, c. 508, l. n. 232/2016);

-·obbligo di contenimento della spesa di personale con riferimento al triennio 2011-2013 (enti ex soggetti al patto) ai sensi del combinato disposto dell’art. 1, cc. 557 e 557-quater, l. n. 296/2006 aggiunto, quest’ultimo, dall’art. 3, c. 5, d.l. n. 90/2014;

-·conseguimento di almeno il 3 per cento degli ac-certamenti delle entrate finali nell’esercizio: nell’anno successivo a quello di inadempienza è prevista la san-zione solo per assunzioni di personale a tempo inde-terminato); (art. 1, cc. 466 e 475, l. n. 232/2016);

-·invio sulla piattaforma «pareggiobilan-cio.mef.gov.it», entro il 31 marzo – o comunque entro il 30 maggio – della certificazione attestante i risultati conseguiti ai fini del saldo tra entrate e spese finali firmata digitalmente, dal rappresentante legale, dal re-sponsabile del servizio finanziario e dall’organo di re-visione economico-finanziaria, ove previsto (nel caso di rispetto del termine 30 maggio la sanzione è appli-cata solo per assunzioni di personale a tempo indeter-minato per i 12 mesi successivi, cioè fino al 31 marzo dell’anno successivo); (art. 1, c. 470, l. n. 232/2016);

-·assenza della condizione di deficitarietà struttura-le e di dissesto (art. 243, c. 1, Tuel).

2. Con riferimento alle modalità di reclutamento del personale, l’art. 6 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 al c. 1 prevede un ordine di priorità tra mobilità prima e reclutamento poi, disponendo che “le amministra-zioni pubbliche curano l’ottimale distribuzione delle risorse umane attraverso la coordinata attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del personale” e, all’art. 30 del suddetto decreto, è disciplinata la procedura della cosiddetta mobilità volontaria, dispo-nendo che i posti vacanti in organico debbono essere ricoperti prioritariamente mediante passaggio diretto di dipendenti. L’istituto della mobilità volontaria co-stituisce la prima fase obbligatoria da attuare per il re-clutamento dei pubblici dipendenti che il legislatore privilegia sia sotto l’aspetto ordinamentale che finan-ziario.

La Corte di cassazione (Sez. lav., 18 maggio 2017, n. 12559) ha affermato che l’assunzione di personale da parte delle amministrazioni (in questo caso, ente locale) resta comunque subordinata ad una serie di adempimenti e, tra questi, come visto, vi è il necessa-rio e preventivo ricorso alla procedura di mobilità che va attivata in via prioritaria anche quando l’amministrazione intenda ricorrere allo scorrimento di graduatoria (propria o di altra amministrazione). Di conseguenza, “l’esistenza di una graduatoria concor-suale ancora valida ed efficace, seppur possa far pro-pendere l’amministrazione locale ad escludere l’indizione di un nuovo concorso (non le amministra-zioni centrali che, come visto, sono obbligate a ricor-rervi), non prevale sulla mobilità volontaria”.

Il c. 2-bis dell’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001 si limi-ta a prevedere la prevalenza delle procedure di mobili-tà volontaria rispetto all’indizione di nuovi concorsi ma non rispetto invece allo scorrimento di graduatorie ancora vigenti (v. Cons. Stato, Sez. V, 31 luglio 2012, n. 4329). Infatti, altra possibilità consentita alle pub-bliche amministrazioni è l’utilizzo delle graduatorie vigenti, disciplinato per gli enti locali dall’art. 91, c. 4, d.lgs. n. 267/2000, motivato dalla necessità di ridurre la spesa pubblica, evitando l’indizione di nuovi con-corsi per il reclutamento del personale e contestual-mente attuare i principi di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa, tenuto conto del costo e dei tempi per l’esperimento di procedure concorsuali.

L’art. 91, c. 4, d.lgs. n. 267/2000 dispone che “per gli enti locali le graduatorie concorsuali rimangono

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efficaci per un termine di tre anni dalla data di pub-blicazione per l’eventuale copertura dei posti che si venissero a rendere successivamente vacanti e dispo-nibili, fatta eccezione per i posti istituiti o trasformati successivamente all’indizione del concorso medesi-mo”.

La disposizione configura in capo all’amministrazione locale la facoltà (e non l’obbligo) di attingere alle graduatorie efficaci per la copertura di posti resisi successivamente vacanti e disponibili, fatta eccezione di posti istituiti o trasformati successiva-mente all’indizione del concorso. Solo in taluni casi, il legislatore ha prescritto il medesimo scorrimento co-me un vero e proprio obbligo (v., ad esempio, art. 23, l. 29 gennaio 1986, n. 23).

La normativa in materia offre criteri interpretativi circa i presupposti dell’applicazione dell’istituto dello scorrimento della graduatoria vigente al fine di prov-vedere alla copertura di un posto vacante. Tale istituto era stato originariamente previsto per le ipotesi di co-pertura di posti che risultassero disponibili alla data di approvazione della graduatoria ovvero per i casi di ri-nuncia, decadenza o dimissioni dei vincitori, anche nel biennio.

In seguito, sono state emanate norme volte a valo-rizzare l’istituto dello scorrimento delle graduatorie. In particolare, l’art. 35, c. 5-ter, d.lgs. n. 165/2001 ha previsto che “Le graduatorie dei concorsi per il reclu-tamento del personale presso le amministrazioni pub-bliche rimangono vigenti per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione. Sono fatti salvi i periodi di vigenza inferiori previsti da leggi regionali”.

Le norme che si sono poi succedute hanno proro-gato più volte l’efficacia delle graduatorie dei concorsi con la finalità, da un lato, di contenere i costi derivanti dall’indizione di nuove procedure di reclutamento e, dall’altro, di tutelare le posizioni dei vincitori e/o ido-nei, potenzialmente penalizzati dai reiterati blocchi delle assunzioni nel pubblico impiego.

Da ultimo, la l. n. 145/2018, art. 1, cc. 360 ss. (legge di bilancio 2019), ha disciplinato le tempistiche di proroga delle graduatorie, limitandone la validità alle sole graduatorie dei concorsi approvate dall’1 gennaio 2010. In particolare:

a) la validità delle graduatorie approvate dall’1 gennaio 2010 al 31 dicembre 2013 è prorogata al 30 settembre 2019 ed esse possono essere utilizzate esclusivamente nel rispetto; 1) frequenza obbligatoria da parte dei soggetti inseriti nelle graduatorie di corsi di formazione e aggiornamento organizzati da ciascu-na amministrazione, nel rispetto dei princìpi di traspa-renza, pubblicità ed economicità e utilizzando le risor-se disponibili a legislazione vigente; 2) superamento, da parte dei soggetti inseriti nelle graduatorie, di un apposito esame-colloquio diretto a verificarne la per-durante idoneità;

b) la validità delle graduatorie approvate nell’anno 2014 è estesa fino al 30 settembre 2019;

c) la validità delle graduatorie approvate nell’anno 2015 è estesa fino al 31 marzo 2020;

d) la validità delle graduatorie approvate nell’anno 2016 è estesa fino al 30 settembre 2020;

e) la validità delle graduatorie approvate nell’anno 2017 è estesa fino al 31 marzo 2021;

f) la validità delle graduatorie approvate nell’anno 2018 è estesa fino al 31 dicembre 2021;

g) la validità delle graduatorie che saranno appro-vate a partire dall’1 gennaio 2019 ha durata triennale, ai sensi dell’art. 35, c. 5-ter, d.lgs. n. 165/2001. Le graduatorie approvate dopo l’1 gennaio 2019 dovran-no però essere utilizzate unicamente per la copertura dei posti messi a concorso.

Per quanto riguarda il limite allo scorrimento della graduatoria medesima contenuto nell’art. 91, c. 4, l. n. 267/2000, esso esplicitamente fa riferimento al fatto che i posti da coprire non siano di nuova istituzione o trasformazione (sul punto, v. Cons. Stato n. 4329/2012 e n. 4361/2014).

Lo stesso Consiglio di Stato, in Adunanza plenaria, con la pronuncia n. 14/2011 ha chiarito che non sussi-ste un diritto soggettivo all’assunzione in capo agli idonei per il solo fatto della disponibilità di posti in organico: l’amministrazione deve sempre motivare le forme prescelte per il reclutamento, tenendo conto delle graduatorie vigenti. Il Consiglio di Stato afferma che “l’amministrazione non è incondizionatamente tenuta alla copertura di posti resisi vacanti o disponi-bili in organico, ma deve comunque assumere una de-cisione organizzativa, correlata agli eventuali limiti normativi alle assunzioni, alla disponibilità in bilan-cio, alle scelte programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e a tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti nella concreta situazione, con la quale stabi-lire se procedere, o meno, al reclutamento del perso-nale”.

Si richiama, inoltre, anche il principio enunciato dalla Sezione regionale di controllo per l’Umbria in ordine all’utilizzo delle graduatorie ancora in vigore dell’ente medesimo che le ha approvate (v. Sez. contr. reg. Umbria, n. 28/2018 e n. 124/2013). L’approdo interpretativo della sezione umbra afferma in primo luogo l’inutilizzabilità delle graduatorie per la coper-tura di posti di nuova istituzione o trasformati. A detta conclusione sono pervenute numerose sentenze Tar (v. anche Tar Sardegna, Sez. I, 17 luglio 2013, n. 552 e Tar Basilicata, 6 aprile 2012, n. 171) la cui ratio mira ad escludere modifiche di organico successive al con-corso, finalizzate a favorire candidati già noti. Le de-liberazioni n. 124/2013 e n. 28/2018 cit., in relazione alle graduatorie vigenti relative a procedure concor-suali, precisano che “si apre al loro possibile utilizzo per i posti preesistenti, con le cautele imposte dalla intrinseca ragionevolezza della scelta, da esprimere mediante adeguata motivazione” Chiarendo che “ai fini del corretto uso del potere discrezionale di che trattasi, occorre anche un’attenta comparazione delle posizioni lavorative, con riferimento sia al “profilo ed alla categoria professionale, sia ad ogni altro elemen-to che connota e caratterizza profondamente i posti da coprire e quelli messi a concorso”, ivi comprendendo

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il diverso statuto che lega i rapporti di lavoro a tempo pieno ed a tempo parziale.

Lo scorrimento della graduatoria presuppone, inol-tre, che vi sia identità di posti tra quello oggetto della procedura che ha dato luogo alla graduatoria e la nuo-va esigenza assunzionale: il Tar Veneto con la senten-za n. 864/2011 ha ribadito che con riferimento al pro-filo e alla categoria professionale del posto che si in-tende coprire è necessario che essi siano corrisponden-ti a quelli per i quali è stato bandito il concorso la cui graduatoria si intende utilizzare. È illegittimo lo scor-rimento di una graduatoria esistente laddove sia ne-cessario selezionare professionalità diverse rispetto a quelle selezionate a mezzo del procedente concorso.

Questo è il principio espresso, da ultimo, dalla Corte di cassazione con sent. 21 marzo 2018, n. 7054. La Suprema Corte afferma che la decisione di avva-lersi dello scorrimento della graduatoria è equiparabile all’espletamento di tutte le fasi di una procedura con-corsuale, con identificazione degli ulteriori vincitori e che lo scorrimento deve essere disposto salvaguardan-do i principi sanciti dall’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001.

Nel caso di specie, la giunta comunale di un ente aveva disposto lo scorrimento di una graduatoria rela-tiva al concorso bandito ai fini dell’assunzione di istruttori contabili per andare a ricoprire posizioni di istruttori amministrativi.

Come già più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa, la preferenza espressa in termini gene-rali dall’ordinamento per lo scorrimento della gradua-toria incontra un limite nella necessità di selezionare professionalità rispondenti alle esigenze dell’amministrazione che, quindi, legittimamente in-dice una nuova procedura concorsuale nei casi in cui sia “mutato il contenuto professionale delle mansioni proprie del profilo lavorativo alla cui provvista si mi-ra” (v. anche Cons. Stato n. 3329/2017, nn. 5231 e 1120/2016, nn. 5792, 4584, 4330 e 1796/2015).

3. La Sezione del Veneto con la delib. n. 189/2018, richiamata dal sindaco di Ortelle, pur condividendo l’approdo interpretativo della Sezione regionale di controllo Umbria prima citato in merito all’inutilizzabilità delle graduatorie per la copertura di posti di nuova istituzione o trasformati, richiama l’evoluzione dinamica della normativa e, in particola-re, si è soffermata sulle innovazioni introdotte dall’art. 4 del d.lgs. n. 75/2017 e sulle emanande linee di indi-rizzo ministeriali per la predisposizione dei piani triennali dei fabbisogni di personale (Ptfp) da parte delle amministrazioni pubbliche (poi emanate con d.m. 8 maggio 2018), affermando che “il nuovo siste-ma, nella proiezione che ne fa il legislatore, dovrebbe essere caratterizzato dall’abbandono del concetto stesso di dotazione organica di tal che la distinzione [...] tra posti in organico resi disponibili in base a va-canze pregresse rispetto alle procedure concorsuali e posti di nuova istituzione, dovrebbe venir meno”.

La nuova disciplina, infatti, supera il tradizionale concetto di dotazione organica, considerato strumento rigido e inadeguato a rispondere alle necessità di fles-

sibilità e maggiore efficienza delle pubbliche ammini-strazioni e lo trasforma in spesa potenziale massima sostenibile e non valicabile, imposta come vincolo esterno dalla legge o da altre fonti, in relazione ai ri-spettivi ordinamenti (Corte conti, Sez. contr. reg. Pu-glia, nn. 111 e 141/2018). Per le regioni e gli enti lo-cali, sottoposti a tetti di spesa del personale, l’indicatore di spesa potenziale massima resta quello previsto dalla normativa vigente, ovvero il rispetto dei limiti contenuti nell’art. 1, cc. 557-quater e 562, l. n. 296/2006 (legge finanziaria 2007) con riferimento alla spesa del personale a tempo indeterminato.

Annualmente le amministrazioni possono, quindi, procedere ad una rimodulazione qualitativa e quantita-tiva della propria consistenza di personale, garantendo la neutralità finanziaria della rimodulazione. Nel Ptfp la dotazione organica va espressa in termini finanziari, partendo dall’ultima dotazione organica adottata e ri-costruendo il corrispondente valore di spesa potenzia-le. La declinazione delle qualifiche, categorie o aree, distinte per fasce o posizioni economiche si sposta nell’atto di programmazione annuale.

La Sezione delle autonomie con delib. n. 4/2019 ha confermato che «il concetto di dotazione organica viene superato da quello di dotazione di spesa poten-ziale e che [...] la messa a regime del nuovo sistema basato sull’effettivo fabbisogno di personale permet-terà di superare la regolazione delle consistenze at-traverso il rigido governo del “turn over” atteso an-che che viene prevista espressamente la disciplina per la garanzia degli equilibri di finanza pubblica e dei vincoli finanziari (artt. 6 e 6-ter d.lgs. n. 165/2001 e del cap. 2., par. 2.2, delle citate linee guida)».

Il principio cardine che è alla base della redazione del Ptfp è, infatti, l’ottimale impiego delle risorse pubbliche e distribuzione delle risorse umane, attuato mediante il ricorso ad una coordinata attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del personale seppur corra l’obbligo di sviluppare il piano nel rispet-to dei vincoli finanziari connessi con gli stanziamenti di bilancio e con quelli in materia di spesa del perso-nale in armonia, inoltre, con gli obiettivi definiti nel ciclo della performance.

In altri termini, il Pftp si configura come un atto di programmazione finanziaria, analogamente al bilancio pluriennale degli enti locali (d.lgs. n. 118/2011). Le linee di indirizzo ministeriali, in merito al principio dell’ottimale impiego delle risorse pubbliche, richia-mano le diverse strategie che le amministrazioni pos-sono porre in essere per raggiungere tale obiettivo: i processi di mobilità interna ed esterna; le eventuali progressioni tra le aree e le categorie del personale in servizio e, infine, il reclutamento dall’esterno, nel ri-spetto del regime delle assunzioni e dei vincoli.

Pertanto, se è vero che il superamento della dota-zione organica con il Ptfp e le relative rimodulazioni annuali rendono di fatto superata la staticità del con-cetto di pianta organica è altrettanto vero che restano fermi i vincoli normativi e le procedure di reclutamen-to del personale nella pubblica amministrazione.

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Nelle stesse citate linee guida ministeriali, inoltre, è precisato che la rimodulazione qualitativa e quantita-tiva della consistenza di personale dell’amministrazione effettuata nell’ambito del Ptfp “individuerà quindi volta per volta la dotazione di personale che l’amministrazione ritiene rispondente ai propri fabbisogni e che farà da riferimento per l’applicazione di quelle disposizioni di legge che as-sumono la dotazione o la pianta organica come pa-rametro di riferimento”.

La flessibilità annuale del fabbisogno del personale non appare inconciliabile con il divieto di cui all’art. 91, c. 4, Tuel, e né, soprattutto, appaiono essere venu-te meno le ragioni che hanno indotto il legislatore a escludere la possibilità di ricorrere alla graduatoria esistente per i posti istituiti o trasformati successiva-mente all’indizione del concorso, essendo ancora pre-sente l’esigenza di evitare che si possa strumentalmen-te rimodulare la dotazione di personale al fine di as-sumere idonei di cui è conosciuta l’identità.

La disciplina contenuta nell’art. 91, c. 4, Tuel, per-tanto, in assenza di modifiche espresse o di fenomeni di abrogazione implicita, risulta vigente e da osserva-re.

75 – Sezione controllo Regione Puglia; parere 25 lu-glio 2019; Pres. Stanco, Rel. Natali; Comune di Gru-mo Appula.

Enti locali – Comune – Corresponsione indennità di funzione – Dipendente a tempo determinato – Mancata opzione per l’aspettativa – Dimezzamento dell’indennità – Necessità. D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, artt. 81, 82.

L’ammontare dell’indennità di carica da attribuire ad un componente della Giunta comunale dipendente a tempo determinato che non abbia fatto richiesta di aspettativa, deve essere ridotto del 50 per cento. Nell’applicazione del dimezzamento risulta indifferen-te, a mente del disposto normativo, la natura del rap-porto di lavoro che lega il dipendente all’amministrazione sia esso a tempo determinato o indeterminato. (1)

(1) La Sezione regionale di controllo per la Puglia con la

deliberazione in commento (confermando, peraltro, l’orientamento precedentemente espresso nella delib. 1 febbraio 2013, n. 19) si inserisce in un apparente conflitto interpretativo sull’applicazione delle disposizioni recate dagli artt. 81 e 82 Tuel, ricostruendo in parte motiva la giurisprudenza contabile intervenuta sulla specifica materia. In particolare, sul punto la deliberazione cita le Sezioni riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva, che, con il parere n. 19/2013 reso in ordine all’operatività o meno del dimezzamento dell’indennità di fun-zione nei confronti di amministratori locali legati all’amministrazione da rapporti di lavoro a tempo determinato, hanno riconosciuto l’applicabilità dell’intero ammontare dell’anzidetta indennità a favore dei dipendenti che fossero nell’impossibilità materiale di optare per l’aspettativa per tutto

Fatto – Con le citate note, di contenuto sostan-zialmente identico, è stata formulata una richiesta di parere ex art. 7, c. 8 della l. 5 giugno 2003, n. 131 in materia di indennità di carica degli amministratori lo-cali. In particolare, premesso che:

il periodo del mandato, come appunto il personale con rapporto a tempo determinato che presti servizio nella regione, in forza di quanto disposto dall’art. 9, c. 8, l. reg. 24 giugno 1986, n. 31.

Allo stesso approdo è pervenuta la Sezione giurisdizionale Regione Puglia, valorizzando, nella fattispecie, il dettato dell’art. 60 Tuel, che reca disposizioni in materia di ineleggibi-lità e che, al c. 8, dopo aver fatto l’elencazione delle ipotesi di ineleggibilità a sindaco, presidente della provincia e consigliere comunale, prevede che non possano essere collocati in aspetta-tiva i dipendenti che siano stati assunti a tempo determinato. Ciò in considerazione dell’insanabile contrasto fra la natura temporanea del rapporto di lavoro, in cui il termine fissato rap-presenta elemento essenziale dell’accordo, e la possibilità di collocamento in aspettativa.

Sul punto, più recentemente è intervenuta la Sezione di controllo per la Liguria, nel parere n. 109 del 13 settembre 2018, ove ha affermato l’obbligo per l’amministrazione comu-nale, pena la possibile configurazione di danno erariale, di ap-plicare la riduzione del 50 per cento all’indennità di funzione da corrispondere all’amministratore che svolga un incarico re-tribuito ed abbia scelto, al contempo, di non prendere il periodo di aspettativa previsto dalla legge. Alle stesse conclusioni è pervenuta la Sezione di controllo per il Veneto (delib. 10 aprile 2019, n. 88), interpellata su analoga questione.

Sebbene, dunque, siano pervenute ad approdi differenti, le citate pronunce fanno capo ad un comune iter argomentativo, in cui risulta centrale, innanzitutto, la funzione dell’indennità di carica che, in vista del migliore perseguimento degli interessi pubblici, viene riconosciuta all’amministratore allo scopo di consentirgli l’espletamento delle proprie funzioni con piena indipendenza economica e che non trova giustificazione piena allorquando lo stesso abbia, per sua scelta, deciso di rinunciare all’aspettativa, che pure rappresenta un interesse potestativo comprimibile (come accaduto nella legislazione siciliana) solo a fronte di altri interessi altrettanto rilevanti e degni di tutela da parte dell’ordinamento. Come precisa la stessa Sezione Veneto, riprendendo quanto espresso dalla stessa Sezione Puglia nella delib. n. 19/2013, cit., la ratio della disposizione recata dall’art. 82 Tuel è quella di stimolare gli amministratori all’esercizio del proprio mandato a tempo pieno, riducendo proporzionalmente l’importo dell’indennità in ragione dell’eventuale ridotto impe-gno dell’amministratore che continui a dedicare le proprie energie al lavoro svolto in precedenza sia esso a tempo inde-terminato che a tempo determinato. Di tal che, il dimezzamento dell’indennità prevista per il dipendente che non richieda l’aspettativa, costituisce una misura tesa ad impedire la fruizio-ne del doppio emolumento stipendiale e indennitario. Inoltre, fondamentale nel ragionamento seguito dalle sezioni regionali di controllo appare la manifestazione di intenti da parte del di-pendente, perché è proprio a tale manifestazione che risultano collegati gli effetti delle disposizioni che impongono il dimez-zamento, inapplicabili solo lì dove tale manifestazione vi sia stata a prescindere dalla concessione o meno da parte dell’amministrazione. Per la Regione Siciliana, nel caso di spe-cie, non è una scelta del dipendente richiedere o meno l’aspettativa per dedicare tutte le energie al mandato conferito-gli, ma si tratta di un’imposizione del legislatore regionale che non può ripercuotersi negativamente sullo stesso dipendente, la cui manifestazione di volontà resta centrale nell’attribuzione per intero dell’indennità di funzione. [P. COSA]

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- avendo il comune una popolazione compresa fra 10.001 e 20.000 abitanti, le indennità degli ammini-stratori comunali, secondo la tabella A del d.m. n. 119/2000, sono: i) euro 2.893 per il sindaco; ii) euro 1.157 per il vicesindaco (40 per cento del sindaco); iii) euro 868 per gli assessori (30 per cento del sindaco);

- in linea con il periodo 2010-2015, con delibera di giunta n. 111 del 30 luglio 2015 e con determina diri-genziale n. 62 del 28 agosto 2015 l’indennità del sin-daco è stata ridotta per il quinquennio 2015-2020 del 48 per cento rispetto alla misura del d.m. n. 119/2000, con conseguente determinazione delle citate indennità nei seguenti importi: i) euro 1.500 per il sindaco; ii) euro 825 per il vicesindaco (40 per cento del sindaco); iii) euro 675 per gli assessori (30 per cento del sinda-co);

- la citata delibera di giunta n. 111/2015 ha altresì previsto l’ulteriore riduzione del 50 per cento per i la-voratori dipendenti non in aspettativa non retribuita, per una spesa complessiva non superiore al totale dell’importo teorico erogabile;

- sussiste incertezza sull’interpretazione dell’art. 82, c. 1, d.lgs. n. 267/2000, alla luce degli orientamen-ti espressi dal Ministero dell’interno (massima n. 15900/Tu/00/82 del 15 dicembre 2009) e dalla Corte dei conti (Sez. reg. contr. Puglia, n. 19/2013; Sez. reg. giur. Puglia, n. 414/2015; Sez. reg. contr. Veneto, n. 88/2019);

è stato chiesto di conoscere se a un componente della giunta comunale con contratto di lavoro a tempo determinato sia possibile riconoscere l’indennità di carica intera nei periodi di costanza del rapporto di la-voro, nel rispetto della ratio dell’art. 82, c. 1, d.lgs. n. 267/2000; ciò in considerazione del fatto che la giunta ha già optato per la diminuzione delle indennità dei suoi componenti al di sotto dei limiti di legge e che la natura del rapporto di lavoro a tempo determinato esclude la possibilità di fruire dell’aspettativa per il mandato elettorale, in quanto il collocamento in aspet-tativa si porrebbe in conflitto insanabile con la prefis-sione di un termine, elemento essenziale di un rappor-to di lavoro a tempo determinato.

Diritto – (Omissis) 2. Passando al merito, vengono in rilievo gli artt. 81 e 82 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Tuel), collocati nella parte I, titolo III, capo IV (“Status degli amministratori locali”).

L’art. 81 (rubricato “Aspettative”) prevede che “I sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consi-gli circoscrizionali dei comuni di cui all’art. 22, c. 1, i presidenti delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di comuni e province che siano lavoratori dipendenti possono es-sere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato” (primo periodo).

La disposizione configura un diritto (potestativo) degli amministratori locali ivi elencati che siano lavo-ratori dipendenti di essere collocati in aspettativa, fun-

zionale all’attuazione del dettato costituzionale in te-ma di esercizio di funzioni pubbliche elettive (art. 51, c. 3, Cost.: “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elet-tive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”).

L’art. 82 (rubricato “Indennità”) rimette a un de-creto del Ministro dell’interno – di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programma-zione economica e sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali – la determinazione dell’indennità di funzione, nei limiti fissati dallo stesso articolo, per “il sindaco, il presidente della provincia, il sindaco me-tropolitano, il presidente della comunità montana, i presidenti dei consigli circoscrizionali dei soli comuni capoluogo di provincia, i presidenti dei consigli co-munali e provinciali, nonché i componenti degli orga-ni esecutivi dei comuni e ove previste delle loro arti-colazioni, delle province, delle città metropolitane, delle comunità montane, delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali”, stabilendo che “Tale indenni-tà è dimezzata per i lavoratori dipendenti che non ab-biano richiesto l’aspettativa” (c. 1).

Il decreto ministeriale prefigurato dall’art. 82 Tuel non è stato sin qui emanato; pertanto, la disciplina in materia continua a essere quella del d.m. 4 aprile 2000, n. 119, con cui è stata data attuazione all’art. 23 della l. 3 agosto 1999, n. 265 (abrogato dall’art. 274 Tuel e ripreso nei suoi contenuti dall’art. 82 Tuel).

Come chiarito da questa sezione, la ratio dell’art. 82, c. 1, Tuel è quella di “indurre gli amministratori ad esercitare a tempo pieno il proprio mandato, dimi-nuendo forfettariamente l’indennità loro spettante in ragione del prevedibile minore impegno che dediche-rebbero all’esercizio della funzione pubblica, nel caso optino per lo svolgimento di altra attività lavorativa” (delib. n. 19/2013).

3. A fronte del prescritto dimezzamento dell’indennità di funzione per i lavoratori dipendenti che non abbiano richiesto l’aspettativa, la questione posta attiene all’operatività o meno del dimezzamento nei confronti di amministratori locali che siano parte di un rapporto di lavoro a tempo determinato.

4. Pronunciandosi su un quesito relativo all’indennità da corrispondere a un assessore comuna-le svolgente attività di supplente, con contratto a tem-po determinato, presso un istituto scolastico, il Mini-stero dell’interno ha chiarito che “Poiché ratio di detta norma (art. 82, c. 1, Tuel) è quella di differenziare il trattamento economico tra i soggetti che si trovano in situazioni diverse, ovvero tra quelli cui la legge rico-nosce il diritto di porsi in aspettativa non retribuita e quelli che non possono avvalersi di tale istituto, l’indennità va corrisposta nella misura intera all’amministratore che non può richiedere il colloca-mento in aspettativa”; e poiché i contratti di lavoro del comparto scuola non prevedono la possibilità di con-cessione di periodi di aspettativa al personale assunto a tempo determinato, all’assessore compete l’indennità di funzione nella misura intera per il pe-

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riodo corrispondente all’incarico di docente (Class. n. 15900/Tu/00/82 del 15 dicembre 2009). Tale posizio-ne è stata successivamente più volte ribadita: cfr. Class. n. 15900/Tu/00/82 dell’8 aprile 2010 relativa a un assessore svolgente attività lavorativa prevalente-mente in regime di collaborazione autonoma, con l’aggiunta di occasionali prestazioni lavorative, in qualità di insegnante, di natura subordinata a part ti-me; più di recente, Class. n. 15900/TU/00/82 del 16 aprile 2014, secondo cui “La ratio di tale disposizione è di differenziare il trattamento economico tra i sog-getti che si trovano in situazioni diverse, ossia tra quelli cui la legge riconosce il diritto di porsi in aspettativa non retribuita e quelli che non possono avvalersi di tale facoltà quali i lavoratori autonomi, i disoccupati, gli studenti, i pensionati e, come nel caso di specie, i lavoratori dipendenti posti in cassa inte-grazione straordinaria e sospesi dal lavoro per la du-rata dell’applicazione di detta misura, cui spetterà l’indennità di funzione nella misura intera”.

5. Il giudice contabile ha avuto modo di esprimersi in più occasioni sulla questione di che trattasi.

5.1. Nel 2013 le Sezioni riunite per la Regione Si-ciliana in sede consultiva sono state investite del que-sito relativo alla possibilità di applicare il dimezza-mento dell’indennità di carica ai soggetti che, essendo dipendenti con contratto di diritto privato a tempo de-terminato, siano impossibilitati a chiedere di essere collocati in aspettativa; ciò alla luce dell’art. 19, c. 2, l. reg. n. 30/2000 che, analogamente all’art. 82, c. 1, Tuel, rimette a un regolamento del presidente della regione la determinazione dell’indennità di funzione per gli amministratori locali, con la precisazione che “Tale indennità di funzione è dimezzata per i lavora-tori dipendenti che non abbiano richiesto l’aspettativa”.

In tale circostanza le Sezioni riunite siciliane han-no affermato che: “il legislatore ha inteso valorizzare, ai fini della riduzione dell’emolumento, il momento dell’opzione da parte del soggetto interessato e non quello decisorio riferibile all’ente che l’aspettativa deve concedere, anche in considerazione della circo-stanza che tale aspettativa viene si configurata come un vero e proprio diritto potestativo (Corte conti, Sez. contr. reg. Emilia-Romagna, n. 24/2011), ma non può essere a priori escluso che speciali disposizioni di legge possano comprimere tale diritto, in ragione di prevalenti interessi pubblici o di valutazioni comun-que consentite e rimesse alla discrezionalità del legi-slatore in relazione al bilanciamento di altri interessi e valori costituzionalmente garantiti.

È ciò che accade in Sicilia in forza dell’art. 9, c. 8, l. reg. 24 giugno 1986, n. 31, il quale espressamente prevede che non possano essere collocati in aspettati-va i dipendenti a tempo determinato.

Da ciò consegue che il dipendente a tempo deter-minato non può esercitare alcuna opzione e tale im-pedimento, non riferibile ad una sua scelta ma alle superiori determinazioni dello stesso legislatore, non può farsi ridondare a suo discapito, in quanto è lo

stesso legislatore che pone quale presupposto del di-mezzamento la scelta del lavoratore, scelta che non può prescindere dalla circostanza che l’ordinamento effettivamente la preveda.

Nel caso in cui, pertanto, come quello sottoposto all’esame di questa Corte, il dipendente non goda, a priori, della possibilità di opzione, e ciò non per vo-lontà sua o di altri soggetti dell’ordinamento ma per decisione dello stesso legislatore, deve ritenersi che non possa neppure farsi applicazione, nei suoi con-fronti, della norma che prevede il dimezzamento dell’indennità di carica previsto solo per coloro che abbiano scelto (e non che gli sia stato imposto legisla-tivamente) di non avvalersi della possibilità di essere collocati in aspettativa” (Corte conti, Sez. riun. contr. reg. Siciliana, n. 26/2013).

5.2. Nel 2015 le conclusioni delle Sezioni riunite siciliane sono state richiamate e condivise dalla Se-zione giurisdizionale per la Regione Puglia, che ha statuito che il dimezzamento dell’indennità di funzio-ne ex art. 82, c. 1, Tuel non opera nei confronti del la-voratore a tempo determinato.

A tale conclusione la sezione è pervenuta valoriz-zando l’art. 60, c. 8, Tuel (di tenore identico a quella dell’art. 9, c. 8, l. reg. Siciliana n. 31/1986 sopra cita-to); disposizione che in tema di ineleggibilità alle ca-riche di sindaco, presidente della provincia, consiglie-re comunale, metropolitano, provinciale e circoscri-zionale – dopo l’elencazione delle cause di ineleggibi-lità (c. 1) e la previsione di inefficacia di alcune di es-se ove l’interessato cessi dalle funzioni, tra l’altro, per collocamento in aspettativa non retribuita (c. 3) – pre-vede che “Non possono essere collocati in aspettativa i dipendenti assunti a tempo determinato”.

Secondo i giudici della responsabilità contabile pugliesi, “Non può revocarsi in dubbio, invero, che la diversità ontologica tra il rapporto di lavoro a tempo determinato e quello a tempo indeterminato esclude che il dipendente assunto a tempo determinato abbia titolo a fruire dell’aspettativa per mandato elettorale, considerato che il collocamento in aspettativa si por-rebbe in conflitto insanabile con la prefissione di un termine, che è elemento essenziale del rapporto, giac-ché la sospensione dell’efficacia verrebbe ad incidere, prorogandola, sulla durata originariamente pro-grammata in ragione di esigenze temporanee”; “Non v’è chi non veda, invero, che assoggettare alla mede-sima disciplina la situazione del lavoratore a tempo indeterminato che ha facoltà di chiedere l’aspettativa, e cioè di essere esonerato dal rendere la prestazione lavorativa conservando, nel contempo, il rapporto di lavoro, a quella del lavoratore a tempo determinato, il quale, non avendo la facoltà di chiedere l’aspettativa, potrebbe esonerarsi dal rendere la prestazione ogget-to del rapporto di lavoro solo ponendovi prematura-mente termine, si risolverebbe in una sostanziale vio-lazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3, c. 1, Cost, che, così come impone di trattare in manie-ra eguale situazioni eguali del pari e specularmente

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impone di trattare in maniera razionalmente diversa situazione diverse” (sent. n. 414/2015).

5.3. Chiamata a fornire un parere sul dimezzamen-to o meno dell’indennità di funzione nei confronti di un amministratore che abbia ricevuto un incarico part time a tempo determinato, la Sezione regionale di con-trollo per la Liguria – dopo aver sostenuto, in linea con la Sezione regionale di controllo per la Puglia (de-lib. n. 19/2013, cit.), che la ratio dell’art. 82, c. 1, Tuel consista nel promuovere e riconoscere, compensando-la, la totale dedizione dell’amministratore pubblico al perseguimento degli interessi della collettività, con-sentendogli di percepire somme in grado di assicurar-gli il necessario grado di indipendenza economica per tutto il periodo di esercizio delle funzioni – ha precisa-to che quella medesima ratio “viene ad assumere mi-nore pregnanza allorquando il singolo assessore già percepisca un proprio stipendio come lavoratore di-pendente, avendo scelto di non prendere il periodo di aspettativa previsto dalla legge”; con la conseguenza che “il venire meno delle impellenti necessità di so-stentamento economico, giustifica la riduzione dell’indennità al 50 per cento”.

Secondo la sezione, a tale conclusione non è osta-tivo che il rapporto di lavoro sia a tempo determinato e parziale, non prevedendo sul punto il dato legislativo nessuna distinzione; pertanto il comune è “tenuto a ridurre del 50 per cento l’ammontare dell’indennità dovuta all’amministratore che svolga comunque un incarico retribuito [...] pena, altrimenti, la concretiz-zazione di un possibile danno erariale” (delib. n. 109/2018).

Le conclusioni richiamate sono state condivise di recente dalla Sez. contr. reg. Veneto, n. 88/2019.

6. La ricostruzione effettuata consente di escludere il prospettato contrasto di orientamenti del giudice contabile sulla questione sottoposta alla sezione.

6.1. Posto il dimezzamento dell’indennità “per i lavoratori dipendenti che non abbiano richiesto l’aspettativa” (art. 19, c. 2, l. reg. Siciliana n. 30/2000 e art. 82, c. 1, Tuel), le Sezioni riunite siciliane e la Sezione giurisdizionale pugliese hanno ritenuto che, ove la facoltà di chiedere il collocamento in aspettati-va sia esclusa da una disposizione di legge, il dimez-zamento non potrebbe operare.

Il che, in astratto, è certamente corretto, sebbene la posizione espressa dai collegi siciliano e pugliese sia frutto della ritenuta applicabilità, all’ambito delle in-dennità di funzione, di disposizioni (art. 9, c. 8, l. reg. n. 31/1986 e art. 60, c. 8, Tuel) che, solo in relazione al diverso ambito dell’ineleggibilità a determinate ca-riche di amministratore locale, sanciscono l’impossibilità per i lavoratori dipendenti a tempo de-terminato di essere collocati in aspettativa.

6.2. Sempre facendo perno sulla facoltà di chiedere il collocamento in aspettativa, le conclusioni delle se-zioni Liguria e Veneto si muovono, condivisibilmente, all’interno dell’unica disciplina rilevante in materia, ovvero quella dello status degli amministratori locali.

In particolare, sulla base di un’interpretazione teologi-ca dell’art. 82, c. 1, Tuel (le cui finalità sono corretta-mente individuate nell’assicurare all’amministratore le risorse per esercitare le sue funzioni in condizione di indipendenza economica), le due sezioni hanno ritenu-to irrilevante la distinzione fra lavoro dipendente a tempo determinato e indeterminato; ciò sul presuppo-sto che, a fronte del diritto all’aspettativa ex art. 81 Tuel, l’unica condizione per l’operare del dimezza-mento dell’indennità sia integrata dalla scelta dell’interessato di non chiedere il collocamento in aspettativa, come reso manifesto dal passaggio della delibera ligure in cui si afferma che la percezione di uno stipendio come lavoratore dipendente da parte dell’assessore, unitamente al fatto che questi abbia “scelto di non prendere il periodo di aspettativa pre-visto dalla legge”, affievolisce le finalità richiamate dall’art. 82, c. 1, Tuel.

7. Alla luce di quanto precede, è possibile fornire risposta al quesito nei termini seguenti.

L’art. 81 Tuel afferma il diritto degli amministrato-ri a essere collocati in aspettativa non retribuita se la-voratori dipendenti, senza alcuna distinzione per la tipologia del relativo rapporto (a tempo pieno o par-ziale, indeterminato o determinato).

Solo nelle specifiche ipotesi di ineleggibilità (ad esempio, i dipendenti dell’ente locale per il rispettivo consiglio) previste nell’art. 60 Tuel il legislatore ha posto il divieto di collocare in aspettativa i dipendenti a tempo determinato; tale divieto, per la natura ecce-zionale della norma, non può estendersi oltre i casi in esso espressamente considerati.

Non è quindi pertinente richiamare, come fatto in sede di formulazione del quesito, l’argomentazione giurisprudenziale che, in tema di ineleggibilità, ha in-dividuato, a fondamento della scelta legislativa di escludere l’aspettativa per i rapporti di lavoro a tempo determinato, l’incompatibilità dell’istituto con la natu-ra di tale tipologia di contratto, connotato dalla prefis-sione di un termine.

L’esposto orientamento, in quanto formatosi su tali particolari casi e sulla ragionevolezza delle scelte del legislatore nel bilanciamento degli interessi coinvolti nella situazione relativa ai candidati a determinate ca-riche elettive (v., in particolare, Cost. n. 109/2013), conduce, ove ritenuto estensibile agli amministratori eletti, a un’applicazione del diritto sancito dall’art. 81 Tuel ristretta al solo rapporto a tempo indeterminato, in contrasto con il principio di cui all’art. 51 Cost., c. 3.

Ne consegue che, ai fini del dimezzamento dell’indennità di funzione, è indifferente la natura in-determinata o meno del rapporto di lavoro dipendente, rilevando unicamente la circostanza che l’amministratore, avendo il diritto a essere collocato in aspettativa non retribuita, non ne abbia fatto richiesta.

* * *

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Sardegna

34 – Sezione controllo Regione Sardegna; parere 3 luglio 2019; Pres. Cabras, Rel. Lucarini; Comune di Sanluri.

Società – Comune – Società partecipate – Ammini-stratore – Compenso – Tetto di spesa – Oneri pre-videnziali – Rilevanza ai fini del raggiungimento del tetto di spesa. D.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, art. 4, c. 4; d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, t.u. in materia di società a partecipazione pub-blica, art. 11, c. 6.

Ai fini della determinazione del trattamento eco-nomico onnicomprensivo erogabile annualmente in favore degli amministratori di una società controllata, il tetto di spesa deve essere determinato calcolando il complesso delle voci di spesa a carico del bilancio della società e, in particolare, gli oneri previdenziali sostenuti in adempimento a specifici obblighi di legge, di natura fiscale, previdenziale ovvero assistenziale. (1)

(1) Sui limiti al trattamento economico degli ammini-

stratori delle società controllate

Nella fattispecie oggetto dell’istanza di parere, la Sez. contr. reg. Sardegna ha ritenuto che, ai fini dell’applicazione dell’art. 4, c. 4, d.l. n. 95/2012 (a tutt’oggi contenente il limite massimo, in senso diacronico, del trattamento economico ero-gabile in favore degli amministratori delle società a controllo pubblico, in attesa dell’emanazione del d.m. attuativo dell’art. 11, c. 6, d.lgs. n. 175/2016) debba essere considerato il costo globalmente sostenuto dall’ente societario per la remunerazio-ne, indipendentemente dal mutamento del regime giuridico (la-voratore dipendente ovvero autonomo) rilevante ai fini della contribuzione previdenziale.

La disposizione in commento, introdotta dall’art. 16, c. 1, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, prevede che, a decorrere dall’1 gennaio 2015, il costo an-nuale sostenuto per i compensi degli amministratori delle socie-tà controllate non possa superare l’80 per cento del costo com-plessivamente sostenuto nell’anno 2013.

In relazione al limite retributivo del d.l. n. 95/2012, per l’affermazione secondo cui il tetto dell’80 per cento della spesa sostenuta nel 2013 dalle società partecipate da pubbliche am-ministrazioni per i compensi degli amministratori si applica al trattamento economico complessivamente considerato, com-prensivo sia del compenso fisso che della eventuale indennità di risultato, v. Corte conti, Sez. contr. reg. Lombardia, 1 marzo 2016, n. 64, in questa Rivista, 2016, fasc. 1-2, 149, in tal senso anche Sez. contr. reg. Sardegna, 24 maggio 2018, n. 20.

Sostiene che, ai fini del tetto di spesa previsto per la remu-nerazione dell’amministratore di una società interamente dete-nuta o controllata da un ente locale, non rilevano invece i costi dovuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministratore (per esigenze istituzionali) Sez. contr. reg. Liguria, 25 ottobre 2016, n. 90, ivi, 2016, fasc. 5-6, 202.

Per la determinazione del compenso massimo erogabile in assenza di una spesa di natura analoga per l’anno 2013 Sez. contr. reg. Veneto, 5 febbraio 2018, n. 31.

Premesso – Il consiglio delle autonomie locali del-la Regione autonoma Sardegna, con la nota indicata in epigrafe, ha trasmesso a questa sezione una richiesta di parere dell’8 maggio 2019, formulata dal sindaco del Comune di Sanluri ai sensi dell’art. 7, c. 8, l. n. 131/2003, ritenendola ammissibile.

L’ente locale pone alla sezione un quesito inerente alla determinazione del limite al trattamento economi-co degli amministratori di società a controllo pubbli-co, con particolare riferimento alla componente previ-denziale del trattamento medesimo.

Viene chiesto, in particolare, se “l’importo cui fare riferimento, ai fini del rispetto della norma che impo-ne che il costo annuale sostenuto per i compensi degli amministratori delle società a controllo pubblico non sia superiore all’80 per cento del costo complessiva-mente sostenuto nell’anno 2013, deve essere il com-penso erogato agli amministratori della stessa società nel 2013 al lordo dei contributi previdenziali e assi-stenziali e degli oneri fiscali a carico dei beneficiari, oppure deve essere la spesa totale sostenuta dalla so-cietà per gli amministratori nel 2013 comprensiva an-che dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico della società”.

Nella richiesta di parere il sindaco, dopo aver effet-tuato un sintetico riferimento alla pertinente normativa (art. 11, cc. 6 e 7, d.lgs. n. 175/2016 e all’art. 4, c. 4, d.l. n. 95/2012) premette che “la spesa che una socie-tà sostiene per un proprio amministratore è articolata in modo diverso in relazione al fatto che l’amministratore sia un soggetto lavoratore autonomo appartenente ad una categoria professionale […] e quindi sia obbligatoriamente iscritto alla cassa previ-denziale di riferimento, abbia un’altra copertura pre-videnziale obbligatoria o sia privo di altra copertura previdenziale”.

Vengono poi esemplificati, mediante apposita ta-bella, tre distinte ipotesi di posizione previdenziale dell’ipotetico amministratore unico: iscrizione a ente previdenziale di professione liberale; altra iscrizione previdenziale; nessuna iscrizione previdenziale. Per ciascuna ipotesi, vengono illustrati i calcoli che, nella prospettazione del comune richiedente, si dovrebbero eseguire per determinare il limite del compenso ero-gabile sulla base del criterio indicato dall’art. 4, c. 4, d.l. n. 95/2012.

Nelle premesse della richiesta di parere, inoltre, viene evidenziata la possibilità che la posizione previ-denziale dell’amministratore unico del 2019 non sia identica a quella dell’amministratore del 2013, anche in ragione di una riferita variazione delle aliquote con-tributive intervenuta dal 2013 al 2019, ritenendo per-

Per l’inderogabilità del limite normativo fissato in base al

d.l. n. 95/2012 anche per il caso di aumento del fatturato della società controllata, e delle conseguenti responsabilità dell’amministratore, Sez. contr. reg. Basilicata, 29 marzo 2018, n. 10. [A. LUBERTI]

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ciò indispensabile stabilire quale deve essere il dato numerico omogeneo cui fare riferimento.

In proposito, sostiene il sindaco che “mentre il ri-ferimento è chiaro per quanto riguarda il limite mas-simo dei compensi, essendo stato individuato in euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del benefi-ciario, quindi non includendo nei 240 mila euro i con-tributi previdenziali e assistenziali e gli oneri fiscali a carico della società, quando si fissa il costo comples-sivo massimo [la normativa di riferimento: n.d.r.] non indica con chiarezza quale deve essere l’importo del 2013 cui fare riferimento”.

Merito – (Omissis) La diffusione dello strumento societario nel settore pubblico ha assunto, nel tempo, dimensioni considerevoli, con conseguenze indirette sul bilancio del socio pubblico e un generalizzato fe-nomeno di espansione della spesa, per arginare il qua-le il legislatore è intervenuto a più riprese, introducen-do regole volte a contenere la spesa di funzionamento degli organismi partecipati e, ancor prima, il numero degli stessi, potendo oggi le amministrazioni pubbli-che detenere partecipazioni solo in società “stretta-mente necessarie” al perseguimento delle proprie fina-lità istituzionali e solo per il compimento di determi-nate attività, analiticamente indicate dall’art. 4 del d.lgs. n. 175/2016 recante il t.u. in materia di società a partecipazione pubblica (Tusp).

L’obiettivo del contenimento della spesa di fun-zionamento delle società in mano pubblica è stato per-seguito, dal legislatore nazionale, mediante la riduzio-ne del numero dei componenti dei consigli di ammini-strazione – di regola “monocratico” secondo l’innovativa previsione di cui all’art. 6, c. 2, Tusp – e l’introduzione di limiti al trattamento economico on-nicomprensivo degli amministratori e degli altri orga-ni sociali, dirigenti e dipendenti della società control-lata, per come oggi previsto dall’art. 11, c. 6, del men-zionato d.lgs. n. 175/2016.

L’introduzione di un limite al trattamento econo-mico degli amministratori di società partecipate è stato introdotto, per la prima volta, dall’art. 1, c. 725, legge finanziaria n. 296/2006, oggi abrogato, secondo cui “nelle società a totale partecipazione di comuni o province, il compenso lordo annuale, onnicomprensi-vo, attribuito al presidente e ai componenti del consi-glio di amministrazione, non può essere superiore per il presidente al 70 per cento e per i componenti al 60 per cento delle indennità spettanti, rispettivamente, al sindaco e al presidente della provincia ai sensi dell’art. 82 del t.u. di cui al d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267”.

Il richiamato tetto di spesa, unitamente all’analogo limite previsto dal successivo c. 728 per gli ammini-stratori di società miste, è stato abrogato dal d.lgs. n. 175/2016, il cui art. 11, c. 6, ha introdotto un nuovo limite ai compensi degli amministratori di società con-trollate, esteso agli altri organi sociali oltre che ai diri-genti e dipendenti della controllata medesima.

Quest’ultima disposizione, in particolare, stabilisce che “con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze […] per le società a controllo pubblico sono definiti indicatori dimensionali quantitativi al fine di individuare fino a cinque fasce per la classificazione delle suddette società. […] Per ciascuna fascia è de-terminato, in proporzione, il limite dei compensi mas-simi al quale gli organi di dette società devono fare riferimento, secondo criteri oggettivi e trasparenti, per la determinazione del trattamento economico an-nuo onnicomprensivo da corrispondere agli ammini-stratori, ai titolari e componenti degli organi di con-trollo, ai dirigenti e ai dipendenti, che non potrà co-munque eccedere il limite massimo di euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali e assisten-ziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario, te-nuto conto anche dei compensi corrisposti da altre pubbliche amministrazioni o da altre società a con-trollo pubblico. Le stesse società verificano il rispetto del limite massimo del trattamento economico annuo onnicomprensivo dei propri amministratori e dipen-denti fissato con il suddetto decreto. Sono in ogni caso fatte salve le disposizioni legislative regolamentari che prevedono limiti ai compensi inferiori a quelli previsti dal decreto di cui al presente comma. Il de-creto stabilisce altresì i criteri di determinazione della parte variabile della remunerazione commisurata ai risultati di bilancio raggiunti dalla società nel corso dell’esercizio precedente. In caso di risultati negativi attribuibili alla responsabilità dell’amministratore, la parte variabile non può essere corrisposta” (art. 11, c. 6, d.lgs. n. 175/2016, per come modificato dall’art. 7, d.lgs. n. 100/2017 a decorrere dal 27 giugno 2017).

Il successivo c. 7 del medesimo art. 11 prevede, inoltre, un regime transitorio per il limite di spesa in esame, disponendo che “fino all’emanazione del de-creto di cui al comma 6 restano in vigore le disposi-zioni di cui all’art. 4, c. 4, secondo periodo, d.l. 6 lu-glio 2012, n. 95 […] e successive modificazioni” (art. 11, c. 7, d.lgs. n. 175/2016).

Dispone, infine, il menzionato art. 4, c. 4, d.l. n. 95/2012, nel testo attualmente vigente, che “a decor-rere dall’1 gennaio 2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli amministratori di tali società [n.d.r. controllate], ivi compresa la remunerazione di quelli investiti di particolari cariche, non può supera-re l’80 per cento del costo complessivamente sostenu-to nell’anno 2013”.

Dal quadro normativo appena richiamato può, in primo luogo, evidenziarsi il riferimento al principio di onnicomprensività del trattamento economico ricono-scibile dell’amministratore societario, pur con l’utilizzo di diversa terminologia legislativa: l’art. 1, c. 725, l. n. 296/2006, infatti, si esprimeva in termini di “compenso lordo annuale onnicomprensivo”; l’art. 4, c. 4, d.l. n. 95/2012, invece, utilizza l’analoga locu-zione di “costo complessivamente sostenuto” dalla so-cietà nell’anno 2013; il d.lgs. n. 175/2016, infine, uti-lizza il termine di “trattamento economico annuo on-nicomprensivo” (art. 11, c. 6, d.lgs. n. 175, cit.) ma, in

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tutti i casi, si tratta di concetti equivalenti, espressione del menzionato principio della onnicomprensività del trattamento economico, in relazione al quale viene in-trodotto un limite di spesa per finalità di coordinamen-to della finanza pubblica e tutela degli equilibri di bi-lancio.

È interessante osservare come i tre interventi legi-slativi innanzi richiamati hanno introdotto, nel tempo, tetti retributivi di entità anche molto diversa tra loro: il primo di essi, in vigore dal 2007 e oggi abrogato, commisurava il limite in esame ad una percentuale dell’indennità riconosciuta al sindaco “di riferimento”; il successivo d.l. n. 95/2012 ha invece introdotto il di-verso criterio della c.d. spesa storica, introducendo un tetto pari all’80 per cento della spesa complessiva-mente sostenuta nell’esercizio 2013. Infine, l’art. 11, c. 6, d.lgs. n. 175/2016, invero non ancora applicabile, ha demandato a un successivo decreto del Mef la con-creta individuazione di nuovi limiti di spesa, previa classificazione delle società in più fasce, sino a cin-que, con altrettanti tetti retributivi, il più elevato dei quali viene commisurato in 240 mila euro annui lordi, in corrispondenza del trattamento economico onni-comprensivo del primo Presidente della Corte di cas-sazione. Il settore delle società controllate è stato in-fatti equiparato al settore pubblico “classico”, quanto al limite di spesa in esame, dall’art. 13, c. 2, d.l. n. 66/2014, essendo detta spesa in ogni caso a carico del-la finanza pubblica, indipendentemente dalla natura giuridica, pubblica o privata, del soggetto che sostiene i costi connessi alla presenza di un amministratore so-cietario (cfr., in proposito, Sez. contr. reg. Veneto, n. 31/2018).

È opportuno precisare che i limiti di spesa innanzi richiamati hanno portata generale, in quanto applicabi-li ad ogni società controllata, e devono essere coordi-nati con ulteriori limiti di spesa, di carattere speciale in quanto applicabili solo in presenza di particolari circostanze.

È il caso, ad esempio, previsto dall’art. 21, c. 3, d.lgs. n. 175/2016 che introduce una riduzione del 30 per cento al compenso degli amministratori di società controllate che, nei tre esercizi precedenti, abbiano conseguito un risultato economico negativo. Inoltre, il legislatore conserva la possibilità di introdurre ulterio-ri limiti di spesa inferiori a quelli oggi vigenti, come peraltro esplicitato dall’art. 11, c. 6, Tusp, secondo cui “sono in ogni caso fatte salve le disposizioni legislati-ve e regolamentari che prevedono limiti ai compensi inferiori a quelli previsti dal decreto di cui al presente comma”.

Pur nella diversità dei tetti al trattamento economi-co, introdotti dal legislatore nel corso del tempo, gli stessi hanno la medesima funzione di coordinamento della finanza pubblica e tutela degli equilibri di bilan-cio e rappresentano, in ogni caso, un limite invalicabi-le. In proposito, prevede l’art. 4, c. 12, d.l. n. 95/2012 che “le amministrazioni vigilanti verificano sul rispet-to dei vincoli di cui ai commi precedenti; in caso di violazione dei suddetti vincoli gli amministratori ese-

cutivi e i dirigenti responsabili della società rispon-dono, a titolo di danno erariale, per le retribuzioni e i compensi erogati in virtù dei contratti stipulati”.

Analoga previsione è prevista dall’art. 11, c. 6, d.lgs. n. 175/2016, cui occorrerà fare riferimento quando entreranno in vigore i nuovi tetti di spesa pre-visti dall’emanando decreto ministeriale previsto dal menzionato sesto comma.

L’evidenziata inderogabilità del limite di spesa in esame è stata di recente ribadita dalla giurisprudenza contabile, per l’ipotesi di aumentate competenze, e conseguenti responsabilità, dell’amministratore unico (Sez. contr. reg. Basilicata, n. 10/2018, in riferimento al tetto di cui all’art. 4, c. 4, d.l. n. 95/2016).

Da quanto sin qui evidenziato, emerge in tutta evi-denza l’importanza di individuare correttamente il li-mite di spesa da rispettare e, conseguentemente, ade-guare il trattamento economico onnicomprensivo da corrispondere annualmente all’amministratore, inteso come costo complessivo a carico del bilancio della so-cietà controllata, in modo che non si verifichi il supe-ramento del limite di spesa in esame.

È opportuno evidenziare che, al momento dell’adozione della presente deliberazione, il decreto ministeriale previsto dall’art. 11, c. 6, Tusp non risulta ancora entrato in vigore, con la conseguenza che la disciplina prevista dall’art. 11, c. 6, Tusp, e i relativi limiti di spesa, non risulta ancora applicabile, perché sfornita della necessaria norma attuativa di rango re-golamentare.

Il limite di spesa cui fare riferimento è pertanto an-cora rappresentato da quello previsto dall’art. 4, c. 4, d.l. n. 95/2012 che, come evidenziato, ruota attorno al concetto di “costo complessivamente sostenuto nell’anno 2013”.

Tanto premesso, il quesito formulato dal sindaco di Sanluri si risolve, in sintesi, in una questione di inter-pretazione della norma da ultimo menzionata su cui, invero, la giurisprudenza contabile si è più volte sof-fermata, specie per affrontare il diverso problema del-la individuazione del limite di spesa nel caso di assen-za del costo di riferimento sostenuto nell’esercizio 2013 (cfr., in proposito, Sez. contr. reg. Veneto, n. 31/2018) e l’analogo problema della inclusione, o me-no, della indennità di risultato nel tetto di spesa in esame (cfr., in proposito, Sez. contr. reg. Liguria, n. 90/2016; Sez. contr. reg. Sardegna, n. 20/2018).

Nel caso in esame, il Comune di Sanluri non evi-denzia un problema di mancanza di un costo di riferi-mento nell’esercizio 2013 ma il diverso problema se in tale costo debbano o meno essere computati gli oneri previdenziali sostenuti nel 2013 e quale inciden-za possa avere la componente previdenziale nella de-terminazione del limite di spesa. Se, in altre parole, la sopravvenuta variazione degli oneri previdenziali, possa giustificare una deroga al limite di spesa.

Occorre evidenziare che, nelle premesse della ri-chiesta di parere, il sindaco sembra muovere da un presupposto interpretativo che la sezione non ritiene di poter condividere: infatti, nel riportare il passaggio

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dell’art. 11, c. 6, Tusp, in cui si afferma che il tratta-mento economico annuo onnicomprensivo da corri-spondere agli amministratori “non potrà comunque eccedere il limite massimo di euro 240 mila annui al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e de-gli oneri fiscali a carico del beneficiario”, il sindaco ritiene che nel limite dei 240 mila euro non siano in-clusi i contributi previdenziali e assistenziali a carico della società, affermando al riguardo che “quindi non includendo nei 240 mila euro i contributi previdenzia-li e assistenziali e gli oneri fiscali a carico della socie-tà”.

Tale interpretazione non appare condivisibile per-ché la locuzione “contributi e oneri fiscali a carico del beneficiario” si riferisce al costo sostenuto dalla socie-tà controllata in adempimento a specifici obblighi di legge, di natura fiscale, previdenziale e assistenziale, connessi alla presenza dell’amministratore societario.

Si osserva, in proposito, che il costo a carico della società controllata per la remunerazione del proprio organo amministrativo, di regola monocratico, rappre-senta un costo a carico della finanza pubblica, per il cui contenimento il legislatore ha introdotto un limite massimo che, per essere realmente tale, deve com-prendere nel suo computo ogni voce di spesa a carico del bilancio della società e, conseguentemente, del bi-lancio consolidato con quello dell’ente pubblico socio.

Pertanto, sia il limite di spesa di riferimento, sia il costo da sostenere annualmente per l’organo ammini-strativo, devono essere considerati in modo comples-sivo, come un unico saldo composto da diverse sotto voci di costo (retributive, fiscali, previdenziali, assi-stenziali, ecc.).

Ciò vale sia in riferimento al limite di spesa “tran-sitorio”, oggi ancora vigente, previsto dal d.l. n. 95/2012, espresso in termini di “costo complessiva-mente sostenuto dalla società nel 2013”, sia in riferi-mento ai nuovi limiti che entreranno in vigore quando sarà adottato il decreto ministeriale di cui all’art. 11, c. 6, Tusp; tale ultima norma, non a caso, precisa che il limite di spesa sia “al lordo degli oneri fiscali, previ-denziali e assistenziali”, quindi comprensivo degli stessi.

Come osservato nella richiesta di parere, alcune voci che concorrono a determinare il trattamento eco-nomico onnicomprensivo, possono variare nel corso del tempo. Il riferimento vale non solo per la compo-nente previdenziale, espressamente richiamata nella richiesta di parere, ma anche per quella fiscale, assi-stenziale e retributiva.

Questa intrinseca mutevolezza dei costi deve esse-re gestita dalla società controllata (e dall’amministrazione controllante) fermo restando il limite di spesa previsto dal legislatore, che rappresenta una entità fissa e inderogabile. Pertanto, la società controllata e, per essa, l’amministrazione socia e vigi-lante, è tenuta a monitorare periodicamente l’evoluzione delle singole voci di costo in modo che il saldo totale, rappresentato dal trattamento economico onnicomprensivo a carico del bilancio della società

pubblica, rientri in ogni caso nel limite di spesa fissato dalla legge, evitando ogni ipotesi di sua deroga.

Oltre agli aspetti previdenziali, occorre quindi te-ner conto anche delle voci salariali accessorie ed eventuali, come l’indennità di risultato o ogni altro emolumento, comunque denominato, erogato in favo-re dell’organo amministrativo che, ove corrisposto, non potrà comunque comportare il superamento del limite di spesa vigente, tenendo anche conto che “in caso di risultati negativi attribuibili alla responsabili-tà dell’amministratore, la parte variabile non può es-sere corrisposta” (art. 11, c. 6, d.lgs. n. 175/2016).

Quest’ultima regola, per quanto riferita ai nuovi limiti al trattamento economico onnicomprensivo, non ancora in vigore, risulta tuttavia già applicabile nella permanente vigenza del limite di cui all’art. 4, c. 4, d.l. n. 95/2012, in quando ricognitiva di un principio già vigente, secondo cui la retribuzione di risultato può essere riconosciuta solo in caso di effettivo con-seguimento di obiettivi predeterminati.

La giurisprudenza contabile ha affrontato in diver-se occasioni il problema del computo del limite di spesa in esame e, in riferimento all’indennità di risul-tato, si è espressa nel senso di ritenere che la sua ero-gazione non può determinare il superamento del limite di spesa fissato dal legislatore (cfr. Sez. contr. reg. Sardegna, n. 20/2018 resa in sede di interpretazione del tetto di spesa previsto dall’art. 4, c. 4, d.l. n. 95/2012; in senso analogo, Sez. contr. reg. Liguria, n. 90/2016 e Sez. contr. reg. Lombardia, nn. 64 e 71/2016).

Il recente “orientamento” del 10 giugno 2019, adottato dal Ministero dell’economia ai sensi dell’art. 15, c. 2, d.lgs. n. 175/2016, ha confermato e precisato quanto innanzi, affermando che “ai fini della defini-zione dei compensi dell’organo amministrativo ai sen-si del menzionato art. 11, c. 7, Tusp, rilevano, in ge-nerale, le seguenti componenti: i compensi […]; gli eventuali emolumenti variabili, quali, a titolo mera-mente esemplificativo e non esaustivo, i gettoni di pre-senza ovvero gli emolumenti legati alla performance aziendale […]; gli eventuali rimborsi spese, determi-nati in misura forfettaria, che assumono – anche in ragione della continuità dell’erogazione – carattere retributivo”.

Dalle considerazioni che precedono è possibile enunciare la regola, espressione dei principi della pru-denza contabile e della razionalità amministrativa, se-condo cui, nella determinazione, ex ante, del tratta-mento economico onnicomprensivo erogabile an-nualmente in favore dell’organo amministrativo di so-cietà controllata, lo stesso debba essere adeguato te-nendosi prudentemente al di sotto del limite di legge, che potrà essere raggiunto, e mai superato, solo in si-tuazioni peculiari, come nel caso, innanzi esemplifica-to, di legittimo riconoscimento della parte variabile della retribuzione o di sopravvenute modifiche legisla-tive alle sotto voci di costo che, nel loro insieme, con-corrono a determinare il costo complessivo a carico del bilancio della società pubblica.

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Analoghe considerazioni, in termini di onnicom-prensività del trattamento economico complessiva-mente erogabile dalla società controllata, possono es-sere svolte, quindi, anche in prospettiva, per il periodo in cui il nuovo limite di spesa dovesse essere quello previsto dall’emanando decreto ministeriale di cui all’art. 11, c. 6, d.lgs. n. 175/2016.

Anche in tal caso, infatti, il tetto di spesa, di natura onnicomprensiva, rappresenterà una grandezza inde-rogabile e tutte le voci di spesa (fisse, variabili ed eventuali) che concorrono a determinare il trattamento economico complessivo, comprese quelle di natura previdenziale, dovranno essere oculatamente “calibra-te” in modo da evitare qualsiasi superamento del limi-te fissato dal legislatore, inteso come costo a carico del bilancio della società partecipata.

36 – Sezione controllo Regione Sardegna; parere 3 luglio 2019; Pres. Cabras, Rel. Lucarini; Comune di Ruinas.

Impiegato dello Stato e pubblico in genere – As-sunzioni – Concorsi – Scorrimento delle graduato-rie – Presupposti. Cost., art. 97, c. 4; d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, t.u. delle disposizioni concernenti lo statuto degli impie-gati civili dello Stato, art. 8; d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, art. 91, c. 4; d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, norme ge-nerali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, art. 35, c. 5-ter; l. 24 dicembre 2003, n. 350, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004), art. 3, c. 61; l. 30 dicembre 2018, n. 145, bilancio di previsione dello Stato per l’anno fi-nanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021 (legge di bilancio 2019), art. 1, cc. 361, 362, 363.

Le graduatorie degli idonei di un concorso pubbli-co possono essere utilizzate solo da parte della stessa amministrazione, per la copertura di una posizione identica a quella originariamente messa a concorso. (1)

(1) Lo scorrimento delle graduatorie dopo la legge di bi-lancio 2019

La Sezione regionale di controllo per la Sardegna è inter-venuta sull’annosa questione dello “scorrimento” della gradua-toria al fine di assumere gli idonei (non vincitori) di precedente procedura concorsuale. La sezione ha evidenziato l’intervenuta abrogazione, ad opera dell’art. 1, c. 363, l. n. 145/2018, cc. 3 e 3-ter dell’art. 4 del d.l. 31 agosto 2013, n. 101, convertito con modificazioni dalla l. 30 ottobre 2013, n. 125. La prima dispo-sizione prevedeva che l’indizione del pubblico concorso per le amministrazioni statali fosse subordinata all’assenza di gradua-torie valide in relazione alle “professionalità necessarie anche secondo un criterio di equivalenza”; la seconda, invece, faceva salva la possibilità di utilizzazione delle graduatorie di altra amministrazione di cui all’art. 3, c. 61, terzo periodo, l. 24 di-cembre 2003, n. 350 (non formalmente abrogata).

Merito – Il quesito proposto concerne l’interpretazione di norme introdotte dalla l. n. 145/2018 (legge di bilancio 2019) ed è volto ad accer-tare se sia ancora possibile attingere alla graduatoria di altro ente per l’assunzione di personale, come espressamente previsto da precedenti norme, della cui abrogazione il sindaco istante dubita.

È opportuno, preliminarmente, richiamare le di-sposizioni introdotte dalla menzionata legge di bilan-cio, in vigore dall’1 gennaio 2019, oggetto del quesito interpretativo in esame.

In primo luogo, l’art. 1, c. 361 stabilisce che “fer-mo restando quanto previsto dall’art. 35, c. 5-ter, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, le graduatorie dei con-corsi per il reclutamento del personale presso le am-ministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, c. 2, del me-desimo decreto legislativo sono utilizzate esclusiva-mente per la copertura dei posti messi a concorso”.

Il successivo c. 363, coerentemente con la regola introdotta dal menzionato c. 361, prevede diverse abrogazioni, disponendo che “all’art. 4 del d.l. 31 agosto 2013, n. 101 […] la lett. b) del c. 3 e i cc. 3-ter e 3-quater sono abrogati”.

Prima di procedere all’interpretazione delle norme appena richiamate, è opportuna una sintetica ricostru-

Circa la natura di potere discrezionale, sindacabile dal giu-

dice, della decisione da parte della pubblica amministrazione di addivenire all’indizione di un nuovo bando, anziché procedere allo scorrimento della graduatoria, Cons. Stato, Ad. plen., 28 luglio 2011, n. 14, in Foro it., 2012, III, 31.

L’estensione del favor per gli idonei anche in relazione alle procedure concorsuali degli enti locali è stata prevista dall’art. 3, c. 5-ter, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito dalla l. 11 ago-sto 2014, n. 114, secondo cui i principi dell’art. 4, c. 3, d.l. n. 101/2013 si applicavano alle regioni e agli enti sottoposti al patto di stabilità interno, nei limiti posti dall’art. 91, c. 4, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che consente di coprire, mediante scor-rimento di graduatorie, i soli posti che si vengano a rendere va-canti e disponibili dopo la conclusione della procedura, fatta eccezione per i posti istituiti o trasformati successivamente all’indizione del concorso medesimo (in tal senso Corte conti, Sez. contr. reg. Veneto, 11 ottobre 2018, n. 371; Sez. contr. reg. Campania, 19 dicembre 2018, n. 158).

Per l’affermazione secondo cui, a seguito dell’entrata in vi-gore dell’art. 1, c. 424, l. 23 dicembre 2014, n. 190 (che preve-deva che, per gli anni 2015 e 2016, le assunzioni cui gli enti locali erano autorizzati a provvedere dovevano essere riservate all’immissione in ruolo dei vincitori di concorso pubblico e alla ricollocazione del personale soprannumerario delle province), era stato consentito ai comuni di procedere all’assunzione degli idonei non vincitori di precedenti concorsi pubblici tramite lo scorrimento delle relative graduatorie, ma non degli idonei di precedenti concorsi interni, Corte conti, Sez. contr. reg. Sicilia-na, 30 settembre 2015, n. 265, in questa Rivista, 2015, fasc. 5-6, 206.

Va precisato che il c. 361 dell’art. 1 citato ha previsto che le graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale presso le pubbliche amministrazioni siano utilizzate esclusiva-mente per la copertura dei posti messi a concorso, estendendo entro limiti rigorosi la validità di quelle approvate a far data dall’1 gennaio 2010, al fine di ripristinarne progressivamente il principio di validità triennale, nel tempo estesa tramite leggi speciali. [A. LUBERTI]

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zione del pregresso quadro normativo in materia di utilizzo delle graduatorie concorsuali e dalla ratio le-gislativa ad esso sottesa. La previsione di cui all’art. 97, c. 4, Cost., secondo cui il concorso pubblico rap-presenta la regola generale per l’accesso al pubblico impiego, ha indotto il legislatore dell’ultimo quindi-cennio a individuare soluzioni idonee a contemperare la menzionata regola concorsuale con le emergenti esigenze di celerità dell’azione amministrativa ed economicità della stessa sotto il profilo finanziario.

Su questa base, le graduatorie dei concorsi pubblici hanno conosciuto interventi legislativi volti ad esten-derne l’efficacia temporale, passata da uno a tre anni, senza considerare varie proroghe “una tantum”, e a consentire l’utilizzo della graduatoria da parte di am-ministrazione diversa da quella che aveva bandito il concorso. Inoltre, è stata anche ammessa l’utilizzabilità della graduatoria da parte della mede-sima amministrazione che aveva bandito il concorso, per la copertura di posti ulteriori rispetto a quelli mes-si a concorso.

In ogni caso, la normativa ha gradualmente esteso la possibilità di utilizzo delle graduatorie concorsuali, mediante loro scorrimento, per l’assunzione dei can-didati “idonei non vincitori”.

Le norme di riferimento del descritto fenomeno sono rappresentate, in primo luogo, dall’art. 9 della l. n. 3/2003, secondo cui “a decorrere dal 2003 […] con regolamento emanato ai sensi dell’art. 17, c. 2, l. 23 agosto 1988, n. 400 […] sono stabiliti le modalità e i criteri con i quali le amministrazioni dello Stato, an-che ad ordinamento autonomo, e gli enti pubblici non economici possono ricoprire i posti disponibili, nei limiti della propria dotazione organica, utilizzando gli idonei delle graduatorie di pubblici concorsi approva-te da altre amministrazioni del medesimo comparto di contrattazione”. La richiamata disposizione non risul-ta espressamente abrogata dalla l. n. 145/2018. Il suc-cessivo intervento normativo, parimenti non espres-samente abrogato dalla legge di bilancio 2019, è rap-presentato dall’art. 3, c. 61, l. n. 350/2003 (finanziaria 2004) il cui terzo periodo stabilisce che “in attesa dell’emanazione del regolamento di cui all’art. 9 del-la l. 16 gennaio 2003, n. 3, le amministrazioni pubbli-che ivi contemplate […] possono effettuare assunzioni anche utilizzando le graduatorie di pubblici concorsi approvate da altre amministrazioni, previo accordo tra le amministrazioni interessate”.

In tempi più recenti, l’art. 4 d.l. n. 101/2013, per come successivamente modificato e integrato, è nuo-vamente intervenuto in materia, prevedendo che le amministrazioni dello Stato possono autorizzare l’avvio di nuove procedure concorsuali previa verifi-ca, tra l’altro, “dell’assenza, nella stessa amministra-zione, di idonei collocati nelle proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dall’1 gennaio 2007, re-lative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di equivalenza” (art. 4, c. 3, lett. b, d.l. n. 101/2013). Quest’ultima norma è stata espressamente

abrogata dall’art. 1, c. 363, l. n. 145/2018 con decor-renza 1 gennaio 2019.

Prevede inoltre l’art. 4, c. 3-ter, d.l. n. 101/2013 che “resta ferma per i vincitori e gli idonei delle gra-duatorie di cui al c. 3 del presente articolo l’applicabilità dell’art. 3, c. 61, terzo periodo, l. 24 dicembre 2003, n. 350”, ossia la possibilità per essi di essere assunti da altra amministrazione, previo accor-do tra questa e l’amministrazione che ha bandito il concorso pubblico.

Anche il c. 3-ter, appena richiamato, risulta espres-samente abrogato, a decorrere dall’1 gennaio 2019, dall’art. 1, c. 363, l. n. 145/2018. Sino alla legge di bilancio 2019, è emersa nella legislazione una chiara preferenza per l’assunzione di personale mediante scorrimento di graduatorie, proprie o altrui, e tale fa-coltà di scorrimento è stata estesa anche agli enti loca-li dall’art. 3, c. 5-ter, d.l. n. 90/2014, secondo cui i principi dell’art. 4, c. 3, d.l. n. 101/2013 si applicano alle amministrazioni di cui al c. 5 del medesimo art. 3 ovvero alle regioni e agli enti sottoposti al patto di stabilità interno. Quest’ultima disposizione non risulta espressamente abrogata dalla legge di bilancio 2019.

Il richiamato quadro normativo ha indotto la giuri-sprudenza contabile e amministrativa a riconoscere “un generale favor dell’ordinamento per lo scorri-mento di graduatorie ancora efficaci ai fini della co-pertura di posti vacanti nella pianta organica” (cfr. Sez. contr. reg. Veneto, n. 371/2018; negli stessi ter-mini, cfr. anche Cons. Stato, Ad. plen., n. 14/2011, nonché Sez. contr. reg. Campania, n. 158/2018).

Inoltre, prima dell’entrata in vigore della l. n. 145/2018, la giurisprudenza si era soffermata in più occasioni sui possibili problemi connessi all’utilizzo delle graduatorie mediante loro scorrimento, sia nei casi di graduatoria “propria” che in quelli di altra am-ministrazione, individuando i presupposti in presenza dei quali lo scorrimento fosse legittimo e non si risol-vesse in una pratica sostanzialmente elusiva del prin-cipio costituzionale del concorso pubblico e dei suoi corollari della parità dei concorrenti, predeterminazio-ne dei posti e delle regole di attribuzione, ecc.

In proposito, la Sez. contr. reg. Umbria, con delib. n. 124/2013, si è soffermata sull’interpretazione del requisito normativo del “previo accordo” tra le ammi-nistrazioni interessate, necessario per la legittimità dell’assunzione del candidato “idoneo” in una gradua-toria di concorso bandito da altro ente ai sensi dell’art. 3, c. 61, l. n. 350/2004. Argomento affrontato, di re-cente, anche dalla Sez. contr. reg. Piemonte con delib. n. 114/2018 secondo cui “è necessario che il posto vacante sia preesistente l’indizione del concorso” e che sia necessario “evitare che vi possano essere as-sunzioni “nominative” creando posti ad hoc per sog-getti già presenti in graduatoria” (Sez. contr. reg. Piemonte, n. 114/2018, cit.).

In termini più generali, si è consolidato in giuri-sprudenza l’orientamento secondo cui la graduatoria dalla quale attingere deve riguardare posizioni lavora-tive omogenee a quelle per le quali viene utilizzata (in

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termini, Sez. contr. reg. Campania, n. 158/2018; Sez. contr. reg. Umbria, n. 124/2013 e n. 28/2014).

Nel contesto normativo e giurisprudenziale fin qui delineato, è intervenuta la legge di bilancio 2019 con le disposizioni innanzi richiamate che hanno introdot-to una evidente discontinuità con il percorso normati-vo avviato dal 2003 e connotato, come visto, da un regime di favor per l’utilizzo delle graduatorie me-diante loro scorrimento, anche da parte di amministra-zioni “terze” rispetto alla graduatoria.

In proposito, infatti, è agevole osservare come la disciplina prevista dall’art. 1, c. 361, l. n. 145/2018, nel prevedere che le graduatorie dei concorsi sono uti-lizzate “esclusivamente” per la copertura dei posti messi a concorso, impedisce l’utilizzo della medesima graduatoria per la copertura di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a concorso, sia esso della me-desima o di altra amministrazione.

Lo scorrimento della graduatoria viene quindi limi-tato, a partire dal 2019, alla sola possibilità di attinge-re ai candidati “idonei” per la copertura di posti che, pur essendo stati messi a concorso, non siano stati co-perti o siano successivamente divenuti scoperti nel pe-riodo di permanente efficacia della graduatoria mede-sima. La regola introdotta dal menzionato art. 1, c. 361, l. n. 145/2018, pertanto, determina una inversio-ne di tendenza nella utilizzabilità delle graduatorie di concorso, non consentendo più lo scorrimento da parte di altre amministrazioni, né da parte della medesima amministrazione che intendesse utilizzare una propria graduatoria, ancora efficace, per la copertura di un po-sto diverso da quelli messi a concorso.

Il successivo art. 1, c. 363, nell’abrogare alcune norme che prevedevano la possibilità di utilizzare le graduatorie di altre amministrazioni, si pone in coe-renza con la volontà legislativa espressa nella nuova regola generale di cui al c. 361: da un lato, infatti, si crea uno stretto collegamento tra graduatoria e posto messo a concorso; dall’altro, coerentemente, vengono abrogate le norme che prevedevano l’utilizzo della graduatoria per la copertura di posti diversi da quelli messi a concorso.

L’innovazione introdotta dalla legge di bilancio, rappresentata da un ridimensionamento dell’utilizzabilità dello scorrimento delle graduatorie, può inoltre cogliersi chiaramente dall’avvenuta ed espressa abrogazione della norma che vietava l’indizione di un nuovo concorso nel caso di presenza di idonei collocati nelle proprie graduatorie vigenti (art. 4, c. 3, lett. b, d.l. n. 101/2013).

Le considerazioni che precedono, in termini di di-vieto di utilizzo delle graduatorie formate da altra pubblica amministrazione, non sono inficiate dalla circostanza che la legge di bilancio non ha provveduto all’espressa abrogazione di tutte le disposizioni che prevedono l’utilizzo dell’altrui graduatoria. A livello interpretativo, infatti, è possibile affermare che l’abrogazione espressa dell’art. 4, c. 3-ter, d.l. n. 101/2013 sia riferibile anche alla norma da quest’ultimo richiamata, tale essendo l’intenzione del

legislatore, per come desumibile dalla nuova regola generale di cui all’art. 1, c. 361, legge di bilancio 2019. Inoltre, devono ritenersi abrogate implicitamen-te le norme incompatibili con la menzionata nuova re-gola generale.

La l. n. 145/2018, quindi, modifica il precedente equilibrio tra gli istituiti deputati all’assunzione di personale nella pubblica amministrazione, rappresen-tati dalla mobilità volontaria, lo scorrimento delle gra-duatorie e l’indizione di un concorso, per i quali si rinvia alle considerazioni svolte dalla Sez. contr. reg. Veneto nelle delib. nn. 189 e 548/2018.

* * *

Valle d’Aosta

7 – Sezione controllo Regione Valle d’Aosta; parere 31 luglio 2019; Pres. Aloisio, Rel. Gentile; Consiglio permanente degli enti locali-Cpel.

Enti locali – Comune – Società partecipata – Revi-sione straordinaria e razionalizzazione periodica – Necessità – Deroga – Limiti. D.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, t.u. in materia di società a partecipazione pubblica, artt. 20, 24, c. 5-bis; l. 30 dicembre 2018, n. 145, bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio plurienna-le per il triennio 2019-2021 (legge di bilancio 2019), art. 1, c. 723.

Le pubbliche amministrazioni sono autorizzate, dall’1 gennaio 2019 e fino al 31 dicembre 2019, per le società che abbiano prodotto un risultato medio in utile nel triennio precedente, a derogare all’obbligo di alienazione, ma non anche a quello di adozione, con periodicità annuale, del piano di razionalizzazio-ne delle partecipazioni e delle misure conseguenti. (1)

(1) Non constano precedenti sulla specifica tematica affron-

tata dalla sezione, relativa alla previsione introdotta dall’art. 1, c. 723, l. n. 145/2018, secondo cui, nel caso di società parteci-pate con un risultato medio in utile nel triennio precedente alla ricognizione straordinaria compiuta al 30 settembre 2017, le pubbliche amministrazioni sono esonerate dall’obbligo di alie-nazione entro un anno delle partecipazioni non ammissibili ai sensi del d.lgs. n. 175/2016, a pena del divieto di esercizio dei diritti sociali.

Per l’affermazione secondo cui le partecipazioni sociali de-tenute da enti pubblici per il tramite di società soggette a con-trollo congiunto di più amministrazioni debbono formare og-getto delle misure di revisione straordinaria e di razionalizza-zione periodica previste dal d.lgs. n. 175/2016 v. Sez. contr. reg. Emilia-Romagna, 27 febbraio 2018, n. 43, in questa Rivi-sta, 2018, fasc. 1-2, 157.

In punto di legittimazione attiva alla richiesta di parere, va ricordato che l’art. 1, c. 5, d.lgs. 5 ottobre 2010, n. 179, ricono-sce alla Sezione regionale di controllo nella Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste un potere di “motivato avviso” a richiesta dell’amministrazione controllata, con una formulazio-ne più ampia rispetto all’analogo istituto previsto dall’art. 7, c. 8, l. 5 giugno 2003, n. 131.

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Fatto – Con la nota indicata in epigrafe, il presi-dente del consiglio permanente degli enti locali (Cpel) ha inoltrato a questa sezione la richiesta di parere in merito all’applicabilità della deroga – prevista dal c. 723, l. 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019), che ha introdotto il c. 5-bis all’art. 24 del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (t.u. in materia di società a par-tecipazione pubblica), di seguito Tusp – all’obbligo di alienazione delle società inserite nel piano di revisione straordinaria approvato ai sensi dell’art. 24 Tusp, cc. 4 e 5, senza l’applicazione delle relative sanzioni. A corredo della richiesta il Cpel allega una “nota opera-tiva”, datata 6 marzo 2019, con la quale l’Anci forni-sce la propria interpretazione del combinato disposto degli artt. 24, c. 5-bis, e 20 Tusp. In particolare, l’Anci ritiene che “il c. 7 dell’art. 20 […] richiamando a sua volta i cc. 4 e 5 dell’art. 24, la cui applicazione è so-spesa per effetto del nuovo c. 5-bis dello stesso artico-lo introdotto dalla legge di bilancio per il 2019, indu-ca ad interpretare che – anche per le revisioni annuali e solo per le società con bilancio in utile nel triennio 2014-2016 – si possa derogare all’obbligo di dismis-sione della partecipazione, almeno fino al 31 dicem-bre 2021, e senza incorrere in nessuna sanzione”. L’Anci ritiene, inoltre, che “le amministrazioni locali potranno deliberare di avvalersi della deroga intro-dotta con il c. 723 della legge di bilancio 2019, anche in sede di revisione annuale” (Omissis).

Merito – La risposta alla richiesta di parere formu-lata a questa sezione presuppone un breve richiamo agli adempimenti previsti dal Tusp per addivenire alla razionalizzazione delle partecipazioni societarie dete-nute dalle pubbliche amministrazioni.

Il processo di razionalizzazione delle società parte-cipate delineato nel d.lgs. n. 175/2016 consta di due momenti: la revisione straordinaria e quella periodica, disciplinate, rispettivamente, dagli artt. 24 e 20 del ci-tato decreto legislativo.

L’art. 24, c. 1, Tusp faceva obbligo alle ammini-strazioni pubbliche di effettuare, entro il 30 settembre 2017, una ricognizione di tutte le partecipazioni socie-tarie possedute, direttamente o indirettamente, alla da-ta di entrata in vigore del Tusp (23 settembre 2016), prevedendo l’alienazione di quelle prive di determina-ti requisiti.

Nello specifico, le pubbliche amministrazioni era-no tenute ad alienare le partecipazioni:

- in società non riconducibili a determinate attività di produzione di beni e servizi, strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente pubblico (attività e finalità elencate all’art. 4 Tusp);

- nel caso in cui avessero proceduto alla costitu-zione di società, o ne avessero acquistato partecipa-

Nel caso di specie, il parere è stato, in particolare, reso ai

sensi del protocollo sulle attività di collaborazione fra la Sezio-ne regionale di controllo, la Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste e il consiglio permanente degli enti locali, nei confron-ti di tale ultimo organo. [A. LUBERTI]

zioni (nell’ipotesi di società già esistenti), sulla base di un atto non analiticamente motivato in ordine alla sus-sistenza delle ragioni di efficienza, efficacia ed eco-nomicità che ne giustificassero la costituzione o l’acquisizione, ovvero nel caso di incompatibilità dell’atto con la normativa comunitaria e nazionale (art. 5, cc. 1 e 2, Tusp);

- nel caso in cui non avessero adottato misure di razionalizzazione e nel caso in cui le società ricades-sero nelle ipotesi previste dall’art. 20, c. 2, ovvero:

- che risultassero prive di dipendenti o che avesse-ro un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti;

- che svolgessero attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pub-blici strumentali;

- che, nel triennio precedente (2014-2016), avesse-ro conseguito un fatturato medio non superiore a cin-quecentomila euro (elevato a un milione di euro, a de-correre dal triennio 2017-2019, dall’art. 17, c. 1, lett. f), d.lgs. 16 giugno 2017, n. 100);

- che avessero prodotto un risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti (sempre che non si trattasse di società costituite per la gestione di un servizio di interesse generale).

Ai sensi dell’art. 24, c. 4, Tusp le operazioni di alienazione avrebbero dovuto essere effettuate entro un anno dalla ricognizione stessa (30 settembre 2018). In caso di mancata adozione dell’atto ricognitivo o di mancata alienazione entro il suddetto termine, il socio pubblico non avrebbe potuto esercitare, ai sensi dell’art. 24, c. 5, i diritti sociali nei confronti della so-cietà e, salvo in ogni caso il potere di alienare la par-tecipazione, “la medesima è liquidata in denaro in ba-se ai criteri stabiliti all’art. 2437-ter, c. 2, e seguendo il procedimento di cui all’art. 2437-quater c.c.”.

A decorrere dall’1 gennaio 2019, con la l. 30 di-cembre 2018, n. 145 (legge di bilancio per il 2019), il legislatore è intervenuto sulla disciplina delle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche al fine di attenuare la portata di alcuni obblighi concernenti, in particolare, la revisione delle partecipazioni detenute, concedendo un più ampio lasso temporale per la rego-larizzazione delle suddette partecipazioni.

Infatti, il c. 723 della l. n. 145/2018 ha integrato il Tusp, introducendo, all’art. 24, il c. 5-bis. Tale comma sospende l’efficacia, fino al 31 dicembre 2021, del c. 4 (relativo all’obbligo di alienazione entro un anno dalla ricognizione straordinaria) e del c. 5 (relativo al divieto per il socio pubblico di esercitare i diritti so-ciali e successiva liquidazione coatta in denaro delle partecipazioni) dell’art. 24 Tusp nel caso di società partecipate che abbiano prodotto un risultato medio in utile nel triennio precedente alla ricognizione.

Per queste società in utile, “a tutela del patrimonio pubblico e del valore delle quote societarie pubbli-che”, la disposizione autorizza le amministrazioni a prolungare la detenzione delle partecipazioni societa-rie fino al 31 dicembre 2021.

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Quanto sopra premesso consente a questa sezione di formulare il parere richiesto nei termini che seguo-no.

Per effetto della disciplina introdotta dal c. 5-bis dell’art. 24 Tusp, la pubblica amministrazione che, in adempimento all’obbligo previsto dal citato art. 24, avrebbe dovuto alienare tali partecipazioni entro il 30 settembre 2018 e non abbia ancora concluso la proce-dura di alienazione – o laddove questa abbia avuto esi-to negativo – è autorizzata, dall’1 gennaio 2019 e fino al 31 dicembre 2021, a non procedere all’alienazione, senza incorrere nelle sanzioni di cui al c. 5 dell’art. 24.

Oltre a richiamare la “tutela del patrimonio pub-blico e del valore delle quote pubbliche”, il c. 5-bis produce due effetti. Da un lato, proroga di tre anni l’obbligo di dismettere le partecipazioni (c. 4) e, dall’altro, consente in tale triennio di esercitare i diritti di azionista di cui, diversamente, il c. 5, in caso di mancata alienazione, inibiva l’esercizio decorso un anno dalla ricognizione.

L’“autorizzazione” concessa dal legislatore all’amministrazione di non procedere all’alienazione delle partecipazioni è riferita, a giudizio del collegio, alla sola ricognizione straordinaria, non condividen-dosi l’interpretazione fornita dall’Anci nella nota ope-rativa sopra richiamata. Infatti, avuto riguardo al teno-re letterale della disposizione, il termine “ricognizio-ne” individuato dal legislatore come dies a quo del triennio utilizzato per il calcolo dell’utile d’esercizio non può che essere riferito alla sola ricognizione straordinaria. A supporto di tale interpretazione inter-vengono, da un lato, l’utilizzo del termine “ricogni-zione” solo nell’art. 24 e non anche nell’art. 20, lad-dove figurano le locuzioni “piano di riassetto” e “pia-no di razionalizzazione”, e, dall’altro, la collocazione sistematica del c. 5-bis all’interno dell’art. 24, relativo alla revisione straordinaria.

In sede di razionalizzazione periodica, considerato che il c. 5-bis esonera l’amministrazione pubblica dal solo obbligo di alienazione, permane, infatti, la neces-sità di sottoporre tali partecipazioni alle altre misure di razionalizzazione, qualora ricorrano i presupposti di cui all’art. 20 Tusp, nonché di precisare la volontà di avvalersi o meno della facoltà di non alienare la parte-cipazione, in quanto non si realizza un automatismo tra la proroga introdotta dal c. 5-bis e la facoltà con-cessa all’amministrazione.

La revisione straordinaria delle partecipazioni pubbliche costituisce la base per quella periodica cui sono tenuti gli enti territoriali, al pari delle altre am-ministrazioni pubbliche, e i criteri di razionalizzazione indicati nel Tusp sono i medesimi. Infatti, i profili di criticità individuati dall’art. 20, c. 2, Tusp come pre-supposti della razionalizzazione periodica delle parte-cipazioni societarie sono quelli indicati dall’art. 24 ai fini della revisione straordinaria. Una manifestazione ulteriore della richiamata consequenzialità delle di-sposizioni di cui agli artt. 20 e 24 Tusp è rappresentata dai meccanismi sanzionatori previsti in caso di manca-ta adozione degli atti di cui ai cc. da 1 a 4 dell’art. 20

(il piano di razionalizzazione e la relazione sull’attuazione dello stesso entro il 31 dicembre dell’anno successivo), che sono più accentuati nella revisione periodica (art. 20, c. 7) e che continueranno a trovare applicazione anche nel triennio 2019-2021, non operando la sospensione disposta dal c. 5-bis dell’art. 24.

* * *

Veneto

201 – Sezione controllo Regione Veneto; parere 29 luglio 2019; Pres. (f.f.) Brandolini, Rel. Bianchi; Co-mune di San Pietro di Morubio.

Contabilità regionale e degli enti locali – Armoniz-zazione contabile – Comune – Trattamento acces-sorio del personale – Spese – Imputazione. D.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni, degli enti locali e dei loro or-ganismi, a norma degli artt. 1 e 2 l. 5 maggio 2009, n. 42, allegato 4/2; l. 7 aprile 2014, n. 56, disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, art. 1, c. 114.

In base al principio della competenza finanziaria rafforzata, le spese relative al trattamento accessorio e premiante, liquidate nell’esercizio successivo a quello cui si riferiscono, devono essere stanziate e im-pegnate in tale esercizio; pertanto, alla sottoscrizione della contrattazione integrativa, sono soggette a im-pegno le obbligazioni relative al trattamento stesso, imputandole contabilmente agli esercizi del bilancio di previsione in cui tali obbligazioni scadono o diven-tano esigibili. (1)

Fatto – Il sindaco del Comune di San Pietro di Morubio ha trasmesso una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, c. 8, l. 5 giugno 2003, n. 131, concernente

(1) La Sez. contr. reg. Veneto, a riscontro di un’istanza in

tal senso di un comune, ha avuto modo di confermare il princi-pio di cui all’allegato 4.2 del d.lgs. n. 118/2011, il quale al pun-to 5.2 disciplina lo stanziamento e l’impegno delle risorse de-stinate al trattamento accessorio del personale.

Dal momento che dall’istanza del comune era emerso, in punto di fatto, che entro l’esercizio di riferimento non era stata definita la ripartizione delle risorse inerenti al relativo fondo, la Sezione coglie l’occasione per rammentare il corretto iter della gestione delle risorse destinate alla contrattazione decentrata.

Esso passa attraverso tre distinte fasi: l’individuazione delle risorse nel bilancio, la costituzione del fondo per la produttività e la definizione delle modalità di ripartizione dello stesso fondo tramite la contrattazione decentrata o per atto del datore di la-voro, assegnando i relativi obiettivi.

La sezione ha sottolineato la necessità che l’intero proce-dimento si concluda entro l’anno di riferimento, evitando che i relativi atti siano perfezionati ex post e oltre l’anno di riferi-mento (nei termini anche Sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, 24 maggio 2018, n. 30).

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l’applicazione del principio contabile 4/2 allegato al d.lgs. n. 118/2011, in relazione alla sottoscrizione di contratti collettivi decentrati integrativi ed alla succes-siva corresponsione del trattamento economico incen-tivante nei confronti dei dipendenti dell’ente.

Con la citata richiesta di parere, il sindaco del Co-mune di San Pietro di Morubio proponeva un’istanza formulata in questi termini “se è condivisibile da parte della Corte dei conti – Sezione di controllo del Vene-to, l’orientamento espresso dalla Corte dei conti – Sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, n. 29/2018, re-lativamente alla corresponsione delle risorse variabili destinate alla performance qualora il fondo venga co-stituito nel corso dell’esercizio ed il contratto sia sot-toscritto negli esercizi successivi”. (Omissis)

Diritto – (Omissis) VI. Nel merito, per rispondere al quesito posto del Comune di San Pietro di Morubio, appare preliminarmente necessario richiamare il prin-cipio di cui all’allegato 4/2 del d.lgs. n. 118/2011, il quale al punto 5.2 prevede, tra l’altro, che “Le spese relative al trattamento accessorio e premiante, liqui-date nell’esercizio successivo a quello cui si riferisco-no, sono stanziate e impegnate in tale esercizio. Alla sottoscrizione della contrattazione integrativa si im-pegnano le obbligazioni relative al trattamento stesso accessorio e premiante, imputandole contabilmente agli esercizi del bilancio di previsione in cui tali ob-bligazioni scadono o diventano esigibili. Alla fine dell’esercizio, nelle more della sottoscrizione della contrattazione integrativa, sulla base della formale delibera di costituzione del fondo, vista la certifica-zione dei revisori, le risorse destinate al finanziamen-to del fondo risultano definitivamente vincolate. Non potendo assumere l’impegno, le correlate economie di spesa confluiscono nella quota vincolata del risultato di amministrazione, immediatamente utilizzabili se-condo la disciplina generale, anche nel corso dell’esercizio provvisorio. Considerato che il fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività presenta natura di spesa vincolata, le risorse destinate alla copertura di tale stanziamento acquistano la natura di entrate vincolate al finanzia-mento del fondo, con riferimento all’esercizio cui la costituzione del fondo si riferisce; pertanto, la spesa riguardante il fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività è interamente stanziata nell’esercizio cui la costituzione del fondo stesso si riferisce, destinando la quota riguardante la premialità e il trattamento accessorio da liquidare nell’esercizio successivo alla costituzione del fondo pluriennale vincolato, a copertura degli impegni de-stinati ad essere imputati all’esercizio successivo”.

La norma prosegue statuendo che “Le verifiche dell’organo di revisione, propedeutiche alla certifica-zione prevista dall’art. 40, c. 3-sexies, d.lgs. n. 165/2001, sono effettuate con riferimento all’esercizio del bilancio di previsione cui la contrattazione si rife-risce. In caso di mancata costituzione del fondo nell’anno di riferimento, le economie di bilancio con-fluiscono nel risultato di amministrazione, vincolato

per la sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale. Identiche regole si applicano ai fondi per il personale dirigen-te”.

Si riporta, inoltre, l’art. 1, c. 114, l. n. 56/2014 re-cante “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni” (norma a cui fa riferimento il Comune di San Pietro di Morubio in merito alla quantificazione delle risorse variabili), la quale prevede che “In caso di trasferimento di per-sonale dal comune all’unione di comuni, le risorse già quantificate sulla base degli accordi decentrati e de-stinate nel precedente anno dal comune a finanziare istituti contrattuali collettivi ulteriori rispetto al trat-tamento economico fondamentale, confluiscono nelle corrispondenti risorse dell’unione”.

Dal principio sopra esposto si desume la regola generale secondo cui l’impegno delle spese correnti per la retribuzione del personale deve avvenire negli esercizi finanziari in cui le singole obbligazioni passi-ve risultino esigibili. Ne consegue che, in base a quan-to previsto nell’allegato 4/2 al punto 5.2 del d.lgs. n. 118/2011, l’imputazione deve essere così regolata:

- per la spesa di personale relativa a trattamenti fis-si e continuativi, nell’esercizio di riferimento, automa-ticamente all’inizio dell’esercizio;

- nell’esercizio in cui è firmato il contratto colletti-vo nazionale per le obbligazioni derivanti da rinnovi contrattuali del personale dipendente, compresi i rela-tivi oneri riflessi a carico dell’ente e quelli derivanti dagli eventuali effetti retroattivi del nuovo contratto;

- le spese relative al trattamento accessorio e pre-miante, liquidate nell’esercizio successivo a quello cui si riferiscono, sono stanziate e impegnate nell’esercizio a cui si riferiscono (principio della com-petenza finanziaria potenziata). Infatti, all’atto della sottoscrizione del contratto integrativo decentrato (o, comunque delle c.d. preintesa) vengono impegnate le spese per le obbligazioni relative al trattamento acces-sorio imputandole contabilmente agli esercizi del bi-lancio di previsione in cui tali obbligazioni si riferi-scono (o diventano esigibili tramite l’istituto giuscon-tabile denominato fondo pluriennale vincolato (Fpv).

In altri termini, la spesa riguardante il fondo per la produttività, pertanto, è interamente stanziata e impe-gnata nell’esercizio cui la costituzione del fondo stes-so si riferisce, destinando la quota riguardante la pre-mialità e il trattamento accessorio da liquidare nell’esercizio successivo, alla costituzione del fondo pluriennale vincolato (Fpv), a copertura degli impegni destinati ad essere imputati proprio all’esercizio suc-cessivo. Pertanto, la costituzione del fondo è condi-zione di attribuzione del vincolo alle risorse che si ri-versano nel risultato di amministrazione ed è finaliz-zato ad evitare che esse siano considerate economie di bilancio (Sez. contr. reg. Molise, n. 55/2018).

A tal proposito, con precedente delib. n. 263/2016, questa sezione si era già espressa nei seguenti termini: “ancor prima della sottoscrizione dell’accordo decen-trato, atto dal quale scaturisce il vincolo giuridico di

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prenotazione della posta al fondo pluriennale vincola-to (Fpv), assume rilievo la costituzione del fondo qua-le atto unilaterale da parte dell’amministrazione ed elemento essenziale per consentire la corretta imputa-zione, in base al richiamato principio contabile, delle risorse destinate alla parte stabile e, per quello che qui interessa, alla parte variabile dello stesso fondo”.

Tuttavia, se la costituzione del fondo si atteggia, come detto, quale presupposto per la costituzione del vincolo sul risultato di amministrazione, la sottoscri-zione del contratto decentrato è il presupposto neces-sario ed indispensabile per l’erogazione delle risorse, in quanto ne rappresenta il titolo giuridico legittiman-te.

Inoltre, appare opportuno sottolineare che la quota variabile del fondo, non può consolidarsi nel fondo stesso, in quanto contenente voci con carattere occa-sionale, soggette a variazioni annuali e che pertanto trovano esclusiva applicazione nell’anno in cui sono state discrezionalmente previste ed entro i limiti e le condizioni stabilite dalla normativa oltre che dai con-tratti collettivi di riferimento. Di contro, le risorse non ripartite sono da considerarsi economie del fondo co-stituenti risorse variabili, pertinenti l’esercizio succes-sivo (Sez. contr. reg. Molise, n. 55/2018).

A tal proposito, con recente delib. n. 7/2019, la Se-zione regionale di controllo per il Lazio, inoltre, ha ribadito che “Le risorse variabili sono determinate con valenza annuale e finanziate di anno in anno dall’ente sulla base di una valutazione delle proprie capacità di bilancio e sono destinate a finanziare il salario accessorio per la componente avente carattere di premialità e finalità incentivanti (sul punto utili elementi possono essere desunti dalla lettura di Aran – orientamenti applicativi delle regioni-autonomie lo-cali n. 482). Proprio in ragione di ciò, la programma-zione dell’ente e il relativo bilancio devono contenere, rispettivamente, gli indirizzi fondamentali per la con-trattazione integrativa e per l’attribuzione dei com-pensi incentivanti sulla base della valutazione delle performance, nonché le risorse finanziarie previste per lo scopo nei limiti di legge e di contratto. Inoltre, la costituzione del “Fondo” deve avvenire tempesti-vamente all’inizio dell’esercizio per stabilire conte-stualmente le regole per la corresponsione del tratta-mento accessorio legato alla produttività individuale e collettiva sulla base di verificati incrementi di effi-cienza”.

Ne consegue che tali risorse, oltre a non poter esse-re utilizzate per scopi diversi da quelli prestabiliti, non possono essere “trasportate” nell’esercizio successivo in caso di mancato utilizzo nell’anno di riferimento.

Giova comunque ricordare che l’art. 40, c. 3-ter, d.lgs. n. 165/2001, come modificato e integrato dall’art. 11, c. 1, lett. c), d.lgs. n. 75/2017, prevede che, ad avvenuta costituzione del Fondo e avviate le trattative sindacali “nel caso in cui non si raggiunga l’accordo per la stipulazione di un contratto collettivo integrativo, qualora il protrarsi delle trattative deter-mini un pregiudizio alla funzionalità dell’azione am-

ministrativa, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede fra le parti, l’amministrazione interessata può provvedere, in via provvisoria, sulle materie og-getto del mancato accordo fino alla successiva sotto-scrizione e prosegue le trattative al fine di pervenire in tempi celeri alla conclusione dell’accordo. Agli atti adottati unilateralmente si applicano le procedure di controllo di compatibilità economico-finanziaria pre-viste dall’art. 40-bis. I contratti collettivi nazionali possono individuare un termine minimo di durata del-le sessioni negoziali in sede decentrata, decorso il quale l’amministrazione interessata può in ogni caso provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo” (in questo senso vedasi anche Sez. contr. reg. Molise, n. 55/2018). È naturale conse-guenza di questa norma di recente produzione che le amministrazioni locali debbano costituire il fondo tempestivamente all’inizio dell’esercizio e avviare immediatamente il tavolo negoziale per la sottoscri-zione dell’accordo stabilendo, sin dalla prima riunio-ne, un congruo termine entro cui sottoscrivere il con-tratto (o la preintesa). Dopodiché l’amministrazione deve procedere, necessariamente, con l’atto unilatera-le, a tutela dell’organizzazione e nel rispetto dei prin-cipi aziendalistici, giuslavoristici e contabili.

Ritornando alle modalità di imputazione stabilite dalla normativa sull’armonizzazione contabile (d.lgs. n. 118/2011) il principio 4/2 al punto 5.2 prevede, inoltre, una serie di fattispecie distinte, dalle quali si desume esplicitamente che l’atto costitutivo finalizza-to ad attribuire il vincolo contabile alle risorse è il provvedimento formale di costituzione del fondo, mentre, l’accordo decentrato costituisce, come detto, “l’atto dal quale scaturisce il vincolo giuridico di prenotazione della posta al Fondo pluriennale vinco-lato” (questa sezione, n. 263/2016).

Nella fattispecie rappresentata, il Comune di San Pietro in Morubio afferma di aver provveduto a costi-tuire il fondo per gli anni 2016, 2017, 2018 e di aver, tuttavia, provveduto ad una revisione straordinaria dei fondi 2016 e 2017 eliminando le risorse variabili cor-relate all’art. 1, c. 114, l. n. 56/2014.

Questa sezione, per le ragioni di cui in premessa, non può sostituirsi all’amministrazione cui spettano scelte e decisioni discrezionali, tuttavia, non può esi-mersi dal rilevare che l’amministrazione stessa ha provveduto nel corso del 2017 ad una revisione straordinaria dei fondi, scegliendo di non confermare le risorse variabili correlate all’art. 1, c. 114, l. n. 56/2014, aggiungendo tuttavia che “le risorse variabi-li relative all’anno 2016 oggetto del quesito sono con-fluite nella quota vincolata del risultato di ammini-strazione in applicazione del principio contabile 4/2 allegato al d.lgs. n. 118/2011. Successivamente sono rimaste vincolate anche nel risultato di amministra-zione relativo all’esercizio 2017 proprio in virtù della predetta deliberazione della Corte dei conti per il Friuli”.

Giova osservare come sul punto, la giurisprudenza contabile si sia espressa in diverse occasioni eviden-

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ziando che la gestione delle risorse destinate alla con-trattazione decentrata si sviluppa, necessariamente, attraverso tre fasi obbligatorie e sequenziali: l’individuazione delle risorse a bilancio, la costituzio-ne del fondo per la produttività e l’individuazione del-le modalità di ripartizione dello stesso fondo mediante l’istituto della contrattazione decentrata (o l’adozione dell’atto unilaterale da parte del datore di lavoro), che costituisce, come detto, titolo idoneo al perfeziona-mento dell’obbligazione (ex plurimis Sez. contr. reg. Puglia, n. 27/2018; Sez. contr. reg. Molise, n. 15/2018 e n. 218/2015), e che solamente nel momento in cui si completa il predetto iter, l’amministrazione può impe-gnarsi ad erogare in base al principio della competen-za potenziata (c.d. esigibilità).

Nella fattispecie riferita dal Comune di San Pietro di Morubio, pare di comprendere che il fondo sia stato costituito entro l’esercizio in essere, ma che il contrat-to non sia stato sottoscritto (e nemmeno l’atto unilate-rale, strumento obbligatorio e non più facoltativo).

In questo caso rimane, quindi, confermato il prin-cipio secondo il quale “Non potendo assumere l’impegno, le correlate economie di spesa confluisco-no nella quota vincolata del risultato di amministra-zione, immediatamente utilizzabili secondo la disci-plina generale, anche nel corso dell’esercizio provvi-sorio”.

La stessa Sezione di controllo per il Friuli-Venezia Giulia con delib. n. 29/2018 ha evidenziato, confor-memente alla giurisprudenza contabile della Corte dei conti, che “questa sezione ha finora sempre ritenuto indispensabile che l’intero procedimento si fosse per-fezionato secondo la fisiologica conseguenzialità degli atti ed entro l’anno di riferimento, dovendosi ritenere illegittima ogni attività svolta in sanatoria, oltre l’anno e in contrasto con il principio della necessità della preventiva assegnazione degli obiettivi e della verifica dell’avvenuto raggiungimento degli stessi. Nel motivato avviso espresso con la delib. n. 51/2016, questa sezione ha infatti confermato il suo ampio sfa-vore verso l’utilizzo delle risorse dei progetti per la performance in difetto di una preventiva assegnazione degli obiettivi, richiamando a questo proposito le de-liberazioni delle Sezioni regionali di controllo per la Lombardia, n. 287/2011, per il Veneto, n. 161/2013, nonché i pareri resi dalla Sezione regionale di con-trollo per il Molise, n. 218/2015 e ancora dalla Sezio-ne regionale di controllo per il Veneto n. 263/2016”.

Del resto, viene costantemente stigmatizzata dalla giurisprudenza contabile (e da questa sezione in parti-colare), la c.d. “contrattazione tardiva” considerata ta-le già quella che interviene alla fine dell’esercizio di riferimento, sussistendo forti dubbi sulla liceità di una ripartizione della parte variabile di retribuzione in as-senza di criteri predeterminati e senza alcuna conse-guente possibilità di controllo (praticamente “a sana-toria”).

Invero, una tardiva contrattazione integrativa sva-luterebbe, nella sostanza, le finalità sottese all’istituto stesso, rischiando di compromettere il raggiungimento

dei risultati attesi, nella misura in cui rappresenta il presupposto per il perseguimento ed il raggiungimento degli obiettivi prestabiliti. Senza entrare nel merito delle indennità fisse e ripetibili che verrebbero erogate sine titulo.

Tutt’al più, in presenza dei requisiti ivi previsti, l’amministrazione dovrebbe, senza alcun esito, prov-vedere unilateralmente, seppur magari solo in via provvisoria, all’adozione dell’atto unilaterale ai sensi dell’art. 40, c. 3-ter, d.lgs. n. 165/2001.

Questa sezione, pertanto, confermando il proprio orientamento, ritiene che il principio contabile di rife-rimento debba essere interpretato nel senso che il con-tratto decentrato vada tempestivamente sottoscritto.

Per completezza espositiva, giova comunque evi-denziare che le risorse del Fondo “trasportate”, ancor-ché di parte stabile, debbano essere qualificate, nel Fondo degli anni successivi, come risorse a carattere strettamente variabile, con espresso divieto, quindi, di utilizzarle per finanziare impieghi fissi e continuativi (cfr. parere Mef del 24 gennaio 2013), in questo senso anche la Sez. contr. reg. Molise, n. 15/2018) e che, in ogni caso, le risorse variabili non utilizzate nell’anno di competenza, secondo la più costante giurisprudenza contabile, oltre che secondo gli orientamenti Aran, non possono stabilizzarsi e pertanto andranno a costi-tuire economie di bilancio, tornando nella disponibili-tà dell’ente, e perdendo così definitivamente la possi-bilità di utilizzazione per lo scopo.

Solo nel caso in cui l’assegnazione degli obiettivi sia avvenuta entro l’anno, sarebbe tutt’al più possibile prevedere la corresponsione del trattamento accessorio in assenza di Ccid, sempre che non sia stato demanda-to ad esso la determinazione dei criteri di ripartizione delle risorse, dei criteri generali relativi al sistema di incentivazione e degli altri criteri di sistema relativi alle prestazioni lavorative.

In questo senso, la stessa delib. n. 29/2018, cit., tuttavia, concludeva che “una risposta positiva al que-sito […] possa essere formulata solo ed esclusivamen-te qualora il contratto integrativo avesse un contenuto meramente e del tutto ricognitivo di decisioni e scelte già operate in sede amministrativa, in presenza dei presupposti su cui si fonda l’interpretazione (della se-conda parte) del principio contabile qui esaminato ivi compresa l’allocazione vincolata delle risorse de qui-bus nel risultato di amministrazione, al cui regime es-se rimarrebbero assoggettate anche ai fini di finanza pubblica”, ove veniva nondimeno evidenziato che “quanto ora precisato non costituisce esplicazione di un principio contabile, ma piuttosto applicazione del-la disciplina della contrattazione integrativa decen-trata secondo le logiche di una sana gestione finan-ziaria”.

Detta delibera invero non ha mancato di sottolinea-re che “è evidente che la soluzione testé ipotizzata è strettamente dipendente dal significato e dall’effettivo oggetto del contratto integrativo decentrato, che po-trebbe anche avere contenuti diversi presso i vari enti. In altri termini, siffatta soluzione sarebbe praticabile

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solo qualora alla contrattazione integrativa decentra-ta non fosse rimessa la determinazione di quei pre-supposti essenziali alla cui esistenza è subordinato il trattamento economico di cui in questa sede si discu-te”.

Ne consegue, dunque, che un controllo sulla natura ricognitiva del contratto integrativo può essere effet-tuato solo a posteriori. Tale argomentazione non ridu-ce la valenza di quanto espresso in merito alla necessi-tà che l’iter amministrativo e contrattuale si perfezioni nella prima parte dell’esercizio e, comunque entro l’anno di riferimento, con la stipula del Ccid, al fine di soddisfare la primaria esigenza di garantire, sia l’effettività della programmazione dell’ente a cui è connessa di regola l’annualità delle risorse a disposi-zione, che l’utile perseguimento dei suoi obiettivi oltre che il rispetto dei principi contabili che regolano la materia.

In conclusione, questa sezione non rileva motivi per discostarsi dalla pronuncia n. 263/2016, la quale, del resto, non appare in contrasto con la pronuncia della Sezione Friuli-Venezia Giulia, n. 29/2018 né con le pronunce di altre sezioni concernenti analoghe que-stioni.

* * *

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GIURISDIZIONE

Sezioni riunite in sede giurisdizionale

(in speciale composizione)

22 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in specia-le composizione); sentenza 25 luglio 2019; Pres. Ore-fice, Est. D’Evoli, P.M. D’Angelo; C.T. e altro c. Proc. gen. Corte conti e altri. Annulla Corte conti, Sez. contr. reg. Molise, 5 maggio 2014, n. 64.

Giurisdizione e competenza – Ricorso avverso una delibera della sezione regionale di controllo della Corte dei conti – Sentenza Tar – Difetto di giuri-sdizione – Riassunzione del processo innanzi alla Corte dei conti – Termine. C.g.c., art. 17; c.p.a., artt. 87, 105.

Corte dei conti – Delibera della sezione regionale di controllo della Corte dei conti – Impugnazione in-nanzi alle Sezioni riunite in speciale composizione – Termine. D.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modifica-zioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, disposizioni ur-genti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore del-le zone terremotate nel maggio 2012. Proroga di ter-mine per l’esercizio di delega legislativa, art. 1, c. 12; d.l. 24 giugno 2014, n. 91, convertito con modifica-zioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 116, disposizioni ur-genti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea, art. 33, c. 2.

Corte dei conti – Gruppi politici dei consigli regio-nali – Rendiconti – Controllo di regolarità – Spese sostenute nei mesi di dicembre 2012 e gennaio-febbraio 2013. D.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modifica-zioni dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213, art. 1, cc. 9, 10, 11, 12.

Nel caso di sentenza che dichiara l’incompetenza del giudice adito, il processo deve essere riassunto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che decli-na la giurisdizione, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza.

Il termine decadenziale di trenta giorni per impu-gnare le delibere delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti sui rendiconti dei consigli regio-nali, introdotto con il d.l. n. 91/2014, deve trovare ap-plicazione anche per i ricorsi avverso delibere delle sezioni di controllo già comunicate agli interessati al-la data di entrata in vigore delle nuove norme (in mo-tivazione si precisa che in tali casi, il dies a quo non può che decorrere dalla data di entrata in vigore della norma sopravvenuta, piuttosto che dall’avvenuta co-noscenza legale della deliberazione di controllo rite-nuta lesiva).

La sezione di controllo della Corte dei conti non ha alcun potere di controllo sulla regolarità (ai sensi dell’art. 1, c. 10, d.l. n. 174/2012) dei rendiconti dei gruppi politici dei consigli regionali, rispetto a spese liquidate nel 2013 ma assunte nel 2012, perché tali spese si riferiscono a un esercizio (2012) per il quale ancora non era in vigore il sistema dei controlli intro-dotto con il d.l. n. 174 e successivamente disciplinato dal d.p.c.m. 21 dicembre 2012 (in motivazione, si pre-cisa che ciò vale anche, come nel caso di specie, qua-lora il rendiconto all’esame, sebbene abbia ad ogget-to spese decise e sostenute prima dell’entrata in vigo-re delle linee guida, sia stato redatto e trasmesso al presidente del consiglio regionale allorché il d.p.c.m. era già entrato in vigore).

Diritto – 1. Queste Sezioni riunite in speciale composizione sono chiamate a giudicare in ordine al ricorso in riassunzione proposto avverso la delib. n. 64/2014, comunicata il 5 maggio 2014, della Sezione regionale di controllo per il Molise, con la quale è sta-to dichiarato non regolare il rendiconto del Gruppo consiliare “Di Pietro-Italia dei Valori”.

2. In via pregiudiziale occorre verificare la tempe-stività della riassunzione del ricorso ai sensi dell’art. 17 c.g.c., che prevede che “Quando la giurisdizione è declinata dal giudice contabile in favore di altro giudi-ce, o viceversa, ferme restando le preclusioni e le de-cadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti proces-suali e sostanziali della domanda, se il processo è rias-sunto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza”.

Nella specie, come dimostrato dalla difesa in espletamento all’istruttoria disposta all’udienza dell’8 maggio 2019, il ricorso in epigrafe è stato proposto tempestivamente. La sentenza del Tar Molise n. 615/2018, con la quale il giudice amministrativo ha declinato la propria giurisdizione in favore delle Se-zioni riunite in speciale composizione della Corte dei conti, è stata pubblicata, infatti, in data 17 ottobre 2018, sicché, ai sensi del combinato disposto degli artt. 105 e 87 c.p.a., la sentenza è passata in giudicato il 17 gennaio 2019, non avendo l’Avvocatura distret-tuale dello Stato provveduto a notificare la stessa per far decorrere il termine breve di impugnazione e non essendo stato inoltre proposto alcun appello alla sen-tenza medesima. Da tale data (17 gennaio 2019) ini-ziava, pertanto, a decorrere il termine perentorio di tre mesi previsto dall’art. 17 del c.g.c. per la riassunzione del processo; termine rispettato poiché l’atto di rias-sunzione è stato notificato alle controparti il 26 marzo 2019.

3. Sempre in via pregiudiziale deve essere dichia-rata la tempestività della proposizione del ricorso av-verso la delibera impugnata.

È stato già chiarito dalle Sezioni riunite in speciale composizione che il termine decadenziale di trenta giorni per impugnare le delibere delle sezioni regiona-

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li di controllo della Corte dei conti sui rendiconti dei consigli regionali, termine introdotto con il d.l. n. 91/2014, deve trovare applicazione per tutti i ricorsi incardinati successivamente alla sua entrata in vigore. Tuttavia, proprio l’assenza di una disciplina transitoria conferma la volontà del legislatore di assoggettare allo stesso termine, come nel caso all’esame. “In tali casi, il dies a quo non può che decorrere dalla data di entra-ta in vigore della norma sopravvenuta, piuttosto che dall’avvenuta conoscenza legale della deliberazione di controllo ritenuta lesiva” (Sez. riun. nn. 29 e 61/2014).

Nella specie, la delibera impugnata è stata trasmes-sa al ricorrente in data 5 maggio 2014, quindi prima dell’entrata in vigore dell’art. 33, c. 2, d.l. 24 giugno 2014, n. 91, che ha modificato l’art. 1, c. 12, d.l. n. 174/2012; il ricorso è stato proposto innanzi al Tar Molise in data 4 luglio 2014 e cioè nel termine di 30 giorni previsto dall’art. 1, c. 12, d.l. n. 174/2012 a de-correre dall’entrata in vigore del d.l. n. 91/2014.

4. Ancora in via preliminare deve essere dichiarata la carenza di legittimazione attiva del sig. C.P.

L’art. 1, c. 11, d.l. n. 174/2012 stabilisce che, ove il gruppo non provveda alla regolarizzazione del ren-diconto, decade, per l’anno in corso, dall’erogazione di risorse da parte del consiglio regionale. La deca-denza comporta l’obbligo di restituzione delle somme ricevute a carico del bilancio e non correttamente ren-dicontate. Sicché l’obbligo di restituzione delle som-me non correttamente impiegate può avvenire decur-tando le risorse allo stesso assegnate. Ove ciò non sia possibile, l’obbligo di restituzione grava esclusiva-mente sul presidente del gruppo consiliare che ha agi-to nell’interesse e per conto del gruppo, firmando an-che il rendiconto. Su tale profilo è stato chiarito che i gruppi consiliari, sul piano civilistico, possano quali-ficarsi come associazioni non riconosciute, cioè prive di personalità giuridica, ancorché esercenti una pub-blica funzione; sicché, proprio in ragione dell’art. 38 c.c., è chiamato a rispondere delle obbligazioni delle associazioni non riconosciute, colui che agisce in no-me e per conto dell’ente, quindi il presidente del gruppo.

Occorre, peraltro, precisare che l’obbligo di proce-dere alla restituzione assume una connotazione estra-nea alla logica della responsabilità amministrativa.

Come chiarito, infatti, “i due ambiti di cognizione che il legislatore – tramite diverse e separate discipli-ne positive – affida rispettivamente alla competenza della sezione regionale di controllo e della sezione re-gionale giurisdizionale vanno tenuti nettamente distin-ti. [...] Alla stregua di siffatte considerazioni va dun-que ribadito che altro è il controllo di regolarità sui rendiconti dei gruppi consiliari ex art. 1 d.l. n. 174/2012, che ha natura di accertamento di regolarità e di conformità meramente documentale (Corte cost. n. 39/2012) e attiene all’atto-rendiconto (tale verifica coinvolge il capogruppo per i motivi innanzi eviden-ziati). Altra cosa è, invece, la valutazione, in termini di liceità, della condotta delle singole persone fisiche costituenti il gruppo sotto il profilo della sua potenzia-

lità lesiva dell’erario regionale, la quale potrà essere esercitata in materia di giurisdizione di responsabilità” (Sez. riun., spec. comp., n. 61/2014).

Nella specie, l’obbligo di restituzione spetta al ca-pogruppo sig. C.T., mentre nessun interesse ad agire è configurabile nei confronti del sig. C.P., rispetto al quale deve essere dichiarato il difetto di legittimazione attiva.

5. Nel merito, il ricorso deve essere accolto sotto il profilo della carenza del potere da parte della Sezione di controllo per la regione Molise sul rendiconto del Gruppo consiliare “Di Pietro-Italia dei Valori” (X le-gislatura), in quanto relativo a spese sostenute nei me-si di dicembre 2012 e gennaio e febbraio 2013.

5.1. Occorre, innanzitutto, osservare che la fatti-specie all’esame – prescindendo comunque da ogni considerazione che il rendiconto copre spese sostenute e liquidate anche nell’esercizio 2012 – presenta aspetti di peculiarità dati dalla circostanza che le spese soste-nute dal gruppo consiliare nei mesi di gennaio e feb-braio 2013 si riferiscono ad una legislatura (X), che cessò per effetto dell’annullamento delle consultazioni elettorali con cui il ricorrente era stato eletto consi-gliere regionale (Tar Molise, n. 224/2012, decisione confermata dal Consilio di Stato con pronuncia n. 5504/2012) e, conseguentemente, per effetto dello svolgimento, in data 25 e 26 febbraio 2013, in Molise, della nuova tornata elettorale, che determinò, oltreché la cessazione della X legislatura, cui il rendiconto si riferisce, anche quella del gruppo consiliare in esame.

Si tratta di una circostanza che non può non rileva-re nella fattispecie all’esame, giacché le linee guida richiamate dall’art. 1, c. 9, d.l. n. 174/2012, previste dal d.p.c.m. 21 dicembre 2012, sono entrate in vigore solo a decorrere dal 17 febbraio 2013. Con la conse-guenza che non è possibile – ad avviso del collegio – svolgere il controllo di cui al c. 10 del d.l. n. 174/2012 per spese anteriori all’entrata in vigore delle linee gui-da.

Il collegio non ignora che sull’art. 1, cc. 9, 10, 11, e 12, d.l. n. 174/2012 la Corte dei conti è più volte in-tervenuta con pronunce di orientamento in sede di controllo, dapprima ritenendo di immediata applica-zione le disposizioni del d.l. n. 174/2012 anche con riferimento ai rendiconti 2012, senza la possibilità comunque di applicare retroattivamente i criteri indi-viduati nelle prescrizioni del d.p.c.m. 21 dicembre 2012 (Sez. autonomie, n. 12/2013), e successivamente affermando, da un lato, il principio d’irretroattività delle disposizioni contenute nel d.l. n. 174/2012, e dall’altro, per l’anno 2012, una “applicazione del d.l. n. 174/2012, a soli fini ‘ricognitivi’ della regolarità dei documenti contabili” in un “percorso finalizzato all’applicazione integrale dei nuovi controlli a decor-rere dal 2013” (Sez. autonomie, n. 15/2013).

Le difficoltà interpretative sull’operatività del con-trollo introdotto con il d.l. n. 174/2012 sono state poi risolte dalla Corte costituzionale nella sent. n. 130/2014, emessa in un giudizio per conflitto di attri-buzione, ove è stato definitivamente chiarito che “i cc.

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9, 10, 11 e 12 dell’art. 1 detterebbero, infatti, una di-sciplina del controllo sui rendiconti dei gruppi consi-liari completa, non frazionabile e comunque esercita-bile solo secondo i criteri previsti nelle linee guida de-liberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e recepite con il d.p.c.m. 21 dicembre 2012, adottato solo il 21 dicembre 2012 ed entrato in vigore il 17 febbraio dell’anno seguente”.

Sempre secondo la Consulta, dunque, “il dettato normativo configura il controllo in esame (e cioè il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari previsto dall’art. 1, c. 10, d.l. n. 174/2012) come condizionato alla previa individuazione dei criteri per il suo eserci-zio e ciò sull’evidente presupposto della loro indi-spensabilità”.

A tale conclusione la Consulta giunge dopo una di-samina del c. 9, ove il legislatore sancisce che il ren-diconto di esercizio annuale deve essere strutturato secondo le linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e recepite con d.p.c.m., per assicurare la corretta rilevazione dei fatti di gestione e la regolare tenuta della contabilità. Ma anche attraverso la disamina del c. 11 dell’art. 1, ove il legislatore ha stabilito che il controllo deve avvenire impiegando come parametro di valutazione “le pre-scrizioni stabilite a norma del presente articolo”, tra cui appunto le linee guida. Sicché non è possibile svolgere il controllo di cui al c. 10 dell’art. 1 del d.l. n. 174/2012, se non per le spese sostenute dopo l’entrata in vigore delle linee guida.

Si tratta di un principio, quello dell’irretroattività dei controlli introdotti dal d.l. n. 174/2012, ribadito più volte da queste Sezioni riunite in speciale compo-sizione (sent. nn. 25 e 29/2014), che hanno al riguardo affermato che il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali di cui al d.l. n. 174/2012 decorre solo dall’anno 2013.

5.2. Nella specie, i principi sopra esposti inducono a ritenere che la Sezione di controllo per la regione Molise non avesse alcun potere di controllo ai sensi dell’art. 1, c. 10, d.l. n. 174/2012 sul rendiconto del Gruppo consiliare “Di Pietro-Italia dei Valori” (X le-gislatura), in quanto relativo a spese sostenute nei me-si di dicembre 2012 e gennaio e febbraio 2013, e cioè sostenute prima dell’entrata in vigore delle linee guida di cui all’art. 1, c. 9, d.l. n. 174/2012.

5.3. La fattispecie all’esame merita un’ulteriore os-servazione dal momento che presenta peculiarità che la differenziano dalle altre decise sinora dalle Sezioni riunite poiché il rendiconto all’esame, sebbene abbia ad oggetto spese decise e sostenute prima dell’entrata in vigore delle linee guida, è stato redatto e trasmesso al presidente del consiglio regionale allorché il d.p.c.m. era già entrato in vigore.

Tale circostanza, però, a parere di queste Sezioni riunite, è assolutamente priva di rilievo.

Si deve considerare, infatti, che le citate linee gui-da non delineano solo il modello da impiegare per la

stesura del rendiconto (all. B), ma indicano, altresì, nell’all. A, le specifiche tipologie di spesa che posso-no essere sostenute con i contributi erogati dal consi-glio regionale, oltre ai criteri di veridicità e correttezza cui deve essere improntato ciascun costo da rendicon-tare.

Anche per tali ragioni deve escludersi che possa espletarsi il controllo introdotto con il d.l. n. 174/2012 su spese che, sebbene rendicontate in epoca successi-va all’entrata in vigore del già citato d.p.c.m., sono state comunque assunte in epoca antecedente all’adozione delle linee guida, non potendosi applicare retroattivamente le nuove regole su spese effettuate secondo moduli vigenti precedentemente all’entrata in vigore del d.p.c.m. più volte citato.

Il principio qui evidenziato è stato peraltro già so-stenuto nella sent. n. 29/2015, sebbene in fattispecie differente, ove le Sezioni riunite in speciale composi-zione hanno affermato che il fatto di gestione coincide con l’attuazione della scelta sicché deve ritenersi “che la sezione regionale di controllo rispetto a spese liqui-date nel 2013, ma assunte nel 2012, non può esercitare il controllo sull’inerenza delle spese stesse alle finalità istituzionali dei gruppi consiliari, perché si riferiscono a un esercizio (2012) per il quale ancora non era in vi-gore il sistema dei controlli introdotto con il d.l. n. 174 e successivamente disciplinato dal d.p.c.m. 21 dicem-bre 2012” (sent. n. 29/2014).

Tale decisione esplica un principio generale, per-fettamente utilizzabile nella fattispecie all’esame, e cioè che il controllo di cui all’art. 1, c. 10, d.l. n. 174/2012 è operativo solo se al momento della gestio-ne dei fondi regionali da parte dei gruppi consiliari, e quindi al momento dell’attuazione della spesa, le linee guida fossero state già state emanate.

6. Alla luce di tutto quanto sin qui evidenziato, la Sezione regionale di controllo della Regione Molise non poteva svolgere il controllo di cui all’art. 1, c. 10, d.l. n. 174/2012 sul rendiconto del Gruppo consiliare “Di Pietro-Italia dei Valori” (anno 2013), poiché rela-tivo a spese sostenute in data antecedente all’entrata in vigore delle linee guida di cui all’art. 1, c. 9, d.l. n. 174/2012. Queste Sezioni riunite in sede giurisdizio-nale, in speciale composizione, pertanto, accolgono il ricorso e, per l’effetto, annullano la deliberazione im-pugnata.

La natura del presente giudizio e l’assenza di una controparte sostanziale nonché la presenza del pubbli-co ministero in funzione processualmente formale concludente nell’interesse della legge, costituiscono giusti morivi per disporre la compensazione delle spe-se del giudizio.

P.q.m., la Corte dei conti, a Sezioni riunite in sede giurisdizionale in speciale composizione, dichiara il difetto di legittimazione attiva del ricorrente C.P. ac-coglie il ricorso e, per gli effetti, annulla la delibera-zione impugnata.

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23 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in specia-le composizione); sentenza 29 luglio 2019; Pres. Pi-schedda, Est. Sucameli, P.M. Priguori; Comune di Omissis.

Contabilità regionale e degli enti locali – Bilancio – Sezione regionale di controllo della Corte dei conti – Verifica della correttezza del risultato di ammini-strazione – Economie da rinegoziazione dei mutui. Cost., art. 119, c. 6; d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, di-sposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli artt. 1 e 2 l. 5 maggio 2009, n. 42, allegato 10; l. 24 dicembre 2012, n. 243, disposizioni per l’attuazione del princi-pio del pareggio di bilancio ai sensi dell’art. 81, c. 6, Cost., art. 10; d.l. 19 giugno 2015, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 125, di-sposizioni urgenti in materia di enti territoriali, art. 7, c. 2.

Le economie da rinegoziazione dei mutui generano risorse in conto capitale a destinazione generica, svincolate da una spesa “determinata”; possono esse-re pertanto destinate al rimborso anticipato del debito (costituendo la riduzione dell’indebitamento una utili-tà durevole a beneficio delle generazioni future), ov-vero a nuova e diversa spesa di investimento o co-munque in conto capitale.

Diritto – (Omissis) 2. Nel merito, si deve prelimi-narmente ricordare che l’odierno giudizio non è un giudizio di impugnazione: esso, infatti, si svolge in unico grado ed attiene alla verifica della conformità a fatto e diritto della situazione di bilancio accertata dal-la sezione regionale di controllo, inteso come “ciclo di bilancio”, tant’è che è possibile tenere conto, in un vi-sione dinamica, di fatti di gestione sopravvenuti e di ius superveniens posteriori alla valutazione della se-zione di controllo (cfr. Sez. riun., spec. comp., n. 58/2015/El, nn. 1, 3 e 17/2017/El). Di conseguenza esso è delimitato esclusivamente dal tema costituito dai profili di illegittimità-irregolarità del bilancio me-desimo evidenziati dagli accertamenti e delle correlate allegazioni contenute nella istanza di parte (artt. 11, c. 6, lett. e, 172, lett. d, 173 c.g.c., che stabiliscono la ce-lebrazione di un giudizio, nelle forme giurisdizionali, in “unico grado”, con “giurisdizione piena ed esclusi-va” cfr. Sez. riun., nn. 3 e 11/2014/El, n. 25/2016/El). Le allegazioni di parte determinano un novum iudi-cium su tutto o parte dell’accertamento compiuto dalla sezione regionale di controllo per il quale non sussi-stono i limiti devolutivi dell’appello (cfr. Sez. riun., n. 2/2013/El, n. 3/2014/El e n. 1/2017/El); per tale ragio-ne l’istanza di parte e le correlate allegazioni possono dare impulso all’attività istruttoria autonoma di queste Sezioni riunite (artt. 176 e 96 c.g.c.; cfr. Sez. riun., n. 3/2018/El).

Occorre inoltre ricordare che l’accertamento di il-legittimità-irregolarità della sezione non riguarda un atto, ma lo stato del bilancio (recte dei suoi equilibri)

ad una determinata data e poiché il bilancio è un ciclo, che si articola nella continuità delle scritture, dei ren-diconti e dei loro effetti sulla programmazione, si può affermare che nel processo innanzi a queste Sezioni riunite, così come nel procedimento di controllo di le-gittimità-regolarità delle sezioni regionali, oggetto del giudizio è sempre il “bene pubblico” bilancio (cfr. Corte cost. n. 184/2016, nn. 228 e 274/2017, nonché Cons. Stato, Sez. IV, nn. 2200 e 2201/2018) e la sua conformità al diritto ed in particolare alla clausola ge-nerale di equilibrio (cfr. Corte cost., n. 192/2012).

Detto in altri termini, poiché le Sezioni riunite in speciale composizione decidono in un “unico grado” (art. 11, c. 6, c.g.c.) e con giurisdizione per materia (art. 103, c. 2, Cost.), sulle deliberazioni delle sezioni regionali di controllo, l’accertamento di illegittimità-irregolarità che esse svolgono sul bilancio degli enti territoriali – secondo il paradigma dell’art. 100, c. 2, Cost., prima parte, nell’ambito degli strumenti a pre-sidio dell’effettività del diritto del bilancio previsti dall’art. 20 l. n. 243/2012 (attuativo della l. cost. n. 1/2012) – viene introiettato e revisionato nelle forme del processo, attraverso gli interessi dei soggetti che fanno ricorso.

Pertanto, la giurisdizione di questo giudice è una giurisdizione essenzialmente di diritto oggettivo (cfr. Sez. riun., n. 5/2013/El e n. 14/2014/El), che si attiva per effetto “di parti” il cui interesse è intercettato dall’accertamento compiuto dalle sezioni regionali, anche se rimane, quanto ad oggetto, focalizzato sulla conformità a diritto della concreta gestione del bilan-cio. Tale giurisdizione può essere attivata, mediante “l’istanza di parte”, quando l’accertamento compiuto sul diritto (e sul fatto) di bilancio è in grado di ledere interessi concreti e soggettivizzati, giuridicamente ri-levanti, secondo il paradigma della giurisdizione “esclusiva” (cfr. in questo senso expressis verbis l’art. 243-quater, c. 5, Tuel).

Tale giurisdizione per materia, è, quanto a causa petendi, estesa ad ogni situazione soggettiva meritevo-le di tutela secondo l’ordinamento giuridico (cfr. Sez. riun., n. 17/2019/El), collegata alla corretta determi-nazione delle poste e dei saldi di bilancio sulla base dei fatti di gestione. Per quanto invece attiene al peti-tum, la giurisdizione verte su una richiesta di corretta determinazione dei saldi medesimi e dei conseguenti effetti di legge, come emerge dalla richiesta subordi-nata del ricorrente di riqualificare una parte dei “fondi vincolati” in “fondi accantonati”. Per la stessa ragione, i motivi addotti dal ricorrente, se per un verso attivano il sindacato giudiziale, non lo delimitano, atteso il do-vere ed il potere del giudice di qualificare gli stessi fatti di gestione, secondo diritto, per il principio iura novit curia.

2.1. Tanto precisato, il thema decidendum dell’odierno giudizio è costituito dalla verifica della correttezza del risultato di amministrazione in relazio-ne al fatto di gestione “economie da rinegoziazione”. Segnatamente, la Sez. contr. reg. Toscana, n. 80/2019 ha quantificato in aumento il disavanzo degli esercizi

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2015 e 2016, giudicando illegittimo l’abbattimento dei vincoli accesi per economie da rinegoziazione a causa dell’estinzione anticipata dei mutui che tali economie hanno generato.

Il ricorso quindi intende ottenere, mediante la ri-forma dell’accertamento compiuto dalla Sezione To-scana: a) la conferma delle quantificazioni dei vincoli per economie da rinegoziazione e segnatamente nella parte in cui il comune computa in diminuzione l’importo delle quote di mutuo-Boc rinegoziato ed estinto; b) in via subordinata, l’accertamento della ri-conducibilità degli stessi importi nell’ambito delle quote “accantonate” nei fondi di cui alla lettera “B” del prospetto dimostrativo del risultato di amministra-zione (allegato n. 10, d.lgs. n. 118/2011), con la con-seguente possibilità di abbattere a consuntivo l’accantonamento, man mano che si estingue la causa che ha determinato la sua costituzione (il mutuo me-diante Boc), sul modello della contabilizzazione delle anticipazioni straordinarie di liquidità ex d.l. n. 35/2013.

2.2. L’unico articolato motivo su cui si basa il ri-corso assume che la deliberazione della sezione di controllo sarebbe stata adottata in violazione di legge e (impropriamente non trattandosi di un provvedimen-to amministrativo) con “eccesso di potere”. L’accertamento dello squilibrio darebbe luogo, ad av-viso del ricorrente, ad una non corretta esegesi dell’art. 119, c. 6, Cost. (c.d. golden rule) e dei suoi corollari e, contemporaneamente, ad una lettura for-malistica del diritto del bilancio, incapace così di rap-presentare gli equilibri reali secondo il principio della prevalenza della sostanza sulla forma (allegato 1, po-stulato n. 18, d.lgs. n. 118/2011). L’effetto dell’impostazione in diritto dell’accertamento compiu-to dalla Sezione Toscana sarebbe quello di non dare alcuna rilevanza all’alleggerimento della situazione debitoria in termini di disavanzo, rompendo la rela-zione tra economie da rinegoziazione ed il loro vinco-lo specifico di destinazione al ripiano dell’indebitamento contratto.

Il ricorso, inoltre, chiama in causa anche la viola-zione dell’art. 7, c. 2, d.l. n. 78/2015, il quale consen-tirebbe di abbattere i fondi generati dalle economie da rinegoziazione sul risultato di amministrazione.

Infine, sempre ad avviso del ricorrente, la stessa deliberazione contraddirebbe un precedente della stes-sa sezione (Sez. contr. reg. Toscana, n. 138/2017) che, in ordine alla tecnica di quantificazione dei fondi per economie sul rendiconto 2014, avrebbe “preso atto” dell’abbattimento progressivo degli stessi per effetto dei rimborsi di quota capitale dei mutui-Boc medio tempore intervenuti.

3. Il collegio, esaminate le argomentazioni e le evidenze in atti, ritiene il ricorso parzialmente fonda-to. È infatti corretto assumere che il quadro legislativo vigente consente, in base a norme speciali, di utilizza-re le economie da rinegoziazione per l’abbattimento del disavanzo. Ciò non dipende, come ritiene il comu-ne, dall’esistenza di una relazione diretta tra le eco-

nomie da rinegoziazione e le vicende del mutuo sotto-stante, in quanto: i) le economie non genarono “fondi vincolati” ma “fondi destinati”, ii) non v’è una rela-zione diretta tra il vincolo di destinazione delle entrate da mutuo e quello generato sulle economie da rinego-ziazione sulle risorse destinate al suo ammortamento; iii) l’ordinamento prevede una disciplina transitoria ed eccezionale che consente di destinare alla copertura del disavanzo le risorse in conto capitale che derivano da economie da rinegoziazione.

A tale esito il collegio perviene osservando che:

a) i principi contabili, addirittura di rilevo costitu-zionale, impongono di allocare le economie da rine-goziazione tra i fonti “destinati” oggi compresi nella struttura del risultato di amministrazione e segnata-mente nella lettera “D” del prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione (allegato 10, d.lgs. n. 118/2011). Tali principi, consentono di pervenire in-fatti alle conclusioni di cui ai punti i) e ii);

b) l’art. 7, c. 2, d.l. n. 78/2015, convertito dalla l. n. 125/2015, introduce una norma eccezionale che auto-rizza a definire gli equilibri, tramite l’impiego delle economie da rinegoziazione a riduzione del disavanzo unitariamente considerato.

4. Quanto all’argomento sub a), occorre ricordare che il “vincolo” sulle economie da rinegoziazione di-scende da una norma fondamentale del nostro sistema di contabilità pubblica: segnatamente, dall’art. 10 l. n. 243/2012, attuativo dell’art. 119, c. 6, Cost.

La disposizione contiene due norme che connotano nei suoi fondamenti la disciplina del bilancio pubblico e dell’equilibrio (cfr. Corte cost. n. 18/2019): il divieto di destinare le entrate da indebitamento a spesa diver-sa da quelle di investimento e parallelamente, la rego-la della contestualità e sincronizzazione del piano di ammortamento alla vita utile del bene. Entrambe le regole si fondano sul principio della solidarietà inter-generazionale.

La regola di contestualità e di equi-durata dell’ammortamento rispetto alla vita utile del bene as-sicura non solo che le entrate da indebitamento siano destinate a spesa di investimento, ma anche che le ri-sorse destinate a finanziare il rientro dal debito siano sostenute dalla generazione/i che gode/ono dell’utilità del bene. In pratica, l’art. 10 della l. n. 243/2012 come già l’art. 119, c. 6, Cost. proiettano l’indebitamento e, correlativamente, lo sforzo per il suo rientro verso la cura di interessi finanziari adespoti e durevoli, nell’ottica del principio di responsabilità-solidarietà generazionale ed intergenerazionale.

Infatti, coerentemente con il combinato disposto dell’art. 10 l. n. 243/2012 e dell’art. 119, c. 6, Cost. e la sua ratio, presumendo che i tempi di ammortamento originari fossero allineati alla vita utile del bene, se ne dovrebbe ricavare che il loro allungamento produce la creazione di economie di spesa sulle risorse di cui si è programmata la destinazione al rientro del debito.

Anche se tali economie, su spesa pluriennale, è sta-ta finanziata verosimilmente con risorse di varia natu-

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ra, l’unico modo per garantire il rispetto dell’art. 10 (ed il principio di responsabilità-solidarietà generazio-nale) è quello di considerare tali economie delle riser-ve che devono essere impiegate, ugualmente, per spe-se di utilità pluriennale, a vantaggio o comunque non a detrimento delle generazioni non interessate dall’utilità del bene di cui si è finanziato l’acquisto (e che quindi non devono subire un costo di ammorta-mento ingiustificato). Di conseguenza, le economie devono essere impiegate per utilità che si traducono in un beneficio per la generazione che materialmente so-stiene i costi di ammortamento.

Per potere assolvere a tale finalità ed evitare il di-scarico generazionale (ingiustificato) dei costi di am-mortamento, il “risparmio” da rinegoziazione, nel si-stema della contabilità pubblica, deve essere riservato sul risultato di amministrazione, attraverso appositi vincoli miranti agli impieghi di cui sopra, che vanno ad incidere sulla parte disponibile del risultato di am-ministrazione (lett. “E” del prospetto dimostrativo di cui all’allegato n. 10 del d.lgs. n. 118/2011), attraverso uno dei fondi che oggi lo compongono (art. 187 Tuel), segnatamente, come si vedrà, attraverso la parte c.d. “destinata” dello stesso (lett. “C”).

4.1. Non può infatti determinarsi un vincolo di tale specialità, da giustificare e generare effetti rilevanti anche per la cassa (artt. 195 e 222 Tuel, cfr. Sez. contr. reg. Campania, n. 285/2016, allegato A, par. 5 e 5.1), in assenza di indicazioni sulla spesa che restrin-gano in modo sostanziale la discrezionalità di bilan-cio. Un simile trattamento contabile, infatti, presuppo-ne un dettaglio di finalizzazione nella legge o negli atti da essa richiamati e presupposti, tale da ridurre in modo sostanziale l’autonomia di spesa dell’ente.

Appare evidente, del resto, come, a differenza del mutuo, che genera un vincolo specifico destinato ad investimento, le economie da rinegoziazione sono pri-ve di tale specialità di destinazione.

Le prime, infatti, ricadono tra le entrate destinate ad una spesa determinata, attraverso un procedimento di specificazione che passa dalla legge e termina con un titolo che disciplina lo specifico affare finanziato (un titolo a carattere negoziale: il mutuo di scopo, il titolo emesso in base alla l. n. 724/1994). I vincoli specifici, infatti, sono eccezionali e hanno fondamento diretto nella legge che a volte rinvia ad un procedi-mento, amministrativo o negoziale, di specificazione (art. 187, c. 3-ter, Tuel).

Si tratta cioè di entrate connotate da una specifica destinazione, per le quali l’ordinamento prevede che, ove non impegnate, confluiscano in un’apposita “ri-serva” (fondo) del risultato di amministrazione.

Tale riserva, in presenza di tutte le condizioni di legge, può essere “utilizzata” per il finanziamento di quella spesa alla quale era ab origine destinata, quan-do diventerà esigibile (applicazione nel bilancio di previsione).

In generale, dunque, l’indebitamento (finanzia-mento di terzi, soggetto a restituzione secondo lo schema causale dell’art. 1813 c.c.) produce quote di

“fondi vincolati” (prospetto del risultato di ammini-strazione, allegato 10, d.lgs. n. 118/2011, lett. C) in quanto il filtro dell’art. 1322 c.c. impone di verificare la causa concreta del negozio e la sua non illiceità per contrasto con l’art. l’art. 119, c. 6, Cost. e l’art. 30, c. 15, l. n. 289/2002).

Le entrate da indebitamento sono così destinate per legge ad un determinato investimento: infatti, il mutuo viene naturalmente agganciato ad uno scopo specifico e riconoscibile di investimento (mutuo c.d. di scopo, cfr. art. 187, c. 3-ter, lett. b, Tuel) a pena di illiceità della causa e di nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c.

4.2. Costituisce invece “fondo destinato” (lett. D), la quota del risultato di amministrazione determinato da “entrate in c/capitale senza vincoli di specifica de-stinazione non spese, e sono utilizzabili con provve-dimento di variazione di bilancio solo a seguito dell’approvazione del rendiconto” (art. 187, c. 1, Tuel).

Le economie sulla rinegoziazione dei mutui (che come si è detto riguardano risorse future di varia ori-gine, di cui si è programmata la destinazione all’ammortamento, per l’esigenza di rispettare il prin-cipio di solidarietà e responsabilità generazionale), si traducono in un’“entrata” in conto capitale, nella mi-sura in cui generano riserve destinate sul risultato di amministrazione che devono essere destinate a spesa con utilità-beneficio pluriennale. Che si tratti solo di una entrata a destinazione generica (segnatamente in conto capitale) e non di un vincolo specifico si ricava dalla circostanza che non esiste una destinazione defi-nita se non il limite di non gravare sulle generazioni future, realizzando utilità a carico della sola genera-zione che beneficia materialmente dell’investimento di cui si procede ad ammortamento. Viceversa, ove il costo di ammortamento venga traslato oltre la vita uti-le del bene, si deve garantire che le economie da rine-goziazione siano impiegate a vantaggio di quella stes-sa generazione che il costo dell’ammortamento conti-nua a sostenere.

A differenza delle entrate vincolate ai sensi art. 187, c. 3-ter, Tuel, il vincolo di destinazione “generi-co” realizzato sulle economie determinatesi rispetto al piano di ammortamento, ai sensi dell’art. 10 della l. n. 243/2012, non comporta necessariamente un investi-mento, ma, quantomeno, che l’ente impegni le riserve in una spesa in conto capitale, con ciò intendendosi una spesa genericamente di utilità pluriennale.

4.2.1. Segnatamente, mentre la spesa di investi-mento comporta la trasformazione di capitale finan-ziario in capitale reale ad utilità pluriennale intestato alla collettività (ci sui l’art. 1, c. 18, l. n. 350/2003 contiene un elenco esemplificativo), la spesa in conto capitale può consistere in una utilità durevole, senza che si abbia necessariamente tale trasformazione.

E infatti, la legge non di rado distingue tra trasfe-rimenti generici in conto capitale e trasferimenti equi-parati a veri e propri investimenti sole se ed in quanto vi sia certezza giuridica delle necessità di tale trasfor-mazione (ad esempio a mezzo dell’escussione di ga-

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ranzie, cfr. l’art. 3, c. 18, lett. g, ed i, l. n. 350/2003 nonché l’art. 187, c. 1, Tuel).

In quest’ottica, costituisce spesa in conto capitale l’estinzione anticipata dell’indebitamento, che non trasforma la ricchezza utilizzata in un bene in patri-monio (attività) ma si traduce nella riduzione durevole di passività pluriennali (cfr. l’art. 187, c. 2, Tuel, lett. e, che distingue tale spesa da quella di investimento di cui alla lett. c; cfr. analogamente l’allegato 4/2 par. 3.13 d.lgs. n. 118/2011 che espressamente afferma che il corrispettivo per la cessione di immobili, entrata in conto capitale, può essere impiegato per estinzione anticipata di prestiti, oltre lo stesso art. 193, c. 3, Tuel).

La spesa per l’estinzione anticipata dei mutui, in-fatti, determina un’utilità durevole e indiretta, median-te una riduzione complessiva delle risorse impegnate a ripiano dell’indebitamento pregresso per l’acquisto di beni durevoli (investimenti).

Del resto, ad evidenza della differente natura della spesa per l’estinzione anticipata rispetto a quella ordi-naria di funzionamento, è jus recptum la regola secon-do cui le risorse erogate per l’estinzione anticipata di mutui non deve essere computata negli equilibri di parte corrente, come emerge dagli standard e delle li-nee guida elaborate dagli organi professionali che si occupano della normazione tecnica in materia di con-tabilità pubblica.

Le economie da rinegoziazione dei mutui generano dunque risorse in conto capitale a destinazione generi-ca, svincolate da una spesa “determinata”; possono essere pertanto destinate al rimborso anticipato del debito (costituendo la riduzione dell’indebitamento una utilità durevole a beneficio delle generazioni futu-re), ovvero a nuova e diversa spesa di investimento o comunque in conto capitale.

4.2.3. In terzo luogo, per le entrate in conto capita-le e i fondi destinati, la legge prevede una maggiore flessibilità nell’impiego delle risorse, con la possibilità di svincolo a favore di spesa corrente, in presenza di determinate condizioni (così per le entrate da aliena-zione del patrimonio disponibile, in caso di crisi strut-turale della finanza locale, cfr. artt. 255 e 243-bis, c. 8, lett. g, e art. 243-ter Tuel, nonché, art. 2, c. 8, d.m. 2 aprile 2015).

4.3. Alla luce della diversa ratio e fonte del vinco-lo (“specifico” nel caso di entrate di indebitamento; “generico” nel caso di economie da rinegoziazione su risorse future destinate al sostentamento del costo di ammortamento del mutuo) appare ormai evidente che la sorte delle economie da rinegoziazione sono del tut-to indipendenti dalle vicende del mutuo sottostante (a meno che le stesse non vengano impiegate per l’estinzione anticipata di mutui).

Le economie da rinegoziazione non sono generate dal mutuo, ma, come si è visto dal principio gius-contabile e proprio della contabilità pubblica che, at-traverso l’equi-durata e contestualità dell’ammorta-mento, impone di non onerare le generazioni future

del medesimo costo di ammortamento. (art. 119, c. 6, Cost. e dell’art. 10 l. n. 243/2012).

Esse concorrono, pertanto, a determinare l’ammontare dei “fondi destinati” (lett. “D” del pro-spetto dimostrativo del risultato di amministrazione) e possono essere impiegate indifferentemente per qual-siasi spesa in conto capitale, non solo rimborso antici-pato della parte in conto capitale del mutuo, ma anche la spesa per nuovi e diversi investimenti. Inoltre, la genericità del vincolo non consente di rideterminare lo stesso in funzione delle vicende della sua causa, ma si limita imprimere sul saldo un limite agli impieghi del risultato di amministrazione, in modo che sia comun-que garantita, in futuro, l’effettuazione di una spesa ad utilità pluriennale.

5. Le considerazioni che precedono, dimostrano l’infondatezza della tesi del ricorrente in ordine alla stretta interdipendenza tra vicenda estintiva dei mutui-Boc e determinazione dei vincoli correlati alle econo-mie da rinegoziazione, specie alla luce dell’evidenza che l’estinzione dell’indebitamento pregresso non è stato determinato dall’impiego delle economie di cui si tratta, ma di altre entrate in conto capitale, costituite dal controvalore delle alienazioni di beni del patrimo-nio disponibile.

Parallelamente, non è condivisibile quanto affer-mato dalla sezione di controllo e dalla Procura genera-le in ordine al valore dei “fondi vincolati”, per l’erroneità dell’inquadramento di tali vincoli entro il montante della lettera “C” del prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione.

5.1. L’inquadramento dei vincoli nei fondi di cui alla “D” (fondi destinati”), in luogo di quelli di cui al-la lettera “C” (fondi vincolati) non è infatti neutro ri-spetto al trattamento contabile e alla disciplina appli-cabile ai fini del ripiano del disavanzo ed in particola-re per l’interpretazione dell’art. 7, c. 2, d.l. n. 78/2015, convertito dalla l. n. 125/2015.

In primo luogo, infatti, le entrate e le riserve (recte, “fondi”) “destinate” possono legittimamente essere impiegate per l’estinzione dell’indebitamento pregres-so e, nel rispetto delle condizioni di legge, possono essere utilizzate per il ripiano di deficit pregresso, an-che quando non deriva da squilibri di parte capitale, in assenza del vincolo costituzionale che riguarda le en-trate da indebitamento (art. 119, c. 6, Cost.).

Ciò avviene, ad esempio, quando il legislatore con-sidera l’ipotesi di finanze gravemente deteriorate: tale è il caso dei disavanzi strutturali, per cui la legge pre-vede tempo e mezzi straordinari di ripiano (artt. 255 e 243-bis, c. 8, lett. g, e art. 243-ter, nonché, art. 2, c. 8, d.m. 2 aprile 2015), come è accaduto con l’art 7, c. 2, d.l. n. 78/2015, convertito dalla l. n. 125/2015.

6. La vicenda di fatto da cui è sorto il ricorso, di-mostra che l’estinzione anticipata dei mutui-Boc non è stata finanziata – legittimamente – dalle economie da rinegoziazione, ma dai proventi delle alienazioni beni del patrimonio disponibile, nel rispetto dell’art. 193, c. 3, Tuel.

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I proventi da alienazione, infatti, sono entrate in conto capitale che convertono capitale non finanziario in capitale finanziario: per evitare che tale liquidazio-ne si traduca in spesa corrente, con un depauperamen-to della ricchezza accumulata e a servizio delle fun-zioni pubbliche, tali entrate non possono essere desti-nata a spesa diversa da investimenti o in conto capita-le.

Come è noto, infatti, in coerenza con la riforma complessiva del diritto costituzionale di bilancio (l. cost. n. 1/2012), a partire dall’art. 1, cc. 441-444, l. n. 228/2012 (legge di stabilità 2013) sono stati abrogati gli artt. 3, c. 28, l. n. 350/2003 e 1, c. 66, l. n. 311/2003 che, rispettivamente, consentivano a tutti gli enti di impiegare le plusvalenze da alienazioni per fi-nanziare spese correnti non ripetitive e le quote capita-li di rimborso del debito (cfr. altresì allegato 4/2, par. 3.13 d.lgs. n. 118/2011).

Le stesse norme hanno novellato dagli artt. 162 e 193 Tuel, riguardanti rispettivamente l’equilibrio sta-tico e dinamico del bilancio degli enti locali. Esse in-troducono un principio di “straordinarietà” del ricorso alla liquidazione del patrimonio per il ripiano di debiti di parte corrente, nell’ottica della tutela dell’integrità della ricchezza al servizio della collettività presente e di quella futura (solidarietà intergenerazionale), finan-co ove ciò sia indotto dall’esigenza di ripianare squili-bri, salvo si tratti di squilibri strutturali non altrimenti ripianabili (in caso di dissesto e piano di riequilibrio finanziario pluriennale, cfr. artt. 255 e 243-bis, c. 8, lett. g, e art. 243-ter Tuel)

Ciò è coerente con la regola secondo cui, a regime, in assenza di squilibri, le entrate e le riserve in conto capitale possono essere impiegate per dare copertura a spese in conto capitale e, come sopra detto, per la con-tabilità pubblica finanziaria, l’estinzione anticipata dell’indebitamento costituisce una spesa “in conto ca-pitale” (art. 187, c. 1, Tuel).

6.1. In definitiva, a decorrere dall’1 gennaio 2015 (data del riaccertamento straordinario) le economie da rinegoziazione avrebbero dovuto essere imputate ai “fondi destinati” e crescere man mano che le stesse hanno continuato a realizzarsi.

Per contro, come correttamente ha osservato la se-zione di controllo, sul monte dei fondi destinati non potevano incidere né in aumento, né in diminuzione, le entrate realizzate con l’alienazione dei beni del pa-trimonio disponibile e la correlata estinzione anticipa-ta dei mutui-Boc, eseguita in conformità della delibe-razione del consiglio comunale di Omissis n. 126/2013.

L’ente ha infatti accumulato contemporaneamente due risorse in conto capitale (le entrate da alienazione e le economie da rinegoziazione): per espresso ricono-scimento del comune sono solamente le prime ad ope-rare in diminuzione dell’indebitamento pregresso, mentre le seconde rimangono destinate a futuri o ulte-riori impieghi in conto capitale, salva diversa disposi-zione di legge che autorizzi il loro impiego per spese di carattere corrente.

7. Il ricorso, peraltro, mentre è infondato nella pre-tesa di abbattere i “vincoli” per l’automatico effetto dell’estinzione anticipata dei mutui-Boc, si rivela fon-dato quanto alla necessità di addivenire al riconosci-mento dei una facoltà di riduzione del disavanzo tra-mite le economie da rinegoziazione, sulla base di una armonica interpretazione tra art. 119, c. 6, Cost. e l’art. 7, c. 2, d.l. n. 78/2015.

L’art. 7, c. 2, d.l. n. 78/2015, infatti, riguarda una peculiare categoria di “entrate destinate”, che, in as-senza di previsione legislativa avrebbero dovuto ne-cessariamente essere destinate a nuova spesa in conto capitale.

Ad avviso del collegio, la disposizione richiamata risulta doppiamente eccezionale perché deroga:

- al divieto generale di destinare risorse “in conto capitale” a spese di natura diversa (art. 187, c. 1, Tuel e, ex adverso, art. 162, c. 6, Tuel);

- al divieto speciale di destinare al rientro dall’extra deficit la quota dei fondi destinati, generati dal debito (art. 2, c. 8, d.m. 2 aprile 2015)

Osserva il collegio che la norma, nella versione vi-gente al momento della rendicontazione 2015 e 2016, prevedeva che “per gli anni 2015, 2016 e 2017 le ri-sorse derivanti dalle operazioni di rinegoziazioni di mutui, nonché dal riacquisto dei titoli obbligazionari emessi possono essere utilizzate dagli enti territoriali senza vincoli di destinazione” (enfasi aggiunta).

Ad avviso della Sezione Toscana e della procura, la norma autorizza soltanto a non computare in au-mento, nei fondi del risultato di amministrazione, le economie da rinegoziazione realizzate negli anni 2015, 2016 e 2017.

Il collegio ritiene tale interpretazione ingiustifica-tamente restrittiva sulla base di due argomenti: da un lato, l’oggetto e la struttura della norma, dall’altro il contesto normativo in cui si inserisce.

7.1. Dal primo punto di vista (oggetto, lettera e struttura finalistica della norma) la norma disciplina il potere di definire, in sede di rendicontazione e di bi-lancio di previsione, i possibili impieghi dei fondi del risultato di amministrazione, ai fini della definizione degli equilibri, disinteressandosi dei fatti di gestione se non per l’individuazione della causa e del tipo di fondo “utilizzabile”.

A parte la chiare indicazione che già proverrebbe dalla lettera della legge, lo stesso temine assume la pienezza del suo significato alla luce della considera-zione dell’oggetto disciplinato: esso disciplina il bi-lancio pubblico finanziario, non come documento, né come un atto conchiuso ai fatti rappresentati o previsti in un dato momento storico, ma come “processo”, os-sia un istituto giuridico che non si sviluppa linearmen-te secondo un inizio ed una fine, ma in modo ciclico, senza soluzione di continuità, tra rendicontazione e previsione, tra fatti e programmazione, man mano che si svolgono, per garantire, appunto, l’“inderogabile principio di continuità tra gli esercizi finanziari” (Corte cost. n. 274/2017 e n. 105/2019).

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In sostanza la norma non si riferisce ai fatti di ge-stione sottostanti (le economie da rinegoziazione) ma al bilancio come “ciclo”, all’un tempo strumento di rendicontazione e programmazione dell’azione pub-blica, ed è quindi a tale oggetto che deve riferirsi l’indicazione delle date del 2015, 2016, e 2017. Il Le-gislatore, cioè, si sta riferendo al momento dell’accountability dei risultati di bilancio, definendo una facoltà in termini di computo del saldo e dei con-seguenti obblighi costituzionali e di legge in termini di programmazione e tutela degli equilibri.

Non si riferisce, cioè, al singolo fatto di gestione.

In proposito, si rammenta che la rendicontazione è governata da norme che disciplinano due diversi tipi di effetti (cfr. Sez. contr. reg. Campania, n. 110/2018, allegato A): da un lato, quello “ricognitivo”, presidiata dall’obbligo costituzionale del rappresentare in modo chiaro e trasparente i fatti di gestione e la situazione del bilancio ed del suo equilibrio, dall’altro, il suo contenuto “prescrittivo” che attiene alla definizione dell’obbligo giuscontabile di rientro o della facoltà aggiuntiva di finanziamento in relazione ai saldi di bi-lancio accertati ad una certa data.

In buona sostanza il riferimento letterale alla pos-sibilità di “utilizzare” le economie da rinegoziazione, attiene alla facoltà di incidere sulla definizione dell’equilibrio statico (applicazione nel bilancio di previsione) e dinamico del bilancio pubblico (defini-zione ed accertamento dei saldi), per finanziare spesa diversa da investimento. Si riferisce cioè alla possibi-lità di applicare i fondi destinati derivanti da economie nel bilancio di previsione, ovvero, a consuntivo, alla possibilità di ridurre il disavanzo, mediante un’operazione di riduzione dei fondi (la cui sottrazio-ne al saldo contabile primario di cui alla lett. “A” del risultato di amministrazione, porta alla definizione della “parte disponibile di cui alla lett. “E” del pro-spetto dimostrativo ex allegato n. 10 del d.lgs. n. 118/2011; cfr. art. 187, c. 1, Tuel sul concetto di disa-vanzo nella nuova contabilità)

Detto in altre parole, l’art. 7, c. 2, d.l. n. 78/2015 mira, con tutta evidenza, a rendere “disponibile” per la spesa corrente (compresa quella di ripiano del deficit pregresso, anche diverso dall’extradeficit) le somme in precedenza “riservate” in fondi, a prescindere dalla data contabile del fatto di gestione che ha generato la riserva.

In buona sostanza, il comune ben avrebbe potuto avvalersi della facoltà di abbattimento dei fondi “ri-servati” in relazione alle economie complessivamente realizzate per concorrere alla diminuzione del disa-vanzo per il loro intero valore, in quanto la norma di-sciplina la costruzione dei saldi di bilancio nel loro complesso, a prescindere dalla competenza temporale dei fatti di gestione che hanno generato i fondi.

7.2. La conferma di questa interpretazione sembra rivenire dal contesto in cui la stessa previsione norma-tiva si inserisce.

Segnatamente si tratta di disposizioni emanate nell’ambito dell’entrata in vigore, generalizzata, nella

contabilità armonizzata (1 gennaio 2015, per effetto del d.lgs. n. 126/2014). In particolare, la disposizione normativa integra il quadro delle misure straordinarie per il ripiano dei deficit pregressi, lanciato nel 2015, in occasione del passaggio alla nuova contabilità ar-monizzata, segnatamente, consente di destinare a spe-sa diversa di investimento, e quindi a ripiano anche del disavanzo, le entrate in conto capitale collegate indirettamente all’indebitamento (art. 2, c. 8, d.m. 2 aprile 2015).

Il d.lgs. n. 118/2011, infatti, in ragione dell’eccezionalità del passaggio al nuovo paradigma contabile – basato sulla competenza finanziaria poten-ziata e sul sistema dei fondi (d.lgs. n. 118/2011 e n. 126/2014) – ha introdotto eccezionali previsioni che consentono di recuperare con tempi e mezzi straordi-nari il disavanzo emerso (il c.d. “disavanzo tecnico” e “l’extra deficit”, cfr. art. 3, cc. 13 e 16, d.lgs. n. 118/2011) e comunque i disavanzi accumulati dagli enti alla data del passaggio al nuovo regime contabile (norme sui piani di riequilibrio e sulle loro rimodula-zioni e formulazioni).

Parallelamente, sono state previste forme straordi-narie di rientro di disavanzi pregressi, emersi anche per effetto della nuova disciplina che impone traspa-renza ed effettività degli equilibri di bilancio, grazie al sistema dei fondi e la competenza finanziaria poten-ziata (richiedendo non più la mera copertura giuridica della spesa, ma la c.d. sostenibilità finanziaria, cfr. art. 148-bis Tuel).

Tra questi mezzi, l’art. 2 del citato d.m. (attuativo dell’art. 3, c. 16, d.lgs. n. 118/2011) evoca espressa-mente: a) i proventi derivanti da alienazioni di beni patrimoniali disponibili (cc. da 4 a 7); b) le somme de-rivanti dallo svincolo delle quote vincolate del risulta-to di amministrazione per vincoli formalmente attri-buiti dall’ente; c) le somme derivanti dalla cancella-zione del vincolo di generica destinazione agli inve-stimenti (i c.d. “fondi destinati”), con esclusione te-stuale delle eventuali “quote finanziate da debito” (c. 8).

Detto in altri termini, le entrate a generica destina-zione, confluite nei c.d. fondi destinati del risultato di amministrazione, sono utilizzabili a ripiano dell’extra-deficit, con la sola eccezione “delle eventuali quote finanziate da debito”, cui si possono ascrivere le risor-se defluite nel risultato di amministrazione attraverso economie del processo di rimborso dell’indebitamento.

8. In definitiva, se per le entrate destinate vi è la generica deroga dell’art. 2, c. 8, d.m. 2 aprile 2015, per le economie da rinegoziazione, il legislatore è suc-cessivamente intervenuto con l’art. 7, c. 2, d.l. n. 78/2015, estendendo la facoltà a qualsiasi tipo di spesa corrente, quindi anche a disavanzi di matrice diversa da quelli dell’art. 3, c. 16, d.lgs. n. 118/2011.

Per l’effetto, i fondi destinati, opportunamente ri-calcolati e portati in variazione delle altre grandezze contabili in cui è avvenuto l’erroneo calcolo delle economie da rinegoziazione, potranno essere utilizza-

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ti, in sede di rendiconto, ovvero in sede di bilancio di previsione, rispettivamente, in riduzione del disavanzo pregresso, ovvero, in sede di bilancio di previsione, presenti tutte le condizioni di legge, per finanziarie spesa senza vincolo di destinazione, confluendo, in pratica nella parte disponile del risultato di ammini-strazione.

8.1. La ridefinizione e il ricalcolo dei fondi del ri-sultato di amministrazione, in applicazione di tale di-sciplina normativa così ricostruita, esulano dalla odierna cognizione di queste Sezioni riunite. Nel ri-spetto della costante giurisprudenza di queste Sezioni riunite, infatti, rimane compito delle Sezioni regionali di controllo effettuare le quantificazioni e le valuta-zioni di merito che attengono alla valutazione degli equilibri in corso, con il correlato accertamento e ri-quantificazione di ammontare e fondi del risultato di amministrazione, da cui discende l’obbligo di legge per il comune di adottare, ove necessarie, le conse-guenti e adeguate misure correttive.

Del resto, “come già in precedenti pronunce evi-denziato (cfr. Sez. riun., n. 3/2014/El), [...] alle Sezioni riunite in speciale composizione non compete lo svol-gimento di una sostitutiva attività di controllo – attivi-tà riservata alle sezioni regionali – tanto quanto a queste ultime non competono pronunce di carattere giurisdizionale” (Sez. riun., n. 64/2015/El).

Più recentemente si è inoltre precisato che nella fa-se contenziosa dinanzi a queste Sezioni riunite la co-gnizione del giudice è piena, fermo restando che «“la valutazione di merito dei piani di riequilibrio è neces-sariamente ed esclusivamente rimessa alla competen-za delle Sezioni regionali di controllo” (Sez. riun., 13 giugno 2016, n. 12/2016/El)» (Sez. riun., n. 25/2016/El).

9. Il ricorso è quindi parzialmente fondato nei ter-mini che precedono e deve essere rigettata, altresì, la prospettazione del Comune di Omissis secondo cui le economie di rinegoziazione generano fondi il cui trat-tamento contabile può essere accostato a quelli pecu-liari generati dai finanziamenti del d.l. n. 35/2013, se-gnatamente “fondi accantonati”.

I fondi accantonati, infatti, sono risorse riservate sul risultato di amministrazione per neutralizzare, sul piano dell’equilibrio, rischi e oneri di vario genere.

Nel caso del d.l. n 35/2013, generativo del fondo noto anche come Fal, ci si trova di fronte ad una pecu-liare “posta di neutralizzazione” atta ad evitare, altri-menti, la sicura incostituzionalità delle norme che hanno consentito il finanziamento di spesa diversa da investimento, in violazione dell’art. 119, c. 6, Cost. Si tratta di un “onere” di rispetto del principio di costitu-zionalità e solidarietà finanziaria tra le generazioni.

Tale finanziamento, per altro verso, è stato ammes-so anche per evitare la violazione di altro precetto co-stituzionale, e cioè il rispetto degli obblighi euro uni-tari (art. 117, c. 1, Cost.) in materia di “tempi di pa-gamento” (Corte cost. n. 181/2015 e n. 89/2017).

Gli accantonamenti ex d.l. n. 35/2013, dunque, presuppongono un “onere” nei termini sopra definiti e mirano ad evitare un rischio, che nella specie è il “ri-schio” di un’espansione incostituzionale della spesa.

Non si verificano, nel caso delle economie di rine-goziazione, tali eccezionali circostanze né esigenze, laddove invece, la legge, richiede, come osservato dal-la Procura, che i maggiori spazi finanziari siano proiettati a copertura di una spesa di investimento o comunque in conto capitale, a vantaggio delle genera-zioni future, indipendentemente dalle vicende dell’estinzione dell’indebitamento sottostante.

9.1. Infine priva di pregio è la tesi del ricorrente secondo cui sulla quantificazione dei vincoli si sareb-be comunque formato e stabilizzato un precedente de-cisum da parte della sezione di controllo (pronuncia n. 138/2017).

In proposito, è vero che le decisioni di controllo ri-spondenti al paradigma del controllo di legittimità-regolarità assettano interessi in ordine ad un caso con-creto, su cui risulta incerta l’interpretazione del diritto; pertanto, esse hanno un pieno contenuto decisorio e sono in grado di assumere “giuridica stabilità” con ef-fetti analoghi a quelli di un decisum giudiziale (Sez. riun., sent. n. 64/2015/El, n. 15/2017/El e n. 7/2018/El), fino ad assumere il carattere formale della “definitività” (cfr. Corte cost. n. 18/2019), anche gra-zie alla possibilità di promuovere la cognizione piena su tali interessi attraverso il ricorso in unico grado presso queste Sezioni riunite.

Per altro verso, si deve ricordare che la decisione del controllo ex art. 148-bis Tuel “fa stato” sul suo oggetto, che è costituita dalla eventuale rilevazione-accertamento di illegittimità-irregolarità, e non sulla generica e generale conformità al diritto del bilancio, alla stregua di una “certificazione”.

In secondo luogo, per fare stato, essa deve avere la “forma della sentenza (articolata in motivazione in di-ritto e dispositivo)” (Corte cost. n. 18/2019) il cui di-spositivo, in modo altrettanto dicotomico come il pa-rametro normativo applicato (Corte cost. n. 60/2013), deve accertare la conformità a diritto o meno di una rappresentazione di bilancio, e non può in nessun mo-do chiudersi con una mera “presa d’atto”.

10. Le spese possono ritenersi compensate alla lu-ce della complessità e novità della questione.

P.q.m., la Corte dei conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionali in speciale composizione accoglie par-zialmente il ricorso e per l’effetto annulla la prefata delibera nei capi in cui riserva le economie da rinego-ziazione mutui entro i fondi vincolati in luogo dei fondi destinati, con le correlate quantificazioni. Rinvia alla sezione regionale di controllo per i conseguenti e correlati accertamenti e quantificazioni del risultato di amministrazione e delle sue componenti.

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24 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in specia-le composizione); sentenza 29 luglio 2019; Pres. Pi-schedda, Est. Mirabella, P.M. Auriemma; Omissis c. Istat.

Notificazione e comunicazione di atti – Corte dei conti – Giudizi in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’Istat – Fondazione – Ricorso avverso l’inserimento nell’elenco Istat – Omessa notifica del ricorso al Procuratore generale – Inammissibilità del ricorso.

C.g.c. artt. 11, c. 6, 123, 124, 125, c. 3.

È inammissibile il ricorso proposto da una fonda-zione nei confronti dell’Istat per l’annullamento, in parte qua, dell’Elenco delle amministrazioni pubbli-che inserite nel conto economico consolidato, indivi-duate ai sensi dell’art. 1, c. 3, l., n. 196/2009, deposi-tato presso la segreteria delle Sezioni riunite della Corte dei conti senza essere stato previamente notifi-cato, nei termini di legge, al Procuratore generale.

Diritto – In via preliminare queste Sezioni riunite debbono pronunziarsi sulla conseguenza dell’omessa notifica del ricorso al pubblico ministero, circostanza non contestata tra le parti e che risulta inequivocabil-mente dagli atti.

I giudizi in materia di ricognizione delle ammini-strazioni pubbliche operata dall’Istat, decisi dalle Se-zioni riunite in speciale composizione ai sensi dell’art. 11, c. 6, d.lgs. n. 174/2016 (codice della giustizia con-tabile), sono introdotti, ai sensi di quanto disposto dall’art. 124 c.g.c., mediante ricorso proposto, a pena di inammissibilità, nelle forme della citazione notifi-cata, entro il termine di trenta giorni, al Procuratore generale della Corte dei conti e agli ulteriori controin-teressati.

La rilevanza della notificazione del ricorso ai fini della regolarità dell’instaurazione del contraddittorio risulta molto chiaramente dal quadro normativo di ri-ferimento. Vengono in considerazione, al riguardo, le disposizioni dell’art. 125 c.g.c., ai sensi del quale il ricorso è depositato, sempre a pena di inammissibilità, con la prova delle avvenute notifiche nel termine di dieci giorni. Nel secondo comma della citata norma, inoltre, è concessa al ricorrente la possibilità di depo-sitare l’atto in segreteria anche se non ancora pervenu-to al destinatario purché la notificazione sia perfezio-nata per il notificante, ma sempre con l’obbligo, a pe-na di inammissibilità dell’impugnazione, di depositare la documentazione comprovante la data in cui la noti-ficazione si è perfezionata anche per il destinatario (art. 125 c.g.c., c. 3).

Nel caso in esame il ricorso è stato depositato pres-so la segreteria di queste Sezioni riunite senza essere stato previamente notificato, nei termini di legge, al Procuratore generale il quale, tra l’altro, non risulta nemmeno individuato nell’ambito del ricorso stesso, nonostante l’espressa previsione di cui all’art. 123, c. 2, lett. a), c.g.c.

La Procura generale, costituitasi in giudizio al solo fine di dedurre la nullità della notifica dell’atto intro-duttivo e, senza accettare il contradittorio, ha chiesto che tale omissione venga sanata mediante la fissazione di un termine per procedure alla notifica del ricorso e del Dfu e a tale richiesta, nel corso della discussione, si sono associate le altre parti.

Il collegio ritiene di non poter accogliere siffatta richiesta in quanto, nella fattispecie, in mancanza di qualsiasi atto del procedimento notificatorio del ricor-so, si versa in un’ipotesi di inesistenza della notifica-zione che non ammette alcuna possibilità di sanatoria.

Al riguardo la giurisprudenza consolidata distingue la nullità della notificazione, vizio sanabile per effetto del raggiungimento dello scopo, dall’inesistenza della notificazione, che dà luogo ad un vizio radicale ed in-sanabile, determinato dalla mancanza materiale dell’atto.

In questo senso le Sezioni unite della Corte di cas-sazione, con sent. n. 20604/2008, hanno affermato il principio, più volte confermato dalla giurisprudenza successiva (cfr. Cass. n. 29870/2008, n. 1721/2009, n. 11600/2010, n. 9597/2011, 7 giugno 2018, n. 14839), secondo il quale “alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo ex art. 111, c. 2, Cost.” non è consentito al giudice di as-segnare un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica, “giacché non è pensabile la rinnova-zione di un atto mai compiuto o giuridicamente inesi-stente, non esistendo una disposizione che consenta al giudice di fissare un termine per la notificazione, mai effettuata, del ricorso e del decreto presidenziale, e non essendo consentito, nel silenzio normativo, allun-gare i tempi del processo sì da disattendere il princi-pio della sua ragionevole durata”.

Inoltre, è stato recentemente precisato (cfr. Cass., S.U., nn. 14916 e 14917/2016) che, per quanto le norme non contemplino la categoria della “inesisten-za”, tuttavia il legislatore “non ha motivo di discipli-nare gli effetti di ciò che non esiste, non solo, com’è ovvio, dal punto di vista storico-naturalistico, ma an-che sotto il profilo giuridico; per altro verso, induce a ritenere che la nozione di inesistenza della notifica-zione debba essere definita in termini assolutamente rigorosi, per ipotesi talmente radicali che il legislato-re ha ritenuto di non prendere nemmeno in considera-zione. L’inesistenza non è, dunque, in senso stretto, un vizio dell’atto più grave della nullità, poiché la dico-tomia nullità/inesistenza va, alla fine, ricondotta alla bipartizione tra l’atto e il non atto”.

Anche la giurisprudenza della Corte dei conti ha ribadito che l’omissione della notifica del ricorso de-termina l’inammissibilità del ricorso (Sez. riun., spec. comp., n. 22/2017; Sez. giur. reg. Toscana, 2 aprile 2019, n. 138, in materia pensionistica).

Conclusivamente il ricorso è da ritenere inammis-sibile, per omessa notifica dello stesso alla Procura generale.

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Le spese sono da considerare compensate ai sensi di quanto disposto dall’art. 31, c. 3, c.g.c.

P.q.m., Corte dei conti, a Sezioni riunite, in sede giurisdizionale in speciale composizione, dichiara inammissibile il ricorso per omessa notifica alla Pro-cura generale.

25 – Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in specia-le composizione); sentenza 29 luglio 2019; Pres. Pi-schedda, Est. Carra, P.M. Rebecchi; Omissis s.p.a. Annulla Corte conti, Sez. contr. reg. Marche, 27 no-vembre 2018, n. 54.

Società – Società a partecipazione pubblica – Con-trollo pubblico – Nozione – Effetti. C.c., art. 2359, c. 1, nn. 1, 2, 3; d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, t.u. in materia di società a partecipazione pub-blica, artt. 1, c. 5, 2, lett. b), m), 11, 15.

La situazione di “controllo pubblico”, non può es-sere presunta ex lege in presenza di una partecipazio-ne maggioritaria di più amministrazioni pubbliche al capitale di una società, né si può automaticamente de-sumere da un “coordinamento di fatto”; essa deve ri-sultare esclusivamente da norme di legge, statutarie a da patti parasociali che – richiedendo il consenso unanime o maggioritario di tutte o alcune delle pub-bliche amministrazioni partecipanti – determini la ca-pacità di tali pubbliche amministrazioni di incidere sulle decisioni finanziarie e strategiche della società.

Diritto – (Omissis) 2. Scrutinata e respinta l’eccezione pregiudiziale, il collegio affronta il merito della causa.

In punto di legittimazione e di interesse a ricorrere il collegio richiama l’orientamento delle Sezioni riuni-te già espresso con la richiamata pronuncia n. 16/2019, resa in relazione a ricorsi proposti da Omis-sis s.p.a. avverso deliberazioni della Sezione di con-trollo per le Marche di identico tenore.

Il ricorso in esame – articolato in un solo motivo e, segnatamente, sull’assunta erronea interpretazione e applicazione del concetto di “controllo pubblico” di cui all’art. 2, lett. b) e m), in relazione all’art. 11 Tusp – è fondato e per l’effetto va respinta la richiesta di rigetto avanzata dalla Procura generale.

2.1. La sezione di controllo, nella deliberazione impugnata, ha basato l’accertamento della qualità di “società a controllo pubblico” nei confronti di Omissis s.p.a. argomentando sulla base delle norme statutarie, e in specie con riguardo agli artt. 5 e 15. Pertanto, ne ha dedotto che “i soci pubblici possiedono la maggio-ranza dei voti sia in assemblea che nel consiglio di amministrazione e possono in tal modo condizionare l’andamento complessivo della gestione della socie-tà”; ha inoltre ritenuto che “la frammentazione delle quote di partecipazione in capo ad una pluralità di amministrazioni non osti alla configurabilità del con-

trollo pubblico” ed in tal senso ha richiamato l’atto di orientamento della struttura di controllo e monitorag-gio prevista dall’art. 15 Tusp, in data 15 febbraio 2018, secondo il quale “la pubblica amministrazione, quale ente che esercita il controllo, è stata intesa dal legislatore del Tusp come soggetto unitario, a prescin-dere dal fatto che, nelle singole fattispecie, il controllo di cui all’art. 2359, c. 1, nn. 1), 2), 3), faccia capo ad una singola amministrazione o a più amministrazioni cumulativamente”.

Osserva il collegio che l’organo amministrativo statale, al fine di enucleare la corretta nozione di “so-cietà a controllo pubblico”, si è basato su una asserita interpretazione letterale del combinato disposto delle lett. b) e m) dell’art. 2, c. 1, evidenziando come “alla luce dello stesso deve ritenersi che il legislatore del Tusp abbia voluto ampliare le fattispecie del ‘control-lo’ talché, ‘in coerenza con la ratio della riforma volta all’utilizzo ottimale delle risorse pubbliche e al conte-nimento della spesa, al controllo esercitato dalla pub-blica amministrazione sulla società appaiono ricondu-cibili non soltanto le fattispecie recate dall’art. 2, c. 1, lett. b), Tusp, ma anche le ipotesi in cui le fattispecie di cui all’art. 2359 c.c. si riferiscono a più pubbliche amministrazioni, le quali esercitano tale controllo congiuntamente e mediante comportamenti conclu-denti, pure a prescindere dall’esistenza di un coordi-namento formalizzato”, concludendo che “sia l’interpretazione letterale sia la ratio sottesa alla ri-forma nonché una interpretazione logico-sistematica delle disposizioni citate, inducono a ritenere che la ‘pubblica amministrazione’, quale ente che esercita il controllo, sia stata intesa dal legislatore del Tusp come soggetto unitario, a prescindere dal fatto che, nelle singole fattispecie, il controllo di cui all’art. 2359, c. 1, nn. 1), 2) e 3), faccia capo ad una singola ammini-strazione o a più amministrazioni cumulativamente”.

Questo giudice, tuttavia, ritiene che il richiamo alla nota di orientamento della struttura di controllo e mo-nitoraggio non sia conducente a scrutinare la sussi-stenza o meno dello status di “società a controllo pub-blico” che, invero, non può essere desunto dai meri indici costituiti dalla maggioranza di azioni e di con-siglieri nel c.d.a., ma richiede precipua attività istrut-toria volta a verificare se, nel caso concreto, sussista-no le condizioni richieste dall’art. 2, lett. b), Tusp.

2.2. Contrariamente a quanto affermato dalla se-zione di controllo e dalla procura, infatti, né la ratio né la lettera dell’art. 2, lett. b) e m), sono sufficienti a sostenere che il Tusp abbia introdotto una nozione di controllo “funzionale” totalmente disarticolata dal concetto di “controllo” civilistico, consentendo di con-figurarlo in presenza di una mera, frammentaria, par-tecipazione pubblica maggioritaria.

2.3. In via preliminare, infatti, il collegio sottolinea che ai sensi dell’art. 1, c. 3, Tusp, “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto,

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si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”.

La norma sopracitata, quindi, costituisce la diret-trice interpretativa di tutte le disposizioni dettate dal Tusp per le società a partecipazione pubblica, di cui quelle “a controllo pubblico” ne costituiscono una species ai sensi dell’art. 2, lett. m), e ne ravvisa la “specialità” solo in forza di deroghe espresse al codice civile, a garanzia dell’omogeneità della disciplina di diritto comune. Ai successivi cc. 4 e 5 dell’art. 1 sono elencate le categorie di disposizioni escluse dall’applicazione del Tusp.

È in tale ottica, inoltre, che devono essere lette le disposizioni normative successive, contenute nell’art. 2, rubricato “definizioni”, che riveste la finalità di de-limitare l’ambito soggettivo di applicazione del Tusp in relazione alle varie tipologie di società partecipate da pubbliche amministrazioni individuate dalle lett. da a) a p), di cui se ne qualificano i presupposti che, tut-tavia, non possono essere disancorati dagli analoghi istituti del codice civile, laddove richiamati, come nel caso del concetto di “controllo pubblico”.

2.4. Il Tusp prevede infatti due grandi gruppi di norme poste tra loro in rapporto di genus e species, di cui le prime applicabili a società (e pubbliche ammini-strazioni intestatarie delle quote e azioni) per il sem-plice fatto della partecipazione, altre in relazione alla riconoscibilità della situazione di “controllo pubbli-co”, come nel caso dell’art. 11 Tusp, oggetto dell’accertamento operato dalla sezione regionale di controllo.

L’art. 2, lett. m), Tusp definisce «“società a con-trollo pubblico” le società in cui una o più ammini-strazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi della lett. b)» e quest’ultima a sua volta definisce come «“controllo” la situazione descritta nell’art. 2359 c.c.», operando un rinvio al codice civile; per l’effetto, il richiamo alla “situazione” decritta nell’art. 2359 c.c. non può che essere letto, ad avviso del col-legio, negli stessi termini in cui è inteso nel codice ci-vile, ovvero con riferimento all’esistenza di un sogget-to (una società) o di un gruppo organizzato in grado di manifestare una volontà unitaria idonea a esercitare un dominio effettivo sulla governance societaria.

La stessa norma, nel secondo inciso (lett. b) preci-sa che: “Il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo”.

Detto secondo inciso costituisce l’elemento di spe-cialità rispetto alla disciplina civilistica, che ne amplia la portata: in tale disposizione, infatti, trova fonda-mento – a certe condizioni – quello che dalla dottrina e dalla giurisprudenza antecedente l’emanazione del

Tusp è stato definito “controllo congiunto”, ovvero la possibilità che una pluralità di pubbliche amministra-zioni (ai sensi dell’art. 2, lett. m), detentrici di un capi-tale azionario frammentato inidoneo a configurare la “situazione” di cui all’art. 2359 cit., da “moltitudine” diventi “una”, in grado di influire sulle decisioni fi-nanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale: siffatta reductio ad unum della volontà as-sembleare, tuttavia, deve risultare da norme di legge o statutarie, ovvero da patti parasociali.

Questi ultimi non possono che essere quelli disci-plinati dall’art. 2341-bis c.c., la cui ratio è “stabilizza-re gli assetti proprietari o il governo della società” (art. 2341-bis c.c.).

Il collegio osserva che è pur vero che la stessa norma codicistica ricorda che i patti parasociali sono validi “in qualunque forma stipulati”, assumendone la “forma libera”, e che l’esistenza dei patti parasociali può dunque essere provata, anche nell’ambito e per gli effetti di legge nei procedimenti di controllo, con qualsiasi mezzo, salvo i limiti previsti dall’art. 2721, c. 2, c.c. e dall’art. 2729 c.c.: tuttavia, in presenza di pubbliche amministrazioni, obbligate alla trasparenza nella gestione della propria attività istituzionale e ne-goziale, i patti parasociali sono necessariamente for-malizzati per iscritto e presuppongono un deliberato dell’organo amministrativo di ciascuna amministra-zione partecipante che esprime la propria volontà nell’assemblea.

2.5. Al di fuori di forme di coordinamento istitu-zionalizzato tra più pubbliche amministrazioni in gra-do di influire sulle scelte gestionali e strategiche della società – risultante da norme di legge, statutarie e da patti parasociali – eventuali situazioni di coordina-mento di mero fatto non possono assumere rilievo ai fini della configurabilità della nozione di “controllo pubblico”.

Occorre sottolineare, peraltro, che nel Tusp non viene mai utilizzata l’espressione “controllo congiun-to” (coniata dalla giurisprudenza amministrativa e che evoca la possibilità di accordi più o meno formali tra pubbliche amministrazioni), mentre è previsto il “con-trollo analogo congiunto”, che si realizza tutte le volte in cui “l’amministrazione esercita congiuntamente ad altre amministrazioni su una società un controllo ana-logo a quello esercitato sui propri servizi”: laddove il legislatore avesse voluto intendere analoga modalità di azione fra pubbliche amministrazioni avrebbe usato identica terminologia.

Peraltro, sotto il profilo normativo, nessuna dispo-sizione prevede espressamente che gli enti detentori di partecipazioni debbano provvedere alla gestione delle partecipazioni in modo associato e congiunto né, per converso, che non possano provvedervi congiunta-mente al socio privato, come nel caso in esame: infat-ti, l’interesse pubblico che le stesse sono tenute a per-seguire non è necessariamente compromesso

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dall’adozione di differenti scelte gestionali o strategi-che, che ben possono far capo a ciascun socio pubbli-co in relazione agli interessi locali di cui sono espo-nenziali. Detto interesse, inoltre, va individuato e va-lutato in relazione alle finalità realizzate in concreto dalla società, quale soggetto unitariamente considera-to.

Come sottolineato dal Consiglio di Stato (cfr. Sez. V, 23 gennaio 2019, n. 578, punto 12.1), “non convin-ce la conclusione dell’appellata sentenza per la quale a una partecipazione a dimensione quantitativa pulvi-scolare non può per definizione seguire lo svolgimen-to di un servizio di interesse generale. Si tratta in real-tà di profili differenti, l’uno relativo alla finalità dell’attività, l’altro alla dimensione della sua organiz-zazione, che occorre tenere distinti”.

Il supremo consesso della magistratura ammini-strativa, nel sottolineare, nel prosieguo della citata pronuncia, la necessità concreta per le pubbliche am-ministrazioni detentrici di partecipazioni pulviscolari di rafforzare l’azione collettiva e la posizione di debo-lezza assembleare attraverso la stipula di patti paraso-ciali o con particolari previsioni statutarie (cfr. punto 12.2 sent. cit.) desume implicitamente che nell’ordinamento non esista una norma che ponga tale obbligo né che quest’ultimo possa trovare fondamento attraverso un’interpretazione “funzionale” delle dispo-sizioni del Tusp.

D’altra parte, specialmente con riferimento alle partecipazioni azionarie detenute dagli enti locali, co-me nell’ipotesi di cui è causa, un siffatto “obbligo” di operare congiuntamente – anche attraverso patti para-sociali – dovrebbe risultare da disposizioni normative espresse, in quanto determinerebbe una sorta di “con-sorzio obbligatorio” tra enti territoriali posti tra loro, invero, in posizione equiordinata. Né l’appartenenza al comune bacino della “pubblica amministrazione” è idonea a configurare ex se un obbligo di instaurare re-lazioni intersoggettive.

2.6. Quanto all’art. 2359 c.c., il collegio rammenta che le tre ipotesi ivi previste sono il cosiddetto con-trollo “di diritto” (“società in cui un’altra società di-spone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria”), quello cosiddetto di fatto (“le società in cui un’altra società dispone di voti suf-ficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria”) e quello cosiddetto esterno (“società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrat-tuali con essa”).

In tutte e tre le ipotesi esistono strumenti giuridici, di maggioranza assoluta o relativa, in grado di indiriz-zare ad un comportamento uniforme la società con-trollata rispetto ad un centro, anche plurimo, ma orga-nizzato quale soggetto unitario, di decisione strategi-ca.

L’art. 2359 c.c., infatti, presuppone in tutte e tre le ipotesi l’unità organizzativa ed istituzionalizzata del soggetto controllante, poiché tratta del controllo di una società su un’altra società.

Pertanto, tutte le ipotesi considerate, compresa quella aggiunta dal Tusp, presuppongono un’organizzazione giuridica unitaria da parte chi eser-cita il “dominio”, in modo da potere imprimere un’unità di indirizzo strategico al soggetto partecipato.

2.7. Per altro verso, il controllo “pubblico” di cui alle lett. b) e m) dell’art. 2 Tusp è un concetto di rela-zione, nel senso che si qualifica in connessione alla eventuale assenza o partecipazione ininfluente di sog-getti di privati.

In buona sostanza, la partecipazione pubblica dif-fusa, frammentata e maggioritaria non costituisce ex se prova o presunzione legale dell’esistenza di coordi-namento tra i soci pubblici, che deve invece essere ac-certato in concreto; può, invece costituire un mero in-dice presuntivo per la sezione di controllo competente ad effettuare un’approfondita istruttoria al fine di pro-cedere all’accertamento dello status di “società a con-trollo pubblico”, specialmente in presenza di parteci-pazione “private”, anche ai soli fini del Tusp (art. 1, c. 5). La situazione di “controllo pubblico”, in definitiva, non può essere presunta ex lege (né iuris tantum, né tantomeno iuris et de iure) in presenza di una parteci-pazione maggioritaria di più amministrazioni pubbli-che, né si può automaticamente desumere da un “coordinamento di fatto”; esso deve risultare esclusi-vamente da norme di legge, statutarie a da patti para-sociali che – richiedendo il consenso unanime o mag-gioritario di tutte o alcune delle pubbliche ammini-strazioni partecipanti – determini la capacità di tali pubbliche amministrazioni di incidere sulle decisioni finanziarie e strategiche della società.

Un’interpretazione che, pur nella logica di voler estendere a più soggetti pubblici norme di conteni-mento della spesa, finisca per omologare i due concet-ti di “partecipazione pubblica” e “controllo pubblico” sarebbe in contrasto con la lett. n) dell’art. 2 Tusp, che ha distinto le due categorie e che, utilizzando alla pre-cedente lett. m) l’espressione “esercitano i poteri di controllo ai sensi della lett. b)”, richiama un concetto dinamico, di concreto dominio sull’attività gestionale, distinto dalla mera partecipazione al capitale sociale.

3. In conclusione, il collegio ritiene che dalla lettu-ra di siffatte disposizioni possano evincersi due rile-vanti conseguenze, ai fini del giudizio di cui è causa: la prima attiene alla inapplicabilità delle disposizioni dell’art. 2359 c.c. alla società Omissis per il solo fatto della partecipazione pubblica maggioritaria, la secon-da è che dal riscontro dei fatti emerge in modo chiaro ed univoco che il socio privato concorre in modo de-terminante alla governance della società, dovendosi escludere la situazione di “controllo pubblico”.

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3.1. Dalla documentazione versata in atti dalla ri-corrente emerge che il capitale sociale di Omissis s.p.a. è attualmente detenuto dal socio privato Omissis s.p.a. per il 46,2 per cento, dal Comune di Pesaro per il 25,3 per cento, dalla Provincia di Pesaro e Urbino per l’8,6 per cento e per la restante parte da partecipa-zioni pulviscolari di un gruppo di comuni delle Mar-che, senza un coordinamento cogente per le parti pub-bliche, di tipo negoziale, rilevante ai sensi dell’art. 2359 c.c.

La stessa Omissis s.p.a. – che dai pubblici registri risulta partecipata per il 47,9 per cento da soci pubbli-ci, mentre per il 51,1 per cento da flottante – è una so-cietà quotata in borsa, ragione per la quale ad essa si applica la disciplina in deroga di cui all’art. 1, c. 5, Tusp.

Ai sensi di tale disposizione, come modificata dall’art. 1, c. 721, l. 30 dicembre 2018, n. 145, le di-sposizioni del Tusp “si applicano, solo se espressa-mente previsto, alle società quotate, come definite dall’art. 2, c. 1, lett. p), nonché alle società da esse controllate”. In definitiva, da un lato, ai fini del Tusp, la società Omissis – nonostante la notevole e determi-nante partecipazione pubblica che la caratterizza – ai fini del Tusp ed in ragione della sua quotazione in borsa deve considerarsi un “socio privato”.

3.2. In terzo luogo, dall’analisi dello statuto vigen-te emerge che la società è amministrata da un consi-glio di amministrazione composto da nove membri, compreso il presidente, di cui due nominati dal Co-mune di Pesaro, uno dal Comune di Urbino, uno dalla Provincia di Pesaro e Urbino e uno da una serie di piccoli comuni del marchigiano, mentre i restanti quattro componenti sono espressione del socio privato Omissis s.p.a.(art. 15); l’assemblea straordinaria che è richiesta per le modificazioni statutarie, delibera in ogni sua convocazione con la maggioranza superiore all’85 per cento del capitale sociale (art. 13) e, pertan-to, il voto favorevole del socio privato Omissis s.p.a. è necessario per qualsiasi modificazione statutaria. Ciò comporta che, in assenza del voto favorevole dell’azionista privato Omissis, non possono essere modificati: a) il numero dei componenti del consiglio di amministrazione, b) l’attribuzione delle deleghe al consigliere nominato dall’azionista privato. Inoltre (art. 18) è necessario il quorum di otto consiglieri su nove per l’adozione delle principali delibere del con-siglio di amministrazione (quali la designazione dei componenti degli organi sociali delle società control-late e/o partecipate; le proposte di fusioni, scissioni, incorporazioni in altre società; le proposte di modifica dello statuto; le operazioni di acquisizione, dismissio-ne, conferimenti, scorpori di attività, rami aziendali; il conferimento e la modifica di poteri all’amministratore delegato, scelto tra i soci non pub-blici ai sensi dell’art. 21, l’approvazione del budget annuale preventivo e del piano industriale proposto dall’amministratore delegato, la nomina dei consiglie-

ri cooptati, l’attribuzione di compensi agli amministra-tori investiti di particolari cariche, la proposta di di-stribuzione di dividendi e riserve, la modifica ai con-tratti con le società degli asset).

3.3. Già l’analisi dell’assetto statutario sarebbe da sola sufficiente ad escludere la concreta possibilità che tutti i soci pubblici possano incidere sulle “decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale” ai sensi dell’art. 2, lett. b), Tusp, senza il con-senso del socio privato Omissis s.p.a. Conseguente-mente, la decisione di ridurre il numero degli ammini-stratori, come richiesto dalla Sezione di controllo delle Marche con le deliberazioni impugnate, non è nella disponibilità dei soci pubblici che necessitano, all’uopo, del consenso del socio privato.

A tale quadro statutario si aggiunge l’esistenza di un patto parasociale sottoscritto in data 28 luglio 2015, con efficacia quinquennale, stipulato tra il socio privato Omissis s.p.a. e il Comune di Pesaro, che in-sieme detengono oltre l’80 per cento del capitale so-ciale, in base al quale per una serie di deliberazioni di rilievo societario è richiesto il voto favorevole di al-meno un consigliere di ciascuno dei soci.

3.4. Dalla situazione di fatto sopra esposta e dalle considerazioni in diritto che ha preceduto tale esposi-zione, risulta evidente che, in base alla vigente disci-plina normativa, non è configurabile alcun “controllo pubblico” sulla società Omissis.

Ciò in quanto, per effetto dei poteri del “socio pri-vato”, anche il consenso unanime degli enti pubblici non è sufficiente per le “decisioni finanziarie e gestio-nali strategiche”, configurandosi un “controllo con-giunto” pubblico-privato; la circostanza che tutti i soci pubblici – pur volendo convergere verso una logica di riduzione dell’apparato amministrativo – non dispon-gano degli strumenti statutari per operare la riduzione del numero dei consiglieri senza il consenso del socio privato, costituisce la controprova dell’insussistenza di un “controllo pubblico” (in sé logicamente incom-patibile con la contemporanea presenza di un controllo privato o “congiunto”).

3.5. Si ritiene dunque acclarato che Omissis s.p.a. non ha le caratteristiche per essere annoverata tra le “società a controllo pubblico” e che alla stessa, conse-guentemente, non si applicano tutte le disposizioni normative che richiedono, quale presupposto, detto status, trattandosi, semplicemente, allo stato degli atti, di società a partecipazione pubblica.

Discende, come logica conseguenza, l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della de-liberazione impugnata.

* * *

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Sezione I centrale d’appello

147 – Sezione I centrale d’appello; sentenza 3 luglio 2019; Pres. Chiappiniello, Est. Corsetti, P.M. Lom-bardo; C. e altri c. Proc. reg. Campania e altro. Riforma Corte conti, Sez. giur. reg. Campania, 27 febbraio 2015, n. 214.

Società – Società a totale partecipazione pubblica – Amministratori – Incarichi di consulenza – Illecito affidamento – Danno erariale – Sussiste. D.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modifica-zioni dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, disposizioni ur-genti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, art. 18; d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, misure urgenti in materia di stabi-lizzazione finanziaria e di competitività economica, art. 14, cc. 7, 9.

Sussiste la responsabilità amministrativa degli amministratori di una società di capitali totalmente partecipata da una provincia e del presidente della provincia, socio unico della società, per il danno ca-gionato al patrimonio dell’ente dall’illecito conferi-mento di incarichi a personale esterno alla società.

149 – Sezione I centrale d’appello; sentenza 5 luglio 2019; Pres. Chiappiniello, Est. Corsetti, P.M. Pompo-nio; D.B. c. Proc. reg. e altro. Conferma Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 26 luglio 2018, n. 414.

Responsabilità amministrativa e contabile – Mini-stero degli affari esteri – Console – Conti correnti accesi presso filiali bancarie locali – Mancata ren-dicontazione – Responsabilità contabile. C.g.c., art. 1; d.p.r. 5 gennaio 1967, n. 18, ordinamen-to dell’Amministrazione degli affari esteri, art. 45; d.p.r. 1 febbraio 2010, n. 54, regolamento recante norme in materia di autonomia gestionale e finanziaria delle rappresentanze diplomatiche e degli Uffici con-solari di I categoria del Ministero degli affari esteri, a norma dell’art. 6 della l. 18 giugno 2009, n. 69, art. 15.

Sussiste la responsabilità contabile del Console che abbia acceso conti presso filiali bancarie locali (alimentati con fondi provenienti da imprese private – verosimilmente a titolo di sponsorizzazioni – ed im-piegati con prelievi in contanti, anche per attività di promozione culturale) intestati al Consolato d’Italia, senza tenerne alcuna traccia nella contabilità ufficiale del Consolato.

154 – Sezione I centrale d’appello; sentenza 10 luglio 2019; Pres. Chiappiniello, Est. Fraioli, P.M. Pompo-nio; Proc. gen. c. M. e altro. Riforma Corte conti, Sez. giur. reg. Lazio, 26 settem-bre 2018, n. 494.

Responsabilità amministrativa e contabile – Co-mune – Capo dipartimento attività produttive – Manifestazione pubblica – Determina di affida-mento lavori – Mancata prova dello svolgimento della manifestazione – Danno erariale. C.g.c, art. 1.

Responsabilità amministrativa e contabile – Co-mune – Manifestazione pubblica finanziata dell’ente – Mancata prova dello svolgimento della manifestazione – Visto di regolarità contabile della spesa – Dirigente della ragioneria – Responsabilità amministrativa – Non sussiste. C.g.c, art. 1; d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, art. 151, c. 4.

Sussiste la responsabilità amministrativa del capo dipartimento che ha emanato la determinazione di af-fidamento di lavori per lo svolgimento di una manife-stazione, per il danno cagionato all’ente dal mancato svolgimento della manifestazione.

Nel caso di mancato svolgimento di una manife-stazione pubblica alla quale il Comune abbia parteci-pato economicamente, non sussiste la responsabilità amministrativa del dirigente della ragioneria che ha apposto il visto di regolarità contabile della spesa, posto che con il visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria, il responsabile del servizio finanziario non effettua alcun controllo sulla legittimi-tà della spesa.

* * *

Sezione II centrale d’appello

198 – Sezione II centrale d’appello; sentenza 5 giugno 2019; Pres. Calamaro, Est. Floreani, P.M. Pomponio; Proc. reg. Lombardia c. Z. e altri. Riforma Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 16 settembre 2015, n. 159.

Responsabilità amministrativa e contabile – Presi-dente del consiglio regionale – Rimborso spese ai consiglieri – Spese non riconducibili a spese di rappresentanza – Responsabilità amministrativa – Sussiste. C.g.c., art. 1.

Sussiste la responsabilità del consigliere regionale che abbia richiesto ed ottenuto dal consiglio il rim-borso di spese non inerenti allo svolgimento del pro-prio ruolo istituzionale, per il danno erariale cagiona-to dall’illegittimo esborso delle somme (in motivazio-ne, si precisa che non rileva ai fini dell’affermazione della responsabilità del consigliere la circostanza che il presidente del consiglio regionale non abbia effet-

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tuato il rituale controllo sul corretto impiego dei fondi regionali respingendo le istanze di rimborso non do-cumentate o non rientranti nell’elenco delle spese rimborsabili).

257 – Sezione II centrale d’appello; sentenza 16 luglio 2019; Pres. Calamaro, Est. Buccarelli, P.M. Martina; G. e altri c. Proc. reg. Lombardia. Riforma Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 16 aprile 2015, n. 56.

Responsabilità amministrativa e contabile – Socie-tà partecipata – Rappresentante dell’ente pubblico partecipante – Comportamento illegittimo e negli-gente – Pregiudizio del valore della partecipazione societaria – Danno erariale – Sussiste. C.g.c., art. 1; c.c., art. 2497.

Sussiste la responsabilità del rappresentante dell’ente pubblico partecipante in una società (o co-munque del titolare del potere di decidere per esso) che determini con il proprio comportamento negligen-te o non conforme, nell’esercizio dei diritti del socio, un pregiudizio del valore della partecipazione (nella specie, l’indebitamento è stato assunto e mantenuto direttamente dalla provincia con proprie risorse e ga-ranzie, e, quindi, è immediatamente incidente, aldilà della partecipazione azionaria nella società, sul pa-trimonio dell’ente pubblico sia in termini di maggiori spese in quanto il debito è stato finanziato dalla Pro-vincia con la sottoscrizione dell’aumento di capitale, sia in termini di minori entrate (dato che il debito po-teva essere coperto ed è stato parzialmente pagato so-lo con la destinazione – stabilita nei contratti al cui adempimento la provincia era impegnata direttamente mediante lettere di patronage – degli utili via via ma-turati).

* * *

Sezione d’appello Regione Siciliana

64 – Sezione d’appello Regione Siciliana; sentenza 25 giugno 2019; Pres. Coppola, Est. Colavecchio, P.M. Aronica; G. c. Proc. reg. Sicilia. Riforma, Corte conti, Sez. giur. reg. Siciliana, 19 aprile 2018, n. 355.

Responsabilità amministrativa e contabile – Enti pubblici – Istituto autonomo case popolari – Diri-genti – Indebita erogazione dell’indennità di posi-zione e di risultato – Commissario straordinario e amministratori dell’ente – Responsabilità ammini-strativa – Sussiste. C.g.c., art. 1; d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, norme ge-nerali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, artt. 4, c. 2, 24, 45.

Sussiste la responsabilità amministrativa del Commissario straordinario e del Direttore generale di

un ente pubblico (nella specie, Iacp di Palermo) che abbiano erogato la retribuzione di posizione ai diri-genti dell’ente, in assenza di una graduazione degli uffici e di ogni valutazione in ordine alla complessità e alle responsabilità gestionali connesse alla specifica posizione dirigenziale.

86 – Sezione d’appello Regione Siciliana; sentenza 23 luglio 2019; Pres. Coppola, Est. Petrigni, P.M. Lica-stro; Proc. gen. app. reg. Sicilia c. C. e altro. Conferma, Corte conti, Sez. giur. reg. Siciliana, 24 luglio 2018, n. 669.

Responsabilità amministrativa e contabile – Co-mune – Sindaco – Richiesta anticipazioni di liquidi-tà – Destinazione vincolata – Pagamenti operati in violazione del vincolo – Responsabilità amministra-tiva del sindaco – Non sussiste. C.g.c., art. 1.

Non sussiste la responsabilità amministrativa del sindaco per i pagamenti operati dall’ente in violazio-ne della destinazione vincolata delle somme concesse con le anticipazioni di liquidità, posto che il sindaco non assume alcun obbligo diretto al rispetto delle condizioni legali ma avalla semplicemente per i profili di propria competenza la scelta di avviare il procedi-mento di richiesta delle somme per l’anticipazione, essendo poi del tutto estranea alla sua competenza qualsivoglia condotta attiva nella gestione dei paga-menti trattandosi di attività prettamente e tipicamente gestionale.

* * *

Sezioni giurisdizionali regionali

Lombardia

171 – Sezione giurisdizionale Regione Lombardia; sentenza 3 luglio 2019; Pres. (f.f.) Tenore; Proc. reg. Lombardia c. Omissis.

Responsabilità amministrativa e contabile – Danno erariale – Da malpractice medica – Regime appli-cabile – Legge Gelli – Ambito temporale di appli-cazione – Fatti anteriori alla legge n. 24 – Inappli-cabilità. L. 8 marzo 2017, n. 24, disposizioni in materia di si-curezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie.

Responsabilità amministrativa e contabile – Danno erariale – Da malpractice medica – Transazione ci-vile – Rilevanza in sede contabile – Doverosa riva-lutazione dei fatti – Ragioni. Responsabilità civile – Da malpractice medica – Po-lizze assicurative stipulate da Aziende sanitarie pubbliche – Previsione di una franchigia aggregata – Ragioni.

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N. 4/2019 PARTE IV – GIURISDIZIONE

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Responsabilità amministrativa e contabile – Danno erariale – Danno indiretto – Da malpractice medica – Esborsi in sede civile non coperti da assicurazio-ne – Potere riduttivo della Corte – Polizze assicura-tive aziendali con franchigia aggregata – Meccani-smo di funzionamento – Aleatorietà della rivalsa verso il medico – Erosione della franchigia al mo-mento del pagamento del sinistro dalla azienda – Irragionevolezza – Riflessi in sede di riduzione dell’addebito.

La legge Gelli 8 marzo 2017, n. 24, che disegna compiutamente un nuovo sistema di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, ha natura sostanziale, di talché le disposizioni di na-tura processuale, pure in essa contenute, non possono che leggersi in stretta ed indispensabile connessione con il complesso del nuovo regime sostanziale di re-sponsabilità, del quale rappresentano mero corolla-rio: pertanto, i precetti dell’art. 9, l. n. 24 cit., ponen-dosi in un unicum con le disposizioni di natura so-stanziale contenute nel medesimo corpo normativo, non risultano immediatamente applicabili, ratione temporis, a fatti verificatisi prima dell’entrata in vigo-re della legge.

Anche prima della novella dell’art. 9, c. 4, l. n. 24/2017 in materia di malpractice medica, le scelte transattive, giudiziali o stragiudiziali, al pari delle condanne in sede civile della pubblica amministrazio-ne, non avevano (e non hanno) un effetto vincolante assoluto sul giudizio di rivalsa per danno indiretto in-nanzi alla Corte dei conti in quanto la doverosa riva-lutazione interna da parte del giudice contabile, espressiva del suo irrinunciabile libero convincimen-to, interviene sempre e soprattutto qualora l’esborso risarcitorio da parte dell’azienda sanitaria sia avve-nuto non già in sede giudiziale civile, ma in sede tran-sattiva, le cui motivazioni, soprattutto se gestite da compagnie assicurative, sono spesso molto pragmati-che e meno ancorate (rispetto ad una sentenza civile) a ragionamenti tecnico-giuridici in punto di reale ed esatta imputazione al medico di una colpevolezza (grave) tutta da dimostrare in sede giuscontabile.

La previsione di franchigie (c.d. aggregate) è una prassi abituale nell’ambito delle polizze di responsa-bilità civile medica poiché, consentendo all’assicuratore ed all’azienda assicurata di giungere a un accordo economico che comporta costi più con-tenuti e di mantenere in equilibrio tecnico il rischio, permette da un lato di responsabilizzare l’assicurato, rendendolo partecipe, sebbene in quota minoritaria, delle conseguenze economiche derivanti da una pro-pria condotta illecita e, dall’altro, solleva l’assicuratore dalla cura di alcuni sinistri, ovvero i sinistri inferiori alla soglia di franchigia.

A fronte del risarcimento danni civili da parte di una azienda sanitaria per errori medici (malpractice), la rivalsa in sede contabile opera solo se la polizza assicurativa aziendale non operi a seguito della non erosione della franchigia gravante sulla pubblica amministrazione al momento del pagamento del sini-

stro dall’azienda, che quindi non potrà ottenere refu-sione da parte dell’assicuratore. Tale meccanismo si connota per profili di aleatorietà in capo al medico, evocabile dalla Corte dei conti a seconda della avve-nuta erosione o meno del massimale al momento del pagamento aziendale: ne consegue l’esercitabilità di un notevole potere riduttivo dell’addebito sia per la complessità dell’attività medica, sia per tale peculiare funzionamento del prodotto assicurativo. (1)

Diritto – 1. Va preliminarmente chiarito che il pre-sente giudizio segue il rito ordinario a fronte del man-cato consenso della attrice Procura al rito abbreviato di cui all’art. 130, d.lgs. n. 174/2016 per la esiguità della somma (euro 35.000, pari al 13 per cento dell’importo azionato) offerta dalla convenuta a fronte del contestato danno erariale di euro 268.491.

2. Sempre in via preliminare vanno disattese le ec-cezioni difensive della convenuta circa la decadenza del pubblico ministero dall’azione di rivalsa esperita ben oltre un anno non soltanto dall’avvenuto paga-mento del 2015, ma anche dall’entrata in vigore della novella legge Gelli 8 marzo 2017, n. 24, fissata all’1 aprile 2017 (art. 9, c. 2, l. n. 24) e circa l’inopponibilità della transazione tra l’azienda e la vit-tima del sinistro alla dott.ssa G. ai sensi dell’art. 9, c. 4, l. n. 24 cit., sia nell’an che nel quantum.

È agevole replicare sul punto che, secondo marmo-reo indirizzo di questa Corte (così Corte conti, Sez. I centr. app., n. 536/2017; Sez. giur. reg. Lombardia, n. 13/2019, nn. 103, 53 e 50/2018; nn. 196, 191 e 93/2017; Sez. giur. reg. Piemonte, nn. 66 e 68/2019; Sez. giur. reg. Calabria, n. 159/2018; Sez. giur. reg. Siciliana, nn. 732 e 76/2018; Sez. giur. reg. Emilia-Romagna, n. 21/2018; Sez. giur. reg. Toscana, n. 84/2019 e n. 221/2018), l. 8 marzo 2017, n. 24 che di-segna compiutamente un nuovo sistema di responsabi-lità professionale degli esercenti le professioni sanita-rie, ha natura sostanziale, di talché le disposizioni di natura processuale, pure in essa contenute, non posso-no che leggersi in stretta ed indispensabile connessio-ne con il complesso del nuovo regime sostanziale di responsabilità, del quale rappresentano mero corolla-rio “non essendone ipotizzabile un’applicazione avul-sa dall’intera vigenza del nuovo sistema”. Pertanto, i precetti dell’art. 9, l. n. 24 cit., ponendosi in un uni-cum con le disposizioni di natura sostanziale contenu-te nel medesimo corpo normativo, non risultano im-mediatamente applicabili, ratione temporis, alla fatti-specie qui esaminata, afferente fatti verificatisi nel 2011.

(1) In terminis, Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 4 ot-

tobre 2016, n. 163, in Giust. amm., 12/2016, con nota di L. Carbone, Responsabilità medica, strumenti assicurativi, danno erariale indiretto e le novità dal d.d.l. Gelli.

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E tali conclusioni valgono anche sull’ulteriore pre-tesa difensiva, questa volta di merito, relativa alla in-vocata operatività, nella specie, dell’art. 9, c. 5, l. n. 24/2017, che non consente condanne del medico ad una somma superiori al triplo della retribuzione lorda risultante dal Cud dell’anno della condotta. Per identi-che ragioni sopra espresse, il novello precetto non è applicabile al presente giudizio ratione temporis.

Per concludere sul punto, giova comunque rimar-care in ordine alla suddetta eccezione di inopponibilità della transazione (perfezionata dall’assicuratore) tra l’azienda e la vittima del sinistro alla dott.ssa G. ai sensi dell’art. 9, c. 4, l. n. 24 cit., sia nell’an che nel quantum, che anche prima della novella Gelli del 2017, le scelte transattive, giudiziali o stragiudiziali, al pari delle condanne in sede civile della pubblica am-ministrazione, non avevano (e non hanno) un effetto vincolante assoluto sul giudizio di rivalsa per danno indiretto innanzi a questa Corte. Difatti, come più vol-te ribadito dalla giurisprudenza, in perfetta sintonia con la dottrina, tale doverosa rivalutazione interna da parte del giudice contabile, espressiva del suo irrinun-ciabile libero convincimento, interviene sempre e so-prattutto qualora l’esborso risarcitorio da parte dell’azienda sanitaria sia avvenuto non già in sede giudiziale civile, ma in sede transattiva, le cui motiva-zioni, soprattutto se (come nella specie) gestite da compagnie assicurative, sono spesso molto pragmati-che e meno ancorate (rispetto ad una sentenza civile) a ragionamenti tecnico-giuridici in punto di reale ed esatta imputazione al medico (o a ciascun medico, in caso di concorso di persone) di una colpevolezza (grave) tutta da dimostrare in sede giuscontabile.

3. Ciò chiarito sul quadro normativo applicabile, sulla tempestività dell’azione erariale e sulla portata non vincolante della transazione che occasiona questo giudizio per danno erariale indiretto, può passarsi all’esame del merito.

È incontestato che l’amputazione del dito mignolo della mano patita dal paziente L.M. il 22 agosto 2011 sia stata causata dal tetano frutto di un taglio curato, con sutura, in data 16 agosto 2011 dalla convenuta dott.ssa G., in servizio al pronto soccorso dell’Ospedale Asst Omissis, come acclarato sia dal Ct (consulente tecnico) assicurativo dott. B. in atti (v. doc. Procura), sia dallo stesso Ct della difesa, dott. P. (doc. 6 difesa); mentre non vi è prova certa e univoca, fornita dalla difesa, che la patologia “polmonite tuber-colare” sopravvenuta in capo al M. sia consequenziale a detto tetano, come chiarito nella perizia del dott. U.P. in atti (doc. 6 difesa). In ogni caso, alcuna pretesa su quest’ultimo punto risulta formulata dal legale del sig. M., ne risulta dunque tale patologia tubercolare risarcita in sede transattiva, incentrata sul dito amputa-to per tetano.

È parimenti incontestato che la cartella clinica del ricovero non evidenzi la somministrazione di immu-

noglobuline né la doverosa verifica, da parte del me-dico accettante del pronto soccorso, qui convenuto, dell’avvenuta previa vaccinazione (e relativi richiami) antitetano da parte del M., parimenti non verificata dall’ortopedico successivamente. Né risulta in cartella clinica un pur possibile rifiuto del M. di sottoporsi a siero antitetanico-immunoglobuline.

Alla luce di tali dati fattuali incontroversi, la valu-tazione in punto di ascrizione causale e psicologica della patologia tetanica (alla base della transazione ri-sarcitoria) alla dott.ssa G., passa attraverso una logica ed ordinaria considerazione circa la condotta – espres-siva di basiche nozioni di medicina note a tutti (che dispensano il collegio da una Ctu medica), e dunque anche in capo ad un medico di pronto soccorso sulla scorta di comuni linee guida – che è doveroso preten-dere da qualsiasi medico in caso di ferita da taglio re-fertata e qualificata come “sporca”: ovvero di verifica-re se il paziente abbia copertura antitetanica o meno. Qualora ne sia sprovvisto, o vi sia dubbio sull’avvenuta assunzione di profilassi antitetanica, il medico, che ha, come nella specie, ritenuta “sporca” e dunque a rischio la ferita, ha l’obbligo comunque di somministrare immunoglobuline nelle 24 ore dal sini-stro, salvo rifiuto scritto del paziente, qui non formu-lato.

Nella specie, a fronte della richiesta della difesa della G. volta a provare testimonialmente che la dotto-ressa aveva formulato “oralmente” tale richiesta (non menzionata però in cartella di ricovero) al sig. M. che, non memore della avvenuta vaccinazione in sede di ricovero, si sarebbe impegnato a dare riscontro dopo una verifica domestica, osserva il collegio come la grave colpa della convenuta non sia rinvenibile nella omessa trascrizione della domanda fatta al M. e della risposta “transitoria” ricevuta, ma nel non aver suc-cessivamente (in giornata o massimo il giorno dopo) ricontattato, come suo obbligo deontologico e giuridi-co, il paziente rimasto silente per acquisire formale risposta sulla esistenza o meno di copertura antitetani-ca. Trattavasi di condotta doverosa e di agevolissima realizzazione anche a mezzo telefono, la cui omissio-ne denota grave colpevolezza omissiva per un medico che, sul piano causale, rappresenta la condicio sine qua non del sopravvenuto tetano. Del resto tale appro-do è confermato sia dal Ct assicurativo dott. B. in atti della Procura, sia dallo stesso Ct della difesa, dott. P. (doc. 6 difesa).

Unica alternativa a tale differita, ma fulminea, ac-quisizione, nelle 24 ore, di risposta da parte del M. (da riportare in cartella) sulla avvenuta copertura antiteta-nica, era la immediata somministrazione doverosa di immunoglobuline da parte del medico del pronto soc-corso al momento del ricovero, evitabile solo se vi fosse stato rifiuto scritto del paziente, qui non formu-lato, essendo, secondo ordinarie (e doverosamente no-te) conoscenze mediche, la vaccinazione anti-tetanica o l’immunoglobulina necessaria per il completamento

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della profilassi a seguito di morsi e ferite lacere o pun-torie, ustioni o ulcere profonde e in situazioni di storia vaccinale sconosciuta.

Tertium non datur in punto di condotte alternative della dott.ssa G.!

Non occorre dunque una Ctu per concludere, sulla base di ordinarie nozioni mediche ben conosciute e valutate dall’assicuratore dell’Azienda Asst Omissis nell’addivenire alla vantaggiosa transazione, che l’omessa somministrazione di immunoglobuline al momento del ricovero e/o l’omessa condotta di riscon-tro (dopo l’inottemperato impegno verbale del M. di verificare a casa l’avvenuta vaccinazione antitetanica) da parte della G. avrebbero assicurato il mancato veri-ficarsi o il mancato aggravarsi dell’evento lesivo, sulla base sia del noto parametro dell’“elevato grado di cre-dibilità razionale o probabilità logica”, sia di quello della probabilità statistica.

È infatti agevole ricordare che, secondo basiche nozioni mediche possedute da tutti, la profilassi con immunoglobuline avrebbe ben potuto escludere la contrazione dell’infezione in base alla miglior lettera-tura medica. E anche se non può parlarsi di certezza assoluta, a voler seguire l’ampio e articolato ragiona-mento della accurata difesa della dott.ssa G., sicura-mente può parlarsi in modo pertinente di “elevato gra-do di credibilità razionale o probabilità logica” (ex art. 533 c.p.p.: Cass. pen., S.U., n. 30328/2002, c.d. sen-tenza Franzese, statuente la responsabilità medica solo a fronte di serie ed apprezzabili probabilità confinanti con la certezza, c.d. “probabilità logica”, ovvero un alto o elevato grado di “credibilità razionale”), e di assai elevata probabilità statistica.

Sussiste dunque colpa grave nella negligente omis-sione informativa (e poi somministrativa di immuno-globuline) della dott.ssa G., anche se fosse veritiero che vi era stato un accordo verbale con il M. per una successiva e tempestiva verifica “domestica” circa l’esistenza di copertura antitetanica, non seguita da alcuna comunicazione del M., ma neppure da dovero-sa sollecitazione di riscontro da parte della G.

In sintesi, la colpa grave, in connessione causale con l’evento, va ravvisata nella specie richiamando il principio, logico ancor prima che giuridico, secondo cui una condotta appropriata, e qui mancata, avrebbe avuto apprezzabili e significative probabilità di scon-giurare la patologia tetanica e, quindi, il danno poi transatto.

Né ad escludere la grave colpevolezza e la causali-tà tra omissione e patologia tetanica assume rilevanza il fatto che la dott.ssa G. aveva inviato dal pronto soc-corso il M. al reparto ortopedia per verificare lesioni tendinee, in quanto la verifica basica sulla copertura antitetanica competeva in primo (e preponderante) luogo al medico del pronto soccorso intervenuto sul taglio al dito. Al più, come si vedrà nel prosieguo, l’ulteriore ed incidentale omesso riscontro, anche da

parte dell’ortopedico, della mancata verifica sull’esistenza di una previa antitetanica, può incidere, unitamente ad altri elementi, sul piano della riduzione dell’addebito, ma non per escludere la gravemente colpevole omissione della convenuta.

4. Acclarata la sussistenza dell’elemento psicolo-gico (colpa grave) della convenuta e del nesso causale tra la omissione in sede di anamnesi ed il letale tetano, va analizzato l’elemento strutturale “danno” (indiret-to), quantificato dalla procura nell’intero importo della transazione (comprensiva di spese legali) intervenuta tra la Asst Omissis (tramite assicuratore, circostanza che le Aziende sanitarie dovrebbero ben soppesare, partecipando formalmente alla trattativa ed alla valu-tazione medico legale dei fatti per una loro più obiet-tiva considerazione disancorata da logiche solo eco-nomico/assicurative che ridondano sul singolo medico evocato poi per danno indiretto in sede contabile) e il danneggiato L.M., pari ad euro 268.491,03.

Sul punto, la difesa della convenuta ha acutamente rimarcato che l’importo è da ritenere eccessivo, in quanto non tiene conto delle peculiarità della copertu-ra assicurativa contratta dalla Asst Omissis per i sini-stri derivanti da malpractice medica, che prevede una franchigia assoluta (rectius aggregata: v. polizza in atti) di 1.000.000 di euro gravante sulla azienda ospe-daliera sul complesso dei n. 18 sinistri risarciti nel 2015 (pari ad euro 1.957.273,97: v. doc. 1 Procura con esposto Asst), tra i quali quello cagionato dalla G., il cui importo risarcitorio dovrebbe dunque essere ridot-to ad euro 36.810,12, o ad euro 137.176, distribuendo la franchigia assoluta su tutti i sinistri del 2015 secon-do il criterio di proporzionalità indicato a pp. 7 e 8 della comparsa difensiva qui richiamata, non potendo-si logicamente ammettere che per l’importo di euro 957.273,97 (assicurato in quanto eccedente la franchi-gia gravante sulla Asst Omissis) i potenziali responsa-bili rimanessero indenni dalla rivalsa erariale, non es-sendo i risarcimenti pagati con denari dell’azienda ma dell’assicuratore, mentre dovesse sottostare al giudizio contabile solo chi, come la convenuta, avesse com-messo per circostanze temporali sfavorevoli un errore medico risarcito nell’ambito della suddetta franchigia a carico aziendale.

Tale ragionevole argomento difensivo è condiviso dal collegio, che lo ha già fatto proprio, ai fini di una sensibile riduzione dell’addebito, in un analogo pro-cedimento confluito nella sentenza Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 4 ottobre 2016, n. 163, ai cui enunciati è sufficiente rifarsi.

Giova però precisare, in via generale e per una mi-gliore comprensione del caso in esame, che la previ-sione di franchigie è una prassi abituale in ambito as-sicurativo che ha assunto proporzioni notevoli nell’ambito delle polizze di responsabilità civile me-dica poiché, consentendo all’assicuratore ed all’assicurato di giungere a un accordo economico che

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comporta costi più contenuti e mantiene in equilibrio tecnico il rischio, permette da un lato di responsabiliz-zare l’assicurato, rendendolo partecipe, sebbene in quota minoritaria, delle conseguenze economiche de-rivanti da una propria condotta illecita e, dall’altro, solleva l’assicuratore dalla cura di alcuni sinistri, ov-vero i sinistri inferiori alla soglia di franchigia. Difatti, questi ultimi sono gestiti in sostanziale autonomia dall’assicurato, con le relative problematiche operati-ve e gestionali, tra le quali le denunce in sede contabi-le per le rivalse nei confronti di medici ed infermieri per le somme in franchigia non coperte da assicura-zione.

Si rinvengono sul mercato diverse tipologie di franchigia. Innanzitutto, è possibile distinguere tra franchigia assoluta e franchigia relativa per danno, ove rispettivamente per ogni danno è sottratta una somma che rimane a carico dell’assicurato, ovvero è fissata una somma sotto la quale il danno resta a cari-co dell’assicurato, mentre qualora superiore è sostenu-ta integralmente dall’assicuratore. Una formula che trova frequente applicazione nell’ambito della respon-sabilità civile sanitaria è però quella della franchigia aggregata annua (quella operante nel caso in esame), in virtù della quale è fissata una somma globale per tutti i sinistri di ciascun esercizio che rimane a carico dell’assicurato (Asst di Omissis nella specie), con la conseguenza che la compagnia di assicurazione inter-verrà con il proprio patrimonio solo ed esclusivamente quando l’importo dei risarcimenti corrisposti superi tale somma (1.000.000 di euro nel caso in esame), su-perato il quale il risarcimento della compagnia sarà integrale.

Ciò chiarito sul piano generale e ritornando ai cen-nati equilibrati approdi della sent. 4 ottobre 2016, n. 163, in tale precedente, condiviso univocamente dalla dottrina specialistica del ramo sanitario-assicurativo, la sezione ha rimarcato e criticato il “perverso” mec-canismo di funzionamento delle polizze assicurative con franchigia aggregata, che affida a circostanze ca-suali e talvolta cabalistiche, l’imputazione a medici ed infermieri di una quota più o meno ampia di danno patito dalla azienda in occasione di sinistri sanitari. Ed invero, se per circostanze meramente casuali-temporali un sinistro si verificasse sotto la vigenza temporale della parte iniziale (cronologicamente) di una polizza, ergo in un periodo in cui la franchigia ag-gregata è totalmente ancora aperta e quindi a carico dell’azienda, quest’ultima si accollerebbe l’intero co-sto dell’esborso risarcitorio e, a catena, il medico (o l’infermiere) verrebbe convenuto in sede di rivalsa giuscontabile per il totum di tale importo. Se invece, per parimenti casuali circostanze temporali, il mede-simo medico (o infermiere) commettesse un errore sa-nitario risarcibile sotto la vigenza temporale della fase finale di una polizza, ergo in un periodo in cui la fran-chigia aggregata si è totalmente erosa, l’assicurazione pagherebbe in via esclusiva il sinistro al terzo danneg-

giato, senza oneri sulla azienda sanitaria e, a catena, senza possibili rivalse giuscontabili sul medico (o in-fermiere). Quest’ultima “sfortunata” evenienza ha toccato la dott.ssa G. qui convenuta, autrice (unita-mente ad altri 18 colleghi autori di distinti errori me-dici: v. denuncia Asst in doc. 1 Procura) di una con-dotta omissiva dannosa prima dell’erosione della fran-chigia di 1.000.000 di euro.

Tale meccanismo, seppur giuridicamente e contrat-tualmente lecito e ancorato a parametri statistico-attuariali alla base del prodotto assicurativo, porta a situazioni (quale quella sub iudice) logicamente para-dossali e illogiche, a cui si può sopperire distribuendo, parzialmente e in via equitativa (ma non come pro-spetta la difesa della dott.ssa G. che vorrebbe distri-buire l’intera franchigia su tutti i sinistri 2015, così di fatto accollandola interamente alla Asst), la franchigia gravante sulla Asst di Omissis su tutti i sinistri inter-venuti nell’arco temporale 2015 (pari ad un esborso di complessivi euro 1.957.273,97, di cui 1.000.000 a ca-rico della Asst assicurata), non potendo, a pena di ir-ragionevolezza e di applicazione cabalistica del diritto (e dunque delle condanne di questa Corte), la stessa gravare interamente solo su taluni di essi, quale è quello della dott.ssa G.

E allora, in coerente sviluppo delle suddette coor-dinate logiche, l’alea insita in una polizza aziendale con franchigia aggregata non può essere fatta intera-mente valere su medici ed infermieri che errano in pe-riodo di franchigia, ma una parte va posta a carico del-la azienda stessa, con conseguente esercizio, in questa sede, di congruo potere riduttivo dell’addebito, a fron-te di evenienze, quale quella sub iudice, di esborso per un sinistro sanitario verificatosi, sfortunatamente per la convenuta, in periodo in cui la franchigia da 1.000.000 di euro non risultava erosa.

Non potendosi seguire i criteri di calcolo proposti dalla difesa tendenti a distribuire interamente tale franchigia da 1.000.000 di euro su tutti i sinistri inter-venuti nel 2015, così di fatto ponendola interamente a carico della pubblica amministrazione ed eliminando la ratio della stessa (pungolare i dipendenti ad una elevata attenzione nello svolgimento delle proprie mansioni), ritiene il collegio di fare corretto esercizio del potere riduttivo dell’addebito, come già statuito con la predetta sent. 4 ottobre 2016, n. 163, sulla base del cennato anomalo funzionamento del meccanismo assicurativo con franchigia aggregata, riducendo la contestata somma di euro 268.491,03 ad euro 160.000.

5. Così rideterminato così il quantum equitativa-mente ascrivibile alla dott.ssa G., occorre farsi carico dell’ulteriore pertinente eccezione difensiva, rilevante in punto di riduzione ulteriore del quantum addebita-bile alla convenuta, circa lo scomputo dal danno con-testato degli emolumenti riconosciuti dall’assicuratore sociale a titolo di indennità d’accompagnamento (di cui si chiede l’accertamento). Osserva la sezione che

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sulla non cumulabilità per il danneggiato di benefici Inps ed indennità assicurativa, ove lo stesso sia a sua volta assicurato contro gli infortuni, Cass., S.U., 22 maggio 2018, n. 12567, ha affermato il divieto di cu-mulo, in quanto l’indennizzo dovuto dall’assicuratore ed il risarcimento dovuto dal responsabile assolvono ad una identica funzione risarcitoria e pertanto non possano essere cumulati.

Tuttavia, a prescindere dal fatto che la difesa della convenuta non ha documentato, come suo onere, né l’avvenuta erogazione o meno (ed il relativo importo) di indennità da parte dell’assicuratore sociale, né, ove vi fosse stata tale erogazione (come parrebbe dalla Ct del dott. B. che parla di percezione da parte del M. di indennità per invalidità civile al 100 per cento con di-ritto ad accompagnamento) che la stessa sia correlata al sinistro oggetto di causa o ad altre preesistenti plu-rime patologie (come la suddetta Ct B. pare evidenzia-re a p. 3), tale profilo “compensativo-cumulativo” non rileva comunque in questa sede giuscontabile, avente come ambito di accertamento la sola sussistenza e quantificazione di un danno erariale per intervenuto esborso di somme da parte di un ente pubblico. Even-tuali duplicazioni di somme erogate da diversi soggetti (assicuratore privato e Inps) non riguardano l’autore del danno e potrebbero, al limite, essere fatte valere, ove ve ne siano i presupposti, innanzi all’Ago da parte degli interessati.

6. Meritevoli di valutazione invece in punto di ul-teriore esercizio del potere riduttivo dell’addebito so-pra rideterminato in 160.000 euro appaiono invece tre rilevanti circostanze: a) il non aver il M. stesso infor-mato la dott.ssa G., né in sede di ricovero in pronto soccorso, né successivamente, circa la avvenuta o me-no pregressa copertura antitetanica, essendo onere del paziente fornire ogni basilare informazione utile alla cura al medico, su cui però grava un prevalente e as-sorbente obbligo accertativo in sede di ricovero o su-bito dopo, come nella specie; b) l’elevato numero di pazienti (n. 26) seguiti dalla dott.ssa G. nella giornata del 16 agosto 2011, tra l’altro onerosamente estiva; c) il non aver colto l’ortopedico, ove era stato successi-vamente inviato il paziente, la gravemente colpevole omissione della dott.ssa G. circa la verifica sulla pre-gressa copertura antitetanica del M.

Nessun valore decurtante assume invece, come già detto, l’asserito erroneo computo, secondo la difesa della dott.ssa G., nel danno transatto della ulteriore patologia tubercolare del M., palesemente non oggetto di richiesta risarcitoria da parte del suo avvocato alla Asst e oggettivamente non inserita tra le voci di danno oggetto di transazione, limitate alle conseguenze del tetano de quo.

Alla stregua di tali circostanze, ritiene equo il col-legio rideterminare in euro 90.000, ad oggi già rivalu-tati, la somma ascrivibile alla convenuta, oltre interes-

si legali dal deposito della sentenza al saldo effettivo e spese di lite liquidate come da dispositivo.

186 – Sezione giurisdizionale Regione Lombardia; sentenza 17 luglio 2019; Pres. Caruso, Est. Veccia; P.M. Napoli; Proc. reg. Lombardia c. A. e altri.

Responsabilità amministrativa e contabile – Enti locali – Amministratori – Provvedimento di revoca dell’incarico del direttore generale dell’ente – Condanna in sede civile dell’amministrazione al risarcimento del danno – Danno erariale indiretto. L. 14 gennaio 1994, n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1; d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, artt. 49, 108.

Sussiste la responsabilità amministrativa dei diri-genti di un ente locale per il danno erariale indiretto cagionato all’ente dalla condanna al risarcimento a favore del direttore generale per la mancata perce-zione dei redditi conseguente alla revoca dell’incarico.

196 – Sezione giurisdizionale Regione Lombardia, 19 luglio 2019; Pres. (f.f.) ed Est. Tenore; Proc. reg. Lombardia c. A.P. e altri.

Giurisdizione e competenza – Società in house – Expo 2015 s.p.a. – Danni arrecati da propri dipen-denti – Danni arrecati da dipendenti di altre socie-tà in house – Giurisdizione contabile. D.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, recante il t.u. sulle so-cietà partecipate, art. 12.

Responsabilità amministrativa e contabile – Perso-na giuridica – Danno erariale – Soggetti citabili in giudizio – Persona giuridica e suo dipendente auto-re della condotta – Doppia legittimazione passiva – Sussiste – Evocazione del solo dipendente – Conse-guenze – Valutazione del contributo concausale della società – Necessità. Responsabilità amministrativa e contabile – Socie-tà in house – Fornitura arborea – Pagamento di un prezzo eccessivo da parte della società – Danno erariale – Sussiste. Processo contabile – Scelte discrezionali della pub-blica amministrazione (o di società in house) – Transazione – Valutazione della congruità nel giu-dizio contabile. Transazione – Reciproche concessioni – Margini di discrezionalità tra le parti – Limiti. Responsabilità amministrativa e contabile – Danno erariale – Soggetto terzo non evocato in giudizio – Contributo concausale al danno – Quantificazione del danno – Effetti.

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N. 4/2019 PARTE IV – GIURISDIZIONE

213

In base all’art. 12, c. 1, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, sono devolute alla giurisdizione della Corte dei conti le controversie per il danno erariale cagionato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house, nozione a cui è palesemente riconducibile Ex-po 2015 s.p.a., sia per danni diretti prodotti da dipen-denti della stessa, sia per danni “obliqui”, ovvero ad “altra amministrazione”, prodotti da dipendenti di altre distinte società in house. (1)

A fronte di un danno arrecato alla pubblica ammi-nistrazione o ad una società in house da una distinta persona giuridica privata (società in house nella spe-cie), è citabile in giudizio sia la persona giuridica che le persone fisiche materialmente autrici della condot-ta attiva o omissiva foriera di danno. Tuttavia, se ve-nissero citate le sole persone fisiche, va valutato, in sede di quantificazione del danno, ove si ipotizzi una colpa grave e non un dolo (connotato da solidarietà tra società e dipendente), il contributo concausale della società di appartenenza dei convenuti non evo-cata in giudizio. (2)

Configura danno erariale patito dalla società in house Expo 2015 s.p.a. il prezzo palesemente eccessi-vo e sproporzionato pagato, nell’ambito di una forni-tura complementare senza evidenza pubblica, alla so-cietà appaltatrice per la fornitura di essenze arboree necessarie per attuare l’importante progetto di Expo 2015.

La Corte dei conti, nel sindacare la ragionevolezza di una transazione intervenuta tra una p.a. (o tra una società in house quale Expo 2015 s.p.a.) e un appalta-tore-fornitore privato, pur valutando il contesto tem-porale e storico (connotato da urgenza) della transa-zione ed il diverso “peso” negoziale delle parti con-traenti, ben può valutare la congruità, secondo ordi-nari parametri di mercato, del valore delle voci di credito vantate dalle parti concilianti, e se le stesse fossero disancorate da detti parametri di mercato, è ben configurabile un danno erariale da transazione illogica o abnorme.

Gli spazi di reciproca rinuncia nell’ambito di una transazione sono tendenzialmente illimitati qualora a transigere sia un soggetto privato che disponga in tale contesto di denari propri, a cui potrebbe rinunciare anche in modo consistente per esigenze, anche psico-

(1) Per la definizione di società in house v. Corte conti,

Sez. giur. reg. Lombardia, 9 marzo 2018, n. 49; in questa Rivi-sta, 2018, fasc. 1-2, 318; Sez. riun. contr., 20 giugno 2019, n. 11, ivi, 2019, fasc. 3, 139; Sez. riun., spec. comp., 22 maggio 2019, n. 16, ibidem, 179, richiamate dalla sentenza massimata.

(2) Ex pluribus, Cass., S.U., 14 settembre 2017, n. 21297; S.U., 31 luglio 2017, n. 18991, in questa Rivista, 2017, fasc. 3-4, 486; S.U., 10 settembre 2013, n. 20701, ivi, 2013, fasc. 5-6, 556; S.U., 2 dicembre 2013, n. 26935; S.U., 9 gennaio 2013, n. 295, ivi, 2013, fasc, 3-4, 449; S.U, 3 marzo 2010, n. 5019; S.U., 27 aprile 2010, n. 9963; S.U., 23 settembre 2009, n. 20434; Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 12 luglio 2017, n. 112; Sez. giur. reg. Piemonte, 13 gennaio 2015, n. 1; Sez. giur. reg. Abruzzo, 27 maggio 2015, n. 45; Sez. III centr. app., 10 marzo 2015, n. 138; Sez. II centr. app., 1 giugno 2012, n. 347.

logiche, di “qualità della vita” (che un contenzioso evitato innegabilmente assicura), ma se a transigere sia invece un soggetto pubblico, a cui una società in house è equiparata, i parametri valutativi sono deci-samente più ristretti e maggiormente, se non quasi esclusivamente, ancorati a risparmi di spesa (sia ge-stionali che per contenziosi), a tutela delle casse pub-bliche e della collettività che vi contribuisce finanzia-riamente.

Qualora il danno contestato dalla procura conta-bile sia stato concausato da soggetti privati non evo-cati (o non evocabili) in giudizio, il danno contestato ai convenuti va rideterminato valutando il contributo concausale dei terzi.

* * *

Piemonte

253 – Sezione giurisdizionale Regione Piemonte; sen-tenza 3 luglio 2019; Pres. Pinotti, Est. Berruti; P.M. Napoli; Proc. reg. Piemonte c. C.

Responsabilità amministrativa e contabile – Regio-ne – Dirigenti – Conferimento di incarichi esterni – Consulenze su attività vietata dalla legge a soggetti estranei all’amministrazione – Danno erariale – Sussiste. D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, art. 7, c. 6; d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali, art. 9, c. 2; d. l. 23 giugno 2011, n. 118, disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli artt. 1 e 2 l. 5 maggio 2009, n. 42, art. 56, c. 6; l 6 novembre 2012, n. 190, disposizioni per la prevenzione e la repressio-ne della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, art. 1, cc. 8, 11.

Rispondono di danno erariale i dirigenti di una regione che abbiano conferito incarichi di collabora-zione a soggetti esterni per attività (nella specie, la redazione del piano anticorruzione) che per legge debbono essere necessariamente svolte da personale interno appositamente formato, e a prescindere da ogni verifica relativa all’effettiva assenza di profes-sionalità interne.

* * *

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N. 4/2019 PARTE IV – GIURISDIZIONE

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Puglia

397 – Sezione giurisdizionale Regione Puglia; senten-za 1 luglio 2019; Pres. ed Est. Romanelli; P.M. Scian-calepore; Proc. reg. c. F. e altri.

Giurisdizione e competenza – Corte di cassazione – Sentenza di esclusione della giurisdizione contabile – Riassunzione/prosecuzione del giudizio da parte del procuratore contabile – Pronuncia della Corte dei conti – Nozione. C.p.c., art. 367, c. 1; c.g.c., artt. 16, c. 1, 31, c. 2.

Il giudizio dinanzi la Corte dei conti esperito a se-guito di riassunzione/prosecuzione da parte del Pro-curatore regionale, è definito con una mera pronuncia ricognitiva del dictum della Suprema Corte di cassa-zione, la cui valenza di giudicato esterno in ordine all’insussistenza della competenza del giudice conta-bile comporta ex lege l’esaurimento del giudizio a quo.

489 – Sezione giurisdizionale Regione Puglia; senten-za 23 luglio 2019; Pres. (f.f.) ed Est. Iacubino; P.M. Picuno; Proc. reg. Puglia c. R. e altri.

Responsabilità amministrativa e contabile – Co-mune – Amministratori – Segretario comunale – Retribuzione – Principio di omnicomprensività – Violazione – Danno erariale. D.lgs. 18 agosto 2000, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, artt. 97, 107; d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, artt. 4, c. 2, 5, c. 2.

Rispondono di danno erariale gli amministratori di un comune che abbiano attribuito al segretario co-munale compensi per indennità (nella specie, di posi-zione e di risultato) ricomprese tra le voci stipendiali, in violazione del principio di omnicomprensività del trattamento economico.

* * *

Sicilia

621 – Sezione giurisdizionale Regione Siciliana; sen-tenza 20 agosto 2019; Pres. Carlino, Est. Gargiulo, P.M. Albo; Proc. reg. Sicilia c. Romano e altri.

Responsabilità amministrativa e contabile – Co-mune – Amministratori di una società in house – Personale dipendente in part time – Incremento delle ore lavorative – Esborso ingiustificato di ri-sorse – Colpa grave – Danno erariale. C.g.c., art. 1; d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, t.u. in ma-teria di società a partecipazione pubblica, art. 12.

Rispondono di danno erariale gli amministratori di una società in house del comune che abbiano de-

terminato, con colpa grave, l’esborso di risorse dovu-to all’incremento ingiustificato delle ore di lavoro del personale in part time alle dipendenze della stessa so-cietà.

* * *

Trentino-Alto Adige, Bolzano

92 – Sezione giurisdizionale Regione Trentino-Alto Adige, Bolzano; sentenza 23 luglio 2019; Pres. Ca-bras, Est. Marinaro, P.M. Morgante; Proc. reg. c. C.P.

Responsabilità amministrativa e contabile – Som-me indebitamente acquisite da dipendente dell’amministrazione danneggiata – Recupero ra-teale in base a verbale di conciliazione – Attualità del danno – Non sussiste – Inammissibilità dell’atto di citazione.

C.p.c. artt. 100, 410, 411, 474.

Va dichiarata l’inammissibilità dell’atto di cita-zione per difetto del requisito di attualità del danno, e quindi per carenza di interesse ad agire, qualora l’amministrazione, in base a verbale di conciliazione (ex art. 410 c.p.c.) munito di efficacia esecutiva (ai sensi del combinato disposto degli artt. 411 e 474 c.p.c.), stia già procedendo al recupero rateale delle somme indebitamente acquisite dal proprio dipenden-te, convenuto in giudizio dalla procura contabile in relazione alle medesime somme, potendosi la conte-stata lezione erariale concretizzare solo nell’ipotesi in cui, per eventi sopravvenuti, non risultasse possibile l’integrale restituzione delle stesse. (1)

(1) In termini analoghi alla sentenza che si annota, v. Corte

conti, Sez. giur. reg. Puglia, 14 giugno 2005, n. 388, in questa Rivista, 2005, fasc. 3, 157 (confermata in sede di appello dalla Sez. III centr. app. n. 187/2007), nonché recentior, Sez. giur. reg. Basilicata, 18 ottobre 2018, n. 48, dove si osserva come, una volta adottato il provvedimento di recupero mediante trat-tenuta mensile sulle rate di stipendio, “venga meno l’utilità di disporre di un ulteriore titolo esecutivo di natura giudiziale nei confronti del soggetto responsabile, sino a quando non venga a cessare, per qualunque motivo, la corresponsione dei suddetti assegni”.

Peraltro la Corte territoriale lucana dà atto della corposa posizione giurisprudenziale “orientata nel senso dell’irrilevanza di eventuali azioni di recupero sull’attualità e sulla concretezza del danno azionato nel giudizio di responsabilità amministrati-vo-contabile, potendosi tener conto delle somme eventualmente recuperate successivamente alla sentenza di condanna, soltanto, in sede di esecuzione del giudicato” (nel senso della suddetta irrilevanza, v., ex plurimis, Corte conti, Seg. giur. reg. Sarde-gna, 24 giugno 2016, n. 23, nonché, Sez. app. reg. Siciliana, 10 ottobre 2014, n. 388, che si premura di sottolineare la “com-plessa funzione attribuita oggi dall’ordinamento all’azione del pubblico ministero contabile”).

Il giudice potentino non manca comunque di precisare “di non poter convenire con siffatto orientamento, essendosi lo stesso formato, per lo più, in relazione a fattispecie concernenti indebite elargizioni o indebiti pagamenti in favore di soggetti terzi estranei alla pubblica amministrazione e, dunque, caratte-

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N. 4/2019 PARTE IV – GIURISDIZIONE

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96 – Sezione giurisdizionale Regione Trentino-Alto Adige, Bolzano; sentenza 31 luglio 2019; Giud. un. Marinaro; M.V. c. Ministero della difesa.

Pensioni civili e militari – Pensione militare – Do-manda diretta esclusivamente all’accertamento della dipendenza di infermità da causa di servizio – Mancata presentazione di contestuale istanza di pensione privilegiata – Ammissibilità della doman-da. C.g.c. art. 153; d.p.r. 29 ottobre 2001, n. 461, regola-mento recante la semplificazione dei procedimenti per il riconoscimento della dipendenza delle infermità da causa di servizio, per la concessione della pensione privilegiata ordinaria e dell’equo indennizzo, nonché per il funzionamento e la composizione del comitato per le pensioni privilegiate ordinarie, art. 12.

Sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in caso di domanda presentata durante il servizio attivo ai fini del solo accertamento della dipendenza di in-fermità da causa di servizio – pur in assenza di conte-stuale istanza di pensione privilegiata, ben potendosi invocare l’attribuzione del trattamento pensionistico in un secondo momento, stante il carattere di definiti-vità, e dunque di atto presupposto, conferito dall’art. 12 del d.p.r. n. 461/2001 all’accertamento in questio-ne “anche nell’ipotesi di successiva richiesta di equo indennizzo e di trattamento pensionistico di privile-gio”. (1)

rizzate da un alto grado di aleatorietà del procedimento di recu-pero, perché condizionato dall’esperimento e dal successo della relativa azione risarcitoria dinanzi all’Ago (cfr. Sez. giur. reg. Veneto, 2 aprile 1994, n. 29; Sez. giur. reg. Lombardia, 19 apri-le 1994, n. 34; Sez. giur. reg. Basilicata, 19 dicembre 2003, n. 208 e Sez. giur. reg. Liguria, 28 giugno 2004, n. 609), ovvero dallo spontaneo adempimento del debitore (cfr. Sez. giur. reg. Marche, 15 ottobre 2003, n. 793) e, comunque, dalla capienza di quest’ultimo”.

(1) I. - Circa la consolidata e uniforme giurisprudenza della Corte regolatrice sulla ravvisata giurisdizione della magistratu-ra contabile in ordine alla domanda di accertamento della di-pendenza di infermità da causa di servizio, v. da ultimo Cass., S.U., 10 gennaio 2019, n. 490 (in generale, con riguardo al pe-rimetro della materia pensionistica devoluta alla Corte dei con-ti, v., ex pluribus, Cass., S.U., 18 ottobre 2018, n. 26252, 21 settembre 2017, n. 21971).

II. - In relazione al profilo dell’ammissibilità della sola suddetta domanda si riscontrano interpretazioni difformi.

Nel senso che la domanda goda di autonoma rilevanza, v. Corte conti, Sez. I centr. app., 18 febbraio 2015, n. 171 (in cui si sottolinea, tra l’altro, che sarebbe inutile formalismo subor-dinare la proponibilità del ricorso alla preesistenza del provve-dimento amministrativo, tenuto conto che il giudizio pensioni-stico, pur ritualmente modellato come giudizio di impugnazio-ne, è, nella sostanza, un giudizio pieno sul rapporto) e 3 agosto 2016, n. 291, nonché, a livello territoriale, Sez. giur. reg. Sar-degna, 21 luglio 2017, n. 100 (dove si ragiona di un “interesse meritevole di tutela […] ad acquisire definitiva consapevolezza sulla dipendenza o meno dal servizio delle infermità lamenta-te”) e Sez. giur. reg. Friuli-Venezia Giulia, 12 luglio 2017, n. 52.

Contra, nel senso della inammissibilità della domanda per

mancata definizione, almeno per implicito, della c.d. pregiudi-ziale amministrativa, v. Sez. giur. reg. Campania, 10 luglio 2018, n. 220, in piena adesione a Sez. giur. reg. Puglia, 24 no-vembre 2017, n. 500, nonché Sez. giur. reg. Lombardia, 8 no-vembre 2018, n. 221, in questa Rivista, 2018, fasc. 5-6, 106, in cui si ritiene necessaria la previa proposizione di una domanda amministrativa non potendo il giudice sostituirsi all’attività provvedimentale della pubblica amministrazione.

III. - In generale, in tema di presentazione di ricorso pen-sionistico in assenza di previa domanda amministrativa, v. Cor-te conti, Sez. giur. reg. Trentino-Alto Adige, Bolzano, 29 otto-bre 2018, n. 47, ibidem, 174, con ampi richiami.

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N. 4/2019 PARTE IV – GIURISDIZIONE

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N. 4/2019 PARTE V – ALTRE CORTI

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ALTRE CORTI

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA

C-305/18 – Corte di giustizia dell’Unione europea, Sezione VI; sentenza 8 maggio 2019, Pres. e Rel. Toader, Avv. gen. Hogan; Ass. Verdi ambiente e so-cietà e altri c. Presidenza del Consiglio dei ministri italiana e altri. Domanda di pronuncia pregiudiziale.

Ambiente (tutela del) – Direttiva 2008/98/Ce – Re-cupero o smaltimento dei rifiuti – Istituzione di un sistema integrato di gestione dei rifiuti che garanti-sca l’autosufficienza nazionale – Realizzazione di impianti di incenerimento o incremento della capa-cità degli impianti esistenti – Qualifica degli im-pianti di incenerimento come “infrastrutture e in-sediamenti strategici di preminente interesse na-zionale” – Rispetto del principio della “gerarchia dei rifiuti”. Direttiva 2008/08/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, 19 novembre 2008, art. 13; d.l. 12 settem-bre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla l. 11 novembre 2014, n. 164, misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplifica-zione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeolo-gico e per la ripresa delle attività produttive, art. 35.

Ambiente (tutela del) – Direttiva 2001/42/Ce – Re-cupero o smaltimento dei rifiuti – Istituzione di un sistema integrato di gestione dei rifiuti che garanti-sca l’autosufficienza nazionale – Realizzazione di impianti di incenerimento o incremento della capa-cità degli impianti esistenti – Qualifica degli im-pianti di incenerimento come “infrastrutture e in-sediamenti strategici di preminente interesse na-zionale” – Necessità di procedere ad una “valuta-zione ambientale”. Direttiva 2001/42/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, artt. 2, lett. a), 3, parr. 1 e 2, lett. a); d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modifica-zioni dalla l. 11 novembre 2014, n. 164, misure urgen-ti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle ope-re pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la sempli-ficazione burocratica, l’emergenza del dissesto idro-geologico e per la ripresa delle attività produttive, art. 35.

Il principio della “gerarchia dei rifiuti”, quale espresso all’art. 4 della direttiva 2008/98/Ce del Par-lamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, e letto alla luce dell’art. 13 di tale direttiva, deve es-sere interpretato nel senso che non osta ad una nor-mativa nazionale che qualifica gli impianti di incene-rimento dei rifiuti come “infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale”, purché

tale normativa sia compatibile con le altre disposizio-ni di detta direttiva che prevedono obblighi più speci-fici.

Gli artt. 2, lett. a), 3, parr. 1 e 2, lett. a), della di-rettiva 2001/42/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valuta-zione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, devono essere interpretati nel senso che una normativa nazionale, costituita da una nor-mativa di base e da una normativa di esecuzione, che determina in aumento la capacità degli impianti di incenerimento dei rifiuti esistenti e che prevede la realizzazione di nuovi impianti di tale natura, rientra nella nozione di “piani e programmi”, ai sensi di tale direttiva, qualora possa avere effetti significativi sull’ambiente e deve, di conseguenza, essere soggetta ad una valutazione ambientale preventiva.

1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva 2001/42/Ce del Par-lamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente (G.U. 2001, L 197, p. 30; in prosieguo: la “direttiva Vas”), nonché della direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive (G.U. 2008, L 312, p. 3; in prosieguo: la “direttiva rifiuti”).

2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, le associazioni per la tutela dell’ambiente Verdi ambiente e società (Vas) – Aps onlus e Movimento legge rifiuti zero per l’economia circolare Aps, e, dall’altro, la Presidenza del Consiglio dei ministri e altri, avente ad oggetto un ricorso volto all’annullamento del decreto del Presi-dente del Consiglio dei ministri del 10 agosto 2016 – Individuazione della capacità complessiva di tratta-mento degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani e assimilabili in esercizio o autorizzati a livello nazio-nale, nonché individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di ince-nerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilati (Guri n. 233, 5 ottobre 2016; in prosieguo: il “decreto del 10 agosto 2016”).

Contesto normativo diritto dell’Unione

Direttiva Vas

3. Ai sensi dei considerando 4 e da 15 a 18 della direttiva Vas:

“4) La valutazione ambientale costituisce un im-portante strumento per l’integrazione delle considera-zioni di carattere ambientale nell’elaborazione e nell’adozione di taluni piani e programmi che possono avere effetti significativi sull’ambiente negli Stati membri, in quanto garantisce che gli effetti dell’attuazione dei piani e dei programmi in questione siano presi in considerazione durante la loro elabora-zione e prima della loro adozione. [...]

15) Allo scopo di contribuire ad una maggiore tra-sparenza dell’iter decisionale nonché allo scopo di ga-

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N. 4/2019 PARTE V – ALTRE CORTI

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rantire la completezza e l’affidabilità delle informa-zioni su cui poggia la valutazione, occorre stabilire che le autorità responsabili per l’ambiente ed il pub-blico siano consultate durante la valutazione dei piani e dei programmi e che vengano fissate scadenze ade-guate per consentire un lasso di tempo sufficiente per le consultazioni, compresa la formulazione di pareri.

16) Nel caso in cui l’attuazione di un piano o di un programma elaborato in uno Stato membro possa ave-re effetti significativi sull’ambiente di altri Stati mem-bri, si dovrebbe prevedere che gli Stati membri inte-ressati procedano a consultazioni e che le autorità in-teressate ed il pubblico siano informate e possano esprimere il loro parere.

17) Il rapporto ambientale e i pareri espressi dalle autorità interessate e dal pubblico, nonché i risultati delle consultazioni transfrontaliere dovrebbero essere presi in considerazione durante la preparazione del piano o del programma e prima della sua adozione o prima di avviarne l’iter legislativo.

18) Gli Stati membri dovrebbero provvedere affin-ché, quando è adottato un piano o programma, le auto-rità interessate ed il pubblico siano informate e siano messi a loro disposizione dati pertinenti”.

4. L’art. 1 di tale direttiva, intitolato “Obiettivi”, prevede quanto segue:

“La presente direttiva ha l’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e di contri-buire all’integrazione di considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione e dell’adozione di piani e programmi al fine di promuovere lo sviluppo sosteni-bile, assicurando che, ai sensi della presente direttiva, venga effettuata la valutazione ambientale di determi-nati piani e programmi che possono avere effetti signi-ficativi sull’ambiente”.

5. L’art. 2 di detta direttiva è formulato nei termini seguenti: «Ai fini della presente direttiva:

a) per “piani e programmi” s’intendono i piani e i programmi, compresi quelli cofinanziati dall[‘Unione] europea, nonché le loro modifiche

- che sono elaborati e/o adottati da un’autorità a li-vello nazionale, regionale o locale oppure predisposti da un’autorità per essere approvati, mediante una pro-cedura legislativa, dal parlamento o dal governo e

- che sono previsti da disposizioni legislative, re-golamentari o amministrative;

b) per “valutazione ambientale” s’intende l’elaborazione di un rapporto di impatto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del rap-porto ambientale e dei risultati delle consultazioni nell’iter decisionale e la messa a disposizione delle informazioni sulla decisione a norma degli artt. da 4 a 9; [...]».

6. Ai sensi dell’art. 3 della direttiva Vas, intitolato “Ambito d’applicazione”:

«1. I piani e i programmi di cui ai par. 2, 3 e 4, che possono avere effetti significativi sull’ambiente, sono

soggetti ad una valutazione ambientale ai sensi degli artt. da 4 a 9.

2. Fatto salvo il par. 3, viene effettuata una valuta-zione ambientale per tutti i piani e i programmi,

a) che sono elaborati per i settori agricolo, foresta-le, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomu-nicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli, e che definiscono il qua-dro di riferimento per l’autorizzazione dei progetti elencati negli all. I e II della direttiva 85/337/Cee [del Consiglio, del 27 giugno 1985, concernente la valuta-zione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati (G.U. 1985, L 175, p. 40)], o

b) per i quali, in considerazione dei possibili effetti sui siti, si ritiene necessaria una valutazione ai sensi degli artt. 6 o 7 della direttiva 92/43/Cee. [...]”.

7. L’art. 4, par. 1, della direttiva Vas enuncia quan-to segue:

“La valutazione ambientale di cui all’art. 3 deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano o del programma ed anteriormente alla sua adozione o all’avvio della relativa procedura legislativa”.

8. L’art. 6 di tale direttiva, intitolato “Consultazio-ni”, al suo par. 2 così dispone:

“Le autorità [...] e il pubblico [...] devono disporre tempestivamente di un’effettiva opportunità di espri-mere in termini congrui il proprio parere sulla propo-sta di piano o di programma e sul rapporto ambientale che la accompagna, prima dell’adozione del piano o del programma o dell’avvio della relativa procedura legislativa”.

La direttiva “rifiuti”

9. Ai sensi dei considerando 6, 8, 28 e 31 della di-rettiva “rifiuti”:

«6) L’obiettivo principale di qualsiasi politica in materia di rifiuti dovrebbe essere di ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della ge-stione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente. La politica in materia di rifiuti dovrebbe altresì puntare a ridurre l’uso di risorse e promuovere l’applicazione pratica della gerarchia dei rifiuti. [...]

8) È pertanto necessario procedere a una revisione della direttiva 2006/12/Ce per precisare alcuni concet-ti basilari come le definizioni di rifiuto, recupero e smaltimento, per rafforzare le misure da adottare per la prevenzione dei rifiuti, per introdurre un approccio che tenga conto dell’intero ciclo di vita dei prodotti e dei materiali, non soltanto della fase in cui diventano rifiuti, e per concentrare l’attenzione sulla riduzione degli impatti ambientali connessi alla produzione e alla gestione dei rifiuti, rafforzando in tal modo il va-lore economico di questi ultimi. Inoltre, si dovrebbe favorire il recupero dei rifiuti e l’utilizzazione dei ma-teriali di recupero per preservare le risorse naturali. Per esigenze di chiarezza e leggibilità, la direttiva 2006/12/Ce dovrebbe essere abrogata e sostituita da una nuova direttiva. [...]

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28) La presente direttiva dovrebbe aiutare l’Unione europea ad avvicinarsi a una “società del riciclaggio”, cercando di evitare la produzione di rifiuti e di utiliz-zare i rifiuti come risorse. In particolare, il Sesto pro-gramma comunitario di azione in materia di ambiente sollecita misure volte a garantire la separazione alla fonte, la raccolta e il riciclaggio dei flussi di rifiuti prioritari. In linea con tale obiettivo e quale mezzo per agevolarne o migliorarne il potenziale di recupero, i rifiuti dovrebbero essere raccolti separatamente nella misura in cui ciò sia praticabile da un punto di vista tecnico, ambientale ed economico, prima di essere sot-toposti a operazioni di recupero che diano il miglior risultato ambientale complessivo. Gli Stati membri dovrebbero incoraggiare la separazione dei composti pericolosi dai flussi di rifiuti se necessario per conse-guire una gestione compatibile con l’ambiente. [...]

31) La gerarchia dei rifiuti stabilisce in generale un ordine di priorità di ciò che costituisce la migliore op-zione ambientale nella normativa e politica dei rifiuti, tuttavia discostarsene può essere necessario per flussi di rifiuti specifici quando è giustificato da motivi, tra l’altro, di fattibilità tecnica, praticabilità economica e protezione dell’ambiente».

10. Il capo I di tale direttiva, intitolato “Oggetto, ambito di applicazione e definizioni”, comprende gli artt. da 1 a 7 di quest’ultima. L’art. 1 di detta direttiva è formulato nei seguenti termini:

“La presente direttiva stabilisce misure volte a pro-teggere l’ambiente e la salute umana prevenendo o ri-ducendo gli impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti, riducendo gli impatti complessivi dell’uso delle risorse e migliorandone l’efficacia”.

11. L’art. 4 della direttiva “rifiuti”, intitolato “Ge-rarchia dei rifiuti”, così dispone:

“1. La seguente gerarchia dei rifiuti si applica qua-le ordine di priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti:

a) prevenzione;

b) preparazione per il riutilizzo;

c) riciclaggio;

d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e

e) smaltimento.

2. Nell’applicare la gerarchia dei rifiuti di cui al par. 1, gli Stati membri adottano misure volte a inco-raggiare le opzioni che danno il miglior risultato am-bientale complessivo. A tal fine può essere necessario che flussi di rifiuti specifici si discostino dalla gerar-chia laddove ciò sia giustificato dall’impostazione in termini di ciclo di vita in relazione agli impatti com-plessivi della produzione e della gestione di tali rifiuti.

Gli Stati membri garantiscono che l’elaborazione della normativa e della politica dei rifiuti avvenga in modo pienamente trasparente, nel rispetto delle norme nazionali vigenti in materia di consultazione e parteci-pazione dei cittadini e dei soggetti interessati.

Conformemente agli artt. 1 e 13, gli Stati membri tengono conto dei principi generali in materia di pro-tezione dell’ambiente [,] di precauzione e sostenibili-tà, della fattibilità tecnica e praticabilità economica, della protezione delle risorse nonché degli impatti complessivi sociali, economici, sanitari e ambientali”.

12. Il capo II di tale direttiva, rubricato “Requisiti generali”, contiene, in particolare, l’art. 13, intitolato “Protezione della salute umana e dell’ambiente”, che prevede quanto segue:

“Gli Stati membri prendono le misure necessarie per garantire che la gestione dei rifiuti sia effettuata senza danneggiare la salute umana, senza recare pre-giudizio all’ambiente e, in particolare:

a) senza creare rischi per l’acqua, l’aria, il suolo, la flora o la fauna;

b) senza causare inconvenienti da rumori od odori e

c) senza danneggiare il paesaggio o i siti di partico-lare interesse”.

Diritto italiano

13. L’art. 35 del d.l. 12 settembre 2014, n. 133 (Guri n. 212 del 12 settembre 2014), convertito con modificazioni dalla legge dell’11 novembre 2014, n. 164 (supplemento ordinario alla Guri n. 262 dell’11 novembre 2014) (in prosieguo: il “d.l. n. 133/2014”), al c. 1 dispone quanto segue:

“Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigo-re della legge di conversione del presente decreto, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rap-porti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con proprio decreto, individua a livello nazionale la capacità complessiva di trattamen-to di rifiuti urbani e assimilati degli impianti di ince-nerimento in esercizio o autorizzati a livello naziona-le, con l’indicazione espressa della capacità di ciascun impianto, e gli impianti di incenerimento con recupero energetico di rifiuti urbani e assimilati da realizzare per coprire il fabbisogno residuo, determinato con fi-nalità di progressivo riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale e nel rispetto degli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio, te-nendo conto della pianificazione regionale. Gli im-pianti così individuati costituiscono infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazio-nale, attuano un sistema integrato e moderno di ge-stione di rifiuti urbani e assimilati, garantiscono la si-curezza nazionale nell’autosufficienza, consentono di superare e prevenire ulteriori procedure di infrazione per mancata attuazione delle norme europee di settore e limitano il conferimento di rifiuti in discarica”.

14. Sulla base di tale disposizione è stato adottato il decreto del 10 agosto 2016.

15. L’art. 1 del decreto del 10 agosto 2016, intito-lato “Oggetto”, è formulato come segue:

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“1. Ai sensi dell’art. 35, c. 1, [d.l. n. 133/2014], il presente decreto ha ad oggetto:

a) l’individuazione della capacità attuale di tratta-mento nazionale degli impianti di incenerimento dei rifiuti urbani e assimilati in esercizio al mese di no-vembre 2015;

b) l’individuazione della capacità potenziale di trattamento nazionale, riferita agli impianti di incene-rimento dei rifiuti urbani e assimilati autorizzati e non in esercizio al mese di novembre 2015;

c) l’individuazione, per macroaree e per regioni, degli impianti di incenerimento con recupero energe-tico di rifiuti urbani e assimilati da realizzare o da po-tenziare per coprire il fabbisogno residuo nazionale di trattamento dei medesimi rifiuti”.

16. Gli articoli da 3 a 5 del decreto del 10 agosto 2016 riguardano tabelle che individuano tre categorie di impianti, ossia gli impianti di incenerimento in esercizio, con l’indicazione della capacità di tratta-mento autorizzata e della capacità di trattamento dei rifiuti urbani e assimilati (tabella A), gli impianti di incenerimento autorizzati non in esercizio, con l’indicazione della capacità potenziale di trattamento e della localizzazione su base regionale (tabella B) e gli impianti da realizzare o da potenziare tenendo conto della programmazione regionale (tabella C). Per cia-scuna di queste tre categorie, le rispettive tabelle indi-cano anche la capacità nazionale complessiva di trat-tamento degli impianti di incenerimento dei rifiuti in esercizio al mese di novembre 2015 (tabella A), la ca-pacità potenziale nazionale di trattamento derivante dagli impianti autorizzati ma non in esercizio alla me-desima data (tabella B) nonché le regioni in cui realiz-zare o potenziare gli impianti necessari a soddisfare il fabbisogno nazionale e le relative capacità (tabella C).

17. Ai sensi dell’art. 6 del decreto del 10 agosto 2016, intitolato “Disposizioni finali”:

«1. [...] gli impianti individuati nelle tabelle A, B e C costituiscono infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale e realizzano un si-stema integrato e moderno di gestione di rifiuti urbani e assimilati, garantendo la sicurezza nazionale nell’autosufficienza del ciclo di gestione integrato dei rifiuti, così come richiesto dall’art. 16 della [direttiva “rifiuti”].

2. Al fine di garantire la sicurezza nazionale nell’autosufficienza e nel rispetto delle finalità di pro-gressivo riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale, [...] le minori capacità di tratta-mento di rifiuti urbani e assimilati degli impianti di incenerimento in ragione delle politiche di cui al c. 6, sono ridistribuite all’interno della stessa macroarea secondo i criteri generali e le procedure di individua-zione esplicitati nell’all. III».

18. I tre allegati del decreto del 10 agosto 2016 in-dicano le modalità che hanno consentito di individuare le tre categorie indicate nelle tre tabelle A, B e C. Più precisamente, l’all. I contiene gli elementi che indivi-duano la capacità attuale di trattamento nazionale de-

gli impianti di incenerimento dei rifiuti urbani e assi-milati in esercizio o autorizzati ma non in esercizio al mese di novembre 2015. L’all. II espone le condizioni con cui è stato individuato il fabbisogno residuo di in-cenerimento dei rifiuti urbani e assimilati, con divi-sione del calcolo per ogni singola regione. L’all. III precisa inoltre i “criteri generali”, previsti al c. 1 dell’art. 35 del d.l. n. 133/2014, utilizzati per indivi-duare gli impianti da realizzare o potenziare per sod-disfare il fabbisogno residuo nazionale di inceneri-mento di rifiuti urbani e assimilati.

Procedimento principale e questioni pregiudiziali

19. Dalla decisione di rinvio risulta che le associa-zioni Vas e Movimento legge rifiuti zero per l’economia circolare hanno presentato dinanzi al giu-dice del rinvio, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Italia), un ricorso diretto all’annullamento del decreto del 10 agosto 2016, nell’ambito del quale esse hanno dedotto cinque moti-vi.

20. Tali motivi possono, in sostanza, essere suddi-visi in due gruppi. Il primo comprende quelli vertenti sulla violazione del principio della “gerarchia dei ri-fiuti”, di cui agli artt. 4 e 13 della direttiva “rifiuti”, nella parte in cui il decreto del 10 agosto 2016 ha qua-lificato taluni impianti di incenerimento come “infra-strutture e insediamenti strategici di preminente inte-resse nazionale”. Ebbene, secondo le ricorrenti nel procedimento principale, si dovrebbe ricorrere all’incenerimento dei rifiuti solo in ultima istanza, quando non è più possibile avvalersi delle tecniche di recupero o di riciclaggio. Il secondo gruppo di motivi riguarda la violazione della direttiva Vas, in quanto l’adozione di tale decreto non sarebbe stata preceduta da una valutazione ambientale dei suoi effetti.

21. Il giudice del rinvio osserva che nella fase istruttoria le parti convenute nel procedimento princi-pale si sono limitate a fornire alcuni documenti e una relazione, senza integrarli con scritti o memorie. Ne conseguirebbe che, ai fini della loro difesa, esse si sa-rebbero limitate a sostenere la conformità della nor-mativa nazionale al diritto dell’Unione.

22. Tale giudice del rinvio, da un lato, ritiene ne-cessario che la Corte proceda ad un’interpretazione del principio della “gerarchia dei rifiuti”, quale previ-sto dalla direttiva “rifiuti”. Dall’altro, esso si chiede se l’autorità nazionale potesse incrementare le capacità degli impianti di incenerimento dei rifiuti senza effet-tuare una valutazione ambientale preventiva.

23. In tale contesto, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha deciso di sospendere il pro-cedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti que-stioni pregiudiziali:

«1) Dica la Corte di giustizia Ue se gli artt. 4 e 13 della [direttiva “rifiuti”], unitamente ai “consideran-do” 6, 8, 28 e 31 [della medesima direttiva], ostano a una normativa interna primaria e alla sua correlata normativa secondaria di attuazione – quali l’art. 35, c.

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1, [d.l. n. 133/2014], e il [decreto del 10 agosto 2016] – laddove qualificano solo gli impianti di inceneri-mento ivi considerati secondo l’illustrazione degli al-legati e delle tabelle di cui al [decreto del 10 agosto 2016] quali infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale, che attuano un sistema integrato e moderno di gestione di rifiuti urbani e as-similati e che garantiscono la sicurezza nazionale nell’autosufficienza, dato che una simile qualificazio-ne non è stata parimenti riconosciuta dal legislatore interno agli impianti volti al trattamento dei rifiuti a fini di riciclo e riuso, pur essendo tali due modalità preminenti nella gerarchia dei rifiuti di cui alla ri-chiamata [direttiva “rifiuti”].

2) In subordine, se non osta quanto sopra richiesto, dica la Corte di giustizia Ue se gli artt. 4 e 13 della [direttiva “rifiuti”] ostano a una normativa interna primaria e alla sua correlata normativa secondaria di attuazione – quali l’art. 35, c. 1, [del d.l. n. 133/2014], e il [decreto del 10 agosto 2016] – laddove qualificano gli impianti di incenerimento di rifiuti urbani quali in-frastrutture e insediamenti strategici di preminente in-teresse nazionale, allo scopo di superare e prevenire ulteriori procedure di infrazione per mancata attuazio-ne delle norme europee di settore, oltre che al fine di limitare il conferimento di rifiuti in discarica.

3) Dica la Corte di giustizia Ue se gli artt. 2, 3, 4, 6, 7, 8, 9, 10, 11 e 12 della [direttiva Vas], anche in combinato disposto tra loro, ostino all’applicazione di una normativa interna primaria e alla sua correlata normativa secondaria di attuazione – quali l’art. 35, c. 1, [d.l. n. 133/2014], e il [decreto del 10 agosto 2016] – la quale prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri possa con proprio decreto rideterminare in aumento la capacità degli impianti di incenerimento in essere nonché determinare il numero, la capacità e la localizzazione regionale degli impianti di inceneri-mento con recupero energetico di rifiuti urbani e as-similati da realizzare per coprire il fabbisogno residuo determinato, con finalità di progressivo riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale e nel rispetto degli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio, senza che tale normativa interna preveda che, in fase di predisposizione di tale piano emergente dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, si applichi la disciplina di valutazione ambientale strate-gica così come prevista dalla richiamata [direttiva Vas]».

24. Con ordinanza del 3 luglio 2018, Associazione Verdi ambiente e Società-Aps onlus e a. (C-305/18, non pubblicata, EU:C:2018:549), il presidente della Corte ha deciso di non accogliere la domanda del giu-dice del rinvio diretta ad ottenere il trattamento della causa con il procedimento accelerato previsto dall’art. 23 bis dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea e dall’art. 105, par. 1, del rego-lamento di procedura della Corte.

Sulle questioni pregiudiziali Sulle questioni prima e seconda

25. Con la prima e la seconda questione, che oc-corre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il principio della “gerarchia dei rifiuti”, quale espresso all’art. 4 della direttiva “rifiuti” e letto alla luce dell’art. 13 di tale direttiva, debba es-sere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che qualifica gli impianti di incenerimento dei rifiuti come “infrastrutture e insediamenti strategi-ci di preminente interesse nazionale”.

26. I dubbi di tale giudice sembrano derivare dalla circostanza che nel decreto del 10 agosto 2016 non è stata adottata una qualificazione analoga con riguardo agli impianti volti al trattamento dei rifiuti a fini di ri-ciclo e riuso, mentre l’art. 4 della direttiva in parola imporrebbe agli Stati membri di applicare, nella loro normativa e nella loro politica in materia di preven-zione e gestione dei rifiuti, una gerarchia delle opera-zioni di trattamento.

27. Occorre ricordare che l’art. 4, par. 1, della di-rettiva “rifiuti” dispone che “[l]a [...] gerarchia dei ri-fiuti si applica quale ordine di priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti: a) prevenzione; b) preparazione per il riuti-lizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; ed e) smaltimento”.

28. Tale disposizione, che stabilisce la gerarchia dei rifiuti quale dev’essere attuata nella normativa e nella politica in materia di prevenzione e gestione di rifiuti, non consente di concludere che si dovrebbe preferire un sistema che permetta ai produttori di rifiu-ti di provvedere personalmente al loro smaltimento. Lo smaltimento dei rifiuti, infatti, figura soltanto all’ultimo posto di tale gerarchia (v., in tal senso, sent. 18 dicembre 2014, Setar, C-551/13, EU:C:2014:2467, punto 44).

29. Occorre aggiungere che la gerarchia dei rifiuti costituisce un obiettivo che lascia agli Stati membri un margine di discrezionalità, non obbligando questi ul-timi ad optare per una specifica soluzione di preven-zione e gestione.

30. Così, ai sensi dell’art. 4, par. 2, della direttiva “rifiuti”, nell’attuare il principio della “gerarchia dei rifiuti”, gli Stati membri adottano misure volte a inco-raggiare le opzioni che danno il miglior risultato am-bientale complessivo. A tal fine può essere necessario che flussi di rifiuti specifici si discostino dalla gerar-chia laddove ciò sia giustificato dall’impostazione in termini di ciclo di vita in relazione agli impatti com-plessivi della produzione e della gestione di tali rifiuti.

31. Peraltro, secondo l’art. 13 della direttiva “rifiu-ti”, gli Stati membri prendono le misure necessarie per garantire che la gestione dei rifiuti sia effettuata senza danneggiare la salute umana e senza recare pregiudi-zio all’ambiente, in particolare senza creare rischi per l’acqua, l’aria, il suolo, la flora o la fauna.

32. A tale riguardo, la Corte ha già dichiarato che, sebbene il citato art. 13 non precisi il contenuto con-

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creto delle misure che debbono essere adottate per as-sicurare che i rifiuti siano in tal modo gestiti senza pe-ricolo per la salute dell’uomo e senza recare pregiudi-zio all’ambiente, ciò non toglie che detto art. vincoli gli Stati membri circa l’obiettivo da raggiungere, pur lasciando agli stessi un potere discrezionale nella va-lutazione della necessità di tali misure (sent. 6 aprile 2017, Commissione/Slovenia, C-153/16, non pubbli-cata, EU:C:2017:275, punto 61 e giurisprudenza ivi citata).

33. Nel caso di specie, il fatto che una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, qualifichi gli impianti di incenerimento dei rifiuti come “infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale” non significa che il legislatore nazionale abbia ritenuto di non seguire le indicazioni derivanti dal principio della “gerarchia dei rifiuti”, quale previsto dalla direttiva “rifiuti”.

34. Infatti, da un lato, come convengono le ricor-renti nel procedimento principale, detta qualificazione nazionale è applicabile solo a tali impianti.

35. Ebbene, il fatto che una normativa nazionale qualifichi gli impianti di incenerimento dei rifiuti co-me “prioritari” non può significare che le relative ope-razioni di trattamento siano dotate delle medesime qualità e, di conseguenza, che dette operazioni si ve-dano attribuire un qualsiasi grado di priorità rispetto alle altre operazioni di prevenzione e gestione dei ri-fiuti.

36. Dall’altro lato, come sostiene il governo italia-no, siffatta qualificazione mira a snellire e a facilitare lo svolgimento della procedura di autorizzazione al fine di ovviare alla mancanza di una adeguata rete na-zionale di gestione dei rifiuti, constatata nelle prece-denti sentenze della Corte del 26 aprile 2007, Com-missione/Italia (C-135/05, EU:C:2007:250), 14 giu-gno 2007, Commissione/Italia (C-82/06, non pubbli-cata, EU:C:2007:349), 4 marzo 2010, Commissio-ne/Italia (C-297/08, EU:C:2010:115), 15 ottobre 2014, Commissione/Italia (C-323/13, non pubblicata, EU:C:2014:2290), 2 dicembre 2014, Commissio-ne/Italia (C-196/13, EU:C:2014:2407) nonché 16 lu-glio 2015, Commissione/Italia (C-653/13, non pubbli-cata, EU:C:2015:478).

37. A tale riguardo, come risulta dall’art. 260, par. 1, Tfue, quando la Corte di giustizia dell’Unione eu-ropea riconosce che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trat-tati, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta.

38. Infine, sebbene spetti agli Stati membri sceglie-re la modalità più adeguata per rispettare il principio della “gerarchia dei rifiuti”, essi devono tuttavia con-formarsi alle altre disposizioni di tale direttiva che prevedono obblighi più specifici.

39. Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima e alla seconda questione dichiarando che il principio della “gerarchia dei rifiu-

ti”, quale espresso all’art. 4 della direttiva “rifiuti” e letto alla luce dell’art. 13 di tale direttiva, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che qualifica gli impianti di incenerimento dei rifiuti come “infrastrutture e insediamenti strategi-ci di preminente interesse nazionale”, purché tale normativa sia compatibile con le altre disposizioni di detta direttiva che prevedono obblighi più specifici.

Sulla terza questione

40. Con la sua terza questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva Vas debba essere interpretata nel senso che una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principa-le, costituita da una normativa di base e da una norma-tiva di esecuzione, che determina in aumento la capa-cità degli impianti di incenerimento dei rifiuti esistenti e che prevede la realizzazione di nuovi impianti di tale natura, rientra nella nozione di “piani e programmi”, ai sensi di tale direttiva, che può avere effetti signifi-cativi sull’ambiente e che deve, di conseguenza, esse-re soggetta ad una valutazione ambientale preventiva.

41. Nel caso di specie, dalla decisione di rinvio ri-sulta che la normativa nazionale di cui al procedimen-to principale ha lo scopo di incrementare le capacità di funzionamento di 40 impianti di incenerimento dei ri-fiuti su 42 impianti esistenti e operativi nel territorio dello Stato membro in questione, nonché di creare nuovi impianti di tale tipo. Siffatta normativa naziona-le attua le scelte strategiche di uno Stato membro in materia di recupero o di smaltimento dei rifiuti, quali il calcolo del fabbisogno residuo nazionale nella misu-ra di 1 818 000 tonnellate/anno e la ripartizione di quest’ultimo in macroaree, l’aumento dell’attività de-gli impianti esistenti fino all’esaurimento della rispet-tiva capacità autorizzata, nonché la localizzazione re-gionale dei nuovi impianti.

42. Occorre chiarire se una tale normativa rientri nell’ambito di applicazione della direttiva Vas.

43. A tale riguardo, l’art. 3 della direttiva prevede che taluni piani o programmi che possono avere effetti significativi sull’ambiente devono essere sottoposti ad una valutazione ambientale.

44. L’art. 2, lett. a), della direttiva Vas definisce i “piani e programmi” cui essa fa riferimento come quelli che soddisfano due condizioni cumulative, vale a dire, da un lato, che essi siano elaborati e/o adottati da un’autorità a livello nazionale, regionale o locale oppure predisposti da un’autorità per essere approvati, mediante una procedura legislativa, dal parlamento o dal governo e, dall’altro, che siano previsti da disposi-zioni legislative, regolamentari o amministrative.

45. La Corte ha interpretato tale disposizione nel senso che devono essere considerati “previsti”, ai sen-si e ai fini dell’applicazione della direttiva Vas, e per-tanto soggetti a valutazione ambientale alle condizioni ivi fissate, i piani e i programmi la cui adozione sia disciplinata da disposizioni legislative o regolamentari

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nazionali, le quali determinino le autorità competenti per adottarli nonché la loro procedura di elaborazione (sent. 7 giugno 2018, Inter-Environnement Bruxelles e a., C-671/16, EU:C:2018:403, punto 37, nonché giuri-sprudenza ivi citata).

46. Nel caso di specie, dalla decisione di rinvio ri-sulta che il decreto del 10 agosto 2016 soddisfa tali due condizioni, essendo stato adottato dal presidente del Consiglio, sulla base dell’art. 35 del d.l. n. 133/2014.

47. Occorre aggiungere che, in forza dell’art. 3, par. 2, lett. a), della direttiva Vas, sono soggetti ad una valutazione ambientale sistematica i piani e i pro-grammi elaborati per determinati settori e che defini-scono il quadro di riferimento per l’autorizzazione dei progetti elencati negli all. I e II della direttiva 2011/92/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pub-blici e privati (G.U. 2012, L 26, p. 1; in prosieguo: la direttiva “Via”), che ha abrogato la direttiva 85/337.

48. A tale riguardo, in primo luogo, rientra tra i settori considerati da tale disposizione la gestione dei rifiuti, cosicché il primo di tali criteri è soddisfatto.

49. In secondo luogo, gli impianti di smaltimento dei rifiuti mediante incenerimento e le loro modifiche o estensioni sono previsti ai punti 9, 10 e 24 dell’all. I della direttiva Via, nonché, quando non rientrano nelle categorie sopra menzionate, al punto 11, lett. b), dell’all. II della direttiva Via.

50. Per quanto attiene alla questione se una norma-tiva nazionale, come quella di cui trattasi nel procedi-mento principale, definisca il quadro di riferimento per la successiva autorizzazione di progetti, va ricor-dato che secondo una giurisprudenza costante la no-zione di “piani e programmi” si riferisce a qualsiasi atto che fissi, definendo norme e procedure di control-lo applicabili al settore interessato, un insieme signifi-cativo di criteri e di modalità per l’autorizzazione e l’attuazione di uno o più progetti idonei ad avere un impatto notevole sull’ambiente (sent. 27 ottobre 2016, D’Oultremont e a., C-290/15, EU:C:2016:816, punto 49; 7 giugno 2018, Inter-Environnement Bruxelles e a., C-671/16, EU:C:2018:403, punto 53, e 7 giugno 2018, Thybaut e a., C – 160/17, EU:C:2018:401, pun-to 54).

51. A tale riguardo, l’espressione “insieme signifi-cativo di criteri e di modalità” va intesa in maniera qualitativa. Occorre infatti evitare possibili strategie di elusione degli obblighi enunciati dalla direttiva Vas attuate con la frammentazione dei provvedimenti, la quale ridurrebbe l’effetto utile della direttiva stessa (sent. 7 giugno 2018, Inter-Environnement Bruxelles e a., C-671/16, EU:C:2018:403, punto 55, nonché 7 giugno 2018, Thybaut e a., C-160/17, EU:C:2018:401, punto 55).

52. Siffatta interpretazione della nozione di “piani e programmi”, che include non solo la loro elabora-

zione, ma anche la loro modifica, mira a garantire che prescrizioni che possono produrre effetti significativi sull’ambiente siano soggette ad una valutazione am-bientale (v., in tal senso, sent. 7 giugno 2018, Inter-Environnement Bruxelles e a., C-671/16, EU:C:2018:403, punti 54 e 58).

53. Spetta al giudice del rinvio, alla luce della giu-risprudenza citata ai punti da 50 a 52 della presente sentenza, verificare se una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale defi-nisca il quadro di riferimento per la successiva auto-rizzazione di progetti.

54. Volendo supporre che ciò avvenga, si deve constatare che tale normativa, il cui oggetto è richia-mato al punto 41 della presente sentenza, può avere effetti significativi sull’ambiente, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

55. Inoltre, come suggerito dal medesimo giudice, l’incremento delle capacità di funzionamento degli impianti di incenerimento dei rifiuti autorizza a dubi-tare della sufficienza delle valutazioni precedentemen-te effettuate ai fini dell’autorizzazione alla messa in funzione degli impianti di incenerimento esistenti.

56. Peraltro, il fatto che una valutazione ambienta-le ai sensi della direttiva Vas verrà realizzata succes-sivamente, al momento della pianificazione a livello regionale, è irrilevante ai fini dell’applicabilità delle disposizioni relative a una tale valutazione. Infatti, una valutazione dell’impatto ambientale effettuata a norma della direttiva Via non può dispensare dall’obbligo di effettuare la valutazione ambientale prescritta dalla direttiva Vas allo scopo di rispondere ad aspetti am-bientali ad essa specifici (sent. 7 giugno 2018, Thybaut e a., C-160/17, EU:C:2018:401, punto 64).

57. Inoltre, e in ogni caso, non può essere accolta l’obiezione formulata dal governo italiano secondo la quale, dal momento che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale costituisce solo un quadro di riferimento, non sarebbe soddisfatta la se-conda condizione di cui all’art. 3, par. 2, lett. a), della direttiva Vas. Infatti, la circostanza che una normativa nazionale presenti un certo livello di astrazione e per-segua un obiettivo di trasformazione del quadro esi-stente costituisce un’illustrazione della sua dimensio-ne programmatica o pianificatrice e non osta alla sua inclusione nella nozione di “piani e programmi” (sent. 7 giugno 2018, Inter-Environnement Bruxelles e a., C-671/16, EU:C:2018:403, punto 60 nonché giurispru-denza ivi citata).

58. Una siffatta interpretazione è avvalorata, da un lato, dai dettami risultanti dall’art. 6 della direttiva Vas, letto alla luce dei considerando da 15 a 18 di quest’ultima, poiché tale direttiva è diretta non soltan-to a contribuire alla tutela dell’ambiente, ma anche a consentire la partecipazione del pubblico all’iter deci-sionale. Dall’altro lato, come risulta dall’art. 4, par. 1, di tale direttiva, “[l]a valutazione ambientale [...] deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano

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o del programma ed anteriormente alla sua adozione o all’avvio della relativa procedura legislativa”. Allo stesso modo, risulta dall’art. 6, par. 2, di detta direttiva che la valutazione ambientale dovrebbe essere effet-tuata il più presto possibile, affinché i suoi risultati possano ancora incidere su eventuali decisioni. È pro-prio in questa fase, infatti, che le diverse opzioni pos-sono essere analizzate e le scelte strategiche essere compiute [v., in tal senso, sent. 20 ottobre 2011, Sea-port (NI) e a., C-474/10, EU:C:2011:681, punto 45, nonché 7 giugno 2018, Inter-Environnement Bruxelles e a., C-671/16, EU:C:2018:403, punto 63].

59. Alla luce di tali elementi, dei quali spetta al giudice del rinvio valutare l’effettività e la portata in considerazione della normativa in questione, si deve considerare che una normativa nazionale che incre-menti la capacità degli impianti di incenerimento dei rifiuti esistenti e che realizzi nuovi impianti di tale na-tura, come quella di cui al procedimento principale, può rientrare nella nozione di “piani e programmi” ai sensi dell’art. 3, par. 1 e 2, della direttiva Vas e vada sottoposta ad una valutazione ambientale.

60. Ne consegue che occorre rispondere alla terza questione dichiarando che l’art. 2, lett. a), l’art. 3, par. 1, e l’art. 3, par. 2, lett. a), della direttiva Vas devono essere interpretati nel senso che una normativa nazio-nale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, costituita da una normativa di base e da una normativa di esecuzione, che determina in aumen-to la capacità degli impianti di incenerimento dei rifiu-ti esistenti e che prevede la realizzazione di nuovi im-pianti di tale natura, rientra nella nozione di “piani e programmi”, ai sensi di tale direttiva, qualora possa avere effetti significativi sull’ambiente e deve, di con-seguenza, essere soggetta ad una valutazione ambien-tale preventiva. (Omissis)

P.q.m., la Corte (Sesta Sezione) dichiara:

1) Il principio della “gerarchia dei rifiuti”, quale espresso all’art. 4 della direttiva 2008/98/Ce del Par-lamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, e letto alla luce dell’art. 13 di tale direttiva, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che qualifica gli impianti di incenerimento dei rifiuti come “infrastrutture e insediamenti strategi-ci di preminente interesse nazionale”, purché tale normativa sia compatibile con le altre disposizioni di detta direttiva che prevedono obblighi più specifici.

2) L’art. 2, lett. a), l’art. 3, par. 1, e l’art. 3, par. 2, lett. a), della direttiva 2001/42/Ce del Parlamento eu-ropeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernen-te la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, devono essere interpretati nel senso che una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, costituita da una normativa di base e da una normativa di esecuzio-ne, che determina in aumento la capacità degli impian-ti di incenerimento dei rifiuti esistenti e che prevede la

realizzazione di nuovi impianti di tale natura, rientra nella nozione di “piani e programmi”, ai sensi di tale direttiva, qualora possa avere effetti significativi sull’ambiente e deve, di conseguenza, essere soggetta ad una valutazione ambientale preventiva.

C-434/18 – Corte di giustizia dell’Unione europea, Sezione IX; sentenza 11 luglio 2019, Pres. Jürimäe, Rel. Piçarra, Avv. gen. Campos Sánchez-Bordona; Commissione europea c. Repubblica italiana.

Unione europea – Inadempimento di uno Stato – Direttiva 2011/70/Euratom – Gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi – Programma nazionale – Obbli-go di trasmissione alla Commissione europea. Direttiva 2011/70/Euratom del Consiglio, 19 luglio 2011, artt. 13, par. 1, 15, par. 4; d.lgs. 4 marzo 2014, n. 45, attuazione della direttiva 2011/70/Euratom, che istituisce un quadro comunitario per la gestione re-sponsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi, art. 7, c. 1.

La Repubblica italiana, non avendo notificato alla Commissione europea il suo programma nazionale per l’attuazione della politica di gestione del combu-stibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, è venuta meno agli obblighi a essa incombenti in forza del combinato disposto dell’art. 15, par. 4, e dell’art. 13, par. 1, del-la direttiva 2011/70/Euratom del Consiglio, del 19 lu-glio 2011, che istituisce un quadro comunitario per la gestione responsabile e sicura del combustibile nu-cleare esaurito e dei rifiuti radioattivi.

1. Con il suo ricorso, la Commissione europea chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica ita-liana, non avendo notificato il proprio programma na-zionale per l’attuazione della politica di gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi (in pro-sieguo: il «programma nazionale»), è venuta meno agli obblighi a essa incombenti in forza del combinato disposto dell’art. 15, par. 4, e dell’art. 13, par. 1, della direttiva 2011/70/Euratom del Consiglio, del 19 luglio 2011, che istituisce un quadro comunitario per la ge-stione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi (G.U. 2011, L 199, p. 48).

Contesto normativo

Diritto dell’Unione

2. A termini dei considerando 1, 2 e 28 della diret-tiva 2011/70:

«1) Ai sensi dell’art. 2, lett. b), del trattato che isti-tuisce la Comunità europea dell’energia atomica (“trattato Euratom”) devono essere istituite norme di sicurezza uniformi per la protezione sanitaria dei lavo-ratori e della popolazione.

2) L’art. 30 del trattato Euratom prevede l’adozione di norme fondamentali relative alla prote-

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zione sanitaria dei lavoratori e della popolazione con-tro i pericoli derivanti dalle radiazioni ionizzanti.

[...]

28) Gli Stati membri dovrebbero istituire un pro-gramma nazionale al fine di assicurare la trasposizione delle decisioni politiche in norme chiare per realizzare nei tempi previsti tutti i passaggi della gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, dalla ge-nerazione allo smaltimento. Tali programmi nazionali dovrebbero poter essere in forma di singolo documen-to di riferimento o serie di documenti».

3. L’art. 5, par. 1, lett. a), della direttiva in questio-ne così recita:

«1. Gli Stati membri istituiscono e mantengono un quadro legislativo, regolamentare e organizzativo na-zionale (“quadro nazionale”) per la gestione del com-bustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi che attribui-sce la responsabilità e prevede il coordinamento tra gli organismi statali competenti. Il quadro nazionale comprende [in particolare]:

a) un programma nazionale per l’attuazione della politica di gestione del combustibile esaurito e dei ri-fiuti radioattivi;

[...]».

4. L’art. 12 della succitata direttiva è del seguente tenore:

«1. I programmi nazionali illustrano come gli Stati membri intendono attuare le rispettive politiche na-zionali di cui all’art. 4 per la gestione responsabile e sicura del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi al fine di rispettare gli obiettivi della presente diretti-va, e includono tutti gli elementi seguenti:

a) gli obiettivi generali delle politiche nazionali degli Stati membri riguardanti la gestione del combu-stibile esaurito e dei rifiuti radioattivi;

b) le tappe più significative e chiari limiti tempora-li per l’attuazione di tali tappe alla luce degli obiettivi primari del programma nazionale;

c) un inventario di tutto il combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi e stime delle quantità future, comprese quelle provenienti da impianti disattivati, in cui si indichi chiaramente l’ubicazione e la quantità dei rifiuti radioattivi e del combustibile esaurito, con-formemente all’opportuna classificazione dei rifiuti radioattivi;

d) i progetti o piani e soluzioni tecniche per la ge-stione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi dalla generazione fino allo smaltimento;

e) i progetti e o piani per la fase post-chiusura della vita di un impianto di smaltimento, compreso il perio-do in cui sono mantenuti opportuni controlli e i mezzi da impiegare per conservare la conoscenza riguardo all’impianto nel lungo periodo;

f) le attività di ricerca, sviluppo e dimostrazione necessarie al fine di mettere in atto soluzioni per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioat-tivi;

g) la responsabilità per l’attuazione del programma nazionale e gli indicatori chiave di prestazione per monitorare i progressi compiuti per l’attuazione;

h) una valutazione dei costi del programma nazio-nale e delle premesse e ipotesi alla base di tale valuta-zione, che devono includere un profilo temporale;

i) il regime o i regimi di finanziamento in vigore;

j) la politica o procedura in materia di trasparenza di cui all’art. 10;

k) eventuali accordi conclusi con uno Stato mem-bro o un paese terzo sulla gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, compreso l’uso di im-pianti di smaltimento.

2. Il programma nazionale e la politica nazionale possono essere contenuti in un unico documento o in una serie di documenti».

5. L’art. 13, par. 1, della medesima direttiva così dispone:

“Gli Stati membri informano la Commissione dei loro programmi nazionali e di ogni successiva modifi-ca significativa”.

6. L’art. 15, par. 4, della direttiva 2011/70 prevede quanto segue:

“Gli Stati membri trasmettono per la prima volta alla Commissione il contenuto del loro programma nazionale riguardante tutte le voci di cui all’art. 12 al più presto e comunque non oltre il 23 agosto 2015”.

Diritto italiano

7. La direttiva 2011/70 è stata recepita nell’ordinamento giuridico italiano con il d.lgs. 4 mar-zo 2014, n. 45 – Attuazione della direttiva 2011/70/Euratom, che istituisce un quadro comunita-rio per la gestione responsabile e sicura del combusti-bile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi (G.U. 26 marzo 2014, n. 71, p. 1).

8. La procedura di approvazione del programma nazionale è stabilita all’art. 7, c. 1, del succitato decre-to legislativo. La disposizione in questione prevede che il programma nazionale è definito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (Italia), su pro-posta del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentiti il Ministro della salute, la Conferenza unificata e l’autorità di regolamentazione competente.

Procedimento precontenzioso

9. Il 4 novembre 2015, la Commissione ha avviato una procedura “EU Pilot” (8056/15/Ener) per ottenere informazioni dalla Repubblica italiana in merito allo stato della procedura di adozione del programma na-zionale di cui all’art. 12 della direttiva 2011/70.

10. Il 2 febbraio 2016, la Repubblica italiana ha in-formato la Commissione che avrebbe adottato il suo programma nazionale in tempi brevi e che glielo avrebbe trasmesso il prima possibile.

11. Il 12 febbraio 2016, la Commissione ha chiuso la procedura “EU Pilot” (8056/15/Ener).

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12. Il 22 febbraio 2016, la Repubblica italiana ha inviato alla Commissione un documento intitolato “Programma nazionale”.

13. Il 23 febbraio 2016, la Commissione ha chiesto chiarimenti sulla natura del documento inviato, in par-ticolare sulla questione se si trattasse della versione finale del programma nazionale. La Repubblica italia-na non ha fornito risposta.

14. Il 29 aprile 2016, la Commissione ha inviato alla Repubblica italiana una lettera di messa in mora, nella quale ha ricordato di non essere ancora stata in-formata dell’adozione del programma nazionale defi-nitivo. La Commissione ha invitato lo Stato membro in questione ad adottare le misure necessarie per con-formarsi al parere motivato entro un termine di due mesi.

15. La Repubblica italiana ha risposto alla sum-menzionata lettera di messa in mora con due comuni-cazioni, una del Ministero dello sviluppo economico e l’altra del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Tali comunicazioni riguardavano la fase della procedura di adozione del programma na-zionale.

16. Il 14 luglio 2017, la Commissione ha emesso un parere motivato, nel quale affermava che la Re-pubblica italiana era venuta meno agli obblighi a essa incombenti in forza del combinato disposto dell’art. 15, par. 4, e dell’art. 13, par. 1, della direttiva 2011/70, in quanto lo Stato membro in parola non le aveva notificato la versione definitiva del programma nazionale.

17. La Repubblica italiana ha risposto al parere motivato con lettera del 13 settembre 2017, indicando le misure assunte per l’adozione del suo programma nazionale.

18. Il 29 giugno 2018, a seguito dell’esame di tale risposta, la Commissione ha proposto il presente ri-corso, sostenendo che la Repubblica italiana non le aveva ancora notificato il programma nazionale defi-nitivo.

Sul ricorso

Argomenti delle parti

19. La Commissione sostiene che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi a essa incombenti in forza del combinato disposto dell’art. 15, par. 4, e dell’art. 13, par. 1, della direttiva 2011/70, in quanto non le ha notificato il suo programma nazionale, seb-bene fosse tenuta a farlo tempestivamente e, in ogni caso, prima del 23 agosto 2015. La Commissione ri-corda a tale riguardo che, poiché l’art. 288, c. 3, Tfue si applica anche nell’ambito del trattato Ceea, la diret-tiva 2011/70 vincola gli Stati membri quanto al risul-tato in essa indicato, lasciando loro un margine di ma-novra nella scelta dei mezzi per raggiungerlo.

20. Nel caso di specie, la Commissione sostiene che, alla data di scadenza del termine impartito nel pa-

rere motivato, le autorità italiane non le avevano anco-ra trasmesso il testo definitivo del programma nazio-nale di cui all’art. 12 della direttiva 2011/70. A tale proposito, la Commissione rimarca che la Repubblica italiana le ha comunicato solo l’informazione relativa allo stato di avanzamento del programma nazionale. Le versioni del programma nazionale inviate dallo Stato membro in questione, in due occasioni, sarebbe-ro state versioni provvisorie, in quanto le stesse dove-vano, in ogni caso, passare attraverso altre fasi della procedura di consultazione pubblica e sarebbero state formalizzate soltanto mediante la successiva adozione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.

21. Nella replica, la Commissione aggiunge che l’argomento presentato dallo Stato membro in que-stione secondo il quale l’obbligo di notifica previsto all’art. 13, par. 1, della direttiva 2011/70 si limitereb-be all’obbligo di trasmettere informazioni sullo stato di avanzamento del programma nazionale deve essere respinto. Un simile argomento non troverebbe alcun sostegno né nella lettera né nell’obiettivo né nel si-stema delle disposizioni della direttiva 2011/70.

22. La Commissione ritiene che gli argomenti ad-dotti dalla Repubblica italiana circa la complessità della procedura prevista dalla legge nazionale per l’adozione del programma nazionale e i ritardi che si sono verificati a causa della modifica della composi-zione del governo siano inconferenti. Alla luce della giurisprudenza della Corte, gli Stati membri non pos-sono eccepire circostanze interne o difficoltà pratiche per giustificare l’inosservanza degli obblighi imposti da una direttiva entro il termine stabilito. Infine, ba-sandosi su questa stessa giurisprudenza, la Commis-sione sostiene che la conclusione presentata dalla Re-pubblica italiana in via subordinata, diretta a che la Corte dia atto della circostanza che la procedura di adozione del programma nazionale è in corso di defi-nizione, è irricevibile.

23. La Repubblica italiana, dal canto suo, sostiene che l’obbligo di “informazione” di cui all’art. 13, par. 1, della direttiva 2011/70 è da intendersi come un ob-bligo di fornire alla Commissione un’informativa tempestiva e costante sullo stato di avanzamento del programma nazionale. Orbene, le autorità italiane lo avrebbero fatto due volte, ossia il 22 febbraio 2016, quando avrebbero trasmesso alla Commissione la ver-sione del programma nazionale sottoposta a consulta-zione pubblica e, il 13 settembre 2017, quando avreb-bero trasmesso alla Commissione la versione aggior-nata del medesimo programma, in seguito alla prima delle due fasi della consultazione pubblica.

24. Lo Stato membro in questione aggiunge che è stato profuso un serio impegno nella conclusione dell’iter di adozione del programma nazionale. Tutta-via, l’adozione definitiva di tale programma presup-porrebbe un’articolata procedura, prevista dalla legi-slazione nazionale, che non sarebbe stata ancora ulti-mata.

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25. La Repubblica italiana sottolinea che, in forza dell’art. 7, c. 1, d.lgs. 4 marzo 2014, n. 45, il pro-gramma nazionale deve essere definito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Ciò dovrebbe essere preceduto da una valutazione ambientale strategica, la quale sarebbe stata ritardata per via della sopravvenuta modifica della compagine governativa.

26. La Repubblica italiana chiede, in subordine, che, in caso di accoglimento del ricorso, la Corte dia atto della circostanza che la procedura di adozione del programma nazionale è in corso di definizione.

Giudizio della Corte

27. Al fine di determinare la portata dell’obbligo di notifica incombente agli Stati membri in forza del combinato disposto degli artt. 13, par. 1, e 15, par. 4, della direttiva 2011/70, occorre anzitutto ricordare che, secondo giurisprudenza costante, per interpretare una disposizione del diritto dell’Unione si deve tener conto non soltanto della lettera della stessa, ma anche del suo contesto e degli obiettivi perseguiti dalla nor-mativa di cui essa fa parte (v., in tal senso, sent. 28 febbraio 2019, Meyn, C‑9/18, EU:C:2019:148, punto 26 e giurisprudenza ivi citata).

28. Per quanto riguarda, in primo luogo, la lettera dell’art. 13, par. 1, e dell’art. 15, par. 4, della direttiva 2011/70, è necessario constatare che detti articoli non contengono l’espressione “stato di avanzamento del programma nazionale” né altre espressioni che possa-no avere lo stesso significato. Queste due disposizioni fanno infatti riferimento al “programma nazionale”, che verte non già su una bozza o su una versione provvisoria, bensì su una versione definitiva del pro-gramma di cui trattasi.

29. Per quanto riguarda, in secondo luogo, il conte-sto della direttiva 2011/70, occorre constatare che l’art. 13, par. 1, della medesima direttiva è contenuto nel capo 2 di quest’ultima, intitolato “Obblighi”, ed è preceduto da una serie di disposizioni che precisano l’obbligo per gli Stati membri di adottare i loro pro-grammi nazionali conformemente agli artt. 5, 11 e 12 della direttiva in parola.

30. A tale riguardo, l’art. 5 della direttiva 2011/70, intitolato “Quadro nazionale”, al par. 1, lett. a), dispo-ne che il programma nazionale fa parte di un quadro legislativo, regolamentare e organizzativo nazionale che attribuisce responsabilità agli organismi compe-tenti e prevede il coordinamento tra gli stessi.

31. L’art. 11 della succitata direttiva, intitolato “Programmi nazionali”, al par. 1 prevede che ciascuno Stato membro “assicura l’attuazione del proprio pro-gramma nazionale”, il cui contenuto è determinato all’art. 12.

32. L’art. 12, par. 1, della medesima direttiva di-spone che gli elementi del programma nazionale com-

prendono, in particolare, “le tappe più significative e chiari limiti temporali per l’attuazione di tali tappe”, «un inventario di tutto il combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi e stime delle quantità future», “i pro-getti o piani e soluzioni tecniche per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi” nonché “la responsabilità per l’attuazione del programma na-zionale e gli indicatori chiave di prestazione per moni-torare i progressi compiuti per l’attuazione”

33. Dalle disposizioni succitate risulta che, per ot-temperare agli obblighi contenuti nella direttiva 2011/70 relativi all’adozione dei programmi nazionali di cui all’art. 12 della medesima, gli Stati membri de-vono, come sostiene la Commissione, fissare elementi certi e individuati in maniera definitiva, sulla base dei quali i programmi in questione potranno essere attuati.

34. Inoltre, va ricordato che, per costante giuri-sprudenza della Corte, le disposizioni di una direttiva devono essere attuate con un’efficacia cogente incon-testabile, con la specificità, la precisione e la chiarezza necessarie per garantire pienamente la certezza del di-ritto (v., in tal senso, sent. 17 maggio 2001, Commis-sione/Italia, C‑159/99, EU:C:2001:278, punto 32 e giurisprudenza ivi citata).

35. Ne deriva che l’obbligo per gli Stati membri di notificare, ai sensi del combinato disposto dell’art. 15, par. 4, e dell’art. 13, par. 1, della direttiva 2011/70, per la prima volta alla Commissione il programma na-zionale di cui all’art. 12 della medesima direttiva, en-tro il 23 agosto 2015, non può essere adempiuto me-diante una semplice trasmissione alla Commissione delle versioni provvisorie del programma nazionale, ma unicamente mediante l’adozione definitiva di quest’ultimo conformemente alla procedura prevista a tal fine. La trasmissione di una versione provvisoria del programma nazionale non corrisponde quindi alla notifica di una simile misura di recepimento.

36. Tale interpretazione è suffragata dagli obiettivi perseguiti dalla direttiva 2011/70, la cui base giuridica è costituita dagli artt. 31 e 32 del trattato Ceea. Come risulta dai considerando 1 e 2 della suddetta direttiva, ai sensi di tale Trattato devono essere istituite norme di sicurezza uniformi per la protezione sanitaria dei lavoratori e della popolazione contro i pericoli deri-vanti dalle radiazioni ionizzanti.

37. In tale contesto, come precisa il considerando 28 della medesima direttiva, gli Stati membri devono istituire un programma nazionale al fine di assicurare la trasposizione delle decisioni politiche in norme chiare per realizzare nei tempi previsti tutti i passaggi della gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, dalla generazione allo smaltimento. L’obiettivo generale di protezione della salute pubbli-ca non può quindi essere raggiunto efficacemente sen-za la tempestiva adozione dei programmi nazionali.

38. Un’interpretazione della portata dell’obbligo di notifica che limiti detto obbligo allo stato di avanza-mento dei programmi nazionali equivale a ritenere che

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la direttiva 2011/70 non impartisca agli Stati membri un termine massimo per l’adozione dei loro program-mi. Una simile interpretazione, oltre a essere contraria alla lettera dell’art. 15, par. 4, della direttiva in que-stione, potrebbe pregiudicare l’effetto utile della me-desima e l’obiettivo di protezione richiamato al punto 36 della presente sentenza.

39. Ne consegue che gli elementi tratti dal contesto e dalla finalità della direttiva 2011/70 confermano l’interpretazione della Commissione secondo la quale l’obbligo incombente agli Stati membri in forza del combinato disposto dell’art. 13, par. 1, e dell’art. 15, par. 4, della medesima direttiva sarà soddisfatto solo mediante la trasmissione alla Commissione della ver-sione finale dei loro programmi nazionali.

40. È vero che la Repubblica italiana ha, da un la-to, prospettato l’esistenza delle cause alla base del suo ritardo e, dall’altro, illustrato l’impegno profuso ai fini dell’adozione del suo programma nazionale.

41. A tale riguardo, da giurisprudenza costante del-la Corte emerge che uno Stato membro non può ecce-pire situazioni del proprio ordinamento interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini derivanti dal diritto dell’Unione (sent. 18 ottobre 2018, Commissione/Romania, C‑301/17, non pubbli-cata, EU:C:2018:846, punto 45). Sempre da giurispru-denza costante risulta che l’esistenza di un inadempi-mento deve essere valutata in base alla situazione del-lo Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato. I cambiamenti avvenuti successivamente non possono quindi essere presi in considerazione dalla Corte (sent. 28 novembre 2018, Commissione/Slovenia, C‑506/17, non pubbli-cata, EU:C:2018:959, punto 50 e giurisprudenza ivi citata).

42. Orbene, per quanto riguarda le circostanze de-dotte nella fattispecie dalla Repubblica italiana per giustificare il fatto che lo Stato membro in questione non ha notificato alla Commissione il programma na-zionale di cui all’art. 12 della direttiva 2011/70 alla scadenza del termine suddetto, è sufficiente constatare che esse sono di natura interna. Più nello specifico, esse sono legate, da un lato, alla previa consultazione pubblica e, dall’altro, alla modifica della compagine governativa che avrebbe ritardato il processo di ado-zione del programma nazionale. Di conseguenza, alla luce della giurisprudenza citata al punto precedente della presente sentenza, circostanze di questo tipo non possono essere prese in considerazione dalla Corte come giustificazione dell’inosservanza dell’obbligo e del termine contemplati dalla direttiva 2011/70.

43. Inoltre, quanto all’impegno profuso dalla Re-pubblica italiana ai fini dell’adozione del suo pro-gramma nazionale, è necessario constatare che, nel parere motivato del 14 luglio 2017, la Commissione ha impartito allo Stato membro in questione un termi-ne di due mesi per conformarsi agli obblighi imposti dalla direttiva 2011/70. Orbene, è pacifico che, alla

scadenza di detto termine, la Repubblica italiana non aveva ancora adottato il suo programma nazionale.

44. Pertanto, si deve ritenere che il ricorso presen-tato dalla Commissione sia fondato.

45. Alla luce di tutte le considerazioni che prece-dono, si deve dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo notificato alla Commissione il suo pro-gramma nazionale, è venuta meno agli obblighi a essa incombenti in forza del combinato disposto dell’art. 15, par. 4, e dell’art. 13, par. 1, della direttiva 2011/70.

Sulle spese

46. Ai sensi dell’art. 138, par. 1, del regolamento di procedura della Corte, la parte soccombente è con-dannata alle spese se ne è stata fatta domanda. La Re-pubblica italiana, rimasta soccombente, dev’essere condannata alle spese, conformemente alla domanda della Commissione.

P.q.m., la Corte (Nona Sezione) dichiara e statui-sce:

1) La Repubblica italiana, non avendo notificato alla Commissione europea il suo programma naziona-le per l’attuazione della politica di gestione del com-bustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, è venuta me-no agli obblighi a essa incombenti in forza del combi-nato disposto dell’art. 15, par. 4, e dell’art. 13, par. 1, della direttiva 2011/70/Euratom del Consiglio, del 19 luglio 2011, che istituisce un quadro comunitario per la gestione responsabile e sicura del combustibile nu-cleare esaurito e dei rifiuti radioattivi.

2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.

* * *

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CORTE COSTITUZIONALE

108 – Corte costituzionale; sentenza 9 maggio 2019; Pres. Lattanzi, Est. Zanon; Regione Trentino-Alto Adige.

Regioni a statuto speciale – Trentino-Alto Adige – Consiglieri regionali – Trattamento economico e regime previdenziale – Attualizzazione di parte dell’assegno vitalizio – Norma di interpretazione autentica che incide retroattivamente sui calcoli per l’attualizzazione – Questione di legittimità co-stituzionale – Inammissibilità. Cost., art. 3; l. reg. Trentino-Alto Adige, 11 luglio 2014, n. 4, recante “Interpretazione autentica dell’art. 10 della l. reg. 21 settembre 2012, n. 6 (Trattamento economico e regime previdenziale dei membri del consiglio della Regione autonoma Trentino-Alto Adi-ge) e provvedimenti conseguenti”, artt. 1, c. 4, 3 cc. 5 e 6, 4, c. 4.

È inammissibile la questione di legittimità costitu-zionale, sollevata, in relazione all’art. 3 Cost., dal Tribunale ordinario di Trento, degli artt. 1, c. 4, 3, cc. 5 e 6; 4, c. 4, l. reg. Trentino-Alto Adige n. 4/2014, recante “Interpretazione autentica dell’art. 10 l. reg. n. 6/2012 (Trattamento economico e regime previden-ziale dei membri del consiglio della Regione autono-ma Trentino-Alto Adige), e provvedimenti conseguen-ti” che, nell’ambito di una complessiva riduzione dell’ammontare degli assegni vitalizi dei consiglieri regionali al tetto del 30,40 per cento dell’indennità parlamentare lorda, consente, ai consiglieri cessati dal mandato che godono di un assegno vitalizio supe-riore, di optare, in alternativa al mantenimento dell’assegno originario, per la cosiddetta attualizza-zione della parte di vitalizio eccedente quel tetto, po-sto che le norme censurate non incidono in modo ir-ragionevole sul legittimo affidamento riposto dai de-stinatari delle disposizioni.

Considerato in diritto – 1. Il Tribunale ordinario di Trento dubita, in riferimento all’art. 3 della Costitu-zione, della legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3 e 4 della l. reg. Trentino-Alto Adige, 11 luglio 2014, n. 4, recante “Interpretazione autentica dell’art. 10 della l. reg. 21 settembre 2012, n. 6 (Trattamento eco-nomico e regime previdenziale dei membri del consi-glio della Regione autonoma Trentino-Alto Adige) e provvedimenti conseguenti”.

Le disposizioni censurate, pretendendo di offrirne un’interpretazione autentica, intervengono sull’art. 10 della l. reg. Trentino-Alto Adige, 21 settembre 2012, n. 6 (Trattamento economico e regime previdenziale dei membri del Consiglio della Regione autonoma Trentino-Alto Adige), che – nell’ambito di una com-plessiva riduzione dell’ammontare degli assegni vita-lizi al tetto del 30,40 per cento dell’indennità parla-mentare lorda (art. 10, c. 1) – ha consentito, “[a]i Con-siglieri cessati dal mandato” che godono di un assegno vitalizio superiore, di optare, in alternativa al mante-

nimento dell’assegno originario, per la cosiddetta “at-tualizzazione” della parte di vitalizio eccedente quel tetto (art. 10, c. 2).

Nell’impostazione della l. reg. Trentino-Alto Adi-ge, n. 6/2012, l’opzione per la cosiddetta “attualizza-zione” comporta dunque, da un lato, la riduzione dell’importo del vitalizio mensile al 30,40 per cento dell’indennità parlamentare lorda; ma, dall’altro lato, consente di compensare tale riduzione, appunto attra-verso la “attualizzazione”, consistente nell’immediata attribuzione, e liquidazione in valore attuale, degli im-porti futuri dei vitalizi corrispondenti alle quote ecce-denti il 30,40 per cento. Si tratta, in realtà, di una “an-ticipazione in capitale” di una quota del vitalizio da percepire, fondata su un meccanismo eccezionale e di favore, sebbene non sconosciuto all’ordinamento (prevedeva analogamente, ad esempio, l’art. 34 l. 13 luglio 1965, n. 859, recante “Norme di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di naviga-zione aerea”, poi abrogato, qualificato in termini di “beneficio” dalla stessa giurisprudenza di legittimità: Cass., S.U., 28 maggio 2014, n. 11907; Sez. lav., 11 novembre 2016, n. 23095).

Per parte sua, la l. reg. Trentino-Alto Adige n. 6/2012 non aveva direttamente previsto i parametri e le modalità con cui procedere alla quantificazione del “valore attuale”; l’art. 10, c. 4, della stessa legge ave-va invece conferito tale compito all’ufficio di presi-denza del consiglio regionale, unitamente a quello di individuare uno strumento finanziario al quale gli im-porti attualizzati da conferire dovevano essere destina-ti, in tutto o in parte. A tali compiti l’ufficio di presi-denza ha effettivamente provveduto con proprie deli-bere (9 aprile 2013, n. 324, recante “Criteri per prov-vedere alle operazioni di attualizzazione ai sensi dell’art. 10 della l. reg. 21 settembre 2012, n. 6” e del 27 maggio 2013, n. 334, recante “Valore attuale di una quota di assegno vitalizio e disposizioni comuni con le contribuzioni per il trattamento indennitario”), sia individuando modalità e parametri per il calcolo del “valore attuale”, sia istituendo il cosiddetto “Fon-do Family”, fondo finanziario al quale destinare, in tutto o in parte, gli importi attualizzati dei vitalizi.

A fronte di tale quadro normativo, lamenta dunque il giudice rimettente che, sotto le mentite spoglie di un’interpretazione autentica, le censurate disposizioni della l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014 avrebbero inciso retroattivamente sulle operazioni di calcolo del-la cosiddetta “attualizzazione” della parte di assegno vitalizio eccedente la misura del 30,40 per cento dell’indennità parlamentare lorda. In particolare, in relazione a tali operazioni di calcolo, esse avrebbero disposto “con efficacia retroattiva” la sostituzione dei parametri e dei criteri individuati dall’ufficio di presi-denza del consiglio regionale con la nozione di “valo-re attuale medio”, prevedendo altresì, a carico degli ex consiglieri regionali interessati, l’obbligo di restituire le somme già percepite e/o le quote del fondo finan-ziario già attribuite sulla base dei criteri contenuti nel-le citate delibere.

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Ad avviso del rimettente, così disponendo, gli artt. 1, 2, 3 e 4 della l. reg. Trentino-Alto Adige n. 4/2014 si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost., poiché inciderebbero in modo irragionevole sul legittimo af-fidamento riposto dai destinatari delle disposizioni censurate nella sicurezza giuridica, elemento fonda-mentale dello Stato di diritto che non può essere leso da disposizioni retroattive, laddove esse trasmodino in un regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti.

Sottolinea, in particolare, il giudice a quo come, secondo la giurisprudenza di questa Corte, disposizio-ni retroattive non potrebbero tradire l’affidamento del privato, “specie se maturato con il consolidamento di situazioni sostanziali, pur se la disposizione retroattiva sia dettata dalla necessità di contenere la spesa pubbli-ca” o di far fronte a eventi eccezionali.

In definitiva, sostiene il rimettente, consentire che una legge successiva possa retroattivamente mettere in discussione un’”attribuzione patrimoniale”, obbligan-do chi l’ha ricevuta a restituirla, “significa sconvolge-re la sua vita personale” e costringerlo a rivedere scel-te di vita personale e familiare effettuate “facendo af-fidamento sulla stabilità dell’attribuzione patrimoniale stessa”.

2. L’intervento legislativo oggetto di censura si qualifica, a partire dal titolo, quale “interpretazione autentica” di quanto disposto nell’art. 10 della l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 6/2012, in tema di “attualiz-zazione” delle quote di assegno vitalizio eccedenti il limite del 30,40 per cento dell’indennità parlamentare lorda.

In particolare, l’art. 1, c. 1, l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014 stabilisce che il termine “valore at-tuale”, contenuto nel citato art. 10, “dal momento di entrata in vigore” della l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 6/2012 “si interpreta nel senso che esso fa riferimento al “valore attuale medio”. L’art. 2 della legge censura-ta elenca direttamente i parametri applicativi da utiliz-zare per la determinazione del valore attuale medio, mentre il precedente art. 1, c. 2, stabilisce che l’ufficio di presidenza del consiglio regionale provveda, secon-do questi parametri – “applicati secondo criteri di ra-gionevolezza” – alla nuova quantificazione degli as-segni, adottando tutti i provvedimenti conseguenti. Sono, in particolare, dichiarati nulli “tutti gli atti che contengano pregresse quantificazioni del valore attua-le e ogni atto conseguente”. L’art. 3 della legge, pure censurato, dispone dettagliatamente in tema di “resti-tuzioni e recuperi” a carico dei consiglieri che abbiano beneficiato dei più favorevoli criteri di calcolo basati sul “valore attuale”. L’art. 4, infine, prevede la com-plessiva rideterminazione, in base ai nuovi criteri, del-le modalità di assegnazione ai consiglieri delle quote del cosiddetto “Fondo Family”.

Con tale complessivo intervento, il legislatore re-gionale ha inteso dunque incidere sugli effetti della l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 6/2012, tenendo conto – come si legge nella relazione al disegno di legge – del fatto che l’applicazione dei criteri e dei parametri di

calcolo del “valore attuale” dei vitalizi, prescelti dall’ufficio di presidenza del consiglio regionale ave-va condotto a quantificazioni attestate su cifre elevate, determinando, tra l’altro, non positive reazioni dell’opinione pubblica.

Costituisce appunto oggetto della presente que-stione di legittimità costituzionale il verificare se tale nuova disciplina, anziché ragionevole interpretazione autentica del precedente assetto legislativo, si configu-ri quale intervento recante una normativa retroattiva che trasmoda in regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate sulla legge reg. Trentino-Alto Adi-ge, n. 6/2012, e perciò determini, in contrasto con l’art. 3 Cost., la lesione del legittimo affidamento ma-turato dai destinatari delle previsioni di quest’ultima.

3. In via preliminare, va esaminata l’eccezione d’inammissibilità prospettata dalla difesa della Regio-ne autonoma Trentino-Alto Adige-Südtirol e del con-siglio regionale della medesima regione, parti del giu-dizio a quo costituite nel giudizio di fronte a questa Corte. Viene, in particolare, eccepita “l’inammissibilità per eccesso” della questione di le-gittimità costituzionale, poiché il giudice rimettente avrebbe erroneamente censurato “globalmente gli artt. 1, 2, 3 e 4 della l. reg. n. 4/2014”, senza considerare che “tali disposizioni disciplinano distintamente situa-zioni diverse e non assimilabili”. Adombrando, per questa ragione, la complessiva inammissibilità della questione sollevata dall’ordinanza di rimessione, espone la difesa della regione e del consiglio regionale che le censure mosse dal giudice a quo riguarderebbe-ro anche disposizioni relative alla sola situazione di quei consiglieri che, pur non avendo maturato i requi-siti per l’attribuzione del vitalizio, si erano purtuttavia visti immediatamente attribuire, a titolo di “valore at-tuale”, una quota dell’assegno futuro (artt. 1, c. 4, e 4, c. 4, l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014). Nel giu-dizio a quo, sottolineano le parti, è però in discussione unicamente la posizione di un ex consigliere regionale già titolare dell’assegno vitalizio, avendo maturato i requisiti.

Va in effetti ricordato che, nella delibera 27 mag-gio 2013, n. 334, con la quale è stato adottato il “Re-golamento concernente la determinazione del valore attuale di una quota di assegno vitalizio e le disposi-zioni comuni con le contribuzioni per il trattamento indennitario”, l’ufficio di presidenza del consiglio re-gionale aveva previsto che il “valore attuale” venisse corrisposto, oltre che ai consiglieri cessati dal manda-to che alla data stessa erano in godimento di un asse-gno vitalizio e avevano esercitato l’opzione di cui all’art. 10, c. 2, l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 6/2012, anche “a tutti i consiglieri in carica nella XIV legisla-tura” (quindi anche agli stessi componenti dell’ufficio di presidenza), nonché “ai consiglieri cessati dal man-dato che alla data di entrata in vigore della l. reg. 21 settembre 2012, n. 6, erano in attesa di maturare i re-quisiti previsti”.

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Per questa ragione, la l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014, agli artt. 1, c. 4, e 4, c. 4, detta regole rela-tive alle specifiche posizioni di questi soggetti.

In riferimento a tali due disposizioni l’eccezione è fondata, giacché esse non devono trovare applicazione nel giudizio a quo, nel quale è effettivamente in que-stione soltanto la posizione di un ex consigliere che già aveva maturato i requisiti previsti per la corre-sponsione dell’assegno vitalizio.

Deve rilevarsi che anche le disposizioni contenute ai cc. 5 e 6 dell’art. 3 risultano riferite ai soli consi-glieri che non hanno maturato i requisiti per la corre-sponsione del vitalizio. Anch’esse, quindi, non sono applicabili nel giudizio a quo, conseguendone ugual-mente l’inammissibilità della questione in quanto a queste relativa.

Da ciò non deriva, ovviamente, l’inammissibilità della questione relativa alle altre disposizioni o parti di disposizioni, volte invece a disciplinare la situazio-ne dei consiglieri regionali cessati dal mandato che abbiano già maturato i requisiti previsti per la corre-sponsione dell’assegno vitalizio, disposizioni da ap-plicarsi nel giudizio a quo. Del resto, secondo costante giurisprudenza costituzionale, è possibile “circoscrive-re l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale ad una parte soltanto della o delle disposizioni censu-rate, se ciò è suggerito dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione” (ex plurimis, sent. n. 35/2017, n. 203/2016 e n. 244/2011).

In definitiva, lo scrutinio di questa Corte verte sull’art. 1, cc. 1, 2, 3 e 5; sull’art. 2 nella sua interez-za; sull’art. 3, cc. 1, 2, 3 e 4; sull’art. 4, cc. 1, 2, 3 e 5, l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014.

4. La questione non è fondata.

4.1. Assume innanzitutto rilievo, entro i limiti che saranno precisati, la natura dell’intervento che il legi-slatore regionale ha operato con la l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014.

Anche alla luce del contenuto dell’ordinanza di ri-messione, nonché delle opposte allegazioni delle parti sul punto, è necessario stabilire se la legge regionale in questione contenga realmente un’interpretazione autentica di quanto previsto dall’art. 10 della prece-dente l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 6/2012, oppure se essa rechi una disciplina che retroattivamente innova criteri e modalità di quantificazione degli asse-gni vitalizi attribuiti ai consiglieri della Regione auto-noma Trentino-Alto Adige-Südtirol.

Questa Corte si è talvolta espressa nel senso della possibile assimilazione, quanto agli esiti dello scruti-nio di legittimità costituzionale, tra disposizioni di in-terpretazione autentica – retroattive, salva diversa vo-lontà esplicitata dal legislatore stesso – e disposizioni innovative con efficacia retroattiva (da ultimo, in tal senso, sent. n. 73/2017).

Non deve tuttavia trascurarsi che, in relazione a leggi che pretendono di avere natura meramente inter-pretativa, la palese erroneità di tale auto-qualificazione può costituire un indice, sia pur non di-

rimente, dell’irragionevolezza della disciplina censu-rata (di nuovo sent. n. 73/2017 e, in particolare, sent. n. 103/2013 e n. 41/2011). In direzione opposta, la na-tura realmente interpretativa della disciplina in esame può non risultare indifferente ai fini dell’esito del con-trollo di legittimità costituzionale, laddove sia censu-rata l’irragionevolezza della sua retroattività. Tale na-tura è rilevante, in particolare, quando il principio co-stituzionale asseritamente leso dall’intervento legisla-tivo sia quello dell’affidamento dei consociati nella certezza e nella stabilità di un’attribuzione (nel caso di specie patrimoniale) disposta in via legislativa. Infatti, se l’interpretazione imposta dal legislatore consiste effettivamente nell’assegnare alle disposizioni inter-pretate un significato normativo in esse già realmente contenuto, cioè riconoscibile come una delle loro pos-sibili e originarie varianti di senso, questo può depor-re, sia per la non irragionevolezza dell’intervento in questione, sia nella direzione della non configurabilità di una lesione dell’affidamento dei destinatari (ancora sent. n. 73/2017 e n. 170/2008).

4.2. Le disposizioni censurate, tuttavia, non posso-no qualificarsi come di interpretazione autentica.

Nonostante l’auto-qualificazione contenuta nel ti-tolo, esse non hanno realmente l’obiettivo di chiarire il senso di disposizioni preesistenti, ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragione-volmente riconducibili alla disposizione (ex multis, sent. n. 132/2016, n. 160/2013 e n. 209/2010; ord. n. 92/2014). In particolare, non si può ritenere che esse impongano una scelta che rientra tra le possibili va-rianti di senso del testo dell’art. 10 della l. reg. Trenti-no-Alto Adige, n. 6/2012, limitandosi così a rendere vincolante uno dei significati ad esso già ascrivibile.

Nel caso in esame, la disposizione interpretata, ap-punto l’art. 10 della l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 6/2012, stabiliva che ai consiglieri potesse essere ri-conosciuto il “valore attuale” della parte eccedente il 30,40 per cento dell’indennità parlamentare lorda (ba-se di calcolo del vitalizio) e attribuiva all’esclusiva discrezionalità dell’ufficio di presidenza del consiglio regionale il compito di quantificare tale valore.

Ebbene, l’art. 1 della l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014, anziché interpretare il citato art. 10, intro-duce nuovi criteri per l’attualizzazione.

Può discutersi se ciò dipenda, innanzitutto, dalla mutata denominazione del criterio di calcolo per l’attualizzazione, il “valore attuale” diventando “valo-re attuale medio”, tramite l’aggiunta di un aggettivo sulla cui importanza decisiva potrebbero non essere implausibili conclusioni opposte; anche se, dal punto di vista matematico, il valore attuale “medio” non coincide con il valore “attuale”, sicché, per ciò solo, non è sostenibile che la modifica legislativa si limiti a esplicitare ciò che sarebbe già implicito nella defini-zione originaria.

Non è in ogni caso dubbio che, nella legge più re-cente, l’individuazione dei criteri e delle modalità per la determinazione del “valore attuale medio” non è più rimessa alla discrezionalità dell’ufficio di presidenza

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del consiglio regionale. Tali criteri e modalità vengo-no direttamente previsti dall’art. 2 della l. reg. Trenti-no-Alto Adige, n. 4/2014, e, soprattutto, si tratta di criteri diversi da quelli precedenti. All’ufficio di pre-sidenza è soltanto imposto di provvedere, in base ad essi, alla “nuova quantificazione”.

Ciò risulta decisivo, fornendo il segno di una di-sciplina non già di mera interpretazione della prece-dente, ma innovativa di quest’ultima.

4.3. Chiarito il carattere innovativo e non interpre-tativo della l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014, non sussistono incertezze sulla sua natura retroattiva.

Lo stesso art. 1 di tale legge dispone, infatti, che «[i]l termine “valore attuale” di cui all’art. 10 della l. reg. 21 settembre 2012, n. 6 […], dal momento di en-trata in vigore della legge regionale stessa, si interpre-ta nel senso che esso fa riferimento al “valore attuale medio”».

La natura retroattiva dell’intervento è altresì con-fermata dalla previsione della nullità di tutti gli atti che contengono pregresse quantificazioni del “valore attuale” (art. 1, c. 2, l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014) e dalla circostanza che gli artt. 3 e 4 impon-gono la restituzione delle somme che rappresentano il maggior valore percepito rispetto al calcolo effettuato sulla base del “valore attuale medio”.

5. La costante giurisprudenza di questa Corte af-ferma che il divieto di retroattività della legge, previ-sto dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, costituisce principio fondamentale di civiltà giuridica.

Esso, tuttavia, non riceve nell’ordinamento la tute-la privilegiata di cui all’art. 25 Cost., riservata alla materia penale. Ne consegue che il legislatore, nel ri-spetto di tale disposizione costituzionale, può appro-vare disposizioni con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilie-vo costituzionale (ex plurimis, sent. n. 170/2013).

Le leggi retroattive, in particolare, devono trovare “adeguata giustificazione sul piano della ragionevo-lezza attraverso un puntuale bilanciamento tra le ra-gioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzial-mente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adotta-ta” (così, da ultimo, sent. n. 73/2017).

Tra i limiti che la giurisprudenza costituzionale ha individuato all’ammissibilità di leggi con effetto re-troattivo, rileva particolarmente, in questa sede – nell’ambito dei principi e interessi incisi dall’efficacia retroattiva dell’intervento legislativo regionale – l’affidamento legittimamente sorto nei soggetti inte-ressati alla stabile applicazione della disciplina modi-ficata. Tale legittimo affidamento trova copertura co-stituzionale nell’art. 3 Cost., è ritenuto “principio con-naturato allo Stato di diritto” (sent. n. 73/2017, nn. 170 e 160/2013, n. 78/2012, e n. 209/2010), ed è da considerarsi ricaduta e declinazione “soggettiva” dell’indispensabile carattere di coerenza di un ordi-

namento giuridico, quale manifestazione del valore della certezza del diritto.

D’altro canto, la giurisprudenza di questa Corte af-ferma altresì che “l’affidamento del cittadino nella si-curezza giuridica, pur aspetto fondamentale e indi-spensabile dello Stato di diritto, non è tutelato in ter-mini assoluti e inderogabili” (sent. n. 89/2018 e n. 56/2015). Esso “è sottoposto al normale bilanciamento proprio di tutti i diritti e valori costituzionali”, fermo restando che le disposizioni legislative retroattive non possono comunque “trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti” (ex multis, sent. n. 16/2017 e n. 203/2016; in senso analo-go sent. n. 149/2017).

Tutto ciò premesso, va sottoposta a stretto scruti-nio di ragionevolezza una legge regionale che inter-venga retroattivamente a ridurre attribuzioni di natura patrimoniale, come accade nel caso in esame per le parti “attualizzate” degli assegni vitalizi, e imponga perciò di restituire somme (di denaro) e quote (di fon-do finanziario) già conferite. Tale scrutinio “impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più ele-vato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà” (così sent. n. 173/2016, in fattispecie analoga ma non sovrapponibile, poiché relativa alla materia previdenziale). In altri termini, è richiesta non già la mera assenza di scelte normative manifestamen-te arbitrarie, ma l’effettiva sussistenza di giustifica-zioni ragionevoli dell’intervento legislativo, poiché la normativa retroattiva incide sulla “certezza dei rappor-ti preteriti” nonché sul legittimo affidamento dei sog-getti interessati (sent. n. 432/1997).

Un tale rigoroso controllo deve verificare, in primo luogo, se sussistano solide motivazioni che hanno guidato il legislatore regionale, e se esse trovino, ap-punto, “adeguata giustificazione sul piano della ragio-nevolezza” (ex plurimis, sent. n. 73/2017, n. 132/2016, e n. 69/2014), anche in considerazione delle circostan-ze di fatto e di contesto entro cui l’intervento legislati-vo è maturato. Ove tale preliminare esame fornisca esito positivo, deve essere inoltre accertato se il risul-tato di tale intervento non trasmodi comunque in una regolazione arbitraria di situazioni soggettive, in le-sione del legittimo affidamento dei destinatari della disciplina originaria, e perciò, anche sotto questo pro-filo, dell’art. 3 Cost.

6. Afferma la relazione della I Commissione legi-slativa del consiglio regionale del Trentino-Alto Adi-ge al disegno di legge n. 8 recante “Interpretazione autentica dell’art. 10 della l. reg. 21 settembre 2012, n. 6 (Trattamento economico e regime previdenziale dei membri del consiglio della Regione autonoma Trenti-no-Alto Adige) e provvedimenti conseguenti” che obiettivo del legislatore regionale è quello di “ridurre il trattamento economico corrisposto” in tema di quota “attualizzata” degli assegni vitalizi, ancorato dalla di-sciplina precedente “a parametri che si sono rivelati non consoni a criteri di equità e ragionevolezza e che si discostavano da una valutazione che avrebbe dovuto

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riferirsi a “valori medi” ed essere in linea con esigenze di contenimento della spesa pubblica”.

Due distinte esigenze risultano dunque alla base dell’intervento retroattivo del legislatore regionale. Da una parte, quella di ricondurre a criteri di “equità e ra-gionevolezza” gli assai favorevoli meccanismi di cal-colo dell’attualizzazione degli assegni vitalizi, intro-dotti dall’ufficio di presidenza del consiglio regionale con le delibere nn. 324 e 334/2013. Dall’altra, quella di provvedere al “contenimento della spesa pubblica”.

Tali motivi di interesse generale si contrappongono ai profili sintomatici dell’asserita irragionevolezza della legge, argomentati dall’ordinanza di rimessione e segnalati anche dalla difesa dell’ex consigliere re-gionale: l’erronea auto-qualificazione della legge co-me legge di interpretazione autentica, la ritenuta non necessarietà di interventi correttivi nella prospettiva della finanza pubblica, la diretta previsione in legge di criteri di calcolo dei vitalizi, che rientrerebbero invece nel dominio della scienza attuariale.

Ritiene questa Corte che tali ultimi profili, nel bi-lanciamento delle opposte esigenze, siano recessivi, a fronte della solida plausibilità, in astratto, delle moti-vazioni a sostegno dell’intervento di modifica, ricava-bili dai lavori preparatori della legge regionale che contiene le disposizioni censurate.

Ciò, innanzitutto, per una ragione legata alla pecu-liarità della vicenda in questione, in cui l’intervento legislativo retroattivo manifesta la propria natura “ri-paratrice” e incide su un regime di favore quale la “at-tualizzazione”, assai peculiare e reso ancor più ecce-zionale, negli effetti prodotti, dalla scelta di specifici criteri di calcolo.

Vi è, inoltre, una ragione di carattere più generale a sostegno della ragionevolezza della disciplina censu-rata. L’intervento legislativo mira a correggere gli ef-fetti di una normativa che aveva complessivamente determinato un ampliamento della spesa pubblica re-gionale, in controtendenza rispetto alle generali neces-sità di contenimento e risparmio in quegli stessi anni perseguite dal legislatore statale, a fronte di una crisi economica di ingente (e notoria) portata. Al cospetto di interventi legislativi statali che hanno imposto ridu-zioni generalizzate di risorse e contribuzioni straordi-narie al risanamento dei conti pubblici, tutti gli enti facenti parte della cosiddetta finanza pubblica allarga-ta sono stati chiamati, proprio in quel periodo di tem-po, a concorrere – secondo quanto stabilito dagli artt. 81 e 97, c. 1, Cost. – all’equilibrio complessivo del sistema e alla sostenibilità del debito nazionale (sulla riconducibilità anche delle Regioni a statuto speciale al sistema di finanza pubblica allargata, da ultimo, sent. n. 6/2019), a prescindere dalla condizione di maggiore o minore equilibrio del proprio bilancio. In tale contesto si spiega, e si giustifica, perché, allo stes-so legislatore regionale, la disciplina risultante dalla l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 6/2012, in combinazione con i criteri di calcolo approvati dall’ufficio di presi-denza del consiglio regionale, sia apparsa dissonante, e perciò meritevole di modifica.

7. Le motivazioni esposte non risultano di per sé sole risolutive per la decisione della questione di legit-timità costituzionale.

Nell’ambito del criterio di scrutinio qui utilizzato, occorre ulteriormente verificare se, in concreto, l’intervento legislativo in esame abbia leso il legittimo affidamento dei suoi destinatari.

Nel solco di una giurisprudenza della Corte euro-pea dei diritti dell’uomo che non considera il mero in-teresse finanziario pubblico ragione di per sé suffi-ciente a giustificare interventi retroattivi (sent. 7 giu-gno 2011, Agrati contro Italia; 25 novembre 2010, Lilly France contro Francia; 21 giugno 2007, Scanner de l’Ouest Lyonnais contro Francia; 16 gennaio 2007, Chiesi S.A. contro Francia; 9 gennaio 2007, Arnolin contro Francia; 11 aprile 2006, Cabourdin contro Francia), questa Corte ha infatti già affermato che una disciplina retroattiva non può tradire l’affidamento del privato, specie se maturato con il consolidamento di situazioni sostanziali, pur se l’intervento retroattivo sia dettato dalla necessità di contenere la spesa pub-blica o di far fronte ad esigenze eccezionali (sent. n. 216/2015 e n. 170/2013).

Per verificare se, in concreto, una disciplina re-troattiva incida in modo costituzionalmente illegittimo sull’affidamento dei destinatari della regolazione ori-ginaria, la giurisprudenza costituzionale attribuisce rilievo a una serie di elementi: il tempo trascorso dal momento della definizione dell’assetto regolatorio originario a quello in cui tale assetto viene mutato con efficacia retroattiva (sent. n. 89/2018, n. 250/2017, n. 108/2016, nn. 216 e 56/2015), ciò che chiama in causa il grado di consolidamento della situazione soggettiva originariamente riconosciuta e poi travolta dall’intervento retroattivo; la prevedibilità della modi-fica retroattiva stessa (sent. n. 16/2017, e n. 160/2013); infine, la proporzionalità dell’intervento legislativo che eventualmente lo comprima (in parti-colare, sent. n. 108/2016).

Da questo angolo visuale, nel caso in esame, as-sumono importanza alcuni elementi che il giudice a quo definisce invece “fatti occasionali, inidonei a scal-fire l’affidamento” e ritiene perciò irrilevanti al fine di verificare la ragionevolezza dell’intervento retroattivo.

In termini temporali, è significativo che, ad esem-pio, il decreto presidenziale con cui l’attore del giudi-zio a quo si è visto attribuire le somme, poi parzial-mente revocate, risalga al 30 ottobre 2013, mentre la legge che ha condotto alla complessiva ridetermina-zione di queste, con effetto retroattivo, è stata appro-vata nella seduta del consiglio regionale del 3 luglio 2014 – a breve distanza dall’approvazione della pre-cedente – dopo essere stata esaminata dalla I Commis-sione legislativa dello stesso Consiglio già nelle sedu-te del 6 e del 16 giugno 2014.

Inoltre, la circostanza che l’intervento del legisla-tore potesse non risultare del tutto imprevedibile agli occhi dei destinatari interessati – anche a voler pre-scindere dalla forte reazione dell’opinione pubblica conseguente al diffondersi delle notizie sulla vicenda,

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e senza considerare che indagini delle magistrature penale e contabile erano nel frattempo iniziate su di essa – è in particolare suggerita dalla singolare formu-lazione dell’art. 3, c. 2, della stessa l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014, pure censurato dal giudice a quo. Tale disposizione stabilisce testualmente che “[l]e somme liquide, restituite alla data di entrata in vigore della presente legge, sono computate a com-pensazione parziale o totale delle somme da restitui-re”. Con essa, il legislatore regionale ha ritenuto ne-cessario dare giuridico riconoscimento, nell’ambito della nuova quantificazione della quota “attualizzata” dei vitalizi e dei conseguenti obblighi di restituzione, alle restituzioni per così dire “anticipate”, evidente-mente effettuate in modo spontaneo da alcuni fra i de-stinatari del provvedimento di attualizzazione: scelte che indeboliscono la tesi dell’imprevedibilità di un in-tervento di modifica in materia.

Alla luce di tali due primi criteri, non si è insomma in presenza di un assetto regolatorio adeguatamente consolidato, sia perché esso non si è protratto per un periodo sufficientemente lungo, sia perché la l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 6/2012 è stata approvata in un contesto complessivo non idoneo a far sorgere nei de-stinatari una ragionevole fiducia nel suo mantenimen-to (analogamente, sent. n. 56/2015).

In relazione poi all’indice basato sulla proporzio-nalità dell’intervento legislativo retroattivo, va consi-derato che la l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014 non trascura di concedere ai beneficiari degli assegni coinvolti l’accesso a forme flessibili e graduate di re-stituzione delle somme percepite in eccesso, a seguito dei calcoli effettuati con il nuovo criterio del “valore attuale medio”. L’art. 3, c. 3, della legge regionale in esame consente infatti di provvedere alla restituzione anche tramite la riassegnazione al consiglio regionale delle quote del “Fondo Family”, attribuite originaria-mente ma in concreto esigibili soltanto negli anni suc-cessivi, attenuando così, anche se solo in parte, l’incisione patrimoniale diretta dell’intervento retroat-tivo.

Ulteriori agevolazioni nelle modalità di restituzio-ne, previste dall’art. 3, cc. 5 e 6, non rilevano diretta-mente in questa sede, in quanto riferibili solo ai consi-glieri beneficiari dell’attualizzazione senza aver anco-ra maturato i requisiti previsti per la corresponsione del vitalizio, ma sono complessivamente significative nella direzione indicata.

Sempre in chiave di valutazione sulla proporziona-lità dell’intervento, non è senza importanza il fatto che l’art. 5 della l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 4/2014 ab-bia concesso ai consiglieri che, all’entrata in vigore della l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 6/2012, esercita-rono l’opzione per l’attualizzazione, la possibilità di revocarla con effetto retroattivo, entro il termine di sessanta giorni dalla richiesta di restituzione. In tal modo, il legislatore regionale ha rimesso agli stessi ex consiglieri interessati la facoltà di tornare al regime previgente l’entrata in vigore della l. reg. Trentino-Alto Adige, n. 6/2012 e dunque di veder riespandere

l’importo mensile del vitalizio a discapito della perce-zione della quota attualizzata, pur essendo loro ov-viamente imposto, all’atto della revoca, l’obbligo di restituire al consiglio regionale (“ove non l’abbiano già fatto”, recita significativamente, ancora, l’art. 5, c. 2) l’intero importo del valore attuale percepito, sia sot-to forma di liquidità che di quote del “Fondo Family”.

8. In definitiva, le ragioni fin qui enunciate dimo-strano la ragionevolezza della normazione retroattiva sul patrimonio dei destinatari e conducono a ritenere non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata.

Resta comunque fermo che si è al cospetto di un intervento legislativo eccezionale, la cui peculiarità, peraltro, deve essere valutata anche alla luce dell’oggetto stesso su cui incide, ossia un istituto di favore a sua volta fuori dall’ordinario.

P.q.m., la Corte costituzionale:

1) dichiara inammissibile la questione di legittimi-tà costituzionale degli artt. 1, c. 4; 3, cc. 5 e 6; 4, c. 4, della l. reg. Trentino-Alto Adige, 11 luglio 2014, n. 4, recante “Interpretazione autentica dell’art. 10 della l. reg. 21 settembre 2012, n. 6 (Trattamento economico e regime previdenziale dei membri del consiglio della Regione autonoma Trentino-Alto Adige) e provvedi-menti conseguenti”, sollevata, in relazione all’art. 3 Cost., dal Tribunale ordinario di Trento, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, cc. 1, 2, 3 e 5; 2; 3, cc. 1, 2, 3 e 4; 4, cc. 1, 2, 3 e 5 della l. reg. Trentino-Alto Adi-ge, n. 4/2014, sollevata, in relazione all’art. 3 Cost., dal Tribunale ordinario di Trento, con l’ordinanza in-dicata in epigrafe.

112 – Corte costituzionale; sentenza 10 maggio 2019; Pres. Lattanzi, Est. Viganò; Consob c. D.B.

Sanzioni amministrative – Confisca – Operazioni finanziarie illecite – Confisca dell’intero prodotto – Illegittimità costituzionale.

Cost., artt. 3, 42, 117, c. 1; l. 18 aprile 2005, n. 62, di-sposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. (Legge comunitaria 2004), art. 9, c. 2, lett. a); d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107, norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (Ue) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/Ce e le direttive 2003/124/Ue, 2003/125/Ce e 2004/72/Ce, art. 4, c. 14.

È costituzionalmente illegittimo l’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, c. 2, lett. a), l. n. 62/2005, nonché nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, c. 14, d.lgs. n. 107/2018, nella parte in cui prevede la confisca la confisca amministrativa dell’intero “prodotto” di operazioni finanziarie illecite e dei

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“beni utilizzati” per commetterle, anziché del solo “profitto” ricavato da queste operazioni.

Considerato in diritto – 1. Con l’ordinanza indica-ta in epigrafe, la Corte di cassazione, Sez. II civ., ha sollevato due distinti gruppi di questioni di legittimità costituzionale concernenti, rispettivamente, gli artt. 187-quinquiesdecies e 187-sexies d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (T.u. delle disposizioni in materia di in-termediazione finanziaria, ai sensi degli artt. 8 e 21 della l. 6 febbraio 1996, n. 52).

1.1. Preliminarmente, va disposta la separazione del giudizio relativamente alle questioni aventi ad og-getto l’art. 187-quinquiesdecies d.lgs. n. 58/1998, in relazione alle quali questa Corte ritiene di dover pro-muovere, con separata ordinanza, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e rati-ficato dalla l. 2 agosto 2008, n. 130.

Oggetto della presente sentenza sono, pertanto, le sole questioni che concernono l’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998.

2. La sezione rimettente solleva questioni di legit-timità costituzionale dell’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, c. 2, lett. a), l. 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), “nella parte in cui esso as-soggetta a confisca per equivalente non soltanto il pro-fitto dell’illecito ma anche i mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero prodotto dell’illecito”.

Il giudice a quo dubita che tale disposizione con-trasti: in primo luogo, con gli artt. 3 e 42 Cost.; in se-condo luogo, con l’art. 117, c. 1, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con l. 4 agosto 1955, n. 848; in terzo luogo, con gli artt. 11 e 117, c. 1, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49 della Carta dei di-ritti fondamentali dell’Unione europea (Cdfue), pro-clamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Stra-sburgo il 12 dicembre 2007.

3. L’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998, nel testo che era in vigore al momento dei fatti e che è oggetto delle odierne censure di legittimità costituzionale, prevede-va al c. 1 che “[l]’applicazione delle sanzioni ammini-strative pecuniarie previste dal presente capo importa sempre la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo”, e al c. 2 che “[q]ualora non sia possibile eseguire la confi-sca a norma del c. 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equiva-lente”.

Il giudice a quo ritiene che la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente non

solo al “profitto” ricavato dall’illecito, ma anche al “prodotto” dell’illecito stesso – ritenuto pari alla somma del “profitto” e dei “beni utilizzati per com-metterlo” – si risolverebbe in una sanzione “punitiva” di carattere sproporzionato rispetto al disvalore dell’illecito, e comunque in una compressione ecces-siva del diritto di proprietà dell’autore dell’illecito.

Da ciò deriverebbero i vulnera ai parametri costi-tuzionali ed europei (questi ultimi per il tramite degli artt. 11 e 117, c. 1, Cost.) invocati dal rimettente.

In particolare, il carattere sproporzionato per ec-cesso della misura sarebbe suscettibile, secondo il giudice a quo, di tradursi in una violazione tanto dell’art. 3 Cost., quanto delle norme che – a livello co-stituzionale ed europeo – tutelano il diritto di proprie-tà: l’art. 42 Cost., da un lato; l’art. 1 Prot. addiz. Cedu e l’art. 17 Cdfue, dall’altro.

Inoltre, dalla natura sostanzialmente “punitiva” della confisca in parola discenderebbe una possibile violazione dell’art. 49 Cdfue, che sancisce il principio per cui “[l]e pene inflitte non devono essere spropor-zionate rispetto al reato”; principio che, secondo il ri-mettente, ben potrebbe essere esteso anche alle san-zioni di carattere sostanzialmente “punitivo” come quella all’esame.

4. Ha carattere pregiudiziale rispetto all’esame del merito delle questioni, e delle stesse ulteriori eccezio-ni proposte dall’Avvocatura generale dello Stato, la richiesta da quest’ultima formulata di restituzione de-gli atti al giudice a quo affinché valuti la permanente rilevanza delle questioni alla luce dello ius superve-niens, rappresentato dalle modifiche apportate alla di-sposizione censurata dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107, recante “Norme di adeguamento della normativa na-zionale alle disposizioni del regolamento (Ue) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/Ce e le direttive 2003/124/Ue, 2003/125/Ce e 2004/72/Ce”.

La richiesta non può essere accolta, dovendosi senz’altro escludere – per le ragioni che si andranno subito a chiarire – che l’eventuale applicazione della disposizione novellata nel caso concreto possa produr-re effetti in mitius rispetto alla previgente disciplina, in questa sede censurata.

4.1. Nel testo risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 107/2018, il c. 1 dell’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998 recita: “[l]’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente capo importa la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito”. Il c. 2 – che prevede la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità di valore equiva-lente – è rimasto invariato rispetto al testo previgente.

Due sono, dunque, le modifiche apportate dal d.lgs. n. 107/2018 al c. 1 dell’art. 187-sexies: è scom-parso l’avverbio “sempre”, che seguiva il verbo “im-porta”; ed è venuto meno il riferimento ai “beni utiliz-zati” per commettere l’illecito.

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4.2. Dal testo novellato è stato espunto, anzitutto, l’avverbio “sempre” che compariva nella precedente formulazione.

Non pare, tuttavia, che da ciò possa evincersi – nel silenzio serbato dai lavori preparatori e dalla stessa l. 25 ottobre 2017, n. 163 (Delega al Governo per il re-cepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione euro-pea 2016-2017) – una volontà del legislatore delegato di trasformare in meramente facoltativa una misura che in precedenza era, inequivocabilmente, prevista come obbligatoria. La locuzione “importa” allude, og-gi come ieri, a un vero e proprio obbligo a carico della Commissione nazionale per le società e la borsa (Con-sob) di procedere alla confisca, da esercitare senza al-cuno spazio per apprezzamenti discrezionali sulla op-portunità o meno di applicare la misura a chi sia stato ritenuto responsabile della commissione di un illecito previsto dal Titolo I-bis, Capo III, d.lgs. n. 58/1998.

Ne consegue che, sotto questo profilo, la novella non innova rispetto al contenuto precettivo della pre-vigente disposizione.

4.3. Dal testo riformulato è poi scomparso il rife-rimento ai “beni utilizzati” per commettere l’illecito.

Prima facie, tale eliminazione potrebbe produrre effetti nel caso oggetto del giudizio a quo, dal mo-mento che la Consob ha espressamente qualificato l’importo di 149.470 euro oggetto del provvedimento di confisca come importo equivalente al “prodotto” dell’illecito, a sua volta pari alla somma del “profitto” ricavato dall’illecito e dei “beni utilizzati” per com-metterlo. Di talché potrebbe ipotizzarsi che, ove si as-sumesse in via interpretativa l’efficacia retroattiva del-la novella del 2018 (che nulla dispone circa la propria efficacia intertemporale), l’espunzione dei “beni uti-lizzati” per commettere l’illecito dagli oggetti della confisca in esame comporti la necessità di ridetermi-nare l’importo complessivo della misura adottata dalla Consob nel caso di specie.

Una più attenta considerazione del provvedimento sanzionatorio oggetto del giudizio a quo conduce, tut-tavia, a una differente conclusione.

Come già evidenziato (Ritenuto in fatto, punto 1.4), la Consob ha contestato a D.B. di avere acquista-to 30.000 azioni della società di cui era amministrato-re al prezzo complessivo di 123.175,07 euro, essendo in possesso di un’informazione privilegiata, relativa all’imminente lancio di un’offerta pubblica di acquisto volontaria e totalitaria di tale società da parte di altra società di cui lo stesso D.B. era socio. Secondo la pro-spettazione della Consob, al momento della diffusione della notizia del lancio dell’offerta pubblica di acqui-sto, il valore delle azioni acquistate da D.B. – calcola-to sulla base del loro prezzo ufficiale in quella data – si sarebbe innalzato a 149.760 euro complessivi; ciò che avrebbe consentito allo stesso di realizzare un ri-sparmio, rispetto al prezzo che avrebbe dovuto pagare per acquisire quei titoli al momento del lancio dell’offerta pubblica di acquisto, pari a 26.580 euro.

Nell’ottica della Consob, dunque, l’importo di 149.760 euro, oggetto di confisca, è equivalente al va-lore complessivo delle azioni acquistate in precedenza da D.B. sulla base dell’informazione privilegiata di cui egli disponeva, le quali costituivano il “prodotto” della sua condotta illecita; valore a sua volta determi-nato sulla base del loro prezzo ufficiale determinato al momento del lancio dell’offerta pubblica di acquisto.

In tale prospettiva, risulta evidente che il venir me-no della possibilità di confiscare un importo pari ai “beni utilizzati” per commettere l’illecito (nella pro-spettiva della Consob, il denaro originariamente inve-stito per l’acquisto delle 30.000 azioni, pari a 123.175,07 euro) lascerebbe comunque intatto l’obbligo di confiscare il valore equivalente all’intero “prodotto” della condotta, rappresentato dalle azioni acquistate da D.B.: e dunque un valore che la Consob ha calcolato, per l’appunto, nella somma di 149.760, confiscata nel caso di specie.

In altre parole, e in termini più generali, il persi-stente obbligo di confiscare l’intero “prodotto”, o il suo valore equivalente, di una condotta di insider tra-ding fa sì che, anche dopo la novella del 2018, conti-nui a essere oggetto di confisca obbligatoria l’intero ammontare degli strumenti finanziari acquistati da chi disponga di un’informazione privilegiata, ovvero – nel caso in cui essi siano stati nel frattempo rivenduti – l’intero loro valore, e non semplicemente il vantaggio economico realizzato mediante l’operazione finanzia-ria.

5. L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, altresì, l’inammissibilità delle questioni prospettate, che tenderebbero a ottenere, mediante una pronuncia di natura additivo-manipolativa, l’introduzione nell’ordinamento di una nuova fattispecie di confisca, limitata al profitto ricavato dall’illecito; ciò che rien-trerebbe invece nelle esclusive prerogative del legisla-tore.

L’eccezione è infondata.

Questa Corte ha, invero, dichiarato inammissibile una precedente questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998 mirante a ricono-scere «all’autorità amministrativa (in sede di irroga-zione) e al giudice (nell’ambito del giudizio di oppo-sizione) il potere di “graduare” la misura “in rapporto alla gravità in concreto della violazione commessa”», in base alle stesse istanze di proporzionalità della san-zione che vengono invocate in questa sede. Questa Corte ritenne allora che il petitum assumesse “il carat-tere di una “novità di sistema”: circostanza che lo col-loca al di fuori dell’area del sindacato di legittimità costituzionale, per rimetterlo alle eventuali e future soluzioni di riforma, affidate in via esclusiva alle scel-te del legislatore” (sent. n. 252/2012). Il carattere “creativo” della soluzione in quell’occasione prospet-tata dal giudice rimettente discendeva, in effetti, dalla richiesta di introdurre un elemento di flessibilità nel quantum confiscabile in relazione alla concreta gravità dell’illecito: soluzione reputata inconciliabile con la natura “fissa” della confisca, che – nel vigente sistema

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normativo – può essere obbligatoria o facoltativa, ma non consente graduazioni quantitative affidate alla va-lutazione discrezionale dell’autorità che dispone la misura (ancora, sent. n. 252/2012).

Il petitum delle odierne questioni di legittimità co-stituzionale è però del tutto diverso, essendo finalizza-to a ottenere una pronuncia non già additivo-manipolativa, come quella cui mirava l’ordinanza di rimessione decisa con la sent. n. 252/2012, bensì par-zialmente ablativa. Il giudice a quo chiede infatti, in sostanza, che dall’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998 siano eliminati il riferimento ai “mezzi impiegati [recte: beni utilizzati] per commetter[e]” l’illecito, nonché al “prodotto” dell’illecito medesimo, con con-seguente conservazione della sola parte della disposi-zione concernente il “profitto”.

L’intervento sollecitato mira, dunque, semplice-mente, a ridurre gli oggetti della confisca prevista dal-la disposizione censurata; confisca che resterebbe però obbligatoria per la parte residua, relativa al profitto dell’illecito, che dovrebbe essere interamente confi-scato (in via diretta o per equivalente). Nessuna mani-polazione “creativa” deriverebbe, pertanto, dall’eventuale accoglimento delle questioni ora pro-spettate, che risultano pertanto – sotto questo profilo – ammissibili.

6. L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in-fine, che il giudice a quo avrebbe errato nel considera-re la confisca applicata nel caso di specie come confi-sca per equivalente, dovendo invece la stessa essere qualificata come confisca diretta, in quanto avente a oggetto somme di denaro.

Nemmeno questa eccezione è fondata.

A prescindere dalla considerazione che, come si evince dagli atti di causa, nel caso di specie la misura ablativa ha attinto due immobili di proprietà di D.B. e non già somme di denaro, occorre rilevare che la Con-sob ha espressamente indicato come “prodotto” dell’illecito le azioni acquistate da D.B., le quali però non sono state direttamente sottoposte a confisca. La misura ablativa ha, piuttosto, attinto beni di valore corrispondente a quello delle azioni acquistate, sino a concorrenza dell’importo pari – appunto – al valore di quelle azioni, sulla base del loro prezzo ufficiale al momento del lancio dell’offerta pubblica di acquisto.

Non v’è dubbio, pertanto, che l’ablazione patrimo-niale di cui è causa si debba qualificare come confisca per equivalente del prodotto dell’illecito.

7. Pur in assenza di una specifica eccezione sul punto, va infine affermata – in conformità ai principi espressi nelle sent. n. 269/2017, nn. 20 e 63/2019 – l’ammissibilità delle questioni di legittimità costitu-zionale prospettate con riferimento agli artt. 17 e 49 Cdfue, per il tramite degli artt. 11 e 117, c. 1, Cost.: questioni che questa Corte ha il compito di vagliare, essendo stata a ciò sollecitata dal giudice a quo.

8. Nel merito, le questioni sono fondate, in relazio-ne a tutti i parametri invocati.

In materia penale, la giurisprudenza di questa Cor-te considera costituzionalmente illegittime pene mani-festamente sproporzionate per eccesso in relazione al-la gravità del reato, in ragione del loro contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. (infra, punto 8.1). Sanzioni am-ministrative manifestamente sproporzionate per ecces-so rispetto alla gravità dell’illecito violano, dal canto loro, l’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta in-cisi dalla sanzione, nonché – nell’ambito del diritto dell’Unione europea – l’art. 49, par. 3, Cdfue (infra, punto 8.2). La confisca per equivalente del “prodotto” degli illeciti previsti dal Titolo I-bis, Capo III, d.lgs. n. 58/1998 e dei “beni utilizzati” per commetterli condu-ce a risultati sanzionatori manifestamente sproporzio-nati per eccesso rispetto alla gravità degli illeciti in questione (infra, punto 8.3). Il rischio di eccessi puni-tivi conseguenti alla previsione dell’obbligatorietà del-la confisca del “prodotto” degli illeciti amministrativi in questione e dei “beni utilizzati” per commetterli era stato del resto da tempo rilevato da questa Corte e dal-la stessa Consob, tanto che il legislatore – mediante la l. n. 163/2017 – aveva delegato il Governo a rivedere la disposizione qui censurata, prevedendo la confisca del solo “profitto” derivato dagli illeciti in questione (infra, punto 8.4). La dichiarazione di illegittimità co-stituzionale in parte qua della disposizione censurata non è, d’altra parte, in contrasto con gli obblighi deri-vanti dal diritto dell’Unione europea, che impongono soltanto la confisca del profitto che l’autore abbia ri-cavato dagli illeciti in questione (infra, punto 8.5).

8.1. Come già si è osservato, il nucleo essenziale delle censure sollevate dal giudice a quo concerne il carattere sproporzionato della sanzione costituita dalla confisca per equivalente del “prodotto” dell’illecito di insider trading e dei “beni utilizzati” per commetterlo, e la sua correlativa eccessiva incidenza sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito.

La giurisprudenza di questa Corte ha avuto varie occasioni di confrontarsi con il quesito se, e in che li-miti, sia possibile un sindacato di legittimità costitu-zionale sulle tipologie e sulla misura di sanzioni am-ministrative alla luce del criterio di proporzionalità della sanzione. Tuttavia, l’angolo visuale pressoché esclusivo dal quale tali questioni sono state affrontate è stato soltanto quello del divieto di automatismi legi-slativi nell’applicazione della sanzione (infra, punto 8.2.2): divieto che costituisce soltanto uno dei profili che vengono in considerazione nella questione oggi all’esame di questa Corte.

Numerose – e assai più variegate nella tipologia di valutazioni effettuate dalla Corte – sono, invece, le pronunce che concernono la parallela questione del sindacato sulle scelte sanzionatorie del legislatore in materia penale, sulla quale conviene anzitutto breve-mente soffermarsi.

8.1.1. Nell’ambito del diritto penale, la costante giurisprudenza di questa Corte riconosce un’ampia discrezionalità al legislatore nella determinazione del-le pene da comminare per ciascun reato. Tale discre-

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zionalità si estende in linea di principio al quomodo così come al quantum della pena, essendo riservata al legislatore – in forza dello stesso art. 25, c. 2, Cost. – la scelta delle pene più adeguate allo scopo di tutelare i beni giuridici tutelati da ciascuna norma incrimina-trice, nonché la determinazione dei loro limiti minimi e massimi.

Tale discrezionalità è soggetta, tuttavia, a una serie di vincoli derivanti dalla Costituzione, tra i quali il di-vieto di comminare pene manifestamente sproporzio-nate per eccesso, che viene in questa sede in conside-razione.

8.1.2. Il sindacato sulla proporzionalità della pena si è storicamente affermato, nella giurisprudenza di questa Corte, anzitutto sotto il profilo del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. Da tale principio si è tratta la naturale implicazione relativa alla necessità che a fatti di diverso disvalore corrispondano diverse rea-zioni sanzionatorie; con conseguente atteggiarsi del giudizio di legittimità costituzionale sulla misura della pena secondo uno schema triadico, imperniato attorno al confronto tra la previsione sanzionatoria censurata e quella apprestata per altra figura di reato di pari o ad-dirittura maggiore gravità, assunta quale tertium com-parationis (sent. n. 68/2012, n. 409/1989 e n. 218/1974, nonché – sotto il duplice profilo del contra-sto con gli artt. 3 e 8 Cost. – sent. n. 327/2002, n. 508/2000 e n. 329/1997).

8.1.3. La valorizzazione, accanto all’art. 3 Cost., del parametro rappresentato dall’art. 27, c. 3, Cost. – e in particolare del necessario orientamento alla riedu-cazione che la pena deve possedere – ha condotto in altre pronunce questa Corte (a partire dalle sent. nn. 343 e 422/1993 e n. 341/1994) a estendere il proprio sindacato anche a ipotesi in cui la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata non tanto in rapporto alle pene previste per altre figure di reato, quanto piuttosto in rapporto – direttamente – alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, senza che sia più necessaria l’evocazione di alcuno specifico tertium comparationis da parte del rimettente, se non al limitato fine di assistere questa Corte nell’individuazione del trattamento sanzionato-rio che possa sostituirsi, in attesa di un sempre possi-bile intervento del legislatore, a quello dichiarato in-costituzionale (in questo senso, in particolare, sent. n. 40/2019, n. 222/2018 e n. 236/2016). Ciò nella consa-pevolezza che pene eccessivamente severe tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato, e fini-scono così per risolversi in un ostacolo alla sua riedu-cazione (sent. n. 68/2012).

Nella stessa ottica debbono, d’altra parte, essere lette le numerose pronunce che hanno inciso sull’art. 69, ultimo comma, c.p., in ragione dell’esigenza di evitare l’irrogazione in concreto di pene sproporziona-te per eccesso per effetto del divieto di prevalenza di talune circostanze attenuanti sulle aggravanti indicate in quella disposizione (sent. n. 205/2017, nn. 106 e 105/2014 e n. 251/2012).

8.1.4. La considerazione, accanto all’art. 3 Cost., del principio di personalità della responsabilità penale sancito dal c. 1 dell’art. 27 Cost. – da leggersi anch’esso alla luce della necessaria funzione rieduca-tiva della pena di cui al terzo c. dello stesso art. 27 Cost. – è inoltre alla base dell’ulteriore canone della necessaria individualizzazione della pena, pure enu-cleato da una risalente giurisprudenza di questa Corte, che si oppone in linea di principio alla previsione di pene fisse nel loro ammontare (sent. n. 222/2018, che richiama in senso conforme le sent. n. 50/1980, n. 104/1968 e n. 67/1963). Tale canone esige che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legi-slatore alla sua concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singo-lo fatto di reato; il che comporta, almeno di regola, la necessità dell’attribuzione al giudice di un potere di-screzionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predetermi-nati dal legislatore.

8.2. Occorre a questo punto vagliare se, ed even-tualmente in che limiti, tali principi possano essere ri-tenuti applicabili anche alla materia, che viene qui in considerazione, delle sanzioni amministrative.

8.2.1. Questa Corte ha esteso in molteplici occa-sioni alle sanzioni amministrative di carattere sostan-zialmente “punitivo” talune garanzie riservate dalla Costituzione alla materia penale.

Ciò è accaduto, in particolare, in relazione ad una serie di corollari del principio nullum crimen, nulla poena sine lege enunciato dall’art. 25, c. 2, Cost., qua-li il divieto di retroattività delle modifiche sanzionato-rie in peius (sent. n. 223/2018, n. 68/2017, n. 276/2016, n. 104/2014 e n. 196/2010), della sufficien-te precisione del precetto sanzionato (sent. n. 121/2018 e n. 78/1967), nonché della retroattività del-le modifiche sanzionatorie in mitius (sent. n. 63/2019).

Una tale estensione non è avvenuta, invece, in re-lazione ai principi in materia di responsabilità penale stabiliti dall’art. 27 Cost. (sent. n. 281/2013 e ord. n. 169/2013). Tali principi – a cominciare dalla necessa-ria funzione rieducativa della pena – appaiono infatti strettamente connessi alla logica della pena privativa, o quanto meno limitativa, della libertà personale, at-torno alla quale è tutt’oggi costruito il sistema sanzio-natorio penale, e che resta sempre più o meno diretta-mente sullo sfondo anche nell’ipotesi in cui vengano irrogate pene di natura diversa, come rimedio di ulti-ma istanza in caso di inadempimento degli obblighi da esse derivanti.

8.2.2. Cionondimeno, non può dubitarsi che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generali-tà delle sanzioni amministrative.

Come anticipato, questa Corte ha già, in numerose occasioni, invocato tale principio – anche in relazione a misure delle quali veniva espressamente negata la natura “punitiva” (come nel caso deciso dalla sent. n. 22/2018) – a fondamento di dichiarazioni di illegitti-

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mità costituzionale di automatismi sanzionatori, rite-nuti non conformi al principio in questione proprio perché esso postula “l’adeguatezza della sanzione al caso concreto”; adeguatezza che “non può essere rag-giunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commis-sione dell’illecito” (sent. n. 161/2018; nello stesso senso, ex multis, sent. n. 268/2016 e n. 170/2015).

8.2.3. Il principio di proporzionalità della sanzione possiede, peraltro, potenzialità applicative che ecce-dono l’orizzonte degli automatismi legislativi, come dimostra proprio la giurisprudenza relativa alla mate-ria penale appena rammentata, e i cui principali ap-prodi sono estensibili anche alla materia delle sanzioni amministrative, rispetto alla quale – peraltro – il prin-cipio in parola non trae la propria base normativa dal combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost., bensì dall’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta in-cisi dalla sanzione.

Non erra, pertanto, il giudice rimettente nell’identificare nel combinato disposto degli artt. 3 e 42 Cost. il fondamento domestico del principio di proporzionalità di una sanzione che, come la confisca di cui è discorso, incide in senso limitativo sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito; né erra nell’identificare negli artt. 1 Prot. addiz. Cedu e nell’art. 17 Cdfue i fondamenti, rispettivamente, nel diritto della Convenzione e dell’Unione europea, del principio in questione, in quanto riferito a una sanzio-ne patrimoniale.

8.2.4. A tali basi normative parrebbe altresì affian-carsi, nell’ambito del diritto dell’Unione europea, l’art. 49, par. 3, Cdfue.

Ancorché il testo di tale disposizione faccia riferi-mento alle “pene” e al “reato”, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha recentemente considerato ap-plicabile tale principio all’insieme delle sanzioni – pe-nali e amministrative, queste ultime anch’esse di ca-rattere “punitivo” – irrogate in seguito alla commis-sione di un fatto di manipolazione del mercato, ai fini della verifica del rispetto del diverso principio del ne bis in idem (Corte giust., sent. 20 marzo 2018, Garls-son Real Estate SA e altri, in causa C-537/16, par. 56). Ciò in coerenza con la spiegazione relativa all’art. 49 Cdfue, ove si chiarisce che “[i]l par. 3 riprende il prin-cipio generale della proporzionalità dei reati e delle pene sancito dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla giurisprudenza della Corte di giu-stizia delle Comunità”: giurisprudenza, quest’ultima, formatasi esclusivamente in materia di sanzioni am-ministrative applicate dalle istituzioni comunitarie.

Lo stesso art. 49, par. 3, Cdfue è stato del resto re-centemente invocato dalla Sezioni unite civili della Corte di cassazione a fondamento dell’affermazione secondo cui anche forme di risarcimento con funzione prevalentemente deterrente come i “punitive dama-ges” eventualmente disposti da una sentenza straniera debbono comunque rispettare il principio di propor-

zionalità per poter essere riconosciuti nel nostro ordi-namento (Cass. civ., S.U., 5 luglio 2017, n. 16601).

8.2.5. La stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, in alcune sentenze su cui ha giustamente richiamato l’attenzione la parte privata, ritenuto illegittime – al metro dell’art. 1 Prot. addiz. Cedu – confische amministrative aventi ad oggetto l’intero ammontare di denaro che non era stato dichia-rato alla dogana, e non soltanto l’importo dei diritti doganali evasi. E ciò proprio in relazione al carattere manifestamente sproporzionato di simili misure rispet-to ai pur legittimi fini perseguiti dallo Stato, in rela-zione alla concreta gravità degli illeciti che di volta in volta venivano in considerazione, tenuto conto anche del fatto che le misure ablative in questione si som-mavano alle sanzioni pecuniarie irrogate per l’omessa dichiarazione delle somme (Corte Edu 31 gennaio 2017, Boljević c. Croazia; 26 febbraio 2009, Grifhorst c. Francia, parr. 87 ss.; 5 febbraio 2009, Gabrić c. Croazia, parr. 34 ss.; 9 luglio 2009, Moon c. Francia, parr. 46 ss.; 6 novembre 2008, Ismayilov c. Russia).

8.3. È, dunque, sulla base di tali principi che deve essere scrutinata la legittimità costituzionale della di-sposizione censurata, che impone la confisca alterna-tiva, diretta o per equivalente, del “prodotto” o del “profitto” degli illeciti previsti dal Titolo I-bis, Capo III, d.lgs. n. 58/1998, oltre che dei “beni utilizzati” per commettere gli illeciti medesimi.

8.3.1. Secondo le consolidate coordinate penalisti-che, delle quali il lessico utilizzato nella disposizione censurata è debitrice, “prodotto” di un illecito è “il ri-sultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, tra-sformate, adulterate o acquistate mediante il reato” (Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008, n. 26654). In altre parole, costituiscono “prodotto” tutte le cose materiali che, in una prospettiva puramente causale, “derivano” dalla commissione dell’illecito medesimo. È pertanto “prodotto” del reato il documento contraffatto, il na-stro contenente la registrazione di una conversazione illegittimamente intercettata, la cosa acquistata da chi ne conosceva l’origine delittuosa.

In questa logica, il “prodotto” di un illecito come l’abuso di informazioni privilegiate – che consiste, nel suo nucleo essenziale, nel compimento di operazioni di compravendita di strumenti finanziari da parte di chi possieda un’informazione ancora riservata, la cui successiva diffusione al pubblico potrebbe determina-re una variazione del prezzo di tali strumenti – non può che essere rappresentato dall’insieme degli stru-menti acquistati, ovvero dall’intera somma ricavata dalla loro vendita (Cass. civ., Sez. I, 6 aprile 2018, n. 8590).

8.3.2. Il “profitto” è, invece, l’utilità economica conseguita mediante la commissione dell’illecito. Nel-le ipotesi di acquisto di strumenti finanziari, il profitto consiste dunque nel risultato economico dell’operazione valutato nel momento in cui l’informazione privilegiata della quale l’agente dispo-neva diviene pubblica, calcolato più in particolare sot-traendo al valore degli strumenti finanziari acquistati

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il costo effettivamente sostenuto dall’autore per com-piere l’operazione, così da quantificare l’effettivo “guadagno” (in termini finanziari, la “plusvalenza”) ovvero, come nel caso di specie, il “risparmio di spe-sa” che l’agente abbia tratto dall’operazione.

Nelle ipotesi di vendita di strumenti finanziari sul-la base di un’informazione privilegiata, il “profitto” conseguito non potrà invece che identificarsi nella “perdita evitata” in rapporto al successivo deprezza-mento degli strumenti, conseguente alla diffusione dell’informazione medesima; e dunque andrà calcola-to sulla base della differenza tra il corrispettivo otte-nuto dalla vendita degli strumenti finanziari, e il loro successivo (diminuito) valore. Conclusione, questa, suggerita anche da un’interpretazione conforme al di-ritto dell’Unione europea dell’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998, avuto riguardo in particolare al Regolamento (Ue) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consi-glio, 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (re-golamento sugli abusi di mercato) e che abroga la di-rettiva 2003/6/Ce del Parlamento europeo e del Con-siglio e le direttive 2003/124/Ce, 2003/125/Ce e 2004/72/Ce della Commissione: regolamento il cui art. 30, par. 2, lett. b), impone agli Stati membri l’obbligo di prevedere “la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, per quanto possano essere determinati”.

8.3.3. Quanto infine ai “beni utilizzati” per com-mettere l’illecito, in tema di abusi di mercato essi – lungi dal poter essere identificati nei tradizionali in-strumenta sceleris, in genere rappresentati da cose in-trinsecamente pericolose se lasciate nella disponibilità del reo, come negli esempi di scuola del grimaldello o della stampante di monete false – non possono che consistere nelle somme di denaro investite nella tran-sazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore.

8.3.4. Da tutto ciò consegue che, in tema di abusi di mercato, mentre l’ablazione del “profitto” ha una mera funzione ripristinatoria della situazione patrimo-niale precedente in capo all’autore, la confisca del “prodotto” – identificato nell’intero ammontare degli strumenti acquistati dall’autore, ovvero nell’intera somma ricavata dalla loro alienazione – così come quella dei “beni utilizzati” per commettere l’illecito – identificati nelle somme di denaro investite nella tran-sazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore – hanno un effetto peggiorativo rispetto alla situazione patrimoniale del trasgressore.

Tali forme di confisca assumono pertanto una con-notazione “punitiva”, infliggendo all’autore dell’illecito una limitazione al diritto di proprietà di portata superiore (e, di regola, assai superiore) a quel-la che deriverebbe dalla mera ablazione dell’ingiusto vantaggio economico ricavato dall’illecito.

Muovendo da questa prospettiva, del resto, la Cor-te suprema degli Stati Uniti ha recentemente affermato la natura “punitiva” – e non meramente ripristinatoria – della misura, funzionalmente analoga a quella ora in considerazione, del “disgorgement” applicato dalla

Security exchange commission (Sec) in materia di abusi di mercato; e ciò proprio in quanto tale misura – estendendosi all’intero risultato della transazione ille-cita – eccede, di regola, il valore del vantaggio eco-nomico che l’autore ha tratto dalla transazione stessa (Corte suprema degli Stati Uniti, sent. 5 giugno 2017, Kokesh c. Security Exchange Commission).

8.3.5. Nel vigente sistema sanzionatorio degli abu-si di mercato, la (predominante) componente “puniti-va” insita nella confisca del “prodotto” dell’illecito e dei “beni utilizzati” per commetterlo si aggiunge all’afflizione determinata dalle altre sanzioni previste dal d.lgs. n. 58/1998 e, in particolare, dalla sanzione amministrativa pecuniaria. Una sanzione, quest’ultima, la cui cornice edittale è essa pure di ec-cezionale severità, potendo giungere sino ad un mas-simo (oggi) di cinque milioni di euro, aumentabili in presenza di particolari circostanze fino al triplo, ovve-ro fino al maggiore importo di dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito.

8.3.6. A giudizio di questa Corte, la combinazione tra una sanzione pecuniaria di eccezionale severità, ma graduabile in funzione della concreta gravità dell’illecito e delle condizioni economiche dell’autore dell’infrazione, e una ulteriore sanzione anch’essa di carattere “punitivo” come quella rappresentata dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commet-tere l’illecito, che per di più non consente all’autorità amministrativa e poi al giudice alcuna modulazione quantitativa, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati.

Simili risultati sono emblematicamente illustrati dal caso oggetto del giudizio a quo, in cui l’autore di una condotta di insider trading è stato punito con una sanzione pecuniaria di 200.000 euro, che si è aggiunta alla confisca per equivalente dell’intero valore delle azioni acquistate avvalendosi di un’informazione pri-vilegiata, pari a ulteriori 149.760 euro, a fronte di un vantaggio economico di 26.580 euro conseguito dall’operazione. A conti fatti, la componente “puniti-va” di tale complessiva sanzione – risultante dalla somma tra la sanzione pecuniaria e la confisca di ciò che eccede rispetto al profitto tratto dall’operazione – è qui pari a circa tredici volte tale profitto: un coeffi-ciente che non può che apparire manifestamente ec-cessivo rispetto ai legittimi scopi di prevenzione gene-rale e speciale perseguiti dalla norma che vieta l’insider trading.

8.4. Nel dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità dell’art 187-sexies d.lgs. n. 58/1998 all’epoca sollevata, questa Corte aveva del resto già riconosciuto che quello delle “conseguenze ultra mo-dum che possono scaturire, in determinati contesti, dalla previsione della confisca obbligatoria, non solo del profitto, ma anche dei beni strumentali alla com-missione dell’illecito” costituisce un “problema in sé reale e avvertito, da sottoporre all’attenzione del legi-slatore” (sent. n. 252/2012), al quale tuttavia la Corte

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non ritenne in quell’occasione di poter porre diretta-mente rimedio in considerazione della peculiare for-mulazione del petitum allora sottopostole (supra, pun-to 5).

L’ammonimento di questa Corte non era sfuggito alla Consob, la quale – come giustamente rammentato dalla difesa della parte privata – aveva richiamato il legislatore, nella propria Relazione annuale per il 2012, all’opportunità di riformare “l’attuale disciplina della confisca obbligatoria (art. 187-sexies), suscettibi-le di rivelarsi […] particolarmente afflittiva e non proporzionata all’effettiva gravità dell’illecito accerta-to”, auspicando l’introduzione di coefficienti di gra-duabilità del quantum della sanzione, in grado di assi-curarne la commisurazione individualizzata in rela-zione alla gravità concreta dell’illecito medesimo.

A tale sollecitazione il legislatore ha in effetti ri-sposto con la l. n. 163/2017, che, all’art. 8, c. 3, lett. g), ha delegato il Governo a rivedere l’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998 “in modo tale da assicurare l’adeguatezza della confisca, prevedendo che essa ab-bia ad oggetto, anche per equivalente, il profitto deri-vato dalle previsioni del regolamento (Ue) n. 596/2014”: formulazione, questa, che non fa più alcu-na menzione né del “prodotto” dell’illecito, né dei “beni utilizzati” per commetterlo, considerati eviden-temente forieri di eccessi sanzionatori.

A fronte poi della predisposizione da parte del Go-verno di uno schema di decreto che eliminava bensì la previsione della confisca dei “beni utilizzati” per commettere l’illecito, ma non quella del “prodotto” dell’illecito medesimo, il Commissario della Consob, sentito il 17 luglio 2018 in audizione dalle Commis-sioni riunite Giustizia e Finanze della Camera, auspicò l’accoglimento da parte del legislatore delegato della “posizione già espressa dal Parlamento e fatta propria dalla Consob”, prevedendo “la confisca limitatamente al profitto delle violazioni in materia di abuso di in-formazioni privilegiate e di manipolazione, di cui agli artt. 187-bis e 187-ter” d.lgs. n. 58/1998.

Il legislatore delegato non ha, tuttavia, accolto tale auspicio, riconfermando nel novellato art. 187-sexies del d.lgs. n. 58/1998, come modificato dal d.lgs. n. 107/2018, la confiscabilità tanto del “profitto” quanto del “prodotto” dell’illecito, con ciò riproponendo nella nuova disposizione i vizi che affliggevano quella pre-vigente.

La diversa struttura dell’odierna questione di legit-timità costituzionale rispetto a quella decisa con la menzionata sent. n. 252/2012 consente, ora, a questa Corte di porre rimedio a tali vizi di legittimità costitu-zionale, attraverso una pronuncia di carattere parzial-mente ablativo in grado di ovviare alle conseguenze “ultra modum” che discendono dalla disciplina censu-rata.

8.5. Né l’odierna pronuncia incontra alcun ostacolo nel diritto dell’Unione europea, il quale non impone la confisca del “prodotto” dell’illecito e dei “beni utiliz-zati” per commetterlo.

Come anticipato, infatti, il vigente Regolamento n. 596/2014 richiede soltanto agli Stati membri – all’art. 30, par. 2, lett. b) – di prevedere “la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, per quanto possano essere determinati”.

Come risulta anche dalle diverse versioni linguisti-che del testo (“the disgorgement of the profits gained or losses avoided”, in inglese; “la restitution de l’avantage retiré de cette violation ou des pertes qu’elle a permis d’éviter”, in francese; “den Einzug der infolge des Verstoßeserzielten Gewinne oder ver-miedene Verluste”, in tedesco; “la restitución de los beneficios obtenidos o de las pérdidas evitadas”, in spagnolo), il regolamento in parola allude senza equi-voco al solo “vantaggio economico” (in termini di guadagno o di perdita evitata) ottenuto dal compimen-to di un’operazione in condizioni di asimmetria in-formativa e in violazione di un dovere di astensione – per effetto del possesso di un’informazione privilegia-ta – rispetto alla generalità degli operatori nel mercato degli strumenti finanziari.

9. Da quanto precede consegue l’illegittimità costi-tuzionale della previsione della confisca obbligatoria del “prodotto” dell’illecito amministrativo e dei “beni utilizzati” per commetterlo, in ragione del suo contra-sto con gli artt. 3, 42 e 117, c. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. Cedu, nonché degli artt. 11 e 117, c. 1, Cost. in relazione agli artt. 17 e 49, par. 3, Cdfue.

Il giudice a quo parrebbe, invero, circoscrivere il petitum alla dichiarazione di illegittimità costituziona-le della sola previsione della loro confisca per equiva-lente. Al riguardo, va tuttavia considerato che l’effetto manifestamente sproporzionato della confisca in og-getto – esattamente posto in luce dall’ordinanza di ri-messione – non dipende dal fatto che la misura abbia ad oggetto direttamente i beni o il denaro ricavati dalla transazione o utilizzati nella transazione stessa, ovvero beni o denaro di valore equivalente; quanto, piuttosto, dalla stessa previsione dell’obbligo di procedere alla confisca del “prodotto” dell’illecito e dei “beni utiliz-zati” per commetterlo.

Va, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegit-timo l’art. 187-sexies, d.lgs. n. 58/1998, nel testo ori-ginariamente introdotto dall’art. 9, c. 2, lett. a), l. n. 62/2005, nella parte in cui prevede la confisca obbli-gatoria, diretta o per equivalente, del “prodotto” dell’illecito e dei “beni utilizzati” per commetterlo, e non del solo “profitto”.

10. La presente dichiarazione di illegittimità costi-tuzionale deve essere estesa, ai sensi dell’art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), all’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, c. 14, d.lgs. n. 107/2018, nella parte in cui prevede la confisca obbli-gatoria, diretta o per equivalente, del “prodotto” dell’illecito, e non del solo profitto, per contrasto con tutti i parametri invocati nell’ordinanza di rimessione.

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Nonostante la già ricordata disposizione della leg-ge delega n. 163/2017 (supra, punto 8.4), che delega-va il Governo a rivedere l’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998 limitando l’oggetto della confisca ivi prevista al solo “profitto derivato dalle previsioni del regola-mento (Ue) n. 596/2014”, il d.lgs. n. 107/2018 ha in-vece confermato la confisca obbligatoria, in via alter-nativa, del “profitto” o del “prodotto” dell’illecito, espungendo soltanto il riferimento ai “beni utilizzati” per commetterlo, presente nella versione previgente.

In tal modo, il legislatore delegato ha riprodotto, seppure parzialmente, una disposizione che si espone ai medesimi vizi di legittimità costituzionale che af-fliggono la disciplina previgente. Anche tale disposi-zione deve pertanto essere dichiarata, in via conse-quenziale, costituzionalmente illegittima in parte qua.

P.q.m., la Corte costituzionale:

1) dispone la separazione del giudizio promosso dalla Corte di cassazione, Sez. II civ., con l’ordinanza indicata in epigrafe, riservando a separata pronuncia la decisione delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (T.u. delle disposizioni in materia di intermedia-zione finanziaria, ai sensi degli artt. 8 e 21 della l. 6 febbraio 1996, n. 52), sollevate in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, c. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con l. 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 14, c. 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, rati-ficato e reso esecutivo con la l. 25 ottobre 1977, n. 881, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, c. 1, Cost., in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Cdfue), proclama-ta a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, c. 2, lett. a), l. 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi deri-vanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità euro-pee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui pre-vede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalen-te, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto;

3) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costitu-zione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies d.lgs. n. 58/1998, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, c. 14, d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107, recante “Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (Ue) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/Ce e le direttive 2003/124/Ue, 2003/125/Ce e 2004/72/Ce”, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.

159 – Corte costituzionale, sentenza 25 giugno 2019; Pres. Lattanzi, Est. Sciarra; Inps c. A.C.

Impiegato dello Stato e pubblico in genere – Misu-re di contenimento della spesa – Trattamento di fine rapporto – Pagamento rateale – Questione di legittimità costituzionale – Inammissibilità. Cost., artt. 3, 36; d.l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito con modificazioni dalla l. 28 maggio 1997, n. 140, mi-sure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica, art. 3, c. 2; d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, art. 12, c. 7.

Impiegato dello Stato e pubblico in genere – Misu-re di contenimento della spesa – Liquidazione del trattamento di fine rapporto – Differimento a ven-tiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di la-voro – Pagamento rateale delle indennità di fine rapporto – Questione di legittimità costituzionale – Infondatezza. Cost., artt. 3, 36; d.l. 31 maggio 2010, n. 78, converti-to con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, art. 12, c. 7.

Sono inammissibili le questioni di legittimità costi-tuzionale dell’art. 3, c. 2, d.l. n. 79/1997 convertito con modificazioni dalla l. n. 140/1997, e dell’art. 12, c. 7, d.l. n. 78/2010, convertito con modificazioni dal-la l. n. 122/2010, sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost, nella parte in cui prevedono il pagamento rateale delle indennità spettanti a seguito di cessazione dall’impiego “nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di ser-vizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiun-gimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione”.

Non sono fondate le questioni di legittimità costi-tuzionale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., dal Tribunale ordinario di Roma in funzione di giudice del lavoro, dell’art. 3, c. 2, d.l. n. 79/1997, convertito dalla l. n. 140/1997, nella parte in cui pre-vede che alla liquidazione dei trattamenti di fine ser-vizio, comunque denominati, l’ente erogatore provve-da “decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro”, e dell’art. 12, c. 7, d.l. n. 78/2010, convertito dalla l. n. 122/2010, nella parte in cui prevede il pagamento rateale delle indennità spet-tanti a seguito di cessazione dall’impiego nelle ipotesi diverse dalla “cessazione dal servizio per raggiungi-mento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordi-namenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità

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massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione”. (1)

Considerato in diritto – 1. Con ord. 12 aprile 2018 (reg. ord. n. 136/2018), il Tribunale ordinario di Ro-ma, in funzione di giudice del lavoro, dubita della le-gittimità costituzionale dell’art. 3, c. 2, d.l. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della fi-nanza pubblica), convertito con modificazioni dalla l. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, c. 7, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di sta-bilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost.

Il rimettente assume che le disposizioni censurate, nel prevedere un pagamento differito e rateale dei trat-tamenti di fine servizio, comunque denominati, spet-tanti ai dipendenti pubblici, si pongano in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). I lavora-tori del settore pubblico sarebbero assoggettati a un regime deteriore rispetto ai lavoratori del settore pri-vato, i quali ottengono senza ritardo l’erogazione del trattamento di fine rapporto. La denunciata sperequa-zione non troverebbe una giustificazione ragionevole nella specialità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

La “corresponsione dilazionata e rateale” dei trat-tamenti di fine servizio, disposta “in via generale, permanente e definitiva”, sarebbe, per altro verso, le-siva del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del diritto di percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.).

La “particolare gravità della situazione economica e finanziaria del momento” potrebbe giustificare esclusivamente “un intervento temporaneo e mirato sui trattamenti di fine rapporto”, applicabile “all’intero comparto pubblico”, secondo le coordinate di “un di-segno organico improntato a una dimensione pro-grammatica”, che si proietta nell’arco pluriennale del-le politiche di bilancio. Nondimeno, tale intervento non potrebbe risolversi in una “irragionevole protra-zione, in via permanente, della dilazione e scagliona-mento” dell’erogazione dei trattamenti di fine servi-zio.

Un assetto così congegnato, che procrastina il pa-gamento dei trattamenti di fine servizio, contrastereb-be con il principio di proporzionalità della retribuzio-ne alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e ne comprometterebbe l’adeguatezza, in violazione dell’art. 36 Cost. Tali trattamenti, qualificabili come retribuzione differita, sarebbero corrisposti alla cessa-zione del rapporto di lavoro allo scopo di soddisfare le “principali necessità di vita (per esempio, acquisto di una casa, spese per il matrimonio di un figlio, necessi-

(1) Segue la nota di A. Luberti, I parametri costituzionali di

valutazione della legittimità delle misure finanziarie nei con-fronti di pubblici dipendenti e pensionati.

tà di cure mediche […])”, legate anche all’esigenza di onorare altri impegni finanziari assunti.

2. Nel giudizio è intervenuta ad adiuvandum, con atto depositato il 30 ottobre 2018, la Federazione Confsal-Unsa.

La federazione, che non riveste la qualità di parte del giudizio principale, ha fondato la legittimazione all’intervento sulla titolarità di un interesse diretto, at-tuale e concreto, connesso alla posizione soggettiva dedotta nel giudizio a quo.

L’intervento è inammissibile.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, ribadi-ta anche con riguardo alle richieste di intervento di soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di cate-goria (fra le molte, ordinanza dibattimentale allegata alla sent. n. 248/2018), la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davan-ti alla Corte costituzionale).

A tale disciplina è possibile derogare ‒ senza con-traddire il carattere incidentale del giudizio di costitu-zionalità ‒ soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (fra le molte, sent. n. 153/2018, punto 3 del Considerato in diritto). In tale prospettiva, un interesse qualificato sussiste al-lorché si configuri una “posizione giuridica suscettibi-le di essere pregiudicata immediatamente e irrimedia-bilmente dall’esito del giudizio incidentale” (ordinan-za dibattimentale allegata alla sent. n. 194/2018).

La Federazione Confsal-Unsa non vanta un inte-resse qualificato, ma soltanto “un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti” (sent. n. 77/2018, punto 4 del Considerato in diritto, con riguardo all’intervento della Confedera-zione generale italiana del lavoro), che non vale a ren-dere ammissibile l’intervento spiegato.

3. Allo scopo di definire il tema del decidere ri-messo all’esame di questa Corte, occorre delineare i tratti salienti della disciplina riguardante la liquidazio-ne dei trattamenti di fine servizio e le particolarità del-la fattispecie concreta che ha dato origine al dubbio di costituzionalità.

3.1. L’art. 3, c. 2, d.l. n. 79/1997 fissa i termini per la liquidazione dei “trattamenti di fine servizio, co-munque denominati”, spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, oggi definite dall’art. 1, c. 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e al personale in regime di diritto pubblico di cui all’art. 3, cc. 1 e 2, d.lgs. n. 165/2001.

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Alla liquidazione l’ente erogatore provvede “de-corsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per rag-giungimento dei limiti di età o di servizio previsti da-gli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle nor-me di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessa-zione del rapporto di lavoro”. All’effettiva correspon-sione si deve dar corso “entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi”.

Al differimento della liquidazione dei trattamenti di fine servizio si affiancano le disposizioni in tema di pagamento rateale, introdotte dall’art. 12, c. 7, d.l. n. 78/2010 con l’obiettivo di concorrere “al consolida-mento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e cre-scita”.

L’originaria scansione dei pagamenti, modulata in una rata annuale per le indennità di fine servizio fino a 90.000 euro, in due rate annuali per le indennità oltre i 90.000 e fino ai 150.000 e in tre rate annuali per le in-dennità pari o superiori a 150.000 euro, sempre al lor-do delle trattenute fiscali, è stata modificata dall’art. 1, c. 484, lett. a), l. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)”.

Per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, “come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) ai sensi del c. 3 dell’art. 1 della l. 31 dicembre 2009, n. 196”, l’indennità di buonuscita, l’indennità premio di servizio, il trattamento di fine rapporto e “ogni altra indennità equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego” sono oggi rico-nosciuti “in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro” (lett. a), “in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro” (lett. b) e “in tre importi annuali se l’ammontare com-plessivo della prestazione, al lordo delle relative trat-tenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro” (lett. c).

3.1.1. Sulle questioni sollevate dal Tribunale ordi-nario di Roma non incidono le novità introdotte dall’art. 23 del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizio-ni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito con modificazioni dalla l. 28 marzo 2019, n. 26, che prevedono la facoltà di richie-dere il finanziamento di una somma, pari all’importo massimo di 45.000 euro, dell’indennità di fine servizio maturata.

Tale facoltà, accordata, tra l’altro, al ricorrere dei presupposti definiti dalla legge, ai “lavoratori dipen-

denti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165”, non altera i termi-ni delle questioni proposte, che si incentrano sui tempi di corresponsione delle indennità di fine servizio, tempi che lo ius superveniens non interviene a modifi-care.

3.2. Il rimettente espone di dovere decidere sul ri-corso proposto da una dipendente del Ministero della giustizia “in pensione per anzianità dall’1 settembre 2016”, che percepisce il trattamento di fine servizio “in maniera rateale e dilazionata, con pagamento dell’ultima rata al settembre 2020”.

Nell’atto di costituzione, la parte ricorrente nel giudizio principale ha specificato che operano le mo-dalità di corresponsione regolate dall’art. 12, c. 7, lett. c), d.l. n. 78/2010, “mediante tre importi annuali suc-cessivi”.

Sui dati di fatto menzionati dal rimettente con ri-guardo al collocamento in pensione per anzianità il 1 settembre 2016 e al termine quadriennale per conse-guire il saldo del trattamento di fine servizio, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) e il Presiden-te del Consiglio dei ministri non hanno articolato ri-lievi critici di sorta.

3.3. Dalle indicazioni, peraltro non contestate, che offre il giudice a quo si può desumere in maniera ine-quivocabile che la parte ricorrente percepisce il trat-tamento di fine servizio “in tre importi annuali”. Alla liquidazione del primo importo annuale l’ente eroga-tore non può che provvedere solo dopo che siano “de-corsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro” (art. 3, c. 2, d.l. n. 79/1997). La ricorrente, difatti, è “in pensione per anzianità” e non beneficia dell’applicazione del più favorevole termine annuale, che il legislatore sancisce per la liquidazione dei trat-tamenti di fine servizio nelle diverse ipotesi di “cessa-zione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenen-za, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento appli-cabili nell’amministrazione”.

La necessità – riferita dal rimettente – di attendere quattro anni per il “pagamento” del trattamento di fine servizio discende dunque dall’applicazione congiunta delle disposizioni dell’art. 12, c. 7, lett. c), d.l. n. 78/2010 e dell’art. 3, c. 2, d.l. n. 79/1997, che stabili-scono, rispettivamente, il pagamento rateale in tre im-porti annuali e la liquidazione del primo importo an-nuale non prima del decorso di ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro.

4. Alla luce di tali precisazioni, devono essere con-seguentemente dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale che vertono sull’art. 3, c. 2, d.l. n. 79/1997, nella parte in cui individua un termine di dodici mesi per la liquida-zione dei trattamenti di fine servizio nelle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro per raggiungimento dei limiti di età o di servizio o per collocamento a ri-poso d’ufficio a causa del raggiungimento

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dell’anzianità massima di servizio. Tale previsione non è applicabile al giudizio principale, rientrante in-vece nella autonoma disciplina che, per la liquidazio-ne, contempla il termine di ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Quanto all’art. 12, c. 7, d.l. n. 78/2010, pur provvi-sto di portata generale e caratterizzato da previsioni tra loro concatenate di soglie crescenti, non può che essere scrutinato dalla peculiare angolazione che rile-va nel giudizio principale.

Devono essere dunque dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, anche le questioni di legittimi-tà costituzionale della normativa sul pagamento ratea-le delle indennità spettanti a seguito della cessazione dall’impiego, nella parte in cui si applica alle ipotesi – estranee alla cognizione del rimettente – di cessazione del rapporto di lavoro per raggiungimento dei limiti di età o di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.

Lo scrutinio di costituzionalità è dunque circoscrit-to alle disposizioni dell’art. 3, c. 2, d.l. n. 79/1997, ri-guardanti il termine di liquidazione di ventiquattro mesi, e alla speculare disciplina del pagamento rateale dei trattamenti di fine servizio (art. 12, c. 7, d.l. n. 78/2010), che si applica in tale specifica ipotesi.

5. Le questioni, così delimitate, non sono fondate, in relazione a tutti i profili che il rimettente ha pro-spettato.

6. Il giudice a quo denuncia, in primo luogo, un’arbitraria disparità di trattamento tra il settore pub-blico e il settore privato, quanto ai tempi di liquida-zione delle indennità di fine rapporto.

La censura non è fondata.

Per costante giurisprudenza di questa Corte – ri-cordata dallo stesso giudice rimettente – il lavoro pubblico e il lavoro privato “non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sent. n. 120/2012 e n. 146/2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle di-pendenze delle pubbliche amministrazioni” (sent. n. 178/2015, punto 9.2 del Considerato in diritto).

Il lavoro pubblico rappresenta un aggregato rile-vante della spesa di parte corrente, che, proprio per questo, incide sul generale equilibrio tra entrate e spe-se del bilancio statale (art. 81 Cost.). L’esigenza di esercitare un prudente controllo sulla spesa, connatu-rata all’intera disciplina del rapporto di lavoro pubbli-co ed estranea all’àmbito del lavoro privato, preclude il raffronto che il rimettente prospetta.

Con riferimento alla liquidazione delle somme do-vute, lo stesso giudice a quo, nell’accogliere nei limiti indicati le eccezioni di illegittimità costituzionale formulate dalla parte ricorrente, non propone un’integrale equiparazione delle indennità di fine rap-porto vigenti nei settori pubblico e privato, ma prefi-gura il ripristino del termine di novanta giorni, stabili-to per l’effettiva erogazione dell’indennità di buonu-

scita dall’art. 26, c. 3, d.p.r. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), così come modificato dall’art. 7 della l. 20 marzo 1980, n. 75 (Proroga del termine previsto dall’art. 1 della l. 6 dicembre 1979, n. 610, in materia di trattamento economico del personale civile e militare dello Stato in servizio ed in quiescenza; norme in materia di computo della tredicesima mensi-lità e di riliquidazione dell’indennità di buonuscita e norme di interpretazione e di attuazione dell’art. 6 del-la l. 29 aprile 1976, n. 177, sul trasferimento degli as-segni vitalizi al Fondo sociale e riapertura dei termini per la opzione).

Anche il rimettente, dunque, nell’evocare la pre-gressa disciplina sui termini di erogazione delle in-dennità di buonuscita, mostra di riconoscere la pecu-liarità del regime applicabile in tale materia al settore pubblico, in considerazione della preminente esigenza di ordinata e trasparente programmazione nell’impiego delle limitate risorse disponibili. Tanto basta per rendere ragione delle differenze censurate e per escludere la denunciata violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della dedotta disparità di trattamento.

7. Il secondo nucleo di censure, formulate con rife-rimento agli artt. 3 e 36 Cost., riguarda l’intrinseca ir-ragionevolezza dei termini relativi alla liquidazione, che pregiudicherebbero il diritto del dipendente pub-blico di percepire una retribuzione differita proporzio-nata alla quantità e qualità del lavoro prestato.

In considerazione della finalità unitaria che ispira le disposizioni denunciate e del legame inscindibile che intercorre tra le censure di irragionevolezza e quelle di lesione della proporzionalità e dell’adeguatezza della retribuzione differita, esse de-vono essere esaminate congiuntamente. Tali censure non sono fondate.

7.1. Le indennità di fine rapporto, pur nella diffe-rente configurazione che hanno assunto nel volgere degli anni, si atteggiano come “una categoria unitaria connotata da identità di natura e funzione e dalla gene-rale applicazione a qualunque tipo di rapporto di lavo-ro subordinato e a qualunque ipotesi di cessazione del medesimo” (sent. n. 243/1993, punto 5 del Considera-to in diritto).

L’evoluzione normativa, “stimolata dalla giuri-sprudenza costituzionale” (sent. n. 243/1993, punto 4 del Considerato in diritto), ha ricondotto le indennità di fine rapporto erogate nel settore pubblico al para-digma comune della retribuzione differita con concor-rente funzione previdenziale, nell’àmbito di un per-corso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 c.c. (d.p.c.m. 20 di-cembre 1999, recante “Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipenden-ti”).

Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva (sent. n. 213/2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di ac-

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compagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva.

Nel settore pubblico, le indennità in esame presen-tano una natura retributiva, avvalorata dalla correla-zione della misura delle prestazioni con la durata del servizio e con la retribuzione di carattere continuativo percepita in costanza di rapporto. Esse rappresentano il frutto dell’attività lavorativa prestata (sent. n. 106/1996, punto 2.1 del Considerato in diritto) e costi-tuiscono parte integrante del patrimonio del beneficia-rio, che spetta ai superstiti “nel caso di decesso del la-voratore in servizio” (sent. n. 243/1997, punto 2.3 del Considerato in diritto).

Le indennità sono corrisposte al momento della cessazione dal servizio allo scopo precipuo di “agevo-lare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione” (sent. n. 106/1996, punto 2.1 del Consi-derato in diritto). In questo si coglie la funzione previ-denziale che coesiste con la natura retributiva e rap-presenta l’autentica ragion d’essere dell’erogazione delle indennità dopo la cessazione del rapporto di la-voro.

7.2. Il carattere di retribuzione differita, comune a tali indennità, le attira nella sfera dell’art. 36 Cost., che prescrive, per ogni forma di trattamento retributi-vo, la proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e l’idoneità a garantire, in ogni caso, un’esistenza libera e dignitosa.

La garanzia costituzionale della giusta retribuzio-ne, proprio perché trascende la logica meramente si-nallagmatica insita nei contratti a prestazioni corri-spettive e investe gli stessi valori fondamentali dell’esistenza umana, si sostanzia non soltanto nella congruità dell’ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione. È tale tempestività che assicura “al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa attraverso il soddisfacimento delle quotidiane esigenze di vita” (sent. n. 82/2003, punto 2 del Considerato in diritto; nello stesso senso, sent. n. 459/2000, punto 7 del Con-siderato in diritto).

Anche per le indennità di fine rapporto, legate a una particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana, la garanzia costituzionale opera in tutta la pregnanza delle sue implicazioni. La fun-zione previdenziale di tali trattamenti, che sopperisco-no alle molteplici necessità del lavoratore e della co-munità di vita cui appartiene, rischia di essere vanifi-cata da una liquidazione in tempi irragionevolmente protratti.

Alla stregua dei princìpi richiamati, occorre dun-que verificare se la disciplina dei tempi di pagamento apprestata dal legislatore sia conforme ai canoni di proporzionalità e di adeguatezza di cui all’art. 36 Cost. e attui un equilibrato componimento dei con-trapposti interessi in gioco.

Il sindacato devoluto a questa Corte postula la va-lutazione della globalità del trattamento retributivo (sent. n. 213/2018, punto 8.1 del Considerato in dirit-

to) e della complessiva disciplina in cui esso si colloca (sent. n. 366/2006, punto 3 del Considerato in diritto) e non può non considerare la pluralità di variabili che vengono in rilievo nell’apprezzamento discrezionale del legislatore, vincolato a “tenere conto anche delle esigenze della finanza pubblica” (sent. n. 91/2004, punto 4 del Considerato in diritto) e di quelle di razio-nale programmazione nell’impiego di risorse limitate.

8. La disciplina del pagamento rateale e differito delle indennità di fine rapporto, nei limiti oggi devolu-ti all’esame di questa Corte, riguarda i lavoratori che non hanno raggiunto i limiti di età o di servizio previ-sti dagli ordinamenti di appartenenza.

Per costante giurisprudenza di questa Corte (da ul-timo, sent. n. 104/2018, punto 6.1 del Considerato in diritto), ben può il legislatore “disincentivare i pensio-namenti anticipati (fra le molte, sent. n. 416/1999, punto 4.1 del Considerato in diritto) e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita, come questa Corte ha avuto occasione di affermare in riferimento alla valutazione dei particolari servizi pre-stati da dipendenti civili e militari dello Stato (sent. n. 39/2018, punto 4.4 del Considerato in diritto) e in te-ma di coefficiente di trasformazione della contribu-zione versata, più elevato per chi presti servizio più a lungo (sent. n. 23/2017, punto 4.1 del Considerato in diritto)”.

Le scelte discrezionali adottate in tale àmbito dal legislatore, anche in un’ottica di salvaguardia della sostenibilità del sistema previdenziale, non possono tuttavia sacrificare in maniera irragionevole e spro-porzionata i diritti tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost.

8.1. Nel caso di specie, i limiti posti dai princìpi di ragionevolezza e di proporzione non sono stati valica-ti.

Il termine di ventiquattro mesi per l’erogazione dei trattamenti di fine servizio, nelle ipotesi diverse dal raggiungimento dei limiti di età o di servizio, è stato introdotto già dall’art. 1, c. 22, lett. a), d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabiliz-zazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito con modificazioni dalla l. 14 settembre 2011, n. 148.

L’intervento del legislatore travalica l’obiettivo contingente di conseguire immediati e cospicui ri-sparmi, puntualmente stimati dalla relazione tecnica allegata al disegno di legge di conversione del d.l. n. 138/2011, e si raccorda, in una prospettiva di più am-pio respiro, a una consolidata linea direttrice della le-gislazione, che si ripromette di scoraggiare le cessa-zioni del rapporto di lavoro in un momento anteceden-te al raggiungimento dei limiti di età o di servizio. La misura restrittiva in esame si colloca dunque in una congiuntura di grave emergenza economica e finan-ziaria, che registra un numero cospicuo di pensiona-menti in un momento anteriore al raggiungimento dei limiti massimi di età o di servizio.

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Nel caso oggi all’attenzione della Corte il differi-mento dell’erogazione dei trattamenti di fine servizio fa riscontro a una cessazione del rapporto di lavoro che può intervenire anche quando non sia ancora ma-turato il diritto alla pensione. Il trattamento più rigoro-so si correla alla particolarità di un rapporto di lavoro che, per le ragioni più disparate, peraltro in prevalenza riconducibili a una scelta volontaria dell’interessato, cessa anche con apprezzabile anticipo rispetto al rag-giungimento dei limiti di età o di servizio.

La disciplina è graduata in funzione di tale elemen-to distintivo sul presupposto che, proprio con il rag-giungimento dei limiti indicati, si manifestino in ma-niera più pressante i bisogni che le indennità di fine servizio mirano a soddisfare e che impongono tempi di erogazione più spediti.

L’assetto delineato dal legislatore non solo è fon-dato su un presupposto non arbitrario, ma è anche temperato da talune deroghe per situazioni meritevoli di particolare tutela, come la “cessazione dal servizio per inabilità derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente”, che impone all’amministrazione competente, entro quindici giorni dalla cessazione dal servizio, di trasmettere la docu-mentazione competente all’ente previdenziale, obbli-gato a corrispondere il trattamento “nei tre mesi suc-cessivi alla ricezione della documentazione” (art. 3, c. 5, d.l. n. 79/1997).

Il regime di pagamento differito, analizzato nel pe-culiare contesto di riferimento, nelle finalità e nell’insieme delle previsioni che caratterizzano la re-lativa disciplina, non risulta dunque complessivamen-te sperequato.

8.2. Le medesime considerazioni possono essere svolte per il pagamento rateale delle indennità di fine servizio, disciplinato dall’art. 12, c. 7, d.l. n. 78/2010 e poi irrigidito dall’art. 1, c. 484, lett. a), l. n. 147/2013.

In questo caso l’ulteriore sacrificio imposto ai di-pendenti delle pubbliche amministrazioni discende pur sempre da una cessazione anticipata dal servizio e nel-le particolarità di tale fattispecie, appena passate in rassegna, rinviene la sua ragione giustificatrice.

Il meccanismo introdotto dal legislatore prevede, inoltre, una graduale progressione delle dilazioni, via via più ampie con l’incremento delle indennità, ed è pertanto calibrato in modo da favorire i beneficiari dei trattamenti più modesti e da individuare, anche per questa via, un punto di equilibrio non irragionevole.

8.3. La disciplina censurata, esaminata nel suo complesso e riferita alla cessazione anticipata del rap-porto di lavoro, contempera, allo stato, in modo non irragionevole i diversi interessi di rilievo costituziona-le, con particolare attenzione a situazioni meritevoli di essere più intensamente protette.

9. Restano impregiudicate, in questa sede, le que-stioni di legittimità costituzionale della normativa che dispone il pagamento differito e rateale delle indennità di fine rapporto anche nelle ipotesi di raggiungimento dei limiti di età e di servizio o di collocamento a ripo-

so d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.

Nonostante l’estraneità di questo tema rispetto all’odierno scrutinio, questa Corte non può esimersi dal segnalare al Parlamento l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’àmbito di una organica revisione dell’intera mate-ria, peraltro indicata come indifferibile nel recente di-battito parlamentare.

La disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla ces-sazione del rapporto di lavoro ha smarrito un orizzon-te temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giusti-ficata. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzio-ne retributiva e previdenziale delle indennità di fine rapporto, conquistate “attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa” (sent. n. 106/1996, punto 2.1 del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi co-stituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona uma-na.

P.q.m., la Corte costituzionale:

1) dichiara inammissibile l’intervento spiegato dal-la Federazione Confsal-Unsa;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, c. 2, d.l. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito con modificazioni dalla l. 28 maggio 1997, n. 140, nella parte in cui prevede che alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, co-munque denominati, l’ente erogatore provveda “nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamen-to applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro”, solleva-te dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, c. 7, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finan-ziaria e di competitività economica), convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, nella par-te in cui prevede il pagamento rateale delle indennità spettanti a seguito di cessazione dall’impiego “nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei li-miti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamen-to applicabili nell’amministrazione”, sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;

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4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, c. 2, d.l. n. 79/1997, come convertito nella l. n. 140/1997, nella parte in cui pre-vede che alla liquidazione dei trattamenti di fine ser-vizio, comunque denominati, l’ente erogatore provve-da “decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro”, e dell’art. 12, c. 7, d.l. n. 78/2010, come convertito nella l. n. 122/2010, nella parte in cui prevede il pagamento rateale delle indennità spettanti a seguito di cessazione dall’impiego nelle ipotesi di-verse dalla “cessazione dal servizio per raggiungimen-to dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordina-menti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione”, solle-vate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.

I parametri costituzionali di valutazione della legit-timità delle misure finanziarie nei confronti di pubblici dipendenti e pensionati

L’arresto della Consulta si colloca in un quadro abbastanza ricco di decisioni aventi a oggetto le misu-re di stabilizzazione finanziaria adottate a partire dall’anno 2010 e dirette, principalmente, nei confronti dei lavoratori dipendenti (del comparto pubblico) e dei pensionati. La peculiarità, nel caso di specie, è data dalla circostanza che il ricorso promosso avanti al giudice a quo era stato azionato da un soggetto in una posizione in qualche modo intermedia tra le due, vale a dire da un ex pubblico dipendente non ancora per-cettore, in virtù delle norme contestate, del proprio trattamento di fine rapporto.

Si è accennato alla circostanza dell’esistenza di una serie abbastanza nutrita di pronunce della Corte costituzionale in tale ambito, in quanto gli interventi diretti al riequilibrio finanziario (in un contesto nor-mativo contraddistinto dall’accentramento del potere di emissione della moneta, e in uno scenario economi-co connotato dalla crisi dei debiti pubblici, e conse-guentemente dalla difficoltà di accesso dello Stato al credito finanziario, ormai soprattutto internazionale) sono consistiti, principalmente, in forme di compres-sione salariale e pensionistica.

In materia di retribuzioni dei pubblici dipendenti, per la verità, in considerazione del carattere sinallag-matico del rapporto, la giurisprudenza costituzionale è ormai consolidata nel senso della natura tributaria di strumenti che incidano in negativo sulla misura della retribuzione, e nella perplessità nei confronti di quella che sarebbe configurabile come un’imposta speciale sul pubblico impiego.

Può essere citata, quale sintomatica di tale atteg-giamento, un’importante e nota sentenza della Corte

costituzionale (1) relativa ad alcune misure introdotte dal d.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modifi-cazioni dalla l. 30 luglio 2010 n. 122.

Le misure scrutinate dalla Corte, in particolare, ri-guardavano: i) la sterilizzazione dei meccanismi di adeguamento retributivo, in vigore per i magistrati e per le categorie equiparate, sub specie di mancata ero-gazione degli acconti per gli anni 2011, 2012 e 2013 e del conguaglio del triennio 2010-2012, nonché di mancato computo del triennio a partire dal 2014 ai fini dell’acconto spettante per l’anno 2014 (art. 9, c. 22, primo periodo); ii) la decurtazione dell’indennità spe-ciale, corrisposta ai magistrati e alle categorie equipa-rate, nella misura del quindici per cento per l’anno 2011, del venticinque per cento per l’anno 2012 e del trentadue per cento per l’anno 2013 (art. 9, c. 22, se-condo periodo); iii) la riduzione dei trattamenti eco-nomici complessivi dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nella misura del cinque per cento per gli importi superiori a 90.000 euro lordi annui, nonché del dieci per cento per quelli eccedenti 150.000 euro (art. 9, c. 2).

Circa la legittimità di tali interventi, la Corte costi-tuzionale ha prodotto (oltre alla violazione degli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost. per le misure incidenti sui meccanismi di adeguamento in favore dei magistrati ordinari e dei componenti delle magistrature speciali, che esorbitano dalla presente trattazione in quanto fondate su considerazioni afferenti all’indipendenza della magistratura) una serie di censure relative alle forme di decurtazione stipendiale in relazione agli artt. 3 e 53 Cost. che possono essere, ormai, considerate ius receptum.

In particolare, secondo la Corte costituzionale, premessa la natura tributaria di tale decurtazione, per la presenza contestuale degli elementi indicati dalla Corte stessa (2), per quella gravante sull’indennità giudiziaria è affermato che “il tributo che interessa incide su una particolare voce di reddito di lavoro, che è parte di un reddito lavorativo complessivo già sottoposto ad imposta in condizioni di parità con tutti gli altri percettori di reddito di lavoro; e introduce, quindi, senza alcuna giustificazione, un elemento di discriminazione soltanto ai danni della particolare categoria di dipendenti statali non contrattualizzati che beneficia dell’indennità giudiziaria”.

(1) Corte cost., 11 ottobre 2012, n. 223, in Foro amm.-

CdS, 2013, 326; in Foro it., 2012, I, 2896; in Giur. it., 2013, 772; in Giur. cost., 2012, 3293; e in Giust. civ., 2013, I, 40.

(2) “[...] la disciplina legale deve essere diretta, in via pre-valente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve inte-grare una modifica di un rapporto sinallagmatico (nella specie, di una voce retributiva di un rapporto di lavoro ascrivibile ad un dipendente di lavoro pubblico statale “non contrattualizza-to”); le risorse connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione sono destinate a sovvenire pubbliche spese”.

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Censure di tenore non dissimile sono state operate quanto alle decurtazioni operate anche nei confronti degli altri pubblici dipendenti (3).

Parzialmente diverso è stato l’approccio della Cor-te costituzionale a misure che, senza operare una ridu-zione del trattamento retributivo, introducessero mec-canismi di limitazione dell’adeguamento al tasso di inflazione nel corso degli anni.

Così, in relazione alle misure introdotte sempre dal d.l. n. 78/2010 (art. 9, cc. 1, 2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo), al fine di congelare le procedure di rinnovo della parte economica dei contratti colletti-vi pubblici, la Corte, con altra importante pronuncia (4) ha ritenuto legittime le misure de quibus, in man-canza della prova del “macroscopico ed irragionevole scostamento” con i criteri che l’art. 36 Cost. detta per quantificare la retribuzione. Tuttavia, sempre la stessa sentenza ha stigmatizzato la ripetuta reiterazione del blocco (a partire dall’art. 16, c. 1, d.l. 6 luglio 2011, n. 98 (convertito dall’art. 1, c. 1, l. 15 luglio 2011, n. 111), dichiarandola illegittima per l’eccessivo sacrifi-cio della libertà sindacale tutelata dall’art. 39 della stessa carta costituzionale. Per contro (a conferma del probabile travaglio che ha portato alla pronuncia), dal momento che l’incostituzionalità era determinata non dall’istituto in sé ma dalla sua protrazione, la sentenza ha disposto (ex nunc e non ex tunc) “l’illegittimità co-stituzionale sopravvenuta, a decorrere dal giorno suc-cessivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e nei termini indi-cati in motivazione, del regime di sospensione della contrattazione collettiva […]”.

Ancora difforme è stato l’iter argomentativo svi-luppato in relazione alla fissazione di un tetto retribu-tivo massimo per i percettori di emolumenti (sia retri-butivi che previdenziali) provenienti dalle finanze pubbliche, determinato, al lordo, in misura pari all’indennità percepita dal Capo dello Stato, al netto, in base all’art. 1, c. 489, l. 27dicembre 2013, n. 147 (5).

La Corte ha, al riguardo, precisato la legittimità della determinazione di “un limite massimo alle retri-buzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni”, anche determinante il sostanziale azzeramento di taluna delle voci retributive percepite dagli interessati pro futuro

(3) Secondo la Corte “la norma impugnata si pone in evi-

dente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost. L’introduzione di una imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pub-bliche amministrazioni inserite nel conto economico consolida-to della pubblica amministrazione víola, infatti, il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta eco-nomicamente rilevante”.

(4) Corte cost., 23 luglio 2015, n. 178, in Giur. cost., 2015, 1651; in Giur. it., 2015, 2703; e in questa Rivista, 2015, fasc. 3-4, 435.

(5) Corte cost., 26 maggio 2017, n. 124, in <www.federalismi.it>.

o, al limite, l’incisione di carattere paratributario in altre sedi stigmatizzata.

Il fondamento di tale misura, infatti, secondo quan-to precisato dalla Corte costituzionale, non è solo quello (peraltro di non certo inveramento) del conte-nimento della spesa, ma “si inquadra in una prospet-tiva di lungo periodo” e persegue “obiettivi a più am-pio spettro, che mirano a rendere trasparente la ge-stione delle risorse pubbliche”.

La soluzione, al riguardo, appare corretta, se si considera che una limitazione analoga a quella dispo-sta, oltre che nell’ambito degli scopi di cui agli artt. 81 e 97 Cost., ben può essere ricompresa tra le misure consentite dall’art. 41 Cost. per fini di utilità sociale.

Per contro, deve essere registrata una progressiva attenuazione dell’ostilità della Consulta a misure fi-nanziarie dirette a incidere sul trattamento pensionisti-co, sub specie di mancato adeguamento ovvero addi-rittura di prelievo delle relative provvidenze.

Al riguardo, in tema di imposizione di un contribu-to di perequazione (o di solidarietà) sui trattamenti pensionistici maggiormente elevati, un primo arresto (6) aveva dichiarato l’illegittimità della previsione dell’art. 18, c. 22-bis, del già citato d.l. n. 98/2011, che disponeva l’assoggettamento dei trattamenti pen-sionistici più elevati a un’imposizione con indubbia valenza tributaria (nella misura del cinque per cento per gli importi superiori a 90.000 euro lordi annui, del dieci per cento per quelli eccedenti 150.000 euro e del quindici per cento per quelli eccedenti 150.000 euro), sempre per la già esposta violazione degli artt. 3 e 53 Cost., derivante dall’imposizione tributaria su deter-minate tipologie di redditi.

Diverso, invece, l’approccio della successiva sen-tenza 13 luglio 2006, n. 173 (7) in relazione al contri-buto di natura analoga imposto dall’art. 1, c. 486, l. 27 dicembre 2013 n. 147. È ben vero che, nel caso di specie, la legittimità dell’intervento è stata fatta di-scendere dalla destinazione del contributo “a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie” che ne escluderebbe il carattere tributario. Ma, a ben vedere, tale argomentazione sembra abbastanza tenue (in quanto, per giurisprudenza consolidata, anche le con-tribuzioni previdenziali presentano un carattere so-stanzialmente tributario) e costituisce invece il sinto-mo di un atteggiamento della Corte costituzionale maggiormente attento ai profili di equità intergenera-zionale esplicitati nella giurisprudenza citata ultra.

Analogo percorso, non casualmente, è stato com-piuto con riferimento ai limiti alla rivalutazione finan-ziaria dei trattamenti pensionistici, dapprima operata dall’ art. 24, c. 25, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, con-vertito dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, in relazione ai trattamenti di importo superiore al triplo del mini-mo. Detta limitazione è stata in prima battuta censura-

(6) Corte cost., 5 giugno 2013, n. 116, in Foro it., 2014, I,

3069, e in Giur. cost., 2013, 1886.

(7) In Foro it., 2017, I, 3205, e in Giur. cost., 2016, 1832.

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ta dalla Corte (8) per l’eccessiva penalizzazione degli interessi, costituzionalmente protetti, cui le prestazioni previdenziali sono sottese. Tale pronuncia è stata, tut-tavia, alquanto criticata, in quanto si è discostata da una pregressa giurisprudenza che ammetteva la cri-stallizzazione della dinamica retributiva delle pensio-ni, se protratta per un periodo limitato, nonché per la forte incidenza determinatasi ex abrupto sull’equilibrio finanziario del bilancio pubblico.

Tuttavia, nel prosieguo, limitazioni solo parzial-mente difformi da quella censurata sono state ritenute conformi ai principi costituzionali.

Il riferimento, in particolare, è alle pronunce sulle norme che hanno disciplinato la rivalutazione dei trat-tamenti pensionistici per il triennio 2014-2016 (9) (art. 1, c. 483, l. 27 dicembre 2013 n. 147) e, addirittura, modulato le situazioni relative alla precedente pro-nuncia di incostituzionalità (art. 1, c. 1, nn. 1 e 2, d.l. 21 maggio 2015, n. 65, convertito dalla l. 17 luglio 2015, n. 109 (10)).

Il meccanismo di progressività regressiva intro-dotto da tali norme è apparso talmente ragionevole da superare l’eccezione di violazione del giudicato costi-tuzionale, ma anche in questo caso è la valutazione di fondo compiuta dalle pronunce ad aver subito signifi-cativi mutamenti.

All’esito delle ormai numerose pronunce della Corte costituzionale, può a questo punto essere deli-neato in modo abbastanza preciso un quadro, costitu-zionalmente orientato, degli interventi di finanza pub-blica ammissibili in relazione alle voci di spesa pub-blica erogate in favore di dipendenti pubblici e pen-sionati.

I limiti posti dalla Corte costituzionale, con tutta evidenza, sono quelli afferenti alle voci individual-mente considerate in relazione ai singoli beneficiari, laddove diversi interventi normativi (accompagnati da ulteriori pronunce giurisprudenziali sulla loro ammis-sibilità) hanno riguardato il complesso delle spese so-stenute per determinate finalità, in generale secondo un’ottica di “cristallizzazione”.

In realtà, in considerazione del combinato disposto degli artt. 2 e 36 Cost., la “strada maestra” per l’equilibrio di bilancio non può che passare attraverso la leva fiscale, a sua volta fondata sull’art. 53 Cost., laddove la finalità del legislatore non sia semplice-mente il contenimento della spesa ma il miglioramen-to del saldo tra entrate e spese.

Nel secondo caso, infatti, la decurtazione sulle re-tribuzioni dei pubblici dipendenti sarebbe qualificabi-le, in conformità alla giurisprudenza costituzionale

(8) Corte cost., 30 aprile 2015, n. 70, in Foro it., 2015, I,

1855; in Giur. it., 2015, 1177; e in Giur. cost., 2015, 988.

(9) Corte cost., 13 luglio 2016, n. 173, in Foro it., 2017, I, 3205.

(10) Corte cost., 1 dicembre 2017, n. 250, in Rep. Foro it., 2017, voce Previdenza sociale, n. 363.

che è stata accennata, come un aumento di entrate an-zi che come riduzione di spese.

In relazione alle retribuzioni del comparto pubbli-co, non pare invece contestabile che la complessiva situazione del bilancio pubblico giustifichi misure di mancato adeguamento.

Esso, peraltro, per le categorie non sottratte al pro-cesso di contrattualizzazione, dovrà essere perseguito tramite l’adeguato indirizzamento del rappresentante della parte datoriale pubblica, e non tramite un precet-to legislativo negativo. La determinazione di un tetto retributivo massimo appare altrettanto conforme alle indicazioni della Consulta, in quanto norma conteniti-va di carattere generale e massimalista, anche con rife-rimento alle prestazioni previdenziali.

Per queste ultime, ancora, non pare che il mancato adeguamento possa essere censurato, nei limiti in cui sia ancorato a quello delle retribuzioni dei pubblici dipendenti (per cui, come esposto, non sussiste un ob-bligo di adeguamento ma un principio di tutela della contrattazione sindacale).

In alternativa, il blocco non deve pregiudicare il godimento di un tenore di vita dignitoso ex art. 36 Cost., in relazione alle erogazioni finalizzate a tutelare “diritti incomprimibili”, in quanto tali non suscettibili di essere incise dagli equilibri di bilancio ma a condi-zionarli (11) (come l’indennità integrativa speciale, la pensione minima, l’assegno sociale e la più recente pensione di cittadinanza).

Analoghe considerazioni possono essere effettuate in relazione all’imposizione di contributi di solidarie-tà.

Entrambi gli istituti restrittivi di cui sopra dovreb-bero ritenersi ammissibili in relazione ai soli tratta-menti (o alle quote di trattamento) corrisposti in base al sistema contributivo, siccome diretti a un riequili-brio dei (meno generosi) criteri di determinazione in-trodotti dalla l. 8 agosto 1995, n. 335 in base al siste-ma contributivo.

Sul punto, non può che essere apprezzato il princi-pio di equità intergenerazionale valorizzato nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale (12).

In un ordinamento fondato sulla ripartizione, piut-tosto che sulla capitalizzazione dei contributi accanto-nati, quale è per l’appunto il sistema previdenziale pubblico, non è contestabile che il contenimento delle prestazioni corrisposte alle precedenti coorti di citta-dini si riverberi in modo favorevole sui lavoratori at-tuali, contenendone gli obblighi contributivi.

Questi ultimi, secondo la giurisprudenza assoluta-mente prevalente della Corte costituzionale, devono

(11) Corte cost., 16 dicembre 2016, n. 275, in Foro it.,

2017, I, 2591, e in Giur. cost., 2016, 2330.

(12) Si veda, ad esempio, Corte cost., 14 febbraio 2019, n. 18, secondo cui “L’equità intergenerazionale comporta, altre-sì, la necessità di non gravare in modo sproporzionato sulle opportunità di crescita delle generazioni future, garantendo loro risorse sufficienti per un equilibrato sviluppo”.

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infatti essere qualificati come prestazioni di carattere tributario siccome contraddistinti dalla generalità del-la corresponsione e dall’assenza di corrispettività.

Tale sintesi sembra, allora, contrastare con la tradi-zionale prospettiva che, attribuendo carattere di retri-buzione differita alle prestazioni previdenziali, espri-me un principio di tendenziale intangibilità (anche adeguata al tasso di inflazione) delle medesime.

Punctum dolens della presente pronuncia è, invece, l’omessa pronuncia sull’ammissibilità di una dilazione della corresponsione delle indennità di fine rapporto per le ipotesi di cessazione involontaria dal servizio, per cui la sottrazione della disponibilità immediata (e, conseguentemente, della maturazione dei relativi frutti civili) pare contrastare con il parametro, non evocato nella fattispecie analizzata, rappresentato dall’art. 47 Cost. (che, nel tutelare il valore-risparmio, dovrebbe applicarsi anche alle fattispecie di accantonamento in-volontario).

Non possono che attendersi, su tale punto, ulteriori interventi di chiarificazione.

ANDREA LUBERTI

I

167 – Corte costituzionale; ordinanza 9 luglio 2019; Pres. Lattanzi, Red. Barbera; Proc. reg. Corte dei conti per la Liguria c. L.B. e altri.

Responsabilità amministrativa e contabile – Danno all’immagine – Risarcimento – Condizioni – Legit-timità costituzionale. Cost., artt. 3, 97; l. 27 marzo 2001, n. 97, norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento di-sciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, art. 7; d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, art. 55-quinquies; d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, provvedimenti anticrisi, non-ché proroga di termini, art. 17, c. 30-ter; l. 6 novembre 2012, n. 190, disposizioni per la prevenzione e la re-pressione della corruzione e dell’illegalità nella pub-blica amministrazione, art. 1, c. 12; d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, riordino della disciplina riguardante il di-ritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, tra-sparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, art. 46, c. 1.

È manifestamente infondata la questione di legit-timità costituzionale dell’art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009, convertito con modificazioni dalla l. n. 102/2009, nella parte in cui prevede che le Procure della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi in cui i dipendenti pubblici siano stati condannati con sentenza penale irrevocabile per i delitti contro la pubblica amministrazione di cui al capo I del titolo II

del libro secondo c.p., in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (secondo la Corte, tale delimitazione costituisce esercizio, non manifestamente irragionevole, della di-screzionalità del legislatore, rispetto alla quale non appare incoerente la previsione di ulteriori e specifi-che ipotesi di responsabilità per il medesimo danno, collegate a reati meno gravi o a fatti non costituenti reato, che si giustificano in ragione della loro specia-lità, quali quelle previste per i casi di assenteismo fraudolento, nonché nei confronti del responsabile della prevenzione della corruzione e per la violazione delle disposizioni in materia di trasparenza). (1)

II

191 – Corte costituzionale; sentenza 19 luglio 2019; Pres. Lattanzi, Red. Barbera; Proc. reg. Corte dei conti per la Liguria c. V.C.

Responsabilità amministrativa e contabile – Danno all’immagine – Risarcimento – Codice di giustizia contabile – Condizioni – Legittimità costituzionale – Questione – Inammissibilità. Cost., artt. 2, 76, 97, 103; c.g.c., art. 51, cc. 6, 7; d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, provvedimenti anticrisi, non-ché proroga di termini, art. 17, c. 30-ter.

Sono inammissibili, per inadeguata rappresenta-zione del quadro normativo, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 51, cc. 6 e 7, c.g.c., nella parte in cui esclude l’esercizio dell’azione del pubblico mi-nistero contabile per il risarcimento del danno all’immagine conseguente a reati dolosi commessi da pubblici dipendenti a danno delle pubbliche ammini-strazioni, dichiarati prescritti con sentenza passata in giudicato pienamente accertativa della responsabilità dei fatti ai fini della condanna dell’imputato al risar-cimento dei danni patiti dalle parti civili costituite, in riferimento agli artt. 3, 76, 97 e 103 Cost. (nella fatti-specie, la Corte ha evidenziato come il giudice a quo non avesse approfondito il profilo della perdurante operatività della delimitazione del risarcimento ai soli casi di cui all’art. 7, l. n. 97/2001, né la nozione di reato “a danno” dell’amministrazione sottesa alla formulazione dell’art. 51, c. 7, c.g.c.). (2)

I

Corte cost., ord. 9 luglio 2019, n. 167

Considerato in diritto – La Corte dei conti, Sezio-ne giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordi-nanza dell’8 agosto 2018, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, c. 30-ter, d.l. 1 luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’art. 1,

(1-2) Segue la nota di A. Iadecola, La Corte costituzionale

e il danno all’immagine dell’amministrazione prima e dopo il codice di giustizia contabile.

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c. 1, lett. c), n. 1), d.l. 3 agosto 2009, n. 103 (Disposi-zioni correttive del d.l. anticrisi n. 78/2009), converti-to con modificazioni dalla l. 3 ottobre 2009, n. 141, per violazione degli artt. 3 e 97 Cost.;

- che il rimettente ha non implausibilmente ritenu-to la questione rilevante, osservando che il giudizio principale, introdotto prima dell’entrata in vigore d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia con-tabile, adottato ai sensi dell’art. 20 della l. 7 agosto 2015, n. 124), non risente delle modifiche introdotte da quest’ultimo alla disciplina del risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, e la proponibilità della relativa azione va dunque valuta-ta alla stregua della disciplina previgente;

- che la questione è manifestamente infondata;

- che la norma censurata prevede che le procure regionali della Corte dei conti esercitino l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e modi previsti dall’art. 7 della l. 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e proce-dimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbli-che);

- che il richiamato art. 7 della l. n. 97/2001, a sua volta, fa riferimento, ai fini della delimitazione dell’ambito applicativo dell’azione risarcitoria, alle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate, nei confronti dei dipendenti di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica, per i delitti contro la pubblica amministra-zione previsti dal Capo I del Titolo II del Libro II c.p.;

- che, con una prima censura, si assume la viola-zione dell’art. 3 Cost., in quanto sarebbe irragionevole escludere la responsabilità nelle ipotesi in cui il pub-blico dipendente commetta gravi reati estranei al no-vero indicato dalla norma impugnata, avuto riguardo al fatto che, in epoca successiva, sono state introdotte singole disposizioni che consentono l’esercizio dell’azione in presenza di fatti di reato meno gravi o anche di fatti non costituenti reato;

- che, con una seconda censura, si assume poi la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., in quanto la norma impugnata, nel restringere l’ambito della responsabili-tà in questione per non appesantire l’azione ammini-strativa dei pubblici poteri, avrebbe operato un erro-neo bilanciamento degli interessi in gioco, sacrifican-do in misura sproporzionata il diritto all’immagine dell’amministrazione e introducendo una limitazione eccedente rispetto allo scopo e non necessaria, tenuto conto dell’esistenza di altre misure dirette a restringe-re la responsabilità dei dipendenti;

- che, con riguardo all’ambito oggettivo di applica-zione della norma in esame, questa Corte, con la sent. n. 355/2010 (successivamente confermata dalle ord. nn. 219, 221 e 286/2011), ha affermato anzitutto che rientra “nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza e arbitra-rietà della scelta, conformare le fattispecie di respon-sabilità amministrativa, valutando le esigenze cui si ritiene di dover fare fronte”;

- che la stessa decisione ha conseguentemente rite-nuto non manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di consentire il risarcimento “soltanto in presenza di condotte illecite, che integrino gli estremi di specifiche fattispecie delittuose, volte a tutelare, tra l’altro, proprio il buon andamento, l’imparzialità e lo stesso prestigio dell’amministrazione”;

- che la finalità della norma impugnata è dunque quella di dare coerenza alla disciplina del danno all’immagine all’interno di un complessivo disegno legislativo volto a ridurre i casi di responsabilità am-ministrativa, “all’evidente scopo di consentire un esercizio dell’attività di amministrazione della cosa pubblica, oltre che più efficace ed efficiente, il più possibile scevro da appesantimenti, ritenuti dal legi-slatore eccessivamente onerosi, per chi è chiamato, appunto, a porla in essere” (sent. n. 355/2010);

- che tale scelta non esclude la ragionevolezza dell’identificazione, all’interno di tale disegno, di ulte-riori e specifiche ipotesi di responsabilità, che si giu-stificano in ragione della loro specialità;

- che i principi così sintetizzati non sono posti in discussione dalle censure formulate, che non sotto-pongono a questa Corte argomenti e profili non consi-derati nei precedenti sopra richiamati;

- che neppure rilevano in tal senso le ipotesi invo-cate dal rimettente per evidenziare una pretesa incoe-renza di sistema;

- che, infatti, in ordine alla prima di esse – quella contemplata dall’art. 55-quinquies, c. 2, d.lgs. 30 mar-zo 2001 n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbli-che), inserito dall’art. 69, c. 1, d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della l. 4 marzo 2009, n. 15, in ma-teria di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), ove è prevista la condanna del di-pendente al risarcimento dei danni all’immagine subiti dall’amministrazione di appartenenza in conseguenza di sue assenze ingiustificate dal lavoro – la già citata sent. n. 355/2010 ha affermato la possibilità di “rico-noscere l’esistenza di diritti “propri” degli enti pubbli-ci e conseguentemente ammettere forme peculiari di risarcimento del danno non patrimoniale nel caso in cui i suddetti diritti vengano violati” e che, pertanto, “[i]n questa prospettiva, non è manifestamente irra-gionevole ipotizzare differenziazioni di tutele, che si possono attuare a livello legislativo, anche mediante forme di protezione dell’immagine dell’amministrazione pubblica a fronte di condotte dei dipendenti, specificamente tipizzate, meno pregnanti rispetto a quelle assicurate alla persona fisica”;

- che analoghe considerazioni valgono per l’art. 1, c. 12, l. 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione);

- che tale norma, infatti, prevede la proponibilità dell’azione risarcitoria nel caso in cui all’interno dell’amministrazione sia accertato con sentenza defi-nitiva un reato di corruzione, ovvero uno dei reati che

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consentono il risarcimento del danno all’immagine ai sensi della norma impugnata;

- che il fatto che, in tale ipotesi, l’esercizio dell’azione risarcitoria sia consentito nei confronti del dirigente di ruolo designato quale “Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza” (art. 1, c. 7, l. n. 190/2012) non realizza una scelta legisla-tiva manifestamente irragionevole; i particolari poteri e compiti attribuiti dall’ordinamento a tale figura, in-fatti, giustificano un’affermazione di responsabilità conseguente alle relative omissioni, che hanno sostan-zialmente vanificato le misure a difesa dell’amministrazione, non impedendo la commissione del fatto corruttivo;

- che, infine, e quanto all’evocato art. 46, c. 1, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nel testo mo-dificato dall’art. 37, c. 1, lett. b), d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97 (Revisione e semplificazione delle dispo-sizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della l. 6 novembre 2012, n. 190 e d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’art. 7 della l. 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), rileva, a giustificazione dell’introduzione di un’ulteriore ipotesi risarcitoria, la sua finalità di raf-forzamento delle misure di trasparenza della pubblica amministrazione, volte a coniugare l’efficienza della funzione pubblica con le garanzie di tutela delle posi-zioni giuridiche dei cittadini, di cui sono corollari i previsti obblighi di pubblicità e l’accessibilità ai do-cumenti amministrativi, le cui previsioni sono qualifi-cate dall’ordinamento come livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche.

P.q.m., la Corte costituzionale, dichiara la manife-sta infondatezza della questione di legittimità costitu-zionale dell’art. 17, c. 30-ter, d.l. 1 luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’art. 1, c. 1, lett. c), n. 1), d.l. 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del d.l. anticrisi n. 78/2009), convertito con modificazioni dalla l. 3 ottobre 2009, n. 141, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

II

Corte cost., sent. 19 luglio 2019, n. 191

Considerato in diritto – 1. Con ordinanza deposita-ta il 29 maggio 2018 (reg. ord. n. 165/2018), la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Ligu-ria, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 51, cc. 6 e 7, all. 1, al d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174, recante “Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’art. 20 l. 7 agosto 2015, n. 124” (da ora in poi anche c.g.c.), nella parte in cui esclude l’esercizio

dell’azione del pubblico ministero contabile per il ri-sarcimento del danno all’immagine conseguente a de-litti commessi da pubblici dipendenti a danno delle pubbliche amministrazioni, dichiarati prescritti con sentenza passata in giudicato ma pienamente accerta-tiva della responsabilità dei fatti, ai fini della condan-na dell’imputato al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili costituite.

1.1. Secondo il rimettente, tale disposizione viole-rebbe l’art. 3 Cost., in quanto escluderebbe in modo irragionevole l’esercizio dell’azione risarcitoria, pur a fronte di un danno conseguente a condotte delittuose accertate in giudizio ed in base ad un fattore, il mero decorso del tempo, completamente estraneo alla loro efficacia lesiva.

L’art. 3 Cost. sarebbe violato anche sotto il profilo del principio di eguaglianza sostanziale, poiché, in forza dei limiti imposti alla tutela risarcitoria, l’amministrazione riceve un trattamento diverso ri-spetto a quello riservato ai privati cittadini, i quali – in relazione ai medesimi fatti storici – possono ottenere il risarcimento di tutti i danni patiti anche a fronte di una declaratoria di prescrizione del reato.

1.2. I profili di irrazionalità della norma determine-rebbero inoltre un contrasto con il principio di effica-cia e buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost.; una tale restrizione del perimetro della responsabilità dei pubblici dipendenti, infatti, trascenderebbe i confini del pur legittimo scopo di non appesantire le conseguenze della loro attività, e fini-rebbe per lasciare senza conseguenze la loro scelta di approfittare delle funzioni svolte per delinquere, a de-trimento dell’imparzialità e dell’obiettività dell’azione amministrativa.

1.3. Infine, la norma impugnata, impedendo l’esercizio dell’azione risarcitoria pur a fronte di ac-certate condotte lesive, sarebbe contraria al principio di effettività della tutela giudiziaria in sede contabile, con conseguente violazione dell’art. 103, c. 2, Cost.; ne risulterebbe altresì violato l’art. 76 Cost., atteso che la legge delega prodromica all’emanazione del c.g.c. prescriveva l’adozione di norme idonee a garantire il rispetto dei principi di concentrazione ed effettività della tutela.

2. Il Presidente del Consiglio dei ministri, interve-nuto in giudizio, ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità delle questioni per omessa interpre-tazione delle norme in senso conforme a Costituzione da parte del rimettente e ha dedotto, in ogni caso, l’infondatezza delle questioni nel merito.

3. Le questioni, ad avviso di questa Corte, sono inammissibili per inadeguata rappresentazione del quadro normativo entro il quale la disposizione impu-gnata è ricompresa, restando assorbita l’ulteriore ec-cezione di inammissibilità dedotta in causa.

3.1. Conviene, in tal senso, riassumere l’evoluzione della disciplina dell’esercizio, da parte delle procure della Corte dei conti, dell’azione di ri-sarcimento del danno all’immagine della pubblica

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amministrazione come componente ulteriore del dan-no erariale.

3.1.1. Il risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione ha origine pretoria. Tale forma di lesione fu infatti inizialmente riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte dei conti, che ritenne proponibile la relativa domanda risarcitoria da parte del pubblico ministero senza alcun limite, né in ordine al fatto generatore di responsabilità, né, tantomeno, con riguardo alla necessità che tale fatto venisse pre-ventivamente accertato in sede penale.

3.1.2. In siffatto contesto intervenne il legislatore, con l’art. 17, c. 30-ter, d.l. 1 luglio 2009, n. 78 (Prov-vedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), con-vertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, come modificato, in pari data, dall’art. 1, c. 1, lett. c), n. 1, d.l. 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del d.l. anticrisi n. 78/2009), convertito con modificazioni dalla l. 3 ottobre 2009, n. 141 (conver-sione in legge con modificazioni del d.l. 3 agosto 2009, n. 103, recante disposizioni correttive del d.l. anticrisi n. 78/2009).

Tale norma, nella parte inerente ai presupposti per l’esercizio dell’azione risarcitoria ad opera del procu-ratore contabile, così stabiliva: “Le procure della Cor-te dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fat-tispecie direttamente sanzionate dalla legge. Le procu-re della Corte dei conti esercitano l’azione per il risar-cimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 l. 27 marzo 2001, n. 97”.

Il legislatore individuò pertanto i presupposti per l’esercizio dell’azione mediante un espresso rinvio all’art. 7 l. 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipen-denti delle amministrazioni pubbliche); disposizione che, a sua volta, prevedeva che la sentenza irrevocabi-le di condanna pronunciata nei confronti dei pubblici dipendenti per i delitti contro la pubblica amministra-zione (previsti dal capo I, titolo II, libro II, c.p.) venis-se comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti per il successivo avvio, entro trenta giorni, dell’eventuale procedimento di respon-sabilità per danno erariale nei confronti del condanna-to.

3.1.3. Conclusivamente, all’esito di questo primo intervento normativo la risarcibilità del danno all’immagine era limitata all’ipotesi di condanna irre-vocabile del pubblico dipendente per uno dei menzio-nati delitti commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (artt. 314-335-bis c.p.).

3.1.4. Tale disciplina ha subito una trasformazione per effetto della successiva entrata in vigore del c.g.c., di cui fanno parte le norme censurate.

Per quanto in questa sede interessa, in particolare, il codice – pur abrogando il primo periodo del c. 1 dell’art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009 – ha lasciato in-variato il secondo periodo, contenente la limitazione

dell’azione per il risarcimento del danno all’immagine; e tuttavia, con l’art. 4, c. 1, lett. g), dell’all. 3 (norme transitorie e abrogazioni), ha abro-gato l’art. 7 l. n. 97/2001, cui tale previsione faceva rinvio nel delimitare i casi nei quali il pubblico mini-stero contabile poteva promuovere l’azione risarcito-ria.

3.1.5. Dopo l’entrata in vigore del c.g.c., pertanto, è rimasta in vita la norma che circoscrive la proponibi-lità della domanda a casi specifici; a tale scopo, tutta-via, detta norma continua a fare rinvio ad una previ-sione che lo stesso codice ha contestualmente abroga-to.

3.2. Il frastagliato quadro che emerge all’esito di tale percorso esige quindi di essere adeguatamente rappresentato, al fine di offrire a questa Corte una va-lutazione adeguata a sorreggere la motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza delle questioni di costituzionalità.

È infatti onere del rimettente confrontarsi con ogni elemento normativo che incida su tali requisiti di am-missibilità, chiarendo in termini non implausibili il preliminare percorso logico compiuto, e soffermando-si poi sulle ragioni che rendono possibile l’applicazione della norma impugnata nel giudizio principale.

3.2.1. Nel caso di specie, il giudice a quo assume che il reato per il quale è stato condannato il pubblico dipendente, e dal quale ha preso avvio l’azione del procuratore contabile (ovvero una violenza privata – art. 610 c.p. – aggravata dall’abuso del pubblico pote-re ai sensi dell’art. 61, n. 9, c.p.), è un reato “a danno” della pubblica amministrazione, e consente perciò, in base all’art. 51 c.g.c., di agire per il risarcimento del danno all’immagine.

Sulla base di questo presupposto, attinente alla ri-levanza, vengono formulate le questioni di legittimità costituzionale, che investono un diverso profilo del regime della responsabilità, vale a dire la necessità che vi sia stata condanna penale, quand’anche i fatti siano stati accertati ai fini dell’azione spiegata dalla parte civile.

Sennonché, come si vedrà, l’interpretazione pre-scelta dal rimettente in ordine alla nozione di reato “a danno” della pubblica amministrazione non considera numerosi elementi normativi, astrattamente idonei ad incidere su di essa, fino potenzialmente ad inficiarla.

3.2.2. Il giudice a quo, infatti, a fronte di una di-sposizione di dubbia lettura, introdotta attraverso l’esercizio di una delega legislativa, avrebbe dovuto prendere in considerazione anche la legge delegante, e in particolare l’ambito operativo della delega conferita al Governo, come tracciato dall’art. 20 l. 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di rior-ganizzazione delle amministrazioni pubbliche).

3.2.3. Ed ancora, nell’ottica di una pur possibile in-terpretazione restrittiva della nozione di reato “a dan-no” della pubblica amministrazione, se anche non de-sumibile dalla legge delega, il rimettente non tiene in alcuna considerazione l’art. 17, c. 30-ter, d.l. n.

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78/2009, citato ad altro proposito, ma non posto a base del processo ermeneutico qui in discussione, nella par-te in cui prevede la risarcibilità del danno all’immagine “nei soli casi” previsti dalla legge.

3.2.4. Né, infine, può trascurarsi che, a sua volta, sarebbe stato necessario confrontare la nozione di rea-to “a danno” della pubblica amministrazione con i pa-rametri normativi offerti dall’ordinamento ai fini di definire cosa debba intendersi per delitto “a danno” di taluno.

Si tratta di profili che assumono un rilievo decisivo nell’ottica della preliminare valutazione in ordine alla sufficienza della motivazione offerta dal rimettente sulla rilevanza delle questioni.

4. Le considerazioni svolte dal rimettente sulla ri-levanza sono incentrate sul rapporto fra sentenza di condanna e declaratoria di prescrizione del reato pur in presenza dell’accertamento del fatto; alle stesse, tuttavia, l’ordinanza necessariamente premette che nel caso di specie la condotta accertata nel giudizio pre-supposto consentirebbe al pubblico ministero contabi-le di agire per il risarcimento del danno all’immagine dell’amministrazione.

A tanto l’ordinanza perviene muovendo dall’assunto secondo cui l’intervenuta abrogazione dell’art. 7 l. n. 97/2001, ad opera dell’art. 4, lett. g), all. 3, c.g.c., comporterebbe l’impossibilità di prende-re ulteriormente a riferimento la disposizione abrogata per l’individuazione dei casi in cui le procure contabili possono esercitare l’azione risarcitoria.

Conseguenza di tale impostazione è che il perime-tro dei reati che consentono l’azione risarcitoria an-drebbe rinvenuto, secondo il rimettente, nello stesso c.g.c., ed in particolare nel censurato art. 51, c. 7.

La nuova disciplina consentirebbe dunque il risar-cimento del danno all’immagine della pubblica ammi-nistrazione in conseguenza di un delitto commesso dal pubblico impiegato “a danno” della stessa, che sia sta-to accertato con sentenza penale definitiva.

Questa lettura del contesto normativo esaurisce il contenuto dell’ordinanza.

4.1. A fronte di ciò, osserva questa Corte che il giudice a quo non ha vagliato la possibilità che il dato normativo di riferimento legittimi un’interpretazione secondo cui, nonostante l’abrogazione dell’art. 7 l. n. 97/2001, che si riferisce ai soli delitti dei pubblici uf-ficiali contro la pubblica amministrazione, non riman-ga privo di effetto il rinvio ad esso operato da parte dell’art. 17, c. 30-ter, d.l. n. 78/2009, e non si è chie-sto se si tratta di rinvio fisso o mobile. L’ordinanza, quindi, trascura di approfondire la natura del rinvio, per stabilire se è tuttora operante o se, essendo venuto meno, la norma di riferimento è oggi interamente co-stituita dal censurato art. 51, c. 7.

4.2. In ogni caso, anche a voler ritenere che l’entrata in vigore del c.g.c. abbia esteso il novero dei reati che legittimano l’esercizio dell’azione risarcito-ria, occorre stabilire quali fattispecie delittuose con-sentono al pubblico ministero contabile l’esercizio

dell’azione per il risarcimento del danno all’immagine.

Si tratta, infatti, di un’attività indispensabile anche ove si ritenga che, in base alla disciplina vigente, la domanda risarcitoria non richieda la commissione di uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, ma solo la commissione di un delitto “a danno” della stessa. Anche questa previsione rivela infatti l’intento del legislatore di delimitare l’ambito della relativa responsabilità.

In proposito, il rimettente qualifica il fatto accerta-to a carico del convenuto come “delitto a danno della pubblica amministrazione” sulla sola base del fatto che lo stesso “ha inferto alla reputazione pubblica dell’amministrazione della Polizia di Stato un grave pregiudizio di immagine”; ma a supporto di una simile ricostruzione non offre alcuno spunto ermeneutico, limitandosi a compiere un ragionamento di tipo tauto-logico.

5. Nei profili evidenziati, l’ordinanza di rimessione offre dunque un’inadeguata rappresentazione della normativa donde trarre l’indicazione dei presupposti per l’esercizio, da parte del pubblico ministero conta-bile, dell’azione di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, e, se-gnatamente, l’indicazione dei reati per i quali debba essere intervenuta sentenza di condanna.

Tale carenza, pertanto, non consente di ritenere compiutamente rappresentato il quadro normativo di riferimento in ordine ad un elemento della fattispecie che si configura come requisito indefettibile per la va-lutazione di rilevanza delle questioni sottoposte; e tan-to non può che condurre alla dichiarazione d’inammissibilità delle stesse, in applicazione della giurisprudenza di questa Corte relativa a casi analoghi (sent. n. 154/2019 e sent. n. 133/2017).

P.q.m., la Corte costituzionale dichiara inammissi-bili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 51, cc. 6 e 7, all. 1 al d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’art. 20 l. 7 agosto 2015, n. 124), sollevate dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, in relazione agli artt. 3, 76, 97 e 103 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.

La Corte costituzionale e il danno all’immagine dell’amministrazione prima e dopo il codice di giu-stizia contabile

Sommario: 1. Premessa. – 2. I presupposti normativi per l’esercizio dell’azione di risarcimento del dan-no all’immagine e gli orientamenti della giuri-sprudenza. – 3. L’ordinanza n. 167/2019. – 4. La sentenza n. 191/2019. – 5. Considerazioni conclu-sive.

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1. Premessa

Con l’ord. n. 167 e con la sent. n. 191, emesse, ri-spettivamente, il 9 e il 19 luglio 2019, la Corte costi-tuzionale è tornata a occuparsi, in entrambi i casi su impulso della Sezione giurisdizionale regionale per la Liguria della Corte dei conti, della legittimità costitu-zionale delle norme che disciplinano i presupposti per l’esercizio, da parte del pubblico ministero dinanzi al-la Corte dei conti, dell’azione di risarcimento del dan-no all’immagine dell’amministrazione (1). Tuttavia, mentre nel giudizio definito dal primo provvedimento era oggetto di sindacato la disciplina previgente rispet-to al d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174, il secondo provve-dimento ha preso in considerazione il quadro normati-vo delineato dalle previsioni di quest’ultimo, e, in par-ticolare, dall’abrogazione dell’art. 7 della l. 27 marzo 2001, n. 97, e dalla introduzione, all’art. 51, c. 7, c.g.c., di una nuova disposizione in materia di comu-nicazione al requirente contabile delle sentenze di condanna emesse dal giudice penale nei confronti di dipendenti pubblici.

2. I presupposti normativi per l’azione di risarcimento del danno all’immagine e gli orientamenti della giuri-sprudenza

Come è noto, fino al 2009 non esistevano norme volte a stabilire i presupposti e i limiti della risarcibili-tà del danno all’immagine della amministrazione. La Corte dei conti si era attribuita la cognizione su tale voce di danno in via pretoria (2), giungendo a definir-ne compiutamente, nella sua più autorevole composi-zione, la natura, le caratteristiche e i parametri di li-quidazione (3). Non si dubitava, in ogni caso, della

(1) Sul danno all’immagine della pubblica amministrazio-

ne, v., tra i contributi dottrinali più recenti: V. Varone, Il danno all’immagine, in A. Canale, D. Centrone, F. Freni, M. Smiroldo (a cura di), La Corte dei conti. Responsabilità, contabilità, con-trollo, Milano, Giuffrè, 2019, 131 ss.; A. Cilento, Il «nuovo» danno all’immagine della pubblica amministrazione tra effi-cienza e credibilità, in Dir. e processo amm., 2018, 171; S. No-bile De Santis, Sulla risarcibilità del danno all’immagine subi-to dall’ente territoriale (Nota a T. Bari, 31 luglio 2017, L.P. c. Min. int.), in Nuova giur. civ., 2018, 341; A. Nocera, La risar-cibilità del danno all’immagine nel processo penale. I rapporti con il giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, in Cass. pen., 2018, 261; D. Perrotta, Il danno all’immagine della pubblica amministrazione, in <www.federalismi.it>, 11 aprile 2018; V. Tenore (a cura di), La nuova Corte dei conti: respon-sabilità, pensioni, controlli, Milano, Giuffrè, 2018, 4a ed., 291 ss.; A. Nocera, La responsabilità amministrativo-contabile del magistrato e il danno all’immagine della amministrazione giu-diziaria, in Corriere giur., 2017, 1295; V. Raeli, Il danno all’immagine della p.a., in <www.lexitalia.it>, 24 marzo 2017.

(2) Per il riconoscimento della giurisdizione della Corte dei conti, ad esempio, Cass., S.U., 27 settembre 2006, n. 20886, in Foro it., 2007, I, 2483.

(3) Corte conti, Sez. riun., 23 aprile 2003, n. 10/Qm, in Fo-ro it., 2005, III, 74, con la quale si è, tra l’altro, affermato che il danno all’immagine di una pubblica amministrazione, cagiona-to da amministratori o dipendenti pubblici, non costituisce dan-no morale bensì danno esistenziale, risarcibile ex art. 2043 c.c. Nella giurisprudenza civile, peraltro, il danno non patrimoniale

“piena e incondizionata perseguibilità da parte della Corte dei conti del danno all’immagine arrecato a pubbliche amministrazioni” (4), il quale, se, nei fatti, veniva per lo più ravvisato in casi che avevano assun-to rilevanza anche sotto il profilo penale, non era, sul piano normativo, soggetto ad alcun vincolo pregiudi-ziale, né vedeva la propria risarcibilità condizionata dalla corrispondenza della fattispecie a talune, piutto-sto che ad altre, figure di reato.

Con l’art. 17, c. 30-ter, secondo periodo del d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito con la l. 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’art. 1, c. 1, lett. c), n. 1), d.l. 3 agosto 2009, n. 103, convertito con la l. 3 otto-bre 2009, n. 141, la possibilità, per le procure regiona-li, di agire per il risarcimento del danno in questione è stata limitata ai “soli casi” e “modi” di cui all’art. 7 della l. n. 97/2001. Quest’ultima norma, poi abrogata dal d.lgs. n. 174/2016, prevedeva che l’autorità giudi-ziaria ordinaria comunicasse al pubblico ministero di-nanzi alla Corte dei conti le sentenze irrevocabili di condanna emesse nei confronti di dipendenti pubblici per taluno dei delitti contro la pubblica amministra-zione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale.

In tal modo, l’azione per il risarcimento del danno all’immagine è divenuta possibile unicamente a fronte di una condanna penale irrevocabile per uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministra-zione. Il decorso del termine di prescrizione del diritto al relativo risarcimento è stato, conseguentemente, so-speso ope legis fino alla conclusione del procedimento penale (5).

La norma ha da subito suscitato le perplessità degli interpreti (6). Da un lato, la restrizione operata preclu-deva l’esercizio dell’azione risarcitoria in tutti i casi nei quali il giudice penale non avesse emesso una sen-tenza irrevocabile di condanna, pur senza escludere, nel merito, la responsabilità penale, ad esempio perché

conseguente alla lesione di valori inerenti alla persona è stato in seguito ricondotto all’ambito di applicazione dell’art. 2059 c.c.: v., in particolare, Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972, in Giur. it., 2009, 61. Nel senso che anche il danno all’immagine dell’amministrazione ha valenza non patrimoniale e trova la sua disciplina nell’art. 2059 c.c., Corte cost. 1 dicembre 2010, n. 355, nonchè, in questa Rivista, 2010, fasc. 6, 213.

(4) Così V. Tenore (a cura di), op. cit., 296.

(5) L’art. 17, c. 30-ter, ha, altresì, stabilito la nullità degli atti istruttori e processuali compiuti in assenza della condanna penale irrevocabile per uno dei “reati propri”, prevedendo che la sanzione possa essere fatta valere “in ogni momento da chiunque vi abbia interesse”. L’art. 51, c. 6, c.g.c. ha poi preci-sato che la nullità per violazione delle norme sui presupposti di proponibilità dell’azione per danno all’immagine è rilevabile anche d’ufficio.

(6) Sull’argomento, in senso critico, V. Tenore (a cura di), op. cit., 297 ss., anche per ampie indicazioni bibliografiche. L’Autore evidenzia, in particolare, come la “condizione di pro-ponibilità dell’azione contabile” introdotta dalla norma com-porti la “plateale violazione del basilare principio di autono-mia tra magistratura contabile e magistratura penale”.

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aveva dichiarato l’estinzione del reato (e ciò, per il so-lo danno all’immagine, mentre, per le altre voci di danno conseguite allo stesso fatto, l’azione poteva es-sere esercitata senza attendere l’esito del giudizio pe-nale) (7). Dall’altro, essa impediva il risarcimento in tutti i casi nei quali il fatto, pur obiettivamente grave e dannoso per l’immagine dell’amministrazione, non integrava taluno dei delitti previsti dall’art. 7, cit.

Alcune Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti hanno sollevato questione di legittimità costituzionale della norma. La Consulta, nel 2010, ne ha negato, tut-tavia, l’incostituzionalità, affermando, come meglio si dirà, che la delimitazione delle ipotesi di risarcibilità della voce di danno in esame costituiva esercizio, non manifestamente irragionevole, della discrezionalità del legislatore (8).

Non sono mancate decisioni di merito che hanno ritenuto possibile l’azione di risarcimento anche in as-senza dei presupposti di cui all’art. 17, c. 30-ter, e dunque in relazione a fatti non costituenti delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione

(7) Secondo una giurisprudenza consolidata, la sentenza di

applicazione della pena su richiesta delle parti, emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., equivale, ai fini del risarcimento del danno all’immagine, a una sentenza di condanna. Ad esempio, Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, 30 agosto 2017, n. 100, in questa Rivista, 2017, fasc. 3-4, 409, con nota di richiami; Sez. giur. reg. Lombardia, 21 aprile 2017, n. 79, ibidem, fasc. 1-2, 317, con nota di richiami.

(8) Corte cost. n. 355/2010, cit. Nello stesso senso, le ord. nn. 219, 220 e 221 del 21 luglio 2011, l’ultima delle quali è pubblicata in questa Rivista, 2011, fasc. 3-4, 365, con nota di richiami, nonché ord. 28 ottobre 2011, n. 286, in Giur. cost., 2011, 3701.

Nella sentenza del 2010, la Corte costituzionale ha, altresì, osservato che, in assenza dei presupposti individuati dalla nor-ma, non sarebbe possibile esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’immagine dinanzi a un organo giurisdizionale diverso dalla Corte dei conti: “deve, quindi, ritenersi che il le-gislatore non abbia inteso prevedere una limitazione della giu-risdizione contabile a favore di altra giurisdizione, e segnata-mente di quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell’immagine dell’amministrazione imputabile a un dipenden-te di questa”. Questa interpretazione non è stata, però, seguita dalla giurisprudenza penale. V., ad esempio, Cass. pen., Sez. II, 7 febbraio 2017, n. 29480, secondo la quale il danno subìto dal-la pubblica amministrazione per effetto della lesione all’immagine è risarcibile anche qualora derivi dalla commis-sione di reati comuni posti in essere da soggetti appartenenti ad una pubblica amministrazione (fattispecie in tema di truffa ag-gravata in danno di un comune).

Nella giurisprudenza delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, ad ogni modo, è consolidato l’orientamento per il quale la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 17, c. 30-ter, cit. costituisce condizione di mera proponibilità dell’azione di responsabilità davanti al giudice contabile (incidente, dunque, sui soli limiti interni della sua giurisdizione) e non una questio-ne di giurisdizione, suscettibile di dare luogo a ricorso per cas-sazione avverso la decisione della Corte dei conti. Così, ad esempio, Cass., S.U., 7 dicembre 2016, n. 25042.

(9). Nel 2015 questo orientamento è stato, però, supe-rato da una decisione delle Sezioni riunite, secondo la quale la disposizione in parola andava intesa nel senso che le Procure della Corte dei conti potevano agire per il risarcimento del danno all’immagine solo per i delit-ti previsti dal capo I, titolo II, libro II, c.p. (10).

In questo quadro si collocano le previsioni del d.lgs. n. 174/2016. Il codice di giustizia contabile con-tiene, come si è anticipato, una nuova disciplina dei flussi informativi tra il giudice penale e il pubblico ministero dinanzi alla Corte dei conti. Più in particola-re, secondo l’art. 51, c. 7, c.g.c., l’autorità giudiziaria ordinaria comunica al Procuratore regionale, per l’eventuale procedimento di responsabilità, la senten-za irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (e de-gli organismi e degli enti da esse controllati) “per i delitti commessi a danno delle stesse”. Una formula-zione certamente non coincidente con quella dell’art. 7 della l. n. 97/2001, che contestualmente è stato abrogato (11), salvo soffermarsi – e sul punto si torne-

(9) Ad esempio: Corte conti, Sez. I centr. app., 14 dicembre

2012, n. 809/A, in questa Rivista, 2012, fasc. 5, 237, nel senso che, ai fini dell’ammissibilità dell’azione di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione è suffi-ciente che il reato per il quale sia intervenuta condanna irrevo-cabile in sede penale a carico del responsabile abbia cagionato danno patrimoniale (nella specie, si trattava del reato di ricetta-zione connesso a reato di corruzione); Corte conti, Sez. giur. reg. Toscana, 21 giugno 2012, n. 332, ibidem, fasc. 3, 393, se-condo la quale, premesso che le decisioni interpretative di ri-getto della Corte costituzionale, come quella che ha ritenuto legittima la limitazione della giurisdizione contabile per danno all’immagine dell’amministrazione ai casi di delitti precisa-mente individuati dalla legge, non hanno carattere erga omnes e vincolano il solo giudice a quo, lasciando impregiudicato il potere di ogni altro giudice di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge impugnate, il danno erariale all’immagine dell’amministrazione sussiste anche nel caso di reati comuni commessi da un suo dipendente (nella specie, il giudice contabile ha condannato un medico dipendente di un’azienda sanitaria che aveva abusato sessualmente di una collega e di una paziente, sfruttando la propria posizione di re-sponsabile del centro di assistenza per tossicodipendenti).

Anche il testo dell’art. 1 sexies della l. n. 20/1994, inserito dalla l. n. 190/2012, che ha introdotto un criterio di determina-zione del danno all’immagine della pubblica amministrazione “derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pub-blica amministrazione accertato con sentenza passata in giudi-cato”, è stato inteso come idoneo a determinare un allargamen-to del novero delle fattispecie risarcibili, sia perché fa riferi-mento a tutti i reati “contro la […] pubblica amministrazione”, sia perché sembra ritenere sufficiente una sentenza che abbia accertato la responsabilità penale dell’imputato (anche, ad esempio, ai soli fini del risarcimento del danno in favore della parte civile), e non necessariamente una pronuncia di condan-na. In proposito, V. Tenore (a cura di), op. cit., 303, nonché L. D’Angelo, Lesione a immagine p.a. e legge anticorruzione: un ampliamento della tutela erariale?, in <www.altalex.com>, 11 febbraio 2013.

(10) Corte conti, Sez. riun., 19 marzo 2015, n. 8/Qm, in questa Rivista, 2005, fasc. 3, 264.

(11) Art. 4, c. 1, lett. g), dell’all. 4 al d.lgs. n. 174/2016.

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rà infra – su quale sia l’interpretazione preferibile del-la nuova locuzione. Per quanto qui rileva, occorre te-ner presente che, secondo alcune pronunce delle Se-zioni giurisdizionali della Corte dei conti (12), il rin-vio fatto dall’art. 17, c. 30-ter, cit. all’art. 7 della l. n. 97/2001 andrebbe, oggi, riferito all’art. 51, c. 7, c.g.c., con la conseguenza che l’azione di risarcimento del danno all’immagine potrebbe essere esercitata dal pubblico ministero in presenza di una sentenza irrevo-cabile di condanna per un qualsivoglia reato commes-so a danno della pubblica amministrazione, e non già, necessariamente, per uno dei delitti previsti dal capo I, titolo II, libro II, c.p. (13).

3. L’ordinanza n. 167/2019

Con ord. n. 167/2019, la Corte costituzionale si è pronunciata nuovamente sulla legittimità costituziona-le dell’art. 17, c. 30-ter, cit., dichiarando manifesta-mente infondata la relativa questione in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (14).

Nel giudizio a quo, il pubblico ministero aveva esercitato l’azione di risarcimento del danno all’immagine nei confronti di alcuni appartenenti alla Polizia di Stato, i quali erano stati condannati in via definitiva dal giudice penale per il reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (15). Trattandosi di giudizio instaurato prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 174/2016, su di esso non influivano le modifiche apportate da quest’ultimo, per cui, secondo la prospettazione del giudice rimet-tente, condivisa dalla Consulta (16), l’esercizio

(12) Ad esempio, Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 1

dicembre 2016, n. 201, e 12 luglio 2017, n. 113; Sez. giur. app. reg. Siciliana, 28 novembre 2016, n. 183.

(13) In tal senso, in dottrina, V. Tenore (a cura di), op. cit., 306. V. anche A. Vetro, Problematiche relative al danno all’immagine della pubblica amministrazione, perseguibile in-nanzi alla Corte dei conti, dopo l’entrata in vigore del c.d. co-dice di giustizia contabile, in <www.contabilità-pubblica.it>, 1 ottobre 2018.

(14) Nella stessa data del 9 luglio 2019, la Consulta ha, al-tresì, emesso l’ord. n. 168, con la quale, sempre a seguito di un’ordinanza di rimessione della Sezione giurisdizionale regio-nale della Corte dei conti per la Liguria, è stata dichiarata mani-festamente infondata – con motivazione corrispondente a quella dell’ordinanza in commento, sebbene più sintetica – la questio-ne di legittimità costituzionale dell’art. 17, c. 30-ter, cit. in rife-rimento agli artt. 3 e 97, c. 2, Cost., mentre è stata dichiarata manifestamente inammissibile la questione riferita agli artt. 3 e 103, c. 2, Cost.

(15) Entrambi i giudizi di merito nell’ambito dei quali sono state sollevate le questioni definite dai provvedimenti in com-mento, come pure quello che ha dato origine all’ord. n. 168, riguardano fatti commessi nell’ambito delle note vicende che hanno caratterizzato il G8 di Genova del luglio 2001.

(16) In un primo momento, la Corte costituzionale, con l’ord. n. 145/2017, in questa Rivista, 2017, fasc. 3-4, 459, con nota di richiami, aveva restituito gli atti al giudice a quo in ra-gione del mutamento del quadro normativo di riferimento de-terminato dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 174/2016. La Se-zione ligure aveva riproposto la questione evidenziando, per

dell’azione era soggetto ai presupposti previsti dall’art. 17, c. 30-ter, cit. e dall’art. 7 della l. n. 97/2001.

Su tale premessa, il giudice delle leggi ha ritenuto la questione rilevante, dal momento che, in applica-zione delle norme in questione, la domanda avrebbe dovuto essere dichiarata improponibile, in quanto i convenuti non erano stati condannati dal giudice pena-le per uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Nel contempo, la questione è stata ritenuta manifestamente infondata, dal momen-to che le censure formulate dal giudice a quo non po-nevano in discussione, secondo la Consulta, i principi da essa affermati nella sentenza n. 355/2010 e nelle successive ordinanze nn. 219, 221 e 286/2011, non essendo sorrette da “argomenti e profili non conside-rati nei precedenti” in parola (17).

Più specificamente, la Sezione ligure aveva censu-rato l’incoerenza della limitazione posta dall’art. 17, c. 30-ter, cit. con la successiva introduzione di disposi-zioni che consentono il risarcimento del danno all’immagine in presenza di reati meno gravi di quelli di cui all’art. 7 della l. n. 97/2001, o anche a fronte di fatti non costituenti reato, quali: l’art. 55-quinquies, c. 2, d.lgs. n. 165/2001 (18), che obbliga a tale risarci-mento il pubblico dipendente che attesta falsamente la propria presenza in servizio o giustifica la propria as-senza con una certificazione medica falsa; l’art. 1, c. 12, l. n. 190/2012, che vi assoggetta il responsabile della prevenzione della corruzione in caso di commis-sione, all’interno dell’amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudica-to; l’art. 46, c. 1, d.lgs. n. 33/2013, come modificato dal d.lgs. n. 97/2016, che prevede l’obbligo risarcito-rio a carico del soggetto che omette di adempiere gli obblighi di pubblicazione previsti dalla legge, ovvero rifiuta, differisce o limita l’accesso civico.

Sotto altro profilo, la sezione rimettente aveva evi-denziato l’erroneo bilanciamento degli interessi in

l’appunto, che, il giudizio era stato introdotto anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina.

(17) L’ordinanza di rigetto per “manifesta infondatezza”, ai sensi dell’art. 29 della l. 11 marzo 1953, n. 87, è frequentemen-te adottata dalla Corte costituzionale in relazione, tra l’altro, a giudizi di legittimità che ripropongono questioni, identiche o analoghe, già dichiarate infondate da precedenti decisioni della medesima Corte, senza addurre profili o argomenti diversi o ulteriori. V., ad esempio, le ord. nn. 96, 192 e 195/2018, non-ché G. Lattanzi, La giurisprudenza costituzionale del 2018, in Foro it., 2019, V, 258.

(18) La norma è stata, da ultimo, modificata dal d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75. Nel senso che la fattispecie di danno all’immagine della pubblica amministrazione da essa contem-plata, volta specificamente a sanzionare l’assenteismo fraudo-lento nel pubblico impiego, è autonoma rispetto a quella gene-rale di cui all’art. 17, c. 30-ter, cit., sicché, ai fini della sua per-seguibilità, non è richiesto alcun accertamento, con sentenza irrevocabile, della responsabilità penale del convenuto, Corte conti, Sez. II centr. app., 4 ottobre 2017, n. 662, in questa Rivi-sta, 2017, fasc. 5-6, 358, con nota di richiami.

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gioco, in quanto il diritto all’immagine dell’amministrazione sarebbe stato eccessivamente sacrificato rispetto alla finalità, perseguita dal legisla-tore, di evitare il rallentamento nell’attività degli enti pubblici, dovuto allo stato di preoccupazione ingene-rato nei dipendenti dal rischio di incorrere nella re-sponsabilità amministrativa.

La Corte costituzionale, al riguardo, ha ribadito quanto già rilevato nelle decisioni richiamate, e, in particolare, nella sentenza del 2010, ossia:

- che rientra “nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà della scelta, conformare le fattispecie di responsabilità amministrativa, valutando le esigenze cui si ritiene di dover fare fronte”;

- che la decisione di consentire il risarcimento “soltanto in presenza di condotte illecite, che integri-no gli estremi di specifiche fattispecie delittuose, volte a tutelare, tra l’altro, proprio il buon andamento, l’imparzialità e lo stesso prestigio dell’amministrazione” non è manifestamente irragio-nevole, in quanto la riduzione dei casi di responsabili-tà amministrativa è funzionale “all’evidente scopo di consentire un esercizio dell’attività di amministrazio-ne della cosa pubblica, oltre che più efficace ed effi-ciente, il più possibile scevro da appesantimenti, rite-nuti dal legislatore eccessivamente onerosi, per chi è chiamato, appunto, a porla in essere”;

- che, pur nell’ambito di un siffatto “disegno legi-slativo”, non può ritenersi irragionevole la previsione di “ulteriori e specifiche ipotesi di responsabilità” per il danno all’immagine, “che si giustificano in ragione della loro specialità”.

A tale ultimo riguardo, la Corte ha preso in esame le tre fattispecie tipiche di danno all’immagine indica-te dal giudice a quo. Per l’art. 55-quinquies, c. 2, d.lgs. n. 165/2001, essa ha richiamato alcune conside-razioni già spese nella sentenza n. 355/2010, ossia che si può ammettere la previsione di “forme di protezione dell’immagine dell’amministrazione pubblica a fronte di condotte dei dipendenti, specificamente tipizzate, meno pregnanti rispetto a quelle assicurate alla per-sona fisica”. Con riferimento all’art. 1, c. 12, l. n. 190/2012, essa ha rilevato che il presupposto della re-sponsabilità è l’accertamento definitivo di un reato di corruzione, ossia di uno dei reati che consentono il ri-sarcimento del danno all’immagine ai sensi dell’art. 17, c. 30-ter, cit., e che i particolari poteri e compiti attribuiti dall’ordinamento al responsabile della pre-venzione della corruzione “giustificano un’affermazione di responsabilità conseguente alle relative omissioni, che hanno sostanzialmente vanifi-cato le misure a difesa dell’amministrazione, non im-pedendo la commissione del fatto corruttivo”. Da ul-timo, l’introduzione dell’ipotesi risarcitoria di cui all’art. 46, c. 1, d.lgs. n. 33/2013 è stata ritenuta coe-rente con “la […] finalità di rafforzamento delle misu-re di trasparenza della pubblica amministrazione, vol-te a coniugare l’efficienza della funzione pubblica con le garanzie di tutela delle posizioni giuridiche dei cit-

tadini, di cui sono corollari i previsti obblighi di pub-blicità e l’accessibilità ai documenti amministrativi, le cui previsioni sono qualificate dall’ordinamento come livello essenziale delle prestazioni erogate dalle am-ministrazioni pubbliche”.

La decisione, così sintetizzata, induce ad alcune considerazioni.

In primo luogo, non pare potersi parlare, a proposi-to della coesistenza di una norma generale delimitati-va della risarcibilità del danno all’immagine, qual è l’art. 17, c. 30-ter, cit., e di fattispecie tipiche nelle quali tale risarcibilità è espressamente prevista, di un “disegno legislativo”, intendendosi, con questa espres-sione, un complesso organico di interventi coordinati tra loro in vista del perseguimento di un determinato obiettivo di politica legislativa. Le diverse norme pas-sate in rassegna, infatti, appaiono frutto di iniziative episodiche e frammentarie, che non sembrano tenere conto l’una dell’altra, e che danno l’impressione di perseguire finalità eterogenee. Infatti, mentre l’art. 17, c. 30-ter, cit. ha determinato, evidentemente, una con-siderevole circoscrizione, in termini generali, dell’area del danno risarcibile, le fattispecie tipiche su cui si sofferma la decisione in commento perseguono la fi-nalità, opposta, di rafforzare la reazione dell’ordinamento rispetto a specifiche condotte, fatte oggetto di un trattamento particolarmente afflittivo in ragione della importanza attribuita agli interessi coin-volti. Quasi come si trattasse di una sorta di sanzione accessoria, anziché di una misura di carattere risarci-torio (19).

Non vi è dubbio che il grado di importanza da at-tribuire a tali interessi, e il livello di protezione da as-sicurare a essi, siano rimessi alla discrezionalità del legislatore (beninteso, nel quadro dei valori costitu-zionali e dell’ordinamento sovranazionale). Ciò non preclude, tuttavia, all’interprete, e in particolare alla Corte costituzionale, chiamata a sindacare la ragione-volezza del modo in cui questa discrezionalità è stata esercitata, di valutare se il meno rigoroso trattamento riservato ad altre fattispecie trovi giustificazione in ragione del fatto che il legislatore abbia effettivamente attribuito agli interessi, su cui le stesse incidono, un livello di importanza inferiore. In una siffatta prospet-tiva, appare difficile negare l’incoerenza di un quadro normativo nel quale il legislatore nega la risarcibilità del danno all’immagine derivato da condotte che in-volgono interessi cui esso stesso attribuisce un’importanza tale da presidiarli con la sanzione pena-le (è il caso dei reati diversi da quelli di cui all’art. 7 della l. n. 97/2001), salvo prevederla espressamente in relazione a comportamenti meno gravi, o addirittura penalmente irrilevanti (è il caso del responsabile della prevenzione della corruzione, il quale risponde delle conseguenze di reati commessi da altri, o della fatti-specie di cui all’art. 46, c. 1, d.lgs. n. 33/2013).

(19) Corte Edu 13 maggio 2014, Rigolio c. Italia.

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Sotto altro profilo, la Corte costituzionale non sembra aver dato adeguato rilievo a un significativo argomento che il giudice a quo aveva dedotto a dimo-strazione del contrasto tra la norma impugnata e gli artt. 3 e 97 Cost., e cioè che il sacrificio imposto al di-ritto all’immagine dell’amministrazione, la cui lesione è destinata, in molti casi, a non essere risarcita, non è proporzionato rispetto alla finalità di garanzia dell’operato dei pubblici dipendenti cui la norma de-limitativa, secondo l’insegnamento della sentenza n. 355/2010, è ispirata. E ciò, in quanto l’ordinamento, onde evitare di rallentare eccessivamente il funziona-mento delle amministrazioni, appresta, già da molto prima dell’entrata in vigore dell’art. 17, c. 30-ter, cit., appositi accorgimenti volti ad attenuare la responsabi-lità dei dipendenti pubblici, quali, ad esempio, il re-quisito minimo della colpa grave e la riduzione dell’addebito.

A ben guardare, peraltro, è la stessa individuazione di una siffatta ratio legis a destare perplessità. Non si può certo ritenere, infatti, che negare la risarcibilità del danno all’immagine per fatti criminosi commessi volontariamente – come, per fare degli esempi tratti dalla giurisprudenza, il falso, la truffa o la violenza sessuale – sia funzionale al fine di preservare i dipen-denti pubblici da eccessive preoccupazioni e di assicu-rare, in tal modo, il buon andamento dell’amministrazione.

4. La sentenza n. 191/2019

La sentenza n. 191/2019 è stata emessa dalla Corte costituzionale nell’ambito di un giudizio di responsa-bilità nei confronti di un funzionario della Polizia di Stato, già sottoposto a giudizio penale per il delitto di violenza privata aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, c.p. (20). Il giudice penale, con pronuncia divenuta irrevocabile, aveva dichiarato non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato, ma aveva, nondi-meno, condannato l’imputato e il Ministero dell’interno al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese legali in favore delle parti civili.

Il giudice a quo, premesso che doveva applicarsi la normativa risultante dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 174/2016, in quanto il giudizio era stato instaurato successivamente, aveva ritenuto che, attesa l’abrogazione dell’art. 7 della l. n. 97/2001, e alla luce dell’art. 4, c. 2, dell’all. 3 al d.lgs. (21), i presupposti per l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno all’immagine fossero disciplinati dall’art. 51, cc. 6 e 7, c.g.c. (22). In base a queste disposizioni, secondo la

(20) La norma prevede, quale circostanza aggravante co-

mune, “l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto”.

(21) “Quando disposizioni vigenti richiamano disposizioni abrogate […] il riferimento agli istituti previsti da queste ulti-me si intende operato ai corrispondenti istituti disciplinati nel presente codice”.

(22) V. il par. 2.

Sezione ligure, il danno in parola avrebbe potuto esse-re risarcito in presenza di una sentenza penale irrevo-cabile di condanna per un qualsivoglia delitto com-messo da pubblici dipendenti a danno dell’amministrazione (23). Nella specie, quest’ultimo requisito sarebbe sussistito, in quanto il fatto commes-so dal convenuto, oltre a ledere l’integrità fisica delle persone offese, avrebbe inferto un grave pregiudizio di immagine alla Polizia di Stato.

Le questioni di legittimità costituzionale erano sta-te, dunque, sollevate in relazione all’ulteriore presup-posto della condanna penale irrevocabile, investendo, più in particolare, i predetti cc. 6 e 7 dell’art. 51 c.g.c. nella parte in cui escludevano l’azione risarcitoria nei casi in cui il giudice penale, nel dichiarare la prescri-zione del reato, ne avesse, comunque, accertato la re-sponsabilità, in capo all’imputato, ai fini del risarci-mento del danno in favore delle parti civili costituite. Le norme costituzionali violate erano state individuate negli artt. 3, 76, 97 e 103, c. 2, Cost.

La decisione della Corte costituzionale, tuttavia, non è pervenuta a valutare la fondatezza delle que-stioni proposte, in quanto ha ritenuto le stesse inam-missibili “per inadeguata rappresentazione del qua-dro normativo entro il quale la disposizione impugna-ta è ricompresa”.

Il giudice delle leggi ha, innanzitutto, ricordato come, in termini generali, sia onere del giudice che solleva una questione di legittimità costituzionale “confrontarsi con ogni elemento normativo” che inci-da sui requisiti di ammissibilità della questione stessa, ossia la rilevanza e la non manifesta infondatezza (24). Esso deve, a tal fine, chiarire “in termini non im-plausibili il preliminare percorso logico compiuto”, e poi soffermarsi “sulle ragioni che rendono possibile l’applicazione della norma impugnata nel giudizio principale”.

Nel caso di specie, secondo la Consulta, la Sezione ligure aveva posto a base delle questioni sollevate, e, in particolare, del giudizio di rilevanza delle stesse, un’interpretazione del quadro normativo che:

- da un lato, non prendeva in considerazione l’eventualità che il rinvio fatto dal secondo periodo dell’art. 17, c. 30-ter, cit. all’art. 7 della l. n. 97/2001 avesse carattere fisso, e non mobile, sì da consentire di ritenere che la prima disposizione debba tuttora essere integrata dalla seconda, pur abrogata, e non dalle pre-visioni dell’art. 51 c.g.c.;

- dall’altro, anche optando per quest’ultima solu-zione, e dunque ritenendo che l’azione per il risarci-mento del danno all’immagine sia oggi possibile in tutti i casi di reati commessi “a danno” dell’amministrazione, non si soffermava sufficiente-mente sul significato di tale espressione, omettendo, in particolare, di considerare le disposizioni della legge

(23) L’ordinanza di rimessione appare, in proposito, in li-

nea con l’orientamento delle decisioni di cui alla nota n. 11.

(24) Art. 23, c. 2, l. n. 87/1953.

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delega e le parole “nei soli casi” contenute nell’art. 17, c. 30-ter, cit.; qualificare, come fatto dall’ordinanza di rimessione, il delitto come “a dan-no” della Polizia di Stato in quanto aveva determinato un pregiudizio all’immagine di quest’ultima costituiva “un ragionamento di tipo tautologico”.

La sentenza presenta diversi profili di interesse.

La Corte costituzionale, come si è visto, ha rileva-to, nell’ordinanza di rimessione, la “inadeguata rap-presentazione del quadro normativo” (25) e la manca-ta considerazione, nell’interpretazione delle disposi-zioni applicabili, di alcuni degli elementi che lo com-pongono.

Nel fare ciò, essa ha prospettato, in un passaggio logicamente preliminare rispetto alle ulteriori conside-razioni, una ricostruzione alternativa del meccanismo di integrazione della norma che individua i presuppo-sti per l’esercizio dell’azione di risarcimento del dan-no all’immagine.

Il giudice a quo, secondo il giudice delle leggi, aveva inteso il rinvio contenuto nell’art. 17, c. 30-ter, cit. come mobile (ovvero formale o non ricettizio (26)), e lo aveva riferito, applicando la norma di coor-dinamento di cui all’art. 4, c. 2, dell’all. 3 al d.lgs. n. 174/2016, alla previsione che oggi disciplina l’istituto già regolato dall’abrogato art. 7 della l. n. 97/2001, ossia la comunicazione delle sentenze di condanna da parte del giudice penale al pubblico ministero dinanzi alla Corte dei conti.

La Consulta, a tal riguardo, ha preso in considera-zione l’ipotesi che il rinvio in parola debba intendersi come fisso (ovvero materiale o ricettizio), cosicché, nonostante l’abrogazione dell’art. 7, cit., i “casi” di risarcibilità del danno all’immagine resterebbero co-munque quelli desumibili da quest’ultima norma. Aderendo a una simile interpretazione, non scrutinata dal giudice rimettente, le questioni sollevate non sa-rebbero state rilevanti, in quanto, anche se fossero sta-te accolte, l’azione risarcitoria per il danno all’immagine non avrebbe potuto comunque essere

(25) Per altri esempi di dichiarazioni di inammissibilità del-

la questione per errata, incompleta o inadeguata ricostruzione del quadro normativo di riferimento, v. le sent. nn. 80, 102, 134 e 224 e le ord. nn. 30, 136 e 202/2018 della Corte costituziona-le.

(26) Sulla distinzione tra rinvio formale o non ricettizio e rinvio materiale o ricettizio, v. T. Martines, Diritto costituzio-nale, Milano, Giuffrè, 2017, 14a ed., 86 s., in cui si precisa che la stessa, propria del diritto internazionale (e, comunque, con-troversa), si può configurare anche a proposito del rinvio tra disposizioni dello stesso ordinamento. Secondo l’impostazione tradizionale, la prima figura ricorre quando una norma richiama la fonte che disciplina una certa materia, indicando i criteri per la sua individuazione, sicché il suo contenuto muta in ragione delle modifiche che tale fonte subisce. La seconda figura, inve-ce, si delinea quando la norma rinviante incorpora quella ogget-to di rinvio, che è indicata con precisione, con la conseguenza che il contenuto della norma così costruita non subisce modifi-che quand’anche la norma oggetto di rinvio sia abrogata o mo-dificata.

proposta per la mancata corrispondenza tra il delitto oggetto del giudizio penale e quelli in presenza dei quali detta azione è consentita.

La tesi del rinvio fisso, per il vero, non è scono-sciuta alla giurisprudenza della Corte dei conti. In una pronuncia del 2018, in particolare, la Sezione giurisdi-zionale regionale per la Toscana (27) l’ha sostenuta sulla base del seguente ragionamento:

- la ratio dell’art. 17, c. 30-ter, cit., come indivi-duata dalla giurisprudenza delle Sezioni riunite (28) e della Corte costituzionale (29), sarebbe quella di de-limitare in modo preciso le fattispecie in presenza del-le quali il pubblico ministero può esercitare l’azione di risarcimento del danno all’immagine;

- l’art. 7 della l. n. 97/2001, oggetto di rinvio, ver-rebbe, dunque, in rilievo non in quanto fonte della di-sciplina dei flussi informativi tra giudice penale e pubblico ministero dinanzi alla Corte dei conti (fun-zione oggi espletata dall’art. 51, c. 7, c.g.c.), bensì in ragione del rinvio che, a sua volta, essa opera a una serie definita di delitti, ossia quelli previsti dal capo I, titolo II, libro II, c.p., allo scopo di circoscrivere a essi il novero delle fattispecie che consentono il risarci-mento;

- la natura materiale del rinvio sarebbe confermata dalla lettera dell’art. 17, c. 30-ter, cit., che richiama i “casi” e i “modi” stabiliti da altra norma di legge indi-cata in modo preciso.

In questa prospettiva, non troverebbe applicazione, secondo la Sezione, l’art. 4, c. 2, dell’all. 3 al d.lgs. n. 174/2016, dal momento che la norma costruita me-diante il rinvio non risentirebbe, attesa la natura mate-riale del medesimo, dell’abrogazione dell’art. 7, cit. Sicché il danno all’immagine potrebbe essere risarci-to, tuttora, soltanto in presenza di una sentenza irrevo-cabile di condanna per uno dei delitti dei pubblici uf-ficiali contro la pubblica amministrazione.

A questa interpretazione, pur lineare e ben argo-mentata, possono, nondimeno, essere mosse alcune obiezioni.

L’art. 4, c. 2, dell’all. 3 del d.lgs. n. 174/2016 prende in considerazione le ipotesi in cui “disposizioni vigenti richiamano disposizioni abrogate dal c. 1”, prevedendo che “il riferimento agli istituti previsti da queste ultime si intende operato ai corrispondenti isti-tuti disciplinati nel […] codice”. Secondo la tesi del rinvio fisso o materiale, il c. 1, cit. avrebbe abrogato l’art. 7 della l. n. 97/2001, ma non la norma costruita mediante il rinvio che a esso fa l’art. 17, c. 30-ter, cit. Ad avviso di chi scrive, tuttavia, l’abrogazione di tale norma “complessa” può essere ravvisata quale effetto non del c. 1, ma del c. 2 dell’art. 4, cit. Quest’ultimo, infatti, ha riguardo a tutti i casi in cui il legislatore ab-

(27) Corte conti, Sez. giur. reg. Toscana, 10 luglio 2018, n.

174, in questa Rivista, 2018, fasc. 3-4, 302, con nota di richia-mi.

(28) Corte conti, Sez. riun., n. 8/2015, cit.

(29) Corte cost. n. 355/2010, cit.

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bia utilizzato la tecnica del rinvio, senza distinguere in base alla natura fissa o mobile del medesimo (“quan-do disposizioni […] richiamano disposizioni”). In tali ipotesi, il solo fatto che la norma oggetto di rimando sia inclusa tra quelle abrogate dal c. 1 comporta il su-bentro della nuova disciplina derivante dalla combina-zione della norma rinviante, tuttora in vigore, con la disposizione del codice che disciplina l’istituto già re-golato della norma abrogata.

Pertanto, anche volendo condividere la tesi del rin-vio fisso o materiale, dovrebbe comunque concludersi che i casi e i modi in cui può essere esercitata l’azione di risarcimento del danno all’immagine sono, oggi, quelli desumibili dall’art. 51, c. 7, c.g.c. (30).

Una siffatta interpretazione non appare in contrasto con la finalità cui, secondo la giurisprudenza, è ispira-to l’art. 17, c. 30-ter, cit., dal momento che non de-termina l’estensione indiscriminata delle ipotesi in cui il danno all’immagine può essere risarcito. La relativa azione, infatti, può essere esercitata non già sempre e comunque, come prima dell’introduzione della norma, ma soltanto quando il giudice penale abbia emesso una sentenza irrevocabile di condanna per un delitto commesso “a danno” dell’amministrazione (31).

Si pone, allora, il problema di stabilire cosa debba intendersi con quest’ultima espressione, e quale ruolo la stessa abbia nella delimitazione dell’area della ri-sarcibilità del danno all’immagine.

Una prima soluzione interpretativa potrebbe consi-stere nel considerare “a danno” quei delitti nei quali il bene giuridico (32) tutelato afferisce all’amministrazione come persona giuridica, alla sua organizzazione o agli interessi alla cui cura essa è pre-posta: oltre ai delitti contro la pubblica amministra-zione, si potrebbero includere, di volta in volta, fatti-specie ricomprese tra i delitti contro la personalità del-lo Stato, contro l’amministrazione della giustizia, con-

(30) In assenza di una previsione come quella del c. 2

dell’art. 4, cit., invece, la natura fissa del rinvio avrebbe impli-cato la persistente efficacia della combinazione dell’art. 17, c. 30-ter, cit. con l’art. 7 della l. n. 97/2001, nonostante l’abrogazione di quest’ultimo.

(31) Nella sentenza in commento, la Corte costituzionale, come accennato, ha affermato che, nell’interpretazione del quadro normativo, il giudice a quo avrebbe dovuto prendere in considerazione “l’ambito operativo della delega conferita al Governo, come tracciato dall’art. 20 della l. 7 agosto 2015, n. 124”. In effetti, l’art. 20, cit. non contiene previsioni espresse circa la modifica dei presupposti per l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno all’immagine, il che potrebbe essere inteso come una volontà di confermare il quadro normativo esistente. Ad avviso di chi scrive, tuttavia, la nuova disciplina è sufficientemente chiara nell’esprimere la volontà di determina-re una modifica di tali presupposti, sicché la predetta mancata previsione, più che rilevare quale criterio ermeneutico, potreb-be essere presa in considerazione ai fini del rispetto, da parte del legislatore delegato, dei principi e dei criteri direttivi conte-nuti nella legge delega.

(32) Sul bene giuridico quale oggetto della tutela penale, v. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bolo-gna, Zanichelli, 2019, 8a ed., 4.

tro la fede pubblica, contro l’economia pubblica, con-tro il patrimonio (33), in materia tributaria e così via.

Si tratta di un criterio di selezione astratto, in quan-to, essenzialmente, incentrato sulla qualificazione del fatto compiuta dal giudice penale e sulla individuazio-ne del bene-interesse protetto dal reato accertato (34). Esso, per di più, oltre a scontare intuibili margini di opinabilità (a discapito delle esigenze di prevedibilità e di garanzia che la delimitazione dovrebbe soddisfa-re), rischia di escludere il risarcimento del danno all’immagine quando il bene giuridico non afferisce direttamente alla pubblica amministrazione, sebbene il fatto le abbia arrecato disdoro (35).

Una lettura alternativa potrebbe, invece, portare ad attribuire una valenza eterogenea agli elementi norma-tivi impiegati nella formulazione dell’art. 51, c. 7. Mentre la commissione di “delitti” e il suo accerta-mento con “sentenza irrevocabile di condanna” assu-merebbero rilievo ai fini della proposizione della do-manda, integrando, rispettivamente, i “casi” e i “mo-di” in cui, ai sensi dell’art. 17, c. 30-ter, cit., la stessa è consentita, il fatto che tali delitti siano stati commes-si “a danno” dell’amministrazione verrebbe in consi-derazione unicamente ai fini del merito della contro-versia. In altre parole, l’azione per il risarcimento del danno all’immagine potrebbe essere proposta ogni qual volta un dipendente pubblico sia stato condanna-to in via definitiva per un fatto costituente delitto (sia contro l’amministrazione, nel senso anzidetto, sia con-tro altri beni giuridici, restando esclusi i soli fatti con-travvenzionali). Verificati questi presupposti di pro-ponibilità della domanda, il giudice dovrebbe accerta-re, nel merito, se il fatto oggetto della condanna pena-le sia stato commesso “a danno” dell’amministrazione, ossia se abbia effettivamente pregiudicato l’immagine di quest’ultima (36). Così inteso, il riferimento al “danno”, apparentemente pleonastico, avrebbe l’effetto di ribadire il principio che il pregiudizio all’immagine dell’amministrazione dev’essere provato nella sua effettiva sussistenza (37).

(33) V., ad esempio, gli artt. 640, c. 2, n. 1, e 640-bis c.p.

(34) Per una nozione, per l’appunto, astratta di “delitti […] a danno” sembra propendere la Corte costituzionale allorché, nella sentenza in commento, censura come tautologica l’affermazione che, nel giudizio a quo, tale presupposto sareb-be sussistito in quanto il delitto oggetto di imputazione avrebbe danneggiato l’immagine della Polizia di Stato.

(35) È il caso oggetto del giudizio di merito in cui erano state sollevate le questioni dichiarate inammissibili dalla sen-tenza in commento, nel quale il convenuto era stato condannato per il delitto di violenza privata di cui all’art. 610 c.p., e dunque per un delitto contro la persona.

(36) È ovvio che una siffatta, duplice valutazione dev’essere compiuta, prima ancora, dal pubblico ministero, al fine di stabilire se la domanda di risarcimento del danno all’immagine possa essere utilmente proposta.

(37) V., ad esempio, Corte conti, Sez. giur. reg. Toscana, 21 giugno 2012, n. 332, in questa Rivista, 2012, fasc. 3, 393. Resta salvo il ricorso, per la liquidazione del risarcimento

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Quest’ultima interpretazione, da un lato, permette di ritenere assolta in modo adeguato la funzione, pro-pria dell’art. 17, c. 30-ter, cit. di circoscrivere i casi di risarcibilità del pregiudizio in questione, pur sempre limitati alle sole condotte delittuose sanzionate in via definitiva dal giudice penale. Dall’altro, consente di risolvere il paradosso di ammettere, o meno, l’azione risarcitoria a seconda della tipologia di reato, con le incongruenze più volte rappresentate dalla Corte dei conti nelle ordinanze di rimessione alla Corte costitu-zionale (38).

5. Considerazioni conclusive

Sebbene non sia possibile, evidentemente, formu-lare una previsione circa l’indirizzo che il giudice del-le leggi assumerà in futuro, la sentenza n. 191/2019 ha enucleato in modo sufficientemente chiaro gli snodi interpretativi (la sopravvivenza della delimitazione di cui all’art. 7 della l. n. 97/2001; il concetto di “delitti commessi a danno” dell’amministrazione) sui quali i giudici di merito dovranno soffermarsi per superare il vaglio di ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale che intenderanno proporre in relazione alle norme che, nella vigenza del d.lgs. n. 174/2016, disciplinano i presupposti per l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno all’immagine.

Si tratta di profili che, come si è visto, non hanno ancora trovato una soluzione univoca nella giurispru-denza della Corte dei conti, dal cui orientamento di-pende il riconoscimento, o meno, della portata innova-tiva del codice sul punto, e dunque l’allargamento o la conferma, rispetto al quadro normativo anteriore, del novero delle condotte criminose in presenza delle qua-li detta azione può essere proposta.

Ove dovesse consolidarsi la tesi dell’ampliamento, potrebbero ritenersi superati, per buona parte, i profili di contraddittorietà che conseguivano all’applicazione della normativa previgente, sulla quale la Corte costi-tuzionale, com’è esemplificato dall’ord. n. 167/2019, ha, sino a oggi, espresso un giudizio di non manifesta irragionevolezza.

ARTURO IADECOLA

(quantum debeatur), alla presunzione di cui all’art. 1, c. 1-sexies, l. n. 20/1994 o all’equità.

(38) L’interpretazione dell’art. 51, c. 7, c.g.c. suggerita nel testo riguarda la norma nella sua funzione, conseguente al rin-vio da parte dell’art. 17, c. 30-ter, cit., di definizione dei pre-supposti per l’esercizio dell’azione di danno all’immagine. Ai diversi fini della disciplina della materia cui la norma diretta-mente si riferisce, ossia la comunicazione delle sentenze penali al Procuratore regionale della Corte dei conti, essa si presta a essere intesa nel senso che il giudice ordinario, una volta so-pravvenuta l’irrevocabilità della condanna pronunciata nei con-fronti di un pubblico dipendente per un fatto costituente delitto, deve fare una valutazione sommaria circa le ripercussioni pre-giudizievoli, anche potenziali, dello stesso sul patrimonio o sull’immagine dell’amministrazione (che ravviserà, verosimil-mente, pressoché tutte le volte in cui il delitto sia stato com-messo dal dipendente nell’esercizio, o avvalendosi, delle fun-zioni pubbliche ricoperte).

197 – Corte costituzionale; sentenza 24 luglio 2019; Pres. Lattanzi, Est. Carosi; Presidente del Consiglio dei ministri c. Regione Siciliana.

Contabilità regionale e degli enti locali – Bilancio regionale – Cespiti non sorretti da idoneo titolo giuridico – Iscrizione nelle “entrate” – Normativa regionale autorizzativa – Illegittimità costituziona-le. Cost., artt. 81, 117, 119; l. reg. Siciliana 8 maggio 2018, n. 8, disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2018. Legge di stabilità regionale, artt. 31, cc. 4, 5, 34, 35, 45, 99, cc. 2-17, 25.

Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 34 e 35 l. reg. Siciliana n. 8/2018, che autorizzano il diparti-mento regionale delle infrastrutture, della mobilità e dei trasporti ad iscrivere nelle “entrate” del bilancio alcuni cespiti non sorretti da un idoneo titolo giuridi-co, posto che le risorse stanziate in entrata devono essere congrue e attendibili, poiché dalla loro effetti-va realizzazione dipende la tutela dell’equilibrio il cui canone costituzionale dell’art. 81, c. 3, Cost. “opera direttamente, a prescindere dall’esistenza di norme interposte”.

Considerato in diritto – 1. Con il ricorso indicato in epigrafe il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, tra le altre, questioni di legittimità costitu-zionale degli artt. 31, cc. 4 e 5; 34, 35, 45 e 99, cc. 2-17 e 25, l. reg. Siciliana 8 maggio 2018, n. 8, recante “Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2018. Legge di stabilità regionale”, in riferimento agli artt. 81, c. 3, 117, cc. 2, lett. m), e 3, e 119 Cost.

2. Le questioni in esame risultano in parte fondate e in parte meritevoli di apposita istruttoria finalizzata ad acquisire elementi indispensabili ai fini della deci-sione.

3. Per quel che concerne l’art. 31, cc. 4 e 5, alla lu-ce dei contrastanti argomenti sviluppati dalle parti e della mancata ostensione degli elementi indefettibili previsti dall’art. 20 d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118 (Di-sposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli artt. 1 e 2 l. 5 maggio 2009, n. 42), sussiste il dubbio che le disposizioni impugnate non siano conformi ai parame-tri evocati e che comunque non sia assicurato neppure da parte dello Stato l’integrale finanziamento dei livel-li essenziali delle prestazioni sanitarie.

3.1. Le questioni promosse dallo Stato sono, infat-ti, intrinsecamente collegate alla concreta disciplina delle relazioni finanziarie fra Stato e regione e in par-ticolare alla dimensione della retrocessione delle acci-se, la quale – secondo le difese della regione – do-vrebbe contribuire al finanziamento della sanità regio-nale.

Questa Corte ha già affermato che “la trasversalità e la primazia della tutela sanitaria rispetto agli interes-si sottesi ai conflitti Stato-regioni in tema di compe-

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tenza legislativa, impongono una visione teleologica e sinergica della dialettica finanziaria tra questi soggetti, in quanto coinvolgente l’erogazione di prestazioni ri-conducibili al vincolo di cui all’art. 117, c. 2, lett. m), Cost. [e che] che la determinazione dei Lea è un ob-bligo del legislatore statale, ma che la sua proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessa-riamente le regioni, per cui la fisiologica dialettica tra questi soggetti deve essere improntata alla leale colla-borazione che, nel caso di specie, si colora della dove-rosa cooperazione per assicurare il migliore servizio alla collettività. Da ciò consegue che la separazione e l’evidenziazione dei costi dei livelli essenziali di assi-stenza devono essere simmetricamente attuate, oltre che nel bilancio dello Stato, anche nei bilanci regiona-li e in quelli delle aziende erogatrici secondo la diret-tiva contenuta nel citato art. 8, c. 1, l. n. 42/2009. In definitiva, la dialettica tra Stato e regioni sul finan-ziamento dei Lea dovrebbe consistere in un leale con-fronto sui fabbisogni e sui costi che incidono sulla spesa costituzionalmente necessaria, tenendo conto della disciplina e della dimensione della fiscalità terri-toriale nonché dell’intreccio di competenze statali e regionali in questo delicato ambito materiale” (sent. n. 169/2017).

3.2. Tali principi sono specificati nell’art. 20 d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle regioni, degli enti locali e dei loro orga-nismi, a norma degli artt. 1 e 2 l. 5 maggio 2009, n. 42), il quale stabilisce condizioni indefettibili nella individuazione e allocazione delle risorse inerenti ai livelli essenziali delle prestazioni. Recita infatti detta norma: “1. Nell’ambito del bilancio regionale le re-gioni garantiscono un’esatta perimetrazione delle en-trate e delle uscite relative al finanziamento del pro-prio servizio sanitario regionale, al fine di consentire la confrontabilità immediata fra le entrate e le spese sanitarie iscritte nel bilancio regionale e le risorse in-dicate negli atti di determinazione del fabbisogno sa-nitario regionale standard e di individuazione delle correlate fonti di finanziamento, nonché un’agevole verifica delle ulteriori risorse rese disponibili dalle re-gioni per il finanziamento del medesimo servizio sani-tario regionale per l’esercizio in corso. A tal fine le regioni adottano un’articolazione in capitoli tale da garantire, sia nella sezione dell’entrata che nella se-zione della spesa, ivi compresa l’eventuale movimen-tazione di partite di giro, separata evidenza delle se-guenti grandezze:

A) Entrate: a) finanziamento sanitario ordinario corrente quale derivante dalle fonti di finanziamento definite nell’atto formale di determinazione del fabbi-sogno sanitario regionale standard e di individuazione delle relative fonti di finanziamento intercettate dall’ente regionale, ivi compresa la mobilità attiva programmata per l’esercizio; b) finanziamento sanita-rio aggiuntivo corrente, quale derivante dagli eventua-li atti regionali di incremento di aliquote fiscali per il finanziamento della sanità regionale, dagli automati-

smi fiscali intervenuti ai sensi della vigente legislazio-ne in materia di copertura dei disavanzi sanitari, da altri atti di finanziamento regionale aggiuntivo, ivi compresi quelli di erogazione dei livelli di assistenza superiori rispetto ai Lea, da pay back e da iscrizione volontaria al Servizio sanitario nazionale; c) finan-ziamento regionale del disavanzo sanitario pregresso; d) finanziamento per investimenti in ambito sanitario, con separata evidenza degli interventi per l’edilizia sanitaria finanziati ai sensi dell’art. 20, l. n. 67/1988;

B) Spesa: a) spesa sanitaria corrente per il finan-ziamento dei Lea, ivi compresa la mobilità passiva programmata per l’esercizio e il pay back; b) spesa sanitaria aggiuntiva per il finanziamento di livelli di assistenza sanitaria superiori ai Lea; c) spesa sanitaria per il finanziamento di disavanzo sanitario pregresso; d) spesa per investimenti in ambito sanitario, con se-parata evidenza degli interventi per l’edilizia sanitaria finanziati ai sensi dell’art. 20, l. n. 67/1988.

2. Per garantire effettività al finanziamento dei li-velli di assistenza sanitaria, le regioni: a) accertano ed impegnano nel corso dell’esercizio l’intero importo corrispondente al finanziamento sanitario corrente […].

2-bis. I gettiti derivanti dalle manovre fiscali re-gionali e destinati al finanziamento del Servizio sani-tario regionale sono iscritti nel bilancio regionale nell’esercizio di competenza dei tributi.

2-ter. La quota dei gettiti derivanti dalle manovre fiscali regionali destinata obbligatoriamente al finan-ziamento del Servizio sanitario regionale, ai sensi del-la legislazione vigente sui piani di rientro dai disavan-zi sanitari, è iscritta nel bilancio regionale triennale, nell’esercizio di competenza dei tributi”.

3.3. Dunque la situazione emergente dagli atti di causa rende necessario che le parti dimostrino il ri-spetto dell’art. 20 d.lgs. n. 118/2011, alla cui attuazio-ne cooperano sia lo Stato sia la regione stessa, e forni-scano la prova dell’integrale finanziamento dei Lea, di cui l’avvenuta retrocessione delle quote di accise o l’attribuzione di altro cespite nella misura di legge do-vuta dallo Stato dovrebbe essere parte integrante, non-ché del rispetto dei vincoli di destinazione, che la vi-gente normativa impone per il finanziamento dei livel-li essenziali.

4. Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 35 l. reg. Siciliana n. 8/2018, promosse in riferimento all’art. 81, c. 3, Cost., sono fondate. L’art. 34 l. reg. Siciliana n. 8/2018 stabilisce che “il diparti-mento regionale delle infrastrutture, della mobilità e dei trasporti è autorizzato ad accertare in entrata sul bilancio regionale le somme dei contributi pubblici sui finanziamenti di cui alla l. reg. 20 dicembre 1975, n. 79 per 6.600 migliaia di euro”.

L’art. 35 della medesima legge regionale dispone che lo stesso dipartimento “è autorizzato ad accertare in entrata sul bilancio regionale le somme dei contri-buti pubblici sui finanziamenti di cui alla l. reg. 25 marzo 1986, n. 15 per 1.450 migliaia di euro”.

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Il ricorrente lamenta che le autorizzazioni all’accertamento in bilancio dei predetti contributi pubblici, disciplinate con le disposizioni impugnate, sarebbero apodittiche, generiche e prive del presuppo-sto giuridico, trattandosi di norme risalenti, che, in corso di anno e a distanza di tanto tempo dalla loro emanazione, non potrebbero verosimilmente generare entrate nella misura determinata a priori dal legislato-re regionale.

La censura è fondata; è costante, infatti, l’orientamento di questa Corte secondo cui le risorse stanziate in entrata devono essere congrue e attendibi-li, poiché dalla loro effettiva realizzazione dipende la tutela dell’equilibrio il cui canone costituzionale dell’art. 81, c. 3, Cost., “opera direttamente, a prescin-dere dall’esistenza di norme interposte” (ex plurimis, sent. n. 26/2013).

4.1. Nel caso di specie esistono peraltro disposi-zioni puntualmente attuative del precetto costituziona-le.

L’art. 53, cc. 1 e 2, d.lgs. n. 118/2011 disciplina analiticamente le modalità dell’accertamento: “1. Tut-te le obbligazioni giuridicamente perfezionate attive, da cui derivano entrate per la regione, devono essere registrate nelle scritture contabili quando l’obbligazione è perfezionata, con imputazione all’esercizio in cui l’obbligazione viene a scadenza, secondo le modalità previste dal principio applicato della contabilità finanziaria di cui all’allegato n. 4/2. Le entrate sono registrate nelle scritture contabili an-che se non determinano movimenti di cassa effettivi.

2. L’accertamento costituisce la prima fase della gestione dell’entrata con la quale il funzionario com-petente, sulla base di idonea documentazione verifica la ragione del credito e la sussistenza di un idoneo ti-tolo giuridico che dà luogo all’obbligazione attiva giu-ridicamente perfezionata, individua il debitore, quanti-fica la somma da incassare, individua la relativa sca-denza, e registra il diritto di credito imputandolo con-tabilmente all’esercizio finanziario nel quale viene a scadenza.

Non possono essere riferite ad un determinato esercizio finanziario le entrate il cui diritto di credito non venga a scadenza nello stesso esercizio finanzia-rio. È vietato l’accertamento attuale di entrate future”.

Tali disposizioni illustrano analiticamente le regole finalizzate alla corretta redazione della parte entrata del bilancio. Si tratta di operazioni indefettibili per po-ter iscrivere in bilancio una somma, cui automatica-mente è correlata la dimensione della spesa. Esse co-stituiscono una declinazione specifica dei principi di prudenza, veridicità, attendibilità e chiarezza – princi-pi contabili generali contenuti nell’all. 1 richiamato dall’art. 38-bis, c. 3, l. 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica) nella sua vi-gente formulazione – che consente di considerare va-lida una partita attiva solo in presenza di un titolo giu-ridico appropriato e di una stima credibile.

La violazione di tale regola virtuosa comporta ine-vitabilmente la mancata copertura di una parte della

spesa per effetto dell’iscrizione invalida nel bilancio della posta attiva non attendibilmente stimata. E come già più volte evidenziato da questa Corte, difetto di copertura e pregiudizio dell’equilibrio del bilancio so-no facce della stessa medaglia, tenuto conto che la predetta irregolarità della parte entrata consente una dimensione di spesa altrimenti non sostenibile, con inevitabile riverbero sul successivo risultato di ammi-nistrazione che viene a peggiorare in misura pari all’entrata non realizzabile.

Nella fattispecie in esame, il legislatore regionale, anziché rimettere alla fisiologica procedura di stima dell’entrata la determinazione delle risorse realizzabi-li, impone a un proprio dipartimento di accertarle au-tomaticamente e, per di più, con riferimento a due leggi regionali risalenti nel tempo e indefinite per quel che concerne l’individuazione dei settori dai quali de-riverebbero tali risorse.

4.2. Non possono essere accolte le eccezioni della Regione Siciliana, la quale sostiene che: a) le somme relative all’impugnato art. 34, di euro 3.217.091,06 e di euro 3.405.477,56, accertate in entrata del bilancio della Regione Siciliana con i decreti del dirigente ge-nerale nn. 898 e 957/2018, sarebbero correttamente iscritte, in quanto “derivanti dal recupero, avviato con le banche, relative agli anni pregressi di quote di con-tributi già erogati, ma trattenute dalle banche a seguito di estinzioni anticipate o revoche dagli accollatari, re-lative a programmi costruttivi di edilizia agevolata, derivanti dalla liquidazione dei contributi pubblici sui finanziamenti di cui alla l. reg. n. 79/75 cap. 742802 e che verranno contabilizzate entro il corrente anno”; b) la somma relativa al successivo art. 35, di euro 1.536.118,60, accertata in entrata del bilancio della Regione Siciliana con il decreto del dirigente del ser-vizio n. 1098/2018, deriverebbe “dal recupero, avviato con la banca Unicredit, relativo agli anni pregressi di tutte le somme incassate per interessi, rate di ammor-tamento ed interessi moratori, rimborsi anticipati ope-rati dai mutuatari e procedure esecutive, relativi ai mutui fondiari della l. reg. n. 15/1986”.

Tali argomentazioni confermano che le pretese maggiori entrate si fondano sul mero avvio di proce-dure di recupero nei confronti degli istituti di credito relativamente a partite pregresse e notevolmente risa-lenti nel tempo, in relazione alle quali non può parlarsi di obbligazione attiva perfezionata, ma addirittura pre-sumersi la probabile mancata realizzazione. Come è già stato affermato da questa Corte, “la loro contabi-lizzazione in entrata amplia artificiosamente le risorse disponibili consentendo spese oltre il limite del natu-rale equilibrio ed esonera, per di più, l’amministrazione dal porre doveroso rimedio al disa-vanzo effettivo oscurato dall’eccentrica operazione contabile. Ne deriva, tra l’altro, la mancata copertura delle spese per l’insussistenza dei cespiti in entrata e il conseguente squilibrio del bilancio di competenza, con conseguente aggravio per i risultati di ammini-strazione negativi provenienti dai precedenti esercizi” (sent. n. 274/2017). E, in effetti, è la correlazione tra

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la parte dell’entrata e quella della spesa a rendere in-defettibile l’indicazione dei mezzi necessari per fron-teggiare le spese di esercizio e assicurare “una visione globale del bilancio, nel quale tutte le spese si con-frontano con tutte le entrate [così da assicurare] il mantenimento dell’equilibrio complessivo del bilancio presente e di quelli futuri, senza pretendere di spez-zarne l’unità” (sent. n. 1/1966).

Come questa Corte ha più volte sottolineato, la co-pertura finanziaria delle spese deve indefettibilmente avere un fondamento giuridico, dal momento che, di-versamente opinando, sarebbe sufficiente inserire qualsiasi numero nella parte attiva del bilancio per realizzare nuove o maggiori spese. Si è già rilevato, in precedenza, che «copertura economica delle spese ed equilibrio del bilancio sono due facce della stessa me-daglia, dal momento che l’equilibrio presuppone che ogni intervento programmato sia sorretto dalla previa individuazione delle pertinenti risorse: nel sindacato di costituzionalità copertura finanziaria ed equilibrio integrano “una clausola generale in grado di operare pure in assenza di norme interposte quando l’antinomia [con le disposizioni impugnate] coinvolga direttamente il precetto costituzionale: infatti ‘la forza espansiva dell’art. 81, quarto [oggi terzo] comma, Cost., presidio degli equilibri di finanza pubblica, si sostanzia in una vera e propria clausola generale in grado di colpire tutti gli enunciati normativi causa di effetti perturbanti la sana gestione finanziaria e conta-bile’ (sent. n. 192/2012)” (sent. n. 184/2016)» (sent. n. 274/2017).

Peraltro, già in precedenza è stato ribadito che “l’art. 81, c. 4 [ora 3] Cost., pone il principio fonda-mentale della copertura delle spese, richiedendo la contestualità tanto dei presupposti che giustificano le previsioni di spesa quanto di quelli posti a fondamento delle previsioni di entrata necessarie per la copertura finanziaria delle prime” (sent. n. 213/2008).

4.3. Gli artt. 34 e 35 l. reg. Siciliana n. 8/2018 de-vono essere dunque dichiarati costituzionalmente ille-gittimi per contrasto con l’art. 81, c. 3, Cost. e con le norme che ne specificano l’applicazione al caso in esame.

5. Occorre ora esaminare le questioni afferenti all’art. 45 della legge regionale impugnata ma le op-poste posizioni delle parti possono essere correttamen-te valutate solo con l’approfondimento di alcuni ele-menti che la Regione Siciliana deduce ma non riesce – attraverso la documentazione prodotta – a provare compiutamente, in modo sufficiente a contrastare le censure di non corrispondenza dell’impugnato art. 45 ai parametri costituzionali di cui agli artt. 81, c. 3, e 117, c. 3, Cost. Per tale motivo si rende necessario che la Regione Siciliana fornisca chiarimenti e documen-tazione secondo l’allegata ordinanza istruttoria.

6. Infine, occorre esaminare le censure rivolte ai cc. 2, 3, 4, 5, 6, 8, 11, 12, 14, 15 e 25 dell’art. 99 della l. reg. Siciliana n. 8/2018.

Anche in questo caso in ordine alle contrapposte argomentazioni delle parti in causa, emerge l’esigenza di acquisire ulteriori elementi di conoscenza, essendo evidente che l’iscrizione in bilancio e la destinazione specifica dei fondi strutturali non possono avere solo “natura programmatoria” e devono essere comunque coerenti con la disciplina generale di tali fondi. In par-ticolare, non risulta indicato analiticamente il regime giuridico dei diversi fondi incisi dal mutamento di de-stinazione, di tal che non è possibile verificare se i nuovi obiettivi previsti del citato art. 99 siano compa-tibili con tale regime e, in quanto tali, perseguibili con le risorse afferenti a tali fondi.

Pertanto, anche in ordine a tali elementi si rende necessario ordinare incombenti alle parti, di indicare le ragioni che – a loro avviso – rendono compatibile o meno la disciplina giuridica delle risorse previste dalle norme impugnate con le nuove destinazioni e con il parametro di cui all’invocato art. 81, c. 3, Cost.

P.q.m., la Corte costituzionale riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legit-timità costituzionale promosse con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 34 e 35 l. reg. Siciliana 8 maggio 2018, n. 8, re-cante “Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2018. Legge di stabilità regionale”; dispone che, entro sessanta giorni dalla comunicazione, la Re-gione Siciliana e il Presidente del Consiglio dei mini-stri, anche per il tramite del Ministro dell’economia e delle finanze, forniscano informazioni e producano documenti secondo l’allegata ordinanza.

205 – Corte costituzionale; sentenza 25 luglio 2019; Pres. Lattanzi, Est. Carosi; Presidente del Consiglio dei ministri c. Regione Siciliana.

Contabilità regionale e degli enti locali – Legge re-gionale – Forniture ai consorzi e alle società d’ambito posti in liquidazione – Certificazione dei crediti vantati dalle imprese – Modalità operative di attuazione – Illegittimità costituzionale. Cost., art. 81; r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455, appro-vazione dello statuto della Regione Siciliana, artt. 14, 17; d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con mo-dificazioni dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, misure ur-genti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anticrisi il qua-dro strategico nazionale, art. 9, cc. 3-bis, 3-ter; l. reg. Siciliana 8 maggio 2018, n. 8, disposizioni program-matiche e correttive per l’anno 2018. Legge di stabili-tà regionale, art. 85; l. reg. Siciliana 10 luglio 2018, n. 10, disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2018. Legge di stabilità regionale. Stralcio I, art. 9, c. 6.

È costituzionalmente illegittimo l’art. 9, c. 6, l. reg. Siciliana n. 10/2018, che modifica l’art. 85 l. reg. Si-ciliana n. 8/2018 (relativo alle modalità operative di attuazione in materia di certificazione dei crediti van-tati dalle imprese che abbiano realizzato forniture ai

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consorzi e alle società d’ambito posti in liquidazione), in riferimento all’art. 117, c. 3, Cost. per violazione dei principi fondamentali in materia di “coordina-mento della finanza pubblica”, posti dagli artt. 3-bis e 3-ter d.l. n. 185/2008, sia in riferimento all’art. 81, c. 3, Cost. (in motivazione, la Corte sottolinea che “la disciplina statale salvaguarda inderogabili esigenze di carattere funzionale al fine di garantire l’unitarietà del sistema di finanza pubblica rispetto alla tutela di interessi di rilievo nazionale insuscettibili di frazio-namento anche quando riguardano situazioni in qual-che modo collegate all’esercizio dell’autonomia terri-toriale”).

Considerato in diritto – 1. Con il ricorso indicato in epigrafe il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, c. 6, l. reg. Siciliana 10 luglio 2018, n. 10 (Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2018. Legge di stabilità regionale. Stralcio I), in rife-rimento agli artt. 14 e 17 r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione Sici-liana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, all’art. 117, c. 3, Cost., in relazione all’art. 9, cc. 3-bis e 3-ter, d.l. 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, oc-cupazione e impresa e per ridisegnare in funzione an-ticrisi il quadro strategico nazionale), convertito con modificazioni dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, nonché in riferimento all’art. 81, c. 3, Cost.

L’art. 9, c. 6, l. reg. Siciliana n. 10/2018, rubricato “Modifiche alla l. reg. 8 maggio 2018, n. 8”, aggiunge all’art. 85 l. reg. Siciliana 8 maggio 2018, n. 8 (Dispo-sizioni programmatiche e correttive per l’anno 2018. Legge di stabilità regionale), il seguente comma: “1-bis. Gli enti di cui al c. 1 si iscrivono presso la piatta-forma elettronica per la certificazione dei crediti di cui all’art. 9 d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2”.

Pertanto, l’art. 85 (Certificazione dei crediti nei confronti dei Consorzi e delle società d’ambito poste in liquidazione), come modificato da tale aggiunta, così recita: “1. Per favorire lo smobilizzo di crediti vantati dalle imprese che abbiano realizzato forniture ai consorzi e alle società d’ambito posti in liquidazio-ne, ai sensi della l. reg. 8 aprile 2010, n. 9, in seguito alla presentazione dell’istanza di certificazione presso la piattaforma elettronica per la certificazione dei cre-diti, di cui all’art. 9 d.l. 29 novembre 2008, n. 185, i commissari liquidatori nominati ai sensi dell’art. 19 l. reg. 8 aprile 2010, n. 9 certificano i crediti, ai sensi dell’art. 1988 del codice civile, entro il termine di trenta giorni dalla data di ricezione dell’istanza.

1-bis. Gli enti di cui al c. 1 si iscrivono presso la piattaforma elettronica per la certificazione dei crediti di cui all’art. 9 d.l. 29 novembre 2008, n. 185, conver-tito con modificazioni dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2”.

Il Presidente del Consiglio dei ministri richiama la disciplina in materia di certificazione dei crediti vanta-ti dai fornitori delle pubbliche amministrazioni, che

avviene attualmente con modalità telematiche tramite la Piattaforma per i crediti commerciali (Pcc) gestita dalla Ragioneria generale dello Stato e regolata dall’art. 9 d.l. n. 185/2008.

Il ricorrente, in particolare, evidenzia che l’art. 9, cc. 3-bis e 3-ter, d.l. n. 185/2008, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 27, c. 2, lett. a), b), c) e d), d.l. 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito con modificazioni dalla l. 23 giugno 2014, n. 89, così di-spone: “3-bis. Su istanza del creditore di somme dovu-te per somministrazioni, forniture, appalti e prestazio-ni professionali, le pubbliche amministrazioni, di cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 certifica-no, nel rispetto delle disposizioni normative vigenti in materia di patto di stabilità interno, entro il termine di trenta giorni dalla data di ricezione dell’istanza, se il relativo credito sia certo, liquido ed esigibile, anche al fine di consentire al creditore la cessione pro soluto o pro solvendo a favore di banche o intermediari finan-ziari riconosciuti dalla legislazione vigente. Scaduto il predetto termine, su nuova istanza del creditore, è nominato un Commissario ad acta, con oneri a carico dell’ente debitore. La nomina è effettuata dall’ufficio centrale del bilancio competente per le certificazioni di pertinenza delle amministrazioni statali centrali, degli enti pubblici non economici nazionali e delle agenzie di cui al d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300; dalla Ragioneria territoriale dello Stato competente per ter-ritorio per le certificazioni di pertinenza delle altre amministrazioni. Ferma restando l’attivazione da parte del creditore dei poteri sostitutivi, il mancato rispetto dell’obbligo di certificazione o il diniego non motiva-to di certificazione, anche parziale, comporta a carico del dirigente responsabile l’applicazione delle sanzio-ni di cui all’art. 7, c. 2, d.l. 8 aprile 2013, n. 35, con-vertito con modificazioni dalla l. 6 giugno 2013, n. 64. La pubblica amministrazione di cui al primo periodo che risulti inadempiente non può procedere ad assun-zioni di personale o ricorrere all’indebitamento fino al permanere dell’inadempimento. La cessione dei credi-ti oggetto di certificazione avviene nel rispetto dell’art. 117 del codice di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163. Ferma restando l’efficacia liberatoria dei pa-gamenti eseguiti dal debitore ceduto, si applicano gli artt. 5, c. 1, e 7, c. 1, l. 21 febbraio 1991, n. 52. La cer-tificazione deve indicare obbligatoriamente la data prevista di pagamento. Le certificazioni già rilasciate senza data devono essere integrate a cura dell’amministrazione utilizzando la piattaforma elet-tronica di cui all’art. 7, c. 1, del citato d.l. n. 35/2013 con l’apposizione della data prevista per il pagamen-to”.

Espone il ricorrente che da tale “certificazione” te-lematica derivano molteplici conseguenze, quali, in particolare, la possibilità di cessione del credito e di compensare i crediti certificati con le somme dovute a seguito di iscrizione a ruolo di cartelle esattoriali, oltre alle altre funzionalità che le norme progressivamente intervenute hanno assegnato a tale sistema informati-

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co, come, ad esempio, la possibilità di controllare in tempo reale lo stato dei propri debiti distinto per sca-denza e per creditore – anche in caso di cessione, suc-cessione ereditaria, operazioni societarie – e la possi-bilità per il Ministero dell’economia e delle finanze di monitorare in modo continuo la formazione e l’estinzione dei debiti commerciali di tutte le pubbli-che amministrazioni; funzioni, queste ultime, partico-larmente importanti per la salvaguardia del rispetto degli equilibri finanziari e delle conseguenze medio tempore a carico del bilancio dello Stato.

In relazione a tale ultimo aspetto il Presidente del Consiglio dei ministri evidenzia gli effetti finanziari derivanti dalle somme anticipate ai creditori per conto delle pubbliche amministrazioni debitrici a mezzo del-la compensazione, specie laddove queste risultassero non recuperabili dallo Stato: in particolare, il divieto di rilascio di certificazioni a pena di nullità da parte degli enti locali commissariati e degli enti del servizio sanitario nazionale delle regioni sottoposte a piano di rientro dai disavanzi sanitari costituirebbe segno dell’attenzione posta dal legislatore agli equilibri di bilancio.

Ciò posto, secondo il ricorrente, l’inserimento da parte della norma regionale impugnata delle società d’ambito della Regione Siciliana in liquidazione tra i soggetti pubblici autorizzati a certificare i propri cre-diti, iscrivendosi nella citata piattaforma telematica, si porrebbe in contrasto con la disciplina statale, produ-cendo sia un’estensione soggettiva, in quanto tali so-cietà non potrebbero ritenersi appartenere alla catego-ria delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), sia un’estensione oggetti-va, disposta dalla successiva locuzione “per la certifi-cazione dei crediti di cui all’art. 9 d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2”, il cui c. 3-bis prevede che sono certificabili “le somme dovute per somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni professionali”, mentre l’art. 85, c. 1, l. reg. Siciliana n. 8/2018 indicava solo i “crediti vantati dalle imprese che abbiano realizzato forniture”.

In definitiva, per il ricorrente, la disposizione in esame violerebbe gli artt. 14 e 17 dello statuto reg. Si-ciliana e l’art. 117, c. 3, Cost., sotto il profilo del coordinamento della finanza pubblica, in relazione al-la norma interposta costituita dall’art. 9, cc. 3-bis e 3-ter, del citato d.l. n. 185/2008.

Sussisterebbe anche la violazione dello stesso principio della copertura finanziaria di cui all’art. 81, c. 3, Cost., essendo la norma impugnata “causa di ef-fetti perturbanti la sana gestione finanziaria e contabi-le” (sent. n. 184/2016).

2. Deve essere preliminarmente dichiarata l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Presi-dente del Consiglio in riferimento agli artt. 14 e 17 dello statuto speciale della Regione Siciliana per

l’assoluta carenza del percorso logico proposto dal ri-corrente.

3. Giova premettere, ai fini del sindacato di merito, brevi cenni sulla disciplina della certificazione dei crediti vantati dai fornitori di beni e servizi nei con-fronti delle amministrazioni pubbliche, introdotta ini-zialmente dal d.l. n. 185/2008, come convertito, e in seguito più volte modificata ed estesa a regioni ed enti locali.

In particolare, mette conto rammentare che il c. 3-ter, aggiunto all’art. 9 d.l. n. 185/2008 dall’art. 13, c. 1, l. 12 novembre 2011, n. 183, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2012)”, ha previsto che la certificazione non possa essere rilasciata, a pena di nullità: a) dagli enti locali commissariati ai sensi dell’art. 143 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo uni-co delle leggi sull’ordinamento degli enti locali); b) dalle regioni sottoposte ai piani di rientro dai deficit sanitari.

Inoltre, con l’art. 27, c. 2, lett. a), b), c) e d), d.l. n. 66/2014 sono state apportate ulteriori modifiche, e, in particolare, è stato ampliato l’ambito soggettivo delle amministrazioni tenute alla certificazione dei crediti, esteso a tutte le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. n. 165/2001.

Infine, l’art. 7, c. 1, d.l. 8 aprile 2013, n. 35 (Di-sposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio fi-nanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali), ha poi stabilito che ai fini della predetta certificazione le pubbliche amministrazioni debbano utilizzare unicamente la piattaforma elettronica istituita presso la Ragioneria generale dello Stato.

Per effetto dell’evoluzione di tale disciplina, è sta-to quindi consentito ai creditori delle pubbliche am-ministrazioni non solo di monetizzare i propri crediti, cedendoli pro soluto o pro solvendo agli istituti di credito o ai soggetti specializzati nel factoring, ma è stata altresì attribuita loro la facoltà di compensarli con le somme dovute dai medesimi in seguito all’iscrizione a ruolo di tributi (in tal senso dispone infatti l’art. 28-quater d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602, recante “Disposizioni sulla riscossione delle im-poste sul reddito”, introdotto dall’art. 31, c. 1-bis, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, recante “Misure urgenti in ma-teria di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122; ambito ulteriormente ampliato dall’art. 28-quinquies del medesimo d.p.r. n. 602/1973, inserito dall’art. 9, c. 1, d.l. n. 35/2013, co-me convertito, con il quale si è estesa la compensazio-ne anche a numerose ipotesi di procedure deflative del contenzioso tributario).

Inoltre, le certificazioni devono contenere l’indicazione della data dei pagamenti previsti e, ai sensi dell’art. 28-quater d.p.r. n. 602/1973, “qualora la regione, l’ente locale o l’ente del Servizio sanitario nazionale non versi all’agente della riscossione

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l’importo oggetto della certificazione entro sessanta giorni dal termine nella stessa indicato, l’agente della riscossione ne dà comunicazione ai Ministeri dell’interno e dell’economia e delle finanze e l’importo oggetto della certificazione è recuperato mediante riduzione delle somme dovute dallo Stato all’ente territoriale a qualsiasi titolo, incluse le quote dei fondi di riequilibrio o perequativi e le quote di get-tito relative alla compartecipazione a tributi erariali. Dai recuperi di cui al presente comma sono escluse le risorse destinate al finanziamento corrente del servizio sanitario nazionale. Nel caso in cui il recupero non sia stato possibile, l’agente della riscossione procede, sul-la base del ruolo emesso a carico del titolare del credi-to, alla riscossione coattiva secondo le disposizioni di cui al titolo II del presente decreto”.

4. Alla luce di tali premesse, la questione di legit-timità costituzionale dell’art. 9, c. 6, l. reg Siciliana n. 10/2018 è fondata sia in riferimento all’art. 117, c. 3, Cost. per violazione dei principi fondamentali in ma-teria di “coordinamento della finanza pubblica”, posti dagli artt. 3-bis e 3-ter d.l. n. 185/2008, sia in riferi-mento all’art. 81, c. 3, Cost.

La richiamata disciplina statale, nell’esercizio della potestà concorrente in materia di “coordinamento del-la finanza pubblica”, ha introdotto disposizioni affe-renti a tutte le pubbliche amministrazioni con lo scopo di uniformare l’ambito soggettivo e oggettivo di ap-plicazione della citata certificazione dei crediti, del procedimento di certificazione e del recupero degli importi assoggettati a compensazione. Si tratta di am-biti aventi un rilevante impatto sulla finanza pubblica allargata, a carico della quale inducono oneri diretti e indiretti. Tra questi effetti, in termini di onerosità, è necessario sottolineare la facoltà per i creditori di compensare i crediti commerciali con le somme dovu-te all’erario per imposte e tasse.

A ben vedere la disciplina statale salvaguarda inde-rogabili esigenze di carattere funzionale al fine di ga-rantire l’unitarietà del sistema di finanza pubblica ri-spetto alla tutela di interessi di rilievo nazionale insu-scettibili di frazionamento anche quando riguardano situazioni in qualche modo collegate all’esercizio dell’autonomia territoriale.

Nella fattispecie in esame il legislatore regionale, intromettendosi nella perimetrazione soggettiva ed oggettiva della certificazione precedentemente descrit-ta, viene a differenziare il proprio ambito territoriale attraverso l’esercizio di una prerogativa che gli è pre-clusa.

È utile ricordare che la disciplina statale della cer-tificazione, oltre ad assicurare fondamentali interessi riconducibili alla finanza pubblica allargata, è funzio-nale anche alla salvaguardia della certezza dei traffici giuridici.

Infatti, un sistema unitario e strutturato in modo da precludere l’accesso di soggetti insolventi o di dubbia solvibilità risponde agli interessi di tutti gli operatori economici, non solo dello Stato nella veste di garante dell’equilibrio della finanza pubblica allargata. È es-

senziale che chiunque intenda negoziare titoli afferenti ad un credito verso un soggetto pubblico possa conta-re sull’elevato grado di attendibilità di dati – certifica-tivi della sua esistenza e della sua solvibilità – risul-tanti da un registro telematico unico e uniforme.

Dunque, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, c. 6, l. reg. Siciliana n. 10/2018 deve trova-re accoglimento in riferimento ai parametri preceden-temente evidenziati.

P.q.m., la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, c. 6, l. reg. Si-ciliana 10 luglio 2018, n. 10 (Disposizioni program-matiche e correttive per l’anno 2018. Legge di stabili-tà regionale. Stralcio I); dichiara inammissibili le que-stioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, c. 6, l. reg. Siciliana n. 10/2018, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 14 e 17 r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione Siciliana), con il ricorso indicato in epigrafe.

* * *

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CORTE DI CASSAZIONE

21166 – Corte di cassazione, Sezione VI penale; sen-

tenza 15 maggio 2019; Pres. Fidelbo, Est. Aprile,

P.M. De Masellis (concl. conf.); M. c. App. Roma.

Annulla senza rinvio App. Roma, 13 giugno 2018.

Reati contro la pubblica amministrazione – Comu-ne – Sindaco – Spese di rappresentanza dell’ente – Incompleta giustificazione contabile – Peculato – Esclusione. Cost., art. 25, c. 7; Cedu, art. 7, par. 1; c.p., art. 314.

Non è configurabile il delitto di peculato nel caso di inadeguatezza o incompletezza dei giustificativi contabili relativi a spese di rappresentanza del Co-mune, che non permettano di riferire gli esborsi a fi-nalità istituzionali dell’ente, gravando sull’accusa l’onere della prova dell’appropriazione del denaro pubblico e della sua destinazione a finalità privatisti-che. (1)

Ritenuto in fatto – Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Roma, in parziale accoglimento dell’impugnazione del pubblico ministero, riformava la pronuncia assolutoria di primo grado emessa il 7 ottobre 2016 dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale della medesima città e condannava M. in re-lazione al reato di cui agli artt. 81 e 314 c.p., ascritto-gli al capo a) (con esclusione di quattro degli episodi ivi elencati), e a quello di cui agli artt. 61, n. 2, 81, 110, 476 e 479 c.p., contestatogli al capo b) della ru-brica, per avere, nella sua qualità di sindaco di Omis-sis, tra l’agosto del 2013 e il giugno del 2015, in cin-quantadue occasioni utilizzato la carta di credito con-cessagli in dotazione dall’amministrazione comunale, per acquistare servizi di ristorazione, così approprian-dosi delle relative dotazioni finanziarie dell’ente: in particolare impiegando indebitamente quello strumen-to di pagamento per saldare il conto di cene consuma-te presso vari ristoranti di Omissis e di altre città, dove si era recato con commensali al di fuori delle funzioni di rappresentanza dell’ente, cagionando un ammanco stimato in circa 12.116 euro; nonché per avere, in date successive e prossime a quelle delle cene, impartito disposizioni affinché i suoi collaboratori formassero false dichiarazioni giustificative di quelle spese, inse-rendovi indicazioni non veritiere finalizzate ad accre-ditare la presunta natura “istituzionale” di ciascun evento, apponendo in calce la sua firma o inducendo addetti della sua segreteria ad apporvi una sottoscri-zione apocrifa.

La Corte territoriale rilevava come non fossero condivisibili gli argomenti posti dal giudice di primo grado a fondamento della decisione di proscioglimen-to dell’imputato in quanto le emergenze processuali avevano dimostrato l’assenza di finalità pubblicistiche

(1) Massima ufficiale.

di rappresentanza istituzionale per le cinquantadue oc-casioni di cene in ristoranti, meglio individuate in mo-tivazione: riunioni conviviali che avevano avuto scopi diversi da quelli appena considerati, come era possibi-le desumere dalla genericità delle indicazioni contenu-te nei documenti giustificativi delle singole spese, dal-le indeterminate annotazioni di supporto riportate nell’agenda ufficiale del sindaco, e dalla mancata al-legazione da parte dello stesso imputato di elementi “individualizzanti” per ciascuna spesa, cioè di dati che potessero permette di identificare le persone che ave-vano consumato quelle cene in compagnia del M.; emergenze che avevano dimostrato la fondatezza dell’ipotesi accusatoria con riferimento agli illeciti contro la fede pubblica, pure oggetto di addebito.

2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l’imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto cinque motivi.

2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 314 c.p.; 25, c. 2, Cost.; 7, par. 1, Cedu, e vizio di motiva-zione, relativamente al profilo dell’individuazione e della interpretazione della norma integratrice del pre-cetto penale, per avere la Corte di appello condannato l’imputato con riferimento al delitto di peculato, attra-verso una errata ovvero “evanescente” ricostruzione del concetto di “spesa di rappresentanza”, elemento integrante il precetto penale, definito con modalità tali da trasformare quella contestata in una fattispecie in-criminatrice manifestamente indeterminata, lesiva del principio costituzionale di tassatività e di quello con-venzionale di prevedibilità della sanzione penale; nonché per avere la Corte distrettuale omesso di ar-gomentare le ragioni per le quali aveva disatteso, da un lato, la sollecitazione formulata, sul punto, dalla difesa con una ‘memoria di replica’ all’impugnazione proposta dal pubblico ministero contro la sentenza as-solutoria di primo grado; da altro lato, per avere man-cato di replicare al rilievo, pure evidenziato con quella memoria, sull’importanza che il giudice di prime cure aveva dato alla circostanza del triplice controllo che altri organi comunali (l’ufficio del cerimoniale e la ragioneria generale) e la Corte dei conti avevano ope-rato sulla documentazione giustificativa di quelle spe-se, ritenendo implicitamente irrilevante la mancata in-dicazione delle generalità dei commensali del sindaco, valorizzata, invece, dalla Corte di appello contra reum: così finendo per trasformare il reato contestato, che incentra l’offensività nella condotta appropriativa, in una fattispecie di pericolo astratto, punendo l’agente per il mancato rispetto di regole di redazione dei giustificativi di spesa, e disattendendo quel criterio di prevedibilità del dettato normativo sanzionatorio che, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, è richiesto dall’art. 7 Cedu perché “l’indeterminatezza del divieto è tale che impedi(va) la stessa conoscibilità del precetto da parte del destinatario”.

2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 24 e 27, c. 2, Cost.; 326 e 358 c.p.p., e vizio di motivazio-ne, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogi-cità, per avere la Corte omissis riformato la sentenza

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di primo grado violando il principio generale secondo cui l’onere di provare l’esistenza degli elementi costi-tutivi del fatto di reato incombe sulla pubblica accusa, dunque per aver condannato l’imputato in assenza di prova di una reale attività appropriativa (non essendo stata dimostrata con certezza la connotazione privati-stica delle spese), che costituisce elemento essenziale del peculato, in presenza, invece, di un ragionevole dubbio sulla connotazione pubblicistica delle spese sostenute (dovendosi ritenere emblematico che la Cor-te di merito avesse sottolineato, con riferimento a cia-scun episodio contestato, che “nulla di specifico (era) stato aggiunto ad integrazione e chiarimenti dall’imputato”); ed ancora, per avere la Corte territo-riale omesso di motivare la esistenza della offensività della condotta, quanto meno in termini di alterazione del buon andamento della pubblica amministrazione, anche tenuto conto che il M. aveva restituito al comu-ne un importo pari alle somme utilizzate per pagare quelle cene; nonché per non avere il pubblico ministe-ro osservato il principio della completezza delle inda-gini, sul presupposto che ulteriori approfondimenti in-vestigativi non fossero possibili, laddove, invece, altre indagini ben sarebbe stato possibile effettuare, ad esempio con riferimento all’episodio della cena a Omissis, riportato al n. 2 dell’elenco contenuta nel ca-po a) dell’imputazione), o agli episodi delle cene di cui ai nn. 14 e 26 di quell’elenco: e, perciò, per avere la Corte di appello violato, con la sua decisione, il di-ritto di difesa del prevenuto.

2.3. Violazione di legge, in relazione agli artt. 192, 533 e 546, c. 1, lett. e), c.p.p.; 27, c. 2, e 111, c. 2, Cost.; 6, par. 2 e 3, lett. d), Cedu, e vizio di motiva-zione, per avere la Corte laziale riformato in peius la pronuncia assolutoria di primo grado senza provvede-re alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, mentre avrebbe dovuto procedere alla rias-sunzione delle prove dichiarative decisive acquisite nel precedente giudizio: in particolare, dell’esame dell’imputato, non potendosi considerare sufficienti le dichiarazioni spontanee da questi rese in secondo gra-do, nonché dell’esame dei funzionari comunali già sentiti nel primo grado, in specie dei testi F.P. e G.B., le cui deposizione erano state poi svalutate dai giudici di merito; nonché per avere la Corte omissis seguito percorsi logico-deduttivi basati su fallaci massime di esperienza oppure su dati fattuali non riscontrabili (come l’aver affermato che era inimmaginabile che il sindaco M. potesse aver rivolto ai commensali inviti informali e ‘in giornata’; o che non avesse altre anno-tazioni da cui poter ricavare i dati anagrafici dei suoi invitati, senza aver tenuto conto che si trattava di nu-merosi eventi, verificatisi molti anni prima rispetto allo svolgimento del processo), dunque per avere for-mulato una motivazione priva di quel carattere ‘raf-forzato’ necessario per poter travolgere l’apparato ar-gomentativo della prima sentenza assolutoria, nella quale era stato più volte affermata la mancata acquisi-zione di una prova certa in ordine alle finalità privati-stiche di quelle cene.

2.4. Violazione di legge, in relazione agli artt. 42, 43 e 314 c.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte territoriale omesso di giustificare, pur in presen-za di rilevi critici difensivi, le ragioni concernenti l’esistenza del richiesto elemento psicologico del reato di peculato: tanto più che i dati informativi acquisiti (in specie il fatto che la carta di credito fosse stata consegnata dal responsabile della ragioneria comunale senza alcuna spiegazione in ordine alle relative moda-lità di impiego) e le particolari concrete circostanze della vicenda ben potevano indurre a ritenere che il sindaco M. avesse agito sulla base di un errore scusa-bile, per avere ritenuto che quelle da lui sostenute fos-sero spese di rappresentanza, perché riconducibili a eventi o situazioni lato sensu di rilevanza pubblica, pur non essendo tali sotto l’aspetto oggettivo.

2.5. Violazione di legge, in relazione agli artt. 533 c.p.p., 476 e 479 c.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte di appello condannato l’imputato con riferimento al reato continuato ascrittogli al capo b), ritenendo la sussistenza di un concorso formale tra falsi ideologici e falsi materiali, che sono tra loro in-compatibili ovvero alternativi: concorso rappresentato, oltre che in maniera dubitativa, anche in maniera illo-gica con riferimento a documenti, i c.d. ‘giustificativi di spesa’, che sarebbero affetti da falsità materiale per le firme apocrife e da falsità ideologica per la non ve-ridicità delle indicazioni negli stessi contenute, senza che risulti chiarito in cosa fosse consistito il concorso morale del M. e senza che fosse stata motivata l’esistenza del richiesto elemento psicologico rispetto a tali illeciti.

Considerato in diritto – 1. Il ricorso presentato nell’interesse di M. va accolto, in quanto fondato è il terzo motivo del ricorso che giustifica l’annullamento senza rinvio.

2. Benché nell’atto di impugnazione la difesa non abbia fatto espressamente riferimento alla norma co-dicistica, ma ai correlati principi enunciati da questa Corte, pure in epoca precedente all’entrata in vigore di quella disposizione, non vi è dubbio che la censura dedotta con tale motivo del ricorso abbia ad oggetto l’applicazione dell’art. 603, c. 3-bis, c.p.p., che, intro-dotto, come noto, dall’art. 1, c. 58, l. n. 103/2017 per codificare quei principi di fonte giurisprudenziale, prevede che “nel caso di appello del pubblico ministe-ro contro la sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibat-timentale”.

Alla operatività nel caso di specie di tale disposi-zione non è di ostacolo la circostanza che la sentenza di primo grado venne emessa il 7 ottobre 2016, dun-que prima del 3 agosto 2017, data di entrata in vigore della anzidetta l. n. 103/2017, in quanto è di tutta evi-denza che la norma processuale in argomento, atte-nendo alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale in secondo grado, va considerata applicabile in tutti i

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giudizi di secondo grado svoltisi dopo quella data, compreso il presente procedimento il cui grado di ap-pello è stato definito con sentenza dell’11 gennaio 2018.

Questa Corte ha avuto modo di chiarire che la re-formatio in appello della pronuncia assolutoria di pri-me cure non impone sempre, in automatico, la rinno-vazione dell’istruttoria dibattimentale per il riascolto di tutti i soggetti esaminati nel corso del giudizio di primo grado, essendo necessaria tale rinnovata assun-zione della prova dichiarativa solo se la stessa sia de-terminante ai fini della decisione di condanna; se sia riconoscibile una reale divergenza tra la sentenza del giudice di primo e quella del giudice di secondo grado in ordine alla valutazione della attendibilità del dichia-rante ovvero del contenuto della relativa deposizione; e, comunque, se non vi sia una difformità tra il conte-nuto della deposizione valutato dal primo giudice e quello valorizzato dalla corte di appello.

Tanto è desumibile dagli orientamenti, oramai suf-ficientemente definiti, della giurisprudenza di legitti-mità, la quale ha sottolineato che il giudice d’appello che intenda procedere alla reformatio in peius di una sentenza assolutoria di primo grado, emessa all’esito di giudizio sia ordinario che abbreviato, deve procede-re all’indispensabile rinnovazione dell’istruttoria di-battimentale esclusivamente nel caso di valutazione “differente” della prova dichiarativa decisiva e non di mero “travisamento” di essa, caso quest’ultimo in cui si può pervenire al giudizio di colpevolezza senza ne-cessità di rinnovazione delle prove dichiarative (v., da ultimo, Cass., Sez. VI, 30 maggio 2017, n. 35899, Fo-rini, rv. 270546; così, prima della novella legislativa, S.U, 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta, rv. 267486-91, per cui non è configurabile la differente valutazio-ne del significato della prova dichiarativa laddove la ‘lettura’ della prova, da parte del primo giudice, sia affetta da errore revocatorio, per omissione, invenzio-ne o falsificazione); e che, dunque, non sussistono i presupposti per la rinnovazione dell’istruttoria dibat-timentale in appello qualora la riforma in peius della sentenza assolutoria di primo grado sia fondata, non già su un diverso apprezzamento in ordine all’attendibilità di una prova dichiarativa diversamente valutata in primo grado, ovvero su una diversa valuta-zione del suo contenuto e della sua portata, bensì su una valutazione organica, globale ed unitaria degli ul-teriori elementi indiziari a carico (esterni alle dichia-razioni), erroneamente considerati in maniera atomi-stica dalla decisione del primo giudice (così, da ulti-mo, Cass., Sez. V, 18 giugno 2018, n. 53415, Boggi, rv. 274593).

Di tale disposizione normativa e dei relativi criteri esegetici formulati dalla giurisprudenza di legittimità la Corte di appello di Omissis non ha fatto corretta ap-plicazione nel momento in cui ha ritenuto che non fos-se necessaria la rinnovazione dell’istruttoria dibatti-mentale per procedere all’esame dell’imputato, soste-nendo che lo stesso aveva reso, nel corso del giudizio di secondo grado, dichiarazioni spontanee e aveva de-

positato una personale memoria contenente ulteriori sue attestazioni.

Se è vero che l’esame dell’imputato è, nel vigente sistema codicistico, un mezzo di prova da acquisire nel contraddittorio delle parti, a differenza delle di-chiarazioni spontanee dell’indagato al pubblico mini-stero o dell’imputato al giudice, che hanno tenden-zialmente solo una funzione di garanzia (così, in parti-colare, Cass., Sez. VI, 27 novembre 1998, n. 13682, Craxi, rv. 212088), tale distinzione aveva perso rilievo nella fattispecie nella quale i giudici di secondo grado avrebbero dovuto disporre, a mente dell’art. 603, c. 3-bis, c.p.p., la rinnovazione dell’istruttoria dibattimen-tale per procedere all’esame dell’imputato, in presenza di dichiarazioni, comunque acquisite nel primo giudi-zio, sulla cui valutazione di attendibilità non vi sareb-be stato (come è possibile agevolmente desumere dal raffronto dei passaggi delle motivazioni sul punto del-le due sentenze – v. pp. 43-54, sent. primo grado; e pp. 49, 52, sent. gravata) un apprezzamento conver-gente rispetto a quelle formulate dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale.

Appare, infatti, circostanza determinante che il giudizio di primo grado a carico del M. fosse stato de-finito nelle forme del rito abbreviato: sicché, tenuto a mente che, in generale, deve considerarsi affetta da vizio di motivazione la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la re-sponsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa anche all’esito di un giudizio ab-breviato non condizionato, operando una diversa valu-tazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni (Cass., S.U., 19 gennaio 2017, n. 18620, Patalano, rv. 269785), in ragione della instaurazione nel primo gra-do del presente procedimento di quel rito speciale, era destinata a perdere di rilevanza la differenza tra esame dell’imputato e dichiarazioni spontanee rese al pubbli-co ministero, dovendo valere l’indicata regola proces-suale per tutte le prove dichiarative comunque acquisi-te unilateralmente dalle parti nel corso delle indagini e poi direttamente utilizzate per la decisione dal giudice dell’abbreviato.

Analoghe considerazioni valgono, a maggior ra-gione, con riferimento alle deposizioni dei testi F.P. e G.B., le cui dichiarazioni (originariamente raccolte in quanto rese da soggetti qualificati come persone in-formate dei fatti e, dunque, successivamente utilizzate in via diretta nel rito abbreviato) erano state valorizza-te dal primo giudice in una lettura nettamente favore-vole all’imputato e poste, con palese carattere di deci-sività, a fondamento della decisione assolutoria (pp. 46-48, sent. primo grado: ove, in particolare, era stato posto in luce come il B. fosse il collaboratore della se-greteria del sindaco che, in sostanziale autonomia, aveva redatto i documenti contenenti i giustificativi di spesa a distanza di tempo dai relativi eventi conviviali, affidandosi alle annotazioni apposte sull’agenda uffi-ciale del M. e, forse, su altri suoi appunti). Laddove la

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Corte distrettuale, nel riformare la sentenza appellata, ha motivato le proprie determinazioni formulando in sostanza un giudizio negativo sulla attendibilità di quelle deposizioni, in quanto provenienti da soggetti asseritamente intimoriti ovvero condizionati dalle re-lazioni che li avevano legati all’imputato (pp. 10-11, 39, 49, 53-54, sent. gravata), senza però porsi il pro-blema in ordine alla necessità della rinnovazione, nel-la fattispecie evidentemente dovuta, dell’istruttoria dibattimentale per procedere ad un nuovo esame di quei due dichiaranti.

3. Lo stesso terzo motivo del ricorso è meritevole di positiva considerazione anche in relazione all’altra doglianza difensiva, strettamente complementare a quella esaminata nel punto che precede: censura che, nel presente giudizio di legittimità, risulta avere una rilevanza decisiva.

Costituisce espressione di un consolidato indirizzo interpretativo seguito da questa Corte, il principio se-condo il quale nel giudizio di appello, per la riforma della sentenza assolutoria di primo grado, in assenza di elementi sopravvenuti, non basta una diversa valu-tazione del materiale probatorio acquisito in primo grado, che sia caratterizzata da pari o minore plausibi-lità rispetto a quella operata dal primo giudice, occor-rendo invece una forza persuasiva superiore, derivante dai puntuali rilievi di contraddittorietà della motiva-zione assolutoria oppure da un ampliamento della piattaforma valutativa presa in esame dal giudice di prime cure, in maniera tale che la nuova motivazione risulti capace di travolgere la precedente decisione e far venir meno ogni ragionevole dubbio sulla colpevo-lezza dell’imputato (in questo senso, tra le tante, Cass., Sez. I, 5 dicembre 2013, n. 12273, dep. 2014, Ciaramella, rv. 262261). Ciò perché, si è condivisi-bilmente rimarcato, il principio dell’“oltre ogni ragio-nevole dubbio”, introdotto nell’art. 533, c. 1, c.p.p. dalla l. n. 46/2006, comporta che una rivisitazione in senso peggiorativo dei medesimi dati informativi ac-quisiti nel primo giudizio e già considerati inidonei a giustificare una pronuncia di colpevolezza, debba es-sere supportata da argomenti dirimenti idonei a porre in luce oggettive carenze o insufficienze della decisio-ne assolutoria, di talché la riforma di questa determi-nazione sia tale da non lasciare residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza: poiché “la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevo-lezza” (Cass., Sez. VI, 3 novembre 2011, n. 40159, Galante, rv. 251066; in senso conforme, ex plurimis, Sez. I, 5 dicembre 2013, n. 12273, dep. 2014, Ciara-mella, rv. 262261; Sez. VI, 22 ottobre 2013, n. 45203, Paparo, rv. 256869; Sez. VI, 24 gennaio 2013, n. 87051, Farre, rv. 254113; Sez. II, 8 novembre 2012, n. 11883, dep. 2013, Berlingeri, rv. 254725; Sez. VI, 21 novembre 2012, n. 49755, G., rv. 253909; Sez. VI, 10 ottobre 2012, n. 1266, dep. 2013, Andrini, rv. 254024; Sez. VI, 10 luglio 2012, n. 46847, Aimone, rv. 253718; Sez. II, 27 marzo 2012, n. 27018, Urciuoli,

rv. 253407; Sez. VI, 26 ottobre 2011, n. 4996, dep. 2012, Abbate, rv. 251782).

Tale regula iuris non risulta essere stata rispettata dalla Corte di appello di Omissis, il che rende radi-calmente illegittima la pronuncia oggetto del ricorso oggi in esame: tenuto conto che, a fronte di una sen-tenza assolutoria di primo grado, con la quale si era sostenuto come le emergenze processuali fossero “del tutto insufficienti al fine di ritenere attinta da ‘Indubi-tabile’ prova dell’uso privatistico, da parte del M., del-le risorse pubbliche affidategli attraverso l’attribuzione della carta di credito in questione” (pp. 43 s., sent. primo grado), in assenza di apporti cono-scitivi sopravvenuti i giudici di secondo grado, analiz-zando il medesimo materiale probatorio, hanno dato allo stesso un significato diverso e alternativo rispetto a quello riconosciutogli nel giudizio di prime cure, con un risultato ricostruttivo delle vicende de quibus che, però, è stato rappresentato con una motivazione del tutto inidonea a travolgere e disarticolare la tenuta logica di quella contenuta nella precedente pronuncia assolutoria.

4. La sentenza della Corte di appello ha offerto, in-vero, una interpretazione del compendio probatorio sì alternativa, ma molto meno persuasiva di quella privi-legiata nella sentenza assolutoria di primo grado: nella quale il giudice del rito abbreviato aveva molto più convincentemente spiegato come, in mancanza di spe-cifiche regole che disciplinassero le modalità di im-piego di quella carta di credito da parte del sindaco e le forme di successiva rendicontazione, nonché in as-senza di successive contestazioni sulla congruità for-male di quei documenti da parte di vari organi comu-nali di controllo e persino da parte della Corte dei con-ti (organi che talora avevano approvato quelle modali-tà di compilazione), spettasse alla pubblica accusa fornire la prova certa della contestata finalità privati-stica perseguita dall’imputato con l’effettuazione di quelle spese, non potendo quella dimostrazione essere desunta, in maniera ‘automatica’, dalla genericità del-le indicazioni contenute in taluni relativi documenti giustificativi di spesa.

In altre parole, come aveva efficacemente puntua-lizzato il giudice dell’udienza preliminare nella prima pronuncia, “l’eventuale mancanza di prova del perse-guimento della finalità ‘pubblicistica’ (ovvero la) mancanza di prova in ipotesi derivante dalla ritenuta genericità del relativo giustificativo di spesa non equi-vale alla prova del perseguimento di una finalità pri-vatistica”: addotta genericità che – aveva aggiunto quel giudice – non risultava neppure tale nella più par-te dei casi, «né in relazione all’esposizione della cau-sale dell’impegno ivi rappresentato, risultando sempre di volta in volta esplicitate la ragione per la quale vi si era addivenuti (ad esempio “per poter dialogare circa l’ipotesi di un progetto editoriale per Omissis”, “per discutere di argomenti riguardanti la città di Omissis”, “per discutere circa la definizione di progetti socio-assistenziali in collaborazione con Omissis”, et simi-lia), né in relazione alla pur sommaria individuazione

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dell’ ambito sociale o istituzionale di riferimento dei commensali che vi avevano preso parte (“rappresen-tanti della regione”, “rappresentanti di case editrici”, “giornalisti di testate locali”, et simili)» (pp. 43-44, sent. primo grado).

Sentenza assolutoria di primo grado che, dotata di una maggiore e più stringente forza logico-argomentativa, appare, a differenza di quella dell’appello, rispettosa del principio di diritto già enunciato da questa Corte – la cui validità va in questa sede ribadita – secondo cui non è configurabile il de-litto di peculato nel caso in cui non sia fornita giustifi-cazione in ordine al contributo erogato per l’esercizio delle funzioni di natura pubblicistica, non potendo de-rivare l’illiceità della spesa da tale mancanza, ma oc-correndo comunque piena prova dell’appropriazione e dell’offensività della condotta, quanto meno in termini di alterazione del buon andamento della pubblica am-ministrazione (Cass., Sez. VI, 1 giugno 2017, n. 35683, Adamo, rv. 270549; v. anche Sez. VI, 22 giu-gno 2017, n. 41768, Fitto, rv. 271283). Al riguardo si è, infatti, sottolineato che la incompletezza o l’inadeguatezza della rendicontazione delle spese ope-rate dal pubblico ufficiale potrebbero servire a ritenere configurabile una responsabilità di natura amministra-tiva e contabile del pubblico ufficiale, ma non possono valere, da sole, ad integrare una responsabilità penale dell’agente per peculato, che necessita della prova del-la concreta appropriazione del denaro, cioè della sua destinazione a finalità privatistiche; con la conseguen-za che l’illecita interversione del possesso del denaro rilevante penalmente, lungi dal poter essere desunta da mere irregolarità o incompletezze nella formazione di documenti giustificativi delle relative spese, potrebbe considerarsi indirettamente provata in sede penale so-lamente da “situazioni altamente significative”, quali la totale mancanza di atti che permettano di collegare l’impiego del denaro alle funzioni istituzionali ovvero la sistematica elusione di specifiche regole discipli-nanti le modalità di adempimento dell’obbligo di ren-dicontazione: situazioni che, nel caso di specie, sono pacificamente assenti, tenuto conto che “giustificativi delle spese” erano stati presentati, documenti che la Corte di appello ha ritenuto falsi con una motivazione del tutto inadeguata.

5. È altresì il riconoscimento della fondatezza delle censure contenute nel secondo motivo e nel correlato primo motivo che, in stretta relazione con le premesse esposte nei due precedenti punti, pone in evidenza la grave forma di illegittimità che colpisce la sentenza gravata, principalmente per il metodo impiegato per la valutazione delle prove offerte dal processo.

Il codice di procedura penale prevede specifiche ed eccezionali situazioni nelle quali il legislatore ha rego-lato ‘meccanismi’ di sostanziale inversione dell’onere della prova, ponendo a carico dell’interessato quello di allegare o di dimostrare determinate circostanze (come avviene, ad esempio, nelle ipotesi disciplinate dagli artt. 175 e 420-bis c.p.p.). Tuttavia, esclusi que-sti casi espressamente regolati dalla legge (per i quali

sarebbe pure legittimo riconoscere l’esistenza di una certa ‘frizione’ con taluni valori fondanti del nostro ordinamento), la regola per cui è la pubblica accusa che ha l’onere di provare l’esistenza degli elementi costitutivi di ciascuna fattispecie penale è ineludibile, in quanto espressione dello statuto costituzionale del giudizio penale fondato sulla presunzione di non col-pevolezza prevista dall’art. 27, c. 2, Cost.: regola che non può essere declinata solamente in termini di rico-noscimento di un dovere deontologico in capo al rap-presentante della pubblica accusa, ma che concretizza un insuperabile criterio processuale di valutazione del-la prova penale e, perciò, un canone basilare nella va-lutazione della legittimità del relativo giudizio.

In questa ottica, va rilevato come nella motivazio-ne della sentenza impugnata sia riconoscibile un pro-cedimento argomentativo basato su una evidente ‘for-zatura’ logico-giuridica, che si è tradotta, in pratica, in una violazione di quella fondamentale regola di civiltà giuridica.

Ed infatti, la Corte di appello di Omissis, nel giu-stificare la propria decisione di riforma della pronun-cia assolutoria di primo grado, in relazione al punto nodale delle vicende oggetto del processo, cioè l’individuazione della finalità del denaro utilizzato dall’imputato, per un verso ha rinunciato a valorizzare alcuni elementi di conoscenza segnalati dalla pubblica accusa, quali le dichiarazioni rese dal personale di servizio nei ristoranti in cui il prevenuto si era recato con i suoi ospiti, perché giudicate prive di una affida-bile capacità dimostrativa; per altro verso, ha ritenuto di basare il proprio ragionamento probatorio essen-zialmente sugli esiti della lettura del contenuto dei c.d. ‘giustificativi’ di quelle spese redatti da collaboratori del M., sottolineando come in quei documenti fossero state impiegate “genericissime e apodittiche locuzioni rituali” (“cena per motivi istituzionali”) e frasi aggiun-tive dal tenore asseritamente “lapidario” (quali, ad esempio, “progetti editoriali per Omissis”, “progetti socio/assistenziali in collaborazione con Omissis” o “progetti di promozione per Omissis”): formule, si è scritto, «dall’impalpabile essenza pubblicistica», ca-ratterizzate dalla assenza di elementi afferenti al profi-lo soggettivo che avrebbero potuto consentire «la pun-tuale individuazione, fisica e/o funzionale dei com-mensali del sindaco nelle varie occasioni» (pp. 35, 38-39, sent. gravata). In tal modo la Corte territoriale ha finito in sostanza per desumere dalla asserita generici-tà di quelle indicazioni un onere, irrimediabilmente posto in capo all’imputato, di precisare le generalità di quei suoi invitati, con la conseguenza di aver ritenuto che, in assenza di adeguate risposte da parte del M., quelle spese dovessero essere qualificate come aventi una finalità certamente privatistica.

Né possono oggi dirsi qualificati da una adeguata forza persuasiva ovvero da una convincente capacità logico-dimostrativa i passaggi, complementari a quel-la premessa, contenuti nella motivazione della deci-sione impugnata, secondo cui le indicazioni presenti in quei documenti sarebbero state formulate in manie-

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ra tale da impedire «ulteriori approfondimenti investi-gativi» da parte degli inquirenti (p. 39, sent. gravata); oppure secondo cui le annotazioni sull’agenda elettro-nica istituzionale del sindaco erano state effettuate in modo tale da non consentire l’acquisizione di “ele-menti specificativi e integrativi circa l’addotta finalità pubblicistica delle spese” (p. 43, sent. gravata); o an-cora, secondo cui la fondatezza dell’ipotesi accusato-ria sarebbe stata confermata dal mancato ritrovamento di altri atti capaci di chiarire la natura di quelle spese, dovendosi escludere che il sindaco, già “omissis”, avesse provveduto in maniera estemporanea “alla or-ganizzazione di eventi conviviali di rappresentanza istituzionale” (p. 44, sent. gravata).

Si tratta di argomenti basati su massime di espe-rienza di dubbia valenza inferenziale, comunque di meccanismi di ragionamento probatorio palesemente inidonei ad incidere sulla questione di fondo, che era e rimane quella per cui spettava alla pubblica accusa da-re la prova in positivo della finalità privatistica dell’impiego di quelle somme di denaro da parte del sindaco di Omissis, non potendosi affermare – se non con un’inammissibile forma di inversione di quell’onere – che quella documentazione, pur in pre-senza di obiettive indicazioni sintomatiche di un col-legamento con l’esercizio delle funzioni istituzionali del rappresentante di quell’ente, sarebbe stata del tutto inidonea del riscontrare “la pretesa valenza pubblici-stica delle spese di cui trattasi” (p. 42, sent. gravata).

In altri termini, il ‘punto focale’ della motivazione del provvedimento impugnato – nel quale è agevol-mente individuabile la mancata osservanza della con-siderata regola posta a base del sistema normativo del processo penale – è quello nel quale si è asserito che la “mancata individuazione ad opera dell’accusa della specifica finalità privatistica realmente conseguita con ogni singola spesa” sarebbe “elemento probatoriamen-te non essenziale ai fini della sussistenza del reato, es-sendo sufficiente in proposito la comprovata insussi-stenza al di là di ogni ragionevole dubbio (di) qualsia-si connotazione pubblicistica delle spese” (p. 43, sent. gravata). Affermazione, questa, che non solo è risulta-ta smentita dalle emergenze fattuali così come descrit-te nella motivazione di entrambe le sentenze poste a confronto, tenuto conto che (ad eccezione di due soli di quei documenti per i quali era stata accertata una difformità nella indicazione della qualifica commensa-le del sindaco, casi nei quali l’imputato aveva convin-centemente spiegato essersi trattato di probabili im-precisioni commesse dai suoi collaboratori nella com-pilazione di documenti, peraltro avvenuta a distanza di tempo dai relativi eventi) in tutti i ‘giustificativi di spesa’ vi erano annotazioni che potevano collegare ciascuno di quegli incontri conviviali ad altrettanti eventi, svoltisi nella stessa giornata, spesso poco pri-ma delle ore serali, ai quali il M. aveva partecipato nella sua veste di sindaco, dunque per finalità certa-mente istituzionali; ma era stata contraddetta dagli ac-certamenti relativi a quattro dei casi contestati nei quali, resosi possibile un riscontro soggettivo, era sta-

to possibile appurare che il M. aveva effettivamente cenato con rappresentati di altre istituzioni per discu-tere di questioni attinenti alla città di Omissis. Situa-zioni nelle quali vi era, dunque, più di una mera pre-sunzione in ordine alla natura pubblicistica di quelle spese, rientranti nella categoria delle legittime ‘spese di rappresentanza’ in quanto destinate – secondo le precisazioni definitorie della giurisprudenza di legit-timità – alla realizzazione di un fine istituzionale dell’ente che le sostiene, per essere strumentali a sod-disfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente pubblico ovvero aventi il fine di accrescere il prestigio della sua immagine e la diffusione delle relative attivi-tà istituzionali (al riguardo v., da ultimo, Cass., Sez. VI, 4 luglio 2018, n. 36827, M., rv. 274023).

Né va trascurato come, a fronte di inaccettabili passaggi argomentativi contenuti nella motivazione della sentenza impugnata, nei quali, analizzando i dati informativi a disposizione relativi a ciascuna di quelle cene, la Corte di merito aveva reiteratamente sottoli-neato come “l’imputato nulla di specifico (avesse) ag-giunto ad integrazione e chiarimenti”, la difesa del ri-corrente sia riuscita, con alcuni semplici approfondi-menti eseguiti con ricerche effettuate su siti web, a ri-scontrare la concreta esistenza di un plausibile colle-gamento con finalità istituzionali per la partecipazione del sindaco a taluni di quegli eventi conviviali, appa-rentemente rimasti privi di giustificazione (come quel-li indicati nella sentenza con i numeri d’ordine 2, 14 e 26, rispettivamente riguardanti eventi conviviali col-legati alla partecipazione del M. ad un convegno sull’amministrazione di grandi città, svoltosi lo stesso giorno a Omissis; ad un incontro pubblico organizza-to, nelle ore post-meridiane a Omissis, da due associa-zioni di volontariato nel sostegno ai pazienti pediatrici ospedalizzati; oppure ad una visita ufficiale a Omissis del sindaco di Omissis). Eventi con riferimento alla gran parte dei quali erano stati forniti principi di prova idonei a riscontrare la versione difensiva di una parte-cipazione dell’imputato a quei momenti di confronto, nella sua veste di rappresentante di Omissis, con ruoli e compiti agevolmente collegati alle sue funzioni di natura pubblicistica: come era avvenuto anche per due episodi che avevano avuto larga eco mediatica, sui quali entrambe le sentenze di merito si sono sofferma-te, quali una cena del luglio del 2013 che la pubblica accusa aveva sostenuto fosse stata consumata asseri-tamente in forma privata dal M. con la di lui moglie e che l’imputato aveva dimostrato essersi svolta con una tale dott.ssa C.C., interessata all’iniziativa del comune di creazione della c.d. ‘Città della Scienza’, come la predetta teste aveva confermato durante le indagini; o un’altra cena, consumata nel periodo natalizio dello stesso anno, per la quale la pubblica accusa aveva ipo-tizzato che fosse stata consumata dal M. con membri della sua famiglia, in ordine alla quale, a fronte di inattendibili indicazioni rese dai camerieri del risto-rante, l’imputato aveva dimostrato l’impossibilità che quel giorno vi fossero con lui a Omissis i suoi con-giunti, perché impegnati in altro evento familiare in

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Sicilia, v. pp. 49-52, sent. primo grado; p. 23, sent. gravata.

6. Nel riconoscimento, nei termini innanzi esposti, della fondatezza delle doglianze difensive contenute nel terzo motivo del ricorso (anche in collegamento con quelle formulate nei connessi primo e secondo motivo) resta assorbito l’esame dei restanti motivi dell’atto di impugnazione, relativi all’elemento psico-logico del peculato e alle connesse ipotesi strumentali di falso.

L’accertata grave illegittimità dovuta al mancato rispetto, nei termini innanzi esposti, dell’obbligo della motivazione rinforzata e alla violazione del principio dell’onere della prova, impone l’annullamento della sentenza impugnata che il collegio – anche nell’ottica che ha guidato le modifiche legislative apportate all’art. 620, c. 1, lett. I), c.p.p. – ritiene, in ossequio alle indicazioni delle Sezioni unite (in questo senso Cass., S.U., 30 novembre 2017, n. 3464, dep. 2018, Matrone, rv. 271831), possa essere disposto senza rin-vio: ciò tenuto conto della infondatezza della ipotesi accusatoria, constatata sulla base degli innanzi deli-neati elementi di fatto accertati nei giudizi di merito e sulle già definite statuizioni adottate dai giudici di primo e di secondo grado, che rende superfluo lo svolgimento di un giudizio di rinvio che non consenti-rebbe di pervenire ad una decisione diversa da quella adottata in questa sede.

P.q.m., annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

16536 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; or-dinanza 20 giugno 2019; Pres. Mammone, Est. Greco, P.M. Del Core (concl. conf.); L.T. c. Proc. reg. Corte dei conti per la Sicilia e altro. Regolamento di giurisdizione.

Giurisdizione e competenza – Società confiscate per concorso esterno in associazione mafiosa – Cu-stode e amministratore giudiziario – Danni arreca-ti nella gestione dei beni immobili di proprietà del-le società confiscate – Giurisdizione contabile. Cost., art. 103; c.g.c. art. 1; d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 1992 n. 356, modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, art. 12-sexies; d.l. l. 14 gennaio 1994, n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1.

Sussiste la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti del custode-amministratore giudiziario di società confiscate per reati di stampo mafioso, il qua-le, con atti di mala gestio (nella specie, mancata ri-scossione delle indennità di occupazione di beni im-mobili di proprietà delle società, con conseguente prescrizione del relativo diritto), abbia arrecato un pregiudizio alle società stesse e, di riflesso, all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la de-

stinazione dei beni sequestrati e confiscati alla crimi-nalità organizzata, divenuta titolare delle relative quote di partecipazione. (1)

(1) I. - La pronuncia, seppur caratterizzata da una sintetica

motivazione, fornisce spunti interessanti per una riflessione sui margini di intervento della giurisdizione contabile in tema di danni alle società partecipate. La vicenda prende le mosse dall’azione per danno erariale promossa dalla procura della Corte dei conti nei confronti del custode-amministratore giudi-ziario di società prima sequestrate e poi definitivamente confi-scate, ai sensi degli artt. 240 c.p. e 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, ad un soggetto condannato per reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il danno contestato attiene alla manca-ta riscossione, da parte dell’amministratore-custode, di canoni e indennità collegati ad immobili intestati alle società confiscate, con conseguente prescrizione del relativo diritto di credito. Tali comportamenti di mala gestio avrebbero causato un pregiudizio alla redditività della società e, di riflesso, all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (di seguito, Anbsc) la quale, istituita nel 2010, gestisce, in collaborazione con l’autorità giudiziaria, l’intero processo finalizzato alla destina-zione dei beni sequestrati e poi confiscati in via definitiva, af-finché gli stessi vengano restituiti alle comunità e ai territori attraverso il loro impiego per scopi sociali o istituzionali.

Viene in rilievo, pertanto, una fattispecie di danno al patri-monio della società che si ribalta, poi, sull’ente pubblico in ra-gione del rapporto di partecipazione venutosi a creare a seguito del provvedimento di confisca. I confini della giurisdizione contabile su questa tipologia di danni sono stati, come noto, oggetto di un articolato percorso giurisprudenziale, i cui appro-di sono oggi confluiti nell’art. 12 del codice di giustizia conta-bile (per una puntuale ricostruzione dell’evoluzione ermeneuti-ca, v. D. Morgante, Le frontiere della giurisdizione contabile: evoluzione normativa e giurisprudenziale e relativi profili di possibile incoerenza, in questa Rivista, 2019, fasc. 3, 62). In dettaglio, le pronunce della Corte di cassazione distinguono, ai fini del riparto generale di giurisdizione tra giudice ordinario e contabile, tra danni inferti al patrimonio sociale e danni diret-tamente arrecati al socio pubblico. Nel primo caso, l’azione risarcitoria è rimessa agli ordinari strumenti del diritto societa-rio (azione sociale di responsabilità prevista dagli artt. 2392-2393-bis c.c.); nel secondo caso, invece, si ritiene ammissibile l’azione della procura erariale, estensibile altresì alle ipotesi di pregiudizi derivanti dalla colpevole omissione, da parte del so-cio pubblico, nell’esercizio delle proprie prerogative sociali. V. sul punto, Cass., S.U., 19 dicembre 2009, n. 26806, in questa Rivista, 2009, fasc. 6, 218 (annotata da M. Sinisi, Responsabili-tà amministrativa di amministratori e dipendenti di s.p.a. a partecipazione pubblica e riparto di giurisdizione: l’intervento risolutivo delle Sezioni unite della Corte di cassazione, e V. Tenore, La giurisdizione della Corte dei conti sulle s.p.a. a partecipazione pubblica, in Foro amm.-CdS, 2010, rispettiva-mente 77 e 92; G. D’Auria, Non esiste (con eccezioni) la re-sponsabilità erariale per i danni cagionati alle società pubbli-che dai loro amministratori, in Foro it., 2010, I, 1495; G. Car-tei, P. Crea, La Cassazione, le società partecipate e la respon-sabilità amministrativa, in Giornale dir. amm., 2010, 935; se-guita da numerose altre, fra le quali v.: Cass., S.U., 15 gennaio 2010, n. 519, in Società, 2010, 803; ord. 9 aprile 2010, n. 8429, ibidem, 1177, con nota di A. Caprara, Sul d.g. di società in ma-no pubblica decide la Corte dei conti se il patrimonio danneg-giato è pubblico; ord. 9 maggio 2011, n. 10063, in questa Rivi-sta, 2011, fasc. 3-4, 372; ord. 12 luglio 2010, n. 16286, in Foro it., 2011, I, 509, con nota di richiami; ord. 5 luglio 2011, n. 14655, in questa Rivista, 2011, fasc. 3-4, 380; ord. 7 luglio 2011, n. 14957, ibidem, 382; 12 ottobre 2011, n. 20940, ibidem,

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Fatto e diritto – Il procuratore regionale della Cor-te dei conti presso la Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, con atto notificato il 21 ottobre 2016, ha chiamato dinanzi a quel giudice speciale L.T. – nominato custode e amministratore giudiziario di varie società sequestrate, ai sensi degli artt. 321 c.p.p. e 12-sexies l. n. 356/1992, nel 1998 e nel 1999 dal Tribunale di Palermo nel procedimento penale a cari-co di Pietro Lo Sicco, società per la maggior parte poi confiscate in via definitiva, ai sensi degli artt. 240 c.p. e 12-sexies legge cit., contestualmente alla condanna del Lo Sicco per concorso esterno in associazione ma-fiosa, allorché la Corte di cassazione nel 2008 rigetta-va il ricorso dell’imputato, sia in ordine alla sua con-danna penale che alla confisca delle società – per otte-nerne il risarcimento del danno erariale arrecato all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la de-stinazione dei beni sequestrati e confiscati alla crimi-nalità organizzata, in relazione a vari atti di mala ge-stio di cui si era reso responsabile.

La citazione a giudizio faceva riferimento a due di-stinte poste di danno erariale:

l’una, per euro 400.726, derivante dalla perdita ir-reversibile per l’erario delle indennità di occupazione

fasc. 5-6, 351; ord. 12 ottobre 2011, n. 20941, ibidem, 354; 9 marzo 2012, n. 3692, ivi, 2012, fasc. 1-2, 402.

Sempre in base alla giurisprudenza della Corte di cassazio-ne, costituiscono eccezioni a tale criterio di riparto generale e ricadono, invece, nella sfera della Corte dei conti, le azioni ri-sarcitorie per danni inflitti al patrimonio sociale di società di di-ritto speciale (v., sul punto, Cass., S.U., 22 dicembre 2009, n. 27092, in Foro amm.-CdS, 2010, 67; ord. 3 marzo 2010, n. 5032, in Foro it., 2010, I, 3078, con nota di richiami; 14 aprile 2011 n. 8492, ivi, 2012, I, 1151; 9 maggio 2011, nn. 10062 e 10063, in questa Rivista, 2011, fasc. 3-4, 372) e di società c.d. in-house providing (v., sul punto, Cass., S.U., 25 novembre 2013, n. 26283, ivi, 2013, fasc. 5-6, 530).

II. - Alla luce del quadro giurisprudenziale sopra descritto, oggi accolto nel testo normativo dell’art. 12 c.g.c., la fattispecie affrontata dalla pronuncia in commento sembra costituire un’ulteriore eccezione al criterio generale di riparto. Nel caso di specie, infatti, il danno generato dagli atti di mala gestio po-sti in essere dall’amministratore-custode giudiziario colpisce direttamente il patrimonio e la redditività della società e, in ba-se a quanto sopra precisato, andrebbe rimesso al giudice ordi-nario. Diversamente la pronuncia dichiara la giurisdizione con-tabile. Dalla sintetica motivazione dell’ordinanza, il supera-mento del “velo societario” troverebbe giustificazione nella circostanza che il veicolo societario avrebbe natura fittizia, in quanto i beni immobili intestati alla stessa sarebbero stati uti-lizzati, come propri, dal soggetto condannato penalmente e de-stinatario del provvedimento di confisca. Il superamento del contenitore societario comporta l’applicazione degli ordinari canoni in materia di giurisdizione contabile, la quale, secondo un’impostazione sostanzialistica, è legata all’inserimento di un soggetto in una funzione pubblicistica cui si associa la gestione di risorse pubbliche (sul punto v., ex multis, Cass., S.U., 2 feb-braio 2018, n. 2584, in questa Rivista, 2018, fasc. 1-2, 515, con nota di V. Zuccari). Tali elementi vengono riscontrati nel caso dell’amministratore-custode giudiziario che si inserisce nel procedimento di gestione di beni divenuti di proprietà pubblica, seppur per mezzo del veicolo societario, e destinati ad una fina-lità definita dalla pubblica amministrazione. [A.M. QUAGLINI]

degli immobili posseduti dalle società confiscate all’imprenditore mafioso e occupati da privati, nei confronti dei quali l’amministratore giudiziario non aveva richiesto il pagamento dell’indennità di occupa-zione, facendone prescrivere il diritto a rivendicarla;

e l’altra, ritenuta equivalente alla precedente, qua-lificata quale danno da disservizio derivante dalla per-dita dell’utilità primaria del sequestro ex art. 12-sexies della l. n. 346/1992 (ma anche di prevenzione), cioè sottrarre il bene all’ambiente criminale di provenien-za, perdita ancora più grave allorché il bene, pur di-ventando con la confisca definitivamente dell’erario, continui ad essere trattato come se non fosse dello Sta-to, frustrando la finalità legale della confisca ex art. 12-sexies, e pregiudicando anche il procedimento le-gale di destinazione dei beni.

L.T. propone ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, negando alla Corte dei conti la com-petenza giurisdizionale in ordine alla controversia sul rilievo della natura privata delle società confiscate e la conseguente non riconducibilità all’erario del patri-monio sociale delle società confiscate; e sul rilievo della insussistenza di un rapporto di servizio con l’Agenzia in capo ad esso T. custode-amministratore, per non essere stati confiscati gli immobili di cui si contesta la perdita dell’indennità di disoccupazione (perché erano state invece confiscate le società che possedevano quegli immobili), e per non potere perciò formare oggetto di destinazione.

Sotto il primo profilo, assume, il danno prospettato “per la mancata riscossione da parte di esso ricorrente delle indennità di occupazione delle unità immobiliari costituenti il patrimonio delle società le cui sole parte-cipazioni sociali sono state confiscate non impliche-rebbe alcun danno erariale, bensì un danno eventual-mente sofferto da un soggetto privato (le società), rife-ribile ad immobili appartenenti soltanto a tale sogget-to, e non certo al socio pubblico il quale è unicamente titolare delle rispettive quote di partecipazione”.

Sotto il secondo profilo, sostiene l’istante, non avrebbe pregio la tesi, che radicherebbe la giurisdizio-ne contabile, secondo cui i beni immobili delle società confiscate sarebbero entrate a far parte del patrimonio erariale per essere destinati secondo le previsioni di legge e che esso ricorrente sarebbe stato inserito fun-zionalmente anche nel procedimento di gestione e de-stinazione dei beni irrevocabilmente confiscati, e in conseguenza avrebbe instaurato un rapporto di servi-zio con la pubblica amministrazione titolare dei beni confiscati: i beni immobili, in quanto non confiscati, infatti, non potrebbero formare oggetto di destinazione ai sensi dell’art. 47 del d.lgs. n. 159/2011, con la con-seguenza che esso ricorrente “non può intendersi og-gettivamente inserito nel procedimento di destinazione dei beni immobili proprio perché questi ultimi, non essendo confiscati, non possono essere destinati; con l’ulteriore effetto che alcun rapporto di servizio in re-lazione agli immobili, non confiscati, delle diverse so-cietà è mai intercorso con la pubblica amministrazio-ne”.

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Il procuratore regionale ha replicato con controri-corso; il ricorrente ha depositato memoria e documen-ti.

La giurisdizione sulla controversia appartiene alla Corte dei conti.

Nell’impostazione dell’istanza di dichiarazione preventiva di difetto di giurisdizione del giudice spe-ciale, infatti, non è dato ravvisare una radicale conte-stazione dell’appartenenza del giudizio di responsabi-lità contabile amministrativa del custode e ammini-strazione di beni confiscati dallo Stato alla sfera giuri-sdizionale propria del giudice contabile, perché, piut-tosto, muovendo dal pacifico presupposto di detta ap-partenenza, si assume che il giudice contabile nella specie non sarebbe dotato di giurisdizione in concreto, avendo il sequestro e poi la confisca interessato beni, le quote di società, diversi da quelli, immobili di per-tinenza delle società, asseritamente oggetto di atti di mala gestio.

Secondo il consolidato orientamento di questa Cor-te, “la giurisdizione si determina in base alla domanda e, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale va identifi-cato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprat-tutto in funzione della causa petendi, ossia della in-trinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione” (Cass., S.U., 31 luglio 2018, n. 20350, 16 maggio 2008, n. 12379).

In sede di regolamento preventivo – come osserva il procuratore generale – l’oggetto del giudizio è quin-di limitato alla determinazione del giudice investito della competenza giurisdizionale a decidere il merito della controversia in relazione al petitum sostanziale – e cioè ai fatti costitutivi della pretesa contabile – e, nel caso in esame, “il merito della causa pendente davanti alla Corte dei conti riguarda la fondatezza o meno del diritto risarcitorio da responsabilità amministrativa-contabile e per danno erariale, vale a dire materia ri-servata alla cognizione esclusiva di quel consesso”.

A radicare la giurisdizione della Corte dei conti (Cass., S.U., 25 maggio 1999, n. 294, anche in moti-vazione) è necessario e sufficiente che il pubblico in-teresse, per la tutela del quale il procuratore regionale si fa promotore, caratterizzi la sua azione sotto i profi-li inerenti: a) alla addebitabilità di un comportamento commissivo od omissivo posto in essere, in violazione dei doveri di ufficio, da un soggetto legato all’ente da un rapporto di impiego o servizio anche di fatto, b) alla produzione di un nocumento patrimoniale, effetti-vo e valutabile in termini economici, subito dalla pub-blica amministrazione; c) al collegamento causale fra condotta antidoverosa e evento dannoso. Quando la contestazione dell’addebito assolva alla indicazione di siffatti connotati e l’oggetto del processo sia da essi caratterizzato, la Corte dei conti è legittimamente in-vestita dei poteri cognitivi e sindacatori ad essa attri-

buiti dall’ordinamento (art. 103 Cost.), nell’esercizio dei quali spetta a quell’organo di giustizia giudicare se nella fattispecie sussistano o meno, in concreto, tutti i requisiti di legge per addivenire a una pronuncia di condanna per responsabilità amministrati-patrimoniale.

Nella specie, le considerazioni riguardanti il requi-sito del danno patrimoniale risarcibile costituiscono elementi riservati all’esame del giudice competente per il merito, che non possono essere preventivamente vagliati in sede di regolamento di giurisdizione, e così l’eventuale riconoscimento della irrisarcibilità in con-creto o dei limiti di risarcibilità di un pregiudizio.

La domanda risarcitoria, nella specie, si basa sul presupposto – esattamente individuato nelle conclu-sioni dal procuratore generale – che il socio L.S., “ti-tolare della totalità delle quote societarie confiscate, disponeva anche indirettamente e come cosa propria, dell’intero patrimonio sociale, di guisa che i beni che ne facevano parte, cui era ed è impressa la destinazio-ne a creare valore, contribuivano o avrebbero dovuto contribuire, per la loro intrinseca redditività a costitui-re il risultato utile all’impresa societaria che, prima della misura segregativa, entrava nella esclusiva di-sponibilità del soggetto indiziato di appartenere al so-dalizio mafioso e, successivamente, a seguito di confi-sca dell’intero capitale sociale, in quella dello Stato”.

In base al criterio del petitum sostanziale, che pri-vilegia la causa petendi dedotta in giudizio, così come in astratto configurata dall’ordinamento e in relazione al bene richiesto, l’azione proposta è effettivamente intesa all’accertamento di un danno erariale consegui-to ad atti di mala gestio dell’amministratore giudizia-rio di beni sottoposti a sequestro e poi confiscati, e la relativa controversia è compresa nella giurisdizione della Corte dei conti.

P.q.m., la Corte di cassazione, a Sezioni unite, di-chiara la giurisdizione della Corte dei conti.

17118 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; or-dinanza 26 giugno 2019; Pres. Di Cerbo (f.f.), Est. Scrima, P.M. Finocchi Ghersi (concl. conf.); P.G. e altri c. Corte dei conti. Conferma Corte conti, Sez. III centr. app., 28 luglio 2016, n. 366; 25 gennaio 2017, n. 32; 30 gennaio 2017, n. 39.

Giurisdizione e competenza – Ordine professionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili – Gestione del patrimonio – Responsabilità contabile del presidente e dei consiglieri – Giurisdizione con-tabile. Cost., art. 103; c.g.c, art. 1; d.lgs. 28 giugno 2005, n. 139, costituzione dell’ordine dei dottori commerciali-sti e degli esperti contabili, a norma dell’art. 2 l. 24 febbraio 2005, n. 34, art. 6.

Le controversie relative alla responsabilità del presidente e dei consiglieri per l’illegittima gestione

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del patrimonio degli ordini dei dottori commercialisti e degli esperti contabili appartengono alla giurisdi-zione della Corte dei conti, in considerazione della natura pubblica di tali enti e della conseguente desti-nazione a finalità pubbliche delle risorse economiche che, indipendentemente dalla loro provenienza, entra-no a far parte del loro patrimonio. (1)

Ragioni della decisione – 1. Preliminarmente deve ritenersi ammissibile l’impugnazione cumulativa con un unico atto avverso le tre richiamate sentenze, es-sendo per le stesse identica la questione di diritto dalla cui soluzione dipende la decisione delle relative cause in questa sede, e ciò pure per evidente economia pro-cessuale, in ossequio al principio del giusto processo, e alla luce dell’orientamento della giurisprudenza che si è andata formando sul punto (arg. ex Cass., S.U., 16 febbraio 2009, n. 3692, Cass. 22 febbraio 2013, n. 4490, 3 aprile 2013, n. 8075, 20 aprile 2016, n. 7940 e 22 febbraio 2017, n. 4595, in materia tributaria, non-ché Cass. ord. 26 marzo 2015, n. 6063, in tema di vio-lazione del codice della strada).

2. Sempre preliminarmente va esaminata la que-stione relativa all’eccepita tardività del ricorso con ri-ferimento alla sentenza n. 366/2016, la quale, ad avvi-so del procuratore generale rappresentante il pubblico ministero presso la Corte dei conti, sarebbe stata noti-ficata a mezzo Pec all’avv. Luigi Annunziata in data 26 luglio 2016 mentre l’impugnazione della stessa, effettuata con un unico ricorso, sarebbe stata notificata alla parte controricorrente in data 23 febbraio 2017, oltre il termine di cui all’art. 325 c.p.c..

2.1. Al riguardo si osserva che i ricorrenti non hanno dedotto che le sentenze impugnate siano state notificate e che, con riferimento alla sentenza sopra richiamata, vi è prova di comunicazione da parte della cancelleria in data 28 luglio 2016 mentre il controri-corrente, che assume che sarebbe stata notificata tale sentenza, non ha fornito alcuna prova al riguardo, sic-ché, dovendosi, pertanto, applicare il cd. termine lun-go di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza in parola di cui all’art. 327 c.p.c. e tenuto conto della so-spensione feriale, il ricorso risulta notificato tempesti-vamente in data 23 febbraio 2017, prima della scaden-za del termine in parola, fissata al 28 febbraio 2017, con riferimento alla sentenza n. 366/2016.

3. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano “Violazione dell’art. 103 Cost. e dell’art. 1 del codice della giustizia contabile – Difetto di giurisdizione del-la Corte dei conti”, per aver la Sezione III giurisdizio-nale centrale d’appello escluso la giurisdizione del g.o. in favore della Corte dei conti.

In particolare, nel criticare le decisioni prese dalla predetta sezione, i ricorrenti sottolineano come l’azione di responsabilità amministrativa davanti alla Corte dei conti è finalizzata ad assicurare la corretta

(1) Massima ufficiale.

gestione delle risorse economiche della collettività e non può invece ritenersi sussistente laddove – come nel caso di specie – non sia configurabile un diretto pregiudizio per siffatte risorse.

I ricorrenti richiamano Cass. n. 21226 del 14 otto-bre 2011, con cui è stato negato il controllo di gestio-ne della Corte dei conti sugli ordini professionali, e citano altre decisioni di questa Corte nelle quali si ri-tiene che, in caso di assenza, nel bilancio dell’ente, di risorse finanziarie provenienti dal bilancio pubblico, non sussiste la giurisdizione contabile.

I ricorrenti sostengono di non poter condividere le conclusioni cui sono pervenuti i giudici della richia-mata sezione centrale in tema di giurisdizione anche alla luce di quanto stabilito da queste Sezioni unite con la sent. n. 295 del 9 gennaio 2013, secondo cui “il parametro di riferimento della responsabilità erariale (e, quindi, della giurisdizione contabile) è rappresenta-to dalla provenienza dal bilancio pubblico dei fondi erogati e dal dovere facente capo a tutti i soggetti che tali fondi amministrano di assicurarne l’utilizzo per fini cui gli stessi sono destinati”.

Sulla base di tali considerazioni i ricorrenti sosten-gono, in primo luogo, come l’espressione “provenien-za dal bilancio pubblico dei fondi erogati” non possa “essere intesa nel senso da ricomprendervi ogni lesio-ne di un interesse pubblico monetizzabile” e, in se-condo luogo, che il presunto danno da essi arrecato al loro ordine di appartenenza, non possa essere qualifi-cato, né in astratto né in concreto, come “danno eraria-le”, in quanto mancherebbe l’incidenza diretta o indi-retta sul bilancio dello Stato oppure sulla c.d. “finanza pubblica allargata”.

3.1. Il motivo è infondato.

3.2. Va anzitutto evidenziato che l’Ordine profes-sionale dei dottori commercialisti e degli esperti con-tabili si articola nel Consiglio nazionale e negli ordini territoriali, la cui natura di enti pubblici non economi-ci a carattere associativo è espressamente prevista dall’art. 6 del d.lgs. 28 giugno 2005, n. 139, che stabi-lisce pure che gli stessi sono soggetti esclusivamente alla vigilanza del Ministero della giustizia (per la na-tura di enti pubblici non economici degli ordini e dei collegi professionali nazionali in genere, v. Cass. 14 ottobre 2011, n. 21226, che ha, nel resto, esaminato la tematica – diversa rispetto a quella all’esame in questa sede – relativa alla soggezione degli ordini e collegi professionali al controllo di gestione della Corte dei conti di cui all’art. 3, c. 4, l. 14 gennaio 1994, n. 20, concludendo per l’esclusione di tale controllo).

3.3. Peraltro, la natura pubblica di tali enti e l’indubitabile qualificazione pubblica del patrimonio degli stessi è stata già affermata da queste Sezioni uni-te con la sentenza 17 maggio 1995, n. 5393.

3.4. Né può condividersi l’assunto dei ricorrenti secondo cui la giurisprudenza di legittimità avrebbe sancito il passaggio da un criterio di riparto della giu-risdizione contabile fondato sulla natura soggettiva dell’ente ad un parametro rappresentato dalla necessa-ria provenienza delle risorse pubbliche erogate dal bi-

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lancio pubblico. Proprio da tale assunto i medesimi ricorrenti traggono la conclusione della sussistenza, nel caso di specie, della giurisdizione ordinaria, in quanto l’Ordine dei commercialisti non sarebbe desti-natario di risorse pubbliche.

3.5. Va a tale proposito osservato che la pronuncia di queste Sezioni unite n. 295 del 9 gennaio 2013, cui i ricorrenti hanno fatto espresso riferimento a tale ri-guardo, e le successive che si sono espresse confor-memente a questa (Cass., S.U., 25 gennaio 2013, n. 1774 e Cass., S.U., 31 luglio 2017, n. 18991) hanno esaminato la specifica questione, del tutto diversa da quella all’esame, relativa alla sussistenza o meno della giurisdizione contabile nel caso di giudizi di respon-sabilità erariale instaurati nei confronti di amministra-tori di società private destinatarie di contributi o fi-nanziamenti pubblici ed in quel contesto “il punto di discrimine della giurisdizione ordinaria da quella con-tabile si è, quindi, spostato dalla qualità del soggetto – che ben può essere un privato o un ente pubblico non economico – alla natura del danno e degli scopi perse-guiti”.

3.6. Nel caso in esame, invece, per le ragioni già rappresentate, non può essere posta in dubbio la natura pubblica dell’ente e la pubblicità delle sue funzioni.

3.7. La rilevanza della natura pubblica del soggetto che gestisce le risorse per finalità pubbliche, al fine che qui rilevano, è stata pure ribadita da queste Sezio-ni unite con l’ord. n. 23860 del 21 dicembre 2012, in cui si afferma che “queste Sezioni unite (ord. 7 mag-gio 2003 n. 6956) hanno già chiarito che, a norma dell’art. 103, c. 2, Cost., r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, artt. 13 e 44, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 603, art. 9, e d.p.r. 15 maggio 1963, n. 858, art. 127, la giurisdizio-ne tendenzialmente generale (ancorché secondo ambiti la cui concreta determinazione è rimessa alla discre-zionalità del legislatore) in materia di contabilità pub-blica attribuita alla Corte dei conti riguarda ogni con-troversia inerente alla gestione di denaro di spettanza dello Stato o di enti pubblici da parte di un agente contabile e, quindi, suppone necessariamente la quali-tà pubblica del titolare del denaro gestito”.

3.8. Inoltre, va evidenziata la natura tributaria dei contributi obbligatoriamente versati dai professionisti privati aderenti all’ordine, richiamandosi sul punto Cass., S.U., 29 novembre 2011, n. 1782, che, pur se riferita al Consiglio nazionale forense, afferma la na-tura tributaria delle tasse (diritti o contributi) di iscri-zione agli albi relativi all’esercizio di determinate pro-fessioni, sottolineando la doverosità della prestazione e il collegamento della prestazione imposta alla spesa pubblica riferita a un presupposto economicamente rilevante, “costituito dal legittimo esercizio della pro-fessione per il quale è condizione l’iscrizione ad un determinato albo”, con la precisazione che “la spesa pubblica è quella relativa alla provvista dei mezzi fi-nanziari necessari all’ente delegato dall’ordinamento al controllo dell’albo specifico nell’esercizio della funzione pubblica di tutela dei cittadini potenziali frui-tori delle prestazioni professionali degli iscritti circa la

legittimazione di questi ultimi alle predette prestazio-ni”. E la natura tributaria del contributo annuale previ-sto a carico degli avvocati ed in favore dei consigli dell’ordine di appartenenza è stata pure ribadita da queste Sezioni unite con la sent. n. 7666 del 24 marzo 2017.

3.9. Con riferimento alla questione all’esame, va sottolineato, altresì, che, al fine del radicarsi della giu-risdizione contabile, rileva senza dubbio anche la de-stinazione pubblica delle risorse gestite.

3.10. Invero, le risorse acquisite attraverso il ver-samento dei contributi dagli associati, lungi dall’avere una mera ed esclusiva finalità “privata” di autofinan-ziamento, hanno una prevalente finalità pubblica, in quanto dirette a finanziare il miglior esercizio di fun-zioni pubbliche assegnate dalla legge agli ordini pro-fessionali, essenzialmente per la tutela della collettivi-tà nei confronti degli esercenti della professione, che giustifica l’obbligo della appartenenza all’ordine pro-fessionale.

3.11. Tale assunto è confermato dalla Corte costi-tuzionale nella sent. 3 novembre 2005, n. 405, laddove afferma che: «La vigente normazione riguardante gli ordini e i collegi risponde all’esigenza di tutelare un rilevante interesse pubblico la cui unitaria salvaguar-dia richiede che sia lo Stato a prevedere specifici re-quisiti di accesso e ad istituire appositi enti pubblici ad appartenenza necessaria, cui affidare il compito di cu-rare la tenuta degli albi nonché di controllare il pos-sesso e la permanenza dei requisiti in capo a coloro che sono già iscritti o che aspirino ad iscriversi. Ciò è, infatti, finalizzato a garantire il corretto esercizio della professione a tutela dell’affidamento della collettivi-tà”.

3.12. Come già evidenziato dai magistrati contabili nelle sentenze impugnate, la destinazione pubblica (ovvero finalizzata al perseguimento di obiettivi meri-tevoli di tutela rafforzata da parte del legislatore) delle risorse gestite dall’ordine è sicuramente rilevante per incardinare, nella specie, la giurisdizione del giudice contabile.

3.12.1. In altri termini, le risorse economiche gesti-te dall’ente, a prescindere dalla loro provenienza, per il fatto stesso di entrare nel patrimonio dell’ente pub-blico, destinato a fini pubblici, devono considerarsi pubbliche, con la conseguenza che il danno che l’ente subisce in merito a tali risorse costituisce danno al pa-trimonio dell’ente.

3.13. Per completezza si evidenzia che la rilevan-za, ai fini della configurabilità della giurisdizione con-tabile, relativa al c.d. danno erariale, dell’aspetto sog-gettivo (natura pubblica dell’ente) e dell’esistenza di un interesse pubblicistico riferibile a tale ente, per cui il suo patrimonio deve essere gestito, indipendente-mente dalla provenienza delle sue singole componenti, con criteri rispondenti alla migliore realizzazione di quell’interesse, senza poter essere utilizzato per altre ragioni, è stato pure riaffermato da queste Sezioni uni-te con l’ord. n. 17748 dell’8 settembre 2016.

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4. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano l’illogicità della condanna alle spese processuali, le quali, a loro avviso, avrebbero dovuto essere compen-sate, per la natura della questione esaminata, o, in al-ternativa, “uniformate” tra di loro, evidenziando, a ta-le ultimo riguardo, che le tre sentenze impugnate sa-rebbero sostanzialmente identiche ed avrebbero risolto una sola identica questione sulla base di atti identici mentre le spese sarebbero state liquidate in modo del tutto diverso in ciascuna di esse.

4.1. Il motivo è inammissibile, in quanto si pone in contrasto con il precetto costituzionale secondo cui “le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti possono essere impugnate in Cassazione solo per mo-tivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111, c. 8, Cost.).

4.1.1. Il ricorso per cassazione contro le decisioni della Corte dei conti, infatti, non è incondizionato, ma, secondo il consolidato orientamento della giurispru-denza di legittimità, al quale va data continuità in que-sta sede, anche alla luce della sent. n. 6/2018 della Corte costituzionale, il ricorso per cassazione contro la decisione della Corte dei conti è consentito soltanto per motivi inerenti alla giurisdizione, sicché il control-lo di questa Corte è circoscritto all’osservanza dei me-ri limiti esterni della giurisdizione, non estendendosi ad asserite violazioni di legge sostanziale o processua-le concernenti il modo d’esercizio della giurisdizione speciale. Ne consegue che, anche a seguito dell’inserimento della garanzia del giusto processo nella nuova formulazione dell’art. 111 Cost., l’accertamento in ordine ad errores in procedendo o ad errores in iudicando rientra nell’ambito del sinda-cato afferente ai limiti interni della giurisdizione, trat-tandosi di violazioni endoprocessuali rilevabili in ogni tipo di giudizio e non inerenti all’essenza della giuri-sdizione o allo sconfinamento dai limiti esterni di es-sa, ma solo al modo in cui è stata esercitata (Cass., S.U., 18 maggio 2017, n. 12497; v. anche Cass., S.U., 9 giugno 2011 n. 12539; 12 novembre 2003, n. 17014; 12 giugno 1999, n. 325; ord. 4 novembre 2002, n. 15438; 12 gennaio 1984, n. 232, in tema di spese li-quidate in una sentenza del Consiglio di Stato).

4.2. Risulta evidente, infatti, che le censure propo-ste con il motivo in scrutinio non investono questioni attinenti alla giurisdizione, cioè all’osservanza dei co-siddetti limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali della Corte dei conti, ma attengono alla correttezza dell’esercizio delle attribuzioni medesime.

5. Conclusivamente, il ricorso va rigettato.

6. Non vi è luogo a provvedere in ordine alle spese del giudizio di cassazione in favore del controricorren-te procuratore generale rappresentante il pubblico mi-nistero della Corte dei monti, stante la sua natura di parte solamente in senso formale (Cass., S.U., 8 mag-gio 2017, n. 11139; 27 febbraio 2017, n. 4879; 27 di-cembre 2016, n. 26995).

7. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 13, c. 1-quater, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115,

nel testo introdotto dall’art. 1, c, 17, l, 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contri-buto unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del c. 1-bis del già citato art. 13.

P.q.m., la Corte rigetta il ricorso; (omissis).

17567 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; or-dinanza 28 giugno 2019; Pres. Mammone, Est. Di Virgilio; Fiera di Roma s.r.l. c. Anva s.r.l. Regolamento di giurisdizione.

Enti pubblici e privati – Enti fieristici – Natura di organismi di diritto pubblico – Presupposti – Fatti-specie.

L’ente fieristico, per essere ritenuto organismo di diritto pubblico, deve agire – nel perseguire l’interesse pubblico - senza essere soggetto alle regole di mercato e, quindi, senza che possa ritenersi eserci-tata dallo stesso attività di carattere commerciale; in mancanza di tali requisiti, la controversia appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario (nella specie, la Suprema Corte ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento ad un contenzioso in cui era parte la Fiera di Roma, rilevando, sulla ba-se dello statuto e della l. reg. Lazio n. 56/1995, recan-te la soppressione dell’Ente autonomo Fiera di Roma e la partecipazione della regione alla costituzione del-la Società Fiera di Roma s.p.a., il carattere commer-ciale e concorrenziale dell’attività svolta). (1)

(1-3) I. - Massima ufficiale.

II. - Cfr. Corte giust. 5 ottobre 2017, C- 567/15, in Rep. Fo-ro it., 2017, voce Unione europea e Consiglio d’Europa, n. 533; nonché, con riferimento al criterio di economicità, Cass., S.U., 7 aprile 2010, n. 8225, in Foro it., 2011, I, 1484, con nota di richiami di M. Allena, M.F. Ferrero.

III. - V. Cass. n. 8225/2010, cit.

IV. - È stata richiamata Corte giust. 10 maggio 2001, C-223/99 e C-260/99, Agorà, in Foro it., 2001, IV, 294, con nota di richiami, che, in relazione all’Ente autonomo Fiera interna-zionale di Milano, ha ritenuto che lo stesso soddisfa un interes-se di carattere generale, e parimenti di carattere commerciale, fornendo servizi agli espositori che beneficiano della promo-zione dei beni e servizi che vengono esposti, e altresì ai visita-tori “che desiderano raccogliere informazioni ai fini di eventua-li decisioni di acquisto”; che, per quanto detto soggetto non persegua scopi lucrativi, “opera, come emerge dall’art. 1 del suo statuto, secondo criteri di rendimento, di efficacia e di red-ditività”, e che, non essendo “previsto alcun meccanismo per compensare eventuali perdite finanziarie”, lo stesso sopporta direttamente il rischio economico della propria attività; che l’ente agisce in ambito concorrenziale (circostanza la cui valu-tazione spetta al giudice nazionale, tenendo conto del comples-so delle attività esercitate, a livello internazionale, nazionale e regionale), concludendo nel senso che l’ente in oggetto non costituisce un organismo di diritto pubblico ai sensi dell’art. 1, c. 2, lett. b), della direttiva 92/50/Cee, abrogata dall’art. 82 del-la direttiva 2004/18/Ce, in attuazione della quale è stato emana-to il d.lgs. n. 163/2006, sostituito successivamente dal d.lgs. n. 50/2016.

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Rilevato che Anva s.r.l., attuale gestore del servizio di ristorazione presso il quartiere fieristico di Fiera Roma s.r.l. in forza di contratto d’affitto del relativo ramo d’azienda da Vanni s.r.l., scelta a suo tempo da Fiera Roma senza alcuna formalità, ha impugnato di-nanzi al Tar del Lazio l’avviso esplorativo finalizzato ad ottenere la migliore offerta per la gestione del ser-vizio di caffetteria e ristorazione da svolgersi presso il quartiere fieristico del 15 novembre 2017, con cui Fie-ra Roma ha indetto la procedura per la gestione del servizio in oggetto; la lettera d’invito per l’affidamento della gestione dei servizi di caffetteria e ristorazione da svolgersi presso il quartiere fieristico n. 000113; il capitolato d’oneri per la gestione del ser-vizio di caffetteria e ristorazione da svolgersi presso il quartiere fieristico; tutti gli atti preordinati, conse-quenziali e connessi.

Dopo la notifica del ricorso, Fiera Roma, essendo pervenuta l’unica offerta di Anva, si è avvalsa della facoltà di non procedere all’apertura della stessa, sce-gliendo di revocare la procedura selettiva per la man-canza di concorrenzialità, con conseguente rinuncia di Anva all’istanza cautelare proposta.

Nel giudizio avanti al Tar, Fiera Roma ha eccepito in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione del giu-dice amministrativo, sostenendo il non assoggetta-mento al codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, e con ricorso notificato il 18 maggio 2018 ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione.

Si è costituita Anva con controricorso, eccependo l’infondatezza della tesi ex adverso sostenuta.

Il p.g. ha depositato le conclusioni scritte, ex art. 380-ter c.p.c., chiedendo dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario. Fiera Roma s.r.l. ed Anva hanno depositato memoria ex art. 380-ter, c. 2, c.p.c.

Considerato che col ricorso ex art. 41 c.p.c., Fiera Roma s.r.l., con socio unico, società soggetta a dire-zione e coordinamento di Investimenti s.p.a., sostiene il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a favore della giurisdizione del giudice ordinario, atteso che l’art. 133, c. 1, lett. e), c.p.a. devolve alla giurisdi-zione esclusiva del giudice amministrativo le contro-versie “relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale” e che la società non è soggetta al regime pubblicistico degli appalti sia per le caratteristiche oggettive dell’appalto che sog-gettive di essa stazione appaltante.

Nello specifico, la ricorrente deduce di non poter essere considerata quale “organismo di diritto pubbli-co”, non rientrando nell’elencazione pur non tassativa e non sussistendo, in disparte dalla personalità giuridi-ca, gli altri due requisiti richiesti dall’art. 3, c. 1, lett. d), codice dei contratti pubblici del 18 aprile 2016, n. 50, norma che per la parte che qui interessa così di-spone: «Ai fini del presente codice si intende per: […]

d) “organismi di diritto pubblico”, qualsiasi organi-smo, anche in forma societaria, il cui elenco non tassa-tivo è contenuto nell’allegato IV: 1) istituito per sod-disfare specificatamente esigenze di interesse genera-le, aventi carattere non industriale o commerciale; 2) dotato di personalità giuridica; 3) la cui attività sia fi-nanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pub-blico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pub-blico».

Come affermato nella recente pronuncia del 28 marzo 2019, n. 8673, “la categoria dell’organismo di diritto pubblico è stata elaborata nel diritto eurounita-rio al fine di individuare le c.d. amministrazioni ag-giudicatrici, ossia i soggetti tenuti al rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte dalle stesse norme dell’Unione europea. Tale categoria, applicabi-le solo nell’ambito dei contratti pubblici, costituisce il precipitato della c.d. nozione sostanzialistica di pub-blica amministrazione, avallata dalla legislazione eu-ropea, ribadita dalla giurisprudenza eurounitaria e in-terna (Cons. Stato, Ad. plen., n. 13/2016) e preordina-ta – per il mezzo della valorizzazione del “fine” per-seguito da un determinato soggetto rispetto alla sua qualificazione giuridica – ad evitare che la privatizza-zione puramente formale di enti pubblici possa deter-minare una sostanziale elusione delle normative euro-pee”.

Ciò posto, va rilevato in via preliminare che la di-rettiva 2014/24/Ue, in attuazione della quale è stato emanato il d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che ha abroga-to il previgente d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, a sua vol-ta emanato in attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce, e che conteneva disposizione sovrappo-nibile all’attuale art. 3, c. 1, lett. d), d.lgs. n. 50/2016, ha specificamente previsto che un ente può ritenersi quale organismo di diritto pubblico solo ove coesista-no i tre requisiti previsti dalla norma (per la coesisten-za, nella vigenza delle precedenti direttive, si erano già espresse la Corte giust. 15 gennaio 1998, C-44/96, Mannesmann, nonché Cass., S.U., 7 aprile 2010, n. 8225; 29 maggio 2012, n. 8511); e l’interpretazione di tali requisiti deve essere svolta adottando un approccio di tipo funzionale “che consenta di perseguire gli obiettivi di non discriminazione e tutela della concor-renza che la disciplina degli appalti pubblici si pone di perseverare” (Corte giust. 10 novembre 1998, C-360/96, Arhnhem; 15 gennaio 1998, C-44/96, Manne-sman; 5 ottobre 2017, C-567/15, LitSpecMet Uab).

Sempre la pronuncia di queste Sezioni unite n. 8673/2019 ha rilevato che, “a differenza degli altri due requisiti, quello c.d. ‘teleologico’ ha richiesto molte-plici interventi da parte della giurisprudenza nazionale e, in particolare, eurounitaria volti a definirne delle linee guida all’interpretazione. Innanzitutto, in merito all’espressione ‘specificatamente’, si è detto (Corte

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giust. 15 gennaio 1998, C-44/96) che essa indica la volontà del legislatore di vincolare all’applicazione delle norme sugli appalti pubblici solo i soggetti isti-tuiti allo scopo specifico di soddisfare interessi di ca-rattere generale aventi carattere non industriale e commerciale e la cui attività risponda a tali esigenze”.

“Peraltro, non risulta necessario che l’organismo eserciti questa attività di interesse generale in modo esclusivo, potendo il medesimo soggetto svolgere altre attività, addirittura con carattere prevalente.

In secondo luogo, in merito al significato di ‘biso-gni generali’ occorre precisare che questi costituisco-no una categoria più ampia all’interno della quale de-ve essere rinvenuta la sotto-categoria dei bisogni ‘non industriali e commerciali’, i quali devono essere indi-viduati in base al contesto di riferimento e delle finali-tà perseguite dalle direttive in tema di appalti (si veda Corte giust. 27 febbraio 2003, C-373/2000). In merito alla portata applicativa di quest’ultimo requisito, il profilo interpretativo di maggiore rilevanza è costitui-to dalla possibilità di definire organismo pubblico an-che quello che opera in un regime concorrenziale”.

“A seguito di molteplici oscillazioni da parte della giurisprudenza eurounitaria (si ricordino i due leading cases Corte giust. 15 gennaio 1998, C-44/96, Manne-sman, e 10 novembre 1998, C-360/96, Bfi Holding, orientati nel senso di considerare l’agire in concorren-za come un semplice elemento indiziario, superabile; Corte giust. 10 maggio 2001, C-223/99, Agorà c. Ente autonomo Fiera internazionale di Milano, orientata nel senso di escludere la qualifica di organismo di di-ritto pubblico nel caso esso agisse in concorrenza e con metodo economico), deve essere condiviso l’orientamento […] che non considera determinante il mero fatto che la società operi in un mercato concor-renziale ai fini dell’esclusione della sua qualifica di organismo di diritto pubblico. Si tratta infatti esclusi-vamente di un indizio presuntivo, superabile con pro-va contraria, e non di un elemento dirimente”.

“È verosimile, in un mercato i cui connotati sono sempre più complessi, che in alcuni casi i bisogni di ordine generale possano presentare una notevole rile-vanza economica inducendo anche operatori economi-ci privati a collocarsi nel settore (e senza che ciò inci-da sulla possibilità di qualificare l’organismo della cui natura si controverte come organismo di diritto pub-blico). Si giunge, pertanto, a concludere per la non in-compatibilità tra lo svolgimento di attività di impresa e l’operatività in settori contrassegnati da un’economia di mercato, da un lato, e la qualificabilità dell’ente come organismo di diritto pubblico, dall’altro. La nozione di organismo di diritto pubblico, di conseguenza, in quanto funzionale alla liberalizza-zione dei mercati e alla trasparenza, deve essere esten-sivamente intesa (sul punto si veda Corte giust. 27 febbraio 2003, C-373/00) e nella valutazione degli in-dici richiesti dalla norma deve essere privilegiato, ad un approccio formalistico, un approccio funzionale che tenga conto delle concrete modalità di azione del-la società”.

“Da ultimo, non può guidare la valutazione il fatto che la società non sia totalmente detenuta dall’amministrazione controllante. Gli organismi di diritto pubblico non è necessario che sottostiano alle medesime regole previste per la società in house in tema di controllo analogo, stante la diversa natura dei due istituti”.

“In ragione di quanto finora affermato, per definire la natura di organismo di diritto pubblico di un sogget-to, alla luce dei criteri enucleati all’art. 3, lett. d), d.lgs. n. 50/2016, occorrerà avere riguardo; in primo luogo, al tipo di attività svolta dalla società e all’accertamento che tale attività sia rivolta alla realiz-zazione di un interesse generale, ovvero che sia neces-saria affinché la pubblica amministrazione possa sod-disfare le esigenze di interesse generale alle quali è chiamata e, in secondo luogo, che tale società si lasci guidare da considerazioni diverse da quelle economi-che (si veda la già citata Corte giust. 5 ottobre 2017, C-567/15; nonché, con riferimento al criterio di eco-nomicità, Cass. n. 8225/2010). In particolare, in meri-to a quest’ultimo profilo, è necessario, in primo luogo, che la società non fondi la propria attività principale su criteri di rendimento, efficacia e redditività e che non assuma su di sé i rischi collegati allo svolgimento di tale attività i quali devono ricadere sull’amministrazione controllante (Cass. n. 8225/2010). In secondo luogo, il servizio d’interesse generale che ne costituisce l’oggetto non può essere rifiutato per ragioni di convenienza economica.

In conclusione ai fini della qualificazione di una società come organismo di diritto pubblico, per stabi-lire se essa agisca per un fine di interesse generale, occorrerà procedere ad una valutazione in concreto degli elementi di fatto e di diritto che connotano l’agire della stessa”.

Alla stregua di detti principi, va esaminata la situa-zione di specie, con iniziale riguardo proprio al requi-sito sub 1) di cui all’art. 3, cit., che, per quanto sopra rilevato, esige il riscontro del perseguimento di un “in-teresse generale” e del carattere non industriale o commerciale dell’attività.

Nel caso di attività svolta da ente fieristico, si è pronunciata la Corte di giustizia nella sent. 10 maggio 2001, C-223/99 e C-260/99, Agorà, che, in relazione all’Ente autonomo Fiera internazionale di Milano, ha ritenuto che lo stesso soddisfa un interesse di carattere generale, e parimenti di carattere commerciale, for-nendo servizi agli espositori che beneficiano della promozione dei beni e servizi che vengono esposti, ed altresì ai visitatori, “che desiderano raccogliere infor-mazioni ai fini di eventuali decisioni di acquisto”; che, per quanto detto soggetto non persegua scopi lucrativi, “opera, come emerge dall’art. 1 del proprio statuto, secondo criteri di rendimento, di efficacia e di redditi-vità”, e che, non essendo “previsto alcun meccanismo per compensare eventuali perdite finanziarie”, lo stes-so sopporta direttamente il rischio economico della propria attività; che l’ente agisce in ambito concorren-ziale (circostanza la cui valutazione spetta al giudice

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nazionale, tenendo conto del complesso delle attività esercitate, a livello internazionale, nazionale e regio-nale), concludendo nel senso che l’ente in oggetto non costituisce un organismo di diritto pubblico ai sensi dell’art. 1, c. 2, lett. b), della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/Cee (abrogata dall’art. 82 della direttiva 2004/18/Ce, in attuazione della quale è stato emanato il d.lgs. n. 163/2006, sostituito successiva-mente dal d.lgs. n. 50/2016).

Da tale pronuncia è chiaramente evincibile il prin-cipio secondo il quale l’ente fieristico, per essere rite-nuto organismo di diritto pubblico, nel perseguire l’interesse pubblico debba agire senza essere soggetto alle regole di mercato, e quindi senza che possa rite-nersi esercitata dallo stesso, attività di carattere com-merciale.

Ciò posto, si deve rilevare che lo statuto della Fiera di Roma all’art. 2.1 dispone che: “La società ha per oggetto l’attività di progettazione, organizzazione, promozione e gestione di attività fieristiche, espositive e congressuali, la gestione e lo sviluppo di quartieri fieristici di carattere sia nazionale che internazionale, nonché la prestazione di servizi complementari e di supporto alle attività stesse”.

Ora, detto oggetto di per sé è connotato dal caratte-re commerciale, ed il carattere concorrenziale dell’attività svolta (che, come sopra visto, costituisce un mero indice ai fini che qui interessano) non potreb-be escludersi avuto riguardo al mero ambito regionale (nel quale, in ogni caso, operano altri enti ed eventi fieristici), vista la previsione di attività a livello nazio-nale ed internazionale.

Quanto allo scopo di lucro, da intendersi come cri-terio di rendimento, efficacia e redditività, non è certo risolutivo, per ritenere escluso detto scopo, il richiamo all’art. 10.3 dello statuto, che dispone: “Gli utili netti risultanti dal bilancio […] verranno ripartiti fra i soci in proporzione alle quote da ciascuno di essi detenute, salvo diversa delibera di destinazione dell’assemblea”.

Né vi sono previsioni statutarie di ripianamento delle perdite mediante afflusso di capitali provenienti da enti pubblici, di talché deve concludersi per l’assunzione del rischio collegato all’esercizio dell’attività (e, osserva condivisibilmente la difesa della ricorrente, ove si escludesse automaticamente il rischio d’impresa per la sola presenza di soggetti pub-blici nella compagine societaria non si spiegherebbe perché siano soggette al fallimento le società parteci-pate: sul punto si veda la pronuncia n. 17279/2018, che ha affermato che tutte le società commerciali a to-tale o parziale partecipazione pubblica, quale che sia la composizione del loro capitale sociale, le attività in concreto esercitate, ovvero le forme di controllo cui risultano effettivamente sottoposte, restano assogget-tate al fallimento, essendo loro applicabile l’art. 2221 c.c. in forza del rinvio alle norme del codice civile, contenuto prima nell’art. 4, c. 13, d.l. n. 95/2012, con-vertito con modificazioni dalla l. n. 135/2012, e poi nell’art. 1, c. 3, d.lgs. n. 175/2016).

Né decisivo, al fine di escludere l’esercizio di atti-vità commerciale, è il rilievo, operato dall’Anva, se-condo il quale l’attività di promozione del territorio è in linea con le indicazioni della legge Regione Lazio 1 dicembre 1995, n. 56, recanti la soppressione dell’Ente autonomo Fiera di Roma e la partecipazione della regione alla costituzione della società Fiera di Roma s.p.a., non riscontrandosi incompatibilità tra lo sviluppo di attività legate al territorio e la natura commerciale dell’attività svolta (vedi la pronuncia Cass., S.U., 1 agosto 2012, n. 13792).

La carenza del requisito di cui al n. 1) lett. d) dell’art. 3, c. 1, d.lgs. n. 50/2016 esime dal verificare la presenza degli ulteriori due requisiti che concorrono ai fini della individuazione degli organismi di diritto pubblico.

Va conseguentemente ritenuta la giurisdizione del giudice ordinario, avanti al quale vanno rimesse le parti, anche per la statuizione sulle spese del presente giudizio.

* * *

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CORTE DI APPELLO

72 – Corte di appello di Bari; decreto 30 luglio 2019; Pres. Grillo, Est. Prencipe; Omissis.

Società – Amministratori – Grave irregolarità nel-la gestione – Denuncia dei soci – Criteri. C.c., art. 2409.

Per l’esercizio dell’azione prevista dall’art. 2409 c.c. (denunzia da parte dei soci al tribunale di irrego-larità nella gestione da parte degli amministratori che possono arrecare danno alla società o a una o più so-cietà controllate) “lo status di socio e la titolarità di una certa aliquota del capitale sociale costituiscono non presupposti processuali condizionanti solo la re-golare instaurazione del procedimento e non anche la decisione finale, bensì condizioni dell’azione che, in quanto tali, devono permanere intatte fino alla deci-sione del giudice adito, non essendo sufficiente la loro semplice sussistenza al momento dell’instaurazione della domanda”. (1)

Svolgimento dei procedimenti – I.A. Il decreto im-pugnato. Con decreto in data 30 luglio 2018-13 set-tembre 2018 il Tribunale di Bari, Sezione specializza-ta in materia di impresa, in accoglimento del ricorso ex art. 2409 proposto dall’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Pu-glia, Lucania ed Irpinia (d’ora innanzi anche solo Ei-pli) in qualità di socio di Società idroelettrica meri-dionale (d’ora innanzi anche solo Sim) s.p.a., così provvedeva: 1) ordinava l’ispezione, a spese del ricor-rente, dell’amministrazione della Società idroelettrica meridionale s.p.a., nominando il dott. Francesco Lane-ra (al fine di procedere all’esame dell’amministrazione della società, accertando l’eventuale esistenza di irregolarità contabili, ammini-strative e gestionali ed indicando, in caso positivo, gli interventi correttivi necessari, provvedendo al deposi-to della relazione conclusiva entro il 15 dicembre 2018); 2) fissava l’udienza del giorno 1 ottobre 2018, dinanzi al Collegio, per il conferimento dell’incarico.

I.B. I procedimenti di reclamo

I.B.1. Proc. n. 2076/2028 R.g.a.v.g.

I.B.1.a. Con ricorso depositato in data 29 settembre 2018 N.L., vicepresidente del consiglio di ammini-strazione di Sim s.p.a., proponeva reclamo avverso il decreto in data 30 luglio 2018-13 settembre 2018 del Tribunale di Bari, Sezione specializzata in materia di impresa, chiedendo a questa Corte di voler così prov-vedere: 1) in via cautelare, sospendere l’efficacia del decreto di ispezione emesso dal Tribunale di Bari; 2) in via definitiva, accogliere il reclamo, con vittoria di spese e competenze. A sostegno del reclamo il N.

(1) Segue la nota di Emilio Fabbiani, Decreto n. 72/2019

Corte di appello di Bari. Nota di commento.

enunciava quattro motivi: I) difetto di ius postulandi del difensore di Eipli [il reclamante deduceva che la procura alle liti era stata conferita da Eipli a patrono del libero foro in mancanza dei presupposti previsti dall’art. 43 del r.d. n. 1611/1933, con conseguente nullità del mandato e di tutti gli atti compiuti dal di-fensore]; II) improseguibilità dell’azione [il reclaman-te deduceva che Eipli (ente soppresso e posto in liqui-dazione, come risultante dal decreto commissariale n. 46 in data 27 febbraio 2017 del medesimo ente) non aveva posto in liquidazione le proprie partecipazioni societarie entro il giorno 15 novembre 20l7, termine perentorio stabilito dall’art. 24, c. 4, d.lgs. n. 175/2016, e conseguentemente, ai sensi dell’art. 24, c. 5, del medesimo d.lgs., non poteva esercitare i diritti sociali nei confronti di Sim s.p.a. (società partecipa-ta)]; III) violazione dell’art. 2409, cc. 2 e 3, c.c. [il re-clamante deduceva che il Tribunale di Bari non aveva proceduto all’audizione personale degli amministrato-ri e dei sindaci di Sim s.p.a., la quale non solo costi-tuiva un loro diritto, ma era anche un atto istruttorio fondamentale e non surrogabile dalle memorie difen-sive]; IV) motivazione apparente del decreto [il re-clamante deduceva che il tribunale non aveva indicato le circostanze giustificative del “fondato timore” di gravi irregolarità].

I.B.1.b. Con memoria di costituzione depositata in data 12 ottobre 2018, F.D., amministratore delegato di Sim s.p.a., aderiva al reclamo proposto dal N., dedu-cendo altresì la violazione dell’art. 187 c.p.c., e del principio della ragione più liquida (artt. 24 e 111 Cost.). Pertanto, chiedeva a questa Corte di voler, pre-via sospensione in via cautelare del decreto di ispe-zione emesso dal Tribunale di Bari, accogliere il re-clamo proposto da N.L., con vittoria di spese e com-petenze.

I.B.1.c. Con decreto in data 16-18 ottobre 2018, pronunciato nel subprocedimento n. 2076-1/2018 R.g.a.v.g. (introdotto con istanza di sospensione ur-gente depositata in data 15 ottobre 2018 da N.L. e F.D.), il presidente della Sezione specializzata in ma-teria di impresa di questa Corte disponeva la sospen-sione del provvedimento reclamato, salva conferma del collegio all’esito del contraddittorio delle parti.

1.B.1.d. Con memoria di costituzione e risposta depositata in data 30 novembre 2018, S.R., già presi-dente del consiglio di amministrazione di Sim s.p.a., si costituiva nei procedimento, chiedendo a questa Corte di voler così provvedere: 1) dichiarare del tutto nullo, inammissibile, improponibile, improcedibile, inacco-glibile e comunque tardivo ex lege il reclamo proposto da N.L., con emanazione degli opportuni conseguenti provvedimenti relativi all’ispezione giudiziale di Sim s.p.a., ove necessario in uno a quant’altro a ritenersi ex lege in ordine al gravato decreto de quo reso dal Tri-bunale di Bari; 2) con vittoria, in ogni caso, di spese e competenze onorarie.

I.B.1.e. Con comparsa di costituzione e risposta depositata in data 4 dicembre 2018, Eipli, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, si costitui-

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va nel procedimento, deducendo l’infondatezza del reclamo e chiedendo pertanto a questa Corte di voler così provvedere: a) rigettare il reclamo; b) per l’effetto, all’occorrenza, confermare il decreto di ispe-zione dei Tribunale di Bari comunicato in data 13 set-tembre 2018; c) con vittoria di spese e compensi come per legge.

I.B.1.f. Con comparsa di costituzione e risposta depositata in data 4 dicembre 2018, M.M., presidente (fino al 29 novembre 2016) e componente (dopo il 29 novembre 2016) del collegio sindacale di Sim s.p.a. si costituiva nel procedimento, aderendo al reclamo ed invocandone raccoglimento, con ogni statuizione con-sequenziale.

I.B.2. Proc. n. 2275/2018 R.g.a.v.g.

I.B.2.a. Con ricorso depositato in data 28 ottobre 2018, B.M., presidente del collegio sindacale di Sim s.p.a., proponeva reclamo avverso il decreto in data 30 luglio 2018-13 settembre 2018 del Tribunale di Bari, Sezione specializzata in materia di impresa, nonché avverso l’ordinanza in data 8 ottobre 2018 con cui il medesimo tribunale aveva immesso nell’incarico l’ispettore nominato con il decreto in data 30 luglio 2018-13 ottobre 2018, chiedendo a questa Corte di vo-ler cosi provvedere: 1) in via cautelare, sospendere l’efficacia dei decreto di ispezione emesso dal Tribu-nale di Bari, Sezione specializzata in materia di im-presa; 2) in via definitiva, accogliere il reclamo, con vittoria di spese e competenze. A sostegno del recla-mo il B. enunciava cinque motivi: I) difetto di ius po-stulandi del difensore di Eipli [il reclamante deduceva che la procura alle liti era stata conferita da Eipli a pa-trono del libero foro in mancanza dei presupposti pre-visti dall’art. 43 del r.d. n. 1611/1933, con conseguen-te nullità del mandato e di tutti gli atti compiuti dal. difensore]; II) improseguibilità dell’azione [il recla-mante deduceva che Eipli (ente soppresso e posto in liquidazione, come risultante dal decreto commissaria-le n. 46 in data 27 febbraio 2017 del medesimo ente) non aveva posto in liquidazione le proprie partecipa-zioni societarie entro il giorno 15 novembre 2017, termine perentorio stabilito dall’art. 24, c. 4, d.lgs. n. 175/2016, e conseguentemente, ai sensi dell’art. 24, c. 5, del medesimo d.lgs., non poteva esercitare i diritti sociali nei confronti di Sim s.p.a. (società partecipa-ta)]; III) violazione degli artt. 187 c.p.c., 24 e 111 Cost. e del principio della ragione più liquida [il re-clamante deduceva che, nonostante la dettagliata de-duzione ed illustrazione delle doglianze esposte nei motivi sub I) e II) (e nonostante la natura meramente assertiva e non documentata delle deduzioni contrarie redatte da Eipli all’udienza del giorno 8 ottobre 2010), il Tribunale di Bari non aveva provveduto su dette ec-cezioni, nonostante la loro evidente natura pregiudi-ziale alla prosecuzione del procedimento]; IV) viola-zione dell’art. 2409, cc. 2 e 3, c.c. [il reclamante de-duceva che il Tribunale di Bari non aveva proceduto all’audizione personale degli amministratori e dei sin-daci di Sim s.p.a., la quale non solo costituiva un loro diritto, ma era anche un atto istruttorio fondamentale e

non surrogabile dalle memorie difensive]; V) motiva-zione apparente del decreto impugnato [il reclamante deduceva che il tribunale non aveva indicato le circo-stanze giustificative del “fondato timore” di gravi ir-regolarità).

1.B.2.b. Con comparsa di costituzione e risposta depositata in data 3 dicembre 2018, Eipli, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, si costitui-va nel procedimento, deducendo l’infondatezza del reclamo e chiedendo pertanto a questa Corte di voler così provvedere: a) rigettare il reclamo; b) per l’effetto, all’occorrenza, confermare il decreto di ispe-zione del Tribunale di Bari comunicato in data 13 set-tembre 2018; c) con vittoria di spese e compensi come per legge.

I.B.2.c. Con memoria di costituzione e risposta de-positata in data 30 novembre 2018, S.R., già presiden-te del consiglio di amministrazione di Sim s.p.a., si costituiva nel procedimento (1), chiedendo a questa Corte di voler così provvedere: 1) dichiarare del tutto nullo, inammissibile, improponibile, improcedibile, inaccoglibile e comunque tardivo ex lege il reclamo proposto da B.M., con emanazione degli opportuni conseguenti provvedimenti relativi all’ispezione giu-diziale di Sim s.p.a., ove necessario in uno a quant’altro a ritenersi ex lege in ordine al gravato de-creto de qua reso dal Tribunale di Bari; 2) con vittoria di spese e competenze onorarie in ogni caso.

I.B.2.d. Con comparsa di costituzione e risposta depositata in data 4 dicembre 2018, M.M., presidente (fino al 29 novembre 2016) e componente (dopo il 29 novembre 2016) del collegio sindacale di Sim s.p.a., si costituiva nel procedimento, aderendo al reclamo ed invocandone l’accoglimento, con ogni statuizione consequenziale.

I.B.3. La riunione dei procedimenti e la riserva in decisione

I.B.3.a. All’udienza del giorno 4 dicembre 2018 la Corte, sentite le parti, disponeva la riunione del proc. n. 2275/2018 R.g.a.v.g. al proc. n. 2076/2018 R.g.a.v.g. e rinviava i procedimenti riuniti all’udienza del giorno 8 gennaio 2019.

I.B.3.b. All’udienza del giorno 8 gennaio 2019 la Corte, sentite le parti (alcune delle quali – segnata-mente N.L., B.M., F.D. ed Eipli – depositavano dedu-zioni scritte da allegarsi al verbale di udienza), si ri-servava.

(1) Nell’intestazione della memoria di costituzione e rispo-

sta depositata in data 30 novembre 2018, pervero, è indicato solo il proc. n. 2076/2018 R.g.a.v.g.: tuttavia non è revocabile in dubbio che con tale memoria il S. avesse inteso costituirsi anche nel proc. n. 2275/2018 R.g.a.v.g., avendo la parte espres-samente dedotto l’infondatezza sia del reclamo proposto da N.L. (introduttivo del proc. n. 2076/2018 R.g.a.v.g.) sia del re-clamo proposto da B.M. (introduttivo del proc. n. 2275/2018 R.g.a.v.g.) ed invocato la declaratoria di nullita-inammissibilita-improponibilità-improcedibllità-tardività e co-munque il rigetto (per inaccoglibilità) di entrambi i reclami.

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II. Motivi della decisione – II.A. L’eccezione di inammissibilità dei reclami

Innanzitutto va esaminata, per evidenti ragioni di pregiudizialità, l’eccezione di inammissibilità dei re-clami sollevata da S.R., secondo cui i reclami sarebbe-ro stati proposti oltre il termine perentorio fissato dall’art. 739, c. 2, c.p.c. (a norma del quale si può proporre reclamo contro i decreti pronunciati dal tri-bunale in camera di consiglio in primo grado con ri-corso alla corte d’appello nel termine di dieci giorni): a sostegno dell’eccezione (avente per oggetto questio-ne rilevabile anche ex officio, peraltro) il S. ha dedotto che il decreto del Tribunale di Bari fu comunicato alle parti in data 13 settembre 2018 (con la sua pubblica-zione sul portale telematico ad hoc predisposto), men-tre i reclami del N. e del B. (cui l’eccipiente ha ag-giunto la memoria di costituzione del F., espressamen-te qualificata “reclamo adesivo”) furono proposti con atti datati 29 settembre 2018, 12 ottobre 2018 e 28 ot-tobre 2018 (2) (depositati nelle medesime date (3) e dunque dopo la scadenza – il giorno 23 settembre 2018 – del predetto termine).

L’eccezione non è fondata.

L’art. 739 c.p.c. recita (ai primi due commi): “Contro i decreti del giudice tutelare si può proporre reclamo con ricorso al tribunale, che pronuncia in camera di consiglio. Contro i decreti pronunciati dal tribunale in camera di consiglio in primo grado si può proporre reclamo con ricorso alla corte d’appello, che pronuncia anch’essa in camera di consiglio.

Il reclamo deve essere proposto nel termine peren-torio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, se è dato in confronto di una sola parte, o dalla notifi-cazione se è dato in confronto di più parti”.

Nel caso in esame il decreto del Tribunale di Bari fu dato, pacificamente, nei confronti di più parti (a tal proposito e sufficiente esaminare gli atti del proc. n. 2112/2018 R.g.a.v.g. Trib. Bari e dei proc. nn. 3948/2016 R.g.a.v.g. e 5664/2017 R.g.a.c.c. Trib. Bari ad esso allegati), sicché dalla comunicazione del de-creto (13 settembre 2018) non cominciò affatto a de-correre il termine perentorio di 10 giorni (come inesat-tamente asserito dall’eccipiente), essendo invece ne-cessaria, per la decorrenza del termine de quo, la noti-ficazione del provvedimento ad istanza di parte (4)

(2) Pervero, alla p. 12 della memoria di costituzione e ri-

sposta del S., è indicato il giorno 15 ottobre 2018 quale data del “terzo” reclamo [in realtà del “secondo” reclamo (ossia quello proposto da B.M.), non essendo qualificabile “reclamo” la me-moria di costituzione depositata dal F. in data 12 ottobre 2018, semplicemente “adesiva” al reclamo proposto dal N.], ma con tutta evidenza trattasi di mero errore materiale (N.d.E.).

(3) V. nota precedente quanto alla terza data (N.d.E.).

(4) V. Cass. ord. n. 12972/2018, secondo cui “L’art. 739 c.p.c., secondo il quale il provvedimento emesso in camera di consiglio dal tribunale, se pronunciato in confronto di più par-li, è reclamabile entro dieci giorni dalla notificazione, non de-roga alla regola generale dettata dall’art. 326 c.p.c., con la conseguenza che anche il termine per proporre ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost. avverso i decreti pro-

(ossia a cura dello stesso Eipli, ricorrente in primo grado, o di qualsivoglia altra parte processuale), la esecuzione della quale, tuttavia, non solo non si evin-ce dagli atti, ma non risulta neppure allegata (e tanto-meno provata) dall’eccipiente.

È appena il caso di aggiungere, da ultimo, che, in mancanza di notificazione del decreto ad istanza di parte (la quale, come detto, avrebbe fatto decorrere il termine “breve” di cui all’art. 739, c. 2, c.p.c. per la proposizione del reclamo), l’impugnazione dei decreti pronunciati dal tribunale in camera di consiglio è sog-getta all’applicazione del termine “lungo” di cui all’art. 327 c.p.c. (sei mesi dalla pubblicazione del de-creto), pacificamente non decorso nel caso in esame.

Consegue a tanto la tempestività dei reclami pro-posti.

II.B. La sospensione, inaudita altera parte, del de-creto reclamato

Con decreto presidenziale in data 16-18 ottobre 2018, in accoglimento dell’istanza di sospensione ur-gente avanzata in data 16 ottobre 2018 da N.L. e F.D. (con conseguente apertura del subprocedimento n. 2076-1/2018 R.g.a.v.g.), è stata disposta la sospensio-ne ai sensi dell’art. 351, c. 3, c.p.c., inaudita altera parte, del provvedimento reclamato, salva conferma, modifica o revoca del decreto all’udienza in camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2018 fissata per la comparizione delle parti.

Sta di fatto, però, che all’udienza del giorno 4 di-cembre 2018, così come alla successiva udienza del giorno 8 gennaio 2019, il collegio non ha adottato al-cun provvedimento a norma dell’art. 351, c. 3, c.p.c. nel subprocedimento n. 2076-1/2018 R.g.a.v.g. e nep-pure nei procedimenti principali riuniti nn. 2076 e 2275/2018 R.g.a.v.g. (5).

Pertanto, ricorrendone tutti i presupposti (alla luce di quanto sarà più oltre evidenziato sub II.C.), il colle-gio, con il presente provvedimento, conferma il decre-to presidenziale in data 16-18 ottobre 2018.

II.C. I motivi dei reclami

II.C.1. Il primo motivo

nunciati in camera di consiglio, decorre dalla notificazione del provvedimento. A tal riguardo occorre che la notificazione sia eseguita ad istanza di parte, non essendo sufficiente che sia stata effettuata a cura della cancelleria del giudice, nel qual caso il ricorso per cassazione resta soggetto al termine ordina-rio di cui all’art. 327 c.p.c.” (nella specie, la Corte suprema ha disatteso l’eccezione avanzata da un fallimento, tesa a far con-stare la tardività del ricorso per cassazione sul presupposto che il termine di proposizione decorresse dalla comunicazione di cancelleria del decreto di rigetto del reclamo ex art. 739 c.p.c., proposto da un istituto di credito, avverso il decreto di accogli-mento della domanda di revocatoria avanzata dalla procedura concorsuale ex art. 67, c. 2, 1. fall. in relazione a rimesse ban-carie eseguite su conto corrente intrattenuto dalla società falli-ta). In senso conforme, Cass. ord. n. 22498/2010; n. 18514/2003.

(5) V. verbali di udienza dei giorni 4 dicembre 2018 e 8 gennaio 2019.

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N. 4/2019 PARTE V – ALTRE CORTI

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Con il primo motivo dei reclami (difetto di ius po-stulandi del difensore di Eipli), N.L. (con il ricorso introduttivo del proc. n. 2076/2018 R.g.a.v.g.) e B.M. (con il ricorso introduttivo del proc. n. 2275/2018 R.g.a.v.g.) hanno dedotto che la procura alle liti era stata conferita da Eipli a difensore del libero foro (avv. Ugo Patroni Griffi) in mancanza dei presupposti previsti dall’art. 43 del r.d. n. 1611/1933, con conse-guente nullità del mandato e di tutti gli atti compiuti dal difensore.

Eipli ha contestato la fondatezza di tale doglianza, assumendo di avere pedissequamente adempiuto al disposto dell’art. 43 del r.d. n. 1611/1933, atteso che: il decreto commissariale n. 352 del 21 luglio 2016, con il quale era stato deliberato di affidare all’avv. Ugo Patroni Griffi il mandato ad litem relativo al pro-cedimento ex art. 2409 c.c., era corredato da analitica motivazione; nel decreto commissariale n. 294 del 18 ottobre 2017 (con il quale era stato deliberato di affi-dare al medesimo professionista l’incarico di promuo-vere il giudizio di responsabilità ex art. 2393-bis c.c. e le connesse e conseguenti azioni risarcitorie nei con-fronti degli amministratori di Sim s.p.a.) era stato in-dicato il patrocinio precedentemente conferito all’avv. Ugo Patroni Griffi in relazione al procedimento in-staurato ex art. 2409 c.c.; quest’ultimo decreto com-missariale (n. 294/2017) era stato trasmesso sin dal 27 ottobre 2017 all’ente di controllo (Ministero delle po-litiche agricole, alimentari e forestali), con ampia for-mazione del silenzio-assenso; la medesima eccezione (difetto di ius postulandi) era stata rigettata nel giudi-zio avente per oggetto azione di responsabilità ex art. 2393-bis c.c. e connesse e conseguenti azioni risarci-torie; per esso reclamato operava non il patrocinio ob-bligatorio dell’Avvocatura dello Stato (artt. 1 ss. r.d. n. 1611/1933), bensì il c.d. patrocinio autorizzato (art. 43 r.d. n. 1611/1933), per cui esso reclamato poteva liberamente affidare la propria difesa, previa motivata delibera, ad avvocati del libero foro e il difensore offi-ciato aveva solo il dovere di produrre in giudizio – nel caso di contestazione della sussistenza dello ius postu-landi – la delibera che legittimava l’affidamento (nel caso in esame, il decreto commissariale n. 352 del 21 luglio 2016).

Il motivo è destituito di fondamento, risultando condivisibili le deduzioni (sopra sinteticamente ripor-tate) formulate da Eipli.

L’art. 43 del r.d. n. 1611/1933 dispone (tra l’altro):

- che “L’Avvocatura dello Stato può assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali, di amministra-zioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati, sot-toposti a tutela od anche a sola vigilanza dello Stato, sempre che sia autorizzata da disposizione di legge, di regolamento o di altro provvedimento approvato con regio decreto” (c. 10);

- che “Qualora sia intervenuta l’autorizzazione, di cui al primo comma, la rappresentanza e la difesa nei giudizi indicati nello stesso comma sono assunte dalla

Avvocatura dello Stato in via organica ed esclusiva, eccettuati i casi di conflitto di interessi con lo Stato o con le regioni” (c. 30); che “Salve le ipotesi dì con-flitto, ove tali amministrazioni ed enti intendano in ca-si speciali non avvalersi della Avvocatura dello Stato, debbono adottare apposita motivata delibera da sot-toporre agli organi di vigilanza” (c. 4).

Con decreto in data 18 aprile 2001 del Presidente del Consiglio dei ministri, l’Avvocatura dello Stato era stata autorizzata ad assumere la rappresentanza e la difesa dell’Eipli (Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Pu-glia, Lucania ed Irpinia), nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giu-risdizioni amministrative e speciali.

La Corte suprema (dal cui autorevole insegnamen-to, pienamente condivisibile, non v’è ragione alcuna di discostarsi) ha chiarito che la facoltà di derogare in casi speciali, ai sensi dell’art. 43 del r.d. n. 1611/1933, al patrocinio autorizzato spettante per legge all’Avvocatura dello Stato, per avvalersi dell’opera di liberi professionisti, è subordinata (salva l’ipotesi in cui si verifichi in concreto un conflitto di interessi so-stanziali tra più enti pubblici parti nel medesimo giu-dizio, poiché un simile conflitto di interessi – che deve essere reale, non meramente ipotetico e documentato – rende non ipotizzabile il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato) all’adozione di una specifica e motivata deliberazione dell’ente da sottoporre agli organi di vi-gilanza per un controllo di legittimità e che in via ge-nerale la mancanza di tale controllo determina la nulli-tà del mandato alle liti (6).

Ora, in disparte l’ipotesi di cui all’art. 43, c. 3, r.d. n. 1611/1933 (pacificamente non ricorrente nel caso in esame), la Corte osserva che entrambi i presupposti previsti dall’art. 43, c. 4, r.d. n. 1611/1933 appaiono sussistere, atteso che:

con decreto commissariale n. 352 del 21 luglio 2016 [dunque emanato pochi giorni prima della pro-posizione del ricorso ex art. 2409 c.c. (v. proc. n. 3948/2016 R.g.a.v.g. Trib. Bari, instaurato con ricorso depositato in data 4 agosto 2016) l’Eipli aveva delibe-rato (tra l’altro) di incaricare il prof. avv. Ugo Patroni Griffi (difensore del libero foro) del “patrocinio lega-le finalizzato all’individuazione ed alla conseguente attivazione di ogni possibile azione giudiziaria, tesa alla tutela degli interessi della società Sim s.p.a. e conferendo ampio mandato” (v. p. 6, punto 3.). Nella parte motiva di tale decreto commissariale (n. 352/2016) si dava atto (tra l’altro):

- che “l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Bari, di recente interessata circa lo stato e l’avanzamento dei contenziosi in essere presso l’ente, ha evidenziato che in relazione alle fattispecie sottoposta all’attenzione risulta necessario disporre di accurate e tempestive relazioni istruttorie, dalle quali emerga-

(6) In termini, Cass., S.U., n. 28476/2017. In senso con-

forme, Cass. n. 6672/2011.

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no gli orientamenti dell’ente, supportati da adeguate motivazioni, tanto anche in considerazione dell’opportunità di misurare gli interventi dell’Avvocatura medesima in relazione all’effettiva sussistenza dei presupposti di causa; in detta sede l’Avvocatura ha altresì espresso orientamento acché l’ente, per questioni che richiedano di intervenire con particolare tempestività, contraddistinte da profili specialistici e di particolare complessità, si avvolga almeno per i primi gradi di giudizio di professionisti del libero foro” (p. 6, primo “Dato atto”);

- che “ricorrendo l’esigenza di avvalersi di profes-sionalità particolarmente qualificata in materia socie-taria oltre che specificamente specializzata in materia di società a partecipazione pubblica, si ritiene di con-ferire incarico al prof. avv. Ugo Patroni Griffi del Fo-ro di Bari, docente di Diritto commerciale nell’Università degli studi di Bari” (p. 6, “Atteso”);

con decreto commissariale n. 294 del 18 ottobre 2017, comunicato al Ministero delle politiche agrico-le, alimentari e forestali (organo di vigilanza) in date 30 ottobre 2017 (a mezzo Pec) e 3 novembre 2017 (a mezzo raccomandata a.r.), l’Eipli aveva deliberato (tra l’altro) di “conferire mandato al prof. avv. Ugo Pa-troni Griffi per la valutazione e la successiva proposi-zione, laddove ne ricorrano i presupposti, di azione di responsabilità ex art. 2393-bis e di connesse e conse-guenti azioni risarcitorie” (p. 8, punto 9). Nella parte motiva di tale decreto commissariale (n. 294/2017) si dava atto (tra l’altro):

- che “è in corso il procedimento ex art. 2409 c.c. nei confronti degli amministratori della Sim s.p.a.” (p. 6, “Valutato”);

- che “il prof. avv. Ugo Patroni Griffi è stato già incaricato dall’ente per il patrocinio legale nell’ambito del giudizio ex art 2409 c.c. innanzi al Tribunale di Bari e che pertanto, in ragione di conti-nuità della difesa, appare opportuno conferire manda-to al medesimo professionista per la valutazione e la successiva proposizione (ove ne ricorrano presuppo-sti) di azione di responsabilità ex art. 2393-bis e di connesse e conseguenti azioni risarcitorie” (p. 7, “Va-lutato”).

In buona sostanza, dunque, il conferimento all’avv. Ugo Patroni Griffi (professionista del libero foro), da parte di Eipli, del mandato per la proposizione di ri-corso ex art. 2409 c.c. risulta essere stato preceduto da apposita delibera motivata dell’ente (v. parte motiva del decreto commissariale n. 352/2016) ed essere stato portato a conoscenza del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali.

A quest’ultimo proposito è opportuno precisare che se è vero che non vi è prova – come correttamente asserito dai reclamanti – della comunicazione del de-creto commissariale n. 352/2016 al ministero vigilante (Eipli, pur deducendo l’avvenuta rituale comunicazio-ne di detto decreto al Ministero delle politiche agrico-le, alimentari e forestali e pur affermando, già nel pro-cedimento di primo grado, di essere pronto a produrla, non aveva poi depositato – e neppure esibito – alcuna

documentazione comprovante la comunicazione de qua, tanto nel procedimento di primo grado quanto nei presenti procedimenti di reclamo), è però altrettanto vero che il successivo decreto commissariale n. 294/2017, ritualmente comunicato da Eipli al Ministe-ro delle politiche agricole, alimentari e forestali (v. sopra) con relativa formazione del silenzio-assenso, recava specifiche indicazioni in ordine alla pendenza del procedimento ex art. 2409 c.c. dinanzi al Tribunale di Bari instaurato dall’avv. Ugo Patroni Griffi (profes-sionista del libero foro) nella qualità di rappresentante e difensore dell’ente, sicché può concludersi nel senso che Eipli, sia pure “indirettamente” (e con modalità non del tutto ineccepibili sotto il profilo della chiarez-za e della linearità), avesse comunque fornito al Mini-stero delle politiche agricole, alimentari e forestali elementi sufficienti affinché quest’ultimo, nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza e controllo, potesse verificare l’effettiva sussistenza delle condi-zioni legittimanti il conferimento di incarico profes-sionale ad avvocato del libero foro in deroga alle di-sposizioni di cui all’art. 43, cc. 1 e 3, r.d. n. 1611/1933 (in forza delle quali, come visto, l’Eipli deve essere “di regola” rappresentato e difeso “nei giudizi […] dalla Avvocatura dello Stato in via organica ed esclu-siva”).

Consegue a tanto il rigetto del primo motivo dei reclami.

II.C.2. Il secondo motivo

Con il secondo motivo dei reclami (improseguibil-lità dell’azione), N.L. (con il ricorso introduttivo del proc. n. 2076/2018 R.g.a.v.g.) e B.M. (con il ricorso introduttivo del proc. n. 2275/2018 R.g.a.v.g.) hanno dedotto che Eipli (soppresso e posto in liquidazione, come risultante dal decreto commissariale n. 46 in da-ta 27 febbraio 2017 del medesimo ente) non aveva po-sto in liquidazione le proprie partecipazioni societarie entro il giorno 15 novembre 2017, termine perentorio stabilito dall’art. 24, c. 4, d.lgs. n. 175/2016, e conse-guentemente, ai sensi dell’art. 24, c. 5, del medesimo d.lgs., non poteva esercitare i diritti sociali nei con-fronti di Sim s.p.a.

Il motivo è fondato.

L’art. 24, c. 1, d.lgs. n. 175/2016 (pubblicato nella G.U., Serie Generale, n. 210 del giorno 8 settembre 2016 ed entrato in vigore in data 23 settembre 2016), nel procedere al riordino della normativa in materia di società partecipate da amministrazioni pubbliche, aveva disposto (tra l’altro) che le partecipazioni dete-nute, direttamente o indirettamente, dalle amministra-zioni pubbliche alla data di entrata in vigore del decre-to non riconducibili ad alcuna delle categorie di cui all’art. 4, cc. l, 2 e 3, ovvero che non soddisfacessero i requisiti di cui all’art. 5, cc. 1 e 2, o che ricadessero in una delle ipotesi di cui all’art. 20, c. 2, dovevano esse-re alienate o essere oggetto delle misure di cui all’art. 20, cc. 1 e 2; a tal fine ciascuna amministrazione pub-blica, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, doveva effettuare con provvedimento motiva-to la ricognizione di tutte le partecipazioni possedute

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alla medesima data di entrata in vigore del decreto, individuando quelle che dovevano essere alienate [successivamente il termine de quo era stato differito al 30 settembre 2017 dall’art. 15, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 100/2017 (entrato in vigore in data 27 giugno 2017), modificativo in parte qua del c. 1 dell’art. 24 del d.lgs. n. 175/2016, con l’ovvia precisazione – su cui si tornerà anche più oltre – che tale proroga riguardava esclusivamente le amministrazioni pubbliche che non avessero effettuato la prevista ricognizione, con conte-stuale individuazione delle partecipazioni societarie da alienare, entro l’originario termine semestrale]; l’esito della ricognizione, anche in caso negativo, doveva es-sere comunicato con le modalità di cui all’art. 17 del d.l. n. 90/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 114/2014.

In attuazione dell’obbligo imposto dall’art. 24, c. 1, d.lgs. n. 175/2016, Eipli aveva proceduto tempesti-vamente (cioè entro sei mesi dal 23 settembre 2016, giorno di entrata in vigore del d.lgs. n. 175/2016), con decreto commissariale n. 562 del 15 novembre 2016 (7), alla ricognizione di tutte le partecipazioni da esso possedute al giorno 23 settembre 2016 (v. p. 2, secon-do “Considerato” del decreto commissariale n. 46 del 27 febbraio 2017 (8)) ed aveva decretato, all’esito dell’eseguita ricognizione, che, anche in ragione del proprio stato di liquidazione, non ricorrevano le con-dizioni di cui all’art. 4, c. 2, ed all’art. 5, c. 1, d.lgs. n. 175/2016 per il mantenimento delle partecipazioni so-cietarie detenute in tre enti, tra i quali vi era “Società idroelettrica meridionale-Sim s.p.a.” (v. pp. 2-3 del decreto commissariale n. 562 del 15 novembre 2016 e p. 2, “Atteso”, del decreto commissariale n. 46/2017).

L’art. 24 del d.lgs. n. 175/2016 disponeva, ai cc. 4 e 5 (non modificati dal d.lgs. n. 100/2017 né da altri provvedimenti legislativi), che “L’alienazione, da ef-fettuare ai sensi dell’art, 10, avviene entro un anno dalla conclusione della ricognizione di cui al c. 1”; che “In caso di mancata adozione dell’atto ricogniti-vo ovvero di mancata alienazione entro i termini pre-visti dal c. 4, il socio pubblico non può esercitare i di-ritti sociali nei confronti della società e, salvo in ogni caso il potere di alienare la partecipazione, la mede-sima è liquidata in denaro in base ai criteri stabiliti all’art. 2437-ter, c. 2, e seguendo il procedimento di cui all’art. 2437-quater del codice civile”.

Orbene, così ricostruito il quadro normativo e le vicende riguardanti Eipli, non è revocabile in dubbio che quest’ultimo ente, a decorrere dal 15 novembre 2017 (data di scadenza del termine di un anno dalla conclusione, in data 15 novembre 2016, della ricogni-zione prevista dall’art. 24, c. 1, d.lgs. n. 175/2016), non potesse più esercitare i diritti sociali nei confronti di Sim s.p.a., nell’ambito dei quali rientrava indub-biamente la denunzia al tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c.

(7) Doc. 4 del fascicolo Eipli.

(8) Doc. D del fascicolo N. e doc. 5 del fascicolo Eipli.

A diversa conclusione non può portare l’assunto di Eipli secondo cui l’avvio della procedura di alienazio-ne delle partecipazioni in Sim s.p.a. entro i termini previsti dall’art. 24, c. 4, d.lgs. n. 175/2016 avrebbe consentito ad esso di continuare ad esercitare i diritti sociali nei confronti di Sim s.p.a. (con conseguente legittimazione a proporre la – o a proseguire la già proposta – azione ex art. 2409 c.c.), per la semplice ragione che tale assunto risulta in oggettivo contrasto con la disposizione di cui all’art. 24, c. 5, d.lgs. n. 175/2016, con la quale il legislatore aveva inteso far discendere il divieto alle amministrazioni pubbliche di esercitare i diritti sociali nei confronti delle società partecipate non al mancato avvio tempestivo della “procedura di alienazione”, bensì alla “mancata alie-nazione” entro i termini previsti dal precedente c. 4.

E se è indubbiamente vero che Eipli, con il citato decreto commissariale n. 562/2016, aveva espressa-mente deliberato “di dare atto che sino alla definizione delle procedure di cessione-dismissione delle parteci-pazioni detenute, l’ente continuerà ad esercitare i dirit-ti doveri di socio, a tutela degli interessi dell’ente e dei terzi” (v. p. 3, punto 4), è però altrettanto vero che tale provvedimento (avente natura di atto amministrativo), ponendosi oggettivamente in contrasto con la disposi-zione di cui all’art. 24, c. 5, d.lgs. n. 175/2016, non può che essere disapplicato da questa Corte ai sensi degli artt. 4 e 5 della l. n. 2248/1865, all. E (c.d. legge abolitiva del contenzioso amministrativo, a tutt’oggi pienamente vigente (9)), a norma dei quali: (art. 4) “Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo non potrà essere revo-cato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali sì conformeranno al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso de-ciso”; (art. 5) “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministra-tivi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi” (10).

Tutto ciò posto, deve rilevarsi che l’eliminazione, con la riforma dei 2003, del potere di iniziativa del pubblico ministero per le società “chiuse” ha rafforza-to la tesi “privatistica” dell’istituto de quo (già soste-nuta da parte della giurisprudenza prima della novella) secondo la quale la denuncia al tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c. non è finalizzata alla tutela di inte-ressi pubblicistici, sicché lo status di socio (implicante il potere di esercitare i relativi diritti) e la titolarità di

(9) L’indispensabilità della permanenza in vigore della l. n.

2248/1865, all. E (in particolare degli artt. 4 e 5) è stata dichia-rata dall’art. 1, c. 1, d.lgs. n. 179/2009, recante “Disposizioni legislative statali anteriori al gennaio 1970, di cui si ritiene in-dispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246”.

(10) L’enfasi (sottolineatura) non è presente nel testo origi-nario (N.d.E.).

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una certa aliquota del capitale sociale costituiscono non presupposti processuali condizionanti solo la re-golare instaurazione del procedimento e non anche la decisione finale, bensì condizioni dell’azione che, in quanto tali, devono permanere intatte fino alla deci-sione del giudice adito, non essendo sufficiente la loro semplice sussistenza al momento della proposizione della domanda (11).

Pertanto, avendo Eipli perso ex lege, in data 15 no-vembre 2017, la possibilità di esercitare i diritti sociali nei confronti di Sim s.p.a. (individuata dallo stesso Eipli, all’esito della ricognizione conclusa in data 15 novembre 2016, come una delle società le cui parteci-pazioni dovevano essere alienate entro il termine an-nuale di cui all’art. 24, c. 4, d.lgs. n. 175/2016, quindi appunto entro il 15 novembre 2017) e dovendo essere disapplicata la statuizione di cui al punto 4 del decreto commissariale n. 562/2016 [in forza della quale Eipli attribuiva a se stesso, in violazione dell’art. 24, c. 5, d.lgs. n. 175/2016, il potere di continuare ad esercitare i diritti doveri di socio “sino alla definizione delle procedure di cessione-dismissione” delle partecipa-zioni detenute (e non fino al 15 novembre 2017, ter-mine ultimo, non derogabile, fissato dall’art. 24, cc. l, 4 e 5, d.lgs. n. 175/2016)], deve necessariamente con-cludersi nel senso che dalla predetta data (15 novem-bre 2017) Eipli non era più legittimato a proseguire l’azione precedentemente proposta ex art. 2409 c.c.

Erroneamente, dunque, il Tribunale di Bari, anzi-ché dichiarare l’improseguibilità dell’azione proposta da Eipli ai sensi dell’art. 2409 c.c. (tempestivamente eccepita da tutti i resistenti – ad eccezione di S.R. – già in primo grado), valutò nel merito, accogliendolo, il ricorso presentato da Eipli.

È appena il caso di osservare, da ultimo, che ad analoga conclusione si giungerebbe anche se si rite-nesse che la scadenza del termine annuale di cui all’art. 24, c. 4, d.lgs. n. 175/2016 debba essere collo-cata non in data 15 novembre 2017 (v. sopra), bensì in data 30 settembre 2018 {come sostenuto da Eipli sulla base del testo dell’art. 24, c. 1, d.lgs. n. 175/2016, no-vellato dall’art. 15, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 100/2017, che, come visto, ha disposto il differimento al 30 set-tembre 2017 dell’originario termine semestrale (de-corrente dal 23 settembre 2016 e quindi scadente il 23 marzo 2017) assegnato alle amministrazioni pubbliche per effettuare la ricognizione di tutte le partecipazioni possedute al 23 settembre 2016 e la contestuale indi-viduazione di quelle da alienare [come chiarito in pre-cedenza, il testo novellato dell’art. 24, c. l, d.lgs. n. 175/2016 non può trovare applicazione nel caso in esame, poiché Eipli aveva già concluso la ricognizio-ne, con la contestuale individuazione delle partecipa-zioni societarie da alienare (tra le quali vi era quella in Sim s.p.a.), il 15 novembre 2016, quindi in data am-

(11) V. Trib. Roma 25 luglio 2014. Nel medesimo senso,

anteriormente alla riforma legislativa del 2003, App. Milano 25 novembre 1998.

piamente anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. n. 100/2017]}, per la semplice ragione che, alla predetta data (30 settembre 2018), il termine per proporre re-clamo avverso il decreto in data 30 luglio 2018-13 set-tembre 2018 del Tribunale di Bari non era scaduto, sicché questa Corte, a fronte dello specifico motivo enunciato dai reclamanti al fine di ottenere la declara-toria di improseguibilità dell’azione, comunque non avrebbe potuto fare altro che provvedere in conformi-tà, prendendo atto della perdita di legittimazione ad agire di Eipli (condizione dell’azione) prima della de-libazione dei reclami (12).

In conclusione, il secondo motivo dei reclami pro-posti da N.L. e B.M. va accolto (con consequenziale superamento ed assorbimento dei residui motivi enun-ciati dei reclamanti) e per l’effetto, in riforma dell’impugnato decreto in data 30 luglio 2018-13 set-tembre 2018 del Tribunale di Bari, Sezione specializ-zata in materia di impresa, va dichiarata l’improseguibilità dell’azione ex art. 2409 c.c. propo-sta da Eipli.

Alla riforma, nei sensi sopra precisati, dell’impugnato decreto in data 30 luglio 2018-13 set-tembre 2018 del Tribunale di Bari, Sezione specializ-zata in materia di impresa, consegue, a norma dell’art. 336, c. 2, c.p.c., la caducazione sia dell’ordinanza in data 8 ottobre 2018 del medesimo tribunale (espres-samente impugnata da B.M. unitamente al citato de-creto in data 30 luglio 2018-13 settembre 2018) sia di tutti gli altri provvedimenti ed atti dipendenti dal de-creto riformato.

II.D. La regolamentazione delle spese processuali (Omissis)

P.q.m., definitivamente pronunciando nei proce-dimenti riuniti nn. 2076 e 2275/2018 R.g.a.v.g. (non-ché nel subprocedimento di inibitoria n. 2076-1/2018 R.g.a.v.g.),

A) sul reclamo proposto da N.L., con ricorso depo-sitato in data 29 settembre 2018, nei confronti di Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania ed Irpinia (Eipli), in per-sona del suo legale rappresentante pro tempore, Socie-tà idroelettrica meridionale (Sim) s.p.a., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, S.R., F.D., L.M., C.A., D’A.G., L.B., B.M., C.A., T.A.T.S., F.A., G.G., M.M., S.F.A. e F.L., avverso il decreto in data 30 luglio 2018-13 settembre 2018 del Tribunale di Ba-ri, Sezione specializzata in materia di impresa, nonché

B) sul reclamo proposto da B.M., con ricorso de-positato in data 28 ottobre 2018, nei confronti di Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania ed Irpinia (Eipli), in per-sona del suo legale rappresentante pro tempore, Socie-tà idroelettrica meridionale (Sim) s.p.a., in persona del

(12) V. Cass. n. 4863/2010, che ha chiarito che la “decisio-

ne” fino al momento della quale va verificata la sussistenza del-le condizioni dell’azione non va intesa, in senso restrittivo, co-me “decisione di primo grado”.

Page 298: Rivista Corte dei conti

N. 4/2019 PARTE V – ALTRE CORTI

292

suo legale rappresentante pro tempore, S.R., F.D., N.L., L.M., C.A., D’A.G., L.B., C.A., T.A.T.S., F.A., G.G., M.M., S.F.A. e F.L., avverso il decreto in data 30 luglio 2018-13 settembre 2018 e l’ordinanza in da-ta 8 ottobre 2018 del Tribunale di Bari, Sezione spe-cializzata in materia di impresa, nonché

C) sull’istanza di sospensione urgente dell’esecuzione del decreto in data 30 luglio 2018-13 settembre 2018 del Tribunale di Bari, Sezione specia-lizzata in materia di impresa, proposta da N.L. e F.D. in data 15 ottobre 2018,

così provvede:

1) conferma il decreto presidenziale di sospensione dell’esecuzione del decreto reclamato pronunciato inaudita altera parte in data 16-18 ottobre 2018 in ac-coglimento dell’istanza sub C);

2) rigetta il primo motivo dei reclami sub A) e B);

3) accoglie il secondo motivo dei reclami sub A) e B) e per l’effetto, in riforma dell’impugnato decreto:

a) dichiara l’improseguibilità dell’azione ex art. 2409 c.c. proposta da Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Pu-glia, Lucania ed Irpinia (Eipli), con conseguente cadu-cazione, ex art. 336, c. 2, c.p.c., dell’ordinanza in data 8 ottobre 2018 e di tutti gli altri provvedimenti ed atti dipendenti dal decreto impugnato;

b) condanna Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania ed Irpi-nia e S.R., in solido tra loro, alla rifusione, in favore di N.L. e B.M., delle spese del procedimento di primo grado, che liquida in euro. 3.000 ciascuno, tutti per compenso, oltre rimborso spese forfettarie nella misu-ra del 15 per cento del compenso totale per la presta-zione, Cnpaf ed Iva come per legge, con distrazione in favore dell’avv. Giuseppe Romito, difensore con pro-cura dichiaratosi anticipatario;

4) dichiara assorbito ogni altro motivo dei reclami sub A) e B);

5) condanna Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania ed Irpi-nia e S.R., in solido tra loro, alla rifusione, in favore di N.L., B.M., F.D. e M.M., delle spese dei presenti pro-cedimenti di reclamo, in esse incluse quelle relative al subprocedimento sub C) (omissis).

Decreto n. 72/2019 Corte di appello di Bari. Nota di commento

Sommario: 1. Premessa. – 2. I fatti di causa. – 3. I termini di applicazione della normativa in tema di partecipazioni pubbliche. – 4. Il “recesso obbliga-torio” e la perdita dei diritti sociali nel testo uni-co.

1. Premessa

Con una recente pronuncia dello scorso 30 luglio la Corte di appello di Bari, nel risolvere una questione relativa alla validità di un decreto emesso dal Tribuna-

le di Bari relativo ad una procedura ex art. 2409 c.c. avviata dall’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania ed Irpinia (Eipli), nei confronti della Società idroelettrica meri-dionale s.p.a. (Sim s.p.a.) da questi partecipata, affron-ta in sede giudiziale la questione dell’effettiva portata del disposto dell’art. 24 del d.lgs. n. 175/2016 in mate-ria di dismissione di partecipazioni societarie non rile-vanti da parte di un ente pubblico (1).

In questo provvedimento si ricostruisce, sia pure sommariamente, la disciplina portata dal citato artico-lo e se ne traggono conclusioni, sia detto in anticipo, del tutto condivisibili relativamente alla possibilità di un ente pubblico di intervenire nella vita della sua par-tecipata successivamente alla verifica condotta secon-do quanto disposto dall’art. 24, c. 1, d.lgs. n. 175/2016.

2. I fatti di causa

L’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la tra-sformazione fondiaria in Puglia, Lucania ed Irpinia (Eipli), socio della Società idroelettrica meridionale s.p.a. (Sim s.p.a.), promuoveva un ricorso ex art. 2409 c.c. avanti al Tribunale di Bari, il quale, in accogli-mento dello stesso, disponeva l’ispezione dell’amministrazione di Sim s.p.a. e all’uopo nomina-va un professionista per procedervi successivamente all’udienza fissata per il conferimento dell’incarico.

Nelle more dell’udienza veniva proposto reclamo, avanti alla Corte di appello di Bari, contro tale decreto da parte degli amministratori di Sim e di componenti del collegio sindacale della stessa, reclamo cui resi-steva la stessa Eipli ed altri ex amministratori e sinda-ci della Sim s.p.a.

In sintesi, i motivi del reclamo erano i seguenti:

- eccezione di inammissibilità dei reclami per esse-re stati presentati oltre il termine di legge;

- difetto di ius postulandi in capo al difensore no-minato;

- improseguibilità dell’azione da parte di Eipli non avendo quest’ultima posto in liquidazione le proprie partecipazioni entro il termine fissato dall’art. 24 del d.lgs. n. 175/2016;

- violazione dell’art. 2409, cc. 2 e 3, c.c. per la mancata audizione degli amministratori e sindaci di Sim s.p.a.;

- motivazione apparente del decreto per la mancata indicazione delle circostanze giustificative del fondato timore di irregolarità;

- violazione dell’art. 187 c.p.c. e del principio della ragione più liquida ex artt. 24 e 111 Cost.

La Corte di appello, con provvedimento presiden-ziale in data 16-18 ottobre 2018, disponeva la sospen-sione del decreto reclamato sino alla decisione defini-tiva che veniva assunta in camera di consiglio nella seduta del 30 luglio scorso.

(1) Sul punto specifico non si sono ritrovati precedenti.

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Prescindendo dalla questione pregiudiziale del ri-spetto del termine di presentazione dei reclami, dei motivi posti a sostegno del reclamo la Corte prende in esame i primi due, il primo attinente ad una questione di legittimazione processuale relativa alla scelta di un avvocato del libero foro anziché del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, e il secondo – che sarà l’oggetto del presente commento – relativo all’applicazione dell’art. 24, c. 5, d.lgs. n. 175/2016, testo unico in materia di società a partecipazione pub-blica.

La Corte, nella sua articolata motivazione, si sof-ferma quindi anzitutto sulla questione relativa al difet-to di ius postulandi, ricostruendo la normativa di rife-rimento e sostanzialmente avallando la scelta di Eipli di far ricorso ad un avvocato del libero foro. Ricor-dando l’insegnamento della Suprema Corte (2), se-condo la quale la facoltà di derogare al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato è condizionata dalla “ado-zione di una specifica e motivata deliberazione dell’ente da sottoporre agli organi di vigilanza per un controllo di legittimità e che, in via generale, la man-canza di tale controllo determina la nullità del manda-to alle liti”. In tal senso, Eipli era stata autorizzata ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura ma da questa stessa era stata invitata a rivolgersi a professionisti del libero foro almeno per i primi gradi di giudizio. Il de-creto commissariale di nomina del professionista era stato poi comunicato al Ministero delle politiche agri-cole, alimentari e forestali, organo di vigilanza dell’ente, e, conseguentemente, le condizioni per il conferimento del mandato al legale esterno erano state adempiute.

La parte però più rilevante del decreto, e che pren-deremo in esame, come sopra ricordato, nel successi-vo commento, attiene all’eccezione di improseguibili-tà dell’azione ex art. 2409 c.c., in applicazione dell’art. 24, c. 5, d.lgs. n. 175/2016, t.u. in materia di società a partecipazione pubblica.

Al fine di maggior chiarezza è opportuno prelimi-narmente ricordare l’oggetto dell’intervento previsto dall’art. 2409 c.c.: la norma prescrive che:

“Se vi è fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi ir-regolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate, i soci che rappresentano il decimo del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di ri-schio, il ventesimo del capitale sociale possono de-nunziare i fatti al tribunale con ricorso notificato an-che alla società. Lo statuto può prevedere percentuali minori di partecipazione”.

Tale norma, che prevede un intervento in volonta-ria giurisdizione del tribunale competente per territo-rio, ha una finalità di tutela dell’interesse generale

(2) Cass., S.U., n. 2487/2017 e, conforme, Cass. n.

6672/2011.

connesso alla corretta gestione della società (3), con la precisazione della concorrente tutela dei singoli soci, della minoranza, della società e al fine di evitare dan-no al patrimonio sociale e pregiudizio ai terzi che su tale patrimonio fanno affidamento. La finalità del pro-cedimento è quindi quella di ricondurre la società ad un riassetto economico e contabile assicurandone per il futuro l’ordinaria e regolare amministrazione.

La natura del procedimento ha un riflesso impor-tante sulla ricostruzione della Corte, nel momento in cui si interroga sulla permanenza del diritto del socio pubblico di proporre tale azione successivamente all’adozione degli atti amministrativi di ricognizione delle partecipazioni previsti dall’art. 24 del testo uni-co.

3. I termini di applicazione della normativa in tema di partecipazioni pubbliche

La Corte ricorda anzitutto come l’art. 24, c. 1, del citato t.u. preveda che le partecipazioni detenute, di-rettamente o indirettamente, dalle amministrazioni pubbliche alla data di entrata in vigore del decreto e non riconducibili alle categorie di esenzione ivi previ-ste (art. 4) (4) ovvero che non rispettino i requisiti di cui all’art. 5, cc. 1 e 2, né ricadano nelle ipotesi di cui

(3) V., sul punto, Cass., Sez. I, 9 aprile 1994, n. 3341 (in

Giust. civ., 1994, I, 3145, con nota di G. Vidiri, Sull’art. 2409 c.c. e sui poteri del giudice in presenza di irregolarità nell’amministrazione societaria): “Il procedimento ex art. 2409 c.c. è finalizzato al riassetto economico e contabile della società nel caso in cui vengano denunziate gravi irregolarità di gestio-ne, per l’accertamento delle quali il tribunale può disporre ispe-zione giudiziale, all’esito della quale il tribunale medesimo adotta i provvedimenti necessari per detto riassetto, a meno che le irregolarità riscontrate siano di tale gravità da imporre la re-voca degli amministratori e la nomina di un amministratore giudiziario, potendo, solo in quest’ultimo caso, incidere sulle prerogative dell’assemblea circa la nomina degli amministrato-ri”.

(4) Il c. 1 dell’art. 4 fornisce la chiave di lettura generale disponendo che “Le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per og-getto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzio-nali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di mino-ranza, in tali società”. Nei successivi commi vengono esplicitati tali criteri e raffigurate talune categorie di esenzione.

In particolare colpisce la previsione di cui al c. 9-ter, intro-dotto con l’art. 1, c. 891, l. 27 dicembre 2017, n. 205, che fa “salva la possibilità per le amministrazioni pubbliche di acqui-sire o mantenere partecipazioni, comunque non superiori all’1 per cento del capitale sociale, in società bancarie di finanza eti-ca e sostenibile, come definite dall’art. 111-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (Tub), di cui al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, senza ulteriori oneri finanziari rispet-to a quelli derivanti dalla partecipazione medesima”.

Questa norma del Tub introduce una particolare categoria di soggetti giuridici che svolgono attività bancaria definiti “operatori bancari di finanza etica e sostenibile”, categoria che viene giudicata di rilievo pubblico dal testo unico al punto tale da considerare la partecipazione nella compagine sociale di questi operatori economici come pertinente ex lege agli scopi dell’ente pubblico.

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all’art. 20, c. 2, dello stesso t.u., debbano essere alie-nate o inserite nei piani di riassetto di cui allo stesso art. 20, cc. 1 e 2.

Tale attività doveva essere svolta, in via di prima attuazione della norma, entro i sei mesi successivi dall’entrata in vigore del decreto, ovvero entro il 23 marzo 2017, termine successivamente differito al 30 settembre 2017 (5), e l’alienazione doveva avvenire entro un anno dall’avvenuta ricognizione.

Eipli aveva adempiuto all’obbligo de quo tempe-stivamente, entro la prima scadenza, con decreto commissariale del 15 novembre 2016 ed aveva quindi un anno (art. 24, c. 4, t.u.) per provvedere all’alienazione delle partecipazioni, termine questo fissato al 15 novembre 2017.

A fronte di una eccezione avanzata da Eipli su questo punto e basata sul fatto che l’avvenuta proroga del termine avrebbe determinato lo “slittamento” del termine annuale a disposizione dell’ente per provve-dere all’alienazione della partecipazione portandolo quindi al 30 settembre 2018, la Corte prende posizione ricordando come la proroga del termine di ricognizio-ne, disposta con d.lgs. n. 100/2017, entrato in vigore il 27 giugno 2017, che modificava sul punto l’art. 24, c. 1, del t.u. fissando, come detto, al 30 settembre 2017 la data limite per tale adempimento, riguardava esclu-sivamente le amministrazioni pubbliche che non aves-sero effettuato la prevista ricognizione e non quelle amministrazioni che vi avessero già adempiuto.

Eipli, avendo provveduto alla ricognizione nei termini sopra ricordati, secondo il corretto argomenta-re della Corte, non era quindi interessata da tale pro-roga, rimanendo vincolata alla scadenza annuale de-corrente dal momento dell’avvenuta ricognizione.

Questo punto sarà riportato anche successivamente nel testo del decreto della Corte, a rafforzare la deci-sione di riformare il decreto del tribunale.

Riprende quindi la Corte l’esame della normativa esplicitando come la conseguenza della mancata alie-nazione nell’anno successivo alla ricognizione viene stabilita dal citato art. 24, al c. 5, con l’espressa previ-sione che “In caso di mancata adozione dell’atto rico-gnitivo ovvero di mancata alienazione [...] il socio pubblico non può esercitare i diritti sociali nei con-fronti della società”.

L’interpretazione data alla norma da parte della Corte sul punto è letterale e a nulla quindi può valere l’avvio della procedura di alienazione che, secondo i resistenti, avrebbe consentito a Eipli di continuare ad esercitare i diritti sociali nei confronti della partecipata Sim s.p.a.

A giudizio della Corte infatti tale interpretazione “risulta in oggettivo contrasto con la disposizione di cui all’art. 24, c. 5, d.lgs. n. 175/2016, con la quale il legislatore aveva inteso far discendere il divieto alla amministrazioni pubbliche di esercitare i diritti sociali

(5) D.lgs. 16 giugno 2017, n. 100, art. 15, c. 1.

nei confronti delle società partecipate non al mancato avvio tempestivo della procedura di alienazione, bensì alla ‘mancata alienazione’ entro i termini previsti dal precedente c. 4”.

Neppure vale per la Corte il “rimedio”, inserito nel decreto commissariale di ricognizione da Eipli, di ri-servarsi “autonomamente” il diritto di esercitare i “propri diritti doveri di socio a tutela degli interessi dell’ente e dei terzi” sino alla “definizione delle pro-cedure di cessione-dismissione delle partecipazioni detenute”.

Tale previsione infatti, essendo contenuta in un at-to amministrativo, non può disapplicare la norma di legge e conseguentemente il giudice non deve tenerne conto.

La conclusione è a questo punto scontata, posto che nell’opinione della Corte per l’esercizio dell’azione prevista dall’art. 2409 c.c. “lo status di so-cio e la titolarità di una certa aliquota del capitale so-ciale costituiscono non presupposti processuali condi-zionanti solo la regolare instaurazione del procedi-mento e non anche la decisione finale, bensì condizio-ni dell’azione che, in quanto tali, devono permanere intatte fino alla decisione del giudice adito, non essen-do sufficiente la loro semplice sussistenza al momento dell’instaurazione della domanda”.

Dal momento che con il decorso del termine an-nuale Eipli aveva perso la qualità di socio a far data dal 15 novembre 2017, non era per questi possibile esercitare il diritto di denunzia al tribunale.

Tale condizione per la Corte non sarebbe stata sus-sistente neppure nel caso in cui, aderendo alla tesi del resistente Eipli, si fosse considerato come termine a quo la successiva scadenza riportata dal novellato art. 24, c. 4, citato e quindi non al 15 novembre 2017 ma al successivo termine conseguente alla modifica di ta-le articolo, ovvero al 30 settembre 2018 (6).

(6) Si deve segnalare, come risulta dallo stesso dalla rico-

struzione della vicenda operata dalla Corte e dallo stesso sito istituzionale di Eipli, che, con lo stesso decreto commissariale n. 294/2017 all’origine della controversia oggetto del reclamo, in data 30 gennaio 2018 è stata incardinata innanzi al Tribunale di Bari (R.g. n. 2193/2018) da parte di Eipli nei confronti di Sim s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, nonché dei suoi amministratori, azione di responsabilità ex art. 2393-bis c.c., volta a “a) accertare e dichiarare l’inadempimento degli amministratori di Sim s.p.a. convenuti nel presente giudizio ai doveri ad essi imposti dalle legge e dal-lo statuto, per le ragioni indicate in narrativa; b) per l’effetto, condannare i convenuti, in solido tra loro e nella proporzione che sarà determinata dall’on.le tribunale adito, al risarcimento del danno patito dalla società in ragione dell’inadempimento ai doveri ad essi imposti dalle legge e dallo statuto nella misura che sarà accertata nel presente giudizio; c) condannare i conve-nuti al pagamento di spese, diritti ed onorari del presente giudi-zio”.

La previsione dell’azione di responsabilità da parte degli azionisti era originariamente prevista all’art. 129 del Tuf come disposizione a tutela delle minoranze per le sole società quotate e, dopo l’introduzione nel codice civile dell’art. 2393-bis con l’art. 1, c. 1, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, fu successivamente

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In questo senso la Corte sembra aderire alla giuri-sprudenza del Tribunale di Milano (7), che ha affer-mato che la titolarità dello status di socio deve sussi-stere per tutto il corso del procedimento, trattandosi di condizione dell’azione e non di mero presupposto processuale e quindi, anche a considerare il nuovo termine, vi sarebbe stata “la perdita della legittimazio-ne ad agire di Eipli prima della delibazione dei recla-mi”.

4. Il “recesso obbligatorio” e la perdita dei diritti so-ciali nel testo unico

La procedura delineata dall’art. 24 del t.u. parte dalla necessità di una ricognizione da parte dell’ente delle partecipazioni da questo detenute in società, do-vendosi intendere il termine partecipazioni in senso ampio, comprendendo, a norma dell’art. 1 di detta legge, genericamente “la titolarità’ di rapporti com-portanti la qualità di socio in società o la titolarità di

abrogata dall’art. 9 del d.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, di modo che la regola comune ora è contenuta soltanto nel citato art. 2393-bis c.c. in esame, la cui principale innovazione consiste nell’aver esteso l’azione a tutte le società e non soltanto a quel-le quotate, dando una voce importante agli azionisti di mino-ranza nella tutela dei loro diritti. Anche qui, venendo meno la qualità di socio, come vedremo nel prosieguo, dovrebbe porsi il medesimo problema della legittimazione attiva all’azione da parte dell’ente. Su questo punto, in dottrina, riferita alla formu-lazione originaria del Tuf, v. E. Sabatelli, Questioni in tema di legittimazione all’esercizio dell’azione di responsabilità da parte della minoranza, in Banca, borsa ecc., 2001, I, 88, che sul punto afferma: «Prioritariamente ad ogni altro si pone l’interrogativo, se sia indispensabile che gli attori risultino le-gittimati ad causam per tutto il giudizio e, dunque, mantengano l’iscrizione nel libro dei soci ed il possesso dell’aliquota di ca-pitale richiesta, fino alla conclusione del procedimento. A tale quesito si deve dare risposta positiva, in ragione delle peculiari-tà del diritto esercitato, sia che lo si inquadri nell’ambito della disciplina societaria, sia che se ne prendano in considerazione gli elementi, per così dire, “cartolari”».

Per una breve panoramica delle posizioni in materia, v. an-che A. Maffei Alberti, Commentario breve al diritto delle so-cietà. Sub art. 2393-bis, Padova, Cedam, 2015, 3a ed.

In generale valgono le stesse considerazioni esposte nella nota successiva.

(7) App. Milano 25 novembre 1998 (in Giur. it., 1999, 780): “La titolarità del decimo del capitale sociale, richiesta dall’art. 2409 c.c., deve sussistere non solo al momento della denunzia al tribunale, ma per tutto il corso del procedimento, trattandosi di condizione dell’azione e non di mero presupposto processuale”.

Contraria a tale interpretazione App. Torino 12 giugno 1987 (in Giur. piemontese, 1987, 765): “Il procedimento ex art. 2409 può proseguire anche se nel corso di esso il denunziante abbia perso la qualità di socio, bastando che la legittimazione sussistesse al momento della proposizione dell’istanza”;

Trib. Velletri 28 settembre 1993 (in Dir. fallim., 1994, II, 347, con nota di D. Di Gravio, Le “gravi irregolarità” per la revoca degli amministratori nelle società di capitali): “Ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 2409 c.c. per la denunzia di gravi irregolarità nell’amministrazione della società, è suffi-ciente che la titolarità di almeno un decimo del capitale sociale sussista al momento del deposito del ricorso, essendo irrilevan-te che essa venga meno nelle more del procedimento”.

strumenti finanziari che attribuiscono diritti ammini-strativi”, con un rimando ancor più ampiamente a quanto previsto dall’art. 2346, u.c., c.c.

La ricognizione di cui sopra è procedura che com-prende anche l’individuazione delle partecipazioni da alienare e la trasmissione degli esiti alla Corte dei con-ti per un controllo sull’adempimento di quanto pre-scritto oltre che, come visto sopra, l’obbligo dell’alienazione entro un anno.

La disposizione in oggetto deriva da una evoluzio-ne normativa che ha visto in primis l’intervento del legislatore con la l. 27 dicembre 2007, n. 244 (8), che, all’art. 3, cc. 27 e 29, prevedeva limiti alla possibilità per l’ente pubblico di costituire o partecipare a società di produzione di beni o servizi che non fossero stret-tamente necessarie al perseguimento delle loro finalità istituzionali. Questa limitazione riguardava anche e soprattutto le partecipazioni in essere, per le quali la norma prevedeva un termine entro il quale si sarebbe dovuto procedere ad una loro alienazione.

Lo scopo del legislatore era quello di razionalizza-re le partecipazioni detenute dagli enti pubblici, co-stringendo questi ultimi a dismettere, cedendole a terzi mediante procedura ad evidenza pubblica, tutte quelle ritenute inutili o non inerenti ai fini istituzionali dell’ente.

L’intervento non fu risolutivo e con la l. 27 dicem-bre 2013, n. 147, all’art. 1, c. 569 (9), si venne quindi

(8) L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 3, c. 27: “Al fine di tu-

telare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, non possono costi-tuire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento del-le proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere diret-tamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. È sempre ammessa la costituzione di società che producono ser-vizi di interesse generale e che forniscono servizi di commit-tenza o di centrali di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’art. 3, c. 25, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, e l’assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nell’ambito dei rispettivi livelli di competenza”.

L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 3, c. 29: “Entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le am-ministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, cedono a ter-zi le società e le partecipazioni vietate ai sensi del c. 27. Per le società partecipate dallo Stato, restano ferme le disposizioni di legge in materia di alienazione di partecipazioni. L’obbligo di cessione di cui al presente comma non si applica alle aziende termali le cui partecipazioni azionarie o le attività, i beni, il per-sonale, i patrimoni, i marchi e le pertinenze sono state trasferite a titolo gratuito alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano nel cui territorio sono ubicati gli stabilimenti termali, ai sensi dell’art. 22, cc. da 1 a 3, l. 15 marzo 1997, n. 59”.

(9) Il termine di trentasei mesi fissato dal c. 29 dell’art. 3 della l. 24 dicembre 2007, n. 244, è prorogato di dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, decorsi i quali la partecipazione non alienata mediante procedura di evi-

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N. 4/2019 PARTE V – ALTRE CORTI

296

a rafforzare l’obbligo normativo già vigente preve-dendo, quale conseguenza di un esito negativo della procedura di vendita, che la partecipazione cessasse “ad ogni effetto” con conseguente corresponsione all’ente del suo controvalore in denaro, gravando quindi la società partecipata dell’obbligo di liquida-zione della suddetta partecipazione secondo i criteri stabiliti dal c. 2 dell’art. 2437-ter c.c.

Mentre però la normativa precedente prevedeva, come visto, la “cessazione ad ogni effetto” della par-tecipazione, il nuovo t.u. adotta un criterio differente, almeno formalmente, per conseguire il medesimo sco-po (10).

Qui si specifica che viene inibito l’esercizio dei di-ritti sociali nei confronti della società e la partecipa-zione viene liquidata secondo i criteri già visti ricon-ducibili all’art. 2437-ter c.c., seguendo però il proce-dimento previsto dall’art. 2437-quater c.c.

Pur non essendo strettamente inerente al tema in commento, vale la pena di ricordare una recente ordi-nanza del Tribunale di Milano (11) in ordine alla pos-sibilità di procedere alla nomina di un esperto per la valutazione della partecipazione pubblica oggetto di dismissione forzosa.

Il Tribunale di Milano, nella pronuncia de qua, ha ritenuto non praticabile il ricorso in analogia al proce-dimento di cui all’art. 2437-ter, c. 6, argomentando dal dato letterale della legge – che richiama il solo se-condo comma dell’articolo – e per la diversa natura del diritto di recesso “ordinario” rispetto al recesso “obbligatorio” introdotto con il t.u. L’unica soluzione possibile per il Tribunale meneghino è il ricorso al tri-bunale per l’instaurazione di un giudizio ordinario che possa dare certezza al valore di liquidazione, esclu-dendo quindi la procedura di volontaria giurisdizione prevista dai successivi commi dell’art. 2409 c.c.

Senza voler entrare nel merito della questione, sia però permesso osservare che, come detto dallo stesso Tribunale di Milano, l’effetto determinato dalle norme speciali rispetto a quelle ordinarie è identico, ovvero il produrre la necessità di una liquidazione della parteci-pazione societaria. Il punto qui dunque si sposta non

denza pubblica cessa ad ogni effetto; entro dodici mesi succes-sivi alla cessazione la società liquida in denaro il valore della quota del socio cessato in base ai criteri stabiliti all’art. 2437-ter, c. 2, c.c.

(10) Il c. 5 di detto articolo prevede che: “In caso di manca-ta adozione dell’atto ricognitivo ovvero di mancata alienazione entro i termini previsti dal c. 4, il socio pubblico non può eser-citare i diritti sociali nei confronti della società e, salvo in ogni caso il potere di alienare la partecipazione, la medesima è li-quidata in denaro in base ai criteri stabiliti all’art. 2437-ter, c. 2, e seguendo il procedimento di cui all’art. 2437-quater c.c.

(11) Trib. Milano, Sez. spec. imprese, 26 luglio 2018, in Giur. it., 2019, I, 124, con nota di O. Cagnasso, Tre “variazio-ni” in tema di recesso del socio di società di capitali, annotata da M. Perrino, Inammissibilità della nomina giudiziale di un esperto per la valutazione della partecipazione pubblica ogget-to di dismissione forzosa, in Società, 2019, 708, entrambe ade-sive rispetto all’interpretazione del tribunale.

tanto sull’origine del diritto alla liquidazione ma esclusivamente sulla modalità di liquidazione, che de-ve essere fatta, in entrambi i casi, con regole di certez-za e rapidità.

È lo stesso Tribunale di Milano infatti che, in altra sentenza (12), negando la possibilità di adire al giudi-ce in via contenziosa per la determinazione del giusto valore di liquidazione della partecipazione, riteneva che la previsione che vede il ricorso al giudice sola-mente in presenza di omessa valutazione o di valuta-zione manifestamente iniqua o erronea fosse stata “in-trodotta all’evidenza per soddisfare sia ragioni di cele-rità sia ragioni di certezza della valutazione. Ragioni di celerità, perché il procedimento è volto proprio ad evitare che la questione sia decisa con i tempi necessa-riamente lunghi che contraddistinguono l’ordinario processo di cognizione” e “ragioni di certezza perché – nella consustanziale opinabilità delle valutazioni del valore delle partecipazioni societarie – l’operato dell’arbitratore è reso discutibile nel merito solo nel caso di manifesta erroneità o iniquità”.

Del resto, a contrariis rispetto alla prima ricostru-zione del tribunale, se il legislatore ha richiamato espressamente la prima parte dell’art. 2437-ter, che introduce di fatto un procedimento per la valutazione tra le parti del valore della partecipazione, avrebbe po-tuto esplicitare l’indicazione della volontà di ricorrere in caso di disaccordo – abbastanza fisiologico – al tri-bunale in un giudizio ordinario, posto che apparirebbe più logico, in assenza di indicazioni esplicite, invece proseguire secondo il criterio dettato dallo stesso arti-colo piuttosto che interpretare tale silenzio come una volontà di introdurre un procedimento contenzioso dove non sembrerebbe ve ne sia bisogno. Vale pru-dentemente anche qui il vecchio brocardo ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus.

Tornando ora al tema centrale di questo breve commento, se nella precedente formulazione la “ces-sazione ad ogni effetto” configurava per la sua am-piezza sicuramente una fattispecie di recesso ex lege, comportando la “conversione” della partecipazione in un diritto di credito, nella nuova previsione normativa l’aver specificato che la mancata alienazione determi-na l’impossibilità di esercizio dei diritti sociali può aprire qualche altra riflessione. In particolare, tale ef-fetto sembra voler separare i diritti sociali dai diritti patrimoniali assicurando il beneficio dei secondi a fa-vore dell’ente ma “congelando” la possibilità per quest’ultimo di esercitare i primi, quali ad esempio il diritto di voto in assemblea o lo stesso diritto di de-nunzia ex art. 2409 c.c. (13).

(12) Trib. Milano, Sez. spec. imprese, 16 febbraio 2017, ci-

tata da O. Cagnasso, v. nota precedente

(13) Per un esempio di separazione ex lege tra diritti sociali e diritti patrimoniali si veda l’art. 30 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (T.u. bancario) in materia di banche popolari, ove tale effetto è conseguenza anche qui della mancata alienazione da parte del socio della banca che ecceda il limite dell’1 per cento del capitale sociale e non abbia provveduto alla sua alie-

Page 303: Rivista Corte dei conti

N. 4/2019 PARTE V – ALTRE CORTI

297

Di fatto l’intento appare in ogni caso chiaro e in li-nea con le precedenti disposizioni legislative, rafforza-to qui dal richiamo alle disposizioni dell’art. 2437-quater c.c., che completano il quadro delle procedure che la società partecipata deve porre in essere per adempiere all’obbligo di liquidazione sino a giungere alle estreme conseguenze della messa in liquidazione.

L’ordinanza della Corte quindi certifica un dato importante introdotto dal testo unico, ovvero che l’inerzia nella gestione delle società partecipate da parte dell’ente pubblico determina l’intervento coatti-vo della norma di legge, che toglie ogni discrezionali-tà di gestione, cristallizza la situazione ad una data certa e sostituisce la volontà degli amministratori con un procedimento preordinato e certo, nell’intento di eliminare posizioni di stallo nella gestione delle risor-se pubbliche che abbiamo visto nel tempo trascinarsi per anni senza soluzione e soprattutto senza che vi sia un interesse pubblico effettivo a mantenerle in vita.

EMILIO FABBIANI

* * *

nazione nel termine di un anno dalla contestazione. In questo caso però si fanno salvi i diritti sociali e si congelano i diritti patrimoniali, e questo sia in base al fatto che, trattandosi di voto capitario e non di voto pro quota, tale diritto sociale non può essere espropriato, sia perché nel caso della partecipazione ad una banca il deterrente maggiore rispetto alla violazione dell’obbligo di legge consiste nel privare il socio eccedente il limite del ritorno economico del suo investimento. Cosa diversa nel caso dell’ente pubblico, dove l’aspetto patrimoniale è privi-legiato nell’assicurare un diritto di credito immediatamente azionabile e congelando invece quelle azioni di gestione che potrebbero impedire o ritardare l’esecuzione dell’obbligo di legge.

Per un commento generale all’art. 30 del Tub si veda L. Mancinelli, in F. Capriglione (a cura di), Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Padova, Ce-dam, 2018, 4a ed., I, 321 ss.

Page 304: Rivista Corte dei conti

N. 4/2019

298

RECENSIONI

G.M. Cartanese, A. Falchetti, F. Lorusso, O. Salvini, in Antonio Felice Uricchio, Gennaro Terracciano, Francesco Fimmanò (a cura di)

La verifica fiscale tra poteri autoritativi e diritti di partecipazione.

I controlli del fisco nelle dimensioni reale e virtuale

Molfetta, Duepuntozero, 2018, pagg. 432

Il volume, inserito nella collana “Saggi di diritto tributario, amministrativo e dell’economia”, ha ad oggetto la ve-rifica fiscale, analizzata da una prospettiva in cui la funzione ispettiva, espressione dei poteri autoritativi dell’amministrazione finanziaria, è considerata unitamente ai diritti di partecipazione del contribuente, fortemente va-lorizzati da dottrina e giurisprudenza tributaria. Gli Autori offrono una disamina completa del rapporto tra fisco e contribuente alla luce della circolare della Guardia di finanza del 2018 con cui sono state aggiornate le direttive ope-rative concernenti l’esecuzione delle verifiche, i controlli fiscali e le indagini di polizia economico-finanziaria finaliz-zate al contrasto dell’evasione, dell’elusione e delle frodi fiscali. Tra le tematiche affrontate spiccano la tax com-pliance, il rapporto tra verifica fiscale e indagini penali, oltreché un approfondimento sulle problematiche fiscali lega-te alle valute digitali e sulle indagini finanziarie nel mondo virtuale del web.

* * *

Aa.Vv., F. Pastore (a cura di)

Il regionalismo differenziato. Atti del convegno di Cassino del 5 aprile 2019

Padova, Wolters Kluwer-Cedam, 2019, pagg. 236

Il volume, inserito nella collana “Studi di Ermeneutica della temporalità giuridica” nasce dalla raccolta degli atti presentati al seminario di studi svoltosi in data 5 aprile 2019 presso il Dipartimento di Economia e Giurisprudenza dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale. Gli Autori, tutti studiosi di vari settori scientifici dell’area giuspubblicistica, appartenenti a diversi Atenei italiani, esprimono i loro contributi, non solo dal punto di vista dell’analisi teorica ma anche dal punto di vista dell’impegno politico-istituzionale su un progetto (ipotesi) di ri-forma nascente nell’ambito dell’ordinamento giuridico dei rapporti Stato-Regioni. La multidisciplinarietà degli esper-ti che si sono confrontati sul tema del “regionalismo differenziato”, ha fatto sì che i contributi siano analitici, critici ma senza preconcetti. L’opera costituisce quindi, vista la sua impostazione divulgativa, una preziosa riflessione su una questione in divenire e, anche per offrire al legislatore spunti di riflessione.

* * *

Aldo Schiavone

Ius. L’invenzione del diritto in Occidente

Torino, Einaudi, 2017, pagg. 586

Lo storico del diritto Schiavone torna con una nuova e ampliata edizione del suo libro, Ius. Dopo dodici anni. Il diritto si è saputo adattare a radicali mutamenti sociali e politici continuando così a disciplinare o quantomeno a in-fluire sulle società non solo occidentali e progressivamente separarsi dalla sfera religiosa. Così, ci spiega bene l’Autore in questo saggio che intreccia la dimensione giuridica a quella storica, dal taglio narrativo e non manualisti-co, affrontando un aspetto cruciale della Storia dell’Occidente, seguendo la trama del suo sviluppo dalle origini più remote fino alle soglie del mondo tardo antico. Un libro impegnativo e stimolante, nella continua analisi tra antico e moderno; provocatorio e importante, nel mettere a contrasto il pensiero del popolo romano con le nuove ideologie del popolo moderno, sfociando nella continuità con tutte le sue sfaccettature.

* * *

Page 305: Rivista Corte dei conti

N. 4/2019

INDICE ANALITICO DELLE DELIBERAZIONI E DELLE SENTENZE

299

Ambiente (tutela dell’)

Direttiva 2001/42/Ce – Recupero o smaltimento

dei rifiuti – Istituzione di un sistema inte-

grato di gestione dei rifiuti che garantisca

l’autosufficienza nazionale – Realizzazione

di impianti di incenerimento o incremento

della capacità degli impianti esistenti – Qua-

lifica degli impianti di incenerimento come

“infrastrutture e insediamenti strategici di

preminente interesse nazionale” – Necessità

di procedere ad una “valutazione ambien-

tale” (Corte giust. Ue, 8 maggio 2019, C-

305/18) 217

Direttiva 2008/98/Ce – Recupero o smaltimento

dei rifiuti – Istituzione di un sistema inte-

grato di gestione dei rifiuti che garantisca

l’autosufficienza nazionale – Realizzazione

di impianti di incenerimento o incremento

della capacità degli impianti esistenti – Qua-

lifica degli impianti di incenerimento come

“infrastrutture e insediamenti strategici di

preminente interesse nazionale” – Rispetto

del principio della “gerarchia dei rifiuti”

(Corte giust. Ue, 8 maggio 2019, C-305/18) 217

v. pure: Unione europea

Amministrazione dello Stato e pubblica in genere

Fondo per le politiche della famiglia – Gestione

2012-2018 – Relazione al Parlamento (Corte

conti, Sez. centr. contr. gestione, 28 giugno

2019, n. 12) 107

Ministero della difesa – Servizio sanitario mili-

tare – Revisione organizzativa e riduttiva del

settore – Relazione al Parlamento (Corte

conti, Sez. centr. contr. gestione, 7 agosto

2019, n. 16) 113

v. pure: Responsabilità amministrativa e conta-

bile

Contabilità dello Stato e pubblica in genere

v.: Amministrazione dello Stato e pubblica in genere – Enti a cui lo Stato contribuisce in

via ordinaria

Contabilità regionale e degli enti locali

Armonizzazione contabile – Comune – Tratta-

mento accessorio del personale – Spese – Im-

putazione (Corte conti, Sez. contr. reg. Ve-

neto, 29 luglio 2019, n. 201) 185

Azienda sanitaria locale – Servizi sanitari regio-

nali – Contributi in conto capitale – Calcolo

nel patrimonio netto e contemporanea utiliz-

zabilità per la sterilizzazione dei costi di

ammortamento – Questione di legittimità co-

stituzionale – Ammissibilità – Non manife-

sta infondatezza (Corte conti, Sez. contr. reg.

Campania, 17 luglio 2019, n. 148, con nota

di A. LUBERTI) 138

Bilancio – Sezione regionale di controllo della

Corte dei conti – Verifica della correttezza

del risultato di amministrazione – Economie

da rinegoziazione dei mutui (Corte conti,

Sez. riun. giur., spec. comp., 29 luglio 2019,

n. 23) 194

Bilancio regionale – Cespiti non sorretti da ido-

neo titolo giuridico – Iscrizione nelle “en-

trate” – Normativa regionale autorizzativa –

Illegittimità costituzionale (Corte cost., 24

luglio 2019, n. 197) 263

Comune – Piano di riequilibrio finanziario plu-

riennale – Controllo della sezione regionale

della Corte dei conti – Sentenza di illegitti-

mità costituzionale – Effetti – Intervento le-

gislativo – Questione di legittimità costitu-

zionale – Ammissibilità – Non manifesta in-

fondatezza (Corte conti, Sez. contr. reg. Ca-

labria, 26 agosto 2019, n. 108) 132

Giudizio di parificazione del rendiconto regio-

nale – Legge regionale – Trattamento acces-

sorio del personale del consiglio regionale –

Illegittimità costituzionale – Conseguenze

(Corte conti, Sez. contr. reg. Campania, 30

luglio 2019, n. 172) 145

Legge regionale – Forniture ai consorzi e alle so-

cietà d’ambito posti in liquidazione – Certi-

ficazione dei crediti vantati dalle imprese –

Modalità operative di attuazione – Illegitti-

mità costituzionale (Corte cost., 25 luglio

2019, n. 205) 266

Corte dei conti

Delibera della sezione regionale di controllo

della Corte dei conti – Impugnazione innanzi

alle Sezioni riunite in speciale composizione

– Termine (Corte conti, Sez. riun. giur., spec.

comp., 25 luglio 2019, n. 22) 191

Enti locali – Funzionamento del sistema dei con-

trolli interni – Verifica – Referto al Parla-

mento (Corte conti, Sez. autonomie., 29 lu-

glio 2019, n. 23, con nota di P. COSA) 128

Enti locali – Misure di contenimento e raziona-

lizzazione della spesa – Verifiche – Indica-

zioni metodologiche (Corte conti, Sez. auto-

nomie., 24 luglio 2019, n. 20, con nota di P.

COSA) 122

Page 306: Rivista Corte dei conti

N. 4/2019

INDICE ANALITICO DELLE DELIBERAZIONI E DELLE SENTENZE

300

Gruppi politici dei consigli regionali – Rendi-

conti – Controllo di regolarità – Spese soste-

nute nei mesi di dicembre 2012 e gennaio-

febbraio 2013 (Corte conti, Sez. riun. giur.,

spec. comp., 25 luglio 2019, n. 22) 191

v. pure: Contabilità regionale e degli enti locali

– Giurisdizione e competenza

Enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria

Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a. – Gestione

finanziaria 2017 – Relazione al Parlamento

(Corte conti, Sez. contr. enti, 18 luglio 2019,

n. 89) 116

Enti locali

Comune – Corresponsione indennità di funzione

– Dipendente a tempo determinato – Man-

cata opzione per l’aspettativa – Dimezza-

mento dell’indennità – Necessità (Corte

conti, Sez. contr. reg. Puglia, 25 luglio 2019,

n. 75, con nota di P. COSA) 173

Comune – Incentivi al personale per funzioni

tecniche – Erogazione – Concessioni –

Esclusione (Corte conti, Sez. contr. reg.

Lombardia, 18 luglio 2019, n. 309, con nota

di A. LUBERTI) 161

Comune – Personale – Monetizzazione ferie non

godute – Costanza del periodo di preavviso

per pensionamento – Applicabilità del di-

vieto generale (Corte conti, Sez. contr. reg.

Molise, 26 luglio 2019, n. 98, con nota di P.

COSA) 164

Comune – Personale – Spesa – Assunzioni per-

sonale – Scorrimento graduatorie – Modalità

di applicazione (Corte conti, Sez. contr. reg.

Puglia, 9 luglio, n. 72) 169

Comune – Personale – Spesa – Assunzioni per-

sonale dirigenziale e non – Modalità di cal-

colo – Budget unico – Necessità (Corte conti,

Sez. autonomie, 17 luglio 2019, n. 17, con

nota di P. COSA) 118

Comune – Personale – Spesa – Limiti assunzio-

nali (Corte conti, Sez. contr. reg. Basilicata,

12 luglio 2019, n. 56) 155

Comune – Personale – Spesa – Stabilizzazione

personale Lsu – Rispetto vincoli turn over e

programmazione triennale – Necessità

(Corte conti, Sez. contr. reg. Basilicata, 12

luglio 2019, n. 56) 155

Comune – Personale – Spesa – Utilizzo resti as-

sunzionali – Modalità (Corte conti, Sez. au-

tonomie, 17 luglio 2019, n. 17, con nota di P.

COSA) 118

Comune – Società partecipata – Revisione

straordinaria e razionalizzazione periodica –

Necessità – Deroga – Limiti (Corte conti,

Sez. contr. reg. Valle d’Aosta, 31 luglio

2019, n. 7, con nota di A. LUBERTI) 183

v. pure: Contabilità regionale e degli enti locali

– Corte dei conti – Reati contro la pubblica amministrazione – Responsabilità ammini-

strativa e contabile – Società

Enti pubblici e privati

Enti fieristici – Natura di organismi di diritto

pubblico – Presupposti – Fattispecie (Cass.,

S.U., ord. 28 giugno 2019, n. 17567) 281

v. pure: Responsabilità amministrativa e conta-

bile

Enti territoriali

Aree degradate – Riqualificazione sociale, cul-

turale e ambientale – Relazione al Parla-

mento (Corte conti, Sez. centr. contr. ge-

stione, 23 luglio 2019, n. 13) 111

Fondazioni

Fondazioni lirico-sinfoniche – Teatro lirico di

Cagliari – Contratto integrativo aziendale –

Accordi a latere – Compatibilità economico-

finanziaria – Certificazione negativa (Corte

conti, Sez. contr. reg. Sardegna, 13 agosto

2019, n. 53) 151

v. pure: Notificazione e comunicazione di atti

Giurisdizione e competenza

Corte di cassazione – Sentenza di esclusione

della giurisdizione contabile – Riassun-

zione/prosecuzione del giudizio da parte del

procuratore contabile – Pronuncia della

Corte dei conti – Nozione (Corte conti, Sez.

giur. reg. Puglia, 1 luglio 2019, n. 397) 214

Ordine professionale dei dottori commercialisti

e degli esperti contabili – Gestione del patri-

monio – Responsabilità contabile del presi-

dente e dei consiglieri – Giurisdizione conta-

bile (Cass., S.U., ord. 26 giugno 2019, n.

17118) 278

Ricorso avverso una delibera della sezione re-

gionale di controllo della Corte dei conti –

Sentenza Tar – Difetto di giurisdizione –

Riassunzione del processo innanzi alla Corte

dei conti – Termine (Corte conti, Sez. riun.

giur., spec. comp., 25 luglio 2019, n. 22) 191

Page 307: Rivista Corte dei conti

N. 4/2019

INDICE ANALITICO DELLE DELIBERAZIONI E DELLE SENTENZE

301

Società confiscate per concorso esterno in asso-

ciazione mafiosa – Custode e amministratore

giudiziario – Danni arrecati nella gestione

dei beni immobili di proprietà delle società

confiscate – Giurisdizione contabile (Cass.,

S.U., ord. 20 giugno 2019, n. 16536, con nota

di A.M. QUAGLINI) 276

Società in house – Expo 2015 s.p.a. – Danni ar-

recati da propri dipendenti – Danni arrecati

da dipendenti di altre società in house – Giu-

risdizione contabile (Corte conti, Sez. giur.

reg. Lombardia, 19 luglio 2019, n. 196) 212

Impiegato dello Stato e pubblico in genere

Assunzioni – Concorsi – Scorrimento delle gra-

duatorie – Presupposti (Corte conti, Sez.

contr. reg. Sardegna, 3 luglio 2019, n. 36,

con nota di A. LUBERTI) 181

Misure di contenimento della spesa – Liquida-

zione del trattamento di fine rapporto – Dif-

ferimento a ventiquattro mesi dalla cessa-

zione del rapporto di lavoro – Pagamento ra-

teale delle indennità di fine rapporto – Que-

stione di legittimità costituzionale – Infonda-

tezza (Corte cost., 25 giugno 2019, n. 159,

con nota di A. LUBERTI) 242

Misure di contenimento della spesa – Tratta-

mento di fine rapporto – Pagamento rateale –

Questione di legittimità costituzionale –

Inammissibilità (Corte cost., 25 giugno

2019, n. 159, con nota di A. LUBERTI) 242

v. pure: Istruzione pubblica

Impiegato regionale e degli enti locali

v.: Enti locali

Istruzione pubblica

Personale Ata – Concorso pubblico riservato –

Passaggio di ruolo – Prestazioni di servizio

pre-ruolo – Riconoscimento – Provvedi-

mento conforme a legge (Corte conti, Sez.

centr. legittimità, 25 luglio 2019, n. 4) 105

Notificazione e comunicazione di atti

Corte dei conti – Giudizi in materia di ricogni-

zione delle amministrazioni pubbliche ope-

rata dall’Istat – Fondazione – Ricorso av-

verso l’inserimento nell’elenco Istat –

Omessa notifica del ricorso al Procuratore

generale – Inammissibilità del ricorso (Corte

conti, Sez. riun. giur., spec. comp., 29 luglio

2019, n. 24) 201

Opere pubbliche

v.: Ambiente (tutela dell’)

Pensioni civili e militari

Pensione militare – Domanda diretta esclusiva-

mente all’accertamento della dipendenza di

infermità da causa di servizio – Mancata pre-

sentazione di contestuale istanza di pensione

privilegiata – Ammissibilità della domanda

(Corte conti, Sez. giur. reg. Trentino-Alto

Adige, Bolzano, 31 luglio 2019, n. 96) 215

Processo contabile

Scelte discrezionali della pubblica amministra-

zione (o di società in house) – Transazione –

Valutazione della congruità nel giudizio con-

tabile (Corte conti, Sez. giur. reg. Lombar-

dia, 19 luglio 2019, n. 196) 212

Reati contro la pubblica amministrazione

Comune – Sindaco – Spese di rappresentanza

dell’ente – Incompleta giustificazione conta-

bile – Peculato – Esclusione (Cass., Sez. VI

pen., 15 maggio 2019, n. 21166) 270

Regione in genere e regioni a statuto ordina-

rio

v.: Responsabilità amministrativa e contabile

Regioni a statuto speciale

Trentino-Alto Adige – Consiglieri regionali –

Trattamento economico e regime previden-

ziale – Attualizzazione di parte dell’assegno

vitalizio – Norma di interpretazione auten-

tica che incide retroattivamente sui calcoli

per l’attualizzazione – Questione di legitti-

mità costituzionale – Inammissibilità (Corte

cost., 9 maggio 2019, n. 108) 229

Responsabilità amministrativa e contabile

Comune – Amministratori – Segretario comu-

nale – Retribuzione – Principio di omnicom-

prensività – Violazione – Danno erariale

(Corte conti, Sez. giur. reg. Puglia, 23 luglio

2019, n. 489) 214

Comune – Amministratori di una società in

house – Personale dipendente in part time –

Incremento delle ore lavorative – Esborso in-

giustificato di risorse – Colpa grave – Danno

erariale (Corte conti, Sez. giur. reg. Siciliana,

20 agosto 2019, n. 621) 214

Comune – Capo dipartimento attività produttive

– Manifestazione pubblica – Determina di

affidamento lavori – Mancata prova dello

svolgimento della manifestazione – Danno

erariale (Corte conti, Sez. I centr. app., 10 lu-

glio 2019, n. 154) 206

Page 308: Rivista Corte dei conti

N. 4/2019

INDICE ANALITICO DELLE DELIBERAZIONI E DELLE SENTENZE

302

Comune – Manifestazione pubblica finanziata

dell’ente – Mancata prova dello svolgimento

della manifestazione – Visto di regolarità

contabile della spesa – Dirigente della ragio-

neria – Responsabilità amministrativa – Non

sussiste (Corte conti, Sez. I centr. app., 10 lu-

glio 2019, n. 154) 206

Comune – Sindaco – Richiesta anticipazioni di

liquidità – Destinazione vincolata – Paga-

menti operati in violazione del vincolo – Re-

sponsabilità amministrativa del sindaco –

Non sussiste (Corte conti, Sez. app. reg. Si-

ciliana, 23 luglio 2019, n. 86) 207

Danno all’immagine – Risarcimento – Codice di

giustizia contabile – Condizioni – Legitti-

mità costituzionale – Questione – Inammis-

sibilità (Corte cost., 19 luglio 2019, n. 191,

con nota di A. IADECOLA) 251

Danno all’immagine – Risarcimento – Condi-

zioni – Legittimità costituzionale (Corte

cost., ord. 9 luglio 2019, n. 167, con nota di

A. IADECOLA) 251

Danno erariale – Da malpractice medica – Re-

gime applicabile – Legge Gelli – Ambito

temporale di applicazione – Fatti anteriori

alla legge n. 24 – Inapplicabilità (Corte conti,

Sez. giur. reg. Lombardia, 3 luglio 2019, n.

171) 207

Danno erariale – Da malpractice medica – Tran-

sazione civile – Rilevanza in sede contabile

– Doverosa rivalutazione dei fatti – Ragioni

(Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 3 lu-

glio 2019, n. 171) 207

Danno erariale – Danno indiretto – Da malprac-tice medica – Esborsi in sede civile non co-

perti da assicurazione – Potere riduttivo della

Corte – Polizze assicurative aziendali con

franchigia aggregata – Meccanismo di fun-

zionamento – Aleatorietà della rivalsa verso

il medico – Erosione della franchigia al mo-

mento del pagamento del sinistro dalla

azienda – Irragionevolezza – Riflessi in sede

di riduzione dell’addebito (Corte conti, Sez.

giur. reg. Lombardia, 3 luglio 2019, n. 171) 208

Danno erariale – Soggetto terzo non evocato in

giudizio – Contributo concausale al danno –

Quantificazione del danno – Limiti (Corte

conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 19 luglio

2019, n. 196) 212

Enti locali – Amministratori – Provvedimento di

revoca dell’incarico del direttore generale

dell’ente – Condanna in sede civile dell’am-

ministrazione al risarcimento del danno –

Danno erariale indiretto (Corte conti, Sez.

giur. reg. Lombardia, 17 luglio 2019, n. 186) 212

Enti pubblici – Istituto autonomo case popolari

– Dirigenti – Indebita erogazione dell’inden-

nità di posizione e di risultato – Commissario

straordinario e amministratori dell’ente –

Responsabilità amministrativa – Sussiste

(Corte conti, Sez. app. reg. Siciliana, 25 giu-

gno 2019, n. 64) 207

Ministero degli affari esteri – Console – Conti

correnti accesi presso filiali bancarie locali –

Mancata rendicontazione – Responsabilità

contabile (Corte conti, Sez. I centr. app., 5

luglio 2019, n. 149) 206

Persona giuridica – Danno erariale – Soggetti ci-

tabili in giudizio – Persona giuridica e suo

dipendente autore della condotta – Doppia

legittimazione passiva – Sussiste – Evoca-

zione del solo dipendente – Conseguenze –

Valutazione del contributo concausale della

società – Necessità. (Corte conti, Sez. giur.

reg. Lombardia, 19 luglio 2019, n. 196) 212

Presidente del consiglio regionale – Rimborso

spese ai consiglieri – Spese non riconducibili

a spese di rappresentanza – Responsabilità

amministrativa – Sussiste (Corte conti, Sez.

II centr. app., 5 giugno 2019, n. 198) 206

Regione – Dirigenti – Conferimento di incarichi

esterni – Consulenze su attività vietata dalla

legge a soggetti estranei all’amministrazione

– Danno erariale – Sussiste (Corte conti, Sez.

giur. reg. Piemonte, 3 luglio 2019, n. 253) 213

Società in house – Fornitura arborea – Paga-

mento di un prezzo eccessivo da parte della

società – Danno erariale – Sussiste (Corte

conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 19 luglio

2019, n. 196) 212

Società partecipata – Rappresentante dell’ente

pubblico partecipante – Comportamento ille-

gittimo e negligente – Pregiudizio del valore

della partecipazione societaria – Danno era-

riale – Sussiste (Corte conti, Sez. II centr.

app., 16 luglio 2019, n. 257) 207

Somme indebitamente acquisite da dipendente

dell’amministrazione danneggiata – Recu-

pero rateale in base a verbale di conciliazione

– Attualità del danno – Non sussiste – Inam-

missibilità dell’atto di citazione (Corte conti,

Sez. giur. reg. Trentino-Alto Adige, Bol-

zano, 23 luglio 2019, n. 92) 214

Page 309: Rivista Corte dei conti

N. 4/2019

INDICE ANALITICO DELLE DELIBERAZIONI E DELLE SENTENZE

303

Responsabilità civile

Da malpractice medica – Polizze assicurative

stipulate da Aziende sanitarie pubbliche –

Previsione di una franchigia aggregata – Ra-

gioni (Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia,

3 luglio 2019, n. 171) 207

Sanità

v.: Responsabilità amministrativa e contabile –

Responsabilità civile

Sanzioni amministrative

Confisca – Operazioni finanziarie illecite – Con-

fisca dell’intero prodotto – Illegittimità co-

stituzionale (Corte cost., 10 maggio 2019, n.

112) 234

Società

Amministratori – Grave irregolarità nella ge-

stione – Denuncia dei soci – Criteri (Corte

app. Bari, decr. 30 luglio 2019, n. 72, con

nota di E. FABBIANI) 285

Comune – Società partecipate – Amministratore

– Compenso – Tetto di spesa – Oneri previ-

denziali – Rilevanza ai fini del raggiungi-

mento del tetto di spesa (Corte conti, Sez.

contr. reg. Sardegna, 3 luglio 2019, n. 34,

con nota di A. LUBERTI) 177

Società a partecipazione pubblica – Controllo

pubblico – Nozione – Effetti (Corte conti,

Sez. riun. giur., spec. comp., 29 luglio 2019,

n. 25) 202

Società a totale partecipazione pubblica – Am-

ministratori – Incarichi di consulenza – Ille-

cito affidamento – Danno erariale – Sussiste

(Corte conti, Sez. I centr. app., 3 luglio 2019,

n. 147) 206

v. pure: Giurisdizione e competenza – Respon-

sabilità amministrativa e contabile

Transazione

Reciproche concessioni – Margini di discrezio-

nalità tra le parti – Limiti (Corte conti, Sez.

giur. reg. Lombardia, 19 luglio 2019, n. 196) 212

Unione europea

Inadempimento di uno Stato – Direttiva

2011/70/Euratom – Gestione responsabile e

sicura del combustibile nucleare esaurito e

dei rifiuti radioattivi – Programma nazionale

– Obbligo di trasmissione alla Commissione

europea (Corte giust. Ue, 11 luglio 2019, C-

434/18) 224

v. pure: Ambiente (tutela dell’)

Page 310: Rivista Corte dei conti

N. 4/2019

INDICE CRONOLOGICO DELLE DELIBERAZIONI E DELLE SENTENZE

304

Controllo

Sezione centrale controllo legittimità

25 luglio 2019, n. 4 105

Sezione centrale controllo gestione

28 giugno 2019, n. 12 107

23 luglio 2019, n. 13 111

7 agosto 2019, n. 16 113

Sezione controllo enti

18 luglio 2019, n. 89 116

Sezione delle autonomie

17 luglio 2019, n. 17 118

24 luglio 2019, n. 20 122

29 luglio 2019, n. 23 128

Sezioni regionali di controllo

Calabria

ord. 26 agosto 2019, n. 108 132

Campania

ord. 17 luglio 2019, n. 148 138

30 luglio 2019, n. 172 145

Sardegna

13 agosto 2019, n. 53 151

Pareri

Sezioni regionali di controllo

Basilicata

12 luglio 2019, n. 56 155

Lombardia

18 luglio 2019, n. 309 161

Molise

26 luglio 2019, n. 98 164

Puglia

9 luglio 2019, n. 72 169

25 luglio 2019, n. 75 173

Sardegna

3 luglio 2019, n. 34 177

3 luglio 2019, n. 36 181

Valle d’Aosta

31 luglio 2019, n. 7 183

Veneto

29 luglio 2019, n. 201 185

Giurisdizione

Sezioni riunite in sede giurisdizionale (in speciale composizione)

25 luglio 2019, n. 22 191

29 luglio 2019, n. 23 194

29 luglio 2019, n. 24 201

29 luglio 2019, n. 25 202

Sezione I centrale d’appello

3 luglio 2019, n. 147 206

5 luglio 2019, n. 149 206

10 luglio 2019, n. 154 206

Sezione II centrale d’appello

5 giugno 2019, n. 198 206

16 luglio 2019, n. 257 207

Sezione d’appello Regione Siciliana

25 giugno 2019, n. 64 207

23 luglio 2019, 86 207

Sezioni giurisdizionali regionali

Lombardia

3 luglio 2019, n. 171 207

17 luglio 2019, n. 186 212

19 luglio 2019, n. 196 212

Piemonte

3 luglio 2019, n. 253 213

Puglia

1 luglio 2019, n. 397 214

23 luglio 2019, n. 489 214

Sicilia

20 agosto 2019, n. 621 214

Trentino-Alto Adige, Bolzano

23 luglio 2019, n. 92 214

31 luglio 2019, n. 96 215

Altre Corti

Corte di giustizia dell’Unione europea

Sez. VI, 8 maggio 2019, C-305/18 217

Sez. IX, 11 luglio 2019, C-434/18 224

Corte costituzionale

9 maggio 2019, n. 108 229

10 maggio 2019, n. 112 234

25 giugno 2019, n. 159 242

ord. 9 luglio 2019, n. 167 251

19 luglio 2019, n. 191 251

24 luglio 2019, n. 197 263

25 luglio 2019, n. 205 266

Page 311: Rivista Corte dei conti

N. 4/2019

INDICE CRONOLOGICO DELLE DELIBERAZIONI E DELLE SENTENZE

305

Corte di cassazione

Sez. VI pen., 15 maggio 2019, n. 21166 270

S.U., ord. 20 giugno 2019, n. 16536 276

S.U., ord. 26 giugno 2019, n. 17118 278

S.U., ord. 28 giugno 2019, n. 17567 281

Corte di appello di Bari

Decr. 30 luglio 2019, n. 72 285

Page 312: Rivista Corte dei conti

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