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CIVILTÀ BRESCIANA RIVISTA TRIMESTRALE DELLA FONDAZIONE CIVILTÀ BRESCIANA - BRESCIA, VICOLO SAN GIU- SEPPE 5, ANNO XIV N. 1 GENNAIO-GIUGNO 2005 - AUTORIZZ. TRIBUNALE DI BRESCIA N. 4/1992 DEL 18 GENNAIO 1992 - SPEDIZ. IN ABB. POSTALE - PUBBL. INFERIORE AL 50% - ISBN 1122-2387 n.1-2/05 DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE: FONDAZIONE CIVILTÀ BRESCIANA VICOLO SAN GIUSEPPE 5 25122 BRESCIA (Tel. 030 3757267 - fax 030 3774365) Sito web: www.civiltabresciana.it E-mail: [email protected] ABBONAMENTO ANNUALE: 21 ABBONAMENTO SOSTENITORE: 50 UN NUMERO: 6 Direttore responsabile ANTONIO FAPPANI Coordinatori ALFREDO BONOMI CARLA BORONI LICIA GORLANI GARDONI BERNARDO SCAGLIA Comitato di redazione LUCIANO ANELLI GABRIELE ARCHETTI LUIGI AMEDEO BIGLIONE DI VIARIGI ELISABETTA CONTI FIORELLA FRISONI GIOVANNI GREGORINI VITTORIO NICHILO ANTONELLA OLIVARI SERGIO ONGER MIRKA PERNIS ANITA LORIANA RONCHI UMBERTO SCOTUZZI PIETRO SEGALA GIUSEPPE TOGNAZZI Comitato scientifico GIANCARLO ANDENNA CARLO MARCO BELFANTI RUGGERO BOSCHI (presidente) EDOARDO BRESSAN ANTONIO BUGINI FULVIO DE GIORGI GIUSEPPE FARINELLI LUIGI MORGANO ERMANNO PACCAGNINI LUIGI PATI JEAN FRANÇOIS RODRIGUEZ ALBERTO ROVETTA MARIO TACCOLINI Segretario di redazione ANTONIO DEL VECCHIO Grafica, impaginazione e stampa: M. Squassina / Brescia In copertina: La prima immagine pubblicata del- la Vittoria Alata (a cura di Giuseppe Tognazzi) Questo numero è stato chiuso il 30.06.2005 3 Scatti dalla Fondazione a cura di LUCIANO ANELLI ricerche 5 Novità e precisazioni sull’attività dell’intagliatore clarense Giacomo Faustini di GIUSEPPE FUSARI 35 Un gemellaggio Brescia-Sicilia nel nome del pittore Giuseppe Tamo (sec. XVIII) di LUCIANO ANELLI 53 Spigolature storiche a Travagliato di LUCA QUARESMINI schede 63 Antichi monumenti scoperti in Brescia di GIUSEPPE TOGNAZZI 67 I Bertelli, una dinastia di librai, editori e calcografi originaria di Vobarno (XVI e XVII secolo) di GIUSEPPE NOVA 79 “Città, Regioni, Percorsi del ferro in Europa”: un confronto della realtà bresciana con quella italiana ed europea di MICHELA CAPRA eANTONIO BUGINI 92 Il IX Congresso Nazionale FISM 2004-2008 di LICIA GORLANI GARDONI 104 Come vivere i musei che abitiamo? Appunti sporadici per qualche riflessione fuori moda di PIETRO SEGALA 116 In ricordo dell’amico Fausto Sardini (Bornato 1941-2005) di UMBERTO PERINI 122 Padre Piamarta e la parrocchia di San Faustino di PIER GIORDANO CABRA Noctes cenomànæ 127 Divagazioni celtico/brixiane a cura di LEONARDO URBINATI 131 segnalazioni bibliografiche L’abbonamento può essere effettuato tramite versamento su c/c postale n. 12648259 intestato a “Fondazione Civiltà Bresciana, vicolo S: Giuseppe 5, 25122 Brescia”. Singoli numeri della rivista si possono acquistare direttamente presso la Fondazione, oppure presso le se- guenti librerie di Brescia: Libreria Delcassi, via Paitone 15; Libreria Serra Tarantola, C.so Zanardelli 52; Cartolibreria Cidneo, via Lom- broso 26; Libreria Resola, via Garibaldi 29/b; Libreria Ancora, via Tosio 1.

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CIVILTÀ BRESCIANARIVISTA TRIMESTRALE DELLA FONDAZIONE CIVILTÀ BRESCIANA - BRESCIA, VICOLO SAN GIU-SEPPE 5, ANNO XIV N. 1 GENNAIO-GIUGNO 2005 - AUTORIZZ. TRIBUNALE DI BRESCIA N. 4/1992DEL 18 GENNAIO 1992 - SPEDIZ. IN ABB. POSTALE - PUBBL. INFERIORE AL 50% - ISBN 1122-2387 n.1-2/05

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SSeeggrreettaarriioo ddii rreeddaazziioonneeANTONIO DEL VECCHIO

Grafica, impaginazione e stampa:M. Squassina / Brescia

In copertina: La prima immagine pubblicata del-la Vittoria Alata (a cura di Giuseppe Tognazzi)

Questo numero è stato chiuso il 30.06.2005

3 Scatti dalla Fondazionea cura di LUCIANO ANELLI

ricerche5 Novità e precisazioni sull’attività dell’intagliatore

clarense Giacomo Faustinidi GIUSEPPE FUSARI

35 Un gemellaggio Brescia-Sicilia nel nome del pittore Giuseppe Tamo (sec. XVIII)di LUCIANO ANELLI

53 Spigolature storiche a Travagliatodi LUCA QUARESMINI

schede63 Antichi monumenti scoperti in Brescia

di GIUSEPPE TOGNAZZI

67 I Bertelli, una dinastia di librai, editori e calcografioriginaria di Vobarno (XVI e XVII secolo)di GIUSEPPE NOVA

79 “Città, Regioni, Percorsi del ferro in Europa”: un confrontodella realtà bresciana con quella italiana ed europeadi MICHELA CAPRA e ANTONIO BUGINI

92 Il IX Congresso Nazionale FISM 2004-2008di LICIA GORLANI GARDONI

104 Come vivere i musei che abitiamo? Appunti sporadiciper qualche riflessione fuori modadi PIETRO SEGALA

116 In ricordo dell’amico Fausto Sardini (Bornato 1941-2005)di UMBERTO PERINI

122 Padre Piamarta e la parrocchia di San Faustinodi PIER GIORDANO CABRA

Noctes cenomànæ127 Divagazioni celtico/brixiane

a cura di LEONARDO URBINATI

131 segnalazioni bibliografiche

L’abbonamento può essere effettuato tramite versamento su c/c postale n. 12648259 intestato a “Fondazione Civiltà Bresciana, vicolo S:Giuseppe 5, 25122 Brescia”. Singoli numeri della rivista si possono acquistare direttamente presso la Fondazione, oppure presso le se-guenti librerie di Brescia: Libreria Delcassi, via Paitone 15; Libreria Serra Tarantola, C.so Zanardelli 52; Cartolibreria Cidneo, via Lom-broso 26; Libreria Resola, via Garibaldi 29/b; Libreria Ancora, via Tosio 1.

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Un grazie particolarmente sentito alla Fondazione Banca San Paoloper il contributo all’attività istituzionale della Fondazioone

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Scattidalla Fondazione

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Questo notevolissimo disegno acquerellato (attribuito dal Panazza, con qualche incertezza, a Luigi Campini, 1818-1890) ci trasmette l'immagine del fianco sinistro della grande chiesa dei Domenicani – San Domenico – che si tro-vava nell'attuale via Moretto, quasi di fronte a San Lorenzo, e che fu demolita nel 1884, nonostante le proteste dimolti, perfino dell'On. Zanardelli. Il corpo emergente, che si nota innalzarsi con uno svettante cupolino, corrispon-deva alla cappella del SS. Rosario, il cui grandioso altare, al momento della demolizione, fu venduto in Inghilterra,ed ora, con tutte le sue statue, fa bella mostra di sé nell'oratorio filippino di Brompton a Londra. L'architettura del-la chiesa era dovuta a Pietro Maria Bagnatore, all'inizio del Seicento.

LUIGI CAMPINI, (?), Veduta del lato destro della chiesa di S. Domenico. Brescia, Civici Musei

a cura di Luciano Anelli

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di GIUSEPPE FUSARI

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Dal primo tentativo, compiuto nel 1917 da Luigi Rivetti, di tracciare un primoprofilo biografico e artistico dell’intagliatore clarense Giacomo Faustini1 (Chiari1630-1703) diversi sono stati gli aggiornamenti compiuti sulla scorta di documen-ti emersi che, soprattutto, erano volti a illuminare la fase precedente ai lavori com-piuti dall’artista nella cittadina natale, fino all’articolo di Sara Bizzotto Passamaniper il Dizionario Biografico degli Italiani2 che tentava una lettura complessiva dell’o-pera faustiniana e il testo di Marialisa Cargnoni che si proponeva di inserire il cla-rense all’interno della scultura valsabbina tra Sei e Settecento.3

Di fatto, le tracce del Faustini prima del 1669 quando, cioè, la Scuola del Santissi-mo Rosario di Chiari gli commissiona la cassa d’organo della chiesa di Santa MariaMaggiore,4 sono pochissime e tutte in Val Sabbia, in specie, a Comero e a Bagolino.Questo fatto apre una prima questione, riguardante la formazione del Faustini che- tradizionalmente - a partire proprio dal Rivetti,5 vede l’artista discepolo di OrazioOlmi, “scultore insigne”, com’era definito in un documento del 1737,6 primo di

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Novità e precisazioni sull’attività dell’intagliatore

clarense Giacomo Faustini

1 L. RIVETTI, Artisti chiaresi. V. Giacomo Faustini intagliatore, in “Brixia Sacra” VIII (1917), pp. 135-137. 2 S. BIZZOTTO PASSAMANI, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLV, Roma 1995, pp.387-389.3 M. CARGNONI, Boscaì, Brescia 1997, particolarmente le pagine 24-25.4 RIVETTI, 1917, p. 135; L. RIVETTI, La Scuola del S. Rosario e la Chiesa di S. Maria Maggiore di Chiari,in “Brixia Sacra” XII (1921), p. 117.5 RIVETTI, 1917, p. 117: “Probabilmente mostrando una speciale attitudine all’arte dell’intaglio, fuallogato presso la bottega di Orazio Olmi, ‘scultore insigne’ facendo vitali progressi da riuscire vera-mente eccellente, come ce ne fanno fede le opere di lui che ancora ci rimangono”. Rivetti ammetteche dovette comunque apprendere i primi rudimenti dal padre Luigi che era falegname. Anche: A.FAPPANI, ad vocem, in Enciclopedia Bresciana, vol. IV, Brescia 1981, p. 47; BIZZOTTO PASSAMANI, 1995,p. 387; CARGNONI, 1997, p. 37 nota 41; A. RIZZI, Casto. Arte, storia e ambiente in un comune della Valsab-bia, Brescia 2004, p. 147 nota 36. 6 Nel verbale del Consiglio Comunale del 3 dicembre 1737 si legge che “essendo stabilito l’altaremaggiore (in marmo) della parrocchiale Collegiata di questa Terra dopo l’edificatione del nuovoCoro et essendo frattanto da riponere sopra l’altare medesimo il Tabernacolo suo, che fu manifatu-rato dalla virtù del Signor Oratio Olmi di questa medesima Terra, Scultore Insigne etc”. ACC, LiberProvisionum, A. II 10, f 363v.

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Fig. 1: Giacomo Faustini, Cassa d'organo (1669-1673). Chiari, Chiesa di SantaMaria maggiore. Particolare del telamone.

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una bottega di intagliatori attivi fin oltre la metà del Settecento.7 Ma questa notizia- della quale Rivetti non riporta la fonte - appare assai improbabile poiché i due in-tagliatori erano quasi coetanei, essendo nato l’Olmi nel 1625 e il Faustini nel 1630,e si potrebbe far risalire alla volontà dello storico di creare l’immagine di una scuo-la clarense dell’intaglio, erede delle cinquecentesche botteghe degli Zamara e deiTortelli. Con questo, preceduto solo dal Rota,8 attribuiva molte delle opere del Fau-stini alla collaborazione tra questo artista e gli Olmi,9 affermando anche, senza al-cun sostegno documentario, che questi portarono a termine le opere del Faustiniall’indomani della sua scomparsa. Purtroppo questa affermazione, per nulla - si ri-pete - suffragata da documenti, è stata accolta da tutti gli studiosi che si sono occu-pati in seguito dell’artista.Certamente il Faustini dovette apprendere l’arte dell’intaglio da qualcuno, ma,dalla documentazione in nostro possesso, non è possibile affermare da chi, data lascarsità di opere degli Olmi, tanto più che, stando almeno alle prime opere docu-mentate a Comero, l’arte del clarense mostra caratteri comuni a quelli di altri ar-tisti bresciani, primo tra tutti Antonio Montanino che porta avanti e sistematizzale tendenze già degli scultori di secondo Cinquecento come, ad esempio, Giusep-pe Bulgarini. Da questi anche il Faustini desume l’impaginazione dell’ancona d’al-tare con colonne affiancate alla pala - spesso decorate con tralci di vite e puttini -alto cornicione dentellato e timpano a volte spezzato per accogliere una scultura atutto tondo. Simile è poi il modo d’intagliare animando con le composizioni congirali vegetali e testine d’angelo. Ma già a Comero, nell’ancona per l’altare diSant’Antonio da Padova, identificata con quella commissionata all’artista nel1668,10 dove il linguaggio dell’artista è ancora particolarmente acerbo, si notaquell’assottigliarsi bizzarro delle cartelle ridotte a fogli di pergamena slabbrati oarrotolati che saranno comuni nelle opere sue fino all’estrema produzione. Tantopiù che la stessa inusuale decorazione al centro dell’architrave dell’altare di Co-mero, con una testa d’angelo racchiusa tra tre rotoli che simulano pergamene, ap-pare del tutto identica nell’altare di Sant’Antonio nell’omonima chiesa di Bagoli-no, altare, quest’ultimo, ben più fastoso di quello di Comero, dove alle colonne so-no sostituite due cariatidi (affiancate da altre due nelle ali) e l’intaglio si fa più esu-

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7 Orazio Olmi, di Giovanni Battista, nacque a Chiari il 28 maggio 1625 e vi morì il 25 dicembre 1713;Lorenzo, suo figlio, nacque a Chiari il 4 settembre 1654 e vi morì il 17 dicembre 1717; Orazio junior,figlio di Lorenzo, nacque a Chiari il 15 ottobre 1686. 8 G. B. ROTA, Il Comune di Chiari, Brescia 1880, p. 232.9 Anzi, il Rota (1880, p. 232) attribuiva a Orazio Olmi l’intera scultura dell’ancona della chiesa cla-rense della Beata Vergine di Caravaggio, pagata in toto al Faustini. 10 APCo, Libri Scuola Ss. Sacramento, ff. 204-206. Rizzi (2004, p. 141) la dice eseguita tra il 1669 e il 1672.

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berante, alla maniera di quello della cassa d’organo per Santa Maria di Chiari, so-lo ancora un po’ più turgido, indizio questo - a mio parere - di una leggera prece-denza cronologica.11 Nell’altare di Bagolino il repertorio decorativo è lo stesso diquello impiegato nella prima opera documentata a Chiari, nel partito decorativodel cornicione e del timpano e, soprattutto, nel trattamento di alcuni particolari,come i fiori sostenuti dall’angelo al centro del frontone, che appaiono identici nel-l’opera clarense. A questo si aggiunga, con riscontri figurativi ancor più stringen-ti, il corredo delle tre statue di angeli (due musicanti ai piedi delle cariatidi, unoreggente una ghirlanda al centro del timpano) che presentano le consuete fisio-nomie faustiniane, forse un po’ rozze, con nasi affilati, zigomi alti e una specie dismorfia che toglie loro ogni apparenza di allegria, che si riscontrano identiche nel-le statue a tutto tondo della controcantoria della chiesa di Santa Maria Maggiore,compiuta tra il 1692 e il 1693, segno che l’aggiornamento stilistico compiuto dal-l’artista nel repertorio decorativo (di cui si parlerà) non trova riscontro nei detta-gli fisiognomico-anatomici dei suoi lavori.

La cassa d’organo della chiesa di Santa Maria Maggiore

Il primo documento clarense che certifichi una commissione al Faustini risaleall’11 agosto 166912 e riguarda un pagamento per la cassa dell’organo della chiesadi Santa Maria Maggiore a Chiari che in quegli anni era stata quasi completa-mente ricostruita.13 A quando risalga l’atto di commissione non è possibile dirloperché non si è reperito alcun contratto o deliberazione della Scuola del Santissi-mo Rosario; tuttavia si può ritenere che l’accordo fosse stipulato tra il luglio e l’a-gosto, perché solamente nel Consiglio del 3 luglio era stato esposto dal priore del-la Scuola Matteo Biancinelli, “d’ordine del signor collega si come il signor Carlo

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11 Al Faustini sono registrati tre pagamenti tra il giugno e l’agosto del 1668, purtroppo senza causa-le. Si veda U. FORMENTI, Artisti e artigiani a Bagolino. Documenti 1479-1940, Brescia 1990, p. 47. Que-sti pagamenti dovrebbero riferirsi all’altare del Rosario della Parrocchiale poi trasportato nell’altarnuovo dei “Santi Jseppo et Antonio” quando fu realizzato il nuovo altare monumentale, commissio-nato a Giovan Pietro Bonomi e Baldassarre Vecchi nel 1688 (FORMENTI, 1990, pp. 169-173). In talsenso l’ancona della chiesa di Sant’Antonio a Bagolino, collocabile cronologicamente verso la finedegli anni Sessanta e dai marcati accenti faustiniani, dovrebbe essere identificata con quella traspor-tata al nuovo altare, ma non nella Parrocchiale, piuttosto nella chiesa sussidiaria. A riprova anche ilsoggetto della pala raffigurante appunto i santi Filippo Neri e Antonio da Padova. 12 APCS, Capitali Cassa Testamenti, f. 99v.13 Per le vicende edificatorie della chiesa e per le notizie sull’intaglio della cassa d’organo si veda RI-VETTI, 1921, pp. 114-117.

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Traeri fabriliere d’Organi si è essibito metter l’organo nella Chiesa Nova di SantaMaria con tutte le cose bisognose intorno à detto Organo conforme si vede di let-tera di suo pugno scritta à di 30 Giugno 1669 per il pretio de lire 600 piccoli, on-de inherendo ad altri consegli passati, et fatto sopra di ciò longo discorso, final-mente è stà presa parte à tutte balle di far metter detto Organo con l’accordio, chesarà fatto tra li signori Priori, et il sudetto signor Traeri”.14

L’opera del Faustini era compiuta però solo cinque anni dopo, all’inizio del 1673,e questo, probabilmente, perché l’intagliatore doveva assolvere alle commissionidi Comero e di Bagolino e, iniziare un proficuo rapporto - del tutto inedito e, pur-troppo, non suffragabile con documenti - con i Canonici di San Giovanni evange-lista a Brescia che, proprio nel 1674 portavano a compimento la ricostruzione del-la loro chiesa. Perciò il Faustini dovette prima fornire alla Scuola del Rosario diChiari (come avveniva frequentemente) l’intelaiatura per lo strumento e quindi, auna certa distanza, tutto il lavoro d’intaglio. Nel Consiglio della Scuola del 4 feb-braio 1673 “Fù discorso di stabilir il pretio dell’Organo di detta Chiesa, et à tal ef-fetto fù chiamato Maestro Gio: Giacomo Faustini, come quello che ha fatto dettoorgano, per intendersi con il medemo, in quanto si puoteva ristringer detto Pre-tio; con il quale doppo molti discorsi fù ridotto, et stabilito il pretio di detto Orga-no, per la Fattura, legname, et ogn’altra cosa prettesa dà detto faustini per dettoOrgano, in scudi cento novanta in tutto; mentre però detto Faustini stabilisca l’o-pera con farli le ale à fianchi (cioè la fattura sola, dovendo la Schuola dargli li as-soni per detta Pala) li festoni trà li Angeli, che sono sopra detto Organo, et aggiu-sti li bracci delli termini grandi”.15

Faustini concepì il prospetto dell’organo secondo uno schema assai utilizzato lun-go il corso del Seicento. La balconata, posta su colonne fin dall’origine,16 ha una

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14 APCS, Convocati 1595-1669, ff. 115v-116r. Al Traeri sono certificati pagamenti tra la fine di luglio eil 4 ottobre 1669 (APCS, Crediti, f. 153r; APCS, Capitali Cassa Testamenti, ff. 98r e 101r) quando risultail pagamento di 771:7 lire piccole “al signor Carlo Traer maestro delli organi alla presenza de signo-ri priori per saldo della fattura del organo et contrabassi” (APCS, Capitali Cassa Testamenti, f. 101r).15 APCS, Parti, ff. 13v-14r. Anche in APCS, Capitali Cassa Testamenti, f. 100r: Il contrascritto D. Gio: Gia-como Faustino deve haver Berlingotti mille trecento trenta per la fattura dell’Organo, compreso ognicosa che hà posto del suo detto D. Gio: Giacomo, così con esso d’accordi, come consta sopra il libro deConsegli di detta Schuola dell’anno corrente 1673 a f. [spazio bianco] dico in tutto L 1330:-”.16 Pagamenti per le colonne in APCS, Capitali Cassa Testamenti, f. 98r: “Conti al molto Reverendo Il-lustre Signor Zambello per tanti che ha imprestati da pagar le colone del organo et fatura dietro àquella donata da D. Gio: Battista Ghirello 3 settembre [1669] L 100:-” e APCS, Capitali Cassa Testa-menti, f. 101r: “1669 [12 settembre?] Conti a maestro Giacomo Marazzo muradore Berlingotti tren-ta uno per haver messe le colone del organo et poste treciere et traecelli per metter li mantici di or-dine del signor Biancinello L 31:-”.

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Fig. 2: Giacomo Faustini, Cassa d'organo (1669-1673). Chiari, Chiesa di Santa Maria maggiore. Particolare della balconata.

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base decorata con mensole e rosette e una fascia continua imitante un fregio ve-getale intrecciato. Il fronte, dal corpo centrale avanzato, è scompartito in quattrograndi cartelle campite da mascheroni e da figurette antropomorfe entro un tri-pudio di girali vegetali fiorite ad andamento simmetrico. Sei telamoni scandisco-no ulteriormente il fronte. Lo stesso andamento dovevano avere i fianchi dellacantoria, sacrificati nella nuova collocazione voluta dal prevosto Morcelli che, allafine del Settecento,17 fece spostare lo strumento dalla sesta alla terza campata del-la navata destra. La cassa è organizzata secondo uno schema a cornice architettonica: ai lati della fac-ciata due telamoni riccamente abbigliati - che riprendono da vicino le cariatididell’ancona di Bagolino - reggono capitelli corinzi sui quali si imposta l’architravetripartito, campito da una testa d’angelo posta al centro della chiave ricciuta de-corata con motivi a pelte. Il ricco fregio riprende la decorazione della balconatacon girali simmetrici e mascheroni. L’alto timpano arcuato e spezzato, modulatoda mensole e rosette stilizzate, culmina al centro con un fantasioso trofeo decora-to con mascheroni, vasi e rosette. Ai lati della cassa due porte riprendono i carat-teri decorativi del resto dell’opera, ripresentando telamoni, mascheroni, fregi etrofei secondo un ricco repertorio di fantasia barocca.18

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17 “2 giugno [1799], domenica: Dottrina, Esposizione, etc.: non vi fu la solita processione per esserela chiesa di S. Maria in fabrica e senza uso l’organo che si trasportava”. S. A. MORCELLI, Memorie del-la Prepositura Clarense, ms. BMC, sotto la data 2 giugno 1799. 18 La cassa e la cantoria non furono subito dipinte e dorate. Solo sette anni dopo, nel Consiglio del 29agosto 1680 fu “rappresentato dal signor Foschetto sotto Priore ritrovarsi in Chiari un Indoratore qualsi essibisse indorar l’organo di detta Schuola con tutti quelli accontaggi, che si puossino haver d’ognialtro perito in detta Arte; che perciò essa bene far qualche deliberatione sopra questo interesse, pernon lasciar si longo tempo detto Organo imperfetto. Sopra qual proposta fatti diversi discorsi, final-mente è stà mandata parte di far Indorar detto Organo à tutt’oro di zechino della Carnagione in poiet farlo anco sopra colorare à graffito, ò à rabesco, dove piacerà à signori Reggenti sudetti. Mà che sij-no prima esposte le Cedole per invitar più Periti à far tall’opera, et poi che li bolletini de Periti concor-dati, sijno tutti insieme letti nel prossimo Conseglio Speciale di detta Schuola che à tal effetto si con-gregarà, per deliberar detta opera à beneplacito di detto Conseglio. Qual parte balottata è stata presaa tutte balle n° 14” (APCS, Parti, ff. 45r-46r). La proposta però, sebbene presa all’unanimità rimase let-tera morta per quasi un anno, e solamente il 30 settembre 1681, presi accordi con tale Bellini, fu “man-data parte di impartir facoltà et autorità alli signori Priore, et sotto Priore di quotar, trattar, et stabiliril pretio per indorar l’Organo della Scuola con il signor Bellini Indoratore; con precedenza però daCapitoli d’esser formati, per il modo dà tenere in detta opera, et il tutto d’esser fatto con l’assistenza delMolto Reverendo signor D. Pauolo Rizzo et di D. Giacomo Faustini” (APCS, Parti, f. 50v). Anche que-sta volta la deliberazione fu “presa à tutte balle”, ma ora si diede immediatamente corso all’opera, co-me risulta dai pagamenti all’indoratore, certificati dal 15 ottobre al 22 dicembre 1681 per un totale di1890 berlingotti (APCS, Capitali Cassa Testamenti, f. 154r. I pagamenti al 15, 22, 31 ottobre, 22, 30 no-vembre, 15 e 22 dicembre), secondo gli intendimenti espressi già l’anno precedente.

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Fig. 3: Giacomo Faustini, Controcantoria (1692-1693). Chiari, Chiesa di Santa Maria maggiore. Particolare della balconata.

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In questa prima opera clarense il Faustini sfoggia un intaglio ricco e turgido, le-gato però a rigorosi schemi simmetrici che riecheggiano retaggi ancora tardo ma-nieristici nel repertorio dei mascheroni e dei girali vegetali trattati con un model-lato tendente al bassorilievo. Tale raffinata eleganza, ancora visibile nell’ancona diTizio di Collio (1675), realizzata in collaborazione con Giovan Pietro Bonomi diAvenone,19 cede il passo, nelle opere degli anni Novanta, a un sentimento piùmosso dell’intaglio, a un’enfatizzazione dei racemi e dei girali vegetali e a una in-cisività maggiore dei profili, caratteri ben visibili nella controcantoria (o orchestra)commissionata all’artista dalla stessa Scuola del Rosario nel 1692 della quale siparlerà in seguito.

L’altaretto della Madonnina per Santa Maria maggiore ora alla Beata Vergine di Caravaggio

Scrive il Rivetti che, “soddisfatti del suo lavoro, i Reggenti della Scuola affidavanonell’anno seguente [1674] al medesimo [Faustini] ‘la cassa della Madonnina’, sot-to la quale denominazione noi crediamo di riscontrare la ricca e graziosa corniceche racchiudeva il dipinto raffigurante la traslazione della Casa di Loreto che ve-desi tuttodì nella sacrestia di Santa Maria, privo però della cornice, venduta in-consultamente alcuni anni or sono per poche centinaia di lire”.20 Secondo il Ri-vetti, quindi, questa cassa o cornice della Madonnina non sarebbe oggi più rin-tracciabile, e tale notizia è stata accolta anche dagli studiosi successivi, da Fappa-ni21 a Lonati22 a Bizzotto Passamani23 che si sono limitati a recensire l’opinione del-lo storico. Al contrario l’opera faustiniana è sopravvissuta, ma lo studioso clarensela riteneva opera di Orazio e Lorenzo Olmi, identificandola erroneamente con lacornice intagliata dai due nel 171024 per la chiesa della Beata Vergine di Caravag-gio25 e oggi perduta. L’ancona, infatti, venne trasportata in questa chiesa dopo il

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19 C. SABATTI Documenti e regesti artistici, in C. SABATTI (a cura di), La pittura del ‘600 in Valtrompia, ca-talogo della mostra, Brescia 1994, pp. 240-242. 20 RIVETTI, 1921, p. 117; ma già anche in RIVETTI, 1917, pp. 135-136.21 FAPPANI, 1981, p. 4722 R. LONATI, Dizionario degli scultori bresciani, Brescia 1986, pp. 112-113.23 BIZZOTTO PASSAMANI, 1995, p. 387.24 Pagamenti per quest’opera sono registrati in APCS, Libro della B. V. M. di Caravaggio, ff. 78r, 82r,83r, 252v-253r.25 L. RIVETTI, Artisti chiaresi. VI. Orazio e Lorenzo Olmi, intagliatori, in “Brixia Sacra” VIII (1917), pp.138-140: “Sono opera sua la soasa dell’altare della Beata Vergine della Neve ed il banco della sacre-stia dello stesso Santuario; lavori finiti nel 1710”.

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1745, quando fu realizzato il nuovo altare in marmo disegnato da Giovan AntonioBiasio nel quale fu collocata la tela di Francesco Monti26 raffigurante la Madonnacol Bambino e i santi Lucia, Agata, Giovanni Nepomuceno e Andrea Avellino. Nei primidecenni del Settecento, infatti, la dedicazione dell’Altaretto (così è sempre chiama-to nei documenti) passò via via da quella alla Beata Vergine in nivem a quella diSanta Lucia assestandosi su quest’ultima fino ad oggi. È legittimo credere che inquesto altare si trovasse la scultura della Madonna col Bambino da sempre attribui-ta ad Antonio Zamara, risalente agli ultimi decenni del XV secolo.27 Attorno allavenerata immagine venne realizzata all’inizio del Cinquecento una cornice (o nic-chia) forse opera di Stefano Lamberti28 alla quale furono affiancate nel 1629 duetele commissionate a Giovan Mauro della Rovere detto il Fiamminghino raffigu-ranti Santa Lucia e Sant’Agata,29 mentre l’ornamento ligneo fu realizzato e doratosolamente entro il maggio del 1638.30 Con la ricostruzione della chiesa anche l’Al-taretto fu fatto oggetto di attenzioni e, proprio all’indomani del compimento dellacassa d’organo, nel Consiglio della Scuola del 25 gennaio 1674, fu proposto “chesarebbe bene il far la Pala all’Altare chiamato la Madonina essistente in detta Chie-sa, insieme con la sua Cassa, ò Cornice intagliata conforme l’intentione de signoriSuperiori, per accrescer con maggior fervore la devotione del Popolo, et per l’or-namento che necessariamente si deve fare à detto Altare. qual proposta balottatacon conditione, che il pretio della Cornice per detta Pala, qual doverà esser fattadà Maestro Giacomo Faustini, sia per la parte della Schuola, rimesso al Molto Re-

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26 Un pagamento a Francesco Monti per questa pala in: APCS, Tesorieri della Veneranda Scuola del San-tissimo Rosario di Chiari et Massari di essa II, f. 28r, sotto la data 28 maggio 1745 si legge: “Per bolettade L cento venti otto pagata al Signor Francesco Monti per un regalo di formento fatto al medesimoper la Pala di Santa Lucia L 128”.27 Prima del recente restauro sul retro della scultura si leggeva la scritta ANTONIO DE ZAMARISFECIT MCCCCXC inconsultamente asportata perché ritenuta non originale. Sebbene ridipinta inseguito la scritta doveva riprodurne una più antica. È comunque possibile ritenere plausibile l’indi-cazione dell’autore, attivo e documentato a Chiari in quegli anni. Si veda . L. RIVETTI, Artisti chiare-si. I. I Zmara, in “Brixia Sacra” VIII (1917), pp. 80-85. La statua doveva trovarsi sull’altare della vec-chia chiesa di Santa Maria prima che – aumentata la potenza della Scuola del Santissimo Rosario –la titolazione dell’altar maggiore passasse, alla fine del Cinquecento, alla Madonna del Rosario. Perquesto: RIVETTI, 1921, p. 85 e APCS, Convocati 1595-1669, f. 4v. 28 “Ab antiquo in questa chiesa era stata istituita una Scuola del Santo Rosario e già nel 1517 avevavilavorato - forse un altare - il valente intagliatore bresciano Stefano Lamberti”. APCS, Documenti an-tichi. “Vi si trova citato un documento del 12 settembre 1517 rogato dal notaio Antonio Guidino diBrescia relativo ad un pagamento fatto da Ser Tommaso da Armannis cittadino di Brescia a nome delMagnifico Martinengo – forse governatore della Scuola del Rosario di Chiari – a Stefano de Lambertissculptori lignaminum Brixiae”. RIVETTI, 1921, p. 83 e nota 2.29 APCS, Debitori, f. 145r.30 APCS, Particole testamentarie, f. 0v.

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Fig. 4: Giacomo Faustini, Controcantoria (1692-1693). Chiari, Chiesa di Santa Maria maggiore. Particolare dello schienale.

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Fig. 5: Giacomo Faustini, Altare della Madonnina (1674-1675). Chiari, Chiesa della Beata Vergine di Caravaggio. Particolare del fregio.

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verendo signor D. Pauolo Rizzo Presidente, è stata presa con balle affirmative tre-deci negative niuna. Rogatum per me Balthassarrem Bigonius nodarius et Can-cellarius dicte Schuole ad laudem etc.”.31

I primi pagamenti al Faustini datano al 20 marzo di quell’anno32 e proseguono fi-no al 2 maggio dell’anno successivo33 in concomitanza con il Consiglio della Scuolanel quale fu “esposto dal sudetto signor Priore si come Maestro Giacomo Faustiniinsta, per esser sodisfatto per la Pala, che ha fatto all’Altare della Madonina: ondeesser necessario di stabilir il pretio di detta Pala con detto Faustini; à qual effetto es-sendo stato ancor esso Faustini chiamato in detto Conseglio, e stato concordevolestabbilito il pretio di detta Pala in scudi sessanta da Berlingotti sette l’uno, con con-ditione, che sijno reformate le due figure sopra li Frontispicij, et fatte più grandi,conforme comporta il sito. Rogato per me Baldassar Bigonius notarius etc.”.34

Anche questa volta, compiuta l’opera di scultura, fu necessario attendere qualchetempo perché la pala venisse dorata; solo nel Consiglio del 12 maggio 1677, infatti,fu “proposta parte per il Signor Gerolamo Baetto Priore se sij bene et necessario farindorar la palla della Capella della madonina eretta nella Chiesa di detta scuola,mentre hora si ritrova in questa Terra l’indoradore, qual si offerisse quella indorariusta li Capitoli consegnati, et letti in questo conseglio et aggionta che l’oro sia di ce-chino et in altrimente sopra di che fatti longhi discorsi, et maturi riflessi sono statedispensate le balle, et quelle di poi raccolte per mano del detto Heremita, è stato ter-minato di quella far indorare conforme si è detto di sopra con balle affirmative n°11: N n° 1”.35 L’opera fu affidata a tale Brentana al quale sono pagati 280 berlingot-ti “per l’indoratura della Madonnina” con bolletta in data 19 giugno 1677.36

I documenti non danno alcun indizio sulla forma della cassa della Madonnina, ma iltermine utilizzato (cassa) e la necessità di avere una nicchia per ospitare la statua, co-

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31 APCS, Parti, f. 18v.32 APCS, Crediti, f. 170r. Allo stesso foglio anche il pagamento del 3 giugno. Questi due primi paga-menti sono di poco conto per un totale di 26:9:4 lire. Più consistente il pagamento del 26 luglio 1674in APCS, Capitali Cassa Testamenti, f. 136r: “Item Berlingotti cento cinque pagati a D. Giacomo Fau-stini à conto della Pala della Madonnina boletta di 26 Luglio 1674 in filza” e quello del 30 novembre(APCS, Crediti, f. 172r) per 82 lire.33 APCS, Crediti, f. 177r: “a D. Giacomo Faustini per la Cassa fatta alla Madonina L 86:3:2”.34 APCS, Parti, f. 23v.35 APCS, Parti, f. 31v.36 APCS, Capitali Cassa Testamenti, f. 137r. Altri lavori non ben specificati all’altare della Madonninasono documentati il 4 maggio 1678 (pagamento “a Cristoforo Scalvo per sua fattura all’altare dellaMadonina L 13:2:20”, APCS, Crediti, f. 185r) e il 16 maggio 1678 (pagamento “à signor Gio: Giaco-mo Rizzo per ferro datto per l’altare della Madonina L 21:4”, APCS, Crediti, f. 185r).

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me già nella vecchia struttura,37 porta a esclude la possibilità che l’immagine dellaMadonnina fosse la piccola tela raffigurante la Madonna col Bambino e la traslazionedella Santa Casa di Loreto, attribuibile a un pittore bresciano della fine del XVI seco-lo, forse identificabile con Camillo Rama, posta già nel 1611 “sopra l’ussio della sa-crestia”38 e quindi non su un altare. Ebbene l’altare ora nella chiesa della Beata Ver-gine di Caravaggio, che si vuole identificare con quello scolpito dal Faustini, è orna-to da una pala in cui soggetto, le Sante Lucia e Agata e angeli musicanti, è identico aquello delle due tele realizzate dal Fiamminghino nel 162939 e mostra il profilo diuna nicchia oggi occultata da una bella tela centinata di Pietro Scalvini, rappresen-tante la Madonna della neve, titolazione apposta all’Altaretto già nel verbale della visi-ta pastorale del vescovo Bartolomeo Gradenigo (18 ottobre 1684) che parla di un al-tare della “Beate Virginis ad nivem”.40 A questo si aggiunga che l’altare oggi nellachiesa della Beata Vergine di Caravaggio, nella relazione stilata dal prevosto di Chia-ri in occasione della visita pastorale del cardinale Angelo Maria Querini (17 settem-bre 1737), figura ancora (col titolo di Santa Lucia) nella chiesa di Santa Maria, men-tre la “Ecclesia Sancte Marie Virginis à Caravatio de iure Spectabilis Communitatis”è detta “cum tribus Altaribus idest Maiori, Beate Virgini 7 Dolorum, et S. PhilippiNerij”41 mostrando così l’inesattezza della proposta del Rivetti.42

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37 Così nella dichiarazione dei capomastri Barilli e Maraschi che il 25 agosto 1669 avevano spostatotutta la vecchia struttura e avevano dovuto “fare la nica (nicchia) di fora” (APCS, Libro della fabbricadi S. Maria A, foglio volante).38 APCS, Debitori livellari dal 1604 al 6 giugno 1630, f. 18v e APCS, Fondiarie, Cappellanie, assegni e ri-duzioni di Messe, Autentiche di Reliquie, Indulgenze, Predicatori, Legato Baglioni, Testamento del Reve-rendo Marc’Antonio q Marc’Antonio de Monzardis, 21 settembre 1611.39 Anzi le figure delle due sante sono identiche a quelle, sicuramente di mano del Fiamminghino, og-gi nella sagrestia della Parrocchiale di Coccaglio che ritengo siano da identificare proprio con quel-le dell’Altaretto, vendute per far fronte alle molte spese per la realizzazione del nuovo altare di San-ta Lucia nel 1743. Si veda per questo RIVETTI, 1921, p. 127.40 ASDBs, VP 63, ff. 73v-74r. Tuttavia nella relazione del parroco (f. 79r) si dice solo: “Ecclesia Sanc-te Marie Maioris sub titulo Rosarij. In hac ecclesia de cuius consecratione non constat adsunt qua-tuor Altaria videlicet: Altare maius sub titulo Sanctissimi Rosarij; Altare Sancti Francisci; Altare Alta-re Sancti Bartolomei; Altare aliud B. M. V. dictum l’Altaretto”. 41 ASDBs, ff. 71r-84v. La relazione del parroco, inserita alla fine dei fogli del verbale di visita, nonporta numerazione. Questo documento è anche fondamentale per togliere ogni dubbio circa l’iden-tità di questo altare con la cornice contenente l’effigie della Madonna di Caravaggio commissionatanel 1710 agli Olmi ed erroneamente identificata da Rivetti con la nostra ancona. 42 A riprova dell’avvenuto spostamento dell’altare da Santa Maria si può citare anche il testo (moltoinvoluto) del verbale del Consiglio della Scuola del Santissimo Rosario del 6 luglio 1748, nel qualeviene “fatta istanza per D. Giovanni qm Battista Marello erede del qm Carlo suo fratello, che dettaVeneranda Scola voglia rinonciare alle raggioni del testamento del detto qm Carlo del di 26 7bre1735 in atti del signor Bartolomeo Pederzolo nodaro in cui resta sostituita detta Veneranda Scola à

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La cornice, molto meno sontuosa dell’intaglio dell’organo (e questo motiva ancheil costo di soli 60 scudi, cioè 420 lire a fronte dei 190 scudi richiesti per l’altra ope-ra), mostra i caratteri della scultura del Faustini, soprattutto nella realizzazione del-le statue degli angeli sul timpano e nei putti che reggono l’architrave la cui posa,tesa e quasi forzata, è ripresa anche nell’altare di Tizio di Collio, posteriore di soloun anno. All’ancona di Tizio di Collio rimanda anche il trattamento della cartellaalla base dell’altare, mentre la fantasia decorativa delle due lesene ai fianchi dellapala anticipa le spigliate invenzioni faustiniane dell’ultimo decennio del secolo.

Dal 1675 al 1686

All’indomani della realizzazione della cornice della Madonnina, il Faustini è do-cumentato a Bagolino per la fattura di un Crocifisso per il pulpito della Parroc-chiale per il quale sono certificati pagamenti tra il luglio e l’agosto del 1675.43

Nello stesso anno, il 14 luglio, stipula in solidum insieme a Giovan Pietro Bonomidi Avenone un contratto con i Reggenti della chiesa di Santa Maria di Tizio di Col-lio, obbligandosi a “fabricar in forma laudabile una ancona all’Altar magiore nel-la Chiesa della B.a V.e Maria di Ticio eretta nella sud.a Terra di Collio”44; con ciò iReggenti si impegnavano anche a “mantenerli l’habitatione et utinsili che li sa-ranno necessarij mentre d.ti Sig.ri Faustini, et Bonomi habitaranno qui a Collio perla soprad.a fabrica”,45 pratica abbastanza comune, documentata anche per altri ar-tisti itineranti,46 che dovette tener lontano il Faustini da Chiari almeno fino alla fi-ne del lavoro, o forse ancora oltre, perché nel 1679, il 26 novembre, riceveva la ca-parra di 70 troni per la “nova anconetta da fare per ornamento della Beat.ma Ver-

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detto Erede in caso della caducità intimatagli, se mancasse per cinque volte continue di far ardere lalampada al Quadro della Beata Vergine di Caravaggio era posto nell’altare di santa Lucia eretto nel-la Chiesa di detta Scola, che perciò essendo stata trasportata via detta imagine, et per conseguenzacessata l’obligatione. Si manda parte di fare tale rinoncia pronto offerendosi detto Marello fare unaqualche limosina à detta Chiesa...”. Verosimilmente non si tratta qui dell’avvenuto trasferimento diun’immagine della Madonna di Caravaggio che si trovava nell’altare di Santa Lucia (mai in prece-denza documentata), come le brachilogie testuali lascerebbero a prima vista pensare, ma del quadroche era posto nell’altare di santa Lucia e che era stato allora trasportato nella chiesa della Madonna diCaravaggio, facendo cessare, per questo, le obbligazioni testamentarie del qm Carlo Marello.43 FORMENTI, 1990, p. 48; BIZZOTTO PASSAMANI, 1995, p. 387.44 Il documento in ASB, Notarile Brescia, Tavelli Marco, notaio di Collio, filza 6788, 1675 14 luglio, èpubblicato integralmente in SABATTI, 1994, pp. 240-242.45 SABATTI, 1994, p. 241.46 CARGNONI, 1997, p. 38 nota 78.

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gine”47 nella Parrocchiale di Bagolino. La piccola cornice - oggi sostituita da unacopia - rappresenta, secondo la Cargnoni “una innovazione sorprendente rispet-to all’ancona di Collio, eseguita dallo stesso artista, in collaborazione col Bonomi,solo quattro anni prima” 48 per la libertà dell’intaglio ma soprattutto per le inno-vazioni formali introdotte dall’artista, nel senso di leggerezza dell’intaglio e nellapropensione verso forme più sinuose a cui contribuiscono le figure di angeli cheaffiancano il repositorio. Per il resto, i documenti dal 1675 al 1686 tacciono completamente, ma questa lacu-na potrebbe essere colmata con i lavori a lui attribuibili - quasi certamente in colla-borazione ancora col Bonomi - nella chiesa cittadina di San Giovanni evangelista, dicui si è solo accennato poco sopra. Tra il 1651 e il 1674 l’antica chiesa di San Gio-vanni veniva completamente ristrutturata e dotata di nuovi altari e pitture secondoil gusto dell’epoca. Dei cinque altari lignei fino ad oggi conservati, solamente uno,quello dedicato ai Martiri dell’Ararat ebbe già nel Settecento l’ascrizione a GasparoBianchi,49 mentre gli altri sono stati attribuiti genericamente ad artisti locali dell’ini-zio del XVII secolo50 e sono menzionati, ad eccezione di quello delle Reliquie, giànella prima stesura del Giardino della Pittura di Francesco Paglia che ha come limitecronologico proprio il 1675.51 Pur tenendo presente questo limite cronologico è le-cito pensare che i tre altari menzionati dal Paglia - dedicati all’Assunta, a Sant’Anto-nio e al Crocifisso (oggi al Sacro Cuore) - siano stati realizzati in quel torno d’anni, apartire dall’altare del Crocifisso che presenta caratteri affini a quello di Bagolino,specie nell’intaglio e nella curiosa chiave a volume posta al centro dell’architrave. Inquesto altare il Faustini e il Bonimi utilizzano alcuni elementi del loro repertorio giàvisti anche nell’ancona di Tizio di Collio (specie nella minuzia dei decori poco rile-vati), ma mostrano già quei caratteri più plastici, che si rintracciano nell’Altaretto diChiari, nelle volute della predella centrata da una testa d’angelo che ricorda da vi-cino le fisionomie dei telamoni della cantoria di Santa Maria a Chiari ma con unasempre crescente libertà nella scelta delle pose e delle torsioni. A seguire deve esse-

47 APB, Gubernario del Rosario, in FORMENTI, 1990, p. 48.48 “Le colonne sono sostituite da due eleganti angeli-cariatidi, collocati sopra rocchi di colonne, de-corati con radi fiori su fondo rosso; l’anconetta si conclude con un piccolo coronamento fiorito. Idue angeli indossano una lunga veste dorata, che lascia scoperte le spalle e le braccia, trattenuta dauna mano sopra il ginocchio; una ciocca di capelli ondulati ricade su una spalla. Ai lati estremi del-l’anconetta corre un elegante fregio a volute vegetali e mazzi di fiori”. CARGNONI, 1997, p. 25.49 G. B. CARBONI, Le pitture e sculture di Brescia, Brescia 1760, p. 46. 50 A. MORASSI, Catalogo delle cose d’arte e di antichità d’Italia. Brescia, Roma 1939, pp. 293-294, 322.51 PAGLIA, Il giardino della pittura 1660-1675 (ms. BQBs G.IV.9) 1708-1713 (ms. BQBs Di Rosa 8), ed.a cura di C. Boselli, in Supplemento ai “Commentari dell Ateneo di Brescia” per il 1967, Brescia 1967, pp.179, 195.

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Fig. 6: Giacomo Faustini, Altare di san Pietro martire.Chiari, Chiesa di San Pietro martire. Particolare della decorazione delle volute.

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re posto l’altare dell’Assunta, il primo della navata destra, che mostra una strutturapiù semplificata nella quale le colonne sono sostituite da telamoni e da cariatidi che,per il piglio, richiamano ancora alla cantoria di Santa Maria a Chiari, ma con qual-che aggiornamento dato dalla maggiore spigliatezza delle figure che cominciano aprodursi in avvitamenti che vedremo pienamente compiuti nell’opera estrema delFaustini, nell’ancona per l’altare maggiore della chiesa clarense della Beata Verginedi Caravaggio. Qui il repertorio figurativo propriamente faustiniano è visibile nellefigure poste sul timpano spezzato, che riprendono da vicino quelle dell’Altaretto diChiari, e nella solenne statua della Carità al centro del timpano, dalle movenze an-cora montaniniane, ma già integrata nel mondo figurativo dell’artista. L’altare ge-mello che fronteggia quello dell’Assunta, dedicato a Sant’Antonio da Padova, è in-vece da collocare qualche anno più avanti, verso la metà degli anni Novanta, instretto rapporto con la controcantoria della chiesa clarense di Santa Maria - di cui siparlerà più avanti - e, soprattutto, con l’ancona monumentale della chiesa della Bea-ta Vergine di Caravaggio a Chiari nel farsi grave, avvitato, e teso dei telamoni ai latidella pala. Agli stessi anni deve anche appartenere l’ancona dell’altare delle Reliquiesempre in San Giovanni a Brescia, i cui caratteri stilistici sono da coniugare conquelli del già citato altare della Beata Vergine di Caravaggio a Chiari. A prima dell’inizio del nono decennio, dovrebbe risalire anche il paliotto ligneo del-l’altare della chiesa di San Pietro Martire a Chiari, realizzato simulando i parapettiin commesso marmoreo già utilizzata fin dall’inizio del Seicento. Non v’è dubbio chein quest’opera “minore” lo stile del Faustini sia ancora completamente legato agli sti-lemi della sua prima attività, quella - per intenderci - nella quale l’intaglio non haancora assunto quei caratteri di esuberanza decorativa che assumerà nelle opere de-gli anni Novanta. Il paliotto è composto da una cartella centrale dipinta a finto com-messo marmoreo, affiancata da due edicolette sostenute da due colonne con capi-tello composito, ciascuna ornata con una nicchia entro la quale si trovano altrettan-te statue di santi domenicani dipinte di bianco ad imitazione del marmo. Le volutelaterali, infine, dipinte di nero sono decorate con teste d’angelo di profilo e puttinia figura intera. Soprattutto questa parte rimanda stilisticamente all’opera del Fau-stini, ai suoi putti dalle pance cadenti e dalle fisionomie paffute e tristi. Le due tested’angelo hanno, poi, diretto riferimento con le decorazioni laterali dell’ancona del-la Beata Vergine di Caravaggio realizzata dall’artista a partire dal 1691. Il recupero al Faustini di questo piccolo manufatto permette, però, di ricondurreall’intagliatore clarense un altro manufatto della stessa natura. Attribuito da Car-gnoni52 alla bottega dei Boscaì come stilisticamente prossimo al bancone della sa-

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52 CARGNONI, 1997, pp. 53, 72, 183 scheda 113.

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grestia del Santuario della Misericordia di Bovegno (1701),53 il paliotto dell’altarmaggiore della chiesa di Santa Maria del Giogo a Polaveno deve essere invece as-segnato al Faustini, specie nelle due statuette, trattate a finto marmo bianco, deltutto simili a quelle di Chiari. L’altare di Polaveno, come quello di Chiari, imita unparapetto marmoreo, ma con una struttura più semplificata e sinuosa che lo fa ri-tenere posteriore di qualche anno, verso i primi anni del nono decennio. Alla cornice della Madonna di san Luca di Bagolino, specie negli angeli a figura in-tera, rimanda un’altra opera, questa pure documentata, realizzata dal Faustini aChiari tra il 1686 e il 1687: l’arca di san Bonifacio, prima commissione clarensedopo il silenzio decennale delle fonti, che mostra chiaramente l’evoluzione - nelsenso di un progressivo alleggerimento delle forme e di una eleganza più pensa-ta e meno “nostrana” - verso uno stile più prossimo alle declinazioni barocchette. Nel Libro della B. V. M. di Caravaggio sono registrati già dal 18 luglio di quell’annoconti al Faustini che poi confluiranno nelle spese per l’ancona dell’altar maggiore.Tra questi, quello registrato sotto la data 3 dicembre 1686, dice: “Contigli per As-si della B. V. M. datti alla Comunità per far l’Arca di S. Bonifacio 3 Xbre 86 lire seisoldi quatordeci tirati dal Comune dico L 6:14”.54 L’arca che doveva accogliere ilcorpo del santo vescovo Bonifacio è il primo atto di una vicenda conclusasi solonel 1713 con la doratura del grandioso altare delle Reliquie nella Parrocchiale55,variamente attribuito al Faustini e agli Olmi56 ma compiuto quasi certamente benal di là della data di morte dell’artista. Sebbene Faustino Faustini, nipote di Gia-como, reclami dal Comune la soluzione delle pendenze per l’altare di San Bonifa-

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53 Per quanto l’autrice sostenga una qualche vicinanza stilistica delle statuette di Polaveno con quel-le di Bovegno, un raffronto attento rivela una notevole distanza, soprattutto nel modo di realizzaree caratterizzare le fisionomie delle figure che nei Boscaì mantengono un che di bambolesca giocon-dità del tutto assente nelle statuette di Polaveno e, invece, consona con l’atteggiamento pensoso egrave di quelle di Chiari. 54 APCS, Libro della B. V. M. di Caravaggio, f. 250r. Pagamenti per questo lavoro sono richiesti dal ni-pote Faustino Faustini parecchio dopo la morte dell’intagliatore, il 23 maggio 1713: ACC, Liber Pro-visionum 1704-1723, A.II.9, ff. 178v-179r. 55 Si veda: G. FUSARI, Il Duomo di Chiari, 1481-2000. Il febbrile cantiere, Roccafranca 2000, pp. 57-61.56 ROTA, 1880, p. 232; RIVETTI, 1917, p. 137; L. RIVETTI, La Chiesa Parrocchiale di Chiari, Chiari 1920,ora in ID, Briciole di Storia Patria, vol. I, Chiari 1993, p. 28; FAPPANI, 1981, p. 47; BIZZOTTO PASSAMA-NI, 1995, p. 387. Fusari (2000, pp. 58-59) sintetizza così la vicenda attributiva: “Il Rota, appoggian-dosi a un documento del 23 maggio 1713, ritiene che l’ancona sia opera di Faustino Faustini, men-tre il Rivetti l’attribuisce a Lorenzo e Orazio Olmi; la grande soasa venne con ogni probabilità ini-ziata da Giacomo Faustini e per questo lavoro, come per quello della chiesa della Beata Vergine diCaravaggio, il nipote Faustino reclamò i pagamenti. Tuttavia, per ragioni stilistiche, la gran partedell’esecuzione dell’ancona è da assegnare agli Olmi, associati spesso al Faustini nella prosecuzionedi opere lasciate incompiute dallo scultore al momento della morte, e non solo a Chiari”.

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Fig. 7: Giacomo Faustini, Arca di san Bonifacio (1686-1687). Chiari, Chiesa Parrocchiale. Particolare di un angelo d'angolo.

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cio57 l’ancona non è stilisticamente avvicinabile all’opera di Giacomo e, a causa del-la mancanza di opere degli Olmi, è pure impossibile assegnarla – almeno a oggi –alla loro bottega. L’altare è concepito come una grandiosa macchina in legno do-rato. Quattro colonne tortili e due statue a grandezza naturale rappresentanti leAllegorie della salvezza eterna e della salute corporale affiancano la tela raffigurante laBeata Vergine, santi e anime del Purgatorio, attribuibile all’iseano Domenico Voltolini.Le due colonne più interne, poggianti su mensole rette da telamoni sono fastosa-mente intagliate con motivi a festoni e cartocci fogliacei. Le due più esterne ri-propongono alla base un rocchio di colonna riccamente intagliato racchiuso tradue rocchetti l’uno baccellato che funge da base, l’altro a corolla che imposta il fu-sto vero e proprio. L’architrave e i frontoni minori sono spezzati, alternatamentea volute e a salienti. Al culmine un baldacchino a padiglione sostenuto da ungruppo di angeli è sovrastato dal Padre Eterno a braccia allargate.58

L’arca di san Bonifacio, collocata ora insieme a molti altri reliquiari, alcuni deiquali assegnabili ancora alla mano del Faustini,59 sui ripiani dorati che sono solita-mente occultati dalla pala del Voltolini, presenta una decorazione molto sobriache percorre tutta la cassa, esibendo un repertorio inclinante ai modi di primoSeicento. I quattro lati, infatti, sono occupati per lo più da cristalli che lasciano li-bera la vista del corpo del santo; solo in prossimità degli angoli il Faustini ha po-tuto esprimere al meglio la sua arte animandoli con figure intere di angeli in fun-zione di telamoni che reggono una sezione d’architrave e di timpano spezzati,poggianti qui su mensole che ripetono, monumentalizzandole, le forme della cor-nice della Madonna di san Luca di Bagolino.

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57 ACC, Liber Provisionum 1704-1723, A.II.9., ff. 178v-179r. “Adì 23 Maggio 1713 Supplica del SignorCapo Faustini. Letta altra supplica presentata dal Signor Capo Faustino Faustini instante per la con-sequtione [sic] del suo preteso credito verso l’Altare di Santo Bonifacio et ben essaminata fù à viva vo-ce conferta la libertà alli M.o RR. SS.ri Reverendo Giovanni Vignadotti, et Reverendo Foglia deput-tati a detto Altare, di stabilir il conto del preteso credito d’esso Signor Capo Faustini, et di sodisfarlo”.58 FUSARI, 2000, p. 59.59 Sono da assegnare al lavoro d’intaglio del Faustini quasi tutte le arche dorate che si trovano nel-l’altare, che presentano gli stessi caratteri di finezza d’intaglio e di repertorio figurativo (angeli a fi-gura intera, protomi femminili angolari, cartelle pergamenacee ritorte e smarginate) e questo po-trebbe motivare in parte la richiesta di pagamento di Faustino Faustini per l’altare. Non sono invecedi mano del clarense i quattro busti e il reliquiario in ebano, quest’ultimo sicuramente anteriore.

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La statua della Madonna del Rosario per Santa Maria maggiore

Ancora un quinquennio di silenzio delle fonti ci separa dalla successiva commissio-ne al Faustini anche se è lecito pensare che in questo giro d’anni fosse giunta all’ar-tista la commissione per l’altare della Madonna di Caravaggio per la quale i paga-menti cominciano il 7 luglio 1691 ma, come si è detto, la contabilità segnata a fron-te del Dare rimonta al luglio del 1686. L’opera, grandiosa più di ogni altra realizza-ta dal Faustini, dovette accompagnarlo negli ultimi anni della sua vita e per questoverrà trattata alla fine. In questo lasso di tempo è pure possibile inserire la già men-zionata ancona dell’altare di Sant’Antonio della chiesa cittadina di San Giovannievangelista che, pur riprendendo la struttura dell’altare dell’Assunta collocato difronte, mostra una maggiore libertà nella conduzione delle figure, soprattutto deitelamoni, che già preludono nella potenza e nella corrucciata legnosità dei modi, al-le analoghe personificazioni della chiesa della Beata Vergine di Caravaggio, ma chesi appressano, nella monumentale statua dell’angelo posto al culmine della soasa, aimodi con i quali il Faustini intaglia le statue della controcantoria di Santa Mariamaggiore a Chiari. Le figure, così come gli intagli minuziosi delle girali vegetali, po-polate di puttini giocosi, perdono la compattezza delle opere precedenti assumendopose più libere; i panneggi si fanno taglienti alla maniera dei fogli di pergamena acui si assimilano sempre di più i riccioli delle cartelle e dei decori; i rilievi si staccanodai fondi assumendo una vitalità fino ad allora sconosciuta.Frattanto nel Consiglio del 6 luglio 1692 veniva esposto dal Priore della Scuola “es-ser dà alcuni divoti della B. V. M. del Rosario stata fatta una statua rappresentantedetta B. V. con haverla ornata di Veste, Manto, Corona, et altri adobbi necessarij,con intentione di donarla à detta Schola, acciò nella prima Domenica d’Ottobreogn’anno sij portata processionalmente come si prattica anco nell’IllustrissimaCittà di Brescia et altrove, per eccitar maggiormente la devotion de Confratelli didetta V. Schola et di questo popolo verso detta B. V., Mentre il Reverendissimo si-gnor Prevosto, et li Molto Reverendi signori Canonici di questa Parochiale Colle-giata di Chiari, si contentino far tal fontione, et assister alli signori Reggenti dellaSchola medesima per incaminarla con le formalità proprie; onde fatti sopra di ciòmolti discorsi, finalmente è stata da detto signor Priore mandata parte di SupplicarMonsignor Illustrissimo signor Vescovo, ò suo Vicario ò chi che sij licenza, e facoltàdi portar in processione come sopra detta statua con quelle regole, et ordini che dàsua signoria Illustrissima sarà prescritti à detti signori Reggenti; qual parte balot-tata è stata presa con balle, e voti affirmativi n° tredici, et niuna di negative”.60

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60 APCS, Parti, f. 68r e v. Il documento è parzialmente e approssimativamente trascritto anche in RI-VETTI, 1921, p. 120.

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Il testo della deliberazione è stato reso noto dal Rivetti,61 ma risulta strano che lostorico non abbia fatto menzione dell’autore della scultura, perché già il 22 apriledi quell’anno, veniva registrato un piccolo pagamento “al Signor Giacomo Fausti-ni di Chiari scultore per l’immagine della Madonna nova essendo state offerte al-cune cose a questo fine L 3:2”62 seguito da un altro del 17 agosto che dice: “Dattial Signor Giacomo Faustini detto il Modesto Berlingotti 17.7 a conto dell’immagi-ne della Beatissima V. Maria che si fa di novo, et questi denari sono stati offerti aquesto fine”63. Il Faustini, quindi, già dall’aprile stava lavorando alla scultura e l’e-siguità dei pagamenti (oltre alle testimonianze di chi la poté ancora vedere) ci fan-no concludere che si trattasse non di una statua intera, ma di una cosiddetta Ma-donna vestita, le cui sole parti scolpite erano il capo e le braccia della Vergine e ilBambino. L’unico documento che ci tramanda l’aspetto di quest’opera - oggi nonpiù reperibile - caduta sotto la scure del decreto vescovile di monsignor GiacintoTredici (1935) che vietava l’esposizione nelle chiese di tali sculture,64 è una pitturaottocentesca posta all’esterno di un armadio (ora nei depositi della parrocchiale)che ritrae la Vergine in piedi col Bambino in braccio, con il sontuoso abito di broc-cato confezionato nel 1752,65 sotto il trono ligneo realizzato nel 182266 da Giovan-ni Reiner in sostituzione di quello d’argento consegnato alla Repubblica Brescia-na insieme agli argenti della Collegiata nel 1797.67

La controcantoria per Santa Maria maggiore

Nel Consiglio della Scuola del Santissimo Rosario del 6 luglio 1692 - lo stesso nelquale si era deliberato di accettare la statua della Madonna del Rosario scolpita dalFaustini - si proponeva anche “di far una Cantoria nella Chiesa di detta V. Scholaall’incontro dell’Organo, con li ornamenti simili à quelli di detto Organo et conl’indoratura per puoter meglio solennizare la Festa della B. V. del Rosario, qualparte balottata è stata approbata à tutti voti n° 13”.68

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61 RIVETTI, 1921, p. 120.62 APCS, Spese ed offerte alla Chiesa dal 1691 al 1697, f. 51r.63 APCS, Spese ed offerte alla Chiesa dal 1691 al 1697, f. 51r. 64 Fu allora sostituita dall’attuale statua realizzata dal clarense Pietro Repossi.65 APCS, Parti, ff. 147v e f. 158r.66 RIVETTI, 1921, p. 194.67 “L’anno 1797 tutto l’argento di questa chiesa fu portato a Brescia, e colato in Beneficio della na-zione. L’argento consisteva in sei candelieri madiori d’argento fino, e ben laorati, che servivano al-l’altare maggiore colla croce. in due lampade per l’altare maggiore. una piastra grossa d’argento,che copriva tutto il trono della B.V.M.”. APCS, Particole testamentarie, Esattoria, tesoreria, f. 1r.68 APCS, Parti, ff. 68v-69r e RIVETTI, 1921, p. 118.

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Fig. 8: Giacomo Faustini, Ancona dell'altare maggiore (1691-1703). Chiari, Chiesa della Beata Vergine di Caravaggio. Particolare del telamone sinistro.

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Questa volta l’opera fu condotta con grande celerità: solo un mese dopo la deli-berazione, il 19 agosto 1692, si trova un pagamento di “Berlingotti uno, et soldidieci nove per haver fatte le spese alli caratori, che conduceriano le colonne dellacantoria”.69 Al Faustini vennero corrisposti in due rate 468 berlingotti e 8 soldi perla cantoria70 una cifra irrisoria, rispetto ai 1330 berlingotti pagatigli per la cassad’organo, da integrare, forse con altri due pagamenti, distanti nel tempo e, pur-troppo senza causale, rispettivamente di 70 berlingotti (7 Ottobre 1698) e di 239berlingotti e 8 soldi (27 Marzo 1699)71 che porterebbero l’ammontare del com-penso a 777:16 berlingotti. Non è da escludere che, per far fronte all’impegnati-vo sforzo finanziario della doratura72 i Reggenti della Scuola avessero chiesto alloscultore di procrastinare la soluzione del debito di qualche anno. Faustini concepì la balconata in stretta dipendenza da quella già realizzata, ponen-dola su mensole a volute e scompartendola in cartelle rettangolari - le due centralipiù avanzate - divise da cariatidi (sostituite ai telamoni dell’altra balconata). All’in-terno delle cartelle, però, l’intaglio faustiniano perde la consistenza del bassorilie-vo e la simmetrica composizione quasi neocinquecentesca per acquisire una fortis-sima tridimensionalità: cartocci rigogliosi entri i quali trovano posto figurette diputtini accoppiate in pose disinvolte. La stessa articolazione a cartelle rettangolariinteressa il doppio corpo sopraelevato dell’orchestra. La piccola balconata domi-

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69 APCS, Spese ed offerte alla Chiesa dal 1691 al 1697, f. 51r.70 APCS, Tesorieri della Veneranda Scuola del Santissimo Rosario di Chiari et Massari di essa I,f. 97r. 10 Set-tembre 1693: “Item pagati a Giacomo Faustini per saldo della Cantoria B 298:8”; 23 Settembre1693: “Item pagati al Signor Giacomo Faustini per la cantoria B 170:-”.71 Entrambi i pagamenti in APCS, Tesorieri della Veneranda Scuola del Santissimo Rosario di Chiari et Mas-sari di essa I,f. 102r. 72 Rispetto alla cassa dell’organo, la controcantoria fu subito policromata e dorata da Antonio Cara-vaggi, al quale sono corrisposti, tra il 14 febbraio 1694 e il 19 agosto 1695, 809 berlingotti e 10 soldi(un po’ meno della metà di quelli spesi per la doratura dell’organo) per oro “et parechio à colori” (Ipagamenti in: APCS, Tesorieri della Veneranda Scuola del Santissimo Rosario di Chiari et Massari di essa I,ff. 6r-8r e 97r-98r. Anche RIVETTI, 1921, p. 118). Allo stesso tempo, secondo quanto si legge nel ver-bale del Consiglio del 28 marzo 1694, fu “rappresentato dal sudetto Eccellentissimo signor Priore es-ser necessario di far poner due altre Colonne alla Cantoria per assicurarla, et esser bene farle ancoindorare; sopra di che fatti maturi riflessi, et più discorsi, finalmente è stà mandata parte di dar li-bertà alli signori Reggenti di far poner dette Colonne in quel meglior modo che sarà consigliati dàPeriti, et di farle indorare, con quelli modi, patti, et pretio, che stimarà più avantaggiosi, et quellabalottata, e stata presa con balle affirmative 12 negative –” (APCS, Parti, f. 73v), decisione subito mes-sa in atto come fanno fede le spese per la “condotta di due colonne della cantoria in cambio dellespese datto berlingotti due alli caretteri” (25 maggio 1694) e per il “tagliapietra di Rezato, et Indo-ratore come per boletta” (19 Agosto 1695. APCS, Tesorieri della Veneranda Scuola del Santissimo Rosariodi Chiari et Massari di essa I, f. 98r. Il pagamento ammonta a 110 berlingotti e 10 soldi).

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nata dai colori verde e rosso con graffiti in oro mostra un intaglio più sobrio e me-no rilevato, più vicino all’opera di vent’anni prima, mentre il fastoso schienale chesi conclude con un curioso culmine sul quale sono poste cinque statue a tutto ton-do di angeli musicanti, replica l’andamento delle due balconate, con cariatidi, tela-moni e grandi cartocci vegetali in una sorta di sintesi dell’arte del Faustini che giàdal 1691 si stava cimentando con la sua opera più grandiosa (ed estrema): l’anconadell’altar maggiore per la chiesa della Beata Vergine di Caravaggio.

L’ancona per l’altare maggiore della Beata Vergine di Caravaggio

È bene domandarsi da dove venisse al Faustini questo nuovo modo d’intagliarepiù rigoglioso che, nella controcantoria per Santa Maria rimane ancora giustap-posto allo stile sperimentato nelle opere precedenti e che, invece, nell’ultimo de-cennio di vita dell’artista diventa la cifra più caratteristica del suo stile. In effetti icartocci della controcantoria di Santa Maria, trovano sviluppo in una strutturacoerente già nella splendida cornice - proveniente dalla distrutta disciplina diSanta Maria Annunciata di Ludriano e ora nella Parrocchiale73 - ricondotta al Fau-stini da chi scrive,74 collocabile nella prima metà degli anni Novanta. In questa cor-nice “l’artista si mostra capace di coniugare tutti gli elementi tradizionali delle raf-figurazioni della scultura lignea contemporanea in una sorta di fantasmagorico -ed eversivo - microcosmo, nel quale convivono, tutti insieme, gli esseri dotati di vi-ta, che l’intaglio, pur nella sua natura sontuosa e rigonfia, mostra di esaltare nelsuo condursi così nervoso e palpitante”.75 E a questa data il Faustini doveva avergià compreso e assimilato quegli elementi di novità che (è un’ipotesi men che az-zardata) dovette vedere a Bagolino, all’indomani della realizzazione del nuovo al-tare della Madonna del Rosario, compiuto tra il 1688 e il 1689 da Baldassarre Vec-chi di Ala di Trento per la parte scultorea e dal vecchio sodale del Faustini, GiovanPietro Bonomi di Avenone per quella architettonica e a lungo, fino al reperimen-to dei documenti di commissione, ritenuta opera del clarense. Questa ancona, co-me le altre due realizzate dalla coppia Vecchi-Bonomi tra il 1685 e il 1689 per lechiese di San Bartolomeo di Avenone e di San Giorgio di Bovegno, “sono caratte-rizzate da una struttura architettonica monumentale, una ricchezza iconografica,

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73 La cornice fu utilizzata, negli anni Settanta dell’Ottocento, come ancona per la nuova pala dellaparrocchiale, dipinta da Ponziano Loverini nel 1881 e dalla vecchia Parrocchiale fu trasportatanella nuova negli anni Cinquanta del Novecento.74 G. FUSARI, Ludriano. Il monastero, il castello, la nobiltà, Roccafranca 2003, p. 191.75 FUSARI, 2003, p. 191.

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un gusto scenografico e spettacolare, tipico della teatralità barocca”,76 ma soprat-tutto da un’enfasi data agli elementi vegetali che si distaccano dai fondi con pre-potenza e spigliatezza ignote nei manufatti locali seicenteschi. Le grandi foglie cherigogliose si attorcono su se stesse, fibrose e pure carnose nei rocchi di colonnache fanno da sostegno ai telanomi dell’ancona di Bagolino hanno come parentipiù prossimi quelli che animano le colonne dell’ancona della Beata Vergine di Ca-ravaggio a Chiari. E così è per l’animazione di figurette che popolano questi gran-di cartocci di verzure e che trapassano da Bagolino fin da subito nella controcan-toria di Chiari dove il Faustini pare abbagliato da questo nuovo modo di compor-re, fino alla cornice di Ludriano, per finire nell’ancona della Madonna di Cara-vaggio ma qui già con una più meditata integrazione delle novità nel sistema stili-stico faustiniano. L’artista di Chiari, infatti, non giunge mai (o non lo permette al-la sua fantasia) agli estremismi bizzarri del Vecchi - che saranno poi dei Boscaì -preferendo mantenersi entro un’impaginazione più classica e lineare (o tradizio-nale) dell’intera struttura. Il primo pagamento per l’ancona della Madonna di Caravaggio risale al 7 luglio169177 e pagamenti sono certificati con questa causale anche dopo la morte delloscultore, fino al 3 giugno 1707.78 Nello stesso libro si trova chiaramente la consi-stenza del lavoro commissionato al Faustini e l’ammontare del compenso. Si leg-ge: “Il s,r Giacomo Faustini Scultore deve havere dalla Chiesa della B.V.M. di Ca-revazzo eretta sopra il Terit.o di Chiare per fatura dell’Ornamento della Pala di d.a

chiesa una Ancona piccole lire mille settecento cinquanta cosi convenuto tra d.o s.r

Faustini, et M.to R.do s.r d Carlo Cezareno et ecc.mo s.r D.r Baetto Deputati et espri-mendosi esso s.r Faustini haver fatto considerabil rilasso a d.a Chiesa dell’importardel sud.o Prezzo dico L 1750Item deve havere altre piccole lire duecento cinquanta piccole havendogli rila-sciato per Carita altre piccole L 19:6 con di conto fatto riportavano le Fature del-la secreta, Inprincipio, Candelieri otto; 4 Vasi intagliati per l’Altar della B.V. com-preso ancor la Mercede del Tornidore, et 434 tavelle per d.o s.r Faustini datte dafar il cornissone della Chiesa, dico oltre il relascio de L 19:1 L 250”.79

È possibile sostenere, quindi, in base ai documenti che l’ancona della Madonna delRosario (insieme al corredo per l’altare) fu compiuta in toto dal Faustini, mentre so-

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76 CARGNONI, 1997, p. 25. 77 APCS, Libro della B. V. M. di Caravaggio, f. 7r. Bizzotto Passamani (1995, p. 388), seguendo Rivetti(1915, p. 146) - ma senza recensirne il dubitativo - afferma che “nel 1690 il Faustini stipulò un con-tratto con due deputati della fabbrica della chiesa della Beata Vergine di Caravaggio”. 78 APCS, Libro della B. V. M. di Caravaggio, f. 70r.79 APCS, Libro della B. V. M. di Caravaggio, f. 249v.

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lo i pagamenti superarono il limite naturale della sua vita perché in nessun altro luo-go si parla di altri intagliatori impegnati nel completamento della grande soasa. Perquesto è da ritenere una svista quella del Rota80 che l’attribuì agli Olmi e una sceltapreconcetta quella del Rivetti81 di dirla ultimata dagli Olmi senza nessun appigliodocumentario. Tuttavia questa opinione dello storico clarense è stata ripresa da tut-ti gli storici successivi, da Fappani82 a Bizzotto Passamani83 che ripetono invariabil-mente che - più o meno dubitativamente - l’opera fu ultimata da Lorenzo Olmi.84

La grande ancona che occupa tutta la parete di fondo del presbiterio è concepitasecondo i caratteri classici delle macchine d’altare degli ultimi decenni del Seicen-to, con un rigoglio d’intagli - a Chiari - pari solamente all’altare delle Reliquie nel-la chiesa di San Giovanni evangelista a Brescia, compiuta quasi negli stessi anni,seguendo la stessa struttura e la medesima profusione di altorilievi e statue a tut-to tondo. Su due alti plinti rettangolari, un tempo decorati con girali ad alto rilie-vo, purtroppo rubate nel 1994, si ergono due colonne con capitello corinzio fitta-mente decorate con motivo a tralci di vite, uccelli e putti, affiancate da due tela-moni, che reggono l’alto cornicione a dentelli con fregio continuo che riprende ildecoro delle colonne. Il timpano, ricurvo e spezzato, concluso da due grandi vo-lute, reca nel mezzo la statua a mezzo busto del Padre eterno a braccia allargate. Laparte centrale dell’ancona doveva ospitare il quadro del Compianto sul Cristo morto(o dell’Addolorata) realizzato da Domenico Voltolini nel 1699,85 posto ora nella

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80 “Se i Tortelli otteneano fama altrove, Orazio Olmi intagliava la soasa dell’altar maggiore della Ma-donna di Caravaggio, opera commedevole per fantasia di invenzione, grandiosità di disegno e fran-chezza di maneggio nello scalpello”. ROTA, 1880, p. 232. 81 Per quanto non vi siano documenti a sostegno, Rivetti (Il Santuario della Beata Vergine di Caravaggiopresso Chiari, in “Brixia Sacra” VI (1915), p. 146) sosteneva che l’altare fu finito dagli Olmi, opinio-ne dalla quale chi scrive si sente di dissentire. Lo stesso Rivetti (1917, p. 137), pur affermando chenel contratto figura solo il nome del Faustini, ribadisce la convinzione che l’altare fu finita dagli Ol-mi. Così anche RIVETTI, 1920 ed. 1993, p. 28 nota 55. 82 FAPPANI, 1981, p. 48.83 BIZZOTTO PASSAMANI, 1995, p. 388. 84 Il forse sarebbe d’obbligo perché di quest’ultimo artista non conosciamo nessuna opera documentata.85 Rota (1880, 233) attribuiva la tela a Giuseppe Tortelli, ma già Rivetti (1915, p. 148) non accoglie-va l’attribuzione senza però collegare questa pala a quella commissionata al Voltolini. Per questo at-tribuiva all’iseano l’immagine della Madonna di Caravaggio attualmente racchiusa nell’ancona delFaustini. Al contrario, anche in base a raffronti stilistici, è possibile ricondurre la pala dell’Addolora-ta al Voltolini al quale sono registrati pagamenti tra il marzo e l’ottobre del 1699 (APCS, Libro dellaB. V. M. di Caravaggio, ff. 49r, 50r, 53r). La pala, datata 1699 in basso a destra, giunse a Chiari nelmaggio di quell’anno (Pagamento “a quelli che hanno portato la pala da Iseo” il 26 maggio 1699, inAPCS, Libro della B. V. M. di Caravaggio, f. 50r).

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quarta cappella destra; già nel 1728,86 però, data la grande devozione per l’imma-gine della Madonna titolare della chiesa, si decise di spostare questa effigie all’al-tar maggiore ornandola con una decorazione a stucco imitante angeli reggicorti-na per raccordarla all’apparato ligneo faustiniano. L’inserto ben si armonizza, seb-bene lo slancio già barocchetto segni un certo stacco di tempo con l’ancona lignea,e aumenta il senso di fastosa solennità dell’insieme. In quest’opera - come nell’altare delle Reliquie di San Giovanni - Faustini dimostradi aver pienamente maturato e assimilato i modi del Vecchi senza però introdurviquella deformazione dolorosa delle fisionomie e delle pose che già Vezzoli diceva ca-ratteristiche dell’ancona di Bagolino87. Piuttosto rinnova il repertorio classico (estantio) della colonna decorata con tralci di vite e putti, di ascendenza ancora tardocinquecentesca, animando l’intaglio e rilevandolo fino a ridurlo quasi al tutto tondoe imprimendo nelle figure una frenesia del tutto assente nelle gioconde figure diputtini attestate nelle ancone seicentesche. Le forme si fanno meno opulente, tran-ne in qualche caso, e l’intaglio più incisivo, più mosso, tanto da dare all’insieme unche di vibrante e di instabile grazie (o a causa) di quella sovrabbondanza di decoriche investe tutto il complesso. Maggiore monumentalità e persino una poco velatamalinconia esprimono i grandi telamoni qui, contrariamente a quanto compiutonella cassa d’organo per Santa Maria, a torso nudo e ripresi in una posa concentra-ta e fortemente plastica, con la muscolatura tesa e potente e una sorta di smorfia sulviso che diviene sempre più caratteristica nella scultura del clarense. Di uguale perizia d’intaglio doveva essere l’apparato d’altare (otto candelieri, vasie secreta) oggi perduto; certamente la grande secreta doveva essere simile a quella,proveniente dalla chiesa della Trinità, sempre a Chiari, e oggi conservata pressola Pinacoteca Repossi, assegnata tradizionalmente a Faustino e Giacomo Faustini88

e collocabile, in base al testo stampato a Venezia nel 1694, alla metà dell’ultimo de-cennio del Seicento. L’esuberanza decorativa della cornice, tutta volute d’acantodorate e puttini, ben si accorda con i modi dell’artista nei tempi dell’esecuzionedella grande soasa per la Madonna di Caravaggio.

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86 Nel Consiglio Comunale del 4 agosto 1728 venne fatta supplica di traslare l’immagine della Ma-donna di Caravaggio dall’altare dove si trovava (per il quale gli Olmi nel 1710 avevano realizzato lacornice, all’altare maggiore. ACC, Liber Provisionum 1723-1740, ff. 147v-148r.87 G. VEZZOLI, La scultura lignea nel territorio bresciano, in Storia di Brescia, vol. III, Brescia 1964, p. 115.Parlando dell’ancona di Bagolino come lavoro del Faustini, secondo la vecchia attribuzione poi smen-tita dai documenti, lo storico affermava che “tanto sotto i plinti delle cariatidi, quanto sotto gli angelistanno altre cariatidi o inginocchiate o in posa forzata. Le figure s’ingegnano di caratterizzarsi nel vol-to e nell’atteggiamento, ma non vi riescono troppo, riescono invece a una specie di smorfia grottesca”.88 LONATI, 1986, pp. 112-113; V. TERRAROLI, La Pinacoteca Repossi di Chiari, Brescia 1991, p. 77.

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Nell’ancona, come in questi lavori “minuti” della sua ultima attività, il Faustinimostra di mantenere un equilibrio concettualmente classico che, né gli intagliato-ri valsabbini, dal Bonomi ai Boscaì, né l’artista che portò a termine l’altare delleReliquie della Parrocchiale di Chiari vorranno osservare. Nell’arte del Faustini ilsentimento di trasgressione delle forme che prende l’avvio proprio dall’ultimo de-cennio del Seicento e che ha un suo rappresentante anche a Chiari in Orazio Ol-mi iunior (autore, entro il 1723, dell’ancona della Santa Croce nella Parrocchialedi Travagliato)89 appare ancora frenato dal ferreo controllo dell’impianto decora-tivo di ascendenza protobarocca. Per questo la sua scultura, per quanto fastosa edesuberante, non scivola nell’eccesso e nella deformazione capricciosa delle figuree delle strutture architettoniche, caratteristiche di altri intagliatori a lui contem-poranei e di lui ingiustamente più noti.

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89 L. ANELLI, Le chiese di Travagliato, vol I, Travagliato 1991, pp. 33-35, 99.

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di LUCIANO ANELLI

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Una messe non irrilevante di carte antiche ci documenta l’attività siciliana - preci-samente a Biancavilla (Catania) - del pittore Tamo “da Brescia”, dal 1722 al 1731,data quest’ultima in cui l’artista venne a mancare a Biancavilla, in età “di 44 annicirca”, e fu sepolto nella chiesa della SS. Annunziata.Era dunque nato attorno al 1686-87, anche se bisogna sempre essere molto cauticoi documenti del sec. XVIII, spesso imprecisi sull’età del defunto ed ancora me-no attendibili quand’egli non era nato nello stesso Stato nel quale veniva a morire.L’altro Stato - quello da cui era partito - era la Serenissima Repubblica (che i do-cumenti definiscono “veneti dominii”), dalla quale l’artista sarebbe stato cacciatoperché “reo” non sappiamo di quali delitti.Veramente la Serenissima Repubblica per solito preferiva farsi giustizia da sé, mapotrebbe anche darsi che la fuga fosse stata una decisione del pittore stesso poichési trovava in cattive acque. Non sappiamo. Né sappiamo perché sia giunto proprioa Biancavilla, dove comunque trovò abbondante spazio di lavoro, perché, anchese il terremoto della Sicilia orientale del 1693 non aveva distrutto Biancavilla, tut-tavia tutto il Catanese era ora interessato da un gran fervore di ricostruzione edi-lizia, di chiese e di palazzi che ora si trattava di decorare e di arricchire di pitture.Dal 1722 al ’31, e quindi nel fiore dell’età, il Tamo si accinse dunque a campire va-ste pareti di affreschi e decorazioni: nella chiesa della SS. Annunziata, nel chiostrodei francescani, nella “matrice” (l’intero “cappellone” di S. Placido, che è quasiuna chiesa nella chiesa), nella chiesa della Mercede; oltre a tre tele nella chiesa diAdrano di cui parleremo.Sulla “brescianità” dell’artista i documenti non lascerebbero dubbi - dubbi che in-vece permangono nel sottoscritto, dal momento che il cognome Tamo è affattoignoto nei registri bresciani sia antichi che moderni.L’indagine poi si complica per il fatto che l’artista era sposato ad una Bonavia diNave, ed anche questo cognome risulta del tutto estraneo ai registri parrocchialidel grosso borgo alle porte di Brescia.E allora? Come risolvere l’irrisolvibile questione senza tacciare di mendacità deidocumenti settecenteschi che non avevano alcun motivo di essere mendaci?

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Un gemellaggio Brescia-Sicilia nel nome del pittore

Giuseppe Tamo (sec. XVIII)Nuove indicazioni per la pittura di Giuseppe Tamo

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Credo - è un’ipotesi, ma una certa consuetudine con le carte antiche, e una certaesperienza di biografie di pittori m’inducono a formularla - che per il nostro Giu-seppe Tamo sia andata più o meno come andò per il suo quasi contemporaneo - edi tanto maggiore - Giacomo Ceruti (Milano 1691-1767), che fu indicato come“bresciano” (e lui stesso si firmava così) e chiamato “il Pitocchetto”, per più di duesecoli, a causa della lunga protratta attività nel Bresciano, fino a quando vent’an-no fa Vittorio Caparra (sia pace all’anima sua, perché è deceduto ancor giovanedue anni fa) non trovò i documenti in equivoci della sua nascita milanese.Quindi l’espressione “da Brescia”, “dai Veneti dominii”, poteva significare nel do-cumento settecentesco che il pittore proveniva da Brescia - tanto più che giraval’Italia senza passaporto…Ancora un motivo per ritenerlo bresciano solo per la sua prima attività, e forse an-che per la formazione: il minuziosissimo Dizionario (1877) degli artisti bresciani delFenaroli non lo menziona (così come - giustamente - non menziona il Ceruti),mentre è così preciso e circostanziato da ricordare anche artisti di secondo eterz’ordine, a noi noti solo da documenti ma non per opere.Ma allora il Tamo che cosa ci faceva a Brescia fino al 1722? Di certo vi si trovavaper esercitare la propria arte - magari all’ombra di un maggiore maestro - dal mo-mento che in Sicilia arriva pittore già formato e compiuto, e subito al lavoro percommissioni importanti, vaste ed impegnative.Sembra che fosse accompagnato da un cognato (allora si usava molto) che lo aiu-tava nel suo lavoro, e col quale costituiva una specie di “impresa” familiare (inLombardia questo era addirittura comunissimo, e potrei moltiplicare gli esempi)che fu capace di riempire di figure e di colori un’intera città.Naturalmente il Tamo è una gloria a Biancavilla; un Carneade a Brescia. Non so-lo in relazione alla mancanza di testimonianze documentarie in relazione alla suapatria di nascita; ma anche in relazione all’assoluta assenza di opere nel Bresciano(ciò che comporterebbe almeno l’acquisizione della patria “d’adozione”).Si può però fare qualche indagine induttiva.Se partiva da Brescia nel 1722, facendo conto che potesse avervi abitato almenoper un numero sufficiente di anni da giustificarne la “brescianità” che cosa avràfatto dai quindici anni (gli artisti venivano mezzi a bottega molto presto) fino aitrentasei? Dove sono le opere? E con chi aveva studiato? Dalla vasta messe di ope-re (tele ed affreschi) a Biancavilla si può risalire ad una formazione presso qualchemaestro bresciano?L’idea che finora ci siamo potuti configurare è quella che Giuseppe Tamo a Bre-scia abbia frequentato proprio tutte le chiese, soffermandosi a lungo soprattuttodavanti alle opere del Ghitti (figurista) e del Sorisene (quadraturista).

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Come decoratore e quadraturista, il Nostro si mostrò sempre molto versato e fe-condo; e perciò viene da pensare che proprio come decoratore fosse nata all’ini-zio la sua qualificazione professionale. Basterebbe guardare quale gioiosità e sicu-rezza (cornici e mazzi di fiori, conchiglie ed encarpi e quant’altro…) promana dal-le vaste pareti affrescate nelle chiese e nei conventi di Biancavilla, per avere un’i-dea di questa sua innata e felice inclinazione professionale.Come figurista lo vediamo impiegare facilmente tutte le risorse che offrono i pan-neggi e le architetture, i colori smaglianti delle vesti; e nelle ampie ambientazionipaesaggistiche, o sui cieli limpidi, collocare un’infinità di figure, con un vero horror va-cui d’impostazione tipicamente barocca (che ci ricorda le affollate scene del brescianoGrazio Cossali - 1563-1629 - o di Pompeo Ghitti - 1631-1704 - (figg. 1-2) di cui in-dubbiamente risentì l’influsso) magari senza una straordinaria attenzione alla preci-sione dei dettagli, ma sempre con un vivo senso della decorazione scenografica.Entro ariose architetture di marca prettamente veneto-bresciana, il Tamo collocale sue figure derivate in parte dal Ghitti, a volte con una foga ed una rusticità daRomanino, con colori vivi e squillanti che ci ricordano anche, come ho detto, ilCossali, che nel Bresciano fu il più convinto e divulgativo pittore del trionfo dellaControriforma.Poiché il Ghitti fu anche un felice e copioso incisore e disegnatore (alla sua mortefu trovata un’intera grande cassa di fogli disegnati), di cui oggi conosciamo deci-ne e decine di disegni, non è nemmeno impossibile che il nostro giovane Tamo,tornandosene in Sicilia, avesse portato con sé - come si usava - qualcuno di queidisegni. D’altra parte, gli anni giovanili e formativi di Giuseppe possono benissi-mo combaciare con quelli della vecchiaia del Ghitti, che avrà anche avuto bisognodi un giovane e promettente aiuto in bottega.Infatti i cicli affrescati dal Tamo a Biancavilla ci riportano infallibilmente - natu-ralmente più per consonanza di impianto decorativo che per citazioni figurativeprecise - a quelli realizzati nella chiesa bresciana di S. Agata da Pompeo Ghitti e daPietro Antonio Sorisene (per le quadrature, 1683) (fig. 3) di cui è nota l’attività didecoratore fino al penultimo decennio del secolo, mentre - come ho già detto -Pompeo Ghitti lavorava fino al 1704.Ma nelle opere di Giuseppe che conosciamo c’è anche molta cultura dell’ItaliaMeridionale, particolarmente messinese, e molto apporto personale (intendo: diuna vena ricca, traboccante, che ama esprimersi e lo vuole a tutti i costi…) cosic-ché viene a costituirsi un linguaggio originale, piuttosto inconfondibile, e, almenonegli affreschi, riconoscibile per la gioiosa vena decorativa. Mentre alcune pose spericolate di angeli e di santi in volo possono ricordarciFrancesco Giugno; certo horror vacui il Cossali più traboccante (ad esempio le fi-

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Fig. 1: Pompeo Ghitti, L’uccisione di Abele, Brescia, chiesa di San Giovanni (in un locale attiguo)

Fig. 2: Pompeo Ghitti, Scena biblica, Brescia, chiesa di San GiovanniEvangelista (in un locale attiguo)

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Fig. 3: Pietro Antonio Sorisene, particolare delle pitture prospettiche della campata centrale con al centro la medaglia di Pompeo Ghitti (Ascensione di Gesù Cristo), Brescia, chiesa di Sant’Agata

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gurine che si arrampicano sulle colonne derivano in queste forme dal Cossali, chea sua volta le deriva da Paolo Veronese; si tratta quindi di un “venetismo” di se-conda mano, indiretto); e qualche tocco di ruvido realismo un po’ teatrale può in-durci a credere ad una qualche eco del Romanino; altri elementi ci portano a pen-sare che una volta in Sicilia Giuseppe Tamo abbia pure attinto a quella scuola; irossi ed i blu così puri e accesi possono venire da G.B. Quagliata (fig. 4) e sugge-rimenti anche da Ettore Cruzer, Michele Blasco…Resta al fondo sempre qualcosa di lontanamente bresciano-veneto, ma si tratta diun “venetismo” di seconda mano, perché Giuseppe “prende il latte” a Brescia,non a Venezia, e questo è il dato più evidente del suo soggiorno riscontrabile - alfondo - anche in quegli affreschi così festosi di colore e di un barocchismo liberis-simo che sembrerebbero ormai assai lontani dallo stile bresciano.Con questo suo stile Giuseppe Tamo affrescò e compose pale d’altare per le chiesedi Biancavilla; 36 lunette per il chiostro dei Francescani (vita di San Francesco estoria dell’Ordine Francescano); per la Basilica Collegiata l’intera cappella di SanPlacido (compresa la tela d’altare); nella chiesa della Mercede tutti gli affreschi del-la navata centrale, gli Evangelisti nel transetto, i Misteri gaudiosi nel coro, i Pa-triarchi nelle lunette laterali, la grande Annunciazione (fig. 5) nell’abside, Mentrenon ritengo sia sua l’Adorazione dei Magi nella Chiesa del Purgatorio, che gli è sta-ta ascritta dalla letteratura locale ma che ha caratteri differenti dallo stile del Tamo.Un’intera galleria di personaggi biblici e di santi, vigorosi e coloriti con fare sicu-ro, d’ottimo mestiere, ance se non sempre rifiniti nei dettagli, come d’altra parteera costume del tempo. I panneggi barocchi ampi e rigonfi si accendono di coloripieni (rosso vivo, verdone, rosato, bianco); ed i volti sono quelli di un ampio re-pertorio personale sciorinato in centinaia di personaggi.Una mole enorme di lavoro - a volte condizionata anche da una certa urgenza difar veloce: ma siamo nel secolo in cui il Giordano di Napoli era detto “Luca fa’presto!” - cui magari, auspicavo un anno fa, ricerche future e a tappeto potrannoaggiungere altre opere (quelle più giovanili a Brescia, se ha fatto lavori autonomisuoi e non solo come aiuto di altri; altre dovrebbero essercene in Sicilia), che si di-pana dal 1722 (prima data documentata della sua presenza in Sicilia) ed il dicem-bre del 1731, quando il pittore morì ancor giovane, di “circa” 44 anni, e fu sepol-to nella chiesa di Maria SS. dell’Angelo Annunziata.

* * * Il mio “auspicio”, in realtà, non è stato invano, perché successivamente nella chie-sa di San Giuseppe ad Adrano sono stati segnalati ed identificati tre importanti pa-le del Tamo, collocate sui loro rispettivi altari: San Tommaso incredulo che pone il dito

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Fig. 4: Giovanni Battista Quagliata, Natività della Vergine (particolare), Messina, Museo regionale

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Fig. 6: Giovanno Lo Coco, Ultima cena, Biancavilla, refettorio dei Francescani

Fig. 5: Giuseppe Tamo, L’annunciazione, Biancavilla, chiesa della SS. Annunziata

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nella piaga del costato di Gesù Risorto (1728), L’adorazione dei pastori con il Padreterno be-nedicente tra gli angeli ed un notevole San Giuseppe che ha la visione dell’angelo, che hala particolarità iconografica di portare a destra la figura inginocchiata della Vergi-ne in orazione, di solito assente nelle raffigurazioni che mostrano san Giuseppeche riceve il primo messaggio dall’angelo inviato dal Padreterno.Ad altri studiosi siciliani (ed ormai che l’interesse è stato suscitato, attorno alla fi-gura di questo artista soprattutto per la tenacia promozionale del dr. Vincenzo Pe-tralìa), di certo non mancheranno altre ricerche; si veda per intanto la pubblica-zione in dépliant Le pitture di G.T. da Brescia (1722-1731) a cura del Comune diBiancavilla, oltre ai saggi in giornali e riviste che qui sono in bibliografia. Mi sembra logico lasciare ad altri studiosi siciliani il compito di approfondire i rap-porti e gli influssi ricevuti ed offerti al Tamo da altri colleghi siciliani e special-mente messinesi, intanto suggerendo di partire dai nomi che ho più sopra ricor-dato e ribadendo quanto già espresso altra volta, e cioè che in ambito locale l’arti-sta che per certi aspetti (alcune teste, molti panneggi nelle tele di Adrano) mag-giormente sembra aver influito il Tamo è Giovanni Lo Coco da Acireale (U 1721),che ha importanti cicli di affreschi nel duomo di Zafferana Etnea, nella navata del-la basilica di San Sebastiano ad Acireale e che nell’Ultima cena (fig. 6) del refetto-rio dei Francescani (1721) di Biancavilla mostra senza dubbio stilemi (anche se lie-vemente più arcaizzanti) che ritroviamo nelle tre tele del Tamo di Adrano. Al sot-toscritto ed a Vincenzo Petralìa è sempre sembrato possibile che il Tamo abbiaportato a termine il ciclo affrescato dei Francescani di Biancavilla proprio per lascomparsa del Lo Coco (tra parentesi: l’ipotesi è ora avvalorata dalla pubblicazio-ne su G.S. Lo Coco…, Acireale 2004, p. 16). E aggiungo che, lavorando abbastanzaa lungo gomito a gomito con le opere di questi, mi sembra naturale che abbia ri-cevuto una sorta di “rieducazione” siciliana di cui si vedranno i frutti più che ne-gli affreschi di Biancavilla (nei quali resta forse ancora più legato alla grande de-corazione bresciana sulla quale si era educato lavorando in Lombardia), nelle tretele di Adrano.Queste tele sono del più grande interesse per comprendere la personalità del Ta-mo anche in relazione alle opere di Biancavilla, e - fra l’altro - per escludere dalsuo catalogo la tela del Suffragio.L’Incredulità di Tommaso (fig. 7) è datata 1728, e può darsi che le altre due siano unpoco anteriori, ma probabilmente non di molto.Le aggiunte ottocentesche (di strisce di tela e di angioletti, per dimensionare leopere ai nuovi altari) certo non aiutano alla loro lettura; ma, se le scelte cromati-che divergono, in molti casi, dal Lo Coco, mostrando piuttosto un recupero dellecromie della più elevata scuola messinesi del tardo Seicento, il Tamo si mostra in-

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Fig. 7: Giuseppe Tamo,L’incredulità di S. Tommaso,Adrano (Catania), chiesa di S. Giuseppe

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vece suggestionato dal Lo Coco nelle proporzioni delle figure, nella impostazionedelle teste e nell’affollamento delle figure, di modo che - in conclusione - le treopere di Adrano mostrano in qualche modo un fare più arcaizzante di quello chesi vede nella tela con San Zenone, San Francesco e San Filippo Neri con la Beata Vergi-ne dell’Elemosina, che sta alla parete destra della cappella di San Placido a Bianca-villa, e che nello svolare dei due stupendi angeli in alto mostra un legame strettis-simo con tutta la decorazione barocca affrescata dal pittore sulle pareti e nella vol-ta della medesima cappella.Certo, a ben guardare, tutti i cicli affrescati dal Tamo mostrano una notevole di-vergenza dalle tele dipinte ad olio; un po’ - tanto per fare un esempio - come av-viene nello stesso decennio a Brescia, tra tele ed affreschi di Giacomo Ceruti(1698-1767); ed è, questo, argomento sul quale vorrei brevemente ritornare. Intanto, da studioso di cose bresciane e lombarde del Sei e Settecento, vorrei farrilevare quanto di “bresciano” sia visivamente riscontrabile nelle tele di Adrano.Nell’Incredulità di Tommaso i complessi partiti architettonici dello sfondo, che in-quadrano l’affollata composizione, e che erano più distesi prima della ridipinturaottocentesca, sono senza dubbio una rimeditazione sulle architetture di Paolo Ve-ronese e del Sammicheli (quindi di matrice culturale veneziana), ma visibilmentederivati da questo particolare gusto di Grazio Cossali, morto - sì - nel 1629, ma chedoveva essere un pittore che il Tamo trovava particolarmente affine a sé nellegrandi pale controriformate che affollano le chiese di Brescia e della diocesi. Direalismo prettamente lombardo (e brescianissimo) sono anche i dettagli realisticifino all’eccesso dei volti.Preso tale e quale dalla pala dell’Immacolata del Cossali in San Francesco di Bresciaè il Padreterno del Sogno di San Giuseppe (fig. 8) di Adrano; e molto “bresciana” èpure l’Adorazione dei pastori (fig. 9) con gli angeli musicanti (alla Cossali), certe ru-videzze di tipologie che non possono non ricordarci il Romanino, la donna cheporta la cesta di colombe sulla testa - a sinistra - che è presa dal Cossali, alcuni ti-pi del Romanino, il contadino che si toglie il cappello, che è uno spunto del Sa-voldo ripreso da P. M. Bagnatore e da altri bresciani del Seicento.E per tornare a quanto osservato sopra, si notino le divergenze sostanziose con ilmodus pingendi rilevabile nei grandi cicli affrescati dal Tamo a Biancavilla.È vero che ho già in più occasioni sottolineato come, a spiegare la formazione cul-turale bresciana del Tamo “frescante”, ci siano gli esempi pittorici di PompeoGhitti e del Sorisene, del Cossali e soprattutto della scuola quadraturistica bre-sciana di fine Seicento, ma nei coloratissimi - ora gioiosi, ora drammatici, come incerte scene di martirio dell’Annunziata - cieli affrescati di Biancavilla ci sono an-che delle cose che con tutto questo non si spiegano (e neanche con l’integrazione

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Fig. 8: Giuseppe Tamo, S. Giuseppe ha la visione dell’Angelo, Adrano (Catania), chiesa di S. Giuseppe

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Fig. 9: Giuseppe Tamo,Adorazione dei pastori, Adrano (Catania), chiesa di S. Giuseppe

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culturale più sopra accennata della scuola messinese): oltre alla gioia narrativa, alpiacere dell’effigiare figure e situazioni; oltre al realismo brescianissimo di moltefigure, alla complessità delle finte architetture (credo ora - per inciso - che il Tamosia stato fortemente colpito dalle straordinarie quadrature prospettiche e daglisfondati nel palazzo già Martinengo delle Palle ed ora sede della Corte d’Appellodi Brescia, dove il Sorisene aveva lavorato alla fine del Seicento1, ci sono anchedelle piegature di braccia e di gambe, dei voli di angeli, delle magnifiche ammac-cature di panni che vorrebbero altre spiegazioni (fig. 10).Mi sia consentito perciò di avanzare una proposta assolutamente inedita… e cheforse sarà giudicata troppo audace, od ancora non matura.Si osservino - però - prima le sostanziose e vigorose ammaccature dei panneggi(specialmente all’Annunziata), che hanno come una loro forza interna che le so-stiene; ed, insieme a molti altri particolari, il curioso “vezzo” del Tamo di colloca-re sempre, agli angoli ed ai lati delle sue quadrature che inquadrano le scene nar-rative, delle foglie di acanto accartocciate; come avviene… e questo è curioso, aiquattro angoli delle cornici originali di alcuni quadri ben noti del Ceruti.Sembrerà strano, ma Tamo e Ceruti sono contemporaneamente a Brescia nel se-condo decennio del Settecento… nel 1723 Giacomo Ceruti (il Tamo era già a

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1 Benché mi fossi ripromesso all’inizio di questo scritto - che rielabora osservazioni già precedente-mente espresse (cfr. Bibliografia), ma che propone anche prospettive nuove di valutazione) - di nonappesantire il testo con le note che di solito si riservano alle riviste scientifiche o alle pubblicazionicritiche di tenore “alto”, a questo punto non posso esimermi dal dedicare una nota al lavoro di Pie-tro Antonio Sorisene (Brescia 1624 - operoso fino al 1686, non si conosce la data della morte) nel Pa-lazzo Martinengo delle Palle, dove è segnata la data del 1686. Si tratta di un’impresa molto vasta, cheinteressa lo scalone d’onore, tutto il primo piano, compresa la galleria e molte sale. (figg. 13-14).Di solito il Sorisene lavorava con Francesco Paglia e Pompeo Ghitti (cioè i figuristi che avevano ilcompito di riempire gli specchi centrali delle sue illusionistiche quadrature, come a Palazzo Fogac-cia o nella bresciana chiesa di Sant’Agata), ma in Palazzo Martinengo delle Palle non ci è noto chi siail pur notevolissimo figurista, che però non presenta agganci di affinità con il Tamo, mentre spessone troviamo nel Pompeo Ghitti di altri cicli affrescati.Ma ciò che intriga di più la questione è il fatto, oggettivamente rilevabile (attraverso una firma), chela prima, la seconda, e forse anche la terza e quarta sala a sinistra nella grande galleria del primo pia-no sono di un certo - ed ignoto alla letteratura - “Faustinelli”. Il Faustinelli non mi sembra l’autoredelle figure entro le architetture della galleria, dello scalone e delle altre sale; ma vorrei tenere so-speso il giudizio definitivo, perché - anche per l’attuale destinazione d’uso del palazzo - non è possi-bile esaminare gli affreschi così bene come si vorrebbe, e per giunta il palazzo non è mai stato stu-diato a fondo, né su di esso esiste una monografia (si vedano comunque: A. FAPPANI, Enciclopedia bre-sciana, vol. XVIII, Brescia 2002, p. 28; F. LECHI, Le dimore bresciane, vol. V, Brescia 1976, pp. 129-141,a p. 129 per il pittore “Faustinelli” ignoto ad altri testi).Voglio segnalare qui queste “coincidenze”, che sono frutto di ricognizioni recenti, e che richiede-ranno altri approfondimenti, sempre per cercare di acclarare i “misteriosi” inizi di Giuseppe Tamo.

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Fig. 11: Giacomo Ceruti, L’Assunta (particolare), Rino di Sonico, parrocchiale

Fig. 10: Giuseppe Tamo, Il profeta Aggeo, Biancavilla, chiesa della SS. Annunziata

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Fig. 13: Giovanni Antonio Sorisene e ignoto figurista della fine del secolo XVII, Decorazione della galleria del primo piano in Palazzo Martinengo delle Palle a Brescia

Fig. 12: Giuseppe Tamo, Storie francescane (L’Angelo compare al Santo), Biancavilla, chiostro dei francescani

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Biancavilla, però, dato che era più vecchio di dieci anni, non posso nemmenoescludere che si fossero conosciuti prima, dato che il Ceruti era a Brescia già da al-cuni anni) affrescava la volta della parrocchiale di Rino di Sonico (fig. 11) congrandi figure con panneggi ammaccati e compiegati che sono quanto di più vici-no io conosca al modo specifico di fare i panneggi nella chiesa della SS. Annun-ziata di Biancavilla. (fig. 12).Benché documentatissimi, gli affreschi sacri di Rino in Valle Camonica non sonomai molto piaciuti agli studiosi, e furono una documentata scoperta del sottoscrittodi soli venti anni fa; e d’altra parte non mi nascondo neanche che il “mondo men-tale” del Ceruti, come l’abbiamo in testa tutti, è quanto di più lontano dagli affreschicoloratissimi e vivaci di figure barocche delle chiese siciliane che ho menzionato. Ma le tangenze tra gli affreschi cerutiani di Rino (che d’altra parte si fa fatica aspiegare nel percorso artistico del Ceruti) e quelli siciliani del Tamo sono così for-ti, che - a rischio di essere tacciato di eretico e di spericolato - non posso non rile-varlo. Né esimermi dall’indicare che un’ulteriore indagine sul “misterioso bre-sciano” Tamo potrebbe proprio passare da questa “strana” congiunzione.

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Fig. 14: Giovanni Antonio Sorisene e ignoto figurista della fine del secolo XVII, Decorazione della galleria del pri-mo piano in Palazzo Martinengo delle Palle a Brescia

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Bibliografia

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Panorama culturale. Anticipazioni, “Civiltà Bresciana”, XIII, Brescia, marzo 2004, p. 69.

L. ANELLI, Coloratissimo Tamo, “Stile Brescia. Arte”, IX, n. 78, Brescia, maggio 2004, pp. 6-7.

L. ANELLI, Giuseppe Tamo “da Brescia”, “Civiltà Bresciana”, XIII, Brescia, giugno 2004, pp.29-34.

L. ANELLI, Giuseppe Tamo, un ambasciatore della nostra pittura in Sicilia (Sec. XVIII), “Rasse-gna artistico letteraria”, Associazione sanitari letterati artisti italiani n. 2, Brescia 2004,pp. 4-5.

L. ANELLI, I colori di Brescia sui muri di Sicilia, “Giornale di Brescia”, Brescia, 20 maggio2004, p. 28.

L. ANELLI, Il pittore che portò in Sicilia. Il gusto della controriforma. Da Brescia a Biancavilla l’av-ventura artistica di Giuseppe Tamo, “La Sicilia”, Catania, 19-05-2005, p. 21.

A. FAPPANI, Enciclopedia bresciana, vol. XVIII, Brescia 2002, p. 263.

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E. INDELICATO, Giuseppe Tamo: un pittore in fuga da Brescia alla Sicilia, “Bloc Notes”, XVII, n.5, Adrano, maggio 2004, p. 8.

S. PAPOTTO, Il ciclo pittorico dell’Annunziata, Catania, 30 maggio 2004, p. 17.

V. PETRALIA - C. ALLEGRA, La Parrocchia B.V.M. dell’Angelo Annunziata di Biancavilla, (a curadi S. Fagotto e S. Messina), Comune di Biancavilla, Biancavilla 2004.

V. PETRALIA - C. ALLEGRA, Le pitture di Giuseppe Tamo da Brescia (1722-1731), Comune diBiancavilla, Biancavilla, aprile 2004.

V. PETRALIA, Tamo, chi era costui?, “Prospettive”, Catania, 30 maggio 2004, p. 17.

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di LUCA QUARESMINI

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I fumi dell’alcool

Quando si dice “i fumi dell’alcool”, spesso si sottintende il vino che fin dai tempi delbuon Noè fa parlare di sè in tema di ubriachezza. Ubriachezza che, a differenza delmite patriarca che scoprì l’inebriante prodotto dell’uva, ha, a volte, avuto ben piùgravi conseguenze di una semplice sbornia soporifera. Spesso è l’occasione che fascatenare in chi ne è interessato gli istinti più bassi e violenti, con effetti purtroppodevastanti ed irreparabili. È una storia antica che l’uomo, nel corso di varie epoche,ha vissuto e rivissuto sperimentandola in numerose tristi occasioni, tra le qualiquelle ancora ricordate nei documenti dell’Archivio di Stato di Venezia che, in ma-teria di illeciti penali, riportano anche certi casi di violenza fra persone alterate dapotenti libagioni. Sono fatti che raccontati su ormai sbiaditi manoscritti dai rettoridi Brescia, in qualità di rappresentanti del dominio veneto in città, testimoniano laveridicità della cronaca rilevata su vicende gravi e sconsiderate. A meno di un secolo prima della fine della Serenissima Repubblica di Venezia, aTravagliato si sono registrati due omicidi che hanno avuto luogo nella funesta cor-nice dell’ebbrezza dovuta alle bevande alcoliche. Il nove settembre 1705, un ma-noscritto a firma del podestà di Brescia Francesco Benzon e del Capitano Bernar-do Mocenigo, prendeva forma nel condensare un fatto di sangue avvenuto notte-tempo nell’abitato travagliatese:

Habitavano tutti in un cortile con le loro famiglie Giovanni e Faustino fratelli Pasinellida Travagliato di questo distretto, quando la sera del 27 agosto decorso, esendosi por-tato a casa Giovanni, e ritrovata la porta chiusa, s’attaccò di parole con Francesca mo-glie di Faustino, perchè non l’havesse lasciata aperta. In quel punto capitò anco Fausti-no, e si posero maggiormente ad alterare, aggravatosi specialmente Giovanni, poichèil fratello li dicesse, ch’andasse a dormire, trattandolo d’hubbriacco, come resta intro-dotto, e si vede che fosse. Sentito il rumore da Giovanni Battista altro loro fratello , chedimorava in vicinanza, separato solo da un muro, v’accorse per sua fatalità, mentredando Giovanni negli eccessi, prese un archibuggio che aveva in casa ne rilasciò losparro, come resta rappresentato, contro Faustino, ma colpito in cambio Giovanni Bat-tista con un foro sopra l’ombelico trapassante nel fianco sinistro, li convenne la matti-

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Spigolature storiche a Travagliato

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na dietro render l’Anima e come nella visione del di lui cadavere. Così rilevati il fattonel processo, formato sin hora per l’uffizio del Maleficio e noi obbedientissimi alle leg-gi di codesto Eccelso Sacrario, l’huniliamo sott’il purgato riflesso di Vostre Eccellenzeper le sapientissime prescrizioni.

Compiendo un breve passo di due anni e quindi considerando il 1707, altre me-morie ultrasecolari di generazioni ormai obliate, legano ancora le sorti della co-munità travagliatese a vicende simili a quella appena evocata. In questo altro casoperò l’ambientazione è vicina ad un’osteria che è già “tutto un programma” pergli antefatti della violenza che poi, tra le persone coinvolte, è venuta a seguire. Ilmanoscritto che cita i particolari dell’accaduto introduce chi legge nella notte del2 marzo 1707 in uno scenario cupo fra tenebre, vino, contese e violenza in un ca-suale incontro lungo la strada:

Circa l’hore 4 della notte 2 del corrente [mese n.d.t.], uscito da un Hosteria della Terradi Travagliato, alterato dal vino, Bartolomeo Zugno di colà hebbe l’incontro, in vicinan-za di quella, con Paolo Burzeni et Andrea Tonni, armati d’archibuggi, i quali se gli ac-costarono, et il primo fu il Tonni venend’a rissa, prentendendo [avendo preteso n.d.t.]il Burzeni che Bartholomeo si ridicesse di [ripetesse le n.d.t.] parole, che non s’è però ri-levato quali fossero, espresse contro di lui e recalcitrando questo, di graziarlo, li fu dallisuddetti due afferrato, e levato lo schioppo indi sparratoli un archibuggiata dal Burze-ni, con susseguente espressione: Tiò mò questa, colpito con due fori sopra la mammel-la destra trapassati, immediatamente rimase estinto, e come [si vede n.d.t.] nella visionedel di Lui cadavere. Rilevati in questi termini il fatto nel Processo, formato sin hora perl’Officio del Maleficio, dalla obbedienza mia alle leggi viene rassegnato sott’il purgato ri-flesso [giudizio n.d.t.] di Vostre Eccellenze per le sapientissime loro deliberazioni.

Dalle puntuali note apposte nel registro parrocchiale degli estinti si ha la confer-ma anche da fonte locale dei tragici epiloghi delle due vicende:

28 agosto 1705: GioBatta Pasinello d’anni 45 in circa, colpito hieri sera d’archibugiata,confessato e comunicato, munito dell’estrema onzione con la raccomandazione dell’a-nima morì da buon cristiano; è sepolto nella Parrocchiale”; mentre in data 4 marzo1707 è scritto: “Bartholomeo Zugno d’anni 24 circa, ritrovato hieri mattina interfetto[colpito n.d.t.] d’archibugiata è stato seppellito nella sepoltura del casello [sepolcro peri defunti di morte violenta n.d.t.].

È un buio sceso fitto ed incommensurabile che, nel baratro della morte, avvolge lefatali trame nelle quali le vittime sono state coinvolte al termine della propria esi-stenza terrena, quando il destino, fattosi copia con maliziose seduzioni, ha prepa-rato la scena ed ha fatto scempio assurdo degli attori del tempo.

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Serenata di sangue

Il tempo trascina nel futuro i fatti ereditati dal passato. Il silenzio è l’incantesimoche grava su quanto, ormai dimenticato, pervade antichi manoscritti attraverso ilpeso umano del proprio contenuto, così carico di emozioni e di impressioni. Vi-cende, quindi, svelate solo dalla lettura di ciò che cronache e relazioni restituisco-no tra le righe, messe nero su bianco a custodia di particolari avvenimenti che so-no tramandati nella discrezione degli archivi, secondo la ricostruzione avuta daicontemporanei che li hanno raccontati. Sentimenti accesi e passioni violente,scoppiate a volte nell’imprevedibilità di improvvise contese, trovano posto nellafredda logica del resoconto, che da documento rivestito di una specifica valenzaformale, tratteggia le chiare caratteristiche di accaduti nei quali hanno coinciso fa-talmente i termini estremi di vissuti inquieti. È la storia che si ripete e che in fattianaloghi si ripropone in un medesimo contesto anche a più riprese e con prota-gonisti, moventi e situazioni differenti. Tutto questo è testimoniato dall’archivio di Stato di Venezia che, nel fondo “Let-tere dei Rettori ai Capi del Consiglio dei Dieci”, offre i neccessari incartamenti perrivedere, secondo le parole del tempo, alcune drammatiche scene di sangue chehanno interessato Travagliato all’inizio del diciottesimo secolo. In pratica, conquesti scritti le autorità della vicina città di Brescia informavano i loro superiori aVenezia di quanto era accaduto, e da loro attendevano i provvedimenti che piùsembravano opportuni e propizi a difesa della legalità. Sono parole che, nel ger-go dell’epoca, si spiegano da sole, disegnando avvenimenti realmente accaduti eprobabilmente inediti al fine di una rilettura della più minuta storia antica trava-gliatese, fatta da singole persone colte nella vita di tutti i giorni, che deborda peròin vicende interpersonali sconfinate nell’illegalità e quindi, notate, avvertite e mi-surate dalle autorità preposte all’ordine costituito. Il 23 luglio del 1722, PietroDelfino capitanio e vice podestà di Brescia, scriveva a Venezia:

Si portavano la notte dell’undici corrente, verso le ore due e mezza, Giovanni Pitozzi,Lorenzo Vezzolo, e Felice Ventura con altri alla casa di Lucia Vezola, posta nella terradi Travagliato a otto miglia da questa città per farle una serenata, ma percosso il Ven-tura con un colpo di bastone sopra il dito pollice della mano sinistra, e caduto il Pitoz-zi in un fosso, in cui perdette il cappello, retrocessero per non incorrere in qualchemaggior impegno [danno]. Coperto l’offensore [aggressore] dall’oscurità della notteno fu in quella occasione conosciuto da alcuno, ma viene supposto, che possa essere sta-to Francesco Rizzola, perchè avendo questo penetrato [saputo], che avevano stabilito difar detta serenata ad essa Lucia sua amante, s’era espresso che voleva infrangerli gliistromenti. La mattina seguente che fu quella del dodici, si trasferì il Pitozzi armato dischioppo con il predetto Lorenzo Vezzolo al luogo dell’incontro avuto, per ricuperare

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il cappello, ma non trovatolo, si ridussero [ritirarono] ambedue presso la casa di Fran-cesco e fratelli Vezzoli. Passò per quella parte lo stesso Francesco Rizzola e nata tra lui,ed il suddetto Lorenzo qualche parola intorno al fatto seguito la sera precedente, sisbarrarono [spararono] essi Rizzola e Pitozzi vicendevolmente due archibugiate, rima-nendo il primo illeso, per essere stato ritirato [essersi nascosto] dietro un arbore che lodifese dal colpo, ed [mentre] il secondo ferito nel fianco sinistro per il che [per il qua-le] ha dovuto il giorno di sedici passar all’altra vita. Ne umilio [ne informo] del tutto avostre Eccellenze le notizie in adempimento del mio dovere. Grazie.

Gli ampi tratti sentimentali dell’origine della vicenda accennata, in seguito dege-nerata, tanto da far anche collimare le note di una serenata con quelle poi dell’in-giuria violenta, non sono però presenti in un altro fatto che, caratterizzato inveceda un’aperta contesa offre, fin dalle prime parole del testo con cui è riferito il sen-tore di un tragico epilogo. È il 19 luglio 1723 e quanto a Travagliato di questagiornata viene destinato dagli eventi a fare un’eco tale da raggiungere la capitaledella Serenissima repubblica, trova forma concreta nel manoscritto stilato qualchegiorno dopo, il 23 luglio, dal podestà Carlo Pisani e dal capitanio Zuan Pasquali-go di Brescia:

Antonio Zuliani canevaro del magazzino della Comunità di Travagliato fu il giorno di19 cadente chiamato a decidere certa differenza insorta a motivo di gioco tra GiacomoBracco e un tal Calistro cuoco di suddetta comunità. Se ne sdegnò il Bracco che perdèl’opinione e il punto. Seguì alcuna parola tra essi.Giacomo caricò d’un ingiuria il Zu-liani per la quale risentendosi le diede un pugno. Fu impedito Giacomo di vendicarse-ne, ma poco dopo si fece alla vita d’Antonio, l’afferrò per i capelli e si gettarono a ter-ra. Restarono indi divisi. Partì [se ne andò] Giacomo e mezz’ora dopo ritornato versola caneva [cantina] armato di terzetta [arma corta da fuoco] et di baionetta sfidò Anto-nio. Con oggetto d’impedir il male le fu levata l’ arma da fuoco, quando [nel mentreche] uscito nello stesso tempo Antonio pure con la baionetta alla mano cominciaronovicendevolmente a dimenarsi dei colpi. Rimase ferito il Zuliali nell’ addome con peri-colo, e Giacomo sotto l’osso clavicola a parte sinistra, per la quale convene immanti-nente e privo d’ogni cristiano sovegno [sollievo] morire. In obbedienza alle leggi rasse-gnamo a vostre Eccellenze l’ossequioso ragguaglio del fatto per venerarne il loro co-mando. Grazie.

Stessa dinamica travagliata di rancori e di vie di fatto che ritrovano, anche in unaltro avvenimento uno scenario simile incrinato di violenza così come appena evo-cato dall’accaduto di quel lontano mese di luglio. La vicenda è ambientata in pie-no abitato ed offre un’altra forma delle purtroppo innumerevoli situazioni che,fra tante facce e molte forme, rivela l’unico volto distruttivo della violenza senzabriglie né remore, anche se forse non sempre premeditata, bensì scoppiata da una

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scintilla di troppo nel corso di un aspro dissidio. Il 28 marzo 1728 è toccato ad An-drea Memo, podestà di Brescia, sottoscrivere una lettera a Venezia che nella con-clusione del testo configura l’inesplicabilità del caso analizzato e raccontato perquanto possibile:

La giustizia si trova per anco all’oscuro dell’origine del funesto successo [dell’accaduto]di cui ne umilio [informo] alle Eccellenze Vostre le ossequiose notizie in obbedienza al-le leggi. Grazie.

Il manoscritto porta il lettore ad addentrarsi in una fra le vie di Travagliato diquell’epoca, lasciando ad una vaga immaginazione quanto l’autore non descrivenei dettagli di termini, concetti e descrizioni:

Stavano appoggiati al muro di una casa situata sopra la pubblica strada nell terra di Tra-vagliato, di qua distante miglia sette, la sera del 20 cadente, Vincenzo Derada e CarloColosio ed in poca distanza, ma in uguale positura [posizione] Barolomeo e Cristoforogermani [cugini] Donati detti Struttini, che discorrevano. Passando e ripassando Dome-nico Bariselli di Giuseppe, munito di schioppetta, ricercò ai medesimi la strada che glie-la diedero, poscia [poi] pregò con vive istanze il Derada e Colosio di andare a casa loroe che lo compiacessero, ne sapendo essi immaginarsi il motivo di tale richiesta lo attri-buirono ad allegria dell’età sua giovanile. Ritiratisi in disparte, offese il suddetto Dome-nico d’un pugno nel petto Cristoforo Donati indicando il schioppo contro Bartolomeo.Questi se gli fecero incontro e lo disarmarono, imprimendogli una ferita nella gola, chein successivi momenti spirò inconfesso l’anima. Ad ambedue essi germani Donati furo-no veduti li coltelli denudati, presumendosi Bartolomeo l’omicida perchè in una manoteneva il schioppo e nell’altra l’arma tinta del sangue dell’infelice Barisello.

Quell’anno, volto al termine degli anni ‘20 del secolo decimo settimo, viene assor-bito da altra carta interessata alle cronache del tempo, attraverso il nerastro in-chiostro che, a firma del Podestà Andrea Memo, è stato versato per scrivere il rac-conto di un’altra tragica vicenda accaduta a Travagliato nella fine del mese di set-tembre, successivo all’estate già interessata al citato caso d’omicidio. Anche in que-sto contesto degenerante nel precipitare degli eventi, lo scrivente conduce nellalettera una corposa ricostruzione narrante del triste avvenimento denunciato alleautorità veneziane:

La sera del giovedì 30 settembre decorso dopo l’ore 24 passando Pietro Bovagno avan-ti la casa di Ludovica e Maria Bazarde, sorelle nubili, nella terra di Travagliato, lontanadalla città miglia sette, si affacciò alla finestra d’una lor stanza terrena dicendogli qual-che parola che in processo non viene espressa, indi si introdusse nella stessa lor casa. Diciò aggravatosi [preoccupandosene] la suddetta Ludovica andò ad avvisarne BattistaColosio suo vicino ricercandole aiuto e però egli venuto in strada, e trovato in essa il Bo-

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vagno, insinuò [lo invitò] a starsene quieto ed a tal fine gli offerì di darle da mangiare eda bevere. Accettò Pietro l’offerta, ma perchè egli era alterato dal vino ritrattò il Colosiol’esibizione [atteggiamento] suddetta dicendole che non ne aveva di bisogno, e lo stessole replicò Gabriel Ghidone ivi sopraggiunto quale lo esortò di andar a casa. Indirizzòper tale motivo esso Pietro il suo schioppo contro il Ghidone, e ne uscì anco lo sbarrosenz’offesa d’alcuno; ma fattosi immediatamente alla vita di lui il Colosio le dimenò conlegno di cui era munito una fiera percossa sopra il capo, per cui, caduto a terra, esso Pie-tro, avendo rilevata [ricevuto] una grave contusione con frattura del cranio, perdè subi-to la parola e nel sabato seguente, senza confessione la vita. Dopo averlo in tal manieradepresso [abbattuto] gli tolse detto Colosio lo schioppo e battendolo per terra l’infranse,esprimendosi che ciò faceva perchè non facesse più male ad alcuno.

A tinte fosche, oscure trame, nere come l’abisso nel quale sono precipitate, hannoquindi racchiuso l’irreparabile sorte della follia scatenata in più circostanze, poi ri-poste, dopo il dibattersi di ogni animosità, in documenti divenuti velati di giallo daltempo, nell’opaco colore dell’autunno che ammansisce ogni cosa, sotto un mantoche inclina al grembo materno della natura la faticosa stagione bruciata al sole.

Un litigioso 1736

Alla fine di quel lontano 9 giugno 1736 c’era ancora qualche speranza. Quanto eraaccaduto nella campagna travagliatese in quella giornata di primavera inoltratanon lasciava spazio né a dubbi né ad incertezze. Bisognava cercare di rimediare.Per quanto oscura possa essere stata la dinamica messa in atto con i motivi, gli ec-cessi e le contraddizioni dei fatti, l’evidenza era nel risultato che si presentava da-vanti agli occhi dei contemporanei del tempo nella chiara necessità di un giove-vole soccorso. Da loro giunge ancora oggi la cronaca dell’intero accaduto, così co-me raccontato dal podestà di Brescia, Alvise Mocenigo, il nove luglio 1736:

Tra Paolo Zanola della Terra di Travagliato e Maria sua moglie passò [avvenne] nellamattina di nove giugno scaduto [passato] qualche contrasto per occasione d’alestire illoro pranzo. Desinarono però assieme, e si portarono dopo separatamente al lavorodella Campagna. Osservò Paolo in un campo di lui tenuto in affitto un animale porci-no, e temendo danneggiasse li seminati avertì la moglie di tenerlo lontano, sopra di cheseguì fra loro qualche parola e Paolo le lanciò anche contro una pietra. Sdegnata la mo-glie, tenedo la zappa strumento rurale, li [gli] impresse con la medesima una sì fierapercossa sopra la testa a parte sinistra che cagionatagli una grave contusione et offeso-li il craneo, morì nel giorno di tre corrente in quest’ospitale per la stessa offesa. Qualeraccolgo il fatto dal Processo incaminato [iniziato] per questo maleficio, tale lo umilio aVostre eccellenze per le loro sovrane deliberazioni. Grazie.

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Quello che si dice quando si motteggia il frasario popolare “tra moglie e mari-to........” ha trovato così una precisa fisionomia nel contrasto che non ha lasciatoscampo ai due ed ha quindi causato purtroppo la sua vittima, o, per meglio direle sue vittime, in quanto anche la consorte forse può essere stata vittima di se stes-sa e prima ancora della diabolica circostanza che serviva caldo il piatto dell’istinti-va e ribelle ritorsione a ciò che probabilmente subiva da tempo. La vicenda com-pleta veniva in questo modo a concludersi dopo circa un mese dall’avvenuta ag-gressione durante il quale neanche il ricovero effettuato al citato ospedale cittadi-no ha per il ferito suffragato le speranze con il buon esito desiderato. La fine ultima ed irrimediabile di una vita è il comune aspetto conclusivo di tantifatti documentati nell’archivio di Stato di Venezia. Fatti fatalmente terminati conla morte di qualcuno che trovano ancora l’autentica descrizione nelle lettere che irettori di Brescia scrivevano ai Capi del Consiglio dei Dieci di Venezia e che, comel’accaduto sopra trascritto, rientravano nella normale procedura della giustizia diquel tempo, cercando il necessario riscontro dispositivo nella capitale della Sere-nissima Repubblica della quale anche Travagliato faceva parte integrante con tut-to il territorio bresciano. La stessa annata già esaminata con l’inedita descrizione del luglio da poco accen-nato ha un ulteriore riscontro per quanto riguarda Travagliato in una ricerca ef-fettuata nello stesso ambito giudiziario. L’avvenimento è meno privato del prece-dente dal momento che non si tratta di una degenerata lite coniugale, ma piutto-sto di un irrefrenabile litigio scoppiato con virulenza per futili motivi di gioco incui, all’odio scatenato, si aggiunge l’insidiosa fatalità di un incidente per un epilo-go terribile ed involontario. La breve relazione dell’accaduto, che è stata stilatanaturalmente su un apposto manoscritto, presenta ancora la firma del podestà diBrescia Alvise Mocenigo, che immedesima con estrema sintesi la realtà degli avve-nimenti nell’abitato travagliatese di quasi tre secoli fa:

All’ore 23 del giorno cadente giocando alla mora Batta [Battista] Bino, Giuseppe Gan-dilino, Gottardo Riboldo e Giovan Recaldino nella terra di Travagliato otto miglia di-stante da questa città insorse contesa fra il Gandilino et il Riboldo sopra la disparità deloro punti. Snudò il primo un coltello, et il simile facendo Gottardo Riboldo, Gio Bat-ta [Giovanni Battista] Bino impugnò una terzetta [arma corta da fuoco] e rilasciatouno sbarro contro del Recaldino non restò questi offeso, ma andò il colpo a ferire l’in-nocente Santa figlia nubile di Gio Batta [Giovanni Battista] Zucchetti, quale per av-ventura trattenevasi in una Bottegha diversi passi discosta. Trafitta l’infelice nella co-scia destra morì la notte del giorno susseguente, essendole penetrata la palla interna-mente negli intestini. Vostre Eccellenze in questo divoto ragguaglio hanno il fatto qualsi desume dall’incaminato processo, per cui io attenderò le loro sovrane prescrizioni.Grazie.

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La traiettoria nefasta del proiettile esploso è quindi la sconsiderata conseguenzadi una discussione prima a due, poi passata alle vie di fatto e diventata immedia-tamente dopo una contesa a quattro, quasi una rissa fra i contendenti ed i loroprobabili rispettivi amici, mentre la ragione scivolava sempre più nell’abisso senzafondo della suscettibile impulsività, facendo sbagliare anche la mira allo stesso of-fensore. Ma la complicanza di una sorte avversa, unita ad un maligno impasto diviolenza mossa chissà da dove e chissà come dalla tentazione ormai insinuatasi persuggerire una brutale soddisfazione nell’odio, ha richiesto comunque il suo tribu-to: un bersaglio trafitto che secondo tale logica irrazionale valeva infatti quanto unaltro, tanto infatti bastava ad aver lusingato gli uomini ed aver loro strappato nel-l’imbroglio degli istinti una vittima in più a monumento della loro pazzia.

Estate 1739: manoscritti su un furto di tessuti nell’antica Santa Giulia

Brescia longobarda è per eccellenza la Brescia del monastero di Santa Giulia. Versoquesta pia istituzione religiosa va infatti il più facile riferimento delle memorie sto-riche dei bresciani in merito a quel periodo di storia interessato alla presenza lon-gobarda nel loro territorio. Qui, la storia è passata attraverso i portali del sacro luo-go per acquisire una risonanza che va ben al di là del semplice cenobio femminile dimonache vocate a Dio secondo l’esempio benedettino di santa Scolastica. Ancora og-gi è infatti la destinazione di sede autorevole della memoria anche sotto forma dimostre e di musei che sono recentemente andati ad interessare gli ambienti restau-rati del monastero, a confermare questo preminente e prestigioso ruolo di primopiano nella storia. Da Ermengarda dell’ultimo re longobardo Desiderio in poi, sem-pre sul filo degli eventi, per secoli e secoli di un intenso vissuto, che ha lasciato na-turalmente del monastero diverse tracce sui manoscritti di varie epoche. Così è stato anche per il 1739 quando, durante il dominio della Serenissima, unavvenimento impone alle pubbliche autorità venete la scrittura di una sommariarelazione, da inviare per debita denuncia ai Capi del Consiglio dei Dieci, che ave-vano suprema e specifica competenza sul caso rilevato. In pratica si trattava di unfurto in piena regola fra le mura del monastero. Così, il fatto denunciato vieneraccontato in un manoscritto, conservato nell’Archivio di Stato di Venezia, secon-do le parole sottoscritte il 13 agosto 1739 dal Capitano e Vice Podestà veneto diBrescia, Zaccaria Vendramin:

Illustrissimi Eccellentissimi Signori Colendissimi. È stato esposto alla Giustizia, che daun brollo [giardino] compreso nel recinto del monastero di Santa Giulia in questa città,fu nella notte seguente al 5 corrente furtivamente asportata tela nella quantità di brac-

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cia 140, che da una monaca era stata in esso distesa ad imbianchire. Il furto seguì perquanto si rileva dall’incaminato [iniziato] processo con scalo di una muraglia, che cin-ge il monastero medesimo, confinante a quella parte colle publiche mura della città es-sendosi osservate alcune pietre di fresco cadute nella sommità d’essa muraglia, et il se-gno che vi fosse statto confitto in quella o chiodo, o chiavicchio, contrassegno che di làsiansi introdotti quelli che comisero il furto. Questi sono tuttora ignoti, e desiderandole monache non tanto per la qualità della robba mancante, quanto per la scandalosaviolazione della Clausura lo scopprimento e castigo de’ rei, m’hanno fatte divote in-stanze d’umiliare a Vostre Eccellenze l’annesso loro memoriale, et io l’assoggetto; osse-quio sommamente anco per l’occorrenza d’assumer costituti [di interrogare] di religio-se persone esistenti nel monastero, onde reverir in ogni parte col solito della mia ve-nerazione l’ossequiate venerate deliberazioni. Grazie.

In questo modo, nella lontana estate di alcuni secoli fa, una lettera di formale uf-ficialità da Brescia andava ad attraversare le afose pianure estive della “Terrafer-ma” veneta per raggiungere la città lagunare, da dove si attendevano le direttivesecondo le quali adottare in seguito i più propizi provvedimenti atti a risolvere ilcrimine rilevato. Crimine che naturalmente erano le monache stesse di Santa Giu-lia a far registrare nelle cronache del tempo, attraverso l’accennato loro memo-riale nel quale, tra l’altro, è possibile apprendere tutti i nomi delle religiose in for-za al monastero, durante quell’anno perso nel contrastante secolo dei lumi, ulti-mo della dominazione veneta dopo lunghi secoli nelle contrade bresciane. Si tratta di un manoscritto datato 12 agosto 1739 che, dopo esser stato presentatoa Lorenzo Zadei, avvocato cittadino, e da lui consegnato ai rettori di Brescia perconto “delle reverendissime Madri di S. Giulia”, giace ora nel silenzio delle me-morie passate che sono obliate tra gli scaffali dell’accennato Archivio di Stato ve-neziano. Con parole ossequiose e persuasive il manoscritto, a firma delle monachederubate, può ancora prendere voce attraverso una sua lettura che offre i toni ori-ginali tanto delle espressioni quanto dei concetti esternati dalle devote autrici. Sisente, in pratica, anche in questa lettera, il parlare dell’epoca così come se le me-desime protagoniste che hanno affidato alla carta il proprio disagio fossero qui,ancora oggi, a raccontarlo. Un’apparizione, forse, dal passato di un semplice fattoquotidiano legato ad una criminalità comune anche ai giorni nostri che esprime,con questi termini, il contenuto della singolare denuncia ritrovata fra il materialecartaceo che Venezia conserva tuttora con dignità di sovrana capitale tra i fondistorici del “suo” archivio di Stato:

Illustrissimo ed eccellentissimo Sig. Capitano Vice Podestà di Brescia. All’esemplarissi-ma Vostra Giustizia Senator Prestantissimo si umigliano Noi sconsolate madri TadeaFenaroli Abbadessa, Lucidora Giroldi Priora, Gabriella Maggi Cancelliera, Redegonda

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Quaglia, Cortesia Ugoni cassiera, Stelinda Caprioli e Violante Butturina Decana, mo-nache del monastero di Santa Giulia di questa città e con fiducia imploriamo la benefi-ca pubblica prottetione e tutela. La povera suor Mariana Gallicioli, conversa nostra, lasera del mercoledì 5 agosto corrente lasciò nel brolo della nostra Clausura distesi sul’erba tre pezzi di sua tela di lino di brazze 80: ed altro pezzo di tela di stoppa di braz-za 60: per ridurla a perfezione e candore. Non fu sicura la detta tela, benché rinchiusafra le sacre mura del Chiostro, sin a questo tempo inviolabilmente rispettate, anzi da al-cuni scellerati fu arditamente, la notte stessa del mercoledì venendo il giovedì corren-te interamente involata e rapita!Eminentissimo rappresentante non è il danno che seco porta la robba quello che ad-dolora l’animo di Noi umilissime supplicanti: l’esempio sì, l’esempio enormissimo d’es-sersi li malfattori sacrileghi introdotti nel brolo stesso con scalo delle mura a mattina,parte verso li Terragli della città e l’aver violata la sicurezza del nostro Chiostro, comeapparisce dalli lasciati vestiari, è l’attroce circostanza, che ci affligge lo spirito con l’ap-prensione sempre viva che rimanendo senza grave censura, ed impunito il presente sa-crilego eccesso, osino li malfattori di tentare altre sorprese contro la vita e la robba dinoi Claustrali religiose. Ignoti sin ad ora, e coperti dalle tenebre li delinquenti speranoimpunità e franchiggia. Confidiamo tuttavia vivamente nel Signore che prodotto dalzelo lodevolissimo dell’Eccellenze Vostre, come umilmente imploriamo, a noi riflessipietosissimi dell’Eccelso Consiglio di Dieci, il presente Nostro riverentissimo memoria-le sarà [servirà al] l’Augusta Eccelsa Giustizia per rimarcare la gravità del successo [del-l’accaduto] [...]

Tenebre e candore di tele, così come ladri impudenti e religiose di clausura com-pongono quindi il complesso mosaico di tinte a colori forti e spessi che appesanti-scono la stagione del solleone di quell’anno, in cui i manoscritti esaminati testimo-niano il dibattersi dell’inquietudine propria dell’animo umano: quella che rinnovalo scontro sul tenue confine tra il sacro ed il profano quando, sulla scorta del fattoaccaduto, lunghe braccia di tela muovono con motivata determinazione alla scala-ta notturna di alte mura, percorse dal cieco interesse che non bada a sacrilegio.

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di GIUSEPPE TOGNAZZI

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“Antichi monumenti scoperti in Brescia”2,edita da Nicolò Bettoni nel 1828, è unapiccola pubblicazione fino ad oggiignorata dalla bibliografia relativa allescoperte archeologiche bresciane3.L’opuscolo, pur essendo di poche pagi-ne, ha il merito di mostrarci la primaimmagine pubblicata della Vittoria Ala-ta e di ricordarci il fallimento di un’o-perazione editoriale che stava partico-larmente a cuore al tipografo Bettonied ai membri della commissione agliscavi4.Il libretto è formato da due fogli piegatinel mezzo e rilegati al centro con del fi-lo. Abbiamo così una semplice copertinacon titolo, un’immagine della Vittoriacon la citazione virgiliana PATUIT DEA,luogo d’edizione, editore e data; quat-tro sono le pagine di testo stampate,mentre nella quarta di copertina è indi-cato solamente il prezzo (20 centesimi).Il libretto, come riportato chiaramentenella prima pagina, si rivolge agli ama-tori e cultori delle belle arti dapprimacon un manifesto d’associazione e suc-cessivamente dettando le condizioniper partecipare alla stessa.Questa piccola pubblicazione uscita adun anno e mezzo dalla scoperta dei

bronzi5, era infatti nata per promuove-re una più importante opera di cui oraabbiamo il titolo esatto: Antichi Monu-menti nuovamente scoperti in Brescia illu-strati e delineati con tavole in rame6. La vo-lontà di creare un volume nasce pro-prio in conseguenza del ritrovamentodei bronzi, infatti7 “tanti oggetti prezio-si di belle arti ritrovati nello scavo èduopo che sieno pubblicati colla stam-pa per essere anche conosciuti dagliamatori e dagli artisti stranieri […]”.Secondo Luigi Basiletti la stessa “Com-missione8 sia essa direttrice di questaimportante opera in cui viene interes-sato l’onore delle arti nostre. Sono giàriuniti i primi elementi per conoscerela spesa dell’opera stessa, e ciò che se nepuò ricavare. Si è pure esteso un analo-go manifesto per l’associazione9 che sisottopone alle riflessioni della Commis-sione”.Naturalmente la tipografia a cui spetta-va la pubblicazione del volume dovevaessere quella di Nicolò Bettoni. Il suolegame con l’Ateneo di Brescia non erasolo di tipo editoriale: infatti dal 13gennaio 1807 egli era stato nominatosocio dell’Accademia di Scienze Lettereed Arti meccaniche del Mella (il futuro

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Antichi monumenti scoperti in Brescia1

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Ateneo). Per il sodalizio bresciano curòdal 1808 fino al 1834 la pubblicazionedei noti “Commentari”10, e per gli stessistampò il primo volume dedicato agliscavi dal titolo Intorno vari monumentiantichi scoperti in Brescia11 e diversi fogliconservati nell’archivio dell’Ateneo tracui alcuni riguardanti gli scavi12.Le prenotazioni del volume13 si mostra-rono scarse, così da decretare il falli-mento dell’operazione editoriale, co-stringendo il presidente dell’AteneoMonti a esprimersi con queste parole14:“Con vero rincrescimento dobbiamo si-gnificarvi, o signori, e con rossore nonforse di noi, che il numero de’ inscrittiall’associazione proposta è venuto fino-

ra tanto scarso al bisogno da scoraggia-re del tutto chi con tanta nobiltà d’ani-mo, e con tanto amore all’arte e di pa-tria, immaginò e presto erasi a dar ma-no, coll’operoso soccorso di altri dotti eartisti concittadini all’onorevole e utilis-simo imprendimento [la pubblicazionedel volume n.d.r.]”.Il volume sarebbe stato ripropostoqualche anno dopo con il titolo di Mu-seo Bresciano illustrato15, naturalmentenon più curato da Luigi Basiletti, chenel frattempo aveva anche abbandona-to il suo impegno agli scavi, ed editodalla Tipografia della Minerva, nataproprio dal fallimento della tipografiaBettoni16.

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1 Con la presente scheda crediamo utile darequalche cenno in merito all’immagine che la re-dazione ha deciso di inserire sulla copertina del-la rivista “Civiltà bresciana” per l’anno 2005: sitratta della prima immagine pubblicata dellaVittoria Alata.2 GIROLAMO MONTI, ANTONIO SABATTI, LUIGI BA-SILETTI, Antichi monumenti scoperti in Brescia, Bet-toni, Brescia 1828. Riportiamo di seguito il testointegrale: AGLI AMATORI E CULTORI / DEL-LE BELLE ARTI / MANIFESTO D’ASSOCIA-ZIONE / CELEBRI oggimai sono gli esperi-menti di escavazione operati in Brescia a pro-mozione dell’Ateneo scientifico e letterario, eper cura di una Commissione di Socj di essoAteneo a ciò eletta di consentimento della Con-gregazione Municipale, onde sterrare gli avanzid’un antico edifizio che sorgeva alla falda meri-dionale del colle Cidneo fra le mura della città;e pochi sono per avventura gli amatori e i culto-ri dell’antichità e del bello, ai quali non sia di co-sì nobile imprendimento pervenuta la fama.

Mercè i generosi sussidj di benemeriti cittadini,e la determinazione presa dal Comunale Consi-glio animato dai primi tentamenti di proseguirenell’opera in nome del Municipio, e a tutto suodispendio e profitto; dopo quattro anni di nonintermessi lavori, la Commissione trovasi ormaivenuta al termine del suo divisamento, e contanta felicità di successo, quanta avrebbe appenaosato di pure immaginare, non che riprometter-si. Imperocchè non solo venne a lei fatto piena-mente ciò ch’era scopo delle sue indagini, e og-getto della pubblica aspettazione, cioè di trarreallo scoperto quanto di quell’antico edifizio fos-se avanzato alle ingiurie del tempo e al furorede’ barbari, dimostrando all’osservatore granparte del maestoso suo pronao, e i vestigi di trecelle distinte, e gli ambulacri e gli altari; e così dichiarire il carattere e la destinazione e l’eccellen-za del monumento: ma tanti oggetti, e di tantopregio si abbatté a rinvenire di mano in manonel corso degli sterramenti, che soli basterebbe-ro a compensare largamente ogni più grande fa-

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tica e dispendio; fra i quali basti qui rammemo-rare una statua di bronzo maggiore del verorappresentante una Vittoria, lavoro non dubbiodi greco artefice, che a giudizio degli artisti edintelligenti ch’ebbero ad esaminarla va innanzidi bellezza a quanti bronzi muliebri di tal molesonosi fin ora dovechessia rinvenuti. Discopri-menti così fortunati, e cotanto rilevanti per l’ar-cheologia e per le arti belle addomandano un la-voro calcografico e letterario che li descriva edillustri, e almeno i più considerevoli pongasott’occhio allo studioso. Il perché la Commis-sione deputata agli scavi non si terrebbe affattosdebitata dell’onorato suo incarico, se non po-nesse mano anche a sì fatto lavoro, siccome siapparecchia di fare col soccorso di scrittori edartisti bresciani, e in particolare del Sig. Dott.GIOVANNI LABUS, e del Sig. PIETRO ANDERLONI esuo fratello FAUSTINO, del primo dei quali tantooggi si onorano le scienze archeologiche, e deglialtri l’arte della incisione. / Non dubitando d’a-vere con ciò ad intraprendere cosa che sia pertrovare favore non tanto presso tutti i concitta-dini zelatori del patrio decoro, quanto appo tut-ti gl’italiani e stranieri in cui parla l’amore del-l’antichità e delle arti, ad essi prima di venire al-l’esecuzione del suo nobile disegno col presentemanifesto si rivolge, invitandoli a volere pren-derne parte coll’associarsi alla edizione dell’ope-ra. / Condizioni dell’Associazione / L’opera saràstampata in foglio reale velino. Uscirà alla lucedai torchi della Tipografia Bettoni in Brescial’anno 1829 in un solo volume di pagine centocirca con caratteri testo d’Aldo nuovissimi. / L’o-pera avrà per titolo: ANTICHI MONUMENTI NUO-VAMENTE SCOPERTI IN BRESCIA ILLUSTRATI E DELI-NEATI CON TAVOLE IN RAME. / Soli dugento esem-plari avranno le tavole in rame a lettere aperte,che è dire le prime prove dei rami stessi, e por-teranno il sigillo dell’Ateneo. Le altre prove sa-ranno limitate a quel solo numero che assicuridella freschezza e della nitidezza dei rami. / Gliesemplari a lettere aperte avranno il prezzo diassociazione di lire ottanta italiane, e gli altri alettere chiuse di lire cinquanta. / Il volume saràcorredato di non meno di trentacinque tavole inrame: la parte architettonica, i frammenti di or-

nato, gli utensili, le iscrizioni ecc., si inciderannoa semplice contorno; la statua della Vittoria indue vedute, i busti, e altre sculture figurate, e laprospettiva dello scavo saranno ad incisione fi-nita. / Nelle ultime pagine del volume si porran-no i nomi degli associati. Le spese di porto sa-ranno a carico dei medesimi. / Le associazioni siricevono in Brescia alla Tipografia Bettoni, nonche dai libraj Luigi Gilberti e Francesco Cavalie-ri; e nelle altre città dai principali libraj. / L’asso-ciato firmerà l’unita cedola indicando se s’inscri-va ad un esemplare colle tavole a lettere aperte,oppure a lettere chiuse. Si prega che sieno scrit-ti con chiarezza il nome, cognome e il domicilio,e ciò a scanso di equivoci. / Brescia dall’Ateneo li 4Gennajo 1828 / La Commissione Delegata agli Scavi/ G. MONTI Presidente / A. SABATTI / L. BASILET-TI / A. BIANCHI Segr.3 Per la storia degli scavi si veda: IDA GIANFRAN-CESCHI, Cultori dell’antico. Il sapere e la pratica del-l’archeologia a Brescia tra Sette e Ottocento, in «Ar-cheologia/archeologie. Pratiche metodi itinera-ri», in supplemento ad «AB» n. 28 autunno1991, pp. 53-60; CAROLA PATETE, VALERIA VEN-TURA, Archeologia e Restauro a Brescia, dalla cultu-ra neoclassica alle realizzazioni del regime (1823-1839), tesi di laurea al Politecnico di Milano, Fa-coltà di Architettura, relatore prof. Amedeo Bel-lini, correl. Gianpaolo Treccani, aa. 1990-91;GAETANO PANAZZA, La documentazione iconograficae grafica dei Monumenti nell’area del Foro di Bresciafino al 1974, in Atti del Convegno internazionale peril XIX centenario della dedicazione del “Capitolium” eper il 150° anniversario della sua scoperta, Brescia27-30 settembre 1973, vol. II, supplemento ai«Commentari dell’Ateneo di scienze, lettere edArti di Brescia per l’anno 1975», pp. 67-76; IDA

GIANFRANCESCHI VETTORI, Museo scuola città, perla riorganizzazione e l’uso didattico dei beni culturalia Brescia, Nuova ricerca editrice, Brescia 1978;CLARA STELLA, Rodolfo Vantini e il museo patrio, inRodolfo Vantini e l’architettura neoclassica a Brescia,a cura di Ruggero Boschi, Stamperia F.lli Gerol-di, Brescia 1995; RUGGERO BOSCHI, IDA GIAN-FRANCESCHI VETTORI, Origine e storia dei musei bre-sciani, in I musei Bresciani, a cura di Vasco Frati,Grafo, Brescia 1985.

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4 UGO VAGLIA, Editori e tipografi a Brescia nell’Otto-cento, in Lodovico Pavoni e il suo tempo, in Atti delconvegno di studi, Àncora, Milano 1986, pp. 183-184.5 Oltre alla data in copertina, l’opuscolo riportaalla fine la seguente data: Brescia dall’Ateneo li 4gennajo 1828. La scoperta dei bronzi risale al 20luglio del 1826.6 GIUSEPPE SALERI, GIUSEPPE NICOLINI, RODOLFO

VANTINI, GIOVANNI LABUS, Museo Bresciano illu-strato, Minerva, Brescia 1838, p. XIII, nota 1.Saleri ricorda che “discoperti l’antico edificio e imolteplici oggetti d’arte che si rinvennero nelleescavazioni, nacque sino dal 1828 il pensiero dipubblicarli; ma l’intendimento venne meno perdifetto di mezzi”.7 VIOLANTE BASILETTI MARTINENGO, Luigi Basilet-ti, memorie archeologiche raccolte da Violante BasilettiMartinengo, Geroldi, Brescia 1926, pp. 46-47.Nel volume Violante Basiletti Martinengo ripor-ta parte dei carteggi del prozio Luigi Basiletti ri-guardanti gli scavi archeologici e parte delle re-lazioni pubblicate sui “Commentari dell’Ateneo”.8 Archivio di Stato di Brescia (ASBs), Fondo Ate-neo b. 80: un documento datato 27 giugno 1827riporta la decisione di ridurre la commissioneagli scavi a soli tre membri: il presidente dell’A-teneo Gaetano Monti, il vice presidente AntonioSabatti e Luigi Basiletti, di fatto i firmatari delmanifesto d’associazione.9 ASBs, Fondo Ateneo b. 80: sono riportate piùbozze manoscritte del testo dell’opuscolo conpiccole varianti e i preventivi di spesa della pub-blicazione.10 Commentarj della Accademia di Scienze, Lettere,Agricoltura ed Arti del Dipartimento del Mella perl’anno MDCCCVIII, Bettoni, Brescia 1808.11 GIOVANNI LABUS, RODOLFO VANTINI E LUIGI

BASILETTI, Intorno vari monumenti antichi scopertiin Brescia, Bettoni, Brescia 1823.12 ASBs, Fondo Ateneo b. 80: sono numerosi gliavvisi a stampa conservati nell’archivio dell’Ate-neo tra cui il manifesto datato 22 luglio 1826

che avvisa dell’esposizione dei bronzi presso SanDomenico.13 ASBs, Fondo Ateneo b. 80: sono raccolte le po-che prenotazione al volume. Tra queste un foglioa stampa probabilmente abbinato al manifestod’associazione di cui riportiamo il testo: “N. 19.ATENEO DI BRESCIA / Li 14 marzo 1828. / Il-lustre e pregiatissimo Signor Accademico / Les’invia, egregio Signore, il Manifesto di associa-zione all’opera d’illustrazione de’ Bresciani Mo-numenti recentemente scavati. Potrà agevol-mente persuadersi V. S. che a nessun altro inte-resse agguarda l’associazione proposta che all’u-nico di conseguire i mezzi meramente necessarjper imprendere e compire l’enunciato dispen-dioso lavoro, il quale sperasi tornerà in onoredelle belle arti Italiane, e del Corpo accademico,cui Ella così degnamente e utilmente appartiene./ Le dichiaro poi con ampiezza in nome dell’Ate-neo e di questa Municipale Magistratura che l’e-dizione riuscirà fedelmente quale è promessa nelManifesto, cioè splendida, accurata e nitidissimatanto nella parte di tipografia che nella calcogra-fica. / Ciò tutto valga non tanto per un soverchioeccitamento a V. S. perché favorisca di sua sotto-scrizione, quanto per animarla a procurare quel-le di altri privati, e di pubbliche fondazioni e spe-cialmente della patria di lei Biblioteca. Ardiscoaltresì pregarla di corrispondere al fratellevoleinvito colla possibile sollecitudine a lume e nor-ma di questa nostra Commissione agli Scavi: e mipregio, illustre mio Sig. Collega, di ripeterle isensi della mia particolare estimazione, e grataricordanza. / IL PRESIDENTE / G. MONTI / A.BIANCHI Segret”.14 BASILETTI MARTINENGO, Luigi Basiletti, p. 48.15 Brescia romana materiali per un museo, II, Grafo,Brescia 1979, p. 44. La scheda dedicata al MuseoBresciano illustrato è curata da Maurizio Mondi-ni, il quale nella prima parte si sofferma sul pri-mo tentativo dell’Ateneo di realizzare una pub-blicazione.16 VAGLIA, Editori cit., p. 184.

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di GIUSEPPE NOVA

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I Bertelli, nota famiglia di apprezzatiprofessionisti operanti nel campo dellastampa che tra il XVI ed il XVII secoloriscossero notevole successo in moltecittà d’Italia, furono per molti secoli rite-nuti originari del territorio veneto, tan-to che diversi studiosi del passato (maanche alcuni autori contemporanei) licredettero nativi di Padova o di Venezia,probabilmente equivocando sul termineche spesso accompagnava il nome dellaloro casata, cioè il distintivo “venetus” chefaceva specifico riferimento allo “status”di cittadino della Serenissima Repubbli-ca di Venezia; condizione, questa, chenon necessariamente coincideva conl’effettivo luogo di nascita della personaoggetto di tale attribuzione.Studi più approfonditi hanno recente-mente documentato in maniera inequi-vocabile le radici bresciane della famigliaBertelli, dimostrando come essa fosseoriginaria di Vobarno, importante cen-tro della Valsabbia dove, ancora oggi, vi-vono ed abitano numerosi nuclei familia-ri che portano lo stesso cognome1. Le prime frammentarie notizie circal’attività dei Bertelli in terra brescianafanno riferimento alla seconda metàdel Quattrocento allorquando sembre-

rebbe che componenti della famigliafossero impiegati come “lavoranti aifolli” presso gli opifici di Toscolano,nella famosa valle delle cartiere.In ogni caso il primo componente dellafamiglia valsabbina di cui si hanno noti-zie certe è Ferdinando Bertelli2 (Fer-rando, Fernando, Ferrante), il quale fuprobabilmente il capostipite della fa-mosa casata di calcografi e librai ope-ranti in vasta parte del territorio italia-no. Ferdinando nacque a Boarno diSalò3, l’odierna Vobarno, attorno aglianni Venti del Cinquecento, ma ancorain giovane età, come risulta da docu-menti catastali oggi conservati pressol’Archivio di Stato di Venezia, si trasferìin laguna dove aprì una bottega “all’in-segna di San Marco” (registrata pressogli uffici competenti nel 1561).A Venezia “Mastro Ferrando” operòprincipalmente come mercante distampe, anche se della sua attività siposseggono scarsissime notizie. Sappia-mo che ebbe rapporti commerciali conGiovan Francesco Camoscio4, editoreveneziano nativo di Asolo, con il qualecollaborò alla realizzazione di rami asoggetto geografico (vedute di città ecarte geografiche) e con il libraio P. For-

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I Bertelli, una dinastia di librai, editori e calcografi

originaria di Vobarno (XVI e XVII secolo)

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lani per l’edizione e la vendita di inci-sioni a carattere popolare. Nella sua bottega il Bertelli commercia-lizzò sia ristampe di vecchi rami (so-prattutto incisioni di area romana), siafogli di propria produzione (soprattut-to bulini a contenuto sacro, mitologicoe di costume), oltre che numerose rie-dizioni di lastre derivate dall’acquistodi matrici originali (famosi furono i ra-mi di Marco Cartaro e di Domenico Ze-noi) e di materiale geografico di variaprovenienza. Inoltre nello studio an-nesso alla sua bottega egli incise perso-nalmente numerosi fogli destinati alladevozione popolare, anche se le sueopere più note, oltre alle ricercatissimecarte geografiche, furono i fogli raffi-guranti la Madonna e due Angeli, la Cro-cefissione, Cristo fra i due ladroni e Veneree Amore.Ferdinando sperimentò anche il ruolodi editore finanziando la stampa di al-cuni suoi lavori e la pubblicazione diopere realizzate in società con altri col-leghi veneziani. I volumi che sottoscrisse furono l’Om-nium fere gentium nostrae aetatis habitus(1563 e 1569), un testo sui costumi del-l’epoca, i Disegni di alcune più illustri cittàe fortezze del mondo (1568), le Isole famose,porti, fortezze e terre marittime, opera rea-lizzata in collaborazione con G. F. Ca-moscio (1574), e il Civitatum aliquot insi-gniorum et locorum magis munitorum exac-ta delineatio, che vide la luce nel 1574.Non conosciamo l’esatta data della suamorte, ma Ferdinando Bertelli smise si-

curamente di operare nel 1574, allor-quando il suo posto in bottega vennepreso da Donato Bertelli5. Donato nac-que a Vobarno attorno agli anni Trentadel Cinquecento ma, come quasi tutti icomponenti della sua famiglia, si tra-sferì in giovane età a Venezia, dove ri-sulta attivo dal 1550 circa. La sua pre-senza in laguna è documentata da alcu-ne polizze d’estimo secondo le quali ilsuo nome appare in qualità di “lavo-rante” nella bottega del congiunto Fer-dinando (anche se non siamo in gradodi indicare con sicurezza l’effettivo gra-do di parentela6). Il primo documentoche lo riguarda è datato 1559 e concer-ne “Magister Donatus, quondam Pe-trus”, all’epoca occupato “in Mercerie,all’insegna di San Marco”. Donato fuprincipalmente un mercante di stam-pe, oltre che apprezzato editore di ope-re calcografiche e cartografiche, la cuiattività può essere divisa in due mo-menti nettamente distinti. Il primo inizia dal suo arrivo a Veneziae si conclude nel 1574, anno del ritiro

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Ferdinando Bertelli, Cristo fra i due ladroni

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dall’attività di Ferdinando Bertelli. Inquesto primo periodo Donato fece pra-tica alla scuola del congiunto e si perfe-zionò nella tecnica incisoria (xilografiae bulino). La studiosa Paola Coccia ipo-tizza che il giovane Donato sia l’autoredelle xilografie che illustrano l’edizionedell’Orlando Furioso stampato dal Val-grisi nel 15567, documentando come ilBertelli svolgesse con successo l’attivitàincisoria tra gli anni 1555 e 1592. Fa-mose furono le opere che realizzò dainvenzioni di Giulio Sanuto8 e di Nico-las Beatrizet, detto “il Beatricetto9”.Nel 1571, comunque, Donato si iscrisseall’Arte dei Librai e Stampatori di Ve-

nezia10 ed iniziò anche l’attività di edito-re, anche se aveva già finanziato lastampa di alcuni testi fin dal 1563. Laprima edizione, infatti, che uscì per suodiretto interessamento fu l’opera di Ga-briele Falloppio, professore all’Univer-sità di Padova, dal titolo Libelli duo, alterde ulceribus, alter de tumoribus praeter na-turam (1563, ristampato poi nel 1566),per il quale il Bertelli ottenne dal Sena-to un privilegio quindicinale in cui egliè definito libraro in Marzaria all’insegnadi San Marco. Seguirono poi le Disputa-tiones adversus protestantiones trigintaquattuor haereticorum Augustanae confes-sionis di Gaspar Cardillo de Villalpando

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Andrea Bertelli, Territorii Brixiensis chorographica tabula

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(1564) ed il fortunatissimo volume diincisioni di Domenico Zanoi Illustriumiureconsultorum imagines (1569). Il secondo periodo di attività del Ber-telli va dal 1574, anno del ritiro dall’at-tività di Ferdinando Bertelli, dal qualeDonato ereditò tutti i rami della botte-ga11, al 1594, anno della sua probabilescomparsa.In questo periodo Donato si distinse co-me avveduto mercante di stampe, anchese il suo interessamento in campo edito-riale continuò con il finanziamento di al-cune pubblicazioni, tra le quali ricordia-mo: il Civitatum aliquot insigniorum et loco-rum exacta delineatio: cum additione aliquotinsularum principalium, che riprende l’o-pera pubblicata da Ferdinando Bertellinel 1574, ma arricchita da sessantottotavole nelle quali spicca la nuova dicitu-ra “Donati Bertelli formis”; l’opera diMatteo Corte De dissenteria, per la qualegodette di un privilegio di quindici anniconcessogli dal Senato veneziano; ed ilvolume comunemente noto come Il Ca-moscio, dall’editore veneziano GiovanFrancesco Camoscio che, dal 1566 al1574, realizzò in fogli sciolti circa novan-ta tra carte e mappe tutte eseguite inpiccolo formato. Tali fogli vennero poiraccolti e rilegati per iniziativa dell’edi-tore bresciano e pubblicati con il titolo diIsole famose, porti, fortezze, e terre marittimesottoposte alla Serenissima Signoria di Vene-tia, ed altri Principi Christiani, et al SignorTurco (prima edizione: 1575).Donato Bertelli morì probabilmentenel 1594, poiché in tale data subentrò

nella conduzione della bottega laguna-re Andrea Bertelli12. Andrea, del qualenon sono noti i rapporti di parentelache lo legarono agli altri membri dellacasata, iniziò la sua attività a Veneziacon la pubblicazione di un foglio volan-te dal titolo La città di Venetia con l’origi-ne e governo di quella di G. N. Doglioni(1594), una veduta aerea di Venezia(mm. 571x410) con l’elenco dei dogi si-no a Pasquale Cicogna ed una cronolo-gia storica veneziana. L’anno successi-vo, esattamente l’8 gennaio 1595, siiscrisse all’Arte dei Libreri, Stampadorie Ligadori di Venezia senza però impe-gnarsi in mansioni di responsabilità al-l’interno dell’Arte, se si esclude l’incari-co di “Compagno di giunta” assegnato-gli per l’anno 1605.La sua attività di editore, comunque,proseguì con la sottoscrizione di alcunecarte geografiche, tra le quali ricordiamola Rethiae Alpestris hodie Tirolis com. descrip-tio (1595), l’Asiae nova descriptio (1595), ilTerritorii Brixiensis chorgraphica tabula(1595), la Descrittione del territorio veronese(senza data, conservata presso la Biblio-teca del Museo Correr di Venezia), la De-scrittione del territorio padovano (senza data,conservata nella collezione Novacco) e laDescrittione del territorio trivigiano (con ladata 1591 ricorretta in 1601).Non possediamo nessun’altra notiziadell’editore valsabbino, se non che nel-la sua bottega era coadiuvato da alme-no due lavoranti, un certo GasparoQuarterolo (polizza d’estimo del 15gennaio 1602) e tale Luca Galioni (cer-

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tificazione del 26 ottobre 1605). Risultainoltre sconosciuta anche la data dellamorte di Andrea Bertelli che, comun-que, rimase a capo della bottega di fa-miglia sino a tutto il primo decenniodel XVII secolo, dopo di che si perserole tracce di quello che fu l’ultimo espo-nente del ramo veneziano della fami-glia originaria di Vobarno.A Venezia operò anche un altro mem-bro della famiglia, Lorenzo Bertelli13, ilquale, secondo un documento notariledel 1575, era figlio del “quondam An-tonius de Boarno de Salò” (probabil-

mente fratello di Ferdinando) ed ap-prendista presso “la bottega dei Sessa”(nota famiglia di tipografi nativi di Mi-lano, ma attivi in laguna fin dal 1489).Da una polizza d’estimo del 1581 con-servata presso l’Archivio di Stato di Ve-nezia apprendiamo, inoltre, che il gio-vane Lorenzo lavorava ancora per l’a-zienda dei Sessa con la qualifica di “li-braio”, titolo con il quale compare an-che nei registri dell’Arte. Per quanto ri-guarda la sua attività editoriale sappia-mo che egli sottoscrisse quattro edizio-ni: il Lunario perpetuo secondo la novariforma (1586), l’Antidotarium Romanumseu modus componendi medicamenta quaesunt in usu (1590), il De coniuratione Cati-linae et de bello Iugurthino historiae di Sal-lustio (1590) e il Factorum et dictorum me-morabilium libri novem di Valerio Massi-mo (1590). Non conosciamo la datadella morte di Lorenzo Bertelli che, co-munque, è da collocarsi attorno ai pri-mi anni del Seicento.Pietro Bertelli14, figlio di Ferdinando,nacque nel 1571 e, dopo aver fatto l’ap-prendistato presso l’officina venezianadel padre, lasciò la laguna e si trasferì aPadova. Nella città del Santo egli risul-ta attivo almeno dal 1589 come libraiocon propria bottega15 sita in contradaSan Pietro all’insegna dell’Angelo,mentre la sua abitazione era in contra-da San Lorenzo “alla Veraria”.La sua attività editoriale, in società conAlciato Alciati (libraio che aveva bottegaa Padova in San Lorenzo, dietro la sededell’Università) portò alla pubblicazio-

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Pietro Bertelli, Brescia (Theatrum urbium italicarum)

Pietro Bertelli, Siena (Itinerarium nobiliorum Italiae

regionum, urbium, oppidorum et locorum)

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ne di un’importante opera, il Diversa-rum nationum habitus, una raccolta in trevolumi di incisioni di costumi di ognipaese che risulta sottoscritta “Patavij,apud Alciatum Alciam et Petrum Ber-tellium, 1589-1591” (riedita poi tra il1594 e il 1596) e controfirmata da unamarca tipografica raffigurante unascimmia seduta di profilo con un libroaperto nella zampa sinistra.Pietro Bertelli non fu un tipografo, maun oculato editore che per concretizza-re i suoi progetti si servì di diversi stam-patori padovani (Lorenzo e GiovanniAntonio Pasquati, Gaspare Trivellari eGiovanni Battista Marini). Sono attual-mente note ventotto edizioni sottoscrit-te dal Bertelli, anche se la sua principa-le funzione fu quella di “distributore”in quanto libraio, piuttosto che “finan-ziatore” vero e proprio. La sua produ-zione conta quasi esclusivamente inter-venti nel campo delle incisioni calco-grafiche16, anche se ricordiamo la pub-blicazione di opere di noti professoriuniversitari, come Fortunio Liceti eProspero Alpino, oltre che la stampadel Galateo del Della Casa, tutte uscitecon la marca tipografica rappresentan-te un angelo in piedi con le ali spiegate,l’avambraccio destro puntato verso l’al-to con l’indice che indica il cielo e un gi-glio nella mano sinistra. Nel 1599 il Bertelli tornò a Venezia do-ve seguì la pubblicazione di quello che èconsiderato il suo capolavoro, cioè ilTheatrum Urbium Italicarum17, un’operache comprendeva ben 78 tavole più il

frontespizio, realizzata in collaborazio-ne con diversi incisori, tra i quali vi fuanche Giacomo Franco. Tra il 1601 e il1610 Pietro Bertelli si recò spesso a Vi-cenza dove, in società con FrancescoBolzetta (libraio e “stimador da libri”padovano) diede alla luce alcune edizio-ni utilizzando le officine tipografiche vi-centine degli Eredi del Perin, di Gio-vanni Pietro e Francesco Grossi e di Do-menico Amadio. L’opera più importan-te che uscì dalla collaborazione dei duelibrai fu l’Itinerarium nobiliorum Italiae re-gionum, urbium, oppidorum et locorum diFranz Schott, che fu stampata a Vicenzanell’officina di Giorgio Greco nel primodecennio del Seicento. Alcuni studiosiritengono, infine, che l’intraprendentePietro fu attivo anche a Roma dove, nel-l’ultimo decennio del Cinquecento, sisarebbe recato per promuovere la pub-blicazione di alcune sue realizzazionicartografiche e la ristampa di alcunesue incisioni su rame (soprattutto fogliderivanti da opere di Agostino Carraccie Giovan Battista Mazza).

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Francesco Bertelli, Brescia (Nuovo itinerario d’Italia)

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Non conosciamo altro circa la vita diPietro Bertelli, se non che, secondo unapolizza d’estimo datata 30 giugno1616, egli dichiarava che il ricavato an-nuo della sua attività di libraio ammon-tava a centocinquanta ducati al lordodelle spese. La morte colse il libraiobresciano il 4 aprile 1621 (all’età circadi cinquant’anni) ed a lui subentrò il fi-glio Francesco Bertelli18, il quale di-venne uno dei più quotati incisori dellacittà. Nella sua bottega incise con la tec-nica del bulino richiestissime tavole acontenuto sacro (tra le più importantidelle quali citiamo il foglio intitolato ilSanto in preghiera) e storico (basti ricor-dare l’Entrata del duca di Savoia in Tori-no), ma soprattutto cartografico (comela serie del Teatro delle città d’Italia, volu-me composto da 78 incisioni, le cui ta-vole, oltre a quelle realizzate dal padree da Mathias Dregsellius, furono ese-guite da lui stesso nello studio posto nelretro della bottega). Il Teatro delle cittàd’Italia uscì a Padova nel 1629, ma giàqualche anno prima Francesco Bertelliaveva realizzato alcune piante prospet-tiche che servirono per illustrare diver-se edizioni dei Viaggi di Andrea e Fran-cesco Scoto. In particolare le tavole raf-figuranti varie località d’Italia venneroincise per il Nuovo itinerario d’Italia usci-to a Padova in prima edizione nel 1622e ristampato poi nel 1624 (un’ulterioreterza edizione vide la luce a Vicenza nel1638). Dalla bottega padovana di Fran-cesco Bertelli uscirono anche le lastreche l’incisore ed editore bresciano ese-

guì per l’illustrazione dell’Itinerario ove-ro nuova descrittione dei viaggi principalid’Italia di Francesco Scoto, stampato aPadova da Mattia Cadorin nel 1654. La fortunata e molto ricercata edizioneebbe sei successive ristampe (fu infattaripubblicata nel 1659, 1669, 1670,1675, 1685 e nel 1688).I rami incisi dal Bertelli furono usati peradornare ulteriori edizioni seicentescheche uscirono postume in varie localitàd’Italia. Si tratta di almeno sette edizioniuscite a Venezia per i tipi di G. P. Bri-gonci (1665, 1670, 1672, 1675 e 1679) ea Roma, prima dall’officina di Filippo deRossi (1650), poi da quella di Michelan-gelo e Pier Vincenzo Rossi (1699)19.A Padova operò anche Luca Bertelli20,probabilmente fratello di Pietro, il qua-le, dopo aver terminato il suo pratican-tato presso la bottega lagunare, iniziòl’attività in proprio nel mondo della cal-cografia e dell’incisione d’arte. A questoproposito esiste un bulino, copia del-l’Annunciazione di Cornelius Cort, incisodal Bertelli a Venezia nei primi anniSessanta del Cinquecento che, oltre a ri-portare il suo monogramma (una “L” euna “B”), porta anche l’indicazione del-la sua bottega “in aede Salvatoris”.Dal 1564 Luca Bertelli aprì una botteganella città del Santo dove, in qualità dieditore, diede alla luce insieme ad alcu-ni soci, tra cui Cristoforo Griffo, il Demorbo gallico del professore dello studiodi Padova Gabriele Falloppio (1564) egli Opuscola sempre del Falloppio(1566), nel cui colophon si legge: “Pata-

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vii, apud Lucam Bertellum”. L’ultimolibro che porta la firma del Bertelli è ilIn Hippocratis librum de vulneribus capitis,ancora del Falloppio, che fece stamparea Venezia nel 1566 e per il quale otten-ne dal Senato veneto un privilegio ri-guardante l’esclusiva di vendita sul ter-ritorio della Serenissima. Nella sua bottega padovana Luca Ber-telli incise anche numerose opere, so-prattutto a contenuto religioso e devo-zianale, fogli derivanti da lavori di ano-nimi artisti, ma anche di importantimaestri, tra i quali G. Franco, N. Bea-tricetto, Agostino Carracci, B. Mazza eM. Rota. Negli anni Ottanta del XVI secolo LucaBertelli ritornò ad operare a Venezia,dove realizzò alcuni bulini che risulta-no firmati “L.B. e socius”, anche se esi-stono alcune sue stampe dove comparel’indicazione di Roma, il che fa suppor-re che il valsabbino si recò nella capita-le per promuovere la vendita dei suoirichiestissimi lavori. Le ultime notizie che abbiamo su LucaBertelli sono datate 1594 e sono in re-lazione alla sua attività di libraio e dimercante di stampe. Dopo tale data,forse coincidente con la sua morte, nul-l’altro si conosce riguardo l’attività dellibraio ed artista bresciano.Orazio Bertelli21, probabilmente fratel-lo di Pietro e di Luca, fu attivo a Vene-zia dove collaborrò nella bottega di fa-miglia tra gli anni Sessanta e gli anniOttanta del Cinquecento. Il suo ruolo,almeno a giudicare dai pochi docu-

menti in nostro possesso, era per lo piùindirizzato al lavoro di incisore, tantoche il famoso monogramma “L.B. e so-cius” che si trova in calce ad alcune la-stre uscite dallo studio lagunare è dainterpretare come “Luca Bertelli” e“Soci”, dove per soci si devono sicura-mente intendere Orazio Bertelli, Gio-vanni Griffo (Johannes Greyff, bulini-sta di origine sveva) e Vincenzo Valgri-si. Orazio seguì i fratelli anche a Padovadove continuò il suo lavoro di calco-grafo di riproduzione. Tra le miglioriopere uscite dal bulino di Orazio Ber-telli a Padova ricordiamo gli ottimi foglitratti da invenzioni del Veronese e diAgostino Carracci.Domenico Bertelli22, componente dellacasata bresciana, del quale si posseggo-no scarsissime notizie. Sappiamo cheapprese l’arte calcografica nella bottegalagunare di famiglia, poi, dopo aver la-vorato come incisore a Venezia (di lui siricordano soprattutto carte geografi-che e mappali), decise di trasferirsi aRoma. Nella capitale fu attivo, semprenel campo dell’incisione delle richie-stissime carte topografiche, dai primianni Novanta del Cinquecento fino alprimo quarto del XVII secolo.

A Roma operò pure Giovanni Bertel-li23, legato, anche se si ignorano i realilegami di consanguineità, da rapportidi stretta parentela con Domenico. Gio-vanni fu un ottimo incisore di soggettidi riproduzione dedotti, secondo la

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moda dell’epoca, da opere dei più im-portanti pittori rinascimentali, oltreche specialista nell’esecuzione dei sem-pre ambiti soggetti geografici. Negli ul-timi anni della sua vita si diede al com-mercio, diventando uno dei più ap-prezzati mercanti d’arte della capitale.Cristoforo Bertelli24 fu attivo a Rimini,dove acquistò vasta fama come incisoresoprattutto di ritratti, oltre che di sog-getti sacri. Nell’importante porto adria-tico il Bertelli fu attivo nella secondametà del Cinquecento in una propria

bottega con anneso studio calcografico.Con la tecnica del bulino egli incise pa-recchi fogli, tra i più famosi dei quali ci-tiamo il Ritratto equestre di Ottavio Farne-se e la Madonna e San Sebastiano. Nellaconduzione dello studio incisorio Cri-stoforo era coadiuvato dal fratelloGianfrancesco Bertelli25, ottimo inta-gliatore su legno, oltre che esperto bu-linista. A Rimini Gianfrancesco svolse,per lo più, compiti secondari e lavori dirifinitura, ma allorquando attorno aglianni Settanta del XVI secolo i due fra-telli si trasferirono a Modena in piùampi locali, Cristoforo e Gianfrancescoebbero entrambi il meritato successo.Nella città emiliana incisero diversi ra-mi, tra i quali ricordiamo il foglio dellaConversione di San Paolo e la serie di duetavole intitolata Le differenti età dell’Uo-mo e della Donna.I fratelli Bertelli a Modena operaronoanche come editori, privilegiando pub-blicazioni di interesse locale, oltre checome apprezzati commercianti di libri estampe.Nel 1575 Gianfrancesco Bertelli lasciòl’Emilia e si trasferì a Cremona lascian-do al fratello la conduzione dell’avviatabottega modenese26. Nella città lombar-da Gianfrancesco prese alloggio in una“camera del Palazzo pubblico” e piùesattamente “sopra il loco del Collegiodei signori Notari”. Nella bottega cre-monese il più giovane dei Bertelli svol-se principalmente il lavoro di venditoredi libri, carta e stampe, oltre che di pre-paratore di matrici xilografiche per i ti-

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Francesco Bertelli, Brescia e nobile bresciana (Alphonsi lasor a Varea. Universus terrarum

orbis scriptorum calamo delineatus)

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pografi ed editori cittadini, infattiGianfrancesco si fece apprezzare anchecome intagliatore su legno, poichè rea-lizzò, tra l’altro, le matrici, siglate“G.B.”, usate dal Campi nella sua Cre-mona fedelissima città. Non conosciamo altro circa la vita diGianfrancesco Bertelli, se non che lasua bottega cessò l’attività nel 1593, an-che se egli continuò ad operare nelmondo della stampa fino alla morte dacollocarsi attorno al primo decenniodel XVII secolo.L’ultimo componente della famosa ca-sata valsabbina di cui si ha notizia è

Luigi Bertelli27 del quale si posseggonoscarsissime informazioni. Sappiamoche fu un artista eclettico attivo a Ferra-ra tra il 1749 e il 1823 e che, con varietecniche incisorie, diede alla luce diver-se opere pervase da un personalissimogusto romantico.Con la morte di Luigi si persero le trac-ce anche della famiglia Bertelli origina-ria di Vobarno che portò, con estremaprofessionalità ed abilità tecnica, l’artebresciana ad essere conosciuta ed ap-prezzata in vasta parte del territorioitaliano.

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1 All’inizio del 2004 sono state censite più di cin-quanta famiglie con cognome Bertelli residentia Vobarno, a dimostrazione di come tale casatasia tuttora radicata nel tessuto sociale della citta-dina valsabbina. 2 F. BORRONI, s.v. Bertelli, Ferdinando in DBI, IX(1967), pp. 491-492; MARCO CALLEGARI-MARIEL-LA MAGLIANI, Dizionario dei tipografi e degli editoriitaliani. Il Cinquecento, Vol. I - Editrice Bibliogra-fica, 1977; GIUSEPPE NOVA, Stampatori, librai ededitori bresciani in Italia nel Cinquecento, Fondazio-ne Civiltà Bresciana, Novembre 2000); G. MILE-SI, Dizionario degli incisori, Minerva Italica 1989;P. BELLINI, Dizionario della stampa d’arte, Vallardi1995; G. MANDEL, Repertorio biografico, Enciclo-

pedia Universale della Stampa e della Grafica,Stige editore, 1979.3 Antico nome dell’importante centro della ValSabbia che, durante la dominazione veneziana,fu elevato a “Capo della quadra di montagnadella Riviera di Salò”.4 C. PALAGIANO, s.v. Camoscio, Giovan Francesco inDBI, XVIII (1974), pp. 288-291. Il Camosciousò una marca tipografica che, in pratica, era lastessa che depositò come insegna commerciale,e cioè una piramide su quattro sfere poggiata suun piedistallo con il motto “Prudentia perpe-tuet”. Giovan Francesco morì probabilmente dipeste nel 1575. 5 F. BORRONI, s.v. Bertelli, Donato in DBI, IX

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(1967) pp. 490-491; M. CALLEGARI, op. cit.; G.NOVA, op. cit.; G. MILESI, op. cit. 6 Probabilmente Pietro era il nipote di Ferdinan-do, anche se alcuni storici paiono convinti che idue fossero cugini, figli cioè di due fratelli.7 PAOLA COCCIA, Le illustrazioni dell’Orlando Furio-so (Valgrisi 1556) già attribuite a Dosso Dossi, La“Bibliofilia”, XCIII, 1991 pp. 279-309.8 Opere a contunuto sacro (lo Sposalizio della Ver-gine), opere a soggetto mitologico (Apollo e Mar-sia, il Supplizio di Tantalo ed il Baccanale) e cartegeografiche.9 Si tratta soprattutto di fogli a contenuto sacro(la Conversione di San Paolo e Cristo con la Samari-tana) e varie piante di città.10 Atto registrato in data 1 aprile 1571.11 Donato Bertelli iniziò a sostiture la denomina-zione del congiunto da tutte le matrici in ramepresenti in bottega inserendo il proprio nome incalce ad ogni lastra. In questo modo le vecchieincisioni che portavano la firma di Ferdinandorisultano, dal 1574, tutte siglate con il nuovomonogramma di Donato. 12 F. BORRONI, s.v. Bertelli, Andrea in DBI, IX(1967) pag. 490; G. BORSA, Clavis typographorumlibrariorumque Italiae 1465-1600, Koerner 1980;R. ALMAGIÀ, Carte geografiche a stampa di particola-re pregio o rarità dei secoli XVI e XVII esistenti nellaBiblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano1948; M. CALLEGARI, op. cit.; G. NOVA, op. cit.;G. MILESI, op. cit.13 ASCARELLI-MENATO, La tipografia del ’500 in Ita-lia, Olschki 1989; M. CALLEGARI, op. cit.; G. NO-VA, op. cit.; G. MILESI, op. cit.14 F. BORRONI, s.v. Bertelli Pietro, in DBI, IX(1967) pp. 499-500; B. SARACENI FANTINI, Primeindagini sulla stampa padovana del Cinquecento; M.CALLEGARI, op. cit.; G. NOVA, op. cit.; G. MILESI,op. cit.15 Ciò lo si desume dai numerosi documenti d’af-fitto (conservati presso l’archivio Civico Anticodi Padova) pagati dal valsabbino ai fratelli Ven-turino e Francesco Bolzetta, librai padovaniproprietari dello stabile nel quale vi era la botte-ga del Bertelli.16 Pietro Bertelli fu un abile bulinista che incisesoprattutto soggetti di costume. La sua opera

più nota è la serie delle Vite degli Imperatori de’Turchi (15 tavole). 17 Nel corso del Seicento Pietro Bertelli pubblicòben tre ristampe del Theatrum: la prima senzadata, ma sicuramente uscita nel primo decenniodel XVII secolo; la seconda impressa a Vicenzanel 1616; la terza impressa a Roma nel 1619.18 G. Mendel: Enciclopedia Universale della Graficae della Stampa (Stige editore 1979); M. CALLEGA-RI, op. cit.; G. NOVA, op. cit.; G. MILESI, op. cit.;P. BELLINI, op. cit.19 Si conoscono, comunque, anche edizione set-tecentesche dell’importante opera dello Scotoche videro la luce a Roma per merito di Miche-langelo e Pier Vincenzo Rossi (1717), di AntonioRossi (1737), del Lazzarino (1747) e G. Salomo-ni (1761). I rami firmati dal Bertelli trovaronoun’ultima utilizzazione come tavole illustrativedell’Alphonsi Lasor a Varea. Universus terrarum or-bis scriptorum calamo delineatus che fu stampato aPadova da G. B. Conzatti nel 1713.20 F. BORRONI, s.v. Bertelli, Luca in DBI, IX(1967), pp. 492-493; B. SARACENI FANTINI, op.cit.; G. MENDEL, op. cit.; M. CALLEGARI, op. cit.;G. NOVA, op. cit.; G. MILESI, op. cit.; P. BELLINI,op. cit.21 G. MENDEL, op. cit.; M. CALLEGARI, op. cit.; G.NOVA, op. cit.; G. MILESI, op. cit.; P. BELLINI, op.cit.22 G. MENDEL, op. cit.; M. CALLEGARI, op. cit.; G.NOVA, op. cit.; G. MILESI, op. cit.; P. BELLINI, op.cit.23 PAOLO BELLINI, Dizionario della stampa d’arte,A.Vallardi 1995.24 G. MENDEL, op. cit.; G. NOVA, op. cit.; G. MI-LESI, op. cit.; P. BELLINI, op. cit.25 R. BARBISOTTI, G. F. Bertelli intagliatore a Cremo-na dal 1575 al 1593, in “Cremona”, 1987; R.BARBISOTTI, Librai-editori a Cremona alla fine del’500, Strenna dell’A.D.A.F.A. per l’anno 1993;G. MENDEL, op. cit.; G. Nova, op. cit.; G. MILESI,op. cit.; P. BELLINI, op. cit.26 Non conosciamo l’esatta data della morte di Cri-stoforo Bertelli, ma la sua bottega risulta attiva en-tro e non oltre il primo decennio del Seicento.27 G. MILESI, Dizionario degli incisori, Minerva Ita-lica 1989.

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BERTELLI

VOBARNOtracce della famiglia

Bertellidal XV secolo

VENEZIA

PADOVA VICENZA ROMA

TOSCOLANOmembri della famiglia

Bertelli occupatinelle locali cartiere

Ferdinando

Donato

Lorenzo

Andrea

Pietro Pietro Pietro Pietro

LucaLucaLuca

Orazio

Francesco

Orazio

Domenico

RIMINI MODENA CREMONA FERRARA

FERRARA

Domenico

Giovanni

Cristoforo Cristoforo

GianfrancescoGianfrancescoGianfrancesco

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di MICHELA CAPRA e ANTONIO BUGINI

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È a tutti noto che il Bresciano è un ter-ritorio storicamente segnato da unadiffusa attività mineraria e siderurgicache ha costituito, fin quasi alla fine delXX secolo, il nerbo dell’industria loca-le. Attorno ad essa ha ruotato il pro-gresso economico dei decenni successi-vi al secondo dopoguerra, periodo dimassima intensità lavorativa, mentre lacrisi dell’industria siderurgica mondia-le ha poi determinato quella differen-ziazione tecnologica che ha relegatol’attività primaria della produzione delferro e dell’acciaio ad un settore di nic-chia, seppur importante, ma in accordocon la diversificazione produttiva oggiesistente nei paesi tecnologicamentepiù sviluppati.Accanto a questi profondi mutamentieconomici si è assistito al nascere diprogetti di conservazione e valorizza-zione dei siti e dei reperti materiali -ancora oggi testimonianza dei processifisici del passato - che tanta parte han-no avuto nella vita e nella storia dellegenerazioni precedenti, nella vicendadella fatica operosa su cui hanno trova-to fondamento fantasia, creatività, la-boriosità, vita, speranze ed anche illu-sioni degli uomini che hanno fatto la

storia sociale ed economica, conse-gnandola alle generazioni presenti efuture.La rivisitazione delle opere e dei giornidel passato ha trovato un punto di coa-gulo in numerosi siti della provinciabresciana, cosicché è stata avvertita l’e-sigenza di una visione unificante nellacostituzione del Museo dell’Industria edel Lavoro, che avrà sede in città nelsuo corpo centrale, a cui saranno colle-gate una serie di “antenne” sul territo-rio, che ne condivideranno quella voca-zione unitaria per fornire un preziosocontributo con la propria peculiarità.Sullo sfondo di queste premesse, neigiorni del 24 e 25 settembre 2004 haavuto luogo nelle sedi del Museo delFerro – La fucina di San Bartolomeo diBrescia e del Museo del Forno di Ta-vernole sul Mella il Convegno denomi-nato “Città Regioni Percorsi del Ferroin Europa”. L’iniziativa è stata promos-sa dal Museo dell’Industria e del Lavo-ro (di cui la realtà di San Bartolomeorappresenta il primo polo didattico/espositivo), dall’Agenzia Parco Minera-rio dell’Alta Valle Trompia, dalla Co-munità Montana della Valtrompia,promotrice della Via del Ferro e delle

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“Città, Regioni, Percorsi del ferro in Europa”Un confronto della realtà bresciana con quella italiana ed europea

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Miniere, dalla Fondazione ComunitàBresciana onlus, con il patrocinio diProvincia di Brescia, Comune di Bre-scia e Comune di Tavernole.Il pomeriggio del 24, nell’antica sedecittadina, i temi affrontati hanno ri-guardato “Il ferro e la sua storia”, men-tre il giorno successivo, presso la presti-giosa realtà di Tavernole, è stata la vol-ta de “La valorizzazione del patrimoniostorico siderurgico in Europa. Musei eSistemi museali”.Al Convegno non potevano mancare ilconfronto e la collaborazione con ana-loghe realtà storiche e museograficheitaliane ed europee (Austria, Germa-nia, Gran Bretagna), protagoniste di ri-lievo della civiltà del ferro.In concomitanza con il Convegno, laFondazione Civiltà Bresciana, in colla-borazione con il Museo Nazionale dellaFotografia ed il FAI di Brescia, ha orga-nizzato il Concorso fotografico aventecome titolo “Il Ferro: storia, arte, arti-gianato, tecnica e cultura”, la cui pre-miazione, alla presenza dei rappresen-tanti degli enti promotori, è avvenutanella mattinata di domenica 26 settem-bre. Le opere partecipanti sono stateesposte presso gli appositi locali delMuseo del Ferro ed ammirate da nu-merosi visitatori fino a Natale.Gli acquerelli del pittore argentino Ru-ben Sosa, ispirati ai maestri forgiatori eagli ambienti, antichi e moderni, in cuiè stato lavorato il ferro, hanno ravviva-to con accese note di colori le sale delleMole e delle Mostre temporanee, ri-

scuotendo notevole successo tra il pub-blico.I fratelli fotografi Oreste e Tito Alabisohanno invece fornito il loro preziosocontributo con un’interessante carrella-ta di immagini riferite alle minieretriumpline, risalenti al terzo quarto delsecolo scorso.Ad inaugurare gli interventi della pri-ma giornata del Convegno, coordinatadal prof. Antonio Bugini, sono stati i sa-luti delle autorità rappresentanti gliEnti promotori. Mons. Antonio Fappani, Presidentedella Fondazione Civiltà Bresciana, haespresso soddisfazione ed entusiasmoper l’iniziativa e per come nessun altroargomento come quello della storia delferro fosse più appropriato per la sedemuseale di San Bartolomeo e per ilCentro di Documentazione e per laStoria e l’Arte del Ferro, di cui la Fon-dazione stessa è promotrice e coordina-trice delle ricerche.Il Sindaco di Brescia, Paolo Corsini, hadato il benvenuto ai relatori convenutinegli antichi locali del Museo del Ferro,metafora delle opere e dei giorni dellelaboriose generazioni del passato, pri-mo tassello dell’ampio progetto delMuseo dell’Industria e del Lavoro,giunto a un corso di svolta che segnaun punto d’arrivo rispetto ai desideridi Luigi Micheletti e alla passione fer-vorosa dello stesso Mons. Fappani. Lavalorizzazione dei siti del ferro, chehanno innervato la storia, la geografiaumana e l’antropologia della gente bre-

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sciana, trova straordinari elementi dicomparazione in chiave europea nelcampo dell’archeologia industriale,della storia dell’industria e del lavoro,della modernità contemporanea nelsuo farsi storico.Il prof. Corsini ha ricordato che la filie-ra del ferro, dalle miniere alle fucine,passando per i forni “alla bresciana”,ha dato luogo nei secoli alla circolazio-ne dei saperi tecnici a livello europeo,ad un’emigrazione professionale di altorilievo e a modelli eportati anche oltrel’arco alpino, giungendo allo smercioeuropeo nella congiunzione virtuosatra arte e artigianato. Le dinamichestoriche ed economiche hanno portato,nella seconda metà dell’Ottocento, allacreazione della grande industria side-rurgica, di cui si annoverano notevoliesempi come la Ferriera di Vobarno,poi Falck, la Tassara di Valle Camonica,la Glisenti di Villa Carcina.Il Museo dell’Industria e del Lavoropotrà promuovere il lavoro bresciano,

grazie alla documentazione e all’impo-stazione innovativa del progetto, e saràfattivo punto d’incontro pluridisciplina-re per l’ampiezza e la varietà delle colle-zioni e della documentazione, in cui lamemoria del passato si coniugherà conl’uso delle tecnologie più avanzate delpresente, per far sì che si possa far con-vergere per il futuro la grande tradizio-ne del lavoro, dell’impresa, dei valoricomunitari condivisi, e rinnovare l’i-dentità di Brescia come città della cultu-ra, dell’arte e del pensiero.A succedere il Sindaco di Brescia è sta-to Marcello Berlucchi di FondazioneComunità Bresciana onlus, di cui haportato i saluti del Presidente, GiacomoGnutti. La Fondazione, costola dellaFondazione Cariplo e ormai presentesul territorio da tre anni, si prefigge loscopo di sostenere e valorizzare, attra-verso appositi bandi, le valide propostedi carattere culturale e sociale della no-stra provincia; per questo, non potevacerto ignorare un’iniziativa come quel-la riguardante gli studi sul ferro - concui Brescia vanta un secolare legamegenetico -, che ha il merito di non farperire i ricordi e tramandarli alle gene-razioni future. Giuseppina Conte Archetti ha rappre-sentato il FAI provinciale, che nel setto-re dell’archeologia industriale ha realiz-zato una serie di interventi di notevolerilevanza, come il Convegno “La fabbri-ca tra memoria e progetto”, l’aperturadi sedi museali sul territorio in occasio-ne della Giornata del FAI nella prima-

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L’antico maglio del Museo del Ferro di San Bartolomeo(fotografia di Michela Capra)

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vera del 2002 (come la Centrale di Ce-degolo in Valle Camonica, la Via delMarmo a Botticino, il Maglio Averoldidi Ome, la Fucina di San Bartolomeo),riscontrando tra il pubblico curiosità edinteresse al pari di ville o castelli. Tra leattività svolte a livello nazionale, sonostati menzionati gli interventi di recupe-ro ambientale e archeologico-industria-le delle cave della costiera amalfitana,dimesse dalla prima metà del Novecen-to, e delle architetture militari site nelComune di Palau, in Sardegna.A concludere gli interventi precedentialla relazioni è stato Pier Paolo Poggio,Direttore della Fondazione Luigi Mi-cheletti di cui ha portato i saluti delPresidente, prof. Sandro Fontana. IlConvegno – ha ricordato Poggio – in-tende coniugare la ricerca storica, an-che quella più rigorosa, all’animazioneculturale del pubblico, e la promessa èquella della pubblicazione degli Attidelle due giornate di lavoro.

Dopo gli interventi introduttivi, hannopreso corso le relazioni degli studiosiche hanno svolto ricerche aventi cometema il ferro e la sua storia nei diversicampi disciplinari d’appartenenza, dal-l’archeologia alla storia medievale emoderna.Ad esordire è stato Gabriele Archetti,medievista dell’Università Cattolica delSacro Cuore di Brescia nonché coordi-natore del Centro di Documentazioneper la Storia e l’Arte del Ferro [d’ora inpoi CDF], di cui ha esposto i contributi

forniti dagli studiosi sino ad ora e le pro-spettive per l’avanzamento dei lavori.Una citazione degli Statuti di Bovegno,la cui redazione trecentesca rimanda aforme consuetudinarie che confluiran-no poi negli Statuti di Pezzaze e dellaValtrompia, apre l’intervento.Sin dal 1200, infatti, forni fusori e fuci-ne da ferro sono presenti in molte fon-ti scritte, a ribadire il contrasto con unacerta immagine della società medievalecome priva di industria fiorente ed uni-camente incentrata sull’attività agrico-la. Il reperimento e la lavorazione deimetalli svolsero un ruolo di primariaimportanza nello sviluppo economicodel tempo. Il ferro era disponibile inquantità rilevanti nel sottosuolo e la suafusione non presentava difficoltà lad-dove si poteva trasformare la legna incarbone per fare da combustibile. InEuropa, sino alla metà del XIV secolole tecniche di lavorazione e produzionedi manufatti sono rimaste abbastanzasimili. Nell’ultimo trentennio del seco-lo, invece, si registrano evoluzioni di-mostrate attraverso indagini archeolo-giche di cultura materiale, laddove lefonti scritte si rivelano troppo generi-che per comprendere le tecnicheestrattive e di lavorazione. I documenti d’età medievale che abbia-mo a disposizione fanno riferimentoagli strumenti presenti nelle curtes e al-l’indicazione dei proprietari che aveva-no un legame con il potere sovrano.Nelle valli prealpine, alcuni toponimidel XIII secolo sono di ascendenza me-

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tallurgica, come per esempio quelli re-lativi all’estrazione dell’oro nell’altaValle Camonica. Interessanti sono i do-cumenti relativi alle proprietà del Ve-scovo di Brescia, come quelli di una lo-calità sita nei pressi di Pisogne, imper-niata attorno al centro pievano qualeunità di gestione economico-produtti-va. La Curia esercitava il controllo deiboschi per il taglio della legna e per laproduzione del carbone e delle acquedel torrente Trobiolo, che scendevadalla Valle di Govine; a Fraine, l’attivitàdei forni fusori era regolamentata dal-l’episcopato, così come gli opifici sitinelle località di Pontasio e Grignaghe.Queste le note storiche per introdurrele ricerche svolte dai collaboratori delCDF, a cominciare dall’età medievaleper cui è stata svolta una accurata sche-datura di documenti, dagli Statuti diBovegno fino alle Carte epistolari con-tenute nel Fondo Datini di Prato. AllaFondazione Civiltà Bresciana è stata af-fidata la gestione del progetto, punto diriferimento per ogni iniziativa volta adindagare la storia del ferro, che consi-ste nel graduale recupero e nella regi-strazione informatizzata della docu-mentazione storica pertinente alla lavo-razione del ferro nel Bresciano, reperi-bile presso archivi pubblici e privati. Èconsultabile in internet (http://www.ci-viltabresciana.it/cdf) attraverso unabanca dati digitale, che associa i moder-ni strumenti informatici con quelli clas-sici della consultazione documentaria,rappresentata da un archivio tradizio-

nale e da una biblioteca specializzata dicirca 1500 volumi, oltre che da una se-rie di attività collaterali volte alla didat-tica e alla divulgazione.I lavori vengono condotti sotto la dire-zione di un Comitato scientifico, forma-to da esponenti di ciascuno degli Enticoinvolti, da un rappresentante dellaFondazione e da studiosi ed esperti in-dividuati dai firmatari dell’Accordo diprogramma: la Provincia, il Comune diBrescia, le Comunità Montane di ValleCamonica, Valle Trompia e Valle Sab-bia, cui si è successivamente aggiunta laComunità Montana del Sebino brescia-no, già impegnate nella conservazionee valorizzazione di siti e itinerari legatial ciclo del ferro.Le ricerche svolte nell’ambito del CDFsono state presentate nel numero spe-ciale della rivista “Civiltà Bresciana”uscito nel novembre 2001 in occasionedell’inaugurazione del Museo del Fer-ro, in cui erano state raccolti gli atti diuna giornata di studio1.Ciascuna scheda documentaria riportagli elementi formali e descrittivi del do-cumento, lo stato di conservazione el’uso fatto dalla storiografia per un’e-saustiva documentazione dello stesso.Fino ad oggi sono state esaminate4.500 schede, cifra costantemente ag-giornabile con l’obiettivo di giungerealle 10.000 unità entro il prossimotriennio. I materiali sono anche consul-tabili dalle postazioni remote dislocatenelle valli, attraverso l’inserimento diun’apposita password.

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Le indagini degli studiosi si sono con-centrate su alcuni argomenti, pertinen-ti alle proprie ricerche e zone di prove-nienza. Ne è eloquente esempio il car-teggio costituito da 140 lettere risalential XIV e XV secolo di Marco di France-sco Datini di Prato, mercante toscano,argomento della Tesi di dottorato con-dotto presso l’Università di Napoli daSilvia Storto, che aiuta a comprendereil valore del ferro bresciano nell’ambitodel commercio europeo del Trecento,dove emergono dati sull’organizzazio-ne delle miniere, la metrologia, i mar-chi e i prezzi dell’acciaio, le destinazio-ni di Milano e Pisa, i tentativi di con-traffazione dei materiali.Marco Morin dell’Università di Veneziaha indagato le Relazioni dei Rettori ve-neti, mentre i Registri malatestiani con-servati presso l’Archivio di Stato di Fanosono stati esaminati da Elisabetta Contidell’AIRS di Brescia. Preziose anche lericerche di Oliviero Franzoni per la Val-le Camonica, di Carlo Simoni e Vincen-zo Rizzinelli per la Valle Trompia, Gian-carlo Marchesi per la Valle Sabbia e diMichela Capra, relativa alla filiera delferro in Valle Trompia, ma estensibileanche alle altre Valli per i suoi contenutidi carattere descrittivo e didattico.Il CDF ha anche collaborato all’interes-sante lavoro condotto da GiancarloMarchesi dal titolo Quei laboriosi valli-giani, dedicato allo studio dell’econo-mia e della società della montagna bre-sciana tra il tardo Settecento agli annipostunitari2, primo volume della colla-

na “Quaderni del Sistema Museale del-la Valle Sabbia”, mentre, in collabora-zione con il Museo dell’Industria e delLavoro, Michela Capra sta svolgendoun lavoro biennale di catalogazionescientifica e ripresa fotografica digitaledella cospicua collezione di strumenti emacchine del Museo del Ferro, la cuiinventariazione, corredata dalle imma-gini, sarà a breve consultabile in Inter-net al sito www.musil.bs.it. Alla relazione introduttiva di GabrieleArchetti, contestualizzata alla dimensio-ne locale, ha fatto seguito l’intervento diManlio Calegari dell’Università degliStudi di Genova, che ha parlato de Lapratica siderurgica nelle società d’antico re-gime. Esperienze locali e contesto europeo.Tra la seconda metà del XIII secolo el’inizio del XIV l’Europa conobbe unasvolta nelle pratiche siderurgiche, siaper quanto riguarda quella cosiddettaindiretta - ovvero la produzione di ac-ciaio e ferro dalla ghisa - sia per quelladiretta. La diffusione di entrambi i me-todi fu resa possibile dall’introduzione

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La forgiatura di utensili in ferro in una fucina ancora attiva di Bienno, Val Camonica

(fotografia di Michela Capra).

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di nuovi sistemi di ventilazione in am-bienti aperti e dall’applicazione dellaruota idraulica e della trasformazionedel movimento rotatorio in movimentoalternato attraverso l’albero a camme.Iniziò allora sul territorio europeo unacompresenza delle diverse pratiche si-derurgiche che doveva continuare peralcuni secoli.Attraverso l’esame delle diverse fontidisponibili - scritte, ma anche materiali,mediante la datazione col radio-carbo-nio - è stato possibile riscontrare comefossero pratiche ampiamente diffuse,non in successione, bensì coeve, in fun-zione di una specializzazione commer-ciale. Il fatto, dovuto a ragioni tecnichee ambientali (come le caratteristiche delminerale e la presenza di corsi d’ac-qua), commerciali e sociali, determinòuna geografia della produzione chenon può essere compresa se non esami-nandola nel suo insieme.Con il sistema diretto il minerale venivaportato allo stato ferroso attraversouna successione di operazioni di riscal-do e di martellature. Da un certo mo-mento in poi, gli impianti dove si ope-rava questo tipo di riduzione iniziaronoad utilizzare l’energia idraulica. Alcunistudi sono stati condotti lungo il confi-ne francese dei Pirenei, nel Delfinato,nell’Appennino ligure, in Toscana, inNormandia. Ugualmente diffuso era il metodo indi-retto, attraverso il quale il minerale ve-niva ridotto in ghisa: in Svezia, nella se-conda metà del Duecento vi erano alcu-

ni centri di produzione, in relazione aiquali i documenti scritti riportano unanomenclatura tedesca, suggerendo,dunque, il luogo di provenienza deipratici; scendendo verso sud, proprionella zona nord-occidentale della Ger-mania alcuni scavi, eseguiti in occasio-ne della costruzione di grossi stabili-menti industriali, hanno messo in luce iresti materiali degli impianti fusori do-ve si produceva la ghisa, risalenti alBasso Medioevo; anche la Normandiaè interessata da questo processo, men-tre in Italia settentrionale sono le areemontane del Bergamasco, del Brescia-no e del Valtellinese ad essere eccellen-ti protagoniste di rilievo europeo.Gli studi di storia della siderurgia degliultimi decenni, oltre ad offrire un pun-to di vista più maturo sulla produzionee sul consumo di ferro e acciaio delcontinente, hanno permesso di metterea fuoco i processi sociali, produttivi eculturali che, in modo più generale, in-teressano le società di Antico regime: lacircolazione delle conoscenze, il rap-porto tra committenza e competenze,tra politica e processi produttivi.Quindi, alla luce delle più recenti sco-perte sorgono alcune domande: in chemodo la politica delle società dell’epocagovernava le tecniche e gli spostamentidei pratici? Come avveniva il perfezio-namento e l’affinamento di una praticain una società in cui il saper fare era ca-nonizzato, non costruito su teorie, cu-stodito nelle città da ordini professio-nali e garantito dal rapporto gerarchi-

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co tra vecchio e giovane? Quale valoreassumevano le tecniche per gli intellet-tuali e i politici di allora nella percezio-ne di valore della realtà?La società quattrocentesca dell’Umane-simo induce gli studiosi a sostenerequest’idea: il livello tecnico ed il mododi eseguire le cose venivano assunti co-me un elemento di giudizio sulla so-cietà. E in quei tempi, per la prima vol-ta, - conclude Calegari - si intravede unsegnale di quella che è l’Europa.Marco Tizzoni, dell’Università degliStudi di Bergamo, ha parlato de La ri-cerca archeo-metallurgica. Esperienze nelBresciano. Lo studioso ha illustrato, conl’ausilio di alcune fotografie e planime-trie, alcune campagne archeologichecondotte nelle Prealpi lombarde, ed inparticolare a Bienno, in Valle Camoni-ca. Qui, infatti, sono stati individuati al-cuni siti metallurgici situati in una con-valle percorsa da un torrente, lungo lavia che dalla miniera conduce verso l’a-bitato del paese.L’inizio del primo scavo è stato eseguitoa cielo aperto, gettando il materiale alato, e a rimonta, ovvero risalendo ver-so l’alto, lasciando il materiale di risultasotto i piedi. Attorno alla miniera sonostati ritrovati dei forni d’arrostimento,piccole strutture di 80 centimetri circadi diametro. Due di essi risalgono all’e-poca longobarda, mentre il terzo a duefasi distinte, l’una tardo antica e l’altradi epoca due-trecentesca. Tutte le datazioni sono state eseguitecol radiocarbonio. Poiché i pratici del-

l’epoca si servivano di utensili in mate-riali deperibili, come legno e cuoio,non sono stati trovati materiali del tem-po, mentre sono stati rinvenuti grossipezzi di ghisa relativi a bassi fuochi edalcune scorie di fucina. Un secondo sito oggetto di scavo risaleinvece all’epoca longobarda, collocatoin un bosco, ben visibile ad occhio nudograzie alla folta vegetazione che vi cre-sce sopra per l’umidità: si tratta di unbassofuoco da cui talvolta usciva dellaghisa, mutato nella forma rispetto aquelli di epoca tardoantica.Infine, sono stati scavati un forno e unafucina quattrocenteschi, località deno-minata dai montanari “il baitello”. An-che qui sono state rinvenute scorie pe-santi, a dimostrazione che anche inquesto sito esisteva un “trampolino”per scaricare le scorie e per martellarneil blumo. Analoghi scavi sono stati con-dotti nel Lecchese, dove sono stati mes-si in luce bassofuochi in argilla, che evi-dentemente venivano distrutti dopoogni campagna di utilizzo.Alla relazione sugli scavi archeologicicondotti in Valle Camonica ha fatto se-guito una ricerca condotta, invece, sul-la base di una fonte iconografica, vale adire uno dei sette arazzi, eseguiti su di-segno di Bernard Van Orley, raffigu-ranti la battaglia di Pavia del 25 feb-braio 1525 combattuta tra le truppe diCarlo V e Francesco I. Giovanni Ceri-no Badone, giovane studioso piemon-tese collaboratore della Fondazione Mi-cheletti, ne ha illustrato contenuti e ca-

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ratteristiche in A ferro e a fuoco. Soldati,tecnologia e guerra agli inizi del XVI secolo.Le fonti iconografiche - sostiene il rela-tore - seppur siano ben note agli storicidell’arte sono fino ad ora state poco in-terrogate per le notizie che possonofornire dal punto di vista delle tattichedi combattimento dell’epoca.L’arazzo è conservato a Napoli, presso ilMuseo Nazionale di Capodimonte, erappresenta nello specifico l’avanzatadell’esercito imperiale e l’attacco dellagendarmeria di Francesco I.Nella primavera del 1531, gli Stati ge-nerali dei Paesi Bassi si ponevano ilproblema di come celebrare l’arrivo diCarlo V a Bruxelles. Si pensò quindi diincaricare un cartonista della rappre-sentazione della Battaglia di Pavia, ov-vero il momento più alto delle fortuneimperiali in Italia, collocabile in quellaserie di interminabili guerre che corresotto il nome di Guerre italiane.I tratti eseguiti a matita e carboncino so-no il frutto di una meticolosa ricercacondotta dallo stesso Van Orley, storicaed archeologica ad un tempo: furono in-fatti interrogati i protagonisti che prese-ro parte alla battaglia e fatti disegnare iluoghi al fine di riprodurre il più filolo-gicamente possibile, come in una cam-pagna fotografica, la realtà del tempo.Gli arazzi sono disposti come una sortadi piani che si sovrappongono l’un l’al-tro. Isolando ciascuno di questi piani cisi accorge come essi raccontino in mo-do molto preciso come si combattevaall’epoca.

Quella di Pavia fu una delle più impor-tanti battaglie d’Età moderna finalizza-te ad aggiudicarsi il controllo dell’areaitaliana: da una parte l’esercito guidatoda Francesco I Re di Francia, dall’altraquello di Carlo d’Asburgo divenuto dal1516 re di Spagna e dal 1519, dopoaver ereditato l’Arciducato d’Austria eDucato di Borgogna, anche Imperato-re del Sacro Romano Impero.Nel terribile scontro furono coinvoltiben 60.000 uomini, per la maggior partemercenari: d’arme, della cavalleria leg-gera, fanti. L’arazzo ci indica molto benecome le armi venissero maneggiate, im-piegate e puntate contro l’avversario.Correvano i tempi in cui la guerra eraconsiderata uno dei principali stru-menti della politica espansionistica deisovrani e la feroce strategia bellica mi-rava all’eliminazione dell’avversarioproducendo stragi inaudite. Fu pro-prio tra il XV e il XVI secolo che - semai ve ne siano state - le caratteristicheumane della guerra andavano via viasmarrendosi: le popolazioni indifeseerano alla mercé degli eserciti nemici, iladri ed i banditi attuavano ulterioriviolenze sui più deboli ed inermi, il po-tere corruttore della guerra andavamutando la sensibilità collettiva e di-struggendo i valori del rispetto umano.In quegli anni si inaugurava una seriedi combattimenti caratterizzati da eser-citi sempre più grandi e da una fre-quenza sempre maggiore. Pertanto, viera la necessità di rifornirsi sempre piùdi armi e di uomini, caratterizzati da

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precise specializzazioni belliche: c’eral’archibugiere, il picchiere, il cavalieree l’artigliere. Entro la metà del XVI se-colo furono ideate, pensate ed in parterealizzate tutte le successive innovazio-ni tecnologiche applicate alle armi chesarebbero comparse via via sino agliinizi del XIX secolo e oltre.Era quindi necessario individuare l’a-rea di produzione delle armi, di cui ilBresciano vanta sicuri primati d’eccel-lenza nella produzione di canne d’ar-chibugi, mentre alcune zone della Ger-mania erano specializzate nella costru-zione delle batterie delle armi da fuoco.Considerando la corsa agli armamentiche si faceva sempre più pressante,quali rapporti intercorrevano dunquetra le maestranze che producevano learmi ed i committenti? Erano questi ul-timi a proporre migliorie? E queste, co-me venivano recepite dai pratici? Questigli interrogativi su cui la ricerca storicadeve fare luce, non soltanto in relazio-ne al XV ed al XVI secolo, ma alla pro-duzione di armamenti durante tutto ilperiodo dell’Ancient Régime.Marco Morin, dell’Università Ca’ Fo-scari Venezia e collaboratore del CDF,non ha potuto presenziare al Conve-gno, ma qui di seguito si riporta il sun-to del contenuto della relazione che hainviato alla Fondazione, dal titolo Aspet-ti della produzione armiera bresciana neidocumenti dell’Archivio di Stato di Venezia.Nell’ambito dell’antica industria side-rurgica che caratterizza la storia dellevalli lombarde, le armi rappresentano

uno dei settori più importanti e, al finedi una corretta ricostruzione di questosettore, le carte dell’Archivio di Stato diVenezia, riferibili al dominio della Se-renissima in terra bresciana, rappre-sentano una fonte assolutamente inso-stituibile.D’altronde, da parte degli studiosi ita-liani non è mai stato compiuto alcunostudio approfondito delle armi daipunti di vista storico, tecnico ed econo-mico; l’imprecisione in materia ha por-tato anche ad errori clamorosi e allanarrazione degli avvenimenti bellicisenza prestare alcuna attenzione per glistrumenti utilizzati.Dal materiale esaminato emerge l’enor-me importanza sempre attribuita dallaSerenissima alla fabbricazione nelle val-li lombarde delle armi bianche, sia of-fensive che difensive, e delle armi dafuoco. Dai documenti emergono anchei dati relativi alla produzione e alle ca-ratteristiche di fabbricazione. Nei pe-riodi di crisi, ricorrenti in concomitan-za con le varie perturbazioni politico-militari, si rileva il blocco delle esporta-zioni e la quasi immediata emigrazionedi gran parte dei maestri.Verso la fine del XV secolo era aumen-tato in modo esponenziale il fabbisognodi armi da fuoco portatili; la particolarenatura del ferro della Val Trompia per-mise di localizzare a Gardone unastraordinaria produzione di canne:un’attività che per secoli non ebbe riva-li al mondo e che rappresenta le anti-che radici su cui s’innesta la moderna

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industria armiera. Tra le famiglie pro-duttrici di canne, sia di ceto nobile cheimprenditoriale, vanno ricordati iRampinelli e gli Acquisti.Le informazioni più preziose relativealla produzione di armi in terra bre-sciana sono state raccolte dallo studiosoin particolare tra le carte delle “delibe-razioni” e dei dispacci delle maggiorimagistrature quali il Senato, il Collegioe il Consiglio dei Dieci. La loro ricercaha comportato uno spoglio meticolosodi registri e filze e la microfilmatura dimigliaia di carte che, quando sarannoriprodotte in forma digitale e non ap-pena sarà completata l’apposita sche-datura, saranno consultabili presso gliarchivi del CDF.

La prima giornata di lavori, che ha per-messo agli studiosi locali un ampio con-

fronto con la ricerca di alto profilo e laconferma delle proprie indagini con-dotte sul territorio e tra gli archivi, si èquindi conclusa con i saluti ed i ringra-ziamenti ai convenuti e con l’appunta-mento alla successiva giornata di lavoropresso il Museo del Forno di Tavernole. Le Sale ed il Locale del Maglio del Mu-seo erano gremiti di visitatori ed i rela-tori sono stati accompagnati dalle gui-de e dagli animatori alla scoperta deisegreti dell’antica foggiatura del ferronel primo, storico quartiere pre-indu-striale della città di Brescia.

1 Ferro e miniere nelle Valli bresciane, “Civiltà Bre-sciana”, 4, 2001.2 G. MARCHESI, Quei laboriosi valligiani, ComunitàMontana di Valle Sabbia, Brescia 2003.

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I lavori dell’intera giornata del 25settembre si sono svolti, come già an-ticipato sopra, presso il Museo delForno Fusorio di Tavernole sul Mel-la, importante realtà a metà stradatra le fucine e le miniere della ValleTrompia e sede storica di uno deipoli di riferimento della Via Euro-pea del Ferro.Se le relazioni illustrate a San Barto-lomeo hanno riguardato gli aspettistorici e di ricerca della vicenda del

ferro in Europa, quelle esposte a Ta-vernole hanno messo a fuoco le viedella conservazione, valorizzazione ecomunicazione dei siti, degli itinera-ri e dei reperti materiali che di talevicenda sono fisica e tangibile testi-monianza.Ospiti della giornata sono stati alcunirelatori stranieri, giunti per l’occasio-ne dalla Gran Bretagna, dalla Ger-mania e dall’Austria, che hanno resopartecipi i relatori italiani, gli opera-

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tori culturali locali e gli appassionatidelle migliori esperienze di valorizza-zione museale condotte in Europa.

Eckhard Bolenz, Vice-direttore delRheinisches Industriemuseum, situatonella North-Rhine-Westphalia (il ter-ritorio tedesco con la più alta con-centrazione di industrie), ne ha de-scritto la nascita e lo sviluppo. Fon-dato nel 1984 a seguito di un impor-tante movimento sociale volto allasensibilizzazione della storia indu-striale locale e alla conservazione deisiti di riferimento, ha aperto il suo

ultimo sito nell’anno 2000. Le retimuseali - sostiene Bolenz - sono lanuova via per la conservazione deimonumenti industriali ed i Museipossono esistere in forma cooperati-va e sistemica, o come percorso vir-tuale in Internet.John Hamshere, dell’Industrial Mu-seums Trust’s Work di Sheffield [d’orain poi SIMT], la “città dell’acciaio”d’oltremanica, ha ricordato come apartire dagli anni Cinquanta il lavo-ro volto a preservare i reperti fisici ead interpretare la grande storia in-dustriale è stato troppo spesso lascia-

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Il Forno Fusorio di Tavernole sul Mella, ritratto in una fotografia ottocentesca (Archivio Museo del Forno)

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to a singoli gruppi o individui appas-sionati, che per anni si sono scontra-ti con l’indifferenza e la ricerca di fi-nanziamenti - spesso rivelatasi in-fruttuosa - presso le autorità locali enazionali. Negli anni Novanta que-sto fenomeno pervenne ad un puntodi crisi, tanto che tutti i Musei indu-striali di Sheffield furono chiusi o, at-traverso fondi molto ridotti, salvatidalla chiusura all’ultimo minuto dal-le autorità locali, non sufficiente-mente attente a preservare questosettore del patrimonio storico rispet-to alla cura rivolta verso i monumen-ti e i Musei d’arte.Quale dunque la strategia vincentedel Nuovo SIMT, nato nel 1994, dicui si annoverano tre siti principali,che ne ha permesso la sopravviven-za? Innanzitutto la sensibilizzazionemessa in atto nei confronti delle clas-si politiche e industriali locali versol’importanza della conservazione evalorizzazione di tale patrimonio everso la definizione di cosa sia unMuseo: un luogo dove non solo èpossibile ammirare le scoperte delpassato, ma anche una realtà che, or-gogliosa del suo passato, dev’essereviva, che possa avere una rilevanzasul presente e sul futuro. Quindi laricerca di risorse addizionali a quelleelargite dagli Enti pubblici, median-te showcase dell’industria locale,creando continuità e legame tra pas-

sato e presente, affinché siano moti-vo d’ispirazione per le generazionifuture a continuare la tradizione delprogresso tecnologico.Lo studioso austriaco GerhardSperl, ideatore della Via Europeadel Ferro (European Iron Trail), che sisnoda dalla Toscana alla Danimarca,fino alla Gran Bretagna e alla Svezia,ha ricordato come già nel 1988, nelsimposio tenutosi a Bienno, per laprima volta era stato presentato unsentiero della cultura del ferro chetoccava alcuni luoghi importanti nelcorso dei tre millenni di storia e disviluppo tecnologico dal bassofuocoall’altoforno. Per duemila anni i re-perti relativi alla siderurgia sono dicarattere archeologico (come a Follo-nica e Piombino), mentre gli ultimicinquecento anni ci hanno traman-dato anche strutture architettonichee da duecento anni, a partire dagliinizi della Rivoluzione industriale,l’altoforno moderno si presenta co-me un monumento del lavoro, capa-ce di coinvolgere notevole capitaleed imprenditori di dimensioni inter-nazionali. La Via Europea del Ferroè accompagnata dalle orme di atti-vità culturali che ci autorizzano achiamare questo sentiero route cultu-relle, secondo la definizione del Con-siglio di Strasburgo, dove si sta pre-parando la nomina di un’istituzioneculturale di dimensioni europee.

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di LICIA GORLANI GARDONI

Si è svolto a Roma dal 17 al 20 novem-bre scorso, presso Villa Aurelia, il IXCongresso della Federazione ItalianaScuole Materne (FISM). Il tema delCongresso era “FISM, trent’anni. Iden-tità e professionalità per una piena pa-rità”. Presidente nazionale della Fism èstato eletto il prof. Redi Sante Di Pol,docente ordinario di Storia dell’educa-zione nell’Università di Torino. Vice-presidente è stato nominato il prof. Ni-cola Iemmola, presidente della FISMSicilia. Giuseppe Totaro, dal 1995 Presi-dente nazionale, è stato acclamato Pre-sidente emerito. Luigi Morgano è statoconfermato all’unanimità SegretarioNazionale per i prossimi quattro anni.

La fondazione dell’ADASM e della FISM

L’ADASM - Associazione degli Asili eScuole Materne - si costituisce ufficial-mente il 23 marzo 1966 presso il notaiodott. Francesco Bonardi. E inizia im-mediatamente, con un’operosa edesemplare presenza, un rilancio dellascuola materna non statale nella Pro-vincia di Brescia. Anche perché Brescia

è città di riferimento, grazie alla tradi-zione del metodo Pasquali-Agazzi, allapresenza del Centro Didattico Nazio-nale per la scuola materna, al ruolo ealle pubblicazioni dell’Editrice LaScuola, a partire dalla rivista “ScuolaMaterna”.Il primo Consiglio Direttivo è così com-posto: Presidente, avv. Alessandro Bini;consiglieri: prof. Gabriele Ferrari, dott.Gian Battista Lanzani, maestra Ga-briella Mazzoli, sig. Carlo Perrucchetti,prof. Angelo Goffi, dott. Mario Bertelli.Assistente Spirituale è padre Rinaldini.Quasi contemporaneamente all’ADA-SM, il 27 marzo 1966, si dà vita all’APA-SM (Associazione per Asili e Scuole Ma-terne), a cui aderiscono le maestre etutti coloro che sono impegnati nell’e-ducazione per il pieno sviluppo dellapersonalità dei bambini dai tre ai cin-que anni. Lo Statuto, all’art. 2, para-grafo a), afferma: “L’associazione sipropone di promuovere, coordinare edisciplinare, nell’ambito della Provin-cia di Brescia, ogni iniziativa che, diret-tamente o indirettamente, possa contri-buire allo sviluppo e al potenziamentodi un insegnamento qualificato nellescuole materne non statali”.

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Il IX Congresso Nazionale FISM 2004-2008

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Le due Associazioni, complementari,intraprendono un percorso per pro-muovere l’effettivo diritto della libertànella scelta educativa da parte dei geni-tori. Si legge nello statuto (Art. 3, pag.33), che tra gli scopi dell’ADASM si ten-de a “[…] valorizzare il contributo datodagli Enti nel campo dell’educazionepre-scolastica e dell’assistenza della fa-miglia […], di organizzare corsi peradulti, genitori e personale addetto allescuole materne”.L’ADASM si impegna per promuoverericerche nelle scuole della provincia eavvia un programma di incentivazioneeducativa tendente a verificare la vali-dità delle strategie educative. Inoltreelabora un piano che prevede un coor-dinamento didattico all’interno dei Di-stretti Scolastici, di “zone didattiche” sucui operi un coordinatore che seguacon regolarità un numero previsto discuole con i Direttori didattici, con glioperatori dell’USSL, con gli Ammini-stratori comunali.Nel frattempo, l’ADASM si va consoli-dando e cresce la consapevolezza diquanto sia importante la funzione dellascuola materna di ispirazione cristiananella Chiesa e nella società.L’esperienza bresciana viene propostaad altre province: gli stessi convegni distudio interregionali - tra la fine deglianni Sessanta e i primi anni Settanta -nati per iniziativa bresciana, diventanooccasioni per prendere coscienza a li-vello pedagogico e amministrativo del-la importanza delle scuole materne di-

stribuite nel territorio e per avviareconcretamente nuove esperienze: l’A-DASM si stanzia a Udine, a Bergamo, aVerona, e con storie particolari a Tren-to e a Bolzano, e poi via via in altre pro-vince.L’impegno dei cattolici e l’acceso dibat-tito a livello nazionale sfocia nel 1968con la legge 444, istitutiva della scuolamaterna statale. Essa prevede il sorgeredelle scuole materne non statali soprat-tutto in quelle sedi in cui esistono dellecondizioni di bisogno, alludendo allezone depresse del paese e alle zone diaccelerata urbanizzazione dove non esi-stono iniziative spontanee di Enti loca-li, di Enti morali, di Istituti religiosi. Ericonosce il principio di sussidiarietà al-la scuola materna di Stato sia in relazio-ne alla famiglia, sia anche in relazioneanche alla scuola materna non statale. La legge 444 stimola l’ADASM di Bre-scia a raggiungere nelle scuole maternenon statali un livello qualitativo possi-bilmente superiore e ad estendere adaltre province la possibilità di usufruiredei contributi messi a disposizione dal-lo Stato.Nasce nel giugno del 1972 il COMIT-ADASM, un Comitato di Coordina-mento che si occupa dei rapporti tra leAssociazioni provinciali e fornisce unservizio tecnico-amministrativo. Con-temporaneamente si costituisce a Bre-scia l’ASS-IADASM (Associazione Ita-liana delle Associazioni degli Asili eScuole Materne), cui aderiscono le As-sociazioni provinciali delle scuole ma-

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terne non statali costituite. Scopi del-l’ASS-IADASM sono: promuovere lacostituzione delle Associazioni dellescuole materne autonome; rappresen-tare le Associazioni federate; curarel’informazione reciproca; favorire il po-tenziamento delle varie Associazioni, epredisporre di appositi servizi informa-tivi, un centro di studi, un servizio disegreteria e corsi per insegnanti e geni-tori.E su questo tema sensibilizza gli organicentrali della Chiesa, i Vescovi e i re-sponsabili delle Diocesi, finché l’annoseguente, nel 1974, nasce la FISM (Fe-derazione Italiana Scuole Materne): es-sa opera su tutto il territorio nazionale,rappresenta tutte le scuole maternenon statali operanti in Italia, fa propri iprincipi contenuti nelle dichiarazionidell’ONU sui diritti dell’infanzia, siuniforma a quelli sanciti dalla Costitu-zione Italiana. L’ASS-IADASM, ormaisuperata, viene sciolta.Il collegamento costante tra ADASM eFISM è legato a non poche personecontestualmente presenti sia a Bresciache a Roma: Gabriele Ferrari, Vicese-gretario Nazionale; Mario Cattaneo,per molti anni componente della Se-greteria Nazionale; Remo Sissa, parteattiva per anni della Segreteria Nazio-nale, Luigi Morgano, responsabile del-la rivista “Prima i Bambini”, inizial-mente Presidente Nazionale e ora Se-gretario Nazionale (con la legale rap-presentanza della Federazione); Marti-no Massoli, Consigliere Nazionale.

Premessa

Il IX Congresso della nostra Federazio-ne ha comportato, in primo luogo, unbilancio del quadriennio trascorso, de-dicato alle consolidate due grandi lineedi impegno: l’ulteriore elevazione dellivello di qualità delle “nostre” scuolesul versante pedagogico, educativo edidattico, nonché su quello gestionale;il compimento di passi concreti sulla viadell’effettiva parità scolastica. Ma nonsolo. Il Congresso è stato chiamato adelineare le prospettive nella realtà sto-rico-culturale-politica che si profila,con l’imperativo di richiamare la cen-tralità dell’alunno, di dare respiro all’e-ducazione e alla scuola, con particolareattenzione, ovviamente, a quella del-l’infanzia; nonché di indicare come af-frontare le sfide che si profilano, conadeguata riflessione, percorsi proget-tuali, operatività. L’appuntamento, pe-raltro, è coinciso con i trent’anni dellaFederazione.Nello svolgersi dei trent’anni la FISM siè imposta quale autorevole interlocu-trice per le iniziative e gli interventi disostegno alle istituzioni scolastiche in-fantili, e di quanti vi operano, nonché

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L’intervento di Luigi Morgano1 al IX Congresso nazionale della FISM

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per la custodia delle dimensioni ideali el’impegno per assicurare un futuro allestesse istituzioni. Nella FISM la qualifi-cazione della competenza professionaledelle insegnanti, delle coordinatrici edel personale ausiliario si appaia con laconsulenza tecnica offerta agli ammini-stratori attraverso supporti. Ancora, raccordo e coordinamento na-zionale sono finalizzati ad un servizioeducativo ancor più puntuale; per l’in-contro di ricchezze diversamente desti-nate all’isolamento e, quindi, all’usura;per la messa a punto di progetti finaliz-zati alla migliore utilizzazione delle com-petenze onde affrontare in modo sem-pre più puntuale problemi educativi,amministrativi, economici, giuridici, po-litici, in un quadro che oggettivamenteè, via via, divenuto più complesso. Lacoscienza delle necessità, il disegno del-l’impresa, la decisione di “partire”trent’anni fa, la volontà di non tornaresui propri passi accomunarono il grup-po dei “fondatori”, che gradualmentehanno passato testimone, passione econvinzioni ad altri, che ora costituisco-no il riferimento della Federazione.Mi pare opportuno ricordare e sottoli-neare che la FISM non nacque contro,o per la difesa dell’esistente: al contra-rio, dalla consapevolezza dell’esigenzadi una arricchente valorizzazione diesperienze che già, da lungo tempo,esistevano, per sostenere una scuoladell’infanzia ben fatta, capace di esseremigliore. Da qui il profilo di progettidall’ampio respiro, di disegni che han-

no inteso suscitare decisioni e gesti rile-vanti, anche eminenti, andando oltre ilcontingente.

1. Lo scenario culturale in cui la FISM, ai vari livelli, e le scuole dell’infanzia aderenti sono chiamate ad operare

È comune connotare il nostro tempoassociandolo all’espressione “postmo-dernità”, senza dubbio di complessa edifficile esplicazione ma portatrice - an-che solo ad un approccio superficiale -di una precisa suggestione.Di un adulto che si definisse “postado-lescente” saremmo portati a intuire cheabbia scarsa consapevolezza della suaidentità attuale, dal momento che laconnota come successiva alla stagioneevolutiva precedente; del postmoder-no, denominato in dipendenza dallamodernità che lo ha preceduto, possia-mo dire qualcosa di analogo: manifestauna tendenziale fatica a focalizzare lapropria identità.Non è casuale che un noto sociologo -Zygmunt Bauman - parli della nostracome di una “società liquida”, enfatiz-zando le conseguenze di questo sull’an-tropologia2. Tutti sappiamo che un li-quido si connota per l’assenza di formapropria dal momento che assume laforma del recipiente che lo contiene.Traslando in ambito antropologicoquesta considerazione, ne ricaviamoche l’identità dell’uomo di oggi (la for-ma nell’immagine del liquido) è sogget-

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ta a continue mutazioni a seconda delcontesto (il contenitore) nel quale vienea trovarsi.Del resto, è diffusa la tendenza a con-notare l’antropologia in forma molte-plice e plurale. L’elaborazione filosoficadi questa condizione culturale porta aparlare di un “pensiero nomade”, inperenne oscillazione tra sponde diver-se, anche a seguito dell’accentuata diffi-coltà a controllare sentimenti ed emo-zioni sequestrati nell’irrazionalità, a ge-stire il confronto tra quello che è reale equello che è fittizio in forza della vir-tualità mediatica… l’incompiutezza -ben focalizzata come categoria antro-pologica per quanto concerne gli ado-lescenti3 - in realtà sembra vieppiù con-notare il vissuto dei giovani che riman-dano - anche perché condizionati dafattori oggettivi - le scelte progettuali(ad esempio, il matrimonio oppure lagenerazione dei figli)4. Le biografieconcrete dei nostri contemporanei atte-stano una pluralità di appartenenzeche sembra tradurre in termini esisten-ziali le coordinate teoriche tracciate dal“pensiero debole”. Non mettiamo indiscussione che queste elaborazioni sia-no mosse dalle migliori intenzioni - iltentativo di offrire un’interpretazioneadeguata alla mutevolezza del tempopresente -, eventualmente con residuipiù o meno accettabili della stessa ispi-razione cristiana5, ma - pensando anzi-tutto come educatori - non possiamonon porci un problema di fondo: comeè possibile guadagnare un’identità si-

gnificativa a partire dall’avallo dellaframmentazione e della discontinuità?Tanto più oggi il quesito s’impone, per-ché il fenomeno migratorio - con leproblematiche multi/interculturali chel’accompagna - solleva l’ineludibile sfi-da del confronto costruttivo tra le iden-tità. Dal punto di vista pedagogico èevidente che l’identità della personaumana non è l’esito di processi automa-tici. L’educazione infatti è evento mora-le e questo perché - come tutti noi sap-piamo - avviene come maturazione in-tenzionale (cioè voluta e praticata al-l’insegna della libertà) che accompagnae integra lo sviluppo psicofisico guidatodalle forze interne della natura. Ma -oltre a questo - va tenuto presente cheanche il confronto tra le identità (nonsolo il loro costituirsi) non avviene al-l’insegna di facili automatismi. Va pre-parato e orientato perché il rischio del-l’intolleranza e della violenza - cometragicamente è stato ormai più volteappurato - è sempre in agguato.Sono ovviamente solo rapidi cenni che,però, mi auguro possano richiamare lagravità della sfida culturale che abbia-mo di fronte: in un tempo nel quale èdifficile costruire l’identità, siamo inter-pellati dall’impegno a favorire l’incon-tro costruttivo tra identità diverse a tut-ti i livelli.

Interculturalità ed educazione

La problematica legata alla multicultu-ralità non è certo caratteristico appan-naggio della sola società contempora-

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nea; nel nostro tempo, tuttavia, il feno-meno presenta caratteri senza dubbiopeculiari e problematici (maggiore dif-fusione, più marcata articolazione di in-treccio etnico, più accentuata sottolinea-tura dell’identità) e si pone in un conte-sto per molti versi inedito (mobilità, glo-balizzazione, omogeneizzazione).Qualche dato può essere opportuno;mi limito al recentissimo Rapporto Ca-ritas 2004. Gli extracomunitari regolarinel nostro Paese sono 2milioni 600mi-la, ovvero sono raddoppiati in quattroanni. Ogni 22 residenti 1 è straniero,pari al 4,5% della popolazione italiana.Il 58,5% ha un’età compresa tra i 19 e i40 anni. I minori sono 400mila. Il 60%circa vive nel Nord, il 30% nel Centro,il resto nel meridione.Circa la loro fede, il 49,5% sono cristia-ni di cui il 22,6% ortodossi; i musulma-ni sono il 33%.250mila sono i figli di extracomunitarinati in Italia. E la dinamica è nota: en-tro i prossimi dieci anni ci sarà un rad-doppio dell’attuale popolazione stra-niera nel nostro Paese.Di fronte a questi elementi oggettivi,come è possibile non accogliere l’invitodella Caritas a muoversi con un nuovopasso?La società moderna, già scossa nell’ulti-mo scorcio del Novecento dalla declina-zione introversa e debole della cosiddet-ta postmodernità, è oggi sottoposta adun fenomeno migratorio di proporzio-ni crescenti. I confini nazionali mostra-no la loro insufficienza di fronte all’in-

cremento esponenziale dei fenomenimigratori; e nello stesso tempo in cui ilconfine si dilata, simmetricamente si ri-trae in risposta all’esigenza di un deter-minato gruppo etnico (glocalizzazione).Tutto ciò mentre si registra un profon-do cambiamento dentro la civiltà occi-dentale. Incertezza personale (vuotometafisico); omogeneizzazione cultura-le (promoteismo tecnocratico); fram-mentazione etica (afasia veritativa); me-scolanza dei costumi (incertezza socio-culturale). Il disagio esistenziale pro-fondo, legato al camminare su sabbiemobili, rimbalza pericolosamente: oimplode nel dissidio interiore, o esplo-de nella protesta sociale. È spesso ilvuoto (e non l’ideale o l’ideologia) a fa-re da catalizzatore con gli esiti che sononelle cronache di ogni giorno: apparte-nenza forte, identificazione cieca, iden-tità contro (negativa, come non-essere,o, più aspramente e rozzamente, comeessere-contro).Ne consegue una situazione di smarri-mento (uguali che si riconoscono, manon si conoscono), di spaesamento(universo popolato di insegne e segna-li, ma anche vuoto di simboli), di svuo-tamento (universo ricco di mezzi, mapovero di fini). E una crescente omoge-neizzazione culturale, con i suoi carat-teri di mono-tipia e a-topia: la vitaframmentata tende ad essere vissutaepisodicamente, in una serie di eventiprivi di connessione. L’insicurezza fa sìche l’essere si divida in frammenti e lavita in episodi.

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Questo intreccio di problemi che ho so-lo rapsodicamente evocato, interroga lanostra coscienza di cattolici: che cosacomporta la nostra fede di fronte a unapresenza culturale e religiosa moltepli-ce? Come conciliare il comandamentodell’amore senza misure e senza esclu-sioni con l’esigenza di salvaguardare edesprimere compiutamente la convinzio-ne nella fede cristiana? Ovvero cometrovare il filo che garantisce la continuitàdel processo della tradizione della fedeall’interno del mutamento culturale checaratterizza il nostro tempo? Non quin-di una resa alla frammentazione anchenell’ambito dell’esperienza religiosa, mala consapevolezza che questa è piena-mente umana se è anche esperienza so-cialmente condivisa, storicamente rile-vante, inserita nella vicenda dei popoli.

Certamente la tematica dell’intercultu-ralità richiederebbe la condivisone dialcune nozioni o contenuti preliminari:

� Come - attraverso la cultura - l’uomovive la sua universalità (l’uomo asso-miglia a tutti gli uomini), le sue parti-colarità (l’uomo assomiglia solo ad al-cuni), la sua unicità irrepetibile (l’uo-mo non assomiglia a nessuno)?

� Dove l’uomo si “in cultura” (famiglia,gruppi umani con i quali entra in re-lazione, territorio in cui vive, percor-si educativi, influenze ambientali)?

� Come si deve intendere la relazione eil dialogo tra le culture (il significatodella preposizione “inter”): relazioneunicamente mediata dall’uomo?

� Quali gli ostacoli, i limiti, le condizio-ni del dialogo (soggettivi e oggettivi)?

� Quale l’approccio interculturale sulpiano dell’insegnamento religioso?

� Come praticare l’educazione inter-culturale (attraverso quali saperi datrasmettere e attraverso quali capa-cità e attitudini da far acquisire)?

2. La sfida pedagogica

La tradizione educativa a cui ci rifaccia-mo - il personalismo pedagogico - datempo ha riconosciuto nella relazione iltratto caratteristico della persona uma-na, su cui fare leva per portare alla con-quista dell’identità propria e alla capa-cità di confronto tra identità diverse.Non è casuale che - dopo essere stataintrodotta dal cristianesimo e aver va-riamente fecondato il terreno della cul-tura anzitutto occidentale - l’idea dipersona abbia ispirato un movimentoculturale chiaramente connotato (ben-ché assai vario6) nella prima metà delNovecento, quando totalitarismi di va-ria tendenza - anche conflittuale - era-no però concordi nell’erigere artificio-se barriere culturali, protese a isolare econtrapporre ideologicamente gli uo-mini fino a farli percepire reciproca-mente come estranei, privi di qualun-que affinità. Qualcosa di analogo sta ac-cadendo oggi quando l’odio ispiratodall’appartenenza etnica oppure cultu-rale oppure religiosa porta a sfigurareil volto dell’ “altro”, facendolo apparire

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solo come il nemico e non come il fra-tello. In questo scenario la fede cristia-na ispira un atteggiamento di sollecitu-dine caritatevole, orienta a riconoscerela persona come soggetto di diritti ina-lienabili e bene fondamentale e origi-nario perché direttamente in relazionecon Dio7: questo deve guidare a vincerela sfida della conoscenza nella relazio-ne, dell’incontro reciproco, del mutuoriconoscimento.Ma questo postula che ci sia identitàmatura. Solo colui che sa chi è può in-contrare l’altro senza subire il ricattodella paura. Certamente, l’incontronon è garantito, ma questa è la condi-zione previa perché possa avvenire. Ilnostro tesoro è la nostra tradizione, dacui trae origine e a cui continuamentesi alimenta la nostra identità: la novità -contributo essenziale alla vita - non vaassunta ideologicamente cioè dissocian-dola dalla tradizione, opponendola aquanto - precedendola - l’ha generata;il nostro impegno è volto nella direzio-ne di aggiornare, cioè riattualizzare,un’ispirazione radicata (dal momentoche scaturisce dalla nostra fede) che sadire parole adatte al tempo presentecome ha saputo dirle adatte al tempoche ci ha preceduto.

* * *Ripercorrere le molte sfide che si sonopresentate e sono state raccolte in que-sti trent’anni, è il modo migliore per in-trodurci nel nostro futuro. Ne richia-mo brevemente alcune.

a) Parto dal riconoscimento della va-lenza pedagogica dell’ispirazione cri-stiana non perché in Italia abbiamosubito - come altrove è tragicamenteavvenuto - limitazioni, ma perché èstata talvolta aspra nel nostro Paesela polemica in merito al nesso tra cri-stianesimo e identità nazionale. Undecennio dopo la costituzione dellaFISM (18 febbraio 1984, L. n.121/1985) la firma del nuovo concor-dato tra Italia e Santa Sede ricono-sceva esplicitamente che il cristiane-simo è parte sostanziale della culturaitaliana, aprendo alla ridefinizionedella presenza dell’insegnamento re-ligioso nella scuola pubblica. Nonentro nel merito del percorso svoltonegli anni seguenti, ma ricordo sola-mente che il 23 ottobre 2003 S.E. ilCard. Camillo Ruini ed il MinistroLetizia Moratti hanno sottoscritto gli“Obiettivi specifici di apprendimen-to per l’insegnamento della religionecattolica” della scuola dell’infanzia edella scuola primaria nell’ottica dellariforma introdotta con la Legge n.53/2003. Riteniamo essenziale l’inse-gnamento religioso perché la fedecristiana - come negli ultimi anni èstato ampiamente confermato dalProgetto Culturale promosso dallaCEI - è anche fermento di cultura ol-tre che espressione religiosa. Del re-sto questa medesima convinzione haguidato coloro che - nelle epoche enelle circostanze più diverse - hannofondato scuole cattoliche o di ispira-

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zione cristiana, quasi volendo dimo-strare sul campo che fede e culturanon sono in antitesi ma s’integrano efecondano reciprocamente.

b) L’anno in cui è nata la nostra Federa-zione - il 1974 - è anche quello dellapromulgazione dei Decreti Delegati(concernenti gli organi collegiali, lafunzione docente ecc.). La FISM èstata subito partecipe della svolta chepromuoveva la partecipazione deigenitori alla vita della scuola. Del re-sto le scuole che aderiscono alla Fe-derazione sono tutte - direttamenteo indirettamente - espressione dellavolontà delle famiglie di predispor-re, per i propri figli, un ambienteformativo coerente con i principimorali professati. Il rapporto con lefamiglie per la Federazione è ele-mento qualificante. Per questa ragio-ne abbiamo messo a punto un “Pro-getto genitori”, volto a favorire lacrescita armonica ed equilibrata delbambino, per la quale è essenziale lacoerenza tra le varie realtà formati-ve, a partire - appunto - dalla fami-glia e dalla scuola. Guardiamo confavore alla progressiva messa a fuocodella “partecipazione” della famiglianella scuola come “cooperazione” trafamiglia e scuola (questa sembra es-sere una delle direttrici soggiacentialla revisione degli organi collegialiattualmente in gestazione): le nostrescuole sono nate e cresciute nel se-gno della corresponsabilità.

c) A conferma di quanto ho appenaesposto, l’autonomia che ha caratte-rizzato le scuole della FISM come,più in generale, le scuole cattoliche.Tutti siamo a conoscenza dei costiche questo ha comportato, ma sap-piamo anche che la nostra scuola ènata e si è sempre concepita come“scuola della comunità” e come“scuola dal profilo comunitario”8. Equesto ancor più a seguito della ca-pillare diffusione sul territorio dellanostra scuola dell’infanzia, anche incomunità piccole e isolate. L’introdu-zione nell’ordinamento scolasticodella Legge n. 59/1997 ha - in uncerto senso - esteso a tutte le scuolel’idea di essere anzitutto “scuola del-la comunità” e non “periferia di unsistema burocratico centralizzato”:auspichiamo che questa coraggiosainnovazione sia completata - nei fatti- attraverso una piena parità, dotan-do la Legge 62/2000, peraltro ap-prezzabile e apprezzata per l’esplici-ta affermazione che il “sistema nazio-nale di istruzione […] è costituitodalle scuole statali e dalle scuole pari-tarie private” (art. 1), di adeguate ri-sorse economiche, certe nelle dispo-nibilità e nei tempi di erogazione.

d) Docenti e dirigenti costituiscono larisorsa fondamentale della scuolaovviamente non perché gli altri atto-ri valgano meno ma in considerazio-ne del fatto che sono presenti nellascuola in forma permanente. La FI-SM ha sempre portato la massima

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attenzione alla formazione in servi-zio. In questi trent’anni abbiamo as-sistito alla graduale riduzione delpersonale religioso nelle nostrescuole e a questo è corrisposto un ri-levantissimo incremento del perso-nale laico. Un investimento fonda-mentale è stato la preparazione dellenuove leve di insegnanti allo scopodi garantire la continuità ideale ne-gli istituti che vedevano venir menola presenza religiosa: è stato svoltoun lavoro apprezzabile che ha ga-rantito la continuità pur nel cospi-cuo (talvolta drastico) cambiamento.Restando sempre sul terreno dellaformazione, la FISM conferma lacondivisione dell’attivazione - a par-tire dall’anno accademico 1998/1999- dei Corsi di laurea in Scienze dellaformazione primaria, che assicuranouna preparazione universitaria an-che alle insegnanti di scuola mater-na: questo significa riconoscere neifatti il principio della “pari dignità”della formazione di tutti i docenti af-fermato dall’art. 5 della Legge53/2003, che riforma il “sistema edu-cativo di istruzione e formazione”.

e) E siamo così alla riforma scolastica,entrata a regime quest’anno per lascuola primaria e per il primo annodella secondaria inferiore. Il tren-tennio che abbiamo alle spalle è statocontinuamente segnato dal dibattitoin merito alla riforma del sistemascolastico. La posizione della FISM èstata sempre coerentemente chiara:

ci siamo opposti alla prospettiva diprecocizzare l’educazione infantilesia perché abbiamo ritenuto che fos-se dannoso al bambino anticiparel’acquisizione di competenze comu-nemente associate alla frequentazio-ne della prima classe elementare (og-gi primaria), sia perché abbiamo av-vertito il rischio di ricacciare la scuo-la dell’infanzia nell’ambito dell’assi-stenza, in evidente contraddizionecon quanto avvenuto a partire daiprimi decenni del Novecento.

f) Il presente è segnato dalla sfida dellaqualità che, rispondendo a ricono-sciute esigenze di funzionalità del si-stema, è stata raccolta anche dallascuola cattolica e dalle scuole aderen-ti alla FISM. Il tema è stato fatto og-getto di studio dalla FISM e ha com-portato un articolato progetto di cuiè stata offerta pubblica documenta-zione9.

Il progetto educativo: formare integralmentela persona

La centralità della persona è il baricen-tro della nostra prospettiva pedagogi-ca, tanto più oggi. Il bambino è la per-sona concreta che abbiamo di fronte.In lui riconosciamo una fondamentalevocazione: quella alla libertà. Ecco allo-ra una prima considerazione: il bambi-no che frequenta le nostre scuole ci in-terpella a scorgere l’uomo e la donnache è avviato a diventare nella libertà.Forse nessun concetto oggi è più equi-voco di questo, dal momento che “li-

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bertà” è sinonimo puramente e sempli-cemente di scelta, senza mettere inchiaro che la scelta umana è innervatadi responsabilità e orientata in formaprogettuale, quindi non ha nulla a chefare con il puro e semplice arbitrio, conil passivo assoggettamento alle volizio-ni, con la cieca accondiscendenza neiconfronti dell’egoismo istintivo. Ma, difronte a questa sfida, non siamo privi dipunti di riferimento. La FISM ha promosso, in questitrent’anni, un’intensa azione a vari li-velli che parte dal primato dell’educa-zione, proprio per la correlazione stret-tissima che esiste tra l’educazione e leistituzioni che la veicolano. Infatti, se ècrescente l’influenza della realtà del-l’extrascuola (media compresi), restanofondamentali, per la crescita del bambi-no, il ruolo e la funzione esercitati dallafamiglia e dalla scuola. Ancora, nell’educazione del bambinol’esperienza della scuola dell’infanziaassume un significato particolare inordine all’interiorizzazione di valori,all’orientamento di vita, alla formazio-ne della coscienza, oltre che all’am-pliamento degli orizzonti culturali edallo sviluppo di abilità e di competen-ze. Pertanto, come più volte ricordato,volendo fare un altro cenno al temadella parità scolastica, se è vero che iltema si colloca all’interno di un discor-so generale di riconoscimento di li-bertà civili e di giustizia sociale, è an-che vero che si assume inderogabilivalenze educative.

3. La prospettiva di lavoro

La coincidenza tra Congresso etrent’anni della fondazione, pur aven-do fatto solo brevissima memoria dellanostra storia, intende rendere grazie aciascuno di coloro che, in tempi diversi,hanno contributo, ai vari livelli, a soste-nere l’esperienza delle scuole dell’in-fanzia cattoliche e d’ispirazione cristia-na, consentendo loro di continuare avivere, crescere, fiorire.Quale la prospettiva di lavoro che ci at-tende? Offrire risposta, in termini pre-cisi, alla serie di interrogativi che le tra-sformazioni che investono anche ilmondo della scuola dell’infanzia stannosollevando da tempo. Vale a dire: qualiscuole FISM immaginiamo per il pros-simo futuro? Quali i programmi e le li-nee di azione? Quale apporto siamo ingrado di potere e di volere, nella nostraautonomia e con il nostro senso di re-sponsabilità, costruire?Porsi precisi quesiti, cercare di dare ri-sposta alle domande, non conformarcipassivamente ai crescenti processi diomologazione, anche nella scuola; rap-presenta il modo per alzare lo sguardooltre le contingenze dei mutamenti purrilevanti in corso. Ineludibile, del resto,è la domanda: “Stiamo lavorando nelpredefinire e cominciare a realizzarequelli che saranno i lineamenti e i ca-ratteri futuri delle scuole dell’infanziaaderenti alla FISM?”.So di dire una cosa assai impegnativa -ma dobbiamo tenere il futuro della FI-

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SM e delle scuole aderenti, per quantoumanamente possibile, nelle nostremani, immaginandolo, preparandolo ecostruendolo sin da ora. Non c’è, infat-ti, miopia più pericolosa, anche per leassociazioni, di quella di aspettare il do-mani pensando che altro non riusciràad essere se non la replica di ciò che si

è realizzato e di ciò che si è nel presen-te. Nel prossimo decennio la FISM saràancora rilevante non solo e non soltan-to perché lo è già ora; ma se da adesso,come ha fatto in passato, si attrezza asaper corrispondere a quanto le sarà ri-chiesto, in una visione progettualeprofonda, condivisa, unitaria.

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1 Luigi Morgano è Direttore della Sede brescianadell’Università Cattolica ed è Vice Sindaco dellacittà di Brescia. Per oltre vent’anni ha operato co-me dirigente presso La Scuola S.p.A. di Brescia,con l’incarico di Direttore delle relazioni esterne,della programmazione riviste, cultura e varia. Èautore di testi, di saggi e articoli su tematiche pe-dagogiche, psicologiche, istituzionali. È stato Pre-sidente Nazionale della FISM dal 1992 al 1995 edallo stesso anno è Segretario Nazionale.2 Cfr. Z. BAUMAN, Una nuova condizione umana,Vita e pensiero, Milano 2003.3 Cfr. COSPES, L’età incompiuta, LDC, Torino 1995.4 Cfr. C. BUZZI, A. CAVALLI, A. DE LILLO (a cura di),Giovani del nuovo secolo, Il Mulino, Bologna 2002.5 Cfr. il dialogo tra G. VATTIMO e P. SEQUERI mo-derato da G. RUGGERI in Interrogazioni sul cristia-

nesimo, Ed. Lavoro-Esperienze, Roma-Fossano2000 e, più recentemente, R. OTTONE, Ontologiadebole e caritas nel pensiero di Gianni Vattimo, in“Scuola cattolica”, n. 132/2004, pp. 171-203.6 In proposito, merita segnalare la recente faticadi P. VIOTTO, Jacques Maritain. Dizionario delleopere, Città Nuova, Roma 2003, che introducenell’autore che più d’ogni altro ha influito sulpersonalismo italiano.7 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, “Pacem in terris”: un im-pegno permanente (2002), nn. 4-5.8 Cfr., da ultimo, il documento della CONGREGA-ZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, La scuola catto-lica alle soglie del terzo millennio (1997), nn. 18-20.9 Cfr. FEDERAZIONE ITALIANA SCUOLE MATERNE,La qualità nelle scuole materne FISM. Progetto, pro-mozione, verifica, FISM, Roma 2002.

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di PIETRO SEGALA

Mi pare già di scorgere il sorriso diqualche lettore, alla vista di un titoloche postula la nostra vita in museo.Nessuno, infatti, si sente abitante di unmuseo: e non solo perché nel nostro in-dirizzo non c’è alcun accenno alla mu-sealità dei luoghi che abitiamo. Eppure ci sarà pur qualche ragione seancora nessuno ha ritenuto di doversmentire Antonio Paolucci che, più didieci anni fa, appena conclusa la suaesperienza di Ministro dei Beni Cultu-rali, ritenne di scrivere un libro dal ti-tolo Museo Italia1. Se, infatti, non si as-solutizza la concezione classica di mu-seo (che è “luogo architettonico dove siallogano le opere d’arte per essere go-dute per se stesse”2), ma si accoglie larealtà dei moltissimi luoghi (e deglispazi che li costituiscono) nei quali, in-sieme a opere d’arte sempre significati-ve della storia e della cultura di quelluogo, sono presenti oggetti e materialidi non scarsa valenza storica, allora po-trebbe diventare meno ostico per tutticonsiderare che anche i territori deinostri Comuni siano “musei”. E non so-lo “musei diffusi”3. Soprattutto: “museivissuti”.

Diffondere la coscienza della intrinsecamusealità dei paesaggi umanizzati

Eppure, quanti di noi avvertono le va-lenze dei segni d’arte e di storia e dicultura in mezzo ai quali camminiamoe dai quali - pur inconsciamente - ab-biamo tratto (e continuiamo a trarre)modi di vedere e di pensare, atteggia-menti linguistici ed etici?È proprio questa incoscienza delle for-me e dei fattori dei nostri ordinari luo-ghi di vita a farci distratti e inavvertitidella realtà storica e culturale nellaquale siamo nati e con la quale convi-viamo. Se così non fosse sarebbero piùdiffuse e più appetite le documentazio-ni dei segni di storia e d’arte dei luoghidella nostra vita quotidiana. Se così nonfosse, sarebbero più puntuali e più effi-caci le segnalazioni che richiamano lepresenze storiche che qualificano i ter-ritori dei nostri Comuni. Se così nonfosse, sarebbero state più significative equalificate le reazioni agli sviluppi edili-zi, che hanno potuto cancellare impor-tanti segni di storia solo perché presen-ti alla coscienza e alla sensibilità di po-che persone, quasi sempre consideratemarginali, benché talvolta riverite. Se

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Come vivere i musei che abitiamo? Appunti sporadici

per quale riflessione fuori moda

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così non fosse, sarebbe diventato evi-dente per tutti che, spesso, la propostadi musealizzare reperti storici e artisticiper giustificarne la salvaguardia, pote-va essere anche alibi per rendere accet-tabili scelte stravolgenti e incoerenticon la storia dei territori dei quali queireparti erano fattori qualificanti. Se co-sì non fosse, sarebbe più evidente a tut-ti, inoltre, che, fuori dal loro contestoterritoriale, quei reperti risultano de-privati del loro status storico-culturale.Tra gli esiti di questa forzata musealiz-zazione, peraltro, c’è anche la rimozio-ne del valore dei contesti ambientali eculturali che consentono di meglio ca-pire il significato di un oggetto e dellasua storia. È come se di un romanzo siriferisse una frase (o una parola) senzaesplicitare il contesto del quale è parte.Non solo in letteratura, peraltro, ognitesto si capisce e si riferisce meglio ecompiutamente proprio nel contestodel quale è parte. Invece, ogni intervento di modificazio-ne di un territorio viene compiuto co-me se fosse autonomo e solitario, quin-di: quasi estraneo allo spazio nel qualeviene collocato. Infatti, pare quasi maiconsiderato che ogni intervento: modi-fica le forme del territorio, condizionail modo di rapportarsi ad esse e imponeun paesaggio non necessariamente mi-gliore di quello preesistente4. Fare“museo” un territorio, peraltro, non necomporta l’imbalsamazione. Semmai,impone cultura che sa sviluppare atten-zione al contesto dei segni di storia e

d’arte che di quel peculiare territoriohanno determinato le forme e i modi diessere. Comporta cultura che sa pro-gettare per nuove condizioni di vita chenon distruggano i segni della vitalitàpassata. Antica vitalità che, quasi sem-pre, è ancora influente nei modi di faree di dire delle persone che lì continua-no a vivere.Ma, in questo tempo di consumi e dispettacolo, cosa comporta vivere quale“museo” il territorio dei nostri Comu-ni?Anzitutto, cominciare a pensare che“museo” non è sempre e soltanto luogochiuso, mentre è sicuramente “spazioqualificato dai segni storici della creati-vità umana” (spazio che, proprio inomaggio alle antiche protettrici dellacreatività - le Muse, per l’appunto - sipuò chiamare “museo”). Allora il primoorientamento potrebbe essere proprioquello di far procedere con creativitàl’allestimento del museo che abbiamoricevuto in eredità, perché possiamotrasmetterlo alle future generazionisenza privarle dei valori prodotti graziealla creatività degli allestimenti svoltiprima di noi. I territori che abitiamoesistono da prima che esistessimo noi econtinueranno ad esistere anche dopodi noi. Il problema, quindi, è la qualitàdei nostri allestimenti in rapporto congli allestimenti già prodotti da secoli.Si pone, qui, il problema del rapportotra antico e nuovo nella struttura mu-seale dei nostri territori. Che non sonoagglomerati amorfi e informi. Sono

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realtà cresciute con la storia e fattesi sto-ria esse stesse. Per questo è corretto ecompiuto parlare di “territori storici”,come da decenni andiamo parlando di“centri storici”. Con l’auspicio, peraltro,che nei “territori storici” non producia-mo soltanto allestimenti troppo analo-ghi a quelli, spesso stravolgenti, che ab-biamo prodotto per il cosiddetto risana-mento dei “centri storici”. Prospettivache potrà essere meglio conseguita se -assieme alle valenze degli antichi edificiaffrescati e ricchi di storia5 - tutti saremoaperti a comprendere il valore delle an-tiche rogge, degli antichi percorsi, delleantiche cascine, degli antichi opifici, de-gli antichi strumenti di lavoro, delle an-tiche forme della coltivazione contadi-na, e faremo in modo che questa com-plessa realtà possa continuare ad averevita con noi, senza che alcunché vengaghettizzato in alcun modo.

La pazienza e la fatica della quotidianità può incrementarenuova creatività

Processo non facile, certo. Ma possibile.Soprattutto se sapessimo ridimensiona-re la cultura dello spettacolo per privile-giare la cultura della quotidiana coltiva-zione delle risorse di cultura. Ma, ancheper quanti davvero volessero privilegia-re la cultura (e la pratica) delle “grandimostre” e dei “grandi eventi”, potrebbeessere conveniente guardare con mag-giore attenzione all’enorme esposizione

museale nella quale e con la quale tutticonviviamo. Purtroppo, la “valorizza-zione museale” dei territori storici è ar-gomento poco considerato6. Sia daglistorici dell’arte, sia dagli urbanisti (no-nostante l’accrescersi dell’attenzioneper la “qualità del vivere”7), sia dai pub-blici amministratori (che - tanto in am-bito locale quanto in quello nazionale oeuropeo - pare siano sempre più orien-tati a considerare la cultura ambito dispesa e non di investimento). Nono-stante l’invadenza di simili orientamen-ti, tuttavia, potrebbe non essere inutilecominciare a prendere atto che i territo-ri storici del Museo Italia (quindi, anchedi ogni Comune bresciano) sono risorsache merita salvaguardia da program-mare e svolgere mediante sempre piùpertinenti riflessioni sulla “cultura deiterritori storici”, oltre che sulla “culturadelle valenze storiche di ogni paesaggioumanizzato”.La cultura - come è noto a chi ne fa mo-do e processo di vita - si sostanzia di la-voro continuo e defatigante. Lavoro efatica caratterizzati da fatti ordinari econtinuativi. Quasi mai da eventistraordinari. Anche se straordinaria èl’influenza che ogni atto culturale puòindurre sulla realtà. Influenza tantopiù eccezionale, talvolta, quanto più in-significante appare il suo rilievo imme-diato. Per questo potrebbe essere pro-duttivo pensare (e programmare) “pic-coli eventi” diffusi che assegnino signi-ficato alle risorse di cultura dei territoristorici. Piccoli eventi non necessaria-

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mente in contrasto con i “grandi even-ti” delle “grandi mostre” (che, peraltro,prima di essere operazioni culturali, so-no soprattutto prestigiose operazionituristiche), bensì proprio per richiama-re l’ordinarietà e la continuità dei pro-cessi di produzione culturale che dan-no senso alla vita di ogni giorno.Proporsi l’obiettivo della riscoperta edella permanente (e continuativa) valo-rizzazione culturale dell’intrinseca mu-sealità dei territori storci, potrebbecomportare anche la riconsiderazionecritica (quindi, non moralistica) diquanto è stato fatto nei decenni dellosviluppo industriale e di quanto sareb-be opportuno fare in questi anni di dif-fusione dei sistemi di servizi, tra i qualihanno rilievo ed efficacia (anche econo-mica) i più svariati processi culturali.Sia pure con non poche difficoltà e di-spersioni, l’analisi critica dell’urbanisti-ca cresciuta in questi anni in Italia - purnell’ignoranza della (qui già citata) “in-trinseca musealità” dei suoi territori -sembra maturare qualche più congruariflessione. Non altrettanto attenta, in-vece, pare la coscienza per il nuovo chesi vorrebbe far crescere anche con il“riuso” di quanto (antico e recente) èstato abbandonato (“dismesso”, si diceoggi) per il modificarsi dei sistemi di vi-ta e, con essi, dei modi e degli ambiti diproduzione. Infatti, insieme con la co-struzione del nuovo, si sviluppa la tra-sformazione (anzi, più frequentemen-te, la distruzione) dell’antico. A questoproposito, basta guardare una qualsiasi

Tavoletta dell’IGM (in scala 1:25000)degli Anni ’30 del Secolo scorso e con-frontarla con una che rappresenti larealtà del medesimo territorio cin-quanta o sessanta anni dopo. Ci sonoaree nelle quali neppure le curve di li-vello sono ancora omologhe. Ma le Ta-volette IGM, pur così preziose per leg-gere il territorio (anche se, oggi, hannodelle valide concorrenti nelle aerofoto-grafie) non consentono di vedere laqualità dei materiali costitutivi di quan-to è stato attuato per le radicali trasfor-mazioni nelle quali siamo così immersi,che quasi non ne avvertiamo l’entità ela diffusione. E la qualità dei nuovi ma-teriali da costruzione ha condizionatole forme del costruito. Con la conse-guenza della radicale difformità tra an-tico e nuovo. Difformità che nega (o al-meno modifica) il valore dei segni distoria e d’arte che hanno fin qui qualifi-cato i nostri paesaggi e i territori che licostituiscono. E, contestualmente, han-no modificato modi e criteri di vita.Modi e criteri che, oggi, diventano an-cora più problematici per i nuovi inse-diamenti di persone e gruppi portatoridi altre culture e di altre concezionidella vita.Se tutto questo è fondato, allora qual-che nuovo atteggiamento va maturatoper l’uso dei territori storici e per la co-struzione dei paesaggi umanizzati. Eperché non pensare che qualche coe-rente novità non possa venire propriodalla coscienza dell’intrinseca musea-lità dei territori dei nostri Comuni?

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Allora porre il primato della tutela nonsarebbe limitare le espressioni creative,ma orientarle a processi non distruttivi.Con la conseguenza che già la manu-tenzione di quanto dà valore ai territoristorici potrebbe farsi creativa non menodella nuova costruzione. Purché la crea-tività estetica si coniughi con la creati-vità scientifica e questa orienti nuovacreatività operativa. Allora diverrebbemeno incongruo il richiamo all’urgenzadi nuova ricerca scientifica8 che rivaluti iproblemi della compatibilità dei mate-riali e della ripresa delle antiche tecni-che esecutive. Allo stesso modo, si fareb-be ordinaria la progettazione che valo-rizza gli equilibri ambientali (a comin-ciare da quelli microclimatici) e non so-lo le dissonanze cromatiche, termiche eluministiche. In questa prospettiva - al-meno se l’obiettivo fosse conseguire lastabilità microclimatica senza manomet-tere la materialità delle opere (soprat-tutto se storiche) e delle loro strutture -il trattamento del nuovo potrebbe favo-rire processi congrui anche al tratta-mento dell’antico e viceversa: si pensialle forme di riscaldamento, di illumi-nazione, di coibentazione.

Dal restauro del singolo bene alla contestuale protezione dell’interodel patrimonio storico dai fattori di degrado

Peraltro, a ben vedere, si tratta9 dell’i-dea posta, nel 1973, alla base del pro-

getto formulato per la prima volta daGiovanni Urbani10 - nella sua qualità didirettore dell’Istituto Centrale del Re-stauro - il quale, proprio nella presen-tazione del PIANO PILOTA PER LA CONSER-VAZIONE PROGRAMMATA DEI BENI CULTU-RALI IN UMBRIA, ribadì che la prioritàdella conservazione non sta nel restau-ro, bensì “nel controllo delle cause deifattori di degrado al fine di attivare iprocessi funzionali a poter rallentarequanto più possibile la velocità dei pro-cessi di deterioramento prodotti suisingoli materiali di storia e d’arte neidiversi ambienti di collocazione”. Ed èproprio nella logica del controllo deifattori di degrado del proprio patrimo-nio storico che, come ho già cercato dievidenziare, “ogni Comune dovrebbesaper cominciare a costruirsi funzioni eattivare strategie che sostengano e faci-litino l’operatività delle scelte attuatedagli organi periferici dello Stato perdare concretezza ai loro compiti di tu-tela”. È ovvio, quindi, che tali funzionie strategie vengano costruite e attivatein stretta collaborazione proprio con glistessi organi di tutela dello Stato. Aven-do sempre presente, peraltro, che la tu-tela dei singoli beni non è separabiledalla tutela dei dati storici che qualifica-no tutti i territori umanizzati dei nostriComuni e che li fanno Musei vissuti.In tale prospettiva, i nostri paesaggi sonoi soggetti del nostro operare conservati-vo mediante la protezione dei loro fatto-ri storici. Protezione che non significaimbalsamazione dell’esistente, bensì ca-

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pacità di far procedere l’allestimentomuseale dei nostri territori coerente-mente con la loro storia. Storia, come giàdetto, che costituisce un inestimabile ac-crescimento dei valori di cultura disponi-bili per la “qualità della vita” di tutti.Se un tale approccio ai problemi delladurabilità del patrimonio storico diven-tasse ordinario, potrebbe diventare me-no controversa (e, forse, meglio medita-ta) anche la contestuale considerazionedei processi di conservazione dell’anticoe di progettazione del nuovo. Entrambii processi, infatti, sarebbero consideratiparte integrante della pianificazioneterritoriale. Con la conseguenza cheogni nuovo inserimento edilizio (anchedi infrastrutture) non potrebbe esserepensato che nel contesto dell’antico: che,anzitutto, è contesto di spazi, di volumi e dimateriali, come è sempre stato nel corso deisecoli, almeno fino all’invenzione di ma-teriali edili non coerenti con gli antichi.Certo, il primo compito della pianifica-zione territoriale, in questa prospettiva,diventerebbe quello di “ridare funzionesenza manomissione” ai segni di storiache la storia ha reso obsoleti e che il di-suso - o il recente maluso - ha reso pre-cari e ingombranti.

La rivalutazione dell’antica manutenzione

Una tale nuova prospettiva, peraltro,meriterebbe di essere meglio guardataanche in riferimento all’accrescersi del-

le competenze delle Province. Le quali,come è noto, si trovano delegate ad av-viare anche processi culturali semprepiù complessi, quali saranno - dopo iSistemi Bibliotecari e i Sistemi Museali -quelli dei Sistemi Culturali Integrati.Realtà, questa, che impone di conside-rare attentamente, assieme alle condi-zioni e ai bisogni dei singoli servizi (so-prattutto prevedendo le potenzialitàche questi potrebbero darsi con perti-nenti e articolate forme associative), an-che i bisogni e le potenzialità del patri-monio storico del quale sono parte e te-stimonianza: musei, biblioteche, archi-vi, mediateche, spazi per il teatro e perla vita comunitaria.Pare opportuno evidenziare che, anchea Brescia, è urgente la rivalutazione del-la valenza culturale della già richiamataipotesi che postula l’accoglimento ope-rativo delle potenzialità dell’intrinsecamusealità dei territori storici. Accoglimentoche, sia consentita la ripetizione, inducead accostare ogni paesaggio umanizzatoquale “museo”: anzi quale “Museo vis-suto” da quanti vi risiedono, vi lavoranoo lo visitano. Letto con tali riferimenti(e, per esemplificare, considerando lasola realtà dei musei presenti in provin-cia di Brescia), il rapporto con il territo-rio può assumere valenze e significatiche accrescono il valore e le funzioni deisingoli musei anche fuori dagli edificiche li contengono. Realtà, questa, che -come rende accetta la dizione “MuseoItalia” - rafforza anche il valore della di-zione “Museo Brescia”.

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Purtroppo, sono ancora pochi ad av-vertire che, tra i più impellenti bisognidel patrimonio del Museo Brescia, c’èl’urgenza di adeguati e pertinenti siste-mi di ordinaria manutenzione di tuttigli elementi che lo costituiscono. Ur-genza che è ancor più motivata oggi,dal momento che finalmente - dopo leproposte elaborate dall’Istituto Centra-le del Restauro e accolte nel testo del-l’Accordo Stato-Regioni stipulato il 12Maggio 1983 (e noto con il nome “Ver-nola-Mayer”, perché sottoscritto dal-l’allora Ministro dei Beni Culturali Ni-cola Vergola e, in rappresentanza delleRegioni, dall’Assessore alla Culturadella Regione Toscana Marco Mayer) -finalmente, dicevo, una legge dello Sta-to (la Merloni-ter) impone, assieme aiprogetti per le nuove costruzioni, an-che i progetti per la loro ordinaria ma-nutenzione. Ma è grave danno che nonsia ancora sufficientemente diffusa laprassi di richiedere pertinenti progettidi manutenzione anche per gli inter-venti di restauro. Ancor più, inoltre,pare lontano il tempo che vedrà richie-sti pertinenti progetti di manutenzioneanche per altri elementi - diversi, manon meno significativi di quanto lo sia-no gli edifici storici - anch’essi costituti-vi e qualificanti soggetti del nostro pa-trimonio storico. Tra le funzioni della manutenzione, co-me è noto, c‘è anche quella di differirei bisogni di restauro (peraltro semprepiù onerosi anche se sempre considera-ti prestigiosi, benché non siano sempre

promotori di durabilità). Ma - almenoin riferimento alle norme vigenti - pergli edifici antichi non è attivabile alcunamanutenzione se non dopo un comple-to restauro. Invece, è proprio per gliedifici antichi (e per tutti gli elementistorici che li costituiscono e li compon-gono) che è urgente - per rallentarne ildegrado - programmare e mantenereattivi i più congrui processi di manu-tenzione ordinaria. Che, purtroppo,non vengono mai attivati anche perl’eccessivo costo delle apparecchiaturenecessarie alla salvaguardia degli ope-ratori della manutenzione (si pensi alleimpalcature per il controllo delle co-perture degli edifici storici). Apparec-chiature che sono già onerose nei pro-cessi della nuova edilizia, ma che diven-tano insopportabili per semplici e breviinterventi manutentivi: quali sono - perfare pochi esempi - la già citata “riquat-tatura” dei tetti, il fissaggio di qualchepellicola pittorica sollevata, l’integra-zione di limitate superfici di intonaco,la pulitura dei canali di scolo delle ac-que piovane. Peraltro, se a queste essenziali - e pocoappariscenti - operazioni di manuten-zione, si aggiungessero anche gli inter-venti manutentivi necessari alla con-gruità dei sistemi di riscaldamento, diilluminazione, di coibentazione indi-spensabili alla salvaguardia del patri-monio storico che qualifica tutti i pae-saggi umanizzati anche nel Bresciano,allora dovrebbe diventare più chiaro ilruolo e l’importanza - ma anche la

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complessità - dei processi di manuten-zione del patrimonio storico del MuseoBrescia11. Ipotesi di lavoro che, come è evidente,chiedono anche l’apertura di nuoveprospettive e di nuovi impegni12. Forsequalcuno ne sarà sorpreso. Per quantone capisca le ragioni, non posso non ri-chiamare il fatto che la conservazionedell’antico, come la creazione del nuo-vo, non ha mai una conclusione, ma èun processo sempre vivo e attivo. Pro-prio come, secondo la proposta formu-lata da Giovanni Urbani trent’anni fa,doveva - e dovrebbe sempre - essere la“conservazione programmata”. Che,non per caso, è anche il nuovo nomedell’antica “ordinaria manutenzione”.

Dalla manutenzione degli edificia quella del territorio

A ben guardare, la “conservazione pro-grammata”, benché apparentementeorientata ai singoli edifici e agli elemen-ti in essi presenti, è progetto ambienta-le che attiene il territorio e tutti i suoifattori costitutivi. Ne consegue l’urgen-za che se ne colga anche il valore di fat-tore qualificante dei processi di gover-no del territorio. Se il territorio, con tutti i fattori di sto-ria e d’arte che lo qualificano, è risorsada valorizzare mediante la tutela, alloraè urgente che tutti i nuovi allestimentidei territori storici siano progettati econdotti in coerenza con la storia che ce

li ha consegnati. Compresi gli allesti-menti di nuovi oggetti che non trovanoriscontro nella storia dei nostri paesag-gi umanizzati. Prospettiva, questa, cherende ancora più problematiche le no-stre scelte di fronte ad almeno due si-tuazioni: i sempre più diffusi insedia-menti commerciali, il “riuso” delle co-siddette “aree industriali dismesse”.Se quanto costituisce la realtà di questeultime fosse accostato con corretto sensostorico, dovrebbe risultare evidente chei problemi derivanti dal loro recuperonon sono diversi da quelli postulati dalrestauro degli edifici storici. Almeno sepotesse diventare condiviso l’atteggia-mento che considera l’edilizia storica“documento di se stessa”. In questa pro-spettiva, il problema non è il riuso, ma laconservazione di tutti i segni storici checostituiscono ogni edificio antico.Se venisse effettivamente accolta l’ipo-tesi che il restauro non è processo chefa nuovo l’oggetto sul quale si interven-ga, allora diverrebbe più ovvio per tut-ti che ogni intervento conservativo è ta-le solo se è parte di un attento processodi adattamento ad un documento stori-co e alle sue valenze culturali e struttu-rali. E l’adattarsi non comporta soltan-to la limitazione assoluta di ogni stra-volgimento materiale e formale, macomporta anche programmarne usicompatibili con la sua storia, o, meglio,che alla sua storia dia nuovo contributodi cultura e di vita.Un orientamento di questo genere, sepure esclude ogni passiva musealizza-

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zione degli edifici storici, impone che laloro storia vi resti evidente senza lacer-ti e senza inserimenti artificiali. È pro-cesso non facile. Soprattutto perchémanca una pertinente cultura della“premurosa cura”, della quale hannosempre parlato i profeti della conserva-zione13. Cultura che potrebbe diventareun po’ più efficace se ci fosse una qual-che paritetica collaborazione tra archi-tetti, ingegneri, storici, geometri, capo-mastri, urbanisti. Una tale collaborazio-ne, infatti, potrebbe anche maturareorientamenti produttivi anche di nuo-va cultura urbanistica. Cultura che nonsepari la considerazione dell’antico dal-le valenze del nuovo. Che del nuovo,anzi, sappia valutare la effettiva validitàculturale. Non solo, in coerenza conl’accertata sua validità, del nuovo sap-pia proporre la localizzazione più con-grua: sia rispetto al consumo degli anti-chi spazi agricoli, sia in riferimento alpossibile (e corretto e pertinente) riusodi antichi edifici da salvaguardare an-che con nuove funzioni culturali (che,per loro natura, sono sempre anchefunzioni produttive: benché non suffi-cientemente considerato, infatti, la cul-tura14 è sempre fattore determinanteanche dei nuovi processi economici).Proprio per questo è urgente che la cul-tura urbanistica intensifichi la sua atten-zione per i problemi della “cura dellacittà”15. Cura che, peraltro, attiene tutti iterritori umanizzati e, quindi, la salva-guardia di tutti i segni di storia e d’arteche ne evidenziano l’intrinseca musea-

lità. Salvaguardia che, come già si è det-to, non nega la continuità degli allesti-menti del Museo Italia. Semmai, com-porta che i nuovi inserimenti siano coe-renti con l’allestimento che la storia haprodotto per secoli con novità di formeanche grazie alla continuità dei materia-li utilizzati fino a pochi decenni fa.La manutenzione dell’intrinseca mu-sealità dei territori storici abbisognaproprio della collaborazione alla qualegià si è accennato: quella tra architetti,ingegneri, storici, geometri, capoma-stri, urbanisti. Ma il compito del pro-getto per lo sviluppo dell’intrinsecamusealità di un territorio spetta agli ur-banisti. Ai quali compete evidenziareanche le qualità museali di ogni paesag-gio umanizzato. E, all’interno di talequalità, accertare la validità dei nuoviinserimenti proposti.Se quest’opera di valutazione del conte-sto storico fosse stata sempre presente eattiva, forse molte scelte urbanisticheavrebbero potuto essere diverse da co-me sono rese evidenti dalle forme dimolti paesaggi promossi dai piani rego-latori delle seconda metà del XX secoloda poco concluso. Paesaggi frequente-mente segnati anche dalle localizzazionidei sempre più numerosi insediamenticommerciali, che vanno sempre piùcondizionando le aree extraurbane.Eppure - almeno a mio giudizio - sequalcuno avesse considerato le poten-zialità produttive della cultura (soprat-tutto nelle sue valenze storiche), forseavrebbe potuto non essere considerata

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abnorme la proposta di accostare i pro-blemi dei centri storici anche nei loroaspetti e nelle loro valenze di “centricommerciali” attivi da secoli.Perché, mi domando, senza manomet-tere le strutture edilizie dei nostri nu-clei antichi, si continua a non pensaredi poter dotare i centri storici di strut-ture rimuovibili che consentano il pro-lungamento dei portici che già caratte-rizzano i nostri centri storici? Perché, afronte dei problemi di crisi e di diffi-coltà della piccola distribuzione, si con-tinua a non pensare di poter favorire ildialogo e la collaborazione dei com-mercianti operanti nei centri storiciperché possano organizzarsi anche me-diante strutture integrate capaci di fun-gere da “centro commerciale” diffuso?Nel quale ciascun commerciante man-terrebbe la propria autonomia, ma po-trebbe anche rendere meglio evidentela qualità culturale degli spazi che costi-tuiscono ogni negozio antico assiemealla qualità culturale delle facciate anti-che che separano un negozio dall’al-tro… Senza tacere che molte di tali fac-ciate presentano anche aperture dallequali si può accedere a porticati di epo-

che diverse, a sale affrescate e ricche diarredi storici, a giardini antichi, a chie-se decorate da sculture, dipinti, oggettid’arte e di cultura…Certo, tutto questo costringerebbe a in-dividuare nuovi processi di rendita fi-nanziaria (anche per i Comuni), forsenon così facili come quelli derivanti dainuovi megainsediamenti commerciali.E oggi, mentre il problema dell’uso delterritorio diventa sempre più difficile eproblematico, non potrebbe essere op-portuno che tutti pensassimo meglio aiprocessi anche della possibile valorizza-zione commerciale dei centri storici? E,qui e ora, un tale processo - se pro-grammato e condotto con adeguatosenso della storia e della sua pertinentecontinuazione - non potrebbe farsi an-che strategia di conservazione del pa-trimonio storico di tutti i paesaggi uma-nizzati del Museo Brescia?Insomma, un processo non facile, mache consentirebbe di legare insieme anti-co e nuovo, conservazione degli allesti-menti esistenti e nuovi allestimenti ne-cessari alla continuità della vita16 (magaricon qualche maggiore attenzione anchealle indicazioni di Dvorak e di Raskin).

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1 Cfr. ANTONIO PAOLUCCI, Museo Italia, Palombi,Roma 1992.2 La definizione riportata è di Cesare Brandi, se-condo quanto riferito da Franco Minissi nel pa-ragrafo “museografia” della voce “museo” nellaVa Appendice (1977-1992) dell’EnciclopediaItaliana, Roma 1995.

3 In alcune aree, soprattutto nell’Italia Centrale,la dizione “museo diffuso” è utilizzata per indi-care la molteplicità dei musei promossi dagliEnti Locali, a partire dagli Anni ’70 del Secoloscorso, dopo l’istituzione delle Regioni.4 Non credo necessario elencare gli interventiurbanistici e architettonici che, nella seconda

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metà del Secolo da poco concluso, hanno radi-calmente (e non sempre positivamente e pro-duttivamente) modificato usi e funzioni e pae-saggio dei territori di quasi tutti i Comuni bre-sciani.5 Quante sono le risorse di cultura della provin-cia bresciana? Nonostante le molte schedature ei molti censimenti, non pare ci siano dati sicuri.È a fronte di questa realtà che posso permetter-mi di riferire un conteggio approssimativo fattodieci anni fa e riferito sul n. 2 (Aprile 1992) di“Civiltà Bresciana”, secondo il quale in Provin-cia di Brescia ci sarebbero: 2096 chiese, 81 bor-ghi fortificati, 426 case antche, 46 castelli, 202palazzi antichi, 60 rocche e torri, 91 ville stori-che, 703 archivi, 331 biblioteche, 31 musei (che,oggi, in verità, sono più di settanta). L’elenco diquesti dati sommari continuava con l’osserva-zione che “essi indicano solo una parte dei ma-teriali d’arte e di storia presenti nelle varie arrebresciane.” E proseguiva: “Per essere completo(oltre i siti e i materiali archeologici, che ho com-pletamente tralasciato) avrei dovuto indicareanche i numeri riguardanti i dipinti su tela e sutavola, i dipinti murali, le sculture (lignee, lapi-dee, metalliche), i diversi oggetti d’uso (nellechiese, ad esempio, non si potrebbero non con-siderare almeno: calici, ostensori, turiboli, vestiliturgiche, tovaglie, messali, candelabri, carte-glorie, mobili delle sagrestie e dei cori…).”6 Il nuovo Codice dei Beni Culturali (in fase dielaborazione da parte del competente Ministe-ro) peraltro, per la prima volta, sembra possaconsiderare i beni paesaggistici tra gli elementicostitutivi del patrimonio culturale. A quanto èdato sapere all’inizio del mese di gennaio 2004,pare che “paesaggio” sia definito quale parteomogenea di territorio caratterizzata dalle in-terrelazioni tra storia umana e natura. Una defi-nizione che pare accogliere di fatto la nozione di“territorio storico” della sua “intrinseca musea-lità”, come si dirà anche nel seguito della pre-sente nota.7 Cfr. AA.VV., Città costruita, qualità del vivere: desi-deri valori regole, Marietti, Milano 2002, a cura diAngelo Caruso di Spaccaforno, pp. 388.8 Pur con molte difficoltà, dovute anche alla sor-

dità che la circonda a Brescia, la Cooperativa“Cultura Imprenditiva” sta conducendo il “Pro-gramma Durabilità”. Programma che perseguel’obiettivo di coinvolgere - secondo le indicazio-ni elaborate da Giovanni Urbani negli Anni ’70e ’80 del ‘900 - tutti gli istituti di ricerca disponi-bili a sviluppare i più pertinenti processi neces-sari a fa nascere e affinare un nuova “scienzadella protezione” del patrimonio storico delMuseo Italia.9 Le osservazioni che seguono costituiscono larielaborazione della parte centrale della relazio-ne “Realtà e rischi del patrimonio storico”, dettail 10 Novembre 2003 per i Tecnici Comunaliiscritti al corso “Il Piano Territoriale di Coordi-namento della Provincia di Brescia”, organizzatodalla Cooperativa “Cultura Imprenditiva” perconto dell’Assessorato Proviciale al Territorio.10 Cfr. GIOVANNI URBANI, Intorno al restauro, a cu-ra di Bruno Zanardi, Skira, Roma 2000, pp.103-112. 11 Almeno a Brescia (e al fine di accrescere e qua-lificare l’azione culturale per la salvaguardia delpatrimonio storico proprio dei territori brescia-ni) non potrebbe essere utile che tutti i Comuniauspicassero che la Provincia di Brescia si sapes-se dotare anche di specifiche attrezzature di ele-vazione che rendano possibile i più semplici eurgenti interventi di ordinaria manutenzionedelle coperture storiche? Attrezzature che, se-condo una corretta logica imprenditiva, potreb-bero essere temporaneamente affittate a quanti(pubblici e privati) vogliano attuare rapidi ed es-senziali interventi di ordinaria manutenzionenegli edifici storici dei quali siano proprietari oresponsabili (il primo riferimento, naturalmen-te, è proprio ai Comuni, ma anche alle Parroc-chie). Mediante i processi dell’affitto, peraltro, icosti di queste attrezzature troppo onerose per isingoli, potrebbero diventare sopportabili pertutti. Con un doppio esito positivo: la ripresa ela rivalutazione della cultura dell’antica manu-tenzione e la sopportabilità dei costi della suapratica ordinaria e continuativa. Anche la Re-gione Lombardia, peraltro (anche sulla base deidati emergenti dalla “Carta del Rischio del Pa-trimonio Culturale”) è sempre più orientata a

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stimolare i più pertinenti processi manutentivi.Ne è documentazione il recente e prezioso giàcitato volume (curato da Stefano Della Torre,Liliana Grancini e Vichi Cannada Bartoli): Laconservazione programmata del patrimonio storico ar-chitettonico: linee guida per il piano di manutenzionee il consuntivo scientifico, edito a Milano da Gueri-ni e Associati nel Maggio 2003.12 Per rendere anche più efficaci le urgenti stra-tegie della “conservazione programmata”, an-che la Cooperativa “Cultura Imprenditiva” èpronta (anche in rapporto con i competenti Uf-fici della Provincia, della Regione e dello Stato)ad attivare i più congrui processi formativi perla maturazione delle competenze funzionali allacorretta conduzione dei più pertinenti e tempe-stivi interventi di ordinaria manutenzione delpatrimonio storico del Museo Brescia.13 Tra questi “profeti” - usufruendo di alcunedelle citazioni riportate da Ruggero Boschi inAppunti intorno alla cultura della conservazione, svi-luppati alle pp. 9-35 del già citato AA.VV., Il re-stauro degli affreschi nella ex-chiesa dei Disciplini aRemedello, Brescia 1983 - sia consentito richia-marne almeno due, ben più antichi - ma nonmeglio ascoltati - di Giovanni Urbani. AnzituttoJOHN RUSKIN: “Abbiate cura dei vostri monu-menti e non sentirete il bisogno di restaurarli.Qualche lamina si piombo rimessa sul tetto, al-cune foglie spazzaate in tempo dalla gronda sal-veranno il tetto e il muro. Sorvegliate il vecchioedificio con cura premurosa, proteggetelo il me-glio che potete, e ad ogni costo, da ogni influen-za dilapidatrice. Contatene le pietre e vigilatele;cingetelo di ferro dove si sta decomponendo, so-stenetelo con legname dove declina, né datevi diciò pensiero: val meglio una gruccia che unagamba in meno. Fate questo con tenerezza, conriverenza assidua e molte generazioni nasceran-no ancora e trapasseranno sotto la sua ombra.”Insieme MAX DVORAK: “Nessuno vuole certo ne-gare che le ferrovie elettriche, le ampie auto-

strade, l’ascensore, il telefono, le banche e le fab-briche siano cose molti utili, che è giusto abbia-no la massima diffusione, tuttavia oggi diventia-mo sempre più consapevoli - dato che l’uomonon è una macchina - del fatto che il suo benes-sere non consiste solo in questo e, a chi sappiaosservare con attenzione non sfuggirà che ac-canto alle conquiste materiali, giorno per giornoguadagna sempre più terreno ciò che non puòessere misurato con il metro delle prestazionitecniche o delle esigenze materiali.” E ancora,sempre di DVORAK: “Le cose di minore impor-tanza hanno spesso bisogno di maggiore prote-zione di quelle più significative. Nessuno infattisarebbe così folle da voler distruggere i dipinti… di Tiziano o proporre di demolire la chiesa diSanto Stefano, mentre dappertutto è minacciatociò che non è stato riprodotto centinaia di voltenei manuali di storia dell’arte e che nelle guideturistiche non viene messo in evidenza da unasterisco.” 14 So bene che il termine “cultura” è qui utilizza-to con valenze non sempre omogenee. Tuttavia,il suo impiego consente di non separare drasti-camente la cultura della storia e della conserva-zione dei suoi prodotti, dalla cultura della vitaquotidiana che con quei prodotti (i materiali distoria e d’arte) deve darsi sempre più qualificatacoscienza.15 Cfr. PIER LUIGI CERVELLATI, L’arte di curare lacittà, Il Mulino, Bologna 2000.16 Almeno in nota, sia consentito dire che, suquesta strada non facile impegnativa (e, spesso,pericolosa) è incamminata, pur nella limitatezzadelle sue strutture, anche una piccola cooperati-va come “Cultura Imprenditiva”. Che è “impre-sa di cultura” che - per coerenza alla sua natura- ha potuto, e può, permettersi l’approccio astrategie così impegnative anche grazie alla suacapacità di aver saputo maturare rapporti e ap-porti di alta qualità e di grande valore culturalee scientifico.

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di UMBERTO PERINI

Fausto Sardini se n’è andato all’improv-viso, scomparso nel sonno, sottratto agliaffetti dei suoi familiari e dei molti ami-ci, ancora dotato di energie, felicecom’era di immergersi nella realtà delquotidiano lavoro, con l’entusiasmo cheda sempre gli era consueto.Legato da un’amicizia trentennale nelcorso della quale ho saputo apprezzarele sue doti morali e professionali, rendovolentieri una semplice testimonianza,cercando di ricostruire, sull’onda deiricordi, questi brevi appunti biografici,che sono soltanto un fugace cenno peruna vita densa di significato morale, at-tiva e laboriosa, dedicata alla promozio-ne di cultura, che meriterà più adegua-to e approfondito studio. Fausto Sardini nasce a Bornato il 15 feb-braio 1941 da numerosa e laboriosa fa-miglia di salda tradizione cattolica. A 28anni, nel 1969, dopo aver appreso l’artetipografica presso “La Scuola Editrice”di Brescia, si mette in proprio e fonda aBornato in Franciacorta il “Centro StudiArti Grafiche”, stabilendo il suo primolaboratorio in un’ala a piano terra dellacasa paterna in via Bonfadina. Acquistale prime compositrici e le attrezzaturenecessarie ed è tra i primi a stampare

con il più recente sistema foto-litograficoche iniziava allora a diffondersi, abban-donando la lenta e faticosa composizio-ne manuale dei caratteri, rendendoquindi più agevole il lavoro. Adottatal’insegna di un antico torchio da stampacome marchio per i suoi libri, con l’aiutodi alcuni collaboratori inizia la sua atti-vità in ambito editoriale.Le primissime opere riguardano gli Ar-tisti bresciani contemporanei, Arte brescianaoggi, Jacopo da Fivizzano, primo stampato-re italiano, I vini bresciani. Sua anche lafirma de “Il giornale”, un mensile di ar-te, cultura e turismo. Stampa per qual-che tempo “La Voce dell’Automobili-sta” per l’Automobil Club di Brescia.Nel 1969, con Giovanni Castellini, or-ganizza a Bornato la prima estempora-nea di pittura con settanta partecipantigiunti da tutto il nord Italia.Verso la fine degli anni Sessanta, se sieccettuano le serie dei volumi e fascicolidi “Brixia Sacra - Memorie Storiche del-la Diocesi di Brescia”, che proseguivanola scuola storiografica di Mons. PaoloGuerrini, e le pubblicazioni del patrio“Ateneo di Scienze Lettere ed Arti”,opere che comunque rimanevano limi-tate agli “addetti ai lavori”, l’editoria era

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In ricordo dell’amico Fausto Sardini

(Bornato (1941-2005)

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sostanzialmente limitata all’attenzioneper la conoscenza della storia bresciana.Le scarse disponibilità finanziarie degliEnti e delle associazioni erano assorbiteda ben altre priorità e la storia locale eraristretta a pochi amatori ed eruditi, rite-nuta quasi una stranezza da perditem-po, patrimonio di pochi, una espressio-ne di cultura minore.La rilevante intuizione di Fausto Sardi-ni fu proprio quella di diffondere a li-vello popolare l’amore e la cultura perla propria terra, la Franciacorta, facen-do crescere la consapevolezza per lasalvaguardia del territorio e dei valoritradizionali, da rivalutare e da trasmet-tere alle generazioni future.

Così si ingegna Sardini, con intelligen-za e vivacità culturale, e fin dall’inizio siavvale della preziosa collaborazione delprof. Eugenio Bononi e di Mons. Anto-nio Fappani. Docente ed esponentedella tradizione culturale della Luni-giana e dell’Accademia di Fivizzano, ilprimo; notevole ricercatore e studiosopoliedrico di storie patrie, il secondo,già a quel tempo affermato per nume-rose opere e saggi di storia moderna econtemporanea, che agli inizi degli an-ni Settanta si accingeva ad iniziare ilmonumentale lavoro dell’ “Enciclope-dia Bresciana”. Entrambi seguono ecollaborano con Sardini per molti anni,discutendo insieme le scelte editoriali,

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“Ricordo dell’Editore Fausto Sardini” presso la Fondazione Civiltà Bresciana. Al tavolo dei relatori, da sinistra: Pietro Gibellini, Eugenio Bononi e Umberto Perini (Brescia, 2 Marzo 2005).

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lo consigliano, coordinando molte sueproduzioni.Ricordo che le prime opere ebbero no-tevole ripercussione in ambito locale;tra queste vi furono certamente i duevolumi Alla Scoperta della Franciacorta,usciti nel 1972 e nel 1977. Il primo, contesti di Angelo Veraldi, Antonio Fappa-ni e Luisa Astori; il secondo scrittoprincipalmente da Giovanni Donni eStefano Dotti.Erano lavori di ricerca sulla storia, artee cultura del territorio, dedicati a que-sta parte della provincia, che si poneva-no per la prima volta in forma divulga-tiva e con ampia documentazione foto-grafica, facilitata dalle nuove tecnichedi riproduzione foto-litografica. Li lessientrambi avidamente, chiosando le pa-gine di note e di appunti: per noi ap-passionati di storia locale era una pri-ma ineguagliabile fonte di notizie.Presentando il primo volume, Sardiniscriveva: “Auguriamoci che il nostro la-voro possa servire agli uomini a cono-scere e conoscersi meglio, perché ilmondo di domani possa divenire mi-gliore, e possa riconquistare il paradisoperduto, perché solo quel paradiso ter-restre che è il creato ci aiuterà a scopri-re le creature e il Creatore”.E poneva quale motto su entrambi i li-bri una frase di Loris Jacopo Bononi,ad insegna del suo programma: “Edobbiamo girare, guardare, avere curadel patrimonio di questa nostra terra,perché se non avremo cura noi dellanostra terra, chi mai ne avrà in vece no-

stra? E chi avrà cura di noi, che siamoincuranti delle nostre stesse cose?”L’iniziativa editoriale venne presentataa Rovato, in occasione della prima edella quarta mostra enologica dellaFranciacorta organizzata nel Conventodell’Annunciata sul Monte Orfano, luo-go che diverrà particolarmente fre-quentato e prediletto da Sardini, perl’amicizia con i frati, per quel senso dipace, diceva, che si gode dall’ampiabalconata affacciata sulla pianura, per ilsereno e aperto dialogo e la fraternasemplicità dei Padri Serviti.Fece propria la presentazione di en-trambi i volumi il prof. Franco Feroldi,presidente della Camera di Commer-cio, che aveva percepito come il giova-ne editore avesse colta nel segno, conintuito precorritore, la necessità didiffondere tra un più vasto pubblico dilettori la conoscenza e l’amore versouna terra da conservare e proteggere,attraverso la rivalutazione delle ricer-che e degli studi di carattere locale. L’o-pera ebbe subito larga diffusione, tal-ché venne presto ristampata.Dal 1973, la rivista mensile “Il giorna-le”, edita da Sardini, dopo pochi nume-ri assunse il titolo definitivo “El Sedàs”,con direttore responsabile don AntonioFappani. Era la prima rivista culturalebresciana e proseguì per alcuni lustri. Ilsuo nome significa setaccio, e vuole in-dicare, per analogia, l’estenuante lavo-ro del ricercare, raffinare, filtrare. Lorammenta di sfuggita Leonardo Urbi-nati in un saggio su “Civiltà Bresciana”

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del dicembre scorso, ove annota che permerito dell’editore Fausto Sardini sorseintorno agli anni Settanta del secoloscorso un’accademia detta appunto “dèlsédàs”, antesignana, con la rivista omo-nima, dell’allora nascente ripropostadegli studi sulla lingua e la letteraturadialettale. Il nome era evidentementeispirato all’illustre modello “della Cru-sca”, ed egli ricorda con nostalgia le pri-me riunioni che raccoglievano a Bresciagli studiosi e gli appassionati, incontriche si svolgevano presso la sede dell’E-ditrice Sardini, in via Romanino.Giunse poi, quale altra scelta di notevoleattrattiva, la ristampa completa dellacollana storica Il Lombardo Veneto di Ce-sare Cantù, illustrata con incisioni dell’e-poca, in numerosi volumi, uno per cia-scuna provincia. Altra pubblicazione dirilevante prestigio fu la ristampa origi-nale, in pergamena naturale, della pri-ma edizione della Divina Commedia, pub-blicata a Brescia nel 1487 a cura di Bo-nino de’ Boninis, con commento di Cri-stoforo Landino, per la quale nel 1976,alla Fiera Internazionale di Francoforte,ottenne il primo premio per la miglioreedizione. Con il libro Bibbia e Antropolo-gia (di Testa-Bappenheim e Lampugna-ni) vinse nel 1977 il premio della Presi-denza del Consiglio dei Ministri.Ricordo fugacemente molti nomi di au-tori di volumi di storia locale che trova-rono in Fausto Sardini l’accorto accom-pagnatore per avventure editoriali,contribuendo con efficacia alla diffusio-ne della cultura. Il suo laboratorio era

sempre aperto a tutti, una vera fucinadi continue novità, per gli scrittori vec-chi e nuovi. Eccone alcuni che ho cono-sciuto: Tullio Ferro, per Desenzano; laprof.ssa Rossana Prestini, per Rovato eper la chiesa di S. Giuseppe; ClaudioMoretti per Erbusco; padre GiovanniCoradazzi, per le Strade Romane; Vin-cenzo Tolasi, per Orzinuovi; PaoloGentile Lanfranchi, per Palazzolo; donLuigi Moletta, per il fiume Oglio; San-dro Minelli, per la Mille Miglia; donGianni Donni, per Rovato e Cologne;Camillo Pelizzari, per la cucina brescia-na; Agostino Mantovani, per le memo-rie di viaggio; Stefano Dotti, per la sto-ria bresciana; Mario Ebranati, per Salò,oltre a molti altri nomi che ha sicura-mente dimenticato. Anch’io ebbi pereditore Fausto Sardini per le storie diGargnano sul Garda (1974) e di Adro(1980). Si susseguivano le presentazio-ni di nuove opere, ed ovunque vi eragrande partecipazione di pubblico: leprime copie dei volumi andavano lette-ralmente a ruba, con soddisfazione de-gli autori e dell’editore. Ristampò numerose edizioni di storiepatrie, tra i quali: la Storia di Bornato diVincenzo Peroni; la Storia della Valleca-monica di Bortolo Rizzi; la Storia di Chia-ri di G. Battista Rota, la Storia di Darfodi Paolo Guerrini, la Storia di Lovere diLuigi Marinoni, la Storia di Rovato diAntonio Racheli, i Contadini Bresciani diBortolo Benedini.Numerose le monografie degli artistibresciani: Angelo Fiessi, Ottorino Ga-

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rosio, Vittorio Pelati, Silvestro Cappa,Augusto Durelli, Dante Graziotti, Vitto-rio Viviani, oltre ai volumi di Arte bre-sciana nel XX secolo. Pubblicò ancheraccolte di poesie di autori locali (Maio-rino, Vagni, Pizzi, Pedrali, Visconi, ...).Provvide alla ristampa delle introvabilitavole litografiche ottocentesche del Fi-lippini dedicate al paesaggio brescianoe scrisse anche un libro su L’arte dellastampa.Dalla fine degli anni Settanta pubblicò ediresse la rivista “Bibbia e Oriente”, con-tenente ricerche archeologiche e studibiblici, con la collaborazione di studiosiitaliani ed esteri. Su tale rivista, che con-tinua ancora oggi, egli ha proposto ri-flessioni personali nella rubrica “Legge-re la Bibbia oggi”. Per diversi anni hainoltre pubblicato “L’Agricoltore Bre-sciano”, settimanale di informazionedell’Unione Provinciale degli Agricolto-ri, diretto da Agostino Mantovani.Ricordo che presso la casa editrice - chenel frattempo si era trasferita nel nuovoampio edificio di via Pace a Bornato,posto sulla collina con vista invidiabilesu tutta la Franciacorta, da cui Fausto ri-conosceva ogni campanile ed ogni caso-lare - si poteva sempre prendere visionedelle ultime novità. La sua disponibilitàe la generosità erano incondizionate, aqualsiasi ora, e il suo studio divenivapunto di incontro, di discussione, dove irapporti diventavano tendenzialmentepiù autentici, per la sua capacità di col-loquiare, di mettere a proprio agio gliinterlocutori, i diversi autori, i semplici

lettori, i clienti occasionali, i sacerdotidei paesi vicini che portavano per lastampa i loro notiziari parrocchiali.Aveva per tutti una soluzione ai proble-mi che gli ponevano. Nel contempo eraspesso in città e nelle province limitrofe,per intensificare i contatti con le biblio-teche, i Comuni, le associazioni, gli arti-sti e gli scrittori locali. Aprì una succur-sale a Brescia, ed una anche a Bergamo,per qualche tempo.A tutt’oggi, in oltre quarant’anni di at-tività culturale, sono circa duecento leopere a catalogo, dedicate a storia, arte,letteratura, cucina, folclore, religione,scienza, e purtroppo l’abbondanza deiricordi impedisce di avere presente tut-ti i libri e tutti gli eventi. L’arte del ri-cordare esige che si dimentichi qualco-sa. Gli anni si contraggono, i decenni siriducono a un pugno di giorni per ilprevalere dell’oblio sulla memoria, manon viene cancellato il senso dell’amici-zia e del calore umano che egli sapevainfondere.Nell’ambito della casa editrice, con l’af-fermazione progressiva delle nuovetecnologie, nel 1985 egli predisposeuna divisione multimediale, tra le cuiopere vi è la pubblicazione su cd-romde La Sacra Bibbia di Gerusalemme. Attivaanche un internet service provider, ora inpieno sviluppo, e nel 2000 istituì l’ “As-sociazione Amici della Natura e dellaPersona”. Il figlio Davide da tempo lo aveva affian-cato e prosegue ora l’attività culturale ededitoriale, erede del patrimonio morale

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e di affetti del padre, fatto di coerenza aipropri ideali, del lavoro e della famiglia,di attività concreta, di altruismo, di posi-tiva disponibilità. In cima alle scale dellasua abitazione aveva esposto un ritrattodel Pontefice, e me lo indicò, un giorno,“Così” - mi disse - “chi entra in casa mia,sa già come la penso!”.Amava la natura e seguiva i ricorrenticicli produttivi delle stagioni, osservan-do l’evoluzione delle piante, l’uva, ilgrano nei campi, le olive, per cogliere ifrutti a maturazione, e per divertimen-to produrre olio proprio, per sé e perfarne dono agli amici.Ci mancherà, Fausto Sardini, sentire-mo l’assenza delle sue idee, di un suo

consiglio, di un suo parere disinteressa-to, ma rimane quanto egli ha stampatoe l’alto esempio di vita, vissuta comemissione.Scorrendo le pagine del suo primo vo-lume sulla Franciacorta, mi attardo sulsignificativo motto che volle appostonel Colophon: Librorum praesentia vitammihi praebet / Quare mortuum me victurumesse puto.La Franciacorta ha perso uno dei suoifigli più fedeli e affezionati, tutti noi sia-mo rimasti privi di un vero amico chericordiamo e rimpiangiamo con auten-tica commozione.

Brescia, 2 marzo 2005

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di PIER GIORDANO CABRA

Il 25 aprile 1913 moriva Padre GiovanniBattista Piamarta, figura cara a i brescianiche oggi, salito agli onori degli altari, lo ve-nerano come Beato e conoscono il frutto del-le sue opere attraverso la Congregazione dalui fondata. Padre Piamarta nacque a Bre-scia, nella parrocchia di San Faustino: adessa è rimasto sempre legato, considerandolala “seconda casa”.La Congregazione che da lui prende nomeha deciso di commemorare l’anniversario nel-la parrocchia natia del Beato. Lo scorso 25aprile, dopo un concerto di musica sacra,nella chiesa del centro si sono alternati tre re-latori, padre Pier Giordano Cabra, il prof.Mario Taccolini e il prof. Trabucchi: a ognu-no il compito di mettere in luce un aspetto pe-culiare dell’opera piamartina. Riportiamo diseguito l’intervento del religioso Pier Giorda-no Cabra, il quale ha delineato lo stretto le-game, quasi una sorta di cordone ombelicale,che ha unito Padre Piamarta e la parrocchiadi San Faustino. [U. SCOTUZZI]

Giovanni Battista Piamarta nacque par-rocchiano di San Faustino e visse la suagioventù qui nella parrocchia di SanFaustino. Una parrocchia “popolare”,come si legge nelle cronache del tem-po, una parrocchia cioè di povera gen-

te, dalle case modeste, dai problemi an-gustianti, a partire da quelli del bilan-cio familiare, dalle osterie sovraffollate,dai ragazzi liberi di gestirsi la vita sullastrada, scorazzanti sui ponticelli delGarza maleodorante, che allora scorre-va libero in mezzo al quartiere.Un quartiere ricco di nascite e di fune-rali, colpito da frequenti epidemie chedecimavano le famiglie, un quartieredalle cento e più botteghe di piccoli ar-tigiani, dalle strade formicolanti di gen-te attiva, per lo più allegra, a volte liti-giosa e imprecante, nel classico “dolcestil novo” bresciano. E, quando Giovannino aveva otto anni,fu anche un quartiere duramente pro-vato dalle bombe che gli austriaci face-vano piovere dall’inespugnabile e in-combente castello per piegare le tenaceresistenza delle dieci giornate.Il ragazzo Piamarta era uno dei tantiragazzi, non proprio quieti, che quisembravano i padroni della città, spen-sierati e sicuri di sé. In realtà egli stava apprendendo la du-ra lezione della vita: nel suo intimo senti-va acuta l’umiliazione che viene dallapovertà, soffriva in silenzio per i lutti ele carenze affettive familiari, avvertiva

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Padre Piamarta e la parrocchia di San Faustino

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il fascino e la pericolosità della liberascuola della strada, percepiva l’incer-tezza del domani, mentre il suo sguar-do si faceva sempre più realistico e di-sincantato circa la situazione umana emorale del mondo circostante.Ma proprio qui imparò a crescere comeuomo e come cristiano.Lui stesso dirà il come e il perché: “Dal1850 al 1860 (in pratica dai dieci ai 20anni) fui figlio dell’oratorio… Benedicodi gran cuore Gesù benedetto e il miodiletto oratorio che mi accolse orfanodi madre e con il padre del tutto impe-dito, anche ne giorni di festa (era bar-biere e la domenica era il grande gior-no di lavoro!) a curare la mia educazio-ne. Chissà mai cosa sarebbe stato di mee del mio avvenire col mio carattere im-petuosamente vivace. Indubbiamente ilfatto di essermi trovato del tutto libero,lasciato a me stesso, sarei diventato unrompicollo di prim’ordine. Ora, aven-do ricevuto dall’oratorio non solo lamia educazione cristiana, ma anche l’i-nizio del mio cammino verso il sacerdo-zio, sentii imperiosamente il dovere dicorrispondere a sì segnalata grazia, coldedicare tutte le mie miserabilissimeforze alla educazione cristiana dellagioventù a S. Alessandro prima, per 13anni e poi all’Istituto Artigianelli”.È uno dei rari pezzi autobiografici chedicono tutta l’importanza ch’egli attri-buiva oratorio nella sua crescita uma-na, cristiana e sacerdotale.Nella parrocchia di san Faustino sorge-va infatti l’oratorio san Tommaso. Ini-

ziato nei primi anni dell’800, era unesempio di oratorio fiorente, gestito dadon Vincenzo Elena, un geniale edesemplare sacerdote, stimatissimo an-che da don Bosco, che lo volle a Torinoa predicare a suoi giovani un corso diesercizi.Don Elena possedeva, oltre al fascino dieducatore artista, anche una notevolecapacità di organizzatore. Era riuscito amettere assieme e a formare un validogruppo di laici, che lo coadiuvavano,assistendo i ragazzi nei momenti delladottrina cristiana e durante il gioco.L’importante era “assistere i ragazzi”,non lasciarli a se stessi, vivere con lo-ro… in pratica era il metodo preventi-vo ridotto al suo nucleo essenziale. Pa-dre Piamarta resterà sempre ricono-scente ed affezionato al suo oratorio,tanto da attribuirgli il merito principaledella sua educazione umana e cristiana.E applicherà nella sua opera gli stessiprincipi educativi.Qui stringerà solide amicizie con fortipersonalità, quali il futuro gesuita mis-sionario in India, padre Secondo Za-netti, col quale terrà una fitta corri-spondenza, e il futuro Abate Cremone-sini, promotore di iniziative sociali rile-vanti e uno dei principali fondatori del-la Voce del popolo.All’oratorio, Giovanni - così era chia-mato il Piamarta - era ricordato per lasua bella voce di contralto e nelle solen-nità, che venivano celebrate nell’orato-rio, si produceva nei canti sacri con as-soli e in coro. “E allora era grande il

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concorso della folla che voleva sentirlocantare con tanta perfezione, intona-zione e sentimento”. Il vescovo Verzieri aveva introdotto l’u-so di ammettere in Seminario i giovanidella città che aspiravano al sacerdozio,restando nelle loro case e vestendo peralcuni anni l’abito secolare. Così Gio-vanni frequentò alcuni corsi ginnasialidel Seminario, continuando a frequen-tare attivamente l’oratorio.I giovani dell’oratorio erano divisi incompagnie di 20-25, a capo delle qualivi erano delle persone adulte di buonavita morale che col nome di “prefetto”avevano cura dei ragazzi. Giovanni di-venne assistente ed aiutò il “prefetto”nel suo ufficio. E “prefetti” sarannochiamati i responsabili delle “Camera-te” agli Artigianelli e negli altri suoiIstituti, fino a non molti anni fa.Don Vincenzo Elena fu il sacerdote chemassimamente influì sull’animo giova-nile di Giovanni, il quale, da parte sua,non dimenticherà mai il suo oratorio,soprattutto nella vicende che ne segna-rono la fine. Su questo argomento esi-ste una consistente e interessante corri-spondenza.Oltre all’oratorio, il giovane Piamartaebbe la fortuna di trovare nel prevostoLurani un parroco straordinario permolti motivi: nobile milanese e nipotedl vescovo Nava, fu nominato prevostodi San Faustino a soli 24 anni e resse laparrocchia per ben 65 anni. Uomo digrande pietà, passava lunghe ore inconfessionale e in preghiera davanti al

Santissimo. “Il suo cuore gli fece distri-buire tutto il vasto patrimonio per i po-veri della sua parrocchia, gli faceva visi-tare gli infermi e i colerosi, con un eroi-smo ammiratola tutti. Le opere, il lun-go pregare, il suo raccoglimento, il suosorriso, la sua dolcezza, la sua gentilez-za aristocratica e umile, lo fecero amareda tutti, tanto che lo vollero eternarenel monumento eretto in chiesa”. CosìMonsignor Fossati.L’esempio di pietà di questo uomo dicarità deve aver scolpito nell’immagi-nario e nella mente del giovane Pia-marta l’idea che il prete deve essere unuomo di carità, ma anche e soprattuttoche la prima carità di un prete è quelladi pregare per il suo popolo, è quella dipresentare a Dio le necessità dei suoi fi-gli e di intercedere per loro. La modestia dell’origine sociale di Pa-dre Piamarta lo mette nelle condizionidi comprendere le situazione di umilia-zione e la dignità spesso offesa del pove-ro, che desidera avanzare, uscire con lesue forze dalla condizione di inferiorità.Dal suo parroco aveva imparato la le-zione della grande carità, ma non aven-do un patrimonio proprio, fu costrettoa inventare qualche cosa di nuovo.Il Fossati felicemente commenta: “IlLurani fu un sacerdote ricco che donò ilsuo patrimonio ai poveri, il Piamarta fuun sacerdote povero che creò un patri-monio per i poveri, onde uscissero dallapovertà e divenissero artigiani e lavora-tori qualificati, che in libertà e dignità,fossero creatori del proprio avvenire”.

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Nel suo Oratorio il ragazzo e il giovanePiamarta poté valutare la forza costrut-tiva che viene da persone che si dedi-cano ad ascoltare e orientare. I suoicoetanei non erano certamente tuttiangioletti, ma all’Oratorio trovavanochi li aiutava a scoprire le cose belle ebuone che avevano dentro di sé. Attra-verso una grande pazienza e un gran-dissimo ottimismo. Scriverà un giorno:“Accogliere la gioventù, sorvegliarla,suggerirla, correggerla, istruirla, è uncontinuo esercizio di abnegazione, diestrema pazienza. I frutti vengono dal-la virtù impegnata nell’opera educati-va”. Era proprio quello che aveva vistopraticare nel suo oratorio.Sentendosi “salvato” da persone che de-dicavano a lui e ai suo amici il loro tem-po, gratuitamente, decise di fare altret-tanto, con “estrema pazienza”, impe-gnandosi in un’opera ardua, come quel-la degli Artigianelli, non sempre conge-niale al suo carattere, più “pastorale” che“manageriale”, un’opera dove abbonda-vano “triboli e spine”, non ultime quelledi carattere economico, ma che sentivanecessaria per la “salvezza materiale espirituale” della povera gioventù, ch’egliaveva incontrato sulle strade fin dai pri-mi anni. Farsi amare dai giovani e rende-re simpatica la virtù… questi gli insegna-menti che aveva visto e voleva fossero se-guiti dai suoi collaboratori. Più che scienzadell’educazione, egli promosse l’arte del-l’educazione, quell’arte di cui, non rara-mente e non senza angustie, sentiamo lanecessità per questo nostro tempo.

Agli inizi della sua opera, Padre Piamar-ta avrebbe voluto fare degli Artigianelliun oratorio continuato. Negli anni decisividella sua adolescenza l’oratorio era sta-ta la sua seconda famiglia: ai molti gio-vani, che, in un modo o nell’altro, nonavevano una vera famiglia, egli intesedare un ambiente che si avvicinasse ilpiù possibile ad una famiglia.Progetto possibile da realizzare per i pic-coli numeri, quindi agli inizi dell’operasua, ma meno facile da applicare quan-do, aumentando i numeri, fu necessarioaumentare le norme e la disciplina.Ma egli personalmente fu un papà e aisuoi collaboratori raccomandava lo spi-rito di famiglia, tanto necessario perquei ragazzi che erano stati privati del-l’essenziale esperienza degli affetti fa-miliari. Spirito di famiglia che andava coltivatoprima tra i suoi religiosi, perché l’atteg-giamento verso i ragazzi fosse frutto diuna profonda spiritualità fraterna e fa-miliare. Da qui il nome di “Famiglia diNazareth” dato alla sua Congregazione.Il giovane Piamarta prima e il direttoredegli Artigianelli poi, si convinse pureche l’educazione è un’arte esigente per-ché, oltre a tendere formare il caratte-re, deve condurre ad acquisire le abilitàcon la severa disciplina del lavoro.Se poi si vuole - come egli fermissima-mente volle - formare il buon cristiano,allora il compito educativo diventa an-cora più esigente. Padre Piamarta pro-ponendo l’ideale cristiano di vita, sape-va di domandare molto, ma sapeva an-

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che motivare e dare continuamente sti-moli e aiuti per guardare in alto, perinnalzarsi, per andare oltre gli orizzon-ti solo terreni.Non sempre era seguito. E di queste nesoffriva, ma sapeva che all’educatoretocca spargere il seme, lasciando ad al-tri il momento del raccolto.Ritornando oggi a San Faustino, ritor-niamo all’esperienza umana e spiritua-le fondamentale del giovane Piamarta,esperienza che gli ha permesso di usci-

re da situazioni di disagio, grazie alladedizione educativa di santi sacerdoti,coadiuvati da laici generosi.È ciò che farà lui, su vasta scala, per ilriscatto umano, sociale e religioso deigiovani, coinvolgendo nella sua operaun numero consistente di laici. È ciò che intendono continuare a fare isuoi figli anche nel nostro tempo, gra-zie all’esempio e all’intercessione delBeato Giovanni Battista Piamarta, par-rocchiano “doc” di San Faustino.

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a cura di LEONARDO URBINATI

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Avvertenza

Soggiornando temporaneamente nelle campagne dell’Attica, soleva Aulo Gellio,erudito latino del II secolo d.C., ritirarsi a sera nel suo studiolo ed annotar su ta-volette d’appunti le più svariate notizie acquisite da sapienti letture o dotti con-versari che gli apparisser degne di memoria o menzione. Ne nacquero i ben notiventi libri delle sue Noctes Atticae pieni di curiosità, notarelle, filologiche, etimolo-gie d’antiche parole, problemi grammaticali, rievocazioni storiche ecc.; il tutto inun gustoso latino di sapore alquanto arcaicizzante, secondo i dettami del circolo distudiosi facenti capo a Frontone, cui il Nostro apparteneva. Avendo rispolverato,nell’insania della mia età più che provetta, alcuni quadernuscoli contenenti gli ap-punti più diversi e caotici, riguardanti cose e persone, e parole brixiane, mi vienl’ardire d’imitare alla lontana l’illustre Antico, intitolando queste mie divagazioni,per intima analogia d’intenti, ma con deferente ammirazione per il modello, ir-raggiungibile, Noctes Cenomànæ, dal nome de’ nostri padri venerandi.Assicuro però gl’incauti lettori che non son frutto di veglie notturne, ma di nor-mali futili ore d’ozio, che non oso chiamar letterario, né tanto meno scientifico,sibbene di tempo colpevolmente perduto. Quanto all’eloquio permettete che, an-ch’io, indulga qua e là al vezzo dell’arcaismo, trovandomi ad esser io medesimoormai arcaico di persona. A Dio piacendo le mie finte vigiliæ brixianæ, vi sarannodunque ammanite (in piccole dosi!) in queste ospitali paginette.Spero che almeno alcune di esse possano tornar gradite ai soci del neonato circo-lo di Brescianità, ÈL FÖGARÌ, cui di cuore le dedico, augurandomi che valgano aprovocare qualche più approfondita ricerca, qualche piacevole discussione o, al-meno, qualche sorrisetto di sopportazione benevola.

NOCTES CENOMÁNAE LIBER PRIM(G’HO BÙNE SPERANSE !!)

Usi autem sumus ordine rerum fortuito, / quem antea in excerpendo feceramusAULUS GELLIUS, Noctes Atticae, Praefatio1

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Noctes cenomànæ

Divagazioni celtico/brixiane

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IUn arguto detto bresciano, le ragnatele (talamóre), Pietro Andrea Mattioli ed il Moretto

Da un dotto amico ormai defunto, il prof. Mirko Lupezza, che ricordo con infini-ta nostalgia per la consuetudine di un’intera vita, ebbi un giorno spiegazione d’unarguto detto bresciano: “Èn chèla ca lé, no i bev mai i öv !!” (In quella casa non be-vono mai le uova). Si usa dire, diceva l’amico, di una casa in cui difetta assai la pu-lizia domestica, tanto che, oltre al sudiciume presumibilmente dovunque diffuso,copiose ragnatele, in particolare, pendono dai soffitti senza che nessun se ne curi;infatti gli abitanti neppur se n’avvedono, e mai levan la testa a guardar sopra di sè,come inevitabilmente accadrebbe se compissero l’abituale gesto di sorbire un ovofresco, che li costringerebbe ad alzare il capo e a volger lo sguardo verso l’alto.Ovviamente si tratta d’una ironica giustificazione per l’ innata trascuratezza; al-trettanto ovviamente si tratta d’un caustico residuo di saggezza ed arguzia conta-dina che definirei “bertoldesca”. Quanto alle ragnatele, in dialetto bresciano “ta-lamóre”, è questa l’occasione per citare anche un paio di versicoli, uditi non ri-cordo dove, ma attribuibili ad un bresciano disperato, abbandonato dalla sua bel-la: “Or che mi resta, di tal amore?? Soltanto un mucchio di talamore!!”.Ma veniamo a più seri argomenti.Anzitutto, per il momento, non oso avanzare ipotesi sulla etimologia dello stranotermine bresciano per definir le ragnatele.Potrebbe esser questo motivo di ricerca e d’indagine del nostro Fögarì. Sempreche qualche dotto consocio non ne sia già... edotto. Quanto alla presenza delle “talamóre” nelle dimore cittadine o rurali, poteva anziesser presa come segno di... igiene, o addirittura di medicina!! È noto infatti comenella medicina popolare (demoiatria), o comunque nell’antica arte curativa, essefossero utilizzate per tamponare emorragie, soprattutto se causate da ferite acci-dentali, tanto frequenti specie nella società contadina!Udite adunque cosa ne dice, ad esempio, il sommo scienziato e medico del ‘500Pietro Andrea Mattioli, che cito dal più bel libro della mia caotica biblioteca, unesemplare cinquecentesco dei suoi celeberrimi Discorsi là ove parla “dei ragni”:“Quel ragno che chiamano Lupo, fregato ad una pezzuola di lino, o ad una faldetta di fila,e applicato alle tempie, ovvero alla fronte, cura la terzana. La sua tela ristagna il sangue,impiastrata sul luogo: e proibisce le infiammagioni nelle ferite, che sono tra carne e pelle”. Del Mattioli c’è un aggancio tutto bresciano, essendo egli stato ritratto dal nostroMoretto. Nel catalogo morettiano, stampato nel 1988 in occasione della grandemostra, è riprodotto (a p. 97) il quadro che lo raffigura, paludato, in solenne at-

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teggiamento didattico con dinanzi a sè copia del suo libro famoso. Il dipinto è da-tato MDXXXIII e si fregia di un motto in greco antico che è stato variamente in-terpretato: nîn ymcaˆj, (“con l’animo della mente”), che secondo il Da Como signifi-ca “con tutte le forze dell’animo e con ragionevole studio”. (Mattiolo, citato, ibid. p. 57).

(continua)

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1 Trad.: “Ho seguito nell’esposizione degli argomenti lo stesso ordine casuale che mi aveva guidatonella raccolta degli appunti”.

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Le leggende e i miti abitano un luogo cu-rioso a cavallo fra la tradizione popolare equella dotta; essi sono nati come espres-sione propria della gente umile e ora so-no spesso fatti oggetto di studio da partedi intellettuali. Questo interesse è segnodella paura che si estinguano ma anche diuna forte volontà di arrestare questo pro-cesso; di ciò abbiamo un esempio in Miti eleggende di Magasa e della Valle di Vestino.Pubblicato postumo, il testo vuole ripro-durre il dattiloscritto frutto del lavoro cheVito Zeni ha realizzato nel corso degli an-ni con la collaborazione di alcuni suoi exalunni. Egli, dopo aver insegnato per de-cenni alla scuola elementare di Magasa,approda a questa raccolta, fortemente vo-luta, che possiamo definire didattica; sal-vare la tradizione significa salvare la cul-

tura sì, ma insieme con essa pure l’educa-zione che per veicolare i propri valori siserve anche di questi miti e leggende.Nell’aprire il volume ci troviamo di fron-te a un insieme di testi apparentementepoco omogenei: semplici aneddoti di po-che righe o diverse pagine impiegate a re-stituire il perché della forma di un monteo di un masso o dell’origine del nome diuna rocca. In questo viaggio nella terra diValle di Vestino e di Magasa ci possiamoimbattere in pastori e carbonai che vivonoimprevedibili incontri con demoni e stre-ghe, mentre si spostano fra valli e boschiper il loro lavoro, ma possiamo incontra-re anche i conti e i loro “büli”. E se le stre-ghe e i demoni spadroneggiano, è veroche l’elemento storico trova il suo spazio,anche se spesso debitamente dissimulatoin un contesto magico. Numerosi sono,infatti, gli spunti storicamente individua-bili, come ci indicano le preziose note diDomenico Fava: si tratta di dispute fra isignori locali per lo sfruttamento di unpascolo, piuttosto che della peste o del-l’arrivo da lontano di nuove famiglie. Inquesto panorama, un posto a sé stante sem-

Segnalazionibibliografiche

VITO ZENI

Miti e leggende di Magasae della Valle di Vestino

Biblioteche Comunali di Valvestino e di Magasa - Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2004, pp. 60.

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segnalazioni bibliografiche

bra occupare il primo racconto: qui il dia-volo utilizza le bellezze delle terre a ovestdel Garda per tentare Gesù in una rivisita-zione del testo evangelico. Il maligno si ri-serva, però, di mantenere il controllo sullaValle di Vestino: è questa una sintomaticaannotazione che ci ricorda il legameprofondo di questa terra con il soprannatu-rale, legame che trova in questa raccoltaampia rappresentazione. Osservando benequesto racconto in incipit vi rintracciamo unfilo rosso, una chiave di lettura per ciò chesegue: a essere raccontata in questi brani èla lotta del demoniaco, ovvero di ciò che èoscuro e impalpabile, contro ciò che è chia-ro, manifesto e lecito, insomma l’ancestralescontro fra il bene e il male. Ogni raccontosi procura di rassicurarci che ad avere l’ul-tima parola è chi confida in Dio e si preoc-cupa di compiere il proprio lavoro onesta-mente. Più di una volta personaggi pocoonesti vengono puniti dalle ire divine gene-rando mutamenti della morfologia del ter-reno, affinché la memoria di questi avveni-menti non muoia ma resti viva in chi fre-quenta quei luoghi. Ad arricchire questaedizione troviamo sia delle fotografie diFranco Solina, sia dei disegni di RobertoMora, che spesso tentano di immortalareproprio questi eventi soprannaturali.Se la trasposizione in lingua italiana di ciòche in origine nasce e si diffonde in dialet-to può aver attutito la forza della formaoriginaria, i rimandi a luoghi e personag-gi, usanze e tradizioni ben circoscritti e rin-tracciabili permettono di gustare ancora lavivacità e la vitalità che queste storie veico-lano grazie al loro essere intimamente fi-glie della loro terra e di chi l’ha abitata.

Sara Venturini

La corposa e davvero maestosa opera rac-coglie tutto lo spaccato della storia locale,con contributi di vari specialisti, dalla to-ponomastica alla storia dell’arte. Ma il ve-ro corpo è costituito dalla parte centraledel volume, denominata “Annali della Co-munità di Marcheno, secoli XVI-XX”,uno spoglio sistematico di notizie sul cen-tro valtrumplino tratta da documenti epubblicazioni. Un lavoro imponente e paziente, che hainteressato non solo gli archivi comunalee parrocchiale locali e quelli di altri co-muni della Valle, ma anche ampi settoridel mare magnum degli archivi del capo-luogo (archivio di Stato, storico-civico,Diocesano), nonché giornali e pubblica-zioni per rintracciare notizie su Marche-no. Ne esce una mole enorme di notizie:non solo riguardanti gli atti e i momentidelle istituzioni pubbliche ed ecclesiasti-che (parrocchia, chiese, visite pastorali)ma anche molti risvolti della vita, ritrova-ta nelle filze notarili ed anche in giornali epubblicazioni praticamente oramai intro-vabili. Non mancano anche interessantidocumenti circa le attività economiche edartigianali, con importanti approfondi-menti, come nel caso di alcune lavorazio-

GIULIA PIOTTI, SANDRO GUERRINI, ARMANDO RICCI, IVO PANTEGHINI

Marcheno nella storia e nell’artea cura di VINCENZO RIZZINELLIe CARLO SABATTI

Comune di MarchenoLa compagnia della stampa Massetti Rodella editori, Roccafranca (Brescia), aprile 2004, pp. 392.

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segnalazioni bibliografiche

ni legate all’artigianato armiero, comequelle riguardanti della “serpa” e dell’ac-ciarino.Una parte specifica della raccolta docu-mentaria degli “Annali” riguarda le vicen-de delle costruzioni civili e sacre del pae-se. Quindi un’offerta quanto mai esau-riente di documentazione, utile agli stu-diosi per ulteriori approfondimenti sullavita delle comunità valtrumpline. Un piccolo neo è rappresentato dal fattoche la documentazione pubblicata non èdotata di un apparato regestuale che ren-da più facile la consultazione, e che il purnotevole sforzo di traduzione e adatta-mento linguistico dei documenti più anti-chi non è supportato dalla citazione lette-rale, cosa che invece è presente nei pochima interessanti documenti che riguarda-no la parte storico-artistica, curata da San-dro Guerrini. Qui si pubblicano alcuni do-cumenti che riguardano la figura di unpittore dei primi decenni del Cinquecen-to, Faustino Marinelli, uno dei tanti “pitto-ri” senza opere del Bresciano, ma che te-stimoniano una rete di maestranze artisti-che anche in territori decentrati rispetto alcapoluogo. Guerrini, che pubblica per laprima volta gli affreschi tardoquattrocen-teschi-cinquecenteschi da poco riemersinel presbiterio della parrocchiale e restau-rati, offre una breve ma interessante ana-lisi della pittura di questo periodo in ValleTrompia, attribuendo gli affreschi al co-siddetto “Maestro di Gardone”, figura de-lineata da Camillo Boselli per le tavoledella Pinacoteca di Brescia (provenientida Gardone Valtrompia), contribuendocosì a “recuperare” la personalità artisticadi un buon maestro bresciano, la cui per-

sonalità era stata in seguito assommatacon quella del “Maestro di Nave” attivo al-la Pieve della Mitria, ed anche a quella diPaolo da Caylina il Vecchio. Un’opera di“distinzione” che contribuisce a fare unpo’ di chiarezza nel panorama artistico diquesto intricato periodo, così come assaiutile è l’esame delle opere dei secoli suc-cessivi (pale ed affreschi della parrocchia-le) che portano ulteriori elementi ad unapiù puntuale conoscenza del patrimonioartistico del centro valtrumplino e anchedell’intera Valle, anche se non sempre tut-te le altre attribuzioni sono condivisibili,come accade per ogni studio in questocampo. Quel che non è condivisibile nellostudio del Guerrini è il tono talvolta unpo’ troppo asseverativo circa le ipotesiavanzate, e polemico con chi è giunto aconclusioni diverse, arrivando a qualcheeccesso, come l’insistenza per riconoscerela mano del Moretto giovane in un affre-sco alla Mitria. Ciò nuoce anche ai meritiindubbi di questo studio del patrimonioartistico di Marcheno, che dà l’occasionedi fornire alcuni utili approfondimenti so-prattutto su alcuni artisti noti tra Sei e Set-tecento, come Camillo Rama e FrancescoGiugno, o Francesco Pialorsi (Boscaì), maanche a definire ulteriormente figure mi-nori, come quella di Domenico Voltolini, oscoprirne delle nuove, su basi documenta-rie, come gli intagliatori Gian Paolo Scalvi-ni e Giacomo Marinoni di Brescia, autoridella soasa del Santissimo Sacramento del-la Parrocchiale. Puntuale e documentatissimo l’inventariodel prezioso patrimonio di arredi sacri ef-fettuato da don Ivo Panteghini.

Alberto Zaina

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segnalazioni bibliografiche

Il grande maestro dell’arte fotografica,Cartier Bresson, diceva, in un suo libro,che guardare le fotografie è come leggereun libro due volte: la prima con gli occhi,la seconda con la mente.L’operazione si ripete ogni volta che l’oc-chio viene catturato dall’immagine. Lastessa emozione si rinnova anche scorren-do prima e leggendo poi questo libro diPino Veclani; originario di Pontedilegno efotografo per passione prima che perprofessione, ha pubblicato numerosi librie guide fotografiche, oltre a collaborarecon aziende nel settore della fotografia in-dustriale e riviste specializzate.Il volume, dal titolo Terre Alte, immagini al-le pendici dell’Adamello raccoglie oltre centoimmagini ed è corredato dalla prefazionedel noto giornalista Mino Damato, il qualesottolinea come questo libro sia uno scavocompiuto dall’autore nella propria inte-riorità “una parabola della vita stessa”. Ed è proprio una parabola quella chel’autore compie; una parabola esistenzia-le, immortala negli scatti compiuti in ogniangolo di montagna, la sua passione. Ilsuo tratto naturalista lo porta, infatti, allaricerca delle perle che le cime sanno offri-re: sembra di tuffarsi in un paradiso scor-rendo le figure, essenza del volume. Le montagne prese a soggetto dal Nostrosono quelle a lui di casa, le pendici dell’A-damello; l’autore si mette in moto con le

sue gambe e va a cercare le “prede” pre-dilette secondo l’ispirazione che in quelmomento lo accompagna. Sono per lo piùscorci paesaggistici dei luoghi natii, ri-traendo i quali ritrae anche le personeche nei secoli li hanno animati, li hannofatti vivere: popoli, tradizioni, costumi eusi confluiscono in un’immagine che con-segna alla memoria il compito arduo diconservazione. Un viottolo, un lago su cuiil sole declina rispecchiandosi, un greggeal pascolo, un gruppo di donne impegna-te a raccogliere il fieno, un arcobaleno do-po il temporale che illumina uno squarciodi un piccolo borgo; e ancora, giochi edeffetti di luce che si staglia sulla neve ap-pena fresca, laghi, naturali o artificiali,che con il loro azzurro fanno da contrastoal candore delle vette innevate. Con questo bel volume, dalla carte pregevo-le, Pino Veclani ha deciso di regalare a chinon può o a chi vuole intraprenderlo nuo-vamente, un viaggio sulle montagne più al-te che la provincia bresciana annovera.

Umberto Scotuzzi

PINO VECLANI

Terre Alte. Immagini di Pino Veclani.Emozioni alle pendici dell’Adamello.

Edizioni PV, 2004, pp. 158.

SIMONE AGNETTI - FABIO MAFFEZZONICENTRO CULTURALE 999 (a cura di)

Nel giardino all’ombra dei cachi

Fondazione Civiltà Bresciana - Ente Morale Filippo Rovetta, Brescia 2004, pp. 265

La ricerca storica locale ha il pregio,quando è condotta con criteri scientifici epassione, di ridare vita a quelle che altri-menti sarebbero solo vuote diciture, ri-cordi destinati inevitabilmente a sbiadirecon il tempo. Appartiene a questa catego-

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segnalazioni bibliografiche

ria il volume Nel giardino all’ombra dei ca-chi, edito dalla Fondazione Civiltà Bre-sciana unitamente all’ente morale FilippoRovetta di Collebeato, che, nell’appenatrascorso 2004, celebrava i suoi ottant’an-ni di fondazione.Il saggio, che conta anche di una prefa-zione del Vescovo di Brescia, raccontaquasi un secolo di educazione dell’infan-zia e della gioventù nel comune posto nel-la cintura a nord di Brescia.Il testo ha evidenziato l’evoluzione del-l’ente morale Filippo Rovetta, passato dal-la gestione dell’asilo nei primi anni delNovecento all’azione educativa tra i giova-ni e giovanissimi che continua anche alpresente, dismessa la gestione della scuolaper l’infanzia agli inizi degli anni Ottanta.Un lavoro minuzioso che a buon diritto èentrato a far parte della collana Istituzio-ni bresciane, una delle più sentite damonsignor Fappani. Autori un gruppo digiovani storici locali, con la partecipazio-ne del professor Giovanni Francesconi ela sapiente regia di Simone Agnetti e Fa-bio Maffezzoni.La ricerca ha setacciato in maniera certo-sina i documenti nell’accezione più pienadel termine, ossia, stando alla definizionedel celebre storico March Bloch, tuttoquello che la storia ha lasciato dietro di sé:registri scolastici e verbali di assemblea,testimonianze orali, fotogrammi di filma-ti amatoriali e fotografie, quadri, giornali-ni e lastre commemorative.Il risultato è stato un testo che non lascianulla di intentato, percorrendo anche, conil passo paziente del cronista, gli anni a noicontemporanei, spesso - com’è nella natu-ra delle cose umane - non privi di lacera-

zioni e contrapposizioni. Quest’ultimo ele-mento è di fondamentale importanza, da-to che, per un vezzo per altro comprensi-bile, la storia a livello locale solitamente lasi fa terminare, per motivi di prudenza, adun buon cinquantennio prima.Tanto materiale ha poi trovato un’orga-nizzazione interna tale da metterlo al ri-paro da quel rischio di ipertrofia che, nondi rado, diventa la lapide tombale di mol-te, pur generose, pubblicazioni storiche,destinate a ingiallire poi mestamente sul-la scansia di qualche rigattiere.Il volume è ripartito in quattro capitoli:una ricognizione dei primi diciotto annidell’ente, a partire dal 1904, il cosiddettoperiodo istituzionale, che dura fino al1945, il lasso che va dal 1946 al 1983 e lacontemporaneità.Riemerge così tutto un mondo ora scom-parso, un recitativo a due voci che vedevada una parte abbienti filantropi come Fi-lippo Rovetta, dall’altra una comunitàche grazie ad essi riusciva ad aver accessoa servizi fondamentali come l’educazioneper l’infanzia.Il Rovetta, rievocato in una maniera cherisulta estremamente piacevole anche allalettura, avrebbe legato il proprio nome aCollebeato anche per una coltura che èdiventato l’emblema di questo comuneovvero le saporite pesche locali.Un buon libro si capisce anche dal titolo,amava ripetere un celebre scrittore, equesto Nel giardino all’ombra dei cachi sem-bra quasi apporre il sigillo definitivo aduna ricerca rigorosa e, allo stesso tempo,un amarcord che echeggia del vociare dibambini in un cortile, tanti anni fa.

Vittorio Nichilo

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segnalazioni bibliografiche

Marone, immagini di una storia è un atto diamore del maronese Roberto Predali (fi-glio e nipote di fotografi professionisti) al-la cittadina lacustre. Apparato iconografi-co - frutto di paziente ricerca presso ar-chivi e nuclei familiari - e saggi di diversorespiro costituiscono l’impalcatura fon-dante del libro.Le scansioni tematiche (le vedute, le vie dicomunicazione, le famiglie, il lavoro) subi-scono la passione conoscitiva per la pro-pria terra del curatore. Scorrono, dun-que, immagini e considerazioni che sonole coordinate di una ricerca storica inprofondità, con numerose incursioni neiperiodi politici attraversati. Predali, comeeditore, nella premessa annuncia altri vo-lumi di completamento e approfondimen-to. Intanto nel libro, dopo l’introduzionedi Gianfranco Porta che sottolinea qualeutilità tali pagine offrono per la conoscen-za della storia anche del Sebino, scrivonolo stesso Predali (Marone, note per un altrouso della fotografia), Milena Zanotti (Vedutedi paese narrate in cartolina), ancora Predali(La litoranea, la ferrovia, il lungolago Maro-ne), Giovanni Tacchini (Due fondamentalitematiche insediative: i casi di Marone e di Sa-le Marasino), Flavio Guarnieri (Marone edintorni nel poemetto “Il Sebino” di CostanzoFerrari), Renato Benedetti (L’industria dellalana, le origini: la Festola), Predali che trattaancora l’industria della lana.

Seguono Giacomo Felappi (Memorie diGiuseppina Cristini), Franco Robecchi an-cora sull’industria laniera, Predali con leimmagini della industria della lana. Fran-cesco Cristini tratta la Calchera Negrinel-li di Vello. Ugo Calzoni e Massimo Tede-schi presentano documenti e contributisulla Dolomite Franchi. Roberto AndreaLorenzi scrive su Famiglie consortili e co-munità rurali in terra bresciana nei secoliXVI-XVIII. Roberto Predali offre un’ac-curatissima Anagrafe fotografica sulla fa-miglia, corredata da schede notiziarie.Le pagine del libro sono 320 e sono unricco dono per la conoscenza antropolo-gica, se le fotografie sono viste con esege-si psicologica. Congratulandoci con l’ar-dito Roberto Predali, gli auguriamo di ve-dere presto alle stampe il secondo volumedella serie.

Sebastiano Papale

ROBERTO PEDRALI (A CURA DI)

Marone, immagini di una storia, Vol. I

FdP editore 2005, pp. 320