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L’ A ncora NELL’ U NITA DI S ALUTE ` Misericordia io voglio Sorella Elvira e l’apostolato della sofferenza Lo spirito cura il corpo. Per un viaggio alla scoperta di sé La presenza dell’Islam nello spazio pubblico italiano: a che punto siamo? L’interpretazione degli studi clinici Il Vangelo di Pier Paolo Pasolini Gabriele Roschini La pastorale della salute in parrocchia Recensioni e commenti Magistero Indice annata 2015 www.luiginovarese.org [email protected] RIVISTA BIMESTRALE DI PASTORALE DELLA SALUTE NOVEMBRE DICEMBRE 2015 ANNO XXXIV N. 6 6

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L’ AncoraNELL’UnitA

DI sAlUte

L’ Ancora NELL’Unità DI sAlUte

`

Misericordia io voglio

Sorella Elvira e l’apostolato della sofferenza

Lo spirito cura il corpo. Per un viaggio alla scoperta di sé

La presenza dell’Islam nello spazio pubblico italiano: a che punto siamo?

L’interpretazione degli studi clinici

Il Vangelo di Pier Paolo Pasolini

Gabriele Roschini

La pastorale della salute in parrocchia

Recensioni e commenti

Magistero

Indice annata 2015

Tariffa Associazioni Senza Fini di Lucro - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in. L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2 - DCB Roma Taxe perçue (tassa riscossa) Ufficio PT di Roma - Italy

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Rivista bimestRale di PastoRale della salute

novembredicembre 2015Anno XXXIv n. 6

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novembre/dicembre 2015Anno XXXIV n. 6

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Rivista Medico-Psico-Sociologico-Pastoralea carattere professionale scientifico

Fondatore:Mons. Luigi novarese

direttore responsabile:Filippo Di Giacomo

Legale rappresentante:Giovan Giuseppe Torre

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Armando Aufiero, Mara Strazzacappacomitato editoriale:

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nevio De Zoltcollaboratori:

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ANNO XXXIV - N. 6 - Novembre-Dicembre 2015Sped. abb. Post. - Comma 20/c, Art. 2, Legge 662/96 - Filiale di Roma

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Un numero ........................ d 8,00

Periodico associato all’Unione Stampa Periodica Italiana

L’Ancora nell’Unità di SaluteScienza e fede

a servizio della persona

L’Ancora nell’Unità di Salute: tre aree

di interesse per favorire, nell’ambito

sociosanitario e pastorale, la piena

dignità della persona sofferente.

L’area umanistica coglie, nell’ampio

spettro delle scienze, le comprensioni

più idonee a promuovere l’apostola-

to specifico della persona ammalata,

disabile o comunque sofferente. Più

specifiche dell’orizzonte apostolico

dei Silenziosi Operai della Croce (As-

sociazione internazionale proprieta-

ria della rivista), le aree teologica e

associativa. L’azione diretta e respon-

sabile delle persone disabili o amma-

late, una precisa responsabilità pasto-

rale come soggetti attivi nella società

e nella Chiesa, sono gli intenti che la

rivista si propone. Fondata dal 1978

da mons. Luigi Novarese, iniziatore

dell’apostolato per la promozione

integrale della persona sofferente, la

rivista accoglie contributi a carattere

scientifico, collocandoli all’interno

di percorsi multidisciplinari. Punto

di convergenza per ogni studio è

comunque dare luce e profondità

alla dignità di ogni umana esistenza

e al valore di salvezza che essa rive-

ste in virtù dell’incarnazione di Dio,

in Cristo Gesù.

L’AncorANELL’UnitADI SAlUte

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InDICE

Felice Di Giandomenico 484 Editoriale

Armando Aufiero 486 Misericordia io voglio

Remigio Fusi 498 Sorella Elvira e l’apostolato della sofferenza Relazioni e interventi nel libro

“Un’eco fedele all’insegnamento del Padre”

Pasquale Caracciolo 515 Lo spirito cura il corpo. Per un viaggio alla scoperta di sé

Stefano Allievi 520 La presenza dell’Islam nello spazio pubblico italiano: a che punto siamo?

(seconda parte)

Pietro Dri 529 L’interpretazione degli studi clinici (seconda parte)

Felice Di Giandomenico Michele Balducci 545 Il Vangelo di Pier Paolo Pasolini

A cura della Redazione 556 Gabriele Roschini

A cura della Redazione 558 La pastorale della salute in parrocchia

Vincenzo Di Pinto 560 Recensioni e commenti

A cura della Redazione 564 Magistero

A cura della Redazione 573 Indice annata 2015

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Testimonianza

Abbiamo letto per voi

Spunti per la lettura

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EDIToRIALE

Che la società attuale, sia piena di insidie ed, allo stesso tempo, di opportunità è un fatto senza prece-denti nella storia umana ed è ormai sotto gli occhi di tutti. Le crisi eco-nomiche e geopolitiche che stanno minando l’ordine mondiale sono la prova tangibile e visibile di come, l’uomo contemporaneo, risponda in modo quasi assurdo e poco attinen-te ai problemi o alle realtà fonda-mentali del suo tempo.

Un esempio su tutti è che, se scoppiasse un’altra “guerra mondia-le”, l’umanità potrebbe uscirne an-nientata.

Nonostante ciò, si continuano a spendere cifre enormi in armamenti seguitando a forgiare quei dislivel-li che riguardano il rapporto tra il potere di un gruppo ristretto di po-che nazioni ed il benessere del re-sto dell’umanità, tra sud e nord del mondo.

Non è azzardato, quindi, asserire che le attuali crisi mondiali deriva-no innanzitutto dai valori secondo i quali l’umanità sceglie di vivere e, purtroppo, gli atteggiamenti di chi “dirige” le note stanze dei bottoni,

si ripercuotono inevitabilmente sulla collettività creando in questo modo un circolo vizioso dove interessi per-sonali, arrivismo, competizione esa-sperata, idolatria del denaro, diven-gono aspetti peculiari di una realtà fittizia, orientata più alla soggettività che all’oggettività.

Ed è forse proprio da questa an-titesi su larga scala che si originano paura, avidità, egoismo, basi di tutta la violenza e l’aggressività a livello nazionale ed internazionale, aggra-vate, nel corso di questo secolo, dal materialismo e dall’eccessiva suddi-tanza nei confronti dell’economia e della tecnologia. È risaputo che la produzione, il commercio e l’uso di armamenti letali formano un’indu-stria che intasca enormi profitti dete-nendo potere economico e politico.

Questo stato di cose ha impedi-to le nostre capacità e soffocato la nostra volontà di nutrire, vestire, dare un tetto, istruire la gente a cui mancano le basi essenziali per po-ter vivere (forse sarebbe meglio dire sopravvivere, rende di più l’idea) in modo dignitoso e, tale aberrazione è talmente intrecciata con le economie

pp. 484-485

Per UnA chiArA viSione deL fUtUro ordine mondiALe

Felice Di Giandomenico

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Felice Di Giandomenico

nazionali e con la struttura politico-sociale, da resistere con successo a tutti gli sforzi di controllarlo e di ri-durlo a proporzioni tali da riflettere in modo più equo il suo valore reale di difesa di una nazione.

Purtroppo oggi sembra che a tut-ti i livelli, familiare, individuale, di comunità, di gruppo e di nazione si continua ad asserire che gli interessi del singolo sono, non solo più im-portanti, ma anche diversi dal bene comune dell’insieme più grande con l’inevitabile conseguenza di mettere in serio pericolo la stessa sopravvi-venza dell’umanità.

E non meno rilevante risulta l’im-patto che, una sempre più sofistica-ta tecnologia, ha su un immaginario collettivo sempre più proteso al be-nessere ad ogni costo, dove il rea-

le viene trasformato in virtuale con conseguente distacco dalla natura, dal sapere materiale e addirittura in-tellettuale. Anche la cultura sembra non volere più una vera funzione, quantomeno mentale; basta digitare su un tablet o su un iphone e il gio-co è fatto.

Gli apologeti della globalizzazio-ne, tanto fiduciosi e asserviti alle in-transigenti regole di un modernismo sempre più esasperato, dovrebbero riflettere meglio su quei valori che oggigiorno sono in via di estinzione, quali la solidarietà vera tra persone, la cooperazione tra popoli, un’equa distribuzione delle ricchezze, un rapporto con il reale più autentico e costruttivo di quello che si stabili-sce “quotidianamente” con il virtua-le. ■

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Papa Francesco ci richiama incessantemente a rinnovare il tessuto eccle-siale, assumendo una nuova prospettiva di evangelizzazione, nonostante le crisi e le difficoltà nel vivere la comunione. Come non condividere, dunque, l’appello del beato Luigi Novarese, a far sì che si diffonda un nuovo stile pastorale in tutti gli aspetti della vita: dall’ammalato oggetto di carità al soffe-rente “soggetto d’azione”, dalla comunità che è ferma e chiusa alla comunità che prega e serve i poveri, dalla vita dei presbiteri infermi, alla vitalità della Lega Sacerdotale Mariana, dalle barriere architettoniche e mentali alle attività pastorali dei sofferenti nei diversi ambienti di vita: ecclesiale, sociale, familia-re, del lavoro, della cultura, dell’ospedale.

miSericordiA io vogLio e non SAcrificio (matteo 9,13; cfr. osea 6,6). Il termine misericordia esprime quell’amore affettuoso e fedele che lega la

persona a Dio, il quale non vuole il rito sacrificale, non l’apparenza del ritua-le, non l’osservanza fredda di una pratica o di una norma, ma una relazione autentica di affetto.

Voglio una pratica di amore, non una pratica formale, esteriore; voglio entrare in relazione di amore con voi, diceva Osea a nome di Dio. Gesù ap-plica la parola del profeta alla sua condizione: io voglio rendere ogni persona capace di un’autentica relazione con me.

Come da tradizione, l’Anno Pastorale del Centro Volontari della Sofferenza è iniziato con il Convegno nazionale di programmazione che si è tenuto nella Casa “Cuore Immacolato di Maria” a Re (Verbania) per le diocesi del Centro-Nord Italia dall’11 al 13 settembre e nella Casa “Beato Luigi Novarese” di Valleluogo (Ariano Irpino) per il Centro-Sud dal 18 al 20 settembre. Quest’anno il titolo del Convegno è stato “Misericordia io voglio” e introduce al Giubileo Straordinario della Misericordia che inizierà l’8 dicembre 2015. Di seguito pubblichiamo la relazione svolta da don Armando Aufiero, Responsabile dell’Apostolato del Centro Volontari della Sofferenza.

miSericordiA io vogLioArmando Aufiero

Silenzioso Operaio della Croce

AREA TEoLoGICA

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Armando Aufiero

In questo senso misericordia non significa lasciar correre, lasciare che i peccatori restino peccatori e far finta di niente, ma il contrario: Gesù vuole che i peccatori non siano più peccatori.

Gesù siede a mensa con i peccatori perché vuole che non siano più pec-catori, perché vuole la misericordia, cioè vuole che noi rispondiamo a lui con un amore simile al suo. La perfezione della nostra vita sarà proprio quella di amare come lui ci ha amati.

«Misericordia io voglio» questo vuole il Signore da noi e crea in noi questa capacità: misericordia è proprio questo dono creatore di Dio che rende la persona capace di fare quello che Dio chiede.

È più facile dare dei riti formali che non tutto il cuore, difatti i riti formali li facciamo, le nostre pratiche le assolviamo, ma tutto il cuore è un’altra cosa. Il Signore ci chiede molto di più, quindi è oppressivo, chiede troppo? In realtà prima di chiedere ha dato e non chiede se non quello che ha dato; ha dato misericordia e chiede misericordia, ha chiamato Matteo, lo ha guarito come malato, ha fatto il miracolo, adesso si aspetta che Matteo viva da sano, si alzi e lo segua. Quello di Matteo è stato un miracolo per la vita, non un miracolo per una morte successiva come è stato per Lazzaro; in apparenza è un miracolo meno sensazionale, ma molto più importante, un gesto prodigioso che ha dato la vera vita. A Matteo la misericordia l’ha fatta Gesù, poi chiede che Matteo risponda all’amore con l’amore, ma gli chiede di fare quello che gli ha donato, perché gli ha dato la capacità di farlo. Ogni vocazione segue questo schema: prima c’è sempre un dono che diventa un impegno. Il Signore ci chiede di vivere quello che ci ha dato, e la vocazione è prima di tutto un dono, una crea-zione di qualcosa di nuovo: è l’intervento creatore di Dio che rende la persona capace di relazione nuova. L’impegno nostro è vivere questa capacità.

“SiAte miSericordioSi,come iL PAdre voStro è miSericordioSo” (Lc 6,36)

La misericordia è un sentire, una realtà che riguarda l’altro ma che descri-ve me. Misericordioso è colui che conosce questa inclinazione e si apre verso questa morbidezza verso l’altro che deve essere compreso. Da una parte la misericordia dice la necessità dell’agire, esprime cioè la benevolenza, l’a-more, concetto molto ampio di cui il suo tratto specifico è una disposizione pratica, cioè colui che ama non prova qualcosa, ma fa qualcosa. Sorprenden-temente non abbiamo a che fare con una descrizione del cuore, ma dell’agire

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e così la misericordia si traduce in un toccare l’altro, in un occuparsi dell’al-tro. Dall’altra, la misericordia dice anche quale deve essere il contenuto del nostro agire: perché l’altro rinasca, sia rigenerato. Chi mi ha amato veramente non ha avuto solo tenerezza nei miei confronti, e nemmeno ha fatto solo qualcosa di buono per me, ma lui si è occupato del mio cambiamento, di non lasciarmi lì dove mi trovavo e spesso a rischio del proprio interesse. Mi ha amato perché io crescessi, si è occupato di me perché io rinascessi, non imponendomi un cambiamento, ma donandomi un’occasione. Questo è Dio: ci ama con una parte di sé che ci rigenera, quando ci perdona ci fa rinascere.

C’è un terzo passo: siate misericordiosi come il Padre vostro è misericor-dioso. C’è un rapporto reciproco tra il perdono che diamo e quello che rice-viamo. Il protagonista è Dio e la strada del perdono verso l’altro è la strada del mio cambiamento. Questo è il vero problema: noi abbiamo bisogno di trovare misericordia. Perché? Dio mi ama non perché sono buono, ma così come sono, perché io accetto di vivere del suo perdono. Questo amore così grande viene dato gratuitamente, come dono ci viene data la possibilità di avere i tratti del volto di Dio e quindi posso perdonare gli altri. Se il nostro problema è stare di fronte al male che abbiamo subìto e dobbiamo industriar-ci per perdonare la persona che ce lo ha fatto e non ci riusciamo e stiamo in difficoltà: non riesco a perdonare, non ce la faccio… questa condizione è di inganno, perché non dice la verità. Se il punto di partenza è il peccato dell’altro, io non arriverò mai perché non saprò mai cosa fare veramente. Il nostro problema non è perdonare, ma essere perdonati, è avere un contatto con il nostro bisogno profondissimo di perdono, non è la misura del peccato altrui, ma di quello nostro! Perché il peccato altrui è sempre pagliuzza, men-tre il mio è sempre trave, che mi toglie la luce. Puntare sull’altro mi distoglie dal centro. Partire dal nostro bisogno di misericordia è la chiave per entrare nella misericordia operativa verso l’altro.

Un teSoro di coSe nUove e di coSe AnticheNel Pontificato di papa Francesco il termine gioia (gaudium) ritorna a

più riprese per descrivere il dinamismo del credere e del comunicare la fede. L’Evangelii gaudium, dunque. A ben guardare, lo stesso contenuto di questo documento non è a sua volta nuovo. Per molti aspetti, riflette infatti il pensiero di Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, nonché di Benedetto XVI nella Porta fidei, la Lettera apostolica con cui ha indetto l’Anno della Fede.

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Eppure, non è esagerato affermare che quello donatoci da papa Francesco è un testo nuovo, in quanto ci riporta alla novità di quanto sta accadendo in questa stagione della storia umana e nel contempo ci invita ad affrontarla con la freschezza sempre nuova dell’esperienza cristiana.

“La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si in-contrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”, scrive il Papa, dove subito chiarisce: “In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni” (EG 1).

Innanzitutto, perché il Papa parla di “una nuova tappa evangelizzatrice”? Cosa la rende necessaria?

iL riSchio di ritrovArSi inSiPidiLa società ha assunto ormai una forma sempre più plurale e complessa.

Ce ne accorgiamo anche solo riflettendo su ciò che emerge relativamente al senso dell’umano: non assistiamo tanto al confrontarsi o a volte al confonder-si di una molteplicità di prospettive, quanto piuttosto al frammentarsi dello sguardo, al venir meno di visioni d’insieme. Alle antiche ideologie con la loro pretesa totalizzante, subentrano nuove teorie – più o meno implicite – e nuovi saperi che pretendono di tracciare le coordinate entro le quali limitarsi semplicemente a descrivere e a spiegare i comportamenti dell’uomo, ridotto spesso a mera procedura, a meccanismo o a semplice automatismo.

La convinzione, diffusa nel modo di vivere prima ancora che nell’elabo-razione teorica, è che paradossalmente non si possa neppure dire che cosa significhi essere uomo e donna. “L’esperienza ce lo insegna: per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna”, ha ricordato puntualmente il Papa nella catechesi dell’u-dienza generale, aggiungendo: “Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda; senza l’arricchimento reciproco in questa relazione – nel pensiero e nell’azio-ne, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede – i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna”. Non per nulla, con la chiarezza che lo caratterizza, papa Francesco si è chiesto “se la cosid-detta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più

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confrontarsi con essa”. Di qui, appunto, il richiamo all’uomo e alla donna a “parlarsi di più, ascoltarsi di più, conoscersi di più, volersi bene di più”.

Più in generale, nel dibattito offerto dai media respiriamo confusione e in-certezze: non c’è una misura dell’umano da raggiungere o da far valere quale criterio nel giudizio che orienta le scelte degli individui come dei legislatori, degli imprenditori come dei finanzieri, dei lavoratori come degli ammini-stratori, degli amici come dei genitori. Ci sono piuttosto, di volta in volta, le situazioni, i bisogni, le esperienze nelle quali siamo implicati: frammenti di tempo e di vita, spezzoni di relazioni da imparare a gestire, da provare a tenere insieme, ma la cui possibile unità sembra essere affidata unicamente allo sforzo di volontà o alla capacità organizzativa del singolo. Gli eventi e le relazioni, nella vita di ciascuno, rischiano di essere frammenti isolati e scissi, nel contesto di un’esistenza che si riconosce come comune a quella degli altri uomini a partire da un caso, da una necessità o da una scelta, ma raramente a partire da un senso ricevuto ed accolto. L’individualismo esasperato, che ha dominato nella civiltà occidentale il tempo dell’espansione economica fino a portare alla crisi attuale – antropologica ed etica, prima ancora che economica – ha prodotto il dissolversi dei legami che dovrebbero invece tenere coesa una collettività, facendone una società, un popolo con le sue istituzioni. Legami costitutivi, dunque, che richiamandosi gli uni con gli altri disegnano il volto dell’umano.

Inutile aggiungere che il contesto di postmodernità in cui ci muoviamo è gravido di sfide e di domande di senso anche per la fede. Il cristianesimo sociologico è tramontato un po’ ovunque; soltanto nella memoria degli adulti sopravvive quel tempo nel quale cristiano e cittadino coincidevano. Si na-sceva e si moriva in un ambiente “naturalmente” cristiano, che in quanto tale plasmava linguaggi e visioni dell’esistenza…

A ben guardare oggi di tutto questo rimane poco. Paradossalmente, resta in molti una nostalgia di un passato idealizzato, rispetto al quale il confron-to con il presente rischia di essere motivo di amarezza, di chiusura, di un cammino intrapreso con lo sguardo rivolto al passato. È l’atteggiamento della moglie di Lot, che – dice, appunto, la Genesi – “guardò indietro e divenne una statua di sale” (Gn 19,26). Di fatto, si tratta di una prospettiva davvero paralizzante: ce ne accorgiamo a livello pastorale, dove il rimpianto per ciò che, a torto o a ragione, si ritiene perduto si traduce in un attivismo sterile: si moltiplicano le iniziative, non si trova più tempo per fermarsi né con le

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Armando Aufiero

persone né con il Signore, nella vana tensione a riportare le cose a come erano prima, quando la parrocchia di fatto coincideva con il territorio e i suoi abitanti… Senza giudicare le buone intenzioni e la generosità di molti preti e operatori pastorali, dobbiamo però riconoscere che lungo questa strada più che risultati si raccolgono frustrazioni e risentimenti. Si rimane, allora, vittima di quel “grande rischio del mondo attuale” che è “una tristezza individualista” (EG 2), che quando contagia i credenti, li trasforma in “cristiani che sembra-no avere uno stile di Quaresima senza Pasqua” (EG 6); eppure – lo sappiamo per esperienza personale – un evangelizzatore non dovrebbe mai avere “una faccia da funerale” (EG 10). La più grande minaccia, avverte il Santo Padre, è “il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logo-rando e degenerando nella meschinità. Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo” (EG 83).

Si diventa una Chiesa «fuori corso», avvertita come tale dai nostri contem-poranei e, quindi, abbandonata.

UnA ProPoStA eSigenteSu questo sfondo, cala la dirompente la proposta di papa Francesco,

quando ribadisce la necessità di “passare da una pastorale di semplice con-servazione a una pastorale decisamente missionaria”1. È proposta esigente, la sua; né potrebbe essere diversamente. Domanda quella fiducia del cuore e della mente che impedisce lasciarsi prendere da un “pessimismo sterile” (EG 84). Domanda lo sguardo di chi riconosce come nei deserti della società ci siano molti segni della “sete di Dio”, rispetto ai quali c’è bisogno di persone di speranza, “persone-anfore per dare da bere agli altri” (EG 86). Domanda, soprattutto, “un improrogabile rinnovamento ecclesiale”, che passa dal far crescere “la coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa”.

L’esperienza ecclesiale alla quale il Papa non si stanca di richiamarci è viva, propositiva e cordiale: “Sogno una scelta missionaria capace di trasfor-mare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso:

1 V Conferenza Generale dell’episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (31 maggio 2007) n. 370).

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fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordi-naria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di «uscita» e favorisca così la risposta po-sitiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia” (EG 27).

Sono orientamenti di fondo di cui trovo il riflesso già nell’articolazione del Progetto Triennale di Confederazione, laddove la Chiesa viene a esprimersi in una pastorale di comunione che coinvolge soggetti e strutture di parteci-pazione, Chiesa che annuncia e celebra, Chiesa che vive il ministero della carità, della cultura e della comunicazione.

Cara gente, non è più tempo – ammesso che lo sia mai stato – per ripie-garsi sulla lamentela di quello che manca o per concentrarsi sulla zizzania, invece che sul vino nuovo o sul grano che già biondeggia. Papa Francesco ci esorta a “recuperare la freschezza originale del Vangelo”, trovando “nuove strade” e “metodi creativi” (EG 11). Si tratta “di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno” e che spinge a porsi in uno “stato permanente di missione” (EG 25). L’appello è rivolto a ognuno di noi: “Tutti siamo chiamati a questa nuova «uscita» missionaria”, a “uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo” (EG 20).

Occorre, perciò, evitare una pastorale “ossessionata dalla trasmissione di-sarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere” (EG 35).

Non che sia scontato! Quante volte – come rileva papa Francesco – ci misuriamo con il pericolo di parlare “più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della Parola di Dio” (EG 38). Di qui l’urgenza di semplificare la proposta, senza che questo comporti un “perdere profondità e verità” (EG 38), per concentrare il nostro annuncio “sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario” (LG 35); per andare, dunque, al “nucleo fondamenta-le”, al contenuto, ossia alla “bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto” (EG 36).

Siamo chiamati ad annunciare la bella notizia della Pasqua del Signore dentro ogni esistenza umana, così che possa illuminare i diversi ambiti della vita delle persone. E quello della fragilità è uno dei «luoghi» che fanno emer-gere le domande vitali, rispetto alle quali la missione della comunità ecclesia-le è quella di far risuonare i “sì” di Dio.

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Armando Aufiero

In questa prospettiva, l’annuncio dell’amore di Dio – la sua misericordia – precede la richiesta morale; la gioia del dono viene prima dell’impegno della risposta, l’ascolto e la prossimità sono condizioni per l’accoglienza. Chi assume questo orizzonte, non fatica ad avvertire quanto il nostro tempo – pur con tutte le contraddizioni di cui è carico – sia un tempo particolarmente favorevole alla missione. L’uomo d’oggi, spesso così schiacciato, è un uomo che attende l’annuncio del Vangelo.

LA chieSA, UnA cASA PreSSo Le cASePerciò, parafrasando ciò che papa Francesco diceva agli scrittori della Ci-

viltà Cattolica, il nostro compito principale “non è di costruire muri, ma ponti, è quello di stabilire un dialogo con tutti gli uomini… E per dialogare bisogna abbassare le difese e aprire le porte”2.

“La Chiesa – scrive ancora il Papa nell’Evangelii gaudium – è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre… Nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi”. La stessa “Eucaristia, seb-bene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convin-zioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa pa-terna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa” (EG 47).

Chi non afferra la grazia e la libertà offerte dal cristianesimo, può soltanto scandalizzarsi e recriminare, senza capire quanto il Papa afferma: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piutto-sto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli” vivono senza l’amicizia di Gesù (EG 49).

Il Papa non smette di scuoterci, additandoci la via della missione, perché la sappiamo affrontare con quel vigore che trova il suo volto più autentico nello stile della gioia. È la gioia che nasce dalla consapevolezza di quanto gratuitamente ci è stato dato; è la gioia che si fa carità, desiderio di condivi-dere con gli altri quanto di più prezioso abbiamo ricevuto in dono.

2 Discorso alla Comunità degli scrittori de “La Civiltà Cattolica”, 14 giugno 2013.

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MiSericordia io voglio

AREA TEoLoGICA

Passare “da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale mis-sionaria” esige quest’esperienza profonda della gioia del Vangelo, che nessu-no può trattenere per sé: “La missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo” (EG 268). “Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri” (EG 272). Perché, “se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita” (EG 274).

Il nostro Anno Pastorale raccoglie e rilancia proprio questa sfida. A noi, dunque, l’augurio sincero di esserne all’altezza.

cvS: LA forzA deLLA frAgiLitàOggi più che mai il CVS gioca un ruolo importante nella nostra società.

Nella nostra Chiesa c’è un po’ di smarrimento, la realtà appare così fragile anche perché le forze sono diminuite. Il rischio più grande è l’accidia, uno dei peccati più combattuti dai monaci antichi. Si tratta di quel virus che insidia l’amore, quella pigrizia intellettuale e spirituale che ti spinge a non trovare più gusto nell’amare, nel non trovare passione nella preghiera. Non facciamoci coinvolgere da questo momento di scoraggiamento. Con-tinuiamo ad essere autentici, coraggiosi, pieni, sproniamo i nostri pastori perché loro ci dovranno guidare ma anche noi dobbiamo rimboccarci le maniche.

Il nostro carisma ci ricorda che la fede nasce dallo sguardo a chi è più po-vero. E in quest’ottica la parola fragilità diventa scuola di vita, dobbiamo co-gliere la bellezza dentro le nostre fatiche. I padri del deserto hanno racchiuso questo concetto in una bellissima frase: «La perfezione non sta nel salire ma nel discendere». A me piace chiamare tutto questo il triangolo delle tre C: Cristo, Chiesa, cuore. Quello che ha fatto Gesù lo faccia la Chiesa, quello che è chiamato a fare la Chiesa lo faccia il mio cuore. Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà, così la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. La Chiesa non è stata costituita per cercare la gloria in terra bensì per diffondere, anche con il suo esempio, l’umiltà del Cristo povero. Come Cristo è stato inviato dal Padre ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire coloro che hanno il cuore contrito, a salvare ciò che era perduto, così la Chiesa deve circon-dare di affettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza. Se questo triangolo è chiaro, ogni azione avrà sempre una sua fondazione e i poveri

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Armando Aufiero

saranno sempre l’immagine di Dio. Ricordiamoci sempre: è il povero che ci salva e non il contrario.

Ricordo lo sconforto di un cappellano del carcere, che di fronte al rac-conto nei minimi particolari di come un detenuto aveva ucciso brutalmente una donna, rimase talmente inorridito che tornato a casa si lavò subito le mani per non avere più segni di quell’incontro e mi chiese: davanti a tanto male ha un senso la figura di un cappellano in un penitenziario? I pensieri lo spingevano fino a considerare l’ipotesi di dare le dimissioni. Con il passare delle settimane ha ritrovato la bussola meditando su quelle poche parole che gli avevo consegnato: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericor-dioso» (Lc 6,36). Da lì la domanda era diventata: come si fa a restituire a Dio il bene che ci ha dato? E questa è la risposta: il povero è il segno teologico della restituzione a Dio della gratuità. Vedete ancora la triangolazione: gratu-itamente ho ricevuto, gratuitamente dono e lo faccio per riconoscenza e non per beneficienza.

La gratuità scardina i criteri meritocratici del mondo di oggi e rompe gli schemi del do ut des. Cristo va oltre il merito e si è fatto servo dell’uomo. Stesso tragitto deve compiere la Chiesa. Un po’ come Giovanni Paolo II che con il Parkinson non parlava più al mondo con le parole, ma con i segni. Dobbiamo, dunque, recuperare tutta una serie di segni meravigliosi molto fragili, ma preziosismi.

La fragilità ha una forza incredibile. Esprimiamolo con una immagine meravigliosa. I sassi da soli hanno poco valore ma ben incuneati possono diventare dei resistenti muri a secco, anche senza bisogno della calce. Que-sti sono i gruppi d’avanguardia, questo è prendersi cura dell’altro, questa e la premura di cui oggi abbiamo tanto bisogno. Se riusciamo a creare questa capacità di incastonarci l’uno con l’altro, di costruire insieme. Ognuno di noi deve dunque diventare una pietra di questa cinta muraria che nessuno potrà mai far crollare. Ecco come la fragilità diventa forza. Quando sono debole divento forte perché non sono più solo, ma c’è la forza di Dio in Cristo Gesù che mi dà coraggio e c’è la relazione positiva con l’altro. Se si riesce anche a coltivare il gusto del perdono e della collaborazione si costruiscono cose meravigliose e si applica in pieno la logica dell’amore che dà vita. Il vero abbassarmi all’incontro con Dio si ha quando non sono scandalizzato dal peccato dell’altro perché guardo il mio e mi domando se Dio me lo abbia perdonato.

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MiSericordia io voglio

AREA TEoLoGICA

Il passaggio chiave è l’essere coscienti del male fatto. Nessuno di noi na-sce cattivo, la cattiveria è una sofferenza inacidita. Quando non hai nessuno che ti asciuga le lacrime, nessuno che ti guarda e che ti capisce, la sofferenza si tramuta in rabbia, in vendetta. Per questo è necessario condannare la vio-lenza ma anche comprenderla. Madre Teresa usava l’immagine della matita che unisce i puntini nel gioco della settimana enigmistica. Ogni puntino ha il suo numero, ma al primo sguardo non si capisce nulla. Ma dietro c’è un di-segno pensato e tu lo devi compiere. Cosa dice Gesù prima di morire: «Tutto è compiuto». Qualcuno potrebbe chiedersi perché il punto cinque è in alto e il sei in basso? Questo è il mistero. L’obbedienza è a Dio che ti ha pensa-to. Dio ci ha conosciuti, ci ha predestinati, ci ha chiamati, ci ha giustificati e glorificati. Sono i cinque verbi di San Paolo che insieme costituiscono un’ar-monia splendida. A noi tocca prendere la matita e andare avanti con fiducia anche quando ci sembra strano che il cinque sia in alto e il sei in basso. Lo comprenderemo dopo. Questa è la vita. Posso sempre spaccare la matita o disegnare ciò che voglio ma il risultato sarà sempre uno scarabocchio. Ognuno di noi deve capire che è stato pensato. La felicità sta nel fare ciò che Dio ha pensato per me. Ed ecco allora che il discernimento di Sant’Ignazio, che viviamo negli Esercizi spirituali annuali, diventa preziosissimo perché ci insegna in maniera mirabile cosa vuol dire interrogarsi sulla posizione dei puntini e dove mi stanno portando. È come una potatura, dove la prima cosa da tagliare è il tralcio più grosso, quello che ha fatto più frutti l’anno prece-dente. Il contadino quando pota la vigna intravede l’uva che verrà. Lo stesso vale per la fede: altro non è che intravedere Dio nelle cose che non vedi oggi. «Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi», abbiamo imparato dal Piccolo Principe. La felicità dipende da che cuore metti nelle cose che fai.

concLUSioneConcludo con una storia semplice che probabilmente vi farà ridere. Alcuni

amici trentini andarono in Sicilia. A Taormina in un giorno particolarmente caldo videro lungo la strada dei fichi d’India, frutto per loro sconosciuto pri-ma di allora. Dopo averli raccolti tolsero velocemente le spine più grosse e li misero in bocca. Non potete immaginare il dolore... Qualche istante dopo un ragazzo del luogo, che aveva assistito alla scena divertito, tirò fuori il suo temperino, fece due tagli e diede loro il fico senza spine. Noi siamo come

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i fichi d’India. Se ti accosti in maniera diretta all’altro (i malati, i problemi, i guai e via dicendo), riceverai in cambio le sue spine e tu penserai di averlo dominato quando in realtà sei tu che soffri. Se invece tratti l’altro (sai capire il sofferente, sai capire questo tempo, la sua famiglia, la vita associativa, il carisma) non con le spine ma nella logica della capacità di entrare nel giusto verso, tutto andrà per il meglio. Ognuno di noi ha un verso spinoso e uno dolce, dipende da come siamo accostati. Dobbiamo essere capaci di leggere l’altro non nella logica del fico d’India spinoso, ma nella logica del frutto meraviglioso che è. ■

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SoreLLA eLvirA e L’APoStoLAtodeLLA SofferenzA

relazioni e interventi nel libro“Un’eco fedele all’insegnamento del Padre”

Remigio FusiSilenzioso Operaio della Croce

“Un’eco fedele all’insegnamento del Padre”1: questo è il titolo del libro che raccoglie venti relazioni che Sorella Myriam ha tenuto nei Convegni nazionali e internazionali dell’Associazione. Dopo la dipartita di monsignor Novarese, la parola di Sorella Myriam si è rivelata più che mai un’eco fedele dell’inse-gnamento del Padre.

“Il Padre dell’Associazione - scrive don Antonio Giorgini nella prefazione del libro - è certamente la “guida che continua”, perché tutti i suoi figli spiri-tuali vivano e testimonino il carisma associativo. La Sorella Myriam - Sorella Maggiore - che il Signore ha voluto che sopravvivesse a Lui, col compito spe-cifico di completare l’Opera, dà a tale guida vivacità, fermezza ed autenticità”.

“Nelle relazioni, continua don Giorgini, e negli scritti di Sorella Myriam, emergono le luci più vive che illuminano la vita e l’attività di monsignor No-varese e i primi 40 anni di vita associativa”.

1 E. M. Psorulla, Un’eco fedele all’insegnamento del Padre, Edizioni CVS, Montichiari (Bs), 1991.

Il 13 agosto scorso, all’età di 86 anni, è scomparso don Remigio Fusi,uno dei più stretti collaboratori del beato Luigi Novarese. Don Remigio,grande divulgatore, amava molto scrivere per la diffusione e per la promozione della spiritualità e della valorizzazione della sofferenza.Ci piace ricordarlo, pubblicando un suo articolo inedito, su una serie di interventi e relazioni di Sorella Elvira Myriam Psorulla tenute durante vari Convegni organizzati dai Silenziosi Operai della Croce, nei quali sono evidenti la profondità di spirito e il carisma apostolico condivisi con monsignor Novarese.

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AREA TEoLoGICA

pp. 498-514

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Remigio Fusi

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Partiamo dalla prima relazione, riportata nel libro, tenuta al convegno inter-nazionale dei “volontari della Sofferenza”, svoltosi a fatima dal 4 all’8 luglio 1968, dal tema: “che cosa è l’apostolato dei volontari della Sofferenza”.

Dopo aver parlato delle origini e delle finalità del Centro Volontari della Sofferenza, spiega il significato di “volontari”, definizione che fa paura a molti: “La denominazione si è ispirata alla necessità di continuare la testimo-nianza del Cristo nel mondo. Il Cristo si è offerto perché ha voluto: Egli è un volontario della sofferenza, “oblatus est, quia ipse voluit”, per cui Gesù Cristo è il “primo volontario della sofferenza”. Ed ancora: “Il concetto della volon-tarietà ci porta, inoltre, a Colei che ha animato questo apostolato, la Vergine Santa, per cui chi aderisce al Centro Volontari della Sofferenza offre il frutto spirituale della sua vita dolorante, per il raggiungimento della triplice finalità, nello spirito della dottrina di S. Luigi Maria Grignon di Montfort”.

Nello scritto di Sorella Myriam appare evidente il pensiero di Monsignore che così s’esprimeva: “La volontarietà non consiste nel voler essere ammalati, ma nel voler donare a Maria Santissima ciò di cui si può disporre; nel nostro caso, la sofferenza santificata dalla grazia”.

Richiama, poi, le linee fondamentali che vengono propagandate e soste-nute dal Centro: “L’uomo, scrive, raggiunge la sommità della propria vita so-prannaturale cooperando, in unione a Nostro Signore Gesù Cristo, al proprio e all’altrui riscatto. Il sofferente, per quanto bisognoso di aiuto, di assistenza materiale, di conforto spirituale, è nella Chiesa soggetto precipuo per la pos-sibilità che ha di offrire e meritare per l’intera umanità; ha nel Corpo Mistico una responsabilità vocazionale di corresponsabilità per la salvezza spirituale delle anime. Noi, volontariamente ci uniamo a Cristo per continuare in Lui e per mezzo di Lui questa volontarietà universale”.

Come è bello cogliere anche qui la sintonia di quanto affermava il nostro Padre Fondatore! Egli scriveva, infatti: “I Volontari della Sofferenza sono gli ammalati che, consapevoli del loro impegno battesimale, vivono con re-sponsabilità nella vita della Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, offrono volonta-riamente, secondo le Richieste dell’Immacolata fatte a Lourdes ed a Fatima, le loro sofferenze… dicono “sì” al progetto di Dio (Gv 3,16) che ha redento il mondo attraverso la Croce e la Risurrezione di Cristo; si offrono a Dio in piena disponibilità, con l’intento di completare ciò che manca alla Passione di Cristo per il suo Corpo (cfr. Co1, 24)”.

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Sorella elvira e l’apoStolato della Sofferenza

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Dopo i contenuti, ecco i mezzi per attuare l’apostolato: “Sono quelli pre-sentati dalla Madonna stessa, preghiera e penitenza. La preghiera che ci porta alla meditazione della vita di Gesù e di Maria Santissima attraverso la me-ditazione ordinaria personale, è la recita del Santo Rosario. La penitenza, in primo luogo, come ci ha detto Giovanni XXIII, nell’Udienza in S. Pietro del 19 marzo 1959, è “la santificazione del lavoro e del dolore”. Penitenza volon-taria suppletiva, dopo che sia stata attuata tutta quella generale, comune e richiesta a tutte le classi sociali”.

Anche in questo emerge il pensiero e la parola del beato Novarese: “Il Rosario è formazione pedagogica alla preghiera vocale e mentale. Come è possibile allenare alla meditazione se non attraverso una preghiera lenta, tranquilla, pronunciata delicatamente? Il Rosario è attuale perché è una vera educazione che porta a Cristo; è attuale perché richiamato dalla Madonna a Lourdes ed a Fatima… Penitenza significa santificazione: santificazione del lavoro e del dolore, quali prime penitenze imposte da Dio all’umanità”.

Ora richiama la tattica del nostro apostolato: “l’ammalato per mezzo dell’ammalato con la collaborazione del fratello sano”.

È l’ammalato, dice, che deve conquistare il malato, che deve agire, se con-vinto delle proprie idee apostoliche, diventando così un elemento di ponte nella vita parrocchiale e diocesana.

Indica, poi, lo stile dell’apostolato: “Favorire incontri mariani, arrivando a consacrare alla Madonna le anime che si vogliono conquistare, affiancandole in piano umano con l’amicizia ed il dialogo, sostenendole, invece, in piano soprannaturale con la preghiera e la penitenza… questa è l’arma potente e sempre efficace che noi abbiamo riscontrato nei contatti individuali, negli Esercizi spirituali e nelle Missioni nei Sanatori e nei Lebbrosari”.

Sono l’eco dell’insegnamento di monsignore Novarese. Egli vede nella Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria l’unica possibilità di far fiorire l’amore. “La Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, scrive, deve essere il seme e poi la Madonna farà fiorire l’amore. Quando noi riconosciamo il diritto di Maria Santissima su di noi, Ella poi con più facilità eserciterà la Sua presenza su di noi”.

Sorella Elvira chiude la sua relazione con le parole di Paolo VI ai Volontari della sofferenza, adoperarci “…a tessere vincoli di unione organizzativa e spirituale con i nostri ammalati”. E con un invito rispettoso e pressante alle benemerite organizzazioni che operano e rendono prezioso quest’incontro

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Remigio Fusi

internazionale per “l’Unione Mondiale dei malati, per discutere assieme pro-blemi e metodologie che interessano i nostri sofferenti”.

E questo era il desiderio e il sogno di monsignore Novarese. Nello Statuto dei Silenziosi Operai della Croce si legge: “I Silenziosi Operai della Croce dan-no impulso alla vita ed all’azione del Centro Volontari della Sofferenza per la diffusione della “valorizzazione della sofferenza” e della “promozione integrale della persona sofferente”, nell’universalità dei popoli e delle esistenze”. Un sogno che si sta realizzando con la Confederazione Internazionale dei Centri Volontari della Sofferenza.

Al convegno internazionale dei “volontari della Sofferenza”, realizzato a mariazell (Austria) il 2-7 giugno 1973, Sorella elvira myriam svolse il tema: “Lo stabile aiuto per la valorizzazione della sofferenza: un segno dei nostri tempi”.

L’AmmALAto: PUnto d’AttrAzione deLLA cAritàInizia richiamando il piano di Redenzione, “nel quale Cristo non soltanto

ci ha resi partecipi della vita divina, ma si è identificato nei fratelli sofferenti e bisognosi ed ha presentato al genere umano la grande carta della carità, a cui si uniformò e continua ad uniformarsi ogni anima di buona volontà”.

“Dalla considerazione del malato, vera trasparenza di Cristo, continua Sorel-la Elvira, prendono vita e forza tutte le forme della carità, che mirano a solle-vare e lenire la sofferenza dei fratelli lungo la loro dolorosa salita al Calvario”.

Ricorda, poi, “l’assistenza verso gli ammalati svolta dalla Chiesa verso i malati in tutti i secoli, fino al giorno d’oggi, è l’attuazione pratica del precet-to, sempre vivo e attuale, di Nostro Signore Gesù Cristo: ‘Ciò che avete fatto anche al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me’. In questa visione evangelica l’ammalato è il meraviglioso punto d’attrazione della carità; egli ne è l’ambìto oggetto da parte di chi desidera integralmente testimoniare Cristo”.

Ed ancora: “In questa visione di esercizio stabile di sollecitudine operosa, caritatevole… restava un secondo aspetto che direttamente tocca il malato e che doveva essere pur colmato allo scopo di attuare il disegno… diretto all’insegnamento soggettivo, frutto di scelta, da parte del sofferente stesso, del piano della Redenzione... L’azione positiva che il sofferente può svolgere consiste nel suo volenteroso inserimento nel piano della salvezza”.

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Sorella elvira e l’apoStolato della Sofferenza

AREA TEoLoGICA

Ed ecco il pensiero di monsignor Novarese, in piena sintonia con Sorella Elvira: “Noi siamo nati per un motivo solo, ben preciso, quello di attuare nel mondo degli ammalati e dei sani le Richieste della Vergine Santa, ossia: vedendo che le Richieste della Madonna erano attuate soltanto in parte, uni-tamente a Sorella Elvira, abbiamo stabilito di incominciare l’attuazione pra-tica di quello che la Vergine Santa ha raccomandato… Il programma da Lei presentato: preghiera e penitenza è un programma evangelico. Tutto era già nel Vangelo. Ma l’uomo aveva errato e allora l’Immacolata richiama questo programma, che è inserimento nel piano redentivo. Da qui il grande valore della nostra vocazione. Da qui la novità del carisma specifico: l’inserimento attivo nelle sofferenze di Cristo per l’attuazione del Suo disegno di salvezza... La parte nuova che esiste in questo apostolato consiste nella presentazione e nel modo di raggiungere il fine. L’ammalato viene posto in piano di lavoro, di cooperazione alla Redenzione, consapevole della sua responsabilità di ‘continuatore della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo” (l’Ancora, mag-gio 1956).

E sulla Rivista di novembre 1966, riassume in poche righe tutto il pro-gramma del CVS: “Ecco tutto il nostro programma: convincere i sofferenti della necessità e preziosità del dolore santificato dalla grazia; donare il frutto della propria attività e della propria preghiera per l’attuazione delle Richieste della Vergine Santa formulate a Lourdes ed a Fatima, che non sono altro che il programma salvifico di Gesù”.

PUnti che emergono dALLA redenzioneScrive Sorella Elvira: “Sono quindi due i punti, ben distinti, che dalla pa-

noramica della Redenzione emergono: - l’ammalato bisognoso di cure, oggetto di carità, quale fratello sofferente,

immagine del Cristo sofferente;- l’ammalato soggetto libero e vivo di azione che volontariamente si in-

serisce nella dinamica redentiva, quale membro vivo del Corpo mistico.Sono la dottrina ed il piano della salvezza del Cristo che vengono così

integralmente realizzati: “Ero infermo e mi visitaste” e “Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.

“Il portare la propria croce con Cristo, oltre ad avere un reale aspetto di necessario inserimento in nome dell’unità, che il vincolo della carità realizza, natura sua afferma la capacità e la possibilità di realizzare insieme al Cristo,

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Remigio Fusi

un unico sacrificio di cui la Chiesa con diritto e fiduciosa speranza può sem-pre attingere”.

E continua: “È proprio in questa totale visione del piano della Redenzione che si inserisce l’attività dei “Silenziosi Operai della Croce”, diretta ad aiutare e sostenere, in forma stabile ed ecclesiale, tutti i sofferenti del mondo a sco-prire i tesori nascosti ed imponderabili che il dolore detiene, se accettato e vissuto con Cristo Redentore”.

Monsignor Novarese scrive su l’Ancora giugno-luglio 1955: “Accettiamo la nostra missione. Viviamola con impegno. Il Signore ci ha scelti. Se il Si-gnore ha avuto un occhio di speciale riguardo per noi, se ci ha visti fin dall’eternità e ci ha posti in questa missione di riconciliazione, come avremo ancora il coraggio di reagire dinnanzi a Dio, che attende l’opera nostra per la pacificazione dell’Umanità? Chi di noi ha accettato la propria croce e si è abbandonato in Dio, per mezzo di Maria, sa che le parole di S. Paolo sono una realtà, anche tra i più grandi spasimi del corpo e le più aride desolazioni dell’anima: ‘Come aumentano in noi i dolori che ci rendono simili al Cristo, così aumentano anche le consolazioni che riceviamo per mezzo di Gesù Cristo’ (cfr. 2 Cor 1,5)… Fratello, il mondo ha bisogno di noi. È Gesù che ha lasciato a noi questo compito. Egli vuole continuare la Sua opera redentrice per mezzo nostro. Ha lasciato a noi il mezzo con cui possiamo continuare la sua Passione, per il maggior sviluppo della vita della grazia”.

Nel 1952, sulla Rivista di marzo, aveva scritto: “Tutti devono lavorare, an-che l’ammalato. Ogni uomo lavora nel proprio campo. L’operaio nel campo dell’officina, l’ammalato nel campo della grazia. Solo così l’ammalato può dire al termine della sua giornata di dolore: “ho lavorato”.

Non è il tempo di mendicare compatimenti sterili, di sospirare e di correre dietro ai sogni. Un solo compito, una sola meta si impone a tutti gli indivi-dui; salvare il mondo. Guai a noi se non ci fossero i sofferenti. Guai, però, altresì a noi se i sofferenti non intendessero questo linguaggio crudo, ma quanto mai costruttivo…Vivere da soli in grazia è già molto, ma non basta. Bisogna attivare tutti i fratelli sofferenti a riempire con la loro produttività le lunghe ore di ozio snervante ed obbligatorio, imposto dalla malattia stessa… Cerchiamo di imitare, anche in questo, la nostra Mamma celeste, la quale, condividendo col Cristo la passione, non soltanto rimase vicino alla Croce del Suo adorabile Figlio, ma con sé attirò pure Giovanni, l’Apostolo prediletto, e le altre pie donne”.

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Sorella elvira e l’apoStolato della Sofferenza

AREA TEoLoGICA

E sulla Rivista di maggio 1955, troviamo una sintesi dell’impegno dei Si-lenziosi Operai della Croce, in piena sintonia di quanto ha scritto Sorella El-vira: “Sul piano generale dei “Volontari della Sofferenza”, che tende a riunire tutti gli ammalati di buona volontà, desiderosi di non rimanere ai margini della vita in momenti così difficili per la Società, sono stati istituiti i “Silenzio-si Operai della Croce”… Gli iscritti: seguono i Consigli evangelici; emettono una Consacrazione a Cristo per le mani di Maria, sul tipo di quella di S. Luigi M. Grigon di Montfort; hanno l’obbligo, nel limite del possibile, di dedicarsi all’apostolato della valorizzazione della sofferenza”.

durante il convegno nazionale del centro volontari della Sofferenza, tenu-to il 12 marzo 1979, a calabrone di Pisa, Sorella elvira ha svolto il tema: “i leaders di cui il cvS oggi ha bisogno”. traccia, in primo luogo, la fisionomia del leader nel centro volontari della Sofferenza.

“Nel CVS, ha esordito, non parliamo di un leader qualunque, che porta avanti un’idea, un programma di apostolato, attraverso varie forme di inizia-tive personali, comunitarie, di massa, ma parliamo di leader, persone ripiene dell’ideale dell’ Immacolata, convinte della estrema importanza ed urgenza del Messaggio della Madonna, che lo trasmettono agli altri, come Bernardetta, la quale, alla Grotta, ripeteva le parole della Madonna, impegnando prima di tutto se stessa a viverle e poi a comunicarle a quanti erano accanto a lei”.

Monsignor Novarese, rivolgendosi ai Capigruppo, presenta la stessa fisio-nomia: “Per il Capogruppo è sufficiente e basilare avere un orrore di fronte al peccato come l’Immacolata; è sufficiente amarLa dal più profondo del cuore e desiderare di mettere la propria vita a Sua disposizione per l’attuazione del Suo programma; è sufficiente comprendere il valore del dolore trasformato dalla divina grazia e voler continuare in sé la Passione di Gesù”.

Descrive, poi, come deve essere ed agire. “È colui che trascina con il suo prestigio. E così dicendo non intendo affatto parlare di prestigio personale, familiare, sociale, culturale, bensì di prestigio di fede come Bernardetta e i bambini di Fatima. Il “leader” deve essere “ideale” e “modello” dell’ideale che vive e presenta”.

Anche Monsignore parla delle doti che deve avere il Capogruppo: “Le doti del Capogruppo, scrive nel libro “la formazione dei Capogruppo”, devono

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avere riscontro con le doti personali di Bernardetta e dei tre pastorelli di Fa-tima, i quattro prescelti dall’Immacolata… Primo requisito del Capogruppo è quello di conoscere il programma dell’Immacolata e volerlo ripetere tale e quale, convinto che le Richieste dell’Immacolata non acquistano una partico-lare forza convincente per il modo con cui noi le presentiamo, bensì per la presentazione autentica che noi ne facciamo, quale rimedio sicuro dei mali del nostro tempo”.

Continua Sorella Elvira: “È colui che trascina con la sua capacità perso-nale. Il leader mette a servizio degli altri tutto se stesso, come è, ricorrendo alla preghiera per ottenere maggior acutezza di penetrazione e ampiezza di vedute. Non dubita di ricorrere a chi è più alto di lui, per la realizzazione del programma dell’Immacolata e per ottenere sostegno e spinta per un più vasto raggio di azione… Il leader, nella consapevolezza dei propri limiti, sta con lo sguardo verso il Cielo, senza però trascurare gli appoggi umani “qualificati”, ossia, non su un qualsiasi appoggio, ma un sostegno illuminato nella linea dell’apostolato che si svolge”… Deve avere, inoltre, la capacità di amare, ma amare con il cuore dell’Immacolata e con cuore di persone che a Lei sono totalmente donate. Deve saper comprendere l’amore di Dio Padre per l’uma-nità fino a donare il proprio Figlio; saper imitare l’amore di Gesù Cristo che ha preso su di Sé tutti i peccati dell’umanità per la sua liberazione; capire l’amore dell’Immacolata che, consenziente col proprio Figlio, sul Calvario Lo offriva e si offriva all’eterno Padre per la nostra salvezza; deve intendere, so-prattutto, l’esercizio materno che l’Immacolata continua a svolgere dal Cielo a beneficio della Chiesa e per la salvezza di tutti”.

E conclude: “In una parola, la capacità del leader è proporzionata all’a-more. Il leader trascina con la sua forza morale… cioè, con la forza spirituale di convincimento che emana da una persona convinta, consapevole e decisa all’apostolato”.

Ed ecco la parola di Monsignore: “Il Capogruppo deve conoscere bene i membri del proprio gruppo; li deve animare a pienamente vivere la propria vocazione… sostenendoli, inoltre, per una conseguente testimonianza di vita e di conquista... deve mantenere, con l’apporto della preghiera dei sacrifici dei componenti il gruppo, un profondo spirito di fede, che si estrinseca nella carità più fattiva verso i fratelli”.

Sorella Elvira indica quale debba essere l’atteggiamento del Capogruppo: “Il leader deve amare i componenti del proprio gruppo, tenendoli uniti, sapendo

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che il gruppo rappresenta l’insieme della famiglia parrocchiale e che riunisce, quindi, giovani, adulti e anziani. Questo amore trinitario porta a far sopportare i pesi gli uni degli altri, ad essere contenti di trovarsi uniti nell’operosità di si-tuazioni ed età diverse. Il gruppo, infatti, riunisce sani e ammalati che assieme, all’unisono, operano per l’ideale della comune Madre Spirituale. Il leader deve lavorare con il gruppo interessando e spingendo i fratelli prima di tutto all’esa-me della situazione locale (persone e ambienti come sono e come dovrebbero essere) e a stabilire assieme ai componenti il gruppo le linee adatte per l’acco-stamento nella conquista dei fratelli sani e malati… Il vero leader forma tutti i componenti del proprio gruppo nell’aspirazione che tutti possono vivere con ampiezza e gioia l’apostolato scelto, affinché tra di essi possono sorgere altri Capigruppo, incaricati di settore, incaricati diocesani. È quanto mai importante che il leader non conservi la propria carica come un tesoro geloso, ma formi altri componenti ad assumere posizioni di responsabilità nella vita dell’aposto-lato...”.

Poi con forza richiama la sua responsabilità: “Il leader che non sappia trovare altri elementi, che sia sempre stesso gruppo immobile e stagnante, dimostra di non essere capace di uscire dall’attività personale e di essere convinto di poter continuare, sempre da solo, il medesimo ritmo, che ne-cessariamente esige aggiornamento secondo il mutare degli eventi e mezzi sempre nuovi. Inutile dire che tali statiche situazioni si riflettono sulla vita del Centro e di conseguenza sull’attuazione del piano dell’Immacolata. La staticità, talvolta, è frutto di superbia, di convinzione che nessuno è pronto e capace di prendere, di sostituire persone che da anni vivono e conducono il gruppo con lo stesso ritmo”.

Monsignore Novarese è forte nell’affermare la necessità dell’incontro di gruppo, della formazione dei componenti e di come si doveva condurre il dialogo nell’incontro. Colgo solo alcune espressioni che, però, dicono tutto il suo pensiero e sono la conferma della fedeltà della Sorella Maggiore.

“Il Capogruppo, scrive, per un lavoro di conquista e a vasto raggio deve periodicamente incontrarsi con i fratelli di ideale e con loro seriamente esa-minare la situazione ambientale per impegnare al medesimo programma tutti i fratelli di sofferenza… Il Capogruppo, proprio in forza della sua responsa-bilità di capo equipe, deve abituare i membri del suo gruppo ad uscire dal personale isolamento e a svolgere l’apostolato in piano associato come, in più discorsi, ha richiamato Sua Santità Paolo VI… L’apostolato si affermerà e

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si estenderà in proporzione dell’attività dei singoli Gruppi d’Avanguardia… La riunione di gruppo va effettuata a costo di qualunque sacrificio; se non si attua l’incontro non si vince l’isolamento del sofferente, viene a mancare il fermento e la dinamica dell’azione apostolica… Se qualche membro del gruppo non può partecipare, deve essere suo impegno far giungere o indiret-tamente con un foglio o con un’ambasciata, per mezzo di un altro fratello del gruppo, il resoconto della propria attività e le motivazioni della forzata assen-za… Se l’attività non viene svolta in un piano d’insieme di cooperazione si ha soltanto l’azione del singolo con tutte le negative conseguenze facilmente intuibili, come stanchezza, isolamento, ripiegamento su se stessi, lavoro non organico, destinato a restare incompleto qualora venga a cessare l’azione della persona”. E conclude: “Si esige nelle riunioni di gruppo l’esercizio della più grande carità, evitando scrupolosamente chiacchiere inutili, pettegolezzi e, a maggior ragione, critiche di qualsiasi genere e verso chiunque”.

Sorella Elvira chiude la relazione presentando il problema delle vocazioni: “Non è un problema che riguarda soltanto la Comunità dei Silenziosi Operai della Croce, bensì tutto l’apostolato. Se vogliamo che il lavoro si estenda, e ce n’è veramente bisogno, occorrono braccia potenti. Occorre pregare ed agire. Gesù pregava e poi chiamava all’apostolato; riceveva ripulse e riceveva anche degli assensi. Chi è a contatto con persone, sappia che in ogni cuore c’è il germe dell’apostolato. Risvegliare tale germe, animarlo, sostenerlo, spingerlo, è compito di chi ama e vuole che l’apostolato si estenda: è compito quindi di ogni iscritto”.

durante il convegno mariano, svoltosi a Saragozza (Spagna), dal 9 al 13 ottobre 1979, Sorella elvira ha svolto il tema: “maria Santissima e la re-sponsabilizzazione umana ed ecclesiale del debole”.

“Il tema ci porta a considerare, scrive, da una parte l’essenziale del com-pito della Vergine Santa nel piano della salvezza, dall’altra la Sua materna azione di responsabilizzazione umana ed ecclesiale del debole. Vediamo, infatti, la Vergine Santa sulla via del Calvario, col primo piccolo drappello di amici della Croce di Gesù; la Madonna lo guida alla partecipazione del Sacrificio del Cristo.

Non c’è dubbio che la missione della Vergine Benedetta parte da una libera scelta divina, relativa al piano della Redenzione, in cui accanto al Sal-

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vatore, nuovo Capo dei veri viventi, è stata posta anche una donna, in op-posizione ad Eva e questa donna è Maria Santissima… La funzione di Maria, partendo dall’Annunciazione, si estende attraverso gli eletti, fino alla fine dei secoli (cfr. LG, n. 61)”.

Ella spiega poi in che consista la Sua maternità spirituale nei confronti dei deboli, dei poveri: li unisce al Suo Gesù, trasformandoli in strumenti di salvezza.

“Ella è la Madre del Cristo, divin Redentore, quindi Madre del Capo e del-le membra dell’intero Corpo del Suo divin Figlio. Madre dunque del Cristo storico e Madre altresì del Cristo mistico. Madre che genera i figli nell’ordine della grazia per la completezza del Suo mistico Corpo mediante il Battesimo.

Da Lei, col Santo Battesimo, veniamo inseriti nel piano della Croce, unen-doci così a Gesù Cristo, facendoci partecipi dell’opera di salvezza delle ani-me. Attività meravigliosa che con Cristo, attraverso Maria Santissima, si inau-gura nella Società. I deboli, gli ammalati, i lavoratori, gli oppressi, quanti hanno fame e sete di giustizia vengono valorizzati, responsabilizzati: essi, con Cristo, diventano mezzi di salvezza. Il Signore elegge le cose deboli per con-fondere le potenti (cfr. 1 Cor 1,27). Maria Santissima è posta in opposizione a satana; l’umana sofferenza diventa strumento di liberazione e di salvezza. È la sapienza della Croce in conformità al precetto di Nostro Signore Gesù Cristo: “Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la propria croce e mi segua”. Proprio sul Calvario vediamo la nostra Madre spirituale intenta ad unire al Suo divin Figlio crocifisso quanti erano con Lei rimasti fedeli a Gesù: Giovanni… la Maddalena… le pie donne.

Si iniziava così la valorizzazione della sofferenza dei deboli, della sofferen-za di quelle persone che senza Gesù nulla di soprannaturale potevano fare…”.

Monsignor Novarese, su l’Ancora di gennaio 1954, dopo aver descritto le persecuzioni subite da tanti cristiani “per la causa della giustizia e vivono na-scostamente, nell’ombra come i primi nostri fratelli di fede”; e l’indifferenza di molti altri cristiani che “dinanzi al pericolo di una persecuzione religiosa, invece di scuotersi, vivono con apatia la propria fede, inconsci di quanto si sta addensando attorno ad essi, unicamente preoccupati di quanto costituisce la loro comodità, avidi di denaro, di gloria e di piaceri, come se Cristo inve-ce di dire ‘cercate prima il Regno di Dio’, avesse all’opposto detto: “cercate prima di tutto il denaro, gli onori, ecc.”. E mentre tanti fedeli, che hanno la gioia di professare la propria fede vivono nella più grande ignoranza spiri-

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tuale, i nemici di Dio sono invece svegli e non lasciano sfuggire occasione per seminare la zizzania”.

E continua indicando l’intervento di Maria Santissima, che chiama a rac-colta i poveri, i malati, i piccoli per arginare questo male. “Sull’orizzonte di tempesta e di sangue del 1954, bianca si eleva l’Immacolata, per richiamare i cuori dei figli alla luce e al calore del Suo cuore materno. Il Messaggio di Fati-ma oggi è una tremenda realtà e dobbiamo prontamente svegliarci dal nostro torpore, immediatamente attuando quanto richiesto dalla Vergine Santa, se non vogliamo che anche la nostra Patria si trovi nelle identiche persecuzioni, che purtroppo incombono tanto su tanti nostri fratelli”.

Chiediamoci a questo punto: non è forse la realtà di oggi, anzi forse peg-giorata? Che cosa facciamo per arginare il male che avanza con prepotenza? Con quale cuore accogliamo l’angoscioso richiamo della nostra Madre celeste e con quale generosità cerchiamo di aiutarla a ricondurre i figli ribelli all’in-contro con il Suo Figlio Gesù?

Rivolgendosi, poi, direttamente al malato scrive: “L’ora è troppo tragica per restare insensibili e incuranti. Fratello, credi alla forza costruttrice del tuo dolore, la Madonna ti attende”.

Sorella Elvira continua: “L’opera stupenda di Maria Santissima non si limita al Calvario, ma prende luce e forza nel Cenacolo con la nascita della Chiesa. Ella era segno di unità tra gli Apostoli e lo Spirito Santo. La Sua fermezza li sosteneva, la Sua carità li teneva uniti, la Sua preghiera attirava su di essi i doni dello Spirito Santo. La Vergine Benedetta continuava la sua azione di mediazione. Con la venuta dello Spirito Santo, non soltanto sarebbero stati confermati nella fede, ma avrebbero compreso anche la via della Croce… La Croce è la scala di purificazione per il singolo; la Croce è il mezzo con cui le anime si santificano e conquistano altre anime. La Croce è la forza e il sostegno di tutta l’attività della Chiesa; la Croce, nella luce e nella forza dello Spirito Santo, diventa “quell’arte meravigliosa, come afferma Paolo VI, che, svolta da tanti cuori generosi, salva il mondo…”.

Ed ancora: “La Chiesa, di cui Maria Santissima è il tipo, era con i suoi membri protesa a richiamare i deboli di ogni tempo, associandoli al travaglio della Passione per la purificazione e la salvezza degli eletti e il trionfo della Chiesa stessa”.

E dopo aver minuziosamente commentato i Messaggi rivolti all’umanità dalla Madonna a Lourdes ed a Fatima, conclude: “L’opera della salvezza della

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Croce del Cristo passava nelle mani dell’uomo che, col Redentore, in unione a Maria Santissima, da salvato diventava salvatore dei propri fratelli…”. L’uo-mo non ha bisogno di Dio”, dicevano i filosofi rivoluzionari francesi; “l’uomo, invece, ha bisogno di Dio e Lo ritrova lungo la via del Calvario”, risponde Maria Santissima. La Madre interviene ove il bisogno si presenta; è la divina Pastora che va incontro al gregge che sta disperdendosi”.

Monsignor Novarese, nel gennaio 1958, intravedendo la prossima inau-gurazione della Casa “Cuore Immacolato di Maria”, a Re, apre il suo cuore alla Vergine Santa, in un colloquio stupendo e commovente, che dovremmo leggere, meditare e fare nostro. Ne stralcio alcuni brani.

“Tu, o Madre, sarai la dolce Maestra e additerai ai tuoi figli le vette della santificazione e dell’eroismo. Tu avrai la gioia di mostrare ai figli tuoi il Figlio tuo Gesù, “Sapienza del Padre”, che sulle tue ginocchia siede nell’effige del tuo bel Santuario (Madonna del Sangue). Gli ammalati, allora, alla tua guida, si uniranno agli ammalati e sarà finalmente costituita la grande diga che sal-verà il mondo: il dolore vissuto in Grazia… Sostienici, o Madre, in quest’ulti-ma tappa, che è la più ardua e la più difficile, e poi saremo “in Casa” vicino a Te, in attesa di entrare nella Casa del Padre celeste, con Te in Paradiso, per tutta l’eternità. Così sia!

Questo Suo colloquio, continua il mese seguente, l’11 febbraio, davanti alla Vergine Santa dei Pirenei. Ascoltiamolo.

“Siamo qui, ai tuoi piedi, o Madre, alla tua Grotta, in questo 11 febbraio, che ricorda il centenario della tua prima Apparizione alla fortunata Bernardet-ta. Ci hai voluti vicini a Te perché sofferenti, incerti ed umiliati. Abbiamo un posto di privilegio nel tuo Cuore, siamo come Gesù crocifisso. Ti sei affacciata sulla nostra strada, come un giorno sulla via del Calvario ed hai richiamato alle nostre menti le grandi finalità costruttive del dolore se vissuto in Grazia.

Ci sentivamo avviliti, inutili e Tu ci hai fatto comprendere che l’elemento più prezioso per salvare il mondo è appunto quello che esso teme e di-sprezza: il dolore. Ci hai indicato le mete: i fratelli devono essere veramente i nostri fratelli e per essi avremmo dovuto continuare la Passione del Cristo.

Non ti sei limitata a suggerire i mezzi, ci hai pure insegnato a praticarli. Ti sei posta dinanzi a noi, eletta Condottiera, per donarci la gioia di contribuire con Te alla vittoria finale del bene sul male.

Ti abbiamo ascoltata e siamo venuti incontro a Te, non da soli, ma in una grande schiera, tutti i Volontari della Sofferenza, che si impegnano ad attuare

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le tue Richieste. Siamo contenti di esserci posti al tuo servizio. Chi trova Te, trova la vita e alla Tua scuola abbiamo trovato la serenità, la pace, la gioia… Ci siamo fatti apostoli presso i nostri fratelli di dolore… Sostienici sempre, Madre fedele. Nei momenti di difficoltà ricordaci i nostri impegni, sii a noi sempre Madre di Misericordia…”.

Chiudo questa nostra riflessione con un altro pensiero del beato Luigi No-varese, che dà luce e forza nel nostro impegno apostolico: “La Vergine Santa non ha mai deluso chi confida in Lei. Ha sostenuto gli Apostoli nel Cenacolo; continuerà la Sua opera di sostegno come sempre ha fatto nella vita della Chiesa”.

durante il convegno Sacerdotale internazionale, svoltosi a fatima dal 15 al 21 settembre 1980, Sorella elvira trattò il tema: “L’handicappato nella vita della famiglia e la famiglia dell’handicappato”.

Sorella Elvira introduce l’argomento con un fortissimo “parallelo”, che esi-ste nel legame e nel modello che scorre tra Cristo, Capo del Corpo Mistico e lo sposo, capo della famiglia, chiamato a vivere le dimensioni della carità che Cristo ha vissuto in Se stesso e continua a vivere attraverso i membri del suo Corpo mistico.

Mette prima di tutto in evidenza l’azione di Cristo, capo della Chiesa e l’azione dei figli malati: “Come Cristo, Capo del Corpo mistico, continua a svolgere, attraverso i membri a Lui uniti nel vincolo della Grazia, la propria azione di Adorazione, riparazione, propiziazione e ringraziamento a benefi-cio dell’intero Corpo che è la Chiesa, così i figli, colpiti dal dolore, in base al vincolo del legame che li lega alla famiglia, continuano, quali membra attive del Corpo mistico, la stessa azione del Cristo nella famiglia e nell’umanità”.

Le fa eco monsignor Novarese: “Bisogna far comprendere a chi soffre che, comunicando a noi la sua vita, Dio ci dona possibilità costruttive e nuove responsabilità nel piano soprannaturale… Tutti i membri della famiglia, se-condo il proprio dono, hanno la grazia e la responsabilità di costruire, giorno dopo giorno, la comunione delle persone. Facendo della famiglia ‘una scuola di maturità e più ricca’ (Giovanni Paolo II, “Familiaris consortio, n. 21)”.

“L’ammalato, continua Sorella Elvira, nel piano redentivo è propulsore di carità e deve, a sua volta, essere centro di gravitazione e di interesse dell’atti-

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vità familiare, che vanno dal sostegno morale e spirituale alla vera e propria esistenza”.

E mons. Novarese ricorda all’ammalato: “L’apostolo deve sentire in sé l’esigenza del fermento, che, proprio perché fermento, lievita e pervade l’in-tera massa… La carità fonde gli animi, spingendoli avanti senza badare a se stesso, per un bene migliore: la dilatazione del Regno di Dio”. E quindi raccomanda: “Non cercare compatimenti, non mettere in mostra i tuoi dolori, sii soggetto d’azione, costruisci il tuo ambiente. Vivi con fede, con gioia, con vera attività, il tuo apostolato di ammalato”.

Se il malato sente e vive la responsabilità della sua vocazione, che è quella di continuare la vocazione misericordiosa di Cristo, non chiude il suo cuore, non giudica l’operato altrui; si apre invece alle necessità della famiglia, si so-stituisce a quei membri che sono in difficoltà, prega ed offre per loro. L’amma-lato che prega ed accetta di soffrire in silenzio, si fa strumento di serenità e di pace per coloro che vivono accanto e diventa una benedizione per la famiglia.

Ricordo un fatto stupendo, avvenuto durante un pellegrinaggio a Lourdes. Una mamma mi dice: “Don Remigio, venga, le faccio vedere il mio tesoro”. Mi condusse da un ammalato giovane, steso in una semibarella. Non parla; ha pochissimi movimenti della braccia; due occhi sorridenti, esprime la sua gioia con il movimento delle palpebre. La mamma lo accarezza poi, rivolgendosi a me, piena di gioia mi dice: “Questo è il tesoro e il centro della nostra famiglia. I fratelli, sposati, prima di andare al lavoro passano da lui per salutarlo e per rac-comandargli di pregare per il loro lavoro. La sera, di ritorno dal lavoro, prima di recarsi alla loro casa, ripassano per ringraziarlo. È la nostra consolazione”.

Sorella Elvira continua: “Considerando l’ammalato nella sua funzione san-tificante, egli, nel piano pastorale di avvicinamento delle famiglie, è strumen-to privilegiato di penetrazione nella famiglia stessa e può diventare strumento di richiamo ai principi soprannaturali di cui tutti devono essere animati”. In questo modo “il malato apre la famiglia alle dimensioni del mondo e, a sua volta, è aiutato a trovare in se stesso la forza di reagire agli errori moderni in piano soprannaturale”.

Monsignore scrive a questo proposito: “La salvezza della famiglia, infatti, sta nell’uscire da un orizzonte limitato, anche se affollato (egoismo) dalla ristrettezza di cuore... La carità ha piacere di comunicarsi, dà tutto senza ritenere niente; essa è comunicazione di amore, comunicazione di affetto, comunicazione di qualcosa di se stessi. La carità genera carità... La carità vuol

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Remigio Fusi

dire collaborare alla gioia degli altri. L’ammalato che viva la propria vocazio-ne aiuta, a sua volta, i membri della famiglia a scoprire la loro vocazione ed a viverla a beneficio dell’intero Corpo mistico”.

iL rUoLo deLLA fAmigLiA nei confronti deLL’hAndicAPPAtoLa famiglia, oggi, può rispondere alla sua vocazione di comunità d’amore

e di vita quando alla base c’è la preghiera, c’è il rispetto, la libertà per ogni membro di realizzare la propria vocazione; quando i membri sanno “perde-re” il proprio punto di vista per cercare insieme la Volontà di Dio. Questa affermazione pone la famiglia di fronte ad un duplice comportamento: acco-gliente o contrario verso il malato.

Comportamento positivoScrive Sorella Elvira: “Esistono, grazie a Dio, famiglie moralmente sane e

dotate di fede, che scorgono la croce fin dal suo primo insorgere nell’am-biente familiare e che l’accettano tutti assieme ed arrivano a quella maturità spirituale operosa e santificante che è proprio frutto dell’azione della Grazia”.

Per le famiglie in cui regna l’unità e l’amore, la vita umana, anche se debo-le e sofferente, è sempre uno splendido dono del Dio della bontà. In quella famiglia il malato trova la sua giusta collocazione, che non è marginale, ma centrale ed importante.

Un malato, divenuto anche cieco, osserva che egli si trova più che mai al centro della sua famiglia. A lui si riferisce tutta la vita familiare della moglie e dei figli. Si sente utile e necessario. Non ha bisogno di costruire un mondo tutto suo perché il rapporto con tutti i membri della famiglia riempie la sua vita di malato ed illumina la sua cecità.

Comportamento negativoSorella Elvira continua la sua riflessione: “Il numero, però, di tali famiglie

è sempre più scarso a causa delle ragioni sapientemente indicate dal docu-mento “La famiglia nella pastorale della Chiesa” del Comitato per la famiglia: pluralismo religioso, rifiuto dell’insegnamento del Magistero, influenze che si esercitano dall’esterno delle famiglie, carenza di un chiaro concetto della sacralità e sacramentalità del matrimonio. Per queste precise ragioni:

- la famiglia spesso si vergogna di avere in casa uno spastico, o un meno-mato fisico o psichico;

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- l’handicappato è un peso alla libertà dei genitori, sia per il lavoro e sia per il tempo libero; egli è un richiamo e una esigenza di presenza e, coinvol-gendo il nucleo familiare per l’assistenza, la comprensione, l’amore dovuto-gli, spesse volte urta la pretesa libertà individuale;

- l’handicappato è un peso per la famiglia, egli non lavora, non rende. La sua presenza costituisce un danno economico. A parte la concezione mate-rialistica di quanto affermato, sia sufficiente accennare i riflessi umilianti ed avvilenti che tale ideologia crea alla classe interessata”.

Il beato Novarese, richiama le stesse situazioni: “La famiglia stessa, talvol-ta, diventa l’ambiente opprimente, ove, con falsi pudori, l’ammalato viene positivamente racchiuso fra le pareti domestiche, impedendogli di uscire, come se essere sofferenti costituisse una vergogna per chi soffre e per la stessa famiglia; ove con falsi protezionismi subisce un vero e proprio condi-zionamento sotto il pretesto che egli, privo della salute, non può e non deve preoccuparsi di nulla. In tutti i casi i risultati, anche in solo piano umano, sono deplorevoli: il sofferente perde ogni iniziativa, si ripiega su se stesso, diventa apatico” (Pensieri, p. 76).

Per questi motivi rivolge un forte appello a queste famiglie: “Non impre-cate alla sorte se siete chiamate a portare la croce con i vostri sofferenti. La vostra casa è stata segnata del sigillo della salvezza, come la casa degli Ebrei verso la terra promessa. Benedite le croci che sono state elevate sul calvario delle vostre case. È il Curato d’Ars che ce lo dice: “Guai a quelle famiglie dove non c’è il sigillo della croce’” (Pensieri, p. 75).

Ogni membro della famiglia è invitato a far scoprire, con un gesto di amo-re, a chi soffre che, anche quando tutto sembra crollare, c’è un Amore che accompagna, soccorre e attende.

La famiglia, quindi, può svolgere un ruolo specifico nella pastorale della salute, offrendo al suo familiare malato: aiuto, amore, sicurezza, valorizza-zione e responsabilità che allontanano da lui il senso di emarginazione e di inutilità. La famiglia, con fede, aiuta il malato ad accettarsi, a crescere nella fede a ad inserirsi nei Movimenti ed Associazioni che tolgono dal suo isola-mento e dal suo egoismo.

La famiglia, quindi “ad onta di ogni insidia resta la più completa e ricca scuola di umanità, nella quale si vive l’esperienza più significativa dell’amore gratuito, della fedeltà, del rispetto reciproco e della difesa della vita” (Giovan-ni Paolo II, La Traccia 1993, p. 1577, n 1). ■

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La realtà della disabilità analizzata dal punto di vista dell’istruzione, del lavoro, della famiglia e nei contesti multireligiosi. Questo il focus delle giornate del VI Congresso Internazionale Mediterraneo senza handicap Onlus2, giornate molto intense, ricche di contenuti, con relazioni, comunicazioni e testimonianze che

hanno allargato la visione su una realtà internazionale spesso complicata e difficile, in cui c’è chi opera con dedizione e professionalità a sostegno delle

persone disabili. In rappresentanza del Centro Volontari della Sofferenza che è in Italia ha partecipato Pasquale Caracciolo che ha svolto una Comunicazione

sul tema “Lo spirito cura il corpo. Per un viaggio alla scoperta di sé”.Di seguito la riportiamo integralmente.

AREA UMAnISTICA

pp. 515-519

“Non sono un medico: sono un vescovo,conosco il male che corrode la coscienza,come un cancro corrode la carne”.

Inizia così una lettera pastorale di mons. Cesare Pagani, arcivescovo di Perugia (1981 – 88), grande amico dei lavoratori, dei giovani, degli ammalati, dei poveri.

Una frase che mostra una visione straordinariamente ricca della persona umana vista nella sua globalità, nell’unitarietà dell’esperienza di vita: carne, cuore e anima sono un’unica realtà.

È dall’interrogativo: “Quale uomo?” che dipende l’atteggiamento verso la salute, la sofferenza, la morte, la guarigione, la ricerca scientifica, il servizio al sofferente.

Lo SPirito cUrA iL corPo.Per Un viAggio ALLA ScoPertA di Sé1

Pasquale CaraccioloConsigliere nazionale Centro Volontari della Sofferenza ITALIA

1 Intervento al VI Congresso Internazionale Mediterraneo senza handicap Onlus (Univer-sità Cattolica del Sacro Cuore, Milano 19-21 ottobre 2015).

2 L’associazione “Mediterraneo Senza Handicap” è sorta nel 2001 per sostenere e diffon-dere nei Paesi del Mediterraneo e dell’Europa una nuova cultura della disabilità, per promuo-vere la ricerca scientifica, la prevenzione, la riabilitazione e l’integrazione sociale delle persone con disabilità. Attualmente è presente in 41 Paesi.

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lo Spirito cura il corpo. per un viaggio alla Scoperta di Sé

AREA UMAnISTICA

La persona umana è una, non si può spezzettare, scindere, separare, di-videre. Corpo e anima appartengono all’essere della persona. Operare una qualsiasi scissione vuol dire mortificare e violare gravemente la dignità della persona umana.

La persona umana è unica e irripetibile nella sua realtà umana, dell’essere e dell’agire, dell’intelletto e del cuore.

Promuovere l’attenzione alla vita umana nella sua totalità, specialmente quella maggiormente indifesa (disabili, ammalati, nascituri, bambini, anzia-ni) è diventato ai nostri tempi una vera e propria priorità. Come affermato da papa Francesco “le cose hanno un prezzo e sono vendibili, ma le persone hanno una dignità, valgono più delle cose e non hanno prezzo” (Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dalla Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici cattolici, Sala Clementina, 20/9/2013).

Altri interrogativi ci interpellano: Che significa essere in salute? Che cosa vuol dire prendersi cura del malato? Quale parte ha l’ammalato nel processo di accompagnamento alla guarigione?

Il concetto di salute si è evoluto negli ultimi decenni. È nota la definizione di salute dell’Organizzazione mondiale della Sanità intesa come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto come assenza di malattia o infermità. Per cui la salute più che essere difesa e mantenuta, è una conquista, il frutto di un equilibrio fisico e spirituale continuamente perseguito e mai raggiunto completamente.

Il pensiero e la ricerca di numerosi e illustri studiosi a livello internazio-nale – tra cui spicca Victor E. Frankl – prospettano il superamento di una visione riduttiva dell’uomo a un insieme di bisogni. Viene invece messo l’accento sulla persona umana considerata unica, originale, orientata verso l’individuazione del significato della sua esistenza.

Non v’è dubbio che, ai nostri giorni, a motivo dei progressi scientifici e tecnici e delle pratiche mediche sempre più specialistiche, sono notevol-mente aumentate le possibilità di guarigione fisica. E, tuttavia, per non pochi aspetti, a causa di un approccio settoriale e frammentato, sembra diminuire la capacità di “prendersi cura” della persona ammalata.

L’adozione indiscriminata del modello aziendale in ambito sanitario, sep-pur motivata dall’esigenza di organizzare i servizi in maniera più efficiente, spesso privilegia il risultato economico rispetto alla cura della persona. Con il rischio che la malattia sia vissuta come evento clinico e non come un evento

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Pasquale Caracciolo

esistenziale. Penso in particolare ai disabili, ai malati psichici, ai lungode-genti, ai malati cronici, a coloro che necessitano di riabilitazione estensiva a lungo termine.

Ne risente il rapporto tra medici, operatori sanitari e pazienti, vanificando ogni tentativo di accompagnamento del malato.

Giovanni Paolo II l’ha bene espresso:” La sofferenza è qualcosa di ancor più ampio della malattia, di più complesso e insieme ancor più profondamen-te radicato nell’umanità stessa” (Salvifici doloris, n. 5).

Duole il corpo mentre duole anche l’anima. Il tempo della malattia è il tempo della maggiore fragilità e vulnerabilità: si prova dolore, tristezza, delusione, abbattimento, paura o addirittura disperazione, con un’intensità e profondità legate alla storia e alla sensibilità della persona sofferente. È il tempo delle domande e degli interrogativi “perché solo l’uomo soffrendo sa di soffrire e ne chiede il perché” (Salvifi doloris, n. 9).

Eppure in ambito sanitario si assiste a un crescente spostamento dei temi della salute, dal terreno del senso e del valore a quello della tecnica, dalla sfera morale, spirituale e anche religiosa alla sfera pratica, della cruda diagno-si e delle fredde terapie. Una sorta di mancanza di umanità. Mentre, invece, c’è bisogno di personalizzare l’approccio, di passare dal curare al prendersi cura, di considerare la persona nella totalità del suo essere.

Occorre accogliere le reazioni emotive del malato e dei familiari. L’espe-rienza della sofferenza e della malattia suscita domande nuove, invoca un orizzonte di senso, chiede prossimità e rispettosa attenzione.

Non è solo questione di stare male e di voler ritornare a stare bene. È questione di comprendere che chi è colpito da una malattia del corpo è fra-gile nell’anima, in uno stato di passività, spesso con una capacità razionale ridotta. Il malato sente acuirsi la propria solitudine mentre le forze fisiche gli vengono a mancare, invoca che gli altri – parenti, amici, congiunti, medici – gli diano sollievo e conforto.

L’ha rimarcato Benedetto XVI (Deus caritas est, n. 31): “La competenza professionale è una prima fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore … di un cuore che vede”.

San Camillo di Lellis diceva: “Mettete più cuore in quelle mani” e san Gio-vanni Paolo II: ”Abbiate per divisa la carità”.

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Papa Francesco, così ha spronato i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari dell’ospedale S. Francesco di Assisi di Rio de Janeiro: “Abbracciare, abbracciare. Abbiamo tutti bisogno di imparare ad abbracciare chi è nel bi-sogno per esprimere vicinanza, affetto, amore”.

L’accompagnamento del malato deve tendere a ricomporre questa unità tra sfera affettiva e razionale. La mancanza o l’acquisizione di questo equilibrio del vivere è una cartina di tornasole dello stato di buona salute del paziente.

Quali possono essere le qualità del servizio all’ammalato? Discrezione, dolcezza, premura, sensibilità, capacità di avviare, riprendere, sviluppare – nel variare delle condizioni psicologiche e delle circostanze – un discorso di coinvolgimento, di responsabilità, di speranza.

La medicina deve imparare che, insieme alla cura degli organi difettosi del corpo, c’è un altro organo invisibile da curare: la coscienza. Perché i ve-leni interiori inquinano lo spirito e fanno ammalare anche il corpo e rendono più difficile la via della guarigione.

Quindi è importante la capacità terapeutica di fare leva sulla sfera per-sonale, entrare nella soggettività della persona ammalata, rimettere in mo-vimento la sfera spirituale per curare le ferite, superare la rassegnazione, la passività, il pensiero negativo di se stesso e della propria malattia e riattivare la responsabilità personale.

Lo aveva ben capito mons. Luigi Novarese, proclamato Beato l’11 maggio 2013: lo spirito è una risorsa terapeutica per il corpo ed esercita un ruolo attivo nel processo di cura del malato e la medicina se ne deve prendere cura anche sotto l’aspetto psicologico e spirituale, incoraggiando il paziente a prendere coscienza del senso della sua malattia e della sua sofferenza.

L’insegnamento del beato Novarese è stato una vera e propria rivoluzione negli anni cinquanta e lo è ancora oggi: occorre far leva sulla soggettività dell’ammalato.

Egli, ammalato di tubercolosi ossea e ricoverato in sanatorio, scoprì come per sé e gli altri pazienti, il pericolo mortale fosse la passività, la rassegna-zione, l’autocommiserazione, l’incapacità di trovare all’interno di sé le moti-vazioni per reagire.

E intuì dove occorreva intervenire per una guarigione, una vera e propria liberazione: trasformare l’ammalato da soggetto passivo, rassegnato e ripie-gato su se stesso a soggetto attivo capace di reagire alla malattia, di darle significato e di diventare protagonista della propria vita.

lo Spirito cura il corpo. per un viaggio alla Scoperta di Sé

AREA UMAnISTICA

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Guarito miracolosamente, scelse di farsi sacerdote e di dedicare la propria vita al servizio degli ammalati e sofferenti. Fondò nel 1947 il Centro Volontari della Sofferenza e i Silenziosi Operai della Croce, con la finalità della pro-mozione integrale dell’ammalato, di rendere gli ammalati soggetti attivi nella Chiesa e nella società, aprendo, per la prima volta nella Chiesa, ai malati e ai disabili la via dell’impegno apostolico, della consacrazione religiosa e del sacerdozio.

San Giovanni Paolo II, che definì il beato Novarese “apostolo degli am-malati”, ha fatto propria questa visione affermando al n. 54 dell’Esortazione apostolica “Christifideles laici”: “Uno dei fondamentali obiettivi di una rin-novata azione pastorale … è considerare il malato, il portatore di handicap, il sofferente non semplicemente come termine dell’amore e del servizio della chiesa, bensì come soggetto attivo e responsabile dell’opera di evangelizzazio-ne e di salvezza”.

Rivolgendosi ai membri del Centro Volontari della Sofferenza e dei Silen-ziosi Operai della Croce, ricevuti in Udienza nell’Aula Paolo VI il 17 maggio 2014, papa Francesco, dopo aver richiamato l’attualità dell’insegnamento del Beato Luigi Novarese, ha affermato” Con questo carisma voi siete un dono per la Chiesa”.

Un impegno, un mandato, un carisma cui ci sforzeremo di rimanere fedeli, non solo per contribuire a una Pastorale della Salute rinnovata e intensificata, ma anche per collaborare con i medici, gli operatori sanitari, gli altri volontari per prendersi cura degli infermi attraverso un progetto di medicina sempre più umana. Una medicina ove la malattia più che un elemento da cui liberarsi sia un evento da liberare. Una medicina attenta ai valori della persona e della vita, al servizio dell’uomo sofferente.

Patch Adams, ideatore della terapia olistica, nota anche come clowntera-pia, ha così sintetizzato la sua teoria: “Quando curi una malattia puoi vince-re o perdere. Quando ti prendi cura di una persona vinci sempre”.

Pasquale Caracciolo

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AREA UMAnISTICA

pp. 520-528

come Si StA trASformAndo L’iSLAm in itALiA?Uno dei problemi da affrontare, di carattere in primo luogo epistemolo-

gico, è che l’islam lo conosciamo soprattutto attraverso i conflitti: conflitti che esso produce, o meglio che da esso si producono (terrorismo, conflitti culturali a proposito di libri o vignette, pretese occasionali di comportamen-to in contrasto con la legge – ad esempio a proposito di velo, e intendiamo il niqab o il burqa, poligamia o circoncisione femminile –, dichiarazioni problematiche o violente contro l’occidente o qualche sua caratteristica, come per esempio la tolleranza nei confronti dell’omosessualità, ecc.), o conflitti che si producono nelle società dette di accoglienza (conflitti che potremmo definire di non accettazione: del velo – e intendiamo il hijab o foulard innanzitutto –, dei luoghi di culto, di alcuni costumi tradizionali legati al matrimonio, ai rapporti di genere o tra genitori e figli, relativi ai matrimoni misti – dove il rifiuto sta spesso da ambo le parti –, e altri ancora, dove in questione non ci sono necessariamente comportamenti che vìolano la legge, ma che turbano l’opinione pubblica o parte di essa).

Questo processo di conoscenza attraverso quelli che potremmo chiamare incidenti ermeneutici, che quando non sono violazioni della legge (inaccetta-

Questo articolo è stato pubblicato in “I ponti di Babele.Cantieri, progetti e criticità nell’Italia delle religioni”,a cura di Paolo Naso e Brunetto Salvarani, Bologna, EDB, 2015, pp. 209-227.Viene riproposto in queste pagine col consenso dell’autore.La prima parte è apparsa su L’Ancora nell’Unità di Salute n. 5 alle pp. 441-448.

LA PreSenzA deLL’iSLAmneLLo SPAzio PUbbLico itALiAno:

A che PUnto SiAmo?(Seconda parte)

Stefano AllieviSociologo. Professore associato di Sociologia presso il Corso di Laurea

in Scienze della Comunicazione l’Università degli Studi di Padova

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bili di per sé, evidentemente) sono conflitti interpretativi, sui limiti e i confini di diritti che sono sempre e inevitabilmente soggetti a interpretazione, hanno fatto sì che l’immagine stessa dell’islam sia legata ai conflitti, e sia dunque conflittuale, assai più di quanto esso ne sia responsabile, in particolare per quel che concerne i musulmani europei.

Questo produce il paradosso per cui, a proposito dei musulmani, come delle altre comunità di immigrati, potremmo parlare di processi lunghi di integrazione sostanziale, nella scuola, nel mondo del lavoro, nelle istituzioni, e financo nel diritto, e di percezione conflittuale: ciò che, in questa forma e con questa sensibilità, è peculiare ai soli fedeli dell’islam.

Parliamo di integrazione sostanziale perché non esiste un solo indicatore analizzabile empiricamente che ci dica che i musulmani sono meno integrati degli altri immigrati o dei membri di altre comunità religiose: che si tratti del livello di alfabetizzazione o della mortalità infantile, della percentuale di autoimprenditorialità o della presenza nell’istruzione superiore, del Pil pro-capite o del capitale sociale e relazionale, della presenza in carcere o dell’inserimento nel mercato del lavoro, le variabili significative sono semmai di tipo etnico, legate alla provenienza nazionale, o di tipo sociale, legate al livello di istruzione, alla provenienza da ambiente rurale o urbano, ecc., men-tre quelle religiose sono assai meno significative e dimostrabili.

Parliamo tuttavia di percezione conflittuale perché comunque l’islam, e dunque i musulmani, a dispetto della diversità reale e della distanza culturale effettiva (l’islam dopo tutto nasce nella stessa piccola area del mondo in cui sono nati ebraismo e cristianesimo, e, già a partire dai rispettivi testi sacri, vi è una evidente ‘aria di famiglia’, per così dire), è percepito come maggior-mente ‘altro’ anche rispetto ad alterità culturali e religiose molto più evidenti, molto più ‘altre’. E talvolta l’essere diverso o altro si trasforma in essere total-mente altro, quando non nemico.

Anche l’organizzazione e l’istituzionalizzazione, e più in generale i livel-li di co-inclusione dell’islam italiano, non possono che risentire di questa situazione. Quasi che l’islam, nel nostro paese, fosse costretto a una con-dizione eternamente minoritaria, in qualche modo sulla difensiva: in parte, anche, per il lento rinnovamento dei suoi organismi e delle sue leadership, troppo spesso ancora reduci da un islam che, in fondo, appartiene al pas-sato; ma anche per la percezione legata, appunto, ad antichi conflitti, più o meno reali.

Stefano Allievi

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la preSenza dell’iSlaM nello Spazio pubblico italiano: a che punto SiaMo?

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Le organizzazioni dominanti sono infatti tuttora quelle censite fin dalle prime ricerche, anche se ne sono nate di nuove. I leader, pressappoco, pure: anche se qualcosa in quest’ambito si sta muovendo, seppure forse con più lentezza che altrove.

Un primo elemento da notare è l’emergere di una leadership più giovane, che non appare tra i ‘padri fondatori’, anche se in parte è composta da ‘figli dei padri fondatori’ (l’ereditarietà delle professioni e delle rappresentanze, malattia genetica assai diffusa nel paese, è stata per così dire fatta propria anche dalle rappresentanze musulmane), anche in alcune organizzazioni sto-riche dell’islam italiano.

Un secondo significativo elemento è il cambio di sensibilità ‘politica’, con un diminuito livello di concorrenzialità, e in genere un decrescere del livello di polemica pubblica tra attori religiosi musulmani (che è considerabile un segno di maggiore maturità, ma anche la presa di coscienza che la politica di demonizzazione reciproca praticata in precedenza non ha pagato; soprattutto non ha dato i frutti sperati, con qualche ingenuità, sul piano politico, dato che la politica, in Italia, non ha comunque dato sponda all’islam, autodefinito moderato o meno che fosse).

Un terzo fattore di un certo interesse è l’emergere di alcuni attori sociali nuovi ed effettivamente ‘emergenti’, con una buona capacità di mobilitazione e un discreto investimento di risorse organizzative, finanziarie e di capitale umano: ci riferiamo in particolare ai fermenti presenti nella diaspora maroc-china (peraltro la principale componente etno-nazionale dell’islam italiano), ma anche ad altri gruppi etnici di religione musulmana, e a nuove organiz-zazioni a livello locale.

Un ulteriore fattore di cui tenere conto è l’accentuato attivismo giovanile, attraverso l’organizzazione Gmi (Giovani musulmani d’Italia), il gruppo di Yalla Italia, e altri ancora.

e LA Società itALiAnA?Qualche considerazione sull’altro lato del processo di integrazione, quello

rappresentato dalla società detta – con qualche ottimismo – di accoglienza, è necessaria. L’islam infatti non si sviluppa nel vuoto pneumatico, e i processi di integrazione sono determinati in larga misura, oltre che dalle dinamiche interne, dall’ambiente in cui si svolgono. Per dirla in maniera semplice, l’in-tegrazione – piaccia o meno la parola, credo che qui ci intendiamo sul suo

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significato – è, come un matrimonio, un’equazione con due fattori (e molte incognite…): non funziona, se la vuole uno solo dei due attori implicati. Qui l’analisi si fa complessa.

Perché da un lato sono all’opera, come detto, processi lunghi di integra-zione sostanziale, che passano per la scuola, il mondo del lavoro, la vita di quartiere, i legami interpersonali (condivisione di attività: sportive, culturali, ludiche) e le relazioni intime (amicizie e coppie miste – che solo in minima parte, a causa della disapprovazione sociale che le circonda, diventano ma-trimoni; producendo, incidentalmente, un risultato controdeduttivo per le religioni: l’aumento di coppie ‘non regolari’). Questo anche grazie a un ruolo mediamente positivo, dialogico e inclusivo delle religioni (maggioritaria e minoritarie) presenti nel paese da più tempo.

Dall’altro si manifestano tendenze profonde nella società che vanno nella direzione opposta: quella del conflitto, della non accoglienza, della media-tizzazione isterica, dell’islamofobia politica (con contorno, a livello locale, di una politica di ordinanze fantasiosa quanto spesso scellerata, xenofoba e in ultima istanza incostituzionale), del mancato rispetto dei diritti individuali e collettivi (su tutto, quello relativo ai luoghi di culto), dell’applicazione seletti-va delle leggi (normative di sicurezza e antincendio, che si applicano tuttavia – almeno in certo modo: arrivando alla chiusura immediata delle sedi – solo ai musulmani e a nessun altro), o di quello che possiamo chiamare ‘ecce-zionalismo’ islamico, ovvero il considerare i musulmani sempre come caso eccezionale, cui non si applica la normativa vigente, e per i quali si chiedono condizioni particolari e specifiche, o magari una ‘applicazione selettiva’ (e più punitiva) delle leggi.

Un primo esempio è l’obbligo sovente richiesto e che si vorrebbe imporre di usare la lingua italiana nel culto (che non vale per nessun altro, che si tratti di anglicani inglesi, luterani tedeschi, cattolici filippini, pentecostali nigeriani, indiani hindu o sikh, ebrei, italiani che prediligono il latino).

Un altro è l’ipotesi di costituzione di albi degli imam con autorizzazione preventiva (che non esistono per preti, pastori, rabbini: un’ingerenza negli affari interni delle comunità religiose impensabile se applicata ad altri), o la creazione di organismi di consultazione quanto meno anomali. Su quest’ul-timo punto val la pena di spendere qualche parola in più. L’islam italiano non è considerato ancora maturo per un’intesa, alla pari delle altre confes-sioni religiose minoritarie che non dispongono di un Concordato che regoli

Stefano Allievi

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la preSenza dell’iSlaM nello Spazio pubblico italiano: a che punto SiaMo?

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i rapporti con lo stato: e per certi versi non a torto, viste le divisioni interne e le conflittualità anche personalistiche che lo attraversano (tanto che hanno smesso sostanzialmente di fare attività di lobbying per ottenerla) – che tutta-via, come abbiamo visto, appaiono in diminuzione rispetto al passato anche recente. Tuttavia sembra che lo stato sia ancora meno pronto: non solo a firmare un’intesa, ma anche a capire quali sono i veri problemi sul tappeto.

Tutto questo accade all’interno di un clima culturale certamente non favo-revole al rapporto con l’islam (si pensi alla pervasiva ed efficacissima cam-pagna fallaciana, che con i suoi libri ha di fatto dettato l’agenda alla politica italiana per molti anni, e fino ad ora, essendo stata ampiamente rispolverata dopo i fatti di Parigi – rimando per questo al mio Niente di personale, signora Fallaci, Aliberti, 2006), ma anche a un clima anche politico più generale, che fa sì che per esempio venga considerato progressivamente come normale, dai media e da alcune forze politiche, proporre consultazioni referendarie per consentire di aprire una sala di preghiera in tale o talaltra località (la regione Lombardia l’ha addirittura sancito con una legge assai problematica, nel gennaio 2015), dimenticando che quello dell’esercizio del culto è un di-ritto costituzionalmente garantito, non una gentile concessione, e che se le maggioranze si arrogano il diritto di decidere sui diritti delle minoranze ci si avvia verso una china che porta dritto alla negazione in radice della demo-crazia, utilizzando un mezzo, il referendum, che dovrebbe invece esserne l’espressione più piena.

I problemi ci sono, e vanno affrontati, senza pudori politically correct. E nominandoli esplicitamente: dai delitti d’onore ai matrimoni forzati, dai colla-teralismi rispetto all’antioccidentalismo (e, nei casi peggiori, al radicalismo e al terrorismo) a forme anche gravi di chiusura intracomunitaria, più grave per i soggetti più deboli (donne e minori), fino alla formazione delle leadership. Ma vanno affrontati costruttivamente, e in collaborazione con le comunità. Non in opposizione e come frutto di una demonizzazione generalizzata che rischia di ottenere il risultato opposto a quello che si prefigge.

ALcUni fAtti recentiCiò che forse potrebbe aiutarci a capire cosa succede, sono alcuni avve-

nimenti recenti. Il primo è l’avvento del califfato. Da un lato vale la pena notare che, in Italia, esso abbia mostrato assai minori attrattive che non altro-ve: si pensi al numero di foreign fighters, ma anche solo di simpatizzanti del

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medesimo. I musulmani italiani sono giunti abbastanza tardi, al pari dei loro omologhi europei, alla realizzazione del pericolo in essere, e alla sua con-danna, che a partire dai massacri delle minoranze non musulmane in Siria e Iraq è stata lenta, e un po’ forzata dalle circostanze. Ma, dopo, va anche detto che, quando autoproclamati simpatizzanti dell’Isis hanno agito in Europa, in particolare con l’attacco a Charlie Hebdo, la condanna è stata immediata e inequivocabile, talvolta persino più rapida di altre componenti della società italiana nel manifestare solidarietà al popolo francese e alle sue istituzioni, seppure talvolta condita dalle inaccettabili ingenuità di questa o quella teoria del complotto (presenti non solo nel mondo islamico, peraltro).

Di queste cose, tuttavia, dovremo discutere ancora a lungo. Per cercare i loro precedenti e le loro conseguenze di lungo periodo: anche in una predica-zione salafita e neo-salafita che, nelle ultime due decadi, ha avuto uno spazio molto ampio, conquistando una relativa egemonia nel discorso culturale isla-mico mainstream anche in Europa, nelle pubblicazioni come nelle moschee; e che viene rifiutata, sì, da molte componenti dell’islam europeo, ma troppo spesso senza una sufficiente chiarezza della necessità di una aperta ed esplicita battaglia culturale interna che, di necessità, dovrà affrontare i fondamentali te-ologici ed esegetici, oltre che sociali, della presenza islamica in Europa. Presto o tardi si dovrà insomma ricominciare a parlare di principi alti (libertà di culto, ma anche libertà di espressione e di opinione, libera ricerca teologica ed esege-tica, e altro ancora), e non solo di comportamenti: e solo a questo punto si toc-cheranno veramente gli snodi fondamentali della presenza islamica in Europa.

D’altro canto il problema si pone anche sul lato della società italiana. Il 2015, caratterizzatosi inizialmente con la vicenda di Charlie Hebdo, è conti-nuato in Italia, nello stesso mese di gennaio, con l’approvazione di una legge sui luoghi di culto in Lombardia che, se non venisse contrastata dalla corte costituzionale (come appare probabile), aprirebbe di fatto una nuova fase nei rapporti con i musulmani d’Italia: incentrata su una inaccettabile discrimina-zione di principio e una assai discutibile prassi sociale di marginalizzazione e controllo, che tutto può produrre tranne che processi di integrazione cul-turale e di cittadinizzazione.

concLUSioni: ALLA ricercA di Un Po’ di SwingChe si parli di vicende interne alle comunità islamiche, o di incontri ester-

ni tra le comunità e altri contesti – due cose che sono disgiungibili solo

Stefano Allievi

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la preSenza dell’iSlaM nello Spazio pubblico italiano: a che punto SiaMo?

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analiticamente: nella prassi è assai difficile tracciare i confini tra di esse – si tratta di parlare, essenzialmente, di trasformazioni, di cambiamento. È questa la chiave di lettura principale, da assumere e da sostanziare con contenuti seri, se si vuole capire cosa sta succedendo, tra le comunità islamiche pre-senti in Europa e nelle società che le ospitano, e quindi anche nel nostro paese. È questa la principale categoria interpretativa cui fare riferimento: la tras-formazione, il formarsi in maniera continuamente cangiante delle cose. Perché le cose si formano evolvendo: non rimangono statiche, mai. Anche se ciò contrasta singolarmente con le categorie interpretative che ad esse appli-chiamo: sia da parte islamica che da parte non islamica, sia come attori che come osservatori. Troppo spesso infatti le pre-comprensioni (troppo spesso appunto delle comprensioni che arrivano prima dell’esperienza, così come i pre-giudizi sono dei giudizi dati prima di conoscere veramente la realtà) degli attori coinvolti sono solo degli scatti fotografici, dei fermo immagine, che non danno conto della complessità della storia raccontata in quello che, dopo tutto, è un film, in parte ancora da scrivere, e il cui esito sarà frutto dei comportamenti degli attori.

Non sono statiche le realtà di provenienza dei musulmani, ancorate a (e nello stesso tempo disancorate da) delle origini esse stesse in profondo mu-tamento: quanto accade nei paesi d’origine dell’emigrazione musulmana in Italia ne è la prova, e la cosiddetta primavera araba ne è stata solo la princi-pale e più visibile dimostrazione – chi l’aveva prevista? chi ne avrebbe ipo-tizzato le conseguenze e le evoluzioni? E non sono statiche le società dette d’accoglienza, ma nemmeno univoche le loro linee evolutive, né identiche nella loro evoluzione le varie parti che le compongono.

Per dirla con le parole di un grande musicista jazz, Wynton Marsalis, che ci viene spontaneo citare come se si trattasse di un osservatore di fatti sociali (lo è, in realtà): “Ci sono sempre tre fattori del tempo in gioco quando sei sul palco: il tempo reale (il freddo, implacabile trascorrere dei secondi e dei mi-nuti), il tuo tempo (come tu senti il passare del tempo reale) e il tempo dello swing (come tu adatti il tuo tempo perché il tempo reale diventi il nostro tempo)”. Ecco, un sociologo non avrebbe potuto dire meglio, per spiegare le difficoltà di comprensione di ciò che accade tra soggetti sociali così diversi (e così simili, spesso) come le comunità islamiche in Europa e le società che le ospitano (non di rado senza accoglierle veramente): basta sostituire il palco del musicista con quel palco di teatro che è la vita sociale, e lo swing con le

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Stefano Allievi

necessarie relazioni tra soggetti sociali plurali. C’è il tempo di ciò che accade nella realtà, e la sua percezione; c’è il tempo dell’insediamento e dei percorsi diversificati di inserimento e di integrazione, per come li vivono i musulmani (e la percezione che questi ne hanno); e c’è il tempo del reciproco adatta-mento tra soggetti sociali e culturali diversi, che non è sempre facile, e che, come l’improvvisazione jazz, solo apparentemente casuale, ha bisogno delle sue regole, che devono venir apprese da tutti i musicisti coinvolti, ha le sue peculiarità dovute dal contesto in cui l’improvvisazione (anche la vita sociale e relazionale spesso è tale) ha luogo, e infine presuppone un po’ di rodag-gio, di reciproca conoscenza e frequentazione, se si vuole che la session funzioni e abbia buon esito. Tutte cose che presuppongono tempo, interesse reciproco alla conoscenza, e pazienza: tutte quante condizioni ideali rara-mente avvertibili nella realtà empirica. Da ciò, naturalmente, incomprensioni e conflitti: di per sé non drammatici, in certa misura fisiologici e necessari, ma che danno essi stessi un tempo e un ritmo specifico alle relazioni sociali, e alla reciproca comprensione tra gli attori che le sostanziano. Un tempo che non abbiamo ancora imparato a vivere ed armonizzare. Tra attori sociali, culturali e religiosi diversi in Europa e in Italia – tra i quali includiamo l’islam e i musulmani – in questa fase non c’è ancora abbastanza feeling, manca ancora un po’ di jazz… Per dirla ancora con Marsalis: “Gli scienziati dicono che l’unica costante è il cambiamento. Swingare è alterare la percezione del cambiamento”. Ecco, forse il problema, in fondo di non difficile soluzione, spesso intuitivo nelle dinamiche reali di incontro e di confronto – e vale per tutti gli attori sociali in questione, non solo per i musulmani –, e più compli-cato talvolta a livello teorico che pratico, è solo quello di andare a cercare un po’ di swing…

bibLiogrAfiA conSigLiAtAPer un’introduzione all’islam italiano rinvio inevitabilmente ad alcuni testi

fondativi, in ordine non cronologico ma, per così dire, conoscitivo: il mio Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi, 2006, resta la più agevole e immediata introduzione al tema. Per gli appassionati di ar-cheologia sociologica, anche il più antico Il ritorno dell’islam. I musulmani in Italia, Edizioni Lavoro, 1993, scritto con Felice Dassetto, in cui il lettore odierno rischia di ritrovare nomi di persone e di organizzazioni che fanno ancora, in parte l’attualità dell’islam italiano, cogliendone le origini e in certa

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la preSenza dell’iSlaM nello Spazio pubblico italiano: a che punto SiaMo?

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misura le cause. Sull’aspetto cruciale dei luoghi di aggregazione e di culto, i miei La guerra delle moschee. L’Europa e la sfida del pluralismo religioso, Marsilio, 2010 (ma anche, più in dettaglio, Conflicts over mosques in Euro-pe, 2009, e Mosques of Europe. Why a solution has become a problem, 2010, entrambi pubblicati da Alliance Publishing Trust e scaricabili liberamente su www.stefanoallievi.it), nonché il dettagliatissimo Moschee d’Italia di Maria Bombardieri, Emi, 2011, a cui aggiungerei Islam metropolitano di Alessandra Caragiuli, Edup, 2013, sul caso romano, e lo splendido reportage fotografico di Nicolò Degiorgis Hidden Islam, Rorhof, 2014 sulle moschee del nordest. Sui convertiti rinvio al mio I nuovi musulmani, Edizioni Lavoro, 1999. Sul dibattito politico e intelletuale sulla presenza islamica, i molti testi ‘contro’ di Magdi Allam e Oriana Fallaci, e la mia risposta a quest’ultima in Niente di personale, signora Fallaci, Aliberti, 2006. Una messa a punto comples-siva, frutto di un lungo lavoro di formazione con le leadership associative islamiche, si trova in Islam e integrazione in Italia, Marsilio, 2014, curato da Antonio Angelucci, Maria Bombardieri e Davide Tacchini (nell’ambito dello stesso progetto anche il dvd Nuove presenze religiose in Italia. Un percorso di integrazione, FIDR, 2013). Sugli aspetti giuridici molto hanno scritto Ales-sandro Ferrari e Silvio Ferrari (citiamo solo Islam in Europa, islam in Italia, Il Mulino, 2008, del primo, e Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, Il Mulino, 2000, del secondo, anche se hanno en-trambi articoli e interventi più recenti sul tema). Per un’introduzione assai completa all’islam europeo si veda, di Roberto Tottoli, l’ottimo Routledge Handbook of Islam in the West, Routledge, 2014, molto opportunamente sud-diviso per temi; più tradizionalmente suddiviso per paesi, e meno completo, anche Jocelyne Cesari, The Oxford Handbook of European Islam, Oxford, 2014, a testimonianza che il tema è diventato ormai mainstream, e necessita di approfondimento e diffusione maggiori di quelli correnti oggi in Italia. Per aggiornamenti rinvio al serio sito www.fidr.it, e, più in soggettiva, con prese di posizione, dibattiti e aggiornamenti sui temi ‘caldi’, www.stefanoallievi.it; e, volendo, le pagine facebook degli interlocutori musulmani più attivi, nonché di studiosi più presenti nel dibattito culturale sul tema, come Paolo Branca, Roberto Mazzola e il sottoscritto. Mentre ci si documenta, metterei di sottofondo gli ultimi dischi di Yusuf Islam…

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Per gentile concessione dell’editore Zadig riportiamo di seguito la seconda parte della dispensa del corso di formazione a distanza per giornalisti (la prima

parte è stata pubblicata sul nostro bimestrale AUS, n.5/2015, pp. 449-463). Ricordiamo che il testo della dispensa è anche disponibile - a pagamento (3, 99

euro) - in formato ebook all’indirizzo http://www.zadig.it/ebook/La società editoriale Zadig, fondata nel 1993, è impegnata nella comunicazione istituzionale, l’informazione e la formazione su temi di medicina, sanità, scienza

e ambiente. È provider nazionale accreditato per i corsi di formazione sia per i giornalisti sia per gli operatori sanitari (ECM).

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pp. 529-544

4. cercAre ULteriori fonti indiPendenti e vALUtAre LA PreSenzA di confLitti d’intereSSe

Le affermazioni riguardo a nuovi trattamenti, nuovi test, nuovi prodotti o procedure, come visto nel paragrafo precedente, devono essere basate su prove di fatto e non su opinioni o su spinte commerciali. È per questo che nel giornalismo sulla salute è sempre bene avere un secondo parere, che può essere di un esperto o può essere invece trovato cercando le fonti primarie della notizia (vedi paragrafo precedente). Inoltre è fondamentale capire se sotto la notizia ci sono interessi commerciali tali da fornire informazioni di parte non equilibrate e troppo favorevoli al nuovo farmaco: è lo spinoso nodo dei conflitti d’interesse.

Le domande che devo pormi sono:D1. Lo studio che ho di fronte è pagato dall’azienda farmaceutica che

produce il farmaco?D2. I ricercatori hanno conflitti d’interesse per cui hanno ricevuto o rice-

vono fondi dall’azienda farmaceutica che produce il farmaco?D3. Le notizie che mi sono pervenute giungono tutte da una sola fonte?

L’interPretAzione degLi StUdi cLinici(Seconda parte)

Pietro DriRedazione Zadig

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d1. lo studio che ho di fronte è pagato dall’azienda farmaceutica che produce il farmaco?

Quando scrivo un articolo devo tenere sempre presente la possibile in-fluenza dei conflitti d’interesse. È ormai assodato da molte ricerche pubbli-cate al riguardo in letteratura scientifica che gli studi che vengono finanziati esclusivamente dall’azienda produttrice del farmaco raggiungono più spesso risultati positivi: il farmaco sembra quasi sempre efficace e sicuro.

Ci sono varie spiegazioni per giustificare questa tendenza a giungere a risultati positivi. A parte i casi di vera e propria frode scientifica, in cui si in-ventano o modificano i dati (ma sono una minoranza davvero esigua), nella maggior parte dei casi si usano alcuni artifici tecnici che consentono di far emergere un’efficacia maggiore di quella reale, pur mantenendo una corretta metodologia di ricerca. Non è questa la sede per approfondire tali mecca-nismi (che saranno trattati in un prossimo corso dedicato esclusivamente ai conflitti di interesse in medicina), ma basta sapere che la presenza di finan-ziamenti di parte rischia di influenzare i risultati della ricerca. Questo non significa che tutte le ricerche finanziate in questo modo siano inattendibili, ma solo che il giornalista deve avere una maggiore attenzione e sensibilità quando i dati relativi a un farmaco vengono da studi sponsorizzati. Per esem-pio in letteratura si dimostra come la compresenza di finanziamenti pubblici tenda a stemperare questa influenza possibile sui risultati.

Qualora lo studio sia fatto con fondi dell’azienda che produce il farmaco questo è reso sempre palese al termine dell’articolo scientifico, per cui è fa-cile scoprirlo.

L’insegnamento è che il giornalista deve sempre avere informazioni sul finanziamento di uno studio e qualora utilizzi i dati di questo studio per il suo articolo dica al lettore che la ricerca è stata finanziata dall’a-zienda produttrice del farmaco.

d2. i ricercatori hanno conflitti d’interesse per cui hanno ricevuto o ricevono fondi dall’azienda farmaceutica che produce il farmaco?

Uno studio può non utilizzare fondi dell’azienda che produce il farmaco, ma anche in questo caso possono esserci dei conflitti d’interesse dei singoli ricercatori, i quali potrebbero aver ricevuto dall’azienda stessa fondi per altre ricerche o per borse di studio, o pagamenti per consulenze o per corsi di

l’interpretazione degli Studi clinici

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formazione, o essere stati spesati per parlare a congressi e convegni, o anco-ra avere azioni dell’azienda produttrice o avere interessi in un brevetto, così come gli autori potrebbero essere dipendenti dell’azienda stessa.

Tutte queste situazioni creano dei conflitti d’interesse che sono inelimina-bili ma che devono essere dichiarati.

L’unica soluzione ai conflitti d’interesse è infatti la trasparenza. Al termi-ne di ogni articolo sulle più importanti riviste di medicina c’è un paragrafo, “Conflitti d’interesse” appunto, nel quale ogni ricercatore dichiara i propri conflitti d’interesse. In tal modo chi legge il lavoro saprà che le affermazioni contenute sono state fatte da persone che non hanno alcun legame con l’a-zienda che produce il farmaco oppure che ne hanno più o meno stretti. Sarà poi il lettore a usare questa informazione per pesare quanto viene detto.

L’insegnamento è che quando si valuta una fonte occorre sempre pren-dere in considerazione l’eventuale presenza di conflitti d’interesse che potrebbero portare ad affermazioni non del tutto veritiere oppure che semplicemente tacciono alcuni aspetti negativi. È importante nel pro-prio articolo segnalare questi eventuali conflitti.

d3. le notizie che mi sono pervenute giungono tutte da una sola fonte?Se è vero che le informazioni su un nuovo farmaco giungono soprattutto

dall’azienda che lo produce, è altrettanto vero che il metodo scientifico con-sente di avere valutazioni indipendenti di altri ricercatori. In questo senso quando si parla di un farmaco non ci si può limitare all’informazione che arriva da un’unica fonte, pur autorevole, ma è bene trovare informazioni da un’altra fonte che confermino o critichino la fonte “di parte”.

Questo vale anche per gli esperti, per cui a fronte di affermazioni che sembrano sbilanciate a favore o contro un dato farmaco è sempre meglio avere un secondo parere, ovviamente da un esperto di un altro gruppo di ricerca.

Nel giornalismo sulla salute spesso le notizie riprese nascono da confe-renze stampa (vedi paragrafo successivo) organizzate per conto delle aziende produttrici. È naturale che queste puntino a magnificare le proprietà della nuova molecola e a sminuirne o tacerne gli eventuali aspetti negativi. Com-pito del giornalista è raccogliere altre informazioni imparziali per offrire al lettore un quadro completo.

Pietro Dri

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A questo riguardo bisogna essere consapevoli del fatto che il ricorso agli studi seri pubblicati in letteratura scientifica, di cui abbiamo parlato prima, nasconde comunque un trabocchetto: è più facile che vengano pubblicate sulle riviste articoli di ricerca che dimostrino l’efficacia di un farmaco rispetto a quelli che dimostrano il contrario e cioè che il nuovo farmaco è inefficace. Questa situazione ha un nome, si chiama bias di pubblicazione, e ovviamen-te sfalsa il quadro delle informazioni sul farmaco: se tutti gli studi pubbli-cati dicono che il farmaco funziona e quelli che dicono l’opposto non sono invece reperibili perché non pubblicati emerge subito chiaro che ciò che si dice di un farmaco non risponde al vero. Sono molte le cause del bias di pubblicazione, di cui parleremo nel futuro corso di formazione sui conflitti d’interesse, e solo recentemente si è cercato di ovviare a questo problema pubblicando comunque i dati di tutti gli studi all’interno di database dedicati.

Il consiglio è di non fermarsi alla singola informazione, ma cercare sempre di raccogliere più fonti e più pareri per offrire al lettore un qua-dro completo.

in sintesiOccorre diffidare degli articoli che:- riferiscono studi che sono stati finanziati integralmente dall’azienda che

produce il farmaco- non segnalano da dove siano arrivati i fondi per la ricerca- indicano forti conflitti d’interesse da parte dei ricercatori- nascono da un’unica fonte- hanno il parere di un unico esperto

5. dUbitAre deLLe notizie nAte SoLo dA Un comUnicAto o UnA conferenzA StAmPA

Specie nel campo della salute ci sono molti interessi per cercare di in-fluenzare le scelte dei consumatori, ci si aspetta quindi che il giornalista a fronte di un comunicato stampa o di una conferenza stampa verifichi in maniera indipendente quanto appreso. Questo sovente cozza con l’attuale si-stema della comunicazione che, anche per abbattere i costi e produrre news rapidamente, si basa molto sui comunicati che arrivano dagli uffici stampa. Con ciò non si intendono solo quelli che arrivano dalle aziende produttrici,

l’interpretazione degli Studi clinici

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ma anche quelli che arrivano per esempio dagli uffici stampa o comunicazio-ne delle aziende ospedaliere o dei centri accademici.

Una ricerca del 2009 condotta negli Stati Uniti presso la Darmouth Medi-cal School ha per esempio svelato che le press release dei centri accademici promuovo spesso ricerche “che hanno una rilevanza discutibile per la salute umana e non forniscono dati chiari o hanno importanti limitazioni”.

Le domande che devo pormi sono:D1. È giusto scegliere una notizia che mi è arrivata attraverso un comuni-

cato stampa o una conferenza stampa?D2. Ci sono aiuti per scegliere le notizie di salute da pubblicare?

d1. È giusto scegliere una notizia che mi è arrivata attraverso un comunicato stampa o una conferenza stampa?

Le notizie di salute più che emergere da comunicati stampa, conferenze stampa o congressi dovrebbero arrivare al pubblico nel momento in cui ven-gono pubblicati lavori attendibili nella letteratura scientifica internazionale.

Solo la pubblicazione dei dati consente infatti agli altri ricercatori di valu-tarne la qualità e la verità.

Se prendo spunto da un comunicato stampa, devo poi raccogliere ulteriori informazioni non di parte per valutare quanto viene detto e proposto.

Inoltre anche il giornalista e l’editore possono essere esposti ai conflitti d’interesse (per esempio il giornalista andando a un convegno spesato per il viaggio e il soggiorno da un’azienda farmaceutica e l’editore raccogliendo pubblicità istituzionale dell’azienda che vuole lanciare il nuovo farmaco). Tutti questi fattori devono essere considerati attentamente per valutare le notizie che si ricevono. E bisogna essere coscienti anche dei propri conflitti d’interesse e fare in modo che non influenzino quanto si scrive.

L’insegnamento è che non bisogna farsi dettare l’agenda dai comuni-cati stampa o dalle conferenze stampa e che una volta ricevute queste informazioni occorre raccogliere ulteriori dati prima di scrivere al ri-guardo.

d2. ci sono aiuti per scegliere le notizie di salute da pubblicare?A differenza di un decennio fa ormai gli articoli che escono sulle più

importanti riviste di medicina sono disponibili in anteprima per i giornalisti.

Pietro Dri

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Esistono servizi via email grazie ai quali le singole testate medicoscientifi-che mandano ai giornalisti che ne hanno fatto richiesta le anteprime (sotto forma di press release) degli articoli che usciranno sul numero successivo, ovviamente sotto embargo, non è possibile cioè scrivere e pubblicare un articolo su quello studio fino alla data indicata dall’editore. Purtroppo in passato giornalisti italiani hanno rotto l’embargo su alcune notizie, portan-do al blocco temporaneo da parte degli editori internazionali dell’invio di anteprime.

Se l’invio delle anteprime consente al giornalista di avere per tempo spun-ti per i propri articoli e di raccogliere interviste e materiali, dall’altro questo comporta una selezione a monte delle notizie. Non tutti gli articoli scientifici in uscita sono infatti compresi nelle anteprime, che sono in realtà una sele-zione fatta dall’editore (il quale a sua volta potrebbe avere conflitti d’interes-se legati alla pubblicità). Anche le anteprime vanno quindi maneggiate con cautela.

L’insegnamento è che chi vuole scrivere di salute deve richiedere alle più importanti riviste scientifiche internazionali di ricevere le loro an-teprime, avendo poi l’accortezza di valutarne comunque l’interesse e il rilievo. Chi può permetterselo dovrà anche selezionare un certo numero di riviste da leggere con costanza per seguire ciò che accade nel mondo medico (almeno New England Journal of Medicine, JAMA, British Me-dical Journal e Lancet).

in sintesiOccorre diffidare degli articoli che:- riportano le medesime parole del comunicato stampa, per cui sono in

buona parte uguali pur essendo pubblicati su testate diverse- nascono da conferenze stampa o comunicati stampa senza aggiunta di

approfondimenti e valutazioni critiche- magnificano i pregi di un trattamento/prodotto, come accade nei reda-

zionali o nei comunicati stampa

6. StAbiLire LA reALe novità deLLA notiziASi sa che nel giornalismo il primo gradino è trovare la notizia o... creare

la notizia. Nelle strategie di marketing di chi produce farmaci o dispositivi

l’interpretazione degli Studi clinici

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medici questa ricerca della novità è pure al primo posto: è più facile lanciare un farmaco nuovo e sottolineare questa sua novità. Non sempre però un farmaco o un prodotto è realmente innovativo.

La domanda che devo pormi è:D1. Il farmaco che viene proposto è realmente una novità?

d1. il farmaco che viene proposto è realmente una novità?Negli ultimi anni i farmaci veramente innovativi si possono contare sul-

la punta delle dita di una mano, eppure ne vengono sfornati a getto più o meno continuo. Ma un farmaco nuovo può essere semplicemente un nuovo membro di una classe di farmaci già disponibili (in tal caso le attività di pro-mozione mirano a dire che è più efficace o più sicuro degli altri farmaci della stessa classe).

Poniamo pure il caso che si tratti di una novità e cioè che sia un farmaco innovativo, ciò però non significa automaticamente che sia efficace e sicuro. Quando si scrive non si possono quindi usare i toni trionfalistici, essendo certo che un farmaco efficace porta con sé anche gli effetti avversi.

L’insegnamento è che bisogna avere sempre un atteggiamento di cautela rispetto alle sbandierate novità/innovazioni, riconducendole a un qua-dro più generale e facendosi venire il dubbio che le magnifiche doti si-ano in qualche modo “spinte” dalle aziende che producono il farmaco.

in sintesiOccorre diffidare degli articoli che:- non spiegano perché il nuovo farmaco è una novità- hanno toni entusiastici, vedendo nel nuovo farmaco una panacea- hanno solo aspetti positivi e non riferiscono quelli negativi

7. confrontAre iL nUovo trAttAmento con trAttAmenti già diSPonibiLi

Il bravo giornalista che scrive di salute di fronte al lancio di un nuovo far-maco deve porsi subito l’interrogativo se ci siano già farmaci efficaci e sicuri per la malattia per cui è proposto. Come per tutto il giornalismo, ancor più per quello nel campo della salute occorre togliersi i paraocchi e avere uno sguardo il più ampio possibile.

Pietro Dri

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Le domande che devo pormi sono:D1. Non ci sono in commercio altri farmaci con la stessa funzione?D2. È proprio necessario ricorrere a un farmaco per una data condizione?

d1. non ci sono in commercio altri farmaci con la stessa funzione?Sovente quando si parla di un nuovo farmaco si dimentica tutto quanto è

stato fatto in precedenza, che ci sono per esempio già in commercio farmaci efficaci e sicuri per quella malattia. Non si fa un buon servizio al lettore se ci si limita a descrivere l’attività del nuovo farmaco senza dire però che sono disponibili altri trattamenti dei quali (essendo in commercio da più tempo) si conosce tutto di efficacia e sicurezza, e che il prezzo del farmaco nuovo è molto più alto dei farmaci più vecchi. Ancora una volta la notizia va quindi inquadrata rispetto alla realtà attuale, evitando di indurre il paziente a chie-dere per esempio al proprio medico di usare il farmaco nuovo al posto di quello che sta già prendendo.

Inoltre sapere che ci sono già farmaci efficaci deve spingere il giornalista a valutare criticamente lo studio di partenza: perché per esempio il nuovo farmaco è stato confrontato con un placebo se ci sono già farmaci per quella malattia? Il confronto avrebbe dovuto essere tra farmaco nuovo e farmaci vecchi, vedendo efficacia e sicurezza. La tendenza oggi è di considerare non etici gli studi che usano il placebo, come confronto, a meno che per una data malattia non ci siano altri trattamenti efficaci già disponibili.

L’insegnamento è che occorre raccogliere informazioni (o attraverso un esperto indipendente o analizzando gli studi in letteratura) a 360 gradi, non limitandosi a quanto viene riportato sul singolo farmaco.

d2. È proprio necessario ricorrere a un farmaco per una data condizione?In molti casi la medicalizzazione spinta porta a usare farmaci e a suggerire

esami e procedure laddove un atteggiamento di attesa o di modifica di com-portamenti potrebbe portare ai medesimi risultati, senza costi e rischi per la persona.

Non bisogna sottovalutare la capacità di penetrazione dei mezzi di comu-nicazione, specie se ci si rivolge a un pubblico “debole” perché malato, che cerca ovviamente speranze e una soluzione per la propria malattia. Bisogna sempre tenere presente il rischio che il lettore interpreti quanto scrivo e

l’interpretazione degli Studi clinici

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vada dal proprio medico pretendendo la nuova cura, senza considerare tutti i fattori che entrano nella scelta di un trattamento. Io devo anzitutto chie-dermi se non ci sia per una certa malattia un uso eccessivo dei farmaci: un atteggiamento di attesa senza fare nulla e lasciando fare il corso alla natura (ovviamente se la malattia non è grave) potrebbe portare a maggiori bene-fici per il malato. Questa scelta ovviamente deve essere fatta dal medico, il quale però avrà maggiori difficoltà a proporla al malato e a sostenerla se il giorno prima sul giornale il paziente ha letto meraviglie di un nuovo farma-co per la sua malattia.

L’insegnamento è di ponderare sempre i termini nella scrittura dell’articolo e di chiedere all’esperto se per quella malattia occorre sempre ricorrere ai farmaci o ci sono soluzioni meno... invasive e costose.

Poniamo venga lanciato un nuovo farmaco contro il colesterolo (esem-pio che abbiamo già impiegato in precedenza) e che si dica che questo è più sicuro ed efficace dei farmaci usati in precedenza. Chi leggerà l’articolo e ha il colesterolo alto si chiederà immediatamente se fa al caso suo e la risposta sarà “sì, certo, lo voglio”. Ma il fatto è che non significa nulla avere il colesterolo alto, bisogna sapere quanto è alto e qual è il proprio rischio cardiovascolare per altri comportamenti. Per molte persone si avrebbe un maggior vantaggio semplicemente modificando gli stili di vita che pren-dendo un farmaco. Il colesterolo può essere ridotto modificando la propria dieta e facendo attività fisica, chi fuma può smettere di fumare (riducendo così il proprio rischio cardiovascolare), chi ha la pressione alta può ridurre il sale nella dieta, chi è sedentario può iniziare a fare esercizio fisico. Sono tutte possibili vie che consiglierà ovviamente il medico ma che devono es-sere rese palesi al nostro lettore. Ogni volta che si scrive di farmaci contro il colesterolo dovrebbe per esempio esserci l’informazione che non sempre bisogna ricorrere alle medicine e che a volte basta cambiare un poco i pro-pri comportamenti e stili di vita.

L’insegnamento è che si ha una grande responsabilità quando si scrive di salute e che il ruolo del giornalista è chiave nel diffondere una adeguata cultura su questi temi, facendo argine a spinte di tipo commerciale.

in sintesiOccorre diffidare degli articoli che:

Pietro Dri

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- non chiariscono se siano già disponibili altri trattamenti per quella ma-lattia

- concentrano tutta l’attenzione sui farmaci, quando non sempre sono necessari

- trascurano i suggerimenti sugli stili di vita, che possono sostituire o co-munque associarsi ai trattamenti

8. chiArire LA diSPonibiLità deL trAttAmentoQuando si scrive di una nuova terapia è fondamentale chiarire in quale

fase di sviluppo o di disponibilità sia per non indurre il lettore a pensare er-roneamente di poter avere presto un dato farmaco.

Le domande che devo pormi sono:D1. In che fase è il nuovo farmaco?D2. Il farmaco è già stato approvato dalle autorità regolatorie?D3. Dove è disponibile il farmaco?

d1. in che fase è il nuovo farmaco?La ricerca di nuovi farmaci procede a gradini. A volte giungono agli onori

delle cronache farmaci che hanno superato gli studi in vitro e quelli nell’a-nimale. Qualora questi studi siano rilevanti perché promettono magari spe-ranza per la cura di malattie finora letali (vedi il recente esempio di Ebola) è plausibile darne informazione ai propri lettori ma chiarendo subito che si tratta di studi iniziali e su molecole mai provate nell’uomo.

Quando poi si arriva alla sperimentazione umana è fondamentale che il giornalista sappia in che fase di studio è il farmaco: c’è infatti una notevole diversità tra la fase 1 (gestita su pochi volontari sani e mirata unicamente a definire la sicurezza di base del farmaco), la fase 2 (nella quale si sommi-nistra il farmaco a un numero modesto di pazienti per avere i primi dati di efficacia e indicazioni sul dosaggio), la fase 3 (nella quale aumenta il numero di pazienti trattati con il farmaco e viene definito il rapporto rischi/benefici a breve e medio termine e si confronta la molecola rispetto a un altro farmaco già attivo nella data malattia o a un placebo) e la fase 4 (che segue alla com-mercializzazione del farmaco ed è mirata soprattutto a far emergere eventuali effetti avversi rari e gravi che non era possibile “vedere” nelle fasi precedenti perché condotte su numeri limitati di pazienti).

l’interpretazione degli Studi clinici

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L’insegnamento è di indicare sempre al lettore a che punto è la spe-rimentazione di un nuovo farmaco per non creare false speranze o fornire informazioni eccessivamente positive rispetto ai dati disponibili.

d2. il farmaco è già stato approvato dalle autorità regolatorie?Al termine della fase 3 di studio, l’azienda farmaceutica prepara un dos-

sier che raccoglie tutte le prove di efficacia e sicurezza relative al farmaco con tutti gli studi realizzati e lo invia alle autorità regolatorie del farmaco (in Europa l’EMA, Agenzia europea dei medicinali, negli Stati Uniti l’FDA) per ottenerne l’approvazione all’immissione in commercio. I tempi per questa approvazione sono variabili (esistono delle corsie preferenziali per farmaci particolarmente innovativi) ma finché non c’è l’autorizzazione il farmaco non può essere immesso sul mercato. È fondamentale quindi nel proprio artico-lo chiarire se il farmaco è già disponibile in farmacia o se è in attesa delle autorizzazioni e in quest’ultimo caso non dare per scontato né i tempi né la certezza della sua commercializzazione. Inoltre non è detto che un’autoriz-zazione alla commercializzazione ottenuta oltreoceano significhi automatica-mente l’autorizzazione in Europa, ci sono molti casi di farmaci che sono stati approvati dall’FDA e non dall’EMA.

L’insegnamento è che occorre far capire sempre al lettore in che fase di sviluppo è un farmaco per non creare false aspettative, specie sui tempi di approvazione.

d3. dove è disponibile il farmaco?Non è detto che il nuovo farmaco sia disponibile per tutti i malati e in

ogni luogo. Ci sono farmaci che vengono usati solo in ospedale e non sono quindi acquistabili in farmacia dal comune cittadino, così come ci sono far-maci adatti solo a un certo tipo di pazienti o ancora farmaci che potrebbero andare bene per molto malati ma che possono essere “passati” gratuitamen-te dal Servizio sanitario nazionale solo ad alcuni pazienti in determinate condizioni.

Infine ci si trova spesso di fronte al fattore tempo: l’articolo esce, ma la disponibilità del farmaco in Italia magari inizia alcuni mesi dopo, anche in questo caso è bene essere chiari con il proprio lettore.

Pietro Dri

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L’insegnamento è che occorre inserire sempre alla fine dell’articolo l’in-dicazione sia sui tempi della disponibilità del nuovo farmaco sia sulle modalità di erogazione.

in sintesi

Occorre diffidare degli articoli che:

- non chiariscono in che fase di sviluppo sia il farmaco

- non danno informazioni sull’approvazione del farmaco

- usano il nome commerciale del farmaco (cosa non concessa dalla nor-mativa italiana per i farmaci su prescrizione medica) invece del nome del principio attivo

- non danno informazioni sulla disponibilità del farmaco e sulle sue even-tuali limitazioni a categorie particolari di pazienti

9. fornire UnA StimA AdegUAtA deL coSto deLL’interventoNon è vero il detto popolare che la “salute non ha prezzo”. Come sappia-

mo dai deficit di molte regioni italiane per i servizi sanitari, la salute ha un prezzo e un prezzo molto alto, tanto che si devono razionalizzare le risorse e decidere in quale direzione investirle.

Le domande che devo pormi sono:

D1. Questa nuova cura quanto costa?

D2. Questa nuova cura quanto costa rispetto alle altre disponibili?

d1. Questa nuova cura quanto costa?I nuovi farmaci hanno spesso costi proibitivi. Questi costi sono legati in

larga parte alle tecnologie sempre più avanzate usate per produrli, alla loro sofisticazione e soprattutto alla necessità per le aziende farmaceutiche di ri-entrare degli investimenti fatti per sviluppare una nuova molecola. Si calcola grossolanamente che lo sviluppo completo di una molecola dalle sue prime fasi alla commercializzazione costi circa 1 miliardo di dollari (in questo costo entrano anche quelli sostenuti per le tante molecole che non arriveranno mai a essere immesse sul mercato). Per questo motivo i nuovi farmaci hanno spesso costi altissimi, di cui occorre tenere conto.

l’interpretazione degli Studi clinici

AREA UMAnISTICA

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Prendiamo l’esempio di un nuovo farmaco contro il cancro che, a fronte di un costo giornaliero di 5.000 euro a paziente, allunghi la durata della vita di un mese. È giusto somministrare questo farmaco o è più giusto investire quegli stessi soldi per altri pazienti con altre malattie altrettanto gravi?

L’insegnamento è che occorre sempre porre attenzione ai costi che non possono essere dimenticati in un Servizio sanitario che garantisce le cure essenziali a tutti i suoi cittadini.

d2. Questa nuova cura quanto costa rispetto alle altre disponibili?Il giornalista deve fornire al lettore anche i dati economici, sapendo però

che le valutazioni di farmacoeconomia sono molto complesse (perché per esempio comprendono i costi di giornate di ricovero risparmiate, esami e così via). Sarebbe allora sufficiente fare un paragone con le altre cure di-sponibili e dire che la cura con il vecchio farmaco costa 10 euro al giorno e quella con il nuovo farmaco 1.000 euro al giorno. Bisogna ricordarsi che se non è troppo presto per parlare della sicurezza e dell’efficacia di un farmaco di sicuro non è troppo presto per parlare dei suoi costi. Il cittadino deve ave-re un’idea dei costi legati alla salute e questo è un importante passo avanti culturale per il quale il giornalista può svolgere un ruolo rilevante per evitare che tutti pretendano di avere gratuitamente tutto.

L’insegnamento è che occorre confrontare i costi di una nuova cura con quelli delle cure già disponibili per rendere il lettore partecipe di tutti i problemi connessi a un trattamento.

in sintesiOccorre diffidare degli articoli che:

- non parlano dei costi del nuovo farmaco

- non confrontano i costi del nuovo farmaco con quelli degli altri farmaci già disponibili

- non forniscono informazioni sulle modalità di dispensazione del farmaco (se cioè verrà “passato” gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale”)

Pietro Dri

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10. vALUtAre iL PotenziALe di diSeASe mongeringIl disease mongering (traducibile con “mercificazione della malattia”) è

una strategia che viene posta in atto per indurre i cittadini a fare ricorso a farmaci (medicalizzazione) trasformando situazioni che patologia non sono o creando nuove malattie.

La domanda che devo pormi è:D1. La malattia di cui sto parlando è reale?

d1. la malattia di cui sto parlando è reale?In un periodo in cui è difficile trovare nuovi farmaci per le malattie note,

le aziende farmaceutiche hanno spinto per allargare il numero dei possibili “malati”. Ci sono diversi modi per arrivare a questo risultato:

• trasformareunfattoredirischioinunamalattiaecometalequindida curare (per esempio trasformare in osteoporosi una bassa densità minerale ossea, fattore di rischio noto per le fratture)

• descrivereinmanieranonaderenteallarealtàunacondizione,sotto-lineandone la gravità (per esempio un tumore della prostata in fase iniziale che scoperto per caso non avrebbe mai dato segno di sé)

• trasformareunavariazionefunzionaleinunamalattiadatrattare(peresempio una disfunzione erettile temporanea)

• trasformareunostatodinormalità inunamalattia (peresempio lacalvizie, le rughe, la timidezza)

• esagerarelaprevalenzadiunamalattia(peresempioconsiderandomalate persone che in realtà hanno valori ancora ai limiti di norma di un dato parametro come può essere la soglia di glicemia per definire una persona diabetica o i valori della pressione arteriosa per definire una persona ipertesa).

In sostanza si va verso l’estinzione dell’uomo sano, tutti siamo malati e come tali dobbiamo essere curati.

Il giornalista deve capire se si è di fronte a una di queste strategie per riportare la notizia nel giusto alveo.

L’insegnamento è che occorre prestare attenzione ai tentativi fatti dalle aziende di spingere a una sempre più permeante medicalizzazione.

l’interpretazione degli Studi clinici

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in sintesiOccorre diffidare degli articoli che:- enfatizzano la diffusione di una data malattia- hanno una struttura tipica dei redazionali: c’è una malattia frequente, che

causa numerosi problemi, che possono diventare gravi, ma ora per fortuna c’è una soluzione e questa soluzione è il farmaco X.

- spacciano per malattie condizioni che non lo sono (per esempio calvizie o rughe)

- mirano a medicalizzare situazioni che potrebbero essere tranquillamente gestite senza ricorrere ai farmaci

Per SAPerne di Più• LasezionedelsitoPartecipaSalutededicataallaricercaclinicahttp://www.

partecipasalute.it/cms_2/partecipa_alla_ricerca ultimo accesso 01-05-2015

• Demystifyingtrialnetworksandnetworkmeta-analysis

http://www.bmj.com/content/346/bmj.f2914 ultimo accesso 01-05-2015

• Independentdrugtestingtoensuredrugsafetyandefficacy

http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2328348 ultimo accesso 01-05-2015

• Editorialpoliciesforclinicaltrialsandthecontinuedchangesinmedicaljournalism

http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1699471 ultimo acces-so 01-05-2015

• Informingtheuninformed:optimizingtheconsentmessageusingafrac-tional factorial design

• http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23700028ultimoaccesso01-05-2015 The Women’s Health Initiative—A victory for women and their health

• http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?articleID=1745653ultimoaccesso01-05-2015

• Betterreportingofscientificstudies:whyitmatters http://www.plosmedicine.org/article/info:doi/10.1371/journal.pmed.1001504

ultimo accesso 01-05-2015

• Quantificationofharmsincancerscreeningtrials:literaturepreview

http://www.bmj.com/content/347/bmj.f5334 ultimo accesso 01-05-2015

Pietro Dri

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544 AUS 6/2015

• Risks(andbenefits)incomparativeeffectivenessresearchtrials http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp1309322 ultimo accesso 01-

05-20155

• Who’safraidofpeerreview? http://www.sciencemag.org/content/342/6154/60.full ultimo accesso 01-05-2015

• Understandingclinicaltrials:appreciatingmedicalheroes

http://doc.mediaplanet.com/all_projects/4921.pdf ultimo accesso 01-05-2015

• Dispellingthemanymythsaboutclinicaltrials http://www.newswise.com/articles/dispelling-the-many-myths-about-cli-

nical-trials ultimo accesso 01-05-2015

l’interpretazione degli Studi clinici

AREA UMAnISTICA

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«Il “Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini rimane un capolavoro e probabilmente il miglior film su Gesù mai girato; sicuramente, quello in cui la sua parola risuona più fluida, aerea e insieme stentorea, scolpita nella spoglia pietra come i migliori momenti del cinema pasoliniano».

(Emilio Ranzato, L’Osservatore Romano, 21 luglio 2014)

In un cortometraggio intitolato “La forma della città”, trasmesso dalla RAI il 7 febbraio 1974, Pasolini, a proposito del deleterio effetto del consumismo sulla collettività, così si esprimeva testualmente:

«Il regime è un regime democratico, eccetera, eccetera, però quella accul-turazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della società dei consumi, invece, riesce a ottenere perfettamente. [...] Il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia, e questa cosa è avve-nuta talmente rapidamente che non ce ne siamo resi conto, è avvenuta in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni... è stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi, sparire. Adesso, risveglian-doci, forse, da questo incubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare».1

1 P.P. Pasolini, P. brunatto, Pasolini e… La forma della città, cortometraggio pro-

Pier Paolo Pasolini rappresenta una di quelle rarissime figure, forse l’unica,di intellettuale capace non solo di reggere il confronto con il passare

del tempo, ma di rappresentare anno dopo anno un punto di riferimento sempre più presente e rivelatore della società attuale.

Nette e chiare le sue posizioni ipercritiche verso la civiltà dei consumi le quali, nel tempo, si sono rivelate vere e proprie profezie,

dettate comunque da una lungimirante capacità di interpretare i fenomeni sociali nonché i poteri politico-economici che le determinano.

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pp. 545-555

iL vAngeLo di Pier PAoLo PASoLini Felice Di Giandomenico Psicologo – Michele Balducci Psicologo

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il vangelo di pier paolo paSolini

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Una considerazione apocalittica, come era nello stile di Pasolini, ma co-munque una considerazione che cela al suo interno delle verità che, col passare del tempo, si sono pian piano rivelate fino ai nostri giorni, dove il consumismo è divenuto un vero e proprio stile di vita collettivo ormai ben consolidato, con tutto ciò che ne consegue.

Inquadrare la figura di Pasolini come intellettuale non è semplice in quan-to la sua attività artistico-letteraria ha assunto forme poliedriche spaziando dalla poesia alla politica, dalla sociologia alla saggistica, sino ad arrivare a forme squisitamente artistiche come il cinema e la pittura.

PASoLini e iL SUo “vAngeLo Secondo mAtteo”In questa sede, cercheremo di analizzare quello che ha rappresentato il cine-

ma pasoliniano nel panorama della cultura italiana, concentrando l’attenzione su un film in particolare che anche la Santa Sede, in occasione del 50° anno dall’u-scita de “Il Vangelo secondo Matteo”, ha valutato come “il miglior film su Gesù mai girato”. Il lungometraggio venne presentato alla XXIV Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica a Venezia il 4 settembre 1964. Molte le polemiche che accompagnarono la proiezione del film e particolarmente violenta fu la protesta di alcuni facinorosi dell’estrema destra che attaccarono anche fisicamente sia il regista che alcuni attori protagonisti del film presenti alla proiezione.

Ad ogni modo, l’opera di Pasolini fu premiata dall’OICIC (Organisation Ca-tholique Internationale du Cinéma) e la motivazione del premio fu la seguente:

“L’autore di cui si dice che non condivida la nostra fede, ha dato prova nella scelta dei testi e delle scene di rispetto e delicatezza. Egli ha fatto un bel film, un film cristiano che produce una profonda impressione”.2

Nel Vangelo secondo Matteo, le tematiche pasoliniane (pensiamo soprat-tutto all’interesse di Pasolini per l’ormai scomparsa classe sociale denominata sottoproletariato) assumono una connotazione che si ammanta di un alone sacro ineliminabile. Dice Pasolini: “Ho sentito l’alone di sacralità, di mistero, di divinità che aleggia in tutto il testo di Matteo”.3

dotto dalla RAI, trasmesso il 7 febbraio 1974. Cfr. anche Pasolini P., Acculturazione e acculturazione, Scritti Corsari, Garzanti, Milano 2010, pp. 22-25.

2 Cfr. E. siciliano, Vita di Pasolini, Oscar Mondadori, Milano, 2005, p. 316.3 P.P. Pasolini, trascrizione del dibattito Cinema e letteratura nell’opera di Pier

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Felice Di Giandomenico – Michele Balducci

Una lettura del testo evangelico quindi attenta, meditata, soppesata dove nulla è lasciato all’improvvisazione e dove la relazione tra il Cristo e un’u-manità provata fa da sfondo ad una rappresentazione scenica che traduce il testo di Matteo in immagini visive e sonore cariche di pathos.

Nel film, secondo quanto dichiarato da Pasolini stesso, non vi è nulla di celebrativo o di aprioristicamente sacro. È comunque importante sottolineare che “Tra i tanti film realizzati sulla vita e sulla passione di Gesù, quello di Pasolini è il solo nel quale il protagonista e gli altri interlocutori usino parole scritte nel Vangelo, senza ricorrere a parafrasi o trasposizioni”.4

In una lettera indirizzata a Lucio Caruso della Pro Civitate Christiana di Assisi contenente l’idea-guida per la realizzazione della sceneggiatura del film Pasolini scriveva:

“La mia idea è questa: seguire punto per punto il “Vangelo secondo San Matteo”, senza farne una sceneggiatura o una riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. An-che i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. È que-sta altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente - almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’uma-nità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’u-manità. Per questo dico “poesia”: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo”.5

È proprio durante un suo soggiorno ad Assisi che a Pasolini viene l’idea di fare un film sul Vangelo di Matteo. Nella sua stanza, messagli a disposizione dalla Pro Civitate Christiana, il poeta-regista trova una copia del Vangelo sul comodino e inizia a leggerlo cominciando dall’inizio, quindi proprio dal Van-

Paolo Pasolini, organizzato dal Circolo del Cinema di Alessandria, 21 novembre 1964 da A. MoltEni, Pier Paolo Pasolini. Povera Italia, interviste e interventi, 1949-1975, KAOS Edizioni, Milano, 2013, p.110-136.

4 V. Fantuzzi, Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, in “La Civiltà Cattolica”, 2004 IV 360-373, quaderno 3706.

5 Vedi il sito http://www.pierpaolopasolini.eu/cinema_vangelo.htm.

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il vangelo di pier paolo paSolini

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gelo secondo Matteo. A quanto pare, Pasolini l’ho lesse tutto di seguito, come un romanzo, e dall’esaltazione della lettura - la più esaltante che si possa fare – nacque l’idea di farne un film.

Con questa pellicola, Pasolini è riuscito ad andare oltre l’incompatibilità tra marxismo e cristianesimo.

Rispondendo ad una domanda in un dibattito dal titolo “Cinema e lette-ratura nell’opera di Pasolini” nel 1964, Pasolini parla al riguardo del Vangelo di Matteo appena prodotto presentando due chiavi di lettura: “[…] Vorrei poterle dire si, è un opera marxista, ma non glielo posso dire. Io credo che nella mia coscienza di autore lo è, e insisto ancora perché, leggendo il Van-gelo secondo Matteo, lo leggevo da marxista, come lo dovevo leggere? Cioè i farisei li vedevo come classe dirigente del tempo, la predicazione di Cristo l’ho vista come una rivoluzione fatta con i metodi che poteva impiegare un rivoluzionario allora, cioè dicendo (anziché prendere il mitra come facevano i partigiani): porgi l’altra guancia. E infatti è finito sulla croce. […] Ma contem-poraneamente serpeggiava in me questo fascino dell’irrazionale, del divino, che domina tutto il Vangelo. Tutto il Vangelo è dominato da questo senso di qualcos’altro, che io come marxista non le posso spiegare e nemmeno lei può spiegare. E che il marxismo non può spiegare. Fino a un certo limite della coscienza, anzi, dentro tutta la mia coscienza è un opera marxista”6

LA dedicA Nel Vangelo secondo Matteo è importante la dedica che Pasolini fa a Papa

Giovanni XXIII: “Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII”. Questa dedica non è fatta da un credente cattolico al Papa ma da un gior-

nalista d’ispirazione marxista non credente. Pasolini vedeva nella storia, nella politica e nella cultura italiana del suo tempo il verificarsi di un profondo mutamento antropologico durante ed in seguito al boom economico. Que-sto processo avvenuto dalla metà degli anni ’50 ai primi anni ’60 ha portato valori diversi come quelli del mercato, del liberalismo e del consumismo americano, soppiantando i valori che definivano la cultura italiana fino a quel momento come quelli del cristianesimo cattolico e della società agrico-

6 P.P. Pasolini, trascrizione del dibattito Cinema e letteratura nell’opera di Pier Paolo Pasolini, organizzato dal Circolo del Cinema di Alessandria, 21 novembre 1964 da A. MoltEni, Pier Paolo Pasolini. Povera Italia, interviste e interventi, 1949-1975, KAOS Edizioni, Milano, 2013, p. 124.

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Felice Di Giandomenico – Michele Balducci

la. All’interno di questa breve panoramica storico sociale si colloca la dedica a Giovanni XXII, poiché per Pasolini questo pontefice risulta essere l’unica cosa buona che l’Italia ha avuto in questo periodo.

“Questa crisi culturale, che coinvolge tutta la cultura italiana, ha coinciso come accennavo sopra, con una mia crisi privata. Ed è per questo che ho scritto un volume in versi Poesia in forma di rosa, che è la registrazione diaristica, espressiva, di questa crisi. E insieme ho pensato, concepito e poi realizzato il Vangelo. In questo momento di vuoto culturale, di giro a vuoto della cultura italiana e della letteratura italiana, in questo imporsi caotico e irrefrenabile di movimenti avanguardistici, completamente anarchici, che si pongono contro la lingua in quanto si pongono contro ogni valore, in questo momento io credo che ci sia stato un solo fatto positivo nell’ambito della cultura italiana, ed era la figura di Giovanni XXIII che è sorta ed ha operato proprio in quegli anni.”7

Lo stesso autore ci spiega le ragioni di questa sua visione e al centro del ritratto di Giovanni XXIII che Pasolini ci dipinge, c’è un sorriso. Per Pasolini il pontificato di Giovanni XXII non è un fatto positivo solo perché si è avuto un papa buono oppure angelico o addirittura santo, il motivo è un altro e risiede per l’autore nello humour del papa.

Nel suo essere forse addirittura inconsapevole del periodo storico, il pon-tefice riesce a viverlo con il sorriso e con l’ironia. Sono dunque l’ironia e lo humour che prevalgono nella visione di Pasolini del “Papa buono”:

“Giovanni XXIII ha vissuto questa esperienza storica in maniera comple-tamente intuitiva […] a me appunto, come linguista e come stilista, interessa molto partire sempre dai dati concreti, come sono i dati linguistici. Se voi osservate un momento i “motti di spirito” di Giovanni XXIII, vedete che sono caratterizzati da uno spirito completamente nuovo: vorrei dire da uno spirito genericamente manzoniano, da una semplicità manzoniana; e voi sapete la posizione progressista e dialettica che ha avuto Manzoni rispetto al cattolice-simo, i suoi riferimenti con la cultura europea, con il giansenismo, ecc.

Un fatto nuovo nella chiesa l’humour, l’ironia. Ma questo humour di papa Giovanni, questa sua ironia, presenta un fenomeno estremamente nuovo. […] L’humour di Papa Giovanni aveva questa caratteristica assolutamente poetica, nuova, quella di essere esercitata sugli altri, ma anche su se stesso, e

7 P.P. Pasolini, Marxismo e cristianesimo da A. MoltEni Pier Paolo Pasolini. Pove-ra Italia, interviste e interventi, 1949-1975, KAOS EDIZIONI, Milano, 2013, p.142.

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il vangelo di pier paolo paSolini

AREA UMAnISTICA

soprattutto su se stesso. Cioè in un certo senso Giovanni XXIII compiva l’atto profondamente, altamente democratico di sorridere di se stesso in quanto autorità.

Cosa volete immaginare di più rivoluzionario nella Chiesa, nella Chiesa che si è sempre posta come antiliberale e antidemocratica nel fondo?”8

Questa continua dialettica in Papa Giovanni XXIII tra cristianità e demo-crazia ha permesso al pontefice, in un periodo di guerra fredda e di profondi mutamenti sociali e culturali, di mantenere un messaggio universale e per-ciò cattolico aperto a tutti i dialoghi. Dialoghi che la Chiesa intratteneva in un’Italia principalmente divisa in due dalle politiche U.S.A. e dell’U.R.S.S., insieme alle relative sottodivisioni ideologiche e di pensiero in entrambi gli schieramenti in gioco, così da non avere pregiudizi e non fare discriminazio-ni, la qual cosa sarebbe risultata anticattolica e antidemocratica, ma piuttosto parlando sinceramente e spontaneamente con entrambi gli schieramenti che in Italia erano la D.C. da un lato e il P.C.I. dall’altro.

In quel periodo, per una serie di motivi su cui sarebbe fuori luogo dilun-garsi, i comunisti, da una parte della società italiana e anche europea, erano visti come uno spauracchio contro il modello culturale americano, anche per la Chiesa l’U.R.S.S. rappresentava un pericolo, ma Papa Giovanni XXIII seppe aprirsi anche ai comunisti parlando cioè direttamente alle persone piuttosto che alle ideologie o ai partiti. Il Vangelo perciò rappresenta nella sua dedica non solo motivazioni personali di Pasolini di natura estetica o stilistica ma anche una riflessione sociale, culturale ed umana sulla figura del papa e sul ruolo della Chiesa in quegli anni.

Nel panorama storico l’elezione di Angelo Roncalli al pontificato segnò una svolta nel ruolo della Chiesa di quegl’anni. Precedentemente papa Pio XII, nonostante la chiesa come istituzione non si astenesse dal partecipare alla vita politica italiana, rimaneva un personaggio “lontano e inavvicinabile, erudito ma incapace di parlare il linguaggio della gente comune”9.

Con Giovanni XXIII la Chiesa cambia volto e nella sua enciclica Pacem in Terris invitò alla riconciliazione internazionale, basandosi su un ruolo neu-trale della Chiesa e sul suo rifiuto di accettare le barriere della guerra fredda.

8 P.P. Pasolini, Marxismo e cristianesimo da A. MoltEni Pier Paolo Pasolini. Pove-ra Italia, interviste e interventi, 1949-1975, KAOS Edizioni, Milano, 2013, pp.143-144.

9 P. GinsborG, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Piccola biblioteca Einaudi, Torino, 1989-2006, pp. 350-351.

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Felice Di Giandomenico – Michele Balducci

“L’enciclica era indirizzata a tutti gli uomini di buona volontà, non solo ai cattolici, e dimostrava come fosse necessaria una cooperazione tra persone di diverso credo ideologico. […] Si aprì così lo spazio per un dialogo fra cattolici e marxisti, e in campo politico democristiani e socialisti poterono finalmente trovarsi faccia a faccia per trattare”10.

LA tecnicA e i LUoghiCome già accadde per film precedenti, ad esempio Accattone (1961),

Mamma Roma (1962), La ricotta (1963) ecc. Pasolini per il suo lungometrag-gio sul Vangelo di Matteo utilizzò attori non professionisti coinvolgendo an-che sua madre (Susanna Colussi) che interpretò il ruolo di Maria ai piedi della croce e un giovane sindacalista catalano antifranchista, Enrique Irazoqui, che interpretò la parte di Gesù.

Questa impostazione dei suoi film ha diversi significati che s’intrecciano con la tecnica cinematografica e la scoperta di Pasolini del cinema come stru-mento polisemico in cui ritradurre la realtà. Senza entrare troppo negli aspetti tecnici del cinema pasoliniano, nel suo inizio con Accattone Pasolini era di-giuno di tecnica cinematografica, di come si usa la telecamera quali obiettivi sono meglio per presentare un immagine in un modo piuttosto che in un altro, la luce, le diverse inquadrature. Cercava semplicemente come regista di far vedere quel che vedeva, di rendere il più possibile scevro di tecnicismi e di a priori ciò che veniva ripreso dalla cinepresa.

“Come molti di voi sanno io sono arrivato al cinema in modo piuttosto ir-regolare: sono arrivato al cinema dalla letteratura, assolutamente privo di una preparazione tecnica. Addirittura, quando ho cominciato a girare il film non sapevo che differenza ci fosse tra la parola “panoramica” e la parola “carrel-lata”: e il primo giorno che ho girato la prima scena del mio film, l’operatore mi dice: “Che obbiettivo mettiamo nella macchina?” e io non sapevo che cosa fossero questi obbiettivi. Dunque una totale impreparazione tecnica. […] e istintivamente ho scelto un dato tipo di tecnica, che è appunto quella dove si vede, dove si legge, meglio che nei contenuti, che sono sempre, di fatto, un pochino esteriori, casuali, dove si legge questa sua intima religiosità, perché io concepivo la tecnica in maniera che vorrei dire, così, sacrale.”11

10 Ivi p. 353.11 P.P. Pasolini, trascrizione del dibattito Cinema e letteratura nell’opera di Pier

Paolo Pasolini, organizzato dal Circolo del Cinema di Alessandria, 21 novembre 1964

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il vangelo di pier paolo paSolini

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Nell’idea di Pasolini di fare il Vangelo c’era dunque una tecnica già asso-data per certi versi, per quanto personale potesse essere, per Pasolini l’aspet-to sacro con cui poteva girare il film era già dato dalla tecnica, bastava sem-plicemente riutilizzare quel senso di ierofania che davano le inquadrature di Accattone, fisse sui volti, simmetriche e al limite della maniacalità, ma appena impugnata la macchina da presa per girare il Vangelo si rende conto che esteticamente l’inquadratura è ridondante; cosa ci può essere di più retorico di rappresentare un Cristo sacro o addirittura sacralizzato?

“Ho oscillato un pochino, quando ho parlato della sacralità tecnica di Ac-cattone, allora, per spiegarmi meglio, le racconterò il passaggio e il momento di crisi tra Accattone e Il Vangelo secondo Matteo. […] Quando ho cominciato a girare il Vangelo credevo di avere la formula in tasca per girarlo: pensavo, istintivamente, al mio modo di girare, a questa forma di sacralità tecnica. […] Ho cominciato a girare in quel modo lì e ho fatto delle cose orrende, orribili, insopportabili. […] Ed è chiaro il perché, perché eseguire il Vangelo attraver-so una tecnica sacra, ieratica, religiosa era far piovere sul bagnato, mi veniva-no fuori delle immagini tradizionali: un Cristo ieratico non era un Cristo; una panoramica – che avesse un qualcosa di solenne, di maestoso, di sacrale – su degli atti degli Apostoli che ascoltavano Cristo perdeva di significato, mentre poteva avere valore una panoramica sulle facce di “giovinottastri romani” che stavano lì, ad ascoltare neghittosamente Accattone che parla”12.

Il risultato è una miscela di tecniche per girare Il Vangelo, che Pasolini stesso definirà magmatica. Tutto ciò che aveva appreso precedentemente con Accattone risultava detestabilmente, fuori luogo, così per riprendere una sce-na di una corsa degli Apostoli usa una cinepresa con una montatura per gare sportive ciclistiche, arrivando sino al cinema veritè nei due processi di Cristo da Caifa e Pilato, laddove la camera da presa è posta nel mezzo della folla tenuta a distanza e ferma sulla soglia di un portone che dà su una piazza.

Appena vediamo la piazza ci rendiamo conto che potremmo stare nella Palestina di duemila anni fa ma in realtà non ci siamo, alcuni dettagli lo mo-

da MOLTENI A. Pier Paolo Pasolini. Povera Italia, interviste e interventi, 1949-1975, KAOS Edizioni, Milano, 2013, p.113.

12 P.P. Pasolini, trascrizione del dibattito Cinema e letteratura nell’opera di Pier Paolo Pasolini, organizzato dal Circolo del Cinema di Alessandria, 21 novembre 1964 da MOLTENI A. Pier Paolo Pasolini. Povera Italia, interviste e interventi, 1949-1975, KAOS Edizioni, Milano, 2013, p. 131.

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Felice Di Giandomenico – Michele Balducci

strano, alcuni luoghi parlano, rimandano ad altro: al contemporaneo. Que-sti luoghi, sono abitati da persone in cui nei loro volti è impresso il modo di vivere in quei paesi degli anni ’60 nell’Italia del sud. Dopo la questione meridionale gramsciana e le ricerche di Ernesto De Martino sul sud d’Italia, Pasolini ritorna nuovamente su quei luoghi, in cui era vissuto in esilio sotto il fascismo Carlo Levi e il risultato non sembra mutato di una virgola ritroviamo in questa pellicola un paesaggio come quelli dipinti da Levi, dei volti come ce li siamo immaginati nelle foto di Sud e Magia; nelle condizioni di povertà descritte da Gramsci.

“Non ho ricostruito niente in teatro, ho tutto trovato nella realtà, nella verginità di un paesaggio lucano o calabrese, in un castello normanno delle Puglie, in un villaggio di cavernicoli, dove la gente vive effettivamente nelle caverne, ai confini tra Lucania e Puglia.

[…] prendevo uno che mi sembrava potesse essere San Giuseppe, e gli facevo fare se stesso; non lo facevo recitare, lo lasciavo vergine come era.”13

Ci sarebbero altri aspetti da considerare che in questa sede accenneremo soltanto ma sarebbero importanti per comprendere lo studio che c’è dietro il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, questi aspetti riguardano i costumi, la scenografia, con richiami alla pittura rinascimentale italiana e nell’ambito del sonoro le opere di Bach, Mozart, Prokofiev e Webern e musiche originali di Bacalov.

Secondo Giovanni Ricci, il tentativo di Pasolini [nel Vangelo] fu: “quello di offrire una rappresentazione che renda evidente che Cristo non è «cultura», ma «vita», comunicando allo spettatore tutta la violenza e il mistero della sua morte. Alla base di tutto c’è la volontà di Pasolini di identificarsi con il Cristo, perseguita durante l’arco di tutta la sua vita, e espressa con la sua arte prima e dopo il Vangelo. Affidare alla propria madre la parte di Maria non è che uno dei tanti indizi, il più evidente, della sua sofferta imitatio. Un’imitazione ricercata non da un credente, ma da un uomo che ha trovato nella figura di Cristo, spesso tramite la mediazione della poesia, una continua fonte di interrogazione”14.

13 P.P. Pasolini, Marxismo e cristianesimo da A. MoltEni, Pier Paolo Pasolini. Po-vera Italia, interviste e interventi, 1949-1975, KAOS Edizioni, Milano, 2013, p.150.

14 ricci G., Il Cristo cinematografico di Pasolini, in “Ciemme”, n. 146, a. 34, aprile 2004, pp. 38-46.

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il vangelo di pier paolo paSolini

AREA UMAnISTICA

iL biSogno di “SAcro” in PASoLiniCome spesso accade, sono proprio coloro che sono apparentemente di-

stanti da tutto ciò che rappresenta il “sacro” ad interrogarsi su quelli che possono essere considerati gli aspetti divini dell’esistenza.

Per Pasolini, la sacralità, rappresenta la dimensione poetica dell’esistenza, laddove sia il poeta che la sua espressione artistica entrano in una sorta di accordo spirituale con il mondo attraverso quella dimensione arcaica spesso succube dell’omologazione culturale e del consumismo più insensato.

“Una aspirazione di tipo religioso, o comunque irrazionalistico, è molto antica in me, nella mia vita privata e nella mia carriera di scrittore. Ventidue anni fa quando è uscito il mio primo libro di versi, […] la prima poesia o la seconda, del volumetto, era La domenica uliva, che vuol dire la domenica degli ulivi in friulano, e raccontava, più o meno, la storia di un giovane che camminando sotto il solicello del Friuli nel giorno di Pasqua, incontra una giovinetta che gli vende l’ulivo. Questa giovinetta non è altro che l’incarna-zione della madre morta. C’è un dialogo tra questo giovane e questa fanciul-la. E la poesia finisce con queste parole: “E tu Cristo mi chiami, ma senza luce”. E poco prima c’era l’espressione “Cristo oscura luce”. Versi che potrei benissimo prendere come epigrafe del Vangelo”15

Nel cinema pasoliniano, il contesto cristiano è connotato soprattutto da un contesto prettamente popolare rappresentato dal sottoproletariato e dalla povertà dei braccianti del sud Italia, quelle classi sociali che in seguito, tramite un lento e progressivo processo di urbanizzazione cominceranno a confluire nelle città “industrializzate”, perdendo lentamente la propria identità culturale.

Questi fenomeni sociali, in auge tra gli anni ’60 e gli anni ’70 si rispecchia-no in modo metaforico anche nel Vangelo secondo Matteo dove la figura del Cristo diviene manifestazione dell’incombenza del sacro nel mondo.

“Cristo, facendosi uomo, ha accettato la storia, non la storia archeologica, ma la storia che si evolve e perciò vive: Cristo non sarebbe universale se non fosse diverso per ogni diversa fase storica. Per me in questo momento le parole di Cristo: “Ama il prossimo tuo come te stesso” significano: “Fa’ delle riforme di struttura”.16

15 Pasolini P.P., Marxismo e cristianesimo da A. MoltEni, Pier Paolo Pasolini. Po-vera Italia, interviste e interventi, 1949-1975, KAOS Edizioni, Milano, 2013, p. 138.

16 P.P. Pasolini, Lettera a Carlo Betocchi, Roma, 17 novembre 1954, in Id., Lettere 1950-1954, a cura di nico naldini, Torino, Einaudi, 1986, p. 709.

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Felice Di Giandomenico – Michele Balducci

Negli appunti buttati giù in Palestina per dare un’ambientazione idonea al suo Vangelo, si rileva in Pasolini un’insita e sconsolata ricerca di una forma poetica e arcaica del paesaggio, degli insediamenti, delle fisionomie, che fos-se adatta a significare l’epifania del sacro nella concreta forma cristiana che lì si intende descrivere. Da quei luoghi “sacri”, si passò successivamente ad una zona tra Calabria e Lucania, dove venne girato il film, anche questi luoghi che avevano esercitato si Pasolini una profonda influenza.

Per concLUderePasolini fu un intellettuale detestato sia dalla politica di destra che di

sinistra, sottoposto a processi sommari, crudeli da cui, comunque, è uscito sempre indenne. Molti degli attacchi nei suoi confronti partirono proprio dall’intellighenzia comunista che fece di tutto per espellerlo dal partito17 a causa della sua omosessualità, definita moralmente inaccettabile.

Il giornalista Andrea Barbato, in una delle sue famose “Cartoline”18 serali, commentando il rifiuto da parte di alcuni cittadini di erigere all’Idroscalo di Ostia19 un monumento ricordo di Pier Paolo Pasolini dichiarava testualmente:

“C’è tolleranza a parole per la diversità, l’omosessualità, ma nei fatti è di-verso e pochi riconoscono che un artista debba essere riconosciuto per ciò che ha scritto e basta. Forse, tra qualche anno, qualche verso scelto di Pa-solini finirà in quei cimiteri culturali che sono le antologie scolastiche, fra le ceneri di poeti morti da secoli, mummificati nei programmi scolatici, studiati con stanchezza da alunni distratti”.

17 Pasolini fu espulso dal Partito Comunista Italiano il 26 ottobre 1949 con la se-guente motivazione: “«La federazione del PCI di Pordenone ha deliberato in data 26 ottobre l’espulsione dal partito del Dott. Pier Paolo Pasolini di Casarsa per indegnità morale. Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altret-tanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della generazione borghese».

18 Programma televisivo serale che andava in onda dalle 20,00 alle 20,10. Iniziato nell’anno 1989 terminò le puntate nel 1994.

19 Luogo in cui fu assassinato Pier Paolo Pasolini il 2 novembre 1975.

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TESTIMonIAnZA

Alessandro Natale Roschini nac-que il 19 dicembre 1900 a Castel S. Elia, paese che, attualmente, fa par-te della provincia di Viterbo. Entra nell’Ordine dei Servi di Maria come novizio il 16 novembre del 1918, as-sumendo il nome di Gabriele Maria.

Dopo aver emesso la prima pro-fessione nel novembre del 1919, vie-ne inviato a Roma presso il Collegio Internazionale di S. Alessio Falconie-ri dove completerà gli studi filosofici e teologici che lo porteranno, cinque anni dopo, all’ordinazione sacerdo-tale il 20 dicembre 1924.

Subito dopo, P. Roschini svolse la sua attività apostolica e didattica a Nepi, in provincia di Viterbo, dive-nendo maestro dei novizi e definito-re provinciale. Diresse in quel perio-do la rivista L’Apostolo del Crocifisso e dell’Addolorata. Un suo biografo, padre Giuseppe M. Besutti, ricorda P. Roschini come “un uomo sempre con la penna o un libro in mano. Specialmente nei primi anni di in-segnamento gli furono assegnate di-verse materie: missionologia, intro-duzione alla Sacra Scrittura, esegesi, teologia dogmatica e mariologia.

Ma dal 1939 in poi si poté dedica-re completamente all’insegnamento della dottrina mariana”.

Infatti, proprio in quell’anno, superando non poche difficoltà da parte dei Superiori dell’Ordine e in-terpretando le necessità del momen-to, dà vita alla rivista Marianum, oggi al suo 76° anno di vita. Scopo di questa rivista è quello di promuo-vere sempre più una profonda co-noscenza del mistero di Maria.

Arriviamo così al maggio 1943, quando in Italia infuriava ancora la guerra e precarietà e indigena erano all’ordine del giorno. In questo anno, il beato Novarese consegue il 9 di aprile la Laurea in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Grego-riana, discutendo una tesi su: “Reli-gione, Chiesa, Stato in Camillo Benso conte di Cavour”. Luigi Novarese è molto giovane, solo 29 anni, ma ha le idee ben chiare su come imposta-re un’Associazione in grado di aiu-tare praticamente e spiritualmente i sacerdoti ammalati o indigenti.

L’incontro con padre Roschini, anch’egli innamorato della Madon-na, si rivelò fruttuoso e fu proprio

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Un sacerdote ricordato in Associazione per la sua preziosa amicizia col beato Luigi Novarese nella fondazione della Lega Sacerdotale Mariana nel 1943.

gAbrieLe roSchiniA cura della Redazione

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A cura della Redazione

Roschini a rivedere lo statuto della Lega Sacerdotale Mariana dandogli quell’impronta spirituale tutt’oggi viva negli annuali Pellegrinaggio a Lourdes. Come il beato Novarese, anche lui ha preso parte, sin dalla fase preparatoria, ai lavori del Con-cilio Vaticano II. Egli fu nominato «perito» intervenendo apertamente nella discussione sulla collocazione dello schema mariano con scritti di interesse notevole.

Padre Roschini fu anche per al-cuni anni Direttore responsabile del-la nostra rivista “L’Ancora” precisa-mente dall’aprile 1950 al novembre 1977 e seguì come teologo tutto l’a-postolato mariano del beato Novare-se con quella particolare e sensibile attenzione per i sacerdoti ammalati e più bisognosi di attenzione.

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eLeviAmoci con L’ASSUntA!...Scrisse genialmente Elisabetta Leseur: «Ogni anima che si eleva, eleva con sé il mondo». Se ciò è vero di qualsiasi anima, è vero in modo tutto singolare di Maria. Con Maria che si eleva, in anima corpo, al cielo, è tutto il mondo che si eleva. Poi-ché con I’umanità di Maria è tutta l’umanità che si eleva al cielo. Poiché la meta raggiunta dalla Madre è anche la meta dei figli.La definizione dogmatica di questa suprema elevazione di Maria segnerà la più sublime elevazione delle anime, del mondo. Intensifichiamo perciò in questo mese - il mese dell’Assunta - le nostre fervide preci per una tale proclamazione. L’As-sunta, rinnovando i prodigiosi interventi operati in altri tempi, ci libererà dalla guerra che un materialismo ateo, sotto ingannevole apparenza di pace, sta per scatenare nel mondo.

Roschini Gabriele M.(dall’Ancora, n. 7-8/1950, p. 3)

Nel 1977 p. Roschini contrasse una malattia che lo avrebbe portato precocemente alla morte. Oltre ad un ricovero all’ospedale San Camil-lo di Roma, furono necessarie lun-ghe ed estenuanti terapie mediche che causarono non poche sofferen-ze fisiche e psicologiche al sacer-dote.

Ma tutto sopportava con silenzio-sa pazienza affermando, come ricor-da un suo confratello, di non aver bisogno di nulla.

Quasi un segno quell’affidamen-to incondizionato alle cure materne di Maria così come lo vedeva anche il beato Novarese che al Cuore Im-macolato della Vergine affidava le notti oscure di ogni persona vessata dal dolore e dalla sofferenza dell’a-nima. ■

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Nel Vangelo di Luca leggiamo che Gesù entrò nella sinagoga del suo paese di Nazareth, prese il ro-tolo del profeta Isaia e lesse il pas-so in cui è descritto il programma del Messia atteso da Israele con le seguenti parole: “Lo Spirito del Si-gnore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionie-ri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Si-gnore” (Lc 4,18-19).

Annunciare una gioia e una gra-zia, agire a favore di chi è prigionie-ro o cieco oppure oppresso, questo il programma di Gesù, ed ecco an-che il programma della sua Chiesa. La Scrittura dice che la Chiesa è il corpo di Cristo, cioè il suo modo di rendersi presente visibilmente per parlare, guarire, liberare gli uomini.

Il nome stesso di Gesù significa Dio guarisce o Dio salva, ed egli con-tinua a essere fedele a questo suo nome per mezzo della Chiesa visibi-le e presente nel mondo.

La vocazione originaria dei cri-stiani è dunque essere presenza guaritrice di Gesù tra gli uomini, per rendere visibile l’invisibile Mes-sia mediante il suo corpo, per dare

Pubblichiamo la Premessa di fra’ Alfredo Marchello, Ministro Provin-ciale dei Frati Minori Cappuccini di Puglia, al libro “La pastorale della salute in parrocchia”.

ISBN 978-88-8407-234-4€ 10

ABBIAMo LETTo PER VoI

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LA PAStorALe deLLA SALUtein PArrocchiA

A cura della Redazione

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modo a lui di portare avanti il pro-gramma che Dio gli ha assegnato, cioè essere il salvatore e il liberatore in ogni epoca e cultura.

Sarebbe interessante elencare ciò che la parola Chiesa evoca nella mente delle persone. Forse una ge-rarchia di prelati, o una pia unione di brave persone intente a dire agli altri come bisogna comportarsi, o un club di gente interessata a porta-re avanti campagne politiche a favo-re di alcuni valori e tradizioni… Ora, onestamente, bisogna dire che forse talvolta la Chiesa ha anche rappre-sentato questo lungo la storia, ma si tratta di immagini che rimangono ben lontane da ciò che la Chiesa di Cristo è stata pensata per essere nel mondo: lo strumento di Dio per il-luminare, liberare, sanare gli uomini mediante la presenza del Signore Ri-sorto e la potenza del suo Vangelo.

Tutto ciò, però, rischia di rima-nere un bel discorso se non diventa esperienza concreta, e sarebbe bel-lo avere dei suggerimenti pratici su come aiutare gli uomini a trovare in Cristo la guarigione e la liberazione di cui tutti sentiamo intimo deside-rio.

In tale prospettiva si colloca quest’opera di fra’ Leonardo Di Ta-ranto, sacerdote francescano cap-puccino, che indica nella parrocchia il luogo tangibile in cui poter fare

esperienza del cristianesimo come risposta all’umanità con il suo biso-gno di salute e di gioia.

In un tempo in cui si parla di al-lontanamento dalla fede, e di scarsa significatività della parrocchia, il li-bro ripercorre la storia della parroc-chia lungo duemila anni per recupe-rarne il senso originario di comunità sanante mediante risorse che appar-tengono alla comunità dei credenti.

Tali risorse sono veri e propri strumenti di guarigione, afferma l’autore, e sono inerenti alla natu-ra stessa della realtà parrocchiale: il recupero di una sana soggettività, un atteggiamento di comunionalità, l’esperienza di mutua e dinamica accoglienza, la terapeuticità di un atteggiamento di dialogo che vinca la moderna tendenza all’isolamento, una visione di ottimismo e di spe-ranza, la celebrazione festiva della gioia nella liturgia.

Ecco una sfida alla fede cristia-na oggi, una pro-vocazione, come viene definita dall’autore, cioè una chiamata - per uno scopo e per un beneficio, in vista dell’annuncio di un Vangelo interessato alla salvezza integrale della persona umana. ■

A cura della Redazione

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La rivista accoglie in queste pagine le recensioni di testi che, dai più disparati punti di osservazione, trattano temi utili per approfondire e dibattere questioni inerenti all’articolato mondo dell’umana sofferenza. Questa rubrica è il luogo per un abituale e critico appuntamento con una bibliografia ritenuta utile a mantenere aperto un confronto ed un dibattito.

PSicoLogiA deL mALAtoL’esperienza della malattia può riguardare la nostra vita e quella dei nostri

cari. Possiamo fingere di non vedere, cercare di negare o passare oltre, come nella parabola del buon samaritano, ma essa bussa, prima o poi, richiamando la nostra attenzione.

Quando attraversiamo la sofferenza facciamo appello alla sensibilità che abbiamo maturato e a quella di chi ci vuole aiuta-re, ma a volte non è sufficiente e serve saperne in più. E poiché l’esperienza di chi è malato e di chi lo cura con professionalità e amore è attraversata dal filo verde della speranza, i contributi della psicologia possono risultare molto preziosi.

Lo psicologo non ha il compito di prescrivere ricette già pronte su cosa fare e su come farlo, ma ha la competenza per offrire conoscenze e indicazioni finalizzate a migliorare l’attenzione su ciò che facciamo, soprattutto quando vogliamo aiutare le persone che soffrono e accompagnare le loro attese.

L. Sandrin, Psicologia del malato, EDB, Bologna, 2015, pp. 208, € 19

incontrArSi AL cUoreUn testo nato da un confronto e un dialogo schietto tra due

diverse esperienze spirituali, quella cristiana e quella buddhista, sul piano di quel cuore di ogni via religiosa che i cristiani chia-mano amore, carità, misericordia e i buddhisti chiamano ami-calità, innocenza, compassione. I due autori, Mauricio Yushin Marassi, responsabile della Comunità Zen “La Stella del Mattino” e Matteo Nicolini-Zani monaco della Comunità di Bose, senza cedere a facili sincretismi, hanno redatto un testo rivolto a tutte le persone alla ricerca di un incontro autentico tra due vie reli-giose: ai cristiani e ai praticanti buddhisti che, come parte del proprio cammino spirituale, desiderano far dialogare in sé due diversi mondi spirituali, nonché alle persone coinvolte, a vario livello, nel dialogo interreligioso.

M. Yushin Marassi e M. Nicolini-Zani, Incontrarsi al cuore. Un dialogo cri-stiano-buddhista sull’amore-compassione, Pizzini Editore, Verucchio, 2015, pp. 136, € 12,50

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RECEnSIonI E CoMMEnTIpp. 560-563

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iL PiccoLo cAtechiSmoLutero viene in contatto con la realtà delle parrocchie della sua Sassonia

tra il 1528 e il 1529 durante una serie di visite presso le comunità locali. La Riforma muove allora ancora i primi passi e Lutero – come egli stesso afferma nell’Introduzione al libretto – si scontra con un clero spesso impreparato per il nuovo compito della predica-zione e dell’insegnamento e con un laicato in larga parte igno-rante dei fondamenti della fede cristiana. Nell’aprile del 1529 pubblica il Catechismo tedesco o Grande Catechismo e il mese successivo l’Enchiridion o Piccolo Catechismo che, come dice il curatore, costituisce «un sillabario insuperato in vista dell’acqui-sizione dell’irrinuciabile competenza cristiana», non per niente esso, insieme al Grande Catechismo, entra più avanti nel Libro di Concordia, la raccolta degli scritti che hanno autorità dottri-nale delle chiese luterane (insieme ai Credo della chiesa antica,

alla Confessione di Augusta ecc.). Il Piccolo Catechismo dunque, in maniera volutamente semplice e didascalica, si sofferma e spiega i Dieci comanda-menti, il Credo, il Padre nostro, il significato del battesimo e della Cena del Signore, senza dimenticare la confessione che, come è noto, era un fatto tanto rilevante per Lutero quanto trascurato dalle chiese evangeliche. Come nella migliore tradizione protestante, la teologia dell’opera è fondata sulla Scrittura, è spiegazione della fonte biblica, è esegesi per eccellenza: un esempio magi-strale di teologia evangelica raffinata e semplice allo stesso tempo.

(a cura di F. Ferrario), M. Lutero, Il Piccolo Catechismo, Claudiana, Torino 2015, pp. 79, € 7,50

web e new mediACos’è una “generazione”? Quanto è dirimente l’appartenenza generaziona-

le nella costruzione identitaria online? Che ruolo ha il social web nel proces-so di costruzione o ri-configurazione del we sense generazionale? Possono le pratiche web-based favorire nuove forme comunicative e relazionali sia

intra che intergenerazionali? Nell’affrontare un tema di grande attualità come le pratiche comunicative e di consumo del social web, questo volume adotta quindi la prospettiva della sociologia delle generazioni. Evitando orientamenti deterministici - spesso presenti quando si prende in esame la relazione tra generazioni e ICT - il fenomeno è interpretato in un’ottica olistica che tiene conto simultaneamente di differenti fattori oltre a quelli storici ed economici - dalla posizione dei soggetti nel corso di vita alle narrazioni e alle semantiche generazionali, dalle fasi del-lo sviluppo del sistema mediale all’evoluzione tecnologica e ai cambiamenti culturali. Sullo sfondo di una dettagliata ricostru-

zione della ricerca sulla computer-mediated communication dagli albori fino ai nuovi approcci teorici degli Internet Studies, l’impianto teorico del volume

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segue i punti cardinali della costruzione dell’identità tra online e offline, della riflessività, dello spazio e della memoria, osservando da vicino il social web come contesto di connessione quotidiano in cui i pubblici - anche generazio-nali - comunicano, si relazionano, manipolano informazione e contenuti, si autorappresentano.

A. Napoli, Teorie e pratiche della comunicazione e dei media - Web e new media - Sociologia dei processi culturali, Franco Angeli, Milano 2015, pp.186, € 23

iL vocAboLArio di PAPA frAnceScoPapa Francesco è un comunicatore straordinario che affronta i temi forti

del nostro tempo. Questo vocabolario declina le sue parole più importanti come guida e pastore della Chiesa.

I 50 termini che compongono il vocabolario sono redatti da giornalisti e vaticanisti che si confrontano continuamente con la comunicazione del Papa “venuto quasi dai confini del mondo”.

Le parole di papa Francesco “aprono, abbracciano, facilita-no. Aiutano a sollevare lo sguardo da se stessi”. È quanto scrive il Card. Pietro Parolin (Segretario di Stato Vaticano) nella prefa-zione del volume, curato dal salesiano Carriero.

“L’unica vera strategia di comunicazione di Francesco – prosegue il porporato – è l’adesione fiduciosa e serena al Van-gelo”. Per il card. Parolin, “il parlare di Bergoglio” è un sermo humilis capace di parlare a tutti. Nel suo linguaggio, soggiunge, c’è “la sa-pienza del porgere contenuti alti”, “facendo uso di un lessico e di immagini che traggono la loro forza dalla vicinanza con la vita quotidiana”. E annota che Francesco “mette l’interlocutore, chiunque sia, in una condizione di pa-rità e non di distanza”.

Il volume che, oltre alla prefazione del card. Parolin, propone anche due introduzioni, del card. Gianfranco Ravasi (Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura) e di Padre Antonio Spadaro (direttore de della Civiltà Cattolica) e la postfazione di mons. Nunzio Galantino (Segretario generale della CEI), raccoglie i contributi di 50 giornalisti e scrittori che hanno, ciascuno, esplorato e approfondito uno dei “vocaboli viventi” di papa Francesco.

(a cura di) A. Carriero, Il vocabolario di papa Francesco, Editrice Elledici, pp. 300, € 9,00

ceLebrAre LA miSericordiAOgni volta che la Chiesa celebra i sacramenti rende viva e presente la

misericordia di Dio Padre che agisce attraverso il Figlio; è proprio da questa consapevolezza che nasce il presente volume che aiuta a valorizzare l’Anno liturgico nel contesto del Giubileo della Misericordia, poiché come afferma papa Francesco: «Abbiamo bisogno di contemplare il mistero della misericor-

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Recensioni e commenti

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dia. È fonte di gioia, serenità e di pace. È condizione della nostra salvezza».

Ma cosa vuol dire contemplare la misericordia se non vederla impressa nel volto di Cristo che è vivo e realmente presente nel mistero della Santa Eucaristia?

Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evange-lizzazione, Celebrare la Misericordia, Edizioni San Paolo, Cinisel-lo Balsamo (Mi), pp. 160, € 7,90

Le PArAboLe deLLA miSericordiAIn Misericordiae vultus papa Francesco ha scritto che tenendo fisso lo

sguardo su Gesù e il suo volto misericordioso è possibile cogliere l’Amo-re della Trinità. La sua missione ricevuta dal Padre non è altro che rivela-re questo amore che a tutti si dona senza escludere nessuno: «Tutto in Lui parla di misericordia. Nulla in Lui è privo di compassione» (MV 8). Questa

bella espressione può introdurre con coerenza nella riflessione delle pagine di questo strumento pastorale che espone le Pa-rabole della Misericordia. Sarà una lettura provocatoria. Entrare nella parabola, infatti, non significa solo avere una comprensione dell’insegnamento che emerge, ma soprattutto aiuta a riconoscere il proprio ruolo all’interno del racconto. Niente come le parabo-le, probabilmente, coinvolge il lettore a cogliere la dimensione esistenziale che in esse traspare e a lasciarsi condurre per mano verso il cambiamento di vita.

Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evange-lizzazione, Le Parabole della Misericordia, Edizioni San Paolo,

Cinisello Balsamo (Mi), pp. 144, € 7,90

i SALmi deLLA miSericordiANei Salmi si riflette la vita di ogni uomo. Quanti vi si accostano, credenti e

no, presto o tardi trovano un riflesso della loro esistenza in queste antiche po-esie che sono diventate patrimonio di preghiera per generazioni di persone. La nascita e la morte, la sofferenza della malattia e il dolore dell’abbandono, la guerra e la pace, la solitudine e la ricer-ca di Dio… tutto dell’esperienza personale si rispecchia nei Salmi.

I Salmi della Misericordia sono come una guida che può ac-compagnare il pellegrinaggio verso la Porta Santa per scoprire la misericordia di Dio come una vicinanza di tenerezza e di conso-lazione che non ha confronti.

Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evange-lizzazione, I Salmi della Misericordia, Edizioni San Paolo, Cini-sello Balsamo (Mi), pp. 160, € 7,90

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Vincenzo Di Pinto

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giubileodella misericordialettera del Santo padre francesco con la quale si concede l’indulgenza in occasione del giubileo Straordinario della misericordia indirizzata a mons. rino fisichella, presidente del pontifi-cio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione.

La vicinanza del Giubileo Stra-ordinario della Misericordia mi per-mette di focalizzare alcuni punti sui quali ritengo importante intervenire per consentire che la celebrazione dell’Anno Santo sia per tutti i cre-denti un vero momento di incontro con la misericordia di Dio. È mio desiderio, infatti, che il Giubileo sia esperienza viva della vicinanza del Padre, quasi a voler toccare con mano la sua tenerezza, perché la fede di ogni credente si rinvigorisca e così la testimonianza diventi sem-pre più efficace.

Il mio pensiero va, in primo luo-go, a tutti i fedeli che nelle singole Diocesi, o come pellegrini a Roma, vivranno la grazia del Giubileo. De-sidero che l’indulgenza giubilare giunga per ognuno come genuina esperienza della misericordia di Dio, la quale a tutti va incontro con il vol-to del Padre che accoglie e perdona, dimenticando completamente il pec-

cato commesso. Per vivere e ottene-re l’indulgenza i fedeli sono chiamati a compiere un breve pellegrinaggio verso la Porta Santa, aperta in ogni Cattedrale o nelle chiese stabilite dal Vescovo diocesano, e nelle quattro Basiliche Papali a Roma, come se-gno del desiderio profondo di vera conversione. Ugualmente dispongo che nei Santuari dove si è aperta la Porta della Misericordia e nelle chiese che tradizionalmente sono identificate come Giubilari si possa ottenere l’indulgenza. È importante che questo momento sia unito, an-zitutto, al Sacramento della Ricon-ciliazione e alla celebrazione della santa Eucaristia con una riflessione sulla misericordia. Sarà necessario accompagnare queste celebrazioni con la professione di fede e con la preghiera per me e per le intenzioni che porto nel cuore per il bene della Chiesa e del mondo intero.

Penso, inoltre, a quanti per diver-si motivi saranno impossibilitati a re-carsi alla Porta Santa, in primo luogo gli ammalati e le persone anziane e sole, spesso in condizione di non poter uscire di casa. Per loro sarà di grande aiuto vivere la malattia e la sofferenza come esperienza di vici-nanza al Signore che nel mistero del-la sua passione, morte e risurrezione indica la via maestra per dare senso al dolore e alla solitudine. Vivere

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A cura della Redazione

con fede e gioiosa speranza questo momento di prova, ricevendo la co-munione o partecipando alla santa Messa e alla preghiera comunitaria, anche attraverso i vari mezzi di co-municazione, sarà per loro il modo di ottenere l’indulgenza giubilare. Il mio pensiero va anche ai carcerati, che sperimentano la limitazione del-la loro libertà. Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una gran-de amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscien-za dell’ingiustizia compiuta e deside-rano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contri-buto onesto. A tutti costoro giunga concretamente la misericordia del Padre che vuole stare vicino a chi ha più bisogno del suo perdono. Nelle cappelle delle carceri potranno otte-nere l’indulgenza, e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la pre-ghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà.

Ho chiesto che la Chiesa riscopra in questo tempo giubilare la ricchez-za contenuta nelle opere di miseri-cordia corporale e spirituale. L’e-sperienza della misericordia, infatti,

diventa visibile nella testimonianza di segni concreti come Gesù stes-so ci ha insegnato. Ogni volta che un fedele vivrà una o più di queste opere in prima persona otterrà cer-tamente l’indulgenza giubilare. Di qui l’impegno a vivere della miseri-cordia per ottenere la grazia del per-dono completo ed esaustivo per la forza dell’amore del Padre che nes-suno esclude. Si tratterà pertanto di un’indulgenza giubilare piena, frutto dell’evento stesso che viene cele-brato e vissuto con fede, speranza e carità.

L’indulgenza giubilare, infi-ne, può essere ottenuta anche per quanti sono defunti. A loro siamo legati per la testimonianza di fede e carità che ci hanno lasciato. Come li ricordiamo nella celebrazione eu-caristica, così possiamo, nel grande mistero della comunione dei San-ti, pregare per loro, perché il volto misericordioso del Padre li liberi da ogni residuo di colpa e possa strin-gerli a sé nella beatitudine che non ha fine.

Uno dei gravi problemi del no-stro tempo è certamente il modifi-cato rapporto con la vita. Una men-talità molto diffusa ha ormai fatto perdere la dovuta sensibilità perso-nale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita. Il dramma dell’abor-to è vissuto da alcuni con una con-

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Magistero

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sapevolezza superficiale, quasi non rendendosi conto del gravissimo male che un simile atto comporta. Molti altri, invece, pur vivendo que-sto momento come una sconfitta, ritengono di non avere altra strada da percorrere. Penso, in modo par-ticolare, a tutte le donne che han-no fatto ricorso all’aborto. Conosco bene i condizionamenti che le han-no portate a questa decisione. So che è un dramma esistenziale e mo-rale. Ho incontrato tante donne che portavano nel loro cuore la cicatrice per questa scelta sofferta e dolorosa. Ciò che è avvenuto è profondamen-te ingiusto; eppure, solo il compren-derlo nella sua verità può consentire di non perdere la speranza. Il per-dono di Dio a chiunque è pentito non può essere negato, soprattutto quando con cuore sincero si acco-sta al Sacramento della Confessione per ottenere la riconciliazione con il Padre. Anche per questo motivo ho deciso, nonostante qualsiasi cosa in contrario, di concedere a tutti i sa-cerdoti per l’Anno Giubilare la facol-tà di assolvere dal peccato di aborto quanti lo hanno procurato e pentiti di cuore ne chiedono il perdono. I sacerdoti si preparino a questo gran-de compito sapendo coniugare pa-role di genuina accoglienza con una riflessione che aiuti a comprendere il peccato commesso, e indicare un

percorso di conversione autentica per giungere a cogliere il vero e ge-neroso perdono del Padre che tutto rinnova con la sua presenza.

Un’ultima considerazione è ri-volta a quei fedeli che per diversi motivi si sentono di frequentare le chiese officiate dai sacerdoti della Fraternità San Pio X. Questo Anno giubilare della Misericordia non esclude nessuno. Da diverse parti, alcuni confratelli Vescovi mi han-no riferito della loro buona fede e pratica sacramentale, unita però al disagio di vivere una condizione pastoralmente difficile. Confido che nel prossimo futuro si possano tro-vare le soluzioni per recuperare la piena comunione con i sacerdoti e i superiori della Fraternità. Nel frat-tempo, mosso dall’esigenza di cor-rispondere al bene di questi fedeli, per mia propria disposizione stabili-sco che quanti durante l’Anno Santo della Misericordia si accosteranno per celebrare il Sacramento della Ri-conciliazione presso i sacerdoti del-la Fraternità San Pio X, riceveranno validamente e lecitamente l’assolu-zione dei loro peccati.

Confidando nell’intercessione della Madre della Misericordia, affi-do alla sua protezione la preparazio-ne di questo Giubileo Straordinario.

Dal Vaticano, 1 settembre 2015

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A cura della Redazione

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Affidarsi a gesù misericordiosocome maria:“Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (gv 2,5)riportiamo il Messaggio del Santo padre francesco per la XXiv giornata Mondiale del Malato 2016 divulgato il 15 settembre 2015.

Cari fratelli e sorelle,la XXIV Giornata Mondiale del

Malato mi offre l’occasione per esse-re particolarmente vicino a voi, care persone ammalate, e a coloro che si prendono cura di voi.

Poiché tale Giornata sarà celebra-ta in modo solenne in Terra Santa, quest’anno propongo di meditare il racconto evangelico delle nozze di Cana (Gv 2,1-11), dove Gesù fece il suo primo miracolo per l’intervento di sua Madre. Il tema prescelto – Af-fidarsi a Gesù misericordioso come Maria: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 2,5) si inscrive molto bene anche all’interno del Giubileo straordinario della Misericordia. La Celebrazione eucaristica centrale della Giornata avrà luogo l’11 febbraio 2016, memo-ria liturgica della Beata Vergine Ma-ria di Lourdes, proprio a Nazareth, dove «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). A Nazareth Gesù ha dato inizio alla sua missione salvifica, ascrivendo a

sé le parole del profeta Isaia, come ci riferisce l’evangelista Luca: «Lo spirito del Signore è sopra di me; per que-sto mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai pri-gionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppres-si, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (4,18-19).

La malattia, soprattutto quella gra-ve, mette sempre in crisi l’esistenza umana e porta con sé interrogativi che scavano in profondità. Il primo momento può essere a volte di ri-bellione: perché è capitato proprio a me? Ci si potrebbe sentire disperati, pensare che tutto è perduto, che or-mai niente ha più senso...

In queste situazioni, la fede in Dio è, da una parte, messa alla pro-va, ma nello stesso tempo rivela tut-ta la sua potenzialità positiva. Non perché la fede faccia sparire la ma-lattia, il dolore, o le domande che ne derivano; ma perché offre una chiave con cui possiamo scoprire il senso più profondo di ciò che stia-mo vivendo; una chiave che ci aiuta a vedere come la malattia può essere la via per arrivare ad una più stretta vicinanza con Gesù, che cammina al nostro fianco, caricato della Croce. E questa chiave ce la consegna la Ma-dre, Maria, esperta di questa via.

Nelle nozze di Cana, Maria è la donna premurosa che si accorge di un problema molto importante per

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gli sposi: è finito il vino, simbolo della gioia della festa. Maria scopre la difficoltà, in un certo senso la fa sua e, con discrezione, agisce pron-tamente. Non rimane a guardare, e tanto meno si attarda ad esprimere giudizi, ma si rivolge a Gesù e gli presenta il problema così come è: «Non hanno vino» (Gv 2,3). E quan-do Gesù le fa presente che non è an-cora il momento per Lui di rivelarsi (cfr. v. 4), dice ai servitori: «Qualsi-asi cosa vi dica, fatela» (v. 5). Allo-ra Gesù compie il miracolo, trasfor-mando una grande quantità di acqua in vino, un vino che appare subito il migliore di tutta la festa. Quale in-segnamento possiamo ricavare dal mistero delle nozze di Cana per la Giornata Mondiale del Malato?

Il banchetto di nozze di Cana è un’icona della Chiesa: al centro c’è Gesù misericordioso che compie il segno; intorno a Lui ci sono i disce-poli, le primizie della nuova comu-nità; e vicino a Gesù e ai suoi disce-poli c’è Maria, Madre provvidente e orante. Maria partecipa alla gioia della gente comune e contribuisce ad accrescerla; intercede presso suo Figlio per il bene degli sposi e di tut-ti gli invitati. E Gesù non ha rifiuta-to la richiesta di sua Madre. Quanta speranza in questo avvenimento per noi tutti! Abbiamo una Madre che ha gli occhi vigili e buoni, come suo Fi-glio; il cuore materno e ricolmo di misericordia, come Lui; le mani che

vogliono aiutare, come le mani di Gesù che spezzavano il pane per chi aveva fame, che toccavano i malati e li guarivano. Questo ci riempie di fiducia e ci fa aprire alla grazia e alla misericordia di Cristo. L’intercessione di Maria ci fa sperimentare la conso-lazione per la quale l’apostolo Pao-lo benedice Dio: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si tro-vano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi sia-mo consolati da Dio. Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbon-da anche la nostra consolazione» (2 Cor 1,3-5). Maria è la Madre “conso-lata” che consola i suoi figli.

A Cana si profilano i tratti distinti-vi di Gesù e della sua missione: Egli è Colui che soccorre chi è in diffi-coltà e nel bisogno. E infatti nel suo ministero messianico guarirà molti da malattie, infermità e spiriti cattivi, donerà la vista ai ciechi, farà cam-minare gli zoppi, restituirà salute e dignità ai lebbrosi, risusciterà i morti, ai poveri annunzierà la buona novel-la (cfr. Lc 7,21-22). E la richiesta di Maria, durante il banchetto nuziale, suggerita dallo Spirito Santo al suo cuore materno, fece emergere non solo il potere messianico di Gesù, ma anche la sua misericordia.

Magistero

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Nella sollecitudine di Maria si ri-specchia la tenerezza di Dio. E quella stessa tenerezza si fa presente nella vita di tante persone che si trovano accanto ai malati e sanno coglierne i bisogni, anche quelli più impercetti-bili, perché guardano con occhi pieni di amore. Quante volte una mamma al capezzale del figlio malato, o un figlio che si prende cura del genitore anziano, o un nipote che sta vicino al nonno o alla nonna, mette la sua invocazione nelle mani della Madon-na! Per i nostri cari che soffrono a causa della malattia domandiamo in primo luogo la salute; Gesù stesso ha manifestato la presenza del Re-gno di Dio proprio attraverso le gua-rigioni: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riac-quistano la vista, gli zoppi cammina-no, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano» (Mt 11,4-5). Ma l’amore animato dalla fede ci fa chiedere per loro qualcosa di più grande della salute fisica: chiediamo una pace, una serenità della vita che parte dal cuore e che è dono di Dio, frutto dello Spirito Santo che il Padre non nega mai a quanti glielo chiedo-no con fiducia.

Nella scena di Cana, oltre a Gesù e a sua Madre, ci sono quelli che vengono chiamati i “servitori”, che ricevono da Lei questa indicazione: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Naturalmente il miracolo av-viene per opera di Cristo; tuttavia,

Egli vuole servirsi dell’aiuto umano per compiere il prodigio. Avrebbe potuto far apparire direttamente il vino nelle anfore. Ma vuole contare sulla collaborazione umana, e chie-de ai servitori di riempirle di acqua. Come è prezioso e gradito a Dio es-sere servitori degli altri! Questo più di ogni altra cosa ci fa simili a Gesù, il quale «non è venuto per farsi servi-re, ma per servire» (Mc 10,45). Que-sti personaggi anonimi del Vangelo ci insegnano tanto. Non soltanto ob-bediscono, ma obbediscono genero-samente: riempirono le anfore fino all’orlo (cfr. Gv 2,7). Si fidano della Madre, e fanno subito e bene ciò che viene loro richiesto, senza lamentar-si, senza calcoli.

In questa Giornata Mondiale del Malato possiamo chiedere a Gesù misericordioso, attraverso l’interces-sione di Maria, Madre sua e nostra, che conceda a tutti noi questa di-sposizione al servizio dei bisognosi, e concretamente dei nostri fratelli e delle nostre sorelle malati. Talvolta questo servizio può risultare fatico-so, pesante, ma siamo certi che il Si-gnore non mancherà di trasformare il nostro sforzo umano in qualcosa di divino. Anche noi possiamo esse-re mani, braccia, cuori che aiutano Dio a compiere i suoi prodigi, spes-so nascosti. Anche noi, sani o malati, possiamo offrire le nostre fatiche e sofferenze come quell’acqua che ri-empì le anfore alle nozze di Cana e

A cura della Redazione

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fu trasformata nel vino più buono. Con l’aiuto discreto a chi soffre, così come nella malattia, si prende sulle proprie spalle la croce di ogni gior-no e si segue il Maestro (cfr. Lc 9,23); e anche se l’incontro con la sofferen-za sarà sempre un mistero, Gesù ci aiuta a svelarne il senso.

Se sapremo seguire la voce di Co-lei che dice anche a noi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela», Gesù trasforme-rà sempre l’acqua della nostra vita in vino pregiato. Così questa Giornata Mondiale del Malato, celebrata so-lennemente in Terra Santa, aiuterà a realizzare l’augurio che ho espresso nella Bolla di indizione del Giubi-leo Straordinario della Misericordia: «Questo Anno Giubilare vissuto nella misericordia possa favorire l’incon-tro con [l’Ebraismo, con l’Islam] e con le altre nobili tradizioni religio-se; ci renda più aperti al dialogo per meglio conoscerci e comprenderci; elimini ogni forma di chiusura e di disprezzo ed espella ogni forma di violenza e di discriminazione» (Mise-ricordiae Vultus, 23). Ogni ospeda-le o casa di cura può essere segno visibile e luogo per promuovere la cultura dell’incontro e della pace, dove l’esperienza della malattia e della sofferenza, come pure l’aiuto professionale e fraterno, contribui-scano a superare ogni limite e ogni divisione.

Ci sono di esempio in questo le due Suore canonizzate nello scorso

mese di maggio: santa Maria Alfon-sina Danil Ghattas e santa Maria di Gesù Crocifisso Baouardy, entram-be figlie della Terra Santa. La prima fu testimone di mitezza e di unità, offrendo chiara testimonianza di quanto sia importante renderci gli uni responsabili degli altri, di vive-re l’uno al servizio dell’altro. La se-conda, donna umile e illetterata, fu docile allo Spirito Santo e divenne strumento di incontro con il mondo musulmano.

A tutti coloro che sono al servizio dei malati e dei sofferenti, auguro di essere animati dallo spirito di Maria, Madre della Misericordia. «La dolcez-za del suo sguardo ci accompagni in questo Anno Santo, perché tutti possiamo riscoprire la gioia della te-nerezza di Dio» (ibid., 24) e portarla impressa nei nostri cuori e nei nostri gesti. Affidiamo all’intercessione della Vergine le ansie e le tribolazioni, in-sieme alle gioie e alle consolazioni, e rivolgiamo a lei la nostra preghiera, perché rivolga a noi i suoi occhi mise-ricordiosi, specialmente nei momenti di dolore, e ci renda degni di contem-plare oggi e per sempre il Volto della misericordia, il suo Figlio Gesù.

Accompagno questa supplica per tutti voi con la mia Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 15 settembre 2015

Memoria della Beata Vergine Ma-ria Addolorata

Magistero

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A cura della Redazione

La cultura della saluse dell’accoglienzaal servizio dell’uomoe del pianetapapa francesco, giovedì 19 novembre, ha ricevuto in udienza il pontificio consiglio per gli operatori sanitari, guidato da mons. zygmunt zimowski, riunito in questi giorni a roma (19-21 novembre 2015) nel trentesimo an-niversario della sua fondazione e nel ventesimo dell’enciclica evangelium vitae di giovanni paolo ii. riportiamo ora il discorso del Santo padre.

Cari fratelli e sorelle,grazie per la vostra accoglien-

za! Ringrazio Sua Eccellenza Mons. Zygmunt Zimowski per il cortese saluto che mi ha rivolto a nome an-che di tutti i presenti, e do il mio cordiale benvenuto a voi, organiz-zatori e partecipanti di questa tren-tesima Conferenza Internazionale dedicata a “La cultura della salus e dell’accoglienza al servizio dell’uo-mo e del pianeta”. Un grazie sentito a tutti i collaboratori del Dicastero.

Molteplici sono le questioni che verranno affrontate in questo ap-puntamento annuale, che segna i trent’anni di attività del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari (per la Pastorale della Salute) e che coincide anche con il ventesimo an-niversario della pubblicazione della

Lettera enciclica Evangelium vitae di san Giovanni Paolo II.

Proprio il rispetto per il valore della vita, e, ancora di più, l’amore per essa, trova un’attuazione inso-stituibile nel farsi prossimo, avvici-narsi, prendersi cura di chi soffre nel corpo e nello spirito: tutte azio-ni che caratterizzano la pastorale della salute. Azioni e, prima ancora, atteggiamenti che la Chiesa metterà in speciale risalto durante il Giubi-leo della Misericordia, che ci chiama tutti a stare vicino ai fratelli e alle sorelle più sofferenti. Nella Evange-lium vitae possiamo rintracciare gli elementi costituitivi della “cultura della salus”: cioè accoglienza, com-passione, comprensione e perdono. Sono gli atteggiamenti abituali di Gesù nei confronti della moltitudi-ne di persone bisognose che lo av-vicinava ogni giorno: malati di ogni genere, pubblici peccatori, indemo-niati, emarginati, poveri, stranieri… E curiosamente questi, nella nostra attuale cultura dello scarto sono re-spinti, sono lasciati da parte. Non contano. E’ curioso… Questo cosa vuol dire? Che la cultura dello scar-to non è di Gesù. Non è cristiana.

Tali atteggiamenti sono quelli che l’Enciclica chiama “esigenze po-sitive” del comandamento circa l’in-violabilità della vita, che con Gesù si manifestano in tutta la loro am-piezza e profondità, e che ancora oggi possono, anzi devono contrad-

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Magistero

distinguere la pastorale della salute: esse «vanno dal prendersi cura della vita del fratello (familiare, apparte-nente allo stesso popolo, straniero che abita nella terra di Israele), al farsi carico dell’estraneo, fino all’a-mare il nemico» (n. 41).

Questa vicinanza all’altro - vici-nanza sul serio e non finta - fino a sentirlo come qualcuno che mi ap-partiene - anche il nemico mi ap-partiene come fratello - supera ogni barriera di nazionalità, di estrazio-ne sociale, di religione…, come ci insegna il “buon samaritano” della parabola evangelica. Supera anche quella cultura in senso negativo secondo la quale, sia nei Paesi ric-chi che in quelli poveri, gli esseri umani vengono accettati o rifiutati secondo criteri utilitaristici, in parti-colare di utilità sociale o economi-ca. Questa mentalità è parente dalla cosiddetta “medicina dei desideri”: un costume sempre più diffuso nei Paesi ricchi, caratterizzato dalla ri-cerca ad ogni costo della perfezio-ne fisica, nell’illusione dell’eterna giovinezza; un costume che induce appunto a scartare o ad emargina-re chi non è “efficiente”, chi viene visto come un peso, un disturbo, o che è brutto semplicemente.

Ugualmente, il “farsi prossimo” - come ricordavo nella mia recen-te Enciclica Laudato si’ - comporta anche assumerci responsabilità in-derogabili verso il creato e la “casa

comune”, che a tutti appartiene ed è affidata alla cura di tutti, anche per le generazioni a venire.

L’ansia che la Chiesa nutre, infat-ti, è per la sorte della famiglia uma-na e dell’intera creazione. Si tratta di educarci tutti a “custodire” e ad “amministrare” la creazione nel suo complesso, quale dono consegnato alla responsabilità di ogni genera-zione perché la riconsegni quanto più integra e umanamente vivibile per le generazioni a venire. Questa conversione del cuore al “vangelo della creazione” comporta che fac-ciamo nostro e ci rendiamo inter-preti del grido per la dignità uma-na, che si eleva soprattutto dai più poveri ed esclusi, come molte volte sono le persone ammalate e i sof-ferenti. Nell’imminenza ormai del Giubileo della Misericordia, questo grido possa trovare eco sincera nei nostri cuori, cosicché anche nell’e-sercizio delle opere di misericordia, corporale e spirituale, secondo le diverse responsabilità a ciascuno af-fidate, possiamo accogliere il dono della grazia di Dio, mentre noi stes-si ci rendiamo “canali” e testimoni della misericordia. ■

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InDICE AnnATA 2015

Abbiamo letto per voi1 - 2015 Il dolore: caso serio della vita a cura della Redazione 882 - 2015 Quando si crede nell’amore di Antonio Bonato 1733 - 2015 Papà per un giorno di Massimo Bucciol 2734 - 2015 Chiesa in uscita diJanusz Malski 3735 - 2015 La questione teologica del soffrire a cura della Redazione 4676 - 2015 La pastorale della salute in parrocchia di Alfredo Marchello 558

Area Teologica1 - 2015 L’insegnamento del beato Luigi Novarese di Mauro Anselmo 71 - 2015 Curare e ospitare nel mondo della sanità di Italo Monticelli 161 - 2015 Perché il Vangelo può salvare la società

in cui viviamo di Bruno Forte 232 - 2015 Un cuore sapiente che vede

e non passa oltre di Luciano Sandrin 1302 - 2015 Il Convegno Ecclesiale di Firenze:

in senso del percorso di Nunzio Galantino 1344 - 2015 Carismi a servizio dei sofferenti di Angelo Brusco 2944 - 2015 Il volto del sofferente di Bruno Forte 3004 - 2015 I luoghi della sofferenza di Cesare Nosiglia 3124 - 2015 La sofferenza di Dio: le lacrime del Figlio di Réal Tremblay 3204 - 2015 Ogni uomo ferito è anche più uomo di Annalisa Caputo 3284 - 2015 L’anziano alla fine della vita.

Aspetti spirituali di Armando Aufiero 3515 - 2015 Predicate il Vangelo ad ogni creatura:

per un’inclusione ecclesiale delle persone non vedenti di Alfonso Giorgio 390

5 - 2015 Eucaristia e riconciliazione: attenzioni psico-spirituali di Luciano Sandrin 400

5 - 2015 Gli obiettivi, le attese e gli orizzonti per l’anno della vita consacrata di Filippo Urso 414

5 - 2015 Giovanni Paolo II, testimone dell’amore che salva di Joaquin Navarro-Valls 424

6 - 2015 Misericordia io voglio di Armando Aufiero 4866 - 2015 Sorella Elvira e l’apostolato della sofferenza di Remigio Fusi 498

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InDICE AnnATA 2015

Area Umanistica1 - 2015 La solitudine del paziente anziano

e di chi lo cura: dal burnout alla resilienza di Luciano Sandrin 381 - 2015 Religioni in dialogo. Un parallelismo

tra Cristianesimo e Buddhismo in tema di sofferenza di Felice Di Giandomenico 56

1 - 2015 Salute e assistenza (seconda parte) a cura della Redazione 672 - 2015 La psicoterapia Mindfulness Based

nel trattamento dello stress e della depressione di Felice Di Giandomenico 144

2 - 2015 Problemi biogiuridici e procreazione nell’Islam (prima parte) di Franco Davide Pilotto 156

4 - 2015 Problemi biogiuridici e procreazione nell’Islam (seconda parte) di Franco Davide Pilotto 360

5 - 2015 Gestire la rabbia e l’aggressività per non sconfinare nella violenza di Felice Di Giandomenico 431

5 - 2015 La presenza dell’Islam nello spazio pubblico italiano: a che punto siamo? (prima parte) di Stefano Allevi 441

5 - 2015 L’interpretazione degli studi clinici (prima parte) di Pietro Dri 4496 - 2015 Lo spirito cura il corpo. Per un viaggio

alla scoperta di sé di Pasquale Caracciolo 5156 - 2015 La presenza dell’Islam nello spazio pubblico italiano:

a che punto siamo? (2° parte) di Stefano Allievi 5206 - 2015 L’interpretazione degli studi clinici (2° Parte) di Pietro Dri 5296 - 2015 Il Vangelo di Pier Paolo

Pasolini di Felice Di Giandomenico e Michele Balducci 545

Convegno Nazionale “Il CVS, una Chiesa in uscita”3 - 2015 Introduzione di Armando Aufiero 2003 - 2015 Tracce di lettura

dell’Evangelii Gaudium di Humberto Miguel Yanez 2023 - 2015 Quale medicina nella Chiesa

“Ospedale da campo” di papa Francesco di Mauro Anselmo 2123 - 2015 Nessun dolore: la sofferenza nei media di Luigi Boneschi 2173 - 2015 Quale azione pastorale per una Chiesa

che vuole evangelizzare? di Pio Zuppa 230

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Indice annata 2015

3 - 2015 Il CVS “Chiesa in uscita”. Il carisma alla luce del Magistero di papa Francesco di Armando Aufiero 244

Convegno Sacerdotale “La nuova evangelizzazionealla luce dell’Evangelii Gaudium”2 - 2015 Introduzione di Armando Aufiero 1042 - 2015 Per una nuova cultura dell’annuncio evangelico

di Rino Fisichella 1062 - 2015 La parrocchia generatrice di fede di Angelo Corvo 1142 - 2015 Il Sacerdote nell’Evangelii Gaudium di Marcello Semeraro 120

Editoriale1 - 2015 Libertà e responsabilità di Felice Di Giandomenico 42 - 2015 Dignità svendesi di Felice Di Giandomenico 1003 - 2015 L’insensatezza del buonismo

e del falso altruismo a cura di Felice Di Giandomenico 1964 - 2015 La medicina centrata sulla persona di Felice Di Giandomenico 2925 - 2015 L’Anno Santo della Misericordia a cura dellaRedazione 3886 - 2015 Per una chiara visione del futuro

ordine mondiale di Felice Di Giandomenico 484

Magistero1 - 2015 a cura della Redazione 942 - 2015 a cura della Redazione 1793 - 2015 a cura della Redazione 2814 - 2015 a cura della Redazione 3805 - 2015 a cura della Redazione 4746 - 2015 a cura della Redazione 564

Recensioni e commenti1 - 2015 a cura di Vincenzo Di Pinto 902 - 2015 a cura di Vincenzo Di Pinto 1763 - 2015 a cura di Vincenzo Di Pinto 2754 - 2015 a cura di Vincenzo Di Pinto 3765 - 2015 a cura di Vincenzo Di Pinto 4726 - 2015 a cura di Vincenzo Di Pinto 560

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Testimonianza1 - 2015 Un’esistenza offerta al Signore a cura della Redazione 832 - 2015 Luigi (Gino) D’Astore a cura della Redazione 1713 - 2015 Giacomo Rotolo, uomo di umiltà

e obbedienza a cura della Redazione 2684 - 2015 Salvatore Daffronto: una carrozzella

in paradiso a cura della Redazione 3705 - 2015 Luciano Cimini. Silenzioso Operaio

della Croce trasteverino a cura della Redazione 4646 - 2015 Gabriele Roschini a cura della Redazione 556

InDICE AnnATA 2015