Riso docet. Comicità e serietà sono due facce della stessa medaglia....

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(di Marco Donati) | Print version: Pioda Imaging Editore, 2013 | EBook version: Delirium Edition 2013 | Blog: http://risodocet.wordpress.com/ |

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RISO DOCET

Marco Donati

“Un convegno di saggi e di buffoni:

tutto ciò che voglio essere e sono io”

(Nietzsche)

A Luciano e Orietta,

i miei genitori preferiti

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Exlibris

RISO DOCET

Marco Donati

Copyright © 2013 by Pioda Editore

Cover design di Giulia Arimattei

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First Release: May 2013

ISBN:978-88-6321-001-9

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Indice

Prefazione a cura di Mario Morcellini 7

Premessa 13

Introduzione 15

PARTE PRIMA

Capitolo 1. La Caduta dell’Homo Ridens

1. Dall’Homo Ludens all’Homo Iper-serius 25

2. La rivoluzione adolescenziale 29

3. La mente mente continuamente 32

Capitolo 2. La Rivolta del Comico

1. Apollo contro Dioniso 35

2. La comicità e(’) l’irregolare 36

2.1. Il principio del piacere e il principio del reale 40

2.2. Le situazioni comiche 43

3. L’umorismo 46

4. L’ironia e il sarcasmo 48

Capitolo 3. Il Settimo Senso: il Senso dell’Umorismo

1. Che senso ha l’umorismo? 51

2. Le componenti dell’umorismo 54

3. I meccanismi cognitivi: come sono organizzate

le informazioni 55

3.1. La capacità di interpretare l’incongruo 55

3.2. L’importanza della meta comunicazione 57

4. I meccanismi dinamici: le fonti di piacere 59

4.1. Il piacere cognitivo 60

4.2. Il piacere emotivo: Freud e il motto di spirito 61

4.3. Il piacere di aggredire: il motto ostile 62

4.4. Il piacere sessuale: il motto osceno 64

5. Soggettività e senso dell’umorismo 65

5.1. Il principio di padronanza 67

5.2. Il principio di salienza 69

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5.3. Il principio di sintonia 70

6. Le funzioni dell’umorismo 71

6.1. Funzioni intellettive: una palestra mentale 72

6.2. Funzioni sessuali e aggressive 73

6.3. Funzioni terapeutiche e psicologiche 74

6.4. Funzioni relazionali 76

6.5. Funzioni negative (?) 78

Capitolo 4. Uno Starnuto Mentale: lo Scoppio della Risata

1. Introduzione: il dono di Dio 79

2. Quanti stimoli? Un problema teorico 80

3. Il Meccanismo Scatenante Innato 83

4. La strutturazione gerarchica e lo stimolo risorio 84

4.1. Gli zimbelli 87

4.2. Il meccanismo dell’estraneo 89

4.3. Umiliazione o democrazia 91

5. Lo scoppio 92

5.1. Il riso e la paura 95

6. Dimmi come ridi e ti dirò chi sei: la personalità e

il modo di ridere 97

6.1. La curva della risata 100

Capitolo 5. Il Valore di Sorriso e Riso nelle interazioni umane

1. Sorriso e riso: strumenti tutti nostri 103

2. La fenomenologia del sorriso e del riso 107

2.1. Il rapporto fra il sorriso e il riso 110

3. Il sorriso 113

3.1. Il messaggio del sorriso 114

3.2. La funzione antiaggressiva e antigerarchica 118

4. Il riso 120

4.1. La relazione duale: il riso di trionfo e il riso

di scherno 121

4.2. La relazione triadica: i due messaggi del riso 124

5. Il messaggio Derisione 128

6. Il messaggio Complicità 131

7. Lo Stimolo 133

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7.1. Il Messaggio Stimolo 134

Capitolo 6. Leader, Buffoni e Capri Espiatori: Ruoli e Relazioni

Sociali nella Risata

1. Un effetto contagioso … 137

2. La relazione gerarchica 139

3. Il sodalizio di pari 143

4. Ridere di sé stessi: l’autoironia 145

5. Il Buffone 148

5.1. Evoluzione storica del buffone 148

5.2. Il buffone e la gerarchia 150

6. La leadership del riso 152

PARTE SECONDA

Capitolo 7. La Comicoterapia

1. Cos’è la Gelotologia? 157

2. Dalla gelotologia alla Comicoterapia 159

2.1. La storia di Norman Cousins 161

3. La Clown Terapia 163

3.1. Hunter “Patch” Adams 165

4. Il naso rosso: la figura del Clown Dottore 167

4.1. I volontari del sorriso 169

5. Le associazioni in Italia 169

5.1. !Ridere per Vivere! 172

Capitolo 8. Gli usi sociali della Comicoterapia

1. La Comicoterapia in ospedale 175

1.1. L’esperienza degli altri 178

2. La Comicoterapia nelle scuole 179

3. La Comicoterapia nei reparti di psichiatria 181

4. La Comicoterapia nelle comunità di “diversabili” 185

5. La Comicoterapia come formazione agli adulti 187

5.1. La formazione per operatori socio- sanitari 188

5.2. La formazione agli insegnanti 189

6. Una strada per la pace: il riso in guerra 190

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PARTE TERZA

Capitolo 9. Riso a ricreazione

1. Premessa: un clandestino a bordo 199

2. Oggetto di ricerca 206

3. Quando il riso sale in cattedra 207

3.1 Il metodo Riso è salute 207

3.2 Il corso alla scuola “Porto Romano” 209

4. Le ipotesi di ricerca 211

5. Il modello di ricerca 215

6. La metodologia 217

Capitolo 10. Analisi dei risultati

1. Risultati della ricerca 221

1.1. Risultati osservazione partecipante 221

1.2. Risultati questionario 231

2. Verifica delle ipotesi 239

3. Conclusioni 251

Allegati 257

Bibliografia, Sitografia, Filmografia 263

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Prefazione

Mario Morcellini

(…) Jorge osservò che, per quanto ricordava, Aristotele aveva

parlato di queste cose nel libro della Poetica e a proposito delle

metafore. Che già si trattava di due circostanze inquietanti, primo

perché il libro della Poetica, rimasto ignoto al mondo cristiano per

tanto tempo e forse per decreto divino, ci è arrivato attraverso i mori

infedeli... (…) il secondo motivo di inquietudine è che ivi lo stagirita

parlasse della poesia, che è infima doctrina e che vive di figmenta. E

Venanzio disse che anche i salmi sono opera di poesia e usano

metafore e Jorge si adirò perché disse che i salmi sono opera di

ispirazione divina e usano metafore per trasmettere la verità mentre

le opere dei poeti pagani usano metafore per trasmettere la menzogna

e a fini di mero diletto (…)

Umberto Eco, Il nome della rosa

Abbiamo provocatoriamente affidato l’apertura del nostro scritto

a un passo del celebre romanzo Il nome della rosa in cui l’anziano

frate Jorge da Burgos si pronuncia contro il riso. Nel testo, come i

lettori ricorderanno, il ruolo di motore immobile dell’azione è

assunto proprio da un volume scomodo: il secondo libro della

Poetica, che Aristotele aveva voluto dedicare alla commedia e che

non è mai effettivamente pervenuto ai moderni. In quello riportato in

esergo, come in altri punti salienti della trama, l’Autore pone al

centro della narrazione un Libro e il sapere che nelle sue pagine è

custodito e che ha per oggetto il Riso. Lo spunto che la rilettura del

romanzo ci propone appare quantomai appropriato al contesto in cui

scriviamo: quella che abbiamo tra le mani è infatti una trattazione

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che si propone una sorta di operativizzazione dell’ironia, e perfino

della risata più immediata e meno “intellettuale”, orientata a

recuperare il senso sociale e aggregante della comicità e delle sue

molteplici sfumature.

È intanto già interessante, per chi si occupa di cultura e di

comunicazione, riflettere sulla definizione della poesia come infima

doctrina che vive di figmenta: quasi una dichiarazione di guerra alla

finzione letteraria, una critica delle forme narrative e delle storie

inventate per il diletto degli umani. Ma le ragioni della critica rivolta

dal monaco all’antico libro che nobilita il riso sono più sottili, e

coincidono con la possibilità che il sapere contenuto in quel volume

indebolisca la paura degli umani nei confronti dei principi superiori

che garantiscono l’ordine. Vale a dire la Legge, ma più ancora il

timor di Dio, su cui essa si fonda. Frate Jorge riconosce che

(…) anche la chiesa nella sua saggezza ha concesso il

momento della festa, del carnevale, della fiera, questa

polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri

desideri e da altre ambizioni... (…) Ma qui, qui...” ora Jorge

batteva il dito sul tavolo, vicino al libro che Guglielmo teneva

davanti, “qui si ribalta la funzione del riso, la si eleva ad arte,

le si aprono le porte del mondo dei dotti, se ne fa oggetto di

filosofia, e di perfida teologia... (…) questo libro potrebbe

insegnare che liberarsi della paura del diavolo è sapienza. (…)

Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la

legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è timor

di Dio. E da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina

che appiccherebbe al mondo intero un nuovo incendio: e il

riso si disegnerebbe come l'arte nuova, ignota persino a

Prometeo, per annullare la paura.

Si stabiliscano pure tempi e luoghi in cui gli uomini possano

esercitare il riso e sperimentare l’abbandono catartico, dunque, ma da

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questi non si deroghi. Il rischio del caos provocato dal dubbio e dalla

sospensione del timore verso l’Autorità – conseguenza che la

comicità elevata ad Arte provocherebbe, se portata alla conoscenza

degli umani – appare qui ben evidente e terrorizza il monaco. Il quale

ricorrerà ai mezzi più estremi, pur di impedire la diffusione dei

contenuti del Libro.

Questa digressione letteraria, rimodulata nel contesto del volume

che ci troviamo a presentare, fornisce un importante spunto di

riflessione circa quella sorta di miopia mostrata da molta parte dei

settori del lavoro nel cogliere il valore aggiunto del buonumore. Una

miopia che sembra avere la sua radice nella difficoltà o forse perfino

nella paura, propria di chi si trovi ad occupare posizioni di qualche

rilievo gerarchico in ambito lavorativo, di mettersi in discussione, di

rischiare una rinegoziazione delle regole.

Eppure, il ridere è una componente essenziale del benessere che

ciascuno dovrebbe recuperare dalla frequentazione dei luoghi

deputati allo svolgimento delle attività lavorative. L’immagine

ancora oggi dominante del lavoro lo rappresenta come una

dimensione della quotidiana esperienza umana del tutto contrapposta

allo svago o al diletto. Ma continuando ad accreditare questa

rappresentazione si nega la possibilità stessa che lavorare possa

essere un piacere, si inibisce la visione del processo lavorativo come

occasione di arricchimento, e dunque come opportunità di crescita

individuale e collettiva – del singolo e della comunità dei soggetti

che cooperano. Tutte eventualità positive, che dovrebbero

scoraggiare dal proseguire in una considerazione superficiale della

risata, interpretata come rallentamento della produttività, ostacolo

allo svolgimento del proprio compito o addirittura elemento di

pericolo per la disciplina interna alle organizzazioni, alle aziende,

alle istituzioni.

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La necessità del ben-essere nei luoghi di lavoro appare ancor più

urgente oggi, in un tempo in cui il lavoro assume spesso forme e

declinazioni non sempre vicine alle aspettative di una popolazione –

ci riferiamo qui innanzitutto a quella delle nuove generazioni più

altamente scolarizzate, ma il discorso si estende naturalmente ad ogni

fascia sociale e a ciascun settore dell’attività professionale – che

deve rincorrere i miraggi sempre più impalpabili della stabilità e

della continuità lavorativa, quando non della retribuzione tout court.

La cronaca ci consegna quotidianamente storie di ordinaria

precarietà, di vissuti simili ad annaspamenti nel mare magnum di un

mercato del lavoro tanto fluido quanto capriccioso e spesso

dispotico. Sappiamo bene che non sarebbe sufficiente una risata a

capovolgere le sorti di biografie lavorative che ben altri strumenti

richiederebbero per essere innalzate al rango della dignità; né quella

stessa risata sarebbe in grado, da sola, di seppellire alcuni perversi

meccanismi del mercato e degli interessi che lo attraversano,

determinando le esperienze di vita dei contemporanei. Ma

l’attenzione verso un uso consapevole dell’umorismo può almeno

fornire segnali concreti di cambiamento delle routine relazionali tra

gli uomini.

Questo suggerimento, utile per ogni ambito della sfera lavorativa

contemporanea, assume un senso ed un valore particolare nei settori

in cui la relazione – una buona relazione – costituisce il fulcro stesso

dell’attività di lavoro. Alcuni di essi sono più facilmente intuibili:

pensiamo alla formazione, all’assistenza medica (soprattutto a

bambini e anziani), alla scuola, alle carceri. Altri appaiono invece

inediti, come le missioni umanitarie e perfino le organizzazioni

aziendali, più rigidamente organizzate da un punto di vista

gerarchico.

Imparare a ridere in un modo che non sia canzonatorio, umiliante

o sanzionatorio – come è spesso il riso arrogante del Potere – è

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dunque possibile, e le esperienze concrete che questo volume

racconta, accanto a riflessioni più generali e in alcuni passaggi

storiche sul tema, sono qui a testimoniarlo.

Dalle pionieristiche esperienze della Clown Terapia alle più

recenti sperimentazioni nei campi della riabilitazione, della

prevenzione e della formazione, il contributo di questo testo può

risultare utile a chiunque sia interessato a una riflessione sul comico,

e sia magari disposto ad abbandonare il proprio rassicurante aplomb

professionale. Rinunciando così, almeno temporaneamente, a

rifugiarsi nelle gabbie garantite dai ruoli, che mentre tutelano il sé

professionale dalle incursioni di critiche e antagonismi, in molti casi

appaiono bloccare la comunicazione e ingessare le dinamiche

relazionali. Si ride lavorando per stimolare flussi comunicativi

improntati a positività e fiducia: il ridere assieme, infatti, sancisce

una sorta di patto fra gli individui, stabilisce complicità e favorisce

l’aggregazione.

Instillare nel proprio quotidiano lavorativo piccole ma

significative dosi di carnevale può allora essere un modo per

ripristinare empatie ed equilibri o costruirne di nuovi e più condivisi,

rinsaldando allo stesso tempo i rapporti tra persone che si trovano a

condividere uno spazio e un tempo decisamente significativi

nell’economia complessiva dell’esistenza.

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Premessa

Questo testo nasce da molto lontano, ovvero da quando ancora

bambino inventavo le barzellette per far ridere amici e parenti.

Nessuno rideva.

Nonostante questo, continuai imperterrito ad essere spinto da una

profonda curiosità personale di conoscere e sperimentare

l’affascinante fenomeno del ridere, tanto che nel 2005, conclusi i

miei studi universitari con una tesi proprio su questo argomento.

Ricordo ancora il giorno della laurea, tra risate durante la discussione

e foto con i nasi rossi indossati da me e dalla mia relatrice, davanti

agli occhi stupiti del preside e del rettore.

Per qualche anno quella tesi rimase nel cassetto, rispolverata

all’occorrenza per farla leggere a qualche amico che me la chiedeva

in prestito. Visto il successo e la qualità di quel lavoro, i miei genitori

spesso mi esortavano a farne un libro e pubblicarla, ma non gli diedi

mai molto ascolto.

Fu così che a mio padre gli si “spezzò il cuore”. Non perché non

pubblicassi il libro… semplicemente ebbe un infarto.

Era il 14 agosto del 2012, primo giorno di meritate ferie, quello

che aspetti da un anno fantasticando di passarlo al mare, tra sole,

cocktail e bikini … e invece mi ritrovai a correre in ospedale in

macchina di mia sorella, seduto nei sedili posteriori, in mezzo ai due

seggiolini dei miei nipoti e a un pupazzo gigante di Winnie The

Pooh.

Proprio mentre mio padre era ricoverato, tra l’agitazione e la

tensione di quei momenti ripensai alla storia di Norman Cousins che

seppe guarire dall’infarto grazie alle emozioni positive,

bombardandosi di film comici e libri di umorismo. Pensai quindi che

potesse funzionare anche con mio padre, e così gli portai la bozza del

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mio libro sperando potesse in qualche modo aiutarlo ad alleviare e

rallegrare la sua degenza.

Purtroppo le cose non andarono come speravo e lui non fece in

tempo a leggerlo.

No, tranquilli… niente di tragico, mio padre è vivo e vegeto e sta

leggendo questo libro comodamente sul divano, proprio come voi,

però andò a finire che le infermiere, incuriosite dal libro, durante

tutto il periodo del ricovero se lo passarono tra di loro per leggerlo,

per cui mio padre non ebbe il tempo neanche di aprirlo … ma

nonostante questo, guarì.

Fu in quell’occasione che mi decisi a pubblicarlo: anche in quei

momenti drammatici, infatti, la voglia di sdrammatizzare, ridere e

ironizzare che ha sempre contraddistinto la mia famiglia, emerse con

prepotenza e mi fece rendere conto sempre di più della sua

importanza. Pensai che in qualche modo dovevo condividere con

tutti questa mia consapevolezza, che si manifestava concretamente

con questo libro. Così ripresi in mano la bozza, aggiornandola e

risistemandola per renderla un vero e proprio libro… ed eccola qui!

Prima di lasciarvi alla lettura, è d’obbligo fare qualche

ringraziamento: primo fra tutti alle infermiere che hanno dato un

contributo decisivo affinché mi decidessi a portare avanti questo

progetto; un grazie va poi ai miei genitori e alla mia famiglia, per

avermi trasmesso la capacità di ridere e ironizzare anche nei

momenti più difficili; un grazie doveroso va ai miei amici, fonte

inesauribile di sana demenzialità. Infine, un grazie cumulativo va a

tutti coloro che in un modo o nell’altro, volenti o nolenti, hanno dato

un contributo alla realizzazione o all’ispirazione di questo libro.

A tutti voi ripeto le parole che Garibaldi disse ai suoi uomini

appena sbarcò in Sicilia:

“Grazie Mille!”

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Introduzione

“Le rivoluzioni che cambiano il mondo non sono l’opera dei

grandi leader oppure quelle che generano cataclismi sociali, ma

sono le rivoluzioni silenziose, quelle delle piccole azioni quotidiane

delle persone comuni e dei loro gesti apparentemente del tutto

marginali. Sono quelle le radici invisibili di ogni cambiamento.”

(Gustavo Esteva)

Già lo so cosa pensate. Vi state chiedendo: perché un libro che

dovrebbe parlare di qualcosa di positivo e pacifico come il ridere e

l’umorismo, inizia con una parola così forte e aggressiva come

“rivoluzione”? Forse vi sorge anche il dubbio di aver sbagliato a

comprarlo, perché temete di trovarvi di fronte a un altro manifesto

del “perfetto sovversivo”, con noiose digressioni su politica, società,

sistemi economici in crisi, mentre invece il titolo sembrava

suggerirvi la trattazione un tema, quello del riso, altamente

accattivante, a cui nessuno sa mai dire di no.

Beh allora vi do due notizie, una bella e una brutta. Iniziamo con

quella brutta: ormai il libro l’avete comprato, i soldi non potete

riaverli. Ecco ora quella bella: se non perderete la pazienza e vi

soffermerete a leggere le prossime pagine di questo libro, capirete

che il ridere ha molto a che vedere con la rivoluzione e il

cambiamento.

Scopriremo insieme infatti, come la comicità sia un fenomeno

psico-sociale altamente sovversivo, capace di ribaltare non solo

gerarchie, status symbol e strutture sociali, ma anche nostre vecchie

abitudini, vecchi modi di vedere le cose, vecchi schemi mentali, e di

mostrarci il mondo e la realtà sotto una nuova veste, più gioiosa e

positiva.

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D’altronde è quasi impossibile eliminarla. La comicità ristagna

in ogni cosa, permea qualsiasi aspetto della nostra realtà: è pertanto

la risorsa più disponibile nella nostra natura sociale, ed è pressoché

inesauribile, per il fatto che in qualsiasi cosa si può trovare il suo lato

buffo e comico … basta solo scovarlo! Se poi si pensa che il ridere in

cui essa sfocia fragorosamente, è nell’uomo un comportamento

innato, nonché un’esigenza irrinunciabile per i benefici che lascia a

livello fisico, psicologico e relazionale, si può ben capire che tutti i

tentativi di reprimerla falliscono già in partenza.

Ridere svolge numerose funzioni per il nostro benessere psico-

fisico e la nostra vita sociale. E’ l'emozione positiva più potente, uno

starnuto mentale che permette di vedere i problemi e le paure in una

visione nuova, meno minacciosa ed ostile; è una valvola di sfogo e

un antidepressivo, in grado di scaricare le tensioni eccessive, che

rischiano di trasformarsi in stress e minare la nostra lucidità; è

un’ottima palestra mentale per il nostro cervello, in grado di

tonificare le nostre capacità cognitive e la nostra creatività.

Di fronte al ridere inoltre, nessuno è immune, nemmeno se sei il

più potente uomo della terra. "Grande tra gli uomini e di gran

terrore è la potenza del riso, contro il quale nessuno, nella sua

coscienza, trova sé munito in ogni sua parte" diceva Leopardi, che

seppure di risate nella vita se ne è fatte poche, aveva capito

benissimo l’enorme potere di questa manifestazione tipicamente

umana. Dall’altra parte, oltre al suo lato sanzionatorio, è pure vero

che il ridere è un potentissimo collante relazionale, in grado di

abbassare le nostre difese e disporci favorevolmente verso gli altri

riuscendo così a sciogliere anche le più complicate relazioni o

situazioni conflittuali.

Ecco allora che le parole di Esteva assumono un significato

preciso anche per questo libro (visto? Uomini/Donne di poca fede!).

Ridere è una di quelle piccole azioni, forse la più grande tra le

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piccole azioni, che se diffusa, valorizzata e trasmessa

quotidianamente da ognuno, è in grado di generare quelle rivoluzioni

silenziose che cambiano il mondo.

Credo che nella nostra società sia sempre più necessario ridare la

giusta importanza alla cultura del ridere, troppo spesso messa in

secondo piano per dare spazio a ansie, diffidenze, rigidità e corse

contro il tempo: basterebbe utilizzarlo non solo come “accessorio” a

corredo delle nostre giornate, ma rimetterlo al centro della nostra

quotidianità valorizzandone il suo grande potenziale, ridendo di se

stessi, con gli sconosciuti, sdrammatizzando le situazioni e cercando

il lato comico in ogni cosa, per contribuire ad innescare una serie di

piccoli ma significativi cambiamenti che porterebbero ad una vera e

propria rivoluzione comica.

Tra le rivoluzioni silenziose rientra, nel suo piccolo, anche

questo libro: vuole essere anch’esso un impegno personale alla

diffusione di una cultura del riso, attraverso la trattazione dei suoi

meccanismi, dei suoi benefici, dei suoi segreti e dei suoi significati,

ma anche delle sue applicazioni concrete (per fortuna sempre più

diffuse) nei vari contesti sociali della nostra società, sotto forma di

Comicoterapia.

Questo viaggio nel mondo del riso e della Comicoterapia è

composto da tre tappe fondamentali racchiuse in altrettante parti. La

prima parte ha lo scopo di cercare di conoscere meglio il riso, il

comico e l’umorismo.

La struttura di questa prima tappa è da interpretare come se fosse

una grande risata, in quanto segue il processo psicologico e

comunicativo che porta poi al riso.

Immaginiamo quindi, un qualsiasi momento della nostra

giornata, magari mentre stiamo camminando per la strada: stiamo

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procedendo freneticamente, assorti tra i nostri pensieri, riflettendo

sulla giornata che ci aspetta e preoccupati degli impegni da portare

avanti, assumendo pertanto un atteggiamento di serietà.

La serietà (o meglio, seriosità), come mostrato dalla teoria

antropologica di Branko Bokun, è spesso dovuta ad una mentalità

adolescenziale basata su paure fittizie create dalla mente stessa, che

finisce per trasformare una specie nata per giocare e ridere, come

quella umana, in una specie seriosa, arroccata sulla rigidità delle

regole e delle prescrizioni che si è imposta per trovarvi rifugio e

sicurezza dalle sue paure, perdendo in parte quella naturale vivacità

che le ha permesso di divenire la specie più evoluta e facendo

diventare il gioco, il riso e l’umorismo solo strumenti secondari della

sua esistenza. L’Homo ludens cede il passo all’Homo iper serius

(cap. 1).

Ma all’improvviso, mentre camminiamo, succede qualcosa di

imprevisto, che attira la nostra attenzione e sconvolge completamente

il nostro atteggiamento. Proprio dietro ogni angolo, infatti, si apposta

in agguato l’imprevisto, l’irregolare, ciò che non ti aspetti e che ti

mostra la realtà sotto un punto di vista nuovo: in una parola, il

Comico. E' il trionfo dell'Homo Ridens.

Attraverso le riflessioni che i pensatori di ogni epoca ne hanno

fatto, ho ricomposto l’immagine e il carattere di questo particolare

modo di interpretare la realtà tipico solo dell’uomo, che

fortunatamente spesso compare e ci viene in soccorso per ricordarci

che siamo una specie nata per ridere e, attraverso di esso, continuare

a valorizzare ed accrescere la nostra intelligenza (cap. 2).

L’evento comico poi, per produrre il suo effetto ha bisogno di

essere interpretato e tradotto dall’umorismo (cap. 3), che attraverso i

suoi meccanismi, ci permette di rielaborare la situazione comica

osservata e consentirci così di individuarne lo stimolo risorio (cap.

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4), basato proprio sul senso della gerarchia e attivato quando

riceviamo da parte di una persona (ma anche una cosa, un concetto,

un’idea) un messaggio di inadeguatezza a ricoprire un determinato

ruolo che siamo soliti attribuirgli.

A questo punto in noi crescerà un’irrefrenabile reazione che

sfocia in una risata incontenibile.

Non dimentichiamoci poi che il ridere è innanzitutto un

fenomeno sociale che comunica dei messaggi ben precisi che creano

rapporti paritari e portano ad un avvicinamento relazionale tra coloro

che ridono insieme (cap. 5). Durante una risata poi, si instaurano

ruoli e relazioni sociali del tutto nuove: una fortemente gerarchica

contro l’oggetto di riso, l’altra di complicità tra i co-ridenti. Ridere

pertanto, si presenta come un livellatore gerarchico, che laddove c’è

una gerarchia l’annulla e dove non c’è non la crea. (cap. 6).

Il viaggio prosegue poi con le altre due tappe, alla scoperta di

come oggi la cultura del ridere è di nuovo valorizzata, promossa,

esaltata e trasmessa soprattutto attraverso la Comicoterapia e la sua

diffusione come strumento formativo ed educativo.

Nella seconda (cap. 7 e 8) sono andato alla scoperta del mondo

della Comicoterapia, che nella sua forma attiva, attraverso laboratori

ludici, si pone come obiettivo quello di far riemergere e riscoprire il

ridere e le emozioni positive nelle persone, valorizzandone la loro

componente bambina e facendo ritornare così in vita l’Homo ridens;

nella sua forma passiva invece, si mostra principalmente con le vesti

della Clown terapia, che è anche l’aspetto più conosciuto della

Comicoterapia.

Nata quasi per caso negli ambienti ospedalieri degli Usa sul

finire degli anni ’70, e supportata dalla scoperta dell’effetto

terapeutico del riso che alcuni studi del tempo avevano portato alla

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ribalta, la Comicoterapia si diffonde presto negli ospedali di tutto il

mondo proprio grazie alla figura del Medico Clown e al film

biografico Patch Adams, sulla vita del medico americano che ha dato

il via a questo fenomeno.

In Italia, negli ultimi venti anni si è assistito ad un proliferare di

associazioni, attive non solo negli ospedali, ma in tutti i contesti

sociali in cui è presente una forma di disagio, che attraverso il ridere

cerca di essere affrontato e sconfitto: scuole, carceri, comunità di

diversabili1, reparti di psichiatria, case di riposo per anziani e

addirittura nei territori colpiti e devastati dalla guerra (come a Kabul)

o da cataclismi naturali (come i terremoti in Abruzzo nel 2009 e in

Emilia nel 2012). Si offre inoltre, come valida formazione nei

contesti ospedalieri e scolastici ad operatori socio sanitari, infermieri,

primari di corsia ed insegnanti, per contribuire al miglioramento

generale della struttura e la diffusione di una cultura organizzativa

centrata sulla persona e su rapporti più umani e meno spersonalizzati.

Nell’ultima tappa del viaggio infine (cap. 9 e 10), ho analizzato i

risultati di una mia ricerca su un concreto caso di applicazione delle

potenzialità formative del ridere in un contesto scolastico.

La scuola infatti, è popolata da ragazzi che, per la particolare fase

della crescita che attraversano, fanno del riso, del gioco e del

divertimento la loro “occupazione preferita e più intensa2”, il loro

linguaggio e il loro pane quotidiano, indispensabili per lo sviluppo

del loro carattere.

1

Il neologismo vuol dire “diversamente abili”, ed è il termine con cui

nell’ambiente della Comicoterapia preferiscono chiamare i disabili e che

utilizzerò anche io nel resto di questo lavoro. 2

FREUD S., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino

1969, p. 49

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A scuola, quindi, la comicità è forse più diffusa dei suggerimenti

dal primo banco. Si può ignorare la sua presenza o reprimerla, ma

esiste ed è sempre esistita, diventando, in uno stato di clandestinità,

qualcosa di pericoloso e sovversivo.

Gli unici effetti che un controllo su questi comportamenti

potrebbe portare sono solo di tipo negativo. Il riso infatti, si alimenta

(chiedo scusa per il gioco di parole) di disgrazie altrui, e può

diventare strumento di sanzione e umiliazione. Se si tenta di bloccare

tale istinto, prima o poi finirebbe per emergere lo stesso, portando a

galla i suoi aspetti più temuti.

I ragazzi, ad esempio, finirebbero per usarlo come strumento di

ribellione e sovversione dell’ordine gerarchico contro gli insegnanti,

che diventerebbero l’oggetto preferito delle loro parodie, delle loro

imitazioni e delle loro battute3. Oppure potrebbero dirigerlo verso

ragazzi più introversi e con maggiori difficoltà a relazionarsi con gli

altri, o semplicemente verso ragazzi particolari, magari perché più

creativi e brillanti della media4, escludendoli così dal gruppo classe e

creando un clima caratterizzato da rapporti conflittuali e distanti.

Dall’altra parte, gli stessi insegnanti, potrebbero usarlo in

maniera scorretta nei confronti dei ragazzi stessi, ricorrendo al

sarcasmo e all’ironia sanzionatoria, portando solamente

all’umiliazione del ragazzo e ad un distaccamento nel rapporto

studente/insegnante. Altrettanto dannoso sarebbe non usarlo proprio,

perché ci si priverebbe delle sue grandi potenzialità relazionali, ma

anche della capacità che ha di sdrammatizzare i momenti difficili

dell’aula, della possibilità di stimolare la creatività e le motivazioni

3

Non a caso le maestre di Pierino sono, insieme ai calciatori, ai carabinieri e

ai capi ufficio, i bersagli preferiti delle barzellette che circolano in Italia. 4

Per esempio, Einstein a scuola era considerato un asociale per via della sua

mente così brillante, ed era ridicolizzato dai suoi compagni con il

soprannome di vecchio leprottone.

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personali dei ragazzi nello studio, facendolo vedere come qualcosa di

piacevole oltre che importante per la loro vita; infine, ci si priverebbe

dell’utilizzo di un linguaggio che rispecchi la loro naturale vivacità e

che sia comune a docenti e studenti: il riso, appunto.

Tanto vale quindi, dare piena legittimità ed ufficialità al comico,

al riso e all’umorismo, addomesticandoli per sfruttarne le loro

potenzialità di lubrificante e di aggregante sociale, in modo da creare

rapporti più empatici ed amichevoli, ed avvicinare ragazzi ed

insegnanti.

Il primo passo da compiere è pertanto quello di partire dall’alto:

lavorare cioè sui docenti stessi con aggiornamenti professionali che

correggano usi scorretti dell’umorismo con gli studenti e nello stesso

tempo stimolino un suo maggiore utilizzo in funzione aggregante,

diffondendo e sviluppando in loro una cultura del riso, della gioia,

della positività, dell’importanza di rapporti sociali sani e costruttivi e

del rispetto dell’altro, in modo tale che, attraverso l’esempio e

l’insegnamento, tale cultura venga poi trasferita ai ragazzi, gli adulti

di domani.

Obiettivo della ricerca è stato proprio quello di illustrare come un

corso di formazione professionale in Comicoterapia su un gruppo di

docenti, possa trasmettere nuove motivazioni e modalità

d’insegnamento più empatiche e coinvolgenti che facilitino i rapporti

con i ragazzi e con gli altri colleghi, portando benefici all’intero

sistema educativo.

All’interno dei capitoli ho inserito frasi divertenti, barzellette e

anche degli spazi, che ho chiamato Curiosità, in cui ho messo notizie

particolarmente curiose per rendere la lettura più piacevole e

divertente, sperando che oltre ad interessare, questo libro riesca

anche a strappare un sorriso.

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PARTE PRIMA

“Voglio un mondo comico, che se

ne frega se sembra ridicolo…”

(Luciano Ligabue)

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La Caduta dell’Homo Ridens

“Una persona che non ride,

non è una persona seria.”

(F. Chopin)

1. Dall’Homo ludens all’Homo Iper-Serius

L’essere umano è una specie animale in continua evoluzione.

Molti scienziati concordano nel dire che noi viviamo in uno stato di

perenne infanzia o neotenia che ci porta a cambiare continuamente il

nostro modo di vivere, di pensare, di muoverci, di essere.

Un ruolo importante nell’evoluzione di una specie lo occupa il

gioco. Il gioco è un’attività naturale, esplorativa; sviluppa esperienze

e conoscenze nuove. I predatori e gli altri felini, prima di potersi

liberare dalle scrupolose attenzioni dei genitori, in particolare della

madre, e separarsi così dalla famiglia, quando sono cuccioli

attraversano una fase di gioco in cui provano e simulano senza

aggressività i combattimenti che da grandi permetteranno loro la

sopravvivenza e l’evoluzione della specie. D’altronde anche i

cuccioli d’uomo, i bambini, non fanno altro che giocare: è la loro

professione, il loro scopo.

È tramite le attività ludiche che i nostri antenati riuscirono a

superare e a sopravvivere ai difficili cambiamenti climatici che

ciclicamente accompagnarono la vita della nostra terra. Pian piano

esse divennero la loro migliore specializzazione, grazie alle quali

poterono fare importanti scoperte, esplorare nuovi spazi e nuove

capacità ed inventare gli utensili, che potrebbero essere nati proprio

dai giocattoli5. Il gioco ha la capacità di farci affrontare le nuove

5

BOKUN B., Ridere per vivere, Mondadori, Milano 1997

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situazioni senza la tensione e la pressione della situazione reale: è

una finzione e pertanto è libera dalle paure.

Se, quindi, l’uomo è in una perenne infanzia, e la caratteristica

principale dell’infanzia è il gioco, possiamo arrivare ad una

importante quanto banale scoperta: l’uomo è nato per giocare. La

sua natura è gioiosa, allegra, gaia; siamo una specie nata per essere

felice, per divertirci e apprendere e crescere tramite questo

divertimento. Solo così la grande intelligenza di cui siamo dotati può

essere liberata e incrementata.

L’Homo Ludens ha preceduto l’Homo Faber.

Purtroppo però, la realtà di oggi è un’altra. Attualmente si sta

affermando sempre di più l’Homo Iper-Serius.

La parte ludica nella nostra vita è sempre più ridotta. Il gioco,

dove c’è ancora, assume le forme della competizione, della vittoria

ad ogni costo e quindi della serietà nell’impegno. Al divertimento

riserviamo solo una piccola parte del nostro tempo, quella che ci

rimane libera dagli impegni frenetici di tutti i giorni. Non a caso lo

chiamiamo tempo libero. Diventa come un impegno, un dovere

sociale da far rientrare nella nostra giornata, perdendo in tal modo la

spontaneità che lo caratterizza. A volte invece ricorriamo al gioco

solo per scaricarci, per farci assorbire da qualcos’altro, facendogli

assumere le connotazioni di un’evasione, sottintendendo così che

sono altre le cose più importanti per noi.

La serietà, come vedremo, è un artificio creato dalle regole

prescritte dalla nostra società. Pervade sempre più ambiti della nostra

quotidianità, difesa molto spesso da regole morali, sociali, pregiudizi,

tabù e credenze, e sostenuti da ruoli da dover mantenere o modelli e

convenzioni da dover seguire. Purtroppo ci stiamo sommergendo di

precetti e formalismi, regole che, se eccessive, diventano superflue,

perdendo quel sano significato iniziale che avevano di indirizzarci,

per finire con l’essere mezzo per comandarci. (continua…)

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La Rivolta del Comico

“Il comico è una faccenda difficile,

a capirlo si è risolto il problema dell’uomo

su questa terra.”

(Umberto Eco)

Da quanto emerso finora, ne scaturisce un quadro abbastanza

inquietante che ci fa sentire più vulnerabili di prima, e ciò non può

che creare quello stress di cui si sta tanto parlando.

Ma come avviene tutti i giorni, anche in questo scritto proprio

quando meno ce lo aspettiamo, quando la realtà seria sembra

prevalere, spunta qualcosa di imprevisto ed inaspettato: l’evento

comico, che ribalta la serietà che ci circonda. Dietro ogni cosa,

soprattutto se seria, c’è sempre qualcosa di comico. Si crede che

censurare la comicità e il ridere sia il miglior modo per eliminarli, ma

è proprio qui che questo ristagna e prepara la sua controffensiva.

La comicità si nutre di tutto ciò che è serio, e più è serio e più è

comico. Non c’è cosa che possa sfuggire ad essa. Forse è proprio per

questo che è tanto censurata e temuta. Non si può far niente per

evitarla, è una mina vagante pronta ad esplodere in qualsiasi

momento; e quando esplode, si cerca sempre di non esserne le

vittime, perché è davvero pungente e pericolosa…

1. Apollo contro Dioniso

L’uomo è conteso tra due atteggiamenti, il serio e il non

serio.

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Nella mitologia greca6, il serio era rappresentato da Apollo, dio

dell’Olimpo, il non serio da Dioniso, che invece viveva sulla terra ed

era pertanto più vicino all’uomo e alla sua vita. Entrambi portavano

la musica al genere umano, ma in modo nettamente diverso: se

Apollo rappresentava la musicalità dolce, serena e tranquilla, quella

di Dioniso era di tipo orgiastico, gioioso, chiassoso, sregolato.

L’uomo, dunque, seguiva gli esempi a volte di uno a volte

dell’altro dio, vivendo in equilibrio tra il carattere Apollineo e quello

Dionisiaco e dividendosi così tra uno stato di regolarità, serietà e

certezza, tipico di Apollo, e uno stato di disordine e non-serietà tipico

di Dioniso. Ma l’importanza e il maggiore prestigio di Apollo ebbero

il sopravvento su quella di Dioniso, portando il dominio di ciò che è

serio su ciò che non lo è.

La regolarità è Apollo, l’irregolare è Dioniso.

Il Comico è Dioniso.

2. La comicità e(’) l’irregolare

Cominciamo a dare una forma a ciò che è comico.

“Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente

umano”

Da questa affermazione di Bergson7 ricaviamo un primo

importante indizio: il Comico è una manifestazione tipicamente

umana. Ma allora perché ridiamo di oggetti, di animali e anche di

concetti astratti? In realtà, ridiamo di queste categorie non umane

solo se hanno una certa attitudine con l’umano. (continua…)

6

EURIPIDE, Le Baccanti, in L. A. STELLA, Mitologia greca, UTET,

Torino 1975 7

BERGSON H., Il riso, Rizzoli, Milano, 1961., p. 3

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Il Settimo Senso: il Senso dell’Umorismo

Il fiorellino: “Che bello essere nato vicino a te,

così mi ripari dalla pioggia!

Ma dimmi, sei un vero ombrello

o fungi da ombrello?”

Il fungo: “Fungo!”

(Achille Campanile)

1. Che senso ha l’umorismo?

Riaccennando quanto già detto alla fine del precedente capitolo,

se il comico è la realtà che si manifesta da sé in modo bizzarro e

insolito, l’umorismo è l’interpretazione e la rappresentazione della

realtà che coglie, ricerca e pone in risalto volontariamente gli aspetti

irregolari, insoliti e bizzarri che sovvertono l’immagine consueta del

reale.

Il senso dell’umorismo, invece, è la capacità personale di

riconoscere il fatto comico; ci porge gli strumenti per farci accorgere

della situazione comica e farci notare che tutto quello che ci circonda

altro non è che pura costruzione, che non vi è nulla di assoluto e

certo intorno a noi.

In poche parole l’umorismo è il traduttore dell’irregolare, il

senso dell’umorismo è la predisposizione a cogliere l’irregolare.

In misura diversa e in modalità diverse siamo tutti dotati del

senso dell’umorismo. Risulta raro, se lo raffiguriamo solo di elevata

e raffinata qualità. In realtà, in senso ampio e non selettivo,

appartiene a tutto il genere umano. Anche perché, il caso estremo,

l’agelasta (dal greco = senza riso, colui che non ride mai), che non

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riesce a ridere di nulla, cioè non riesce a cogliere mai qualcosa di

umoristico, è un caso teorico, che allo stato puro non s’incontra

(anche se qualcuno ci si avvicina molto).

La sua immagine non è sempre accompagnata da giudizi

uniformi. Questi spesso si ritrovano in molte espressioni della nostra

tradizione popolare8.

Qualcuno lo definisce un po’ malignamente come “l’arma dei

disarmati”: l’immagine che mi viene in mente è quella del film La

vita è bella, di Benigni, rappresentazione di un’esperienza di un

campo di concentramento vissuta con le armi dell’umorismo da uno

che di armi non ne aveva. Sarà pure l’arma dei disarmati e dei

disperati, ma a vincere nel film è proprio l’umorismo!

Se da un lato “Chi fa ridere altrui, stan tutti con lui”, dall’altro

si aggredisce spesso dicendo “Ridi come uno scemo” o si invita a

“Non fare il buffone”; in “Chi ride senza un perché, o è pazzo o ce

l’ha con me”, oltre alla follia, affiora anche il lato sanzionatorio della

risata.

Alcuni proverbi e detti esortano ad una sana allegria, ad una

risata benefica, terapeutica, che giova alla salute: ad esempio, “Chi

ride campa cent’anni”, “Il riso fa buon sangue”, oppure “Ogni

risata toglie un chiodo dalla bara”, stando attenti a non correre il

rischio di “Morir dal ridere”; altri criticano l’eccessiva

spensieratezza perché giudicata fuori luogo: “Chi ride il venerdì,

piange la domenica”, “Il riso abbonda sulla bocca degli stolti”.

Visioni discordi ci sono poi nel trattare il suo legame con il

divino: c’è chi sostiene che “Gente allegra il ciel l’aiuta” e chi

invece ci mette in guardia, ammonendoci: “Scherza con i fanti ma

lascia stare i santi”.

8

ZINGARELLI N., Lo Zingarelli minore. Vocabolario della lingua italiana,

Zanichelli, Milano 2005.

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Se poi per Freud è trionfo dell’Io, c’è chi si chiede se “l’humor è

un dono concesso dagli dèi o una punizione data da un demone9”.

A guardar bene infatti, non è proprio una manifestazione

angelica: si alimenta di disgrazie, di vizi e di cattiverie; è

apparentemente innocuo ma capace di ferire. L’umorismo si trova,

così, spesso a dover fare i conti con diffidenze e svalutazioni.

Sostanzialmente però, seppur con qualche ombra, l’umorismo è

considerata una risorsa benefica ed è ricercata nelle (e dalle) persone.

Probabilmente queste visioni negative sono solo dettate

dall’ipocrisia, allo scopo di sminuire la sua importanza per difendersi

dal suo attacco ed evitare che qualcuno usi questa arma contro di noi.

Ma alla prima occasione buona chiunque se ne servirebbe. Insomma,

nessuno ne vorrebbe essere vittima, ma a tutti piacerebbe fare i

carnefici. Anche perché sono poche le persone a riconoscere di non

possedere umorismo; e se a qualcuno proviamo a dire : “Non hai

proprio senso dell’umorismo”, possiamo star certi che cercherà in

tutti i modi di smentirci, come se gli avessimo fatto l’accusa più

infamante.

Preferisco mantenere, quindi, questa immagine di qualità

positiva, apprezzabile e apprezzata, magari accompagnando il senso

dell’umorismo con un senso dell’opportunità che ci permetta di

capire i modi e i momenti più idonei in cui usarlo.

Curiosità: in una ricerca svolta per vedere quante persone ritenevano

di avere senso dell’umorismo, è stato rilevato che almeno il 94% delle

persone ritenevano di avere buone capacità umoristiche, addirittura sopra

alla media. Questo dimostra quanto ogni persona ci tenga ad avere

l’umorismo come qualità personale, sopravvalutando addirittura le proprie

potenzialità. [ALLPORT G. W., 1961] (continua…)

9

KEITH-SPIEGEL. P., Prime concezioni dello humor: varietà e questioni,

in GOLDSTAIN J.H. e McGHEE P.E. (a cura di), Psicologia dello humor,

Franco Angeli, Milano 1976.

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Uno Starnuto Mentale: lo Scoppio della Risata

Due impiegati stanno litigando:

“Non ho mai incontrato uno più cretino di te!”

“Dopo te logicamente!”

Il capoufficio interviene irritato:

“Smettetela, e ricordatevi che qui ci sono anch’io!”

1. Introduzione: il dono di Dio

Un antico racconto orientale narra che Dio, dopo aver creato

l’uomo, si accorse di quanto fosse triste ed imperfetto. La sua

creatura gli parve così goffa che, riflettendo sugli errori commessi,

scoppiò in una fragorosa risata: fu allora che, a perfezionamento

dell’uomo, Dio gli donò la capacità di ridere.

Il racconto riassume efficacemente alcuni elementi caratteristici

del riso: “la divinità” di questo atto, la sua funzione di perfettibilità,

il suo carattere liberatorio, l’essere tipico oltre che del Creatore anche

dell’uomo.

Forse dovevamo essere proprio brutti agli occhi di Dio, se

pensiamo a quante cose ci potrebbero far ridere, e forse ci sentiamo

troppo belli ed importanti se pensiamo a quanto si ride poco… !

È questo un punto importante del fenomeno della risata, su cui

molti autori si sono dibattuti. Sono molti gli stimoli a cui siamo

sottoposti. Prima ho fatto notare come ogni cosa è potenzialmente

comica, perché in ogni cosa può essere visto il suo lato buffo,

ridicolo, assurdo.

C’è dunque differenza fra gli stimoli che generano riso o possono

essere ricondotti ad un denominatore comune?

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Curiosità: un’inchiesta del 1992 condotta dal quotidiano “Le Matin” ci

da un quadro di quanto si rida poco nella nostra epoca: dalla ricerca

risulterebbe infatti che i francesi nel 1930 ridevano in media 19 minuti al

giorno, e nel 1990 la media era scesa a 6 minuti al giorno. Visto il periodo

socio economico in cui viviamo, non è facile immaginare che oggi si rida

ancora meno. Inoltre, si sa che quando si è piccoli si ride circa 300 volte in

una giornata, mentre gli adulti ridono solo 5 volte! [AAVV, Riza Scienze

n°59, agosto 1992]

2. Quanti stimoli? Un problema teorico

All’inizio di questo lavoro temevo di non trovare abbastanza

materiale bibliografico su cui basare la mia ricerca. Ora invece mi

ritrovo la scrivania piena di libri di autori che si sono avventurati in

questo mondo. Sono rimasto sorpreso di vedere che in ogni epoca, in

ogni cultura e in ogni disciplina, il riso sia stato studiato, dibattuto e

giudicato. Tutto ciò mi ha fatto capire dell’enorme importanza che

questo semplice gesto ha sempre avuto per l’uomo, ma che a volte

trova troppo poco spazio nella nostra vita e nei nostri rapporti.

Ciò che più di ogni altro aspetto ha incuriosito scienziati e

filosofi di ogni epoca è stato quello di cercare di capire perché

ridiamo e cosa ci fa ridere: in una parola, lo stimolo.

Molte teorie hanno cercato di darne una risposta. Si può partire

dalle teorie della superiorità di Hobbes10

, secondo cui il riso è la

manifestazione di un trionfo personale e si manifesta sempre in

corrispondenza delle debolezze altrui; oppure la teoria della sorpresa,

dove l’elemento principale del riso è il suo irrompere come

improvviso e inaspettato; infine, si possono citare le teorie

dell’incongruenza, che insistono sul fatto che il riso è causato da

un’insolita e illogica connessione di idee, situazioni, atteggiamenti e

comportamenti. (continua…)

10

HOBBES T., ibidem.

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Il valore di Sorriso e Riso

nelle Interazioni Umane

Fra amici:“Sono due giorni che non parlo

con mia moglie...”

“Avete litigato?”

“No, non voglio interromperla!”

(Gino Bramieri)

1. Sorriso e riso: strumenti tutti nostri

“L’uomo soltanto, fra tutti gli animali, ride.”

(Aristotele, Parti degli animali, III, 10, 673a)

L’inizio di questo capitolo non poteva essere migliore, con la

citazione di uno dei più grandi filosofi di ogni tempo. È incredibile

pensare a quanto una persona esistita molti secoli fa abbia potuto

essere così antesignana nel suo pensiero, anticipando teorie e

filosofie che non solo hanno condizionato l’evoluzione di tutto il

pensiero umano, ma che solo oggi vengono dimostrate dai pensatori

moderni.

Anche su questa frase riportata qui sopra, Aristotele anticipò

conclusioni a cui oggi, solo grazie al contributo di discipline

“nuove”, come l’antropologia e la scienza bio- sociale, possiamo

pervenire anche noi “comuni mortali”.

Effettivamente, l’uomo è l’unica specie animale dotata della

capacità di sorridere e ridere. Lo scodinzolare del cane, le fusa del

gatto, l’espressione rilassata con la bocca aperta dei primati, possono

per certi aspetti essere accostati al riso umano, ma nessun movimento

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espressivo che comporti le complesse relazioni del riso è

individuabile in specie diverse dalla nostra.

È però possibile individuare in altre specie, qualche movimento

espressivo collegabile evolutivamente al riso e al sorriso nostri. Un

grande contributo alla dimostrazione di ciò, c’è stato dato da

un’importante ricostruzione filogenetica (cioè che riguarda

l’evoluzione nella specie umana di questi due movimenti espressivi)

operata da van Hooff11

.

Un primo importante aspetto della sua teoria riguarda la

differenza tra il sorriso e il riso: secondo l’autore questi sono

filogeneticamente separati, cioè hanno due origini diverse in diversi

mammiferi primitivi, ma con l’evoluzione sono venuti poi a

convergere e sovrapporsi nell’uomo. Sorriso e riso sarebbero

pertanto, due movimenti distinti ed autonomi tra loro, con qualche

punto di contatto che li rende assimilabili. Tali accenni saranno la

base per alcune considerazioni successive che farò. Tornerò, infatti,

più avanti nel del capitolo sulla separazione tra sorriso e riso,

affrontandola però dal punto di vista comunicativo.

La figura qui sotto rappresenta la ricostruzione dell’evoluzione

del sorriso e del riso dai primati fino all’uomo.

(continua…)

11

VAN HOOFF J., Analisi comparata della filogenesi del riso e del sorriso, in

R.A. HINDE (a cura di), La comunicazione non verbale, Laterza, Bari 1974.

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Leader, Buffoni e Capri Espiatori:

Ruoli e Relazioni Sociali nella Risata

“Amo molto parlare di niente.

È l’unico argomento su cui so tutto!”

(Oscar Wilde)

1. Un effetto contagioso…

“Non gusteremmo il comico se ci sentissimo isolati.

Sembra che il riso abbia bisogno di un’eco.”

(Henry Bergson)

Ridere crea socialità ed ha bisogno di socialità. È innanzitutto un

fenomeno sociale, di gruppo, capace talvolta di diventare più

contagioso di un’influenza o di un raffreddore.

Quando siamo in compagnia, in genere, allo stesso stimolo

risorio si risponde più frequentemente ed intensamente che quando

stiamo da soli. Ciò può essere spiegato come un modo per attivare

quella complicità che scaturisce dal messaggio che scorre nel canale

dei co-ridenti: in un certo senso è come se cercassimo di instaurare

un rapporto amichevole con tutti quelli che assistono con noi ad un

evento divertente.

Gli spettacoli comici di oggi, il cabaret, così come le commedie

negli anfiteatri del passato, non sono altro che un luogo pieno di

sconosciuti, la cui presenza di ognuno funziona come amplificatore

delle risa degli altri. Il segreto del loro successo è proprio quello

della socialità con cui vengono fruiti tali spettacoli: sfruttano la

voglia dei presenti di creare un rapporto di amicizia con lo

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sconosciuto che sta accanto e che, fuori di lì, è visto spesso come una

minaccia (per via del meccanismo dell’estraneo; vedi cap. 4).

La contagiosità del riso potrebbe, quindi, scaturire da questa

percezione di inoffensività di chi ci sta di fianco, alimentata da uno

scambio di messaggi amichevoli. In questa ricerca volontaria del

rapporto amichevole con lo sconosciuto, personalmente ci vedo

un’insita voglia dell’uomo a cercare la pace e il rapporto con l’altro,

bloccato e inibito solamente da un atteggiamento di diffidenza che

scaturisce dalla paura dell’estraneo.

Curiosità: un caso ormai storico tra gli scienziati, di risata contagiosa,

fu quello che si verificò nel 1962 in Tanganica. L’episodio, considerata la

prima e unica epidemia di riso verificatasi nella storia, iniziò il 30 gennaio

in una scuola missionaria per ragazze e colpì nel giro di due mesi 95 delle

159 alunne che la frequentavano. I sintomi si verificavano all’improvviso:

attacchi di riso con una durata che variava da pochi minuti ad alcune ore,

seguiti da una pausa e da una ricaduta. L’epidemia contagiò anche un vicino

villaggio dove tra Aprile e Maggio, colpì 217 persone. La spiegazione di

questa epidemia non fu mai trovata con certezza. Alcuni scienziati e dottori

che esaminarono il caso, parlarono di isteria collettiva, ma è indubbio che la

componente sociale ha avuto un ruolo determinante nel “contagio”.

[WINDERLING O. N., nov. 1996, p. 14-20]

Ho finora analizzato la struttura fondamentale che caratterizza il

sorriso e in particolare il riso, esaminando in dettaglio la dimensione

comunicativa e i messaggi veicolati.

È importante ora indagare, più da vicino, quali relazioni sociali

vengono istituite (cioè, create dal nulla) dai tre messaggi individuati.

Naturalmente il riso nella stragrande maggioranza dei casi si

manifesta in un contesto già socialmente strutturato, ma ciò non è

strettamente necessario: anche perfetti estranei che vengano

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semplicemente a contatto visivamente, possono costituire un

sodalizio di co-ridenti o impersonare il ruolo di oggetto di riso.

Trovandoci di fronte a due diversi messaggi del riso, è

indispensabile esaminare le due diverse relazioni sociali che ne

scaturiscono.

2. La relazione gerarchica

“Nessuno è così grande che non si possa ridere di lui.”

(Kluckhohn)

La prima relazione che viene creata dal riso è quella che deriva

dal messaggio Derisione, che è stato definito come messaggio di

dominanza (e quindi gerarchico) nei confronti dell’oggetto di riso.

Il significato trasmesso da tale messaggio determina

l’instaurazione di una relazione sociale decisamente nuova tra

oggetto di riso e co-ridenti, non solo perché può generare, ex-novo,

un legame sociale tra attori sociali che un momento prima poteva

essere del tutto inesistente, ma anche e soprattutto perché, se un

legame già c’è, attribuisce a questo una struttura gerarchica che

prima poteva essere decisamente diversa.

Trattandosi di messaggio di dominanza, la relazione che si

instaura tra i ridenti e l’oggetto di riso è fortemente e pesantemente

gerarchica. Essere bersaglio delle risate altrui determina una caduta

di rango, una degradazione che porta ad essere in posizione

subordinata (anche se temporanea e circoscritta al momento della

risata) rispetto a chi ride.

Questa relazione asimmetrica così determinatasi con il riso, è del

tutto nuova. Precedentemente a tale situazione, infatti, tra i soggetti

coinvolti poteva anche non esserci alcun tipo di rapporto gerarchico

dichiarato, o perché era un rapporto tra pari o perché tra sconosciuti.

(continua…)

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PARTE SECONDA

“Chi ha il coraggio di ridere

è padrone del mondo…”

(Giacomo Leopardi)

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La Comicoterapia

“L’uomo soffre così duramente nel mondo

che è stato costretto ad inventare il riso.”

(Nietzsche)

1. Cos’è la Gelotologia?

La scienza ha ampiamente dimostrato che le emozioni negative,

quali paura, tristezza, depressione, rabbia, stress possono farci

ammalare in modo anche molto grave.

Al contrario le emozioni positive (amore, speranza, fiducia,

gioia…) sono potenti alleate della nostra salute fisica e psicologica.

Tra le emozioni positive, il ridere è la più potente, duttile e facile

da reperirsi.

Quando ridiamo, avviene dentro di noi un profondo

cambiamento psico-fisico: se ne giova l'intero organismo, il nostro io

profondo, l'idea stessa che abbiamo della realtà.

La materia che si occupa dello studio di questi fenomeni assume

il nome scientifico di Gelotologia (dal greco Ghelos = risata;

ghelotos, e vuol dire “cura del ridere”).

La Gelotologia è la disciplina che indaga, pertanto, sulla stretta

relazione tra il fenomeno del ridere, le emozioni positive e la salute.

Questa nuova modalità di prevenzione e terapia di malattie e

disagi psico-sociali, che negli USA trova le sue massime espressioni

(ma che è in rapido sviluppo anche in Europa e nel resto del mondo),

prende le mosse dai più recenti studi di Psico-Neuro-Endocrino-

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- 40 -

Immunologia (PNEI)12

, e tende a ricercare, sperimentare e applicare

modalità relazionali che, coinvolgendo positivamente l’emotivo della

persona, attraverso complessi meccanismi neuro-endocrini, ne

migliorino l’equilibrio immunitario da un lato e le abilità psico-

relazionali dall’altro.

Rafforzare il sistema immunitario vuol dire migliorare i

parametri vitali, rendere più resistente l’organismo di fronte agli

agenti patogeni, consumare meno farmaci, accorciare le degenze.

Dall’altra parte, migliorare le abilità psico-relazionali delle persone

significa renderle protagoniste attive nella lotta contro il disagio

fisico e psichico, attraverso il ridere e le emozioni positive,

aumentandone in tal modo l’autostima e le capacità di relazionarsi

(perché libere dalle inibizioni delle proprie insicurezze e delle

proprio paure), e favorendo rapporti più umani e improntati sul

rispetto e la comprensione.

Nell’ambito di una comunità, come ad esempio un ospedale o un

servizio territoriale (che potrebbe essere, ad esempio, una scuola

statale), l’approccio gelotologico e ludico incide profondamente sulle

aspettative, sulle motivazioni e sui vissuti dei degenti/utenti e del

personale stesso, migliorando l’efficienza complessiva della struttura

e le relazioni interpersonali al loro interno, portando ad una generale

umanizzazione della comunità.

Nata principalmente con una funzione terapeutica e di

prevenzione della salute, oggi la Gelotologia è diventata anche un

importante mezzo di formazione ed educazione per bambini,

adolescenti e adulti, non per forza colpiti da qualche patologia fisica

o psicologica, ma anche semplicemente desiderosi di ritrovare

motivazioni personali e una nuova energia positiva per affrontare le

frenetiche giornate della nostra società. (continua…)

12

BOTTACCIOLI F., Psiconeuroimmunologia, L’altra Medicina studio

1995.

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Usi sociali della Comicoterapia

“Se volete cambiare il mondo,

prendete 5000 clown

e metteteli in una città.”

(Patch Adams)

1. La Comicoterapia in ospedale

“La medicina non è divertente,

ma c’è molta medicina nel divertimento!”

(L. e M. Cowan)

Il primo colpo di martello teso ad abbattere il muro della serietà

in un contesto istituzionalizzato, è avvenuto proprio laddove meno ci

si aspettava un simile passo: negli ambienti ospedalieri, dove c’è

dolore, angoscia, sofferenza e tristezza. È stata questa l’esperienza

che ha permesso il diffondersi dell’uso terapeutico dell’umorismo e

del riso in molti altri contesti.

Molto spesso purtroppo, l’ospedale oltre a contribuire alla

guarigione delle persone, è un luogo in cui si genera anche la

malattia.

Oggi giorno l’importanza dell’umanizzazione dei reparti è

riconosciuta anche a livello normativo attraverso una legge dello

Stato, la 328/2000, che ne sancisce la necessità.

Se bisogna umanizzare, vuol dire che spesso le condizioni sono

al limite e che le migliaia di casi di malasanità stanno a significare

che c’è ancora molto da fare per raggiungere gli standard ideali.

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La Comicoterapia, in questo contesto, è una risorsa

importantissima, grazie alla carica energetica molto potente che il

ridere può mettere in campo.

La Comicoterapia negli ospedali è presente sia nella sua forma

passiva, attraverso le molte attività di Clown Terapia che si stanno

diffondendo, sia nella sua forma attiva, principalmente attraverso

laboratori ludico-formativi al personale medico e paramedico, volti

come è stato già detto, a far emergere la loro parte umoristica per

migliorarne le capacità di relazionarsi con i pazienti e i familiari.

La Comicoterapia attiva è spesso usata anche con i pazienti

stessi, allo scopo di attivare direttamente in loro la spinta a cambiare

le loro emozioni in atteggiamento positivo e ottimistico e superare

così, con le proprie forze, e capacità interiori le difficoltà e i disagi di

un ricovero.

I beneficiari di questo tipo di attività sono sia i bambini che gli

adulti. Quando un bimbo entra in ospedale perde la maggior parte dei

suoi punti di riferimento. L'ambiente che lo accoglie, spesso, non è a

sua dimensione: la sua camera di degenza è fredda ed anonima, non

ha con sé i suoi giocattoli, non più i suoi amici e compagni di scuola;

gli orari che scandiscono la sua giornata sono diversi ed astrusi. Solo

i genitori (in genere la madre) gli sono accanto.

Il ricovero è pertanto un evento traumatico, caratterizzato da alti

livelli di ansia, paura e stress.

La figura del Clown Dottore e del ridere che esso porta nella

Pediatria assume pertanto il compito di:

• Rendere migliore la qualità della degenza dei bambini

ricoverati nei reparti pediatrici.

• Facilitarne le cure ospedaliere, puntando all'ottimizzazione

relazionale ed alla umanizzazione delle strutture sanitarie. (continua…)

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PARTE TERZA

“Ridi e saprai di più su te stesso.”

(Marziale)

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Riso a Ricreazione

“Come educatori, non ci resta che l’ottimismo.

I pessimisti possono essere bravi domatori,

ma non bravi insegnanti.”

(Fernando Savater)

1. Premessa: un clandestino a bordo

Il sistema di istruzione di un paese civile come l’Italia è una cosa

seria. Anche troppo.

Possiamo rallegrarci di non vedere più le immagini a scuola di

bambini e ragazzi rigidamente seduti su una sedia, intimoriti da

un’insegnante pronto a metterli in ginocchio sui ceci.

Fortunatamente, infatti, negli ultimi decenni non ci siamo limitati a

conquistare lo spazio, ma ci siamo evoluti anche nei metodi di

istruzione (che permettono poi di conquistare lo spazio).

La concezione della scuola è, però, ancora lontana

dall’eliminazione dei rigidi formalismi che la caratterizzano,

soprattutto nelle relazioni e nei rapporti interpersonali; è ancora

arroccata su metodi, schemi comportamentali e concezioni mentali

che creano chiusura e diffidenza verso alcuni comportamenti istintivi

e spontanei della nostra natura. Purtroppo, in genere, è la

componente burocratica e seria ad avere il sopravvento, come di

norma avviene nel resto della società, fino ad arrivare a tarpare le ali

a personalità promettenti o escludendo ragazzi con più difficoltà nel

relazionarsi con gli altri, o con alle spalle problemi familiari,

volenterosi ma inadatti ai programmi che devono rispettare13

.

13

FIORAVANTI S., SPINA L., La Terapia del ridere, Red 2002.

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Si cerca di mantenere troppo la distanza tra docenti e studenti,

come se un avvicinamento fosse dannoso per l’educazione dei

ragazzi (o forse è dannoso solo all’immagine autoritaria che

l’insegnante vuole mantenere?).

Ci sarebbe bisogno, secondo me, di accorciare tali distanze, di

creare un rapporto più amichevole, empatico e armonioso tra due

mondi ancora troppo lontani, quello degli insegnanti e quello degli

studenti.

Da una parte infatti, questi ultimi vedono i professori come dei

robot senza cuore, severi, rigidi e noiosi. Dall’altra, i professori

vedono i ragazzi troppo frivoli e giocosi, quasi come se questo

atteggiamento fosse una minaccia per il loro ruolo14

.

Ci servirebbe un punto di incontro tra le due visioni, in modo tale

che le due parti si incontrassero su un terreno neutrale.

Come ogni cosa, la verità sta nel mezzo; e nel mezzo in questo

caso c’è anche il ridere.

Ridere, infatti, accorcia le distanze, elimina visioni distorte della

realtà e del rapporto con gli altri, crea complicità e senso di amicizia.

È una risorsa di cui dispongono sia studenti che docenti, è

l’emozione positiva più potente che abbiamo, lo strumento di

comunicazione, non verbale, più facilmente interpretabile a

qualunque lato della terra e da qualsiasi generazione, il modo più

facile per migliorare le relazioni, avvicinare le persone e risolvere i

conflitti. Inoltre, cosa non indifferente, è la risorsa relazionale più

facile da trovare in natura, dal momento che ogni cosa è

potenzialmente causa di riso.

In poche parole, possiamo dire, che si ride ancora troppo poco e

male. (continua…)

14

FORABOSCO G., Il settimo senso: la psicologia del senso dell’umorismo,

Franco Muzzio Editore, Padova 1994.

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Analisi dei Risultati

“Beati quelli che sapranno ridere di sé stessi,

perchè si divertiranno moltissimo!”

(Anonimo)

1. Risultati della ricerca

1.1 Risultati dell’osservazione partecipante

Il mio compito di osservatore scientifico è iniziato subito entrato

all’interno della scuola. Appena arrivato, infatti, c’era già tutto il

gruppo docenti che doveva partecipare al corso. Il gruppo era

formato da quattordici insegnanti.

La prima cosa che ho riscontrato è stata una formazione di tanti

piccoli gruppi ben definiti di docenti nel corridoio della scuola, che

non comunicavano tra loro. Il fatto un po’ mi ha colpito inizialmente,

credendo che gli insegnanti appartenessero tutti alla stessa scuola ed

immaginando, quindi, un diverso rapporto interpersonale tra di essi;

mi è stato tutto più chiaro, poi, quando ho saputo che in realtà gli

insegnanti non erano tutti della stessa scuola, ma provenivano da

scuole diverse di Fiumicino, e che, anche tra quelli appartenenti alla

stessa scuola di provenienza, la conoscenza reciproca non era molto

approfondita, ma si limitava ad un semplice rapporto di tipo

professionale.

Un’impressione simile l’ho avuta anche una volta giunti in aula.

Tutti i partecipanti erano seduti in modo composto aspettando

l’inizio della lezione. Gli scambi di comunicazione interpersonali

erano pochi e per lo più rivolti alla persona accanto, il tono della

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voce di tali comunicazioni era piuttosto sommesso, dando

l’impressione di una certa formalità nel rapporto.

Iniziato il corso, dopo le prime presentazioni e l’accenno alle

finalità del corso da parte del formatore, questi ha subito rotto il

ghiaccio raccontando tre barzellette per cercare di creare subito un

clima consono alle finalità poco seriose del corso.

Le tre barzellette erano molto forti a livello di contenuti:

toccavano infatti argomenti spesso delicati, come la sessualità,

l’aggressività e la religione, su cui non tutti apprezzano che si faccia

umorismo. Sono argomenti su cui incide molto la padronanza

dinamica del senso dell’umorismo di ognuno, cioè quella parte che

ha a che vedere con emozioni, affetti e sensibilità delle persone.

Durante i racconti, non ho notato segni metacomunicativi di

approvazione umoristica: intendo dire, cioè, che non c’erano

ammiccamenti, sorrisi, risolini e smorfie, che spesso accompagnano

l’ascolto di una barzelletta, facendo emergere, ancora una volta, la

rigidità dei partecipanti.

Ad ognuna delle tre barzellette c’è stata, comunque, come

risposta uno scrosciare di risate collettive, ma in modo comunque

contenuto, senza, cioè, eccessivi attacchi di riso da parte di qualcuno

o commenti alla storiella raccontata. Sono risultati assenti anche

controbattute di replica alla barzelletta stessa. Forse, le battute forti e

a sfondo sessuale, hanno frenato il gradimento dei partecipanti e

inibito l’intensità delle risate, temendo probabilmente di essere

giudicati dai colleghi. Dietro questa risposta contenuta agli stimoli

risori, non vedo solamente una probabile rigidità personale, ma anche

un freno di tipo relazionale, generato dal timore di essere giudicati

dagli altri di eccessiva frivolezza nel ridere di cose simili.

(continua…)

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