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quaderni di geostrategia registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma 13 13 2010 maggio-giugno numero 57 anno XI euro 10,00 Il deserto delle speranze Corruzione, fuga di capitali, poca governance e boom demografico CARLO JEAN Non solo una terra di miniere L’economia non decolla, ma qualche virtuoso c’è. Come il Botswana ROBERTO CAJATI Neocolonialismo in salsa cinese Sotto l’egida “infrastrutture per risorse” Pechino scala il Continente, ma non l’aiuta HOWARD W. FRENCH Guazzabuglio Africom Comando in Germania, Esercito a Vicenza e Marina a Napoli: per gli Usa non è facile ANDREA NATIVI Il business dei pasdaran Emanuele Ottolenghi La rock star del Medioriente Marta Ottaviani L A L T R A A F R I C A • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

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La Fondazione liberal è nata a Roma nel 1995 intorno al mensile liberal per iniziativa di Ferdinando Adornato che propose ad alcuni protagonisti del mondo culturale, economico ed istituzionale, di fondare un think-thank, un laboratorio culturale, con il proposito di favorire lo sviluppo dei valori etici e politici del pensiero liberale laico e cattolico e di far sì che essi, dall’uomo e dalla società, si trasmettano nella famiglia, nelle comunità locali, nel sistema produttivo, nelle istituzioni pubbliche e nelle organizzazioni internazionali.

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quaderni di geostrategiaregistrazione Tribunale di Roma n.283

del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

1313 2010maggio-giugno

numero 57anno XIeuro 10,00

Mario Arpino

Pietro Batacchi

Roberto Cajati

Pierre Chiartano

Howard W. French

Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Carlo Jean

Valérie Miranda

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Michele Nones

Marta Ottaviani

Emanuele Ottolenghi

Nicoletta Pirozzi

Maurizio Stefanini RIS

KM

AG

GIO

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GN

O20

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L’ALT

RA

AFR

ICA

Il desertodelle speranzeCorruzione, fuga di capitali,poca governance e boom demografico

CARLO JEAN

Non solo una terradi miniereL’economia non decolla, ma qualche virtuoso c’è. Come il Botswana

ROBERTO CAJATI

Neocolonialismoin salsa cineseSotto l’egida “infrastrutture per risorse”Pechino scala il Continente, ma non l’aiuta

HOWARD W. FRENCH

GuazzabuglioAfricomComando in Germania, Esercito a Vicenzae Marina a Napoli: per gli Usa non è facile

ANDREA NATIVI

Il business dei pasdaranEmanuele Ottolenghi

La rock star del MediorienteMarta Ottaviani

L’ALTRAAFRICA

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• DOSSIER •

Il deserto delle speranzeCarlo Jean

L’Unione africana e la speranza NepadValérie Miranda

Non solo una terra di miniereRoberto Cajati

Neocolonialismo in salsa cineseHoward W. French

Un continente di conquistaNicoletta Pirozzi

Tutte le guerre dimenticateMaurizio Stafanini

Guazzabuglio AfricomAndrea Nativi

Il fallimento dei caschi bluPietro Batacchi

pagine 5/51

• Editoriali •

Michele NonesStranamore

pagine 52/53

• SCENARI •

Il business dei pasdaranEmanuele Ottolenghi

La rock star del MediorienteMarta Ottaviani

pagine 54/63

• SCACCHIERE •

Unione EuropeaAlessandro Marrone

America LatinaRiccardo Gefter Wondrich

AfricaMaria Egizia Gattamorta

pagine 64/67

• LA STORIA •

Virgilio Ilari

pagine 68/73

• LIBRERIA •

Mario ArpinoPierre Chiartano

pagine 74/79

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Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma.Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma.

Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email [email protected]

Amministrazione Cinzia RotondiAbbonamenti 40 euro l’anno Stampa Centro Rotoweb s.r.l.

via Tazio Nuvolari, 3-16 - 00011 - Tivoli Terme (Rm)Distribuzione Parrini s.p.a. - via Vitorchiano, 81 00189 Roma

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000

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DIRETTOREAndrea Nativi

CAPOREDATTORELuisa Arezzo

COMITATO SCIENTIFICOMichele Nones

(Presidente)Ferdinando Adornato

Mario ArpinoEnzo Benigni

Vincenzo CamporiniAmedeo Caporaletti

Carlo FinizioPier Francesco Guarguaglini

Virgilio IlariCarlo Jean

Alessandro Minuto RizzoRemo PerticaLuigi Ramponi

Stefano SilvestriGuido VenturoniGiorgio Zappa

RUBRICHEArpino, Incisa di Camerana,

Chiartano, Ilari, J. Smith,Gattamorta, Gefter Wondrich,

Marrone, Ottolenghi, Tani

Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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L’ALTRA AFRICA

Ogni anno, in occasione dei G8 e dei G20 siparla di Africa, poi tutto viene dimenticato. Inquesto 2010, però, l’attenzione riservata alContinente Nero è stata fagocitata dai mon-diali di calcio sudafricani. E adesso, spente leluci degli stadi, il tema è già diventato, comedire, indigesto. Soprattutto se si vuole parlaredell’Altra Africa: non quella che ha brillato aJohannesburg (a cui abbiamo già dedicatoun intero numero di Risk) né tantomeno quel-la che si affaccia sul Mediterraneo, la più vici-na all’Italia e dunque più navigata dai media(anche in questo caso abbiamo già pubblica-to un numero monografico di Risk), bensìquella centrale e subsahariana, dilaniata daconflitti, corruzione e malattie. ma anche terradi opportunità e investimenti. A dir il vero, piùstranieri che nazionali. La speranza è che simetta in moto un motore virtuoso, che però,in assenza di una sana governance, è anco-ra spento.

Ne scrivono: Batacchi, Cajati, French, Jean,Miranda, Nativi, Pirozzi e Stefanini

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invalicabile. È stato percorso sin dall’antichità da viecarovaniere che si appoggiavano alle catene di oasi. ASud confina con l’Africa Australe, spesso inclusanell’Africa sub-sahariana, poiché molti degli Stati, chene fanno parte, interagiscono strettamente con il SudAfrica, dal Mozambico all’Angola e dalla Zambia alloZimbabwe. Inoltre, l’influenza geopolitica del SudAfrica si estende anche più a Nord, grazie soprattutto alprestigio di cui gode l’ex presidente Mandela e all’effi-cienza delle sue Forze Armate. Spesso si attribuiscono le difficoltà dell’Africa alla fram-mentazione derivata dal fatto che i confini amministrati-vi furono trasformati in politici all’atto della decoloniz-zazione. Ma non è la frammentazione ad ostacolarne losviluppo. È l’inefficiente e corrotta governance e l’as-senza del rapporto Stato-società. L’Africa sub-sahariana possiede talune caratteristichecomuni: la crescita demografica, la ricchezza mineraria,la povertà, l’instabilità geopolitica, il prevalere dei con-flitti interni e di secessione su quelli fra gli Stati, l’abnor-me incidenza di malattie come l’Aids. Negli ultimi cin-quant’anni, due soli conflitti sono scoppiati fra Stati:quello, negli anni 1990, fra l’Eritrea e l’Etiopia, che èstato un conflitto di secessione, e quello fra Tanzania ed

Uganda nel 1970. Gli Stati dell’Africa sub-saharianasono pseudo-Stati. Non sono riusciti a creare una nazio-ne o un’identità comune. Sono divisi in etnie, tribù e clanspesso in competizione fra loro, per impossessarsi dellerisorse. Non sono stati creati dagli africani, ma dallepotenze europee, le cui colonie in Africa sub-sahariananon sono state di popolamento, come nelle Americhe,ma di sfruttamento. Inoltre, gli insediamenti europeierano rimasti prevalentemente limitati alle regionicostiere. I confini sono stati tracciati indipendentementeda ogni considerazione etnica e culturale, secondo leregole definite nella conferenza di Berlino del 1884-85.E lo sfruttamento continua da parte delle élites africane,che hanno inteso la sovranità come occasione di arric-chimento e che trasferiscono all’estero da 20 a 40 miliar-di di dollari all’anno. Dopo la decolonizzazione – in parte promossa da élitesformatesi nelle università europee, ma spesso sostenutedall’Urss, oppure selezionate dalle stesse potenze colo-niali - l’Africa fu vittima, durante la guerra fredda, dellalotta per l’influenza fra gli Stati Uniti e l’UnioneSovietica. Le vecchie potenze coloniali europee cerca-vano dal canto loro di proteggere i loro connazionali egli interessi delle compagnie minerarie. Per far questo,

NESSUNA GOVERNANCE, CORRUZIONE, FUGA DI CAPITALI, BOOM DEMOGRAFICO

IL DESERTO DELLE SPERANZEDI CARLO JEAN

Africa sub-sahariana, detta anche “Africa nera” per distinguerla da quella“bianca” settentrionale, è la regione situata a Sud del deserto del Sahara. Èraccordata ad esso dal Sahel, che significa “la spiaggia” su cui termina il maredi sabbia. Solo la vallata del Nilo mette in comunicazione l’Africa sub-saha-riana con il Mediterraneo. Il deserto non ha però mai costituito una barriera

DossierD

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provocavano anche guerre civili e secessioni, sostenen-do una fazione contro le altre e ricorrendo anche a mer-cenari ed a compagnie militari private. L’Urss, dal cantosuo, impiegò in Africa decine di migliaia di soldati cuba-ni. I conflitti sono tuttora endemici e molto sanguinosi.Hanno bloccato lo sviluppo, reso complessa e costosa lavalorizzazione delle risorse naturali e provocato milionidi rifugiati, raccolti in campi da cui le bande armatereclutano i loro componenti, che spesso sono bambini-soldato. L’Africa sub-sahariana non è unitaria. È moltodifferenziata fra le sue varie regioni geopolitiche: ilSahel a Nord, l’Africa Occidentale, l’Africa Centrale, laRegione di Grandi Laghi, l’Africa Orientale ed il Cornod’Africa. Dopo quarant’anni dall’indipendenza, l’Africaha conosciuto nel primo decennio del XXI secolo unacerta crescita economica, dovuta soprattutto alla compe-tizione fra Cina, Stati Uniti ed Europa - a cui recente-mente si è aggiunta l’India - per accaparrarsi le sue mate-rie prime, il cui prezzo era salito notevolmente. Gli inve-stimenti cinesi, europei ed americani e l’alto prezzo dellecommodities hanno consentito, dal 2000 alla crisi mon-

diale del 2008, un aumento del Pil medio dell’interosubcontinente del 4-5% all’anno. Aspenia - registrandotale fatto - ha denominato l’Africa continente “grigio”,anziché “nero”. Ma le condizioni per lo sviluppo e lastabilizzazione dell’area sono ancora tutte da inventare. Il potenziale che l’Africa sub-sahariana potrebbe espri-mere è utilizzato solo in minima parte, soprattutto per ladebolezza delle istituzioni, la corruzione, l’instabilitàetnica e tribale e la fuga di capitali e di cervelli all’este-ro, a cui si è aggiunta la riduzione dell’entità degli aiutioccidentali e l’aumento del prezzo dei generi alimenta-ri e del petrolio, l’esplosione della popolazione e le pan-demie che devastano il continente. Tutto ciò ha resodrammatica la situazione in molti Stati. Il collasso degliStati africani rappresenta una sfida globale. Esiste, infatti, il rischio di contagio nei continenti limi-trofi e l’incertezza dei rifornimenti di commoditiesessenziali. Nel continente, agiscono molte Ong umani-tarie, religiose e non, spesso attirate da un senso di colpacollettivo degli europei nei riguardi dello schiavismo edel passato coloniale dell’Europa. La loro azione è statastigmatizzata da Bernard Kouchner - fondatore dei“Medici senza frontiere” ed attuale ministro degli Esterifrancese – perché ha contribuito ad aumentare l’instabi-lità. Molte Ong hanno finanziato le bande armate pergarantirsi la loro protezione. Spesso hanno deresponsa-bilizzato le élites locali, provvedendo ai bisogni fonda-mentali della popolazione. Gli aiuti farmaceutici e sani-tari hanno poi rotto la connessione fra crescita demogra-fica ed economica, creando una “bomba demografica”che – oltre ad aumentare i conflitti interni ed accrescerela dipendenza da potenze straniere – potrebbe coinvol-gere l’Europa. Sotto il profilo della sicurezza globale,dal Corno d’Africa alla zona dei Grandi Laghi e alCongo nord-orientale, per prolungarsi fino al Sudanmeridionale e al Darfur, i conflitti sono endemici edimpediscono la crescita, eccetto quella demografica, sti-molata anche dagli aiuti in campo sanitario che i paesiafricani ricevono dalla comunità internazionale. Inoltre,sia in Somalia, Eritrea e Sudan sia in Nigeria e nellasezione nord-orientale del Sahel - dalla Mauritania alMali - preoccupante è la penetrazione del radicalismo

Gli Stati dell’Africa sub-sahariana sono pseudo-Stati. Non sono riusciti a creare una nazione o un’identità comune. Sono divisi in etnie, tribù e clan spesso in competizionefra loro, per impossessarsidelle risorse. Non sono staticreati dagli africani, ma dallepotenze europee, le cui colonie in Africa sub-sahariana non sono state di popolamento, come nelleAmeriche, ma di sfruttamento

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islamico. Osama bin-Laden ha indicato nella Nigeria ilpaese nel quale si deciderà la lotta fra l’Islam e laCristianità. E la Nigeria, divisa fra musulmani al Nord ecristiani ed animisti a Sud, gioca già un ruolo importan-te nel mercato energetico. Taluni esperti valutano che idisordini del Delta del Niger abbiano causato nel 2008un aumento del 20% del prezzo del greggio. A nord-ovest, nel Sahel, il radicalismo islamico locale è collega-to con l’Aqim (al-Qaeda in the Islamic Maghreb) ed èsostenuto dal Sudan; e quello del Corno d’Africa, inSomalia ed Eritrea, con l’Aqap (al-Qaeda in the ArabicPeninsula). Egitto, Etiopia e Nigeria sono gli Stati conforti minoranze cristiane in lotta contro l’Islam. In essi,sono particolarmente attive le missioni evangeliche,considerate dalle popolazioni musulmane una “quintacolonna” di Washington. In Africa vivevano 200 milioni di persone nel 1950.Oggi hanno raggiunto il miliardo e sfioreranno i due nel2050. L’Africa registrerà, quindi, nei prossimi quaran-t’anni quasi la metà dell’aumento mondiale della popo-lazione. Nigeria, Congo, Uganda ed Etiopia – tutti Statisub-sahariani – sono tra i dieci paesi che, nei prossimiquarant’anni, registreranno il più consistente aumentodella popolazione. La crescita è concentrata soprattuttonell’Africa sub-sahariana, dato che in quella settentrio-nale si è quasi raggiunta la “soglia della transizionedemografica”, con la diminuzione del numero di figliper donna da 6-7 a 2-2,5.Il peso demografico dell’Africa nel mondo sta aumen-tando rapidamente. Era del 8,8% nel 1950; ha superatoil 15% nel 2010; raggiungerà il 21,7% nel 2050. Sotto ilprofilo demografico è agli antipodi dell’Europa che,dopo aver popolato nel XVIII e XIX secolo leAmeriche e l’Australia, rappresentava nel 1950 anco-ra il 21,6% della popolazione mondiale, sceso al10,6% nel 2010 e che calerà ancora al 7,2% nel 2050.Inoltre, la popolazione europea sta invecchiando, men-tre quella africana è la più giovane del mondo. Talidivari demografici non incidono se non indirettamen-te sulla sicurezza dell’Europa. La potenza militaredipende dalla tecnologia, non dalla demografia. Esisteperò il rischio di un aumento dell’instabilità interna

africana, di difficoltà per i rifornimenti energetici e dimaterie prime e di immigrazioni che, per motivi uma-nitari, l’Europa non può bloccare.La differenza dell’età mediana fra le popolazioni africa-ne ed europee illustra come il divario con l’Europa staaumentando drammaticamente. Nel 2005 erano rispetti-vamente di 38,9 anni per l’Europa e di 18 per l’Africasub-sahariana. Nel 2050 si prevede che l’età mediana siaper l’Europa di 47,3 anni e per l’Africa sub-sahariana di26. Anziché verificarsi una convergenza, come fra gliUsa e l’Asia Orientale, il divario aumenta. Dato che lapopolazione giovane è più aggressiva di quella anzianae che i mezzi d’informazione di massa raggiungonobuona parte dell’Africa, è prevedibile che aumentinodelle tendenze ad immigrare verso Nord. Esse nonpotranno essere contrastate né dal deserto né dai paesidell’Africa Bianca, sempre più integrati nell’Ue e conuna demografia meno dinamica. Si determineranno altrisanguinosi conflitti. Essi freneranno la crescita, aumen-teranno le spinte immigratorie, soprattutto delle classimedie, di cui l’Africa ha peraltro un bisogno disperatoper svilupparsi e stabilizzarsi.

Per quanto riguarda le materie prime rare, chesolo l’Africa può fornire, sarebbe necessaria una strate-gia nazionale - possibilmente concordata in ambitoeuropeo - per garantirne ai nostri paesi l’approvvigiona-mento. Occorrerebbe effettuare investimenti mirati alungo termine per garantire l’utilizzazione delle risorseafricane ed evitarne l’accaparramento da parte dei cine-si, indiani ed americani. Tali accordi dovrebbero costi-tuire parte integrante degli aiuti allo sviluppo concessidall’Europa all’Africa e dovrebbero includere predispo-sizioni anche militari per garantirne il rispetto. Il continente più interessato a farlo sarebbe l’Europa.Ma, a parte le sue divisioni politiche e debolezze milita-ri, gli interessi materiali immediati dell’Europa in Africastanno diminuendo ed il costo per realizzarli sta salendo.La minaccia di emigrazioni massicce, di pandemie edell’interruzione dei rifornimenti minerari è troppo alungo termine per essere presa in carico dalla politica deipaesi democratici, che stanno dibattendosi per superare

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la crisi del 2008-9. Gli Stati europei, intervenendo inAfrica, temono poi di assumersi l’onere di provvederealla sicurezza degli investimenti cinesi ed americani edi imbarcarsi in avventure impopolari e senza speran-za. Gli interventi sono attualmente giustificati soloquando sono finalizzati a salvaguardare connazionaliin pericolo, come è avvenuto per l’intervento dell’Ue aguida francese a Kolwesi nel Congo ex-belga, oppurele operazioni umanitarie in cui sono coinvolte Ong conforte appeal elettorale. Parlare di interventi per salva-guardare interessi economici (eccetto contro la pirate-ria) suscita un pandemonio simile a quello che hacostretto alle dimissioni il presidente della Germaniaper talune dichiarazioni rilasciate durante un suo viag-gio in Afghanistan. Egli aveva affermato che le truppetedesche difendevano in quel paese anche interessieconomici. Apriti cielo! È stato accusato di neocolo-nialismo. Per uno scherzo del destino, qualche giornodopo, l’Agenzia federale mineraria Usa ha affermatoche l’Afghanistan possiede risorse minerarie per alme-no un trilione di dollari! I tentativi di stabilizzare i vari Stati africani - con opera-zioni di peacekeeping, con aiuti allo sviluppo e, soprat-tutto, con il miglioramento della governance - incontra-no difficoltà. Che sembrano insormontabili anche nelmedio periodo. Dopo il ritiro dalla Somalia, nel 1994,nessuno vuole più impegnarsi a fondo. Anche se l’Onudedica all’Africa 5 dei 7 miliardi stanziati complessiva-mente per le operazioni di pace, le esigenze africanesono solo parzialmente soddisfatte. Il recente rapportosulla Pesc e Pesd dell’Istituto Studi di Sicurezza dell’Uenon menziona neppure l’eventualità di interventi si sta-bilizzazione nell’Africa Sub sahariana, limitandosi aipaesi della sponda Sud del Mediterraneo.

Per quanto concerne il miglioramento dellagovernance, le pressioni sui governi africani esercitabilidai governi europei sono limitate non solo dal senso dicolpa per il loro colonialismo, ma anche dal fatto che icinesi, non facendo “prediche” sulla democrazia e suidiritti umani, ottengono facilitazioni dai governi, spessoa danno delle imprese europee ed americane. La propo-

sta di troncare gli aiuti e le relazioni diplomatiche e diespellere dalle istituzioni internazionali gli Stati africanicon i peggiori standard di governance – formulatasull’International Herald Tribune del 15 giugno daPierre Eglebert nell’articolo Remaking Africa – è deltutto irrealistica. Potrebbe anzi peggiorare la situa-zione. I “signori della guerra” e le loro bande potreb-bero provocare secessioni, impadronendosi delleregioni più ricche di risorse minerarie. Tale rischio èaumentato a seguito dei mutamenti verificatisi intutto il mondo nel finanziamento delle guerre civilidopo la fine della guerra fredda. Esse non sono piùsostenute dagli Usa o dall’Urss, ma si alimentanosaccheggiando le risorse naturali e taglieggiando lepopolazioni. Inoltre, se si adottasse tale mezzo dipressione, si rinuncerebbe all’utilizzazione delleorganizzazioni regionali africane e, soprattutto,dell’Unione Africana, che male o bene, esprimono unacerta capacità di contenimento dei conflitti. Basta esaminare le conclusioni del rapporto commissio-nato dall’Onu a Romano Prodi, su come migliorare gliinterventi di peacekeeping e gli aiuti allo sviluppo inAfrica, per rendersi conto di come la situazione sia criti-ca. Essa è connessa anche con il fatto che, se gli Usahanno costituito Africom e si appoggiano a potenzeregionali come l’Etiopia e l’Uganda, la Cina mantieneun profilo molto più basso, anche per il timore di essereaccusata di voler ri-colonizzare l’Africa per potersiimpadronire delle sue ricchezze minerarie. Lo fa in real-tà anche perché europei ed americani le “tolgono lecastagne dal fuoco”, proteggendo i suoi investimenti,come d’altronde si verifica in Afghanistan. Per la Cina,oltre che continente di espansione geopolitica, l’Africa èun promettente mercato. La Cina ha in Africa 2-300.000tecnici, mentre un terzo degli studenti stranieri nelle uni-versità cinesi è africano. Particolarmente importantisono le ricchezze petrolifere del Golfo di Guinea, dallaNigeria all’Angola, che potrebbero soddisfare il 25-30%del fabbisogno mondiale, rispetto al 12% attuale. GliUsa, anche per affrancarsi dalla dipendenza dai paesi delGolfo, stanno aumentando le loro importazioni di petro-lio dall’Africa. La Cina ne importa però già il 25% delle

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proprie esigenze, seguita a ruota dal Giappone. Il petro-lio del Golfo di Guinea è particolarmente pregiato sulmercato mondiale per il suo ridotto contenuto di zolfo,che ne riduce i costi di raffinazione. La già grave insta-bilità dell’intera Africa sub-sahariana sembra destinataad aggravarsi, con pesanti conseguenze sulle prospetti-ve di sviluppo del continente. Spesso i leader africani,per giustificarsi di fronte all’opinione pubblica interna-zionale - di quella interna non si curano più di quel tanto,poiché mantengono il loro potere con la forza - attribui-scono la responsabilità di tutti i mali dei loro paesi allatratta degli schiavi prima, ed al colonialismo europeo,poi. Bene ha fatto il presidente Barack Obama, nel suodiscorso in Ghana, ad invitare i responsabili africani anon piangersi addosso, ma a darsi da fare per migliora-re le condizioni dei loro popoli.Le difficoltà dovute all’enorme aumento demograficosono rese più drammatiche dalla prospettiva di cambia-menti climatici. Essi potrebbero desertificare regionioggi produttive ed originare carestie ancora più deva-stanti delle attuali. La crisi economica del mondo indu-strializzato ha inoltre diminuito sia l’entità degli aiuti allosviluppo sia le possibilità d’interventi di stabilizzazione.I primi, ormai si limitano alle emergenze alimentari.Trascurano la crescita economica e la necessità del-l’istruzione, per superare il cosiddetto digital divide conil resto del mondo.I problemi dell’Africa sub-sahariana non sono risolvibi-li senza un netto miglioramento della governance deisingoli Stati ed un aumento d’efficienza delle istituzioniregionali e subregionali. Qualche vantaggio potrebbeessere tratto da un maggiore coordinamento degli aiuti eda una minore competizione fra gli Stati avanzati negliinterventi internazionali. Sarebbe necessario farlo alme-no tra quelli dell’Ue (anche nell’ambito della Pesd) equelli americani di Africom, che riguarda anche aspettipropri del soft power. Gli interventi esterni per la stabi-lizzazione dei vari paesi non possono essere solo milita-ri, anche se la forza è talvolta indispensabile. Devonoessere globali - di soft e hard power combinati nellosmart power su cui spesso insiste il Segretario di StatoUsa, Hillary Clinton - che vanno volti, innanzitutto, a

bloccare i finanziamenti delle guerre civili che insangui-nano il continente. Generalmente, esse sono “guerredimenticate”, ignorate dai media occidentali, forseanche per non provocare richieste di intervento da partedelle opinioni pubbliche emozionate dalle immagini difame e massacri. Ignorandoli, l’Occidente difende anchela propria buona coscienza!La crisi economica ha avuto conseguenze molto diversenei vari paesi sub-sahariani. Ha riguardato soprattuttol’esportazione di risorse naturali, energetiche e minera-rie. I paesi che le producono - e che sono i più ricchi -hanno subito consistenti perdite. Il tasso di crescita èsceso complessivamente dal 5,4% nel 2008 all’1,7% nel2009. Si è verificato altresì un deterioramento dellabilancia dei pagamenti e del deficit di bilancio. Quellimeno sviluppati, che hanno un’economia basata su diun’agricoltura di sussistenza, hanno sofferto meno,anche perché non possono soffrire più di quanto già oggisubiscano. Danni sono derivati loro dall’aumento deiprezzi dei prodotti alimentari, conseguenti anche aimaggiori prezzi degli idrocarburi, essenziali anche per i

In Africa vivevano 200 milionidi persone nel 1950. Oggihanno raggiunto il miliardo e sfioreranno i due nel 2050.L’Africa registrerà, quindi, nei prossimi quarant’anniquasi la metà dell’aumentomondiale della popolazione.Nigeria, Congo, Uganda edEtiopia, tutti stati sub-sahariani,sono tra i dieci paesi che, nel prossimo futuro, registreranno il più consistente aumento della popolazione

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concimi. Complessivamente, l’Africa ha però subitomeno danni del mondo industrializzato. Il commercione ha risentito solo parzialmente, soprattutto per la rapi-da ripresa della Cina e per quella crescente dell’India edel Sud-Est asiatico.Sono da registrarsi anche taluniaccordi che stimolano la cooperazione Sud-Sud, nonchégli sforzi dell’Unione Africana di sviluppare una“Architettura Africana di Pace e Sicurezza”, secondo iprincipi stabiliti dalla Risoluzione 1809 del Consiglio diSicurezza. Essa comprenderà cinque comandi regionalie un sistema di early warning. Per ora rimane soprattut-to una buona intenzione o, tutt’al più un progetto, date lesue carenze finanziarie e di capacità, nonché per la dif-ficoltà di trovare un consenso politico. Lo impedisconola disomogeneità e le numerose tensioni esistenti fra gliStati membri del’Unione Africana. L’Ue appoggia l’ini-ziativa con un programma denominato African PeaceFacility che è un trust multidonors, dell’ammontare di300 milioni di euro. Ma i risultati sono marginali. Quelloche va registrato è il fatto che la penetrazione cinese staerodendo l’accettazione da parte degli Stati africani delWashington Consensus (il benessere deve portare allademocrazia, alle liberalizzazioni e al libero mercato) e lasua sostituzione con il Bejing Consensus (di cui Pechinonega peraltro l’esistenza) e che permette la coesistenzadi regimi autoritari con la liberalizzazione economica el’apertura al commercio mondiale. Anche il Fmi hapreso atto di tale nuova situazione, adottando nella con-cessione dei suoi prestiti una maggiore flessibilità. Ma,come accennato, senza un netto miglioramento dellagovernance dei vari Stati, i positivi impatti delle misureadottate per armonizzare a livello continentale il dirittocommerciale, per sviluppare mercati finanziari regiona-li e per adeguare la politica degli aiuti allo sviluppo,saranno in gran parte vanificati. La valorizzazione dellerisorse africane è ostacolata dalla carenza del sistemainfrastrutturale. I massicci investimenti che stannofacendo i cinesi nel settore potranno migliorare la situa-zione. Non dovrebbero essere considerati dall’Europauna minaccia, ma un’opportunità di sviluppo locale.Quindi, di attenuazione delle potenziali ondate immi-gratorie verso Nord.

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“AFRICA MUST UNITE” È IL LEIT MOTIV DELL’INTEGRAZIONE AFRICANA, MA È ANCORA UN SOGNO

L’UNIONE AFRICANA E LA SPERANZA NEPADDI VALÉRIE MIRANDA

ra le sfide principali che l’Africa ha dovuto affrontare agli inizi nel nuovomillennio c’era la creazione di un’organizzazione che rappresentassel’intero continente nel nuovo panorama internazionale e che offrisseuna “soluzione africana ai problemi africani” meglio di quanto fatto inpassato. Con tali auspici, al Vertice di Durban (Sudafrica) del luglio 2002

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è stata lanciata l’Unione Africana (Ua) che si è sostitui-ta, raccogliendone la pesante eredità, all’Organizza-zione per l’Unità Africana (Oua). L’Ua riunisce oggitutti gli Stati africani, ad eccezione del Marocco che, giànel 1984, aveva abbandonato l’Oua per protesta control’ammissione, in qualità di Stato membro, dellaRepubblica araba democratica Saharawi (il Saharaoccidentale), su cui il Marocco rivendica tuttora lasovranità. I fattori che avevano condotto nel 1963 allacreazione dell’Oua traevano origine essenzialmentedagli ideali panafricanisti, secondo cui gli Stati africani,soltanto se uniti, potevano uscire vincenti dalla domina-zione coloniale e razzista e garantire standard di vitamigliori alla popolazione. Gli obiettivi primari dell’Ouaerano quindi l’integrazione del continente, la liberazio-ne dal giogo coloniale e anche la lotta al regime di apar-theid allora vigente in Sudafrica, ultimo avampostodella minoranza bianca.Se l’Oua è riuscita con successo a portare a compimen-to il processo di decolonizzazione, il suo operato è statogiudicato sostanzialmente fallimentare nel fornire unarisposta ai problemi emersi nel continente all’indomanidel colonialismo e nell’intervenire con fermezza nelle

gravi crisi politiche, economiche e di sicurezza chel’hanno colpito. L’Oua è stata certamente figlia del suo tempo, ma già a15 anni dalla nascita erano evidenti i suoi limiti. Vittimadei contrasti e dei giochi di potere tra i suoi Stati mem-bri, l’Organizzazione ha bloccato sul nascere qualsiasievoluzione in senso sovranazionale, dando un’interpre-tazione stato-centrica della sua Carta istitutiva e arenan-dosi nel ruolo di “club di mutua preservazione”.Applicando rigidamente i principi di non-interferenza edi non-ingerenza negli affari interni di uno Stato, i suoiinteressi principali erano infatti la protezione dei confi-ni, dell’integrità territoriale e della sovranità dei suoimembri, chiudendo anche un occhio su alcuni dei peg-giori dittatori dell’epoca, come Idi Amin Dada inUganda, presidente dell’Oua dal 1975 al 1976, proprionegli anni del massacro contro la popolazione ugande-se. Nei primi anni ‘90, la fine della guerra fredda, la glo-balizzazione e il maggiore disimpegno in Africa dellepotenze occidentali hanno determinato la crescentemarginalizzazione del continente nel panorama interna-zionale e hanno reso manifesta la debolezza strutturaledell’Oua. Nonostante il timido impegno nella preven-

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zione e gestione dei conflitti, la cronica mancanza dirisorse e il prevalere di politiche particolaristiche daparte dei singoli Stati membri hanno ostacolato l’opera-to dell’Organizzazione. Inoltre, nel 1994, con la fine delregime di apartheid e le prime elezioni multirazziali inSudafrica era venuto meno il principale motivo di coe-sione tra i suoi Stati membri. L’Oua, incapace di pro-muovere adeguatamente lo sviluppo, la pace e la sicu-rezza nel continente, andava così incontro ad una crisiormai irreversibile.Richieste per riformare l’Oua e i suoi meccanismi diintervento erano già state avanzate nel corso degli anni‘80, ma, ad esclusione di modifiche minime, non ave-vano avuto grande seguito. La svolta è avvenuta con ilSummit straordinario di Sirte nel settembre 1999 quan-do i Capi di Stato e di Governo africani hanno espressola volontà di istituire una nuova organizzazione,l’Unione Africana, tra l’altro già prevista dal Trattato diAbuja del 1991 che aveva invece posto le basi per laprogressiva creazione della Comunità Economica

Africana (Aec). Di impulso a questa trasformazione èstato anche il relativo successo dell’ondata di democra-tizzazione che ha investito il continente negli anni ‘90 eche, anche su pressione di una società civile più forte,richiedeva un’organizzazione maggiormente conformeai principi di democrazia, trasparenza e responsabilità.La neonata Unione, dotata di una struttura in parte ispi-rata a quella dell’Unione Europea, con un’Assembleadei Capi di Stato e di Governo quale massimo organodecisionale, una Commissione con funzioni di segreta-riato, un Consiglio Esecutivo, un ParlamentoPanafricano e, ancora in fase di costituzione, una Cortedi giustizia e istituzioni finanziarie, era, secondo i lea-der africani, lo strumento migliore per affrontare lepoliedriche sfide del nuovo millennio. Gli obiettivi e iprincipi della nuova Organizzazione, enunciati negliarticoli 3 e 4 dell’Atto Costitutivo, rappresentano unasintesi delle due visioni che avevano animato il dibatti-to precedente alla sua nascita: il revival panafricanista,di cui si è fatto portavoce il leader libico Gheddafi, e ilconcetto di “Rinascita africana” dell’ex-presidentesudafricano Thabo Mbeki, secondo cui il rilanciodell’Africa poteva avvenire solo se il continente avessepreso in mano il proprio destino sfruttando al massimotutte le risorse umane e naturali disponibili. I principidell’Ua, benché strettamente correlati, possono essereper semplicità distinti in tre categorie: i principi tradi-zionali ereditati dall’Oua; le novità nel settore dellapace e della sicurezza; e quelli sulla promozione dellosviluppo economico e sociale, incluse le misure a favo-re della democrazia e del buon governo.Per quanto riguarda il primo gruppo, non vi sonosostanziali differenze, almeno nei toni, rispetto ai prin-cipi che ispiravano l’Oua. Il riferimento chiave è sem-pre allo slogan Africa must unite che rievoca con piùvigore l’ideale pan-africanista rilanciato da Gheddafi.La principale novità rispetto al passato è il parzialeabbandono di una visione stato-centrica a favore di unache riservi maggiore attenzione al popolo africano, chepreveda un più ampio coinvolgimento della societàcivile e che favorisca la creazione di partnership tra ilgoverno e il mondo imprenditoriale. Per ora, tuttavia,

L’Ua, dotata di una strutturain parte ispirata a quelladell’Unione Europea, con un’Assemblea dei capi di stato e di governo, unaCommissione con funzionidi segretariato, un ConsiglioEsecutivo, un ParlamentoPanafricano e, ancora incostituzione, una Corte digiustizia e istituzioni finanziarie era, secondo i leader africani, lo strumento migliore per affrontare le sfide del nuovo millennio

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tale obiettivo non sembra risultare prioritario: basti pen-sare che il Consiglio economico, sociale e culturale(Ecosocc), responsabile sulla carta dell’attuazione diquesto principio, e il Parlamento panafricano (Pap) nondispongono ancora di pieni poteri e non hanno ancoraun ruolo attivo nel rappresentare la voce del popoloafricano nel processo decisionale. Maggiori potenziali-tà per l’effettivo superamento dei limitidell’Organizzazione per l’Unità Africana sono, invece,insite nelle disposizioni sulla promozione della pace edella sicurezza, cui l’Ua ha riservato una crescenteattenzione, ponendo le basi per una progressiva “secu-ritizzazione” del progetto panafricano. Il punto crucialedi rottura con il passato è il superamento del divieto diingerenza negli affari interni di uno stato membro.Primo caso nel mondo, l’articolo 4(h) autorizza, infatti,l’Unione ad intervenire in uno stato membro in caso dicrimini di guerra o contro l’umanità e di genocidio, sudecisione dell’Assemblea dei Capi di Stato e diGoverno. Inoltre, viene riconosciuta agli stati membrila facoltà di richiedere l’intervento dell’Ua per il rista-bilimento della pace e della sicurezza nel proprio terri-torio (art. 4(j)). L’intervento dell’Unione sembra dunque trovare la suaragion d’essere nella protezione della popolazione afri-cana e dei suoi valori, istituzionalizzando così il princi-pio della Responsibility to Protect (Responsabilità diProteggere). Tuttavia, ancora una volta, la pratica noncorrisponde alla teoria e ci sono dubbi sul riconosci-mento in toto di tale principio, o almeno sulla sua attua-zione. Di fronte a diverse crisi nel continente, l’UnioneAfricana ha avuto infatti reazioni piuttosto ambigue:emblematica è stata la gestione della crisi in Darfur trail 2003 e il 2007 che, al contrario di quanto espressosulla carta, testimonia la perdurante attenzione versointeressi di potere a discapito della “responsabilità diproteggere” la popolazione dalle sofferenze di cui è vit-tima. Dal punto di vista operativo, l’Ua ha avviato nel2004 la costruzione di un’Architettura Africana di Pacee Sicurezza (Apsa), con al vertice un Consiglio di Pacee Sicurezza (ispirato al Consiglio di Sicurezza delleNazioni Unite), organo decisionale per la prevenzione,

gestione e risoluzione dei conflitti, che lavora a strettocontatto con il Commissario alla pace e alla sicurezza eal suo Dipartimento, benché fortemente sottodimensio-nato. Il Consiglio si avvale di un Meccanismo di Pacee Sicurezza, comprendente un Comitato degli StatiMaggiori Africani Riuniti e una Forza PanafricanaPermanente (African Standby Force, Asf) per missioniumanitarie e di mantenimento della pace. Quest’ultimadovrà essere schierabile nei dieci giorni successivi alloscoppio di una crisi e sarà composta da cinque brigateregionali (3.500-5.000 uomini ognuna), incardinate inaltrettante organizzazioni sub-regionali. Il piano inizia-le prevedeva la piena operatività dell’Asf entro il 2010.Tuttavia, considerati i notevoli ritardi subiti, tale sca-denza non potrà essere rispettata. Completano l’Apsaun “Gruppo dei Saggi” (composto da cinque eminentifigure africane impegnate nella prevenzione dei conflit-ti), un Sistema di allerta rapida a livello continentale(ancora in fase di dispiegamento, con funzioni di moni-toraggio e di allerta tempestiva su possibili conflitti) eun Fondo Speciale per la Pace per finanziare le opera-zioni di peacekeeping.

L’Unione Africana ha dato segnali positivirispetto all’Oua anche con riferimento alla promozionedello sviluppo economico e sociale del continente. Dalpunto di vista economico, l’Atto Costitutivo dell’Ua hatra i suoi obiettivi la promozione dello sviluppo soste-nibile del continente, la maggiore integrazione delleeconomie africane e la loro piena partecipazione alsistema economico mondiale. Strumento dell’Unionein tal senso dovrebbe essere il Nepad (New Partnershipfor Africa’s Development – Nuovo Partenariato per loSviluppo dell’Africa), proposto da Thabo Mbeki comegrande piano per la crescita economica del continentenel luglio 2001 nel pieno fermento della “RinascitaAfricana”. Il partenariato rappresenta l’impegno deileader africani per sradicare la povertà e promuovereuno sviluppo economico sostenibile, grazie soprattuttoa maggiori investimenti esteri nei settori delle infra-strutture, dell’agricoltura, dell’educazione e della sani-tà. Per rendere più attrattivi gli investimenti in Africa, il

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Nepad riserva particolare attenzione alla stabilità politi-ca e al buon governo dei paesi parte, tenuti in costantemonitoraggio con strumenti quali l’African PeerReview Mechanism (Aprm). Nonostante l’entusiasmocon cui è stato lanciato, i risultati ottenuti sono statifinora piuttosto scarsi. Alcuni aspetti problematici sem-brano essere l’eccessiva fiducia nei modelli macroeco-nomici di ispirazione neoliberista, l’insufficiente preoc-cupazione per le concrete esigenze di diffusione territo-riale dello sviluppo, l’attenzione solo formale che ipaesi ricchi hanno finora riservato al Piano e, infine, ledifficoltà di conciliare fattori come la cultura, la religio-ne e l’appartenenza etnica con le logiche di interessetipiche dell’economia. Il Nepad, concepito come pro-gramma speciale dell’Oua prima e dell’UnioneAfricana poi, è stato integrato a pieno nelle strutturedell’Organizzazione solo recentemente. Nello scorsofebbraio, durante l’ultimo Summit dell’Ua ad AddisAbeba, è stata infatti creata, all’interno dell’Unione,l’Agenzia per la Pianificazione e il Coordinamento delNepad. Il suo mandato è facilitare e coordinare i pro-grammi di sviluppo a livello regionale e continentale,reperire le risorse necessarie alla loro attuazione e pro-cedere al loro monitoraggio e valutazione. La speranzaè che la nuova Agenzia restituisca vigore ad un piano digrande lungimiranza (almeno sulla carta) e assicuri unamaggiore coerenza con le altre iniziative regionali. Perquanto riguarda la componente sociale, il rispetto deiprincipi e delle istituzioni democratiche, della parteci-pazione popolare, del buon governo e i diritti umani,sono stati inseriti a pieno titolo nell’Atto Costitutivodell’Unione. Vi è però il rischio che tutto ciò resti lette-ra morta. Se ci riferiamo, ad esempio, alla promozionedella good governance, la forte condanna di alcunicolpi di stato (in Togo e in Mauritania nel 2005 e inGuinea nel 2008) non è stata confermata in altre occa-sioni, come nelle dibattute elezioni in Zimbabwe nel2008, o nelle continue violazioni dei diritti umani sem-pre in Zimbabwe o in Darfur che sollevano molti inter-rogativi sulla capacità - o volontà - dell’Ua di garantirel’effettiva protezione di tali diritti in tutto il continente.Uno strumento certamente utile che l’Unione Africana

ha a sua disposizione per la promozione del buongoverno è l’African Peer Review Mechanism, un mec-canismo volontario di valutazione inter pares, creatonel 2002 e integrato al Nepad. Attraverso review perio-diche e volontarie o su richiesta di altri stati parte, teamdi valutatori esterni verificano che i paesi membri dianoconcreta attuazione agli impegni assunti in materia digovernance politica, economica, sociale e di svilupposocio-economico. Al termine delle verifiche, è redattoun programma correttivo d’azione nazionale, al quale ilpaese dovrà dare effettivamente seguito con il coinvol-gimento del più ampio numero di attori statali e non(associazioni di professionisti, unioni sindacali, giova-ni, donne, settore privato e comunità rurali).Nonostante le buone intenzioni, l’efficacia dell’Aprm èmessa a rischio da due forti limiti: la volontarietà delMeccanismo (al momento, solo la metà degli Stati afri-cani ha deciso di aderire) e l’assenza di penalità per lostato che non adempia agli obblighi previsti.

Le previsioni sul futuro dell’Africa sonoinfluenzate da due tendenze agli antipodi: afro-pessimi-smo Vs. afro-ottimismo. Se i mali e le sfortune del con-tinente sono ben noti, meno evidente è l’impegno delleistituzioni africane per invertire la rotta. L’Ua è un’or-ganizzazione relativamente giovane e con obiettivipiuttosto ambiziosi: “una nuova organizzazione, nuoviideali, nuovi obiettivi e nuovi leader” era lo slogan del2002. Ne sono derivate aspettative piuttosto elevateche, nel breve-medio periodo, sono state in buona partedisattese. Difficilmente poteva essere altrimenti, viste lecondizioni drammatiche di partenza. L’Unione Africa-na, riconoscendo l’interdipendenza tra sicurezza, buongoverno (quindi stabilità) e sviluppo, si è impegnata inquesti anni su tutti e tre i fronti, incontrando molti osta-coli che, combinati a scelte politiche spesso ambigue,se non contraddittorie, ne hanno limitato fortementel’operato. Per quanto riguarda il settore della sicurezza,l’Apsa, lanciata solo nel 2004, è ancora in piena fase disviluppo operativo e la sua costruzione risulta forte-mente rallentata da carenze logistiche, di risorse umanee finanziarie. Quest’ultimo aspetto non è di poco conto,

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in quanto fa dipendere l’Ua dai contributi dei donatoriesterni che tendono dunque a condizionarne l’attività,impedendo ulteriori progressi nell’ “africanizzazione”delle procedure di crisis management e conflict pre-vention. Altre difficoltà derivano anche da proceduredi procurement piuttosto farraginose e da lungagginiburocratiche che complicano anche il coordinamentotra strutture e iniziative continentali e regionali. L’altro importante ambito di intervento dell’UnioneAfricana è la promozione della giustizia sociale e delbuon governo. Si tratta certamente di un compito nonfacile che necessita di un notevole impegno a livellonazionale da parte degli stati membri, nei confronti deiquali, tuttavia, l’Ua non dispone al momento di fortistrumenti di pressione. Per quanto riguarda la maggio-re partecipazione popolare al processo di decision-making, un importante progresso sarebbe l’attribuzio-ne di pieni poteri legislativi al Parlamento panafricano,i cui membri dovrebbero essere eletti a suffragio uni-versale. L’up-grade del Pap da organo consultivo aorgano decisionale doveva avvenire già nel 2009, ma,nonostante le continue richieste da parte dei diretti inte-ressati, siamo ancora ad un nulla di fatto. Con riferi-mento al buon governo, l’Ua, tramite il Nepad e il suoAprm, dispone di strumenti piuttosto validi. Tuttavia, ilpotere di coercizione del meccanismo è praticamentenullo: solo se diventasse obbligatorio, le aspettative ariguardo potrebbero essere soddisfatte. Oltre che nel settore della governance, il Nepad sembrarappresentare un buon punto di partenza anche in ambi-to economico, tallone d’Achille di quasi tutti gli Statiafricani. Sebbene alcuni paesi abbiano registrato tassi dicrescita sorprendentemente elevati fino al 2008 (unamedia per l’Africa di circa il 6%), la situazione è criti-ca per la maggior parte di essi, soprattutto in seguito allarecente crisi internazionale. Pur apprezzando l’impegno e gli sforzi dei leader afri-cani, il rischio che questi restino delle mere dichiarazio-ni di intenti è alto: è difficile infatti credere che un unicopiano rivolto all’intero continente possa nel breve-medio termine risollevarne le sorti superando anchel’attuale congiuntura negativa mondiale. Un punto di

forza del Nepad è tuttavia rappresentato dal “doppiocappello” governance – sviluppo economico chedovrebbe favorire un approccio integrato a due proble-matiche tra loro strettamente connesse e i cui risultatipositivi non possono che rinforzarsi a vicenda.L’auspicio è che inoltre la creazione della nuovaAgenzia per l’implementazione del partenariato, grazieal maggiore coordinamento con la Commissione e isuoi dipartimenti interessati, rappresenti un ulterioreprogresso per l’integrazione delle componenti buongoverno-sviluppo con quella della sicurezza. L’UnioneAfricana non sembra oggi in grado di offrire “soluzio-ni africane ai problemi africani”. Il ruolo e il contributodi attori esterni sono ancora indispensabili e il processodi ownership, intesa come la titolarità africana delle ini-ziative condotte in loco, ha speranze di successo solonel lungo periodo. Perché ciò si realizzi è tuttavia fon-damentale che l’Africa abbia una leadership, da moltidefinita “strategica”, che, insieme alla necessariavolontà politica, abbia una visione chiara e lungimiran-te del futuro e che proponga strategie efficaci per mobi-litare le adeguate risorse umane, finanziarie, scientifi-che e sociali.

I principi dell’Ua, benchéstrettamente correlati, possono essere per semplicità distinti in tre categorie: i principi tradizionali ereditati dall’Oua;le novità nel settore dellapace e della sicurezzae quelli sulla promozionedello sviluppo economico e sociale, incluse le misure a favore della democrazia e del buon governo

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governi corrotti, guerre civili elevatissima mortalitàinfantile ed epidemie. Oggi molti di questi mali conti-nuano ad affliggere l’Africa; tuttavia vari indicatorimostrano alcuni parziali miglioramenti e, soprattutto,crescono i buoni esempi di paesi che, oltre a crescere aritmi elevati, hanno saputo intervenire con decisioneanche in ambito sociale e politico. Il numero dei conflit-ti interetnici è diminuito e la comunità degli Stati africa-ni, rappresentata dall’Unione Africana, si sta dando unastruttura in grado di intervenire per prevenire i conflittie consentire un ritorno alla stabilità, laddove le guerreinteretniche hanno lasciato una scia di lutti e devastazio-ni. La positiva percezione degli ultimi anni non è dun-que il semplice risultato dell’osservazione degli indica-tori di sviluppo economico. Questi, com’è noto, hannomostrato a livello aggregato continentale segnali positi-vi. Nel periodo 2000-2008 il Pil africano (tenendo contodella parità di potere d’acquisto) è cresciuto annualmen-te del 4,9% contro una media mondiale del 3,8%, ed ècresciuto il doppio rispetto a quello degli anni ’80 e ’90.Gli investimenti diretti esteri (Ide) verso l’Africa hannovisto un incremento notevole negli ultimi 10 anni e sisono attestati nel 2008, prima della crisi finanziaria,

intorno agli 87 mld. di dollari, poco al di sotto di quelliverso la Cina ed il doppio di quelli diretti verso l’India.Anche gli indicatori sociali hanno segnato indiscutibiliprogressi, anche se non omogenei tra paese e paese.Secondo la Banca Mondiale i tassi di povertà sonocomunque diminuiti mediamente in maniera significati-va: la proporzione degli africani che vivono al di sottodi 1,25 $ al giorno si è ridotta dal 59% del 1996 al 50%del 2009.I pessimisti evidenziano che gran parte di queste perfor-mance sono il frutto del boom dei prezzi delle materieprime di cui l’Africa è ricchissima. Tuttavia i più atten-ti analisti, come la società di consulenza McKinsey, cal-colano che la crescita africana sia dovuta soltanto per unterzo alle risorse naturali. Tali giudizi sono confermatidalla dottrina economica, che ha sempre evidenziatoche i paesi produttori di materie prime e petrolio, a fron-te di altissimi tassi di crescita del Pil nei periodi di boomdei prezzi delle commodities, hanno mediamente tassidi sviluppo inferiori nel medio lungo periodo, rispetto apaesi non altrettanto dotati di risorse naturali, ma cheattuano buone politiche economiche. Le economiebasate sulle industrie estrattive scontano infatti due fat-

L’ECONOMIA, SENZA UNA SANA GESTIONE, NON DECOLLA. MA QUALCHE VIRTUOSO C’È, COME IL BOTSWANA

NON SOLO UNA TERRA DI MINIEREDI ROBERTO CAJATI

egli ultimi quattro o cinque anni la percezione dell’Africa da parte dellabusiness community internazionale e di una vasta schiera di osserva-tori sembra essere cambiata rispetto al pessimismo senza appello cheha dominato incontrastato fin dall’avvio dell’indipendenza.L’immagine del continente era costituita sostanzialmente da carestie,

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tori negativi: uno di tipo economico e l’altro di tipo poli-tico. Il prmo, denominato Dutch Deseas, ha a che farecon l’apprezzamento abnorme dei tassi di cambio dovu-to ai grandi flussi finanziari in entrata, che determina lapenalizzazione degli altri settori dell’economia. Da unpunto di vista politico la rendita petrolifera e minerariatende a deresponsabilizzare le classi dirigenti e, in molticasi, le politiche economiche attuate sono del tutto ina-deguate alle esigenze del paese. Senza infine contare irischi di conflittualità interna per la spartizione dellerisorse e le conseguenze i termini di stabilità politica. Corrette politiche economiche e una buona governan-ce sono dunque fattori chiave dello sviluppo. Vi è oggiun largo consenso che su questi temi in Africa il climapolitico e culturale ora è cambiato in meglio. Il presidente della Coca Cola Sudafrica, Bill Egbe inuna recente intervista alla Cnn, spiegava che il consoli-damento delle condizioni di base per uno svilupposostenibile in Africa è da ascrivere ai progressi dellademocrazia ed alla riduzione della corruzione. Due ele-menti che rientrano nella definizione di governance.Certo, se guardiamo all’Africa, la governance è ancoramolto al di sotto degli standard dei paesi avanzati.Tuttavia in un’analisi dinamica i progressi fatti dal 1990sono stati visibili e significativi, ed in alcuni settori,superiori ad altri paesi in via di sviluppo. Il tasso dimiglioramento, per quanto riguarda ad esempio la stabi-lità politica, la diminuzione della violenza e l’efficaciacon cui i cittadini si fanno sentire attraverso i media(incrementando così il controllo popolare sui governi)sono elementi che hanno segnato un netto progressonegli ultimi anni.

A ben vedere la governance rappresental’anello mancante delle teorie dello sviluppo economi-co che indicavano tradizionalmente l’accumulazionedel capitale o l’innovazione tecnologica, come i fattoriprimari anche nel continente africano. Tali teorie eranotuttavia il frutto dell’osservazione dello sviluppo econo-mico in Europa o negli Stati Uniti, dove la capacità isti-tuzionale, e quindi la governance era data per scontata.Nei paesi attualmente avanzati l’evoluzione che ha por-

tato alla democrazia e alla capacità di gestire in manie-ra più o meno efficace l’economia di mercato e creare leregole che gestiscono il rapporto tra governanti e citta-dini, è stato il frutto di un’evoluzione secolare che havisto tra i suoi elementi fondanti la rivoluzione prote-stante, l’illuminismo, la rivoluzione americana e quellafrancese e il positivismo, tutti elementi essenziali per laprima e la seconda rivoluzione industriale. Al momentodell’indipendenza gli Stati africani con tradizioni pre-coloniali arcaiche, si sono trovati a gestire una situazio-ne senza sbocchi, con apparati debolissimi, con compa-gini sociali divise dai conflitti inter-etnici e con un capi-tale umano non adeguato a gestire un processo dimodernizzazione, con il rischio di ripiombare nel caostribale. Gli elementi che hanno consentito alla maggiorparte degli Stati indipendenti di non frantumarsi, sonostati essenzialmente due: la creazione di stati autoritari(in gran parte di impostazione socialista o dirigista) e ilmassiccio afflusso di aiuti internazionali nella logicadelle sfere di influenza della guerra fredda. La conse-

La Nigeria, uno dei paesipiù corrotti al mondo, anche a causa della sua ricchezza petrolifera e di gas naturale, ha mostrato che anche in un ambiente estremamente difficile è possibile reagire con qualche risultato. Questopaese è riuscito a passare dal 132° posto su 133 paesinell’indice di corruzione(Cpi) di TransaprencyInternational del 2003, al 121° posto su 180

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guenza da un punto di vista economico è stata quella dicreare un forte indebitamento dei paesi africani e di con-sentire una gestione economica del tutto inefficiente.Negli anni ’80, per affrontate la questione del debito ecercare di intervenire per favorire l’economia di merca-to come motore di sviluppo, la Banca Mondiale ed ilFondo Monetario Internazionale, hanno imposto i con-troversi Programmi di aggiustamento strutturale. Se inmolti casi questi hanno prodotto effetti negativi sulpiano sociale, per via dei tagli draconiani della spesapubblica, hanno altresì introdotto regole di buona politi-ca economica per migliorare l’efficienza dei sistemi.Successivamente, negli anni ’90, la stessa Banca Mon-diale e la più vasta comunità di accademici, esperti eprofessionisti impegnati negli aiuti allo sviluppo, si sonoresi conto che le riforme potevano avere successo sol-tanto se non fossero imposte esternamente, ma fosserostate il frutto di un’azione endogena africana condottadalle nuove classi dirigenti. Per questi motivi l’attenzio-ne si è spostata dagli aspetti puramente economici aquelli politici ed istituzionali e quindi la governance èdiventata uno degli elementi distintivi, come fattorefondamentale di sviluppo.Parallelamente, la fine della Guerra fredda, con il pro-gressivo disinteresse delle grandi potenze per l’Africa,manifestatosi anche con una netta diminuzione degliaiuti internazionali, ha determinato una reazione daparte della parte più illuminata delle elite africane. Lenuove leadership, preoccupate di una progressiva mar-ginalizzazione del continente africano, si rendevanoconto che era necessario lanciare un nuovo impulsoinnovativo basato sulla ownership africana, nella consa-pevolezza che i problemi africani dovevano trovaresoluzioni africane. L’atto fondante di questo nuovoapproccio è stato la risoluzione del luglio 2001 che hadato l’avvio alla New Partnership for Africa’sDevelopment (Nepad) frutto di un’iniziativa congiuntadell’ex presidente del Sudafrica Thabo Mbeki, dell’expresidente della Nigeria Olusegun Obasanjo e del presi-dente algerino Abdelaziz Bouteflika, insieme al presi-dente del Senegal Abdoulaye Wade. I principi fonda-mentali sui quali si basa questo nuovo organismo sono

essenzialmente, l’economia di mercato, la buona gover-nance, istituzioni democratiche, rispetto dei diritti umanie risoluzione pacifica dei conflitti, principi percepiticome fattori chiave per lo sviluppo economico-socialedel continente. Coerentemente nel luglio 2002 a Durbanin Sudafrica, nell’ambito della Nepad è stata approvatala Declaration on democracy, political, economic andcorporale governance che impegna gli Stati partecipan-ti a sottoporsi, previa ratifica degli accordi sottoscritti, adun meccanismo mirato al monitoraggio per l’effettivaapplicazione dei principi sottoscritti, il cosiddettoAfrican peer review mechanism (Aprm). L’incontro diDurban ha assunto una rilevante portata storica in quan-to, non solo ha posto limiti al principio di sovranità asso-luta e di non-interferenza negli affari interni per i firma-tari degli accordi, ma ha enunciato principi che non sonocosì unanimemente accettati a livello globale, se siescludono i paesi avanzati occidentali, come libertàindividuali e democrazia. Non è un caso che proprio apartire di quegli anni, molti paesi dell’Africa sub-saha-riana abbiano mostrato grandi progressi. L’annuario“Doing Business 2010” della Banca Mondiale chemisura il grado di efficienza di un sistema regolatorionel favorire le attività imprenditoriali, colloca su unascala di 183 economie molti paesi africani in posizione,se non di testa, talvolta superiore a quella di paesi piùavanzati: Mauritius (17°), Sudafrica (34°), Botswana(45°), Namibia (66°), Rwanda (67°) , superano tuttil’Italia che si piazza al 78° posto. Anche in questo casol’analisi dinamica premia l’Africa più di quella statica:il Rwanda, noto soprattutto per il genocidio e la guer-ra civile tra Tutsi ed Hutu, viene citato nel rapportocome primo paese al mondo per i progressi negli ulti-mi due anni nelle riforme delle normative a favoredelle imprese. Discorso analogo vale per la corruzio-ne, ormai considerata dal main stream economicscome uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo e all’eco-nomia di mercato. Anche qui l’Africa, nelle cartetematiche di Transparency International, l’oganizza-zione non-governativa più accreditata nel calcolare lapercezione dei livelli di corruzione in tutti i paesi delmondo, risulta essere piuttosto indietro rispetto agli

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standard internazionali. Tuttavia i progressi recenti dimolti paesi e soprattutto la svolta costituita dal venirmeno di quella diffusa acquiescenza e rassegnazionedelle classi popolari nei confronti di tangenti, favoriti-smi clientele e nepotismi, lascia sperare che in qualchedecennio il continente africano possa migliorare moltoanche in questo settore.

La Nigeria, uno dei più corrotti paesi delmondo, anche a causa della sua ricchezza petrolifera edi gas naturale, ha mostrato che anche in un ambienteestremamente difficile è possibile reagire con qualcherisultato. Questo paese è riuscito a passare dal 132°posto su 133 paesi nell’indice di corruzione (Cpi) diTransaprency International del 2003, al 121° posto su180 paesi nel 2008. I progressi, se non rivoluzionari, macertamente significativi, sono il frutto dell’impegno diNuhu Ribadì, presidente dell’ Executive economic andfinancial crimes commission (Efcc). Nel corso del suomandato l’Efcc ha indagato con successo banchieri,governatori dello Stato federale, senatori, prominentifigure politiche e ministri assicurando ben 270 arrestieccellenti. Anche dopo la sua rimozione, avvenuta nel2006, l’Efcc ha continuato ad esercitare una discretapressione sul potere politico e finanziario. Se la Nigeriacontinua ad essere un paese caotico e violento, con untasso di rispetto della legge molto basso, ha saputo negliultimi anni, a differenza di altri paesi petroliferi, diversi-ficare la propria economia. Nel corso della recessionedel 2009, nonostante il declino delle esportazioni dipetrolio, questo paese ha retto bene all’urto, grazie allasua produzione manifatturiera. Per quanto riguarda ingenerale l’Africa sub-sahariana, la recessione mondialedel 2009, a differenza del passato, ha avuto un impattonon drammatico: ha mantenuto mediamente tassi di cre-scita positivi del 2% e il Fondo Monetario Internazio-nale prevede una crescita media del 4,75% nel 2010 edel 6% nel 2011. Se le materie prime, come si è visto, non costituisco-no la causa preponderante dello sviluppo economico,queste hanno sicuramente costituito un importante fat-tore rivitalizzante dell’interesse per l’Africa a livello

internazionale. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, giànel 2001 la commissione Cheney (Energy Task Force),istituita dalla Casa Bianca per delineare la politica ener-getica nazionale dichiarava : «West Africa is expected tobe one of the fastest growing sources of oil and gas forthe American market». Questa scelta derivava dal dete-rioramento della situazione geopolitica in Medioriente econseguentemente si prevedeva un incremento delleimportazioni petrolifere dall’Africa occidentale dall’at-tuale 15% del fabbisogno degli Stati Uniti al 25% entroil 2015, oltre ad una parallela riduzione delle importa-zioni dal Medio Oriente al di sotto del 25% del fabbiso-gno. Questa impostazione strategica ha portato gli StatiUniti a promuovere una ricca serie di iniziative nel set-tore economico, imprenditoriale, politico e di assistenzaallo sviluppo, che sta indubbiamente avendo effettipositivi sulla capacità africana di diversificare le proprieeconomie e migliorare la governance politica ed econo-mica. Parallelamente, la Cina negli ultimi anni ha inizia-to a sviluppare intense relazioni con il continente africa-no nella sua ricerca spasmodica di nuove fonti energeti-che e minerarie, risorse necessarie per un modello disviluppo basato sull’industria manifatturiera ad alto usodi materie prime.Con l’obiettivo di creare una vera e propria partnershipstrategica, nel 2006 il terzo Forum on China and Africacooperation (Focac) ha segnato un importante passoverso il consolidamento della politica cinese nel conti-nente africano, così come le innumerevoli missioni adaltissimo livello di ministri e responsabili governativi,tra cui quattro visite ufficiali del premier Hu Jintao tra il2003 ed il 2009 in ben 18 paesi africani. Le forniture dipetrolio africane ammontano a circa il 26% delle impor-tazioni totali di greggio della Cina, in gran parte prove-nienti dal Golfo di Guinea e Sudan. In particolare,l’Angola ha superato l’Arabia Saudita come partnerenergetico della Cina. Da un punto di vista commercia-le l’export cinese verso l’Africa è aumentato in valoredel 700% tra il 2000 ed il 2006, superando Usa eGiappone e attestandosi a poco meno di ? di quellodell’Unione Europea. Il rapporto Cina-Africa apparecontroverso per almeno tre motivi:

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1. i rischi connessi alla sostenibilità finanziaria dei gran-di prestiti cinesi in gran parte utilizzati per le opere infra-strutturali; 2. l’invasione di prodotti cinesi a basso costo cherischiano di distruggere consistenti settori manifatturie-ri africani come è già avvenuto e sta avvenendo inGhana e Sudafrica nel settore tessile; 3. il cattivo esempio cinese in termini di aiuti non con-dizionati alla buona governance e allo sviluppo dei pro-cessi democratici e del rispetto dei diritti umani, che pre-miano regimi antidemocratici e corrotti, a tutto scapitodi quel clima virtuoso di buone politiche economichesostenute dagli occidentali e da molti governi africanivirtuosi. Insieme ai cinesi altri nuovi attori, come india-ni, brasiliani, indonesiani e malesi, si stanno riversandosul continente africano attirati da investimenti spesso adalto rischio, ma che possono tradursi in grandi profitti esoprattutto per posizionarsi su un mercato molto pro-mettente per il futuro. Come prevede la McKinsey, gra-zie all’aumento del tenore di vita nel continente, circa200 milioni di africani entreranno nel mercato dei benidi consumo nei prossimi 5 anni. Dal lato dell’offerta, dal1998, le 500 più grandi società africane, escludendo lebanche, hanno avuto un rendimento medio dell’8,3%all’anno. In 30 anni si prevede inoltre che la popolazio-ne in età da lavoro raggiungerà 1,1 miliardi di individui.

Nel corso degli anni ’70 ed ‘80 l’Italia hasenz’altro avuto un ruolo rilevante nelle attività di coo-perazione allo sviluppo con l’Africa, impegnandosi ingrandi opere infrastrutturali, aiuti di emergenza, coope-razione nel settore sanitario ed educativo. Successiva-mente, con il forte indebitamento del nostro paese, lacrisi finanziaria della prima metà degli anni ‘90 e leattuali difficoltà di bilancio, il peso degli aiuti allo svi-luppo sul nostro Pil è progressivamente diminuito. Lanuova dottrina a cui si attengono le principali agenzieinternazionali allo sviluppo ha inoltre trasformato latipologia delle attività di aiuto allo sviluppo; queste oggirichiedono un know-how molto elevato, che spessopaesi di media grandezza non possono permettersi. Inquesto contesto diventa al contrario sempre più rilevan-

te, soprattutto in Europa, il ruolo che ciascun paesemembro può giocare all’interno del quadro delle attivi-tà di cooperazione economica e politica dell’Unioneeuropea. L’Europa costituisce un elemento di punta alivello internazionale. Essa, oltre ad essere il maggiorpartner commerciale dell’Africa sub-sahariana è ancheil maggiore donatore, con il 56% sul totale degli aiutiche riceve il sub-continente e garantisce il 68% degliinvestimenti diretti. Il rapporto euro-africano si è peral-tro rinnovato negli ultimi anni, con una nuova strategiaconcepita per rafforzare il dialogo politico tra l’Ue el’Africa ed in particolare per superare l’impostazionedei rapporti euro-africani, per promuovere un rapportoparitario e responsabile fondato sugli interessi reciproci.Con il vertice di Lisbona (Eu Africa Summit) neldicembre 2007 è stato adottato il First action plan(2008-2010) for the implementation of the Africa-Eustrategic partnership per costruire un vero e propriopartenariato strategico tra l’Africa e l’Europa fondatosu 8 priorità e sul rapporto diretto con l’UnioneAfricana. In questo ambito l’Italia ha giocato un ruoloimportante nella priorità 1, Pace e sicurezza, comepaese leader. Settore in cui l’Italia ha visto anche unriconoscimento internazionale in ambito del tuttodiverso, con la nomina di Romano Prodi da parte delSegretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon a presiedere il panel sugli interventi di peace-keeping in Africa. Meno rilevante è il ruolo italiano inambito europeo nel delineare, attraverso l’analisi e leriflessioni, le strategie dell’Unione verso l’Africa. Seinfatti si guarda alla rete di istituti policy orientedeuro-africani formatasi nell’ambito del partenariatostrategico, non è presente nemmeno un istituto nazio-nale, a fronte di una forte presenza non soltanto fran-cese, inglese o tedesca, ma anche olandese, belga eportoghese. Il fatto che l’Europa costituisca l’ambitoprincipale dell’azione verso l’Africa in un mondo glo-balizzato costituito da giganti, non significa che unamedia potenza come l’Italia non possa perseguire isuoi interessi nazionali, soprattutto di tipo economico,a livello bilaterale. E coerentemente con questa consi-derazione il nostro Governo sembra aver compreso che

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la posta è alta e si sta attivando con un’importanteiniziativa: il Piano per l’Africa sub-sahariana.Lanciato nel 2009 e gestito da ministero per loSviluppo economico in collaborazione con il mini-stero degli Affari esteri, l’Ice, la Sace e la Simest,intende stimolare l’interesse degli operatori italianiverso il continente africano, promuovendo com-mercio ed investimenti esteri con tutta una serie diazioni di supporto. Dal 2009, oltre al Forum Italy &Africa partners in business, che avrà cadenzaannuale, e che ha visto la partecipazioni anche dimolti ministri africani, si sono susseguite importan-ti visite ufficiali dei ministri Frattini e Urso innumerosi paesi africani. L’idea è quella di esporta-re il modello italiano basato sulle piccole e medieimprese, trasferire know how e posizionarsi su queimercati incrementando gli investimenti diretti.

Nel periodo 2000 - 2008 il Pil africano è cresciutoannualmente del 4,9% contro una media mondialedel 3,8%, ed è aumentato il doppio rispetto a quellodegli anni ’80 e ’90. Gli investimenti diretti esteri (Ide) verso l’Africa hanno visto un incrementonegli ultimi 10 anni e si sono attestati nel 2008, prima della crisi finanziaria, intorno agli 87 miliardi di dollari, poco al di sotto di quelli verso la Cina

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sembrato perplesso quando gli avevo chiesto l’ora diarrivo del treno alla sua destinazione finale, e si erarifiutato di rispondere; negli ultimi anni, quel viaggiodi 1.900 chilometri era diventato noto per duraresino ad un’intera settimana, invece dei due giorniprevisti. La ferrovia - conosciuta come la linea Tazara - vennecostruita dalla Cina all’inizio degli anni ’70, ad uncosto di quasi 500 milioni di dollari, una spesa stra-ordinaria nel bel mezzo della Rivoluzione Culturale,un simbolo della determinazione di Pechino di nonperdere il confronto con Washington e Mosca inun’era in cui infuriava la competizione stile guerrafredda sull’Africa. Al tempo della sua costruzioneera il terzo più grande progetto infrastrutturale maiintrapreso in Africa, dopo la diga di Assuan, in Egittoe quella di Akosombo sul lago Volta, in Ghana. Oggi la Tazara rappresenta un talismano di speranzesbiadite e fallimentari ricette economiche, una vec-chia ed inaffidabile ferrovia con poche locomotiveoperanti. Per poco tempo una fiorente arteria com-merciale, è stata penalizzata dal suo stesso decadi-mento e dalle strade e rotte aeree che sono spuntate

intorno ad essa. I costi di manutenzione hanno accol-lato sulle spalle di Tanzania e Zambia debiti per700 milioni di dollari complessivi e, secondo iresoconti informativi dello Zambia, la linea dispo-ne solo di 300 dei 2mila vagoni necessari per fun-zionare normalmente. Tuttavia, la Tazara disegnaun percorso attraverso una regione in cui le spe-ranze sono state ravvivate da una nuova forma disviluppo guidata dalla Cina e a livelli senza prece-denti. Da un capo all’altro del continente le com-pagnie cinesi siglano accordi che non fanno altroche sminuire il vecchio progetto della ferrovia.Quelli più sonoramente pubblicizzati riguardanola produzione di petrolio; dall’inizio del nuovomillennio, le compagnie cinesi si sono inserite neiredditizi mercati petroliferi di paesi quali Angola,Nigeria, Algeria e Sudan. Ma le ditte cinesi firma-no anche contratti di estrazione mineraria in luo-ghi come Zambia e Repubblica Democratica delCongo, creando quella che è stata salutata come lapiù grande miniera di ferro del mondo, in Gabon.Ricercano terre su cui insediare vasti agribusiness.E per portare quei minerali e quei raccolti sul mer-

SOTTO L’EGIDA «INFRASTRUTTURE IN CAMBIO DI RISORSE» PECHINO SCALA L’AFRICA. MA NON L’AIUTA

NEOCOLONIALISMO IN SALSA CINESEDI HOWARD W. FRENCH

ro alla stazione di Dar es Salaam, in procinto di intraprendere una dellepiù grandi corse in treno, un viaggio da quella afosa cittadina portualesull’Oceano Indiano, la capitale commerciale della Tanzania, finoall’estremità della Copper Belt nello Zambia, nel cuore profondodell’Africa meridionale. L’impiegato che mi aveva venduto il biglietto era

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cato, stanno costruendo nuovi grandi insediamen-ti portuali e migliaia di chilometri di strade.Nella maggior parte delle capitali e dei centri com-merciali del continente africano è difficile non nota-re la presenza ed influenza cinese. A Dar, una matti-na prima dell’inizio del mio viaggio, salii sul tettodell’hotel per una veduta panoramica della città. Uncaposquadra di una compagnia di costruzioni britan-nica, lì presente per sovrintendere ai lavori di espan-sione dell’albergo, indicò il porto a forma di V di cuila marina inglese si era impossessata dopo unabreve battaglia con i tedeschi all’inizio della primaguerra mondiale. Dal porto la porzione britannicadella città si estendeva in modo compito nell’entro-terra, lungo una manciata di lunghi viali. «Vede tuttiquegli alti edifici che fanno capolino lì in fondo?»chiese il caposquadra, con un pizzico d’invidia nellasua voce mentre il suo braccio era intento a descri-vere un arco lungo il fronte del porto che scintillavain lontananza. `Quella è la nuova Dar es Salaam, ela maggior parte di essa è opera dei cinesi». A sudsorge il nuovo, modernissimo stadio nazionale dellaTanzania da 60mila posti, finanziato dalla Cina edinaugurato nel febbraio 2009 dal presidente HuJintao. «È difficile recuperare le statistiche, ma laCina è probabilmente il più importante investitore inAfrica» afferma Martyn Davies, direttore del ChinaAfrica Network presso l’università di Pretoria.«Sono i più grandi costruttori di infrastrutture. Sonoi più grandi finanziatori dell’Africa e il commerciosino-africano ammonta ormai a più di 100 miliardi didollari l’anno». Davies definisce il boom cinese«una storia di fenomenale successo per l’Africa» eprevede che esso continuerà indefinitamente.«L’Africa costituisce la fonte di almeno un terzodelle materie prime del mondo - materie di cui laCina ha bisogno, in quanto la sua economia continuaa crescere - e se si comprende ciò, si comprende alcontempo la determinazione cinese nel costruirestrade, porti e linee ferroviarie lungo tutta l’Africa».Davies non è l’unico a manifestare entusiasmo.«Nessun altro paese ha avuto un impatto così signi-

ficativo sul tessuto politico, economico e socialedell’Africa come la Cina dall’inizio del nuovo mil-lennio», scrive Dambisa Moyo, un’economista resi-dente a Londra, nel suo libro, Dead Aid: Why Aid IsNot Working and How There Is a Better Way ForAfrica. Dambisa Moyo, una quarantenne delloZambia che ha lavorato come investment banker perGoldman Sachs e come consulente per la BancaMondiale, ritiene che l’assistenza straniera rappre-senti una maledizione che ha paralizzato e corrottol’Africa e che la Cina offra una via d’uscita dallaconfusione creata dall’Occidente. «Tra il 1970 ed il1998 - scrive - quando i flussi di aiuti verso l’Africaerano ai loro massimi, la povertà nel continente creb-be dall’11% ad un incredibile 66%». Dambisa Moyoafferma inoltre che la sovvenzione di prestiti inco-raggia i governi africani a prendere decisioni debolie dispendiose. Alimenta la corruzione, consentendo

Le ditte cinesi firmanogiganteschi contratti di estrazione mineraria in luoghi come Zambia e Repubblica Democraticadel Congo, creando quellache è stata salutata come lapiù grande miniera di ferrodel mondo, in Gabon.Ricercano terre su cui insediare vasti agribusiness. E per portare quei mineralie quei raccolti sul mercato,stanno costruendo nuovigrandi insediamenti portuali e migliaia di chilometri di strade

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ai politici di dirottare i fondi stanziati. E tutto ciò adiscapito di uno sviluppo nazionale, che secondo laMoyo inizia con la costruzione di un sistema fiscalee con l’attrazione di capitali commerciali dall’estero.Nella sua visione, anche l’occidentale “ossessioneper la democrazia” si è rivelata dannosa. Nei paesipoveri, scrive, «I regimi democratici trovano diffi-coltà a portare avanti legislazioni positive a livelloeconomico tra partiti rivali ed interessi contrastanti».La democrazia sostenibile è, a suo dire, possibilesolo dopo che si è instaurata una forte classe media.Nel suo recente approccio all’Africa, la Cina nonpoteva comportarsi molto diversamente dall’Occi-dente. Si è concentrata sul commercio e su investi-menti sensati a livello commerciale, piuttosto chegarantire aiuti o prestiti corposamente sovvenziona-ti. Si è rifiutata di dire ai governi africani comeavrebbero dovuto gestire i propri paesi, o di vincola-re i finanziamenti ad apposite riforme governative. Esi è mossa in modo veloce e deciso, in special modose la confrontiamo con i molti carrozzoni degli aiutioccidentali.

La verità è che anche prendendo in consi-derazione la recente fase recessiva globale, quelloappena trascorso si è rivelato un periodo di speranzaper un continente storicamente calpestato. Il redditopro capite dell’Africa sub-sahariana è quasi raddop-piato tra il 1997 e il 2008, alimentato da un grandeboom delle merci, da una diminuzione nella preva-lenza dei conflitti e da costanti – seppur minimi -miglioramenti nella qualità della governance. Edanche se la flessione economica ha per il momentoridotto i prezzi delle materie prime, vi è una crescen-te percezione che il continente più povero del mondosia diventato il teatro ideale per il prossimo atto dellaglobalizzazione. Per molti, la Cina - ricca di liquidi-tà, affamata di risorse e costante nel suo ardore - rap-presenta ora il più probabile agente di tale cambia-mento. Naturalmente, l’Africa ha goduto anche inpassato di momenti di speranza, e cioè nei primi anni’60, all’inizio dell’era dell’indipendenza, quando

molti governi optarono per grandi ricette economi-che a guida statale che fallirono rapidamente, edancora negli anni ’70, un’altra epoca di boom deiprezzi delle materie, quando la corruzione galoppan-te, l’alto debito ed i conflitti armati condannarono alfallimento qualsiasi speranza di decollo economico.La fiorente partnership cinese con l’Africa fa sorge-re domande importanti: è l’approccio di non ingeren-za negli affari governativi quello giusto?Riusciranno il denaro e le ambizioni cinesi lì dovel’impegno occidentale ha manifestamente fallito? Ola Cina diventerà l’ultima di una serie di potenzecoloniali e neocoloniali in Africa, destinata come lealtre a lasciare la propria eredità di amarezza e delu-sione? Mi stavo dirigendo a sud della Tazara per ten-tare di catturare una prima sensazione di come tuttoquel maestoso progetto stesse procedendo. La Banca Mondiale e le Nazioni Unite condusseroispezioni per una linea ferroviaria sulla scia dellaTazara all’inizio degli anni ’60, ed entrambe conclu-sero che una simile progetto non sarebbe stato néeconomicamente fattibile né sostenibile. La Cinainvece costruì la linea ferroviaria, tra il 1970 ed il1975, per ordine di due leader africani: JuliusKambarage Nyerere, il primo presidente dellaTanzania, il quale voleva aprire il remoto sud delproprio paese e sostenere le proprie credenziali pan-africane, e il presidente Kenneth Kaunda delloZambia, il cui paese senza sbocco sul mare stava cer-cando un’alternativa alle rotte commerciali versosud attraverso la Rhodesia dominata dai bianchi.Nell’arco di un decennio, la ferrovia iniziò a soffrireripetuti guasti, frane e fallimenti gestionali. I proget-tisti avevano previsto una percorrenza di 17 treni algiorno, ma a partire del 1978 ne transitavano solodue. I tanzaniani e gli zambiani tendono ad imputarei cronici problemi operativi alla corruzione ufficiale.Come esempio di sviluppo calato dall’alto e guidatodallo stato, la Tazara era altresì stata creata in brevetempo. I progettisti avevano immaginato un nuovocorridoio agricolo ampio quasi 10 miglia su ambo ilati dei binari, per raddoppiare così la produzione

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regionale di cibo. Il governo non aveva mai investi-to in elettrificazione, scuole o strade vicine alla fer-rovia, né aveva fornito accesso al credito affinché gliagricoltori potessero acquistare fertilizzanti o buonesementi. Percorrendo un tratto di 90 minuti nelloZambia nord-orientale, iniziato a Mkushi, non vidiuna sola fattoria o villaggio. Il valore irrealizzato diquella terra lasciata a maggese mi addolorò. Ero con-sapevole dell’opportunità che essa rappresentava pergli stranieri, alla luce della crescente domanda mon-diale di prodotti agricoli. E infatti: «I cinesi hannogià iniziato ad arrivare», mi disse un passeggero.«Bramano la nostra terra. Sembra quasi che da loronon vi sia spazio per le persone». Da anni ormai icontadini cinesi giungono alla spicciolata in Africa,comprano piccoli appezzamenti e li lavorano impie-gando tecniche cinesi. La Cina iniziò a dare prioritàagli investimenti agricoli su larga scala in Africaall’epoca del sontuoso vertice Cina-Africa a Pechinonel 2006, una pietra miliare nel corteggiamento cine-se del continente africano. Lo scorso giugno,l’Economic Observer, un settimanale cinese indi-

pendente, riferì che la Cina, «di fronte ad una cre-scente pressione sulla sicurezza alimentare», stava«pianificando di affittare e comprare terra all’esteroper aumentare la fornitura di cibo interna». Pechinoaveva destinato 5 miliardi di dollari per i progettiagricoli in Africa nel 2008, ponendo l’accento sullaproduzione sia di riso sia di altri prodotti agricolidestinati alla vendita. Un alone di mistero circondamolte iniziative agricole cinesi. Nel 2006, ad esem-pio, la Cina offrì un prestito agevolato di 2 miliardidi dollari al Mozambico per un progetto mirante allacostruzione di una diga nella valle del fiumeZambesi, che ospita uno dei suoli più fertili del con-tinente. L’anno seguente, funzionari cinesi emozambicani siglarono, stando a quanto si dice, unmemorandum d’intesa che consentiva a 3mila colo-ni cinesi di iniziare a coltivare nell’area. Ma inseguito ad una rivolta locale, il governo delMozambico negò il piano, e poco o nulla è trapela-to da quel momento. Gli ufficiali nella provincia di

Chongqinq - che ospita all’incirca 12 milioni di agri-coltori la cui terra o è andata persa nelle alluvioni chehanno accompagnato la costruzione della diga delleTre Gole, oppure è messa sotto pressione dall’espan-sione urbana della provincia - hanno pubblicamenteincoraggiato l’emigrazione di massa verso l’Africa.Nel settembre 2007 Li Ruogu, il capo della Export-Import Bank cinese, riferì al South China MorningPost: «Chongqinq ha una grande esperienza nellaproduzione agricola di massa, mentre in Africa vi èdisponibilità di terra, ma la produzione di cibo èinsoddisfacente… l’esportazione del lavoro da taleprovincia è appena iniziata, ma decollerà solo quan-do avremo convinto gli agricoltori a diventare pro-prietari terrieri all’estero». Al tempo Li promise tota-le sostegno finanziario agli agricoltori in questione,ma ha successivamente preso le distanze da quelleesternazioni. «L’interesse della Cina negli investi-menti agricoli è una questione controversa», ha scrit-to in una recente pubblicazione Deborah Bräutigam,docente alla American University ed uno dei massi-mi esperti delle relazioni economiche sino-africane.

Nel suo approccio al continente la Cina si è concentrata sul commercio e gli investimenti, piuttosto che garantire aiuti o prestiti corposamente sovvenzionati. Si è rifiutatadi dire ai governi africanicome avrebbero dovutogestire i propri paesi, o divincolare i finanziamenti ad apposite riforme governative. E si è mossa in modo veloce e deciso

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«Per molti, la terra rappresenta il nocciolo dell’iden-tità nazionale, ed è particolarmente facile suscitaredeterminate sensazioni nei riguardi degli estraneiquando è coinvolta la terra». La qualità di incentivi edisincentivi prevista dai maggiori accordi agricolicinesi e le forti reazioni che hanno generato suggeri-scono che la luna di miele tra i cinesi e gli africanipossa non durare a lungo. Nel corso del mio viaggio,i problemi connessi alla terra sembravano far affio-rare i pregiudizi peggiori nelle persone con cui par-lavo. «Se si desse la terra a persone cinesi, questi luo-ghi diverrebbero ricchi da un giorno all’altro» com-mentò una donna cinese immigrata, una commer-ciante di mezza età del Congo meridionale; «Questiafricani sono troppo pigri». Molti africani, da parteloro, si sono rivelati molto diffidenti nei riguardi del-l’immigrazione cinese; teorie cospirative sono emer-se di frequente. Per comprendere appieno l’approccio economicodella Cina nei riguardi dell’Africa, dobbiamo studia-re la storia imperiale europea, come Pechino stessasta facendo. «Di recente, una delegazione cinesemolto particolare ha visitato Bruxelles», mi riferisceJonathan Holslag, capo ricerche del BrusselsInstitute of Contemporary China Studies. «E ha chie-sto di vedere le vecchie mappe coloniali del Congo.Sono le uniche carte che riportano descrizioni ragio-nevolmente accurate del sottosuolo congolese; inten-dono usarle per piani di sviluppo nel Katanga eovunque capiti. Se si studiano i documenti politicicinesi, risulta ovvio che Pechino sia concentrata nel-l’aprire il cuore del continente. Vi è chiaramente unastrategia di lungo termine in ciò, che cerca di rompe-re il flusso nord-sud dei minerali, per costruire lineeest-ovest che consentano di bypassare il Sud Africa».Jamie Monson, uno storico della linea Tazara, scrivelucidamente su tale strategia: «Costruire una stradasignificava comandare una regione - la più famosamanifestazione di ciò era il sogno di Cecil Rhodes diunire “il Capo al Cairo” attraverso una collegamen-to ferroviario che attraversasse tutto il continente.Controllare una regione significava tenerne fuori gli

avversari, o almeno ridurne la partecipazione com-merciale mediante tariffe ed altri interventi regolato-ri. Sebbene la Cina possa affermare di essere unnuovo tipo di potenza, i suoi piani hanno sempreavuto una componente strategica, caratterizzata dallarivalità con l’Occidente e, in tempi più recenti, daldesiderio di eludere il fulcro di potere regionale, ilSud Africa, per controllare i mercati dei principaliminerali africani. Inoltre in cinque brevi anni, la Cina ha ricostruito lalinea Benguela nell’Angola, gettando le basi per unanuova vasta rete fatta di rotaie e strade da costruirsiin Congo, Zambia ed altri paesi periferici. La Cinanon darà quelle linee ai governi africani, come fececon la Tazara. Manterrà invece il controllo del pac-chetto di maggioranza degli investimenti ferroviari,facendo funzionare le linee fino a quando non avràrecuperato la somma spesa mediante biglietti, tra-sporti merci ed altre tasse.Kapiri Mposhi è la via d’accesso ad uno dei centriforse più significativi dell’attività cinese nel conti-nente. Circa 120 miglia più a sud si trova Lusaka, incui la presenza di Pechino è datata e le attività cine-si abbondano. E ad una novantina di chilometri più anord troviamo il Congo, il teatro del più grande espe-rimento - e della più grande scommessa - cinese inAfrica. Mi stavo dirigendo a Lubumbashi, una cittàmineraria cinese di 1,2 milioni di persone, dove imiliardi di dollari di investimenti cinesi stanno, nelbene o nel male, iniziando a far sentire i propri effet-ti. Uno dei maggiori e più popolosi paesi africani, laRepubblica Democratica del Congo ottenne l’indi-pendenza dal Belgio nel 1960 e divenne immediata-mente il luogo del primo colpo di stato d’Africa. Patìquindi 32 anni sotto il dominio di Mobutu SeseSeko, dittatore appoggiato dagli americani. Negliultimi 10 anni, il paese è stato testimone di sanguino-si conflitti. Nella primavera del 2008, il travagliatogoverno congolese svelò un pacchetto di investimen-ti cinesi che ammontavano a 9,3 miliardi di dollari,una stima più tardi ridimensionata, per ragioni com-plesse che coinvolgono le pressioni del Fondo

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Monetario Internazionale, a 6 miliardi: circa la metàdel Pil del paese. La Cina costruirà nuove gigante-sche miniere di rame e cobalto; 3.500 chilometri dilinee ferroviarie; 4mila chilometri di strade; centina-ia di cliniche, ospedali e scuole e due nuove univer-sità. In cambio, la Cina otterrà quasi 11 milioni ditonnellate di rame e 620mila tonnellate di cobalto,che estrarrà nel corso dei prossimi 25 anni - unoscambio “risorse per infrastrutture” che la Cina haper prima inaugurato, su scala più ridotta, in Angolanel 2004. Buona parte dell’attività mineraria cinesesi concentrerà intorno a Lubumbashi. Le tracce del-l’industria cinese non sono difficili da rinvenire. Benprima che il nuovo accordo “minerali in cambio disviluppo” venisse siglato, la città ed i suoi dintornierano diventati una sorta di nuova Terra Promessaper quei cinesi in cerca di fortuna. Dato che i prezzidel rame si sono quadruplicati tra l’agosto 2003 el’agosto 2008, migliaia di migranti sono accorsinella regione, come i cercatori d’oro del 1849 duran-te la corsa all’oro americana. Erano spinti dalle vocicirca le ricchezze minerarie e la facilità con cui lì sipossono fare affari. I funzionari congolesi potevanoessere facilmente corrotti. I visti potevano essereagevolmente comprati, così come i permessi perl’attività di minatore.Molti cinesi in cerca di fortuna avevano assuntosquadre di lavoro africane per cercare il rame, a volteanche nelle strade rosso creta di Lubumbashi.«C’erano approfittatori e speculatori», mi riferisceun imprenditore locale. «Il Congo non ha ottenutonulla da loro». Il governo tentò tardivamente diriguadagnare il controllo, richiedendo a tutti coloroche cercavano il rame di fonderlo e di compiereinvestimenti più sostanziosi nelle attrezzature, alfine di creare più posti di lavoro e redditi tassabili eper rendere l’industria maggiormente sostenibile. Inrisposta, i piccoli operatori lottarono per costruirefornaci piccole ed inefficienti. Nel 2008, quando iprezzi diminuirono da 9mila dollari alla tonnellataad un minimo di 3.500 dollari, le fonderie improvvi-sate chiusero i battenti ed i proprietari cinesi fuggi-

rono, lasciandosi dietro lavoratori congolesi senzapaga ed un paesaggio disseminato di rifiuti indu-striali. Un insigne avvocato congolese facente partedi un’ampia rete di cittadini che sta investigando sulpacchetto cinese afferma che l’accordo lascerà ilCongo nella stessa posizione in cui si è trovato dopodecenni di sfruttamento da parte del Belgio.«Avremmo potuto dire “potete avere il nostro rame,

ma vogliamo che una parte di esso venga trasforma-ta qui”. Abbiamo negoziato per miliardi di dollarisenza definire se quegli investimenti fossero produt-tivi, senza pensare in prospettiva, senza rifletteresulla creazione di un’industria metallurgica.Abbiamo negoziato senza esperti e senza analisi».Gli chiedo se tale grande programma di costruzione- la strade le scuole e gli ospedali - produrrà dividen-di, e lui scuote la testa con fare grave. «Sei miliardidi dollari in infrastrutture non rappresentano lo svi-luppo. Le scuole con i banchi non educheranno lanostra popolazione. Una strada non svilupperà que-sto paese… Le scuole richiedono un sistema scola-stico, ed hanno bisogno di insegnanti. Con questoclima, le strade durano solo 10 anni senza manuten-zione, ed il Congo non ha capacità da questo puntodi vista».Queste opinioni echeggiano anche inZambia, il vicino a sud del Congo ricco di rame, il

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In Congo, la Cina costruirànuove gigantesche minieredi rame e cobalto; 3.500 chilometri di linee ferroviarie; 4mila chilometri di strade; centinaia di cliniche, ospedali e scuole e due nuove università. In cambiootterrà quasi 11 milioni di tonnellate di rame

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quale vanta una serie più lunga di accordi commer-ciali con la nuova Cina capitalista. Gli zambianiaccolsero entusiasticamente gli investimenti cinesinel 1998, quando la China Non-Ferrous MetalMining Company acquistò una miniera di rame indisuso presso Chambishi, vicino al confine con ilCongo, per 20 milioni di dollari e prontamente inve-stì 100 milioni di dollari nel suo recupero. Tuttavia lecose iniziarono a cambiare quando i nuovi managercinesi bandirono l’attività sindacale ed iniziarono apagare i dipendenti zambiani meno del salario mini-mo mensile di 67 dollari. Nel 2005, più di 50 zam-biani furono uccisi in un’esplosione accidentale inuna fabbrica di esplosivi che riforniva la miniera; itestimoni affermarono che i membri cinesi dello stafferano fuggiti dal luogo della tragedia pochi secondiprima dell’esplosione, senza avvertire i lavoratoriafricani. Un anno più tardi, nel corso di proteste pervia degli arretrati e delle condizioni lavorative, unsupervisore cinese aprì il fuoco sui lavoratori zam-biani con un fucile, ferendone parecchi. I tumulti allaminiera Chambishi irruppero rapidamente nella poli-tica zambiana. Michael Sata, il leader del FrontePatriottico, fece delle pratiche affaristiche cinesi edella loro crescente presenza nel paese i grandi temidelle elezioni presidenziali del 2006; la Cina minac-ciò di interrompere le relazioni con lo Zambia seSata avesse vinto. Sata, il cui partito era giovane erelativamente piccolo al tempo, conquistò il 28% deivoti. Nelle elezioni del 2008, ottenne il 38%, perden-do le elezioni per soli due punti.

Ovunque andassi in Africa, la gente si espri-meva a favore di un principio: la connessione trabuona governance e prestiti da parte dell’Occidente.«Molti guardano alle condizioni occidentali come aduna cosa positiva, poiché oggigiorno molti argomen-ti possono essere discussi apertamente, diversamen-te che in passato, quali la corruzione, ad esempio»,dice John Kulekana, un giornalista tanzaniano vete-rano. Gli ex ministri sono chiamati a rendere contodel proprio comportamento. Stiamo sviluppando il

senso di responsabilità». Gli stati ben governati - incui il popolo ha effettivamente voce in capitolo nellascelta dei propri leader, in cui le priorità nazionalivengono dibattute apertamente, ed in cui le istituzio-ni legali sono forti - trarrà indubbiamente beneficiduraturi dalla partnership commerciale con la Cina.Ma i legami commerciali da soli non sembrano ingrado di determinare una buona governance o unaprosperità duratura. Un approccio di indifferenza verso la governancelascerebbe molti paesi con risorse esaurite ed istitu-zioni politiche inibite, anche mentre la popolazionecontinua a crescere rapidamente. L’atteggiamentodegli africani nei confronti delle recenti iniziativedella Cina sul loro continente è inevitabilmenteminato dall’ambivalenza. Molti intellettuali africanirigettano le critiche occidentali nei riguardi delpressing a tutto campo da parte della Cina. Essiaffermano che l’Occidente ha a lungo trattato conpaternalismo il loro continente, e sin dalla fine dellaGuerra Fredda ne ha fatto l’oggetto di una totalenegligenza. E tutto ciò è vero. Ma la domanda rima-ne: come può il loro continente superare una serie diimpegni stranieri estrattivi - iniziati con il primocontatto con l’Europa, quando oro e schiavi veniva-no acquistati in cambio di stoffa e ciondoli - rintrac-ciabile ancora oggi? Tale quesito, che si sente quasidappertutto, ha ricevuto risposta in modo alquantoenergico dall’avvocato congolese da me incontratoa Lubumbashi. Gli chiedo se l’arrivo dei cinesipossa rappresentare una nuova e grande opportuni-tà per il continente, come alcuni hanno detto. «Ilproblema non è chi sia l’ultimo acquirente dellenostre risorse» replica. «Il problema è determinarequale sia il posto dell’Africa nel futuro dell’econo-mia globale, e finora abbiamo visto ben poco dinuovo. La Cina sta prendendo il postodell’Occidente: prendono le nostre materie prime evendono beni finiti al mondo. Rimaniamo sempresotto lo stesso vecchio schema: il nostro cobaltoviene portato in Cina sotto forma di materiale polve-roso e ritorna qui sotto forma di costose batterie».

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nuova importanza attribuita al “continente dimenti-cato” da vecchie e nuove potenze - in particolareStati Uniti, Paesi europei, Cina e India - sembraconfermare questo auspicio. La crescente attenzionerivolta ai paesi africani da un nutrito gruppo di atto-ri internazionali è legata a diversi fattori. Esistesenza dubbio un imperativo morale dei paesi occi-dentali ad intervenire nel continente africano. Dei53 Stati indipendenti del continente africano, 35rientrano tra i paesi meno sviluppati al mondo, metàdella popolazione africana vive con meno di 1 dol-laro al giorno, 1/3 soffre di malnutrizione, si regi-strano allarmanti tassi di mortalità infantile e inAfrica sub-sahariana l’aspettativa di vita media è di47 anni. I “paesi ricchi”, e primi fra tutti gli StatiUniti e i membri europei del G8, hanno assuntoimpegni precisi per il raggiungimento degliObiettivi del Millennio entro il 2015 in termini dilotta alla povertà estrema e alla fame, alla mortalitàinfantile e alle pandemie, a favore della sostenibili-tà ambientale e dello sviluppo. All’Africa è stataaccordata priorità assoluta. Giocano inoltre gli interessi commerciali legati alleimmense risorse naturali del continente, dai diaman-

ti della Costa d’Avorio, ai minerali del coltan e delcobalto della Repubblica Democratica del Congo, alpetrolio della Nigeria. Vecchie e nuove potenzestanno registrando un crescente declino della pro-pria autosufficienza energetica: si calcola che entroil 2025 l’approvvigionamento giornaliero america-no raggiungerà i 29 milioni di barili di petrolio, neiprossimi otto anni il consumo indiano crescerà del50%, mentre l’Europa importa già l’80% del petro-lio che consuma. Parallelamente, si impone per tuttiuna diversificazione delle importazioni, che identi-fichi fonti alternative al petrolio e al gas naturaleprovenienti dalla turbolenta zona geopolitica delGolfo Persico. La regione dell’Africa occidentale, edel Golfo di Guinea in particolare, rappresenta unavalida alternativa: produzione petrolifera in aumen-to, bassi consumi di prodotti petroliferi, buona qua-lità dell’oro nero. Esistono inoltre questioni di sicu-rezza legate all’instabilità politica del continente e alfenomeno dei cosiddetti “Stati falliti”, cioè queigoverni che non hanno un effettivo controllo sulproprio territorio, non garantiscono sicurezza nazio-nale o servizi pubblici di base ai propri cittadini, emancano dell’esclusiva sull’uso della forza.

INDIA, USA, FRANCIA: ECCO CHI SI SPARTISCE IL RESTO DEL GRANDE GIOCO AFRICANO

UN CONTINENTE DI CONQUISTADI NICOLETTA PIROZZI

anno 2000, nelle parole dell’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki,ha inaugurato il “secolo dell’Africa”. La visione di Mbeki faceva rife-rimento alla rinascita e al rinnovamento del continente attraverso ilpieno sfruttamento delle sue risorse, umane e naturali, e alla neces-sità per l’Africa di assumersi la responsabilità del proprio futuro. La

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Secondo il Failed States Index 2010, diffuso dalFund for Peace e dalla rivista Foreign Policy, 21 trai paesi più vulnerabili al mondo si trovano in Africasub-sahariana. Questo ha gravi conseguenze - in ter-mini di proliferazione del terrorismo, del crimineorganizzato, dell’immigrazione clandestina, deltraffico di droga e di armi - che superano i confinidel continente africano e impattano più o menodirettamente sulle politiche di sicurezza degli Statioccidentali.La politica statunitense verso l’Africa ha conosciu-to un deciso rilancio sotto l’amministrazioneClinton, soprattutto attraverso l’Africa Growth andOpportunity Act (Agoa) per il commercio e lo svi-luppo economico, e gli ingenti investimenti nellasicurezza canalizzati nell’Africa Crisis ResponseInitiative (Acri). Tuttavia, il giudizio sulla politicastatunitense di quegli anni non può prescindere dai

fallimenti generati dalle scelte di disimpegno dallecrisi in Somalia, Ruanda e Sierra Leone, di ingeren-za nel conflitto tra Etiopia ed Eritrea, di sostegnofornito ai “nuovi leader” degli Stati del Cornod’Africa. Con l’elezione di George W. Bush esoprattutto in seguito agli attentati dell’11/9, l’atten-zione degli Stati Uniti per la sicurezza in Africa ècresciuta in modo significativo. Il Cheney Reportdel maggio 2001 ha definito l’accesso al petrolioafricano una questione di sicurezza nazionale el’Africa ha assunto un’importanza cruciale nella“guerra al terrorismo”. A partire dal 2002, si è assi-stito ad una progressiva militarizzazione dellapolitica statunitense nel continente africano: gliStati Uniti hanno rafforzato la cooperazione mili-tare con i paesi africani, soprattutto nel Cornod’Africa e nel Golfo di Guinea, hanno stabilito unabase militare in Gibuti e, nel febbraio del 2007,hanno deciso di creare il nuovo comando militareAfricom. L’elezione di Barack Obama ha suscitato grandiaspettative per quanto riguarda la politica statuni-tense verso l’Africa. Una serie di fattori hannocontribuito ad alimentare le speranze per un deci-sivo cambio di rotta rispetto all’attitudine unilate-rale e militaristica della precedente amministrazio-ne. In primo luogo, le origini keniote del neo pre-sidente, ma anche la composizione del gruppo diesperti chiamati a formulare la nuova politica afri-cana - dal vice Segretario di Stato per gli affariafricani, Johnnie Carson, a Michelle Gavin,responsabile per l’Africa nel Consiglio di sicurez-za nazionale, a Susan Rice, ambasciatrice degliStati Uniti presso le Nazioni Unite, fino ai rappre-sentanti speciali nominati per il Sudan e la regionedei Grandi Laghi - nonché dal discorso pronuncia-to da Obama in Ghana nel luglio del 2009, a pochimesi dall’inizio del suo incarico. Tuttavia, a più diun anno di distanza, solo una minima parte delleaspettative originarie è stata esaudita. La politicadi Obama verso l’Africa è stata articolata in cinquesettori principali. Primo fra tutti, la promozione

Esiste senza dubbio unimperativo morale dei paesioccidentali ad intervenirenel continente africano. Qualche dato: dei 53 Statiindipendenti 35 rientrano tra i paesimeno sviluppati al mondo;metà della popolazione africana vive con meno di un dollaro al giorno; 1/3soffre di malnutrizione; i tassi di mortalità infantilesono allarmanti e in Africasub-sahariana l’aspettativa di vita media è di 47 anni

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della democrazia e dello stato di diritto. I paesi suiquali si è concentrata l’attenzione della nuovaamministrazione sono la Repubblica Democraticadel Congo, il Sudan, e soprattutto la Nigeria (dalquale proviene circa il 10% delle importazioni dipetrolio degli Stati Uniti). Tuttavia, la condottadella nuova amministrazione ha sollevato numero-se critiche, soprattutto per il sostegno fornito aregimi instabili, repressivi e non democratici. InNigeria, ad esempio, il supporto finanziario incon-dizionato fornito alle forze militari governative nonsembra tener conto della fragilità delle istituzionistatuali e della precaria situazione di sicurezzadeterminata dal conflitto del delta del Niger e dal-l’estremismo islamico del nord del Paese.

Un forte accento è stato posto da Obamasulla necessità di porre fine ai conflitti africani, conspecifico riferimento a Guinea, Somalia, Sudan,Repubblica Democratica del Congo, Nigeria eMadagascar. In questo ambito, il nuovo presidentenon sembra aver abbandonato, almeno non ancora enon per il prossimo futuro, l’approccio della politi-ca di Bush. In particolare, si conferma la tendenzaad una progressiva securitizzazione delle relazionitra Stati Uniti ed Africa, nonché una visione dellagestione dei conflitti incentrata sull’elemento mili-tare e sulle attività di contrasto al terrorismo. Glistanziamenti richiesti dalla nuova amministrazioneper finanziare programmi di assistenza nel settoredella sicurezza in Africa nel 2011 si concentranoinfatti sulla vendita di armi (38 milioni di dollari),sulla formazione delle forze armate africane (21milioni di dollari), e sul sostegno alla lotta al terro-rismo (24.4 milioni di dollari). Altro pilastro dellapolitica africana di Obama è quello del supporto allacrescita e allo sviluppo economico. In particolare,gli Stati Uniti hanno promosso alcune importantiiniziative nel settore dell’agricoltura e della sicurez-za alimentare. 3.5 miliardi di dollari sono stati inve-stiti dalla nuova amministrazione nella GlobalHunger and Food Security Initiative, concentrata

sulla lotta alla povertà, alla fame e alla malnutrizio-ne, soprattutto attraverso nuove tecnologie e metodidi produzione da importare nel continente africano.Tuttavia, anche questa iniziativa ha incontrato fortiopposizioni, poiché si basa sull’utilizzo estensivo difertilizzanti ricavati dal petrolio, sulla meccanizza-zione della produzione agricola e sullo sviluppo disemi geneticamente modificati. Nel settore della lotta alle pandemie, dall’Aids allamalaria, Obama si è proposto di continuare ciò cheera stato iniziato dall’amministrazione Bush con ilPresident’s Emergency Plan for Aids Relief (Pepfar)e con uno stanziamento aggiuntivo di 63 miliardi dainvestire per il miglioramento della salute pubblicain diversi paesi africani. Infine, la nuova ammini-strazione si è impegnata a sostenere le istituzioniafricane nella lotta alle minacce transnazionali, dalcambiamento climatico, al narcotraffico, al trafficodi armi e esseri umani, fino allo sfruttamento illeci-to delle risorse minerarie e marittime del continen-te. Tuttavia, i nobili propositi espressi da Obamaall’inizio del suo mandato stentano ancora a trovareuna convincente realizzazione. Mancano ancoraadeguate risorse diplomatiche, e cioè una presenzacapillare di rappresentanze statunitensi sul territorioafricano, ed economiche, da investire in primoluogo nella cooperazione allo sviluppo. Inoltre, lequestioni africane dovrebbero diventare terreno pri-vilegiato per attuare l’impegno per una politica este-ra genuinamente multilaterale, così come proclama-to dal nuovo Presidente. L’Unione Europea, la Cina,le nuove potenze emergenti non sono ancora consi-derate dagli Stati Uniti come interlocutori paritariper un’azione coordinata a favore dell’Africa.Oggi l’India rappresenta uno dei partner privilegiatidell’Africa sub-sahariana, non soltanto dal punto divista commerciale, ma anche nel settore delle infra-strutture, per il trasferimento di tecnologia e il capa-city-building. Dal punto di vista politico, India edAfrica sono alleati strategici in una serie di forainternazionali, dalle Nazioni Unite, al Movimentodei Non-Allineati, fino al Gruppo dei 77. Inoltre,

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una nuova alleanza strategica tra i due si sta profi-lando nell’ambito del G20. L’India ha interessiimportanti nel continente africano, che spazianodalle risorse energetiche - il 16% per cento delleimportazioni di petrolio indiane proviene da Statiafricani, in particolare Nigeria, Egitto, Liberia eSudan - a quelle agricole. Imprese agricole indianehanno acquistato centinaia di migliaia di ettari diterreno in Kenya, Madagascar, Senegal eMozambico, incentivate dal governo attraverso pre-stiti a bassi tassi d’interesse. Inoltre, non bisognadimenticare che la diaspora indiana in Africa contacirca due milioni di individui. Le relazioni commer-ciali tra India e Africa sono cresciute di quattro voltenegli ultimi cinque anni (da 9.9 miliardi di dollarinel 2004-05 a 39 miliardi di dollari nel 2008-09). Iprincipali referenti commerciali per l’Indianell’Africa sub-sahariana sono Nigeria, Sud Africa,Mauritius, Kenya, Etiopia, Tanzania e Ghana, cheinsieme rappresentano il 69% del commercio bilate-rale tra i due continenti. L’India ha anche fattodell’Africa uno dei principali destinatari dei propriinvestimenti: 5.7 miliardi di dollari dal 1996 al2007, principalmente diretti verso Mauritius eSudan. Si tratta di investimenti estremamente diver-sificati, che riguardano i settori energetico, delleinfrastrutture, delle telecomunicazioni, dei trasportie dell’educazione. Le iniziative di collaborazionetra India ed Africa si sono moltiplicate negli ultimianni. A livello regionale, si possono ricordare il pro-gramma Focus Africa, i Conclavi annuali sulla par-tnership India-Africa e l’India-Africa Summit,diretti ad incentivare le relazioni commerciali e gliinvestimenti sud-sud. Altri progetti riuniscono sol-tanto alcuni Paesi: ad esempio l’iniziativa Team-9,che coinvolge l’India e 8 Stati dell’Africa dell’est(Burkina Faso, Ciad, Costa d’Avorio, GuineaEquatoriale, Ghana, Guinea-Bissau, Mali, Senegal);o anche la Commissione trilaterale India, Brasile eSud Africa (Ibsa) per lo sviluppo della cooperazio-ne industriale, tecnologica e dei servizi. A partiredall’India-Africa Summit del 2008, l’India si è

impegnata anche nei settori della sicurezza e dellapromozione della pace nel continente africano.L’India ha già istituito rapporti di cooperazione nelsettore della difesa con 13 stati africani, il contribu-to dei peacekeepers indiani alle operazioni delleNazioni Unite in Africa è cresciuto notevolmentenegli ultimi anni e il governo indiano ha avviatoserie di attività di formazione per il personale afri-cano impegnato in missioni di supporto alla pace.La diversificazione delle attività indiane in Africa,unita ad un approccio non intrusivo alle questionipolitiche interne, hanno garantito all’India un note-vole credito presso i leader africani, una premessaindispensabile per lo sviluppo sostenibile delle rela-zioni bilaterali tra i due continenti.

L’Unione europea è il principale partnercommerciale per l’Africa (Stati Uniti e Cina occu-pano il secondo e il terzo posto, rispettivamente) e ilpiù generoso quanto all’erogazione dell’aiuto allosviluppo (circa 25 milioni di euro all’anno).Numerose missioni dell’Unione, sia civili che mili-tari, sono state dispiegate in Africa a partire daArtemis nella Repubblica Democratica del Congonel 2003. Oggi l’Ue è presente con cinque missionie circa 2mila uomini in Guinea Bissau, RepubblicaDemocratica del Congo, Somalia e Golfo di Aden.L’Unione è anche uno dei principali sostenitoridello sviluppo delle istituzioni e delle capacità afri-cane deputate alla prevenzione e gestione dei con-flitti, soprattutto attraverso l’African Peace Facility,uno strumento finanziario che prevede lo stanzia-mento di 300 milioni di euro per il periodo 2008-2010. I rapporti tra Unione europea e Unione africa-na si sono intensificati a partire dal Summit delCairo del 2000 e si sviluppano oggi nella cornicedella Strategia congiunta Africa-Unione europea,adottata a Lisbona nel dicembre del 2007. LaStrategia identifica otto priorità di cooperazione,che vanno dal settore della pace e della sicurezzaalla democrazia ai diritti umani, dal commercio el’integrazione regionale agli Obiettivi del

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Millennio, dall’energia al cambiamento climatico,dall’immigrazione allo sviluppo tecnologico.Tuttavia, la politica africana dell’Unione europearimane poco efficiente e poco coesa. Sebbenel’Unione europea abbia notevolmente modificato ilproprio approccio alle questioni africane, passandoda una logica donatore-ricevente ad un rapporto piùequilibrato di cooperazione, restano ancora nume-rose questioni irrisolte. La politica di condizionalitàin termini di buona gestione, stato di diritto, rispet-to dei diritti umani e sviluppo sostenibile impostadall’Ue ai paesi africani come contropartita per ilproprio sostegno tecnico e finanziario non è benrecepita dai partner. La necessità di rispettare crite-ri e standard europei è vista da molti leader africanicome una inaccettabile rivisitazione della logicacolonialista, soprattutto se comparata con l’approc-cio utilizzato da altri interlocutori internazionali,primi fra tutti Cina e India. Inoltre, la mancanza diobiettivi strategici chiari in ambito Ue e la condottaincoerente della sua politica estera ancora pongonouna pesante ipoteca sui rapporti Europa-Africa. Ildouble standard spesso applicato dall’Ue nei suoirapporti con l’Unione africana non favorisce unclima di fiducia e collaborazione, che è indispensa-bile per la costruzione di relazioni paritarie e dura-ture. In generale, la politica africana dell’Unionenon riesce ad emanciparsi dalle priorità dei princi-pali Stati europei ex coloniali. Gran Bretagna eFrancia, in particolare, sembrano impegnati nel ten-tativo di smarcasi dal proprio passato di relazioniprivilegiate con alcuni governi africani. Tuttavia,sono questi paesi a dettare l’agenda europea e irisultati delle loro politiche si concretizzano spessoin una semplice multilateralizzazione degli interes-si nazionali ed ad un’europeizzazione delle iniziati-ve bilaterali. Tony Blair aveva fatto delle relazioniRegno Unito-Africa uno dei punti cardine della suapolitica estera. L’esperimento della Commission forAfrica del 2004 e il vertice G8 di Gleneagles del2005 sono esempi dell’approccio del governo labu-rista ai problemi africani, caratterizzato da un forte

accento sui temi della cooperazione allo sviluppo edell’aiuto umanitario. Gli anni successivi sono staticaratterizzati dalla scelta selettiva degli ambiti diintervento e dei partner strategici, tra cui il SudAfrica, la Nigeria, la Tanzania e il Ghana. La politi-ca africana del nuovo governo di coalizione guida-to dal conservatore Cameron sembra destinata a svi-lupparsi in continuità con questa tendenza, mentre itemi della sicurezza, del controllo dell’immigrazio-ne e degli investimenti privati nel continente africa-no assumeranno una rilevanza crescente.

La condotta francese nel continente è stataspesso accusata di favorire l’ascesa al potere di capicrudeli e corrotti, sulla base di scelte dettate dai rap-porti ereditati dall’epoca coloniale piuttosto che dastrategie di sviluppo di lungo periodo. All’inizio delsuo mandato, Sarkozy aveva proclamato di volerimprimere un cambiamento di rotta decisivo allerelazioni bilaterali tra Francia e paesi africani. Inparticolare, il Presidente francese si è concentratosulla rinegoziazione degli accordi militari stipula-ti con gli Stati dell’Africa francofona negli anniSessanta e sull’instaurazione di relazioni più aper-te e trasparenti con i leader africani. Tuttavia, isegnali di una decisiva trasformazione nelle rela-zioni tra Francia e continente africano tardano adarrivare. Ad oggi, la Francia mantiene una massic-cia presenza militare in Africa e continua adinfluenzare pesantemente le vicende politiche deisuoi tradizionali interlocutori africani. L’appoggiofrancese è stato determinante per la vittoria di AliBongo nelle ultime e controverse elezioni presi-denziali in Gabon, così come per la sopravviven-za del regime autoritario di Idriss Déby in Ciad. Inaltri casi, ha fatto discutere il mancato interventofrancese per la risoluzione di crisi come quella delDarfur e della Repubblica Democratica delCongo. L’esito del grande gioco africano apparedunque quanto mai incerto. La lungimiranza degliattori africani e la responsabilità dei partner inter-nazionali ne determineranno vincitori e vinti.

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questa idea di un regime economico caratterizzato dalmonopolio dei mezzi di produzione da parte delSovrano, più l’idea classica di dispotismo teorizzata daPlatone a Montesquieu, più la critica al totalitarismomoderno in particolare di Karl Raimonud Popper eHanna Arendt, più i suoi studi sulla storia cinese, iltedesco ex-comunista e esule antinazista negli StatiUniti, Karl August Wittfogel, ne aveva ricavato nel1957 la famosa teoria del “dispotismo idraulico”.Un’idea secondo la quale sarebbe stata la necessità diuna direzione organizzata dei grandi lavori di irrigazio-ne necessari alle civiltà nate lungo i grandi fiumi a for-nire un modello e uno strumento di controllo totalesulla società, poi sviluppatasi nel dispotismo antico enel totalitarismo del XX secolo. Catherine Ciquery-Vidrovitch era partita appunto dallaconfutazione di alcuni tentativi di applicare il concettodi modo di produzione asiatico alla storia africana fattiin particolare da Jean Suret-Canale, mentre MauriceGodelier aveva distinto un modo di produzione asiati-co con grandi opere tipico dell’Asia da un modo di pro-duzione asiatico senza grandi opere tipico dell’Africa.Secondo lei, piuttosto, il modo di produzione africanoera caratterizzato dalla coesistenza tra un’economia di

sussistenza decentrata a livello di villaggi, in comunitàpatriarcali; con un importante commercio internaziona-le e anche intercontinentale in cui invece si manifesta lapresenza degli Stati. Stati, però, che possono interagirecon le comunità locali anche a livello di conquista mili-tare. Insomma, il sovrano, che fa lavorare le sue donnee i suoi servi domestici, non possiede i mezzi di produ-zione come nel modo di produzione asiatico, ma siappropria della ricchezza attraverso il commercio o larazzia. Il che permetterebbe anche di intravedere il rap-porto che si crea col colonialismo, in cui le Potenzecolonizzatrici si affiancano al sovrano (ipotesi del pro-tettorato) o lo sostituiscono addirittura (ipotesi dellacolonia). Ma nel post-colonialismo, questa centralitàdel commercio con l’estero e della razzia come stru-mento di accumulazione torna in mano a moderni“sovrani” locali: partiti unici, dittatori, ma anche leaderdemocratici eletti in competizioni dove la clientela el’appartenenza etnica sono più importanti di classi,interessi o ideologie. Oppure, signori della guerra chela razzia non la praticano solo come metafora sull’ap-propriazione della ricchezza pubblica, ma nel senso piùproprio del termine. D’altra parte, in regimi autoritari odi democrazia bloccata da clientele o appartenenza

DAL CIAD ALL’UGANDA, DALL’ERITREA ALLA NIGERIA, FINO AI TRISTEMENTE NOTI DARFUR E SOMALIA

TUTTE LE GUERRE DIMENTICATEDI MAURIZIO STEFANINI

u nel 1969 che Catherine Ciquery-Vidrovitch scrisse il famoso saggio“Recherches sur un Mode de Production Africain”, in cui introdusse il con-cetto di “modo di produzione africano”. Come è noto, era stato Marx aindividuare un “modo di produzione asiatico” distinto da quelli schia-vista, feudale e capitalista che si erano succeduti in Occidente. Unendo

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etnica, sono il golpe o la guerriglia il modo più direttoper effettuare un ricambio al potere. Come ha poi ricor-dato Dambisa Moyo nel suo recente best-seller Lacarità che uccide - Come gli aiuti dell’Occidente stan-no devastando il Terzo mondo, anche la cooperazioneallo sviluppo e la solidarietà internazionale finisconoper alimentare il bottino da contendere e razziare.Naturalmente, sono tutte tesi che meriterebbero ulterio-ri approfondimenti. Ma per introdurre il problema deiconflitti che continuano a sconvolgere l’Africa la cate-goria del modo di produzione africano basato sulla raz-zia e della sua interrelazione con l’eredità coloniale èprobabilmente più feconda delle altre due tesi principa-li che sono state avanzate. L’una, derivata proprio dallevicende immediatamente successive alla decolonizza-zione in paesi come il Congo ex-Belga, insisteva inparticolare sul carattere “artificiale” degli Stati post-coloniali. Le cui frontiere, fissate a tavolino nel XIXsecolo dalle cancellerie europee sulla base dell’equili-brio e della conquista sul campo, avevano finito permettere assieme etnie diversissime, e destinate fatal-mente a scontrarsi. Nell’impossibilità tecnica di revi-sionare la carta ereditata dalla colonizzazione per farcoincidere le frontiere con le etnie, i Paesi post-colonia-li si erano accordati per congelare ogni irredentismo.Ma a livello interno una conseguenza era che i par-titi finivano nella maggior parte dei casi per coinci-dere con etnie o alleanze di etnie. In qualche casoc’erano anche altri cleavage: in Kenya, ad esempio,la distinzione tra Congresso del Popolo e PartitoDemocratico corrispondeva a quello protestanti-cattolici, mentre in Sudan i partiti del Nord siappoggiavano alle principali confraternite islami-che. Sempre, comunque, l’identità prendeva ilsopravvento, rispetto a interessi, classi e/o ideolo-gie. Per questo negli anni ’60, ’70 e ’80 in Africaimperò il partito unico, come strumento di unifica-zione nazionale. Ma nella pratica piuttosto che assi-curare l’integrazione tra le etnie, il partito unico fustrumento del dominio di una etnia sulle altre. Nel1974 il presidente senegalese Léopold SédarSenghor ebbe l’idea di pilotare un pluriparitismo

ideologico attraverso l’autorizzazione a tre partiti«socialista, liberale e marxista-leninista»: una tro-vata peraltro motivata essenzialmente dalla vogliadi farsi ammettere in un’Internazionale Socialistache non accettava i partiti unici, e che non ebbe sulmomento troppi imitatori. Ma il pluripartitismodilagò invece dopo il 1989, anche per effetto di unaserie di rivoluzioni ispirate direttamente all’esem-pio dell’Est europeo, visto attraverso le televisioni.Con esiti alterni, visto che anch’esso ha finito percombinarsi al modo africano di produzione dell’appro-priazione dei beni pubblici.Ma più ancora delle etnie, nell’ultimo ventennio ilgioco politico africano e anche la dinamica dei conflit-ti si è intrecciato a un altro grande cleavage, che in epo-che di scontro di civiltà post-11 settembre 2001 ha fini-to anch’esso per essere giudicato specie dalla pubblici-stica spicciola uno dei principali motori dei conflittiafricani: quello tra cristiani e musulmani. L’Africa èinfatti attraversata da una colossale soluzione di conti-nuità più o meno attorno all’Equatore, tra un Nord isla-mizzato e un centro-sud che invece rimase animista edal XIX secolo in poi è stato convertito in massa al cri-stianesimo dai missionari. Nel dettaglio, c’erano nel1900 nell’Africa Sub-sahariana 11 milioni di musul-mani e 7 milioni di cristiani; 110 anni dopo, i musul-mani sono diventati 234 milioni, ma i cristiani 470milioni. Un cristiano su ogni cinque esistenti al mondo,e un musulmano su sette. Se poi consideriamo anche ilNordafrica, il rapporto nell’intero Continente è di per-fetto equilibrio: mezzo miliardo di musulmani, mezzomiliardo di cristiani. Sono dati che il Pew ResearchCenter, noto think tank di Washington, ha stimato in unrapporto, incrociandoli a un’inchiesta che ha avutoluogo tra dicembre 2008 e aprile 2009 su un ampiocampionario di 25mila africani, cittadini di 19 Paesi eparlanti 60 lingue. L’Africa è dunque il Continentedove nell’ultimo secolo è più cresciuto il cristianesimoed è più cresciuto l’islamismo. Mettendoli l’uno difronte all’altro. Nell’antichità, peraltro, era stata proprio l’Africa ilprimo Continente in cui il cristianesimo era diventato

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fenomeno di massa. L’Egitto fu il primo paese almondo a diventare in maggioranza cristiano, poi seguìl’attuale Maghreb, e dal Nordafrica al primo cristiane-simo vennero pensatori importanti come Origene,Tertulliano, Lattanzio e Sant’Agostino. Pure in Egittonacque il monachesimo, mentre in Etiopia il cristiane-simo divenne religione di Stato nella trentina d’annisuccessiva alla conversione dell’Armenia e a quella diCostantino. Ma la cristianità nord-africana fu poi spaz-zata via dall’Islam, salvo una sempre più ridotta mino-ranza copta in Egitto (oggi tra l’8 e il 12%). In compen-so, il formidabile bastione montano del cristianesimoindigeno etiopico riuscì manu militari a bloccare la viadiretta dell’espansione dell’Islam dal Mar Rosso all’in-terno, permettendo solo il più lento filtraggio attraversole etnie in contatto col Deserto del Sahara, per la via

delle carovane. E questa era ancora sostanzialmente lasituazione all’inizio del XX secolo: quando il colonia-lismo occidentale aprì l’Africa Sub-shariana ai mis-sionari. Cristiani, ma anche musulmani. Come ricorda pure il rapporto del Pew ResearchCenter, in Africa cristianesimo e islamismo crescononon sottraendosi fedeli a vicenda, ma entrambi a spesedei culti tradizionali, che comunque sono ancoraseguiti da un africano su quattro. Molto spesso,sovrapponendosi all’ortodossia musulmana o cristia-na. Ma è proprio la zona al confine tra le aree a predo-minanza cristiana a sud dell’asse Somalia-Senegal equelle a predominanza musulmana al nord, quelladove non solo restano le più forti componenti animi-ste, ma la coesistenza tra le fedi finisce spesso perdegenerare in scontro. Tra gli avamposti islamici sullacosta dell’Oceano Indiano Al Qaeda fece i suoi primigrandi attentati, alle ambasciate Usa di Kenya eTanzania. E nella zona di faglia del Sahel Al Qaeda sista diffondendo ora. In Nigeria, Sudan, Costad’Avorio e Ciad le guerre civili tra Nord e Sud hannospesso acquisito il carattere di una guerra di religionetra cristiani e musulmani, come la rivolta di somali eoromo islamici contro l’Etiopia cristiana, o quelladella Casamance cristiana contro il Senegal islamico.Secondo il citato rapporto, l’80% degli intervistati

dice che “la religione non può giustificare la violenza”,ma l’altro 20% la pensa evidentemente in modo oppo-sto. Metà dei musulmani dice che portare o no il velo“deve essere deciso dalla società e non dalle donne”,ma sia i cristiani che i musulmani vogliono politiciattenti ai valori. Un dato dal Ciad, al confine col Darfur:solo il 16% dei musulmani ritiene violenti i cristiani,ma il 70% dei cristiani ritiene violenti i musulmani. La contrapposizione religiosa, insomma, sovrapponen-dosi alle rivalità etniche e all’economia di razzia hafinito per renderle più virulente, oltre che più appari-scenti dal punto di vista mediatico. Ma proprio la storiadei conflitti africani ci dimostra in modo incontroverti-bile come sia la religione sia l’etnia non siano altro chemere sovrastrutture, per usare un linguaggio marxista.Le guerre di genocidio più feroci, infatti, sono avvenu-

La storia dei conflitti africani dimostra che sia la religione sia l’etnia nonsiano altro che mere sovrastrutture, per usare un linguaggio marxista. Le guerre di genocidio più feroci, infatti, sono avvenute in Ruanda: paese monolingue in kinyarwanda (oltre che in francese) e monoreligioso cattolico.In Somalia: paese anch’essomonolingue in somalo e monoreligioso musulmano. E nel Darfur: regione uniformemente islamica

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te in Ruanda: Paese monolingue in kinyarwanda (oltreche in francese) e monoreligioso cattolico. In Somalia:Paese anch’esso monolingue in somalo e monoreligio-so musulmano. E nel Darfur: regione uniformementeislamica. Ma in Ruanda le rivalità si sono inventate ilignaggi hutu e tutsi; in Somalia hanno riscoperto iclan; e nel Darfur il massacro ha contrapposto musul-mani pastori di lingua araba a musulmani contadinistanziali e parlanti lingue nilo-sahariane. Nella stessaNigeria, le rivalità tra cristiani del Sud e musulmani delNord hanno il carattere informale della rissa e delpogrom, ma la rivolta del Delta del Niger per ottenereuna maggior quota di royalties petrolifere è invece unaguerriglia formalizzata, e acquisisce i caratteri di unconflitto tra un’etnia cristiana e un governo centraleche negli ultimi anni ha avuto per lo più un Presidentecristiano. D’altra parte, il rapporto del Pew ci dice pureche in Nigeria e Uganda le mutilazioni genitali femmi-nili le praticano più i cristiani che i musulmani.Dunque, il conflitto africano più distruttivo tuttora incorso è una faida tra gente che condivide la stessa lin-gua e la stessa religione. Da ben 24 anni va infattiavanti la Guerra Civile Somala, in sette o forse ottofasi. Prima: la rivolta contro Siad Barre del 1986-1991.Seconda: il successivo conflitto tribale, tra 1991 e1992. Terza: lo scontro tra una parte delle milizie triba-li e le forze di peace keeping a guida Onu tra 1992 e1995. Quarta: l’interminabile faida tra i signori dellaguerra tra 1995 e inizio 2006. Quinta: lo scontro tra leCorti Islamiche e il Governo di Transizione. Sesta: l’in-tervento etiopico del 2006-2008. Settima: la ripresadello scontro principale tra islamisti contrari all’accor-do delle Corti Islamiche con il Governo di Transizionee lo stesso Governo di Transizione; quest’ultimo nonpiù appoggiato direttamente dagli etiopici, ma semprecon al fianco in contingente ugandese-burundese-gibu-tino della Amisom; più la faida interna islamista tra al-Shabaab e Hizbul Islam. Ottava: la guerra delle flottedi tutto il mondo contro i pirati. In questo quarto disecolo l’ammontare delle vittime è stato variamentestimato tra le 300mila e le 600mila persone, su unapopolazione che non arriva agli 11 milioni. La Somalia

è tuttora, più che uno Stato fallito, uno Stato scompar-so, con il territorio diviso tra almeno sette entità diffe-renti: Governo Federale di Transizione, Shabaab,Hizbul Islam, la repubblica autoproclamatasi indipen-dente del Somaliland, gli “Stati” di Puntland eGalmudug e l’enclave dei pirati. Ma aggiungendo poii Signori della Guerra che continuano a impazzare unpo’ dappertutto si arriva probabilmente a varie decine. Eppure, l’interminabile Guerra Civile Somala non èstata il conflitto africano più sanguinoso. Tra i tre milio-ni e mezzo e i quattro milioni di morti è stato infatti ilbilancio stimato di quel conflitto congolese che qualcu-no ha definito Prima Guerra Mondiale Africana. Primafase tra 1996 e 1997, con la rivolta dell’Alleanza delleForze Democratiche per la Liberazione del Congo-Zaire (Afdl) di Laurent-Desirée Kabila contro il ditta-tore Mobutu. Secondo fase tra 1998 e 2003, con la rot-tura tra Kabila e i suoi antichi protettori Uganda eRuanda, mentre al fianco di Kabila intervenivanoNamibia, Zimbabwe, Angola e Ciad.

Seguiva la misteriosa uccisione di Kabila,sostituito dal figlio; una faida nella faida tra ruandesi eugandesi; un’ulteriore faida tribale tra 1999 e 2006nell’Ituri; e da ultimo la guerra del 2004-09 che nelKivu ha contrapposto il Coingresso Nazionale per laDifesa del Popolo, una fazione tutsi appoggiata dalRuanda, a una coalizione tra esercito congolese, mili-zie filko-governative Mai-Mai, ribelli hutu ruandesidelle Forze Democratiche per la Liberazione delRuanda, Angola, Zimbabwe e contingenti Onu. In teo-ria concluso un un accordo di pace nel marzo del2009; ma di fatto ribelli tutsi e esercito congolesehanno continuato a combattere anche dopo. Oro, dia-manti e coltan sono state le risorse che le varie fazionisi sono contesi, mentre la guerra si saldava con altriconflitti, a catena. In Uganda, ad esempio, continua dal 1987 la rivoltadell’Esercito di Resistenza del Signore: un gruppo tri-bale espressione dell’etnia acholi, mascherato da fon-damentalista cristiano e famigerato per i suoi abusicontro bambini sequestrati e mutilati. Nata dal risenti-

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mento per il rovesciamento del Presidente acholi TitoOkello da parte della guerriglia di Yoveri Museveni,dell’etnia sudista Nyankole e ancora al potere, appog-giata dal Sudan in reazione all’aiuto che a sua voltaMuseveni dava ai ribelli del Sud, questa rivolta ha fattoalmeno 12.000 morti. Il Ruanda a sua volta voleva pre-venire la rivalsa dei 2 milioni di hutu che erano scappa-ti in Congo dopo aver perso la guerra coi tutsi, in mar-gine alla quale gli stessi tutsi erano stati vittime di ungenocidio da mezzo milione-un milione di vittime. E inAngola si è conclusa nel 2002 una guerra civile tra ilgoverno del Movimento Popolare di Liberazionedell’Angola e l’Unione per l’Indipendenza Totaledell’Angola: due fazioni a base etnica, mbundu delcentro e meticci della capitale Luanda contro ovimbun-du del Sud. Ma che all’epoca della Guerra Fredda sierano schierati secondo le parole d’ordine del sociali-smo e dell’anticomunismo, con l’intervento di Cubacon l’Mpla e del Sudafrica dell’apartheid con l’Unita, econ l’appropriazione in particolare delle risorse dipetrolio per l’Mpla e di diamanti per l’Unita. Finita nel1975 per l’accettazione da parte dell’Unita di un ruolodi partito di opposizione dopo la morte in combatti-mento del suo leader Jonas Savimbi, la guerra civile

angolana aveva provocato dal 1975 mezzo milione dimorti.In Ciad la Quarta Guerra Civile è iniziata nel2005, provocando oltre un migliaio di morti. Quattrogruppi armati si sono opposti alla riforma costituzio-nale che aveva consentito la terza candidatura presi-denziale di Idriss Déby: il Fronte Unito per il CambioDemocratico, le Forze Unite per lo Sviluppo e laDemocrazia, il Raggruppamento di Forze per ilCambio, l’Accordo Nazionale delk Ciad. Sono statiappoggiati dal governo del Sudan e anche alle famige-rate milizie Janjaweed del Darfur, in rappresagliaall’altro appoggio che il governo del Ciad ha invecedato ai ribelli del Darfur. Quel Darfur in cui tra 2003 e2009 un conflitto tra pastori arabofoni e contadininilotici è degenerato in una guerra aperta. Da una partetre gruppi armati. Il Movimento Giustizia eEguaglianza, il Fronte Nazionale di Redenzione e ilMovimento di Liberazione del Sudan/Esercito,

appoggiati appunto da Ciad e Eritrea. Dall’altra ilgoverno sudanese, che in campo ha scatenato le già cita-te milizie Janjaweed, “Diavoli a Cavallo”. I 300-400mila morti del Darfur si aggiungono ai quasi 2 milio-ni caduti in seguito all’altra rivolta del Sud cristiano eanimista durata dal 1983 al 2005. La rivolta del Sud si èpoi conclusa con l’accordo di pace che ha portato gli ex-guerriglieri sudisti dell’Esercito Popolare di Liberazionedel Sudan a partecipare al governo, in attesa del referen-dum che il prossimo gennaio dovrebbe decidere suun’eventuale indipendenza. E anche nel Darfur a febbra-io è stata siglata una tregua. Ma ad aprile le elezionihanno portato a una ripresa di tensione, col boicottaggiodi gran parte delle opposizioni, accuse di brogli e scontriarmati in zone al confine tra il Nord e il Sud. Inquietantepreludio a una deflagrazione che potrebbe aver luogo incaso di indipendenza del Sud, sull’assegnazione di alcu-ne aree particolarmente ricche di petrolio. Senza dimen-ticare che tra 2009 e 2010 varie faide sono avvenute tragruppi di nomadi rivali nel Kordofan meridionale, con ilsaldo di 2000-2500 vittime. Tra l’altro, anche le cinquefazioni che tra 2003 e 2007 hanno combattuto nellaRepubblica Centrafricana contro il governo del presiden-te François Bozizé sono state appoggiate dal Sudan,

La Somalia più che unostato fallito è uno statoscomparso, con il territoriodiviso tra almeno sette entità differenti: GovernoFederale di Transizione,Shabaab, Hizbul Islam, la repubblica autoproclamatasi indipendente del Somaliland, gli “Stati” di Puntland e Galmudug e l'enclave dei pirati

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mentre con Bozizé si è schierato il Ciad. Un conflittoanch’esso da varie centinaia di morti, e che continua aprodurre violenza anche dopo l’accordo di pace deldicembre 2008. Tant’è che qualcuno ha parla di una solagrande Guerra dell’Africa Centrale, divisa in varie fasi evari fronti. La guerra in Somalia si è saldata a sua voltaalle varie rivolte separatiste in corso in Etiopia, aiutate daun’Eritrea che tresca con l’integralismo islamico, ma è asua volta minacciata da una Jihad eritrea appoggiata dalSudan, ed è in contrasto sulla delimitazione dei confinicon tutti i suoi confinanti. In particolare l’insorgenzasomalo-islamista del Fronte di Liberazione Nazionaledell’Ogaden, in corso dal 1995, ha provocato tra i 3000e i 3500 morti. Nel giugno del 2008 c’è stata una mini-guerra di confine tra Eritrea e Gibuti, con circa 150 vitti-me. E a gennaio ci sono state anche scaramucce al con-fine tra Eritrea ed Etiopia, con 35 caduti. Due, come si ègià ricordato, i fronti di tensione in Nigeria. Da una parte,le continue faide e pogrom tra cristiani e musulmaninelle aree plurireligiose: non solo per l’opposizione deicristiani all’imposizione della Sharia nelle zone a mag-gioranza islamica, ma più in generale per insofferenzaverso le migrazioni interne. Nel luglio del 2009 unoscoppio di violenza particolarmente intenso nel Nord-Est ha ammucchiato oltre 700 cadaveri. Dall’altra nelDelta del Niger continua nel 2004 la guerriglia delMend: il Movimento per l’Emancipazione del Delta delNiger, espressione dell’etnia Ijaw, e che comunque con-tinua le stesse rivendicazioni del Sud-Est sui giacimentipetroliferi che già avevano portato negli anni ‘70 l’etniaIbo a tentare la secessione del Biafra e negli anni ‘90 l’et-nia Ogoni a condurre la campagna di disobbedienzacivile che l’allora regime militare aveva stroncato impic-cando il suoi leader, lo scrittore Ken Saro-Wiwa. In real-tà qui il numero delle vittime non è molto alto: ma incompenso è alta l’attenzione del mondo, per la granquantità di attacchi a piattaforme petrolifere gestite damultinazionali. Poi c’è il Maghreb. Nel 1992 il golpeche impedì la vittoria elettorale del Fronte Islamico diSalvezza accese in Algeria la rivolta islamista che in 10anni provocò 160mila morti. Dal 2002 quel conflitto adalta intensità è stato dichiarato concluso, ma i resti della

guerriglia jihadista si sono uniti ad altri elementi qaidistiin un’insorgenza a più basso livello, e che però si è este-sa a Marocco, Tunisia, Mali, Mauritania, Niger e perfi-no le enclaves spagnole di Ceuta e Melilla. E le vittimesono ormai stimate in oltre 6mila. Per controbatterla dalfebbraio del 2007 la Operation Enduring Freedom -Trans Sahara, che si estende fino a Senegal e Ciad. E iltutto ha rischiato di saldarsi alla Seconda Rivolta Tuaregche si è accesa in Mali e Niger tra 2007 e 2009, provo-cando varie centinaia di morti.

Anche grazie a un forte interventomultinazio-nale si sono invece concluse le guerre civili che avevanosconvolto la Costa d’Avorio nel 2002-2007 (quasi 2milamorti), la Liberia nel 1989-96 e 1999-03 (350.000 morti)e la Sierra Leone nel 1991-2000 (75mila morti): tutticonflitti che sono partiti da contestazioni elettorali, sisono complicate con rivalità tribali e sono degenerate inguerre di razzia che hanno però cercato di mobilitarsicon motivazioni nazionaliste contro le forze di peacekeeping straniere. Di carattere più propriamente separa-tista la rivolta della Casamance contro il Senegal (1990-2006, oltre un migliaio di morti) e quella del FrontePolisario nel Sahara Occidentale: 1973-75 contro laSpagna, 1975-1979 contro Mauritania e Marocco, 1979-1992 contro il solo Marocco, per un totale di 25milamorti. Dal 1991 nel Sahara Occidentale è in corso un’in-terminabile mediazione internazionale per un referen-dum che dovrebbe decidere tra autonomia o indipenden-za, e che ogni tanto è inframmezzato da riprese di tensio-ne. Anche in Kenya tra fine 2007 e inizio 2008 la pole-mica su un risultato elettorale accese una faida etnica cheuccise tra le 800 e le 1500 persone. Fortunatamente nonsi formarono però milizie armate e la crisi fu risolta daun accordo per un governo di unità nazionale. Nel con-tempo, ci fu anche un’insurrezione tribale per disputesulla terra nel Distretto del Monte Elgon, che durò dal2005 al 2008 e provocò 600 morti. Quasi da operetta macomunque col bilancio di 3 morti e 21 feriti, infine,l’operazione anfibia con cui nel marzo del 2007 leComore rioccuparono la secessionista isola di Anjouan,con l’appoggio di Unione Africana, Francia e Libia.

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geografica, tra tre dei comandi principali; Eucom, ilcomando europeo (nord Africa, Africa Occidentale eCentrale Golfo di Guinea, Africa Merdionale),Centcom, il comando responsabile per il Golfo eparte dell’Asia (Corno d’Africa, Kenya, Sudan edEgitto) e persino Pacom, il comando del Pacifico(Madagascar, Seychelles e Oceano Indiano). Le con-seguenze di questo approccio erano evidentementepoco positive, visto che per ciascuno dei comandiinteressati la propria porzione di Africa restavacomunque una missione secondaria, se non del tuttomarginale, per non parlare dei problemi di coordina-mento tra comandanti e comandi di pari livello e deltutto indipendenti. Così, dopo una decina d’anni didiscussioni e ripensamenti, si è giunti alla decisione,da parte dell’Amministrazione Bush, di creare ilnuovo Comando. La pianificazione partì a metà2006, nel febbraio 2007 il presidente annunciò lacostituzione del sesto comando unificato, dedicatoall’Africa e le attività preparatorie sono state avviatead ottobre 2007. A ottobre 2008 è nato ufficialmenteAfricom.Uno dei primi problemi che si è dovutoaffrontare era quello della sede. Idealmente Africomdoveva trovare casa in un paese africano. Ma, a

dispetto delle pressioni e delle offerte generose, nonsi è riusciti a vincere le diffidenze dei paesi africani,mentre i pochi “volontari” accogliendo il comandostatunitense avrebbero finito per trovarsi in difficoltàcon i propri vicini o avrebbero inficiato la possibili-tà del comando di svolgere il proprio ruolo efficace-mente. Così si è finito per basare Africom in Europa,sparpagliandone per di più le varie componenti: lasede di Africom è in Germania, a Stoccarda e sulsuolo tedesco si trovano anche la componente aerea,la 17a Air Force e il suo centro di comando operazio-ni aeree, il 617th Aoc, quella Forze Speciali e persi-no quella dei Marines. In Italia invece si trova lacomponente Esercito, a Vicenza, e quella navale aNapoli. Considerando che in Africa gli eserciti con-tano molto di più delle marine o delle aeronautiche,è evidente l’importanza della disponibilità italiana atrasformarsi in host base per il nuovo comando. AVicenza lo staff di Africom conterà circa 500-600persone, per due terzi militari, mentre 4-500 sarannoa Napoli. È anche vero che in larga misura si è tratta-to di cambiare mostrine e berretto a chi in Italia c’eragià: a Vicenza per esempio si è proceduto trasfor-mando un reparto già esistente, la Setaf (Southern

COMANDO IN GERMANIA, ESERCITO A VICENZA E MARINA A NAPOLI: GLI USA NON HANNO VITA FACILE

GUAZZABUGLIO AFRICOMDI ANDREA NATIVI

er decenni l’Africa non ha avuto un’elevata priorità nei piani e negli inte-ressi del Pentagono. In particolare l’Africa sub sahariana. Solo recente-mente la situazione ha iniziato a cambiare. In precedenza per gli Usa ilcontinente africano non meritava neanche un comando regionale opera-tivo, tanto è vero che le competenze sull’Africa erano ripartite, su base

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European Task Force ). Di fatto le infrastrutture diAfricom coesistono con quelle di Eucom, il che haconsentito un rapido start-up e permette di ridurre icosti logistici e di funzionamento, ma complicaindubbiamente la operatività. Le moderne tecnologierendono possibile collegare “virtualmente” basi esoldati fisicamente separati anche di migliaia di chi-lometri (la sede di Centcom è ad esempio a Tampa,in Florida), però a questo guaio si aggiunge cheAfricom non ha basi avanzate o strutture permanen-ti in Africa. Criticità che sono state evidenziate sia alCongresso sia in analisi indipendenti, come quellecondotte dal Gao (Government AccountabilityOffice), una sorta di Corte dei Conti. In realtà non èaffatto escluso che Africom possa prima o poi traslo-care, almeno in parte in Africa. Ma certo non nel-l’immediato. In ogni caso, Africom una qualche pre-senza concreta in Africa ce l’ha, ma, ironicamente, ilfulcro delle sue attività militari consiste nella base diCamp Lemonnier che si trova a Djbuti, che è ancheuno degli hub dei militari francesi nel continente.Parigi ha accettato e financo agevolato l’arrivo delleforze Usa a Djibuti, gli Usa però usano ora denaro einfluenza politica per garantirsi il mantenimentodella grande base (che si è andata espandendo neglianni) a prescindere dal placet francese. Il secondo Sito avanzato Operativo (Fos) del coman-do africano si trova nell’isola di Ascensione, in atte-sa di meglio. Africom ha poi identificato una decinadi Cooperative Security Locations in Africa checostituiscono le basi/punti di accesso al continente.Perché se non si hanno basi e forze permanenti inloco, bisogna almeno essere sicuri che in caso dinecessità si possa farle affluire, e in fretta.Le “atipicità” di Africom non finiscono qui: dalpunto di vista militare si tratta di un comando senza“muscoli”, praticamente quasi privo di mezzi, solda-ti “propri”, assegnati cioè stabilmente e, di conse-guenza, con una minima presenza permanente“avanzata” nel teatro di competenza.. Il concetto difunzionamento prevede che Africom possa attingerealle risorse degli altri comandi regionali. In molti casi

si deve trattare di “accesso garantito”, ma è evidenteche quando la coperta è corta, come in questi anni, egli altri comandi devono far fronte ad una moltitudi-ne di impegni operativi, a partire da Iraq edAfghanistan, risulta difficile ottenere quanto serve,quando serve. Senza contare che il personale “nondedicato” non può che avere problemi ad adattarsialla realtà africana, alla cultura, alle abitudini, allabarriera linguistica, per non parlare della peculiaritàdella missione di Africom. Non essendoci alternati-ve, Africom fa di necessità virtù e sviluppa quindi leproprie competenze specifiche essenzialmente alivello di comando e comandanti, che di volta involta gestiscono quanto disponibile.Africom ha la capacità di pianificazione, gestionedelle operazioni, grazie ad una struttura completa (oquasi) di comando e controllo che può essere “pro-iettata” in teatro operativo in caso di crisi o di emer-genza (lo staff interforze proiettabile supera le 300unità) e che in condizioni “ordinarie” conduce inve-ce una serie di attività di cooperazione/collaborazio-ne su base continuativa e di livello via via crescente.Peraltro con il tempo si sta cercando di assegnare alcomando almeno una aliquota base di mezzi e perso-nale operativo “proprio”. Al momento l’organico hasuperato quota 1.200. Parallelamente sono aumenta-ti anche gli stanziamenti: si è partiti con 50 milioni didollari nel 2007, per salire a 75 nel 2008 ed a 310 nel2009 , salvo poi ridiscendere a quota 278 milioni nel2010. Ancora, essendo l’ultimo nato, Africom devesuperare un po’ alla volta le resistenze dei comandigià esistenti che avevano iniziative di cooperazionemilitare in Africa, attività che devono necessaria-mente essere assorbite dal nuovo comando: si puòpensare ad esempio ai programmi della Us Navycome l’Aps, Africa Partnership Station, condotto nelgolfo di Guinea, che la Marina non aveva alcunaintenzione di trasferire ad Africom.Per non parlare del fatto che non tutta l’Africa è diAfricom, perché Centcom si è “tenuto” l’Egitto. Ma non finisce qui. Africom è anche l’unico coman-do del Pentagono ad avere una marcata caratterizza-

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zione “multiministeriale-multiagenzia”: ad Africomil personale civile, in particolare del Dipartimento diStato (il numero 2 di Africom, responsabile per gli affa-ri politico-civili è infatti un diplomatico, con il rango diambasciatore) e di varie agenzie governative, a partireda Usaid (Us Agency for International Development), ha un peso rilevante ad ogni livello (o quasi, le posi-zioni chiave sono comunque quasi tutte affidate a per-sonale in uniforme), perché la missione da svolgereriguarda difesa, ma anche sicurezza, politica estera e disviluppo. Considerando le rigidità, le barriere e le gelo-sie che caratterizzano la macchina burocratica-gover-nativa statunitense, Africom rappresenta una scommes-sa dall’esito niente affatto scontato.

Africom ha un task ufficiale molto chiaro,ovviamente volto a realizzare gli interessi nazionalistatunitensi, attraverso un approccio 3D: si parlainfatti di Defense, Diplomacy, Development. Tuttavial’obiettivo strategico prioritario è più concretamentequello di sconfiggere Al Qaeda e le sue ramificazio-ni locali africane, come l’Aqim maghrebino.Africom deve poi creare le capacità di condurre ope-razioni di pace per rispondere a nuove crisi e suppor-tare le operazioni di pace in atto, nonché cooperarecon i paesi africani per rendere difficile la prolifera-zione e il possesso da parte di paesi africani di armiper la distruzione di massa. Deve cercare migliorarele capacità, la affidabilità istituzionale e la professio-nalità delle forze militari e di sicurezza dei governiafricani (che spesso si trasformano da elementi di sta-bilità e pilastri delle istituzioni in elementi di destabi-lizzazione), per permettere loro di affrontare minac-ce transnazionali e di condurre operazioni di pacenonché di supportare i rispettivi governi. In partico-lare l’obiettivo è quello di far si che i paesi africanipossano creare e sostenere forze militari convenzio-nali e tutti i relativi elementi di supporto. Poi ci sono anche gli impegni umanitari, contro lepandemie e malattie come l’Hiv. Tutto questo a livel-lo ufficiale. Poi, anche se nessuno lo ammetterà mai,è evidente che gli Usa sono interessati a garantirsi

l’accesso alle materie prime africane, a cominciaredagli idrocarburi e non solo. Si calcola che già dal2015 gli Usa importeranno dall’Africa il 25% circadel petrolio del quale hanno bisogno, petrolio cheinsieme al gas viene estratto in Nigeria, Guinea,Gabon e Angola, mentre importanti giacimenti sonostati identificati in Uganda e Ghana. Per non parlaredella vitale esigenza di mantenere aperte e sicure lelinee di comunicazioni marittime che i pirati somali(e non solo) hanno minacciato seriamente, prima diessere rintuzzati con una serie di attività estremamen-te costose e parzialmente efficaci condotte dallacomunità internazionale.I vertici di Africom sono abbastanza realistici quan-do discutono la possibilità di realizzare il ruolo asse-gnato. In Africa, gli Usa non sono e non possono gio-care nel modo abituale. Intanto perché non hanno lerisorse per farlo. Basti pensare che la Francia, pur sesta cercando di disimpegnarsi dal continente, mantie-ne comunque in Africa circa 1/3 dei soldati schieratifuori dalla basi metropolitane e impiega stabilmenteoltre 10mila soldati. E, può sembrare assurdo, ma cisono probabilmente più militari cinesi in Africa diquanto non siano quelli dell’Esercito statunitense,per non parlare dei contingenti militari internaziona-li che operano in seno alle missioni Onu e che com-prendono migliaia e migliaia di soldati, ad esempiodel Pakistan. Dunque il Pentagono in Africa non èdavvero il peso massimo. Inoltre il contesto africanosuggerisce di adottare una strategia di “basso profi-lo”, perché Africom per avere successo deve perprima cosa superare sospetti, perplessità, quando nonaperta ostilità. In molti paesi africani le vecchiepotenze coloniali godono di un trattamento e di uncredito che solo poche capitali sono invece dispostea concedere agli Stati Uniti. Persino i neocolonialisticinesi o indiani spesso sono visti con meno diffiden-za. Poi in Africa opera massicciamente l’Onu, l’U-nione Europea e tanti singoli paesi europei. La posi-zione ufficiale americana è che si cerca di collabora-re con tutti, badando di evitare sovrapposizioni e fri-zioni. In realtà così non può essere e infatti non è.

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Però gli Usa cercando di imparare dagli altri e conqualcuno collaborano e cercano di evitare imposizio-ni. Ad esempio è stato sicuramente lungimirante lascelta di ripartire l’Aor, l’aerea di responsabilità delComando in 5 settori regionali che corrispondonoalle aree regionali dell’Unione Africana, ciascunadelle quali dovrebbe disporre di una propria brigatamultinazionale stand-by capace di intervenire rapi-damente in caso di crisi o in operazioni di stabilizza-zione. Di fatto di brigate decentemente operative cene sono due, Africom lavora per migliorare le capa-cità di queste unità e per aiutare l’attivazione effetti-va delle altre tre.Il fulcro della attività di Africom rimane la Cjtf-Hoa(Combined Joint Task Force Horn of Africa) aDijbouti, nata nel 2002, la cui missione principaleconsiste nel combattere Al Qaeda e in generale il ter-rorismo internazionale che ha trovato in Africa unterreno fertilissimo, così come santuari e protezioni eche ovviamente non può che prosperare in stati falli-ti come la Somalia o dove i governi e le istituzioninon funzionano. Dijbouti funge poi da base appog-gio/logistica e trampolino di lancio per una serie diattività, “nere” e ufficiali, per contrastare il terrori-smo anche al di fuori dell’Africa, a partire dalloYemen. La Citf-Hoa conduce ovviamente anche atti-vità meno “cinetiche” di cooperazione militare e nelcampo della sicurezza.Altra missione anti-terrorismo è la Tscti, Trans-Sahara Counter Terrorism Initiative, erede della pre-cedente operazione Pan-Sahel condotta dalDipartimento di Stato e finalizzata a migliorare ilcontrollo dei confini dei paesi partecipanti. Africomla supporta, ma ha anche la sua operazione più pret-tamente militare, la Operation EnduringFreedom.Trans Sahara (Oef-Ts) che vede l’impegnoin particolare delle Forze Speciali, è volta a crearecapacità antiterrorismo e che ultimamente ha vistouna maggiore attività in Africa Orientale, dal Kenyaall’Uganda, all’Etiopia a Dijbouti. Si tratta di aiutarequesti paesi a creare forze speciali, capacità intelli-gence e di sorveglianza. In campo marittimo si sta

espandendo, anche per combattere la minaccia dellapirateria, il programma Africa Partnership Station,avviato dalla Us Navy nel 2007 e che ha visto la par-tecipazione di dieci paesi africani e che ha prodottoottimi risultati e viene ora condotto in AfricaOccidentale, Orientale e Meridionale, anche attra-verso la creazione di reti di sorveglianza radar costie-ra, la formazione di guardie costiere che ricevonoistruzione e battelli dagli Usa, attività addestrative edesercitazioni, scambi di informazioni. Sempre incampo navale, c’è il programma Mlep, AfricaMarittime Law Enforcement, volto a proteggererisorse naturali, a partire da quelle ittiche, fermarecontrabbando e attività illegali. Ci sono poi program-mi di assistenza nel campo della logistica, dell’intel-ligence (Intelligence Security Cooperation andEngagement). Altri progetti sono mirati alla creazio-ne di capacità di comando e controllo pressol’Unione Africana e il suo centro per le operazioni dipace, nonché presso le 5 Brigate stand-by regionali.Programmi specifici nel settore delle comunicazio-

Dal punto di vista militareAfricom è un comandosenza “muscoli”, praticamente quasi privo di mezzi e soldati propri,assegnati cioè stabilmente e, di conseguenza, con unaminima presenza permanente “avanzata” nel teatro di competenza.Il concetto di funzionamento prevedeche Africom possa attingere alle risorse degli altri comandi

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ni sono in atto presso 13 paesi dell’Ecowas, per for-nire ai rispettivi comandanti militari almeno un’ar-chitettura base di comunicazione. Ci sono poi pro-getti nel campo dello sminamento umanitario.Tra i programmi di “mentoring” va ricordato quel-lo, quinquennale condotto in Liberia per costituireun apparato di difesa e sicurezza oppure quello cheprevede la costituzione, equipaggiamento e adde-stramento di un battaglione di fanteria impiegabilein missioni di pace nel Congo Drc. Programmi spe-cifici di preparazione e addestramento (Acota,Africa Contingency Operations Training andAssistance) sono condotti per migliorare le capaci-tà dei reparti che i paesi africani mettono a disposi-zione delle varie missioni di peace keeping. Ancora,Africom lavora con le ambasciate statunitensi inAfrica attraverso propri rappresentanti e ufficiali dicollegamento e piccoli team. Il contenuto e il venta-glio dei programmi di Africom è dunque il frutto diuna combinazione degli interessi di paesi africanipartner e naturalmente degli interessi statunitensi. Uno degli strumenti più efficaci di cooperazionemilitare consiste nell’aiutare i governi africani aequipaggiare e far funzionare le rispettive forzearmate, ottenendo poi la massima standardizzazio-

ne possibile a livello continentale, ma anche con leforze armate statunitensi, in modo da rendere possi-bile attività congiunte ad ogni livello. Per quantopossibile gli Stati Uniti cercando di “esportare” ilproprio modello organizzativo, la propria dottrina,procedure, standard. I paesi amici, alleati, partner,siano questi paesi evoluti oppure relativamentepoco sviluppati in linea di massima dovrebberorecepire il “verbo” Usa. Un esercizio che funzionapiuttosto bene anche a livello Nato: del resto se vuoi“lavorare” con le forze armate statunitensi è neces-saria una certa compatibilità se non la piena intero-perabilità. Né si può pensare che siano le forzearmate Usa ad adattarsi agli usi e costumi dei par-tner. Questa attività di suasion però trova evidentiostacoli in Africa, dove la maggior parte degli stru-menti militari nazionali versa in uno stato di arretra-tezza tecnologica, inefficienza e pessima organizza-zione/gestione. Per moltissimi Paesi africani, anchevolendo, il modello statunitense è del tutto inappli-cabile e inappropriato, tante e tali sono le differen-ze. E tutto questo complica le relazioni. PeraltroAfricom ce la mette tutta, lavorando, come visto,sia dal basso sia dall’alto: da un lato formando qua-dri junior, come i sottufficiali o gli ufficiali subalter-ni, dall’altro impegnandosi nella formazione deiquadri dirigenti e degli staff ai livelli superiori, siain Africa che negli Usa. Ad esempio, Africom difatto ha creato e gestisce il War College Etiope,mentre ha sponsorizzato la presenza di una ventinadi selezionati ufficiali di una quindicina di paesiafricani presso il Joint Staff College statunitense diFort Leavenworth, Kansas.

Un aspetto altrettanto importante consistenell’aiutare i governi africani a modernizzare leproprie forze, possibilmente…acquistando ameri-cano. Questo ultimo aspetto è fondamentale, sia perla standardizzazione, sia per la rilevanza economi-ca, sia per quella strategica, in quanto chi acquistaall’estero si lega in un rapporto di dipendenza dalfornitore, non fosse che per assistenza tecnica e for-

Gli Usa hanno capito che la maggior parte dei prodotti e delle tecnologie militari di cuidispongono sono eccessivi,troppo costosi e difficili da far funzionare nel contesto africano. Al continente nero servonosistemi rustici, affidabili e semplici: non le iper-tecnologie

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nitura di pezzi di ricambio. Gli Stati Uniti hannouna serie di meccanismi ben oliati per realizzarequesto obiettivo: si tratta ad esempio dei contratti divendita Fms (Foreign Military Sales) che prevedo-no che il governo americano acquisti per conto diun governo estero materiali e sistemi dalle industriedi casa. Il rapporto è diretto, governo-governo, chiriceverà i materiali formalmente non tratta conl’azienda che vende. E l’acquisto può essere finan-ziato attraverso i Foreign Military Funds approvatiannualmente dal Congresso, sotto forma di aiuti afondo perduto o prestiti. Anche in questo campo peranni l’Africa ha ricevuto però poco o nulla. Gli Fmfdestinati all’Africa in particolare si sono gradual-mente ridotti quasi a zero dal 2002 fino al 2008 enon è che in precedenza fossero particolarmenteabbondanti: ci sono stati picchi nel 1982 con pro-getti in Sudan e di nuovo nel ‘91 con attività inBotswana, Costa d’Avorio, Ghana e Dijbouti e infi-ne nel 2002 con il Kenya.Con la nascita di Africom la situazione sta cam-biando: gli Fmf africani stanno tornando a crescerea ritmi consistenti, anche se per ora le cifre assolu-te sono modeste. Tuttavia in Africa bastano relati-vamente pochi soldi per ottenere significativimiglioramenti, tanto è disastroso il livello di parten-za. Così si è passati da 8 milioni di dollari a 26milioni nel giro di un anno (dal 2009 al 2010) e peril 2011 ne sono stati richiesti 38 milioni. Gli Usa si sono anche resi conto che la maggiorparte dei prodotti e delle tecnologie militari di cuidispongono sono eccessive, troppo costose, diffici-li da far funzionare nel contesto africano. In Africaservono sistemi rustici, affidabili, semplici, non leiper-tecnologie. Per aggirare il problema gli StatiUniti utilizzano varie soluzioni: cercando di pro-muovere l’acquisto dei sistemi più “basici” percapacità e costo in servizio con le proprie forzearmate (ad esempio gli aerei italiani C-27J invecedei più grandi, costosi e complicati C-130 prodottiin Usa,) procedendo, attraverso i programmi Eda,Excess Defense Articles, alla cessione gratuita di

materiale dichiarato in surplus dal Pentagono e che,se pur usato, può svolgere ancora un ruolo preziosoin Africa, previo adeguata revisione e, soprattutto,addestramento del personale destinato ad utilizzar-lo e specifici programmi di supporto logistico.Dall’altro, grazie alla lezione appresa in Iraq o inAfghanistan, si può acquistare sistemi e tecnologienon statunitensi sul mercato dell’usato e poi “girar-le” ai paesi beneficiati. Infine, si cerca di rimetterein funzione sistemi di produzione americana chepaesi africani hanno acquistato in passato e che, sepur utilizzabili, di fatto non lo sono per problemilogistici/manutentivi. È il caso ad esempio degliaerei da trasporto C-130 delle prime versioni, pre-senti in diversi paesi africani, ma solo il 50% deiquali è efficiente.

L’aeronautica statunitense sta cooperandocon le aeronautiche di paesi africani per rimette-re in servizio questi aerei, preziosissimi per spo-stare materiali e personale in aree dove non cisono ferrovie, la rete stradale è approssimativa,le distanze immense, il terreno difficile. Semprel’aeronautica sta cercando di migliorare la situa-zione spesso sconsolante in cui versano gli aero-porti di moltissimi paesi africani, con carenzedrammatiche anche in settori elementari (radarcontrollo traffico aereo, comunicazioni etc.) cherendono difficilmente accessibili anche per viaaerea intere regioni (per non parlare della sicu-rezza del volo, il tasso di incidenti nell’aviazionecivile africana è altissimo e innumerevoli compa-gnie aeree locali sono nelle black list internazio-nali perché non danno sufficienti garanzie). Visono poi programmi di cooperazione bilateralimolto innovativi, che prevedono che la GuardiaNazionale di uno degli Stati Uniti “adotti” unpaese africano e conduca una serie di attività diaddestramento, collaborazione , esercitazioni. Civorranno anni, lustri per ottenere un radicalemiglioramento, ma la politica statunitense sem-bra volerci provare davvero.

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vuoto, dando vita a diverse missoni per monitorareaccordi di cessate il fuoco, di pace o tregue. Il più dellevolte si è trattato di missioni che non hanno raggiunto illoro scopo ed il cui bilancio si è risolto in un fallimentoo che hanno suscitato aspre critiche e polemiche. Ma tan-t’è, nell’assenza di un impegno serio e sistematico daparte dell’Occidente, disinteressato ai problemi africani,molto spesso i Caschi Blu sono stati, e sono tuttora, l’uni-ca alternativa possibile e l’unico mezzo impiegabile incontesti, ambientali e politici, estremamente difficili ecomplicati. Oggi, decine di migliaia di Caschi Blu, o sol-dati dell’Unione Africana, sono impegnati in tutto ilContinente Africano in operazioni classiche di peacekeeping o monitoraggio per impedire che condizioni diconflittualità si riaccendano o possano degenerare.L’Africa è pertanto diventata una sorta di core businessper l’Onu, laddove in altri contesti strategicamente piùimportanti, dal Medio Oriente all’Asia, ad occuparsidella stabilizzazione e dell’ordine sono direttamente gliStati Uniti, da soli o in ambito di coalizione ad hoc, oorganizzazioni comunque guidate dagli Usa, come è laNato.L’Onu è attualmente impegnata in diverse missio-ni di pace in paesi africani. Dalla Costa D’Avorio, alCongo fino al Sudan. Queste, di fatto, sono le principali

missioni di peace keeping a guida Onu sul suolo africa-no. In Costa D’Avorio è tuttora attiva la missione Unoci(United Nations Operation in Côte d’Ivoire), autorizzatacon una risoluzione del Consiglio di Sicurezza il 27 feb-braio 2004. La missione è stata lanciata per facilitarel’implementazione degli accordi di cessate il fuoco delgennaio 2003 tra le forze governative, che controllavanola parte meridionale del paese, e i gruppi ribelli delleForze Nuove, che controllavano il nord, ed ha preso ilposto della Minuci (United Nations Mission in Côted’Ivoire) stabilita nel maggio 2003 per facilitare l’attua-zione degli accordi di cinque mesi prima. La missione hail compito di creare una zona cuscinetto tra i due conten-denti nella parte centrale del paese, per monitorare la ces-sazione delle ostilità, garantire le condizioni per ristabili-re la fiducia reciproca tra le parti, assicurare il collega-mento con le Fanci (National Armed Forces of Côted’Ivoire) e le forze francesi della missione Licorne, assi-stere il Governo nel monitoraggio dei confini ed attuareil processo di Ddr (Disarmament, Demobilization andReintegration) di tutte le fazioni ed i combattenti. Ingenerale, l’obiettivo di Unoci è favorire la riunificazionedel paese e la creazione di un governo stabile di tutti gliivoriani. Nei fatti, tale obiettivo ancora oggi è stato pale-

MONUC, UNOCI, UNAMID: LE MISSIONI TRACOLLANO E L’UNIONE AFRICANA LATITA

IL FALLIMENTO DEI CASCHI BLUDI PIETRO BATACCHI

partire dai primi anni Novanta, tutto il Continente a sud della fascia delMaghreb ha sofferto una guerra civile, o un conflitto maggiore, come nelcaso della Repubblica Democratica del Congo, che ha lasciato un vuotodi governo e sicurezza. L’Onu, e negli ultimi anni in misura minorel’Unione Africana, è l’organizzazione che ha cercato di riempire questo

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semente mancato. Il cessate il fuoco è stato più volte vio-lato e le milizie non sono state disarmate. Gli accordi delgennaio 2003, che prevedevano la creazione di ungoverno di unità nazionale e la cessazione delle ostilità,non sono mai stati rispettati da entrambe le parti, fino ache, nel 2004, la situazione è riesplosa nuovamente,dopo che le forze di opposizione avevano abbandonatoil governo guidato dal presidente Laurent Ggabo. Unasituazione culminata a novembre con il pesante inter-vento del contingente francese, dopo l’attacco da partedell’Aviazione governativa contro la base francese diBoakè che ha portato all’uccisione di nove soldati. Inquell’occasione la reazione francese è stata durissima edha provocato la distruzione a terra del’intera forza aereaivoriana - due Su-24, protagonisti dell’attacco a Boakèe cinque Mi-24 - e l’uccisione di diversi civili nelle pro-teste anti-francesi sobillate da Ggabo. Dopo di allora il conflitto ha visto progressivamentediminuire la propria intensità, fino agli accordi diOuagadougou del 2007, firmati dal presidente Ggabo edal leader dell’opposizione Soro, che hanno posto fineagli scontri iniziati nel 2002. L’accordo prevedeval’identificazione della popolazione ivoriana e di quellastraniera residente sul territorio ai fini delle elezioni, lacreazione di una forza di sicurezza stabile, il disarmo deiribelli e delle milizie e la creazione di un nuovo governodi unità nazionale. Tuttavia, nonostante gli accordi,ancora oggi la situazione resta di fatto congelata, con unnord filo-governativo ed un sud controllato dall’opposi-zione, ed al momento in cui scriviamo il processo eletto-rale che avrebbe dovuto portare a nuove elezioni non èancora ripreso. Questa situazione ha di fatto costrettol’Onu a estendere nuovamente, lo scorso 27 maggio, ilmandato di Unoci. Ad oggi, Unoci ha una forza di 7.195uomini ai quali vanno aggiunti 180 osservatori e 1.128poliziotti, con una componente civile composta da unostaff internazionale di 401 persone, 294 volontari e 697persone dello staff locale. I contributi principali vengonoda paesi asiatici, sudamericani e da altri paesi africani. Ilbudget approvato per il periodo luglio 2009 giugno 2010è stato di 491,7 milioni di dollari. In Congo, l’Onu èimpegnata con la sua missione probabilmente più

importante, ovvero la Monuc (United NationsOrganization Mission in the Democratic Republic of theCongo). La missione ha preso avvio con la risoluzione1279 del 30 novembre 1999 e all’inizio si caratterizzavacome missione di monitoraggio ed osservazione, istitui-ta a seguito degli accordi di cessate il fuoco di Lusaka fir-mati dal Governo della Rdc e gli altri cinque stati cheavevano preso parte alla seconda guerra congolese -Ruanda, Uganda, Angola, Namibia e Zimbabwe - chia-mata anche la “Guerra Mondiale dell’Africa”. Con larisoluzione 1291, il Consiglio ha poi esteso il mandatoed i compiti di Monuc, trasformandola in una missionedi peace keeping a tutti gli effetti ed incrementandoneprogressivamente gli organici fino ad oltre 20mila uomi-ni. Monuc è una delle missioni dell’Onu più contestate ecriticate. Nonostante il cospicuo dispiegamento di uomi-ni e mezzi, e un budget annuale vicino al miliardo emezzo di dollari, la missione non è ancora riuscita a sta-bilizzare la situazione e ad impedire il regolare scoppiodi episodi di violenza, molto spesso ai danni della popo-lazione civile, tra le varie fazioni armate ancora attive,soprattutto nella regionale orientale del nord e sud Kivu.Il cessate il fuoco di Lusaka non è mai stato rispettato egli scontri tra le forze governative, i vari gruppi ribelli e

Unmil in Liberia è la solaeccezione alla storia di fallimenti delle NazioniUnite visto che è riuscita, dal 2003 ad oggi, a far rispettare il cessate il fuoco raggiunto tra tutte le fazionie la corretta implementazione degliaccordi di pace di Accra che hanno posto fine alla seconda guerra civile liberiana

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le forze straniere presenti sul territorio congolese nonsono mai terminati. Nel 2002 sono stati firmati gli accor-di di pace separati tra il governo congolese e Ruanda eUganda, rispettivamente, e nel 2003 è stato costituito ungoverno di transizione che ha traghettato il paese fino alleelezioni del 2006 vinte dal figlio di Kabila, Joseph, suc-ceduto al padre dopo il suo assassinio nel 2001. Oggirestano sul tavolo i soliti problemi, a cominciare dalladifficoltà del governo a controllare il territorio, soprattut-to nel nord e sud Kivu, in Ituri e nel nord Katanga, dovecontinuano a spadroneggiare le milizie e continuano leviolenze etniche. Sullo sfondo, poi, permane la grandequestione dello sfruttamento delle risorse minerarie dalCongo Orientale - oro, diamanti, cobalto e coltan - risor-se che alimentano un perverso circuito di interessi eclientele e, in ultima analisi, gli stessi conflitti, ormai cro-nici. La Monuc non ha di fatto prodotto nessun risultatoper risolvere questi problemi e, anzi, molto spesso alcu-ni suoi rappresentanti sono rimasti coinvolti, in scandalidimostrandosi pedine del meccanismo di cui sopra. Solopochi mesi fa è stata la stessa Onu ad ammettere il falli-mento della Monuc. In un rapporto presentato al palazzodi Vetro, l’azione dei caschi blu è stata definita «inesi-stente, contraddittoria e fallimentare» nel portare soccor-so alla popolazione civile congolese e nel bloccare laderiva anarchica della ricchissima regione orientale delCongo, rimasta sotto il controllo dei ribelli Hutu delleForze democratiche per la liberazione del Ruanda, chehanno esteso la loro ragnatela su tutto il Kivu e sul com-mercio delle sue abbondanti risorse minerarie. E l’Onu,come si diceva, non è estranea a tutto questo. «Il Gruppodi Esperti che sorveglia l’applicazione delle sanzionidisposte dal Consiglio di Sicurezza ha ottenuto la provache tra marzo 2009 e febbraio 2010 ignoti hanno prodot-to falsi certificati Onu per facilitare l’esportazione delprezioso metallo dalla Repubblica Democratica delCongo ad altri stati africani», si poteva leggere semprenel rapporto. Uno stato di fatto confermato anche dalministero per le Risorse Minerarie congolese, che harivelato la «falsità di tutti i documenti in questione». Adoggi, la situazione resta instabile. Il governo di JosephKabila per mesi ha premuto per un ritiro della missione

Monuc, un ritiro chiesto per ragioni eminentemente sim-boliche visto che nel 2010 ricorre il cinquantennale del-l’indipendenza del paese dal Belgio, ma alla fine l’Onuha deciso di ritirare solo 2mila dei Caschi Blu presentinell’area, su oltre 20mila, e di ridenominare la missioneMonusco (United Nations Organization StabilizationMission in the Democratic Republic of the Congo).Nella sostanza si è trattato di una sorta di contentino peril governo di Kinshasa e di una larvata presa di distanzadai fallimenti di Monuc. Il ritiro è già iniziato nelle areedove le condizioni di sicurezza lo hanno permesso, maulteriori riduzioni dipenderanno dall’evoluzione dellasituazione sul terreno e dal raggiungimento di determina-ti obiettivi, tra i quali il completamento delle operazionimilitari in corso nel Kivu e nella provincia orientale e ilconsolidamento dell’autorità dello stato su tutto il territo-rio.

Subito dopo l’Rdc, l’impegno dell’Onu piùgravoso è quello in Sudan, dove sono attualmente attivedue missioni: Unamic e Unamid. Unmis è stata lanciatanel 2005 a seguito degli accordi di pace di gennaio tra ilgoverno di Khartoum e l’Splm/A (Sudan PeopleLiberation Movement/Army) che avevano posto finealla lunghissima guerra civile tra il Nord del Paese, araboe musulmano, ed il Sud, cristiano e animista. La missio-ne ha il compito di monitorare il rispetto degli accordi dipace, creare una zona cuscinetto tra le due aree del paesee garantire il nuovo assetto istituzionale ad interim inattesa del referendum del 2011. Ad oggi la missione hauna forza di oltre 10.500 uomini, tra soldati e poliziotti.In breve, però, l’impegno dell’Onu in Sudan si è trovatoa dover fare i conti anche con la crisi del Darfur, scoppia-ta nel 2003, tra le popolazioni musulmane stanziali del-l’area e il governo centrale appoggiato dalle miliziearabe, di origine nomade, dei Janjaweed. Dopo tre annidi scontri ed un primo cessate il fuoco del 2004 che haportato alla costituzione della missione africana Amis,nel 2006 è stato raggiunto un accordo di pace traKhartoum e lo Sla (Sudan Liberation Army) che però èstato respinto dall’altro gruppo ribelle darfurino, ovveroil Jem (Justice and Equality Movement). L’accordo di

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pace ha offerto tuttavia l’occasione per estendere il man-dato ed i compiti di Unmis anche al Darfur ed in taledirezione ha iniziato infatti a muoversi l’Onu premendosul governo di Khartoum riluttante ad accettare il pas-saggio di consegne in Darfur tra Onu e Unione Africana.Più di un anno di negoziati sono stati necessari per supe-rare l’opposizione del governo sudanese, ma alla fine nelluglio 2007 ha preso il via una nuova missione dell’Onuanche in Darfur. Le due missioni sono attive ancoraoggi, ma la loro presenza, specialmente quella diUnamid, non ha portato alla stabilizzazione della situa-zione. La crisi nel Darfur è tuttora in pieno corso ed inuovi negoziati di pace, condotti a Doha e che hannoportato alla firma di un accordo preliminare di cessate ilfuoco tra i due principali gruppi ribelli darfurini edKhartoum, sono in completo stallo dopo che il Jem harichiamato i suoi rappresentanti. Nel mese di aprile cisono stati nuovi scontri che hanno provocato centinaia dimorti. L’Onu ha altre due importanti missioni in Africa,Unmil in Liberia e Minurcat in Ciad. Unmil è probabil-mente la sola eccezione alla storia di fallimenti delleNazioni Unite in quanto, dal suo stabilimento nel set-tembre 2003 - allo scopo di monitorare il cessate il fuocoraggiunto tra tutte le fazioni e la corretta implementazio-ne degli accordi di pace di Accra che hanno posto finealla Seconda Guerra Civile liberiana - la missione hapermesso di stabilizzare la situazione e da allora non sisono registrati più episodi di violenza o violazioni signi-ficative. Unmil ha inoltre permesso di condurre con suc-cesso il processo di disarmo e smobilitazione delle mili-zie, pur con qualche limitata eccezione. La relativa sta-bilità raggiunta ha così permesso un progressivo ridi-mensionamento della missione, fino all’attuale organicodi circa 8mila uomini. Lo stesso successo non si può direlo abbia avuto la missione Minurcat (Un Mission in theCentral African Republic and Chad), che ha una piccolapresenza anche in Repubblica Centrafricana, ma cheancora oggi si dibatte tra difficoltà ed incertezze.Minurcat è stata avviata nel settembre 2007 come mis-sione civile e di polizia, affiancando la missione militaredell’Unione Europea Eufor-Ciad, per la protezione eassistenza della popolazione civile rifugiatasi dal vicino

Darfur e di quella in fuga dalla guerra civile in Ciad e perstabilizzare così la situazione nella regione orientale delpaese. Nel gennaio 2009 Minurcat è stata trasformata inmissione militare ed ha preso definitivamente il postodella missione dell’Unione Europea. Il 15 gennaio 2010il governo chadiano di Idris Deby ha chiesto al Consigliodi Sicurezza di ritirare la missione nel marzo successivo.Le successive negoziazioni hanno alla fine portato aduna soluzione di compromesso che prevede la revisionedel mandato di Minurcat e la sua estensione fino alla finedi quest’anno, quando dovrà essere completato il ritiro.Allo stesso tempo, il governo centrale ha assunto lapiena responsabilità per la protezione dei civili e dei rifu-giati nell’area orientale e per garantire il rispetto dellalegge e dell’ordine. Accanto all’Onu, l’altro organizza-zione internazionale che assunto un ruolo sempre piùimportante sul fronte della sicurezza in Africa è l’UnioneAfricana. Nata nel 2002 come successore dell’Organiz-zazione dell’Unità Africana, l’Ua raggruppa sotto la suabandiera 52 Stati (ne è escluso solo il Marocco per via

Un ruolo sempre piùimportante sul fronte della sicurezza lo ricoprel’Unione Africana. Nata nel 2002 come successoredell'Organizzazionedell'Unità Africana, l'Ua raggruppa sotto la suabandiera 52 Stati (ne èescluso solo il Marocco per via del contenzioso sulSahara Occidentale, mentrel'Eritrea si è ritirata in segno di protesta nel dicembre 2009)

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In prima fila in tutte le maggiori missioni scientifiche internazionali

Scoprire l’Universo con Thales Alenia SpaceDopo la Luna, Marte. Negli ultimi anni sono state esono tuttora molte le missioni destinate all’esplora-zione del pianeta rosso. Da Phoenix a MarsExpress, da Viking a Marsis fino ad arrivare allafutura missione di ExoMars, tuttiorbiter, lander e rover inviati allaricerca di tracce di vita presente opassata sul pianeta che più di tuttiha esercitato molta curiosità sul-l’immaginario umano. Se sia maiesistito un omino verde dalle orec-chie a punta o un marziano di“Flaianesca” memoria è ancora discoprire, ma se molto abbiamoappreso sullo stato di Marte, la suaatmosfera e il suo suolo, molto èancora da scoprire.

******La comunità scientifica in questianni ha potuto contare su moltepli-ci informazioni fornite dalle missio-ni di studio su Marte, tra le quali laconferma del ritrovamento di trac-ce di acqua. Una ricerca a cui lavo-rano anche due strumenti scientifi-ci targati Thales Alenia Space: ilradar Sharad della missione MRO(Mars Reconnaissance Orbitrer) eMARSIS a bordo di Mars Express.

******Lo strumento radar Sharad (ShallowSubsurface Radar), sviluppato perconto dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) el’Università di Roma La Sapienza, ha lo scopo discandagliare la superficie e il sottosuolo di Marte perindividuare strati di ghiaccio e acqua e identificaresiti di atterraggio per le future missioni.

******Per la missione Mars Express, che studia l’atmosfe-ra di Marte eseguendo rilievi geologici superficiali edel sottosuolo,Thales Alenia Space ha progettato ecostruito per conto dell’ASI e in collaborazione conl’Università La Sapienza di Roma, lo strumentoMARSIS (Mars Advanced Radar for Subsurface andIonospheric Sounding), chiamato a rilevare la pre-senza di acqua a oltre 5Km di profondità.

******La prossima avventura della società franco-italianasul pianeta rosso è ExoMars, una missione daigrandi obiettivi tecnologici e scientifici. ExoMars hail compito principale di effettuare ricerche diExobiologia, vale a dire lo studio della origine, svi-luppo e distribuzione della vita nell’Universo. Il pro-gramma ha l’obiettivo di raggiungere Marte in duemissioni distinte in cooperazione con la NASA. Unaa gennaio 2016 immetterà in orbita marziana un

Orbiter, equipaggiato con strumenti scientifici chemiglioreranno la conoscenza sull’atmosfera e conun ponte radio per comunicazioni tra Terra e rover,e rilascerà un lander che atterrerà sul pianeta. A

maggio 2018, la seconda porterà su Marte un rovercompletamente europeo. Una grande sfida per leagenzie spaziali coinvolte, NASA, ESA, ASI, e perl’industria chiamata a realizzare i sistemi necessari.La maggior parte di questi ha origine italiana, prin-cipalmente torinesi. Qui Thales Alenia Space staprogettando la prima missione (simulerà e realizze-rà il lander che scenderà su Marte) e la seconda(progetto del Rover e del suo centro di controllo).Un posto in prima fila nel programma spetta, quin-di, al nostro paese con l’ASI e Thales Alenia SpaceItalia, rispettivamente maggior contributore ecapocommessa dell’intero programma.

******Il contributo alle sfide allo studio del sistema sola-re fornito da Thales Alenia Space non si ferma aMarte. L’azienda ha una consolidata esperienza euna forte competenza nella realizzazione di sondescientifiche per l’esplorazione interplanetaria. Un lavoro che comprende la progettazione di sondespaziali e di landers capaci di operare in diversiambienti planetari. Un esempio è la sonda Huygensdi cui Thales Alenia Space è stata prime contractor,

atterrata su Titano, la luna di Saturno, dopoun viaggio di sette anni. Un primato mon-diale senza eguali per le scienze.

******La joint-venture Thales e Finmeccanica ècoinvolta in tutti i programmi di esplorazio-ne dell’ESA, di astronomia e di studio dellaTerra. In Italia il cuore scientifico di ThalesAlenia Space è lo stabilimento torinese,dove vengono alla luce anche i moduli abi-tabili della Stazione Spaziale Internazionale.

******Torino ha avuto un ruolo significativo intutte le più importanti missioni scientifichedell’Esa quali Mars Express, Venus Express,Rosetta e per i grandi laboratori scientificiHerschel & Planck.Sempre torinese è GOCE, satellite ESA lecui prestazioni stanno affascinando gliaddetti ai lavori: per la prima volta unsatellite è stato ed è tuttora in grado divolare a 260 Km, sfidando l’attrito del-l’aria grazie a un sofisticato sistema dicontrollo.

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

A fianco: il Rover della missione Exomars,artistic view - Credit Esa. In basso:

il satellite Goce (dell’Esa) per lo studio del campo gravitazionale terreste e della circolazione degli oceani, durante la fase di integrazione

nel sito torinese di Thales Alenia Space.

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dossier

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del contenzioso sul Sahara Occidentale, mentre l’Eritreasi è ritirata in segno di protesta nel dicembre 2009).Accanto ai temi di integrazione economica e politica,uno degli ambiti di intervento principali dell’Unione èstato fin da subito, appunto, quello della sicurezza perperseguire la quale l’organizzazione si è dotata anchedi strumenti d’intervento diretto in caso di necessità.Già al 2003, meno di un anno dopo la sua fondazione,l’Unione Africana ha dovuto fronteggiare la sua primacrisi, inviando un contingente di circa 3mila uomini(provenienti da Sud Africa, Etiopia e Mozambico) inBurundi per monitorare il rispetto della tregua firmatada governo centrale e forze ribelli. Nel corso degli annil’organizzazione si è trovata a dover gestire altre situa-zioni difficili, agendo spesso come interlocutore emediatore fra le parti o ricorrendo all’intervento diret-to. Le due missioni militari più importanti dell’UnioneAfricana sono state fino a questo momento l’Amis, dicui abbiamo già parlato, e l’Amisom (African UnionMission to Somalia).L’Amisom è nata sul modello dell’Amib (AfricanUnion Mission to Burundi) e prevede l’aiuto e il soste-gno al governo di transizione somalo, l’addestramentodelle truppe e il controllo del territorio. Attualmente haun contingente di 5mila unità provenienti dall’Ugandae dal Burundi, la cui attività però è limitata solamentead alcune aree di Mogadiscio ed il cui compito èsostanzialmente quello di proteggere il nuovo presi-dente Ahmed Sharif. Nonostante tutte le sue debolez-ze, Amisom ha però finora impedito ai miliziani isla-mici di Shabaab ed Hizbul Islam- gruppi nati dallosmembramento delle vecchie Corti Islamiche, adessoin guerra tra di loro - di prendere il controllo diMogadiscio. Amisom è stata dispiegata nel gennaio2007 dopo l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezzadelle Nazioni Unite. L’Unione Africana non è ma riu-scita a provvedere al finanziamento della missione, chesi è retta su fondi provenienti dalle Nazioni Unite,dall’Unione Europea e da altri paesi, tra i quali gli StatiUniti e l’Italia. Questo impegno, però, non è bastato adassicurare i mezzi necessari al contingente per svolge-re le proprie funzioni, creando non pochi problemi ai

soldati schierati in Somalia. Nel luglio 2009, l’UnioneAfricana ha chiesto all’Ue un contributo addizionale di60 milioni di euro, rispetto ai circa 40 milioni versatidal 2007 fino a tutto quest’anno: il salario per un nume-ro di truppe fino a nove battaglioni e per il personalecivile; la componente di polizia; i costi operativi; iviaggi ufficiali; i trasporti e i costi medici.

Un compromesso è alla fine stato trovato e loscorso gennaio il mandato della missione è stato rin-novato fino al gennaio del 2011. Il futuro di Amisresta però incerto e anche l’intenzione, espressa peraltro in una risoluzione del Consiglio di Sicurezzadell’Onu di sostituirla con una missione a guidaNazioni Unite è condizionata dalla scarsa disponibili-tà della comunità internazionale di tornare ad impe-gnarsi in Somalia dopo la pessima esperienza del1993. Il problema dei finanziamenti e della sosteni-bilità è in generale quello che sta più condizionandola credibilità dell’Unione Africana. Non a caso, l’or-ganizzazione sta tentando in ogni modo di rinnovarsiper rendere più forte e credibile il proprio impegnomilitare. In particolare, si sono moltiplicati gli sforziper un’integrazione ancora maggiore e per la nascitadi una forza d’intervento direttamente sotto il control-lo dell’organizzazione, denominata African StandbyForce (Asf). L’Asf dovrebbe contare su cinque briga-te, a base regionale, operanti nell’ambito di frame-work economici e di sicurezza locali quali, per esem-pio, l’Ecowas, Economic Community of WestAfrican States, o l’Eccas, Economic Community ofCentral African States, ed essere pronta ad interveni-re tempestivamente in caso di crisi. Il progettodovrebbe divenire operativo già nel corso di quest’an-no, anche se in alcune regioni (soprattutto nel NordAfrica) ritardi e problemi non mancano. Le difficoltà(soprattutto finanziarie) delle precedenti missionidell’Unione Africana pongono un serio interrogativosulla capacità di approntare e sostenere un progetto ditale portata – che però, una volta realizzato, rendereb-be l’Unione Africana quasi un unicum nel panoramadelle organizzazioni regionali.

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GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

I tagli alla Difesa e la “media del pollo” di Trilussa

Il taglio della spesa pubblica deciso dal Governo perfar fronte alla crisi economica e finanziaria europeaha coinvolto inevitabilmente anche la Difesa. Sulpiano politico era una scelta ineludibile perché men-tre si riducono stipendi e servizi, non era pensabile chele spese militari non fossero toccate. Le riflessioniriguardano, invece, le modalità con cui questa ridu-zione dovrebbe essere realizzata. Il taglio “lineare”della spesa pubblica colpisce particolarmente laDifesa perché è evidente che, come nella “media delpollo” di Trilussa, l’impatto è diverso se un’Ammini-strazione è già stata sottoposta ad un sistematico ridi-mensionamento finanziario che l’ha portata ad unosquilibrio strutturale fra entrate e uscite, fra compitida svolgere e assetti disponibili. La Difesa è da annisottocapitalizzata e riceve risorse decrescenti che nehanno progressivamente prosciugato ogni riserva,senza che contemporaneamente fosse deciso l’indi-spensabile cambiamento strutturale. Ancora a genna-io, intervenendo in Parlamento, il ministro dellaDifesa aveva detto chiaramente che per la “Funzionedifesa”(escludendo quindi Carabinieri, pensioni prov-visorie ed attività varie) l’obiettivo era quello di man-tenere l’attuale 0,86% del Pil (escludendo le missioniinternazionali). A questo andava aggiunto il finanzia-mento dei programmi di acquisizione a carico delministero dello Sviluppo Economico che dovrebberoessere riportati nel bilancio della Difesa. Comples-sivamente la spesa per la “Funzione difesa” avrebbedovuto contare su circa lo 0,90-0,95% del Pil.Giustamente il ministro aveva precisato che sarebbestato, però, necessario compensare questo sacrificio(ancora lo scorso anno si auspicava l’1,5% del Pil)con una certezza della pianificazione finanziaria e unamaggiore flessibilità nella gestione delle risorse.Quattro mesi dopo siamo punto e a capo sia in termi-ni di riduzioni impreviste che di vincoli. Gli apprendi-sti stregoni che hanno preparato le misure sono inter-

venuti “linearmente” anche su singole voci di spesa,senza considerarne le conseguenze. Valga per tutti iltaglio delle indennità di missione all’estero che finiscecol penalizzare talmente il personale militare da sco-raggiare la partecipazione ad ogni riunione interna-zionale dal momento che, lungi dal guadagnarci, ilmilitare rischia di rimetterci di tasca propria a frontedell’inevitabile sacrificio del doversene stare fuoricasa. Se si considera che una delle strade più efficaciper comprimere la spesa militare è puntare su unamaggiore integrazione europea e transatlantica,l’idea di scoraggiare la partecipazione a riunioni egruppi di lavoro internazionali rappresenta un contro-senso. Ma questo non deve meravigliare: quando agliobiettivi si sostituiscono le soluzioni e quando iresponsabili economici si sostituiscono ai responsabi-li competenti, questo è il risultato. Invece che respon-sabilizzare i dirigenti militari sulla necessità di unamaggiore sobrietà nei viaggi all’estero, si sono fissatecondizioni vessatorie che li rendono quasi improponi-bili. Invece che proporre una seria riflessione sullepriorità da assegnare alle missioni internazionali peril mantenimento della pace, si è preferito ridurne aset-ticamente l’effettivo finanziamento (che comprendeanche l’addestramento). Ancora una volta non si può che stigmatizzare ladisattenzione con cui il mondo politico guarda il setto-re della difesa e della sicurezza. Se in questi anni sifosse posto mano alla riorganizzazione dello strumen-to militare e agli innumerevoli strumenti di sicurezza,disegnando e cominciando a realizzare un modello“compatibile” con le risorse disponibili, oggi sipotrebbero affrontare anche gli eventuali tagli con unorganismo sufficientemente forte e coeso, invece cheindebolito e smarrito, in cui anche le motivazioni idea-li rischiano di cominciare a scricchiolare. L’aver spre-cato questa opportunità è la peggiore colpa dellanostra classe politica.

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editoriali

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Il Generale Stanley McChrystal si è giocato lacarriera e il comando delle forze statunitensiNato in Afghanistan a causa di una leggerezzafrutto della esasperazione e dello stress, cheha fatto da detonatore ad una miscela esplosi-va di contraddizioni politiche, incertezze daparte del presidente Barack Obama, divergen-ze negli ambienti militari. McChrystal era “il Generale di Obama”,quello da lui scelto per sostituire il preceden-te comandante statunitense in Afghanistan eper risolvere, possibilmente rapidamente, unaguerra sempre più impopolare negli Usa e nelmondo. La strategia controguerriglia diMcChrystal è stata fatta propria dall’Ammi-nistrazione, sia pure dopo interminabili mesidi discussioni e valutazioni e faide tra lediverse anime del governo Usa. Obama haanche concesso al generale 30mila soldati inpiù, grosso modo ? delle truppe che l’ufficialeaveva richiesto. Però l’Afghanistan è presto uscito dalle atten-zioni del Comandante in Capo, che ha lascia-to il suo generale a combattere senza avere le“spalle coperte” in patria. La campagna afga-na procede, ma incontra più difficoltà del pre-visto, dopo Marijah la riconquista diKandahar segna il passo. Ma a Washington già si parla di valutazionedei risultati ottenuti con la nuova strategia asettembre, per poi procedere ad un disimpegnodall’Afghanistan a partire dal luglio 2011.Troppo presto.Perché i famosi 30mila soldati non sono nean-che tutti sul terreno ed è ridicolo pensare diavviare il ritiro con tanta fretta e soprattutto aprescindere da quella che sarà la realtà sulterreno. Alla lunga McChrystal ha commessoun errore tanto marchiano da apparire quasideliberato: condividere insieme ai membri del

suo staff, valutazioni, riflessioni, sfoghi sulPresidente e sui suoi uomini con un giornali-sta. Il quale ha pubblicato (giustamente) tutto.Sì, non c’erano alternative, McChrystal nonpoteva restare al suo posto, Obama ha eserci-tato le sue competenze sollevandolo dalcomando. E bene ha fatto a scegliere DavidPetraeus, il comandante di Centcom, persostituirlo. Perché Petraeus garantisce unacontinuità almeno strategica. E con una guer-ra ed una offensiva in corso cambiare ilcomandante è un “affaire” delicato. Ora peròObama deve smetterla di nascondersi, devemettere in riga i suoi satrapi e imporre la finedelle diatribe interne.Non è solo McChrystal a dover stare al suoposto. E, soprattutto Obama deve comportarsicome il Comandante in Capo anche nel guida-re gli Stati Uniti e i suoi soldati in guerra.Cosa che fino ad ora non ha fatto. Anche per-ché la mancanza di chiarezza, di una guidapolitica e strategica ferma ha conseguenzedevastanti: se gli Usa pensano all’exit strate-gy, questo equivale ad un “rompete le righe”anche per gli alleati che non hanno alcunaintenzione di restare da soli a combattere unaguerra che in Europa è sentita comunquecome “americana”. Non solo, a livello locale i talebani sanno chedevono solo tenere duro ancora un annetto,poi non dovranno neanche combattere perriprendersi il paese. E gli stessi afgani “leali-sti” come possono credere a chi gli promettesicurezza, aiuto e speranza nella consapevo-lezza che si tratta di promesse al più valideper qualche mese? Ecco, questi sono i veri problemi della scelle-rata (non) politica di Obama sull’Afghanistan.McChrystal ha sbagliato nella forma, che perun militare è sostanza, ma aveva ragione.

GLI EDITORIALI/STRANAMORE

L’Afghanistan dopo McChrystal (che ha sbagliato, ma aveva ragione)

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La recente risoluzione Onu1929 colpisce alcune im-prese iraniane per il loro

ruolo nei programmi nucleare e dimissilistico di Teheran. Tra queste,ve ne sono alcune che appartengo-no ai Pasdaran, le GuardieRivoluzionarie iraniane che servo-no da garante e braccio armatodella purezza ideologica dellaRivoluzione a casa e della suaesportazione all’estero. Nono-stante il crescente numero di que-ste imprese nelle liste neredell’Onu, dell’Unione Europea edegli Stati Uniti, e nonostante illoro ruolo sia chiaro a tutti, lacomunità transatlantica è divisasu come punire i Pasdaran. E ildisaccordo è a sua volta un rifles-so della differenza di vedute sulla funzione dellesanzioni - punitive per l’America, mirate a impe-dire accesso a tecnologia per l’Europa. Gli StatiUniti hanno questa posizione sin dal 2007, quan-do misero le Forze Qods dei Pasdaran sulla listadi organizzazioni terroristiche del Dipartimentodi Stato (Ordine Esecutivo 13224); successiva-mente, i Pasdaran sono stati indicati come entitàcoinvolta nella proliferazione nucleare e ilTesoro Americano ne ha colpito decine di socie-tà con sanzioni mirate. Alcune di queste imprese

ora sono sulla lista nera dellaRisoluzione 1929. Gli Stati Unitinon sono gli unici a considerare iPasdaran una minaccia. Il parla-mento Olandese, nel novembre2009, ha approvato una risoluzio-ne che invita l’Unione Europea aincludere i Pasdaran nella lista Uedelle organizzazioni terroriste peril loro sostegno ad Hamas edHezbollah. Una simile interroga-

zione è stata presentata algoverno italiano dall’On.Fiamma Nirenstein a maggio2010. I Pasdaran sono certa-mente coinvolti nell’addestra-mento di Hezbollah e Hamas,nell’invio di tecnologia e armiad entrambi i gruppi, e nell’ad-destramento e il finanziamento

di altre organizzazioni terroristiche nella regio-ne. Sono anche responsabili per molti aspetti delprogramma nucleare e del programma missilisti-co iraniani. Ma quest’opinione non è condivisadalla maggioranza dei governi e dei diplomaticieuropei. Come ha recentemente detto un altofunzionario europeo: «I Pasdaran fanno tutto, daipannolini ai missili; a noi non piacciono i missi-li, ma non abbiamo obiezioni ai pannolini!».Come nel caso di Hezbollah, dove l’Europa hafatto quella che molti considerano una distinzio-

Scenari

IL BUSINESS DEI PASDARANDI EMANUELE OTTOLENGHI

Sostengono Hezbollah ed Hamas con armi,

addestramento e tecnologie;sono coinvolti nella

proliferazione nuclearedell’Iran e controllano metà dell’economia di Teheran.Sponsor del terrorismo,

i pasdaran fanno businesscon imprese fittizie. Perché non fermarli?

IRAN

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scenari

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ne artificiale tra l’ala politica e l’ala militare del-l’organizzazione, i critici dell’approccio ameri-cano preferiscono una politica più discernente,che distingua tra imprese colpevoli di prolifera-zione, acquisizione di tecnologia proibita, soste-gno (finanziario o meno) al terrorismo, e compli-cità in vari modi con i programmi nucleari e mis-silistici - che poi appartengano ai Pasdaran o nonon importa - e quelle che invece si occupano diaffari innocui e legali - a dispetto dell’identità eappartenenza dei loro azionisti di maggioranza.Per ora, l’approccio europeo ha avuto il soprav-vento. La Risoluzione 1929 colpisce solo quelleimprese iraniane, incluse alcune dei Pasdaran,che sono chiaramente coinvolte nei tentativi ira-niani di acquisizione di tecnologia all’estero onel complesso industriale direttamente responsa-bile per i due programmi. Non esistono dubbisull’ubiquità dei Pasdaran nell’economia irania-na. Secondo alcuni, i Pasdaran potrebbero con-trollare tra un terzo e la metà dell’intera econo-mia del paese. La loro principale ditta, Khatamal Anbiya, ora sulla lista nera sia del Tesoro ame-ricano che delle Nazioni Unite, controllerebbe,secondo un recente studio apparso sul settimana-le Time, 812 compagnie e imprese sussidiarie.La discussione riguarda quindi le opzioni adisposizione - colpire i Pasdaran in tutto e pertutto o solo quella parte delle loro vaste e varie-gate attività che ha un legame diretto con il lororuolo nel programma missilistico, nucleare enello sponsorizzare il terrorismo.

I sostenitori dell’approccio olistico affer-mano, non senza ragione, che anche se certe loroattività sono legittime (“i pannolini”), i proventisono poi destinati a finanziare quelle attività chenon lo sono (“i missili”). Non importa quantoinnocue o legittime siano certe attività, la ric-chezza che generano serve ai Pasdaran per con-seguire ogni tipo di progetti, molti dei quali sonotutt’altro che civili e innocui. Non è insomma

denaro speso bene. Il fatto che i proventi di ogniattività condotta dai Pasdaran, per ammissionestessa dei loro leader, vada poi a finanziare atti-vità illecite agli occhi degli europei dovrebbeessere una prova sufficiente di come la distinzio-ne tra missili e pannolini non sia così realisticacome la vorrebbero certi burocrati. Ma, afferma-no coloro che invece la trovano una distinzionevalida e utile, se tutte le attività dei Pasdaranvenissero sanzionate - e queste vanno dall’ener-gia alle telecomunicazioni, dalla produzione disigarette ai grandi progetti di ingegneria civile,dai servizi portuali alle banche - l’intera econo-mia ne soffrirebbe in maniera indiscriminata e ildanno risultante colpirebbe l’iraniano medio,non solo i Pasdaran e il regime.Il problema però è che nel losco mondo degliaffari coi Pasdaran, il confine tra pannolini emissili è veramente difficile da tracciare inmaniera netta. Si pensi soltanto al progetto diGhomroud per la costruzione di un tunnel perl’acqua potabile, costruito con l’apporto tecnolo-gico delle ditte Wirth (Germania) e Seli Tunnelspa (Italia). Nonostante il progetto avesse ovvieapplicazioni civili, la fornitura di macchine sca-vatrici per tunnel e sistemi di ventilazione pergallerie a ditte dei Pasdaran le ha rese disponibi-li per altre applicazioni meno innocenti, vistoche sono i Pasdaran che costruiscono i sitinucleari e missilistici clandestini scavati sotto lemontagne.La tecnologia e l’esperienza fornite aiPasdaran dalle due imprese europee sono idealiper questo tipo di lavori. E quel che è vero perGhomroud vale anche per molti altri progetti chedipendono dalla fornitura di tecnologia occiden-tale. Un’impresa che entra nel mercato iranianorischia quindi di offrire tecnologia ed esperienzaad un partner che si comporta come un’organiz-zazione mafiosa, ottenendo in cambio di sacrifi-care la propria reputazione sull’altare del profit-to. Ma che importanza ha alla fine questa discus-sione? Per quanto questo dibattito possa affasci-

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nare, a questo punto le distinzioni fatte soprasono teoriche. Prima di tutto infatti occorre risol-vere un altro problema. Anche se la comunitàtransatlantica giungesse a un consenso sullanecessità di sanzionare tutte le imprese deiPasdaran, come si fa a identificarle? A dispettodelle differenze di approccio alla questione, è nelcomune interesse dell’Unione Europea edell’Amministrazione americana identificarequante più imprese possibile, rendendole note inmodo da assistere il mondo delle imprese occi-dentali a evitare il rischio per la reputazione e irischiosi trasferimenti di tecnologia alle impresedei Pasdaran.

Il punto, naturalmente, è allertare il pubbli-co su quali siano le compagnie dei Pasdaran equali non lo siano, specialmente perché molte diqueste ditte avranno una o più filiali all’estero,presenti e attive in Europa e Nord America - spe-cialmente in Canada - con l’obbiettivo di procu-rarsi tecnologia e contratti. Ed è qui che sorgonole difficoltà. Scoprirne i legami con i Pasdaranattraverso fonti accessibili al pubblico degliimprenditori è difficile, ma non impossibile.Dopotutto, queste imprese cercano di fare affari,vendere prodotti, trarre profitti. In un mondoglobale, devono offrire almeno qualche informa-zione sui propri siti internet - ed è cercando nelpagliaio dei siti di migliaia di società che si tro-vano a volte gli indizi necessari a smascherare iPasdaran. Per le imprese, l’identità del partnercommerciale, rappresenta un grosso grattacapo.Ma la difficoltà di rivelare la vera identità diimprese iraniane e i loro legami significa cheattuare delle sanzioni contro i Pasdaran non haconcrete conseguenze a meno di non avere l’in-tera lista dei loro interessi economici a disposi-zione.È normale che una ditta occidentale cadain inganno di fronte ai sistematici sotterfugidelle imprese iraniane - specie quando arrivaarmata di licenze per esportazione e un benepla-

cito governativo. Il problema, per le ditte e per igoverni, è che le imprese dei Pasdaran creanoregolarmente cortine fumogene per nasconderela propria identità - e lo sforzo di rivelarla spes-so comporta tortuosi passaggi e continui raggiri- scatole cinesi e matrioske russe. E questo èvero specialmente per le operazioni all’estero.La presenza iraniana in Europa e altrove si carat-terizza dall’attività di molte ditte sussidiarie,distributori, agenti, joint venture e altri strumen-ti che più spesso che no servono a creare le sud-dette cortine fumogene tra la casa madre in Irane i loro clienti e partner in occidente. Un possi-bile esempio di questa pratica lo offre una delleprincipali imprese di consulenza ingegneristicain Iran, la ditta Sazeh Consulting Engineers, rite-nuta tra le più grandi in Iran e detentrice diimportanti contratti e progetti nel settore energe-tico. Il sito internet della Sazeh, esclusivamentein inglese, informa i suoi lettori della presenza didue uffici all’estero - uno in Canada e uno inOlanda. Ma nella pagina dedicata alle sue dittesussidiarie, Sazeh indica quattro ditte all’esteroincaricate di acquisizione e commercio - Italsasrl in Italia, Spansa in Spagna, e Nedsa B.V. eProcon Europe B.V. all’Aia, in Olanda. Non c’ènessuna informazione riguardo a una possibileoperazione in Canada. Italsa srl figura solamen-te su un portale di piccole imprese italiane, comeuno studio di architetti a Milano con un fatturatoinferiore ai 250mila euro all’anno e un dipenden-te - appena sufficiente per pagare i costi digestione di un ufficio in centro a Milano. Sul sitoSazeh, Italsa si troverebbe in Via Cornaggia 33 -l’indirizzo della Banca Fortis a Milano; sul por-tale d’imprese italiano, l’indirizzo è via San Vito7 (il telefono è il medesimo). Non c’è un sitointernet indipendente per Italsa srl. Spansa ha unsito inattivo (www.spansa.com) su cui nonappare alcuna informazione, salvo il nome delladitta. Sul sito iraniano di Sazeh, esiste un indiriz-zo per Spansa - la centralissima e chiccosa Calle

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Ortega Y Gasset 33 nel centro di Madrid - insie-me a un indirizzo email con il domain iraniano diSazeh. Manca un telefono. L’autore ha personal-mente fatto visita all’indirizzo di Spansa aMadrid (Ortega Y Gasset 33) senza trovare ilnome della ditta sui citofoni fuori dalla palazzi-na. Il portiere, che ha impedito all’autore dientrare per verificare le cassette delle lettere, hadetto che nella palazzina si trovavano solo abita-zioni private e non uffici («no hay oficinas, sola-mente habitaciones!»). Spansa non risulta sulregistro pubblico delle imprese spagnole - equindi legalmente non esiste in Spagna. Ildomain internet è stato registrato solo di recente,il 28 gennaio 2010 - attraverso un proxy serverin Arizona. Nedsa ha un sito in costruzione men-tre la Procon Europe, l’unica della quattro dittecon un sito vero e con informazioni disponibiliin rete, scrive che Sazeh è un cliente, non la casamadre (cosa che fanno altre compagnie sussidia-rie della Sazeh come la Sazehpad TehranEngineering and Construction, che sul sito Sazehappare come appartenente alla Sazeh mentre sulsito Sazehpad si presenta come indipendente).Nedsa e la Procon Europe hanno lo stesso indi-rizzo all’Aia - cosa che solleva l’interessantequesito del perché una ditta iraniana abbia biso-gno di due uffici per l’acquisizione di tecnologianello stesso porto del Nord Europa, visto checondividono lo stesso ufficio. Come detto in precedenza, la Sazeh afferma sulsuo sito di avere una presenza in Canada, paesedove, in città come Calgary c’è una notevole pre-senza iraniana, probabilmente grazie al suo ruolodi capitale dell’industria petrolifera in Canada.La Nioc (National Iranian Oil Company) peresempio ha un ufficio acquisizioni della sua sus-sidiaria Kala Naft, un’impresa ritenuta proble-matica dal governo giapponese dal 2007 per ilsuo ruolo nei programmi di proliferazione biolo-gici, chimici e nucleari e identificata dal gover-no britannico nel 1998 per il suo ruolo nell’ac-

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quisizione di tecnologia per i programmi di armidi distruzioni di massa.A differenza di Kala Naft, che ha un sito per lasua attività canadese, Sazeh non offre alcunainformazione sul suo ruolo nel paese delle aca-cie. Cercando su motori di ricerca combinazionidi parole chiave come Canada, Alberta o Calgaryinsieme con Sazeh ritorna solo i curriculum vitaedi alcuni iraniani che hanno lavorato per Sazeh estanno ora o lavorando o studiando in Canada.

Nulla, di quanto appena scritto, natural-mente costituisce altro che coincidenze e diffi-cilmente basterebbe a garantire una condanna sesi trattasse di prove per un processo. Ma il tutto,messo assieme, accende alcuni campanelli diallarme. Sia che Sazeh faccia parte dei Pasdarano meno, chiaramente si tratta di un’impresa conqualcosa da nascondere. Perché altrimenti crearequattro ditte in Europa nei modi descritti? Sazehè un esempio di tanti dove emergono numeroseincongruenze negli elementi forniti dalle ditteiraniane, specie quelle coinvolte nel settore ener-getico, con un’importante e attiva presenzaall’estero per l’acquisizione dell’energia e chesono destinate a essere partner in progetti dijoint venture con partner, licenze, investimenti, otecnologia e know how europei. Gli elementi di cui sopra sono la prova di unamancanza totale di trasparenza, di una tendenzaa costruire sistemi di scatole cinesi atte a coprirele tracce delle imprese interessate di modo danasconderne od oscurarne la vera identità. Nellamaggior parte dei casi, dietro una facciata inno-cua si trova moltissima informazione incon-gruente, inventata, falsa, fuorviante. Più si prova a far luce sugli aspetti sospetti diqueste imprese, più si scoprono ulteriori pistesospette e contraddizioni plateali - interconnes-sioni amministrative che vengono negate ma cisono, per esempio, o informazioni mancanti oinsufficienti.

Infine, un ultimo aspetto che emerge destandosospetti in queste compagnie è l’ampia gammadi attività coperte. Sazeh fa tutto, dalle raffineriealle caserme. Cosa si deduce, in conclusione, datutto questo?Nella maggior parte dei casi, le ditte deiPasdaran non sono invisibili; poiché cercanocontatti con il mondo degli affari hanno bisognodi visibilità e devono quindi offrire almeno quelminimo di informazione necessario da apparirelegittimi partner potenziali. È questo tipo diinformazione che permette di scoprire con chi siha a che fare. Ma bugiardini a parte, i leaderdella comunità transatlantica dovrebbero esserein grado di far di più per informare il mondodelle imprese occidentali e allertare i governialleati del rischio alla reputazione e del pericolodi proliferazione che deriva dal fare affari concerte ditte iraniane dati i loro legami con iPasdaran e, per estensione, con attività pericolo-se come la proliferazione nucleare. Non tutte leimprese iraniane servono gli scopi dei Pasdarano vi fanno capo; non tutti i tentativi iraniani diacquisire tecnologia all’estero mirano a serviregli scopi del programma nucleare e dellaRivoluzione. Ma spesso, dietro la facciata inno-cua e bonaria si nasconde qualcosa di più sini-stro. Il modo migliore per europei e americani disuperare la loro apparente discordia sull’oppor-tunità o meno di colpire missili e pannolini allafin fine si fonda sulla volontà e l’assiduità concui i governi europei identificheranno in manie-ra pubblica e con conseguenze legali quante piùimprese iraniane possibili con legami con iPasdaran. Così facendo eviteranno alle propriesocietà l’imbarazzo della complicità in loschitraffici e pericolose attività e potranno continua-re comunque a mantenere una certa distinzionetra quella parte del mondo corporate iranianoche è ancora sano e quello che è stato irrimedia-bilmente infiltrato e sovvertito dai Pasdaran peri loro sordidi fini.

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scenari

Ormai a GazaRecep TayyipErdogan è più

famoso di una rock-star.Per le strade di Gaza Citynon c’è angolo dove nonsi trovino immagini conla sua faccia e c’è chiscommette che fra pococompariranno anche i primi gadgeta immortalarlo, da politico e vero eproprio fenomeno di costume. Sonoanni che il premier turco islamico-moderato Recep Tayyip Erdogancalamita l’attenzione degli abitantisulla Striscia. Ma dopo l’affondo a Davos controShimon Perez in seguito all’operazione Piombo fusoe la reazione turca all’assalto della Mavi Marmara, ilprimo ministro della Mezzaluna è diventato non soloun punto di riferimento, ma una vera icona. Unrecente sondaggio ha evidenziato come la Turchia eil suo capo del governo svolgano sempre più unruolo di guida a est. Lo studio è stato condotto dallaTesev, ong turca, in collaborazione con l’Universitàdel Medio oriente (Odtu) con base ad Ankara e igoverni di Egitto, Giordania, Siria, Libano, territoripalestinesi e Iraq. Il risultato è che per il 75% dei2mila intervistati la Turchia è un paese che dovrebbeservire come modello per tutto il Medioriente. Lepercentuali diventano ancora più alte in Siria o i ter-ritori palestinesi, dove sfiorano il 90%. MelihaAltunisik, direttore del dipartimento della Odtu ha

commentato così i risultatidello studio con il quotidia-no Zaman: «C’è una gran-de richiesta perché laTurchia aumenti la suainfluenza e il suo ruolo nelmondo arabo, lo pensanosoprattutto Libano, Siria eterritori palestinesi. E tutti

quanti vedono molto positiva-mente l’ingresso della Turchia inUnione Europea». Con gli onori egli oneri che questo comporta,dentro e fuori casa. Già all’indomani del 22 luglio

2007, quando l’Akp, il Partito per la Giustizia e loSviluppo, trionfò alle elezioni politiche, conquistan-do il 46,6% dei consensi, su molti quotidiani medio-rientali erano comparse analisi del modello islamico-moderato messo in pratica (con dubbi provenienti dapiù parti) da Erdogan e i suoi. In quell’occasione laTurchia aveva rappresentato un vero e propriomodello a cui riferirsi e si trattava indubbiamente diun modello positivo. Un partito che non nascondevala sua vocazione religiosa, ma inserito in un contestolaico e propenso verso il modello occidentale, conaspirazioni europee. Adesso però le cose sono un po’diverse. La Turchia non è vista più come il paeselaico, con un governo islamico-moderato, ponte fraOriente e Occidente, ma come il primo baluardocontro lo Stato di Israele, amico dell’Iran e che hadetto “no” agli Stati Uniti per quanto riguarda la

LA ROCK STAR DEL MEDIORIENTEDI MARTA OTTAVIANI

Osannato a Gaza, amico dell’Iran e della Siria,

non più “allineato” con l’Occidente, Erdogan

ha fatto uno scelta di campo. Ma non tutti,

a Istanbul, la condividono

TURCHIA

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nuova ondata di sanzioni contro la repubblica islami-ca. Una situazione che al momento ha posto Erdogansotto i riflettori di tutto il pianeta, e il Paese dellaMezzaluna con lui, ma che con l’andare del tempopotrebbe rivelarsi anche una prospettiva negativa.

I media internazionali si sono accorti dellafrattura con lo Stato d’Israele solo dopo la risposta diGerusalemme agli attacchi di Hamas fra la fine del2008 e l’inizio del 2009 con l’operazione Piombofuso. Ma la verità è che il premier islamico-modera-to aveva iniziato a dare dei problemi allo stato ebrai-co da almeno tre anni. I primi screzi erano arrivatiproprio dopo la vittoria del 2007. Da quel momentola politica di Erdogan, forte anche del plebiscitariorisultato conseguito alle politiche e alla perdita dicontrappesi politici come la presidenza dellaRepubblica (alla quale è salito il suo ex compagno dipartito Abdullah Gul), è diventata molto più aggres-siva, e meno comprensiva nei confronti dell’opposi-zione e dei militari, principali artefici dell’alleanzacon Israele, soprattutto per quanto riguarda gli accor-di per esercitazioni congiunte e forniture di sistemid’arma. Per essere precisi i primi segnali sono arriva-ti in occasione di un viaggio di Stato che Erdogancompì nel 2007. In quell’occasione ebbe a che ridirecon il premier Olmert per alcuni lavori che si svolge-vano vicino alla Spianata delle Moschee, nella partemusulmana di Gerusalemme vecchia. Fu allora chealcuni analisti della Mezzaluna cominciarono a intra-vedere le prime incrinature dell’alleanza. Ma a queitempi gli scettici non avevano dati a sufficienza perpensare che qualcosa stesse effettivamente cambian-do e, dall’altra parte Israele aveva riposto nellaTurchia grandi speranze per la mediazione con laSiria sulla cessione delle alture del Golan, che avreb-be dovuto portare in cambio l’arresto di alcuniimportanti esponenti di Hamas rifugiati a Damasco. Nel maggio del 2009, dopo il risultato deludente alleelezioni amministrative del marzo precedente, RecepTayyip Erdogan opera un rimpasto di governo che,sul lungo andare segnerà un vero e proprio punto di

non ritorno nelle relazioni con lo Stato ebraico. Alministero degli Esteri, infatti, viene nominato AhmetDavutoglu. Il diplomatico ha insegnato in molte uni-versità, scritto parecchi libri. È molto amico del pre-mier e gli ha fatto da consigliere per anni. Ma soprat-tutto Davutoglu è noto per la sua teoria detta del“neo-ottomanesimo”, secondo alcuni traducibilesemplicemente in “teoria del buon vicinato”. Primadi assumere la direzione del ministero degli Esteri,Davutoglu era stato il capo negoziatore nella media-zione fra Israele e Siria e poi fra i diplomatici di spic-co nell’intavolare colloqui con Israele per la fine del-l’operazione Piombo Fuso. Un personaggio quindiche lo Stato ebraico conosce molto bene da tempo. Ilnuovo capo della diplomazia turca da quando haassunto il suo ufficio, non ha fatto niente per recupe-rare le relazioni con Gerusalemme, che nel frattem-po nell’edizione 2009 del World Economic Forumavevano ricevuto una batosta a causa della lite indiretta fra Recep Tayyip Erdogan e Simon Peres. Alcontrario Davutoglu si è impegnato in prima personaa creare un nuovo modello di relazioni con gli Staticonfinanti, con un nuovo atteggiamento nei confron-ti degli alleati storici In questo primo anno di incari-co, Davutoglu ha compiuto passi importanti nellapace fra Bosnia e Serbia. E dal punto di vista internola sua strategia del buon vicinato ha portato laTurchia a stringere accordi vantaggiosi con l’ormaiex-nemica Grecia e, cosa ben più importante, con laRussia, con la quale sono stati stretti rapporti dalpunto di vista commerciale ed energetico. Anche aOriente, le relazioni con la Siria sono molto miglio-rate e sono state aperte zone di libero scambio checoinvolgeranno presto anche l’Iraq. Capitolo a partemeritano i rapporti con l’Iran di Ahmadinejad, cheproprio sotto il primo e soprattutto il secondo man-dato di Recep Tayyip Erdogan sono risorti a nuovavita, grazie ad accordi sul gas e commerciali. Dall’altra parte però il capo della diplomazia turcasembra aver palesemente ignorato tre capitoli impor-tanti della politica estera della Mezzaluna, o almenoquelli che l’hanno caratterizzata fino a questo

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momento: gli Stati Uniti, Israele e l’Europa. Perquanto riguarda Bruxelles, Davutoglu non è diret-tamente interessato al tema perché con il rimpastodel 2009 ai rapporti con l’Europa è stato appunta-to Egemen Bagifl. Particolare che ha aiutato ilministro degli Esteri ad occuparsene il meno pos-sibile. Proprio l’atteggiamento nei confronti diIsraele è valso a Davutoglu e di riflesso natural-mente anche a Erdogan, di perseguire la loro poli-tica estera su una base fortemente ideologica. Unsospetto che dopo l’attacco israeliano alla MaviMarmara è diventato sempre più consistente e chedopo il “no” della Turchia a nuove sanzioni con-tro Teheran durante il Consiglio di Sicurezza delleNazioni Unite inizia anche a preoccupare dentro efuori il Paese.

Quest’ultima parte del secondo mandato diRecep Tayyip Erdogan ha evidenziato anche rappor-ti sempre più difficili con gli Stati Uniti. È passatopoco più di un anno da quando il presidente degliStati Uniti, Barack Obama, durante la sua prima visi-ta ufficiale nel Paese, aveva assegnato alla Turchiaun ruolo importante nella sua politica estera. Ma èstato presto costretto a ricredersi. I primi segnali delfatto che Ankara fosse disposta a stare alle condizio-ni di Washington solo fino un certo punto sono arri-vati con il protocollo per la normalizzazione dei rap-porti con l’Armenia. Il giorno dell’accordo, nell’ot-tobre scorso, la firma rischiò di saltare e fu salvatasolo grazie all’intervento deciso di Hillary Clinton.Da quel momento non si sono registrati progressi dirilievo nella sua attuazione, soprattutto a causa dellepressioni dell’Azerbaijan, che con l’Armenia non èin buoni rapporti per la questione della regione delNagorno-Karabakh e che ha fatto pressioni suAnkara giocando la carta del gas perché non si riav-vicinasse troppo a Erevan. Obiettivo raggiunto,anche se la Turchia ha pagato il rallentamento deilavori nel protocollo con due mozioni di riconosci-mento del genocidio armeno votate dal Parlamentosvedese e, quel che è peggio, dalla Commissione

Affari esteri del Congresso. Per quanto il presidenteObama e il segretario di Stato Hillary Clinton abbia-no fatto di tutto per bloccare la votazione e successi-vamente per chiamarsi fuori dal risultato, a molti èsembrato un avvertimento rivolto al premier turco eal suo ministro degli Esteri.A preoccupare la Casa Bianca c’è non solo il ruolodi guida che Ankara sta cercando di ritagliarsi inMedio Oriente, ma soprattutto l’atteggiamento neiconfronti dell’Iran, specie quando si parla del suoprogramma nucleare. Ed è stato proprio questo argo-mento a segnare una svolta nella politica estera diAnkara. Sarà per un’effettiva virata degli orienta-menti, sarà per un’ostinazione nell’imporre laTurchia come grande mediatore regionale, maAnkara ha portato avanti da sola con il Brasile unatrattativa sul nucleare iraniano che agli Stati Unitinon è piaciuta e che rischia di procurare qualcheserio guaio all’esecutivo islamico-moderato.L’accordo, firmato dalla Turchia a metà maggio, pre-vedeva lo scambio di uranio leggermente arricchitoda parte dell’Iran in cambio di combustibile nuclea-re. Durante la trattativa il ministro degli Esteri turcoDavutoglu aveva parlato più volte con il Segretariodi Stato americano Clinton, che puntualmente aveva

scenari

I primi segnali del fatto cheAnkara non fosse disposta a stare alle condizioni diWashington sono arrivaticon il protocollo per la normalizzazione dei rapporti con l’Armenia. Il giorno dell’accordo, nell’ottobre scorso, la firmarischiò di saltare e fu salvatasolo grazie all’interventodeciso di Hillary Clinton

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Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme

le idee per renderlo migliore…

il quotidiano

Tutti i giorni in edicolalo fa solo liberal

…questo

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fatto intendere di non voler considerare l’accordocome una soluzione alternativa. Il 9 giugno scorso laTurchia ha dimostrato chiaramente di non aver inten-zione di allinearsi, per il momento, alle posizioni diWashington. Con il Brasile è stato l’unico paese all’in-terno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ad avervotato contro alla quarta e nuova tornata di sanzionicontro l’Iran, alla quale gli Stati Uniti avevano lavo-rato per settimane. Persino il Libano, altra vocemediorientale all’interno del Consiglio di Sicurezza,ha optato per l’astensione. Ankara e Brasilia hannomotivato la scelta di votare “no” alle sanzioni comedifesa dell’accordo che avevano firmato con Teherane che i grandi della Terra avevano sostanzialmenteignorato. Quella che doveva essere la ciliegina sullatorta della nuova politica estera di Erdo€an in realtàrischia di trasformarsi in un solenne boomerang.Parte della Turchia ha reagito male a questa presa diposizione così netta e l’opposizione laica ha attacca-to frontalmente il governo, accusandolo di voler por-tare il paese lontano da quella linea di equidistanzacon un occhio di riguardo all’Occidente che l’hasempre distinta. Nonostante le continue rassicurazio-ni del ministro per i rapporti con l’Europa, EgemenBagis e del ministro degli Esteri, Davutoglu e leparole delle stesso premier Erdogan, che non ha esi-tato a bollare come «sporca propaganda» le accuseche vogliono la Turchia più vicina al Mediorienteche all’Occidente. Molti quotidiani turchi all’indo-mani della votazione hanno parlato di “cieca ambi-zione” da parte del Paese della Mezzaluna e dirischio. L’immagine che resta al momento è quella diun governo che ha fatto una scelta ben precisa, senzaforse calcolarne le conseguenze e le ricadute.Erdogan sembra aver lavorato per costituire unpunto di riferimento per una parte di mondo dopoche l’altra, l’Occidente, non ha degnato la Turchiadella considerazione che meritava. Che poi è un po’quello che ha anche fatto intendere Robert Gatesall’indomani del voto all’Onu, quando ha accusatoBruxelles di aver lasciato andare il Paese dellaMezzaluna verso Est, senza dare rassicurazioni sul

suo ingresso in Europa. Al momento quindi laTurchia appare un punto di riferimento per tutto ilMedioriente, ma anche questa condizione presentanon pochi rischi. In primo luogo Ankara deve neces-sariamente dividere il ruolo di grande potenza regio-nale con l’Egitto. In secondo luogo, se il popolo delMedioriente è entusiasta della politica israeliana delpremier, i governi lo sono molto meno della sua vici-nanza all’Iran, che rimane una minaccia per tutti gliStati che gravitano nell’area. E poi ci sono le conse-guenze che questa virata in politica estera comportasulla situazione interna del paese. Per il momentoErdogan non sembra aver conseguito grandi risultatifuori dai confini nazionali.

Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha comun-que approvato la sua mozione contro l’Iran. Il varcoper Gaza è stato aperto solo in seguito ad una deci-sione dell’Egitto. L’Arabia Saudita sembra intenzio-nata a garantire a Gerusalemme un varco aereo nelcaso in cui decidesse di attaccare l’Iran. Teheranstessa ha detto che sta continuando i lavori per l’ar-ricchimento dell’uranio. Anche dentro i confininazionali c’è chi si preoccupa e chi è pronto a utiliz-zare sul piano politico quanto accaduto negli ultimimesi. Sempre più spesso infatti l’arma Israele sem-bra utilizzata anche per ricompattare il consensointerno, specie in momenti come questo, con l’ina-sprimento della guerriglia del Pkk e parte delle pro-messe elettorali non realizzate. Il premier ha giàmesso in pratica questa linea una volta, alle elezioniamministrative del 2009, e il popolo turco, nonostan-te l’exploit di Davos, aveva deciso di punirlo, rele-gando il suo Akp (Partito per la Giustizia e loSviluppo) al 39%. Adesso, mentre manca un annoalle elezioni politiche, i sondaggi danno un Akp al38% e un Chp (il Partito repubblicano del Popolo,principale voce dell’opposizione) al 30%. Il quoti-diano Hurriyet di recente ha scritto che la politica delbuon vicinato di Davutoglu ha creato grossi proble-mi con gli alleati storici. E c’è chi crede che prestofarà lo stesso anche dentro le mura di casa.

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lo scacchiereUnione Europea /Bruxelles vista dalla Nato

una partnership che va resa credibileCosa dice il Rapporto Albright sulle principali questioni europee

Cosa dice sull’Europa il rapporto pre-sentato dal Gruppo di Esperti presie-duto da Madeleine Albright, per avvia-re l’elaborazione del nuovo ConcettoStrategico della Nato? In primo luogo,non dice nulla di significativosull’Unione Europea, a parte un gene-rico appello alla cooperazione e allaconsultazione tra Nato e Ue, conside-

rando l’Unione difatto marginalerispetto ad altri atto-ri e priorità. A partequesta assenza dipeso, il rapportocontiene diversi ele-menti importanti perl’Europa, che pro-babilmente rientre-ranno anche nelnuovo ConcettoStrategico.In primis, il testoribadisce che lapriorità e ragiond’essere per la Natoresta l’impegno perla difesa collettiva,incarnato dall’Art.5. Un impegno darendere credibile

anche tramite una solida logistica, lapreparazione delle forze armate allea-te, esercitazioni congiunte e la pianifi-cazione di un’eventuale difesa territo-riale. Porre la difesa collettiva al primoposto era un’esigenza per i membridell’Europa orientale bisognosi di ras-sicurazioni nei confronti di Mosca eimplica per l’Europa che la Nato rima-ne il principale garante della sicurezzadel Vecchio Continente. Un’implicazione che irrita non poco laRussia, e che non a caso il rapportocombina con un’enfasi particolare sulConsiglio Nato-Russia, istituito nel2002 con l’accordo di Pratica di Mare,quale foro principale di consultazionee cooperazione tra alleati e governorusso. Foro che dovrebbe lavorare dipiù su materie di possibile cooperazio-ne come il contrasto al terrorismo ealla proliferazione nucleare. Altro ele-mento rassicurante per Mosca è l’ap-proccio vago a un ulteriore allarga-mento dell’Alleanza, che di fattorimanda sine die la decisione sull’in-gresso di Georgia e Ucraina, ingressosu cui pesa il veto di Mosca e mancal’accordo tra i paesi alleati. Nel com-plesso, il rapporto cerca un difficileequilibrio tra una politica di engage-

DI ALESSANDRO MARRONE

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ment con Mosca e la rassicurazionestrategica delle capitali dell’EstEuropa. Sulla questione delle arminucleari tattiche americane dispiegatein Europa il rapporto non prende unaposizione forte né innovativa, maalmeno fissa dei punti fermi. In primoluogo, si ribadisce che finché esiste-ranno al mondo le armi nuclearil’Alleanza manterrà il suo deterrentenucleare condiviso, con buona pacedei sostenitori della “opzione zero”. Insecondo luogo, ogni cambiamento inmerito, inclusa la distribuzione geo-grafica delle testate in Europa, vapreso dalla Nato nel suo complesso. Difatto, il ritiro delle armi nucleari ame-ricane dall’Europa non è posto dal rap-porto come un’urgenza da affrontare,escludendo al tempo stesso decisioniunilaterali degli stati membri. Impor-tante e innovativa per l’Europa appareinvece la posizione sulla difesa anti-missilistica da paesi come l’Iran, espli-citamente nominato, definita una “mis-sione militare essenziale” perl’Alleanza. Prendendo spunto dalpiano di Obama, il rapporto proponeche la Nato faccia della difesa anti-missilistica una sua priorità, assicuriche la protezione includa tutti glialleati e che tutti partecipino al proget-to, andando così oltre la dinamica bila-terale tra Washington e i paesi europeial fine di trasformare un elemento didivisione in un fattore di coesione.Occorrerà però vedere come reagiràMosca ad un eventuale impegno Natosulla difesa missilistica, e se di frontea un altro niet russo gli americani, e/ogli alleati europei, faranno marcia

indietro come avvenuto con il piano inPolonia e Repubblica Ceca oppure ter-ranno il punto. Anche il nuovo approc-cio alle partnership ha un impattoimportante per l’Europa. Nello scorso decennio si è molto dibat-tuto se andare verso una “Nato globa-le” con membership e compiti piùampi della difesa dell’area euro-atlan-tica, come sostenuto da inglesi e ame-ricani, oppure mantenere la Natoun’organizzazione strettamente regio-nale, come chiesto tra gli altri da fran-cesi e tedeschi. Il rapporto dice chiaramente che laNato è e rimarrà una organizzazioneregionale, escludendo allargamenti edoveri globali. Allo stesso tempo,aggira intelligentemente il dilemmaregionale/globale proponendo il raf-forzamento dellepartnership conaltri paesi e orga-nizzazioni interna-zionali come modomigliore peraffrontare dinami-che e minacceextra-europee. Nelcomplesso, il rap-porto indica la viadi una evoluzionepiuttosto che di unarivoluzione nelruolo della Nato inEuropa, il chedovrebbe facilitareuna convergenza traeuropei e americanisul nuovo ConcettoStrategico.

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AMERICHE/ Fine dell’idillio fra Lula e SarkozyL’Iran fa saltare le alleanze. E anche la commessa di 36 caccia supersonici

DI RICCARDO GEFTER WONDRICH

Luiz Inácio Lula da Silva si insediò alPalácio do Planalto, nel gennaio 2003,quando uno dei dossier aperti in materiadi Difesa era l’ammodernamento dellaflotta aerea attraverso l’acquisizione di

alcune decine di caccia di ultima generazione. Lacommessa doveva far fare un salto di qualità all’indu-stria nazionale e generare centinaia di posti di lavoroqualificati. Chi si aspettava una riduzione delle spesemilitari da parte del primo presidente sindacalista delBrasile è rimasto deluso. In questi anni è stato siglatol’accordo strategico con la Francia che fa da corniceall’ambizioso progetto del sommergibile a propulsio-ne nucleare, sono cresciute le acquisizioni di elicotte-ri e altri mezzi militari dalla Russia, con l’italianaIveco il Brasile si è impegnato a comprare 2.044veicoli blindati Vbtp-Mr in vent’anni, solo per cita-re alcune operazioni. Tra tutti i programmi milita-ri, tuttavia, nessuno è così sensibile e politicamen-te complesso come quello dei 36 caccia supersoni-ci. Si tratta di una gara da 10 miliardi di dollari,che vede coinvolti i francesi Rafale della Dassault,gli svedesi Saab-Gripen NG e gli americani BoeingF-18. La definizione del vincitore era attesa già nelsettembre 2009. Il presidente Lula e il ministrodella Difesa Nelson Jobim avevano manifestato laloro preferenza per l’offerta francese, nonostantefosse la più costosa. Contro il parere del governo, ivertici della Forza Aerea brasiliana hanno peròpubblicato un rapporto a favore dell’offerta svede-se, che garantirebbe maggiore integrazione a livel-lo tecnologico. Da allora il governo ha preso tempoe rimandato la decisione ufficiale.Poi però il mondo è cambiato. A metà maggio il pre-sidente Lula si è recato a Teheran insieme al premierturco Erdogan, desideroso di affermare il nuovo ruolodel Brasile sulla scena internazionale. La firma del-

l’accordo trilaterale per lo scambio di uranio arricchi-to ha provocato reazioni negative da parte americana,europea e israeliana. Nei giorni seguenti la diploma-zia Usa è riuscita a blindare l’appoggio di Russia eCina per il voto al Consiglio di Sicurezza sulle nuovesanzioni all’Iran. In tale occasione, Brasile e Turchiasi sono spinti fino a votare - unici tra i quindici, conl’astensione del Libano - contro le sanzioni. Alcunidiplomatici brasiliani hanno preso pubblicamente ledistanze da quella che viene vista come un’iniziativapersonale e spericolata del presidente Lula. Tre leconseguenze possibili di questa vicenda. La prima è l’erosione della fiducia dell’AgenziaInternazionale per l’Energia Atomica sul carattereeminentemente pacifico del programma nuclearebrasiliano (il Brasile non ha firmato il protocolloaggiuntivo al Tnp sui controlli degli ispettoriAiea). La seconda è la riduzione delle chance diottenere un seggio permanente al Consiglio diSicurezza. L’appoggio brasiliano al programmanucleare iraniano ha infatti isolato il Paese all’in-terno dell’Onu. La terza è il rimescolamento dellecarte nella commessa dei caccia supersonici. Èpossibile infatti che il Congresso Usa decida dibloccare ogni trasferimento di tecnologia militareal Brasile e faccia quindi uscire la Boeing dallagara o che il Brasile stesso adotti ritorsioni neiconfronti degli Stati Uniti. L’affaire Iran potrebbeperò allontanare anche il governo francese, alli-neato sulle posizioni di Washington. Se dietro la luna di miele Lula-Sarkozy c’era un pattosecondo cui il Brasile sceglieva i caccia della Dassaulte la Francia appoggiava la richiesta brasiliana per ilCds, la questione iraniana ha complicato le cose. Chisembra avere tutto da guadagnare da questa vicenda èla svedese Saab, l’unica a non aver nulla a che farecon il programma nucleare iraniano.

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Cinquanta anni sono ormai passati da quelloche è considerato un momento cruciale perla storia del continente africano: l’indipen-denza di 14 ex-colonie francesi. 50 annicaratterizzati da disillusioni, da contrasti

interni ma anche da success story di crescita economicae da sofferte affermazione di valori democratici. Il 2010è considerato un momento utile per tracciare un bilancioserio e pragmatico, l’occasione per ripensare il futuro diun continente che punta alla “rinascita” in un mondoglobalizzato. I paesi africani hanno voluto festeggiare laricorrenza con imponenti manifestazioni per coinvolge-re la società civile ed esaltare al tempo stesso le scelteautonome della leadership locale. Emblematici i duecasi del Senegal e della Côte d’Ivoire. Per AbdoulayeWade i festeggiamenti di Dakar del 4 aprile hanno for-nito l’occasione per annunciare la ripresa di tutte le basimilitari mantenute negli ultimi anni dalla Francia, vale adire per proclamare una seconda indipendenza naziona-le; per Laurent Gbagbo le cerimonie in programma aAbidjan e Yamassoukro per la celebrazione del 7 agostosaranno l’espediente per sottolineare la sua presa didistanza dall’Eliseo. Piuttosto “salati” i costi delle gior-nate per i contribuenti: il presidente senegalese ha fattocostruire una statua commemorativa della “RinascitaAfricana” del valore di 20 milioni di euro, mentrel’omologo ivoriano ha stabilito un budget di circa 30milioni di euro per le celebrazioni. A parte le formalità,quali i risultati concreti raggiunti in questi anni? Qualisono stati gli elementi più deboli in questi anni? Quali ifattori da valorizzare nel prossimo futuro? Di certo,dopo la prima reazione di euforia si sono avuti deimomenti drammatici, caratterizzati da golpe violenti,misure repressive, accesso al potere di elite numerica-mente limitate. Non è stata assicurata un’alternanzacome si può vedere dalla gestione dei clan Bongo,Eyadema e Biya, che hanno occupato la scena politica

per decenni depaupando le casse dello stato e facendoeliminare fisicamente gli oppositori. Un recente studiopubblicato dalla Global Finacial Integrity ha dimostratoche solo tra il 1970 ed il 2008 circa 1800 miliardi di dol-lari sono stati trafugati dal continente e poi “indirizzati”su conti personali in banche occidentali. Certo i leaderrimasti al potere per un trentennio hanno saputo garanti-re una certa stabilità, ma hanno tolto completamentelibertà di espressione al popolo: il partito unico è statopredominante e ha imbrigliato le opposizioni. Il numerocrescente delle consultazioni elettorali nell’ultimodecennio non deve ingannare: il voto è stato falsato dabrogli, limitando ogni valore dell’esito finale. È nellacreazione di gruppi regionali, nella volontà di costruireuna politica continentale che si intravedono dei risultatiinteressanti. L’Ecowas ha risposto compatto alle crisidell’area occidentale: Togo, Niger, Costa d’Avorio sonostati “indirizzati” da una mediazione regionale cheteme-va l’effetto domino di instabilità. I due mali maggiori che hanno segnato questi anni sonostati quello della corruzione dilagante e della mancanzadi leadership politica capace di proporre percorsicostruttivi. I nomi di Leopold Senghor e KwameNkrumah brillano solitari come politici lungimiranti,capaci di avere una vision per il bene del proprio paese.Il 2010 è un momento particolarmente favorevole per ilcontinente: il rilancio della cooperazione sud-sud unitoalla valorizzazione delle risorse energetiche sono ele-menti essenziali per porsi come protagonista del XXIsecolo. A tali elementi se ne deve sommare uno partico-larmente prezioso che potrebbe rappresentare un enor-me valore aggiunto, quello delle risorse umane. Se igoverni sapranno fornire ai milioni di giovani africanieducazione (di base ed universitaria) oltre che tecnolo-gia e se sapranno valorizzare la parte femminile di talerisorsa, potranno dire di aver raggiunto il vero traguardodell’indipendenza.

Africa/cinquanta anni di indipendenzaQuei 1800 miliardi di dollari trafugati e indirizzati su conti personali

DI MARIA EGIZIA GATTAMORTA

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La storiaLa storia

di Virgilio Ilari

UN CONTINGENTEEUROPEO

PER LE MISSIONIDELLA NATO

UN CONTINGENTEEUROPEO

PER LE MISSIONIDELLA NATO

UN CONTINGENTEEUROPEO

PER LE MISSIONIDELLA NATO

Il primo gennaio 2010 l’Italia ha assunto la presi-denza del Comitato interministeriale di alto livel-lo, composto da rappresentanti dei ministeri degliEsteri e Difesa, che coordina le attività dellaForza di Gendarmeria Europea (Eurogendfor), la

quale ha sede permanente a Vicenza e un cui nucleo èdal dicembre 2009 operativo a Kabul per l’addestra-mento della polizia afghana nel quadro della MissioneIsaf. Mentre il Parlamento italiano discute la ratifica deltrattato istitutivo (relatori l’onorevole Filippo Ascierto eil senatore Gennaro Malgieri), su facebook e numerosiblog pacifisti circola un’esagitata denuncia di un prete-so tentativo dei governi europei di espropriare i parla-menti nazionali delle decisioni di intervento all’estero.Alcuni blog inglesi, contrari alla proposta di istituire(finalmente!) in Inghilterra un organo di polizia centra-le tipo Fbi, vedono in Eurogendfor addirittura una spe-cie di Santa Alleanza per reprimere i moti di piazzadegli Euroscettici (così i nazionalisti bretoni non saran-no più bastonati soltanto dal Comandante Florent mapure da Don Matteo). D’altra parte fino a questomomento l’unica analisi seria e di ampio respiro dedi-

cata all’Eurogendfor è lo studio di Michiel de WegerThe Potential of the European Gendarmerie Force,pubblicato online nel marzo 2009 dall’Istituto Olandesedi Relazioni Internazionali di Clingendael. Con buonapace degli allarmisti, la cooperazione tra le polizie euro-pee, in materie ben più delicate dal punto di vista dellasovranità nazionale e dei diritti di libertà, trova prece-denti almeno dal 1898. Il primo accordo globale risaleal forum sulla sicurezza interna della Cee (Trevi) creatonel lontano 1975 e il Trattato di Maastricht previde lacreazione di un’unità antidroga europea (Edu). Questa,attivata il 3 gennaio 1994, si è poi trasformata il 1°luglio 1999 in agenzia generale europea di intelligenceper la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo(Europol). Con sede all’Aia, attualmente include tutti i27 paesi dell’Unione, ha accordi di cooperazione con13 paesi e 11 organizzazioni europee e internazionali eil primo gennaio 2010 ha acquisito formalmente lo sta-tuto di agenzia europea per semplificare le procedure diriforma. Nel 2001 gli è stata affiancata la task force perlo scambio di contatti personali e di informazioni tra icapi delle polizie europee (Ecptf) e nel 2002 l’agenzia

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giudiziaria anticrimine (Eurojust, pure all’Aia), mentresono state creati enti per la cooperazione tra le poliziefluviali e marittime (Aquapol,2002) e di frontiera (Frontex, aVarsavia, 2004) e tra le accade-mie di polizia (Cepol, segretaria-to a Bramshill, 2005). È in quest’ambito che va inqua-drata la cooperazione tra le poli-zie europee a ordinamento mili-tare, che risale all’iniziativa presanel 1992 dal direttore della gen-darmerie nationale di promuove-re un contesto giuridico formaleper gli scambi di esperienza e diinformazione coi Carabinieri e laGuardia Civil. L’iniziativa con-dusse alla dichiarazione tripartitadi Madrid del 12 maggio 1994sulla cooperazione nella sicurez-za interna e alla creazione di una commissione (indica-ta come Fiep dalle iniziali dei primi firmatari) alla qualesi sono poi aggiunti Portogallo (1996), Turchia (1998),

Marocco, Olanda (1999) e Romania (2002), con richie-ste pure da Ucraina (2002), Argentina, Cile e

Azerbaijian. Del tutto distinta da queste inizia-tive di cooperazione all’internodei confini dell’Unione, è però lacooperazione europea nelle mis-sioni internazionali di polizia civi-le, che si è andata intensificandonel quadro della Pesc e poi dellaPesd (Politica Europea diSicurezza e Difesa). La data diavvio è il 20 giugno 2000, quandoil Consiglio europeo di SantaMaria de Feira (Portogallo) decisela creazione entro il 2003 di unaforza di polizia europea per mis-sioni internazionali con un massi-mo di mille effettivi mobilitabilientro 30 giorni e una riserva di

altri 4mila. Nel 2002 fu attivata la prima missione euro-pea di polizia (Eupm), per dare il cambio in Bosnia allaforza di polizia delle Nazioni Unite (Iptf) e il 25 ottobre

Si chiama Eurogendfor e contro di lei si sono già scatenati i blog

pacifisti. Ma con buonapace degli allarmisti,

la cooperazione tra le polizie Ue,

in materie ben più delicate sotto il profilo

della sovranità nazionalee dei diritti di libertà,

trova precedenti almeno dal 1988

Addestramento anticorruzione della polizia afghana. Lezione numero uno: portare il palmo destro dalla posizione orizzontale a quella verticale. Pagine successive: alcunistemmi dei reparti coinvolti nella missione in Afghanistan, fra cui il simbolo di Isaf ed Eurogendfor. Un fotogramma del film francese “Le gendarme et les extra-terrestres”.

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2004, i capi delle polizie dell’Unione Europea, riuniti aWarnsveld (Olanda) su iniziativa della presidenza olan-dese, approvarono una dichiarazione sui compiti dellapolizia nel quadro della Politica Europea e di Sicurezzae Difesa (Esdp). Da allora sono state avviate altre cin-que missioni europee di polizia, in Macedonia (EupolProxima, 2004), in Congo (Eupol Kinshasa, 2005), neiTerritori Palestinesi (Eupol Cops, 2006), a Kabul(Eupol Afghanistan, 2007) e in Kosovo (Eulex, 2008).Sono tutte in corso e l’Italia vi partecipa con personaledei Carabinieri, della Guardia di Finanza e, in alcunicasi, della Polizia di Stato.

Tuttavia furono proprio i Carabinieri, già nel1997, a segnalare l’esigenza di dotare i comandantidelle missioni di pace di unità militari di polizia, da nonconfondere con le unità di polizia militare. Secondo ilsito ufficiale dei Carabinieri l’iniziativa sarebbe nata perovviare alle limitazioni della Forza Speciale di PoliziaInternazionale (Iptf) delle Nazioni Unite in Bosnia, laquale, essendo a carattere civile e disarmata, avevapotuto svolgere solo compiti di consulenza e addestra-mento ma non di supplenza o rinforzo delle forze loca-li di polizia. Il Comando generale dell’Arma elaborò giànel febbraio 1998 la formula operativa delle UnitàMultinazionali Specializzate (Msu), recepita nella dot-trina ufficiale della Nato, e nel corso dell’anno fu invia-ta in Bosnia la prima Msu, in pratica un piattone diCarabinieri con contorno di gendarmerie minori e pureextraeuropee (come l’Argentina). Una formula assaistrombazzata da noi, ma pare realmente apprezzata, cheè stata poi impiegata pure in altre missioni internaziona-li nei Balcani e in quella italiana in Iraq. Secondo un

commentatore olandese il vero scopo della codificazio-ne Nato della Msu sarebbe stato di permettere ai callidiCarabinieri di sottrarre le loro missioni estere al control-lo del ministero degli interni italiano e perciò dei benea-mati “cugini di città” (Govaarts, J., LIPO 4, 30 maart2006.)Non è chiaro tuttavia perché, cinque anni dopo la Msue tre dopo Santa Maria de Feira, si sia svegliata pure laGendarmerie Nationale. Durante la riunione informaledei ministri della Difesa della Nato dell’8 ottobre 2003,il ministro francese, madame Alliot-Marie, proposeinfatti di creare una forza di gendarmeria europea (Egf)per missioni Eu, Onu e Nato. Lo scopo dell’iniziativa sipresta a molteplici interpretazioni. Secondo uno studioamericano sarebbe stato di accrescere il bilancio dellagendarmeria francese e la leadership francesesull’Europa Meridionale, mentre Italia e Spagna avreb-bero aderito per accrescere il loro peso internazionale. Ilcitato commentatore olandese disegna invece lo scena-rio più realistico di un’emulazione tra Gendarmerie eCarabinieri, mediata dalla Maréchaussée olandese ericostruisce il laborioso negoziato che portò all’acces-sione della Guarda Nacional Republicana portoghese edella Guardia Civil spagnola e alla dichiarazione d’in-tenti firmata il 17 settembre 2004 a Noordwijk dai mini-stri della Difesa dei cinque paesi. Evidentemente ispirato al modello organizzativo diSanta Maria de Feira, l’Eugendfor prevede una forza di800 gendarmi mobilitabile in 30 giorni, più una riservadi altri 1.500, e due organi centrali, uno politico e unotecnico. Il primo è il comitato interdipartimentale di altolivello (Cimin, acronimo di Comité Inter-ministériel dehaut Niveau) composto dai rappresentanti dei ministeri

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degli Esteri e della Difesa. L’altro è il Quartier generalepermanente (Phq), composto da 16 ufficiali e 14 sottuf-ficiali (6 e 5 italiani). I sei incarichi principali (coman-dante, vicecomandante, capo di stato maggiore e sotto-capi per operazioni, pianificazione e logistica) sonoripartiti a rotazione biennale tra le varie nazionalità,secondo gli usuali criteri per la composizione delle forzemultinazionali.

Dopo lungo negoziato la Francia accettòche la sede del Phq fosse in Italia. La scelta fu certamen-te aiutata dal colpo messo a segno tre mesi prima daiCarabinieri, quando, nel farsi promotore assieme a Bushdella Global Peace Initiative (Gpi) approvata il 10 giu-gno 2004 dal 30° vertice del G8 di Sea Island,Berlusconi ottenne che il coordinamento della forma-zione dei 7.500 poliziotti civili e militari dei paesi coin-volti nella Gpi fosse affidato ai Carabinieri. Per laFrancia fu un grosso smacco, se si pensa alla sua coope-razione militare e di polizia con le sue ex-colonie africa-ne e che nel 2003 aveva indirettamente promosso, tra-mite il Senegal, l’Organizzazione delle GendarmerieAfricane (Oga), che ha sede a Dakar e riunisce ben 26paesi. I Carabinieri, che avevano già impiantato la fab-brica delle Msu nella caserma del 13° battaglione diGorizia, attrezzarono un’altra Stargate nella loro sede diVicenza (Caserma Chinotto), dove furono destinati siail Phq dell’Egf sia il Centro di Eccellenza per le Unità diPolizia di Stabilità (CoEspu) della Gpi. Contribuisconoal CoEspu solo con istruttori Stati Uniti, Francia eRussia; sia con istruttori che con allievi 4 paesi africani(Nigeria, Sudafrica, Camerun e Senegal), solo con allie-vi altri 15 paesi (Burkina Faso, Mali, Kenya, Marocco,

Egitto, Giordania, Pakistan, India, Nepal, Indonesia,Cile, Serbia, Romania e Ucraina). Il primo comandante dell’Egf, un generale di brigatadella Gendarmerie nationale, fu nominato il 25 gennaio2005. La prima esercitazione per posti comando si tennenel giugno 2005 al centro d’addestramento della gen-darmerie nationale di Saint Astier, e la seconda dal 19 al28 aprile 2006 a Madrid. Il Phq fu insediato ufficialmen-te a Vicenza il 23 gennaio 2006 con l’intervento deiministri Alliot-Marie e Martino e le felicitazionidell’Alto commissario per la Pesc Javier Solana, e il 20luglio fu dichiarato pienamente operativo. Il trattato isti-tutivo dell’Eurogendfor, in 11 capitoli e 47 articoli, fufirmato il 18 ottobre 2007 a Velsen (Olanda). Due accor-di tecnici sulle questioni finanziare generali, e su quelleparticolari delle singole operazioni nonché sulle defini-zioni di membro, osservatore e partner dell’Egf furonofirmati a Madrid il 14 marzo 2006 e ad Amsterdam il 15novembre 2007. Il 3 marzo 2009 la JandarmeriaRomana fu ammessa come membro a pieno titolo,mentre a quella turca fu attribuito lo status di osservato-re e a quelle polacca e lituana lo status di partner. Il 5giugno una rappresentanza dei reparti a cavallo dellegendarmerie partecipanti a vario titolo all’Egf ha presoparte al tradizionale carosello dei Carabinieri a Piazza diSiena e il 26 giugno il colonnello portoghese JorgeEsteves Ha assunto il comando dell’Egf. Tra le condi-zioni per rivitalizzare l’Egf, de Weger pone l’allarga-mento ad altri paesi. Tuttavia solo alcuni paesi europeihanno forze di polizia a ordinamento militare (vietate adesempio dalla costituzione tedesca) e la proposta olan-dese di ammettere pure le polizie civili è stata bocciatada Francia e Italia. L’allargamento è ostacolato pure da

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Towards a safer world.

Pochi sono coloro in grado di dominare le profondità. Noi lo siamo.

Grazie alla sua ineguagliabile capacità di pGrazie alla sua ineguagliabile capacità di progettare, sviluppare e produrre siluri pesanti e leggeri con i relativi sistemi di lancio, contromisure acustiche anti-siluro e apparecchiature per la sorveglianza subacquea, WASS è ricono-sciuta come leader mondiale nel campo della difesa subacquea. Attraverso l’utilizzo delle più moderne tecnologie, tutti i sistemi sono concepiti per fornire i più elevati livelli di prestazione al fine di far fronte ai sempre più esigenti sce-nari operativi, presenti e futuri.

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veti incrociati di alcuni membri contro alcuni aspi-ranti: in particolare della Francia contro la Turchia(per via degli Armeni), dell’Italia contro laRomania (per ripicca) e del Portogallo contro laPolonia (per darsi importanza).Il primo impegno internazionale dell’Egf è stata lapartecipazione alla Missione Eufor Althea inBosnia. In particolare il Phq ha distaccato alcuniufficiali presso il quartier generale dell’Unità diPolizia Integrata (Ipu) dipendente dall’EuforAlthea, che è stato attivato il 14 dicembre 2007 aCamp Butmir (Serajevo). Da notare che in quelmomento sia l’Egf sia le due forze multinazionalidi polizia operanti in Bosnia (Ipu ed Eupm) eranocomandate da ufficiali dei Carabinieri (colonnelliGiovanni Truglio e Giovanni Pietro Barbano egenerale di brigata Vincenzo Coppola. Truglio eragià stato comandante della Msu Antica Babiloniain Iraq). Apparso nel marzo 2009, il citato studio dide Weger osservava che i Carabinieri e laMaréchaussée avevano fino ad allora partecipato aben 21 missioni internazionali, la Guardia Civil a18, la Gendarmerie Nationale a 12, la GuardaNacional Republicana a 3 e la JandarmeriaRomana a 2. Nessuna missione aveva fino ad allo-ra incluso tutti e sei i membri dell’Egf; in Congo eKosovo mancava la Gnr, in Bosnia, Macedonia eAfghanistan pure la Jr, in Iraq c’era la Gnr ma nonGn e Jr, mentre in Somalia, Ciad e Kurdistan eranostati i soli Carabinieri. De Weger concludeva che lapartecipazione ad Eufor Althea era troppo poco:per evitare di essere marginalizzata, l’Egf dovevacogliere il “momentum” favorevole e parteciparead almeno un’altra missione. Due mesi dopo, il 13maggio 2009, il Cimin approvava a Parigi l’impie-go dell’Egf nelle missioni di addestramento dellaNato in Afghanistan (Ntm-A) per l’assistenza el’addestramento della polizia afgana (Ancop). Il 9 ottobre il Parlamento olandese ha approvato alarga maggioranza una mozione per il ritiro delcontingente dall’Afghanistan entro l’agosto 2010.Ciò non ha tuttavia scalfito la grande determinazio-

ne dell’Olanda a effettuare la missione Egf.Proprio tre giorni dopo il voto, il 12 ottobre, hainfatti avuto inizio la ricognizione preparatoria gui-data dal comandante dell’Egf e protrattasi fino al22, incontrando i comandanti (americani) dell’Isaf(McChrystal) e del Cstc (Combined SecurityTransitional Command) A/Ntm-A (Formica), non-ché il commissario dell’Eupol (il danese KaiVittrup) e visitando i centri d’addestramentoCentrale (Ctc) di Kabul e Regionale (Rtc) diMazar-i-Sharif. Dal 3 al 5 novembre rappresentan-ti del Phq hanno partecipato come esperti e consu-lenti ad un gruppo di lavoro tenuto al Qg diBrunssum dal Comando delle Forze CongiunteAlleate (Jfcbs) per elaborare i criteri di addestra-mento delle cellule di collegamento e consulenzaper le operazioni di polizia (Police operationalmentoring and liaison teams, Pomlt’s) inAfghanistan. Dal 3 al 12 novembre un membro delPhq ha inoltre partecipato come osservatore all’ad-destramento delle cellule di collegamento e consu-lenza operativa per corpi, brigate e guarnigioni(programma “Above Kandak”) svoltosi in Poloniapresso il centro di addestramento della Nato JointTask Force di Bydgoszcz. La missione Eurogendfor in Afghanistan ha avutoinizio l’8 dicembre e il 24 si è svolta la cerimoniadi attivazione a Camp Eggers, Kabul, con l’inter-vento del ministro dell’Interno afgano, degli amba-sciatori francese e olandese, del comandante dellaNtm-A Cstca (generale US Army William B.Caldwell), del presidente del Cimin (gen. d’arméesRoland Gilles) e del comandante Egf (col. JorgeEsteves). Ventiquattro rappresentanti Egf (contrad-distinti dal basco azzurro) sono impiegati comeesperti presso il Qg del Cstca e come consiglieri eistruttori della polizia afghana (Ancop) e cellule dicollegamento e assistenza per le operazioni di poli-zia (Pomlt’s). È interessante osservare che il rap-porto tra il numero degli articoli del trattato (47) equello del personale impiegato (24) è già inferiorea 2 a 1.

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L’INTRIGOCHE MISE FINEALLA GUERRAIN ITALIA

Vi sono, tra i macro-eventi che hanno caratterizzato l’epilogo della seconda guer-ra mondiale, molti fatti su i quali il velo del mistero non è stato ancora del tutto

sollevato. L’apertura degli archivi dei servizi segreti statunitensi (Oss) ha consentitodi fare un po’ di luce su alcuni di questi, come le armi segrete tedesche, i prodromidello sbarco alleato in Sicilia, Yalta, la conferenza di Casablanca, gli accordi armisti-ziali, la mala sorte toccata ai prigionieri tedeschi alla fine del conflitto, ed altri anco-ra. Ma, nonostante la mole della documentazione oggi già consultabile, è propriol’abbondanza dei dati a rendere difficile una ricerca che, come tutte le cose che richie-dono di essere collegate dal filo dell’intuizione, non fornisce quasi mai soluzioni uni-voche, e tutto resta interpretabile a seconda dell’ottica e del metodo della ricerca.Nell’Intrigo di Berna Pino Adriano ha operato con il metodo che gli è consueto, quel-lo dell’esperto documentarista. È riuscito così ad allineare fatti ed eventi scaturiti daun’amplissima documentazione con il filo logico che gli ha consentito di “romanza-re” l’arida realtà uscita dalle carte senza alterarne affatto il significato, ma invece riu-scendo a proporla al lettore in modo piacevolmente scorrevole. La sintesi del lavorosi trova in seconda e terza di copertina, ed è bene leggerla prima di rischiare di per-dersi in un testo che, seppure piano e lineare nella stesura, è comunque assai artico-lato e complesso.Negli ultimi anni della seconda guerra mondiale l’Italia è divisa in due dalla lineagotica. Si sa che Hitler risponderà all’attacco finale con una ritirata strategica facen-do terra bruciata. Verranno rase al suolo le industrie e le infrastrutture, comprese lecentrali elettriche delle Alpi, mentre le armate della Wehrmacht confluiranno nellefortezze alpine per combattere fino all’ultimo uomo. I più anziani ricorderanno quan-

di Mario Arpino

PINO ADRIANO

L’ intrigo di Berna.Diplomatici, generali, agenti segreti:la verità sulla fine della guerra in Italia

Mondadoripagine 351 • euro 20,00

Edito da Mondadori nella collanaLe Scie, L’intrigo di Berna trattadella storia della trattativa segretache nell’Italia del 1945 accelerò la fine della guerra, evitando nel nostro Paese ulteriori lutti e distruzioni. Pino Adriano ha realizzato per il cinema e la Rai uncentinaio di documentari. È autorecon Giorgio Cingolani di Corpi delReato, un libro-inchiesta su quattro delitti degli anni di piombo

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to si era fantasticato sulla famosa quanto inesistente“ridotta in Valtellina” per l’ultimo atto della RepubblicaSociale Italiana. Accade invece che, servendosi di abilis-simi mediatori (agenti svizzeri e fiduciari della SantaSede), i servizi segreti delle SS fanno sapere agli ameri-cani che sono disposti a trattare, a condizione che agliottocentomila armati tedeschi sia consentito di rientrarein patria per respingere le divisioni sovietiche. Anche segli americani non possono infrangere il patto di alleanzache li vincola ai russi, la prospettiva di completare la con-quista dell’Italia senza più combattere è molto allettante.A Berna si apre così, in gran segreto, una trattativa. Ilnome in codice è Operation Sunrise. I principali prota-gonisti sono Allen Dulles, capo dell’ufficio di Bernadell’Oss americano e fratello del più noto Foster (diven-terà famoso dopo la guerra come capo storico della Cia),e il generale delle SS Karl Wolff, plenipotenziario tede-sco in Italia nelle grazie di Himmler e di Hitler. Quando,però, i russi si rendono conto del gioco, la fiducia tra este ovest si incrina pericolosamente. Ciò nonostante, i con-tatti continuano e il 27 aprile 1945 due delegati tedeschisi recano in volo al comando alleato di Caserta per sot-toscrivere la “resa incondizionata” delle armate germa-niche in Italia.La strada ora è libera e gli anglo-americani possono arri-vare a Trieste in tempo per fermare l’avanzata dellebande di Tito che, secondo le loro informazioni, avrebbepotuto innescare l’insurrezione comunista nel nord delPaese. In effetti, almeno nel nord-est, i piani congiuntidel 9° Corpus titino e delle brigate comuniste“Garibaldi” erano l’occupazione del territorio fino alfiume Tagliamento e la “rivoluzione”. Il patrimonioindustriale, almeno quella parte che si era salvata daibombardamenti alleati, è salvo. La capitolazione, se nonper le dure reazioni dei tedeschi in ritirata contro gliormai inutili attacchi dei partigiani, aveva accelerato lafine del conflitto e risparmiato migliaia di vite umane. Illibro di Adriano apre ampie finestre e dà la chiave di let-tura corretta per molti degli eventi dell’epoca, ma nonrisolve del tutto i troppi interrogativi che ancora si pon-gono. Si trattò veramente di una “resa incondizionata” -proprio quella voluta a Casablanca - oppure Wolff e le

SS ottennero una contropartita? Viene in mente, a que-sto proposito, Dossier Odessa, altro romanzo intrigante,con forse una buona dose di verità. In effetti, chi ci puòdavvero assicurare che la fuga di numerosi criminalinazisti nel dopoguerra e la tolleranza nei loro confrontiin alcuni paesi, specie del Sud America, non possa esse-re in parte collegata anche a quegli accordi? Il lavoro diAdriano deve essere stato lungo e paziente, e di questodanno ampia testimonianza ben ventiquattro pagine dinote - alcune sono solo riferimenti, ma altre sono indi-spensabile complemento per la corretta comprensionedel testo - e di ricerca bibliografica. Il libro si articola intre parti, ciascuna delle quali è suddivisa in capitoli.Nella prima si cerca di dare al lettore un’idea della com-plessa organizzazione messa in piedi a Berna da AllenDulles e di spiegare, in stile romanzato ma sempre cre-dibile, la progressiva espansione della rete dei contatti,che, attraverso emissari, coinvolgeva persone e perso-naggi di primo piano, spesso molto vicini ai potenti del-l’epoca. Alcuni dei quali, come si evince in più parti dellavoro, pur non palesandosi “non potevano non sapere”.La seconda parte, che con 180 pagine e 19 capitoli è cer-tamente la più corposa - il cuore del libro - si addentranel segreto delle trattative e percorre il dedalo di intrecciinternazionali che alla fine portano molto vicino al risul-tato, ovvero una sorta di “pace separata” con gli anglo-americani delle armate tedesche in Italia, nonostante inumerosi ostacoli. Due sono quelli che rischiano di farfallire la trattativa, o che, comunque, richiedono adatta-menti e modifiche. Il primo è la “resa incondizionata”concordata tra Stalin, Roosvelt e Churchill nella confe-renza di Casablanca: è evidente che una richiesta di resaincondizionata escluderebbe, per sua stessa natura, ognitipo di trattativa. Il secondo è che i russi avvertono chequalcosa si sta trattando ai loro danni tra alleati e tedeschie, nel sospetto, irrigidiscono la loro posizione. Ma, comeil lettore vedrà, le trame, le conoscenze ed i patteggia-menti sviluppati nell’Intrigo di Berna finiranno comun-que per avere, con continuità anche negli anni dell’im-mediato dopo guerra, effetti non trascurabili. La terzaparte, che l’Autore intitola Incipit novus ordo, è ovvia-mente quella conclusiva, che narra i retroscena della resa

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delle truppe tedesche firmata presso il comando alleatodella reggia di Caserta il 29 aprile 1945. Sul fronte ita-liano, la guerra di fatto finirà a mezzogiorno del 2 mag-gio. Diversi personaggi che popolano il libro sono nominoti a molti dei lettori, in quanto presenti in ogni operache tratta il biennio dell’occupazione tedesca in Italia, osono stati oggetto della cronaca di vari processi intenta-ti dalle autorità nazionali e alleate dopo la fine dellaguerra. Molti ricordano il nome dell’ambasciatore delReich in Italia Rudolf Rahn, del plenipotenziario gene-rale Karl Wolff, del comandante della Wehrmacht inItalia generale Heinrich von Vietinghoff, del comandan-te del teatro generale Albert Kesselring, del colonnellointerprete Eugen Dollmann, del tenente colonnello delleSS Herbert Kappler, unico ufficiale, quest’ultimo, con-segnato dagli alleati alle autorità italiane, del tenentecolonnello von Schweinitz e del maggiore Wenner, idue ufficiali delegati a firmare la resa di Caserta. Mapochi conoscono il grado di implicazione di questi per-

sonaggi nell’affare di Berna e, soprattutto, quasi nessu-no conosceva, sinora, la sorte loro toccata dopo la finedella guerra e gli eventi giudiziari che li hanno visticoinvolti. Negli ultimi due capitoli della terza parte, ilquinto ed il sesto, Adriano ci racconta anche questo.Credo che per la maggior parte dei lettori sarà una verasorpresa perché, al di là di ogni aspettativa, è possibilefinalmente comprendere come e perché, grazie agliintrighi di Berna, molti ufficiali delle SS che nella guer-ra in Italia hanno avuto ruoli non certo marginali, allafine l’abbiano “fatta franca”. APino Adriano va senz’al-tro il merito di essere riuscito a ricostruire questa vicen-da, così poco nota quanto importante, attraverso ilvaglio metodico di molteplici fonti storiche, quali lememorie dei negoziatori, i rapporti degli agenti segreti,i carteggi dei leader politici e molti documenti, in parteinediti, di archivi italiani e stranieri. Merito non secon-dario è l’averci proposto tutto ciò con garbatissimotaglio narrativo.

L’INTERESSE NAZIONALE PRIMA DI TUTTOL’azione dell'Italia nei principali settori

della politica estera: l’analisi dello Iai e dell’Ispi

di Pierre Chiartano

Èun appuntamento per tutti gli analisti di politi-ca estera e gli addetti ai lavori del settore. Un

utile riferimento per chi si vuole orientare nelcomplicato mondo delle relazioni internazionalicol marchio tricolore. Continua l’interessante ini-ziativa di Iai-Ispi con l’edizione 2010 dell’annua-rio sulla politica estera italiana, a cura di GianniBonvicini e Alessandro Colombo, uscito per i tipidel Mulino. Ci sono alcune novità importantirispetto al passato, perché il nocciolo dello studiodiventa l’azione italiana nei principali settori dellapolitica estera e «non più sulla doppia analisi deifatti internazionali, da una parte e di quelli italianidall’altra» spiega Bonvicini. Si parla naturalmente

del 2009, un anno cruciale da tanti punti di vista.Il ventennale della caduta del muro di Berlino èstato un anno cruciale anche per il nostro Paese.Oltre ad aver gestito l’ultima presidenza del “gran-de” G8 «l’Italia ha dovuto partecipare alla gestio-ne della crisi finanziaria ed economica, si è con-frontata con il problema della possibile interruzio-ne dell’approvvigionamento energetico», haaffrontato la crisi che ha investito le istituzionieuropee nel dopo referendum irlandese e il changeobamiano. Le numerose crisi legate alle ondatemigratorie e l’acutizzarsi dei problemi provocatida un altro change, quello climatico. Nel 2009 èresuscitato anche il Trattato di Lisbona, entrato incrisi a causa delle mancate applicazioni dei suoiprincipi, tra cui quelli sull’economia della cono-

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scenza. Tramontano molte illusioni e modelli d’in-terpretazione della realtà internazionale, come levisioni «unipolari», «non-polari» e quelle promos-se dal libro di Thomas L. Friedman sul flat world.E dopo il vertice di Pittsburg, anche il club deipotenti da G8 svolta verso il G20 per gestiremeglio la governance economica. Sempre inEuropa, la Nato è investita in pieno dal cambia-mento obamiano, che smantella la precedentepolitica dell’amministrazione Bush, progetto sulpiano anti-missili compreso. È la politica dellenuove alleanze di Washington. Anche sul versantepolitico il G5+1, ovvero i cinque membri perma-nenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più laGermania in Occidente e il Giappone in Oriente,introduce alcune novità. L’Italia tenta di reagiresottolineando «l’importanza residuale» del model-lo G8 «ma senza grande successo». E da quelloscranno tenta anche di separare il tradizionale rap-porto con l’Iran dalla delicata vicenda nucleare. Difronte a uno scenario simile la nostra politica este-ra ha solo potuto - come sottolineato dal vicepre-sidente dello Iai, Bonvicini - gestire emergenze echiudere contingenze come il dossier libico.Occorre per il nostro Paese definire con precisioneun concetto, spesso sfuggente, come l’interessenazionale. Di fronte a scenari quali la guerra inIraq o quella nei Balcani, tanto per citare dueesempi, Roma ha sempre avuto delle difficoltà aesprimere una politica dalla fisionomia riconosci-bile. Al di fuori della lealtà a trattati e alleanzeinternazionali, e un generico afflato umanitario, ilnostro Paese dovrebbe poter pretendere, senzatimori tardo-ideologici un ritorno, anche economi-co, al tornaconto nazionale per un interventoall’estero. «Le sfide della globalizzazione sonodifficili e l’Italia è in ritardo - sottolinea Bonvicini- e ne sono una spia i bilanci dei due dicasteri piùesposti sul fronte esteri, come quello della Difesae quello degli Esteri». Sempre nel 2009, la giàmodestissima spesa sul fronte delle feluche, passa-va dallo 0,35 per cento del Pil a un ancor più eva-

nescente 0,27 per cento. La Difesa si è ormai asse-stata al disotto dell’uno per cento, rispetto a unamedia europea del 1,42 per cento e delle richiestedell’Alleanza atlantica del 2 per cento. Tra le novi-tà introdotte dall’annuario anche un ampio rappor-to introduttivo, corredato da numerosi grafici etabelle sui principali aspetti delle relazioni tral’Italia e il mondo. Il rapporto sviluppa alcunedelle analisi contenute nei capitoli di settore che sitrovano nella seconda parte del volume. La conclu-sione è costituita da «sei ipotesi e scenari strategicisui possibili sviluppi della politica estera nazionale».Interessanti anche le due cronologie allegate a finetesto. Una dedicata all’azione italiana e la seconda aimaggiori eventi europei ed internazionali. Uno degliultimi capitoli è dedicato al potere estero delle regio-ni, grazie all’articolo 117 della Costituzione che dàcompetenze decisionali alle regioni e alle provinceautonome in materia di accordi internazionali e dellaComunità europea. Un articolo spesso abusato, spe-cie in materia di promozione economica ed aperturadi sedi diplomatiche, oggi sotto la scure dei taglidella finanziaria. Viene portata ad esempio di buonapratica la legge della Regione Toscana in materia diriordino normativo. Insomma, maggiore sintoniad’azione con governo, ministeri e agenzie per evita-re sprechi e doppioni. La delusione di Copenhagen,del resto ampiamente anticipata dalle posizioni diWashington e Pechino, non fa che rimandare ogniaspettativa all’appuntamento in Messico per fineanno. E sottolinea quanto sia difficile trovare unaccordo sul clima. Interessanti alcuni dati sulladipendenza energetica. Nel settore petrolifero ilprimo fornitore dell’Italia è la Libia col 33 per centodelle importazioni, seguita dalla Russia con il 16 percento e poi dall’Azerbaigian col 14 per cento diapprovvigionamento di oro nero. L’Iraq è in quartaposizione - grazie anche al lavoro dell’Eni nellosfruttamento petrolifero del campo di Zubair - epompa il 12 per cento del fabbisogno italiano digreggio. Nell’importazione di gas, la parte del leonequesta volta spetta all’Algeria quasi a pari merito

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con Mosca. La prima con una quotadel 33 per cento e la seconda con il 31per cento. Poi ancora la Libia con il 13per cento e seguono con quote minorianche Olanda, Norvegia e altri Paesieuropei. Insomma la tanto agognatadiversificazione delle fonti energeti-che sembrerebbe quasi raggiunta.«L’Europa dei 27 nel 2001 consumava470 miliardi di metri cubi di gas, cheerano diventati 516 nel 2008. La reces-sione ha inciso anche su questi consu-mi e il 2009 ha visto un totale di “solo”483 miliardi di metri cubi». Altreinformazioni interessanti emergonodai dati d’interscambio commercialecon l’Iran e la Turchia a dimostrazionedi una vocazione italiana delle relazio-ni con l’Oriente vicino e lontano.Tradizione ereditata probabilmente daitempi in cui il grosso, la moneta vene-ziana, era come il dollaro di oggi. Conl’Iran l’anno d’oro è stato sicuramenteil 2008, poi crisi economica e crisi suldossier nucleare hanno notevolmenteridimensionato un rapporto che facevadell’Italia «il Paese occidentale econo-micamente più esposto in Iran».L’interscambio era di 6,1 miliardi dieuro nel 2008, ridotto a 3,5 l’anno suc-cessivo. Il parametro che più ha risen-tito della politica del ministero delTesoro americano è l’Ide sugli investi-menti all’estero. Per l’Italia si è passa-ti, in un solo anno, da 5,1 miliardi dieuro a soli 500 milioni, soprattutto acausa dello stop dell’Eni. Parte degliscambi persi col regime sciita sonostati direzionati nell’area dei Paesi delGolfo. Ne hanno beneficiato soprattut-to gli Emirati arabi uniti, l’Arabia sau-dita e il Qatar. La Turchia, come si

legge in uno dei capitoli dell’annuarioIai-Ispi, mantiene con l’Italia rapportibasati su comuni «interessi strategici,economici ed energetici». «Sul pianostrategico Roma e Ankara condivido-no l’interesse alla stabilizzazione deiBalcani, della regione del Caucaso e ingenerale dell’intera area delMediterraneo allargato, oltre alla sicu-rezza delle forniture energetiche».L’Italia vede con favore il dinamismocon cui la Turchia si muove, svolgen-do un «ruolo stabilizzante» in tutta laregione ed Ankara ha nel nostro Paeseun postulatore del proprio ingressonella Ue. Le informazioni su Iran eTurchia sono solo un esempio sul con-tenuto delle schede che si possonotrovare nell’annuario e che ne fannouno strumento utilissimo anche per leredazioni esteri di quotidiani e rivi-ste. Un manuale, dove pescare dati einformazioni precise sulla natura del-l’interesse nazionale italiano.

GIANNI BONVICINI E ALESSANDRO COLOMBO(Curatori)

La politica esteradell'Italia edizione 2010

Il MulinoPagine 234 • euro 20,00

Con l'edizione 2010 si avvia lanuova serie degli annuari Iai-Ispi, pubblicati dal Mulino.La principale differenza rispetto al passato, evidentegià nel titolo, è nell'oggetto:La politica estera dell'Italia enon più L'Italia e la politicainternazionale. Il cuore dell'analisi si sposta dunquesull'azione dell'Italia nei principali settori della politicaestera e non più sulla doppiavalutazione e analisi dei fattiinternazionali, da una parte, e di quelli italiani dall'altra.Ovviamente i mutamenti delloscenario internazionale rimangono sullo sfondo, erispetto ad essi viene misuratala maggiore o minore efficaciadella politica estera italiananell'anno che si è concluso.La seconda novità è che l'annuario si apre con unampio Rapporto introduttivo sui principaliaspetti delle relazioni tra l'Italiae il resto del mondo. Il rapporto, corredato da figure e tabelle, sviluppa alcune delle analisicontenute nei 10 capitoli settoriali raccolti nella secondaparte del volume e si conclude con l'indicazione di sei scenari strategici sui possibili sviluppi della politicaestera italiana

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E F I R M EL del numero

MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa

PIETRO BATACCHI: senior analyst Ce.S.I. – Centro Studi Internazionali

ROBERTO CAJATI: capo ufficio studi dell’Is.I.A.O. – Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente

PIERRE CHIARTANO: giornalista di liberal

HOWARD W. FRENCH: professore associato di giornalismo alla Columbia University, già corri-spondente dall’africa per il New York Times

EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo

RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina

VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano

CARLO JEAN: presidente del Centro Studi di geopolitica economica, docente di Studi strategicipresso l’Università Luiss Guido Carli di Roma

VALÉRIE MIRANDA: junior researcher allo Iai e Dottoranda in Studi europei e internazionaliall'Università Roma Tre

ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai nell'Area Sicurezza e Difesa

MARTA OTTAVIANI: giornalista, corrispondente dalla Turchia per diverse testate, fra cui liberale Apcom

EMANUELE OTTOLENGHI: senior fellow presso la Foundation for Defense of Democracies di Washington

NICOLETTA PIROZZI: ricercatrice nell'Area Affari Europei dell´Istituto Affari Internazionali

MAURIZIO STEFANINI: giornalista e scrittore

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Voliamo ogni giorno in tutti i cieli del mondoAlenia Aeronautica è un leader globale negli aerei regionali e un costruttore indipendente di livellomondiale nelle aerostrutture. La famiglia ATR domina il mercato dei turboelica. Tra breve entrerà inservizio il nuovissimo Superjet, basato su un’ampia collaborazione con Sukhoi.Il contributo al Boeing 787 e all’Airbus A380 conferma Alenia Aeronautica come vero “small prime” incampo civile. Alenia Aeronautica ha contribuito in modo significativo ai più importanti aerei di lineaBoeing e McDonnell Douglas. Una vasta gamma di aerostrutture e componenti Alenia Aeronautica èsugli Airbus, sui jet d’affari Dassault e sul futuro Bombardier C-Series. La controllata Alenia Aermacchiè un importante fornitore di gondole motore ad Airbus, Boeing, Dassault, Embraer e altri costruttori.

Quando le idee volano

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Towards a safer world.

Predictable results for unpredictable threats

La storia moderna della tecnologia per la sicurezza è la storia di SELEX Sistemi Integrati, protagonista mondiale nei sistemi per la difesa militare e civile, la sorveglianza costiera e la gestione del traffico aereo.SELEX Sistemi Integrati è la società di Finmeccanica per la progettazione e la realizzazione di Grandi Sistemi per Homeland Protection, con una presenza in 150 Paesi, sedi in Italia, Regno Unito, Germania, Stati Uniti.

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quaderni di geostrategiaregistrazione Tribunale di Roma n.283

del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

1313 2010maggio-giugno

numero 57anno XIeuro 10,00

Mario Arpino

Pietro Batacchi

Roberto Cajati

Pierre Chiartano

Howard W. French

Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Carlo Jean

Valérie Miranda

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Michele Nones

Marta Ottaviani

Emanuele Ottolenghi

Nicoletta Pirozzi

Maurizio Stefanini RIS

KM

AG

GIO

-GIU

GN

O20

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L’ALT

RA

AFR

ICA

Il desertodelle speranzeCorruzione, fuga di capitali,poca governance e boom demografico

CARLO JEAN

Non solo una terradi miniereL’economia non decolla, ma qualche virtuoso c’è. Come il Botswana

ROBERTO CAJATI

Neocolonialismoin salsa cineseSotto l’egida “infrastrutture per risorse”Pechino scala il Continente, ma non l’aiuta

HOWARD W. FRENCH

GuazzabuglioAfricomComando in Germania, Esercito a Vicenzae Marina a Napoli: per gli Usa non è facile

ANDREA NATIVI

Il business dei pasdaranEmanuele Ottolenghi

La rock star del MediorienteMarta Ottaviani

L’ALTRAAFRICA

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