Ripensare il ruolo del Direttore del Distretto sociosanitario...3 2. Il sistema della Primary Care a...

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Ripensare il ruolo del Direttore del Distretto sociosanitario quale figura strategica per la costruzione di una cultura dell’integrazione e per il miglioramento dei servizi delle cure primarie di Luciana Ridolfi* Sessione 19 - Integrazione socio-sanitaria e servizi alla persona Paper per la X Conferenza ESPAnet Italia Il welfare e i perdenti della globalizzazione: le politiche sociali di fronte a vecchie nuove disuguaglianzeUniversità di Bologna Campus di Forlì, 21-23 settembre 2017 * Docente a contratto, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche Ancona [email protected]

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  • Ripensare il ruolo del Direttore del Distretto sociosanitario

    quale figura strategica per la costruzione di una cultura

    dell’integrazione e per il miglioramento

    dei servizi delle cure primarie

    di

    Luciana Ridolfi*

    Sessione 19 - Integrazione socio-sanitaria e servizi alla persona

    Paper per la X Conferenza ESPAnet Italia

    “Il welfare e i perdenti della globalizzazione: le politiche sociali di fronte a

    vecchie nuove disuguaglianze”

    Università di Bologna –

    Campus di Forlì, 21-23 settembre 2017

    * Docente a contratto, Facoltà di Medicina e Chirurgia,

    Università Politecnica delle Marche – Ancona

    [email protected]

    mailto:[email protected]

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    1. Introduzione

    L’integrazione sociosanitaria rappresenta il fulcro strategico attorno al quale si sviluppano i

    Servizi Sanitari Regionali: l’obiettivo è tutelare la salute della persona nella sua globalità e di

    assicurarne una presa in carico continuativa, non limitata solo ai bisogni conclamati di natura

    clinico-sanitaria, ma anche a quelli di tipo sociale e sociosanitario, durante tutto l’arco della vita.

    Il Distretto sociosanitario è l’articolazione dell’Azienda Unità Locale Socio Sanitaria deputata al perseguimento dell’integrazione tra le diverse strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali

    presenti sul territorio, in modo da assicurare una risposta coordinata e continua ai bisogni della

    popolazione che, negli ultimi decenni, hanno subito un radicale cambiamento a livello

    epidemiologico, sociale e culturale, inducendo, al tempo stesso, un cambiamento di organizzazione

    e gestione del sistema sanitario. In tale contesto, la figura del Direttore del Distretto è chiamata a

    ricoprire un ruolo che richiede competenze manageriali sempre più spiccate per rispondere alla

    nuova complessità dei bisogni di salute della popolazione e al corrispondente incremento della

    complessità dell’organizzazione dei servizi necessari per soddisfarli.

    Scopo di questo lavoro è tracciare le nuove “coordinate” del Direttore del Distretto, alla luce del

    posizionamento strategico che questa figura ricopre nell’assetto dell’intero SSR. Verrà posta

    attenzione alla sua funzione di organizzatore e facilitatore dei percorsi di cura, per giungere alla

    costruzione di una cultura dell’integrazione fra professionisti, in funzione del miglioramento dei

    servizi delle cure primarie in grado di superare i modelli assistenziali in uso (di tipo gerarchico e

    prestazionale) a favore di nuovi approcci di tipo multisettoriale e di rete che sappiano privilegiare

    un’ottica di integrazione a livello territoriale (Community care).

    Dopo una rapida panoramica sul sistema delle Cure Primarie a livello internazionale e nazionale,

    il lavoro prenderà in esame il tema dell’integrazione sociosanitaria e i principali modelli

    assistenziali, per giungere ad una riflessione sulle attuali criticità che caratterizzano il ruolo del

    Direttore del Distretto e ridefinirle come opportunità all’interno di un miglioramento complessivo

    del sistema delle cure territoriali di tipo culturale e organizzativo.

    Nello specifico, le principali criticità fanno riferimento a:

    1. la scarsa integrazione sociosanitaria, sia a livello di policy che a livello logistico ed operativo; 2. il ruolo di legittimazione della governance pubblica del sistema di assistenza primaria, al quale viene riconosciuta una funzione baricentrica (ancora erroneamente attribuita all’ospedale),

    attualmente svolta più dalla direzione della ASL che dal Distretto;

    3. la progressiva riduzione della funzione di produzione direttamente gestita dal Distretto. È

    evidente che su questo terreno giocano fattori contingenti (ad es. esternalizzazione forzata di pezzi

    di sistema a causa dei vincoli nelle assunzioni o nel turn over del personale), così come scelte di

    indirizzo politico (riconoscimenti diversi del contributo dei privati quali erogatori di servizi);

    4. lo sviluppo di forme di produzione organizzata nell’assistenza primaria, non a gestione diretta del

    distretto, quali i MMG, le organizzazioni no-profit (ad es. associazioni, cooperative, consorzi), le

    organizzazioni for profit, anche alla luce delle contingenti esigenze di deospedalizzazione;

    5. la necessità di valorizzare i diversi ruoli professionali della rete socio-assistenziale. Ad es., il

    MMG, dal ruolo tradizionale di gatekeeper, può diventare coordinatore clinico del progetto di

    assistenza; la professione infermieristica può sviluppare ulteriori potenzialità sia di carattere clinico-

    assistenziale che organizzativo tramite ruoli di coordinamento dell’assistenza, irrinunciabili nella

    gestione delle malattie long-term (funzione di case management); gli operatori di assistenza

    sociosanitaria possono offrire un contributo sempre più qualificato attraverso idonei processi

    formativi e di affiancamento; gli specialisti, non solo convenzionati, possono essere maggiormente

    coinvolti nel contesto di Primary Health Care in termini di continuità tra il livello primario e

    secondario di assistenza, anche per facilitare la crescita clinico-professionale dei diversi operatori.

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    2. Il sistema della Primary Care a livello internazionale e nazionale: un breve excursus Le “nuove epidemie” – come l’OMS definisce le cronicità – esigono nuove parole d’ordine, quali

    globalità dei bisogni, gestione proattiva, assistenza multidimensionale e multiprofessionale, che

    impongono di ripensare l’organizzazione dei servizi in chiave territoriale.

    In quest’ottica, il governo delle cure primarie rappresenta uno dei principali obiettivi strategici

    nella realizzazione delle nuove politiche internazionali per la salute. Uno studio coordinato da Atun

    (2004) sui vantaggi e gli svantaggi derivanti da un sistema sanitario maggiormente orientato al

    settore delle cure primarie, ha dimostrato che i sistemi improntati all’assistenza primaria, rispetto a

    quelli incentrati sull’assistenza specialistica, riscontrano miglioramenti negli outcome di salute,

    nella soddisfazione dei pazienti, nell’equità e condizioni di accesso, nella continuità delle cure e nel

    contenimento della spesa sanitaria.

    La necessità di una maggiore condivisione di strategie politiche all’interno dei sistemi sanitari

    europei è derivata soprattutto dal crescente impatto dei nuovi bisogni di salute scaturiti da profondi

    cambiamenti demografici, epidemiologici e socioeconomici (l’allungamento dell’aspettativa di vita

    e il progressivo incremento dell’incidenza delle fasce di popolazione di età avanzata, le radicali

    trasformazioni della famiglia, con l’accorciamento della “catena familiare” che toglie sostegno

    informale e accresce la condizione di solitudine…). Alcuni dati forniscono l’idea di una realtà in

    crescente evoluzione:

    tra il 1990 e il 2014 l’aspettativa di vita, sia per gli uomini che per le donne, è aumentata di sette

    anni (OECD/EU, 2016);

    di conseguenza, si assiste ad un generale e progressivo invecchiamento della popolazione: in

    media, nei paesi dell’UE, la percentuale della popolazione di età superiore ai 65 anni è passata da

    meno del 10% nel 1960 a quasi il 20% nel 2015 e sembrerebbe destinata ad aumentare fino a

    sfiorare il 30% nel 2060 (OECD/EU, 2016);

    il quadro epidemiologico dei paesi europei è caratterizzato dall’esplosione delle malattie

    croniche, con una crescente prevalenza di queste patologie ovunque (WHO/Europe, 2009);

    il fattore causale delle condizioni sociali di fragilità (determinanti sociali della salute) rispetto

    all’insorgenza di condizioni polipatologiche: l’insorgenza si registra molti anni prima per le

    persone in condizione di disagio socio-economico1.

    Questi mutamenti rendono indispensabile un cambiamento paradigmatico dell’assistenza

    sanitaria e sociosanitaria che intervenga su nuove direttrici:

    non più nella prospettiva di un orizzonte temporale definito, ma in quella della lunga durata: l’obiettivo non è solo la riduzione dell’impatto delle malattie acute, ma la continuità della cura e

    della presa in carico;

    non più esclusivamente nella concezione della guarigione, ma anche in quella della qualità della vita a lungo termine (perseguimento del “ben-essere”);

    non più in una visione esclusivamente sanitaria, ma anche sociale e culturale, tenendo conto: o dell’insieme dei servizi sociali e sociosanitari che incidono sulla qualità della vita della

    persona con malattia cronica o disabilità,

    o delle risorse di self-management dell’individuo e della squadra di operatori e caregivers che cooperano al suo benessere e alla qualità della sua vita,

    o del capitale sociale e delle reti che concorrono a migliorare le relazioni di una comunità.

    1 Una ricerca scozzese su un campione di 1.800 soggetti iscritti nei registri della medicina generale (Barnett et al., 2012)

    ha evidenziato come il 42,2% della popolazione osservata presentava una o due patologie e il 23,2% almeno tre.

    Sebbene la prevalenza della multimorbilità risulti direttamente proporzionale all’invecchiamento e presente

    principalmente nella popolazione over 65, guardando all’incidenza assoluta della multimorbilità (il n° totale di soggetti)

    il dato sulla popolazione under 65 risulta nettamente più elevato. I risultati più drammatici dello studio riguardano il

    fattore causale delle condizioni sociali di fragilità, ovvero i determinanti sociali della salute, rispetto all’insorgenza di

    condizioni polipatologiche: l’insorgenza si è registrata fino a 10-15 anni prima per le persone in condizione disagiata.

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    Il riconoscimento dell’importanza dei modelli di Primary Care si scontra, tuttavia, con l’estrema

    frammentarietà di framework condivisi dai vari paesi, dovuta soprattutto alla difficoltà di definire

    con precisione i confini delle cure primarie. Tra le varie ipotesi, Starfield (1991) ha avanzato una

    proposta esaustiva che fa riferimento ad importanti concetti chiave presenti all’interno di tutti i

    sistemi di cure primarie dei paesi europei2:

    la Primary Care è caratterizzata da un mix di servizi;

    tali servizi richiedono un adeguato livello di integrazione professionale;

    i servizi riguardano non solo l’aspetto clinico ma anche l’organizzazione della loro erogazione.

    L’esigenza di coordinamento nell’offerta dei servizi può declinarsi in diversi modi, a seconda

    dello specifico contesto nazionale e degli ambiti di servizio cui si fa riferimento. Pur nell’estrema

    varietà di situazioni, è possibile rintracciare alcune caratteristiche ricorrenti in tutti i servizi sanitari

    europei:

    la forte necessità di una relazione funzionale tra l’ospedale e i servizi non ospedalieri;

    la mancanza di integrazione tra cure primarie e servizi sociali, causata dai differenti sistemi di

    governo ai quali le due dimensioni rispondono;

    la necessità di una migliore comunicazione tra i professionisti del setting assistenziale e di cura;

    il ruolo di gatekeeper non attribuito al MMG (come in Francia) che crea problemi all’interno

    della continuity of care: la responsabilità della coerenza del piano di cura ricade sul paziente, con

    evidenti criticità sul piano clinico ed organizzativo.

    L’eterogeneità dei sistemi di Primary Care a livello internazionale, sembra riflettersi anche nel

    panorama italiano. Qui le esperienze di gestione si caratterizzano per le varietà organizzative e di

    contenuto dovute soprattutto al modo in cui i sistemi regionali guidano alcune tendenze che

    attraversano l’intero Paese. Anche in questo caso è possibile sintetizzare alcune priorità che

    qualificano il dibattito interno:

    a) le relazioni tra il quadro dei bisogni rispetto ai quali l’assistenza territoriale è chiamata a dare risposta e le conseguenze sull’organizzazione dei servizi;

    b) le conseguenze, per l’assistenza territoriale, dei processi di ridimensionamento dell’ospedale e del ridisegno dei confini territoriali delle ASL;

    c) lo sviluppo di reti per patologia che stanno tipizzando i modelli assistenziali per macro aree di bisogno e proponendo processi allargati di allineamento professionale.

    Relativamente al primo punto (a), l’ultimo Piano Nazionale della Prevenzione 2014/2018

    evidenzia come oltre un terzo della popolazione risulta affetto da almeno una patologia cronica (e,

    in molti casi, si tratta di pazienti polipatologici3). Da tali risultanze appare chiaro che la missione

    principale del territorio è il presidio dei bisogni collegati alle patologie croniche: la natura della

    malattia cronica condiziona il contenuto dei servizi e le sue modalità di erogazione.

    La risposta a tali bisogni richiede una serie di interventi prioritari che devono fare riferimento a:

    2 “Le cure primarie si riferiscono a quei servizi che affrontano i problemi più comuni fornendo un mix di servizi preventivi, curativi e riabilitativi, integrando le cure quando esiste più di un problema sanitario che ha a che fare con il

    contesto della malattia, organizzando e razionalizzando la messa in campo di risorse di base e specializzate”. Starfield

    B. (1991), ‘‘Primary care and health. A cross-national comparison’’, in: Isaacs SL, Knickman JR: Generalist Medicine

    and the US. Health System. San Francisco, CA: Jossey-bass, 2004, pp. 187-196, http://www.jhsph.edu/research/centers-

    and-institutes/johns-hopkins-primary-care-policy-center/Publications_PDFs/D52.pdf 3 L’OMS definisce gli elementi della malattia cronica. Si tratta di una patologia che possiede almeno una delle seguenti

    caratteristiche: a) è permanente; b) tende a sviluppare un tasso di disabilità variabile; c) è causata da un’alterazione

    patologica non reversibile; d) richiede una formazione speciale per il raggiungimento di una buona qualità della vita; e)

    necessita di un lungo periodo di controllo, osservazione e cura. AA.VV. (2004), Prevenire le malattie croniche: un

    investimento vitale, http://www.who.int/chp/chronic_disease_report/contents/Italian%20full%20report.pdf?ua=1

    http://www.jhsph.edu/research/centers-and-institutes/johns-hopkins-primary-care-policy-center/Publications_PDFs/D52.pdfhttp://www.jhsph.edu/research/centers-and-institutes/johns-hopkins-primary-care-policy-center/Publications_PDFs/D52.pdfhttp://www.who.int/chp/chronic_disease_report/contents/Italian%20full%20report.pdf?ua=1

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    − frequenza costante del contatto del cittadino con i servizi: la continuità dell’osservazione e della

    cura, l’individuazione di una figura di riferimento (case manager 4) e l’accessibilità logistica alle

    strutture di offerta rappresentano condizioni essenziali per l’organizzazione dei servizi;

    − centralità del contenuto del servizio che deve essere più di tipo assistenziale che non sanitario: il mantenimento/miglioramento della qualità della vita del pz. cronico richiede una valutazione

    integrata delle condizioni di salute/malattia, del contesto sociale del malato, del suo stile di vita;

    − informazione e consapevolezza della malattia da parte del cittadino: alcune condizioni di

    cronicità possono essere autogestite da parte del paziente (capacità di self management).

    b) Il ridisegno dei confini territoriali delle ASL produce l’ampliamento della rete di offerta e

    implica la messa in comune di risorse per zone territoriali sempre più ampie5. A tale fenomeno si

    associa il ridimensionamento della rete ospedaliera che sta orientando sempre più la propria

    vocazione sull’acuzie in senso stretto. Ciò implica che:

    − le attività non di acuzie che confluivano sull’ospedale devono essere organizzate in altri setting;

    − la rete dei servizi territoriali deve sviluppare elevati livelli di integrazione e connessione sia dal

    punto di vista logistico ed organizzativo, sia da quello gestionale e professionale;

    − si liberano spazi nell’ospedale che possono ospitare strutture intermedie d’assistenza territoriale.

    L’obiettivo finale è quello di coinvolgere le professionalità del territorio nel governo della

    domanda e dei percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) in forme di organizzazione del

    lavoro innovative che favoriscano l’integrazione multiprofessionale.

    c) Lo sviluppo di reti cliniche rappresenta un altro punto focale degli obiettivi nazionali di Primary care. Le reti cliniche – definite come “gruppi di professionisti collegati, provenienti dall'assistenza primaria, secondaria e terziaria, che lavorano in un modo coordinato, non vincolato da restrizioni di

    tipo professionale od organizzativo, per garantire un'equa prestazione di servizi efficaci di alta qualità”

    (Our National Health 2000) – consentono di presidiare la clinical governance del paziente. Come

    vedremo in seguito, esse possono avere diverse configurazioni in base al loro livello di complessità:

    reti di tipo individualistico, reti cliniche organizzate e reti cliniche ad elevata complessità.

    3. L’integrazione sociosanitaria e i modelli organizzativi

    Il tema dell’integrazione sociosanitaria interessa l’evoluzione del SSN fin dalla sua istituzione:

    già nei principi e negli obiettivi della L.833/1978 era prevista una visione olistica della salute, intesa

    come benessere fisico associato al benessere psichico. La normativa successiva (D.Lgs. 502/92,

    L.419/98; D.Lgs. 229/99; L.328/2000; DPCM febbraio 2001, PSN 1994-96; 1998-2000; 2003-05;

    L.419/98; Accordi Stato-Regioni) ha rafforzato questa visione richiamando con maggior urgenza, a

    livello istituzionale e di organizzazione del sistema di offerta, la necessità di integrare gli interventi

    sociali e sanitari. Nonostante le varie azioni, il nodo dell’integrazione sociosanitaria rimane un

    ambito di policy critico, sia rispetto alle politiche realizzate e ai servizi offerti, sia per la continua

    contrazione e dispersione delle risorse dedicate all’interno del sistema di welfare6.

    4 Il case manager è un operatore sociosanitario che si fa garante nel tempo dell’intero processo diagnostico-assistenziale del pz, svolgendo direttamente parte delle prestazioni ed interfacciandosi con i diversi operatori per assicurare

    continuità e tutela degli interessi del pz. E’ una soluzione organizzativa efficace per rafforzare processi di integrazione.

    Cfr. Fioravanti L., Spandonaro F. (2007). Continuità assistenziale: dal principio alla realizzazione. Cosa insegna il

    disease management. Politiche Sanitarie Vol. 8, N. 1, Genn.-Marzo 2007. 5 L’indagine Agenas sulla rete dei Distretti mostra che si è avuta una riduzione del loro numero del 28% nel decennio

    1999-2009 che porta la popolazione media residente nei Distretti a 84.452 ab., con il 32,1% degli stessi che assiste una

    popolazione tra 60.000 e 100.000 ab. e il 32,5% con un bacino di utenza superiore a 100.000. La ricerca evidenzia che è

    ampiamente superato il criterio del Distretto con bacino di utenza di 60.000 ab.(indicato nel D.Lgs.229/99). Cfr.

    Bellentani M. et al. (2011), “La rete dei distretti sanitari in Italia”, I Quad. di Monitor n° 8, Agenas. 6 Non vi è ancora, ad es., un riequilibrio tra l’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) sanitari e i

    corrispettivi livelli d’assistenza sociale (LIVEAS). Mentre i LEA hanno recentemente ottenuto un aggiornamento (genn.

    2017, Lorenzin), i LIVEAS, previsti nella L.328/2000, non hanno mai visto la loro definitiva conversione in legge.

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    La normativa individua i soggetti privilegiati delle prestazioni integrate tra sanità e sociale

    (minori, donne, famiglia, anziani, disabili, pazienti psichiatrici, persone con dipendenza da alcool,

    droghe, farmaci…) e indica nella fragilità la dimensione peculiare dell’integrazione, per assicurare

    specifiche forme di presa in carico, caratterizzate da globalità e interdisciplinarietà (D.Lgs. 229/99).

    L’integrazione sociosanitaria fa dunque riferimento al “coordinamento tra interventi di natura

    sanitaria e sociale, a fronte di bisogni di salute molteplici e complessi, attraverso progetti

    assistenziali personalizzati”. A livello concettuale, è possibile declinarne l’operatività su tre livelli:

    1. Integrazione istituzionale: è il livello che riguarda la collaborazione tra istituzioni diverse (USL, Comuni). Si avvale di strumenti quali gli accordi di programma, le convenzioni, le deleghe…

    2. Integrazione gestionale: concerne il livello operativo. Il Distretto è il luogo in cui si realizza l’integrazione, fondata su approcci multidimensionali e sulla metodologia del lavoro per progetti.

    3. Integrazione professionale: si riferisce alle modalità operative con le quali si realizza il lavoro congiunto degli operatori sanitari e socio-assistenziali (PUA, unità valutative integrate, équipe

    integrate, sistema informativo unico, definizione delle responsabilità, continuità terapeutica…).

    Pur invocata da tutti i documenti di programmazione, l’integrazione sociosanitaria sembra

    ancora parzialmente raggiunta (Bellentani M. et al., 2011). Ciò è dovuto ad alcune ragioni di fondo,

    la prima delle quali sta nel fatto che il confine da attraversare per realizzarla non separa

    semplicemente diverse professioni sanitarie, ciascuna con il proprio specifico ambito di

    competenza, o diverse unità organizzative, ma “due mondi” profondamente diversi – quello

    dell’ambito sociale e quello dell’ambito sanitario – ognuno molto protettivo del proprio “territorio”.

    Secondariamente, l’integrazione trova difficoltà applicative nell’estrema frammentazione e

    disomogeneità che caratterizzano il welfare italiano e gli attori che lo compongono (i loro rapporti

    di subordinazione gerarchica, contrattuali, di sovrapposizione e composizione di competenze …)

    che fanno dire a buon titolo come il settore sociosanitario italiano sia simile ad un “arcipelago” di

    attori complementari, non sempre connessi fra loro, che rispondono a logiche, interessi e normative

    spesso diversi e divergenti.

    3.1 Modelli per l’integrazione sociosanitaria e assistenziale

    E’ possibile individuare quattro macro tipologie di modelli per l’integrazione sociosanitaria e

    assistenziale: il Chronic Care Model (A), il Disease Management (B), il modello delle reti cliniche

    e assistenziali (C), i Percorsi Assistenziali o Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali (D).

    A. Chronic Care Model (CCM). Il modello, elaborato verso la fine degli anni ’90 (Wagner, 1998), ridefinisce l’approccio alle malattie croniche spostando il focus dell’assistenza da un

    approccio reattivo, fondato sul “paradigma dell’attesa” dell’evento acuto, ad un approccio proattivo,

    improntato al “paradigma dell’iniziativa” e basato sulla prevenzione, l’empowerment del paziente (e

    della comunità) e la qualificazione del team assistenziale (sanitario e sociale). Il CCM pone in

    rilievo sei aree d’intervento per un approccio “sistemico” alle malattie croniche:

    sistema organizzativo: creare una cultura, un’organizzazione e meccanismi che promuovano un’assistenza sicura e di alta qualità;

    disegno del sistema di erogazione: assicurare l’erogazione di un’assistenza clinica efficace ed efficiente e di un sostegno auto-gestito;

    i processi decisionali: promuovere un’assistenza clinica in accordo con le evidenze scientifiche e le preferenze del paziente;

    sistema informativo: organizzare i dati relativi ai pazienti e alle popolazioni per facilitare un’assistenza efficace ed efficiente;

    il sostegno all’autogestione: potenziare e preparare i pazienti a gestire la loro salute e la loro assistenza;

    le connessioni con la comunità: mobilizzare le risorse della comunità per incontrare i bisogni dei pazienti.

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    B. Disease Management (DM). E’ un approccio sistemico ed evidence-based (EBM, EBN) alle patologie croniche (Hunter e Fairfield, 1997) che vede il coinvolgimento di tutti i “produttori di

    assistenza” per la presa in carico di fabbisogni complessi di salute del paziente (relativi all’area

    clinica e diagnostico-terapeutica, economica, culturale e socio-relazionale). Il modello prevede

    interventi assistenziali coordinati per gruppi di popolazione di pazienti con caratteristiche omogenee

    (malati cronici ad alto rischio di sviluppare complicanze particolarmente onerose) in cui la

    partecipazione attiva del paziente alla gestione della propria salute ha un impatto significativo.

    Il DM è fondato su una risposta assistenziale basata su quattro elementi chiave:

    knowledge management: abilità nell’identificare gruppi a rischio all’interno della popolazione, effettuare valutazioni dei bisogni, capire le risorse e i livelli di attività;

    self care and self management: sostiene le persone nell’assumere un ruolo attivo nella cura di se stessi, e nell’adottare misure che possano prevenire un peggioramento di tali condizioni;

    disease/care management: si basa su team multidisciplinari che forniscono cure di elevata qualità, basate sulle evidenze includendo l’uso di percorsi e protocolli;

    case management: riguarda la gestione attiva della popolazione ad elevato rischio con bisogni complessi I case manager si prendono la responsabilità del carico di lavoro, operando in un

    setting d’assistenza integrata.

    C. Le Reti assistenziali. Sono network composti da professionisti individuali e collettivi ad alta capacità di auto-organizzazione, che instaurano tra loro modalità differenti di relazione reciproca,

    costruiscono delle relazioni stabili ed agiscono in riferimento ad obiettivi condivisi, condividendo

    valori, dotandosi di sistemi di coordinamento, controllo e monitoraggio (Meneguzzo, Cepiku,

    2008). La letteratura converge gli studi su due categorie fondamentali di reti: le reti integrate

    orizzontalmente e le reti integrate verticalmente (Lega, 1998).

    Nel primo caso, l’aggregazione scaturisce dalla combinazione di attività poste sul medesimo

    livello di cura, secondo un criterio territoriale o medico-specialistico. Il criterio territoriale prevale

    in presenza di un approccio population-based, in quanto la rete che ne scaturisce consente di fornire

    una risposta comprensiva alla varia natura dei bisogni di una data popolazione servita (presenza di

    team di Primary Care composti da medici, infermieri ed assistenti sociali che offrono servizi

    integrati destinati ad una specifica area geografica). Il criterio di integrazione medico-specialistico

    risulta essere invece coerente con un approccio organization-oriented, incentrato cioè, sulla

    massimizzazione dell’efficienza. Tali network, mirano all’incremento delle economie di scala, alla

    condivisione dei servizi amministrativi e di supporto in un’ottica di economicità, ma anche alla

    promozione di una specializzazione crescente.

    Le reti integrate verticalmente ricercano un’aderenza strutturale rispetto al percorso assistenziale

    del paziente e al continuum di prestazioni sanitarie di tipo preventivo-diagnostico, terapeutico e

    riabilitativo. L’integrazione verticale si riferisce, infatti, alla combinazione di strutture e

    professionisti interdipendenti posti su diversi livelli di cura (es. assistenza primaria, secondaria e

    terziaria) oppure alla combinazione dell’assistenza sanitaria con quella sociale. In questo modo

    viene promossa una triplice unitarietà a favore del paziente: di presa in carico, di progetto

    assistenziale e di percorso di fruizione dei servizi.

    Siccome una rete non esclude l’altra, diventa importante sviluppare la capacità di network

    relationship management necessaria per creare capitale sociale: la tradizionale funzione di filtro

    delle cure primarie (gate-keeping) evolve così qualitativamente, integrandosi con le cure secondarie

    e terziarie (system-keeping), per forme di assistenza più vicine ai bisogni dei singoli e della

    comunità (Lega, 2002). Oggi, per esempio, si parla di Distretto sociosanitario come Area-sistema in

    grado di unire la serie di presidi/servizi ancora fortemente sparsi sul territorio.

    Un altro modello di rete ampiamente utilizzato è l’hub and spokes (Cicchetti, 2002). Si basa

    sulla presenza di una struttura centrale che assume una vocazione generalista di media-alta

    specialità (hub) – spesso in virtù delle maggiori risorse detenute – cui si affiancano le altre strutture

    (spokes) appartenenti al network, che svolgono funzioni di primo intervento (pronto soccorso) e di

  • 8

    gestione della casistica più semplice. Il modello hub and spoke può essere utilizzato efficacemente

    per riunire i servizi caratterizzati da bassi volumi di attività o da elevata tecnologia7.

    D. I Percorsi assistenziali. Introdotti negli USA, dalla fine degli anni ‘90 si sono diffusi in tutto il mondo. Non ne esiste una definizione univoca

    8: nel panorama nordamericano, vengono definiti

    come: “piani interdisciplinari di assistenza creati per rispondere a specifici problemi clinici o di

    diagnosi. Sono, strumenti di gestione clinica usati da chi eroga prestazioni sanitarie per definire la

    migliore sequenza di azioni, nel tempo ottimale, degli interventi rivolti a pz. con particolari

    diagnosi e condizioni o a pz. che possono richiedere procedure specifiche” (Morosini et al., 2005).

    I principi che guidano la stesura dei percorsi assistenziali sono individuati nel miglioramento

    continuo, nella focalizzazione dei bisogni del cliente, nella riduzione delle variazioni della pratica

    clinica, nel lavoro in team e nella massimizzazione dell’efficienza. Gli obiettivi fanno riferimento a:

    • una dichiarazione esplicita degli intenti e degli interventi fondamentali di assistenza basati sulle

    evidenze scientifiche, sulle migliori pratiche e sulle aspettative e caratteristiche dei pazienti;

    • la facilitazione della comunicazione tra i membri del team e con i pazienti e le famiglie;

    • il coordinamento del processo di cura attraverso il coordinamento dei ruoli e lo sviluppo delle

    sequenze delle attività del team di cura multidisciplinare, compresi i pazienti e i loro familiari;

    • la documentazione, il monitoraggio e la valutazione degli scostamenti e dei risultati,

    • l’identificazione delle risorse adeguate.

    4. Il Distretto socio-sanitario

    La struttura organizzativa “classica” delle Aziende sanitarie si basa sulla centralità di unità

    organizzative e dipartimenti per discipline mediche, ovvero una struttura che privilegia la

    qualificazione organizzativa e professionale delle varie specializzazioni mediche: il paziente

    attraversa orizzontalmente le diverse “canne d’organo” specialistiche in luoghi e tempi di fruizione

    distinti e non coordinati, riponendo su di sé la fatica della ricomposizione o spostandosi nel tempo e

    nello spazio tra i diversi settori, oppure istituzionalizzandosi presso un ambito di cura.

    Il Distretto sociosanitario nasce, all’opposto, come unità organizzativa aziendale deputata

    all’integrazione dei processi a favore del paziente.

    La configurazione organizzativa “più idonea” per i Distretti sembra essere quella di una struttura

    complessa poiché il Distretto programma le sue attività, partecipa con la Direzione Aziendale alla

    definizione dei percorsi e delle modalità di accesso, necessita della nomina di un Direttore di

    Distretto che garantisca le attività di programmazione locale, il loro monitoraggio e la verifica,

    coinvolgendo tutti gli operatori operanti a livello distrettuale ed aziendale, inclusi i MMG.

    Sul piano logistico, le dimensioni del Distretto vengono definite in modo che la struttura possa

    essere abbastanza ampia da governare i percorsi di cura9.

    7 Le reti sono funzionali ad un paziente che necessita di muoversi verso livelli di assistenza specializzata, attraverso

    processi decisionali rapidi, spesso entro tempi obbligati (time window). Per queste ragioni i modelli di rete sono

    applicati prioritariamente al trauma, all’IMA, all’ictus ed alle malattie oncologiche. 8 In inglese si segnalano i termini clinical pathways, case management plans, critical pathways, care pathways,

    multidisciplinary pathways, integrated care pathways. In italiano, oltre la traduzione dei suddetti (percorsi clinici, piani

    di gestione dei casi, percorsi critici, percorsi di cura, percorsi multidisciplinari; percorsi assistenziali integrati)

    abbiamo le espressioni: processi di cura o di assistenza; profili di cura o di assistenza; percorsi di cura o di assistenza;

    PIC: Profilo Integrato di Cura; PDT: Percorsi Diagnostici-Terapeutici; PDTA: Percorsi Diagnostico-Terapeutici-

    Assistenziali. 9 Una buona parte delle Aziende ULSS si orienta verso un Distretto unico, indipendentemente dalle dimensioni del

    bacino di riferimento, privilegiando la dimensione della uniformità gestionale ed organizzativa. Nella Regione Veneto,

    per es., il nuovo quadro programmatorio (L.R. n.23/2012), dispone che in ciascuna Azienda ULSS, a prescindere dal

    numero di Distretti, il Direttore dei Servizi Sociali e della Funzione territoriale, sia l’unico responsabile dell’intera

    funzione territoriale, in coordinamento con il Direttore Sanitario.

  • 9

    A livello sistemico, le funzioni che rientrano nella mission del Distretto si riferiscono a diverse

    tipologie quali: l’integrazione sociosanitaria, le attività di programmazione strategica e di

    committenza10

    , di gestione-controllo11

    e di produzione-erogazione dei servizi, attribuendo tale

    responsabilità al Direttore del Dipartimento delle Cure Primarie (DCP) 12

    .

    Il sistema emiliano-romagnolo di servizi territoriali13

    , diretto ai pazienti cronici e non cronici, è

    basato su due pilastri: da un lato, il Nucleo di cure primarie (NCP), “cellula organizzativa” che,

    almeno potenzialmente, comprende e integra i principali professionisti dell’assistenza territoriale

    sanitaria e socio-sanitaria; dall’altro, una sede fisica del nucleo, la Casa della salute (CdS), punto

    d’accesso al sistema socio-sanitario per il cittadino che necessita di prestazioni a bassa intensità di

    cura e complessità14

    . Nella fase attuale, nella Regione si sta promuovendo il passaggio da Nuclei di

    Cure Primarie di tipo funzionale a Nuclei di livello strutturale, nella forma di Case della Salute.

    L’obiettivo è una migliore presa in carico delle persone con patologie croniche e con modalità

    integrate di raccordo tra servizi e professionisti

    Gli strumenti funzionali alle strategie di committenza delle politiche per l’integrazione

    sociosanitaria riguardano il ruolo della programmazione, che può essere declinato su tre livelli:

    1. la programmazione nazionale (attraverso i Piani Sanitari Nazionali) che indica le aree prioritarie di intervento, i LEA e le modalità per la loro verifica, le esigenze prioritarie in materia di ricerca

    biomedica e di ricerca sanitaria applicata…;

    2. la programmazione regionale, i cui contenuti si uniformano alle indicazioni del PSN, si esplica nei confronti della programmazione del SSR, delle aziende sanitarie, dei livelli di finanziamento

    e progetti obiettivo nel quadro del SSR e delle risorse presenti nella comunità;

    3. la programmazione aziendale, la cui autonomia gestionale e finanziaria si sviluppa nell’ambito degli indirizzi definiti dalla programmazione regionale. Essa deve superare la logica strettamente

    aziendale e confrontarsi con gli Enti Locali e le risorse di cura esterne al sistema professionale.

    A questi livelli si affianca la programmazione zonale degli interventi, in relazione ai compiti

    assegnati ai comuni dalla normativa. Gli strumenti di programmazione distrettuale rilevanti sono:

    il Piano di Zona distrettuale per la salute e il benessere sociale, il Programma delle attività territoriali (PAT), il Piano delle attività per la non autosufficienza;

    il Piano per la salute, contenuto di norma nell’atto di indirizzo triennale della CTSS (Conferenza Territoriale dei Servizi Sociali), che disegna il profilo di salute della comunità distrettuale e pone

    i presupposti degli interventi prioritari per la salute ed il benessere dei cittadini;

    i sistemi di governance del territorio, come ad es. gli ACG (Adjusted Clinical Groups), sistemi che identificano “raggruppamenti” di pazienti in una popolazione.

    10

    La funzione di committenza, intesa come “definizione dei servizi necessari per rispondere alle necessità dei cittadini

    su un determinato territorio”, è svolta in integrazione con gli enti locali e si attua attraverso le seguenti fasi:

    - misurare i bisogni di salute della popolazione, da svolgersi con i Comuni (cambiamento dei profili di bisogno,

    misurare la cronicità per programmare interventi mirati);

    - organizzare i servizi nella filiera della salute (COT = Centrale Operativa Territoriale, AFT = Aggregazioni Funzionali

    Territoriali e MGI= Medicine di Gruppo Integrate; NCP = Nuclei Cure Primarie e CdS = Casa della Salute);

    - condividere: PDTA e il modello dei luoghi di cura: posti letto per acuti, cure intermedie (Hospice, OsCo, cure

    residenziali, domicilio);

    -misurare gli esiti e i risultati (e governare i costi); valutare la qualità misurata (PNE 2016), percepita (clima interno,

    indagini di qualità percepita, segnalazioni, carta dei servizi, umanizzazione). 11

    Gestione delle funzioni tecnico amministrative, gestione sanitaria accentrata e gestione economico-finanziaria. 12

    La funzione di produzione del Distretto si esplica in diverse attività: cure primarie, specialistica territoriale,

    prevenzione, programmi di raccordo con l’ospedale. 13

    Da alcuni anni svolgo la mia attività primaria nell’Azienda USL della Romagna, dove mi occupo del Settore

    Programmazione/Allocazione delle Risorse Umane (presso il presidio di Rimini).

    In altre realtà, come nella Regione Veneto, si stanno attuando le Medicine di Gruppo Integrate (MGI); in Lombardia si

    attua il sistema sperimentale dei CReG (Chronic Related Group)… 14

    La CdS è un presidio del Distretto la cui gestione complessiva è affidata al Dipartimento di Cure Primarie. E’ quindi

    la sede di accesso e di erogazione dei servizi sanitari, sociosanitari e socio-assistenziali rivolti alla popolazione

    dell’ambito territoriale di riferimento del Nucleo di Cure Primarie (NCP).

  • 10

    4.1 Il ruolo del Direttore del Distretto sociosanitario

    Con il D.Lgs. 229/99, accanto al Direttore sanitario e amministrativo dell’Azienda USL, viene

    introdotta la figura del Direttore del Distretto, che assume un ruolo cruciale avendo la responsabilità

    delle attività programmatorie, del raggiungimento degli obiettivi assegnati dalla direzione generale

    e della gestione delle risorse. Il Direttore organizza le attività distrettuali in modo da perseguire pari

    opportunità di accesso ai servizi e garantire l’integrazione e la continuità dell’assistenza

    (coordinandosi anche con l’assistenza ospedaliera). Supporta inoltre la Direzione generale nei

    rapporti con i Sindaci del Distretto.

    Le funzioni del Direttore sono dunque tipicamente manageriali e fanno riferimento a queste aree:

    analisi dei bisogni, progettazione e valutazione dei servizi; gestione di dati sanitari, sociali, economici; gestione del budget e programmazione; gestione organizzativa di personale, strutture, processi; sviluppo delle risorse umane; comunicazione interna e comunicazione esterna.

    Le direttive regionali non forniscono ulteriori requisiti circa la nomina di questa figura (sembra

    prevalere la logica “intuitus personae”, ossia si lascia al Direttore generale ampia discrezionalità

    nella scelta, con pochi vincoli). Raramente, inoltre, le norme identificano la necessità di superare

    corsi specifici per acquisire un’adeguata formazione nell’organizzazione dei servizi territoriali,

    anche se alcune Regioni hanno sperimentato percorsi di formazione manageriale. Le figure

    professionali presenti come Direttore di Distretto sono in realtà le più varie e solo alcune Regioni

    hanno richiesto una certa figura professionale (in genere un dirigente medico) con formazione di

    preferenza nell’area dell’organizzazione dei servizi di base o con competenze in area sociosanitaria.

    A distanza di 40 anni dal suo primo lancio (L. 833/78) e di quasi 20 anni dal suo rilancio (D.Lgs.

    229/99), le aziende sanitarie hanno posto particolare attenzione alla architettura organizzativa del

    Distretto e alla figura direzionale.

    Dall’indagine Agenas del 2010 sulla rete dei distretti sanitari in Itala (Bellentani M. et al., 2011),

    emerge che i Direttori di Distretto hanno attualmente riconoscimenti formali più evidenti nelle

    gerarchie aziendali: la quasi totalità (97%) è responsabile di struttura complessa ed è un dirigente

    del SSN (dirigente medico nel 90% dei casi). Nello specifico, il 70,7% dei Direttori ha dichiarato di

    essere dirigente di “unità operativa complessa”, il 23,5% è dirigente di “unità operativa complessa

    con riconoscimento dell’indennità di Direttore di dipartimento”, mentre il 3,5% è responsabile di

    “unità operativa semplice” e il 2,3% di “unità operativa semplice a valenza dipartimentale”. Molte

    Regioni hanno percentuali elevate di Direttori con incarico di unità operative complesse, mentre il

    Veneto è la Regione con il valore più elevato (86%) di Direttori con incarico dirigenziale di “unità

    operativa complessa con indennità di Direttore di dipartimento”.

    Oltre la metà dei Direttori ha avuto l’incarico per nomina fiduciaria: ciò indica non solo una

    scelta di alta discrezionalità nei requisiti professionali per l’accesso alla funzione, ma implica anche

    una maggiore dipendenza dalle scelte politico-istituzionali. Questo elemento – insieme alle scarse

    indicazioni regionali sulla formazione professionale specifica del Direttore di Distretto – mostra che

    esistono spazi di miglioramento per una riflessione sul ruolo di un professionista la cui competenza

    professionale deve consentire di coniugare istanze manageriali e capacità tecnico-professionali.

    Per ciò che concerne le attività di programmazione, l’85,2% dei Direttori negozia con la

    Direzione Generale gli obiettivi specifici da conseguire annualmente; i motivi della mancata

    negoziazione sono costituiti esclusivamente dalla non formalizzazione del processo di budgeting.

    Questi dati indicano la difficoltà nell’implementare un processo di budgeting del Distretto e

    riconoscere la struttura come soggetto fondamentale per la negoziazione di obiettivi e risorse

    nell’area dell’assistenza primaria, nonostante la Legge 388/2000 abbia specificatamente previsto la

    sperimentazione del budget di Distretto.

  • 11

    Relativamente al coordinamento, l’indagine mostra che esiste un buon livello di interdipendenza

    tra i distretti dell’ASL (le percentuali raggiungono l’80,9% nel Nord Est e il 91% nel Nord Ovest; al

    Centro le percentuali scendono al 57,6% e al Sud e Isole solamente al 40,4% dei casi). Non

    necessariamente il coordinamento assume una veste istituzionale specifica tramite un organismo

    strutturato (ad es. un Comitato di Distretto o la presenza di un coordinatore), ma può svolgersi

    attraverso dei collegamenti informali di tipo funzionale.

    Il livello dei rapporti tra il Direttore del distretto e i diversi attori dell’assistenza primaria è

    buono nella maggior parte dei casi (73,2%) e, in particolare, nel Nord Ovest (81,8%) e nel Nord Est

    (80,1%), seguiti dal Centro (72,2%) e dal Sud e Isole (65,2%). Per quanto riguarda la

    formalizzazione dei comportamenti degli operatori all’interno del sistema di assistenza primaria, si

    rileva che il Distretto svolge in modo ampio la funzione di facilitatore nell’implementazione di

    procedure, accordi inter-organizzativi e protocolli che richiedono una definizione chiara delle

    azioni, ruoli e responsabilità degli attori coinvolti.

    4.2 Nuove “coordinate” per il Direttore del Distretto sociosanitario

    Sul piano politico e strategico, le scelte d’indirizzo del Distretto richiedono l’adozione di un

    approccio sistemico in grado di attivare strutture organizzate in rete, tenendo conto della necessità

    di riequilibrare la tendenza alla specializzazione/settorializzazione delle discipline, con l’esigenza di

    ricondurre all’unitarietà gli approcci assistenziali. Tali scelte richiedono un percorso di

    cambiamento condiviso e di responsabilizzazione degli attori, che superi i rischi di parcellizzazione.

    Serve, insomma, una vision forte sul piano delle politiche sanitarie locali che riconosca al Distretto

    le funzioni strategiche del ruolo di governo sociosanitario del territorio.

    Il Direttore di Distretto, quale figura cardine deputata a tale compito, deve potersi orientare su

    nuove coordinate e su funzioni strategiche poste su diversi piani:

    Definire il Piano di Tutela della Salute15. Definire le finalità del Distretto e le modalità di utilizzo delle risorse e degli strumenti per

    perseguirne le finalità.

    Definire le strategie di coinvolgimento: azioni per la partecipazione dei cittadini, della comunità, dei professionisti. Utilizzo di strumenti manageriali di connessione, quali:

    o gli accordi strategici interaziendali (Contratti di Servizio, Convenzioni, Deleghe, Accordi di Programma, Protocolli d’intesa con i Comuni per le attività

    sociosanitarie), la convalida dei PAT16

    (per la parte sanitaria) e dei Piani di Zona

    (per la parte sociale);

    o integrazioni operative-organizzative: équipe miste, servizi, sedi miste, gruppi di lavoro misti tra i comuni e le ASL, la partecipazione del Direttore di Distretto al

    Comitato dei Sindaci.

    Pianificare le strategie di integrazione dell’offerta attraverso: o organizzazione dei servizi sanitari, sociosanitari del Distretto nel rispetto della

    sostenibilità economica, dell’appropriatezza delle cure e del governo clinico;

    o garantire l’unitarietà diagnostica-terapeutica: gate unici di ingresso, equità di accesso per le tipologie previste dai LEA, case manager, PDTA di rete;

    o garantire l’unitarietà della fruizione: reingegnerizzazione dei processi, utilizzo di piattaforme logistiche sanitarie, continuità delle cure tra diversi livelli di assistenza

    (ospedale-territorio), ri-progettazione della filiera dei servizi per gli anziani;

    15

    Con attenzione agli stili di vita della popolazione, alle diverse tipologie di servizi sanitari (SSN o out of pocket), alla

    governance di tutte le componenti determinanti della salute: wellness, politiche rivolte alla salute (trasporti, ambiente). 16

    PAT = Programmi delle Attività Territoriali. Sono documenti di programmazione che specificano tipologia, quantità,

    distribuzione e criteri di accessibilità ai servizi e alle prestazioni di assistenza sanitaria primaria offerte a livello

    distrettuale; prestazioni sanitarie a rilevanza sociale con elevata necessità d’integrazione e prestazioni sociali a rilevanza

    sanitaria.

  • 12

    o assicurare l’aumento dell’offerta territoriale: programmare i luoghi di cura (Case della Salute, strutture Intermedie, strutture residenziali, Ospedali di Comunità) e le

    modalità e i tempi di erogazione delle prestazioni specialistiche, la specificazione

    territoriale dei Servizi per la Salute mentale, le Dipendenze patologiche, la Sanità

    pubblica;

    o avvalersi di servizi erogati da Enti Locali, Terzo Settore, Associazioni dei pazienti e loro familiari (community Care, caregiver) per la presa in carico dei pazienti;

    o gestione delle risorse umane con attenzione alle responsabilità connesse ai diversi profili professionali, i relativi ruoli e la loro rivalutazione nella visione del

    community care management team (MMG, infermieri, operatori di assistenza socio-

    sanitaria, specialisti dipendenti e convenzionati);

    o presidiare il coinvolgimento funzionale di tutta la Medicina Convenzionata (MMG) nel percorso assistenziale attraverso team multiprofessionali per gestire i bisogni

    della comunità di riferimento.

    Negoziare il budget e la proposta di allocazione delle risorse: ragionare su quali sono i vincoli di risorse e importanza del sistema di verifica dei risultati.

    Il Direttore del Distretto si avvale dell’Ufficio di Direzione Distrettuale, costituito dai referenti

    medici e infermieristici dei Dipartimenti territoriali, dai referenti dei Dipartimenti clinici, dai

    referenti amministrativi che operano nel territorio, dai referenti delle Direzioni di Presidio e dalla

    Direzione delle attività sociosanitarie. L’Ufficio, in cui si progetta il livello d’integrazione

    necessario per l’erogazione dei servizi, sviluppa le relazioni tra Distretto e Dipartimenti, realizza

    l’integrazione professionale e coordina la continuità del percorso ospedale-territorio.

    Al fine di ampliare l’attività di committenza, assume particolare rilievo la transizione da una

    metrica prestazionale ad una metrica legata al tasso di reclutamento rispetto alle prevalenze

    epidemiologiche stimate, alla risposta ai bisogni di salute della popolazione, alla stima dei bisogni

    di salute delle popolazioni target che ricorrono più frequentemente17

    .

    Come organo di rappresentanza della Direzione generale sul territorio, il Direttore dovrebbe

    presidiare pienamente la funzione politico-istituzionale decentrata intesa come elaborazione e

    proposta di soluzione ai problemi emergenti, consulenza con la Direzione generale per le opportune

    decisioni e trasmissione delle stesse agli stakeholder locali; dovrebbe inoltre raccogliere e

    analizzare le opinioni, le lamentele e i suggerimenti provenienti dagli utenti e dai cittadini, oltre che

    stimolare il coordinamento e l’integrazione locale tra le proiezioni dei dipartimenti aziendali.

    Più efficace appare invece l’azione relativa al versante del coordinamento con gli altri organismi

    della governance aziendale e territoriale: qui l’azione del Direttore del Distretto presenta un buon

    grado di interazione e condivisione. Vediamo come si sviluppa tale coordinamento…

    Nei singoli distretti operano il Comitato di distretto (per gli indirizzi politico-istituzionali) e il

    Collegio di direzione distrettuale (come conferenza tecnica del distretto).

    Il primo è formato da tutti i sindaci dei comuni interessati e dal Direttore di Distretto e si avvale

    dell’Ufficio di Piano come organo tecnico deputato a istruire, strettamente in ambito sociosanitario,

    tutti i processi programmatori e di valutazione che riguardano i servizi.

    Il secondo è presieduto e coordinato dal Direttore di Distretto ed è composto dal direttore di area

    delle cure primarie, dal direttore dell’area sociosanitaria, dal responsabile del servizio assistenziale,

    tecnico e riabilitativo, dai MMG referenti dei nuclei delle cure primarie, dal responsabile

    amministrativo del distretto, dal direttore sanitario dell’ospedale di riferimento, dai direttori delle

    aree della sanità pubblica e della sanità mentale e dal dipartimento farmaceutico.

    In molte realtà, il coordinamento tra i Direttori di Distretto avviene a livello aziendale attraverso

    il Comitato di committenza, un organo che rappresenta “un supporto alla direzione generale nei

    processi direzionali, in particolare in quelli di committenza, di pianificazione e di organizzazione”.

    17

    Sono, ad es., strumenti di rilevazione del bisogno a livello nazionale, “Matrice”, per le patologie croniche, e a livello

    regionale, il “modello predittivo del rischio di fragilità sanitaria e sociale” sviluppato in Emilia-Romagna.

  • 13

    Il Comitato di committenza è presieduto dal Direttore generale e composto da tutti i direttori di

    distretto. Al Comitato di committenza partecipa sempre anche il Direttore sociosanitario aziendale

    che ha la responsabilità diretta sul fondo per la non autosufficienza assegnato all’azienda da parte

    della regione e il direttore delle professioni sanitarie.

    Sul piano dei rapporti, i contatti tra queste figure sono stabili e regolati: periodicamente, tutti i

    Direttori di distretto si incontrano con il Direttore generale, il Direttore sanitario, amministrativo e

    quello della funzione assistenziale, tecnica e riabilitativa, garantendo vicinanza e bi-direzionalità tra

    la direzione aziendale e i direttori distrettuali.

    Questa relazione fiduciaria (riconoscimento ed accreditamento dei professionisti territoriali)

    genera automatismi di garanzia ed affidabilità che consolidano il processo di empowerment del

    Direttore del distretto e lo mettono nelle condizioni di poter esercitare al meglio il suo ruolo.

    Per quel che riguarda il livello operativo, il Direttore dispone di una pluralità di sistemi, tra cui:

    budget e amministrazione diretta del fondo regionale della non autosufficienza; contratti di servizio con i produttori sociosanitari; schede di budget e report delle aree distrettuali di tutti i dipartimenti; organizzazione e funzionamento delle procedure di valutazione multidimensionale; programmazione degli spazi logistici per i servizi distrettuali; raccolta ed elaborazione dei reclami degli utenti a livello locale.

    La numerosità e l’eterogeneità di questi sistemi operativi evidenzia l’ampiezza delle funzioni

    attribuitegli ma, parallelamente, testimonia anche la parziale indeterminatezza del suo ruolo che può

    essere declinato in modi diversi a seconda delle esigenze contingenti di un singolo territorio, degli

    indirizzi della direzione aziendale e delle sensibilità individuali…

    In ultima analisi, ciò che va implementato all’interno delle aziende, è la creazione di un livello

    strategico formalizzato e con pieni poteri: una sorta di middle management distrettuale chiamato ad

    esercitare il proprio ruolo in piena autonomia. Il Direttore del Distretto ne rappresenterebbe la punta

    avanzata, e la capacità di cogliere, disegnare e implementare processi di integrazione ne

    costituirebbe una delle sue competenze distintive.

    Conclusioni. Il direttore di distretto: una risorsa per chi?

    Parliamo di un professionista con competenze manageriali in grado di porsi come Health

    manager sul territorio, con un profilo, cioè, che ne attesti la piena rappresentanza locale della

    Direzione generale e lo qualifichi come network manager. Affinché il Direttore di distretto diventi

    un’effettiva risorsa al servizio delle politiche distrettuali, è importante operare una riflessione su:

    come mettere a disposizione le risorse per cui i MMG e i Pediatri di Libera scelta possano esercitare il loro ruolo di referenti principali per l’assistito, garantendo una risposta

    appropriata;

    come gestire i molteplici servizi e risorse del territorio in un’ottica di network management;

    come presiedere ai processi decisionali rilevanti per i servizi territoriali, con un approccio inclusivo e di condivisione delle responsabilità (Direttore facilitatore) e qualificarli quali

    garanti della salute della comunità;

    come sviluppare connessioni funzionali con le altre macrostrutture aziendali (ospedale, territorio e dipartimento di prevenzione), le strutture del privato accreditato e con la rete

    degli attori locali per progettualità condivise (associazione dei malati e i Comuni);

    come favorire il coinvolgimento responsabile delle amministrazioni locali nello sviluppo delle Cure Primarie, valorizzando le risorse della Comunità Locale.

    In sintesi, il modello di management dei servizi territoriali deve potersi integrare con il

    management ospedaliero e delle reti ed essere orientato a:

    strategie di cooperazione, riorganizzazione delle modalità di lavoro nei dipartimenti ospedalieri verso un ospedale organizzato per intensità di cura e di assistenza;

  • 14

    gestione strategica dei professionisti e delle pratiche eccellenti nella gestione del personale (mantenimento dell’equilibrio dei professionisti tra autonomia e controllo economico);

    transizione dall’analisi dei bisogni agli strumenti di programmazione e controllo delle attività distrettuali e utilizzo di cruscotti multidimensionali per la valutazione della presa in

    carico;

    committenza strategica delle macro articolazioni aziendali fino alla gestione dei servizi socio-sanitari e revisione del rapporto con i Comuni.

    Gli attuali elementi di criticità del Distretto potrebbero così essere superati e tradotti in reali

    opportunità di crescita. In particolare, il focus del cambiamento dovrebbe considerare:

    - le dimensioni territoriali degli attuali distretti, - la riorganizzazione in corso con accorpamento delle macro USL, - la numerosità e diversità degli interlocutori, - la molteplicità delle professioni (anche linguaggi diversi), - la difficoltà di integrazione (anche relazionale), - i vincoli e le diversità contrattuali, - i processi poco codificati e riconosciuti.

    Sul piano istituzionale-organizzativo, la presenza di più distretti ha spesso comportato nelle USL

    l’introduzione di un ulteriore livello che solleva il problema di “specificare i poteri” dei diversi

    organi18

    . Anche in questo caso occorrerebbe una strategia migliorativa che precisasse:

    1. le relazioni di dipendenza funzionale o gerarchica,

    2. a chi viene attribuito concretamente il budget,

    3. quali criteri di allocazione devono essere adottati,

    4. quale sistema di valutazione della performance si intende adottare e a chi è attribuita la gestione

    di questo sistema.

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    Meneguzzo M. e Cepiku D. (2008). Network pubblici: Strategia, struttura e governance, McGraw Hill, Milano.

    18

    Nell’organigramma previsto per la gestione delle USL con più di due distretti, la Regione Veneto, ad es., ha

    introdotto la figura del Direttore della Funzione Territoriale (coordinatore).

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