EPIDEMIE E PANDEMIE Biopolitica ed emergenze sanitarie

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267 Capitolo XV EPIDEMIE E PANDEMIE Biopolitica ed emergenze sanitarie Ughetta Vergari Sommario: 1. Approccio biopolitico a epidemie e pandemie. Il potere di un virus – 2. Potere, vita e immunizzazione – 3. Diritto alla vita: salute e libertà nello stato di emergenza – 4. Ambiente, sviluppo sostenibile e salute 1. Approccio biopolitico a epidemie e pandemie. Il potere di un virus Nel mondo contemporaneo siamo ormai abituati a confrontarci con feno‑ meni molto diversi tra loro, che spaziano dalle guerre agli episodi di terrori‑ smo, dal razzismo ai flussi migratori, dalla tendenza a medicalizzare il corpo attraverso le biotecnologie alle grandi politiche della salute. Il tentativo di in‑ dividuare ciò che accomuna tante emergenze, che scoppiano nei punti più di‑ sparati del pianeta, porta a riconoscere come loro tratto distintivo la curvatu‑ ra della politica in direzione della vita biologica (Bazzicalupo 2010, 19‑20). È quanto rileva Hannah Arendt quando, confrontando il pensiero politico classico con la modernità, evidenzia la tendenza della sfera privata (un tempo identificata con l’oikos) e della sfera pubblica (identificata con la polis) a esse‑ re tra loro sempre più indistinguibili. Per la Arendt la sfera privata è essenzial‑ mente lo spazio del ciclo biologico della vita, uno spazio che determina l’en‑ trata nel regno della necessità e non certo della libertà, quale è quello proprio della politica (Arendt, 2010). Se pertanto la politica in senso classico sembra perdere di senso dinanzi al‑ le emergenze della modernità, al punto che la curvatura in direzione della vi‑ ta biologica determinerebbe la fuoriuscita dalla politica, la biopolitica divie‑ ne, come vedremo, la chiave interpretativa delle questioni in cui è in gioco la vita biologica. Epidemie e pandemie sono tra queste. Per approcciarsi al tema delle emergenze epidemiche e pandemiche non si può prescindere, almeno in prima battuta, da un’analisi dei due termini da un punto di vista etimologico e semantico. In particolare, il sostantivo epide‑ mia (dal greco ἐπί + δῆμος, lett.: sopra il popolo, che è nel popolo) individua

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Capitolo XV

EPIDEMIE E PANDEMIEBiopolitica ed emergenze sanitarieUghetta Vergari

Sommario: 1. Approccio biopolitico a epidemie e pandemie. Il potere di un virus – 2. Potere, vita e immunizzazione – 3. Diritto alla vita: salute e libertà nello stato di emergenza – 4. Ambiente, sviluppo sostenibile e salute

1. Approccio biopolitico a epidemie e pandemie. Il potere di un virusNel mondo contemporaneo siamo ormai abituati a confrontarci con feno‑meni molto diversi tra loro, che spaziano dalle guerre agli episodi di terrori‑smo, dal razzismo ai flussi migratori, dalla tendenza a medicalizzare il corpo attraverso le biotecnologie alle grandi politiche della salute. Il tentativo di in‑dividuare ciò che accomuna tante emergenze, che scoppiano nei punti più di‑sparati del pianeta, porta a riconoscere come loro tratto distintivo la curvatu‑ra della politica in direzione della vita biologica (Bazzicalupo 2010, 19‑20). È quanto rileva Hannah Arendt quando, confrontando il pensiero politico classico con la modernità, evidenzia la tendenza della sfera privata (un tempo identificata con l’oikos) e della sfera pubblica (identificata con la polis) a esse‑re tra loro sempre più indistinguibili. Per la Arendt la sfera privata è essenzial‑mente lo spazio del ciclo biologico della vita, uno spazio che determina l’en‑trata nel regno della necessità e non certo della libertà, quale è quello proprio della politica (Arendt, 2010).

Se pertanto la politica in senso classico sembra perdere di senso dinanzi al‑le emergenze della modernità, al punto che la curvatura in direzione della vi‑ta biologica determinerebbe la fuoriuscita dalla politica, la biopolitica divie‑ne, come vedremo, la chiave interpretativa delle questioni in cui è in gioco la vita biologica. Epidemie e pandemie sono tra queste.

Per approcciarsi al tema delle emergenze epidemiche e pandemiche non si può prescindere, almeno in prima battuta, da un’analisi dei due termini da un punto di vista etimologico e semantico. In particolare, il sostantivo epide‑mia (dal greco ἐπί + δῆμος, lett.: sopra il popolo, che è nel popolo) individua

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la manifestazione collettiva di una malattia, generalmente infettiva, che rapi‑damente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territo‑rio più o meno vasto e si estingue dopo una durata più o meno lunga. Il so‑stantivo pandemia (dal greco παν + δῆμος, lett.: tutto il popolo) si riferisce al‑la diffusione di una malattia epidemica in vaste aree geografiche su scala glo‑bale, coinvolgendo di conseguenza gran parte della popolazione mondiale e instaurando una situazione che presuppone la mancanza di immunizzazione dell’uomo verso un agente patogeno altamente pericoloso.

Ciò che balza evidentemente all’occhio è la radice comune dei due termi‑ni, demos, che in greco antico identifica principalmente il popolo, cioè quel‑la classe sociale che si distingue dalle classi aristocratiche e che può dare ori‑gine al cosiddetto governo popolare; demos è anche l’intera popolazione che abita un determinato territorio.

La filosofia politica classica usa abitualmente riferirsi al demos nella prima accezione. Basti pensare alla forma di governo democratica e anche alle cri‑tiche che a essa sono rivolte dai grandi pensatori dell’antichità, come Plato‑ne (Platone 1988) e Aristotele (Aristotele 1991), che non a caso valutano la democrazia tra le forme degenerate di governo, dove a esercitare il potere è il popolo povero e incolto, incapace di guardare in una prospettiva di bene co‑mune.

Una parte, sebbene più ridotta, della riflessione filosofico‑politica, però, guarda al demos anche nella seconda accezione, mettendo in risalto, cioè, la sua essenza naturale, oltre che inevitabilmente politica.

È quanto fa soprattutto quella parte della filosofia politica, identificata con la biopolitica, che oggi porta a riflettere sull’insieme di strategie messe in campo ai fini della gestione di una molteplicità di tematiche inerenti il bìos (termine con cui si vuole ricomprendere la vita in tutte le sue sfaccettature), che costituiscono, come evidenziato, un elemento cruciale della nostra con‑temporaneità.

La centralità del paradigma biopolitico è lampante, poi, da quando la no‑stra vita è segnata dalla pandemia da SARS‑CoV‑2, agente patogeno appar‑tenente alla famiglia dei coronavirus (virus a RNA), che dal settembre 2019 si è iniziato a diffondere a partire dalla Cina, in particolare dalla provincia di Hubei.

La pandemia da Covid‑19 ha la peculiarità di aver influenzato e modifica‑to repentinamente diversi aspetti dell’attività umana (dalla politica a tutte le relazioni sociali ed economiche) e, in definitiva, la vita stessa. Si configura, in tal modo, un modello di biopolitica che, a differenza dell’epoca della sua for‑mulazione (negli anni ’70 del secolo scorso), quando esso appariva piutto‑

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sto un’ipotesi concettuale, poco realistica rispetto a ben più concreti proble‑mi politici, oggi, invece, in una misura imprevedibile, assume una dimensio‑ne globale ed è terreno di contrastanti strategie politiche.

Nella prospettiva della biopolitica questioni come la natalità, la mortalità, la salute, il benessere, sia dei singoli individui, ma soprattutto della popola‑zione nel suo insieme, diventano oggetto fondamentale del governo, soprat‑tutto da quando, come evidenziato dal filosofo francese Michel Foucault, con la modernità le potenze europee iniziano a competere tra loro non più solo sul piano della forza militare, ma anche sul terreno della potenza econo‑mica; e, per incrementare tale potenza, si rende sempre più necessario ammi‑nistrare e incrementare la forza vitale e produttiva per eccellenza degli Stati, ovvero la popolazione. Da qui scaturisce l’interesse che, soprattutto a partire dal XVIII secolo, la politica ha dedicato alla produzione di beni di prima ne‑cessità, alle condizioni igienico‑sanitarie in cui la popolazione vive, ai rischi di diffusione delle malattie ecc.

Michel Foucault ripercorre le tappe che hanno portato a questo nuovo mo‑do di intendere la politica, partendo da una presa di distanza netta dalla teo‑ria classica della sovranità, soprattutto nell’accezione individuata da Hobbes. Quest’ultimo, infatti, l’aveva identificata con il potere di spada, cioè con quel potere in grado di esercitare il diritto di vita e di morte, ma per Foucault la sovranità così intesa è strettamente connessa a un determinato tipo storico di società, caratterizzato da un potere che si esercita fondamentalmente “come istanza di prelievo, meccanismo di sottrazione” (Foucault 1978, 120).

Questo tipo di società muta, secondo Foucault, proprio a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, quando al vecchio diritto di far morire e di lasciar vi‑vere si sostituisce un potere di far vivere o di respingere nella morte. Il nuovo potere, che si esercita sulla vita, si sviluppa, nell’analisi foucaultiana, in due forme principali, che costituiscono due poli connessi da un insieme di rela‑zioni. Da un lato, vi è un polo incentrato sul corpo‑macchina, cioè sull’indivi‑duo, e sull’insieme di tecniche e dispositivi miranti al suo dressage e al suo po‑tenziamento; dall’altro, vi è un polo incentrato sul corpo‑specie, cioè sull’in‑sieme di interventi e di controlli regolatori riguardanti i processi biologici dei viventi nel loro insieme e le loro condizioni di variabilità: una bio‑politi‑ca della popolazione (Foucault 1978, 122‑ 23).

Foucault, come accennato, connette lo sviluppo dell’economia capitalistica a ciò che egli definisce “l’ingresso della vita nella storia”, intendendo con tale locuzione proprio l’ingresso nel campo delle tecniche politiche di tutti quei fenomeni relativi alla vita della specie umana. A tal proposito, tuttavia, Fou‑cault ci fa una precisazione, significativa per il tema su cui vogliamo riflettere;

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infatti, il filosofo di Poitiers sottolinea che per millenni vi è stata una pressio‑ne estremamente forte della realtà biologica sulla storia, soprattutto a causa di epidemie e carestie. Queste, infatti, hanno a lungo proposto la drammati‑cità del rapporto tra realtà biologica e storia, drammaticità, dovuta a un rap‑porto che permaneva sotto il segno della morte (Foucault 1978, 125).

Ciò si può evincere anche dalla descrizione che Foucault ci fa della città ap‑pestata, che appare non solo estremamente dettagliata, ma soprattutto attua‑le e a tratti sconcertante per le evidenti analogie col nostro presente. Infat‑ti, secondo un regolamento della fine del XVII secolo, la città appestata ve‑niva chiusa, proibendo a chiunque di uscirne, e veniva suddivisa in quartieri separati, posti sotto il potere di un intendente, mentre ogni strada era sotto il potere di un sindaco, che doveva sorvegliare e punire con la morte chiun‑que contravvenisse alle indicazioni. Si fissava quindi un giorno a partire dal quale iniziava la quarantena: tutte le case venivano chiuse a chiave dall’ester‑no, in modo che si limitassero le uscite solo ed esclusivamente a casi di estre‑ma necessità, evitando comunque ogni incontro. Una tale ispezione conti‑nua e pervasiva aveva come scopo che alla peste rispondesse l’ordine; un or‑dine, la cui funzione fosse quella “di risolvere tutte le confusioni: quella della malattia, che si trasmette quando i corpi si mescolano; quella del male che si moltiplica quando la paura e la morte cancellano gli interdetti”. L’ordine così ottenuto “prescrive a ciascuno il suo posto, a ciascuno il suo corpo, a ciascu‑no la sua malattia e la sua morte, a ciascuno il suo bene per effetto di un po‑tere onnipresente e onnisciente che si suddivide, lui stesso, in modo regola‑re e ininterrotto fino alla determinazione finale dell’individuo, di ciò che lo caratterizza, di ciò che gli appartiene, di ciò che gli accade” (Foucault 2014, 213‑215).

L’analisi foucaultiana alla fine giunge però a ritenere che lo sviluppo eco‑nomico e l’incremento della produttività e delle risorse abbiano fatto sì che la pressione di epidemie e carestie si allentasse, tanto da poter affermare che, a parte qualche breve riapparizione, “l’era delle grandi devastazioni della fame e della peste […] si è chiusa prima della Rivoluzione francese”, per cui la mor‑te non assilla più continuamente la vita (Foucault 1978, 126).

Questa previsione purtroppo appare smentita dal nostro presente. L’attua‑le pandemia da Covid 19, l’ultima di altre epidemie che si sono susseguite dall’inizio del millennio1, ha sconvolto e disorientato un mondo che crede‑

1 Nel XXI secolo possiamo già contare tre epidemie, precedenti all’attuale pandemia. Abbiamo infatti avuto l’influenza suina da virus H1N1, la SARS (SARS‑Cov‑1 Severe acute respiratory syn‑drome) e la MERS (MERS‑CoV Middle East respiratory syndrome). Si può notare come SARS e

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va di aver ormai superato simili problematiche e di essere inesorabilmente proiettato, anche grazie all’enorme sviluppo nel campo delle scienze e delle tecnologie, verso traguardi sempre più elevati.

La politica, dinanzi a una rivoluzione di siffatta portata, assume con mag‑giore intensità i contorni di una biopolitica, perché attualmente il legame tra realtà biologica, storia e politica pone nuovamente con forza al centro della riflessione il tema della morte, con la conseguente necessità di porre in atto un’azione politica che possa realmente fare la differenza tra la vita e la mor‑te, la salute e la malattia.

Già Cicerone aveva fatto sua la semplice massima salus populi suprema lex esto, che, tradotta letteralmente, significa “il bene del popolo sia la legge su‑prema” (Cicerone 1984). Tale massima, propria dell’antico Diritto romano, stabilisce cioè che l’individuo debba venire meno dinanzi al bene e all’incolu‑mità del popolo, ma essa è stata e può ancora essere interpretata in modo am‑bivalente, ovvero sia come bisogno di subordinare l’azione politica al benes‑sere collettivo, ma anche come modalità di legittimazione di un potere for‑te e anche assoluto purché ponga come obiettivo primario la salute e la con‑servazione del popolo.

2. Potere, vita e immunizzazioneThomas Hobbes è il filosofo che meglio teorizza un modello di legittimazio‑ne di un potere forte e assoluto, l’unico, a suo avviso, in grado di rendere vin‑colanti le leggi attraverso il timore della punizione e, per questo, identificabi‑le con il potere di spada.

Il timore per la punizione è in realtà l’evoluzione di un sentimento di pau‑ra, che caratterizza primariamente la condizione umana già nello stato di na‑tura. Si tratta di una paura, però, che scaturisce “dalla universale e legittima condizione di uguaglianza tra gli uomini”, che è “causa stessa del dominio quale mezzo per soddisfare i propri desideri e ottenere i propri fini”. È pro‑prio “lo scontro tra individui dotati di uguali passioni e desideri”, infatti, la causa dell’atteggiamento aggressivo degli uomini e della conseguente paura per una morte violenta (Chiodi e Gatti 2009, 65). Da qui la necessità di ga‑rantire la sopravvivenza servendosi dell’artificio politico, derivante dalla deci‑sione comune di associarsi (pactum unionis) e immediatamente di sottomet‑

MERS siano entrambe, al pari del COVID‑19, malattie infettive acute causate da un coronavirus zoonotico, cioè che può essere trasmesso dagli animali.

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tersi a un potere politico forte (pactum subiectionis), identificato con il Le‑viatano, in grado di dare efficacia al patto e di proteggere e conservare la vi‑ta dei sudditi.

Hobbes, per rafforzare la sua prospettiva assolutistica, si serve, soprattut‑to nel Leviatano, della potenza delle immagini. Interessante, infatti, appare l’osservazione del frontespizio della prima edizione del Leviatano (1651), at‑tribuito all’incisore Abraham Bosse e descritto dallo storico Carlo Ginzburg (Ginzburg 2015).

In esso, infatti, è presente una sintesi visiva delle basi concettuali hobbe‑siane.

Nella parte superiore del frontespizio si staglia la figura del sovrano, il dio mortale (egli impugna in una mano la spada e nell’altra il pastorale, simbo‑leggiando così l’incorporazione del potere temporale e di quello spirituale) capace di riunire una moltitudine di individualità distinte (il corpo stesso del sovrano appare formato da un insieme di figure umane, i sudditi, che volgo‑no le spalle all’osservatore, tutti con lo sguardo rivolto verso il sovrano). Ciò che però appare anche qui per certi dettagli sorprendentemente attuale, so‑prattutto se osservato in analogia con i tempi di pandemia che stiamo viven‑do, è che il sovrano domina su un territorio costituito da una città e da bor‑ghi deserti, che rievocano potentemente l’immagine delle nostre città duran‑te il lockdown. Le uniche figure umane in questo paesaggio desolante sono delle guardie e, sulla destra, due medici della peste, visti di profilo, che han‑no il viso coperto dalla tradizionale maschera a becco. La potenza e al con‑tempo la desolazione di questa immagine aiuta a evidenziare il nesso esisten‑te tra la completa alienazione dei sudditi nei confronti del sovrano e al con‑tempo la capacità di quest’ultimo di garantire loro vita e salute, proteggendo da guerre ed epidemie.

Così il germe della guerra civile e quello della peste diventano quasi insepa‑rabili, rappresentando di fatto il filo conduttore della proposta politica hob‑besiana. Come Ginzburg evidenzia, non è da trascurare, del resto, l’influen‑za determinata dalla traduzione che lo stesso Hobbes ha fatto della Guerra del Peloponneso di Tucidide, dove proprio la descrizione della peste di Ate‑ne quale causa della dissoluzione dei legami sociali probabilmente ha contri‑buito in maniera decisiva anche all’idea del bellum omnium contra omnes, che è il motivo legittimante dell’istituzione del potere sovrano.

L’idea del venir meno del legame sociale è rielaborata in una prospettiva biopolitica da Roberto Esposito, che, come risposta al rischio di potersi nuo‑cere a vicenda, propone la logica immunitaria. In base a essa, dall’unificazio‑ne di individui naturalmente conflittuali nel corpo del Leviatano, operata

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da Hobbes usando la paura come elemento fondamentale, non può che de‑rivare come unico possibile esito l’esatto contrario della comunità, sacrifica‑ta nel nome dell’autoconservazione individuale (Esposito 2008, 67). Esposi‑to si serve della coppia categoriale communitas‑immunitas, dove quest’ultima rappresenta la forma negativa, o privativa, della communitas, interpretata, fa‑cendo riferimento all’etimologia latina cum‑munus, come obbligo. Il munus, quest’obbligo che vincola i membri di una comunità a un impegno di dona‑zione reciproca, rischia però di metterne anche a repentaglio l’identità. Ecco perché l’immunitas agisce proprio dispensando dal munus. Alla stregua di un vaccino, la cui efficacia si ottiene attraverso l’inoculazione dosata dell’agente patogeno, anche l’immunitas protegge “colui che ne è portatore dal contat‑to rischioso con coloro che ne sono privi” e “ripristina i confini del ‘proprio’ messi a repentaglio dal ‘comune’” (Esposito 2004, 47). Nell’attuale pande‑mia, però, la logica immunitaria, proposta da Esposito come griglia interpre‑tativa della realtà sociale e politica, assume l’accezione originaria, legata alla presenza concreta di un agente patogeno. In tale contesto, la dissoluzione del legame sociale appare allora l’unica via di salvezza della vita biologica. Ecco che il tanto invocato distanziamento sociale non è da intendere come perdita di comunità, ma come mezzo necessario per evitare il contagio, in una pro‑spettiva che tuttavia non è solo egoistica (il fine è di evitare di contagiarmi) ma anche e soprattutto solidaristica (il fine è di evitare di contagiare gli altri). Più correttamente, in tale prospettiva, si dovrebbe parlare di distanziamento fisico, che tuttavia non determina una perdita del legame sociale. Anzi, per alcuni versi l’esperienza della pandemia evidenzia significativi atteggiamenti comunitari, che in condizioni normali non si sarebbero apprezzati. Un esem‑pio su tutti, l’assoluta dedizione mostrata da tanti medici e operatori sanitari, che sacrificano anche i propri legami familiari per soccorrere e curare i mala‑ti di Covid; ma si pensi anche alle maglie di solidarietà che si sono create per aiutare coloro che si trovano in isolamento nelle loro abitazioni. Si tratta, a ben riflettere, quasi di un’inversione di modello, che porta alla trasformazio‑ne della vicinanza fisica, ma spesso intrisa di logica immunitaria, in un distan‑ziamento fisico, nel quale invece la logica immunitaria viene fortemente miti‑gata da esperienze comunitarie.

Come infatti Esposito sottolinea, sebbene viviamo in un momento storico in cui bisogna fare tutto ciò che è in nostro potere per rimanere in vita, non possiamo tuttavia rinunciare alla vita con gli altri, per gli altri, attraverso gli altri. E, proprio dinanzi al sacrificio estremo di chi rischia ogni giorno la pro‑pria vita negli ospedali per salvare quella degli altri, ecco che il distanziamen‑to che ci viene imposto appare un sacrificio ridicolo e tuttavia pregno di si‑

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gnificato, perché è attraverso esso che possiamo continuare a vivere in comu‑ne e a legarci agli altri, seppur per mezzo di una solitudine e di una distan‑za che, in queste circostanze, acquistano però un significato profondamente umano, al pari della vicinanza. Ecco allora che, in tempi di pandemia, ciò che realmente unisce gli esseri umani è paradossalmente la comune distan‑za (Esposito 2020).

3. Diritto alla vita: salute e libertà nello stato di emergenzaCon riferimento alla gestione dell’attuale pandemia, una riflessione connes‑sa al rischio di contagio e al principio primario di conservazione della vita ri‑guarda inevitabilmente il rapporto che si viene a instaurare tra salute indivi‑duale e salute pubblica, che evidenzia ancor di più la tensione tra atteggia‑menti immunitari e comunitari. Ciò a cui si assiste è che, per tutelare l’esigen‑za di salute pubblica, si deve intervenire con limitazioni più o meno estese della libertà individuale e, in alcuni momenti, anche con limitazioni che “sa‑crificano la salute individuale” a beneficio di quella collettiva (la definizione delle cosiddette “zone rosse”, per esempio, stabilite con l’obiettivo di proteg‑gere la salute collettiva, ha generato, soprattutto durante la prima ondata, ve‑ri e propri fenomeni di fuga in nome della “salvezza individuale”). Si tratta quindi, in linea con la logica biopolitica, di esercitare un potere di gestione dei corpi, sia individuali che collettivi, sulla base di decisioni normative pre‑se non più sulla base del diritto, quanto sulla base delle indicazioni scienti‑fiche: è la norma di vita che in questo contesto diventa il criterio della deci‑sione politica e la sicurezza sanitaria parte essenziale delle strategie politiche a livello globale.

In particolare, il tema del rapporto tra salute del singolo e salute della col‑lettività implica un bilanciamento di interessi che inevitabilmente entrano in contrasto, potendo declinare questo rapporto anche nei termini del bilancia‑mento tra libertà individuale e sicurezza collettiva. Questo problema emer‑ge prepotentemente soprattutto perché ci si trova a dover fronteggiare la dif‑fusione improvvisa di un virus che sta causando una percentuale di morti per epidemia sconosciuta alla più recente storia occidentale, dinanzi alla quale nessuno è preparato e che genera in molte occasioni una certa riottosità, det‑tata da motivazioni diverse (personali, economiche ecc.), a rispettare alcune delle limitazioni imposte dal governo.

Si tratta di limitazioni che, sebbene implichino evidentemente un sacri‑ficio di alcuni principi costituzionali e di alcune libertà fondamentali, so‑

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no tuttavia dettate da uno stato di emergenza sanitaria dichiarato dall’OMS nel gennaio 2020 a causa della pandemia da Covid‑19 e destinato a perdura‑re (nonostante l’alternarsi di fasi di maggiore o minore impatto) almeno fi‑no alla somministrazione del vaccino su scala globale. Lo stato di emergenza comporta pertanto una serie di interventi incisivi sulla vita economica e so‑ciale del Paese, sulla base di decreti attuativi (i cosiddetti d.p.c.m, decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) che rispecchiano l’andamento della si‑tuazione epidemiologica, portando dal lockdown totale della primavera scor‑sa, alle aperture della stagione estiva e all’attuale gestione differenziata su ba‑se regionale.

Il criterio che ancora una volta guida le decisioni politiche si fonda su una norma scientifica che, avendo come riferimento principale il diritto alla vita e alla salute, deve indirizzare sulla base dell’individuazione dell’indice di con‑tagio, del rischio per la popolazione, della capacità del sistema sanitario di reggere alla pressione negli ospedali e soprattutto nelle terapie intensive e di riuscire a garantire cure per tutti.

La nostra Costituzione non contempla espressamente lo stato di emergen‑za, mentre all’art. 78 prevede lo stato di guerra, a seguito del quale si confe‑riscono al Governo i poteri necessari, motivo che ha indotto in questi ulti‑mi mesi ad assimilare la situazione pandemica a uno stato di guerra, sebbe‑ne non ne sussistano i requisiti giuridici. Tuttavia, la necessità assoluta di far fronte a un evento tanto imprevedibile quanto pericoloso per l’intera popo‑lazione, la cui durata è al momento ancora incerta, e che giustifica anche l’e‑sercizio straordinario di poteri da parte del governo, può rintracciare un fon‑damento costituzionale nell’art. 77, in base al quale, quando si verificano casi straordinari di necessità e di urgenza, “il Governo adotta, sotto la sua respon‑sabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge”; eventualità avvalorata, sul piano giuridico, dal D.lgs. 1/2018, che all’art. 24 prevede appunto la pos‑sibilità che il Consiglio dei Ministri deliberi lo stato di emergenza di rilievo nazionale al ricorrere di determinati eventi valutati dal Dipartimento di Pro‑tezione Civile.

Comunque venga a essere configurato, il problema sicuramente coinvolge le modalità attraverso cui le democrazie possono impattare rispetto a situa‑zioni imprevedibili, senza tuttavia perdere la loro essenza e rischiare di tra‑sformarsi nelle cosiddette democrature, meno rispettose dei diritti e delle li‑bertà dei cittadini. Tuttavia, sebbene lo stato di emergenza che stiamo viven‑do abbia evidenziato un atteggiamento decisionista del governo, non si può però assimilare tale situazione a uno stato di eccezione, che dal punto di vi‑sta filosofico‑politico assume un rilievo determinante, rappresentando, come

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sottolinea Agamben, il paradosso della sovranità, perché stabilisce la possibi‑lità che chi detiene il potere sovrano si trovi, al tempo stesso, fuori e dentro l’ordinamento giuridico. È infatti l’ordinamento stesso a riconoscere il potere di proclamare lo stato di eccezione, mettendo in atto una sospensione legale della validità della legge (Agamben 1995, 19). Agamben, per meglio delinea‑re il significato di eccezione, si richiama a Schmitt (Schmitt 1969), il quale distingue nettamente una situazione di normalità, nella quale si osserva una strutturazione normale dei rapporti di vita e nella quale trova applicazione l’ordinamento giuridico, dalla situazione di caos, all’interno della quale si può evidenziare con più forza l’essenza della sovranità statale, rinvenibile nel mo‑nopolio della decisione ultima e nella dimostrazione che l’autorità non ne‑cessita del diritto per creare il diritto. L’eccezione, così determinata, mantie‑ne comunque una relazione con la norma nella forma della sua sospensione, per cui “la norma si applica all’eccezione disapplicandosi” (Agamben 1995, 22). Ciò che Agamben rileva nella sua riflessione è che lo stato di eccezione rappresenta non solo il nucleo centrale della sovranità moderna (una eccezio‑nalità, cioè, che rientra allo stesso tempo nella normalità), ma, con riferimen‑to alla vita umana, ne definisce la sua politicizzazione, a seguito della sempre più evidente indistinzione tra bίos e zoè, tra vita qualificata e nuda vita, che egli considera la coppia categoriale fondamentale della politica occidentale.

Contestualizzando queste riflessioni nell’attuale situazione pandemica, Agamben si è espresso nella sua rubrica pubblicata on line da Quodlibet con una serie di riflessioni, che hanno suscitato anche numerose critiche. Agam‑ben, infatti, all’inizio della pandemia, facendo leva su alcuni dati divulga‑ti dal CNR che tendevano a minimizzare lo stato emergenziale, si chiedeva perché i media e le autorità diffondessero un clima di panico, generando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e del‑le libertà individuali. A suo avviso tutto ciò sarebbe stata la dimostrazione di una tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma norma‑le di governo (Agamben, 26 febbraio 2020). E ancora, Agamben rilevava co‑me da più parti si stesse facendo strada l’ipotesi che si stia vivendo la fine di un mondo, quello costituito dalle democrazie borghesi, fondate sui diritti, i parlamenti e la divisione dei poteri, per cedere il posto a un nuovo dispoti‑smo, fondato sulla pervasività dei controlli, quello che i politologi americani individuano come Security State, cioè uno stato in cui “per ragioni di sicurez‑za”, come quelle di “sanità pubblica”, si può imporre qualsiasi limite alle liber‑tà individuali (Agamben, 22 aprile 2020).

Quello che sfugge in tali affermazioni è che la necessità di imporre dei li‑miti alle libertà individuali si fonda sul tentativo di contrapporre la vita al‑

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la morte (e quindi una biopolitica a una tanatopolitica); vita, però, da inten‑dere non semplicemente come nuda vita, ma come vita che trova nella tutela della salute il riconoscimento non solo di un fondamentale diritto individua‑le, ma anche e soprattutto di un primario interesse della collettività, così co‑me specificato dall’art. 32 della Costituzione.

Purtroppo non sempre le limitazioni alla libertà individuale trovano ri‑scontro in un’adesione spontanea degli individui ai limiti imposti. Sul piano dei fatti, nonostante da più parti sia invocato il senso civico, che dovrebbe in‑durre il singolo individuo a sacrificare il proprio interesse, se pur legittimo, in favore di un vantaggio collettivo e in una prospettiva di salute pubblica, te‑sa al contenimento del contagio, non sempre corrisponde un atteggiamento consono, tanto che si deve ricorrere all’uso della sanzione e, in alcuni casi, an‑che della forza repressiva.

Queste considerazioni delineano un atteggiamento che affonda le sue ra‑dici in una gerarchia di valori che vede all’apice la tutela della vita biologi‑ca del soggetto di diritto, anche a costo di sacrificarne gli aspetti relazionali, in linea con un ordinamento che pone in risalto un concetto di vita di stam‑po prettamente individualistico. L’emergenza pandemica, invece, ha messo in luce l’assoluto bisogno di operare un cambio di prospettiva, attraverso un superamento del mero orizzonte individualistico (che sicuramente ha segna‑to la modernità), anche in riferimento al senso stesso della libertà. Quest’ul‑tima, infatti, sia che venga identificata con un oggetto da difendere o da con‑quistare, sia da possedere o allargare, è considerata in ogni caso un bene, che il soggetto deve acquisire per quanto gli è possibile, ponendo quindi l’esi‑stenza del soggetto come momento che precede l’acquisizione della libertà. In questa prospettiva la libertà si richiama a una logica immunitaria, che ten‑de a definire ciò che è soggettivo rispetto a ciò che tale non è. Come Esposi‑to sottolinea, però, la libertà affonda le sue radici nella semantica della comu‑nità. È esplicativo, per esempio, il riferimento ad alcune radici etimologiche, come leuth, da cui derivano il termine greco eleutheria e quello latino liber‑tas, oppure alla radice frya, da cui derivano il termine inglese freedom o tede‑sco freiheit, per vedere come tali radici siano incluse anche in altri termini che hanno invece un richiamo alla crescita comune (basti pensare a termini co‑me love o friend che includono sentimenti di amore e amicizia). Da questo si percepisce un significato di libertà che, almeno originariamente, si esprime‑va nel rapporto con gli altri, in antitesi all’autonomia soggettiva che oggi soli‑tamente lo caratterizza (Esposito 2008, 115‑123). È auspicabile e necessario, pertanto, che un evento traumatico come quello generato dalla pandemia sia quantomeno determinante nell’operare un cambio di prospettiva in favore di

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quella dimensione inter‑relazionale che lega l’individuo a una comunità, se‑condo una logica non egoistica, ma inclusiva, in grado di cogliere nella liber‑tà anche il senso di responsabilità sociale e politica e di recuperare il valore della vita come bίos e non semplicemente come zoè. Da qui un ulteriore pas‑so avanti si potrebbe fare partendo proprio dal concetto di responsabilità, in‑teso come pre‑occupazione per l’altro, per giungere al concetto di cura, per‑ché quest’ultimo “coniuga in sé, nelle sue stesse radici etimologiche, il signi‑ficato di preoccupazione e di sollecitudine; consentendoci di aprire un altro versante della nozione di responsabilità che pone l’accento, appunto, sull’im‑pegno attivo, concreto ed esperienziale del prendersi cura. Il che vuol dire sottrarre l’etica della responsabilità al rischio di restare confinata in un ideale astratto e puramente di principio” (Pulcini 2009, 22).

4. Ambiente, sviluppo sostenibile e saluteUn’ultima riflessione è inevitabilmente connessa anche alle profonde conse‑guenze della pandemia non solo sull’uomo in sé, ma soprattutto sul suo rap‑porto con l’ambiente in cui vive. La necessità del distanziamento, infatti, ri‑chiedendo di sospendere numerose attività lavorative, se per un verso mette profondamente in crisi vari settori dell’economia, evidenzia però come que‑sto stop forzato consenta alla natura di riappropriarsi di spazi che da troppo tempo le sono stati negati. È un modo per riconoscere che la Terra e l’ambien‑te traggono profondo giovamento da una nostra sventura. Rimarranno cer‑tamente impresse nella nostra mente le scene in cui tanti animali, anche sel‑vatici, hanno potuto vagare indisturbati per le nostre città o le immagini sa‑tellitari che hanno mostrato l’evidente calo dell’inquinamento atmosferico. Se pertanto il nostro ambiente naturale non solo sembra indifferente, ma evi‑dentemente avvantaggiato dalla nostra assenza, mai come ora siamo indotti a riflettere su cosa faremmo noi senza il nostro ambiente e la nostra amata Ter‑ra. Saremmo ugualmente in grado di sopravvivere? Certamente no, e, del re‑sto, nonostante tutti i nostri atteggiamenti spesso sconsiderati, questo lo ab‑biamo ormai compreso da molto tempo. Siamo infatti pienamente consape‑voli che l’umanità ha un destino comune, ma che al contempo non siamo più in grado di armonizzare il nostro operato con il contesto in cui viviamo, di ri‑creare quell’antica armonia tra uomo e natura. L’Earth Day 2020, ovvero la Giornata Mondiale della Terra, che ha compiuto 50 anni proprio il 22 aprile 2020, oltre a rappresentare già di per sé un’importantissima ricorrenza inter‑nazionale, ha assunto un significato ancor maggiore, perché, in pieno perio‑

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do di lockdown, ha fatto avvertire con più forza e più urgenza la necessità di riflettere sui temi della sostenibilità e della protezione dell’ambiente.

In questa direzione è stata emessa online, nel settembre 2020, una nota in‑formativa di UNEP (United Nation Environment Programme)2, in concomi‑tanza con la settantacinquesima sessione dell’Assemblea generale delle Na‑zioni Unite, proprio al fine di sottolineare come il Covid‑19 sia una dimo‑strazione di quanto la salute delle persone dipenda strettamente da quella del nostro pianeta. Tale riflessione trova fondamento nell’osservazione di come l’attività umana, molto spesso sconsiderata, abbia ormai alterato ogni angolo della Terra, favorendo il contatto tra gli esseri umani e nuovi vettori, al pun‑to che si ritiene che il 75% di tutte le malattie infettive emergenti nell’uomo provenga da animali. Per questo, uno degli obiettivi che l’UNEP si propone è quello di fornire ancora più supporto ai paesi al fine di ridurre i rischi di futu‑re pandemie, intervenendo attivamente sul ripristino degli ecosistemi e del‑la biodiversità, combattendo i cambiamenti climatici e riducendo l’inquina‑mento; in tale ottica, mira pertanto a promuovere maggiori opportunità per valorizzare e investire nella natura come parte fondamentale della risposta dei paesi alla crisi Covid‑19, aumentando al contempo la consapevolezza dei legami tra natura, salute e vita sostenibile.

Maffettone, riflettendo sul tema, evidenzia che, sulla base delle ricerche condotte dalla evolutionary developmental biology, si assiste a un evidente mi‑smatch, cioè a una discrepanza tra la lenta evoluzione umana e la rapidità del‑la crescita tecnologica ed economica, che determina la difficoltà per l’uomo di reggere geneticamente e psicologicamente a tale sfasamento e, conseguen‑temente, genera una sensazione di impotenza (Maffettone 2020, 41‑42). In questa prospettiva, l’epigenetica sta assumendo un’importanza determinante, perché, attraverso il superamento della convinzione che gli esseri viventi sia‑no l’esatto prodotto dei loro geni, questa nuova branca della scienza eviden‑zia un potenziale del genoma legato all’influenza che l’ambiente e gli stili di vita hanno nel determinare differenti gradi di espressione, inibizione o mo‑dulazione del nostro DNA.

In particolare, anche con riferimento all’attuale pandemia, si sono condot‑ti studi che evidenziano i fattori epigenetici che interferiscono con la repli‑cazione virale e con l’infezione e che possono contribuire alla suscettibili‑tà per Covid‑19, offrendo nuovi modi di indurre la risposta virale dell’ospite (Chlamydas, Papavassiliou e Piperi 2020).

2 https://www.unep.org/unep‑and‑covid.

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Tutte queste riflessioni fanno comprendere bene anche il modo in cui Fou‑cault aveva inteso il rapporto inscindibile tra potere e sapere, dal momento che i pericoli insiti in un’epidemia o in una pandemia, correlati al degrado ambientale di cui l’uomo è artefice, necessitano di una gestione da parte di un potere che sempre più deve affidarsi a saperi esperti (virologia, ecologia ecc.), in grado di indirizzare in maniera ragionata le scelte da compiere.

Maffettone definisce anche il Covid‑19 “il quarto shock”, richiamandosi al celebre scritto Una difficoltà della psicoanalisi, nel quale Freud metteva in lu‑ce come la cultura classica abbia rappresentato per l’uomo una forma di di‑fesa nei confronti della paura del nulla e della morte (Freud 1989, 657 e ss.). Si tratta di paure, che l’uomo ha pensato di allontanare ponendo sé stesso al centro del mondo e considerando il mondo a sua misura. Tale prospettiva, purtroppo, è stata smantellata dalla scienza, in particolare dalle figure di tre scienziati: Copernico, Darwin e lo stesso Freud. I tre scienziati, infatti, han‑no inferto ferite narcisistiche, dichiarando rispettivamente che la Terra non è al centro dell’universo, che l’uomo discende dalle scimmie e infine che la razionalità umana è un inganno che cela un’oscura selva di pulsioni. Quel‑lo determinato dalla pandemia rappresenterebbe quindi, secondo Maffetto‑ne, il quarto shock per aver ancora una volta gettato luce sull’impotenza uma‑na. Del resto già Camus, descrivendo gli effetti della peste, aveva usato parole eloquenti in riferimento all’atteggiamento dell’umanismo ottimistico, tanto accecato dal progresso umano da non credere ai flagelli, visti come qualcosa di irreale, un brutto sogno che è destinato a passare (Camus 1988, 400‑401).

Ciò che è certo è che un virus, di cui non conosciamo con certezza assolu‑ta nemmeno l’origine (se sia cioè di origine naturale o se sia un virus svilup‑pato o modificato artificialmente), sta evidenziando l’assoluta necessità, ora più che mai, di indirizzare tutti gli sforzi della scienza e della tecnologia ver‑so il ripristino di un equilibrio con la natura che fino a oggi abbiamo dram‑maticamente alterato.

È ineludibile pertanto che la riflessione sulle tematiche ambientali richie‑da sempre più da parte dei governanti un’attenzione politica particolare, do‑vendo ricomprendere nel concetto di bίos non solo la vita degli uomini, ma anche le condizioni dell’intera biosfera e le condizioni di vita degli uomini in relazione all’ambiente in cui si trovano a vivere.

Ed è questo il motivo per cui oggi si parla di sviluppo sostenibile, che costi‑tuisce il principio in grado di accomunare sfera politica, economica, giuridica ed etica. Tale principio era già in qualche modo insito nella riflessione di sir Thomas Robert Malthus, il quale, nel 1830, evidenziava nel suo Esame som‑mario sul principio di popolazione che le risorse del pianeta sono limitate e che

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il rapporto tra la crescita esponenziale della popolazione e la crescita lineare della produzione di alimenti avrebbe alla fine portato a una situazione di ca‑renza di cibo; nel momento in cui si fossero presentate situazioni di disequi‑librio, però, a suo avviso si sarebbero verificate catastrofi e carestie in grado di ristabilire l’equilibrio tra risorse e popolazioni. Oggi, si farebbe riferimento alla resilienza, termine col quale gli esperti del Resilience Centre di Stoccolma si riferiscono alla “capacità di un sistema – sia esso un individuo, una foresta, una città o un’economia – di affrontare il cambiamento e continuare nel pro‑prio sviluppo”. Sviluppo che, con riferimento all’ambiente, dovrebbe però es‑sere sostenibile, cioè dovrebbe essere in grado di soddisfare i bisogni del pre‑sente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfa‑re i propri bisogni, evidenziando quello che è un principio etico imprescindi‑bile, ovvero la responsabilità verso l’umanità che vivrà dopo di noi, così come sottolineato nel Rapporto Brundtland.

Affinché si possa realizzare un tale sviluppo, però, è necessario che esso non sia valutato secondo parametri puramente economici e secondo stan‑dard esclusivamente quantitativi, ma sia realizzato secondo parametri quali‑tativi, che tengano conto dell’integrità dell’ambiente e della qualità di vita. A tale scopo sono stati individuati gli ambiziosi obiettivi, esplicitati nell’Agen‑da 2030 per lo sviluppo sostenibile, unitamente alle strategie idonee al loro perseguimento. Tra essi, prima ancora che si potesse pensare a una pandemia come quella da Covid‑19, è indicato quello della promozione della “salute fi‑sica e psichica nonché un alto grado di benessere”. Per perseguire tale obietti‑vo si ritiene prioritario “garantire una copertura sanitaria universale e l’acces‑so a un’assistenza sanitaria di qualità, senza escludere nessuno” e contempo‑raneamente velocizzare “l’andamento dei progressi fatti nella lotta contro la malaria, l’HIV/AIDS, la tubercolosi, l’epatite, l’ebola e altre malattie trasmis‑sibili ed epidemiche”.

L’ambiente è pertanto diventato necessariamente una priorità dell’agenda politica globale, ancor più adesso, perché di fatto costituisce un bene giuri‑dico da proteggere, ma al contempo un diritto soggettivo inviolabile, perché si configura anche come diritto alla salute. L’attuale pandemia ci sta facendo apprendere una lezione dura e severa, perché oltre a non essere stati in grado non solo di prevedere, ma neanche di immaginare quali sarebbero potuti es‑sere gli effetti devastanti di una pandemia sui vari settori della nostra vita, evi‑denzia quanto le politiche sociali e, in questa particolare situazione, le politi‑che per la salute non possano più essere valutate sul piano della spesa, che può essere drasticamente ridotta, ma solo considerandole un investimento per il nostro futuro, di cui non poter fare assolutamente a meno.

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Il diritto alla salute, in un’ottica di sostenibilità, si sostanzia nella possibili‑tà di garantire a tutti un eguale accesso alle cure. L’OMS sta lavorando in col‑laborazione con scienziati, aziende e organizzazioni sanitarie globali attra‑verso ACT Accelerator, la partnership che sta sostenendo uno sforzo globa‑le, veloce e coordinato per sviluppare strumenti per combattere la pandemia. Quando viene trovato un vaccino sicuro ed efficace, COVAX Facility, pro‑gramma dell’Organizzazione mondiale della Sanità (guidato da WHO, GA‑VI3 e CEPI4), faciliterà l’accesso e la distribuzione equa di questi vaccini per proteggere le persone in tutti i paesi.

Quello delle vaccinazioni è infatti un tema cruciale e sul quale si sta lavo‑rando da anni al fine di ridurre le disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo, ma che, ora più che mai, assume un’importanza strategica: l’auspicio è che a una pandemia, che è realmente riuscita a unificare il mondo sotto il segno di un virus, possa quantomeno corrispondere una altrettanto globale previsio‑ne di immunizzazione.

3 Creata nel 2000, Gavi è un’organizzazione internazionale, un’alleanza globale per i vaccini, che riunisce i settori pubblico e privato con l’obiettivo condiviso di creare parità di accesso a vaccini nuovi e sottoutilizzati per i bambini che vivono nei paesi più poveri del mondo. 4 La Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI) è una partnership globale lanciata nel 2017 per sviluppare vaccini per fermare future epidemie.

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