Riforme elettorali e crisi dello stato liberale...Mélanges en hommage à Maurice Duverger, Paris,...

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Riforme elettorali e crisi dello stato liberale La ‘proporzionale’ 1918-1919 di Serge Noiret NelPintervenire sull’introduzione della nuo- va legge elettorale nel 1919, si tratterà solo in parte di integrare modelli teorici sui siste- mi elettorali nonché di interrogarsi sul loro valore intrinseco, quasi di filosofia del dirit- to pubblico, o di entrare nel merito di un di- battito teorico sul legame tra società, siste- ma elettorale e sistema politico-partitico. Tali modelli eventuali ci interessano infatti soltanto in una prospettiva storica e compa- rata. Questa ricerca riguarda l’avvento di una società di massa nel primo dopoguerra ita- liano, la crisi della classe politica di uno sta- to liberale di notabili, le cause e gli effetti dell’introduzione — tra il 1918 e il 1919 — di una nuova legge elettorale. È dunque cer- to che il lettore non deve aspettarsi di trova- re sullo sfondo — con il pretesto di analizza- re la legge del 1919 — una disquisizione pro o contro la rappresentanza proporzionale a partire da un caso storico particolare: l’Ita- lia liberale del primo dopoguerra1. Troppo spesso si è caduti, in Italia e in altri paesi, nel difetto di proporre una riflessione stori- ca che servisse gli interessi momentanei dei partiti o delle culture politiche in cerca di le- gittimazione scientifica2. Questo saggio è la rielaborazione di una relazione tenuta nel gennaio 1988 al seminario su “Le riforme elettorali e il sistema politico italiano fra ’800 e ’900”, organizzato dal Dipartimento di storia dell’Università di Firenze e coordi- nato da Zeffiro Ciuffoletti e Mario G. Rossi. 1 Non vogliamo rivisitare il passato con una lettura “partigiana” del presente, come propone per esempio in Fran- cia Jean-Marie Cotteret con il suo Sens et non-sens de la représentation proportionnelle, in Droit insititutions et sy- stèmes politiques. Mélanges en hommage à Maurice Duverger, Paris, Presses Universitaires de France, 1987, pp. 277-282, ribadendo un atteggiamento scientifico consono al modo poco duttile di affrontare la politica in Francia non soltanto da parte della classe politica, ma anche da parte dei politologi. (A questo proposito basta leggere con quanta carica antiproporzionalista è stato scritto il saggio del costituzionalista Jacques Cadart, La diversité des sy- stèmes électoraux des pays de l’Europe occidentale et leurs effets comparés, in J. Cadart (a cura di), Les modes de scrutin des dix-huit pays libres de l’Europe occidentale. Leurs résultats et leurs effets comparés. Elections nationa- les et européennes, Paris, Presses Universitaires de France, 1983, pp. 13-28.) Si pensi a come, già nel 1912, il costi- tuzionalista Joseph Berthélémy indicava la differente maniera con la quale si affrontava il tema delle riforme eletto- rali in Francia o nel Belgio dove esisteva “le sens précieux en politique du relatif, du transitoire, du complexe”, J. Barthélemy, L ’organisation du suffrage et l’expérience belge, Paris, Giard & Briere, 1912, p. 746. 2 Stein Rokkan stigmatizza le polemiche tra difensori di sistemi diversi “anche quando sono rivestiti dei panni del dialogo accademico”, in S. Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 257-258 e pp. 260- 261, quando scrive: “i contributi allo studio dei sistemi elettorali saranno inefficienti e poco affidabili fintanto che la motivazione principale [...] riguarderà i pro e i contro dei diversi schemi di ingegnerie elettorali [...]” Quanto og- gi sia in realtà obsoleta una polemica tra “proporzionalisti” e “maggioritaristi”, proprio perché si rivela cruciale la dimensione storica e comparata dell’evoluzione dei sistemi elettorali, è recentemente dimostrato con grande finezza di analisi da Mauro Volpi nel suo Le riforme elettorali in Francia. Una comparazione con il caso italiano, Roma, “Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174

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  • Riforme elettorali e crisi dello stato liberaleLa ‘proporzionale’ 1918-1919

    di Serge Noiret

    NelPintervenire sull’introduzione della nuova legge elettorale nel 1919, si tratterà solo in parte di integrare modelli teorici sui sistemi elettorali nonché di interrogarsi sul loro valore intrinseco, quasi di filosofia del diritto pubblico, o di entrare nel merito di un dibattito teorico sul legame tra società, sistema elettorale e sistema politico-partitico. Tali modelli eventuali ci interessano infatti soltanto in una prospettiva storica e comparata.

    Questa ricerca riguarda l’avvento di una società di massa nel primo dopoguerra italiano, la crisi della classe politica di uno sta

    to liberale di notabili, le cause e gli effetti dell’introduzione — tra il 1918 e il 1919 — di una nuova legge elettorale. È dunque certo che il lettore non deve aspettarsi di trovare sullo sfondo — con il pretesto di analizzare la legge del 1919 — una disquisizione pro o contro la rappresentanza proporzionale a partire da un caso storico particolare: l’Italia liberale del primo dopoguerra1. Troppo spesso si è caduti, in Italia e in altri paesi, nel difetto di proporre una riflessione storica che servisse gli interessi momentanei dei partiti o delle culture politiche in cerca di legittimazione scientifica2.

    Questo saggio è la rielaborazione di una relazione tenuta nel gennaio 1988 al seminario su “Le riforme elettorali e il sistema politico italiano fra ’800 e ’900”, organizzato dal Dipartimento di storia dell’Università di Firenze e coordinato da Zeffiro Ciuffoletti e Mario G. Rossi.1 Non vogliamo rivisitare il passato con una lettura “partigiana” del presente, come propone per esempio in Francia Jean-Marie Cotteret con il suo Sens et non-sens de la représentation proportionnelle, in Droit insititutions et systèmes politiques. Mélanges en hommage à Maurice Duverger, Paris, Presses Universitaires de France, 1987, pp. 277-282, ribadendo un atteggiamento scientifico consono al modo poco duttile di affrontare la politica in Francia non soltanto da parte della classe politica, ma anche da parte dei politologi. (A questo proposito basta leggere con quanta carica antiproporzionalista è stato scritto il saggio del costituzionalista Jacques Cadart, La diversité des systèmes électoraux des pays de l ’Europe occidentale et leurs effets comparés, in J. Cadart (a cura di), Les modes de scrutin des dix-huit pays libres de l ’Europe occidentale. Leurs résultats et leurs effets comparés. Elections nationales et européennes, Paris, Presses Universitaires de France, 1983, pp. 13-28.) Si pensi a come, già nel 1912, il costituzionalista Joseph Berthélémy indicava la differente maniera con la quale si affrontava il tema delle riforme elettorali in Francia o nel Belgio dove esisteva “le sens précieux en politique du relatif, du transitoire, du complexe”, J. Barthélemy, L ’organisation du suffrage et l ’expérience belge, Paris, Giard & Briere, 1912, p. 746.2 Stein Rokkan stigmatizza le polemiche tra difensori di sistemi diversi “anche quando sono rivestiti dei panni del dialogo accademico”, in S. Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 257-258 e pp. 260- 261, quando scrive: “i contributi allo studio dei sistemi elettorali saranno inefficienti e poco affidabili fintanto che la motivazione principale [...] riguarderà i pro e i contro dei diversi schemi di ingegnerie elettorali [...]” Quanto oggi sia in realtà obsoleta una polemica tra “proporzionalisti” e “maggioritaristi” , proprio perché si rivela cruciale la dimensione storica e comparata dell’evoluzione dei sistemi elettorali, è recentemente dimostrato con grande finezza di analisi da Mauro Volpi nel suo Le riforme elettorali in Francia. Una comparazione con il caso italiano, Roma,

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    Tenteremo invece di mettere in evidenza che cosa abbia rappresentato l’introduzione di una nuova legge elettorale nello specifico contesto storico della crisi dello stato liberale, con un particolare sviluppo del sistema politico e dei partiti e con le particolari condizioni sociali e economiche dell’Italia di allora.

    Si tratta di mettere in luce il legame tra l’avviamento dell’Italia sulla strada della moderna democrazia di massa e l’impatto e il significato del cambiamento della legge elettorale nel quadro delle profonde trasformazioni in atto dopo la guerra.

    Per tentare questo, utilizzeremo anche stimoli e ipotesi empiriche di ricerca provenienti dall’ambito più “sistemistico” o anche più “modellistico” della scienza politica, per chiarire quale fosse, nel 1919, il vero nodo del sistema politico italiano, pur rimanendo convinti dell’inadeguatezza di quei modelli per fornire una risposta del tutto

    soddisfacente in campo storico, dove non è possibile limitarsi all’approfondimento della sola dimensione “empirica quantitativa” dei processi dello sviluppo o, per utilizzare una categoria oramai inflazionata, di modernizzazione3.

    Abbiamo già considerato le maggiori novità delle due leggi unificate nel Testo unico del settembre 1919 e ci proponiamo di descrivere in altra sede l’inter legislativo della nuova legge nelle sue due fasi del 1918 e del 19194. Qui cercheremo soltanto di rispondere al quesito recente di Hartmut Ullrich a proposito dell’impatto della nuova legge sul sistema politico, se cioè la sua introduzione avesse “opened the way for modern mass democracy or destroyed liberal Italy”5. Per avvicinarci ad una risposta soddisfacente a questo nodo della storia politica — la proporzionale rappresentò un suicidio più o meno consapevole della classe dirigente liberale? — tenteremo tre simulazioni di come si

    Bulzoni, 1987, pp. 8-23. Per quanto riguarda il tema più generale delle storiografie militanti, con forte carica ideologico-politica, si rimanda al saggio di Renzo De Felice La storiografia contemporaneistica italiana dopo la seconda guerra mondiale, “Storia contemporanea”, 1979, n. 1, pp. 91-108. Condividiamo ampiamente lo studio di Jens Petersen, Storia e storiografia in Italia oggi, “Movimento operaio e socialista” , 1987, n. 1-2, pp. 123-139, specialmente alle pp. 135-136, quando parla di stretto legame tra storia e politica nella cultura italiana contemporanea.3 Si veda di Alfio Mastropaolo Sviluppo politico e parlamento nell’Italia liberale. Un’analisi a partire dai meccanismi della rappresentanza, “Passato e presente”, 1986, n. 12, pp. 29-92, che si confronta con la categoria della “modernizzazione” in ambito storico. Per un tentativo di definizione dell’uso storiografico di questa categoria interpretativa dei processi di sviluppo si veda Tim Mason, Moderno, modernità, modernizzazione: un montaggio, “Movimento operaio e socialista”, 1987, n. 1-2, pp. 45-61.4 Per il testo completo del codice elettorale del 1919 occorre riferirsi al libro di C, Montalcini e A. Alberti, La legge elettorale politica. Testo Unico del 2 settembre 1919, n. 495. Commento teorico-pratico, Bologna, Zanichelli, 1919, e a P. Piccioni, Codice elettorale politico e amministrativo. Parte prima: la nuova legge elettorale politica ad uso degli Uffici, dei seggi, degli elettori, Bologna, Cappelli, 1919 e A. Pironti-J. Spano, Le operazioni elettorali secondo la nuova legge con note ed istruzioni. Appendice al codice elettorale politico, Torino, Utet, 1919 e infine a Guido Boncompagni, La riforma elettorale: portata della nova legge, come si formano le nuove liste dei candidati, com esi vota, come si computano i voti, Firenze, Nerbini, 1919. Si vedano infine i nostri La nuova legge elettorale e le elezioni politiche del 1919, “Ricerche storiche”, 1986, n. 2, pp. 345-405 e, centrato sulla strategia del Psi, Il Psi e le elezioni del 1919. La nuova legge elettorale. La conquista del Gruppo parlamentare socialista da parte dei massimalisti, “Storia contemporanea”, 1984, n. 6, pp. 1093-1146.5 Hartmut Ullrich, Littérature, méthodologie et sources de l ’étude des réformes électorales en Italie, comunicazione presentata durante il Colloquio su “L’étude comparée des réformes électorales en Europe. XIXème et XXème siècles, une approche interdisciplinaire”, Firenze, Istituto universitario europeo, 28-30 marzo 1988, Colloquium paper, doc. lue, 64/88, (Col. 21), p. 15. (L’edizione degli Atti del Colloquio è in corso di pubblicazione presso l’editore Nomos Verlagsgesellschaft di Baden-Baden).

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    sarebbero svolte le elezioni del 1919 mantenendo la vecchia legge elettorale. Una riflessione sulla legge introdotta nel 1919 non si può dunque fare senza analizzare i risultati elettorali, tenendo conto del livello di aggregazione dei dati disponibili6.

    L’introduzione del suffragio universale e della proporzionale nel 1919

    Già nel marzo 1911 Giovanni Giolitti, conscio dell’importanza di una nuova legge elettorale per l’assetto politico e sociale del paese alla vigilia di una delle riforme “periodiz- zanti” della storia costituzionale del Regno d’Italia, asseriva che “l’eleggibilità, l’indennità parlamentare, la nuova legge elettorale sono argomenti che vanno studiati a fondo”7.

    Giolitti con la legge del 1912 sull’estensione quasi universale del suffragio, Orlando nel 1918 con l’introduzione del suffragio universale maschile e la soppressione dei requisiti del censo e della capacità, che ancora restringevano il corpo elettorale e, più tardi — nel 1919 — Nitti con l’introduzione della proporzionale e dello scrutinio di lista avrebbero portato lo stato liberale verso una fase radicalmente diversa del suo sviluppo istituzionale e politico. Una fase che, pensata attraverso il modello proposto da Stein Rokkan per lo sviluppo dei sistemi elettorali verso una democrazia elettiva egualitaria, prevede l’abolizione delle disuguaglianze sociali e economiche fra cittadini maschi nell’esercizio del diritto di voto, mantenendo però notevoli sperequazioni nel numero degli aventi diritto al voto nelle diverse circo- scrizioni elettorali8.

    6 La problematica delle fonti è stata percorsa con cura da Hartmut Ullrich nella comunicazione citata sopra. Essa è approfondita dal libro di Pier Luigi Ballini, Le elezioni nella storia d ’Italia dall’Unità al fascismo, Bologna, Il Mulino, 1988. Il recente lavoro di Ballini aggiunge elementi ai precedenti lavori di Attilio Brunialti, Elezioni politiche, in II digesto italiano. Enciclopedia metodica e alfabetica di legislazione, dottrina e giurisprudenza, Torino, Unione Tipografica Torinese, 1895-1898, vol. X, pp. 227-306 (Si vedano anche le voci Diritto elettorale e Scrutinio (sistemi di))\ di Salvo Mastellone, Il sistema elettorale italiano dal I860 al 1948, in Maurice Duverger, L ’influenza dei sistemi elettorali sulla vita politica, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1950, pp. 163-176; di L. Pauli, Leggi e lotte elettorali in Italia, Roma, Casa editrice italiana, 1953; di Giovanni Schepis, Le consultazioni popolari in Italia dal 1848 al 1957. Profilo storico-statistico, Empoli, Editrice Caparrini, 1958, e Italia, in S. Rokkan e Jacques Meyriat, International guide to electoral statistics. Vol. 1. National elections in Western Europe, The Hague-Paris-New York, Mouton-De Gruyter, 1969, pp. 206-229 e anche, dello stesso autore, I sistemi elettorali. Teoria, tecnica, legislazione positiva, Empoli, Editrice Caparrini, (s.d.), pp. XXVII-LXIII; e, infine a quello di Alberto Aquarone, Le istituzioni. Il problema della rappresentanza politica e le leggi elettorali, in Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di Alberto M. Ghisalberti, Firenze, Olschki, 1974, pp. 463-514. Fondamentale per ottenere una buona bibliografia degli studi in generale e su vari paesi in una prospettiva storica, è R. Herrero, Repertorio bibliografico sobre dere- cho electoral y elecciones, “Revista de estudios politicos” , 1983, n. 34, pp. 213-275.7 Citato da Alessandro Schiavi, Come hanno votato gli elettori italiani, Milano, Avanti!, 1914, p. 1. Per quanto riguarda tutto il dibattito politico ed istituzionale sulla legge politica del 1912 si veda l’opera fondamentale di H. Ullrich, La classe politica nella crisi di partecipazione dell’Italia giolittiana. Liberali e radicali alla Camera dei deputati, Roma, Archivio storico della Camera, 1979, 3 voli.8 Rokkan parla di cinque fasi di sviluppo del sistema elettorale chiaramente evidenziate nella storia del Belgio, dell’Inghilterra e della Svezia. La prima fase, pre-rivoluzionaria, fu caratterizzata da notevoli variazioni provinciali e locali nel diritto di voto nonché dalla necessità, per goderne, di appartenere a uno “strato corporativo”. La seconda fase, dopo le rivoluzioni francese e americana, regolò l’accesso dei cittadini al voto mediante criteri legati al censo. La terza fase corrispose ad una prima mobilitazione di massa con un suo conseguente impatto sull’allargamento del corpo elettorale, pur mantenendo disuguaglianze formali come il voto plurimo ecc. La quarta fase fu segnata dal- l’introduzione del suffragio universale con la soppressione dei requisiti economici e sociali per i maschi sopra una certa età ma anche dalla permanenza di un divario tra il peso dei voti nelle varie circoscrizioni. (Questa fase caratterizza, a nostro parere, l’Italia liberale dal 1913 al 1921.) La quinta fase, attuale, favorisce la progressiva democra-

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    Interrogandosi sul contenuto delle discussioni che precedettero riforme importanti come quelle del 1882 e del 1919 in Italia, appare chiaro il riferimento non al processo decisionale in quanto tale, ma al concetto di “giusta rappresentanza delle minoranze”, al migliore legame tra stato e società che ne sarebbe derivato e all’impatto di tali riforme sulla rappresentanza. Queste istanze caratterizzano le mentalità collettive e la cultura politica comuni, all’epoca, a molti paesi europei.

    Con la riforma del 1919 — anche se era erroneo pensare di poterlo ottenere con una riforma elettorale senza tenere conto dello stato di sviluppo della società e dello stesso sistema partitico — si sperava nella creazione di nuovi partiti politici di area liberale e costituzionale. Questi partiti, moderni, centralizzati ed organizzati su tutto il territorio nazionale, avrebbero dovuto fronteggiare l’offensiva popolare e socialista. Si ipotizzava addirittura la possibilità, mediante la proporzionale e lo scrutinio di lista, di ottenere un’adeguata rappresentanza politica dei vari interessi economici e sociali9 che ne erano privi con la precedente legge maggioritaria a scrutinio uninominale e doppio turno. Si intendeva infine combattere il “clientelismo” che si era sviluppato con lo scrutinio uninominale nelle piccole circoscrizioni provinciali10.

    Collocando così i problemi istituzionali e

    le connesse leggi elettorali nel loro contesto storico, si può capire meglio con quanta energia nella seconda metà dello scorso secolo (soprattutto tra gli anni 1860 e 1880), in vari paesi europei (Belgio, Francia, Italia, Svizzera, Germania ecc.) si sia parlato di suffragio universale, di rappresentanza proporzionale e di scrutinio di lista con l’intenzione di realizzare in termini istituzionali, democratico-parlamentari, l’idea di “equa rappresentanza” nell’ambito di una nuova società di massa (diritto di decisione per la maggioranza, rappresentanza per tutti), anche se in Italia in quegli anni sembra che ci fosse stato “poco interesse per lo studio del reale funzionamento di una democrazia parlamentare, soprattutto della partecipazione politica dei cittadini e dei sistemi elettorali considerati meno importanti che la ricerca del voto clientelare e delle alleanze personalistiche alla Camera”11.

    Analizzando i particolari meccanismi delle riforme elettorali in sede storica e secondo i criteri elencati precedentemente, si devono tuttavia anche separare due aspetti fondamentali che finora sono emersi uniti: il diritto di voto ai cittadini in quanto tali (il grande dibattito sul suffragio universale durante la terza fase dello sviluppo storico dei sistemi elettorali individuata da Stein Rok- kan), e il tipo di scrutinio considerato (il dibattito sullo scrutinio maggioritario o proporzionale). Questi due aspetti complemen-

    tizzazione dell ’accesso al suffragio per nuovi gruppi di età, per le donne, ecc., ma anche l’uguaglianza numerica nel rapporto tra “votanti e rappresentanti” su tutto il territorio: S. Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, cit., pp. 232- 233. Sui vari modi di mantenere il suffragio ristretto e il suo allargamento tra XIX e XX secolo rinviamo anche allo studio di sintesi di Jean-Marie Cotteret e Claude Emeri, Les systèmes électoraux, Paris, Presses Universitaires de France, pp. 13-27.9 Una “rappresentanza corporativa” come è stata intesa nel senso non immediatamente legato ai processi elettivi, nel saggio di Claudio Pavone e Mariuccia Salvati, Suffragio, rappresentanza, liberaldemocrazia, “Rivista di storia contemporanea”, 1986, n. 2, pp. 149-174.10 Sul “clientelismo” si veda in generale Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1986 e A. Mastropaolo per quanto riguarda11 periodo di fine Ottocento, in Sviluppo politico e parlamento, cit., pp. 33-34.11 Carlo Ghisalberti, Storia costituzionale d ’Italia. 1848-1948, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 318-319. Questa affermazione dovrebbe essere meglio verificata alla luce delle numerose e recenti ricerche in questo campo.

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    tari delle leggi elettorali, uniti ad altri meccanismi, permettono spesso di snaturare completamente o in parte — se usati dal legislatore con un certo “machiavellismo”, soprattutto nel caso della proporzionale — le volontà ideali espresse nel dibattito attorno ad una determinata riforma elettorale e di favorire così, in realtà, strategie politiche contingenti. È dunque importante separare la legge del 1918 e quella del 1919 (anche se entrambe furono poi integrate nel Testo unico del settembre 1919) e considerare quali meccanismi della legge elettorale possano o meno correggere o anche snaturare i “grandi principi” espressi in sede di dibattito culturale e politico. Successivamente risulterà più semplice saggiare la coerenza degli indirizzi politico-programmatici della classe dirigente del 1919 e dei partiti di massa all’opposizione.

    Nella legge del 1919 il processo di snaturamento della proporzionale attraverso meccanismi correttivi era particolarmente sottile.

    L’introduzione del “voto aggiunto” , il cosidetto “panachage”12, con sperequazioni tra numero di elettori necessari per eleggere un deputato da collegio a collegio, combinata a quella dello scrutinio di lista e alla proporzionale con il sistema d’Hondt in piccole

    circoscrizioni (l’ampiezza delle circoscrizioni è giudicato da Fisichella un elemento decisivo nel verificare T “operatività” della proporzionale13) avrebbe permesso di diminuire gli effetti dell’impatto che, secondo i fautori della legge, una pura proporzionale avrebbe avuto sulla necessaria organizzazione di partiti competitivi. Mantenendo così vivi alcuni aspetti personalistici e clientelari della vecchia legge, quelli più tradizionalmente legati alla geografia elettorale politica del collegio, si snaturava in parte un confronto elettorale su programmi precisi o ideologie strutturate a livello nazionale, condizioni essenziali per la nascita di partiti “moderni” anche nell’arco costituzionale, liberale e democratico.

    La nuova legge avrebbe dovuto favorire, nello spirito di quella parte della classe dirigente liberale che la propugnava14, una soluzione istituzionale e politica che permettesse una migliore rappresentanza degli interessi economici e/o corporativi, capace di eliminare pericoli di sedizione o di totale rottura con le istituzioni dello stato, provenienti da varie classi sociali e principalmente dal cosidetto “Quarto stato” . Tommaso Tittoni, che discusse nell’aprile 1919 sulla “Nuova antologia” della validità della proposta di legge Micheli per la rappresentanza propor-

    12 Questa correzione non era l’unica operata sulla legge introdotta dal ministero Nitti. Ci permettiamo di rinviare al nostro già citato saggio sulla legge del 1919, pp. 376-377 (vedi n. 4).13 Domenico Fisichella, Elezioni e democrazia. Un’analisi comparata, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 167.14 Era certamente anche il caso di Francesco S. Nitti — non certo convinto difensore della proporzionale, come dimostra la sua posizione nel secondo dopoguerra (era un uomo ancora legato al sistema individualistico di un parlamento di notabili e non di partiti) — sicuro della sua necessità nel particolare periodo storico dell’Italia del 1919. La posizione di Nitti, che ebbe un ruolo decisivo nell’introduzione della legge dal momento che segui anche con attenzione i lavori in commissione, alla Camera e al Senato, non è stata finora molto studiata. Sul contenuto del dibattito che ha preceduto la riforma del 1919 rinviamo a Francesco Gui, Governo e Parlamento in Italia all’indomani di Vittorio Veneto, “Clio”, 1981, n. 1, pp. 47-78; Id., Riforma delle elezioni e partiti fra Orlando e Nitti, ivi, 1981, n. 2, pp. 171-196 e La classe dirigente liberale e la proporzionale, ivi, 1982, n. 2, pp. 277-281. Su Nitti rinviamo agli accenni fatti da Francesco Barbagallo nella sua biografia Francesco Saverio Nitti, Torino, Utet, 1984, pp. 347-355 e alle giuste riflessioni di Lorenzo Piccioli in La riforma elettorale del 1919 nella crisi politica del primo dopoguerra, in Zeffiro Ciuffoletti (a cura di), Riforme elettorali e democrazia nell’Italia liberale, Firenze, Centro editoriale toscano, 198 82, pp. 117-127, nonché ai nostri lavori già citati alla nota 4. Non ci sono purtroppo riferimenti alle convinzioni nittiane in materia di legislazioni elettorali nel saggio di Arturo Colombo sulle concezioni che l’uomo politico lucano aveva del sistema politico liberale, Nitti e il concetto di democrazia, “Il Politico”, 1985, n. 1, pp. 23-39.

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    zionale15, mostrò chiaramente quanto una giusta rappresentanza del popolo uscito da un sanguinoso conflitto, mediante un sistema che dava “un voto uguale a tutti”, sarebbe diventata in sé il miglior modo di allontanare le tentazioni eversive deH’ultrasinistra, attuando finalmente il disegno democraticotrasformistico giolittiano (nel senso positivo del concetto)16 di integrazione delle masse popolari nelle istituzioni liberali in crisi a partire dalla guerra di Libia.

    Tittoni pensava che la pressione delle masse popolari, espressa in quel momento in numerose azioni sociali (scioperi, boicottaggi, occupazioni di terre) se dirottata verso nuove elezioni con la proporzionale e lo scrutinio di lista, avrebbe provocato una ridistribuzione della rappresentanza, rimanendo così nell’alveo delle istituzioni dello stato, ed avrebbe diminuito di pari passo le spinte centrifughe di socialisti e cattolici, incrementando infine quello che oggi si potrebbe chiamare il “consenso politico” verso lo stato liberale e le sue istituzioni, consenso che avrebbe permesso di risolvere gran parte dei problemi del dopoguerra.

    La proporzionale vista come “suicidio” della classe dirigente liberale

    Confrontarsi con la storiografia costituzionale sul primo dopoguerra — anche se scarsa — significa entrare nel merito di giudizi di valore espressi su un particolare sistema elettorale; proprio quello che abbiamo detto di volere evitare per affrontare un nodo assai delicato della storiografia: quello della condanna senza appello dell’introduzione

    della proporzionale nel 1919. Rilevare gli aspetti negativi o positivi di diversi sistemi elettorali avrebbe come conseguenza di impedire una reale percezione della situazione storica e dei suoi condizionamenti, difetto che, secondo noi, ha sempre offuscato una corretta valutazione storiografica dell’introduzione della proporzionale da parte di Nitti nel 1919.

    Esistono realtà sociali e sistemi politici — come per esempio il Belgio, la cui legislazione viene spesso studiata come emblematica — dove la frammentazione in vari cleavages linguistici, religiosi, politici, impedisce al legislatore di introdurre uno scrutinio maggioritario che avrebbe significato, e significherebbe tuttora, la dissoluzione della nazione17. Esistono altri sistemi politici nei quali l’introduzione della proporzionale paralizzerebbe (e di fatto ha paralizzato) anche la giusta dialettica tra potere legislativo e potere esecutivo e sortirebbe lo stesso effetto disgregatore che avrebbe nel Belgio l’introduzione dello scrutinio maggioritario.

    Ribadite in sede storica queste premesse, tentiamo di rispondere alla domanda seguente: è vero che l’introduzione della proporzionale in Italia significò il suicidio della classe dirigente liberale di estrazione risorgimentale? Dobbiamo realmente attribuire questa reponsabilità al tipo di sistema elettorale?

    Riteniamo al contrario — come tenteremo ora di documentare — che l’introduzione della proporzionale nel 1919 in un sistema politico pseudoparlamentare — per utilizzare la felice espressione di Giuseppe Maranini —, un sistema che aveva già espresso in cin- quant’anni di sviluppo le sue debolezze e pa-

    15 II saggio fu successivamente ripreso in T. Tittoni, Scrutinio di lista e rappresentanza proporzionale, in Conflitti politici e riforme politiche, Bari, Laterza, 1919, pp. 199-270.16 Paolo Pombeni, Introduzione allo studio dei partiti politici, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 123.17 Si veda di Jean Stengers, Histoire de la législation électorale en Belgique, Colloquium paper, Doc. lue, 48/88 (Col. 5), presentato per il convegno “L ’étude comparée des réformes électorales en Europe. XIXème et XXème siècle, une approche interdisciplinaire”, (vedi n. 5).

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    ralisi, non sia stato che l’ultimo, necessario e disperato tentativo di aggregazione al sistema di nuove e sfuggenti forze politiche, per tentare di ovviare all’incapacità e alle colpe che, da Depretis a Giolitti, la classe dirigente liberale aveva manifestato nella gestione dello Statuto albertino e per ricomporre, dentro le istituzioni dello stato, il divario crescente tra la “politica della piazza” e quella del parlamento.

    Abbiamo detto disperato perché — e questa connotazione è strettamente connessa alla prima — le sorti dello stato liberale si erano giocate ben prima della guerra18 e non dipendevano più — nel 1919 — dal sistema elettorale.

    Non si tratta dunque di negare l’importanza attribuita in termini di polity building al sistema elettorale che, scelto con accuratezza negli anni di passaggio dalla Destra alla Sinistra storica, avrebbe forse avuta quella influenza sulla configurazione del sistema politico-partitico e sul futuro dello stato liberale auspicata da Maranini. È il metodo esplicativo globale dell’evoluzione del sistema politico italiano tra Ottocento e Novecento fornito da storici costituzionalisti come Maranini che deve essere corretto. Un tale modello di studio è troppo legato a considerazioni di parte sul valore di un meccanismo elettorale di tipo inglese e sulla sopravvalutazione del suo ipotetico valore ingegneristico e di impatto sul sistema partitico nel contesto del 1919.

    Almeno per quanto riguarda il primo dopoguerra, le condizioni stesse che avrebbero permesso nell’Ottocento e forse ancora all’inizio dell’età giolittiana, una evoluzione del sistema pseudoparlamentare verso una moderna democrazia di partiti non esistevano

    più o, comunque, non erano più dipendenti dalla tradizionale classe dirigente liberale, bensì dalle nuove forze politiche ancora in gran parte estranee al sistema politico e al trasformismo di governo: il Ppi, nuovo partito protagonista del sistema dopo la subalternità imposta nei fatti ai cattolici all’interno dei blocchi clerico-moderati e poi con il patto Gentiioni, e un Psi sempre meno dipendente dal riformismo pragmatico e possibilista del suo gruppo parlamentare e della Ggdl.

    Nel 1919 l’evoluzione del sistema politico verso una democrazia pluralista e moderna basata sul suffragio universale poteva ancora essere avviata e diretta dai notabili più illuminati della vecchia classe dirigente liberale, ma non poteva certamente essere rivolta contro le nuove forze politiche del dopoguerra, e questo a prescindere dalla scelta del sistema elettorale. Tenendo presente questo insuperabile nodo politico del dopoguerra, proprio questa riforma elettorale, la proporzionale, sia pure con i meccanismi particolari che ne modificarono gli effetti, era diventata l’unica possibile per Nitti per avvicinare allo stato il Ppi, il Psi e le masse controllate da questi due grandi partiti. L’effetto psicologico, scaturito dal riconoscimento del diritto alla rappresentanza per tutti e l’effetto politico di organizzazione di una rappresentanza parlamentare più consona alle attese del paese, avrebbero dovuto aprire il dialogo con nuovi interlocutori per un governo liberale finalmente sorretto da una maggioranza di partiti. Si trattava anche di migliorare il rapporto con il nuovo partito cattolico ora decisivo nella vita politica del paese, e di contrastare la consueta politica trasformistica che aveva svalorizzato il par-

    18 Vogliamo qui riallacciarci alla maggiore storiografia sul primo dopoguerra, che dimostra quanto il conflitto mondiale non fece che accelerare processi già avviati prima. Si veda di Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965; di Roberto Vivarelli, Il dopoguerra in Italia e l ’avvento del fascismo. 1918-1922. Dalla fine della guerra all'impresa di Fiume, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1967; di Adrian Lyttelton La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Roma-Bari, Laterza, 1974.

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    lamento ed incrementato il potere dell’esecutivo19. Il trasformismo era stato utilizzato per assicurare al primo ministro liberale il sostegno delle forze avverse, un’abitudine ancora alla base degli accordi del 1913 con i cattolici. Esso sboccava nell’espressione di maggioranze personali faticosamente raggiunte alla Camera dai precedenti governi, fino alla fine della XXIV legislatura, e Nitti — anche se era certamente partecipe del vecchio sistema — tentava con la sua riforma elettorale di modernizzare la vita politica.

    Nel suo discorso di prolusione nella Regia università di Torino, il senatore Ruffini, conscio della delicata situazione politica e istituzionale dell’Italia dopo la riforma elettorale e le elezioni del 16 novembre 1919, indicava in realtà due elementi fondamentali che non negavano, con il senno del poi, la necessità della riforma. Il primo era che la guerra aveva accelerato la percezione dei problemi istituzionali da parte della classe politica e più particolarmente di quelli legati alla scelta di un nuovo sistema elettorale e del tipo di rappresentanza politica o degli interessi sociali e/o economici che questo avrebbe dovuto assicurare. La guerra aveva avuto non soltanto un impatto immediato sull’allargamento del corpo elettorale e l’instaurazione del suffragio universale maschile, sulla discussione a proposito di una riforma della legge elettorale e sulle varie propo

    ste di trasformazione del ruolo del Senato ma, determinando una nuova situazione istituzionale (il Parlamento era stato sopraffatto nel 1915 dalla “piazza” e dal governo), ed anche politica, economica e sociale, aveva contribuito in modo decisivo a influenzare il tipo stesso di riforme che gli “ingegneri” elettorali e la classe politica si promettevano di attuare nel 1918-1919.

    Il secondo elemento era che riformare le istituzioni diventava non solo auspicabile, ma necessario per incanalare le masse, i loro nuovi partiti ed interessi all’interno del quadro costituzionale dello stato liberale e della nazione. Per Ruffini, quello della riforma elettorale era l’unico modo per effettuare una vera “rivoluzione pacifica” e prevenire così maggiori sommosse nel paese. L’introduzione della rappresentanza proporzionale costituiva, ancora dopo la prima prova delle urne, una riforma da non mettere in discussione. Essa era servita al paese legale per adeguarsi, nel campo del diritto elettorale, ai mutamenti avvenuti nella società e già avvertiti nel 1913 con il patto Gentiioni. Questa evoluzione della legge elettorale — perché di evoluzione storica si trattava secondo Ruffini — doveva compiersi per superare la sconfitta storica del sistema maggioritario ottocentesco con le non meno anacronistiche leggi che avevano mantenuto una certa restrizione del suffragio20. Infine la sua opi-

    19 Sugli aspetti profondamente negativi del trasformismo si veda di C. Ghisalberti Le istituzioni politiche e amministrative dell’Italia liberale in Lo Stato liberale italiano e l ’Età Meiji. A tti de! I Convegno italo-giapponese di studi storici. Roma 23-25 settembre 1985, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1987, pp. 119-129 e specialmente pp. 126-127.20 Bisogna rilevare quanto Ruffini, parlando di evoluzione dei sistemi elettorali europei, metta in evidenza un processo di dinamica storica di “modernizzazione” di questi sistemi con una loro evoluzione obbligata verso il suffragio universale e verso l’introduzione generalizzata della proporzionale. Questo pensiero dinamico evolutivo si ritrova poi con le sue periodizzazioni storiche nel modello evolutivo, storico e comparato, dei sistemi elettorali proposto da Stein Rokkan. Esso era già presente nei lavori di Joseph Barthélemy, nel 1912, quando scriveva che “11 arrive un moment ou’ la logique immanente l’emporte, ou’ le besoin de justice et de vérité est le plus fort, ou’ la raison triomphe; on a alors, malgré toutes les barrières, le suffrage universel; on a ensuite l’organisation loyale de ce principe; vote secret, vote obligatoire, proportionnelle. L’histoire ignore l’immobilité [...] Si je voulais m’essayer au métier dangereux de prophète, j ’ajouterais qu’il arrivera sans doute un jour ou’, brisant toutes les lisières, ce dogme ira jusqu’au bout de ses conséquences logiques: on aura le vote des femmes, le référendum”, L ’organisation du suffrage, cit., p. 752. Questo trend verso lo sviluppo dei sistemi elettorali è rilevato anche da Claude Emeri nel suo

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    nione — come quella di altri esponenti di spicco dell’area liberale, cattolica e riformista che sarebbero stati poi gli stessi protagonisti dell’introduzione della legge elettorale dell’Italia repubblicana — era che, se il sistema elettorale non fosse stato cambiato, non soltanto non si sarebbe corrisposto alle aspettative legittime del paese nel dopoguerra, ma non si sarebbe nemmeno riusciti ad impedire una vittoria dei partiti di opposizione malgrado il mantenimento della legge precedente del suffragio maggioritario, del collegio uninominale in circoscrizioni ristrette e del doppio turno. Non si sarebbe così ottenuto l’effetto benefico per l’intesa tra “paese reale” e “paese legale” che l’introduzione della proporzionale avrebbe, secondo lui, sicuramente conseguito.

    Ruffini si mostrava convinto, come quasi tutto il mondo liberale, della capacità aggregativa della modifica in senso proporzionalista del sistema politico-istituzionale e della possibilità di aggregare maggiore forza e consenso attorno allo stato democratico risorgimentale a prescindere dalle tendenze centrifughe di partiti che avrebbero ottenuto con la proporzionale una maggiore rappresentanza rispetto al passato. Ruffini scriveva di non fermarsi al “semplice trionfo delle urne {che essi avrebbero avuto altrettale, e forse più pieno ancora, con il sistema antico)2' di tali partiti estremi” . Vedeva, aldilà della effimera risposta delle urne, “una ben più significativa e duratura e grossa vittoria, della quale essi stessi sono apparsi neppure qui pienamente consapevoli: vale a dire il sovrapporsi forse ineluttabile oramai e irrefrenabile, della loro particolare concezione politica del diritto elettorale, sopra la tradi

    zionale concezione liberale” . Ruffini indicava con questo la fine, già avvenuta con le elezioni del 1913, del sistema di governo delle maggioranze parlamentari “ministeriali” formate dall’opera unificatrice di un primo ministro liberale e la nascita di un sistema politico di partiti. L’introduzione della proporzionale e dello scrutinio di lista avrebbe definitivamente guadagnati al sistema politico democratico e liberale i partiti estremi, erigendo un vero baluardo con “poteri di prevenzione politica e di preservazione sociale” in difesa dello stato liberale. Era infatti questo il vero potere — sempre secondo Ruffini — che ebbero “segnalate e bene avventurate nella storia, le grandi riforme elettorali dei maggiori paesi civili”22.

    L’ipotesi di Ruffini e di altri uomini politici o studiosi del sistema elettorale come Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi, Luigi Federzoni, Filippo Meda, Luigi Stur- zo, Filippo Turati, Luigi Luzzatti — per motivi spesso diversi o addirittura contrastanti tra loro — era che l’introduzione della proporzionale con scrutinio di lista aveva avuto come conseguenza di concedere una rappresentanza politica equa e reale alle forze politiche capaci di mobilitare una parte maggioritaria del corpo elettorale, ma anche — e questo è fondamentale — di avere preservato uno spazio di rappresentanza alla vecchia classe dirigente liberale.

    Con la proporzionale, le forze e i partiti nuovi erano avviati necessariamente alla “costituzionalizzazione” , allontanando di pari passo eventuali tentativi sediziosi. Di fronte alla inevitabilità di una riforma elettorale in senso proporzionalista in quel particolare momento storico poco importa chie-

    Elections et Référendum in Madeleine Grawitz e Jean Leca (a cura di), Traité de Science Politique. Voi. 2. Les régimes politiques contemporains, Paris, Presses Universitaires de France, 1985, pp. 315-354, qui pp. 316-317.21 II corsivo è nostro.22 R. Ruffini, Guerra e riforme costituzionali: suffragio universale, principio maggioritario, elezione proporzionale, rappresentanza organica, in “Annuario della Regia Università di Torino”, 1919-1920, Torino, 1920, pp. 5-98, qui pp. 56-57.

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    dersi se il sistema elettorale precedente avrebbe o no dato maggiore rappresentanza alla vecchia classe dirigente liberale giolittia- na, incapace comunque, a prescindere dal sistema elettorale, di gestire il potere in modo fecondo e stabile e di assicurare una maggiore governabilità nel periodo più travagliato del dopoguerra. Al contrario, l’interesse nasce proprio nel dimostrare che, anche con il mantenimento della precedente legge, le condizioni politiche deH’ingovernabilità sarebbero rimaste identiche, senza nemmeno l’effetto psicologico positivo che la sua introduzione ebbe sulle forze cattoliche e socialiste.

    Il sistema giolittiano di controllo dell’apparato statale, dell’amministrazione e del parlamento basato sul notabilato a livello locale e sul controllo della rappresentanza attraverso la ricerca personalistica di maggioranze parlamentari, era definitivamente tramontato nel 1913 con l’introduzione di un suffragio quasi universale che amplificò il successo cattolico nelle elezioni dello stesso anno e determinò la caduta del governo nel 1914, anche se Giolitti stesso e la sua maggioranza non riuscirono a capirlo e a modificare il loro tradizionale comportamento politico. Nitti, pur in modo confuso, tentò di correre ai ripari adeguandosi alle necessità della politica in regime di suffragio universale, una politica nuova che, da destra, un uomo come Sidney Son-

    nino auspicava già da prima della guerra23.Ci pare dunque importante rifiutare in se

    de storica la critica severa mossa alla riforma elettorale introdotta dal Nitti nel 1919, una critica che fino ad oggi è stata quella della storiografia costituzionale nel secondo dopoguerra; Giuseppe Maranini e, dopo di lui, Carlo Ghisalberti, hanno incolpato la legge del 1919 di aver minato definitivamente le istituzioni dello stato liberale e, con esse, tutto il sistema politico. Afferma Maranini che “Nitti fece candidamente tutto quello che si poteva per fare esplodere la crisi nel modo disastroso. Introdusse contro l’opposizione non solo di Giolitti ma di Sonnino (guarito dalle sue recenti illusioni)10 scrutinio di lista e la rappresentanza proporzionale; infine volle che le elezioni — cosa nuovissima — si svolgessero in piena libertà e correttezza [...] Nitti sbagliò tutto [,..]”24. Il giudizio di Maranini è stato poi ripreso da Ghisalberti, quando afferma che “il cambiamento della legge elettorale, nel suo complesso [...] sarebbe stata di gravissimo danno per le forze liberali.” Ghisalberti, molto più cauto di Maranini nel giudicare l’azione di Nitti, non avverte tuttavia che fu11 suffragio universale e non la proporzionale ad immettere nel sistema politico le istanze di quello che egli definisce “un corpo elettorale ancora impreparato e non sicuro dei suoi convincimenti democratici”25.

    23 È da rimpiangere il fatto che l’analisi del pensiero politico-istituzionale di un uomo come Sidney Sonnino, oppositore della proporzionale nel 1919, non sia stata condotta da Antonio Jannazzo fino alla legge cui ci riferiamo nel suo Governo rappresentativo e democrazia nel pensiero di Sonnino, “Il pensiero politico”, 1987, n. 1, pp. 79- 97. Lo studio rende conto dell’attenzione del Sonnino per la nascita di un partito liberale — non più soltanto di notabili — con l’avvento del suffragio universale ma non spiega il passaggio da una posizione favorevole alla proporzionale all’opposizione al disegno di legge Micheli del 1919. Lo stesso difetto è presente nello studio di Antonio Casali, Sonnino e il problema della riforma elettorale, 1870-1912, in Z. Ciuffoletti (a cura di), Riforme elettorali, cit., pp. 65-80, che menziona le posizioni di Sonnino in favore del suffragio universale e della proporzionale a fine Ottocento senza seguire la loro evoluzione politica nel primo dopoguerra.24 Giuseppe Maranini, Storia de!potere in Italia, Firenze, Vallecchi, 1967, p. 283.25 C. Ghisalberti, Storia costituzionale d ’Italia, cit., pp. 332-333. Manca però — pur nel così pregevole ed essenziale studio di Ghisalberti — una vera attenzione allo studio dei meccanismi elettorali introdotti con la proporzionale, uno studio che, se non potrebbe discolpare Nitti dal non aver previsto il grandissimo successo delle forze di opposizione alla guerra, non potrebbe tuttavia incolparlo di poca attenzione verso la legge elettorale, che seguì di persona nella sua gestazione sia alla Camera che al Senato.

  • La ‘proporzionale’ 1918-1919 39

    In realtà, la pacificazione del paese, il ristabilimento dell’ordine interno, la risoluzione dei conflitti di lavoro o delle questioni brucianti di politica estera, dipendevano non da un mutamento o da una conferma dal sistema elettorale del 1912 in quanto tale — anche se non vogliamo qui negare l’importanza dei meccanismi elettorali nel conseguimento di determinati risultati da parte del sistema politico — ma dipendevano dalla capacità della vecchia classe dirigente costituzionale, sempre maggioritaria nel paese indipendentemente dal sistema elettorale, di fronteggiare, organizzandosi con compattezza e responsabilità26, con abilità ed apertura al dialogo, le spinte delle nuove forze politiche; queste, sia in campo socialista che in campo cattolico, non erano in modo compatto, spesso loro malgrado, contrarie a garantire la continuità del sistema politico liberale e democratico.

    Più che istituzionale, il problema era politico, e le colpe di Nitti devono essere ricercate su quel terreno e nella sua incapacità a gestire meglio che nel passato il potere legittimo che gli veniva dato in parlamento, rivolgendosi con più convinzione alle forze cattoliche, interlocutrici obbligate dei liberali.

    Vogliamo ricordare a sostegno della nostra tesi le considerazioni di Paolo Farneti sul rapporto tra sistema politico e riforme elettorali. Farneti pensa ad un primato del politico e alla non incidenza del sistema elettorale nel determinare la crisi del sistema nel primo dopoguerra. Secondo Farneti la svolta elettorale del 1919 possiede, a differenza delle leggi del 1882 e del 1913, “le tre svolte elettorali” prima del fascismo, “pure i caratteri di una svol

    ta politica e cioè di un mutamento politicostrutturale, ma è anche il momento in cui, come è noto, il sistema politico italiano entra in una crisi profonda e si avvia verso sviluppi autoritari. Dunque — scrive Farneti — le svolte politico-strutturali avvengono indipendentemente dalle svolte elettorali”. Aggiungiamo che le riforme elettorali possono soltanto contribuire a rafforzare una svolta politico strutturale in atto — nel 1919 il consolidamento di un sistema di partiti nuovi —, ma non possono creare di per sé condizioni politiche assenti prima della riforma del sistema27.

    Una simulazione applicata ai risultati delle elezioni del 16 novembre 1919

    Date queste premesse, ci sembra importante confutare in sede storica e con una riflessione sui dati elettorali del 1919, l’accusa circa gli effetti negativi che avrebbe avuto l’introduzione della proporzionale in piena crisi dello stato liberale. Se si può concludere, grazie a Giovanni Sartori, che è molto difficile calcolare esattamente l’impatto di una determinata legge elettorale sul comportamento politico e la vita politica, si può forse intuire meglio quanto una classe politica poco attenta agli aspetti ingegneristici delle leggi elettorali e dei loro effetti sul sistema politico e sulla rappresentanza abbia agito con leggerezza, facendo previsioni sbagliate sull’esito delle elezioni28. Per questi motivi è interessante ragionare su come si sarebbero effettuate le elezioni del 16 novembre 1919 mantenendo il principio maggioritario posto

    26 Ghisalberti, parlando dei difetti del sistema politico istituzionale dell’Italia di fine secolo, sistema che privilegiava il ruolo dei notabili, indica un motivo essenziale della crisi del liberalismo e con essa, dello stato risorgimentale: “mancavano [...] partiti politici organizzati modernamente, con solidi apparati di vertice e capillari strutture periferiche, capaci di diffondere la propria ideologia e di penetrare nelle aree più varie della società civile [...]” in Le istituzioni politiche, cit., p. 124.27 Paolo Farneti, Sistema politico e società civile, Torino, Giappichelli, 1971, pp. 278-279.28 Questa disattenzione non esisteva in sede di commissioni speciali della Camera e del Senato, come tenteremo di mettere in luce in un altro lavoro.

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    alla base della legge del 1912. Vedremo così che, con un calcolo pur difficile ed impreciso per l’impossibilità di accedere senza lunghe e laboriose ricerche a dati elettorali disaggregati a livello di sezioni, siamo tuttavia in grado di dimostrare in modo soddisfacente che la crisi dello stato liberale non fu né dipendente né accelerata dalla nuova legge elettorale e dalla sua applicazione nel 1919 e nel 1921. Le cause di questa crisi — a livello politico — si dovevano piuttosto rintracciare nell’incapacità politico-organizzativa dei liberali e nella divisione dei loro leader.

    L’interesse degli studiosi del sistema elettorale per uno studio comparato dei risultati di una determinata elezione con i meccanismi elettorali di un’altra legge, era già vivo anteriormente alla prima guerra mondiale negli studi dello Schiavi e del Torresini29. Il primo, interessandosi dei risultati delle elezioni del 1913 calcolò, anticipando la legge del 1919 applicata nel 1921, come si sarebbero svolte le elezioni del 1913 con la rappresentanza proporzionale, lo scrutinio di lista e i collegi regionali30.

    In un interessante studio31 — che porta alle stesse nostre conclusioni — Ugo Giusti si preoccupò poi di paragonare i risultati del collegio di Firenze nelle elezioni del 1919 e del 1921 con quelli che si sarebbero verificati applicando la legge elettorale del 1912, esattamente il contrario di quanto fece Schiavi per il 1913.

    Si voleva stabilire, scriveva Giusti, “conoscendo i risultati delle ultime due elezioni nei raggruppamenti secondo gli antichi collegi

    [...] quali risultati si sarebbero avuti [...] se, invece che colla rappresentanza proporzionale, le elezioni stesse avessero avuto luogo per scrutinio uninominale.” Giusti raggruppò i risultati delle sezioni nel 1919, comune per comune, fino a corrispondere alla geografia elettorale dei 14 vecchi collegi uninominali che erano stati messi insieme per ottenere la nuova circoscrizione elettorale politica di Firenze nel 1919 e nel 192132. Giusti intendeva mettere in luce un fenomeno legato all’incidenza di una particolare legge elettorale, quella del 1912 e quella del 1919, sulla rappresentanza politica del collegio. Dimostrò quanto il numero dei voti validi espressi a favore dei candidati non eletti fosse di gran lunga superiore con il sistema maggioritario che con lo scrutinio proporzionale e quanto il vecchio sistema incrementasse così il numero di voti inefficaci espressi dagli elettori. Con la proporzionale, questo numero diminuiva soprattutto se si trattava di voti validi dati in favore di piccole formazioni politiche o liste di un determinato collegio che riuscivano ad ottenere una presenza più consona alla loro reale presenza politica.

    Secondo questa simulazione elettorale con lo scrutinio maggioritario, il collegio di Firenze diviso nei 14 antichi collegi uninominali passava quasi totalmente in mano ai socialisti, che conquistavano l’86 per cento della rappresentanza ovvero 12 dei 14 seggi, un collegio essendo attribuito al blocco democratico (Firenze II) e un altro ad uno indipendente (Borgo San Lorenzo)33. Ora, i ri-

    29 A. Torresini, Statistica delle elezioni generali politiche de! 3 giugno 1900, “La riforma sociale”, 1900, fase. 8, pp. 788-831. Lucio Luzzatto parla di queste prime simulazioni nel suo Elezioni politiche e leggi elettorali, Roma, Editori Riuniti, 1958, pp. 83-84.10 A. Schiavi, Come hanno votato gli elettori italiani, cit., pp. 89-91 e tavola IX.31 Ugo Giusti, Le correnti politiche in Italia attraverso due riforme elettorali dal 1909 al 1921, Firenze, Alfani & Venturi, 1922.32 U. Giusti, Le correnti politiche in Italia, cit., pp. 38-40.33 Supponendo invece il mantenimento di uno scrutinio maggioritario di lista nel collegio di Firenze sulla base di un raggruppamento dei collegi uninominali del 1913, i socialisti avrebbero conquistati tutti i rappresentanti del collegio, come si può rilevare leggendo la tabella con i risultati elettorali nei 54 collegi del 1919.

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    sultati del voto del 16 novembre 1919 attribuirono, in realtà, con la proporzionale, tre seggi ai popolari, un seggio al blocco democratico, due ai liberali e soltanto otto seggi ai socialisti. Giusti nota — ed è secondo noi l’affermazione di maggiore spicco della sua analisi — che nel 1919, votando con la legge del 1912, “sarebbero stati completamente inefficaci i voti dei popolari e dei liberali”34. Vale a dire che popolari e liberali ebbero in realtà accesso alla rappresentanza in un collegio a forte presenza socialista soltanto perché la legge del 1912 fu mutata con la riforma introdotta da Nitti nel settembre 1919. Giusti concludeva asserendo a livello teorico, senza dare un giudizio di valore pro o contro l’introduzione della proporzionale, che “dall’esempio riportato e dal confronto teorico che noi facciamo dei due sistemi di scrutinio senza naturalmente potere tenere conto dei diversi adattamenti politici che i sistemi stessi possono consigliare, né della diversa atmosfera politica entro la quale verrebbero a svolgersi le elezioni cambiando sostanzialmente il metodo elettorale, si rileva agevolmente come lo scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale, quando avvenga su circoscrizioni assai vaste, e tanto più quanto le circoscrizioni stesse sono più vaste metta in valore quei partiti che hanno una diffusa ma non intensa rappresentanza [...] mentre attenua di fronte allo scrutinio uninominale, il successo di partiti aventi diffusione intensa se pure parziale f...]”35.

    Ora possiamo certamente rilevare qui quanto i due partiti di massa — il Ppi e il Psi — possedessero nel 1919 e nel 1921 po- prio una “diffusione intensa seppure parzia

    le” che trovava nelle aree del Centro-nord del paese consensi maggioritari quasi ovunque36. Si può dunque dedurre (come vedremo in dettaglio più avanti) quanto il successo di questi due partiti nelle circoscrizioni dove erano fortemente radicati fu attenuato dall’introduzione della proporzionale e proprio quanto, per la mancata diffusione nell’elettorato del Centro-sud del Ppi e del Psi, i liberali uscirono dalla consultazione elet- trale con meno perdite di quante ne avrebbero avute con l’antico sistema. Si sottolinea così che quello che si perdeva da una parte non si guadagnava dall’altra per effetto della proporzionale, proprio perché sia il Psi che il Ppi non godevano di “una diffusa ma non intensa rappresentanza” in tutto il paese, ma di una intensa e circoscritta rappresentanza nel corpo elettorale del Centro- nord. Essi, nelle elezioni del 1919, avrebbero dunque conseguito un numero di deputati ancora maggiore con lo scrutinio maggioritario, di lista o uninominale, che con la proporzionale, cancellando i liberali da quasi tutte le circoscrizioni del Centro-nord senza incorrere in gravi perdite nel Sud e nelle isole dove, comunque, non erano molto presenti nell’elettorato.

    Giusti sottolineava — anticipando molti dei giudizi della moderna scienza politica — come, più del sistema elettorale che poteva solo correggere, ampliando o moderando, un successo, fosse la forza dei partiti e il loro tipo di diffusione sul territorio a decidere del successo elettorale nel caso di circoscrizioni assai grandi come quelle delle elezioni del 1919 ulteriormente estese nel 1921. “Appare chiaro [...] come l’applicazione del nuovo si-

    34 U. Giusti, Le correnti politiche in Italia, cit., p. 41.35 U. Giusti, Le correnti politiche in Italia, cit., p. 41.36 Per i risultati della sinistra si rimanda al saggio di A. Mastropaolo Elezioni, in Fabio Levi, Umberto Levra, Nicola Tranfaglia (a cura di), Il mondo contemporaneo. Storia d ’Italia, Firenze, La Nuova Italia, 1978, vol. I, pp. 255-280, qui p. 272, tav. 8. Per quanto riguarda invece il risultato del Ppi si veda, di E. Caranti, Il partito popolare nelle elezioni dell’altro dopoguerra, “Civitas” , 1956, n. 9-10, pp. 48-64, e di Gabriele De Rosa II partito popolare italiano, Roma-Bari, Laterza, 1972, pp. 31-35.

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    stema elettorale non abbia portato per opera propria a una situazione politica diversa da quella che usciva dalle reali condizioni dei partiti al momento delle elezioni, conseguendo soltanto l’effetto di moderare nei risultati numerici la prevalenza o la preponderanza dei partiti vincitori.”37.

    Seguendo queste indicazioni possiamo aggiungere che la proporzionale moderò il successo del Psi e del Ppi nel 1919 costruendo un baluardo in difesa dei liberali nel Centro-nord e mantenendo le loro posizioni di potere nel Centro-sud senza tuttavia mutare i termini politici della crisi del dopoguerra.

    Vogliamo adesso costruire una nostra ipotesi di calcolo comparato dei risultati delle elezioni del 1919 con il mantenimento dello scrutinio maggioritario, rendendolo compatibile con il tipo di lotta politica condotta nel 1919, basata essenzialmente sulla concorrenza delle liste e non sulle singole personalità, malgrado la possibilità di un massimo di quattro voti di preferenza o di aggiunta a secondo dell’entità delle circo- scrizioni e del numero dei deputati da eleggere.

    Abbiamo dunque modificato, con lo scopo di meglio aderire alla realtà del 1919, la legge del 1912, immaginando uno scrutinio maggioritario di liste concorrenti nei collegi del 1919 e mantenendo tutte le altre particolarità della legge del 1912, a cominciare dai due turni. Non abbiamo tentato una ricostruzione simile a quella del Giusti per tutto il Regno. Tale ricostruzione di come si sa

    rebbero svolte le elezioni del 1919 all’interno dei vecchi collegi uninominali sarebbe stata un’impresa troppo ardua non disponendo, al momento di redigere questo articolo, come Giusti per Firenze, dei dati delle sezioni per comune sulla base della geografia elettorale dei collegi uninominali ancora utilizzati nel 19 1 338. I risultati comunque non si sarebbero modificati sensibilmente nel loro significato generale, come d’altronde proprio lo studio di Giusti su Firenze dimostra chiaramente.

    Ci siamo inoltre ispirati in parte — come già anticipato nell’introduzione — a stimoli provenienti dalla scienza politica, seppure con la “naïveté” dello storico di fronte allo scienziato della politica in contatto continuo con questi metodi. Occorre dunque insistere sempre sulla cautela con la quale bisogna procedere sulla strada delle simulazioni elettorali: “possiamo analizzare solo l’effetto meccanico dell’introduzione del sistema maggioritario e non l’effetto psicologico” scrive Gianfranco Pasquino39.

    Proprio uno studio di Pasquino a proposito delle elezioni del 3 giugno 1979 in Italia ci è servito da modello di riferimento, presentando, nelle ingegnerie elettorali confrontate, condizioni analoghe a quelle del primo dopoguerra. Pasquino intendeva dimostrare come si sarebbero svolte le elezioni del 1979 se, invece della proporzionale con scrutinio di lista, ci fosse stata una legge elettorale politica basata sullo scrutinio maggioritario di lista a doppio turno40.

    37 U. Giusti, Le correnti politiche in Italia, cit., p. 41.38 Abbiamo esaminato la stampa locale per Firenze (“La Nazione”) e per Bologna (“11 Resto del Carlino della Sera”) per il periodo delle elezioni, novembre 1919, senza mai riscontrare la presenza di dati elettorali coerenti e sistematici, forniti a livello di sezioni elettorali. Per quanto riguarda la ricerca dei verbali delle sezioni elettorali che davano i risultati delle sezioni si rimanda all’intervento di Antonio Agosta sull’Archiviazione e la reperibilità delle fon ti dei dati elettorali dall’Unità ad oggi durante il convegno di Firenze del 30 e 31 ottobre 1987, intitolato “Per un atlante elettorale italiano. Problemi di storia e geografia elettorale”.39 Gianfranco Pasquino, Suggerimenti critici agli ingegneri elettorali, “Il Mulino”, 1979, n. 267, pp. 749-780, qui p. 767.40 G. Pasquino, Suggerimenti critici, cit.; sulla simulazione si vedano le pagine 767-771.

  • La ‘proporzionale’ 1918-1919 43

    Pasquino utilizza i dati della votazione per il Senato. Al primo turno vengono eletti i candidati o le liste che superano il 50 per cento dei suffragi validi espressi e, al secondo turno, tra i due candidati rimasti, quelli che ottengano la maggioranza semplice dei suffragi validi espressi. Pasquino accetta anche, nella sua ipotesi, che i partiti che superano il 45 per cento dei voti validi espressi al primo turno ottengano “quasi automatica- mente l’elezione del loro candidato al secondo turno”. Egli nota poi da un punto di vista generale che “le conseguenze dell’introduzione del sistema maggioritario a doppio turno non possono in alcun modo essere previste se non si dispone di due elementi conoscitivi essenziali: il ritaglio delle circoscrizioni e gli orientamenti dei partiti per quel che riguarda gli apparentamenti”41.

    Rileviamo subito che, con l’ipotesi dell’introduzione di un simile sistema nel 1919, optiamo tuttavia per un sistema maggioritario di liste concorrenti e a due turni nelle nuove circoscrizioni del 1919, che furono provvisoriamente definite prima delle elezioni del novembre sulla base di raggruppamenti degli antichi collegi uninominali. Per quanto riguarda invece eventuali trasferimenti di voti al secondo turno, non potendo sapere quali sarebbero state in ogni collegio le decisioni dei partiti o dei candidati nei confronti degli apparentamenti eventuali, né potendosi basare su una riconduzione automatica di accordi come quelli del patto Gentiioni, abbiamo scelto le ipotesi più verosimili, tenuto il dovuto conto della situazione politica del 1919.

    Piuttosto che utilizzare una simulazione sulla base di uno scrutinio maggioritario di

    lista a due turni, sarebbe stato forse interessante confrontarsi con una simulazione dell’applicazione del modello ideale di sistema elettorale che Giuseppe Maranini pensava come unico rimedio per ovviare allo sviluppo “pseudoparlamentare” dell’Italia liberale: “un sistema maggioritario ad un turno e maggioranze relative di tipo britannico,” il famoso “first-past-the-post”42.

    Una tale simulazione, come abbiamo già rilevato, non si può tuttavia legittimamente adattare alle condizioni politiche del 1919, dove si sarebbe trasformata in una riforma istituzionale improponibile. Invece, tale sistema introdotto nell’Ottocento o prima dell’allargamento del suffragio, sarebbe stato certamente pensabile ed auspicabile43. Con l’introduzione del suffragio universale in due tempi, tra il 1912 e il 1918, e con il riconoscimento del diritto alla partecipazione politica delle grandi masse, inevitabile già dopo la guerra di Libia, non si poteva pensare di adottare un sistema che urtava con gli interessi dei partiti che controllavano in parte tali masse e che, dopo l’esperienza trasformistica del patto Gentiioni, si volevano ora coinvolgere a pieno titolo nell’arco dei partiti costituzionali e di governo. Questi motivi, che permeano tutto il dibattito sulla nuova legge politica e che sono desunti dalle reali condizioni del dopoguerra in Italia, rendono l’introduzione, nel 1919, di uno scrutinio che si potrebbe chiamare “maraniniano” solo un’ipotesi teorica. Le uniche simulazioni possibili, vale a dire compatibili con il particolare momento storico, sono quelle che ipotizzano il mantenimento del vecchio sistema almeno per le prime elezioni dopo la guerra, come avrebbe forse voluto Orlando.

    41 G. Pasquino, Suggerimenti critici, cit., p. 768.42 Sul sistema britannico in prospettiva storica si veda di Andrew McLaren Carstairs, A short history o f electoral systems in Western Europe, London, Allen & Unwin, 1980, pp. 189-200. Si veda anche di Eugenio Biagini Partiti, lotta politica ed elezioni in Inghilterra, 1830-1886: elementi d ’analisi e spunti bibliografici, “Critica storica” , 1987, n. 3, pp. 453-507.43 È questo anche il parere di C. Ghisalberti nel suo Le istituzioni politiche, cit., p. 123.

  • 44 Serge Noiret

    Per suffragare maggiormente l’impossibilità di ricorrere ad una simulazione sulle basi ideali di Maranini, bisogna insistere sul ruolo decisivo che ebbe, nel rapporto tra sistema politico e sistema elettorale, la fondazione del Partito popolare. Nel 1913, infatti, gli accordi Gentiioni non furono graditi da chi, come don Sturzo, voleva ottenere una vera rappresentanza politica per un partito cattolico e non fornire soltanto un serbatoio di voti cattolici per candidati del ministero. Sturzo era rimasto profondamente avverso all’ennesima operazione trasformistica gio- littiana del 191344. Il giovane partito di don Sturzo, Filippo Meda e Guido Miglioli intendeva confrontarsi, per la prima volta, con il nuovo corpo elettorale ed ottenere quanto i calcoli imprecisi dei risultati effettivi del patto Gentiioni non avevano potuto dare, vale a dire una misura della reale importanza delle forze cattoliche nella società. Eventuali alleanze con i liberali a livello nazionale erano molto azzardate, vista la mancanza di un interlocutore nazionale, di un vero partito liberale. Tali intese potevano soltanto maturare in seguito, nell’intervallo tra i due turni, nei collegi dove la maggioranza assoluta non fosse stata raggiunta al primo turno.

    Un’alleanza di ferro tra un partito cattolico già strutturato — non era così — e un partito liberale — che non esisteva —, con il mantenimento del vecchio sistema elettorale avrebbe spazzato via i socialisti da tutti i collegi dove non avessero raggiunto la maggioranza assoluta al primo turno. Questa ipotesi non è tuttavia da prendere in considerazione anche perché, se fosse esistita una tale volontà politica anche con l’introduzione

    della proporzionale, la stessa alleanza avrebbe dato governi stabili e forti al paese. In quel caso non si sarebbero nemmeno dovute mantenere ingegnerie elettorali che sottorappresentavano le minoranze, in questo caso i socialisti massimalisti.

    Abbiamo dunque preso in considerazione tre ipotesi, delle quali le prime due ci sembrano le più aderenti al quadro politico generale. Esse tengono dovuto conto della polarizzazione del sistema politico — socialisti, cattolici e liberali - nell’ambiente del pluralismo partitico del dopoguerra. Pensare in termini dualistici o addirittura bipartitici il primo dopoguerra, vale a dire immaginare una ingegneria elettorale che isolasse il Psi facendo dei poli liberali e cattolici gli arbitri del sistema, avrebbe sottovalutato sia il ruolo fondamentale giuocato dal Psi, anche massimalista, nella società civile, sia la necessità che spingeva da due decenni i liberali ad avviare una collaborazione di governo con l’ala riformista del Psi. Era poi necessario tenere anche conto della frantumazione della società civile e della molteplicità di interessi economici e sociali in conflitto nell’immediato dopoguerra, definito da Charles S. Maier all’insegna del corporatismo45. Per parte sua un eventuale “polo liberale” avrebbe dovuto tenere conto di queste istanze corporatiste, visto che addirittura si pensava di dare maggior forza rappresentativa all’espressione di interessi di classe e/o economici anche nella Camera e nel Senato46. Solo un sistema proporzionale poteva riflettere tali interessi corporatisti o, in parte, un sistema maggioritario a doppio turno sulla base della legge del 1912, come dimostrano diversi studi ormai classici nell’ambi-

    44 Sulle posizioni di Sturzo, profondamente contrario ai blocchi clerico-moderati, si veda G. De Rosa, La crisi dello Stato liberale in Italia, Roma, Studium, 1964, pp. 47-77 e dello stesso autore Luigi Sturzo, Torino, Utet, 1977.45 Charles S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia, Germania e Italia nei decennio successivo alla prima guerra mondiale, Bari, De Donato, 1979.46 Gaspare Ambrosini, Sindacati, consigli tecnici e Parlamento politico, Roma, Associazione Romana Editoriale, 1925.

  • La ‘proporzionale’ 1918-1919 45

    to della scienza politica sul rapporto tra legge elettorale e numero dei partiti47.

    Nelle nostre simulazioni abbiamo dunque tenuto presente questa frantumazione della società italiana e delle realtà del sistema politico-partitico: solo il mantenimento dello scrutinio maggioritario di lista a due turni si sarebbe rivelata un’ipotesi praticabile. Immaginiamo due possibili scenari della sua applicazione al 1919: uno meno sfavorevole al Psi che, dei due partiti di massa, era quello che si contrapponeva frontalmente al sistema liberale e alle conseguenze dell’intervento e della guerra, e un altro scenario più sfavorevole al Psi.

    Abbiamo nonostante tutto costruito una terza simulazione che dia alla scelta del sistema elettorale, nel 1919, un peso che in realtà non possedeva, una simulazione dunque poco consona alle condizioni del sistema politico, per tentare di dimostrare per assurdo come anche i risultati che vedremo, premiando i liberali oltre ogni misura, non avrebbero cambiato il nodo essenzialmente politico della crisi del sistema. Per questa ipotesi abbiamo artificialmente cancellato ogni residua differenza tra interventisti e neutralisti in campo costituzionale in modo da immaginare che, alla pari del Psi e del Ppi, i liberali avessero creato prima delle elezioni un partito politico nazionale.

    In tutte e tre le ipotesi la variabile indipendente è quella di un Psi quasi sempre isola

    to, che poteva contare quasi unicamente — al secondo turno — su un elettorato proprio, senza flussi di voti nuovi provenienti da elettori di altri partiti al primo turno48. L’elettorato del Psi era molto strutturato e organizzato dalle reti politiche, le sezioni e le federazioni, e dalle leghe di resistenza ed era convinto in partenza di dare un voto “contro la guerra” . Il resto del corpo elettorale era poco mobile in favore dello stesso Psi, come d’altronde il programma apertamente rivoluzionario di questo partito nonché, ad elezioni avvenute, le percentuali irrisorie di voti di “panachage” che realmente ottennero i suoi candidati — sia nel 1919 che nel 1921 — dimostrano con sufficiente chiarezza49.

    Per quanto riguarda l’altro grande partito di massa del 1919 — il Ppi — a parte le considerazioni già svolte, abbiamo ipotizzato una maggiore mobilità dell’elettorato di centro destra al secondo turno verso le sue liste. Sulla scia degli accordi del 1913 e della collaborazione di Filippo Meda al governo Bosel- li nel 1916, il primo ministero Nitti contava già sulla collaborazione di due ministri cattolici. Questo partito si poteva dunque considerare “ministeriabile” e comunque integrato nell’arco dei partiti costituzionali malgrado grosse tensioni interne e con la Santa sede. Non si poteva dunque prescindere da possibili alleanze tra popolari e costituzionali dopo il primo turno.

    47 Maurice Duverger, I partiti politici, Milano, Comunità, 1961; D. Fisichella, Elezioni e democrazia, cit., pp. 181-193.48 L’analisi dei flussi elettorali si fa tradizionalmente con una buona dose di “buon senso” o di riflessione politica o sulla base di ricerche empiriche e quantitative comparate (si veda per esempio il saggio di Annie Laurent, che mette in relazioni i risultati delle elezioni legislative francesi del 16 maggio 1986 con i risultati delle elezioni regionali nelle circoscrizioni del Nord-Pas-de-Calais nel suo Le nomadisme électoral, “Revue française de Science politique”, 1987, n. 1, pp. 5-20.) Esiste tuttavia un modo “scientifico” di procedere che rifiuta le teorie basate sul “buon senso”. Tale metodo sembra impossibile da applicare nelle analisi storiche per la difficoltà o addirittura l’irreperibilità di “dati al più basso livello di aggregazione disponibile (sezioni elettorali)” (p. 440): si veda di Stefano Draghi l’applicazione del modello di Goodman nel suo L ’analisi dei flussi elettorali tra metodo scientifico e dibattito politico, “Rivista italiana di scienza politica”, 1987, n. 3, pp. 433-455 e, di più immediata comprensione, dello stesso autore La lunga marcia dell’elettorato italiano. Il modello dei flussi per capire il voto, “Politica ed economia”, 1987, n. 9, pp. 23-25.49 Si veda il nostro II Psi e le elezioni, cit.

  • 46 Serge Noiret

    Le liste costituzionali e liberali sono quelle che, a nostro parere, e sempre tenendo conto della particolare situazione storica del primo dopoguerra, avrebbero visto confluire su di sé un maggior trasferimento di voti nel caso di un ipotetico secondo turno. È per questo motivo che abbiamo ritenuto legittimo privilegiare, al secondo turno, i candidati liberali arrivati sia primi che secondi al primo turno, come se fossero state liste di un unico partito (Cost) già dal primo turno. Per rendere ancora, e in modo forzato, più consistente l’area costituzionale, non si sono mai dissociati i socialisti riformisti o i radicali da questo “polo liberale”. Abbiamo soltanto considerato i repubblicani a parte, come quarto partito interventista e arroccato sul rifiuto di ogni patteggiamento con candidati neutralisti.

    Prima di passare all’analisi dei dati, bisogna nuovamente rammentare le dovute cautele in materia di simulazioni elettorali ancora recentemente ricordate nel dibattito politico dal senatore Ruffilli, autore di un progetto di riforma elettorale per conto della De50. “Le simulazioni — a parere di Ruffilli — non possono tener conto dei mutamenti di comportamento degli elettori davanti a un nuovo sistema elettorale.”51. L’introduzione di un particolare sistema elettorale esercita certamente i suoi particolari effetti psicologici sul comportamento degli elettori, ma soprattutto sul modo con il quale partiti e candidati si propongono di affrontare la campagna elettorale. (Ci basta sottolineare che abbiamo avuto l’occasione di studiare il modo con il quale la Direzione di un partito centralizzato come il Psi affrontò le elezioni del 1919 imponendo le liste bloccate con una proporzionale interna alla lista stessa tra i

    suoi candidati, in modo da rispettare l’equilibrio delle forze tra massimalisti e riformisti in un determinato collegio sulla base dei risultati politici del XVI congresso dell’ottobre 1919).

    Le tre ipotesi di simulazione

    Sintetizziamo ora la nostra ipotesi di come si sarebbero svolte le elezioni del 1919 se si fosse utilizzata la legge elettorale politica del 1912.

    Considerazioni comuni alle tre ipotesi.

    1. Si utilizza come sistema elettorale lo scrutinio maggioritario di lista a due turni sulla base della legge elettorale politica del 1912 applicata ai collegi definiti dalla nuova legge del 1919 con un semplice raggruppamento di quelli del 1913.2. Le variabili indipendenti sono: i risultati elettorali del 16 novembre 1919, la geografia dei collegi e lo scrutinio di lista con la nuova legge elettorale politica del 191952.

    Ipotesi A (relativamente più favorevole al Psi).

    a. Tutte le liste non esplicitamente del Ppi, del Psi o del Pri che non siano liste scissionistiche di questi tre partiti, sono raggruppate arbitrariamente per semplificare il calcolo dei risultati, sotto la denominazione di Partito costituzionale (Cost).b. I collegi dove il Ppi, il Psi o il partito Cost ottennero più del 45 per cento dei voti di lista validi, durante la votazione del 16 novembre 1919, sono attribuiti alla lista di

    50 Roberto Ruffilli (a cura di), Materiali per la riforma elettorale, Bologna, Il Mulino, 1987.51 R. Ruffilli, Elezioni: cambiando il sistema si cambia l ’Italia, “Corriere della Sera”, 16 gennaio 1988.5~ I dati dei voti validi sono stati ripresi dalla statistica del ministero per l’Industria, il commercio ed il lavoro, Ufficio centrale di statistica, Statistica delle elezioni generali politiche per la X X V legislatura, 16 novembre 1919, Roma, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra, 1920.

  • La ‘proporzionale’ 1918-1919 47

    maggioranza relativa prima del secondo turno o ballottaggio.

    c. Durante il secondo turno, fittizzi trasferimenti di voti validi si sono fatti soltanto tenendo conto delle seguenti direzioni:

    se il Psi e il Ppi sono i due partiti vincenti dopo il primo turno, gli altri voti Cost si trasferiscono automaticamente sulla lista del Ppi durante il secondo turno eccezione fatta del caso menzionato in (b) e dei due collegi seguenti: Ancona-Pesaro, 9 deputati da eleggere e Genova-Porto Maurizio, 17 deputati da eleggere (due collegi dove il frazionamento delle liste degli altri partiti rende il trasferimento di voti sul Psi al secondo turno minimo per assicurare ad esso la vittoria sul Ppi in entrambi i casi);

    se invece il secondo partito vincente dopo il Psi è il partito Cost, eventuali trasferimenti di voti validi nel secondo turno si operano dal Ppi verso il partito Cost in tutti i casi, eccezione fatta per quelli in cui il Psi ha ottenuto più del 45 per cento di voti validi al primo turno.d. Quando le due liste vincenti al primo turno sono entrambe del partito Cost, s’intende ovviamente che il collegio appartiene al partito Cost.

    e. Se il Ppi è il partito vincente al primo turno senza la maggioranza assoluta, il collegio è vinto dal Ppi solo se esso ha totalizzato più del 45 per cento dei voti o nel caso che il secondo partito sia il Psi e non superi il 45 per cento dei voti validi espressi. Nel caso che il Ppi fosse seguito dal partito Cost senza totalizzare più di 45 per cento dei voti, il collegio è attribuito al partito Cost al secondo turno.

    f. Se il partito Cost arriva primo al primo turno esso vince il collegio in tutti i casi, anche se si dovesse ricorrere al secondo turno sia con il Ppi sia con il Psi. Se il partito Cost arriva secondo al primo turno perde il collegio al secondo turno solo quando Ppi o Psi,

    arrivati primi, totalizzano più del 45 per cento dei voti validi espressi alla prima votazione.g. Le circoscrizioni elettorali sono 54 e i deputati da eleggere sono 508, corrispondendo ai 508 collegi uninominali del 1912.

    Ipotesi B (la più sfavorevole al Psi).

    Sono valide tutte le regole enunciate nella ipotesi A, ad eccezione del caso di un collegio che veda il Psi come primo partito con più del 45 per cento dei voti validi al primo turno, nonché nel caso dei collegi di Ancona-Pesaro e di Genova-Porto Maurizio. Nel ballottaggio vince sempre il partito arrivato secondo, il Ppi, il partito Cost o il Pri. Si ottiene così una elezione nella quale i socialisti vincono soltanto quando essi totalizzano più del 50 per cento dei voti validi espressi alla prima votazione, così da escludere il ballottaggio.

    Ipotesi C (modello ideale per il Partito liberale (Cost)).

    Questa ipotesi, l’abbiamo già rilevato, non possiede nessuna vera aderenza alle reali condizioni politiche del 1919. Presuppone un vero patto di ferro, un Blocco nazionale di tutte le forze liberali e moderate indipendentemente dal loro schieramento prima della guerra mondiale tra “neutralisti” ed “interventisti”, nonché una risoluzione positiva delle divisioni estreme che percorrevano la maggioranza liberale della XXIV legislatura. In questo caso sarebbe esistito un partito liberale organizzato, moderno e strutturato su scala nazionale alla pari del Psi, partito che avrebbe potuto di per sé influire sul processo elettorale.

    Abbiamo considerato, ferme restando tutte le altre condizioni della nostra ipotesi A, che i liberali formino una lista unica in ogni collegio già dal primo turno. Queste liste Cost comprendono, ai fini della nostra si-

  • 48 Serge Noiret

    mulazione, tutte le liste che hanno ottenuto voti alle elezioni del 16 novembre e che non sono ovviamente del Pri, del Psi o del Ppi.

    Rileviamo subito un cambiamento in solo otto collegi, tutti del Centro-nord. Tre collegi vedono i liberali superare i socialisti dopo il primo turno e contendersi il secondo turno con il Ppi, che perde il collegio in tutti i casi eccezion fatta per il collegio di Brescia, il risultato del quale non cambia nei confronti della nostra ipotesi A.

    Sette collegi vedono dunque i liberali spuntare la rappresentanza con la ipotesi C:

    — a scapito dei socialisti nel collegio di Genova-Porto Maurizio (Psi, —17)— a scapito dei cattolici nei collegi seguenti: Cuneo, Roma, Udine-Belluno, Treviso, Venezia e Vicenza (Ppi, —45)

    Questa conquista di 62 seggi da parte delle liste Cost sulla base dei risultati di una votazione con le condizioni della nostra ipotesi A, ma con un blocco di tutte le liste non appartenente al Pri, Ppi o Psi in partenza, sarebbe stata decisiva per ottenere una maggioranza stabile di governo ma soltanto con il secondo turno. La conquista dei collegi dipendeva dunque da questioni squisitamente politiche: la nascita o meno di un vero partito liberale adatto a confrontarsi con il nuovo modo di fare politica dopo l’introduzione del suffragio universale e di integrare nuove istanze sociali e nuove masse. Questo “cavaliere inesistente” — per dirla con Giorgio Galli —, non aveva posto nel contesto storico del 1919 a causa della frammentazione dell’arco costituzionale dopo la caduta del governo Orlando e della permanenza di una mentalità legata, nel campo liberale, al vecchio notabilato. In presenza tuttavia di tali ipotetiche condizioni politiche, un sistema elettorale maggioritario a due turni avrebbe avuto come effetto di rafforzare una maggioranza parlamentare liberale già anticipata prima delle elezioni con una sola ma decisi

    va condizione: un accordo al secondo turno con i cattolici. In presenza di una tale volontà politica e di un moderno partito liberale si sarebbe ottenuto lo stesso effetto sull’esecutivo che con la proporzionale anche se, ovviamente, non lo stesso numero di seggi.

    Questa ipotesi è però poco realistica a causa del secondo turno che, in tutti i collegi dove candidati “ministeriali” sarebbero stati eletti contro i socialisti, obbligava il candidato Cost a cercare i voti cattolici, ricalcando una situazione “gentiloniana” in presenza però, questa volta, di un forte ed organizzato partito cattolico poco disposto a tale mercanteggiamento.

    Rileviamo infine come, con una tale simulazione, il Ppi perda molto di più dei socialisti, che rimangono notevolmente stabili anche con questa simulazione.

    Risultati della simulazione

    Risultati della ipotesi A

    Con la ipotesi A (per i dati disaggregati della simulazione, vedi tab. 1), più favorevole al Psi, si ottiene il seguente risultato per le elezioni del novembre 1919 con la legge del 1912:

    1° turno (vince il partito che ottiene più del 50 per cento dei voti validi di lista espressi il 16 novembre 1919):Psi: 10 collegi per un totale di 126 deputati. Ppi: 1 solo collegio per un totale di 7 deputati.Cost: 3 collegi per un totale di 25 deputati.

    2° turno (vince tra i due partiti meglio piazzati al primo turno il partito che ottiene il miglior trasferimento di voti di altre liste sulle sue al secondo turno, ottenendo in questo caso il primo posto o la maggioranza relativa):Psi: 6 collegi per un totale di 56 deputati. Ppi: 11 collegi per un totale di 103 deputati.

  • La ‘proporzionale’ 1918-1919 49

    Cost: 23 collegi per un totale di 191 deputati.II risultato globale delle elezioni secondo la nostra ipotesi A sarebbe stato il seguente:

    Psi: 182 deputati pari al 35,89 per cento dei mandati.Ppi: 110 deputati pari al 21,65 per cento dei mandati.Cost.: 216 deputati pari al 42,51 per cento dei mandati.

    Risultati della ipotesi B.

    Con la ipotesi B, sfavorevole al Psi, si ottengono i seguenti risultati:

    1° turno: identico alla ipotesi A 2° turno:Psi: mantiene i 126 deputati ottenuti al primo turno della ipotesi A.Ppi: mantiene i risultati della ipotesi A (110 deputati) e conquista al secondo turno 4 collegi in più (38 deputati) per un totale di 148 deputati.Cost: mantiene i risultati della ipotesi A (216 deputati) e conquista al secondo turno 1 collegio (10 deputati in più) per un totale di 226 deputati.Pri: con la ipotesi B il partito repubblicano, rimasto senza rappresentanza con la prima ipotesi, conquista al secondo turno un collegio ai danni del Psi, il collegio di Ravenna- Forlì con un totale di 8 deputati.Il risultato globale della elezione del 1919 con la nostra ipotesi B sarebbe dunque stato il seguente:

    Psi: 126 deputati pari al 24,80 per cento dei mandati (— 11,09).Ppi: 148 deputati pari al 29,72 per cento dei mandati (+ 7,48).Cost: 226 deputati pari al 46,45 per cento dei mandati ( + 1,97).Pri: 8 deputati pari al 1,57 per cento dei mandati (+ 1,57).

    Risultati della ipotesi C.

    Con la ipotesi C, molto favorevole al Cost, si ottengono i seguenti risultati:

    1° turno: identico a quello della simulazione A in tutti i collegi meno 8: Brescia, Cuneo, Genova, Roma, Udine, Venezia, Treviso e Vicenza.

    2° turno: risultati calcolati sulla base della simulazione A:Cost = 216 + 62 = 278 rappresentanti, pari al 54,72 per cento della rappresentanza. Pri = 0 + 0 = 0Ppi = 110 — 45 = 65 rappresentanti, pari al 12,79% della rappresentanza.Psi = 182 — 17 = 165 rappresentanti, pari al 32,48 per cento della rappresentanza.

    La ripartizione della rappresentanza a Montecitorio risultante dalle tre simulazioni è visualizzata nei grafici 1 e 2. Il dato di maggiore rilievo che emerge da questi grafici appare il seguente: là dove un partito si avvantaggia al secondo turno si tratta spesso del Ppi e comunque quasi sempre del Ppi se al secondo turno i cattolici competono con i socialisti. I cattolici, anche se arrivati secondi al primo turno, riceverebbero ovviamente più volentieri i voti del partito Cost che quelli del Psi.

    Il dilemma del sistema politico italiano nel primo dopoguerra non era dunque assolutamente dipendente dal tipo di sistema elettorale ma dalle condizioni politiche, soprattutto dall’ipoteca che gravava sul sistema per la mancanza di un partito Cost strutturato e capace di definire anche prima del voto le sue intenzioni di governo e le sue capacità di dialogo con il Ppi che, anche in presenza delle ipotesi C, rimane decisivo per l’elezione dei candidati liberali al secondo turno.

  • 50 Serge Noiret

    Tabella dell’ipotetica governabilità.

    Esaminiamo quali sarebbero state le eventuali maggioranze di governo di Nitti con le nostre tre simulazioni.

    Ipotesi reale, 1919: Cost + Ppi = 242 + 100 = 342, maggioranza di 88 deputati. Ipotesi A: Cost + Ppi = 226 + 110 = 336, maggioranza di 82 deputati.Ipotesi B: Cost + Ppi = 226 + 148 = 374, maggioranza di 120 deputati.Ipotesi C: Cost = 278, maggioranza di 24 deputati.

    Le cifre presentate da questo ipotetico panorama della governabilità dopo le elezioni del 1919 sono solo indicative di tendenze. Devono essere lette con la dovuta cautela anche se danno informazioni sicuramente interessanti.

    Se la situazione politica non cambia nei suoi termini reali comparando la ipotesi A e B al risultato del 1919, bisogna rilevare tuttavia quanto sia determinante il peso del partito cattolico in una eventuale formula di governo con i liberali. Solo la ipotesi C, del tutto astratta, darebbe una risicata maggioranza ai soli liberali, molti dei quali non sarebbero stati eletti al secondo turno senza i voti cattolici. Il peso politico dei cattolici, già quantificato dall’ “Osservatore romano” dopo le elezioni del 1913 (i cattolici saranno stati determinanti nell’elezione di ben 228 deputati ministeriali) è determinante per la formazione di un governo stabile. I socialisti, al pari della situazione di esclusione del Pei dalle maggioranze di governo nel periodo repubblicano, non sono minimamente in grado, per il loro peso elettorale e parlamentare, di influire in modo decisivo sui destini di una maggioranza di governo tra liberali e cattolici. Il sistema politico del primo

    dopoguerra — leggendo le cifre, ma anche ricordando delle posizioni politiche dei massimalisti53 — esclude poi — in ogni caso — i socialisti dall’esecutivo, rendendoli periferici nei confronti del sistema stesso e anticipando, sotto questo profilo, il ruolo odierno del Pei.

    Con la simulazione A e soprattutto con quella B, ferma restando la costante ed irriducibile avversione massimalista al sistema — ed in questo caso una avanzata di una trentina di deputati (A) o una perdita di una trentina di deputati (B) non influisce sulla governabilità —, il partito Cost rimane maggiormente dipendente da un eventuale accordo con il Ppi.

    Conclusioni

    Ci sembra dunque che i dati delle elezioni del 16 novembre 1919, grazie a queste tre simulazioni, aiutino a risolvere il nodo politico e istituzionale della crisi dello stato liberale.

    L’effetto ingegneristico imputato al sistema elettorale del 1919 va ridimensionato a fattore di spiegazione della crisi dello stato liberale: se si poteva parlare, per l’introduzione della proporzionale nel 1919, di un effetto psicologico necessario e desiderato dai liberali più progressisti per agire indirettamente sulle masse controllate dal Ppi e dal Psi e su questi due partiti, si deve tuttavia concludere che questa stessa legge elettorale ebbe un’ “operatività” assai neutra nei confronti del sistema politico-partitico. Non si può certamente affermare la stessa cosa p