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Riflessi On Line - Bimestrale di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 65 del 20/01/2015 Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 0 Edizione nr. 65 del 20/02/2015 Iscrizione presso il Tribunale di Padova n. 2187 del 17/08/2009 www.riflessionline.it

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Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 0

Edizione nr. 65 del 20/02/2015

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I N D I C E

DALLE GUERRE BALCANICHE ALL’ASSASSINIO DEL GRAN DUCARODOLFO… I PRODROMI DELLA GRANDE GUERRA

pag. 2

Luigi la Gloria

OGM, QUESTI SCONOSCIUTI pag. 07

Anna Valerio

QUANDO SATANA PERSE IL PARADISO pag. 15

Piera Melone

JE SUIS AHMED, LE POLICIER pag. 18

Michele Dressadore

DISCORSO SUI DISCORSI SUL CLIMA pag. 21

Antonio Bianchini

IL PIANO MARSHALL, L’EUROPA E LA GUERRA FREDDA pag. 24

Gianfranco Coccia

L’INGHILTERRA VITTORIANA E LA RIVOLUZIONE DEL DISEGNOINDUSTRIALE pag. 30

Alice Fasano

LA MORTE AD URUK pag. 34

Umberto Simone

TU LA CONOSCI CLAUDIA? LA SOCIALITÀ NELL’ERA DI FACEBOOK pag. 39

Valeria Giaretta

GRISHA BRUSKIN. ALEFBET. ALFABETO DELLA MEMORIA pag. 43

A OCCHI SPALANCATI. CAPOLAVORI DAL MUSEO DELL’IMPRESSIONISMORUSSO DI MOSCA

pag. 46

L’ARTE PER L’ARTE. IL CASTELLO ESTENSE OSPITA BOLDINI E DE PISIS pag. 49

TUTANKHAMON CARAVAGGIO VAN GOGH. LA SERA E I NOTTURNI DAGLIEGIZI AL NOVECENTO

pag. 51

IL DEMONE DELLA MODERNITÀ. PITTORI VISIONARI ALL'ALBA DEL SECOLOBREVE

pag. 54

Direttore ResponsabileLuigi la Gloria

[email protected]

Vice DirettoreAnna Valerio

[email protected]

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Grafica e ImpaginazioneClaudio Gori

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D A L L E G U E R R E B A L C A N I C H E A L L ’ A S S A S S I N I O D E LG R A N D U C A R O D O L F O …

I P R O D R O M I D E L L A G R A N D E G U E R R ALuigi la Gloria

Il 23 maggio del 1915 l’Italia dichiara guerraall’Austria-Ungheria schierandosi a fiancodell’Intesa. Questo primo gigantesco conflitto nonsolo causa la morte di oltre dieci milioni di personee la caduta degli imperi centrali, ridisegnando cosìla geografia dell'Europa, ma si rivelerà alla storiacome un evento ancor più funesto poiché getterà ilseme per la nascita delle dittature nazi-fasciste chea loro volta saranno responsabili di un ancor piùluttuoso e distruttivo conflitto mondiale.

Nell’immediato suo dopo guerra, coloro cheavevano combattuto nelle trincee, memori degli orrori e delle stragi vissute, annunciarono almondo che non avrebbero acconsentito che si verificasse un’altra tragedia simile. La GrandeGuerra sarebbe rimasta nella memoria dell’umanità come un atto di barbarie che non dovevamai più ripetersi.

Ma quel conflitto, che coinvolse mezzo mondo, non si era generato certo da causeimponderabili come ipotizzato da alcuni storici. Il secolo della nuova modernità sorgeva giàsotto un cielo denso di nubi minacciose, foriere di eventi sinistri che giungeranno al suoapogeo dopo essere passate attraverso le due Guerre dei Balcani.

Visitando i cimiteri di Serbia, Grecia, Bulgaria e Albania, sulle lapidi dei soldati si legge: cadutisul campo dell’onore. Uomini sacrificati in una successione di eventi che la storiografia europeasolitamente tiene separati dalle guerre balcaniche del 1912-1913.

Questi conflitti così localizzati non sarebbe esatto considerarli esclusivamente espressionedello scontro degli imperialismi europei; le guerre balcaniche furono piuttosto facilitate eincoraggiate dai forti antagonismi delle potenze, più precisamente dalle rivalità fra la TripliceAlleanza e la Triplice Intesa.

La crisi provocata nel 1908 dall’annessione della Bosnia Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria, aveva messo fine al quel tacito accordo di non aggressione che dal 1886/7 era in attotra San Pietroburgo e Vienna.

Isvolski, ministro degli esteri dello zar, e il suo successore Sazanov non dimenticaronol’affronto di quella proditoria annessione, tanto più che colpiva la Russia, già umiliata dalladisfatta da parte del Giappone e indebolita dai moti rivoluzionari del 1905.

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Le controversie balcaniche fornivano dunque all’impero degli zar possibilità di rivincita senzache si rendesse necessario affrontare le Potenze della Triplice Alleanza. E’ proprio sotto l’egidadi San Pietroburgo che gli stati balcanici tentarono dapprima timidi avvicinamenti, poialleanze, per giungere infine a una spartizione dell’eredità ottomana in Europa.

La rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908 era sfociata in una crisi di intolleranza nazionalisticache risvegliò tutti gli altri nazionalismi. Il Comitato dell'Unione e Progresso turco si presentavacome una forza di rinnovamento del vecchio impero ottomano e questo mise fortemente inallarme le Potenze europee. Infatti, lo stesso anno, davanti alla Duma, il ministro russo Isvolski

ventilò la costituzione di un bloccobalcanico.

I Serbi e i Bulgari procedettero areciproci sondaggi mentre la guerraitalo - turca incoraggiò tutti gli altripotenziali eredi a dividersi ciò che delterritorio balcanico restava ancora sottoil dominio della Porta. Nel 1912 tuttiquesti piani segreti giunsero aconcretizzarsi.

Tra Belgrado e Sofia le discussionifurono lunghe e difficili e si conclusero,nel marzo 1912, con un’alleanza militaredifensiva nel caso di aggressione daparte dell’Austria-Ungheria o dellaTurchia tuttavia, in un documentosegreto, si precisavano le modalità diuna spartizione della Macedonia e delleregioni vicine. Il Kossovo e la regione diNovi Pazar, sarebbero tornate allaSerbia mentre i territori ad est del

Rodope e la vallata della Struma sarebbero state date alla Bulgaria.

Due mesi dopo era Atene che siglava un analogo accordo con Sofia, nettamente in chiaveantiottomana ma senza alcun cenno a clausole territoriali, aspirando ambedue al possesso diTessalonica. In ottobre, il Montenegro firmava con Serbia e Bulgaria accordi di interventomilitare in caso di ostilità con Istanbul.

L’insieme di questi atti diplomatici viene definito come la Seconda Lega Balcanica, con unrichiamo alla prima degli anni 1865-68, soffocata sul nascere dall’assassinio a Belgrado delprincipe Mihailo.

Naturalmente Istanbul, così come le altre capitali europee, era al corrente del contenutosostanziale di queste trame, ma era paralizzata da sommovimenti nella sua politica interna edalla crisi dell’esercito, esposto agli attacchi italiani in Libia e all’insurrezione albanese.

Quanto alle Potenze Occidentali, esse erano profondamente divise sulla possibilità diun’esplosione nazionalistica che, a ragione, definivano la polveriera balcanica, mentre Russia eImperi Centrali incoraggiavano gli stati slavi anziché frenarli.

Pur tuttavia gli stati balcanici decisero in totale autonomia.

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Il 30 settembre 1912 si mobilitarono e richiesero, con unultimatum, importanti riforme amministrative in Macedonia.Non avendo Istanbul dato alcun cenno di risposta, l’8 ottobre ilMontenegro invase l’Albania del nord. La settimana seguentela Porta, dopo aver invitato gli ambasciatori di Serbia eBulgaria a lasciare le loro sedi, il 18 ottobre dichiarava lo statodi guerra. Contestualmente la Grecia, in nome dell’Enosis diCreta, si univa agli alleati. Le grandi Potenze inviarono sulcampo i loro esperti per osservare le manovre dal vivo con laconvinzione di una rapida vittoria delle forze turche, armatecon i nuovissimi fucili Mauser e con i cannoni Krupp, eorganizzate dai generali tedeschi von Molke e von Goltz. Magli eserciti della coalizione balcanica disponevano di unnumero maggiore di uomini, giacché la Porta doveva

sorvegliare sul Caucaso le frontiere con la Russia nonchè le popolazioni arabe da tempo inagitazione. Inoltre i soldati cristiani, che si battevano per obiettivi nazionalistici, si rivelaronocombattenti migliori, più mobili e determinati. La campagna dei bulgari fu la più brillante. Leprincipali forze ottomane si erano concentrate in Tracia quindi Ferdinando I, re di Bulgaria,lanciò su di esse i suoi eserciti, che strinsero d’assedio Edirne e, vittoriosi a Lüleburgaz e a BunaHissar, furono fermati solo dalle linee fortificate di Catalca, a soli cinquanta chilometri daIstanbul. Una seconda offensiva in direzione del mar Egeo li portò fino alla Struma e un lorobattaglione entrò in Tessalonica, ma questo accadde ventiquattrore dopo le truppe Greche.Infatti l’esercito di re Giorgio, provenendo da sud, aveva occupato Prevenza, sul golfo di Arta,impossessandosi di Tessalonica già l’8 novembre.

Il nuovo Gran Visir Kâmil Pacha, ritenuto un anglofilo, si rivolse a Londra per chiedere unamediazione e ottenne la firma di un armistizio turco-bulgaro sulla linea di Catalca e unariunione nella capitale britannica di tutti i belligeranti. Ma le richieste degli stati cristianifurono tali che l’accordo non si realizzò. I patrioti turchi si sollevarono e il 23 gennaio un

gruppo di ufficiali, guidati da EnverPacha, armi in pugno, cacciò ilgoverno e diede il potere a ShevktPacha, capo dell’armata. A Londrale trattative si interruppero.

Le operazioni sul campo ripreseroall’inizio di febbraio. La resistenzaottomana si era organizzata e icombattimenti si fecero aspri,tuttavia gli eserciti della coalizionebalcanica, superiori per numero,fecero cadere le piazzeforti

ottomane una dopo l’altra.

Il 6 marzo i greci entrarono in Jannina, il 28, dopo la cruenta battaglia di Bulai, i bulgari delgenerale Ivanov, dopo un assedio di cinque mesi, si impadronirono di Edirne ed infine, il noveaprile, i montenegrini entravano a Scutari.

La conferenza di Londra, 30 maggio 1913, imponeva agli ottomani l’abbandono di tutti iterritori a occidente della linea che va da Midye, sul mar Nero, a Eniz sull’Egeo. Istanbulperdeva anche Creta che andava alla Grecia. Alle Potenze europee veniva assegnato il

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compito di regolare lo statuto delle zone albanesi e delle isole Egee. Shevket Pacha, patriotadell’Unione e Progresso, pagò con la vita la paternità di quella sconfitta: l’11 di giugno venivaassassinato per strada, mentre preparava un colpo di stato. Ma gli unionisti, con un colpo dimano, misero fuori legge i patrioti dell’opposizione ed istaurarono la dittatura. Gli alleatibalcanici dovevano ora dividersi le spoglie. Gli accordi, forse non del tutto chiari, apparveroinsufficienti ai Bulgari che reclamavano maggiori riconoscimenti territoriali in Macedonia. ISerbi, sperando di annettersi parte dell’Albania, si sentivano frustrati dalla nascita di unprincipato albanese indipendente ed esigevano compensazioni per aver rinunciato ad unaparte di Macedonia. Tessalonica era invece disputata tra bulgari e greci.

Ad inasprire ancor di più il clima di tensione, esploso dal generale malcontento, furono leposizioni assunte dalla Russia e dall’Austria-Ungheria. La prima faceva di tutto per tenere invita la coalizione, mentre la seconda operava per una sua dissoluzione. La situazione siguastò quando Grecia e Serbia si accordarono per fissare il loro confine sul Vardar e, nel casoin cui Sofia avesse opposto un rifiuto, per intraprendere un’azione armata contro la Bulgaria.San Pietroburgo, informata di queste trattative con un telegramma, intimò ad Atene eBelgrado di sottoporsi all’arbitraggio dello zar. Ma lo Stato Maggiore bulgaro temeva che iltempo giocasse a suo sfavore ed inoltre l’opinione pubblica si stava infiammando sempre dipiù a causa della Macedonia.

Nella notte fra il 29 e il 30 maggio 1913 Ferdinando I ordinò alle sue truppe di respingere lelinee greche e serbe. Belgrado e Atene risposero con una dichiarazione di guerra e si scatenòil secondo conflitto balcanico.

Questa violazione della pace da parte dei bulgari rimane alquanto controversa poiché non èchiaro se quello di Ferdinando I sia stato un proditorio attacco o solamente unamanifestazione di forza come reazione all’accordo serbo-greco. Resta il fatto che la Bulgariasi ritrovò isolata di fronte agli antichi alleati mentre, cedendo alle pressioni dell’opinionepubblica, il governo di Istanbul faceva avanzare il suo esercito e il 22 luglio Enver Paschariprendeva Edirne, città simbolo, essendo stata la prima capitale dell’Impero Ottomano.Ovunque le truppe di Ferdinando dovettero indietreggiare e non furono in grado di fermare irumeni che, senza alcuna dichiarazione di guerra, avevano occupato la Dobrugia emarciavano su Sofia. Così il 31 luglio la Bulgaria chiedeva l’armistizio. La pace fu firmata il 10Agosto a Bucarest e per i Bulgari fu una pace dura poiché perdettero Edirne e Kirklareli,mantenendo tuttavia uno sbocco in Egeo sul golfo di Kavala.

Queste guerre non solo furono disastrose per tutti gli stati della penisola, ormai divisi daaccuse reciproche di atrocità e da odi che durarono fino al secondo conflitto mondiale ma,politicamente, furono il preludio alla Grande Guerra perché se da un lato una Bulgariairredentista voleva recuperare dai serbi la Macedonia, dai greci Tessalonica e l’intera Tracia,dai rumeni la Dobrugia meridionale, dall’altra quegli stessi popoli, pur non amandosi, eranocostretti da alleanze alla difesa di quel nuovo status quo.

Quei colpi di pistola esplosi a Sarajevo il 28 giugno 1914 dallo studente serbo Gavrilo Principsi inserivano perfettamente nell’evoluzione di quel movimento jugoslavo al quale le potenzeoccidentali non avevano affatto prestato attenzione.

Con la conversione al cristianesimo, avvenuta nel IX secolo, i popoli slavi del sud (bulgari,serbi, croati e sloveni) si erano separati fra loro aderendo i primi due alla chiesa di Bisanzio egli altri alla chiesa di Roma. Altro elemento di differenziazione era che nel Medioevo bulgari eserbi avevano formato regni o imperi indipendenti in grado di tenere testa all’imperobizantino mentre gli sloveni non avevano costituito mai uno stato e dai tempi di Carlo Magnoerano sottomessi al Sacro Romano Impero prima dei Carolingi, poi degli Ottoni e infine degli

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Asburgo. I croati invece, dopo due secoli di regno autonomo, dal 1102 erano stati sottopostialla corona di Santo Stefano e avevano condiviso per otto secoli la sorte degli ungheresi.

Il risultato di tutto ciò fu che bulgari e serbi conobbero quattro - cinque secoli di dominazioneottomana mentre croati e sloveni vissero nell’orbita di Budapest e di Vienna con tutte lecaratteristiche religiose e culturali di questi due diversissimi mondi.

Restava la comunione linguistica che però, nel tempo, si era diversificata al punto di fare dellosloveno una lingua distinta, mentre serbi e croati, nel corso del XIX secolo, si erano accordatisu una lingua comune sia pur con due scritture diverse, la cirillica e la latina.

La presa di coscienza delle identità nazionali, invece, nasce alla fine del XVIII secolo, sottol’influsso dell’Illuminismo e poi della rivoluzione francese e fu proprio la comunione linguisticache portò all’idea di una comunità di slavi, poi divenuti jugoslavi.

La proditoria annessione, nell’ottobre 1908, della Bosnia-Erzegovina all’impero austro-ungarico esacerbò gli animi dei nazionalisti serbi e, in breve tempo, nacque a Belgradoun’associazione, la Difesa Nazionale, che cominciò a reclutare sia serbi che croati percombattere le truppe austriache. Contemporaneamente si assisteva ad un inasprimento delnazionalismo croato, ma anche alla diffusione di un jugoslavismo in larghe fasce dellapopolazione croata.

In Serbia, invece, quest’idea incontrava resistenze sempre maggiori. Certamente, Pietro I diBelgrado era in qualche modo diventato il simbolo dell’unione di tutti gli slavi, ma il partitoradicale al potere non gli era favorevole e l’esercito gli era apertamente ostile e continuava avolere fortemente una Grande Serbia che avrebbe inglobato, fra gli altri, anche la BosniaErzegovina. Nucleo centrale di questa azione era la società segreta Unione o Morte, detta lamano nera, il cui leader era il colonnello Dragutin Dimtrjevic.

Gavrilo Princip era uno di loro.

Il 28 giugno, festa di San Guido e anniversario della disfatta di Ksovo del 1389, il principeereditario d’Austria-Ungheria, l’arciduca Francesco Ferdinando, ispezionava in Bosnia,insieme alla moglie, la duchessa di Hohenberg, le manovre dell’esercito.

Caddero entrambi sotto i colpi della pistola del giovane serbo.

L’incidente di Sarajevo sfocerà in una guerra europea e poi mondiale e quei pochi colpi dipistola causeranno la morte di circa dieci milioni di persone.

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O G M , Q U E S T I S C O N O S C I U T IAnna Valerio

Ormai è imminente.Il primo maggio si aprirà l’Expo diMilano: il più grande evento mairealizzato sull’alimentazione e lanutrizione. Si, perchè il tema scelto èNutrire il Pianeta, Energia per la Vitaquindi un confronto con il problemadel nutrimento dell’uomo e dellaTerra e un fondamentale momento didialogo tra i protagonisti della

comunità internazionale sulle principali sfide per nutrire l’umanità.Progetto ambizioso, quanto mai attuale e - potremo quasi dire – obbligato in unmondo nel quale circa 870 milioni di persone non hanno cibo sufficiente a condurreuna vita sana e dove una persona su 8 ogni sera va a letto affamata.E vuole anche dire che ogni giorno più di 24000 persone muoiono per fame.Ma, come ben sappiamo, questi numeri non riguardano l’occidente; si riferiscono alsud del mondo, a paesi poveri i cui drammi non sono mai vissuti con la stessaintensità e lo stesso coinvolgimento da coloro che hanno nelle loro mani i destinidell’umanità di quanto non faccia un tragedia più vicina e “intellettualmente” piùcomprensibile.

Ciò che subito viene da chiedersi è che cosa stia facendo in concreto oggi l’uomoper iniziare ad arrestare questa tragedia. Quali siano i mezzi, se ci sono, perinvertire questa tendenza che per il momento sembra inarrestabile. E, ancora,quale sia l’atteggiamento tanto di coloro che detengono il potere quanto dei lorooppositori relativamente a ciò che di nuovo si profila a proposito di questoscenario.

OGM è una sigla che nell’immaginario collettivo ancor oggi, in qualche modo,genera un sottile turbamento forse perché, come spesso accade per tematiche discienza, non è per tutti ben chiaro di che cosa si tratti. Vogliamo parlarne?Mi sembra importante soprattutto perché, in questo modo, il lettore si potrà poischierare, questa volta con consapevolezza e cognizione di causa, a favore ocontro.

È necessario iniziare con un paio di premesse. Come sappiamo (*), nel nucleo diogni cellula, vegetale o animale che sia, è presente il DNA organizzato neicromosomi che sono in numero determinato per ogni singola specie. In essi sonoallineati i geni che portano l’informazione per la costruzione delle proteine. Unasequenza di nucleotidi del DNA - un gene appunto - viene tradotta nella cellula inuna sequenza di aminoacidi - una proteina - attraverso un processo che può essereparagonato alla traduzione di una lingua in un’altra. Il “vocabolario” che facorrispondere gene a proteina si chiama codice genetico ed è universale, cioè è lostesso in ogni specie vivente del pianeta, sia animale che vegetale. Ciò vuol direche una pianta di frumento è tale e diversa da un uomo perché i rispettivi geni, pur

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formati dai medesimi elementi costitutivi, sono diversi per numero, combinazionee successione nei due rispettivi DNA. E’ proprio questo che fa la differenza!Ed è su questa universalità del codice che si fonda la possibilità di operare iltrasferimento di un gene da un organismo ad un altro con la certezza del suofunzionamento anche nel ricevente.

L’OGM è un organismo con il patrimonio genico modificato da interventi diingegneria genetica eseguiti dall’uomo attraverso l’eliminazione, o più spessol’aggiunta, di uno o più geni. L’acronimo sta per Organismo GeneticamenteModificato; in esso infatti sono stati aggiunti geni provenienti da un donatoresempre appartenente alla sua stessa specie. OGM è quindi un concetto intra-speciee non deve essere confuso con transgenico che indica un organismo al quale sonostati aggiunti geni provenienti da individui non appartenenti alla sua specie;quest’ultimo è quindi un concetto inter-specie.Ancora oggi, commettendo un gravissimo errore, i due termini vengono spessousati, nel linguaggio verbale e anche a volte negli scritti, come se fossero sinonimi.

Ci siamo mai chiesti a quando si può far risalire la prima manipolazione genica?Probabilmente qui c’è un mito da sfatare, essa infatti non è una pratica recente.Il primo esperimento di trasferimento di materiale genetico, in questo caso da unbatterio ad un altro, è stato eseguito nel 1951 da Lederberg e Zinder ed ha apertola strada ad una nuova disciplina, l’ingegneria genetica appunto. Ma si può andareancora più indietro nel tempo; la consuetudine alla manipolazione genica, comeabitudine diffusa nel mondo scientifico, può essere fatta risalire agli inizi del secoloscorso, epoca nella quale i pionieri di questa scienza iniziavano a scoprire gli effettisugli organismi, animali e vegetali, sia di trattamenti mutageni (esposizione aradiazioni ionizzanti, del tipo raggi X) che degli incroci forzati (accoppiamentiobbligati tra piante o insetti con caratteristiche diverse).

In natura il solo meccanismo che può dare vita a nuovi geni è infatti la mutazione,un evento spontaneo che interessa circa 1/100.000.000 di gameti. Frequentementegli eventi di mutazione generano varianti che sono sfavorevoli per l’individuo chene è portatore ma a volte possono dare luogo ad un carattere migliorativo chepermette di meglio adattarsi all’ambiente. Successivamente selezione naturale,crossing-over, segregazione dei cromosomi alla meiosi e fecondazione delle speciediploidi con la fusione dei patrimoni genetici parentali, fanno il resto che ha comeepifenomeno quell’adattamento e quella varietà di specie e di caratteri chepossiamo osservare sulla Terra.(*) Questo i genetisti della scuola di Morgan deiprimi del ‘900 lo avevano capito molto bene tanto che, per studiare lecaratteristiche e la trasmissibilità delle mutazioni, riproducevano la mutazionesugli organismi in laboratorio, soprattutto i moscerini di Drosophila melanogaster,sottoponendoli ad esposizione ai raggi X.

E si può andare ancora più a ritroso nel tempo; infatti fin dall’antichità è statasfruttata la variabilità prodotta dalle mutazioni spontanee per selezionare quellespecie vegetali, che oggi chiamiamo cultivar, che hanno attributi migliorativi. Dopola selezione e l’incrocio forzato di esemplari con caratteristiche particolari(ibridazione), sono stati ottenuti ibridi appunto che in genere sono sterili, chepresentano caratteristiche più favorevoli rispetto ai parentali, come maggiorresistenza o più generosa produzione o migliori caratteristiche organolettiche.

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Non solo gli agronomi ma anche gli allevatori di cani e di cavalli etc. questa tecnicala conoscono molto bene.

Dunque il miglioramento genetico è una prassi che l’uomo effettua, più o menoconsapevolmente, da moltissimo tempo.

E’ però negli anni ‘70 che, all’Università di Stanford, Paul Berg per la prima voltacompose in laboratorio un DNA derivato da due differenti organismi: un virus discimmia e un virus batterico. Subito gli furono chiari i possibili pericoli insitinell’esperimento, tanto che decise di sospenderlo in attesa di rigorose normative ariguardo. Qualche tempo dopo, nel 1980, per questo studio pionieristico gli fuassegnato il premio Nobel. Proseguendo su questo stesso cammino, appena dueanni dopo Stanley Cohen ed Herbert Boyer riuscirono a costruire il primo prodottotransgenico aggiungendo al DNA di un batterio, l’Escherichia coli, un gene di rana.L’esperimento epocale dimostrava, proprio in virtù dell’universalità del codice dicui si diceva, che era possibile trasferire materiale genetico da un organismo ad unaltro di specie diversa.

Subito dopo nel 1974, con la Conferenza di Asilomar, la comunità scientificainternazionale sentì il bisogno di stabilire delle linee guida rigorose alle quali coloroche volevano cimentarsi in questi esperimenti dovevano strettamente attenersi.

Inizialmente questo nuovo approccio metodologico fu applicato soprattutto nelsettore farmaceutico dove diede rapidamente i suoi frutti con la produzione, giànel 1983, dell’insulina umana ricombinante: una molecola proteica essenziale cherivoluzionò il trattamento del diabete. Da quel momento i pazienti poteronoautosomministrarsi un’insulina prodotta in laboratorio, assolutamente identica aquella che il loro pancreas non era più capace di secernere. Da allora, com’ènaturale, l’ingegneria genetica ha trovato applicazione nei campi più diversi dellamedicina ed oggi sono molti i farmaci e i vaccini prodotti con tecniche ricombinantiche vengono usati nelle malattie più disparate, dal ritardo di crescita alle infezionivirali, dal rigetto dei trapianti alle malattie cardiovascolari, dall’anemia allachemioterapia, dall’emofilia ai vaccini, alla fibrosi cistica etc.

Queste metodiche hanno subito trovato applicazione anche nel mondo vegetaledove il metodo classico per produrre una pianta transgenica consiste nell’inserire ilgene di interesse in un “veicolo”, il plasmidio, (un piccolo DNA circolare accessoriopresente in molti batteri) che viene introdotto nelle cellule da trasformare dove ècapace di integrarsi con il genoma della cellula ospite. In sintesi, il generesponsabile della funzione desiderata è ritagliato dal DNA dell’organismodonatore, è moltiplicato in laboratorio con tecniche speciali ottenendo così moltecopie del gene stesso, viene integrato nel genoma del plasmidio (DNAricombinante) che è infine introdotto nelle cellule del ricevente che acquisterannocosì una nuova funzione.

Questa affascinante tecnologia ha trovato larga applicazione nei settori più diversicon l’intento per es. di produrre batteri o enzimi in grado di ridurre l’impattoambientale degli scarti delle lavorazioni industriali, di degradare idrocarburiinquinanti, di segnalare la presenza di radioattività, di bonificare i rifiuti etc.

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Nel 1992 è stato messo in commercio il primo prodotto transgenico e da allorasono state numerose le tipologie di piante ed animali manipolati geneticamente edutilizzati per la produzione alimentare. Di pari passo aumentavano sensibilità eattenzione per la biodiversità che veniva tutelata con il Protocollo di Cartagena del2000 che specificatamente metteva in guardia il mondo della ricerca dai possibilirischi derivanti dalla diffusione indiscriminata e non regolamentata dei nuoviprodotti delle biotecnologie.

Molti sono i settori oggi interessati all’utilizzo di queste tecnologie ma l’ambito chenel consumatore suscita il maggiore interesse è certamente quello agro-alimentare.

Qual è il razionale della produzione di piante transgeniche? L’ottenimento, peresempio, di organismi resistenti all’azione di insetti, di parassiti o all’attacco difunghi, favorendo in tal modo un aumento nella produzione. Introducendo nelmais alcuni geni prelevati dal Bacillus Thuringensis (un batterio usato anche comeinsetticida biologico a partire dal 1920) si rende capace la pianta di produrre unaproteina tossica per alcuni insetti ma non per l’uomo. Questo si rende necessarioperché il mais è spesso infestato da una farfalla, la piralide del mais (Ostrinianubilalis), che si ciba delle cariossidi del cereale e poi vi deposita le feci checostituiscono il pabulum prediletto di un’intera famiglia di funghi microscopici(Fusarium verticilloides), che, a propria volta, rilasciano alcune delle molecolenaturali dotate di più virulento potere tossico (questa volta per l’uomo): lefumosine.

Ancora, perché così è possibile ottenere piante che presentino resistenza acondizioni ambientali avverse, tale da favorire l'incremento della produzionealimentare anche in quelle regioni nelle quali esistono gravi ostacoliall’ottenimento dei raccolti necessari per sfamare la popolazione.

Nonostante questi prodotti siano caratterizzati da standard alimentari moltoelevati, rimane però sempre acceso il dibattito sulla loro sicurezza sia come fontedi materie prime che per il consumo alimentare diretto. E alla soluzione deldibattimento non contribuisce di certo un’informazione quasi sempre carente, chetende a basarsi più su sensazionalismi che su notizie oggettive e che genera soloconfusione nel consumatore riguardo ai reali rischi e alle vere potenzialità dellebiotecnologie. Con informazioni parziali e frammentarie o addirittura manipolateda compagini che si attestano su opposti fronti del panorama politicointernazionale, nel tempo si è sempre più allargato il solco che separa la comunitàscientifica dai consumatori fino ad arrivare a generare un clima di diffidenza versoquesto tipo di prodotto.

Una domanda sorge spontanea a questo proposito. Perché mai la comunitàscientifica dovrebbe nascondere al pubblico l’eventuale pericolosità di unprodotto? Su che base si tende a dare più fiducia a qualche affabulatore dell’ultimaora piuttosto che ai risultati della scienza, che non è certo infallibile ma che è forsel’unica disciplina capace di riconoscere i propri eventuali errori, studiarli e porvirimedio?

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Nessuna attività umana è esente da rischi tuttavia agli OGM si chiede di esserlo.

Uno dei temi più rilevanti legati all'introduzione degli OGM è la loro sicurezzaalimentare. A riguardo c'è nella gente l'ampia percezione che mangiare OGMcomporti maggiori rischi rispetto ai cibi non geneticamente modificati; questononostante ci sia un ampio consenso scientifico nel ritenere che mangiare OGMnon comporti nessun rischio maggiore rispetto ai cibi convenzionali. Non esistealcuna notizia documentata che riporti un danno causato all'uomo da cibogeneticamente modificato. Nel 2012, l'American Association for the Advancementof Science ha ribadito che gli OGM non comportano maggiori rischi rispetto ai cibimodificati attraverso le normali tecniche di incrocio. L’American MedicalAssociation, la National Academies of Sciences e la Royal Society of Medicine hannopoi sottolineato che non si riscontra in letteratura scientifica o in altra fonte alcunanotizia di effetti avversi sulla popolazione umana che possano essere collegati agliOGM. Ciò nonostante i gruppi che contestano l'uso di OGM come Greenpeace,World Wildlife Fund, Organic Consumers Association e Center for Food Safetyritengono che i rischi che gli OGM comporterebbero per ambiente e salute nonsiano stati adeguatamente investigati.

Nonostante siano più di 13.000 le pubblicazioni scientifiche ad oggi disponibili chevalutano i potenziali rischi degli OGM, di cui più di 4.000 specificamente dedicateall'impatto ambientale, il tema è quindi ancora largamente dibattuto in Europa,soprattutto a livello politico. Ma oggi esiste un quadro normativo che identificadelle norme precise per garantire il controllo e la gestione dei possibili rischi legatialla diffusione delle piante transgeniche, primo tra tutti il Protocollo di Cartagena,nato, come si diceva, proprio per assicurare, oltre alle leggi nazionali ecomunitarie, la protezione contro i possibili effetti negativi sulla biodiversità.

Un dato di fatto è che la diffusione di questi prodotti ha portato alla riduzionedell’utilizzo dei pesticidi, dei quali invece sono stati ampiamente dimostrati i danniper l’uomo e l’ambiente, e alla diminuzione della contaminazione dei cereali daparte delle aflatossine, provatamente cancerogene, mutagene edimmunosoppressive, che sono prodotte da funghi che attaccano le pianteindebolite dall’azione dei parassiti stessi. Coloro che demonizzano gli OGMevidentemente ritengono che il mais contaminato dalle micotossine degliAscomiceti sia “sicuro” mentre quello transgenico no.

Ma ci sono dunque rischi reali connessi alla diffusione degli OGM?

Si parla frequentemente dei pericoli per la salute dell’uomo legati all’aumento direazioni allergiche causate dall’introduzione, nelle specie destinate ad usoalimentare, di geni nuovi che portino alla produzione di proteine con le qualil’uomo non è mai venuto a contatto. La possibilità è stata riscontrata nel corsodello sviluppo di una varietà di soia, geneticamente modificata tramitel'inserimento di un gene della noce del Brasile, per migliorare il tenore inaminoacidi solforati (metionina, cisteina). Nel corso dei test di laboratorio ci si èaccorti che la proteina codificata dal gene inserito (Albumina 2S) era il principaleallergene della noce. Alla luce di ciò la ricerca su questa varietà è stataabbandonata. E poiché questo tipo di problema potrebbe presentarsi anche inaltre varietà, l'analisi di tale potenziale rischio è per legge obbligatorio sia nelle fasi

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di sviluppo dei nuovi OGM che nelle procedure autorizzative. Oggi infatti, graziealle conoscenze acquisite dall'allergologia, è in parte possibile prevedere se unanuova proteina possa avere o meno un potenziale allergenico. Inoltre è comunqueprevisto un piano di monitoraggio post-autorizzazione che consenta in ogni caso diverificare la bontà della valutazione e, qualora emergessero problematiche, diritirare il prodotto per ulteriori verifiche. Va comunque ricordato che non tutti gliOGM contengono nuove proteine, a volte si differenziano invece per la mancanzadi una proteina presente nel corrispettivo convenzionale (è il caso del pomodoro amaturazione rallentata, in cui un enzima del pomodoro tradizionale, coinvoltonella maturazione, viene eliminato tramite modificazione genetica).

Un altro timore è quello della possibile diffusione incontrollata nel pianeta dipiante geneticamente modificate con il rischio che prendano il sopravvento sullaflora naturale ma secondo i risultati di un lavoro di Crawley et al, apparso su Naturenel febbraio 2001, la fitness ambientale degli OGM in commercio è paragonabile aquella delle altre specie coltivate. Per quanto riguarda i possibili danni sullabiodiversità, la Royal Society ha condotto uno studio imponente (FSE: Farm ScaleEvaluation) che ha evidenziato come la scelta della specie da coltivare incida moltodi più sulla biodiversità rispetto all'adozione di una varietà transgenica o meno.

Un ulteriore rischio legato alla diffusione nell'ambiente e al consumo di organismigeneticamente modificati è che, essendo in alcuni di essi inserito un gene checonferisce la resistenza agli antibiotici, c'è un rischio di trasferimento dellaresistenza a batteri, anche patogeni. La rapida diffusione osservata in anni recentidi numerose forme di antibiotico-resistenza tra i batteri è una problematica disanità pubblica che ha sollevato un ampio dibattito e per la quale numerose misuredi prevenzione sono state messe in atto a livello internazionale. Rispetto a questoproblema in relazione agli OGM, l'EFSA (Agenzia Europea per la SicurezzaAlimentare) in un'opinione pubblicata nel 2004 ha ammesso l'esistenza di questorischio, evidenziando diversi livelli di pericolo legati ai singoli geni di resistenza, inbase ai quali ha espresso delle linee guida per limitarne l'uso. In particolare i duegeni più utilizzati riguardano la resistenza alla kanamicina e all’ampicillina oggiscarsamente utilizzati in terapia per eccessiva tossicità o per scarsa efficacia. Inogni caso il principale prodotto OGM in commercio (il MON 810) non presenta ilgene per l'antibiotico-resistenza e la normativa comunitaria ha regolamentato illoro totale abbandono già entro il 2008.

La questione senz’altro più inquietante deriva dal fatto che il monopolio di questiprodotti è nelle mani di poche multinazionali, che attualmente li producono neiloro laboratori di ricerca immettendoli direttamente sui mercati. L’aspettopeculiare è che queste specie nuove sono sterili, come generalmente tutti gli ibridi,e questa caratteristica costringe l’utilizzatore (nella fattispecie l’agricoltore) ariapprovvigionarsi ogni anno dei semi. E’ comunque una realtà non nuova perl’agricoltore che, anche se utilizza sementi OGM-free, ha comunque quasi semprea che fare con specie cultivar derivate da incroci, quindi sterili per definizione. E’vero però che nel caso di sementi manipolate geneticamente, quindi frutto di unatecnologia, come abbiamo visto, non certamente alla portata di tutti, il verorischio, non poi tanto astratto, è legato al fatto che alcuni grandi gruppi possanoacquisire la totale esclusiva in un settore economico strategico come l’agricoltura.Tutto ciò è tanto sorprendente quanto inaccettabile: l’ambiente della Terra e sua

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biodiversità sono patrimonio dell’umanità e nessuno ha il diritto di appropriarsene.Questa, a mio avviso, è l’unica vera e drammatica pericolosità dei prodottimanipolati geneticamente ma la sua soluzione non è scientifica né esclusivamentepolitica ma piuttosto economica legata ai profitti delle grandi multinazionali.

A tal fine l’attenzione dei governi europei è volta a un attento controllo dei mercatie un’approfondita indagine sugli usi, spesso impropri, che vengono fatti di questacome di altre scoperte scientifiche. Ancora una volta il Protocollo di Cartagena si èespresso chiaramente nel senso della tutela della biodiversità, laddove riconosce lalegittimità del Principio di Precauzione. A tutt’oggi, considerando le innumerevolivariabili intrinseche quando si parla di ecosistemi complessi e di scale temporalimolto lunghe, risulta infatti molto difficile disegnare simulazioni e proiezioni suglieffetti della diffusione incontrollata degli OGM.

L’Italia, in particolare, si presenterà all’EXPO 2015 con l’etichetta di chi ha deciso dinon ammettere l’uso di OGM sul suo territorio in nome della tutela di quellapeculiare biodiversità che consegna al mondo ogni regione italiana come culla disapori tipici derivanti dall’uso di prodotti locali una parte dei quali di anno in annoviene riutilizzata per la semina. Questo sicuramente è vero per le piccoleproduzioni, le aziende agricole a carattere familiare ma, se devo limitarmiall’esperienza personale riguardo a pesche, fragole, carciofi etc non sono sicura chesia anche la strada percorsa dalle grosse aziende; i sapori oggi anche in Italia sonospesso omologati e la biodiversità è, temo, più un mito e una tradizione alla qualeci piace far riferimento che una realtà. Non dimentichiamoci, inoltre, che lo stessogoverno che bandisce l’uso di OGM ne consente però l’importazione.

Anche da noi, del resto, come in molti stati dell’Unione, esistono gruppi chemostrano un'attitudine favorevole all'introduzione degli OGM nella nostraagricoltura. Tra questi si sono distinte numerose associazioni di ricercatori chehanno, a più riprese, tentato di chiarire le problematiche tecnico-scientifiche esociali su questi delicati temi sui quali spesso esiste molta disinformazione. Piùestesamente, in tema di coesistenza tra coltivazioni GM e convenzionali, 19Società Scientifiche Italiane e 2 Accademie Nazionali hanno rilasciato già nel 2006un documento congiunto in cui sottolineano che, sulla base della letteraturascientifica disponibile, le piante GM e transgeniche non differiscono dalle varietàconvenzionali nel loro comportamento in campo. Quindi le pratiche agricole oggidisponibili consentirebbero di rispettare la soglia dello 0,9% di presenzaaccidentale di OGM in prodotti non-OGM, imposta dal Regolamento CE1830/2003, senza un significativo impatto in termini di costi di gestione per gliagricoltori italiani. Sul rapporto tra OGM e sicurezza alimentare un documento del2004, anch'esso firmato da 14 Società Scientifiche italiane e dall'Accademia deiLincei, sottolinea come si debba "concentrare l'analisi non sulla tecnologia con cuivengono prodotte le piante GM, ma sui caratteri genetici inseriti, seguendo unapproccio caso per caso". Si dovrebbe quindi, secondo questi ricercatori,abbandonare l'approccio critico tout court verso gli OGM intesi nel loro insieme "afavore di un consenso razionale, perché informato, sul processo e sui prodottiderivanti". Si vorrebbe quindi portare la normativa verso una maggiore attenzioneal prodotto ottenuto invece che al processo utilizzato, in modo da non discriminarele varietà ottenute con la tecnica del DNA ricombinante piuttosto che con tecnichedi incrocio tradizionale.

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A Milano fino al 31 ottobre si parlerà anche di questo insieme a tutto ciò cheriguarda l'alimentazione, dal problema della mancanza di cibo per alcune zone delmondo a quello dell'educazione alimentare, fino appunto alle tematiche che hoprovato a trattare oggi. Sarà un’occasione per noi tutti di approfondire questotema, finalmente liberi da sovrastrutture mediatiche e scandalistiche che nonsempre si fondano su dati reali ma spesso cavalcano onde anomale più pericoloseche benefiche.

Modelli matematici su studi di popolazione ci dicono che nel 2050 la produzioneagricola dovrà aumentare, a parità di superficie coltivata, di un volta e mezzaaffinché l’umanità possa avere di che sfamarsi. Sarà dunque questa la priorità veracon la quale noi tutti ci dovremo confrontare. Stando così le cose, forse nondemonizzare aprioristicamente la strada indicata dalla Scienza potrebbe rivelarsi lasoluzione vincente.

(*) vedi, della stessa autrice, articoli di approfondimento nei numeri precedenti di Riflessionline

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Q U A N D O S A T A N A P E R S E I L P A R A D I S OPiera Melone

Esiste una parola che può costituirsicontemporaneamente azione e pensiero eche è in grado di collocarsi, constraordinaria originalità, in un presenteangosciosamente svuotato, tra un passatoricco ma intriso di errori, ed un futuronebuloso. Prima di ciò che ora siamo deveesserci stata un’origine autentica ed èquello che John Milton (1608-1674), dallaLondra del XVII secolo, ci mostra nel suoParadise Lost. Al suo viaggio in Italia, nel1638, si suole far risalire l’idea di comporreun dramma biblico sulla caduta di Adamodi cui recano tracce alcuni manoscrittidegli anni compresi tra il 1640 e il 1642 neiquali l’elemento allegorico medievale sifonde con tratti tragici di derivazione

controriformistica e classica, con particolare riferimento al Prometeo eschileo.La lunga gestazione dell’opera lo accompagna negli anni della guerra civile, delregicidio, dell’entusiastica partecipazione all’ascesa di Cromwell, dell’arresto eimprigionamento durante la Restaurazione del 1660.E quando, nel 1667, i suoi scritti vengono alla luce, il dramma si è trasformato inepica e al forte impianto antico testamentario e classico, che già conferisce unadimensione atemporale e autorevole alla trama, si sono aggiunti Omero, Virgilio,Dante, Tasso, Spenser, Marlowe, Shakespeare.

Nei dodici libri di questo poema epico, scritto in blank verse, si racconta di comeSatana, angelo caduto, tenti di riconquistare il Paradiso attraverso la tentazione diAdamo ed Eva; ma Milton va oltre ciò che la Genesi non dice e allora scopriamoche dietro la nostra corruzione umana, dietro i nostri paradisi perduti esiste unaprima, grande sconfitta, quella del Cielo che perse un suo angelo e assieme quelladel primo tra gli angeli che per un atto di hýbris dichiarò guerra al suo creatore eperse la beatitudine. Ma la radice del male, vedremo, è la stessa: quell’innatatendenza verso l’alto e quella condanna, eterna, a creare il peccato e a reiterarlo.Forse per questo motivo sorge nel lettore, che osserva l’Eden per la prima voltaattraverso lo sguardo sofferente di Satana, l’inspiegabile nostalgia per qualcosache non ha mai vissuto e la malinconica, persistente percezione della perdita nelmomento in cui, dopo la caduta (libro XII), Michele accompagna Adamo ed Eva allesoglie del paradiso terrestre: “lacrime naturali scivolarono dai loro occhi, ma leasciugarono subito;/ il mondo stava davanti a loro, dove guidati dalla Provvidenzascegliere il luogo in cui fermarsi”.

Milton, che si ritiene, nel suo “uso della mano destra” (la sinistra, come egli stessoafferma, è destinata a redigere pamphlets), “ispirato da Dio”, ci consegna unpoema che effettivamente risplende di ispirazione divina, eppure a stagliarsi nellecoscienze del lettore rimane la figura indomita di un Satana eroico nel suo peccare,

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profondo nel suo lutto, sublime nel rimpianto della bellezza di cui non può piùgodere.Per un soggetto come Milton, antitrinitarista, antipapista, sostenitore dichiaratodel tirannicidio, strenuo difensore, a quei tempi, della libertà di stampa e dellalegittimità del divorzio, questa non deve sembrare la peggiore dellecontraddizioni. Sin dai primi versi ci si spalanca un abisso di solitudine, esilio,erranza, tormento: Satana, colui che era “convinto di poter uguagliare l’Altissimo”,ricacciato insieme alle sue schiere in un golfo di fuoco, travolto e sconfitto, osservala voragine fiammeggiante, buia e inquietante “ove riposo e pace non sitroveranno, né mai quella speranza che ogni cosa penetra”.Dai suoi sguardi funesti, dall’afflizione e dallo sgomento, commisti ad odio tenacee “inflessibile orgoglio”, inizia l’inferno, dimensione interiore e non-spaziale(perché angosciosamente onnipresente e totalizzante) che si impone con forzasull’Inferno come universo fisico. Satana è l’opposto e la mancanza e il suo eroismotragico si esprime proprio nella sofferente consapevolezza della perdita, nellapercezione dolorosa della bellezza e della gioia come privazione e nella reazionemaestosa, nel vitalismo, nella “disperazione” alla quale, inevitabilmente,rispondono “alto sdegno” e “mente ferma”.Continuo e coerente nel suo odio verso Dio e il Paradiso, immutabile pure nella suavolontà, egli è, tuttavia, la metamorfosi e il doppio per eccellenza.

I linguaggi dell’epica, della tragedia, del dramma barocco si sovrappongonoproducendo lo sdoppiamento del personaggio stesso che diventa eroe edantagonista della medesima odissea. Satana è il grande condottiero sconfitto chenon si rassegna alla disfatta nei primi due libri, è l’angelo malinconico e luttuosonel libro IV, è subdolo tentatore, eterna metamorfosi (anche fisica: lupo,cormorano, rospo, serpente) e parola contorta come le spire del serpente, è ilconsigliere fraudolento del libro IX ed è il diavolo, che nel suo processo di (seconda)caduta oramai irrevocabile, porta a termine la sua impresa, invia Colpa e Mortesulla Terra, affonda nel male e diventa bestiale, avvicinandosi al personaggiodell’allegoria medievale.

Questa è la forza della “poetica dell’ambiguità” miltoniana, nella componentepoliedrica che ha permesso a questo Satana di giungere fino a noi, perché il suosguardo è proiezione di un desiderio senza limiti, il suo agire è eternamentefallibile, il suo volo destinato a schiantarsi ma generato da un’aspirazione allabellezza e alla divinità che contraddicono l’essenza stessa del personaggio, il cuiParadiso è andato perduto tanto quanto il nostro; ed è un demone a riferircelo,parlandoci con il registro dell’uomo decaduto. Satana è in errore, questo il lettorelo sa; ma il suo tentativo di persuadere va a buon fine. La felicità della parolapoetica si libera dall’infelicità del concetto teologico e, quando smette di parlare odi pensare, già siamo stati sorpresi dalla colpa e ci accorgiamo di essere statiingannati, completamente o in parte. Solo così questo Satana, sfuggente, sottile,tortuoso tanto quanto il suo autore, può andare al di là della figura anticotestamentaria. Egli è troppo complesso per essere solo malvagio, troppo diviso peressere una cosa sola. Satana è Ulisse e insieme Achille ed Enea, nel suo viaggiosolitario oltre le porte dell’Inferno; è Tancredi, nella follia d’amore che provocamorte; è Solimano, nella rappresentazione tragica della maestà sconfitta; èPrometeo, nella sua sfida folle e titanica contro l’Onnipotente; è Macbeth eAmleto, nella teatralizzazione dell’io, è Doctor Faustus nella scissione. Ricettacolo

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di tutte le incongruenze del poema, egli è tutto questo assieme (e molto altroancora) e proprio per tale ragione si risolve al nostro sguardo come un’entitàprofondamente reale e al contempo inafferrabile, complessa, ambigua fino infondo. Ed è l’ambiguità a farne, innanzi tutto, un’essenza divisa, lacerata,contraddittoria e di conseguenza, elaborata e profonda più di ogni altropersonaggio del Paradise Lost.

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J E S U I S A H M E D , L E P O L I C I E RMichele Dressadore

Dal primo istante dopo la strage deiterroristi islamici nella sede delgiornale satirico Charlie Hebdo si èsviluppata la reazione di tutta lasocietà occidentale in difesa dellalibertà di espressione e del diritto diesercitare la satira, un’imponentemanifestazione su tutti i networksociali e di informazione intitolata "jesuis Charlie".

Pur restando un elemento importantissimo e irrinunciabile, questo dellapreoccupazione per le libertà proprie della nostra cultura, ha via via preso ilsopravvento nell'attenzione dell'opinione pubblica un altro turbamento, assai piùgrave, e cioè il senso di insicurezza. Ad alimentare le ansie hanno senz'altrocontribuito le notizie relative alle indagini sul vasto e articolato mondo dei fanaticireligiosi che si rifanno, più o meno direttamente, ad Al Queda e all'Isis, sullascoperta di gruppi organizzati e pronti a compiere azioni analoghe a quella diParigi, sull'individuazione di "lupi solitari" determinati a muoversi individualmenteper diffondere morte e paura in nome di una presunta giustizia religiosa.Anche in Italia molti si sono scossi da un ingiustificato torpore che fin qui avevafatto loro percepire questi rischi come lontani, improbabili, così si è iniziato a fare iconti con gli aspetti meno piacevoli del mutamento sociale in atto.Un po' tutti hanno fatto due più due, notando che i grossi attentati attuati daimoderni guerrieri della jihad si sono verificati negli Stati Uniti, in Spagna, in GranBretagna e infine in Francia: difficile non vedere che in questa lista potrebbe starcitranquillamente pure il Belpaese. Ed anche il novero di nazioni europee a cui iServizi di Intelligence assegnano il livello maggiore di rischio - Francia, Germania,Gran Bretagna e Belgio - non sembra affatto un club in cui l'Italia figurerebbe fuoriposto: tutto sommato, la nostra posizione non è così diversa da quella degli altristati in termini di interventi militari e di ostilità al fondamentalismo mussulmano.Quindi non c'è ragione di escludere un attacco dei soldati di Allah anche da noi.Dopo aver fatto tutti gli scongiuri conosciuti è logico chiedersi quanto sia effettivala nostra preparazione nei confronti di una tale drammatica eventualità, o meglioquale sia il reale grado di protezione su cui possiamo contare per evitarla.Le nostre speranze di salvaguardia sono affidate all'apparato di difesa interna, cioèle Forze dell'Ordine e quindi all'efficienza dell'organizzazione e a quella dei singolioperatori: l'immagine del povero poliziotto francese Ahmed Merabet prima feritoe poi ucciso con un colpo al capo mentre sta a terra, inerme, sono rimaste impressenelle nostre menti con la stessa tragica forza con cui si sono fissate le immaginidelle torri gemelle in fiamme nel 2001, dei treni dilaniati a Madrid nel 2004 e deivagoni della metropolitana distrutti a Londra nel 2005. A quel senso di impotenza equella paura desideriamo ardentemente opporre una solida fiducia nelle pattuglieche vigilano le strade, sugli investigatori che ricercano le cellule dormienti o gliaspiranti martiri mussulmani.

L'altalena di buone e cattive notizie però non giova alla nostra serenità: prima ci

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viene detto che non siamo tra i bersagli pronosticabili e poi il nostro Ministro degliEsteri pone il livello di rischio al grado 7 su 10. Ed anche: un commando pronto adagire viene sgominato nel Nord Europa, lontano dalle nostre case, ma poi vediamoche da quei luoghi i ricercati sciamano verso altri lidi e vengono segnalati in entratanei nostri confini. Inoltre, appena dopo esserci consolati nel constatare che in Italianon registriamo, come ad esempio in Francia ed Inghilterra, fenomeni di cittadinidiscendenti di stranieri, anche di terza o quarta generazione, che abbracciano laguerra santa contro il proprio Paese dobbiamo però constatare che alcuni foreignfighter sono partiti proprio da città italiane per andare a combattere in Siria e poitornare nel vecchio continente con la nuova veste di miliziano jihadista, dotato diun utilissimo passaporto comunitario che consente il libero movimento in tuttal'Unione Europea.Alla Polizia, quindi, e all'intelligence è affidata la protezione di tutti noi. E quiqualche perplessità purtroppo sorge.Non si capisce infatti perché in Italia continui imperterrito ed irreversibile il tagliodei finanziamenti governativi al settore Sicurezza: il blocco delle assunzioni stafacendo calare gli organici di varie decina di migliaia di unità e sta alzando la mediad'età degli operatori a quote preoccupanti. Sul piano delle dotazioni strumentali ledoglianze sono tante, dalla disastrosa situazione del parco veicoli, composto dimezzi vecchi o carichi di chilometri, falcidiato dall'insufficiente manutenzioneordinaria, all'incredibile riduzione dell'attrezzatura di protezione: mediamente 10giubbetti antiproiettile scaduti sono sostituiti da un solo pezzo! E pensare che ipiani di azione scoperti nei covi terroristici prevedono l'uccisione di poliziotti comecorollario di attacchi più articolati o anche come soluzioni di ripiego in caso diproblemi.Sempre per ottenere un mero risparmio economico il Ministero dell'Interno havarato la chiusura di circa 250 presidi sul territorio, molti dei quali deputati allavigilanza delle vie di comunicazione rendendo così meno probabile il rintraccio deiricercati. Infatti una nozione primaria, da corso base, insegna che chi si devemuovere per scappare, non farsi trovare, può essere intercettato su un confine, inun treno, all'aeroporto o in un'area di servizio. Peraltro la capillarità dei presidi diPolizia sul territorio è una precipua caratteristica, onerosa, ma efficace, del sistemadi controllo nostrano. Tanto per dire! E invece vogliono chiudere decine e decinefra Posti di Polizia Ferroviaria, Stradale e finanche quella di Frontiera.E nonostante sia ormai assodato che l'arruolamento degli attivisti di ogni ordine egrado, dai miliziani incorporati nelle truppe organiche dell'autoproclamatoCaliffato Islamico agli aspiranti autori di attentati suicidi, non avviene più nellemoschee e nemmeno all'interno dei clan, delle cerchie parentali o amicali, masempre più nei luoghi elettronici del web. Pure le manifestazioni di consenso e ilsupporto viaggiano su internet. Nonostante ciò la Polizia italiana sta dismettendopraticamente tutte le sezioni provinciali della Specialità Postale e delleTelecomunicazioni, mantenendola nei soli capoluoghi di regione.Sembra uno scherzo e invece è vero: aumenta il bisogno di controllare la rete el'organismo più efficiente, l'unico ben dislocato sia sulla mappa geografica che inquella virtuale, viene fortemente depotenziato.Anche l'annosa vicenda delle operazioni d'aiuto ai profughi in fuga dalle zone diguerra africane e mediorientali, chiamate Mare Nostrum e Triton, e la questionedei Centri di Accoglienza sono arrivate, attraverso un lungo percorso di polemichee di veri e propri scontri politici, alla frustrante constatazione che nel flusso didisperati si nasconde più di un terrorista interessato a sfruttare le opportunità del

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trattamento umanitario e, bisogna ammetterlo, i favori di una legislazioneapprezzabile sul piano della civiltà, ma disastrosa su quello della sicurezza.La debolezza della posizione del povero Ahmed, la sua vulnerabilità, la tragicaimpotenza che lo ha lasciato alla mercé di un mostro che lo ha finito con inauditacrudeltà, ma anche con estrema facilità, diventa a questo punto anche il simbolo diquella che potrebbe essere la condizione di tutta la Polizia. Per evitarlo l'Italia el'Unione Europea devono fare presto, devono mettere mano alle casse e alle leggi.

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D I S C O R S O S U I D I S C O R S I S U L C L I M AAntonio Bianchini

Gli enormi progressi che la scienzaha compiuto negli ultimi centoanni e il conseguente vertiginososviluppo tecnologico hanno offertoall’uomo l'opportunità dimigliorare le condizioni e lo stile divita, ma, al contempo, hannomostrato come una cattivagestione delle tecnologie possa,

viceversa, portarci a disastri di dimensioni planetarie. Per questo motivo tutticonvengono sul fatto che la ricerca scientifica non possa non interessarsi anchedell’ambiente in cui viviamo, non solo per imparare a convivere con esso masoprattutto per prendersene cura.Uno dei temi che oggi vengono più frequentemente dibattuti, specialmenteattraverso i media, sono i cambiamenti climatici e i loro effetti sulla nostra vita. Iltermine climatologia è entrato nell’uso comune ad indicare un nuovo tipo discienza caratterizzata da una spiccata multidisciplinarietà in quanto coinvolgeconoscenze di matematica, fisica, geologia, astronomia e scienze naturali.Una volta individuati i processi chimico-fisici che operano nell’ambiente che cicirconda e, soprattutto, dopo aver compreso come tali processi interagiscano tradi loro, possiamo tentare di costruire un modello teorico-matematico sul clima.Un buon modello dovrebbe essere in grado di descrivere l’evoluzione del climanel passato e, al contempo, predire come si evolverà nel futuro. Lo stessomodello sarà utilizzato per valutare anche l’impatto dell’attività antropica sulclima terrestre. Modificando opportunamente i valori di una o più variabili, alloscopo di mimare una specifica perturbazione prodotta dall’uomo, è possibileosservare come si modificano i valori di altri parametri del modello stesso (adesempio, variando le concentrazioni dei gas nell’atmosfera, possiamo scoprirecome cambiano pressione, temperatura, velocità dei venti, copertura nuvolosaetc.). Purtroppo il progetto è di difficile realizzazione a causa della complessitàdel sistema fisico analizzato e dell’inadeguatezza di quasi tutti i modelli teoricifinora proposti.Allo scopo di studiare il riscaldamento mondiale (global warming), nel 1988 leNazioni Unite hanno istituito l’Intergovernmental Panel on Climate Changes(IPCC). Si tratta di un gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenticlimatici che non svolge direttamente attività di ricerca né di monitoraggio oraccolta dati ma fonda le sue valutazioni principalmente sull’analisi dellaletteratura scientifica pubblicata in seguito ad una revisione paritaria. Tutti irapporti tecnici dell’IPCC sono, a loro volta, soggetti a revisione da parte deigoverni; ogni governo, peraltro, è libero di farsi rappresentare da inviati di suascelta, anche se privi delle necessarie competenze. Risulta di immediatacomprensione la ragione per la quale l’indipendenza e la credibilità dell’IPCCsiano state in più di un’occasione messe in dubbio.Appare doveroso ricordare che, secondo l’IPCC, il riscaldamento globale è quasiesclusivamente da attribuirsi all’aumento di emissioni ad opera dell’uomo tra cuidomina l’anidride carbonica (CO2), prodotta dalla combustione di materiali fossili

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(carbone, petrolio, metano) per rifornire di energia l’umanità. Sebbene la CO2

non sia l’unico gas serra e contribuisca al riscaldamento dell’atmosfera solo percirca il 22%, mentre per un buon 70% il responsabile è il vapore acqueo che, purnon essendo un agente forzante del clima ma un suo riflesso, secondo recentistudi sembrerebbe amplificare l’effetto serra con un’efficienza che dipendefortemente dall’intensità della radiazione ultravioletta del sole; sebbene nellasequenza delle recenti glaciazioni della terra le variazioni della concentrazioneatmosferica della CO2 abbiano più spesso seguito, e non anticipato, le variazionidelle temperature; sebbene poi le ammine emesse dagli allevamenti animaliproducano degli aerosol anch’essi in grado di contribuire significativamenteall’effetto serra; sebbene ancora gli oceani, il cui fitoplankton produce il 50-80%dell’ossigeno che noi respiriamo, vengano costantemente inquinati da una vastagamma di prodotti industriali - non se ne parla mai abbastanza-; sebbene infine lenubi di polveri disperse dai grossi centri industriali siano responsabili di alcuniaspetti degli attuali cambiamenti climatici; nonostante tutto ciò, dunque, e afronte di una quantità di ulteriori considerazioni, la CO2 rimane “ufficialmente” laprincipale indiziata (anzi, l’indiscussa “colpevole”) del global warming.In questa campagna anti CO2, l’IPCC è supportato dalla stragrande maggioranzadei media (la BBC è da anni la sua cassa di risonanza in Europa) e, ovviamente,dall’opinione pubblica. Per quanto riguarda la famiglia degli scienziati chestudiano il clima, non c’è dubbio che i membri dell’IPCC cerchino di non darealcuna visibilità a quei ricercatori che, in qualche modo, criticano la loro tesi.A causa di questo atteggiamento, si sono creati due fronti contrapposti: quellodegli esponenti dell’IPCC, che attribuiscono il riscaldamento alla sola attivitàantropica, e quello di coloro che minimizzano tale contributo e ascrivono questofenomeno molto complesso anche a processi naturali ciclici, che si sono ripetuticon una certa regolarità nella storia geologica della Terra. I fautori di questosecondo punto di vista sono etichettati, non senza una punta di disprezzo,negazionisti rispetto alle posizioni dogmatiche degli esponenti dell’IPCC.Nella sostanza c’è un atteggiamento di scarsa tolleranza verso chi, pur con buoneragioni scientifiche, osi contrapporsi al pensiero dominante. Come risposta,qualcuno tra i “cosiddetti negazionisti” ha pensato di definire catastrofisti coloroche si attestano sull’altra sponda. Peccato, perché il dibattito scientificodovrebbe essere esente da attacchi personali che spesso, nel passato, sonosfociati addirittura nella diffamazione personale.A questo punto vorrei fare alcune precisazioni. Prima di tutto desiderosottolineare il fatto che la maggioranza dei cosiddetti negazionisti non negaaffatto che l’attuale riscaldamento del pianeta sia in parte causato dall’uomo edall’accumulo della CO2 nell’atmosfera. Tuttavia molti studi dimostranol’esistenza di importanti cicli climatici naturali, con tempi che vanno dalle decinealle centinaia di anni, fino ai millenni. Per fare un esempio: alla fine delmilleseicento siamo usciti da una piccola glaciazione, avvenuta durante il famosominimo di Maunder che caratterizzò un’attività solare molto scarsa. E’ doverosoricordare che, anche in questa occasione, le variazioni della temperatura hannopreceduto di alcune decine di anni quelle della concentrazione di CO2. Dalminimo di Maunder le temperature sono poi andate crescendo sempre più, tantoche nell’ottocento già si discuteva dello scioglimento dei ghiacciai. Nell’eraindustriale c’è stata poi una crescita più rapida delle temperature, mentre neglianni ottanta-novanta del XX secolo si è visto un aumento repentino risultatosuperiore a quello calcolato solo in base all’aumento della CO2. Una spiegazione è

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stata che in quegli anni gran parte delle industrie hanno cominciato ad immetteremeno polveri nell’atmosfera, permettendo un maggiore irraggiamento del suoloda parte del Sole. Un altro fattore potrebbe essere stato la notevole attivitàsolare di quel periodo. Successivamente, dal 2000 ad oggi, la temperaturaglobale, pur fluttuando, è rimasta sostanzialmente stabile. Questo dimostra chele temperature e la concentrazione di CO2 non sono sempre strettamenteaccoppiate e che ci sono anche altri processi fisici capaci di controllare il climaterrestre.L’esistenza di cicli climatici è nota fin dall’antichità. Una risonanza di tali cicli conquelli dell’attività solare avrebbe potuto essere dedotta attraverso l’osservazionedell’estensione della corona solare durante le eclissi di Sole. Dopo Galileo ciò èstato reso più facile con l’uso del telescopio, semplicemente contando il numerodelle macchie solari. Oggi possiamo ricostruire sequenze storiche ultramillenariedel clima e dell’attività solare attraverso i carotaggi dei ghiacci delle calotte polarie l’analisi stratigrafica delle concentrazioni dei gas atmosferici intrappolati e dispecifici marcatori come l’isotopo 18O dell’ossigeno.Ora sappiamo molto del Sole e abbiamo individuato un certo numero dimeccanismi attraverso i quali esso può influenzare in modo rilevante il climaterrestre: cito solo la modulazione del flusso di raggi cosmici, prodotta dal campomagnetico solare. Certamente non tutti gli aspetti sono chiari ma le correlazionicon l’attività del Sole sono evidenti mentre possibili correlazioni con i moti dellaLuna e dei pianeti maggiori sono in corso di studio. Anche la temperatura diGiove è recentemente aumentata, nonostante là non ci sia attività antropica:lavori pubblicati parlano dell’interazione del vento solare con il campo magneticodel pianeta.Tutti i modelli supportati dagli esperti dell’IPCC rifiutano categoricamente che lerecenti variazioni climatiche osservate possano anch’esse essereconsistentemente influenzate dal Sole o da altri corpi o fenomeni celesti.Poiché nella mia carriera di astronomo mi sono interessato di attività magneticadel Sole e delle stelle, questa affermazione può essere solo frutto di ignoranza odi malafede. Quasi tutti i modelli climatici dell’IPCC hanno ormai dimostrato diaver fornito previsioni errate (talvolta fino al 300%); eppure la maggior parte deiloro autori sono, di anno in anno, usciti indenni dalle sistematiche sconfitte. Alcontrario, i modelli che meglio sono riusciti a riprodurre l’andamento delletemperature nel passato e a prevederle per gli anni successivi sono quelli cheprendono in considerazione anche conoscenze di astronomia e astrofisica. Aquesto punto c’è da chiedersi chi siano i veri negazionisti.Sicuramente tutto questo suggerisce quanto meno la necessità di un più ampio eapprofondito dibattito tra gli esperti di clima sia allo scopo di fare maggiorechiarezza sull’argomento che di promuovere una più corretta informazioneattraverso i media.

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I L P I A N O M A R S H A L L , L ’ E U R O P A E L A G U E R R AF R E D D A

Gianfranco Coccia

La lunga e destruente guerra era finita.Interi territori, tra l’Europa e l’EstremoOriente, erano stati devastati, molti, poi,morivano di fame nel cuore stesso delcontinente europeo. Tra militari e civili,circa 40 milioni di uomini erano morti acausa della guerra. In molti paesi si eranocreati forti squilibri demografici, nelrapporto tra le varie classi di età e tra ilnumero degli uomini e delle donne.Tutte le popolazioni erano in fermento.Accanto alle questioni territoriali, cheallora si presentarono agli occhi dellenazioni vincitrici, vi erano questioni dinon poco conto quali il riordinamentointerno degli Stati coinvolti nel conflitto,della ricostruzione economica e dellacreazione di un nuovo sistema di rapporti

internazionali.La Germania era divisa, in parte occupata dagli eserciti anglo-franco americani, inparte da quello sovietico.Secondo l’ormai corrente convincimento comune, l’U.R.S.S. di quegli anni si eraproposta di imporre la propria leadership, politica economica e militare in tutte learee dell’est europeo presidiate dalle proprie armate. In Grecia, ad esempio, sicombatteva una cruenta guerra civile, in Turchia l’U.R.S.S. pretendeva diannettersi alcune province turche. La Gran Bretagna, uscita vincitrice dallaguerra, avrebbe avuto l’interesse e l’obbligo di assicurare la stabilità e la sicurezzadel Continente, soprattutto della parte che era stata occupata dalle forze anglo-americane: ma era stremata.Fu allora che il Ministro degli Esteri inglese Bevin si rivolse agli Americaniesortandoli, in qualche modo, a prendere sulle loro spalle il peso e laresponsabilità della ricostruzione.

“Il punto essenziale per gli U.S.A., nei confrontidell’attuale situazione, è che, qualunque progettovenga redatto, esso tratti globalmente le esigenzedell’Europa, senza suddivisioni per tener conto diparticolari fasi.” (1).Politica che privilegiasse la produttività econsiderazione ”regionale” dell’Ovest europeocostituirono le linee principali per il PianoMarshall che, pur considerando il lorosemplicismo, favorirono una politicarelativamente “coerente e sofisticata”.

Nel 1947 gli Stati Uniti si resero conto di trovarsi di fronte a questo drammatico

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dilemma: lasciare l’Europa al proprio destino o intervenire con un piano di aiuti.L’analisi delle iniziative in materia di ripresa economica europea di cui disponevail Segretario di Stato George Marshall allorquando tenne il famoso discorsoall’Università di Harvard, evidenzia la carenza degli studi compiuti. Tra gli altri,uno studio eseguito dalla SWNCC (State, War, Navy Coordinating Commitee) perconto del Sottosegretario di Stato Dean Acheson evidenziava la propria assolutaincompletezza così pure un rapporto preliminare compiuto dallo stesso SWNCCgiudicato dal comitato stesso molto incerto e carente di approfondita analisi (2).Il successivo rapporto elaborato dal Policy Planning Staff (PPS) del Dipartimentodi Stato del 23 maggio 1947, pur “prodotto frettolosamente” proponevaun’azione a breve termine ed una di lungo periodo così strutturato: nel breve,l’auspicio di un immediato avvio di un programma Coal for Europe destinato amigliorare la produzione nella Valle del Reno, in Germania e ad assicurare il suosbocco nei luoghi di consumo in Europa; nel lungo periodo, un programmaaffidato all’iniziativa degli Europei.Questo era lo stato dell’arte prima che Marshall tenesse il discorso del 5 giugno1947 ad Harvard. Sorse subito un contrasto tra il Sotto Segretario per gli affarieconomici William L. Clayton e i redattori del piano PPS: in effetti Claytonpreferiva un intervento economico made in USA in Europa con uno stanziamentodi circa 5 miliardi di dollari affidati alla gestione di un Consiglio di DifesaNazionale statunitense.Malgrado la peculiare propria origine, il P.M. possedeva una visione politicacoerente da cui emergevano due orientamenti principali (3): il primo derivava dallaconcezione americana del collegamento stretto tra politica ed economia definitadal Maier la politica della produttività; il secondo risiedeva nella portata europea diquesto intervento.Quest’ultimo rappresentava il ritorno alla concezione politica di George F. Kennane di altri che erano stati i primi sostenitori dell’accettazione di una francadivisione dell’Europa.Politica delle produttività e considerazione del territorio “Europa Occidentale”furono le linee guida per tutto il periodo interessato dall’attuazione del P.M.L’intervento che fu annunciato da G.C. Marshall il 5 giugno 1947 in undiscorso da questi pronunciato presso l’Harvard University, prese il nome di PianoMarshall: esso traeva spunto da alcune spiegazioni (4) che facevano riferimento almancato accordo sulla Germania e sull’Austria durante la Conferenza di Moscadella primavera del ’47, spiegazioni che si riconducevano alle problematiche sortedalla diversa interpretazione dell’accordo di Posdam da parte delle QuattroPotenze vincitrici sul come dovesse essere amministrato il territorio tedesco.Il governo francese si era, infatti, opposto sin dal 1945 alla creazione diAmministrazioni economiche tedesche centralizzate rendendo, così,impraticabile la concretizzazione di un controllo a quattro della Germania.I rappresentanti del governo americano guardavano con sospetto gliintendimenti del governo sovietico non nascondendo una certa preoccupazione.A questo punto si assiste all’appropriazione della produzione corrente tedesca nelbacino della Ruhr il che causa la contrazione del consumo interno e l’export adanno degli anglo-americani che non riescono a ridurre i costi della lorooccupazione in Germania.Dopo un’altalenante situazione che perdura per circa due anni, vedi tentativoamericano di unire le Quattro Forze occupanti in un progetto di unioneeconomica (fallito per volontà di U.R.S.S. e Francia), vedi impossibilità di

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elaborare un piano triennale per rendere autosufficiente la bizona affidata aglianglo-statunitensi, vedi pericolo politico che gli americani si vedano accusati diprivilegiare il riavviamento tedesco a danno della Francia, si arriva, appunto, al1947.

Quando Marshall tenne queldiscorso ad Harvard tutti iproblemi europei erano sultappeto ma non esisteva unvero e proprio pianod’intervento che potesse avereuna chiara riconduzione almedesimo. Esistevano vaghe egeneriche idee sul da farsi e diquesto se ne rese conto il SottoSegretario di Stato Claytoninviato in Europa perconsultazioni verso la fine dello

stesso mese di giugno. Tutto era imperniato sulla Germania e sul comecoordinarsi con gli Inglesi. In effetti in terra americana era ritenuta moltoimportante la ripresa della Germania tant’è che, pur di risolverla positivamente,gli Stati Uniti erano arrivati ad impegnarsi a bilanciare le spese delle riparazioniesplicite dovute dalla Germania stessa con fondi da impiegare in quel paese e aridurre le riparazioni implicite o “nascoste” fornendo contributi e prestiti ai Paesi chevolevano continuare a comprare esportazioni tedesche sottocosto, inducendoli adacquistarle ai valori di mercato.(5)

Da questo si può dedurre, secondo Gimbel (nell’op. cit.), che il Piano Marshall, unavolta ben configurato, era tendenzialmente e strumentalmente volto ad inserirela ripresa economica tedesca nel quadro di un programma generale di ripresaeuropea allo scopo di conseguire, anche sul piano politico, la ripresa economicadella Germania sia in Europa che negli U.S.A..In quest’ultima analisi va, però, evidenziato, che il disegno politico americano eraindirizzato al contenimento dell’espansionismo sovietico e di contrastare leiniziative dei vari partiti comunisti e movimenti di sinistra nel territorio europeo.Così pure l’Amministrazione U.S.A. era preoccupata sul fronte domestico per ilpotenziale pericolo di una nuova depressione che potesse essere pari o superiorea quella del ’29. Di qui, conseguentemente, all’aspirazione di avere un sistemamondiale interdipendente di produzione e consumo tant’è che si era radicato inquesta amministrazione la convinzione che esso fosse il più valido e convincentefondamento per la pace, per la prosperità e per un più elevato tenore di vita pertutti.(6)

Gli U.S.A. si preoccuparono, pertanto, di disegnare una ricostruzione dell’Europasenza ripetere gli errori di Versailles. In contrasto con l’U.R.S.S. espansionistache, invece, facendo, come dianzi si accennava, leva sui partiti comunisti esistentifuori dall’U.R.S.S. cercava di attrarre sotto la propria influenza il maggior numerodi paesi non solo del Vecchio Continente.L’obiettivo economico del P.M. era quello di coprire mediante aiuti U.S.A. idisavanzi delle bilance dei pagamenti dei paesi europei in modo da evitaretensioni inflazionistiche a vantaggio del riavviamento del processo produttivo.Il modello di crescita che gli Americani proponevano, aveva alla propria base una

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pianificazione sotto il profilo scientifico del lavoro così da renderlo in grado diaumentare il reddito nazionale e di rendere, quindi, meno grave i conflittidistributivi.Il P.M. poggiava, in buona sostanza, non soltanto sull’invio dei fondi ma suiseguenti piloni portanti: trasferimento dei beni richiesti; supervisione eresponsabilità U.S.A. dell’intero sistema di aiuti.A seguito di questo, benché il Piano fosse multilaterale, vennero aperti uffici inciascuno dei paesi che aderirono allo stesso, per negoziare la lista dei beni dainviarvi, sulla base di un piano quadriennale di crescita e di piani operativi annuali.I beni, che venivano reperiti e acquistati direttamente dagli Americani o sui loromercati o sui mercati mondiali, venivano consegnati ai Governi dei Paesi aderential Piano Marshall senza pagamento. Questi governi ne organizzavano la venditasui loro mercati nazionali, rientrando moneta locale, che doveva essereaccumulata in un “fondo di contropartita” il cui utilizzo doveva esso pure essereconcordato con gli U.S.A..Gli americani elaborarono una visione globale – sia economica che politica –secondo una comune ottica di sviluppo dell’Occidente: una prospettiva nellaquale politica ed economia avrebbero dovuto andare a braccetto tale da favorirela ricostruzione di qua e di là dell’Oceano Atlantico.(7)

Il mondo del dopoguerra segna la fine di quell’alleanza che aveva reso coevi paesitanto diversi tra loro sotto tutti i profili nel disegno unitario di combattere control’asse Berlino – Tokyo e, nel periodo iniziale, Roma.La storiografia ha convincentemente posto l’accento che nel secondo semestredel 1945, il governo americano aveva ritenuto le posizioni sovietiche nell’esteuropeo assumibili al modello delle democrazie occidentali. Tale visione sioffuscò rapidamente acquisendo, invece, non solo la constatazione ma anche iltimore dell’esatto contrario.

In effetti Stalin, direttamente o per il tramite deipartiti comunisti occidentali, aveva fattonell’autunno del 1946 delineare questa inversionedi tendenza. La risposta U.S.A. che incominciava amanifestarsi deve, dunque, essere ricondotta altimore di subire in Occidente la destabilizzazione, eviene, perciò, spiegata come ricerca di un risultatoesattamente antitetico, cioè come ricerca distabilità (8).La svolta della politica americana verso l’U.R.S.S.si verifica già all’inizio del 1946: Truman, nellacircostanza della crisi iraniana, aveva manifestatoil chiaro convincimento che con i Sovietici civolesse solo un pugno di ferro e un linguaggio duro.(9)

Nei primi mesi del ’46 si rafforza la rigidaposizione U.S.A. di fronte il governo di Stalin specie ove si ponga mente alle notedel noto consulente Clark Clifford che riteneva il marxismo come ideologiaespansionistica e non come ideologia rivoluzionaria.Clifford arrivava ad affermare che il governo sovietico era impegnato a rafforzarela potenza militare nell’ottica prospettica del conflitto inevitabile operandoall’indebolimento e sovvertimento dei propri avversari utilizzando qualsiasi

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mezzo si rendesse disponibile.Di qui l’iniziativa del Dipartimento di Stato di avviare nelle varie capitali sparse nelmondo una meticolosa revisione delle diverse situazioni nazionali producendo agetto continuo analisi, non sempre ottimistiche, sulle situazioni dei singoli teatrid’Europa – parte occidentale – e tutte indirizzate alla rimozione a monte dellainstabilità politica ed economica europea. Le news sul fronte Europeo riferivanoad una situazione desolante e scoraggiante tant’è che G. Marshall,di ritorno dalla Conferenza di Mosca, convalidava la diagnosi che La rinascitadell’Europa è assai più lenta di quanto ci si aspettasse. Elementi di disgregazionestanno diventando evidenti. Il paziente muore mentre i dottori decidono” e WilliamClayton sottolinea come “è evidente che abbiamo grossolanamente sottovalutatole distruzioni recate all’economia dalla guerra (…) La situazione europea peggioraininterrottamente (…) Milioni di persone nelle città europee muoiono lentamente difame (…) Senza immediato e sostanziale aiuto da parte degli Stati Uniti, l’Europasarà sopraffatta dalla disintegrazione economica, sociale e politica. (10).Con la fine del conflitto mondiale, la grande alleanza tra U.S.A., Regno Unito, dauna parte e U.R.S.S., dall’altra, era definitivamente cessata. Al suo postosubentrò quella che coniò il consigliere del Presidente Truman Bernard Baruch,poi battezzata dal giornalista americano Walter Lippmann come Guerra Freddaquanto a dire non guerra guerreggiata ma irriducibile ostilità tra due blocchicontrapposti di Stati. Sul mondo, come ebbe a dire Churchill, calò la cortina diferro che partiva da Stettino ed arrivava a Trieste.Sul punto molti storici e politologi americani si sono contrapposti per giustificarele azioni del Governo U.S.A. dando spunto ad una ideologia alla Guerra Fredda.Il risultato di quelle ricerche, pur con diverse accentuazioni, fu l’attribuzioneall’Unione Sovietica della responsabilità del profondo distacco tra le due potenzeche erano emerse dopo il conflitto. Secondo questo assunto gli U.S.A. non furonoresponsabili di tale accadimento ma anche impossibilitati ad impedirla.Secondo Schlesinger (cfr. Elena Aga Rossi - a.c. di - Gli Stati Uniti e le origini dellaguerra fredda – pag. 15-29) “la G.F. avrebbe potuto essere evitata soltanto sel’Unione Sovietica non fosse stata ossessionata dalla convinzione sia dell’infallibilitàdel credo comunista che dall’inevitabilità di un futuro mondo comunista”.Del contrasto fra i due blocchi continuò ad essere uno dei teatri maggiori laGermania. Poiché l’U.R.S.S. procedeva a riorganizzare secondo le proprie vedutela Germania Orientale da essa occupata, le altre potenze occupanti si accinsero afare altrettanto nella Germania Occidentale. Nel biennio 1948/49, si collegaronofra loro le tre zone con l’Unione doganale, la gestione interalleata della Ruhr e lariforma monetaria (marco occidentale), la quale ultima ebbe esito positivo;infine, i diversi paesi della Germania occidentale, ciascuno, dei quali aveva datempo il suo governo e il suo parlamento costituirono nel maggio 1949 laRepubblica Federale.A tale misura il Governo Sovietico si affrettò a reagire con il blocco di Berlino(giugno 1948), cioè della parte di Berlino occupata dagli occidentali: bloccodestinato ad affamare la città e a destabilizzare la posizione degli occidentalinella capitale tedesca. Ma un gigantesco ponte aereo fece fallire il piano di Stalin.Anzi, durante il blocco, venne firmato a Washington il Patto Atlantico con il qualei Paesi aderenti si impegnavano ad appoggio reciproco contro aggressioni dandoorigine alla NATO (North Atlantic Treaty Organisation). Anche l’U.R.S.S.procedette (maggio ’48) nella zona orientale alla costituzione di un governo e diun parlamento, formalmente corrispondenti a quelli della Germania Occidentale,

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ma di fatto analoghi ai regimi dei paesi satelliti.Questa fase della Guerra Fredda termina nel 1962.Quella successiva va dal 1962 al 1973, cioè dalla crisi dei missili di Cuba all’iniziodelle crisi determinate dagli shock petroliferi ed è collegata soprattutto alconcetto di distensione e di ricerca di un nuovo ordine internazionale. In essa,superate alcune barriere dogmatiche e attenuatosi il modello dei blocchi, leprincipali finalità sono individuate: nel ricercare la limitazione del pericolodell’olocausto nucleare e nell’assicurare la coesistenza tra gli opposti sistemisociali.La terza fase si svolge, attraverso il decennio della crisi economica che inizia nel1973 fino alla disgregazione dell’U.R.S.S.. Lo shock economico, sociale etecnologico apporta conseguenze politiche di notevole portata soprattuttoperché la corsa agli armamenti che caratterizza ugualmente questo periodoaggrava le difficoltà economiche che colpiscono anche le due superpotenze eporteranno l’U.R.S.S., priva di reattive capacità economiche, verso la suadisgregazione.

Convenzionalmente, la fase dellaGuerra Fredda propriamente detta, sifa giungere sino al 1953, l’anno dellamorte di Stalin, per indicare ilperiodo in cui la tensione fra i dueblocchi fu tanto acuta da non lasciarealcuno spazio al dialogo. Invece, leforze profonde che determinarono ilcontrasto Est-Ovest proiettarono laloro influenza ben oltre tale periodo:

e infatti alla guerra fredda risale il tipo di mobilitazione ideologica e diapprontamento militare che ha caratterizzato, nei decenni successivi, le relazioniEst-Ovest. Con la Guerra Fredda il vincolo di politica estera sulla vita dei singoliStati, la subordinazione di ogni altra istanza all’esigenza di compattezza deirispettivi blocchi assunsero un carattere “strutturale”. Molti dei nuovi fermentiche si erano manifestati dopo la guerra in campo politico, economico e culturalevennero ridimensionati. Risorse immense vennero profuse nella corsa agliarmamenti e nella ricerca ai fini militari. Infine, mentre all’Est l’edificazione e laconservazione dei regimi comunisti si realizzarono anche a prezzo di sanguinoserepressioni e di interventi armati, in Occidente si ebbe il paradosso diun’America., già paladina della democrazia e dell’autodeterminazione dei popoli,che si trovò, in nome della difesa del “mondo libero” ad appoggiare a volte ancheregimi autoritari e corrotti.

(1) Cfr. Frus, 1947, III, pg. 285 citato da Charls M.Lain in Aga-Rossi E (pag. 48).(2) John Gimbel, Le origine del piano Marshall, in Aga – Rossi E (a cura di), il Piano Marshall el’Europa, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1983 pag. 15.(3) Charles S. Maier (Il Piano Marshall e l’Europa in Aga – Rossi E, pag. 41).(4) John Gimbel, op. citata.(5) John Gimbel, (op. citata) pag. 21(6) Gimbel (op. c. pag. 21)(7) (Charles S. Maier – Aga – Rossi pag. 40).(8) Ennio Di Nolfo (Il Piano Marshall e la Guerra Fredda, in Aga – Rossi E – pag. 28).(9) Ennio Di Nolfo, op. c. pag. 28.(10) Ennio Di Nolfo, id. pag. 30.

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L ’ I N G H I L T E R R A V I T T O R I A N A E L A R I V O L U Z I O N ED E L D I S E G N O I N D U S T R I A L EAlice Fasano

La comprensione di qualsiasi tipo di fenomeno artistico implica, per chi volesseintraprendere questo percorso, un lavoro che non é molto dissimile da quello checompie lo psicologo quando cerca di individuare le radici della malattia nei suoipazienti, nel senso che, come lo psicologo, anche il critico d’arte deve indagare gliavvenimenti che hanno preceduto la genesi del fenomeno (malattia/arte), scoprendoin essi le motivazioni che hanno portato al suo insorgere. Se ci si vuol mantenere nelsolco di questa similitudine, bisogna tuttavia considerare che, a differenza dellopsicologo e del soggetto che a lui si rivolge, il critico e l’artista non hanno alcunaintenzione di guarire la malattia (l’espressione artistica). La guarigione implicherebbeinfatti la fine dell’Arte, cioè di quel particolare tipo di lucida visione del mondo, cheagli occhi dei sani può apparire distorta, ma molto spesso è illuminata dal genio,malefico o positivo che sia, tipica di alcuni soggetti. La critica dunque si limitasemplicemente a capire e contestualizzare socialmente le cause di determinaticomportamenti del paziente artista.Come scrisse Fiedler “il principio dell’attività artistica è la produzione della realtà, nelsenso che nell’attività artistica la realtà raggiunge la sua esistenza, cioè la sua formaconcreta in una determinata direzione” o anche “l’arte non è un arbitrarioarricchimento, un in più della vita, ma uno sviluppo necessario della stessa immaginedel mondo”.Al termine Età Vittoriana ho sempre associato l’idea di un’epoca scientificamente etecnologicamente molto prolifica. Nelle immagini che mi venivano in mente le città,divenute grandi metropoli per l’immigrazione delle plebi, fuggite in massa dallecampagne in cerca di un impiego nel settore industriale, pullulavano di gente freneticain continuo movimento; insomma un clima di generale benessere ed entusiasmo in cuila fede nel progresso e i valori della nuova borghesia industriale, agendo come unalocomotiva a vapore, trainarono la società in piena epoca moderna.Il prezzo da pagare per il progresso fu però molto alto: i lavoratori venivanospietatamente sfruttati e i loro compiti erano alienanti e, nel peggiore dei casi,pericolosi. Le condizioni di vita del popolo erano disumane e i ceti dirigentimanifestavano una morale grettamente corrotta.Inoltre la vittoriosa battaglia di Waterloo, che vide Napoleone finalmente sconfitto,portò in Inghilterra un diffuso benessere economico, ma il paese scontò “l’opposizionealle ideologie rivoluzionarie con l’arretratezza sociale, l’involuzione culturale e poil’ipocrita moralismo vittoriano” (G.C. Argan).L’espressione artistica, come quella intellettuale, attraversò allora un momento diprofonda crisi. Mentre altrove, per esempio in America, l’industrializzazione s’imposee procedette senza ostacoli, da quelli socio-politici a quelli etico-estetici, in Inghilterrasi sviluppò un dibattito ideologico radicale trattando questioni come il rapporto traindustria e società, tra passato e presente, tra artigianato e meccanizzazione.In questo contesto si colloca la genesi della cosiddetta Riforma delle arti applicate chesi può far risalire alla famosa dichiarazione di sir Robert Peel alla Camera dei Comunidel 1832, in occasione del dibattito sull’istituzione della National Gallery. Lo statista,che era anche un magnate dell’industria, sosteneva che la nascita di questa gallerianon rispondeva solo ad esigenze di ricreazione pubblica, ma che gli stessi interessidelle manifatture inglesi erano coinvolti ogniqualvolta fossero incoraggiate nella

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nazione le arti applicate. E benché fosse noto che in ogni questione legata allameccanica i manifatturieri inglesi erano superiori ad ogni concorrente europeo,bisognava sviluppare maggiormente la componente estetica di tali manifatture, cosìimportante per raccomandare al gusto del compratore i prodotti dell’industria.Dopo il Reform Bill, alcuni intellettuali, politici e pubblici amministratori, preoccupatidella concorrenza con l’estero, si occuparono di promuovere una serie di iniziativequali associazioni artistico-culturali ma soprattutto centri didattici. In particolarefurono istituite scuole di disegno a Londra, Birmingham, Manchester, ecc. Accanto adesse, collezioni di opere d’arte antica e moderna, pura e applicata affinchécostituissero modelli per gli allievi.Protagonista di molte di queste iniziative fu Henry Cole (1808-82), uno deirappresentanti della cultura vittoriana nel campo del nascente design. Il progetto diCole a partire dal 1845, fu quello di una stretta collaborazione tra l’industria el’artigianato; per questo coniò l’espressione art manufacturer denotando la nuovafigura di artista-fabbricante, che può essere considerata la prima anticipazione delmoderno designer. Nel 1849 Cole fondò “Journal of Design and Manufactures”, unperiodico edito a fascicoli, nel quale emerse la convinzione di Cole che per laqualificazione del prodotto industriale fossero necessari alcuni basilari principi: ilprimo riguardava l’esigenza di imparare a vendere, anche come criterio pedagogicoda introdurre nell’insegnamento del disegno nelle scuole; il secondo prevedeva lariformulazione del concetto basilare di funzionalità rendendolo valore di semplice eschietta qualità.

Henry Cole, disegni didattici oggetti d’uso comune da “Journal of Design andManufactures”

Cole fu inoltre uno dei maggiori artefici della Great Exhibition svoltasi nel 1851 el’anno dopo fu impegnato nell’istituzione di un museo di manufatti, come centro di

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collezione e di ricerche su ogni genere di arte applicata, destinato a diventare il nucleooriginale del Victoria and Albert Museum; chiuse la sua carriera con la nomina di solesegretary of department of design col compito di sopraintendere a tutte le scuole didisegno inglesi.Grazie all’interesse per gli useful objects, che in pittura riscontriamo già nel quadro diDelacroix "Angolo di studio: la stufa" del 1825 ca., Cole spostò l’attenzione deglistudenti, degli artefici, dei produttori e del pubblico sugli oggetti semplici e comunidella vita quotidiana, investendo questi ultimi di un nuovo valore di artisticitàsolitamente attribuito alle arti maggiori.I nuovi oggetti prodotti industrialmente dovevano quindi avere una forma che

rispondesse a tali principi, ed è proprio in questo campoche la ricerca di Cole e dei suoi compagni ebbe i risultatimigliori.Owen Jones, nella sua Grammar of Ornament, raccolse econfrontò oggetti decorativi delle più diverse epoche eprovenienze per cercare, in una così vasta ed eterogeneaproduzione, principi conformativi e caratteri invarianti,arrivando a sostenere che “il fondamento di tutte le cose èla geometria” e che i colori andavano usati in manieraspaziale e percettiva (i colori caldi avvicinanoall’osservatore le forme e le superfici, mentre i colori freddile allontanano) e non in senso espressionistico oillusionistico.In sintesi: con la ricerca di una metodologia progettualebasata sulla geometria, l’organicismo, i caratteri invarianti,

la tendenza alla semplificazione e alla riduzione, il progetto di Cole potrebbe oggiessere definito di tipo “strutturalista”.

Cristal Palace - frontespizio catalogo

Di tipo “storicista” fu invece il progetto portato avanti da una cerchia di intellettuali edartisti più radicali, senza alcun legame con i politici ed i produttori e che rifiutarono,con forme di esplicita provocazione, la nascente cultura industriale. Jhon Ruskin, ilmaggiore critico europeo del XIX secolo, identificò con l’appellativo di ArtePreraffaellita la produzione pittorica del gruppo, volendo porre l’accento sull’esigenza

del “ritorno ai primitivi”, gli artisti vissuti prima di Raffaello eMichelangiolo, cioè prima del peccato d’orgoglio che avevafatto dell’arte un’attività intellettuale.Esponente di questo gruppo fu William Morris (1834-96)che si ispirò al Ghotic Revival e alla linea neomedievale diWelby Pugin e di Ruskin. Combattendo il liberismo, ilcommercialismo e l’eclettismo della produzione industrialedella sua epoca e predicando il cosiddetto “ritorno allecampagne”, slogan esplicitamente provocatorio, Morrissosteneva la necessità di prendere a modello lecorporazioni, le lavorazioni e le morfologie tipiche dei

prodotti medievali, cioè di un’epoca caratterizzata dall’onestà dei rapporti sociali, dalcorretto uso dei materiali, dalla pregevole esecuzione artigianale e da quella “Joy inLabur” definita da Ruskin come un antidoto all’alienante lavoro industriale e unicagaranzia della qualità dei prodotti.Anche in questo caso, il primo effetto di questi insegnamenti fu che molti giovani

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artisti, architetti e dilettanti decisero di dedicarsi all’arte applicata che riacquistòdignità e nobiltà, dopo essere stata considerata per oltre mezzo secoloun’occupazione inferiore.Morris considerò prioritaria, rispetto alle altre, la riforma delle arti applicate, poiché inesse si spendevano quotidianamente più energie e interessavano un maggior numerodi persone, tra produttori e consumatori.

Fotografia di W. Morris a 50 anniEsiste un forte legame tra l’opera di Henry Cole e quella di William Morris. Al di là deldiverso atteggiamento nei confronti della produzione industriale, entrambiriconobbero gli stessi valori: l’amore per gli oggetti della vita quotidiana, le esigenzedel più vasto pubblico, l’azione propagandistica e soprattutto la preferenza per le artiapplicate.Come esempi dell’attività pratica di Morris vanno ricordati: l’arredamento dello studiodel collega D. G. Rossetti eseguito nel 1865 con alcuni membri del gruppo tra i qualiPhilip Webb, Edward Burne-Jones, William Hunt, Ford Maddox Brown, Peter PaulMarshall e Charles Faulkner; la costruzione della celebre Red House nel 1859,progettata da Webb ma arredata con pezzi singoli prodotti dagli artisti citati;l’apertura della ditta Morris, Marshall, Faulkner & Co nel 1862 e infinel’organizzazione, dal 1888, delle esposizioni di arti applicate, dal titolo Arts and Crafts,che in seguito diventerà il nome dell’intero movimento morrisiano.Se è vero che l’azione di Morris deve la sua popolarità ai caratteri più tradizionali dellasua teoria, espressi con la netta opposizione alla tendenza utilitaristica dell’epoca, inessi bisogna leggere una forte volontà di risanare la morale, ormai profondamentecorrotta, più che l’effettivo rifiuto della società paleo-industriale. Infatti, da alcuni deisuoi scritti più maturi emerge la consapevolezza di vivere in un importante momentoe in una grande nazione ma, soprattutto, il riconoscimento dell’importanza dellemacchine.Inoltre i suoi più immediati eredi, cioè la generazione nata intorno al 1850, aderironoancor più esplicitamente alle condizioni del tempo: alla bottega artigiana sostituironouna rete di laboratori e organizzazioni produttive, ed ammisero esplicitamente lapossibilità di avvalersi del lavoro delle macchine.La ricerca teorica ed estetica di Morris fu quindi il seme da cui, nell’ultimo decenniodel secolo XIX, germogliarono le correnti artistiche moderniste.

Philippe Webb, Red House, 1859 vedutaangolare

Una pagina del catalogo sedie Morris & CO, 1860

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L A M O R T E A D U R U KUmberto Simone

L’opera senza dubbio piùimportante della letteraturamesopotamica, l’ Epopea diGilgamesh, ci è pervenuta,oltre che nella sua edizioneprincipale, quella in dodicitavolette, per un totale dicirca 3500 versi, scopertanella biblioteca del reAssurbanipal (669-628 a.C.) eora conservata al BritishMuseum, anche in altre

stesure più frammentarie, spesso parziali, ma notevolmente più antiche,sumeriche, ittite e hurrite, per cui oramai gli studiosi sono pressoché concordinel ritenere che le sue origini risalgano almeno al 2100 a.C. benché tutti i varielementi che la compongono siano stati magistralmente e definitivamentefusi fra loro, con un processo affine dunque alla formazione dell’Iliade edell’Odissea, soltanto in seguito, in epoca babilonese. Non è il processo digenesi, tuttavia, il solo punto di contatto fra questo poema e quegli omerici:esso pure, giusto come accadde nell’Ellade alle vicende di Achille e di Ulisse,divenne per la sua gente una specie di Bibbia, il Libro per eccellenza, senzacontare che con la Bibbia vera e propria poi condivide, a parte le evidentisomiglianze strutturali della versificazione, con i ritmi e i parallelismi tipiciimputabili alla comune radice semitica, anche un affascinante resoconto delDiluvio Universale. E per chi storcerà il naso davanti a tali accostamenti, certoimponenti, ma piuttosto remoti nel tempo, ho un’ultima cartuccia da sparare:un valido autore sperimentale e all’avanguardia come Franco Battiato, per unasua recente composizione, è per l’appunto a Gilgamesh che si è ispirato.Chi sia costui, ce lo dicono subito i versi iniziali: è un semidio, anzi persinoqualcosa di più, perché un semidio è dio per metà, mentre Gilgamesh, il testoci tiene a sottolinearlo, è dio per due terzi e uomo solo nel terzo restante.Inoltre, e subito scatta in noi il primo di una serie di innumerevoli richiami, ècome l’eroe di Itaca provvisto di un multiforme ingegno e di un’esperienzaguadagnata dolorosamente (“colui che tutto vide, fino ai confini della terra…che un lungo cammino percorse, affaticandosi e soffrendo…”). Infine, è un re, unre costruttore, che ha innalzato le grandiose mura della sua città, la sumeraUruk, sottoponendo però in questa attività il suo popolo ad un susseguirsiincessante e insopportabile, per dei semplici mortali, di fatiche e di corvées e,come se non bastasse, esercitando il proprio eccesso di energia e di vitalitàanche… sulle suddite: se “non lascia il figlio al padre” per le proprie ambizioniarchitettoniche, parimenti “non lascia la vergine a sua madre, la moglie al suosignore”. Ben presto apparirà chiaro che è una hybris dovuta non amegalomania né a mera lussuria, quanto piuttosto al desiderio di acquisirequella sorta di immortalità che conferiscono l’impianto di edifici colossali o diuna numerosa progenie: gli abitanti di Uruk in ogni caso sicuramente non sonoin condizione di cogliere siffatte sottigliezze e, esasperati, rivolgono le loro

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proteste ed i loro lamenti agli dei perché alleggeriscano un giogo ormaiintollerabile.La preghiera viene accolta e Aruru, la stessa dea che ha generato Gilgamesh, èincaricata di creare un suo doppio, un avversario forte e prepotente come luiche contrastandolo lo tenga impegnato e in tal modo garantisca la tranquillitàa tutti gli altri. Aruru, col gesto ingenuo e naturale di una massaia terrena, “silava le mani”, quindi impasta dell’argilla, la getta nella steppa, ed ecco Enkidu,erculeo, villoso da capo a piedi come un animale e altrettanto selvaggio, omeglio selvatico: infatti pascola l’erba insieme alle gazzelle e coi suoi simili aquattro zampe si abbevera e sguazza allegramente nell’acqua, finché ungiorno, proprio lì ad una sorgente, non lo vede un cacciatore che da qualchetempo, con sorpresa, trovava tutte le sue trappole inspiegabilmente buttateall’aria. Alla vista di quel gigante peloso il cacciatore si spaventa non poco ecorre a chiedere consiglio prima a suo padre e poi a Gilgamesh in persona edentrambi gli danno lo stesso suggerimento, quello di offrire allo strano mostrouna prostituta che, per quanto egli sia forte, “grazie a una forza più grande”,ne avrà ragione e lo addomesticherà. Il cacciatore si apposta ad un pozzo conla prostituta prelevata apposta da Uruk e allorché il povero Enkidu apparedavanti a questa trappola di nuovo genere, che si sfila la veste e gli mostra iseni e “il suo fiore”, naturalmente non ha scampo.Gli abbracci durano sei giorni e sette notti, dopo i quali Enkidu fa un’amarascoperta: quando cerca di riunirsi ai suoi animali essi ormai lo fuggono, legazzelle scorgendolo si allontanano da lui e lui non riesce a raggiungerleperché ha perso le risorse ferine di un tempo, le carezze scambiate con laragazza lo hanno reso umano. Allora torna da lei, si siede ai suoi piedi e “laguarda in volto”. Sarà infatti proprio la prostituta, essa pure in qualche modoingentilita, umanizzata dal loro rapporto, a sancire definitivamente la suatrasformazione, insegnandogli a vestirsi e a mangiare da essere civile epersuadendolo a seguirla ad Uruk dove potrà impiegare degnamente la suaforza contro quel nerboruto prepotente di Gilgamesh. Arrivano ad Uruk ilgiorno di Capodanno (dettaglio che scatena i folkloristi e gli etnologhi, giàdeliziati dalla contrapposizione fra due individui praticamente gemelli a partel’abbondanza di pelo in uno di essi, insomma come Giacobbe e il setoloso Esaùe ora allertati dalla frequente comparsa, in certe festività popolari di tutto ilmondo, del cosiddetto Impostore, appunto irsuto e selvaggio, che irrompeall’improvviso disturbando le cerimonie) e là, quando Gilgamesh ed Enkidufinalmente giungono alle mani, tutti possono constatare che l’arrogante re hatrovato l’antagonista che meritava, meno alto forse di lui, ma più tarchiato.Anche Gilgamesh se ne accorge e, benché non sia del tutto chiaro come ciòavvenga, visto che delle dodici tavolette questa è la più rovinata, maprobabilmente con quel meccanismo psicologico cui ci hanno abituato i filmamericani dove due contendenti di pari forza, dopo essersele suonate di santaragione senza che nessuno di loro prevalga, finiscono per trasformare larivalità in una fratellanza di sangue, egli ed Enkidu diventano amici per lapelle, un po’ come Achille e Patroclo e d’ora in poi anche compagni diavventura… sì, perché l’incorreggibile re di Uruk, pur avendo smesso ditormentare il suo popolo coi ciclopici propositi edilizi, continua ad inseguirel’immortalità, stavolta coll’ausilio delle gloriose imprese, progetta diraggiungere la Foresta dei Cedri e di uccidere il feroce mostro Humbaba, “il cuiruggito”, come gli racconta il riluttante Enkidu che Humbaba già lo ha veduto,

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“è l’uragano le cui narici sono fuoco, il cui occhio è morte” al punto chequest’antichissimo antenato di Medusa deve tenerlo coperto, quell’occhioletale, con ben sette veli. Niente riesce però a dissuadere dai suoi bellicosidisegni il cocciuto Gilgamesh: né i lamenti della madre divina (che,esattamente come Teti nel primo canto dell’Iliade, rimprovera il supremo diodella giustizia Shamash di averle dato un figlio “dal cuore troppo inquieto”), néi sogni di cattivo augurio che Enkidu fa di continuo; anzi egli prende in girol’amico restio per i suoi timori, affermando orgogliosamente: “Se pure iocadessi, mi sarei fatto un nome! Un nome che non svanisca voglio farmi!”Insomma in quel giardino descritto con suggestive cadenze di favola che è laForesta, o la Montagna, dei Cedri e dopo il furioso combattimento che ci sipoteva aspettare, Humbaba viene abbattuto, ma mentre finito lo scontroGilgamesh si lava e si riassetta, la dea Ishtar in persona, dimostrando perl’ennesima volta che le donne, anche se dee, persino ai tempi diNabucodonosor, sotto sotto sono sempre attratte dai vincenti, conquistatadalla bellezza dell’eroe gli si fa incontro allettandolo con ogni sorta dipromesse: se diverrà il suo amante avrà fra l’altro un carro di lapislazzuli ed’oro, quando entrerà nella loro dimora i profumi lo avvolgeranno e soglia epavimento gli baceranno i piedi, le sue capre avranno parti trigemini e i suoicavalli da corsa vinceranno tutte le gare… Ma Gilgamesh la respinge conbrutalità, rinfacciandole di avere sempre tradito i suoi compagni di letto,addirittura forse tramutandoli in bestie (prima incarnazione mondiale del mitodi Circe ed esatto rovescio della gentile prostituta di Uruk che in Enkidu haprodotto la trasformazione opposta) e poi rovinandoli ulteriormente con lostrappare al variopinto uccellino le ali, affossando in “sette più sette pozzi” ilpossente leone e piegando agli sproni e alla frusta il focoso stallone: “Tu nonsei che un braciere che nel freddo si spegne, una porta del retro che non riparadalla tormenta, un riparo che crolla, un turbante che non copre, pece che sporca,otre che gocciola, scarpa che punge…” Furente per essere stata respinta e per dipiù con una simile caterva di insulti, Ishtar manda contro i due eroi lospaventoso Toro Celeste, ma anche questo viene ucciso e, supremo oltraggio,il non ancora abbastanza dirozzato Enkidu gliene scaglia in faccia una zampa,rimpiangendo di non poter squartare nella stessa maniera anche lei. Alladivinità offesa non rimane che rivolgersi, invocando un’adeguata punizione, ainumi suoi colleghi, i quali, dopo una disamina burrascosa e forse non del tuttoequa dei fatti, decidono che il più colpevole è Enkidu e quindi è su di lui che,preceduta al solito da incubi di significato angoscioso, piomba la morte. Nelleultime ore della sua esistenza, piene di cupi presentimenti, egli rivede con lamemoria la steppa della sua giovinezza e se dapprincipio imprecaamaramente contro il cacciatore e la ragazza iniziali responsabili del suo tristestato presente, poi invece, con più matura consapevolezza, li benedice,perché, qualunque sia stato il prezzo da pagare in cambio, comprende chesolo per merito loro ha trovato, oltre alla civiltà, anche la grande avventuranella Foresta dei Cedri e soprattutto il dono più prezioso, la sua amicizia conGilgamesh.La metamorfosi del primitivo mostro villoso non poteva essere più completa,ma questo certo non consola Gilgamesh, il quale, davanti al cadavere del suoadorato Enkidu, prorompe in accenti di incredulità e di dolore chegiustamente ad un lettore raffinato quale Franco Fortini hanno ricordato ilpianto di Achille su Patroclo, perché, proprio come Achille, Gilgamesh piange

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non solo la fine precoce dell’amico, ma anche in anticipo la propria e, stareiper aggiungere, persino la nostra, tanto a questo punto della narrazione ilplurimillenario poema si rivela ancora attuale, universale, incandescente.Gilgamesh non può sopportare l’idea che anche lui diverrà così freddo, cosìinanimato e stavolta non è, come in passato, all’immortalità simbolica datadalle immani costruzioni o dalle eroiche imprese che aspira, ma a quellaletterale, del corpo, della persona, quella di cui, ora se ne ricorda, uno almeno,un suo antenato, Utnapishtim, pare abbia trovato il segreto. Risolve dunque diandarlo a cercare, ma non sarà un viaggio semplice, anzi -e non è un gioco diparole - sarà praticamente un’Odissea. Nella queste egli incontrerà iterrificanti Uomini Scorpione, percorrerà la lunghissima tenebrosa galleria cheè il sentiero sotterraneo del Sole, vedrà un giardino incantato fiorito di pietrepreziose, sarà ospitato nella locanda di una specie di Calipso, la dea pesceSiduri, che, dapprima diffidente poi benevola, lo esorterà invano a lasciarperdere l’immortalità ed a pensare piuttosto a godersela finché è in tempo edinfine, ormai emaciato e consunto, attraverserà col nocchiero Urshanabil’Oceano della Morte, cambiando remo ad ogni vogata giacché basterebbe ilcontatto con una sola goccia di quell’acqua ad ucciderlo e solo dopocentoventi cambi di remi, in un’atmosfera ovattata e boreale quasi da EstremaThule, si troverà faccia a faccia col suo avo.Utnapishtim è il Noé babilonese, sopravvissuto lui pure al Diluvio grazie adun’arca costruita seguendo, nel vero senso della parola, una soffiata del dio Eache gli ha trasmesso avvisaglie e misure (fra parentesi non collimanti, questeultime, con quelle, puntigliosissime, della Bibbia) appunto in una folata divento fra i cannicci della capanna. La descrizione del cataclisma è grandiosa edavvero impressionante: fulgore di lampi e poi tenebre fitte, l’ampia terra chesi infrange come un vaso, gli dei che si accovacciano atterriti come cani e silamentano come partorienti, i cadaveri che riempiono il mare galleggiandocome uova di pesce. Solamente al settimo giorno l’uragano si placa. Allora,ricorda il vegliardo, “Aprii un boccaporto, e una luce mi venne sul volto. Miinchinai, mi sedetti e piansi.” Anche qui vengono in successione liberate unacolomba ed una rondine, che tornano ed un corvo che non torna, perché trovada mangiare e dove posarsi. Al sacrificio di ringraziamento del superstitepartecipano tutti gli dei e decidono che lui e la sua sposa d’ora in poi sarannocome loro e vivranno in eterno nella lontana regione “alla Foce dei Fiumi”. Conquesto racconto, l’antenato cerca di far comprendere a Gilgamesh che il suo èstato un caso speciale, una grazia particolare che non si ripeterà e che la morteè un destino comune al quale egli pure dovrà rassegnarsi. L’eroe però insisteed allora Utnapishtim gli propone una sorta di prova: Gilgamesh, perdimostrarsi degno, non dovrà dormire per sei giorni e sei notti, esperimentoche, il vecchio lo sa bene, fallirà subito: infatti Gilgamesh si è appena sedutoche si addormenta di schianto e Utnapishtim lo indica alla moglie con ironiamentre la donna, più sensibile, ne prova invece una grande pietà. Quandodopo sette giorni Gilgamesh si sveglia, sulle prime non crede di avere dormito,non così a lungo almeno, ma lo smentiscono, in diverso stato di conservazioneaccanto al suo giaciglio, le sette pagnotte che, una al giorno, la moglie diUtnapishtim ha infornato per lui e che ora gli serviranno per il viaggio diritorno. Di ritorno però a mani vuote lui non vuole sentirne parlare, gridadrammaticamente:”La morte è nella mia camera da letto!” e si dispera finché,sempre per l’intercessione della dama dal cuore tenero, il vecchio non concede

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una specie di premio di consolazione, facendogli cogliere dal fondo del mareuna pianta spinosa e molto pungente, che non dà l’immortalità, ma se nonaltro restituisce la giovinezza. Sulla barca che lo riporta indietro l’eroealquanto pacificato decanta al nocchiero Urshanabi, che lo ascolta in sinistrosilenzio, le proprietà di quell’erba e già pregusta quando, arrivato ad Uruk, nemangerà e recupererà le sembianze e le forze del passato. Inutile dire che,come avviene in molte altre storie di altre epoche e di altri paesi, ad un’incautasosta presso una fontana, il solito serpente, fiutata la magica fragranza dellapianta, la ruba e si allontana “perdendo la spoglia”, cioè mutando ringiovanitola pelle, cosicché al deluso Gilgamesh non rimane che rientrare nella sua cittàed intraprendere nuove costruzioni, anche se oramai ci viene da pensare chenon si tratterà più di enormi bastioni inutili contro un nemico invincibile, mapiuttosto di tombe, di immensi mausolei, eretti su un sogno impossibile.Il fatto che la vicenda termini con Gilgamesh costruttore esattamente com’erainiziata, in una raffinata e modernissima composizione ad anello, insinuasottilmente che tutto quel penare, tutto quel vagare avvenuti nel mezzo, allafin fine, sono risultati vani, anzi in un certo senso è come se non fosseronemmeno mai esistiti. Eppure noi sappiamo che non è così. L’acutapercezione che la paura e la speranza, dal 2000 a.C. al 2000 d.C., siano semprele stesse, ci insegna una dolorosa solidarietà umana che, se non è un rimedioradicale, è pur sempre un leggero balsamo. Allora come oggi, nelle nostremetropoli come ad Uruk, un’unica morte ci bracca, ma unica è anche la musicache a tratti ce ne distoglie, sia che ci giunga dalla radio del bar sotto casa, siache ci arrivi da immense distanze, dal fondo dei secoli, da un posto remoto,laggiù, super flumina Babyloniae.

Naturalmente, non essendo purtroppo un assiriologo, ho dovuto, nella stesura di questepagine, avvalermi delle opere di tutta una serie di illustri studiosi, le cui versioni ho manipolatoe mescolato fra loro appassionatamente, confidando che Giorgio Castellino, Alfonso Di Nola,Will Durant, Giuseppe Furlani, Theodor Gaster, Samuel Noah Kramer, A. L. Oppenheim eGiovanni Rinaldi saranno indulgenti con chi, pur non possedendo le loro cognizioni, con loroalmeno condivide, a modo suo, da volenteroso ficcanaso, l’ammirazione e l’amore per uno deitesti più straordinari che esistano al mondo.

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Valeria Giaretta

1 Barnes J.A., Class and committees in a Norvegian island parish, in “Human Relations”, vol. VII, 1954, 1, pp. 39-58

T U L A C O N O S C I C L A U D I A ?L A S O C I A L I T À N E L L ’ E R A D I F A C E B O O K

Per l’uomo è impossibile non comunicare.Ognuno di noi è costantemente immersoin un contesto sociale, con il qualeinteragisce, che influenza e dal qualeviene a sua volta influenzato; le relazioniche vi si tessono sono tra loro differentiper contesto, tipologia di personecoinvolte e, ovviamente, intensità.

Lo studio dell’interazione tra l’individuo e il contesto di appartenenza comporta,così, l’analisi delle realtà economico-sociali più prossime al soggetto, degli ambiticulturali di riferimento, nonché della struttura di reti di relazioni che si instauranotra gruppi di amici, colleghi, coetanei o parenti. Ed è proprio a questa strutturache ultimamente si fa sempre più riferimento per spiegare e rappresentare ifenomeni sociali.Il concetto di rete sociale, tuttavia, non è nuovo. Già nel 1954, Barnes, vi fariferimento asserendo che “ogni persona è, per così dire, in contatto con unnumero di altre persone, alcune delle quali sono in contatto l’una con l’altra,mentre altre non lo sono. Similmente ogni persona ha un numero di amici che, aloro volta, hanno altri amici; alcuni degli amici di una persona si conoscono l’unocon l’altro, mentre altri non si conoscono. Trovo utile parlare di un campo socialedi questo tipo come di un network. L’immagine che ho è quella di una serie dipunti, alcuni dei quali sono collegati da linee. I punti rappresentano gli individui, otalvolta i gruppi, e le linee indicano quali persone interagiscono tra loro” 1.La rete sociale è, dunque, un insieme di scambi di relazioni tra persone che siconoscono e condividono esperienze con una cultura dominante, in cui ogni unitàsociale è legata ad altre unità sociali.L’evoluzione di Internet nel cosiddetto web 2.0 (ossia la nascita e l’evoluzione diapplicazioni che la Rete mette a disposizione degli utenti per poter interagire traloro) ha, tuttavia, esteso i confini delle reti sociali di ognuno di noi ben oltre quellidelimitati dall’esperienza concreta, rivoluzionando il nostro modo di pensare e, inmolti casi, di rapportarci al prossimo.Il contatto fisico non è più necessario, non è più presupposto imprescindibile perconoscere una persona: diviene sempre più spesso una scelta, una condizionepossibile, molte volte passo conclusivo del processo di conoscenza.Che ne resta, allora, dell’individuo, uomo in carne ed ossa, soggetto ed oggetto,protagonista e comprimario delle sue reti sociali?Alla base del funzionamento di queste nuove reti sociali, o meglio social network,c’è sempre lui, che oggi riveste, però, un nuovo ruolo, quello dell’utente. Ed èproprio l’utente, considerato come sistema sociale e psicologico, il motore delnetwork. La rete “vive” dei suoi utenti e con i suoi utenti, delle relazioni chenascono tra loro, diventando parte della vita di chi la frequenta e influenzandone,così, attività e decisioni quotidiane.

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Le reti sociali si espandono qui a dismisura, trascendendo di gran lunga ilcosiddetto numero di Dunbar, che identifica come numero massimo, per potermantenere delle relazioni sociali attive, i 150 membri; la soglia necessaria perconsiderare “vicino” qualcuno si abbassa e, di conseguenza, il concetto disocialità attiva diviene più elastico.Così ci si sente parte di un gruppo, numeroso e quindi importante. Il bisogno diformare e identificarsi in un gruppo è un istinto dell’uomo in quanto animalesociale, istinto che nella società attuale assume carattere di complessità, sempreteso tra la necessità di appartenenza ed il bisogno di salvaguardare la propriaidentità. E forse proprio in questo i social network vengono in soccorso all’uomomoderno, individuale e sociale che si sente libero di alimentare la propriaappartenenza ad uno o più gruppi, ma anche di mantenere la propriaindividualità, nascondendosi dietro alla “distanza tecnologica” o ad identitàfittizie.

Facebook è uno dei social network più famosi al mondo e il più diffuso nel nostroPaese, la comunità virtuale più grande del Web. E continua a crescere in modoesponenziale.Il 2010 si è aperto con numeri sorprendenti: 400 milioni di iscritti in tutto ilmondo, con un incremento giornaliero che si aggira intorno ai 600 mila nuoviiscritti. Solo nel nostro Paese, l’incremento annuale del numero di utenti che siregistrano a Facebook è del 963%, riscuotendo ampi consensi anche nellapopolazione adulta (oltre i 35 anni) che invece negli Stati Uniti mostra inferiorepropensione all’adesione a questo network.Registrarsi è gratuito, facile ed intuitivo. E’ il primo passo per farsi conoscere,condividere la propria immagine e le informazioni personali.Cercare gli amici è fondamentale: lo si può fare attraverso un’applicazioneautomatica che esegue un controllo tra i contatti presenti nella rubrica delproprio account di posta elettronica; è possibile importare i propri contatti daprogrammi di istant messagging come Skype o MSN; infine è possibile effettuarela ricerca attraverso la digitazione manuale di nome o istituto di appartenenza,del nome dell’azienda o, ovviamente, del nome e cognome della persona che sivuole trovare.Una volta creata la propria rete di amicizie è possibile visitare i singoli profili degliutenti che ne fanno parte; iscriversi a gruppi per appoggiare cause e ideali più omeno seri; informare i propri amici in tempo reale sulle attività che stiamosvolgendo e, di conseguenza, informarsi su quello che stanno facendo i nostricontatti minuto per minuto; condividere immagini, interi album fotografici oancora filmati; inviare messaggi pubblici o privati; socializzare attraverso giochionline.Ma cosa spinge milioni di persone a condividere incessantemente minuto perminuto la propria vita e altrettanti milioni a interessarsi altrettantoincessantemente minuto per minuto alla vita altrui? Secondo gli scienziati è unaquestione di “consapevolezza sociale”, ossia della consapevolezza estrema delritmo della vita di un altro, un ritmo mai conosciuto prima, in cui l’informazionedettagliata e in tempo reale si trasforma in una sorta di lettura della mente adistanza, come se ognuno di noi avesse un display collocato sulla fronte. Si arrivacosì a sentire una sorta di legame sociale intimo, a volte percepito come piùintimo di quello che è possibile avere con familiari ed amici nella vita reale, di cuinon conosciamo ogni singolo spostamento o stato d’animo come invece accade

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con gli “amici” del network.Ed è, forse, questo uno dei più grandi paradossi della nostra società: cipreoccupiamo di tirare le tende perché il vicino non possa vedere il nostro divanoeppure sul web condividiamo con chiunque ogni dettaglio della nostra vitaprivata. Con chiunque, sì. Perché, purtroppo, quello di cui in pochi sonoconsapevoli è che mancano i controlli e i filtri per la diffusione di informazionipersonali nei social network e i dati personali possono essere copiati e diffusi inmodo indiscriminato. Insomma, ci sono cose che proprio non si possono sapere:per tutto il resto c’è Facebook!Eppure anche politici, personaggi dello show business e manager fanno a gara peressere presenti su Facebook. Si fa di tutto per mantenere una certa posizione: simettono le foto migliori, si cerca di mantenere le relazioni con le persone piùinteressanti ed è possibile verificare la propria posizione della classifica di “nicestperson”. Come nella vita reale, la popolarità ha un ruolo determinante: si sente ildesiderio di far parte del gruppo, di essere considerati, apprezzati e di avereun’intensa attività di socializzazione.Socializzazione che, peraltro, coinvolge ogni giorno un sempre maggior numerodi utenti e che il social network si impegna ad alimentare. Il personale portafogliodi amici si espande in continuazione, anche grazie all’applicazione “persone chepotresti conoscere”, attraverso la quale Facebook suggerisce possibili nuoveamicizie attingendo da quelle dei propri amici, secondo la teoria dei sei gradi diseparazione: teoria, elaborata nel 1929 dall’ungherese Frigyes Karinthy, secondocui ogni persona può essere collegata al mondo con un numero non superiore di 5intermediari, è stata dunque rielaborata (portando a sei gli intermediari) edapplicata al nuovo social network.Ecco dunque che le reti sociali di ogni utente divengono incredibilmentenumerose, fino a superare, in alcuni casi, i 500 amici.Ma è sufficiente poter accedere ad un profilo per avere informazioni più o menopersonali per definirla una relazione? Si può davvero parlare di “amicizia”?Il Facebook Data Team, gli analisti sociali del social network da cui il gruppoprende nome, ha reso pubblici alcuni dati che hanno permesso di comprendere ledinamiche sociali all’interno di Facebook. Ne è emerso che, in realtà, si riesce amantenere una comunicazione stretta con un numero molto basso di amici, cosìcome poi accade, di fatto, nella vita off-line di tutti i giorni. In particolare,all’aumentare del numero di contatti, diminuisce la percentuale di persone con lequali si riesce a rimanere in contatto, seppur in maniera debole (con una rete di 50contatti si riesce a mantenere una relazione lasca con il 18% di essi, ma quando larete arriva a 500 contatti, la relazione scende al 7,8%).Sono, insomma, i meccanismi di progettazione di Facebook, ed in particolare ilNews Feed, ossia il flusso di notizie generato dai nostri contatti, a mantenere unarelazione che, seppur lasca, sarebbe altrimenti impossibile.Eppure questa frequentazione on-line induce sempre più ad una certa pigrizia allafrequentazione reale. Incontrarsi davvero diviene tutto sommato superfluo, dalmomento che il bisogno di socializzazione e frequentazione viene in qualchemodo soddisfatto dal surrogato elettronico. Soddisfatto dalla vicinanza virtualecon l’amico in questione e soddisfatto perché “riempito” dalla moltitudine deglialtri legami telematici esistenti.In un’epoca in cui l’individualità assume un valenza sempre maggiore, in cui ilprimo pensiero è sempre rivolto a sé stessi ed investire tempo ed energie neirapporti con gli altri diviene sempre più un peso anziché un’opportunità di

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confronto e arricchimento personale, i social network diventano lo strumento perrestare in contatto col mondo, senza esservi immersi completamente.E’ un nuovo modo per circondarsi di persone che siano il nostro supporto sociale.Persone da cui dipende, in definitiva, la nostra capacità di affrontare le sfide diogni giorno, che fungano da sostegno psicologico ed emotivo, che siano i nostricomplici e concorrenti delle nostre esperienze. Abbastanza vicini e abbastanzalontani.Hai una nuova richiesta di amicizia. Confermi o ignori?

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G R I S H A B R U S K I N . A L E F B E T . A L F A B E T O D E L L AM E M O R I A

Venezia, Fondazione Querini Stampalia12 febbraio-13 settembre 2015Un misterioso alfabeto costituito da 160 personaggi: angeli, demoni con ilvolto di animali, figure trafitte da un fulmine, uomini che portano sulle spallela loro ombra, o scrutano nei segreti del libro. Per la sua prima esposizione aVenezia Grisha Bruskin, uno dei più importanti artisti russi viventi, apprezzatoe riconosciuto a livello internazionale almeno dalla metà degli anni ’80, hascelto il progetto “Alefbet”: cinque grandi arazzi (2,80m x 2,10) rappresentanoil cuore della rassegna, cui si giunge tuttavia esaminando in precedenza idisegni preparatori dell’artista, i gouaches e 6 straordinari dipinti, ossia lediverse tappe in cui si è articolato questo complesso e affascinante “archiviodel segno”. Una sintesi densissima, che fa memoria di una millenariatradizione, quella ebraica del Talmud e della Kabbalah, nel momento stesso incui la rivela come possibile e permanente chiave di lettura simbolica dellanostra storia e del nostro presente. “Alefbet” è una rassegna di eccezionaleimpatto visivo, che non potrà lasciare indifferente il visitatore, accompagnatoe coinvolto nel percorso da una serie di originali apparati multimediali,realizzati in collaborazione con CamerAnebbia-Milano di Marco Barsottini,che evidenzieranno la formidabile carica narrativa dell’opera di Bruskin.La mostra è promossa dal Centro Studi sulle Arti della Russia (CSAR) di Ca’Foscari, ed è curata da Giuseppe Barbieri e da Silvia Burini in collaborazionecon la Fondazione Querini Stampalia. Catalogo Terra Ferma, con saggi diEvgenij Barabanov, Giuseppe Barbieri, Grisha Bruskin, Silvia Burini, BorisGroys, Michail Jampolskij.Alla fine degli anni ‘50 Bruskin scopre nella tematica ebraica un soggetto deltutto nuovo per la realtà sociale e l’arte sovietica, dato che in URSS mancavain modo categorico una qualsiasi forma di vita ebraica quotidiana e religiosa.Bruskin vi giunge in maniera, per così dire, indiretta: proveniva infatti sì da unafamiglia ebrea, di scienziati, lontana però da problematiche religiose. La suacomprensione di essere ebreo, la sua ebraicità, avviene perciò – è lui stesso aribadirlo più volte - attraverso i libri e i racconti dei parenti. Un’esperienza chesi configura quindi come una vera e propria “ricostruzione” archeologica, chelo conduce a uno stile particolare e originalissimo, in cui i frammenti di unpassato perduto e riafferrato sembrano scaturire, almeno inizialmente, da una

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specie di carnevale pittorico un po’ fiabesco, ricco di motivi allegorici esimbolici ma anche surrealisti.Un forte cambiamento, anzi una vera rottura, si registra negli anni ‘80 quandoBruskin comincia a frequentare i maggiori esponenti della Soc Art, Prigov,Orlov, Lebedev. Da questo momento il suo stile cambia, e da un primitivismoun po’ ornamentale giunge a una maniera asciutta che assume il sembianteplastico dai poster sovietici (nello stesso stile in cui Kabakov fa la seriededicata alla Kommunal’ka). L’interesse di Bruskin per la produzioneideologica sovietica nasce di sicuro in seguito alle frequentazioni con i soc-artisti, ma mentre Orlov guarda alla monumentalità del regime, Bruskin è piùattratto dalle statue più modeste di pionieri, soldati e lavoratori cheabbellivano facciate e parchi al tempo di Stalin. Ma il tema ebraico non vienedimenticato, anzi rimane in parallelo alla problematica sovietica: l’artistascrive che tra l’approccio talmudico e quello marxista c’è molto in comune.Nel suo Fundamental’nyj leksikon (1986), una specie di grammaticabruskiniana, origine e sintesi di tutta la sua lingua, l’artista compie un’opera disistematizzazione del sistema segnico sovietico con la stessa accuratezza concui nella Torah si elencano i peccati dell’umanità: in ogni celletta c’è unastatua di gesso che tiene in mano un segno visivo, una medaglia, il modellinodel mausoleo di Lenin, un segnale stradale o una carta geografica. Bruskinricerca in sostanza una lingua meno esoterica rispetto ad altri suoi compagni,privilegia il racconto, la narrazione. È come se si presentasse a nome di unarcheologo del futuro, che cerca di comprendere il senso degli artefatti di unaciviltà passata. Questa apertura era dettata anche dalle mutate condizionipolitiche. Non c’era più il pubblico ristretto degli anni ‘70, che spessocoincideva con gli artisti stessi, per mostre che avevano sede nei loroappartamenti. Ai tempi della perestrojka invece si afferma finalmente lapossibilità di fare mostre in sale espositive e quindi di esporre lavori anche digrandi dimensioni. Fundamental’nyj leksikon fu esposto a Mosca nel 1987, inuna sala della Kashirka, la sede degli episodi artistici più importanti della finedegli anni ‘80, alla mostra “L’artista e la contemporaneità”. In quellacircostanza Bruskin - con il suo linguaggio nitido e i suoi quadri finementedipinti – si affermò come l’artista più importante della perestrojka. Fu unmomento molto importante perché, nonostante il potere ufficiale cercasse dicostruire un caso intorno alla mostra, una parte dell’opera fu acquistata dalfamoso regista Milos Forman che era stato invitato ufficialmente da Gorbaceve in questo modo cadde il divieto di esporre arte non ufficiale in URSS. Nonsolo. Dopo un anno Fundamental’nyj leksikon ebbe un ruolo fondamentale peril mercato dell’arte russa. A un’asta diventata famosa di Sotheby’s vennevenduto infatti per 200.000 sterline, mentre poco prima Otvety di Kabakov erastato venduto per appena 38.000 dollari. Comincia il “boom” russo: Bruskin sitrasferisce a New York e inizia ad aumentare il formato delle figure diFundamental’nyj leksikon, che divengono sculture monumentali ma in seguitoanche statuette di porcellana e poi arazzi.Il progetto “Alefbet” è appunto una parte essenziale di questo lungo ecomplesso macrotesto bruskiniano. Un alfabeto “cucito”, materico. Unarchivio che si fa testo.Scrive l’artista che il giudaismo, per ragioni storiche, non ha creato uncorrispettivo artistico equivalente alle sue iniziative spirituali. «Io ho sempresentito un vuoto culturale e ho voluto riempirlo con un livello artistico

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individuale. Gli ebrei sono il popolo del Libro, il libro è il loro simbolofondamentale: il libro è il mondo e il mondo è il libro, il libro è il proto modellodella mia arte e di Alefbet in particolare».«Mi rapporto ad Alefbet come a una concezione artistica e nient’altro, come auna sorta di gioco di biglie. Era importante per me creare qualcosa in forma dipagine, di palinsesto, di scrittura, di notizia, di commento.... Alefbet è anchescritture misteriose, rebus, un dizionario mitologico, sviluppa la lingua in unsistema di simboli e mitologemi, allegorie che bisogna essere capaci didecifrare, indovinare. Dove occorre trovare la propria personale spiegazione.Lo sfondo è rappresentato da scritture e sopra vi sono posizionati ipersonaggi, che sono 160. Tra di essi non succede nulla, sono solamenterappresentati e sono collegati dal contesto. Ogni eroe è dotato di unaccessorio e diviene una figura simbolo, una figura mitologema, una di quellefigure che creano una sorta di dizionario, collezione, alfabeto che in ebraico sidice appunto alefbet. “Alefbet” è il mio personale commentario al Libro».L’arazzo è accompagnato da un commentario ai commentari, che è scrittodall’artista. Lo spettatore, seguendo la tradizione del Talmud, deveaggiungere i propri commentari ai commentari dell’artista e in questo modopotrà avvicinarsi alla verità. “Alefbet” è una sfinge che pone degli enigmi allospettatore. Usando una metafora della Kabbalah si può dire che ognielemento dell’opera, fino al personaggio più accessorio, è una piccolissimaparticella del mistero complessivo della storia, una scintilla di luce. Lospettatore, muovendosi da un mitologema a un altro, percependone il senso ele relazioni, mette insieme le schegge ricostruendo il significato del quadro.Grisha Bruskin (Grigory Davidovich Bruskin) nasce a Mosca nel 1945. Nel 1968termina gli studi presso l'Istituto tessile di Mosca e l'anno successivo entranell'Unione degli artisti dell'URSS. La sua prima mostra personale, allestita nel1983 a Vilnius, viene chiusa pochi giorni dopo l’inaugurazione per ordine delPartito comunista lituano. L'anno successivo un'altra sua mostra, ospitata allaCasa centrale dei lavoratori dell'arte di Mosca, viene chiusa a un giornodall'apertura per ordine della Sezione moscovita del Partito comunista. La suaprima mostra non censurata, L'artista e la contemporaneità, apre al pubbliconel 1987 presso la sala espositiva Kashirka di Mosca. Il 7 luglio 1988, inoccasione della prima asta organizzata da Sotheby's a Mosca, sei opere diBruskin vengono battute a un prezzo record per l’arte contemporanea russa.Nello stesso anno l’artista prende la residenza a New York, dove avvia lacollaborazione con la Marlborough Gallery. Nel 1999 realizza su commissionedel Governo tedesco il trittico monumentale La vita sopra tutto per ilReichstag di Berlino. Nel 2005 partecipa all'imponente mostra collettivaRussia! allestita al Guggenheim di New York. Nel 2012 vince il premioKandinsky per l'arte russa contemporanea per il progetto H-Hour. Oggil'artista vive e lavora a Mosca e New York.

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A O C C H I S P A L A N C A T I . C A P O L A V O R I D A L M U S E OD E L L ’ I M P R E S S I O N I S M O R U S S O D I M O S C A

Venezia, Palazzo Franchetti13 febbraio- 12 aprile 2015“A occhi spalancati” è l’anticipazione, meglio l’anteprima di un nuovo grandemuseo di Mosca, quello dell'Impressionismo Russo che aprirà i battenti nellacapitale russa nel prossimo autunno. Per annunciare e far conoscere quelloche è destinato ad essere uno dei “musei imperdibili” per ogni turista che sirecherà a Mosca, la direzione della futura istituzione ha deciso di anticiparel’apertura al pubblico con due importanti preview: la prima si è svolta in Russia,nel Museo di Ivanovo, all'inizio dell'autunno scorso e ora è la volta di Venezia,unica tappa estera. Qui, dal 13 febbraio al 12 aprile, in Palazzo Franchetti, ilpubblico italiano e internazionale potrà ammirare 50 capolavori del futuromuseo moscovita, il meglio del meglio della sua imponente collezione d’arte.Un “biglietto da visita” estremamente raffinato, per annunciare una collezionedi sicuro interesse internazionale. La rassegna veneziana è curata da YuliaPetrova, direttore del Museo dell'Impressionismo Russo, e da Silvia Burini eGiuseppe Barbieri, responsabili del Centro Studi sulle Arti della Russia (CSAR)dell'Università Ca' Foscari e di una serie di prestigiose e apprezzate attivitàespositive che dal 2010 hanno diffuso in Italia alcuni essenziali aspetti dell'arterussa degli ultimi due secoli. È un’indicazione interessante dell'originalepolitica culturale e della speciale mission dell'istituzione moscovita: favorire,attraverso esposizioni temporanee, in Russia e all’estero, la conoscenza di unarilevante tendenza dell’arte russa, in particolare quella che caratterizza l'epocatra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, una fase ancora poco conosciuta, aparte alcuni grandi nomi, della vicenda artistica e del ruolo internazionaledella moderna arte russa. Le 50 opere sono esposte in un percorso che accostatra loro soggetti tematicamente contigui (il paesaggio, la scena urbana, lafigura in un interno), con una dovuta ma non sempre vincolante attenzionealla cronologia. Il momento di maggior fioritura dell’Impressionismo in Russiaè di qualche lustro successivo alla svolta dell'arte francese intervenuta trasettimo e ottavo decennio dell'Ottocento, e comprende soprattutto l'ultimodecennio del secolo e l’inizio di quello successivo. Ma questo non significa chepossa essere considerato la variante provinciale di quello francese e nemmenola sporadica scelta di maniera di qualche pittore. L’Impressionismo era giàdivenuto infatti il tempestivo punto di riferimento per l’opera di paesaggisti

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come Fedor Vasil’ev, aveva influenzato la ricerca di Polenov e di Repin, dopoun loro soggiorno in Francia e, grazie a questi maestri, era presto diventatooggetto di studio per gli studenti della Scuola di Pittura, Architettura eScultura di Mosca, alcuni dei quali destinati - come Konstantin Juon, PetrPetrovicev e Stanislav Zukovskij, tutti presenti in mostra – a un ruolo diprimaria importanza prima, durante e dopo l'avvento delle Avanguardie. Latradizione di dipingere alla maniera impressionista continua poi per buonaparte del Novecento, ed è documentata in mostra con opere di Koncalovskij,Grabar', Kustodiev, Baranov-Rossiné, con altri pittori insospettabili, comeSergej Gerasimov o Georgij Savickij, e persino con artisti molto legati alrealismo socialista, come Aleksandr Gerasimov e Dmitrij Nalbandjan. D'altraparte l'immagine guida della mostra – i Manifesti sotto la pioggia di Pimenov(1973) - dimostra con ogni evidenza come la matrice impressionisticacaratterizzi con un certo rilievo anche il periodo del disgelo post staliniano. Lamostra veneziana allinea insomma le prime esplicite rimeditazioni erielaborazioni della rivoluzione artistica francese, evidenzia la tenacepersistenza, per buona parte del Novecento, di questo approccio allaraffigurazione della vita individuale e dei suoi scenari e sottolinea laperdurante attualità di questa matrice. Per questo l'arco cronologico delleopere in mostra spazia da alcuni rari dipinti giovanili di Konstantin Korovin, ilpiù famoso esponente dell’Impressionismo russo, e di Valentin Serov sino adanni recentissimi, con pittori come Vladimir Rogozin e Valerij Kosljakov, chenon si possono certo considerare “impressionisti” in senso stretto ma per iquali sono risultate fondamentali le ricerche dei loro predecessori alla fine delXIX secolo e che raccolgono oggi, idealmente ed efficacemente, in una chiavecontemporanea, la loro eredità. Il Museo dell’Impressionismo Russo di Moscanasce dalla collezione privata di Boris Mints, avviata oltre dieci anni fa, anchemediante l'acquisto sul mercato occidentale di una serie di dipinti che sonotornati così in Russia e che tra poco saranno disponibili per i visitatori delMuseo. Il Museo dell'Impressionismo non espone tuttavia solo una collezioneprivata. C’è la ferma volontà di creare, mediante l'impiego di nuove tecnologie(alcune delle quali saranno sperimentate per la prima volta proprio nellamostra di Venezia), uno spazio che coinvolga i visitatori di varie estrazioni e adiversi livelli. Il museo è pensato insomma come uno spazio dinamico,interattivo, dove l’esposizione permanente verrà accompagnata da strutture eattività educational e di ricerca sulle raccolte del museo stesso. Sono previstiuna sala cinema e uno spazio per mostre temporanee.Come abbiamo accennato, quella di ”impressionismo russo” è una definizioneche ha confini molto vasti. Il Museo raccoglie pertanto opere dei classicimaestri del periodo più propriamente riferibile a questa tendenza storica, cosìcome di pittori che hanno trovato nella matrice impressionista, anche solo perun tratto del loro percorso, una referenza insostituibile per la loro ricerca e laloro evoluzione.Gli storici dell'arte hanno l'abitudine di far risalire al 1863 (l'anno de Le déjeunersur l'herbe e de l'Olympia di Manet) l'apparizione della nuova arte in Russia. Inquell'anno un gruppo di giovani pittori si ribellò all'autorità dell'Accademiadelle Arti di Pietroburgo, fino ad allora indiscussa. La principale conseguenzadi tale gesto fu la nascita di un secondo polo di influenza artistica, Mosca,dove, nel 1870, con l'aiuto di un mercante appassionato d'arte, PavelTret'jakov, si costituì la Società dei Pittori Ambulanti (Peredvizniki). Lo scopo

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era quello di diffondere la conoscenza artistica al di fuori delle grandi città, conmostre itineranti. La Società rimase attiva fino al 1923, organizzò più di 50rassegne ed ebbe un ruolo capitale nel dischiudersi di una nuova fase dell'arterussa.L'estetica degli Ambulanti segnò la generazione successiva, ma provocòanche un completo riorientamento dell'arte russa che fino a quel momentoaveva seguito le grandi scuole europee senza mostrare una vera e propriaoriginalità. Gli Ambulanti puntavano decisamente sul realismo e sull'impegnonella vita sociale. Il loro maggiore punto di riferimento culturale era LevTolstoj, di cui condivisero le opinioni ben prima che egli le esponessechiaramente in Cto takoe iskusstvo (Che cos'è l'arte, 1898). A partire dal 1874Savva e Elizaveta Mamontov cominciarono a riunire un gruppo più o menopermanente di artisti russi nella loro proprietà di Abramcevo. I fondatori diquesto "gruppo" furono Repin, Polenov, e Valentina Serova, insieme al figlioValentin, e più tardi si unirono a essi i fratelli Viktor e Apollinarij Vasnecov,Korovin e Vrubel'. Si discuteva, si lavorava e si parlava di arte medievale russae popolare. Si praticavano pittura e scultura ma anche arti applicate (la chiesadi Abramcevo è opera collettiva dei Vasnecov, Polenov e Repin), c'era persinoun teatro d'opera privato dove vennero allestiti molti spettacoli, come Lafanciulla di neve di Rimskij-Korsakov. La Corista (1883) di Konstantin Korovin(1861-1939) è probabilmente la prima opera impressionista russa: precorreva itempi e non fu capita dai contemporanei. E tuttavia vi si percepiscono i dueelementi tipici del suo approccio impressionistico: il decorativismo e latendenza allo studio-bozzetto, evidenti nei suoi paesaggi parigini eseguiti apartire dal 1900. Sono scene serali, la città è inondata di luce, Korovin infondevita negli episodi che si svolgono per strada, grazie a pennellate ampie,impulsive, quasi rozze. Nei suoi paesaggi si respira un'atmosfera teatrale, e ciònon deve stupire, dato che l’artista era anche un bravo scenografo teatrale,particolarmente famoso per le sue realizzazioni per opere liriche.L'opera di Korovin occupa un posto centrale nella tradizione moscovita ecostituisce un esempio efficace del desiderio dei pittori locali di raggiungere laspontaneità nella loro rappresentazione della vita e della bellezza. Con la finedel XIX secolo molti artisti avevano sviluppato a Mosca uno stile più o menocomune e tale evoluzione portò inevitabilmente alla formazione di un gruppo,l'"Unione dei Pittori russi" che per un breve periodo si unì al pietroburghese"Mir iskusstva" (Il mondo dell'arte), anche se tra i due gruppi esistevanodifferenze inconciliabili. I moscoviti, pur in grado diverso, erano dominatidall'Impressionismo, dall'esigenza della rappresentazione della vitaindividuale e sociale, mentre i membri di "Mir iskusstva" tendevano già almodern (la variante russa dello Jugendstil, del liberty o dell'art noveau, in unasorta di "plurilinguismo stilistico"). In Russia è molto complesso distinguere traquesti orientamenti, in primo luogo perché i due termini sono strettamentecollegati tra loro e inoltre perché manca quella forte tradizione romantica allaquale invece si erano potuti rifare gli artisti contemporanei europei.

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L ’ A R T E P E R L ’ A R T E . I L C A S T E L L O E S T E N S EO S P I T A B O L D I N I E D E P I S I S

Ferrara, Castello Estense,dal 31 gennaio 2015

A partire dal 31 gennaio 2015 al Castello Estense sarà allestita una galleria dicapolavori di due grandi pittori ferraresi che furono interpreti della scenaartistica internazionale tra Otto e Novecento, Giovanni Boldini e Filippo dePisis. Il monumento simbolo della città di Ferrara farà da cornice alle opere deidue artisti selezionate dalle collezioni delle Gallerie d'Arte Moderna eContemporanea di Palazzo Massari a Ferrara.L’arte per l’arte. Il Castello Estense ospita Giovanni Boldini e Filippo de Pisisintende riconsegnare al pubblico un incredibile patrimonio rimasto celato inseguito al terremoto del 2012 e sottolineare il rilievo della pittura modernaferrarese attraverso due figure di statura internazionale. L’obiettivo degliorganizzatori e degli enti curatori è quello di far vivere i musei nonostante lachiusura della loro sede. Più che una mostra sarà, infatti, un allestimentosemitemporaneo che potrà essere visitato sino alla riapertura delle Galleried’Arte Moderna e Contemporanea a Palazzo Massari, ora in corso di restauro.Le sale fastosamente decorate dell’appartamento di rappresentanza al pianonobile del Castello Estense e i celebri “Camerini del Principe” saranno così lasede temporanea di due percorsi monografici che esplorano l’intera parabolacreativa di Boldini e De Pisis. I musei ferraresi conservano, infatti, i più ricchi ecompleti fondi dei due artisti, testimoni di ogni aspetto della loro ricerca: olii,pastelli e acquerelli, studi e annotazioni boldiniani, così come i dipintidepisisiani verranno messi in dialogo secondo due linee di lettura cherestituiranno un intenso ritratto delle personalità artistiche dei due maestriferraresi.Il percorso espositivo si svilupperà a partire dalle sale del Governo, dellaDevoluzione, dei Paesaggi e delle Geografie, con dipinti, opere su carta edocumenti appartenuti a Boldini, dando risalto al suo ruolo di spicco nelrinnovamento della pittura italiana e internazionale: innanzitutto le provenella Firenze dei Macchiaioli, invenzioni di sorprendente immediatezza qualiLe sorelle Lascaraky; poi la produzione successiva all’approdo nella Parigi degliimpressionisti, in cui spiccano brillanti evocazioni delle atmosfere della vita

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moderna – da Notturno a Montmartre alla Cantante mondana – testimoni delconfronto con Degas; infine, le icone della ritrattistica boldiniana – come ilRitratto del piccolo Subercaseaux, Fuoco d’artificio, la Passeggiata al Bois deBoulogne o La signora in rosa – che sanciscono l’affermazione della cifrastilistica con cui Boldini si impone come un protagonista incontestato dellaritrattistica in Europa e oltreoceano. L’esposizione presenterà, in unaaffascinante sequenza, i volti delle protagoniste della Belle Époque, daMadame Lydig alla Contessa de Leusse a Olivia de Subercaseaux Concha, edegli amici artisti, come Degas, Menzel e Whistler.I Camerini, abitualmente non aperti al pubblico, ospiteranno la seconda partedell’allestimento, dedicata a un altro talento ferrarese attivo sul palcoscenicoparigino. A raccontare il percorso creativo di De Pisis saranno le opere chesono entrate a far parte della raccolta ferrarese soprattutto grazie all’attivitàdella Fondazione Pianori e al generoso lascito di Manlio e Franca Malabotta.Aprono la narrazione preziose testimonianze del periodo giovanile, da Naturamorta col martin pescatore dipinta a Ferrara prima del trasferimento nellacapitale francese, a Le cipolle di Socrate, rivelatrice della riflessione di De Pisissull’incontro con De Chirico e la pittura metafisica. Seguono i capolavori delperiodo parigino che raccontano la nascita di un linguaggio altamentepersonale, pure invenzioni liriche, come le nature morte marine e Il gladiolofulminato, o trascrizioni pittoriche delle brucianti emozioni che l’esperienzadella Ville lumière procura al pittore, quale Strada di Parigi. Il cerchio si chiudecon la produzione successiva al rientro in Italia, penetranti effigi maschili comeil Ritratto di Allegro e poi i commoventi capolavori dell’ultima stagione – Larosa nella bottiglia e Natura morta con calamaio – nei quali la poesia delleimmagini si spoglia fino all’essenziale. Un altro fondamentale apporto allavalorizzazione del patrimonio delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporaneaverrà infine offerto dalla pubblicazione dell’edizione critica dellacorrispondenza boldiniana conservata presso il Museo Giovanni Boldini a curadi una delle conservatrici, Barbara Guidi, che rappresenta un preziosostrumento scientifico per l’evoluzione degli studi sul pittore ferrarese.

L’ARTE PER L’ARTE. Il Castello Estense ospita Giovanni Boldini e Filippo de PisisFerrara, Castello Estense, dal 31 gennaio 2015

Organizzatori ed Enti promotoriGallerie d’Arte Moderna e Contemporanea del Comune di Ferrara, Provincia diFerrara, Fondazione Ferrara Arte

CuratoriMaria Luisa Pacelli, Direttrice Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea,Barbara Guidi e Chiara Vorrasi, Conservatrici Gallerie d’Arte Moderna eContemporanea

Orari di aperturaDa gennaio a maggio e da settembre a dicembre: 9.30-17.30(ad esclusione dei lunedì non festivi di gennaio, ottobre, novembre e dicembre)Da giugno ad agosto: 9.30-13.30 / 15.00-19.00 (ad esclusione dei lunedì non festivi diluglio e agosto) Chiuso 25 dicembre

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T U T A N K H A M O N C A R A V A G G I O V A N G O G HL A S E R A E I N O T T U R N I D A G L I E G I Z I A LN O V E C E N T O

Vicenza, Basilica Palladiana24 dicembre – 2 giugno 2015

“Mi piace fare mostre come questa, mai per la voglia di stupire, ma sempre esolo perché la pittura, attraverso la conoscenza, sia l’adesione a unsentimento, ne sia il racconto e non mai la spiegazione. Non desidero spiegareniente a nessuno, ho solo la gioia di mostrare che una finestra di Giorgione,oltre la quale sta il velluto di una notte chiara, io la possa appendere accanto auna finestra dipinta da López García quasi cinquecento anni dopo, quando unatangenziale butta la notte della periferia di Madrid dentro quella stessafinestra aperta. Penso che si possano fare mostre anche così, né migliori népeggiori di altre, ma diverse. Dove, sulla stessa parete, a Bellini non debba perforza succedere Giorgione, e dopo di lui Tiziano. Certo, anche questo, ma nonsolo. Penso che valga la pena vivere e lavorare in questo modo, dentro allaverità d’ognuno. Dentro all’emozione d’ognuno.”E’ un brano tratto dal libro che Marco Goldin ha scritto e che è diventato ilcatalogo dell’esposizione. Un brano che identifica compiutamente il suo mododi essere storico e curatore, il suo modo di pensare a una mostra. Come questadedicata al tema della sera e della notte nella storia dell’arte, nella quale lanovità è l’ingresso della Fondazione Teatro Comunale della Città di Vicenzacome Ente Promotore, con il Comune di Vicenza e Linea d’ombra, con ilcontributo fondamentale della Fondazione Cassa di Risparmio di Verona,Vicenza, Belluno e Ancona. Main Sponsor Segafredo Zanetti, special sponsorUniCredit. Accoglienza turistica a cura del Consorzio “Vicenza è”.Afferma il Sindaco di Vicenza, Achille Variati: "A due anni dalla sua riapertura,proprio con il primo fortunatissimo episodio della collaborazione con Linead'ombra, "Raffaello verso Picasso", la Basilica Palladiana può già esibirenumeri di primaria importanza: 650 mila visitatori, una pluralità di eventi,mostre, incontri che l'hanno trasformata nel vero cuore culturale della nostracittà, e che hanno contribuito a facilitarne l'inserimento, avvenuto quest'anno,nell'elenco dei Monumento Nazionali. La Basilica, edificio simbolo delle

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architetture palladiane, rappresenta anche la ritrovata vocazione di Vicenza aripensare il proprio sviluppo in un'ottica innovativa: capoluogo di unaprovincia fortemente produttiva, oggi la città sta dimostrando come, pur in unperiodo di crisi, l'investimento in cultura, creatività, attrattività rappresenti ilmodo migliore per costruire nuove opportunità di sviluppo per un interoterritorio".Per tornare alla mostra, si tratta di un'esposizione di capolavori, sensazioni,emozioni e simboli. E simbolica non poteva che essere, quindi, anche la datadi inizio: il 24 dicembre 2014, la Notte Santa.Il titolo, “Tutankhamon Caravaggio Van Gogh. La sera e i notturni dagli Egizial Novecento”, richiama millenni di storia dell’uomo e dell’arte, appuntati inuna mostra che indaga una vicenda antica, quella degli Egizi, ma soprattuttopoi una seconda storia, dal Quattrocento al Novecento in pittura, lungo il suoversante struggentemente serale e notturno. Quella in cui alcuni artistiraffigurano una manciata di stelle o un chiaro di luna, come profondecorrispondenze dell’anima. Ma anche la notte come luogo nel quale siraccolgono alcuni grandi passaggi della storia dell’arte. Perché la notte inquesta mostra non è solo fascino del naturalismo ottocentesco, da Turner eFriedrich fino agli impressionisti e poi Mondrian e Klee all’inizio del nuovosecolo. Non è solo il luogo in cui meravigliose storie sacre si raccontano, daGiorgione a Tiziano, da Caravaggio a El Greco. Ma è anche una nottefortemente spirituale, interiore, che giustifica così la presenza di straordinaripittori astratti da Rothko a De Staël, da Noland a Morris Louis.

Ben 113 opere, spesso rare, divise in sei sezioni e provenienti da trenta musei ecollezioni di tutto il mondo, musicano questo affascinante racconto sinfonico.Un poema che inizia lungo il Nilo, dove si sedimenta l’idea della notte delmondo oltre il mondo. E’ la notte abitata nel ventre delle Piramidi. Raccontatain mostra da reperti che, da soli, valgono il viaggio a Vicenza. Dal Museum ofFine Arts di Boston giunge per la prima volta in Italia un nucleo di tesori egizi:dal volto del re Menkaura a quello, celeberrimo, di Tutankhamon re bambinosino ai ritratti del Fayum, quando Egitto e Roma si avvicinano, a partire dal Isecolo d. C. Questo il grande prologo.La seconda sezione, con molti capolavori da Giorgione a Caravaggio, daTiziano a El Greco, da Tintoretto a Poussin, indugia sulla suggestiva atmosferadelle figure collocate in ambienti notturni, soprattutto seguendo la vita diCristo dal momento della nascita fino alla crocifissione e alla deposizione nelsepolcro. Opere straordinarie soprattutto del Cinquecento e del Seicento sonoal centro di questa parte.La terza sezione tocca alcuni dei vertici dell'incisione di tutti i tempi, in unasala nella quale, con sedici fogli in totale, si confrontano Rembrandt ePiranesi, il primo con i suoi celeberrimi soggetti religiosi, a cominciare dallaStampa da cento fiorini fino alla visione delle Tre croci, il secondo con lealtrettanto celebri immagini delle "Carceri".La quarta sezione si sofferma invece sul paesaggio, dal momento deltramonto fino a quello in cui nel cielo si levano la luna e le stelle. Ovviamente ilsecolo raccontato è il XIX, poiché, dal periodo romantico finoall'impressionismo, questo è stato il tempo della natura serale e notturna.Sfilano alcuni dipinti indimenticabili di Turner e Friedrich, di Corot e Millet, deigrandi americani da Church a Homer, fino a Whistler, Monet, Pissarro, Van

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Gogh e poi Mondrian, Klee e Hopper nella prima parte del Novecento, fino aKiefer nella seconda. La penultima sezione entra nel pieno Novecento, dove indue sale vengono disposti alcuni dei grandi della seconda parte del secolo,specialmente per quanto riguarda il versante astratto americano, da MorrisLouis a Noland a Rothko. Ma anche pittori che si sono tenuti a cavallo trafigurazione e astrazione, come De Staël, fino a un altro grande americanocome Andrew Wyeth, e poi López García e Guccione, per entrare nelleprofondità della sera e della notte intesa come fatto soprattutto psicologico.Infine, la sesta e ultima sezione è un riassunto di tutti i temi affrontati e leopere indimenticabili si succedono, da Gauguin a Cézanne, da Caravaggio aLuca Giordano, da Van Gogh a Rothko ancora. Per una chiusura che lascia conil fiato sospeso, tra notti dello spirito, notti della vita e notti della natura.“A testimoniare – chiosa Goldin - il senso di una notte che non è più soltanto ilrisultato di un vedere fisico e riproduttivo, ma interiore e determinato dallaprofondità psicologica, del sogno e della memoria. In una mostra che, comedice il titolo, vuole avvicinare, ma non accostare, il sentimento che scaturiscedalla fierezza del viaggio nel tempo di Tutankhamon e lo straziato viaggiosotto la luna e le stelle di Vincent van Gogh a Saint-Rémy. Nessuna giunzionestilistica, e non servirebbe nemmeno dirlo, ma il racconto dei modi diversi,anche lontani, entro i quali la notte è stata intesa. Detta. Con un largocompasso storico, appunto dagli Egizi fino al Novecento. La notte è semprestata la rappresentazione della vita, il suo limite e insieme un culmine che sisupera”.

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I L D E M O N E D E L L A M O D E R N I T À .P I T T O R I V I S I O N A R I A L L ' A L B A D E L S E C O L O B R E V E

Rovigo, Palazzo Roverella, 14 febbraio – 14 giugno 2015

Una grande mostra che racconta per la prima volta il furioso travaglio chesconvolse l'Europa tra fine Ottocento e inizi Novecento, quando un immaginariofuori controllo, "demoniaco" per potenza e violenza, fece irruzione in un mondodorato e frivolo. E lo dipinge con una forza e una libertà mai viste prima. Gli ultimifuochi di un'epoca. Solo pochi anni, poi nulla sarà più come prima, con l'irromperevitale e innovatore della Modernità.L'irrompere della modernità nel mondo tardo Ottocentesco e il suo deflagrare neiprimi tre decenni del "secolo breve" sono il soggetto vero di questa sorprendentemostra affidata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo aGiandomenico Romanelli, curatore della fortunatissima mostra che PalazzoRoverella ha dedicato quest'anno a L'Ossessione Nordica. Una modernitàparticolare, popolata da angeli e demoni, tra inquieto e ineffabile, tra conscio edinconscio, tra prefigurazioni di morte e destini di luce. È certo una mostra ingrado di dare forti emozioni, che accosta a vitalismi sfrenati e ambigui etereistraniamenti, incubi e sogni. Una mostra insolita e forse unica, e non solo perl'Italia. E' un viaggio, pregnante, forte, carico di emozioni che accompagna nelleprofondità più oscure dell'inconscio e fa ascendere alle terse luminosità dellospirito.Assieme ad alcune irrinunciabili icone dell'universo simbolista, sarannopresentate opere che uniscono la suggestione del simbolo e la libertà visionaria eutopistica dell'ideale, facendo compiere al visitatore un percorso teso trascoperte di un'arte esclusiva e misteriosa e la rappresentazione drammatica ecruda, talvolta sommessa, della follia della guerra. Ma, tra resistenze e cadute,quella che viene messa in scena è la irruzione di una modernità inquieta etempestosa, prefiguratrice di morte non meno che sfrenata celebratrice di unvitalismo tutto proteso verso nuove conquiste e nuovi miti. Anche i linguaggidell'arte si rinnovano tumultuosamente, infrangono gli schemi rigidi di ogniclassicità, le tradizionali connessioni e relazioni spazio-temporali, introducono ilmovimento, le sonorità estreme, le contaminazioni tra i generi.

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Riflessi On Line - Bimestrale di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 65 del 20/01/2015

Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 55

Non si tratta di una narrazione sistematica: attorno a impareggiabili figure delmondo nuovo, ad angeli di un destino di luce e alle tenebre gelide e sulfuree checircondano il maledetto e il reietto, le nuove forme dell'arte spalancano orizzontiinsospettati e fanno esplodere sopra le macerie del passato la potenzaincontenibile e pur ambigua del moderno. A raccontare, interpretare e viverenelle loro opere queste emozioni sono grandi artisti europei: James Ensor, FranzVon Stuck, Leo Putz, Odillon Redon, Arnold Boecklin, Paul Klee, Carlos Schwabe,J.A.G. Acke, M. Kostantinas Ciurlionis, Max Klinger, Leon Bakst, Alfred Kubin,Felicien Rops, Gustav Moreau, Hans Unger, Lovis Corint, K. Wilhelm Diefenbache gli italiani: Mario De Maria, Guido Cadorin, Cagnaccio di san Pietro , BortoloSacchi, Alberto Martini, tra gli altri. In una sinfonia che inevitabilmente sicontrappunta alle musiche di Wagner e alle originalissime immagini di New Yorkdi Gennaro Favai.

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