Riccardo e le 4 prove

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RICCARDO E LE QUATTRO PROVE Occitano Val Pellice Concorso « Una Storia al giorno – Uno storio për jouërn » Autore : Katia Malan Riccardo era un bambino biondo. Ma di un biondo difficile a trovarsi in queste valli. Era così luminoso e splendente che tutti quanti, compresa la maestra e il sindaco, lo chiamavano : lou tedesc. Il luogo in cui viveva, al contrario, non era luminoso affatto. Certo, il sole, nelle giornate estive, batteva sui prati rinsecchiti senza trovare troppe barriere dato che gli alberi scarseggiavano ma, per il resto dell’anno, i fianchi delle montagne restavano dipinti dei loro severi colori fra il grigio e il marrone. Riccardo viveva lì, nei pressi del torrente Angrogna, dove l’acqua comincia il suo impetuoso cammino dal solitario Lago della Sella Vecchia fino al paese di Torre Pellice. Sul suo lato destro, gli uomini del posto, avevano costruito, con le pietre della zona, un gruppo di case una a ridosso dell’altra. Per farlo erano arrivati i muratori migliori, perfino Guido della Cassetta, con i suoi baffoni neri e gli scarponi sempre puliti. A Riccardo, Guido, piaceva molto; forse per via dei suoi modi gentili o, forse, per via di sua figlia Rosalba, che lo seguiva sempre su per i ripidi prati di Serre Malan. A lui piaceva davvero tanto anche se lei, in realtà, non gli rivolgeva neanche la parola. Dal duro lavoro di questi uomini era nata una borgata appollaiata fra una roccia e un campo di spinaci selvatici; grigia come le rocce dell’Alpe e silenziosa come le notti in montagna. Sul suo nome non ci furono dubbi; la borgata si sarebbe chiamata Sireizaéa, per via di quei quattro alberi di ciliegio che spuntavano, come rigorosi vigili, fra una casa e l’altra. Insieme a Riccardo vivevano, papà Giovanni, mamma Caterina e le sue tre sorelle: Irene, la più grande, poi Giulia e Mafalda: il suo tormento. Mafalda era una ragazza molto alta, molto più alta delle altre femmine che Riccardo conosceva. Era bionda, ma non come lui, ed aveva gli occhi di un blu profondo come quello dei toumpi. insieme a Giulia, più piccola ma ugualmente robusta, trovava sempre qualche scherzo da fargli e a lui non restava che subire. Fortunatamente c’era Irene che, al contrario del resto della banda, aveva i capelli neri come l’occhio

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RRIICCCCAARRDDOO EE LLEE QQUUAATTTTRROO PPRROOVVEE Occitano Val Pellice

Concorso « Una Storia al giorno – Uno storio për jouërn » Autore : Katia Malan

Riccardo era un bambino biondo. Ma di un biondo difficile a trovarsi in queste valli. Era così luminoso e splendente che tutti quanti, compresa la maestra e il sindaco, lo chiamavano : lou tedesc. Il luogo in cui viveva, al contrario, non era luminoso affatto. Certo, il sole, nelle giornate estive, batteva sui prati rinsecchiti senza trovare troppe barriere dato che gli alberi scarseggiavano ma, per il resto dell’anno, i fianchi delle montagne restavano dipinti dei loro severi colori fra il grigio e il marrone. Riccardo viveva lì, nei pressi del torrente Angrogna, dove l’acqua comincia il suo impetuoso cammino dal solitario Lago della Sella Vecchia fino al paese di Torre Pellice. Sul suo lato destro, gli uomini del posto, avevano costruito, con le pietre della zona, un gruppo di case una a ridosso dell’altra. Per farlo erano arrivati i muratori migliori, perfino Guido della Cassetta, con i suoi baffoni neri e gli scarponi sempre puliti. A Riccardo, Guido, piaceva molto; forse per via dei suoi modi gentili o, forse, per via di sua figlia Rosalba, che lo seguiva sempre su per i ripidi prati di Serre Malan. A lui piaceva davvero tanto anche se lei, in realtà, non gli rivolgeva neanche la parola. Dal duro lavoro di questi uomini era nata una borgata appollaiata fra una roccia e un campo di spinaci selvatici; grigia come le rocce dell’Alpe e silenziosa come le notti in montagna. Sul suo nome non ci furono dubbi; la borgata si sarebbe chiamata Sireizaéa, per via di quei quattro alberi di ciliegio che spuntavano, come rigorosi vigili, fra una casa e l’altra.

Insieme a Riccardo vivevano, papà Giovanni, mamma Caterina e le sue tre sorelle: Irene, la più grande, poi Giulia e Mafalda: il suo tormento. Mafalda era una ragazza molto alta, molto più alta delle altre femmine che Riccardo conosceva. Era bionda, ma non come lui, ed aveva gli occhi di un blu profondo come quello dei toumpi. insieme a Giulia, più piccola ma ugualmente robusta, trovava sempre qualche scherzo da fargli e a lui non restava che subire. Fortunatamente c’era Irene che, al contrario del resto della banda, aveva i capelli neri come l’occhio

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del cerbiatto. Non le piacevano gli scherzi che le sue sorelle facevano al piccolo Riccardo che lei amava tanto coccolare. Di tanto in tanto le sorprendeva intente a fare qualche bravata e allora le prendeva ciascuna per un orecchio e le rispediva a casa a dare da mangiare ai polli o a tagliare un po’ d’erba per i conigli. Le tre dormivano tutte insieme in una stanza sopra la cucina dove, d’inverno, la stufa restava accesa giorno e notte diffondendo un po’ di calore anche in quel locale; Riccardo, in quella camera, non trovava posto e, siccome di cucina ce n’ era una sola e di stufa pure, il luogo più caldo nel quale sistemarsi rimaneva il soppalco del porcile. Niente da dire, d’inverno il tepore era gradevole ma l’odore era ripugnante. I materassi, poi, non erano in soffice lana ma in croccante e sonoro giass, le foglie secche raccolte in autunno. Al mattino, il lenzuolo che ricopriva il mucchio, veniva portato fuori a prendere aria e, d’estate, sciacquato nel torrente per liberare i giacigli dai tanti parassiti che li infestavano. La vita non era certo delle più semplici su per quei ripidi pendii e a tormentare ancor più delle sorelle la già non semplice vita di Riccardo ci si mettevano pure gli spauracchi inventati dagli adulti per tenere i bambini lontani dai guai. Evidentemente spiegare le insidie nascoste fra i mulinelli di un corso d’acqua o fra l’erba bagnata sull’orlo di un burrone non era sufficiente e, dunque, si ricorreva a stratagemmi forse un po’ traumatici ma decisamente efficaci: le paure. Decine di creature spaventose popolavano i piani all’ombra del Monte Freidour: lupi, serpenti, animali immaginari e, perfino, le temute masche. Per ogni luogo vietato c’era una sorta di guardiano spaventoso che il piccolo Riccardo non avrebbe mai certamente osato sfidare. Mai salvo quella volta in cui Mafalda e Giulia decisero che era il momento di trasformare il loro fratellino in un uomo.

Era luglio, le giornate erano calde nonostante i 1200 metri di altitudine. La calura del giorno si trasformava, nel pomeriggio, in grossi nuvoloni che serravano la Valle in una morsa livida, che rilasciava sul terreno grandi quantità d’acqua. L’erba in questo clima cresceva rigogliosa come non mai e giaceva sdraiata mollemente su un fianco nei pianori dove attendeva la falce per il taglio. Ma così inzuppata proprio non la si poteva tagliare. Papà Giovanni controllava il cielo tutte le mattine ma, sebbene all’alba esso, fosse sgombro da nubi, la sua mancanza di nitidezza faceva presagire i temporali pomeridiani. Quel sabato mattina, però, il cielo era

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di un azzurro accecante, l’aria era frizzante, secca: il pomeriggio non ci sarebbero stati rovesci. Irene venne mandata immediatamente più a valle, da Guido, la sua falce mieteva l’erba come un rasoio affilato faceva la barba ad un giovanotto, e tutto il resto della famiglia si preparò per il duro lavoro. Tutti tranne Riccardo, ancora troppo piccolo per usare la grossa falce che venne, quindi, destinato a fare da portantino per le donne che cucinavano. Giulia e Mafalda, invece, di forza ne avevano e dunque anche loro, armate di rastrelli, avrebbero aiutato sul piano ammucchiando l’erba appena falciata. E la cosa, alle due, proprio non piaceva. Escogitarono, dunque, un piano per rendere la giornata, diciamo, più divertente. Intanto, Irene, dopo due ore di buona marcia, era arrivata a casa di Guido. L’uomo era già pronto e stava dando l’ultima passata ai suoi scarponi; quella mattina, anche lui aveva annusato l’aria. Con la falce in spalla era partito alla volta della Sireizaréa e con lui la giovane Rosalba armata di un rastrello costruitole appositamente dal padre perché fosse più leggero e maneggevole. Intanto, a casa di Riccardo, tutto era pronto: le falci limate con la mola, i denti dei rastrelli battuti per bene col martello e l’acqua per la polenta a bollire sul fuoco. Sarebbe stata cotta ben prima dell’ora di pranzo e una volta fredda e tagliata a fette sarebbe stata servita con salame e formaggio. Per dare una mano era arrivato anche Memè, il pastore, sebbene gli riuscisse molto meglio mungere le capre piuttosto che far di taglio. Ma le cose, in montagna, funzionavano così: l’intera comunità si adoperava per i lavori grossi: oggi il taglio dell’erba di Giovanni e domani la discesa dall’alpeggio delle bestie di Memè. Ma il pastore non era uomo di tante parole. Se ne stava a falciare in disparte masticando tabacco e spuntandolo a terra tra una bestemmia e l’altra. Non amava tutto quel via vai di gente. Lui stava bene con le sue capre e con i suoi cani, ne aveva ben sette, che, si mormorava, avessero il suo stesso carattere: diffidenti e solitari. La sua casa era stata costruita un po’ sotto il gruppo della Sireizaréa, in direzione del Tournas, alla sinistra dell’Angrogna, proprio sotto una barma a picco su di un ripidissimo prato. Solo le sue capre color camoscio potevano pascolarvi. Comunque, quel giorno, anche lui era presente e una bella fetta di polenta non l’avrebbe rifiutata di certo. Quando fu l’ora di pranzo arrivarono sul prato le donne con Riccardo e, tutti insieme, si sedettero all’ombra di un noce per mangiare. Gli uomini parlavano di fiere e tabacco, le donne della

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lana da cardare e del matrimonio di Anselmina e Ricou d’la Chàouvia. Rosalba ascoltava, con attenzione, i racconti dei grandi, Riccardo guardava, con attenzione, le lunghe ciglia di Rosalba e Mafalda e Giulia pianificavano, con attenzione, lo scherzo per il fratello. Quando tutti ebbero terminato il pasto e si concessero un breve riposo all’ombra le due gli si avvicinarono: “Rici, as- tu vi couma i è bèla Rosalba ëncuei?” Gli domandò Giulia. “Oh, s’lai vista!” rispose, Riccardo, asciugandosi il sudore sotto la frangetta bionda. “Mi ai cò vì qu’i t’beicava; I l’ha mai moulà!” Rincarò Mafalda. “Daboun?!” chiese, Riccardo, stupito. Sapeva che gli uomini non si accorgevano mai di nulla, sua madre lo ripeteva sempre, ma che Rosalba non gli avesse staccato gli occhi di dosso proprio non lo aveva notato. “Ma sì!” fece Mafalda. “L’è ta grënda oucazioùn. Fâ-te vèi! Fâ- li vèi quë tu sé n’om!” Farle vedere che lui era un uomo?! Sarebbe stato fantastico! Ma come? Spesso si dimenticava lui stesso di essere un uomo, soprattutto la notte, quando i maiali grugnivano e il temporale sembrava buttar giù Punta Pilone! “Ma tu quë tu sé na donna, dî-me ën po’: coz’ai da fâ?” Cosa doveva fare? Era proprio quello che le due aspettavano! “Memè al ha dëzmëntië a quë ën bèl toc d’toumma. Apena faita, la pì bouna! Èl a ppo pà anà fin a la quë. E tu sa ben quë Rosalba i vai matta për la toumma d’Memè.” “Vaou mi!” gridò Riccardo con entusiasmo! Vado io. Ma per arrivare fino a casa del pastore avrebbe dovuto violare molti dei sacri divieti impostigli dai genitori! Avrebbe dovuto scendere fino al torrente ed attraversarlo rischiando di incontrare la Baleina, un essere terribile che si acquattava nei toumpi e nei ristagni per poi saltare fuori all’improvviso all’avvicinarsi di qualche malcapitato. Non sapeva bene di che razza di animale si trattasse perché, per sua fortuna, non ne aveva mai visto una, ma, era sicuro, che fosse terribile. Poi, doveva risalire il prato fino alla barma e violare il secondo divieto: risalire i prati scoscesi al di là del fiume; quella zona pareva, infatti, infestata da vipere terribili che si riunivano in mucchi velenosi guidate dal più grande e terribile dei viperoni, lo Spic. Non sapeva bene di razza di animale si trattasse ma sua cugina Rosanna, esperta in questo genere di cose,

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ne aveva visto uno arrotolarsi proprio vicino ad una roccia e, lo giurava, il suo aspetto era terribile! Giunto a destinazione, doveva, poi, affrontare i sette cani del pastore, che, qualcuno diceva, mangiassero i bambini e poi entrare nella sua cantina dove, lo sapeva per certo, dormiva una terribile masca. Non sapeva bene cosa fosse perché lui era valdese e i suoi genitori dicevano che le masche non esistevano anche se, nella cantina di Memè, come in tutte le cantine degli altri, era meglio non entrare perché – l’a së mai! – . Ma, una sua compagna di scuola, aveva sentito dire dal prete che Luigina del Chiot era una masca! Pareva avesse venduto l’anima al diavolo e adesso invece che a messa andava a pregare nel bosco! Lui non conosceva Luigina ma era sicuro che il suo aspetto fosse veramente terribile! Ma per Rosalba, avrebbe fatto questo ed altro. E così, mentre tutti erano assopiti dal caldo e dal buon vino, Riccardo scivolò fra le ombre armato del suo bastone da pascolo. In un istante sparì dietro la china guardandosi dietro le spalle per vedere se qualcuno si fosse accorto di qualcosa ma non vide altro che le sue due sorelle che sghignazzavano e gli facevano segno di avanzare in gran silenzio.

Dal pascolo all’ Angrogna c’era una buona mezz’ora di cammino, tutta discesa bastava essere svelti di gamba e Riccardo lo era certamente. Quando, in fine, guadagnò il sentiero in piano, lo sentì: Era il torrente. Gorgogliava e sbuffava come fosse vivo. Sapeva che la Baleina non prestava troppa attenzione al restarsene silenziosa perché l’acqua confondeva i suoi versi con il suono delle onde. Ma se riuscivi a restartene sufficientemente immobile fino a confonderti con i dràous potevi sentire, distintamente, il suo inquieto soffio. prede. Ma Riccardo doveva prendere il coraggio a due mani e attraversare. Cerco un punto dove l’acqua era meno impetuosa, poi sbirciò da sopra un vecchio tronco per vedere se tutto era tranquillo e, con la velocità dei suoi dieci anni, in un istante, fu sull’altra sponda. Non si guardò indietro ma era sicuro di aver visto uno spruzzo d’acqua provenire da dietro un masso ma lui, era stato più svelto della Baleina! Ora doveva superare il pendio. Le sue pesanti scarpe erano completamente bagnate; per un attimo pensò di togliersele ma, con tutte le vipere che lo attendevano, decise non fosse un’ idea saggia. Staccò, allora, un pezzo di sambuco abbastanza robusto e lungo da usarlo come bastone poi, con quello in una mano e il suo dall’altra cominciò a battere il terreno. Sapeva che le vipere erano

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sorde ma che le vibrazioni del terreno le facevano fuggire o, almeno, facevano fuggire le normali vipere di montagna ma non era certo che lo Spic si facesse spaventare da due magri bastoni e, quindi, per maggior sicurezza, cominciò a battere anche i piedi. E così risalì il ripido prato: una buffa figura bionda che arrancava sbattendo i piedi e i bastoni che aveva in mano. Se la leggenda dello Yeti non fosse già stata scritta, dopo quel giorno, qualcuno della Valle avrebbe certamente testimoniato che esso risiedeva proprio nella cumba dell’Angrogna. Ed era biondo.

Arrivato in cima, sudato come un cavallo da corsa, si sedette per riposare un po’; fu proprio allora che sentì qualcosa sfiorargli una gamba e, in un istante, Riccardo, era già oltre il prato. Poteva, certo, essere stato quel ramo coricato fino a terra ma lui non era tipo da farsi ingannare; lo Spic lo aveva sfiorato e lui, contro ogni previsione, era sopravvissuto! Ormai la casa di Memè era vicina; poteva sentire i suoi cani abbaiare furiosamente. Rocky, il vecchio e grosso capo nero, Diana la sua compagna, Tom il solitario, Tetu, Batu e Billy i tre fratelli magri e scattanti e Lilla la piccola e terribile cagnetta rossa. Sentiva spesso parlare dei Temibili Sette, delle Sette Belve Feroci che assalivano in branco chiunque si avvicinasse alla casa di Memè o al suo gregge o anche solo a un paio delle sue sudice braghe da lavoro! Posò i suoi due bastoni vicino ad un cespuglio di more, li avrebbe ripresi più tardi per ridiscendere il prato ma ora non voleva apparire aggressivo tanto, pensava, quei legni non lo avrebbero salvato comunque. Mentre avanzava, un passo dopo l’altro, con l’abbaiare dei cani nelle orecchie, si chiedeva se per conquistare Rosalba non fosse stato sufficiente raccoglierle qualche genzianella e si cominciava a chiedere cosa avessero da ridere tanto le sue sorelle alla sua partenza visto che lui non riusciva a trovarci proprio niente di divertente. Sia come non sia, il tetto in lose, ormai, era a portata d’occhio. E nel tempo di un pensiero, Riccardo fu nel cortile di Memè. Con la Lilla in testa, cinque delle sette fiere si precipitarono verso di lui. Rocky e Diana se ne restarono appollaiati sul balcone degnandolo, appena, di uno sguardo; pensò che i due, più forti, avessero già mangiato un bambino, o due, quella mattina e che, ora, era il turno degli altri. Ma, temerario come solo l’amore sa renderti, Riccardo non si mosse, probabilmente nemmeno respirò. I cani lo

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accerchiarono con le loro lingue penzoloni e i muscoli tesi. Riccardo pregò. Non si rese conto di cosa promise al buon Signore ma funzionò; i Cinque gli si sedettero davanti e, Batu, gli diede perfino paleta.

La forsa d’ Nossnhoúr! pensò Riccardo pallido in volto. E si ripromise che, da quel giorno, si sarebbe sempre lavato bene le mani e il viso prima di andare al culto, proprio come sua mamma desiderava! Ora restava solo l’ultimo degli ostacoli, l’ultimo dei mostri, l’ultima delle quattro, terribili prove da superare: la masca della cantina. L’ingresso era lì, tra la stalla e la fontana; la pesante porta di legno non più salda sui cardini era fermata, con un laccio di paglia, ad un grosso chiodo piantato nel muro. Il laccio, però, era sciolto. Riccardo deglutì rumorosamente. Proprio in quel momento Rocky e Diana si alzarono e il grosso maschio abbaiò cupamente dando l’allarme all’intero branco. I cinque ancora riuniti ai suoi piedi voltarono il capo contemporaneamente e poi, abbaiando, si lanciarono verso la cantina.

In quello stesso istante, dall’altro lato della Valle, Memè e gli altri si scossero dal torpore. “Coza i aourèn da baoulà qui vësas?!” Imprecò il pastore riconoscendo il latrare dei suoi cani. “Li sarè pasà na vourp; i l’aourèn chapà!” Tagliò corto Giovanni. Prendere una volpe? Quei cani? Memè scosse la testa. Benché i ragazzini raccontassero che i suoi cani erano feroci come lupi, lui sapeva che, in realtà, non erano buoni neanche a far correre i topi. Però qualcosa c’era; l’allarme lo sapevano dare e, a casa, qualcosa non stava andando come dovuto. “Ai leissé Counétta ënt ar tech, përcqué i déou fâ; qu’i sie scapà?” Cornetta era la capra preferita da Memè ed essendo arrivata al termine della sua gestazione era rimasta a casa, nella stalla, per non partorire in alpeggio. “Vai len vèi…” Disse Guido. “No!” Strillarono, in coro, Mafalda e Giulia. “No, Memè al a d’travài!” disse Mafalda, “Oh ja que! Li vai ën bèl toc për arrivà a sa quë, e aloura…” proseguì Giulia, “ anoumma nouz-àouta!” “Ma que brava!” s’intromise Irene che le osservava già da un po’ di tempo. “Pourtè co Rici, aloura! A sëré jo bèlle stënc a’ travaiâ”.

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Le due si zittirono. Nessuno aveva più fatto caso a Riccardo. Non che, generalmente, qualcuno ci badasse perché su per quei bricchi, i ragazzi, dovevano imparare in fretta a pensare a loro stessi, ma ora che lo si nominava tutti notavano che, da dopo pranzo, non lo si era più né visto né sentito. “Dount a sërè anë ?!” si chiese mamma Caterina con un po’ di preoccupazione. “Mëndli ën po’ a ca doua!”. Già, chiederlo a quelle due; Irene aveva intuito che il fratellino era sgattaiolato fin dall’altra parte del torrente; non sapeva perché lo avesse fatto ma sapeva che la colpa era delle sue due sorelle. Il tempo di uno scapaccione e Guido, Memè e Irene erano già in cammino sul ripido sentiero.

Riccardo sapeva che la masca lo stava aspettando ma non poteva tornare indietro proprio adesso anche se avrebbe voluto tanto farlo. Prese il forcone del letame e, pesando ogni passo, si avvicinò alla porta. Con le due punte di metallo aprì l’uscio. L’ interno era buio e, data la calura, piacevolmente, fresco. Ai suoi occhi occorse qualche secondo per abituarsi all’assenza di luce ma appena le sue pupille si dilatarono, la vide. Era là, tra la vecchia botte e le cassette di patate, gli occhi gialli e il muso da caprone. Lui, al diavolo, non credeva ma sapeva che in alcuni casi poteva esistere e, questo, era uno di quei casi. Sapeva anche che, il demonio, appariva proprio sotto forma di caprone, il perché non lo sapeva; lui, fosse stato il diavolo, avrebbe scelto un animale molto più imponente e feroce, che so, l’orso o anche solo un cinghiale; ma queste cose avevano i loro perché e non era certo il caso di spiegarseli adesso. Il Maligno lo guardava e sbuffava; aveva il ventre enorme, molto più grosso di quello di un normale caprone e, quando Riccardo abbassò gli occhi, vide che ai piedi dell’enorme bestia c’era un rivolo di sangue. Era sufficiente; niente toma, niente prova di coraggio e niente Rosalba! Riccardo girò sui tacchi e via, fuggì… come se avesse visto il diavolo! Ma, fatti pochi metri, sbatté contro qualcosa e finì al suolo. Alzò lo sguardo pronto a rimettersi subito a correre e, con sua grande gioia, vide Memè, Guido e sua sorella Irene. Piangendo, forse di gioia o forse di paura, corse fra le braccia rassicuranti della sorella gridando frasi che a nessuno parvero sensate: “La masca, l’ ai vista! J lh’è ënt la crotta; i trënfia cuma ën diaou!”

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Memè entrò in cantina mentre Riccardo raccontava di come avesse beffato la Baleina e lo Spic, dei cani feroci e quando arrivò a raccontare della spaventosa masca il pastore ne uscì con un piccolo capretto belante in braccio. “Bèiclou eisì lou Diaou! Tu a fëch talmënt tënta pòou a ma poura Cournétta qu’i lh’a chabrië anën dar tëmp!” E detto questo Cornetta uscì traballante dalla cantina belando a gran voce per chiamare il suo cucciolo. Memè lo mise a terra e lui, ancora traballante sulle zampe, raggiunse la madre che si stava già rifugiando nella, più sicura, stalla.

Che brutta figura! Che terribile idea si sarebbe fatta, di lui, la bella Rosalba. Anche se, in fondo, non gli importava così tanto. L’importante, ora, era sentirsi al sicuro sul sentiero di casa. Di due cose era certo: che mai più avrebbe creduto alle fandonie inventate dai grandi sulle masche, le baleine, gli spic e i cani feroci e che, mai più, avrebbe disobbedito agli adulti sfidando i loro terrificanti guardiani!

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“Soc ê-lo eison: ma maire m’à fait mi e mi ai fàit ma maire?” “Cos’è questo: mia madre ha fatto me e io ho fatto mia madre?”

“Soc ê-lo quë së tu ou laise anar a la valâ, bèlle së tu ou â për lou panas, tu ou po pâ achapâ?” “Cos’è quella cosa che se tu la lascia andare in disceda, anche se la tieni per la coda, non la puoi mai agguantare?”