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Riccardo e Bruto Annibaldi della Molara: professioni, strategie, affetti nella nobiltà romana del Seicento di Alessandro Cont 1 Il raffronto delle esperienze Nella sua Relatione di Roma stesa intorno al 1640, Dirk van Ameyden includeva gli Annibaldi della Molara tra le cinquantanove famiglie romane che contavano più di trecento anni di vita 1 . Il lusinghiero rico- noscimento del giureconsulto fiammingo trovò una solenne conferma un decennio più tardi, nel 1651, in una decisione della Rota Romana che stabiliva la comune discendenza delle due casate Annibaldi della Molara e Annibaldi di Zancati dallo stipite del cardinale duecentesco Riccar- do Annibaldi, signore del castello della Molara presso Grottaferrata . Tuttavia, si deve osservare, quella che nella seconda metà del XIII se- colo era stata la più potente tra le stirpi baronali di Roma aveva esaurito da tempo la sua formidabile influenza politico-economica. Se nel Seicento «vive ancora in Roma l’antica, e nobil famiglia de gli Annibali romana», questa casata non vantava più né una presenza nel collegio cardinalizio, né numerose e strategiche dominazioni signorili 3 . Ormai il prestigio aristocratico della famiglia si custodiva nelle anti- che memorie epigrafiche e iconografiche dell’Urbe, ma soprattutto era connesso al prestigioso ufficio di conservatore della camera capitolina rivestito periodicamente dai suoi membri 4 . In epoca barocca l’apparte- nenza al patriziato di Roma, ossia alla nobiltà municipale, accomunava i tre rami degli Annibaldi di Zancati, degli Arcioni della Molara e dei Valentini della Molara. Un poco diversa era invece la posizione di un’altra linea degli Anni- baldi della Molara, generata all’inizio del Cinquecento. Le sorti socio- economiche di questo quarto ramo dell’antica prosapia sembrarono mutare in senso positivo nei primi decenni del XVII secolo, beneficiando della “carriera” militare percorsa da Tebaldo della Molara nello Stato pontificio e della nomina del suo fratello minore Orazio ad arcivescovo di Manfredonia 5 . Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. 2/2011

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Riccardo e Bruto Annibaldi della Molara:professioni, strategie, affetti

nella nobiltà romana del Seicentodi Alessandro Cont

1Il raffronto delle esperienze

Nella sua Relatione di Roma stesa intorno al 1640, Dirk van Ameyden includeva gli Annibaldi della Molara tra le cinquantanove famiglie romane che contavano più di trecento anni di vita1. Il lusinghiero rico-noscimento del giureconsulto fiammingo trovò una solenne conferma un decennio più tardi, nel 1651, in una decisione della Rota Romana che stabiliva la comune discendenza delle due casate Annibaldi della Molara e Annibaldi di Zancati dallo stipite del cardinale duecentesco Riccar-do Annibaldi, signore del castello della Molara presso Grottaferrata.

Tuttavia, si deve osservare, quella che nella seconda metà del xiii se-colo era stata la più potente tra le stirpi baronali di Roma aveva esaurito da tempo la sua formidabile influenza politico-economica. Se nel Seicento «vive ancora in Roma l’antica, e nobil famiglia de gli Annibali romana», questa casata non vantava più né una presenza nel collegio cardinalizio, né numerose e strategiche dominazioni signorili3.

Ormai il prestigio aristocratico della famiglia si custodiva nelle anti-che memorie epigrafiche e iconografiche dell’Urbe, ma soprattutto era connesso al prestigioso ufficio di conservatore della camera capitolina rivestito periodicamente dai suoi membri4. In epoca barocca l’apparte-nenza al patriziato di Roma, ossia alla nobiltà municipale, accomunava i tre rami degli Annibaldi di Zancati, degli Arcioni della Molara e dei Valentini della Molara.

Un poco diversa era invece la posizione di un’altra linea degli Anni-baldi della Molara, generata all’inizio del Cinquecento. Le sorti socio-economiche di questo quarto ramo dell’antica prosapia sembrarono mutare in senso positivo nei primi decenni del xvii secolo, beneficiando della “carriera” militare percorsa da Tebaldo della Molara nello Stato pontificio e della nomina del suo fratello minore Orazio ad arcivescovo di Manfredonia5.

Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. 2/2011

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Le prospettive di riscatto familiare e personale subirono però un temporaneo ridimensionamento con le morti di Tebaldo, nel 164, e di Orazio, appena l’anno seguente6. Il sessantaquattrenne Tebaldo lasciò ve-dova Giulia Rasponi, nata da un’illustre schiatta ravennate, e sette orfani7. Di questi, Riccardo (1631 circa - 1689) e Bruto (1639-85) erano destinati ad acquisire in seguito una loro notorietà. Il primo si dedicò al servizio della Santa Sede e della Chiesa come governatore nella periferia pontificia e poi quale vescovo di Veroli. Più sofferta, per contro, addirittura tragica fu la biografia di Bruto, che dalle dipendenze del granduca di Toscana passò a quelle del cardinale Francesco Nerli iunior e, quindi, del gran connestabile Lorenzo Onofrio Colonna8.

La ricostruzione del cammino umano, intellettuale, professionale dei due fratelli Riccardo e Bruto Annibaldi della Molara è resa pos-sibile dalla disponibilità di molti documenti d’archivio finora rimasti in parte o del tutto sconosciuti. Decine e decine di lettere private di Bruto all’amico scienziato Vincenzo Viviani e al connestabile Colonna, accompagnate a molteplici atti istituzionali giunti sino a noi negli archivi italiani, suggeriscono percorsi di stimolante interesse, consentendo l’ap-profondimento delle vicende di due vite che si prestano a una varietà di significativi e circostanziati confronti reciproci. Le lettere, in particolare, contribuiscono a illuminare problematiche diverse, quali i “sentimenti” dei membri della famiglia e le interdipendenze economiche, ma aprono inoltre all’indagine su argomenti più vasti, come la cultura e la storia di uffici e istituzioni in cui operarono gli autori di queste scritture e i rispettivi destinatari.

Ne viene allora che lo studio del quale in prosieguo verranno illustrati i risultati ha tentato di rispondere positivamente all’invito emerso da questa cospicua documentazione di carattere soprattutto epistolare, e si è prefissa di porre in dialogo tra loro i cosmi sociali, affettivi, professio-nali dei fratelli Riccardo e Bruto Annibaldi della Molara. Tale “sfida” ha cercato di cogliere le opportunità offerte dai dibattiti scientifici in corso sulle reti familiari, i rapporti generazionali, il patronage e l’etica del servizio al sovrano nell’età moderna, valorizzandole attraverso l’impiego critico delle molte fonti archivistico-documentarie inedite.

Scopo del presente saggio è dunque analizzare e raffrontare le carriere, le personalità e i sentimenti di due nobili “poveri” della Roma barocca, costretti dalla scarsità delle loro risorse finanziarie a prestare servizio presso personaggi più ricchi e potenti di loro. È questa, infatti, la novità del caso preso in esame: i percorsi umani e istituzionali e le interazioni tra consanguinei appartenenti a una famiglia decaduta, che mirarono entrambi al miglioramento delle loro condizioni investendo le proprie potenzialità culturali e relazionali.

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2Commissario di giustizia

Vissero sotto lo stesso tetto, dapprima nella parrocchia di San Fiorenzo a Perugia e poi, dal 1643, nel palazzo di famiglia presso la fontana delle Tre Cannelle di Roma, finché nel 165 le strade di Riccardo e Bruto Annibaldi della Molara si divaricarono9. Il fratello maggiore, Riccardo, coronò un corso di studi che era consueto per tanti suoi concittadini. Dal Collegio romano dei Gesuiti, tanto stimato dall’aristocrazia di Roma per l’insegnamento letterario e filosofico, egli si era avanzato fino alla laurea in diritto canonico e civile presso la Sapienza, l’unico istituto universitario dell’Urbe autorizzato a rilasciare quel titolo10. Nel dicembre del 165 il ventunenne Riccardo si insediava nella provincia del Patrimonio quale commissario del tribunale di Corneto11. Nel contempo il cadetto Bruto, più giovane di otto anni, veniva inviato presso la corte toscana come paggio del granduca Ferdinando ii de’ Medici1.

La separazione dei fratelli apriva due diversi orizzonti di carriera sta-biliti per i giovani Molara presumibilmente dalla loro madre Giulia con il consiglio del cugino Cesare Rasponi, sperimentato monsignore di curia. Gli studi di diritto e la prima tonsura avviarono Riccardo in direzione delle cariche e delle dignità ecclesiastiche, ma non oltre i confini geopolitici dello Stato pontificio. Come evidenzia l’iter formativo, rigorosamente giuridico e romano, Riccardo mirava a diventare un ufficiale e un prelato del papa13. La laurea alla Sapienza poteva essere un’utile tappa per giuristi e monsignori votati al servizio della sede apostolica: la carriera di Riccardo della Molara, nel suo piccolo, ne avrebbe fornito conferma.

Precluso a Riccardo l’adito agli uffici venali della Santa Sede, alle legazioni e alle nunziature a motivo delle ristrettezze finanziarie della sua famiglia d’origine, il cosiddetto “giro de’ governi” rimaneva un ac-cettabile punto d’inizio e una discreta palestra ove investire i talenti e le competenze tecniche di un prelato “povero”14. Ne erano coscienti anche numerosi giovani membri dei patriziati dello Stato pontificio, che per questa via speravano di poter accedere prima o poi a una dignità della curia romana, alla diplomazia papale oppure a qualche pingue e rinomata cattedra episcopale, se non addirittura alla porpora cardinalizia15.

Una scarsa vocazione, almeno in quel tempo, Riccardo doveva avvertire per un impiego esclusivamente spirituale e pastorale: in caso contrario egli non avrebbe atteso fino al 1675 per ricevere gli ordini sacri16. Comunque, egli, inserendosi tra le file del clero governativo, non seguì gli esempi del suo defunto zio paterno Orazio della Molara o del cugino vivente Giovanni Battista Arcioni della Molara, canonici l’uno di Santa Maria in Trastevere, l’altro di San Giovanni in Laterano17. Tantomeno

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il suo destino si omologò a quello degli altri cugini Prospero, Valerio e Filippo Valentini della Molara, i quali furono beneficiati di San Pietro in Vaticano18.

Quali patrizi romani, tutti questi parenti avevano fruito dell’ampia offerta di provviste beneficiali nelle chiese della città eterna e soprattutto del lustro che avvolgeva il clero capitolare delle grandi basiliche vaticana e lateranense19. Così facendo, essi avevano ossequiato un’antica tradizione della prosapia annibaldesca, una tradizione che ancora nel primo Sette-cento avrebbe visto monsignor Pietro Arcioni della Molara sedere come decano e sindaco del capitolo di San Giovanni in Laterano0.

Ma lo stesso Riccardo della Molara non smentì comportamenti di avi illustri, in quanto il suo debutto in qualità di commissario di giustizia nello Stato della Chiesa poteva rammentare alcune funzioni di governo ricoperte dall’omonimo cardinale quattro secoli prima. Un’antinomia apparente del suo caso era semmai quella di avere preferito lo stato di ecclesiastico rispetto alla condizione di secolare, alla quale sembrava chia-mato come primo maschio della sua famiglia. Ma nella Roma secentesca erano spesso i prelati a contare in prestigio e potere più dei loro parenti laici1. Inoltre, nella casa Molara del ramo di Annibale non vigevano regole di trasmissione o suddivisione del patrimonio dinastico tali da avvantaggiare un figlio piuttosto che un altro.

3Discorrendo e di fortuna, e di corte

L’ammissione di Bruto Annibaldi della Molara nella paggeria del grandu-ca di Toscana si inseriva invece nella consolidata tradizione dei rapporti politici, economico-finanziari e sociali tra lo Stato della Chiesa e Firenze3. D’altro canto, la corte medicea era pur sempre la più apprezzata in Italia per la qualità dell’insegnamento cavalleresco offerto ai rampolli delle aristocrazie cittadine e feudali4. Se non altro, dal punto di vista geogra-fico era e rimaneva la più vicina alla patria romana degli Annibaldi, al confronto di altre corti quali Modena, Parma, Mantova o Torino. Senza scordare che l’educazione impartita dai maestri dei paggi non teneva conto solo di un futuro impegno militare dei loro allievi. I sovrani italiani, infatti, erano propensi a utilizzare e accontentare i gentiluomini che avevano terminato il servizio di paggeria attingendo a un’estesa disponibilità di cariche sia nelle loro armate, sia nella loro corte5.

Dal 165 il paggio Bruto della Molara maturò psicologicamente e si formò culturalmente nel clima della corte e se non riuscì a divenire un autentico cortigiano ciò dipese soprattutto dalla sua limitata attitudine alla dissimulazione. È vero che nella primavera del 1658 egli scrisse di

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voler fuggire il tedio dei salotti romani per «andarmene alla guerra»6. Ma probabilmente celiava, e comunque le promozioni di cui iniziò gradualmente a beneficiare presso la corte toscana dissolsero ogni sua eventuale velleità militaresca.

Così, nei primi anni Sessanta Bruto era paggio “di valigia” del grandu-ca, e divenne suo cavallerizzo di campagna nel 16657. All’ordine mediceo dei cavalieri di Santo Stefano fu ammesso quale milite “per giustizia” nel 1666, dopo aver regolarmente provato i suoi quattro quarti di nobiltà8. Infine, all’età di ventotto anni, nel 1667, ricevette la nomina a cameriere segreto del sovrano, analogamente a tanti altri gentiluomini che erano stati nella paggeria toscana prima di lui, ma con l’incombenza aggiunta di tesoriere della stessa camera granducale9. Ci volle insomma del tempo e una buona dose di pazienza per raggiungere quel vertice; d’altronde «il moto di questo cielo [della corte medicea] va tardissimo»30.

Bruto accettò pertanto di concentrarsi sulle responsabilità cerimoniali e sulle tattiche cortigiane tra le dorature e gli affreschi degli appartamenti di Palazzo Pitti. Egli era avvantaggiato da una dote naturale, “genetica” come la nobiltà dei natali, mentre una sua ulteriore dote, la leggiadria del corpo, fu in seguito enfatizzata dalle leggende fiorentine alla stregua di una disperante avvenenza31.

Fondamentale per l’acquisizione e il mantenimento di elevate po-sizioni a corte era il possedere una sorta di etica professionale che nel secolo xvii si sposava spesso a un opportunismo praticato nel quotidiano e tradotto, sulla carta, nelle forme di istruzioni pratiche. Il fine al quale mirava l’uomo di corte era offrire al principe di turno i risultati e l’im-pressione di una puntuale e garbata ubbidienza. Non era mai opportuno sfoggiare un attivismo troppo zelante, suscettibile di attizzare acide invidie e vendette; per contro era indispensabile segnalarsi per devozione, rigore e compitezza3. Il granduca Ferdinando ii de’ Medici era in ottima com-pagnia nell’olimpo dei suoi pari quando esigeva che Bruto della Molara fosse «accortissimo nelle risposte» ai suoi quesiti33.

Con avveduto contegno, Bruto dichiarò nel 1665 allo scienziato e intellettuale neoterico Antonio Oliva, acre contestatore della sua scarsa dimestichezza con gli strumenti matematici e i calcoli astronomici, che «il gran duca mi teneva per gentiluomo e non per dottore, e che in queste cose io ci avevo un pocho di genio, e che incontravo il gusto del gran duca che è la sola cosa, che ho da cercare in questo mondo»34.

Il giovane gentiluomo aveva compreso da tempo che il suo manifestato interesse per il dibattito scientifico gli donava un utile mezzo per consoli-dare la buona grazia del granduca Ferdinando. A questo riguardo l’amici-zia di Molara con il matematico di corte e galileiano moderato Vincenzo Viviani si era dimostrata provvidenziale, permettendo al ragazzo romano

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di accostarsi con qualche nozione competente ad attività sperimentali eseguite e discusse per volontà dei “serenissimi” mecenati Ferdinando e Leopoldo de’ Medici nello spirito della loro informale Accademia del Cimento35. Nello stesso tempo, però, il nobiluomo romano sapeva che aveva molto da guadagnare con la modestia e il ritegno, potendo per questa via celare la sua incompleta preparazione matematico-geometrica e scongiurare in sé stesso sgradevoli, presuntuose millanterie. Non stupi-sce quindi che Ferdinando ii mostrasse di apprezzare la sua replica data a Oliva, un ricercatore di natura troppo veemente e radicale per poter piacere al monarca toscano.

Parallelamente, quanto più la propensione del monarca si rinsaldava verso Bruto, tanto più attorno a questi si implementava una clientela che confidava nella sua capacità di influenzare le decisioni granducali. I postulanti, come avveniva di regola nelle corti, e non solo in queste, si ponevano immediatamente in contatto con Molara oppure si appoggia-vano a sue antiche e solide amicizie. Pertanto, a partire dalla nomina di Bruto a cavallerizzo granducale di campagna aumentarono di numero e di qualità le raccomandazioni e le segnalazioni per le quali veniva implorato il suo fattivo appoggio presso sua Altezza serenissima.

Se ne avvalse lo stesso Vincenzo Viviani per i propri negozi e, come si mormorò, persino ai danni del suo grande avversario a corte, lo scien-ziato Giovanni Alfonso Borelli, ma anche, in positivo, per beneficare personaggi che si appellavano a lui o che egli riteneva meritevoli di un interessamento mirato36. Ne discese che il granduca Ferdinando ascoltò da Bruto, a sua volta esortato da Viviani, istanze a favore di soggetti come il geniale anatomista Niccolò Stenone, come Andrea Ferdinando Arrighetti (un nipote del senatore fiorentino di simpatie galileiane Andrea), come il convinto atomista Donato Rossetti o ancora come un signor Raffaello Mazzei che «intende di passarsene a Roma»37.

Non sempre, tuttavia, Bruto seppe gestire il proprio comportamento a palazzo con tempestiva avvedutezza. La sua scalata lungo la piramide della corte medicea è indice di un indiscutibile talento diplomatico. Ma basta la lettura dei suoi carteggi per intuire nel giovane il ribollire di un’in-dole trasparente ed estroversa, incline alle risposte d’istinto e puntute. Il possesso di un carattere franco e deciso esponeva l’uomo di corte a considerevoli rischi: poteva mettere a repentaglio il suo corretto uso delle virtù della prudenza e della dissimulazione38. Fu il maggiordomo maggiore della familia granducale, il marchese Gabriello Riccardi, a riprendere seriamente Bruto per aver «parlato troppo alto» con un avversario e «rispostogli con troppo ardore». Però questo sarebbe rimasto il male minore se, come è immaginabile, la notizia dell’acceso scontro non fosse finita in pasto alle chiacchiere e ai pettegolezzi della reggia39.

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Circospezione e ponderazione erano atteggiamenti d’obbligo, con cui schivare o risolvere i passi falsi in agguato ad ogni angolo della corte. «Non si opponga di grazia tanto apertamente al genio del padrone, com’ella ha fatto» avvertì una volta il matematico Vincenzo Viviani, rivolgendosi all’amico Bruto40.

Fossero o meno colpi di genio di una esuberanza giovanile, assecon-data nei primi anni anche dal clima di semilibertà cameratesca che si respirava nella paggeria medicea, è comunque verosimile che imprudenze e alterchi pesarono nella perdita del posto a corte inflitta a Bruto con l’avvento al trono del granduca Cosimo iii (1670)41. Che Molara cadesse vittima in ultimo di acrimoniosi antagonisti e di scaltre manovre di pa-lazzo, lo prova sia una lettera consolatoria dell’amico Viviani, sia il passo di una missiva del medesimo Bruto al cardinale Leopoldo de’ Medici4. «Saprò per esperienza discorrere, e di fortuna, e di corte», scriveva il cavaliere caduto in disgrazia al principe porporato. Aggiungeva però una nota di ottimismo per il futuro, indice di quella capacità di reagire agli eventi avversi che, sorretta da una sincera fede cattolica, non lo avrebbe mai abbandonato nei cupi anni a venire43.

4Un lungo “giro” nelle periferie pontificie

A interpretare qualche accenno contenuto nei carteggi privati di Bruto della Molara, sembra che il fratello maggiore Riccardo unisse a una solida formazione in campo giuridico quell’indispensabile attitudine “burocratico-professionale” richiesta a ogni governatore pontificio. In uno Stato composito e disorganico ove l’autorità del sovrano pontefice non era assoluta, il ruolo istituzionale e politico svolto dai governatori risultava essenziale per la dialettica operante tra “centro” romano, altri “centri” e “periferie”. I superiori della corte papale non poteva-no che attendersi da Riccardo della Molara la concreta attuazione di un “giusto” equilibrio tra imperativi della giustizia e tatto di natura politica44.

L’etica d’ufficio pretesa in un governatore del Seicento si esprimeva, comprensibilmente, nella convinta adesione del funzionario agli interessi “pubblici”, cioè coincidenti con quelli della Santa Sede e della Chiesa, da lui amministrati come se fossero stati i propri. Al pari dell’uomo di corte, però, il governatore pontificio era blandamente esortato a mode-rare il suo zelo “professionale” così da scansare l’ostilità di coloro che non erano all’altezza del suo dinamismo e del suo fervore operativi45. Rispetto al cortigiano, invece, il governatore doveva fronteggiare la più complessa rete dei referenti politico-istituzionali con i quali egli veniva a

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rapportarsi di volta in volta attraverso la sua nomina a una determinata sede. Giudice, garante della quiete pubblica, incaricato di sorvegliare l’operato delle magistrature cittadine, supervisore delle finanze delle comunità, ma anche patrono e cliente informale, a seconda delle logiche e dei costumi politici, il governatore costituiva un mediatore essenziale tra istanze e poteri differenti.

Riccardo compì il suo “giro de’ governi” nell’arco di un quindicennio. Dopo il citato esordio in qualità di commissario di giustizia a Corneto, fu governatore a Tivoli nel 1654, per passare quindi a Cesena nello stesso anno. Si insediò nel 1658 nella vicina Forlì, dove rimase, comprendendo il cumulo dal 1659 al 1661 di Monte San Giovanni, sino al 1663, anno in cui raggiunse Terni grazie alle raccomandazioni spese a suo favore dal cugino monsignore Cesare Rasponi. Da Terni, cinque anni più tardi, ormai protonotario apostolico, approdò a Foligno, per poi ricevere, nel 1673, la “mutatione” con Assisi46.

A parte le modeste sedi di Corneto e Monte San Giovanni, tali “governi”, di media importanza, venivano investiti ora a prelati, ora ad abati del clero secolare, ora a dottori laici: Riccardo della Molara, per la precisione, era compreso nella seconda categoria47.

A ogni suo avvicendamento, decretato ad beneplacitum del pontefi-ce, si spalancavano di fronte a Molara degli scenari istituzionali, sociali ed economici nuovi. Se la durata della carica lo permetteva, il titolare di un “governo” diveniva a poco a poco un esperto intenditore della specifica realtà circostante e un prezioso informatore per le autorità della corte papale. Al riguardo sono molto significativi i numerosi precetti in materia civile che Riccardo sottoscrisse come governatore di Assisi dal 1673 al 1674. Su istanza di parte, l’«illustrissime civitatis Assisii gubernator» ordinava il sequestro di beni contro debitori insolventi, disponeva sfratti, intimava il rispetto di proprietà esposte a violazioni, imponeva restauri di edifici pericolanti, ingiungeva il ripristino del corso di canali d’irrigazione illecitamente deviati, fino a proibire il deposito di pattume davanti a case private48. Emettendo atti del genere, monsignor Riccardo Annibaldi della Molara aveva modo di intervenire concretamente in una miriade di problemi della quotidianità urbana e rurale. Le conoscenze pratiche in merito alle peculiarità dell’ambiente locale che egli ricavava dall’esercizio di questa sua funzione sarebbero state da lui utilizzate nelle più varie circostanze a beneficio della Chiesa, per sé e per i propri amici.

A questo punto si deve osservare che non sempre il governatore si trovava in rapporto gerarchico con gli stessi organismi e poteri di riferimento politico-istituzionale. Il tribunale di Corneto, del quale Riccardo fu commissario, aveva competenza in prima istanza, mentre

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le funzioni di giudice d’appello spettavano al governatore di Civita-vecchia49. Se poi Tivoli agiva da “governo libero”, cioè come soggetto direttamente alla congregazione romana della sacra consulta, sia a Cesena che a Forlì Riccardo fu sottoposto al controllo immediato del cardinale legato di Romagna50. Nella primavera del 1661 il nobiluomo anglo-irlandese Robert Southwell, di passaggio per Forlì, non poté fare visita a Molara proprio perché «alora [questi] se tratteneva con il vice legato adiuntto lì»51. Nominato al governo di Terni, tuttavia, Riccardo poté godere di una maggiore libertà d’azione. Di nuovo ora dipendeva in modo diretto dalla sacra consulta, con una remunerazione di 5 scudi contro i 7 di Forlì e con il comodo annesso di avere Roma ad appena 60 miglia. «Tutti vantaggi di gran conseguenza», constatava soddisfatto il fratello Bruto, «per utile e suo proprio, e della casa tutta»5. Invece quale governatore di Foligno e poi di Assisi, Riccardo dovette inter-loquire non solo con la consulta ma anche con l’ingombrante figura del prelato governatore di Perugia e dell’Umbria, che rivendicava la supremazia e le estese prerogative giurisdizionali dei cardinali legati suoi antecessori53.

Su di un altro piano, le élites civiche esigevano dal governatore l’os-sequio alle loro radicate prerogative e “libertà” politico-amministrative nonché un’attenta considerazione delle loro aspettative in termini di cariche, dignità e onorificenze per i figli ecclesiastici e militari. Nelle singole città, da Corneto ad Assisi, sedevano patriziati al cui consenso il governatore pontificio difficilmente poteva rinunciare, in virtù del loro consolidato potere contrattuale54. Nel contempo, però, la vigi-lanza operata dal governatore sulle elezioni agli uffici municipali e sullo svolgimento dei consigli cittadini era volta a ribadire la suprema sovranità del papa, di cui Riccardo era il rappresentante in loco55. Dall’8 gennaio 1655 all’8 gennaio 1657 Molara sedette diciotto volte nei consigli del comune di Cesena56. A quelli generali della città di Forlì, invece, «monsignor governatore Riccardo degl’Annibali della Molara», o in sua vece il luogotenente Pietro Versari, presenziarono dal 8 gennaio 1658 al 8 dicembre 16657. Nemmeno può meravigliare che una copia d’ufficio del breve di Clemente ix per il governo di Fo-ligno conferito a Riccardo il 30 maggio 1668 sia consultabile nella serie Registri dell’Archivio Priorale della stessa città umbra58. Nell’assumere la sua nuova carica, infatti, il governatore inviato da Roma entrava nella storia di esperienze patrizie innervate sulle forti consuetudini locali e sui riconoscimenti pontifici. Egli avrebbe potuto contribuire a disciplinare queste esperienze, ma né il suo zelo professionale, né il suo rigore sarebbero stati in grado di opprimerle.

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5Se monsignor governatore diventa vescovo

Forse potrebbe sorprendere la “conversione” di un prelato ancora nel vigore degli anni come Riccardo della Molara dalla titolarità di un go-verno pontificio a quella di una diocesi. Curioso potrebbe sembrare il suo brusco passaggio da una carriera civile a quella religiosa, ambiti che studi importanti sulla Roma del xvii secolo intendono come separati nelle mentalità dei monsignori rampanti del tempo59. E tuttavia le lettere di Bruto della Molara informano che nel 1670 il suo fratello Riccardo ambiva fortemente a una cattedrale «che gli dia da vivere, come convenga»60. Addirittura, il quarantenne monsignor della Molara ne bramava una non solo per sostentarsi dignitosamente senza «aggravio alcuno alla casa, ma più tosto, con poter dare ad essa qualche aiuto». Così almeno Bruto riferiva al potente cardinale Leopoldo de’ Medici, esagerando forse un poco le premure del congiunto nella speranza di risollevare sé stesso dalle «presenti mie disgratie» mediante una promozione di Riccardo61.

L’aspirazione di quest’ultimo alla «prima buona occasione di vesco-vado, o raggionevole» solleva un particolare problema storiografico, al di là delle probabili, interessate enfatizzazioni del fratello Bruto6. Secondo una vecchia tesi storiografica, infatti, la dignità vescovile, soprattutto se ricoperta in una diocesi povera e sperduta tra i monti, appariva un intralcio agli occhi di chi nel Seicento aveva intrapreso la carriera “burocratico-governativa” adescato dai miraggi della corte papale63. Nel caso in esame, sempre Bruto della Molara ci informa però che il fratello era disposto a pagare a qualche prelato una pensione sulle rendite episcopali, «quando non ecceda […] li tre mila scudi, e restando per il vescovo circa mille scudi», pur di ottenere la sede vacante di Montefiascone64. Dunque una mitra di ordinario diocesano nello Stato pontificio era, per lo meno all’ini-zio dell’ottava decade del secolo, quanto di meglio potesse desiderare un governatore di Foligno non ricco e privo di notevole influenza politica.

Certo, la conversione dalla condizione di governatore alla dignità di vescovo creò qualche imbarazzo, in quanto nel dicembre del 1674, alla vacanza della cattedrale di Veroli, Riccardo della Molara non era in sacris, ma un semplice abate. Per rendersene conto basta ascoltare i due testimoni interrogati sulle qualità di Riccardo nel processo informativo romano del 9 marzo 1675 per la promozione dello stesso Molara a vescovo verolano65. Infatti sia Carlo Andalò Bentivoglio di Roma, sia Giuseppe Teutonico da Mola di Bari ammisero che Riccardo, privo com’era dei sacri ordini, mancava «per conseguenza» di pratica «nelle funtioni ecclesiastiche»66. Ciononostante, proprio a partire dall’attività esplicata a capo di numerosi governi, Riccardo era in grado di addurre prove rassicuranti in merito

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alle sue doti intellettuali e disciplinari. Una condotta irreprensibile, una pietà schietta non erano sufficienti, ma alcuni tratti professionali del governatore pontificio risultavano compatibili con le qualità che la Santa Sede reputava indispensabili a un presule. Significativamente, il teste Bentivoglio dichiarava che la nomina di Riccardo alla chiesa di Veroli «sarà d’utile a quelli popoli per la sua esperienza, dottrina, ingenuità, maniera di governare et altre sue boni doti del’animo»67. Insomma, la sincera religiosità e l’illibatezza di costumi, la «prudenza» e la «gravità dell’affari», l’esperienza «nelli maneggi» e la risolutezza nel rendere «a tutti una giustizia incorrotta» rappresentavano delle ottime garanzie per un vescovato fecondo di opere buone68. Gli stessi studi in diritto erano citati da Teutonico come fondamento di quella «dottrina, che sia neces-saria per insegnare ad altri»69.

I due testimoni condividevano l’intento di accordare il trascorso umano e professionale di Molara con l’esercizio degli obblighi istituzio-nali e morali che dovevano ispirare nella prassi il pastore di una diocesi cattolica70. Influenzati e insieme agevolati dalla procedura rituale di un interrogatorio meramente formale attinente a una nomina già stabilita dal papa tre mesi e mezzo prima, Bentivoglio al pari di Teutonico dive-nivano interpreti di una cultura politica, di un’etica dell’ufficio: quella che la Santa Sede nel Seicento mirava a trasfondere in ciascun prelato investito di responsabilità di governo. Dalle risposte dei due testimoni, dalle loro parole mediate nella verbalizzazione cancelleresca, venivano a stagliarsi concetti e immagini simili a quelli che si rinvengono nei carteggi coevi delle congregazioni romane con vescovi, nunzi, visitatori apostolici, governatori, tutti chiamati, con le dovute differenze di ruolo, al perseguimento di una giustizia cristiana, tridentina. Era la giustizia di una «persona integra, giusta, e caritatevole», come la scolpiva Teutonico nel suo ritratto oleografico, processuale, di Riccardo della Molara71.

La storiografia e la letteratura erudite di matrice cattolica hanno con-validato in termini apologetici la pregevolezza della risoluzione del papa Clemente x, che il 7 maggio 1675 avrebbe conferito la chiesa di Veroli a un pastore degno come il quarantaquattrenne Riccardo Annibaldi della Molara7. In realtà, dalla ricostruzione sontuosa del duomo di Sant’An-drea all’ampliamento del seminario, dall’effettuazione di visite pastorali alla tutela dell’autorità episcopale, il governo di Riccardo della Molara esprime, nel pur ristretto contesto verolano, alcune delle attese forti di un pontificato austero e intraprendente: non tanto quello di Clemente x, quanto quello di Innocenzo xi ai suoi primordi (dal 1676 a circa il 168). L’impegno nella cura della diocesi, le sollecitudini per l’educazione del clero, lo slancio trionfalistico nell’edilizia sacra, l’energica difesa della giurisdizione episcopale sono aspetti concreti che pongono il vescovato

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annibaldesco al passo con gli imperativi del papato riformatore e univer-salistico del grande Odescalchi73. Se non fu svolta innocenziana, per usare un’usuale espressione storiografica, certo l’impegno diocesano di Molara, interrotto infine dalla morte del prelato il marzo 1689, applicò spunti, tracce, apporti aggiornati in un tragitto ormai secolare di rinnovamento interno della Chiesa romana.

6«Stanze con mobili grossi, ed un piatto ogni mattina»

Il ritratto ad affresco di Riccardo Annibaldi della Molara nella sala del trono del palazzo episcopale di Veroli restituisce la tipica immagine di un vescovo tardo-secentesco: munito di baffi e pizzo sottili, e con il volto coronato dai capelli corti74. Diversa, e di molto, è l’immagine che negli stessi anni Bruto, il fratello minore del vescovo, offriva di sé nelle sue comparse pubbliche: ornato di vistosa «parucha» alla moda, mostrava altresì una cravatta indossata con diligenza75.

Educato in una corte, Bruto della Molara aveva ricoperto a palazzo i suoi primi «carichi», e sempre a Palazzo Pitti aveva affinato una mentalità ricettiva sulle questioni di etichetta. Egli aveva vissuto l’adolescenza tra un rito e l’altro, perciò nel giugno del 1674 non fu riluttante ad assumere una responsabilità in ambito cerimoniale. Questa gli fu procurata quasi sicuramente dai buoni uffici del cardinale Giovanni Nicolò Conti, sempre bendisposto verso Bruto e i suoi congiunti76.

Allo scoccare dei tre anni dalla sua sofferta partenza dalla Toscana, il trentacinquenne Molara accettava dunque la “chiamata” a Roma nel “posto” di mastro di camera del cardinale Francesco Nerli, segretario di Stato del pontefice regnante Clemente x77. A renderlo ancor più sod-disfatto era il contestuale affidamento del governo della scuderia dello stesso Nerli, un’incombenza insolita per un mastro di camera, che forniva a Bruto la gradita opportunità di «servire alle occasioni qualche amico»78. Dal momento che di cavalli e di equitazione aveva fatto molta esperienza quale paggio e cavallerizzo di campagna del granduca toscano, la direzione di una «stalla» cardinalizia non doveva intimorirlo più di tanto79.

Tuttavia, al servizio di Nerli le mansioni di Bruto della Molara furono indubbiamente delicate e spinose, tanto più considerando il solenne ruolo di segretario di Stato papale e di arcivescovo di Firenze che ricopriva il suo signore80. In quanto mastro di camera di un porporato, dal 1674 al 1681 Bruto fu subissato da un vortice di occasioni cerimoniali, avviluppato dalla selva di dettagli che regolavano udienze, uscite pubbliche, visite di cortesia dell’eminentissimo Nerli81. Inoltre egli incontrò la fatica di sovrintendere alla corte e ai cortigiani del cardinale, tutelando l’ordine e

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figura 1Costume da pastore indossato da Bruto Annibaldi della Molara nell’atto ii, scena xiii della festa teatrale Ercole in Tebe, rappresentata a Firenze il 1 luglio 1661. Par-ticolare di tavola incisa da Valerio Spada su disegno di Ferdinando Tacca, in G. A. Moniglia, Ercole in Tebe, Firenze 1661

figura 2Giacomo Mango (attr.), Ritratto di Riccardo Annibaldi della Molara, vescovo di Veroli,fine xviii-inizio xix secolo, da altra effigie perduta. Veroli, Palazzo episcopale

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la disciplina convenienti all’onore di sua Eminenza. Al di là dell’esultanza per l’entrata nel suo nuovo impiego, dopo tanta penosa mancanza di occupazione, Molara confessava a Vincenzo Viviani il 4 agosto 1674 che «mettermi a bottega da dovero è di qualche suggettione, e fatiga»8.

Dal secondo Cinquecento le familiæ dei porporati avevano acquisito, almeno teoricamente, una maggiore complessità strutturale nell’organico di uffici, cariche e mansioni specializzate, ai quali soprastava il mastro di camera in quanto “capo” e “direttore” della corte83. In particolare, il più pervasivo carattere ecclesiastico di tali minuscoli universi aperti sul teatro della curia pontificia pretendeva dal mastro di camera una conoscenza ap-profondita delle funzioni sacre e dei rituali romani, che scandivano la vita interna della familia stessa e le sue proiezioni quotidiane nell’Urbe84.

I porporati erano molto esigenti, se non sempre incontentabili, nei confronti dei loro mastri di camera, in una Roma dove «non gl’errori ma i leggierissimi falli sono accremente censurati, con pregiudizio notabile del buon nome de’ padroni»85. Aristocratico maturo e di grato aspetto, il mastro di camera ideale doveva essere un supervisore e coordinatore meticoloso quanto duttile, «ad ogni modo […] così fondato nelle buone creanze, e così docile» da lasciarsi istruire su quelle particolarità dei suoi compiti che ancora ignorava86.

Per quanto lo riguardava, il cavaliere Bruto della Molara ravvisò dapprincipio nel segretario di Stato papale un patrono retto e generoso. Questi era «di esemplarissima bontà di vita, e di estrema benignità», un cardinale che, comportamento raro nella Roma del xvii secolo, fissò per lui un salario di diciotto scudi e gli assegnò anche delle «stanze con mobili grossi, ed un piatto ogni mattina87». Con il passare degli anni, tuttavia, la carica di mastro di camera divenne sempre più problematica da gestire, poiché Nerli smascherò una natura ben diversa dalle prime “apparenze”: quella di un padrone eccentrico e inappagabile. Con giu-dizio esasperato, nel giro di un lustro Bruto finì addirittura per contare il suo padrone tra «quelli, che se non si devano amare per il bene, che non sanno fare, si devano temere per il male, che da essi puol derivarne»88. E questo nonostante che nel 1674 lo stesso segretario di Stato pontificio avesse verosimilmente svolto una parte apprezzabile nell’appoggiare la nomina del fratello di Molara alla chiesa di Veroli89.

Laddove i margini di autonomia decisionale erano piuttosto ristretti, le incomprensioni reciproche tra signore e servitore potevano radicalizzar-si tra stizze e nervosismi. Al crepuscolo del 1680 Bruto non intravvedeva ormai altro rimedio per le proprie angustie che la cessazione della sua prestazione di lavoro presso il cardinale, dato l’«umore» di un principe ecclesiastico che non si lasciava «reggere dalla ragione», ma «dal capriccio proprio» e a ogni cosa dava «secondo il suo solito […] mille interpre-

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tationi»90. Rivolgendosi quindi al principe Lorenzo Onofrio Colonna con la fiducia di poter passare alle sue dipendenze, Bruto proponeva un paragone fra lo stesso gran connestabile e quel «vero, e gran signore» che era stato, per lui, il granduca Ferdinando ii di Toscana. Anche se si avverte una sfumatura di enfatico opportunismo nelle sue parole alti-sonanti, Molara doveva essere consapevole che in «questo paese», cioè nella Roma barocca,

se bene sono molti a farsi servire, pochi sono che lo meritano per natura, mentre la maggior parte lo conseguisce per fortuna, che però non è di maraviglia se s’ingannano, col credere, che la catena del galanthuomo, che il più delle volte loro dà suggettione sia il solo interesse.

Galantuomo tra «tanti galanthuomini», Bruto era stato obbligato dalle avverse circostanze a costruirsi un futuro con le proprie mani, col «men-dicare il mio mantenimento». Al contrario, ben difficilmente i molti signori cresciuti nell’abbondanza potevano immaginare cosa significasse «scarsezza dei beni» di fortuna. All’eminentissimo Nerli, incapace di ricompensare il suo mastro di camera «con un confidente, ed affettuoso gradimento», spettava dunque una severa condanna morale, dalla quale non lo schivavano né la dignità della sua porpora, né la nobiltà del suo sangue. Questo era il termine della riprovevole «schiavitudine» in cui chi «si scorda fino delle convenienze» teneva mortificato un fedele e onesto servitore91.

7Il gusto dell’armonia

Malgrado tutto ciò, Bruto della Molara continuava a riconoscere nella veste del cortigiano i panni rispondenti alla sua preparazione “profes-sionale”, l’arte nella quale profondere le sue doti migliori. Tramontato l’astro del cardinale Nerli accompagnato dai suoi occhi delusi, combat-tere la mala sorte significò per lui passare alle dirette dipendenze della casa Colonna di Paliano. Un’occupazione degna della sua nascita, che lo avrebbe portato «fuori di Roma un par d’anni almeno in un posto» tale da somministrargli «il mantenimento» e da consentirgli di sistemare i suoi «interessi»: questo era quanto lo sventurato Bruto della Molara poteva attendersi dal gran connestabile Lorenzo Onofrio Colonna, a quel tempo viceré di Aragona9.

Nell’arco di proposte presentategli dal principe Lorenzo Onofrio, il cavaliere romano optò quindi per la missione di aio di un figlio sedicenne del connestabile, quel don Marcantonio Colonna che era in procinto di assumere il comando di due compagnie di cavalli nell’esercito della Lom-

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bardia spagnola93. E a questo proposito, Bruto si riconosceva in grado di attingere alle proprie nozioni cavalleresche e di valorizzare la propria inclinazione per le scienze matematiche nell’approntare il programma di studi dell’adolescente e curandone di persona l’applicazione a Milano94. A Marcantonio Colonna, avviato al mestiere delle armi, queste discipline potevano fornire un’utilità propedeutica, per l’addestramento militare oltre che per il suo inserimento sociale.

Ma Bruto non si limitò a recuperare il trattato sul duello di Girolamo Muzio (1550) e altri testi canonici per l’educazione all’onore e alla civiltà di un gentiluomo barocco95. Già allievo del grande matematico Vincenzo Viviani e partecipe, sempre in gioventù, dei dibattiti scientifici del con-sesso del Cimento, egli richiese al connestabile Colonna di procacciare al figlio una licenza generale per la lettura dei libri proibiti96. Inoltre nel maggio del 1683 invitò il capitano Giacinto Benedetti, «virtuosissimo in matematica, fortificatione, e moltissime altre scenze», ad animare «un poco di accademia di mattematiche» nell’abitazione milanese di don Marcantonio. All’iniziativa aderirono i due camerati del giovane, ossia don Francisco de Cordova e il marchesino di Mortara, che frequentarono di giorno in giorno la «eruditissima conversatione»97. Nel corso di questa, il capitano Benedetti sottoponeva «un dubbio militare da sciorsi da ognuno col proprio parere», mentre l’«accademia matematica» non sembra avere coltivato aspirazioni a uno sperimentalismo in filosofia naturale98. Dopo il trasferimento di Benedetti alla sua nuova compagnia di fanti, nel mese di giugno, gli subentrò un «tal don Giuseppe Ciafasione», ingegnere dell’esercito di Lombardia e nipote del geniale matematico e vescovo probabilista Juan Caramuel y Lobkowitz99.

Nell’ambito dei suoi compiti di mentore del giovanissimo don Marcantonio Colonna, Bruto fu anche il suo principale portavoce e fiancheggiatore presso le autorità spagnole, la feudalità e il patriziato di Milano100. Trattenendosi in un «paese di gran fumo», pullulante di spa-gnoli e napoletani invasati da puntigli d’onore, gli intralci in cui Molara si imbatté nell’espletamento di tale incombenza furono quotidiani101. Solo in parte il capitale di conoscenze cerimoniali e cortigiane accumulato perso-nalmente nei suoi anni toscani e romani poteva soccorrerlo nel mestiere, perché ciascuna città aveva usanze e costumi peculiari10. E come se ciò non fosse bastato, alla cura meticolosa dei rapporti politico-sociali, alle premure costanti verso gli studi e la condotta morale di Marcantonio dovettero sommarsi ben presto l’applicazione alle materie militari e la direzione dell’intera casa e familia del giovinetto103.

Il risultato di tanta gravosa concentrazione di impegni fu angoscian-te, al punto che Molara, oppresso dalla mole di lavoro e dalle insistenze dei creditori di don Marcantonio, riconobbe di «non sapere come io mi

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resista a colpi tali»104. Da un lato, egli auspicava che Colonna potesse ben figurare in società, e a questo scopo era finalizzato, tra l’altro, il rinnovo costante del guardaroba del ragazzo105. E va osservato che Bruto aveva affinato il suo gusto estetico alla corte di Toscana, e ancora ne provava gli effetti in quanto eleganza e armonia presiedevano ai fenomeni artistici e sociali che di tanto in tanto egli celebrava nelle sue lettere106.

Per altro verso, però, i tentativi di Bruto volti a contenere le spese della familia urtavano di continuo contro ostacoli formidabili. Nel corpo l’adolescente Marcantonio si irrobustiva con l’età, per cui «l’abito che si fa un anno, mal può servire per un altro a chi sta sul crescere a giornate»107. Inoltre non erano trascurabili i costi di rappresentanza politico-militare sostenuti dallo stesso Colonna come capitano e poi, dal 1683, quale mastro di campo durante i presidi, le mostre generali e le uscite in campagna108. Ed era quantomeno energica la resistenza che in casa i servitori di cappa nera opponevano a qualunque «riforma» escogitata da Molara sul piano amministrativo e disciplinare, «non dico delle cose necessarie […] ma delle superflue»109.

Da una parte, Bruto, «nemicissimo di novità, e di rigore», non ama-va intervenire con severità nella punizione dei domestici e soprattutto dei gentiluomini insolenti, testardi, pigri o disonesti110. Su tale piano egli si sentiva molto italiano: come spiegava in altra occasione al gran connestabile, «il modo alemmanno è buono per i suoi paesani con cui ci vuol sempre rigore, e asprezza, ma coll’italiano che ci vuol agio, e dolce forsi non riuscirebbe»111. D’altro canto, tuttavia, la sua natura schietta, esuberante, inibiva a Bruto un completo ritiro nel silenzio, tanto «il zelo mi trasporta» in «certi accidenti», anche quando ogni suo intervento correttivo pareva inefficace11. Anzi, le sue osservazioni in merito all’an-damento della casa e alla scarsa attenzione di Marcantonio Colonna per i doveri religiosi, per gli affari politico-militari e per le visite di cortesia ebbero il loro peso nell’alienargli l’affetto del giovane113.

8Verso un’altra sfera

Quale precettore inascoltato, «nelle mie inquietudini, e vigilie, che sono continue», Bruto non poteva resistere lungamente neppure nello scompo-sto entourage di don Marcantonio114. Quarantaquattrenne, egli accusava sempre di più gli acciacchi della sua età, di un’esistenza che le disgrazie avevano sfiorito, reso più acre e realista115. Si era inasprita, con gli anni, la sua intolleranza per la «presuntioncella» di tanti giovani, lui che era stato così gagliardo in passato116. Durante il carnevale del 168 si divertì a servire mascherato il suo signore in una cavalcata e in un ballo di corte a Milano. Forse vi fu sospinto anche dal ricordo dei sontuosi spettacoli

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medicei del 1 luglio 1661 in cui egli era stato condottiero del balletto equestre Il mondo festeggiante e pastore danzante della festa teatrale Ercole in Tebe117. Ora, comunque, la forma di socialità d’élite più in voga nei carnevali milanesi del tempo, cioè il festino da ballo, provocava in lui disgusto e insofferenza118. «Non si fa altro che ballare dalla sera alla mattina», prorompeva il 9 febbraio 1683, «e dormire dalla mattina alla sera, è questa la vita infelice, che si fa qui»119.

Fatale fu di conseguenza il progressivo distacco dal ragazzo Marcanto-nio Colonna, più sensibile a queste forme di vivere alla moda ma insieme più impacciato nel relazionarsi con le persone estranee alla sua cerchia intima di camerati e adulatori10. Dal momento che Dio lo voleva «ancora lassare a tribolare in questo mondo», Bruto pensò al modo migliore per riconquistare la pace dell’animo e per volgere la sua professionalità verso ambiti idonei a produrre per lui onore e utile11. La circostanza propizia si presentò nel 1684 grazie alle raccomandazioni del governatore spagnolo di Milano, il conte di Melgar, quando ottenne il capitanato di una compagnia di fanti nello stesso terzo del «mi signore» don Marcantonio Colonna1. Pertanto, l’ultimo anno di un’esistenza tormentata, ansiosa, Bruto riuscì a trascorrerlo, dal novembre 1684 all’ottobre 1685, prevalentemente a capo di questa compagnia nel presidio di Novara13.

Il cavaliere romano cercò di ritrovare tra i suoi soldati la tranquillità, quella «quiete, non però da vile, ma onorata», che gli permettesse di mettere a frutto il suo talento organizzativo nella presunta imminenza di una guerra tra la Spagna e la Francia14. Fin dal 1681 Bruto si era dedicato suo malgrado a impratichirsi dell’arte di soldato, come alfiere di una compagnia di don Marcantonio e soprattutto quale portavoce degli inte-ressi di costui presso le autorità militari del Milanesado15. Non era stata un’esperienza agevole, altrimenti nel 1683 Bruto non avrebbe rifiutato la tenenza della prima compagnia di Marcantonio adducendo di non essere «soldato, e prattico» al pari di chi «altre volte si fosse trovato in guerra viva»16. Un’istruzione cavalleresca di base impartita a corte, come quella che Bruto aveva ricevuto nella paggeria del granduca toscano, non poteva rimpiazzare la dura esperienza e i disagi fisici sul campo.

Come tanti suoi contemporanei, Molara era molto critico sullo stato degli eserciti spagnoli e in particolare di quello lombardo, «tutti confu-sione, e senza determinatione di cosa alcuna». Più volte esternò i propri giudizi al connestabile Colonna, con toni che non sarebbero condivisi dagli autori della revisione storiografica in corso dal 1980 sul mito della decadenza secentesca della monarchia iberica17. Nondimeno, Molara considerava ragionatamente la sua compagnia uno strumento di note-vole importanza per autopromuoversi socialmente, cavalcando il merito personale, come esigeva l’etica del vero cavaliere cristiano18.

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La deliberata transizione “professionale” di Bruto, da aio a solda-to, stava a significare che egli non era persona da lasciarsi facilmente sconfiggere nell’animo. I suggerimenti che il gentiluomo romano volle dispensare il gennaio 1685 per l’autogoverno di Marcantonio Colonna rappresentano il pensiero di una persona risoluta ed equilibrata, co-scienziosa. Nella lettera, diretta al connestabile Colonna, si riscontra un accenno di cortigianeria barocca, come d’esordio, ma per tutto il resto del discorso i consigli rivolti a Marcantonio, frutto di espansiva saggezza, sostanziano un valore ancor oggi universale:

Vedrà vostra Eccellenza il suo caro figlio è degnissimo quale io gle l’ho rappre-sentato, e solo di ricordo gli darei che si ricordi esser figlio di un padre grande come vostra Eccellenza, e questo gli serva di merito nell’abbassarsi alcune volte ad alcune operationi come se fosse soldato di fortuna, e di petto alcune altre da ciochare, che tal volta è meglio urtare con riportarne la testa rotta in un punto, che far vedere che non si vuol mostrar petto, per ché se una se ne perda, serve per ché non s’animino altri a mettersi a nuovi cimenti, e lontano dall’adulatione, e ricordarli che chi l’adula non gli vuol bene. Pensare bene prima di risolvere, ma risoluto sostenere, e mantenere a ogni costo19.

Le norme di vita e di comportamento richiamate a vantaggio del ragazzo si possono leggere sotto traccia quale involontario testamento spirituale. Infatti, quelle riflessioni precedono di soli otto mesi e mezzo la morte dell’autore, che spirò per febbre il 15 ottobre 1685 a Novara, da cattolico fervente, a quarantasei anni d’età130.

9Personalità differenti per un fine comune

Poche incertezze possono sussistere riguardo alla rilevanza che la carriera ecclesiastica percorsa da Riccardo Annibaldi della Molara rivestì per la «casa» di quest’ultimo. Grazie al prestigio degli uffici e delle dignità di cui fu investito, Riccardo incarnò senz’altro il più autorevole esponente della stirpe annibaldesca nella seconda metà del xvii secolo. Presso di lui il fratello Bruto poté riparare nel momento del bisogno, confidando di guadagnare dalle sue promozioni dei benefici concreti. Tuttavia, non sempre fu attuabile un gioco di squadra, ovvero fu raggiunta una com-plementarietà nei ruoli sociali di questi stretti parenti. Occasionalmente nacquero, almeno fra Riccardo e Bruto, malumori e screzi sulle strategie familiari alle quali dare corso131. Tali divergenze discesero da habitus mentali acquisiti dai due fratelli, il prelato e il cavaliere, maturati attra-verso percorsi educativi, professionali e sociali che talora inducevano inevitabilmente a collidere tra loro.

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Questioni di natura patrimoniale, dipendenti dall’assenza di fede-commessi in famiglia, e problemi generali afferenti la casata richiedevano esami condivisi, e comuni accordi tra i due consanguinei. Ma Riccardo doveva riporre poca fiducia in Bruto, altrimenti gli avrebbe accordato una più larga autonomia nella gestione economica della casa rispetto a quella di cui poté effettivamente usufruire il più giovane congiunto. «Mio fratello fa il nescio», si lagnava lo stesso Bruto nell’annunciare a Vincenzo Viviani una sua visita a Roma sui primi di novembre del 1663 per «fare i conti» prima di assumere con Riccardo «le risoluzioni ultime» negli affari di famiglia13.

Ma si doveva giungere agli anni Settanta perché la diversità di vedute e l’esigua compatibilità caratteriale tra i due familiari deflagrassero in tutta la loro drammaticità. Constatata la perdita di un posto onorevole alla corte medicea, con la fine di luglio del 1670 Bruto della Molara si vide obbligato a mendicare ospitalità e sostentamento materiale presso il fratello prelato133. C’era solo da auspicare che nello Stato pontificio Riccardo ottenesse ora una diocesi, così da produrre per conseguenza un miglioramento delle condizioni dello stesso Bruto134. Onore e utile erano il fine, la meta a cui tendeva l’aristocratico d’epoca barocca135. E anche il trentunenne Bruto tendeva ora «a qual che cosa di più onore, e utile» rispetto ai posti che aveva ricoperto in Toscana. Egli era assillato dall’istinto di rivalsa dell’uomo, e dell’aristocratico, che si sente mali-gnamente umiliato dalla sfortuna e dai detrattori. Tuttavia, le sue mete ambiziose rimanevano sfuggenti «fin che», come egli stesso rammentava al solito Viviani, «non ho accordate le cose di mio fratello»136.

Almeno in quella temperie, la sorte di Bruto era quanto mai legata a quella del congiunto più anziano, l’unico mediante il quale potesse compiersi un salto di qualità per tutta la sua famiglia. Stimolato dalle proprie sventure, Bruto mise in campo un’attività frenetica, «sempre più agitato che mai», alternando periodi di residenza a Foligno con altri ad Ancona, allo scopo di sostenere gli interessi di entrambi, di Riccardo e di sé stesso137. Lo si trova a implorare l’attenzione dell’eminentissimo Leopoldo de’ Medici nella prospettiva di una vacanza o di una rinuncia da parte di terzi a un vescovato; eccolo quindi richiedere a Vincenzo Viviani informazioni riguardo alla chiesa di Città della Pieve, resasi disponibile per la morte del titolare, e di nuovo ancora a prestare mille cortesie al potente cardinale Conti ad Ancona138. Poiché «il cielo è grande, e non per tutto è nuvolo», non era il caso di disperare; anzi, valeva la pena di continuare a combattere con le azioni e con le preghiere139.

Per parte sua, Riccardo non nascose a Bruto la propria perplessità a fronte dell’implacabile irrequietezza del fratello, della sua vorticosa operosità diplomatica, dei suoi ambiziosi piani di negoziazione personale

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con autorevoli figure dell’empireo romano140. Riccardo della Molara era avvezzo, per formazione giuridica e per esperienza nell’esercizio del potere politico, a procedere con cautela e ponderata flemma, mentre Bruto, impetuoso per temperamento e frustrato dalle sue disgrazie, era proteso verso iniziative decise e serrate.

I tentativi praticati da Riccardo per impedire un soggiorno romano dell’ansioso consanguineo si possono considerare delle misure pruden-ziali, volte a depotenziare mosse troppo intempestive da parte dello stesso Bruto. Poiché questi si riprometteva i migliori risultati da una sua apparizione nella città eterna, l’inappellabile veto oppostogli da Riccardo lo mandò in furia. Bruto, in preda al livore, giunse a sospettare che il fratello gli proibisse il viaggio a Roma «per miseria, di non mi soministrar modo da andarvi, e starvi, o per timore, che col prochurar per me, egli resti indietro»141.

Bruto della Molara riteneva che un avanzamento di carriera di Ric-cardo fosse una premessa strettamente funzionale al proprio recupero sociale e finanziario. Tuttavia al dispotico Riccardo, suo carceriere, così prescrittivo nei suoi confronti, egli finì per anteporre sul piano affettivo il comprensivo cugino Giuseppe della Molara, il quale ad Ancona, dove era mastro di camera del cardinale Conti, lo accoglieva e intratteneva con atti di viva simpatia14. Ciò che più lo lacerava e assillava era però il dover servire la convenienza, ossia l’imperativo sociale e politico di «soffrire, e salvar l’apparenza per non far peggio»143. Tuttavia, nell’ottobre del 167 la reciproca insofferenza di Bruto e Riccardo era giunta ai livelli di guardia, per cui era quasi impossibile mascherarla al pubblico. Il discredito e il tramonto delle belle speranze stavano per manifestarsi, poiché senza un rimedio alle repulsioni e ai contrasti «l’uno all’altro di noi si pregiudicherà invece di giovarsi, come seguiria, caminando d’accordo»144.

Presumibilmente, come si è visto, fu l’intervento di due porporati, Giovanni Nicolò Conti e in seguito Francesco Nerli iunior, ad alleviare tanta afflizione e a evitare il peggio. Sembra di capire che la carica di ma-stro di camera presso il cardinale Nerli e la dignità di vescovo di Veroli, ricevute da Bruto e Riccardo rispettivamente nel 1674 e nel 1675, siano state in qualche misura salutari per una distensione nei rapporti tra i due.

In ogni caso, il 4 luglio 1681, con una lettera stilata di proprio pugno, Riccardo esternava tutta la sua riconoscenza a Lorenzo Onofrio Colonna per l’impiego di istitutore che lo stesso principe aveva attribuito al «povero signor mio fratello»145. In tale uso dell’aggettivo “povero» si intravvede dunque un segno di compassione e di affetto da parte di un prelato che nove anni addietro Bruto aveva definito il “tiranno” di famiglia146.

Del resto, neppure Bruto aveva mai considerato riduttivamente il fratello più anziano quale mero strumento per la propria ascesa sociale.

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Ad esempio, tra il 1673 e il 1674, nell’illusione di diventare cavallerizzo maggiore del cardinale Sigismondo Chigi, il cavaliere Molara aveva espresso la speranza di poter aiutare molto, dalla sua nuova carica, anche il congiunto monsignore, «che è quello a chi io penso»147.

Alla luce di tutti questi elementi sarebbe azzardato definire, se non il casato degli Annibaldi nel suo insieme, almeno il ramo di Riccardo e Bruto nel secondo Seicento un organismo equilibrato e armonico in tutte le sue parti. Nella discendenza degli Annibaldi della Molara collidevano indoli e mentalità diverse, ostinazioni e depressioni potenzialmente funeste per la convivenza familiare. È indubbio, però, che sia Bruto, sia Riccardo erano determinati nel profondo ad assolvere anche al loro preciso obbligo mo-rale di coadiuvarsi l’un l’altro, nell’ambito delle rispettive possibilità e dei rispettivi ruoli politico-sociali ed economici. Piuttosto, era sui modi per soddisfare questa esigenza culturale che le divergenze tra consanguinei esplodevano nella loro energia creativa o distruttiva.

Note

Si ringraziano per la collaborazione Anna Rosa Bambi, Piera Ceccarini, Marina D’Amelia, Fiorenza Danti, Isabella Farinelli, Leandro Frasca, Giovanni Magnante, Elia Mariano, Paola Monacchia, Elisabetta Mori, Christine Pennison, Maria Serena Sampaolo e Paola Tedeschi.

1. Cfr. D. van Ameyden, Relatione di Roma, in Li tesori della corte romana in varie relattioni fatte in Pregadi d’alcuni ambasciatori veneti, residenti in Roma, sotto differenti pontefici, e dell’Almaden, ambasciator francese, s.e., Bruselles 167, pp. 137, 140.

. Cfr. Id., La storia delle famiglie romane [sec. xvii], con note ed aggiunte di C. A. Bertini [1910], anastatica, Forni, Bologna 1979, vol. i, pp. 66-8 nota. Del castrum Molarie restano oggi solo pochi ruderi.

3. Cfr. Archivio Storico Capitolino di Roma, Archivio Capranica, b. 136, s. n.4. Cfr. Archivio di Stato di Pisa, Ordine dei cavalieri di Santo Stefano, filza 149, ins.

0, fasc. Processo fabbricato in Roma.5. Cfr. Hierarchia catholica medii et recentioris ævi, vol. iv, P. Gauchat (a cura di),

1592-1667, Regensberg, Monasterii 1935, p. 316; G. Brunelli, Soldati del papa. Politica militare e nobiltà nello Stato della Chiesa (1560-1644), Carocci, Roma 003, pp. 1, 79.

6. Cfr. Archivio di Stato di Perugia, Archivio Storico del Comune di Perugia, Registri Parrocchiali, n. 304, c. 91r; Hierarchia catholica, cit., p. 316 nota.

7. Cfr. Archivio Storico del Vicariato di Roma (d’ora in poi asvr), Parrocchia dei Santi xii Apostoli, Stati delle anime 1638-51, c. 106v. Tebaldo della Molara aveva visto la luce nel 1578. Cfr. ivi, Battesimi 157-83, c. 38r.

8. Invece il fratello Gaspare (n. 1636), dopo essere stato caporione di Trevi e priore dei caporioni a Roma, si recò a militare sotto lo stendardo veneziano; morì celibe nel 1683, mentre ricopriva l’ufficio di governatore del feudo colonnese di Paliano. Quanto alle sorelle, Olimpia si maritò al nobile bolognese Filippo Carlo Sacco; Vittoria convolò a nozze con il patrizio romano Marco Antonio de Grassis; Veronica divenne terziaria francescana in Santa Margherita di Trastevere quale suor Florida Celeste, e Porzia visse nubile. Cfr. Archivio di Stato di Pisa, Ordine dei cavalieri di Santo Stefano, filza 149, ins. 0, fasc. Processo fabbricato in Roma, attestato dello “scriba” del senato romano, 7.3.1657 (in copia); M. Giustiniani, De’ vescovi e de’ governatori di Tivoli libri due, F. M. Mancini, Roma 1665, p. 3; Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Santa Scolastica di

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Subiaco, Archivio Colonna, Carteggio di Lorenzo Onofrio Colonna (d’ora in poi bss, aco, Carteggio l. o. Colonna), fasc. 114, Bruto della Molara (d’ora in poi B. Molara) da Pavia 30.9.168; fasc. 1, B. Molara da Milano 15.9.1683; Archivio di Stato di Frosinone, Archivi notarili, Giuseppe Iaboni di Veroli, 3.1.1689, c. 51v; asvr, Parrocchia dei Santi xii Apostoli, Morti 1693-177, c. 14r; Archivio di Stato di Bologna, G. Guidicini, Alberi genealogici, ms., sec. xix, Sacchi; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e d’altri edificii di Roma dal secolo xi fino ai giorni nostri, Tip. delle Scienze Matematiche e Fisiche, vol. i, Roma 1869, p. 3; F. Balboni, Roma riscopre un gioiello. Santa Margherita: porta d’Oriente e d’Occidente, Edizioni dell’Orso, Alessandria 008, p. 140.

9. Cfr. asvr, Parrocchia dei Santi xii Apostoli, Stati delle anime 1638-51, cc. 106v, 11r, 133r, 149r, 166r, 183r, 00r, 18r; Stati delle anime 1638-51, c. 18r; Stati delle anime 165-67, c. 5r.

10. Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Archivio Concistoriale (d’ora in poi asv, acon), Processus consistoriales, n. 74, c. 536.

11. Cfr. bss, aco, Carteggio di Girolamo i Colonna, n. 63; Archivio Storico Comunale di Tarquinia, Registro dei verbali consiliari, n. 376, cc. 33r-54r; Giustiniani, De’ vescovi, cit., p. 31.

1. Cfr. Archivio di Stato di Firenze, Archivio Mediceo del Principato (d’ora in poi asfi, amp), fasc. 5544, n. 696. Bruto era nato il 7 marzo 1639; cfr. Archivio Capitolare di Perugia, Cattedrale di San Lorenzo, Battesimi 168-95, c. 55r.

13. Cfr. S. Tabacchi, Per la storia dell’amministrazione pontificia nel Seicento. Orga-nizzazione e personale della congregazione del Buon Governo (1605-1676), in A. Jamme, O. Poncet (éds.), Offices et papauté (xive-xviie siècle). Charges, hommes, destins, École Françai-se de Rome, Rome 005, p. 63; S. Giordano, Note sui governatori dello Stato Pontificio durante il pontificato di Paolo v (1605-1621), ivi, pp. 894-6; S. Tabacchi, L’amministrazione temporale pontificia tra servizio al papa ed interessi privati (xvi-xvii), in A. Jamme, O. Poncet (éd.), Offices, écrit et papauté (xiiie-xviie siècle), École Française de Rome, Rome 007, pp. 570, 573.

14. Cfr. A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo xvii. I vescovi veneti fra Roma e Venezia, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 156-60; M. Pellegrini, Corte di Roma e aristocrazie italiane in età moderna. Per una lettura storico-sociale della curia romana, in “Rivista di Storia e Letteratura Religiosa”, 30, 1994, 3, pp. 593-5.

15. Cfr. R. Ago, Carriere e clientele nella Roma barocca, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 78; Tabacchi, Per la storia, cit., pp. 61, 631-; Giordano, Note sui governatori, cit., pp. 903-4; Id., L’amministrazione, cit., pp. 578-9, 588; Id., Il Buon Governo. Le finanze locali nello Stato della Chiesa (secoli xvi-xviii), Viella, Roma 007, pp. 173-4, 189-9.

16. Cfr. asv, acon, Processus consistoriales, n. 74, c. 533; Hierarchia catholica, cit., vol. v, R. Ritzler, P. Sefrin (a cura di), 1667-1730, Il Messaggero di S. Antonio, Patavii 195, p. 41 nota.

17. Cfr. asvr, Parrocchia dei Santi xii Apostoli, Stati delle anime 1638-51, cc. 13v, 19r; Hierarchia catholica, cit., vol. iv, p. 316 nota.

18. Cfr. D. Rezza, M. Stocchi, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano dalle origini al xx seco-lo, vol. i, La storia e le persone, Capitolo Vaticano, Città del Vaticano 008, pp. 366, 4.

19. Cfr. ivi, pp. 79-49; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro sino ai nostri giorni, vol. vii, Tip. Emiliana, Venezia 1841, p. 41.

0. Cfr. G. M. Crescimbeni, L’istoria della chiesa di S. Giovanni avanti Porta Latina, titolo cardinalizio, A. de’ Rossi, Roma 1716, p. 365; A. Baldeschi, Stato della ss. chiesa papale lateranense nell’anno mdccxxiii, Stamp. di San Michele a Ripa Grande, Roma 173, p. 95; G. M. Crescimbeni, Dell’istoria della volgar poesia, vol. vi, L. Basegio, Venezia 1730, p. 415; F. Cancellieri, Storia de’ solenni possessi de’ sommi pontefici […], L. Lazzarini, Roma 180, p. 356 nota; C. Weber, Die päpstlichen Referendare (1566-1809). Chronologie und Pro-sopographie, Hiersemann, Stuttgart 003, vol. ii, p. 413.

1. Cfr. Ago, Carriere, cit., p. 68; M. Piccialuti, L’immortalità dei beni. Fedecommessi e primogeniture a Roma nei secoli xvii e xviii, Viella, Roma 1999, pp. 174-6.

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. Cfr. Archivio di Stato di Frosinone, Archivi notarili, Giuseppe Iaboni di Veroli, 3.1.1689.

3. Cfr. G. Leti, L’Italia regnante, o vero nova descritione dello stato presente di tutti prencipati, e republiche d’Italia, vol. ii, G. e P. de la Pietra, Geneva 1675, p. 390.

4. Cfr. A. Cont, Servizio al principe ed educazione cavalleresca. I paggi nelle corti italiane del Seicento, parte ii, in “Studi secenteschi”, 53, 01, in corso di stampa.

5. Cfr. ivi, parte i, in “Studi secenteschi”, 5, 011, pp. 35-7.6. bncf, ms. Gal. 161, c. 161, a Vincenzo Viviani (d’ora in poi V. Viviani), Roma

11.5.1658.7. Cfr. bncf, ms. Gal. 168, c. 71r; ms. Gal. 157, c. 197v; f. Massai, Sette lettere inedite di

Lorenzo Magalotti al cav. Alessandro Segni (1665-1666), in “Rivista delle biblioteche e degli archivi”, 8, agosto-dicembre 1917, p. 19; S. Bertelli, Palazzo Pitti dai Medici ai Savoia, in A. Bellinazzi, A. Contini (a cura di), La Corte di Toscana dai Medici ai Lorena, Ministero per i beni e le attività culturali. Direzione generale per gli archivi, Roma 00, pp. 90-.

8. Cfr. B. Casini, I Cavalieri degli Stati Italiani, membri del Sacro Militare Ordine di Santo Stefano Papa e Martire, vol. ii, ets, Pisa 001, p. 513.

9. Cfr. bncf, ms. Gal. 158, c. 194v; F. Ferruzzi, La Camera del granduca, in “Rivista d’arte”, 38, 1986, p. 316 nota.

30. bncf, ms. Gal. 157, c. 197v, V. Viviani a Robert Southwell, Roma .4.1663.31. Cfr. [L. Gualtieri], Vita di Ferdinando ii quinto granduca di Toscana, “Lo sconcio

sposalizio” ottave di Francesco Furino, Novella di Pietro Fortini [1886], anastatica, Forni, Bologna 1967, pp. 1-8.

3. Cfr. Cont, Servizio, cit., parte i, passim.33. bncf, ms. Gal. 5, c. 9v, V. Viviani a B. Molara, Firenze 4..1664 [1665].34. bncf, ms. Gal. 163, c. 147v, B. Molara a V. Viviani, Firenze 8.9.1665 (la lettera è

rilegata insieme con quelle relative al 1667, per un errore di lettura della sua data avvenuto durante il riordino del carteggio).

35. Il tema dei rapporti di Bruto con l’ambiente scientifico toscano è approfondito in Cont, Servizio, cit., parte ii.

36. Sul ruolo di Molara nelle relazioni tra Viviani e Borelli cfr. A. Bonicelli, Bibliotheca pisanorum veneta, annotationibus nonnullis illustrata, vol. ii, A. Curti, Venetiis 1807, p. 31; L. Tenca, Le relazioni fra Giovanni Alfonso Borelli e Vincenzo Viviani, in “Rendiconti” dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 90, 1956, pp. 118-0; W. E. Knowles Middleton, Some Unpublished Correspondence of Giovanni Alfonso Borelli, in “Annali dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze”, 9, 1984, p. 103.

37. Cfr. bncf, ms. Gal. 158, cc. 115, 177-178r, 181, 46v-47r, 50; ms. Gal. 160, c. 75r; ms. Gal. 163, cc. 107r, 110, 34v-35r, 48, 64r; ms. Gal. 164, cc. 5r, 3, 51v; ms. Gal. 5, cc. 109-110; Delle lettere familiari del conte Lorenzo Magalotti e di altri insigni uomini a lui scritte, Firenze, Stamp. di S. A. R. per G. Cambiagi, Firenze 1769, vol. ii, p. 3; “Bulletin du Bouquiniste”, 437, 1 marzo 1876, p. 13; Nicolai Stenonis epistolæ et epistolæ ad eum datæ, quas cum proœmio ac notis germanice scripsit, a cura di G. Scherz con la collaborazione di J. Raeder, Nyt Nordisk Forlag, Hafniae, Verlag Herder, Friburgi Germaniae 195, vol. i, p. 16; A. Mirto, Carlo Roberto Dati e Vincenzo Viviani. Carteggio (1659-1672), in “Studi secenteschi”, 51, 010, p. 317.

38. Cfr. T. Accetto, Della dissimulazione onesta, a cura di S. S. Nigro, Einaudi, Torino 1997, pp. 57-8.

39. Cfr. bncf, ms. Gal. 16, cc. 335v-336r, B. Molara a V. Viviani, Pisa 30.1 (?).1666 [1667].

40. Cfr. bncf, ms. Gal. 5, c. 9v, Firenze 4..1664 [1665].41. Cfr. bncf, ms. Gal. 163, cc. 17r, 49r; ms. Gal. 164, c. 19r.4. Per la prima cfr. bncf, ms. 160, c. 79v, s. l. 1.7 [1670].43. asfi, amp, fasc. 5544, n. 688, da Foligno 5.8.1670.44. Cfr. S. Tabacchi, Buon Governo, Sacra Consulta e dinamiche dell’amministrazione

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pontificia nel xvii secolo, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 004, 1, pp. 58-61; I. Fosi, Il governo della giustizia nello Stato ecclesiastico fra centro e periferia, in Jamme, Poncet (éd.), Offices et papauté, cit., pp. 16-1; Ead., La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato pontificio in età moderna, Laterza, Roma-Bari 007, pp. 158-61, 173-90; Tabacchi, L’amministrazione, cit., pp. 587-93; Id., Il Buon Governo, cit., pp. 89-96.

45. Cfr. A. Gardi, Fedeltà al papa e identità individuale nei collaboratori politici pon-tifici (xiv-xix secolo). Alcune osservazioni, in P. Prodi, V. Marchetti (a cura di), Problemi di identità tra Medioevo ed Età Moderna. Seminari e bibliografia, clueb, Bologna 001, pp. 141-4.

46. Cfr. bss, aco, Carteggio di Girolamo i Colonna, nn. 78, 11, 308, 361, 491, 730; Sezione di Archivio di Stato di Cesena, Archivio Storico del Comune di Cesena, Lettere al Comune, s. ii, Governatori, Magalotta, Sbirri, Utensili, Banditi e Giustiziati, b. 484, notifica ai conservatori di Cesena della nomina di Riccardo della Molara a governatore, .1.1654; Giustiniani, De’ vescovi, cit., pp. 31-; P. Bonoli, Storia di Forlì [sec. xvii], anastatica, Atesa, Bologna 1973, p. 475; bncf, ms. Gal. 164, c. 48r, B. Molara a V. Viviani, Assisi 6..1673 (da cui la parola citata); S. Marchesi, Supplemento istorico dell’antica città di Forlì in cui si descrive la provincia di Romagna [1678], anastatica, Forni, Bologna 1968, p. 844; C. Weber, Legati e governatori dello Stato Pontificio (1550-1809), Ministero per i beni culturali e ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1994, pp. 18, 199, 6, 67, 301, 395, 404, 458; B. Lattanzi, Storia di Foligno, vol. iii, parte ii, 1559-1797, ibn, Roma 000, pp. 481, 678. Sull’appoggio di mons. Rasponi presso la corte papale cfr. bncf, ms. Gal. 16, c. 5r.

47. Cfr. Weber, Legati, cit., pp. 35-6; Giordano, Note sui governatori, cit., pp. 896-8.48. Cfr. Sezione di Archivio di Stato di Assisi, Archivio Giudiziario, Iura diversa,

nn. 1018-19.49. Questa informazione si deve a Piera Ceccarini. Per l’attività cornetana di Molara

cfr. Archivio Storico Comunale di Tarquinia, Registro dei verbali consiliari, n. 376, cc. 33r-54r; Registro degli atti civili, n. 413, cc. 54v-55r; Libro degli Istrumenti, n. 1009, cc. 8r-83v; Speculum, n. 635, cc. 6v-7r; Speculum, n. 636, cc. 9v-10r; Registro dei mandati, n. 647, cc. 175v-176r, 51v-5r.

50. Cfr. Sezione di Archivio di Stato di Cesena, Archivio Storico del Comune di Cesena, Cause [...], n. 813/, fasc. li, decreto del cardinale Ottavio Acquaviva, legato di Romagna, con sottoscrizione di Riccardo della Molara, 11.1.1655; E. Aiti, L’amministrazione cittadina a Forlì nel xvii secolo, Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, Forlì 1974, in partic. p. ; C. Weber, Mons. Giacomo Giandemaria (1639-1690) governatore per la Santa Sede ed i suoi scritti inediti, in “Bollettino Storico Piacentino”, 8, 1987, , p. 176; Id., Legati, cit., pp. 37-9.

51. bncf, ms. Gal. 54, c. 181v, Robert Southwell a V. Viviani, Bologna 9.4.1661.5. bncf, ms. Gal. 16, c. 4r, B. Molara a V. Viviani, Pisa 31.3.1663.53. Cfr. Sezione di Archivio di Stato di Assisi, Archivio Giudiziario, Iura diversa, n.

1019, Carlo Montecatini a Riccardo della Molara, Perugia 0..1674; ivi, Carlo Natalini a Carlo Montecatini, con rescritto del 4.5.1674; ivi, Francesco Bellucci e Carlo d’Alessandro a Carlo Antonio Dondini, con rescritto del 30.6.1674; ivi, Francesco Ottaviani e Rossane Bistocchi a Carlo Antonio Dondini, con rescritto del 4.7.1674; L. Londei, La funzione giudiziaria nello Stato pontificio di antico regime, in Associazione nazionale archivistica italiana. Sezioni Lazio e Umbria (a cura di), “Pro tribunali sedentes”. Le magistrature giu-diziarie dello Stato pontificio e i loro archivi, Le Monnier, Firenze, 1991, pp. 17-8, -3. C. Cutini, L’amministrazione della giustizia nella provincia di Perugia e dell’Umbria. Istituzioni e documentazione processuale, ivi, in partic. pp. 36-4, 45-8; G. Giubbini, Le competenze giurisdizionali del Governatore di Perugia (secc. xv-xviii), ivi, pp. 169-77; P. Tedeschi, La giurisdizione del governatore di Foligno tra centralismo statale e autonomia comunale. Orientamenti di ricerca, ivi, in partic. pp. 6-7.

54. Cfr. C. Casanova, Ai vertici della società, in Storia di Cesena, vol. iii, A. Prosperi (a

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cura di), La dominazione pontificia (secoli xvi-xvii-xviii), Ghigi, Rimini 1989, in partic. pp. 73-80; G. Metelli, Il regime oligarchico a Foligno dall’ascesa alla decadenza, in “Bollettino storico della città di Foligno”, 13, 1989, in partic. pp. 85-315; F. Bettoni, Le basi economiche del patriziato cittadino, in A. Grohmann (a cura di), Assisi in età barocca, s. e., Assisi 199, pp. 3-73; F. Guarino, Funzionamento e gestione degli uffici cittadini, ivi, pp. 315-35; B. G. Zenobi, Le “ben regolate città”. Modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Bulzoni, Roma 1994, in partic. pp. 83-7, 140-3, 146-8, 160-1; P. Ceccarini, Le Pubbliche Istituzioni, in Ead. (a cura di), Archivio Storico Comunale. Inventario preunitario 1201-1870, s. e., Tarquinia 1999, in partic. pp. 4-6.

55. Cfr. Aiti, L’amministrazione, cit., pp. 7-8, 40, 57, 67.56. Cfr. Sezione di Archivio di Stato di Cesena, Archivio Storico del Comune di

Cesena, Riformanze, nn. 160-16.57. Cfr. Archivio di Stato di Forlì, Archivio Storico del Comune di Forlì, Consigli

generali e segreti, nn. 14-130.58. Cfr. Sezione di Archivio di Stato di Foligno, Archivio Storico Comunale di Foligno,

Archivio Priorale, n. 139, c. 93vii.59. Cfr. Ago, Carriere, cit., pp. 9-3; Pellegrini, Corte, cit., p. 580.60. asfi, amp, fasc. 5544, n. 684, B. Molara a Leopoldo de’ Medici, Foligno

1.8.1670.61. Cfr. ivi, n. 688, B. Molara a Leopoldo de’ Medici, Foligno 5.8.1670.6. Ibid.63. Cfr. Ago, Carriere, cit., pp. 9-3; C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-

tridentina alla caduta dell’antico regime, in M. Rosa (a cura di), Clero e società nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 199, pp. 357-9, 361; Menniti Ippolito, Politica, cit., pp. 83-4 nota; C. Donati, Chiesa italiana e vescovi d’Italia dal xvi al xviii secolo. Tra interpretazioni storiografiche e prospettive di ricerca, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, 30, 004, p. 385. Inoltre, cfr. M. Rosa, Clero cattolico e società europea nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 006, p. 0.

64. Cfr. asfi, amp, fasc. 5544, n. 684, B. Molara a Leopoldo de’ Medici, Foligno 1.8.1670.

65. Sui processi informativi per la provvista delle diocesi in età post-tridentina cfr. M. Faggioli, La disciplina di nomina dei vescovi prima e dopo il concilio di Trento, in “Società e storia”, 9, 001, pp. 41-56.

66. asv, acon, Processus consistoriales, n. 74, cc. 531v, 536v.67. Ivi, c. 536r.68. Cfr. ivi, cc. 531v, 536-537r.69. Ivi, c. 536v; e così pure Bentivoglio a c. 536r.70. Si deve sottolineare che sia Teutonico, sia Bentivoglio avevano instaurato con

i Molara del ramo di Annibale dei rapporti di dipendenza o amicizia. Nella casa alle Tre Cannelle, Giuseppe Teutonico era stato affittuario assieme allo zio sacerdote Paolo. Quest’ultimo nel 1649 divenne arcivescovo di Manfredonia, una dignità che fino a sei anni prima era stata di Orazio Annibaldi della Molara, zio di Riccardo. Quasi di certo era stato Orazio della Molara a porre in contatto la propria famiglia con i pugliesi Teutonico. Tanto più che ancora Paolo Teutonico aveva ricoperto l’ufficio di vicario generale dell’arcivescovo Andrea Caracciolo, immediato predecessore di Orazio nella sede sipontina (168-9). Cfr. asvr, Parrocchia dei Santi xii Apostoli, Stati delle anime 1638-51, cc. 91v, 106v, 11r, 133r, 149r, 166r, 183r; Hierarchia catholica, cit., vol. iv, pp. 316-7. Carlo Bentivoglio, invece, era stato compagno di studi di Riccardo della Molara, prima di diventare suo pigionante. Cfr. asv, acon, Processus consistoriales, n. 74, c. 531v.

71. Cfr. Fosi, Il governo, cit., pp. 19-1; Ead., La giustizia, cit., pp. 160-1; S. Giordano, Merito ed esperienza. Percorsi dei diplomatici pontifici, in A. Arisi Rota (a cura di), Formare alle professioni. Diplomatici e politici, FrancoAngeli, Milano 009, pp. 68-73. La citazione è tratta da asv, acon, Processus consistoriales, n. 74, c. 536v.

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riccardo e bruto annibaldi della molara

7. Cfr. F. Ughelli, Italia sacra sive de episcopis Italiæ et insularum adiacentium, edizione corretta e ampliata a cura di N. Coleti, vol. i, S. Coleti, Venetiis 1717, col. 1400; da cui G. Cappelletti, Le chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, vol. vi, G. Antonelli, Venezia 1847, p. 506; Moroni, Dizionario, cit., vol. xciv, Tip. Emiliana, Venezia 1859, p. 80. Cfr. inoltre il profilo biografico di Riccardo steso da Giovanni Magnante per un volume sui vescovi di Veroli che si spera di prossima pubblicazione, fornito a chi scrive dall’A. in copia dattiloscritta.

73. Cfr. C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760), in Storia d’Italia. Annali, vol. ix, G. Chittolini, G. Miccoli (a cura di), La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Einaudi, Torino 1986, pp. 71-31; G. Greco, Fra disciplina e sacerdozio. Il clero secolare nella società italiana dal Cinquecento al Settecento, in Rosa (a cura di), Clero e società, cit., pp. 95-6; Donati, Vescovi, cit., pp. 361-; Id., Papa, Curia romana e vescovi d’Italia tra xvii e xviii secolo [1997], ristampato nella raccolta dello stesso autore Nobili e chierici nell’Italia del Seicento e del Settecento. Studi e ricerche storiche, cuem, Milano 00, pp. 00-16; G. Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 43-8; Donati, Chiesa italiana, cit., pp. 387-8; Rosa, Clero, cit., pp. 0-1.

74. L’opera, attribuibile a Giacomo Mango, risale allo scorcio del xviii secolo o agli inizi del xix. Cfr. http://www.aironeinforma.it/episcopio.html.

75. Cfr. bss, aco, Carteggio l. o. Colonna, fasc. 36, B. Molara da Milano 15.3.1684.76. Al «signor cardinale Conti», aveva affermato Bruto, «io, e tutta la mia casa tanto

siamo obligati»; bncf, ms. Gal. 164, c. 187r, a V. Viviani, Ancona .4.167.77. Cfr. asfi, amp, fasc. 1084, cc. 316r, 866r; asfi, amp, fasc. 5544, n. 685, B. Molara a

Leopoldo de’ Medici, Ancona 9.6.1674 (donde la citazione); bncf, ms. Gal. 164, c. 336r.78. bncf, ms. Gal. 164, c. 346r, B. Molara a V. Viviani, Roma 8.7.1674.79. Sulla perizia del giovane Bruto nel condurre i destrieri cfr. B. de Monconys, Journal

des voyages, vol. ii, H. Boissat e G. Remeus, Lion 1666, pp. 481, 483-4.80. Per la biografia e la personalità del cardinale Nerli iunior (1636-1708) cfr. F.

Trasselli, “Scritture e monumenti”, testimonianze per la biografia e materiali per la storia della biblioteca romana del cardinale Francesco Nerli, in “Rivista cistercense”, 4, 007, 1, in partic. pp. 5-73.

81. Cfr. Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, ms. Sess. 481, c. 3, Istruzione per li signori mastri di camera [...], sec. xvii. Il manoscritto, proveniente dall’archivio dello stesso Nerli, è già stato segnalato da Trasselli, “Scritture e monumenti”, cit., pp. 36-7.

8. bncf, ms. Gal. 164, c. 348r, da Roma.83. Cfr. G. Fragnito, La trattatistica cinque e seicentesca sulla corte cardinalizia. “Il

vero ritratto d’una bellissima e ben governata corte”, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, 17, 1991, pp. 16-163. Per le parole riportate cfr. Archivio di Stato di Modena, Archivio segreto estense, Sezione Casa e stato, Carteggi tra principi estensi, b. 1, n. 1661, xvi, 3, Rinaldo d’Este a Francesco ii d’Este, Roma 1.1.1689.

84. Cfr. Fragnito, La trattatistica, cit., pp. 156-64.85. Archivio di Stato di Modena, Archivio segreto estense, Sezione Casa e stato,

Carteggi tra principi estensi, b. 1, n. 1661, xvi. 6, Rinaldo d’Este a Francesco ii d’Este, Roma 18.1.1688.

86. Cfr. ivi.87. bncf, ms. Gal. 164, cc. 346r, 348r, B. Molara a V. Viviani, Roma 8.7.1674 (da cui

la citazione) e 4.8.1674.88. bss, aco, Carteggio l. o. Colonna, fasc. 43, da Roma 1.1.1680.89. Da Nerli, comunque, Riccardo era stato consacrato vescovo, il 3 giugno 1675. Cfr.

Hierarchia catholica, cit., vol. v, p. 41 nota.90. bss, aco, Carteggio l. o. Colonna, fasc. 1, B. Molara da Roma 1.3.1681.91. Ivi, fasc. 43, da Roma 1.1.1680.9. Ivi, B. Molara da Roma 1.1.1680.

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alessandro cont

93. Ivi, fasc. 1, B. Molara da Roma 15..1681.94. Ivi, B. Molara da Milano 5.6.1681; fasc. 1, da Milano 14.7.1683.95. Ivi, B. Molara da Milano 6.8 e 4.9.1681.96. Ivi, B. Molara da Milano 6.8.1681.97. Ivi, fasc. 1, B. Molara da Milano 1.4, 13, 18 e 6.5, .6.1683.98. Ivi, B. Molara da Milano 18.5.1683.99. Ivi, 17.6.1683.100. Cfr. le sue lettere ivi, fascc. 1, 19, 1, 36, 114.101. Ivi, fasc. 1, B. Molara da Milano .7.1681 (donde la citazione); fasc. 36, da Milano

15.3.1684.10. Ivi, fasc. 19.103. Ivi, fasc. 114, B. Molara da Milano .7.168; fasc. 1, lo stesso da Milano

6.4.1683.104. Ivi, fasc. 1, da Milano 6.10.1683.105. Ivi, fasc. 36, B. Molara da Milano 7.4.1684.106. Ivi, fasc. 1, B. Molara dall’Isola Bella c.7.1681.107. Ivi, fasc. 36, B. Molara da Milano 7.4.1684.108. Ivi, fasc. 1, B. Molara da Milano 10.9.1681, Vigevano 31.1.1681; fasc. 114, lo stesso

da Milano 8.3.168, Vigevano 15.4, 3.6.168, Pavia 16.9, 7.10.168, Milano 1.10.168; fasc. 1, lo stesso da Milano 9.9, 6, 13 e 0.10.1683; fasc. 36, lo stesso da Milano 17.5.1684.

109. Ivi, fasc. 114, B. Molara da Milano .7.168.110. Ibid.111. Ivi, fasc. 114, B. Molara da Milano 13.1.168.11. Ivi, fasc. 36, B. Molara da Milano 15.3, 17 (donde la citazione) e 4.5.1684.113. Cfr. le missive di Bruto ivi, fasc. 36, e in particolar modo quelle da Milano 15.3

e 7.4.1684.114. La citazione è tratta da ivi, B. Molara da Milano 19.1.1684.115. Ivi, B. Molara da Milano 5.1.1684.116. Ivi, B. Molara da Milano 15.3, 5.4, 3.5.1684, Castellazzo 9.9.1684.117. Ivi, fasc. 114, B. Molara da Milano 18..1683. Sulle azioni di Bruto nelle rappresen-

tazioni fiorentine del 1661 per il matrimonio di Cosimo iii di Toscana con Margherita Luisa d’Orléans cfr. G. A. Moniglia, Il mondo festeggiante[…], Stamp. di S. A. S., Firenze 1661, p. 6; Id., Ercole in Tebe[…], All’Insegna della Stella, Firenze 1661, pp. 131-, 145.

118. Cfr. bss, aco, Carteggio l. o. Colonna, fasc. 114, B. Molara da Milano 17..1683.119. Ivi, fasc. 36. Eppure cfr. bncf, ms. Gal. 160, c. 67v, V. Viviani a B. Molara, s. d.

[primi anni Sessanta].10. Ivi, B. Molara da Milano 15.3, 7.4, 17.5.1684, Castellazzo 9.9 e 14.10.1684.11. Per la citazione cfr. ivi, B. Molara da Milano 7 (da cui la citazione) e 5.1, 6., 1,

15 e 9.3, 1.6, 31.7.1684.1. Sul ruolo giocato da Melgar cfr. ivi, B. Molara da Milano 15.3.1684.13. Ivi, B. Molara da Novara 1.11-6.1.1684; fasc. 19, lo stesso da Novara .1-

.10.1685.14. Ivi, fasc. 36, B. Molara da Milano 5.1.1684.15. Ivi, fasc. 1, B. Molara, s. d. e da Milano 6.11.1681; fasc. 114, lo stesso da Milano

.7.168 e 17..1683; fasc. 1, lo stesso da Milano 6, 10 e 7.1, 10., 10.3 e 1.7.1683; fasc. 36, lo stesso da Castellazzo 7.10.1684.

16. Ivi, fasc. 114, B. Molara da Milano 6.9.168.17. Cfr. anche ivi, fasc. 1, B. Molara da Milano 14.10.1681; fasc. 1, lo stesso da Milano

17.6 (donde la citazione), 8.7 e 11.8.1683. Per le rivisitazioni del giudizio tradizionalmente ostile degli studi storici sulle armate spagnole, e più specificamente lombarde, nel regno di Carlo ii cfr. i lavori di Davide Maffi, Il potere delle armi. La monarchia spagnola e i suoi eserciti (1635-1700). Una rivisitazione del mito della decadenza, in “Rivista storica italiana”, 118, 006, , in partic. pp. 43-6; Id., Nobiltà e carriera delle armi nella Milano di Carlo ii

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riccardo e bruto annibaldi della molara

(1665-1700), in A. Dattero, S. Levati (a cura di), Militari in età moderna. La centralità di un tema di confine, Cisalpino, Milano 006, pp. 17-69; Id., La cittadella in armi. Esercito, società e finanza nella Lombardia di Carlo ii (1660-1700), FrancoAngeli, Milano 010.

18. L’espressione citata proviene da bss, aco, Carteggio l. o. Colonna, fasc. 36, B. Molara da Milano 7.1.1684.

19. Ivi, fasc. 19.130. Ivi, fasc. 8, Marcantonio Colonna da Milano 17.10 e 7.11.1685; Nicolai Stenonis,

cit., vol. ii, p. 831.131. Sui giochi di squadra cfr. Ago, Giochi, cit. Per le obiezioni rivolte a questo concetto

storiografico cfr. I. Fazio, D. Lombardi, Introduzione, nel volume curato dalle stesse autrici Generazioni. Legami di parentela tra passato e presente, Viella, Roma 006, in partic. pp. -3; D. Lombardi, Donne, famiglia e genere, in F. Chacón et alii (a cura di), Spagna e Italia in Età moderna. Storiografie a confronto, Viella, Roma 009, p. 75.

13. Cfr. bncf, ms. Gal. 16, c. 139v, da Piediluco 7.10.1663.133. Cfr. asfi, amp, fasc. 5544, n. 688, B. Molara a Leopoldo de’ Medici, Foligno

5.8.1670.134. Cfr. bncf, ms. Gal. 164, c. 133v, 175r, 179r, 183, B. Molara a V. Viviani, Foligno

14.9.1671, 8., 10 e 13.3.167.135. Cfr. C. Mozzarelli, Onore, utile, principe, stato, in A. Prosperi (a cura di), La Corte

e il “Cortegiano”, vol. ii, Un modello europeo, Bulzoni, Roma 1980, pp. 41-53.136. bncf, ms. Gal. 164, c. 164v-165r, B. Molara a V. Viviani, Foligno 1.1.1671.137. Per la citazione cfr. ivi, c. 148v, B. Molara a V. Viviani, Ancona 31.10.1671.138. Cfr. bncf, ms. Gal. 164, cc. 99r, 13r, 148, 160v, 187, 188r, 15, B. Molara a V. Viviani,

Foligno 6.8.1671, Ancona 4 e 31.10, 5.1.1671, e 3.4.167, Foligno 6.11.167.139. Cfr. bncf, ms. Gal. 164, c. 175r, B. Molara a V. Viviani, Foligno 8..167.140. Cfr. ivi, c. 148r, B. Molara a V. Viviani, Ancona 31.10.1671.141. bncf, ms. Gal. 165, c. 180v, B. Molara a V. Viviani, Foligno 6.8.167.14. Cfr. ivi, c. 180r.143. bncf, ms. 164, c. 167, B. Molara a V. Viviani, Foligno 3.1.167.144. bncf, ms. Gal. 164, c. 17, B. Molara a V. Viviani, Foligno 1.10.167.145. bss, aco, Carteggio l. o. Colonna, n. 40, da Veroli.146. Cfr. bncf, ms. Gal. 165, c. 180r, B. Molara a V. Viviani, Foligno 6.8.167.147. bncf, ms. Gal. 164, c. 96, B. Molara a V. Viviani, Ancona 1.1.1673.