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Riccardo BertaniStefano Dallari

Lo sciamano ci parlaUn viaggio nella dimensione spirituale

dove Tutto è Nulla

VerdechiaroEdizioni

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© Verdechiaro EdizioniVia Montecchio, 23/242031 Baiso (Reggio Emilia)

isbn 978-88-6623-075-5

Testo basato sulla versione originale di Aleksej Gregorevič Kalkin del 1979

Illustrazioni originalidi Ignat Ortonulov

Nessuna parte di questa pubblicazione, inclusa l’immagine di copertina, può essere riprodotta in alcuna formasenza l’autorizzazione scritta dell’editore,a eccezione di brevi citazioni destinate alle recensioni.

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Indice

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Ringraziamenti

lo sciamano ci parla

Parole straordinarie da un uomo straordinario

Dove il Tutto è Nulla

Il Maaday-Kara

L’alyp

maaday-kara

Canto primo

Canto secondo

Canto terzo

Canto quarto

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Ringraziamenti

Un grazie particolare alla Fondazione Manodori di Reggio Emilia, al Comune di Campegine, a Luigi Rozzi, Giovanni Cagnolati, Stefania Bertani, Patrizia Audisio, Francesco Taburri, Sonia Borghi, Ari Lusenti e Francesca Parravicini.

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lo sciamano ci parla

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Parole straordinarie da un uomo straordinario

Le parole che leggerete sono parole straordinarie perché vengono da un uomo straordinario: Riccardo Bertani, classe 1930, professio-ne contadino, nelle campagne di Caprara di Campegine, a quindici chilometri da Reggio Emilia.

Un uomo silenzioso che comprende più di cento lingue, un uomo che ha visto il mare per la prima volta a sessant’anni e sa solcare con la mente tutti gli oceani, un uomo che vaga nell’intero pianeta e non si muove mai dalla sua semplice casa di campagna con la porta sempre aperta.

Un uomo che vive solo, ma è già con tutti.Un uomo che sorride quando si parla di anima e cerca ovunque

i segni dell’unità, decifrando alfabeti lontani, a volte scolpiti nella pietra come stimmate del Creato.

Già, il Creato… quel Creato che si serve di Riccardo Bertani per un compito impossibile: dare voce a popoli dimenticati, scomparsi, perseguitati, cancellati dalla vita e dalla memoria.

Perché nessun vagito, nessun respiro, nessun canto, nessuna lacri-ma vengano dimenticati.

Riccardo Bertani sa di avere questo compito, lo sa da sempre ma non sa spiegarlo, perché non sa spiegare il colore dei suoi occhi, il muggito di una mucca, i denti del leone conficcati nel collo di una gazzella.

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Ma Riccardo lo sa e così ha smesso di stupirsi nel vedere che nes-suno, laureato o scienziato che sia, capisce i suoi pensieri.

«Non sono un fenomeno! Sono importanti le cose che dico, non io!» afferma deciso allungando un suo scritto quando gli chiedono come faccia a conoscere tante lingue.

Ha sentito l’urgenza del tempo e per quattro lunghi mesi insonni ha riempito, con foga e metodo, decine di pagine per tradurre un’o-pera epica siberiana, il Maaday-Kara, sepolta dall’indifferenza.

E così, dal suo universo, come evocati dalle brume delle leggenda, dalle steppe infinite della Siberia, dalle gelide sponde del lago Bajkal, dall’Altai, oggi Repubblica della Federazione russa, emergono gli sciamani: gli antichi sacerdoti e guaritori di quella terra.

Scendono attraverso la sua penna come la pioggia che invocavano dal cielo, e il cuore di Riccardo assume il ritmo del loro tamburo sacro: il loro urlo ispirato dalla trance è nitida voce per questo sem-plice contadino della terra reggiana che, per incomprensibile magia, parla di loro, nella loro lingua. E loro gli parlano, con voce accorata: «Riccardo, racconta la nostra storia, quella vera, prima che i mercanti del tempio svuotino la nostra memoria e impoveriscano il cuore di tutti. Dillo ai tuoi fratelli che hanno conquistato la luna, che volano più veloci di un lampo, dì loro che ogni cosa ha un’Anima. Dì loro di rispettare la natura in ogni sua forma».

Riccardo ascolta e il tamburo sacro inizia a cantare, per svegliarci dal sonno e dalla ubriacatura e subito, fedele alla promessa fatta, si preoccupa di difenderci da certi falsi sciamani di oggi, perché trop-po importante è l’essenza del vero messaggio per permettere che degeneri in mani indegne, umiliato da imbonitori senza scrupoli.

E chiede a tutti rispetto.Rispetto per ogni passo dell’uomo, per ogni zolla di terra dissoda-

ta dal sudore, per ogni goccia di rugiada invocata, per ogni illumina-zione che infuoca il cielo.

Per esseri visibili e per esseri invisibili che sussurrano alle orec-chie degli iniziati o tramano tranelli e graffiano innocenti anime

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quando, scura di collera e di invidia, la loro energia scaglia tempeste sul cammino.

Nel gioco degli opposti che alimentano la vita, lo scuro si accom-pagna al luminoso, come la notte si scioglie e rapisce il giorno, e gli sciamani conoscono l’intreccio della vita e loro, solo loro, sanno come placare la tempesta e disegnare l’arcobaleno.

Superstizioni? Credenze senza senso?Bertani lascia alla coscienza di tutti la risposta. Lui esprime il suo

pensiero e fa una scelta che diventa fede: l’Animismo.Per questo non coglierete la parola Dio nella penna di Riccardo:

perché Dio è ovunque e niente è separato da lui; nominarlo è inutile, perché è già presente in ogni sillaba e in ogni silenzio.

Lo sciamano vive attraverso le pagine di Bertani e lo si sente pian-gere mentre guarda Madre Terra ferita dai suoi figli prediletti, sempre più potenti, più sordi, più inarrestabili, alienati da un’infelicità che se-mina violenza, costruisce ospedali avveniristici, ma non guarisce mai.

«Non guarirete se non guarirete l’Anima. Unite il Cuore alla Scien-za» invocano gli antichi saggi e rinnovano, da altre dimensioni, l’antico giuramento che Riccardo sillaba parola per parola: la promessa di pro-teggere ogni essere, di accogliere con rispetto ogni idea, ogni cultura, senza dogmi, senza violenza. Di pregare e meditare per conoscere la voce dell’universo, la voce che si sparge in mille rivoli di preziosa linfa vitale che lo sciamano beve per dissetare il mondo.

«Siamo tutti fratelli» dicono i Lakota del Nord America. «Parliamo la stessa lingua» aggiunge Bertani, svelando il segreto delle sue cono-scenze…

Ogni essere vivente, dice il Buddismo, aspira alla stessa meta: evi-tare la sofferenza e raggiungere la felicità.

Allora, raccontano i saggi e gli asceti, basta conoscere se stessi e si conosce il tutto.

Infiniti rami hanno la stessa radice.Riccardo è un contadino, conosce bene le radici e sa che una ri-

gogliosa spiga nasce da un piccolo seme. Quando vede ondeggiare

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il manto del grano nel vento ringrazia la pioggia e il sole che hanno reso raccolto un frammento di vita e trasformato il sudore in pane.

E non dice, come tutti: «Ho mangiato il pane», ma prega dicendo: «Il pane si fa mangiare da me».

Come può quest’uomo non sentire il canto di centinaia di sciama-ni disperdersi ovunque?

Bertani è uno di loro, lo si sente in ogni rigo. Si è dimenticato chi è per diventare ciò che scrive.Con loro celebra la vita e ce la dona.Ma adesso tocca a noi.Gettiamo via il tempo, chiudiamo gli occhi, respiriamo il silenzio.Un battito di tamburo, lontano, scolpisce la mente, la modella, poi

aumenta di intensità, abita i pensieri e li solleva.Adesso apriamo gli occhi e leggiamo la voce di Riccardo Bertani.Lo sciamano ci parla.

Stefano Dallari

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Dove il Tutto è Nulla

Sullo Sciamanesimo in genere, l’antico credo che in passato acco-munava quasi totalmente il pensiero spirituale dei popoli autoctoni siberiani, gli storici delle religioni e gli etnologi hanno espresso di-versi pareri.

Però le loro osservazioni trattavano di questo fenomeno religioso quando lo Sciamanesimo siberiano, a causa dei numerosi avveni-menti succedutisi durante il lungo trascorrere dei secoli, era ormai all’apice del suo sviluppo e quindi intriso di elementi provenienti dalle culture dell’Asia centrale, a loro volta influenzate da impulsi religiosi di origine persiana, indiana o tibetana.

Purtroppo, poche sono invece le citazioni che riguardano la pri-maria configurazione dello Sciamanesimo siberiano, data la scarsez-za di notizie giunte fino a noi. Preziose informazioni a tal proposito, anche se saltuarie, le possiamo trovare nei Domog, quelle specie di cronistorie che i pastori, sperduti nella steppa a seguito delle loro greggi, si sono tramandati oralmente da generazione in generazio-ne, sin dai tempi remoti, ossia da quando, nel terzo secolo a.C., i Burjati si insediarono definitivamente nella zona del lago Bajkal. In-fatti da queste pur labili notizie si può intuire che l’antico credo dei Burjati era basato su una visione cosmologica universale che ben poco aveva a che spartire con l’aspetto antropomorfo e teocratico, con cui di solito viene presentato lo Sciamanesimo, dove il cosmo viene semplicemente presentato in tre piani: il piano superiore rap-

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presentato dal cielo (dove stanno gli spiriti supremi dal volere dei quali dipendono tutte le manifestazioni dell’esistenza terrestre), il piano mediano che rappresenta il mondo nel quale viviamo, e infine il piano sotterraneo, il regno delle tenebre dove andavano a finire le anime dei defunti per essere giudicate dagli spiriti maligni, a capo dei quali, secondo la credenza burjata, stava Erlig khan, un essere demo-niaco la cui figura ricorda quella terrificante di Yama presente nella mitologia lamaista. Una concezione umana che non trova alcun ri-scontro nella primaria cosmologia dell’antico sciamanesimo burjato, dove l’uomo, alla pari degli animali, piante, monti, fiumi nonché la pioggia, il vento e così via, aveva una o più anime. Tali anime veni-vano chiamate hulde o sulde; nomi questi che nell’insieme stavano a indicare l’occulta energia presente alla base dell’anima. Ed è forse dal credere nell’esistenza di questa misteriosa energia, che è nata, tra gli antichi burjati, l’idea che non esistesse la morte. Questa energia invisibile e incorporea dava il senso di una inscindibile unità, come l’impercettibile confine esistente tra la vita e la morte. Questo spiega perché gli antichi Burjati immaginssero che l’anima dei loro defunti andasse a finire nello Zulche Muren, come essi chiamavano il corso della bassa Lena, un luogo dove, per un lungo periodo dell’anno, regnava la buia notte polare, colma di brillanti stelle e con il magico bagliore dell’aurora boreale che si rifletteva sui ghiacciai perenni. Un tripudio di ombre e luci che, metaforicamente, poteva dare l’idea dell’unicità indivisibile tra la vita e la morte.

Anche nell’antico Sciamanesimo jukaghiro esisteva la vaga per-cezione che l’intero universo fosse dominato da un’ignota ener-gia cosmica che racchiudeva in un unico blocco tutti gli elementi dell’universo, cioè dove il tutto valeva quanto il niente. Ed è per tale motivo che gli antichi Jukaghiri non avevano una concezione diretta della vita e della morte. Per loro facevano ambedue parte in-divisibile di quell’immenso gruppo di energia, sconosciuto al punto che essi, non sapendo come chiamarlo, lo indicavano come «pon», termine usato per indicare qualsiasi cosa dal valore inqualificabile e

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senza una precisa e ben visibile identità. Tale visione cosmica dell’u-niverso, sino alla fine del secolo scorso, era ancora viva tra le tribù jukaghire dimoranti lungo il corso della Kolyma. Ecco infatti come, alla fine del secolo scorso, il poeta jukaghiro Uluro Ado descrive la magica apparizione in cielo dell’aurora boreale:

Su, alto nel cielo,di nuovo si spande,il fiabesco splendoredell’aurora boreale.Cosa mai racchiuderà, questo magico fuoco celeste?L’antico regno, dei remoti anni passati?O è solo lo splendore,dei tanti inverni riflessi in cielo?Sarà questo segno di buona o cattiva sorte, chissà?La sua fantastica luce par che corra verso di mema il suo messaggio, ahimè,non riesce a raggiungermi…E quando nelle profonde nottiquiete, sentivo il cuoredelle mie sonnolenti rennebattere all’unisono con il tamburello di lassù,mi pareva di udire,in quel magico momento,tutta la storia del mio popolo,sperduto nello spazio insondabiledel tempo…

A conclusione di questa mia ricerca sul primitivo Sciamanesimo si-beriano devo dire che mi sono trovato dinanzi a una indistinguibile

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dimensione cosmica dove il Tutto è Nulla, che sicuramente va ol-tre il limite estremo del mio pensiero umano, anche se ho la vaga sensazione che la concezione dello Sciamanesimo siberiano assomi-gli grossomodo all’idea dell’Immenso, cioè di quella vastità infinita dove tutto si confonde con il niente. Là, dove sotto forma indistin-guibile e irripetibile restano perenni i segni del passato, del presente e, alla pari, resteranno le ignote impronte dell’avvenire. L’infinito è quindi indeterminato e incorporeo come il pensiero, dove, pur nella sua nullità, sta il tutto, espresso nei suoi infiniti aspetti, compreso tra questi il divino.

Una palese prova di ciò la danno i malati del morbo di Alzheimer, nei quali, allo svanire del pensiero, fa seguito la perdita conoscitiva delle cose materiali e spirituali. Sotto questa visuale anche il tempo scompare, immerso nell’infinità del nulla. Dinanzi a ciò, a nulla vale la teoria della gravità espressa da Newton o la prospettiva dell’evolu-zionismo naturale provato chiaramente da Darwin e si mette anzi in discussione persino la teoria della relatività dello spazio e del tempo formulata da Einstein.

Del tempo, anche se in forma più semplice e immediata, ben ci parla il poeta burjato Bain Duganov in un suo breve aforisma:

Il tempo Cos’è che fugge più veloce?Il tempo.Cos’è che mai più ritorna? Il tempo.Cos’è che sta alla base della vita?Il tempo.Cos’è che tutto disperde?Il tempo.

Qui il tempo viene immaginato come un tutto immerso nell’infinità del nulla: una visuale, questa, che ben si discosta da quell’eternità dai confini limitati che sono soliti promulgare gli integralisti religiosi.

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Infatti, la visione antropomorfa limitata al pensiero umano serve solo per dare conforto dinanzi alla paurosa e inaccettabile presenza della morte. Forse ciò è anche dovuto al fatto che le religioni han-no profondamente bisogno di tutelare i loro dogmi continuamente minacciati dal tempo che scorre. Ma se vogliamo sondare a fondo il principio spirituale che sta alla base delle grandi religioni monoteiste odierne, troveremo, anche in questi credi religiosi, la concezione di un’immensa entità divina che supera di gran lunga la visuale logica della nostra vita terrena.

Riccardo Bertani

Caprara di Campegine12 marzo 2011

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Il Maaday-Kara

Il Maaday-Kara, un antico poema epico dell’Altai, una regione sibe-riana ai confini con la Burjatia, è l’opera che meglio trasmette, intat-ta, la primitiva concezione sciamanica dell’esistenza.

L’epopea del Maaday-Kara appartiene al secondo ciclo della poesia epica.

Mentre nel primo ciclo troviamo illustrato il periodo patriarcale e si narra di errori leggendari, di uomini sempre in lotta contro gli spiriti maligni che dominano il mondo. Nel secondo ciclo, dedicato al Maaday-Kara, si narra invece del cosiddetto periodo della “demo-crazia guerriera”, ossia il tempo che va dal iv al viii secolo d.C., quando il territorio dell’Altai cade sotto la dominazione feudale del-le varie tribù turche e di altre nazionalità, sempre in lotta fra loro per conquistare quella terra così ricca di minerali e famosa per il suo oro, che dà il nome al paese stesso. Altai significa letteralmente «la montagna dell’oro».

Perciò l’epopea del Maaday-Kara, al di là del suo valore poetico, ci rivela anche una realtà storica di cui abbiamo conferma nelle iscri-zioni runiche che le tribù prototurche hanno lasciato incise sulle rocce che costeggiano il fiume Orkhon in Mongolia.

Si narra di khan (capi guerrieri) usurpatori che, oltre a seminare distruzione e morte, catturavano intere tribù per deportarle e ridurle in schiavitù.

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Come tutti i canti della vita nell’Altai, anche quelli del Maaday-Kara venivano messi in musica dai kaici, cantastorie che, accompagnan-dosi col suono della topšur, uno strumento a corde, e aiutati dal proprio estro, raccontavano al popolo antiche e nuove vicende.

Questi cantastorie nomadi erano la memoria e la coscienza viven-te del loro popolo.

Raccontare la storia, la grandezza e la sofferenza di una comunità assolveva all’importante compito sociale di tener viva una cultura e, in periodi bui, la speranza del riscatto, la fede nel ritorno della libertà e della giustizia. Questi canti erano spesso l’unico modo per superare i duri controlli dei dominatori ed evitare terribili punizioni. Il linguaggio allegorico e mitologico usato era spesso il palpitante grido di una civiltà in lacrime e in catene.

I canti univano il popolo, lo preparavano all’azione: erano, insom-ma, un vero e proprio manifesto culturale, sociale e politico.

Naturale quindi che, prima, siano stati temuti, poi repressi e volu-tamente dimenticati dai domitatori, anche come opera letteraria, pro-prio perché mettevano in luce i soprusi subiti da una comunità, la cui storia veniva riscritta o cancellata, mai raccontata con obiettività.

In questa opera di controllo e stravolgimento del vero, i regimi totalitari sono maestri e chissà quante opere sono state distrutte as-sieme alle vite dei nemici deportati o annullati nelle carceri, nei ma-nicomi, nelle fosse comuni. Prassi, questa, che ancora oggi vige in diverse parti del nostro pianeta, rendendo l’antico canto del Maaday-Kara tristemente attuale e prezioso anche dal punto di vista sociale.

Questa opera, infatti, sopravvissuta alla distruzione, non solo ha un posto nella letteratura, ed è un trattato sullo Sciamanesimo, ma rappresenta anche, se letta con attenzione, la storia e la coscienza dell’Umanità. E ci racconta che tutti gli imperi crollano.

La storia di Maaday-Kara è quella dell’eroe ispirato, inflessibile con i nemici, ma giusto e magnanimo con il suo popolo che, sotto la sua guida, vive sicuro e sereno.

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è il capo illuminato che ogni popolo vorrebbe seguire. è l’apice di una “democrazia guerriera” che crea e distribuisce benessere, libertà e giustizia. Una società attenta e pacifica, ma sempre pronta a mobi-litare tutti per difendere i suoi ideali e le sue conquiste.

Inoltre nel poema aleggia lo stupendo paesaggio dell’Altai, un terra bellissima dove, sotto i raggi di un vivido sole, brillano alte vette coperte di neve immacolata, scendono ruscelli d’acqua tersa luccicanti come cristallo e le valli smeraldine sono tempestate di fiori di mille colori. Una terra permeata di magia, nella quale la natura trionfa con spazi illimitati fino a costituire, quindi, l’emblema stesso di Madre Terra, la divinità suprema che alimenta la vita. Un paradiso naturale, ricco di oro e metalli preziosi, preda ambita per conquista-tori avidi e senza scrupoli.

E così il Maaday-Kara, nell’incessante e spesso tragico svolgersi de-gli avvenimenti, sembra raccontare tutta la grandezza e la drammati-cità delle vicende umane su un pianeta spesso violentato dall’uomo quando sono il potere e la cupidigia a ispirare i suoi gesti.

Ma sempre, come il sole che esplode dalle nuvole, sono giustizia e felicità a illuminare il cammino di un popolo che, anche nei mo-menti più duri, mai deve perdere la sua speranza perché è davvero sconfitto non quando è incatenato ma quando perde la sua cultura e la sua identità.

Ma torniamo al Maaday-Kara, diviso in quattro canti e qui tradotto dall’edizione russa del 1979. Il poema si basa sugli scritti del poeta e cantore A. G. Kalkin, soprannonimato l’“Omero” della sua ter-ra, nato nel 1925 da una famiglia di pastori e cacciatori dell’Altai. Racconta di aver sentito cantare le vicende del Maaday-Kara la sera, accanto al falò, dalla voce del padre, durante i lunghi bivacchi, se-guendo le greggi o durante le battute di caccia.

Da sempre questi versi si sono propagati con i vaganbondaggi dei pastori, lungo le vie delle infinite transumanze a caccia di pascoli e si arricchivano di continuo con avvenimenti nuovi o con interpre-

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tazioni diverse della stessa vicenda. E ogni volta il poema si trasfor-mava in qualcosa di nuovo, anche grazie alla personalità del cantore, che modificava a suo piacimento quello che aveva ascoltato e che la memoria gli permetteva di ricordare.

La voce del cantastorie Kalkin è giunta, per insondabili vie, fino a Riccardo Bertani, diventato per noi, oggi, l’ultimo cantore del Maa-day-Kara.

Come ogni trasmissione orale, anche questo passaggio ha arric-chito e trasformato l’opera, nel rispetto assoluto del suo messaggio.

Riccardo BertaniStefano Dallari

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L’alyp

Il Maaday-Kara è un poema epico che prende il nome da un alyp (eroe mitico). Spiegare questa parola è fondamentale per comprendere il significato dell’opera, il suo messaggio, la sua portata sociale, cultu-rale, spirituale.

L’alyp, e Maaday-Kara è il nome di uno di questi, unisce alle ca-ratteristiche del khan, il condottiero coraggioso e invincibile, quelle dello sciamano, in continuo contatto con le energie superiori.

Ecco, è la spiritualità a trasformare un khan, valoroso e potente, ma sempre terreno, in un alyp, un essere eletto, guidato dal desiderio di rendere felice ogni uomo e il Creato che lo circonda.

Per questo le divinità della Terra lo proteggono e lo guidano, di-rettamente o attraverso animali come il cavallo o l’aquila, che simbo-leggiano, e trasferiscono all’uomo, le loro qualità: la forza, la velocità, il volo, diventando a loro volta figure divine e, quindi, mitologiche.

L’alyp è incorruttibile: sa, con assoluta certezza, che un comporta-mento eticamente elevato, sempre giusto verso tutti, in armonia con la natura, protegge le azioni umane in ogni avversità e vince le forze del male ovunque presenti.

è un monaco senza tonaca, senza tempio, ma sa varcare le porte di nuove dimensioni e accedere a conoscenze superiori che porterà, come un dono invocato, alla sua gente: per guarire, salvare il raccolto o il bestiame e, in casi estremi, combattere un nemico usurpatore, se ogni tentativo di dialogo dovesse fallire.

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Lo Sciamanesimo, conosciuto anche come Animismo, è il perno affascinanate del Maaday-Kara, tanto da creare un racconto sempre in bilico fra il poema epico e il viaggio estatico, ma la parola “scia-mano” nasconde anche insidie che l’opera narra con molta forza.

Come esistono infatti khan usurpatori e ingiusti, così ci sono gli sciamani “neri”, sempre in agguato, armati di grandi poteri, ma sub-doli e violenti, ispirati dal buio dell’esistenza. Si tratta di falsi maestri che conoscono il futuro, come nel caso della perfida Kara-Taadi, la sciamana nera, che incontreremo spesso nel racconto. Una figura potente, aggrovigliata nel male, incatenata al peso malefico delle sue azioni, ma anch’essa spinta a desiderare la luce. Un lucifero alla ro-vescia, che vorrebbe essere arcangelo e che ci insegna che l’anelito alla luce è insopprimibile dentro l’animo umano.

L’uomo, nonostante il suo dualismo, la sua sete inesauribile, la sua capacità atavica di colpire e di depredare, è da considerare, di base, un essere positivo, la cui aspirazione naturale è verso l’alto, per esse-re felice e condividere la raggiunta armonia.

Per questo l’alyp scende sulla Terra, ci racconta il Maaday-Kara, con la certezza che, per ognuno di noi, c’è speranza di redenzione dal male commesso.

È un immenso, difficile, inesauribile lavoro, ma è alla portata di tutti. Ognuno di noi è l’antidoto al male e alla sofferenza. Come un buon contadino nei suoi campi, il bene va innaffiato ogni giorno, mentre la pianta del male va estirpata fin dal primo germoglio.

Nulla, su questa terra, è definitivo, permanente. Né il male né il bene. Per questo la nostra attenzione deve essere continua, anche in periodi di pace e di serenità, perché il bene e l’armonia vanno custo-diti, rispettati, condivisi, protetti, sempre alimentati.

E allora, quando il popolo dell’Altai, felice e tranquillo, si dimen-tica di ringraziare il cielo per praticare un “voglio” e sconfina negli eccessi, apre la porta alla corruzione, all’ubriacatura.

Da questa crepa di energia ecco infilarsi il male, che arma un eser-cito scuro e spietato con a capo un khan che si nutre di sangue, un

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dittatore felice dell’altrui sofferenza, un Hitler con il suo seguito di sciamani demoniaci.

Un popolo libero e indifeso diventa una facile preda, e, una volta conquistato, perde la sua libertà, la sua terra, il suo futuro: viene de-portato, ridotto in catene, e solo un intervento esterno, una nuovo messia, un alyp illuminato e guerriero potrà riscattarlo e riportarlo di nuovo alla libertà, alla felicità che rende dolce ogni attimo di vita e assolata ogni zolla di terra.

Su questo, il nostro Maaday-Kara è esplicito e la sua poesia diventa profetica: la felicità dell’uomo rende felice il Creato.

Quando è amata e rispettata da chi la abita, una terra è un paradi-so dove tutto è in armonia e canta l’armonia.

Il comandamento lasciato dall’alyp al suo popolo, e per esteso a tutti noi, è altissimo, infinito: «Amate la vostra Terra come la vostra Anima».

Ma allora, ci chiediamo: il Maaday-Kara è la storia della Genesi, con la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre per colpa di un peccato seminato da un demone tentatore?

«Forse» ci risponde Bertani, allargando le braccia con un sorriso colmo di pensieri, e certo non mancano nei canti del poema epico echi di altri opere: la Divina Commedia di Dante, per esempio, con il nostro alyp impegnato in un viaggio nei mari di fuoco delle bolge infernali accompagnato dal suo saggio cavallo al posto di Beatri-ce… Altri vedranno nell’abbandono della culla dell’eroe da parte del padre la storia dei fondatori di Roma, Romolo e Remo, affidati al Tevere… qualcuno vedrà poi il volo finale dell’eroe altaico come un ritorno al Padre celeste dopo il lavoro svolto sulla Terra… o troverà nella figura dell’alyp un parallelo con quella del Dalai Lama, guida in-sieme religiosa e politica del popolo tibetano… Con tanti altri pos-sibili paralleli, sorge spontanea una domanda: «Ma il Maaday-Kara è la sorgente primitiva di tutto o è la somma di esperienze, di miti, di religioni diverse?»

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«Impossibile dirlo» commenta Bertani, che insiste sempre nel cer-care ciò che unisce e che alla fine ci trasforma.

«Dopo l’incontro con il Maaday-Kara» spiega con convinzione, «io non sono più lo stesso di prima, vedo la vita con altri occhi. Ho letto e tradotto altri poemi epici, mongoli, siberiani, ma il Maaday-Kara è unico, permeato da un’ispirazione spirituale che supera ogni confi-ne, umano e divino. Trascende la paura della morte e si muove in una dimensione inesprimibile, se raccontata con l’alfabeto limitato del pensiero umano, ma accessibile all’artista, al poeta, al pittore. Con i versi, i pennelli, le note, sono capaci di dare voce e colore a questo infinito».

Il Maaday-Kara è in fondo il canto dell’umanità, non più divisa, non ingabbiata da invalicabili fiumi o montagne, un’umanità non identificabile con un gruppo etnico, una nazione, una storia, una cultura o una religione. Un’umanità unita da una visione comune, da un linguaggio interiore capace di interpretare le vicende terrene come il riflesso vero e palpitante, ma pur sempre limitato, di una cosmologia infinita, senza spazio e tempo. Dove il tutto è nulla.

Quanto di più moderno e quantistico si possa immaginare.

Stefano Dallari

Se non diversamente indicato, le note al testo sono di Stefano Dallari.

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maaday-kara

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Per gustare e capire meglio i versi epici del Maaday-Kara, con uno sforzo d’immaginazione, arriviamo in un accampamento di tende nell’Altai.

Nell’immenso silenzio crepita un fuoco, acceso per vincere il gelo della notte. La fiamma illumina volti di pastori attenti intorno a un cantore. Ascoltano un canto lungo, in rima, accompagnato dal pizzico di uno strumento a corde.

La valle si riempie di magia.

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Canto primo

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Lo sciamano, di Alfonso Borghi.

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L’alyp splende come fiamma,ravvivando la felicità del suo popoloche vive in pace e prosperità nell’assolata e tranquillaregione dell’Altai.I cavalli corrono lievi come bianca nebbia mattutina,e nelle radiose valli d’erba,baciate dall’ardente sole, correndo giulivi, pascolano gli armenti e le greggi,folti come le foglie sugli alberi nella calda estate.

Sono settant’anni che l’alyp Maaday-Kara difende, saldo come una roccia, la pacifica e felice terra dell’Altai.Il suo benefico ed equo regno si stende dalle vette del Lert-Lemetsino ai declivi del Lemeten-Tudove mai diluvia, né s’oscura la neve invecchiando,

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ma, viceversa, sbocciano fiori tutto l’anno.Qui, al confluire di azzurri fiumi,s’erge la grande casadi colui che regge il destino di questo popolo, padrone di sterminate mandrie.

Nella più bella delle vallidove convergono settantaturbinosi fiumicresce il Baj Terek, il grande pioppo1

dal tronco immenso,

1 L’albero è il simbolo della vita: le sue radici si intrecciano nella terra e i rami si innalzano al cielo. L’albero quindi simboleggia la stabilità e il volo, rappresenta Madre Terra che lo nutre e il cielo che lo accoglie. è la vita di tanti esseri che ruotano intorno a lui. Nel Maaday-Kara è il simbolo del popolo dell’Altai. Descritto anche nel recente film Avatar, la distruzione dell’albero sacro di un popolo è la fine del popolo stesso.

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e, appena spunta la luna,le sue foglie s’accendonocome fossero d’argento. I suoi sette grossi ramisono pieni di foglie, come i giorni del tempo che scorre,mentre sotto la sua grande chioma può pascolare un’intera mandria.

Tra le fitte foglie vivono due cuculiche sanno predire il futuroannunciando con la loro acuta vocesia la fortuna che la malasorte.2A metà del tronco, su due rami di bronzo, due nere aquile scrutano,con i loro occhi acuti,ciò che succede nell’azzurro del cielo e quel che accade sui sentieri serpeggianti della terra. Vedono dall’alto se qualcuno viene a turbare la quiete del paese e la serenità della gente.Ai piedi dell’immenso pioppo ci sono, di guardia, due neri cani, per fermare sul sentiero qualche spirito maligno, dalle sembianze umane, uscito dal buio regno di Erlik-bij.I due cani da guardiasono i fidi Azar e Kazar,

2 Gli animali condividono con l’uomo l’esistenza sulla terra, mettono a disposizione le loro qualità. Il loro compito, aiutare e vegliare sull’uomo, è talmente importante da essere considerati vere e proprie divinità.

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con occhi feroci, pronti a digrignare i dentiper bloccare chiunque voglia avvicinarsi.Sotto la fresca ombra pascola l’argamak Karys-Kulak,il possente cavallo cresciuto brucando l’erba smeraldina delle vallie bevendo la limpida acqua dei fiumi montani. La sua fluente criniera scintilla come l’acqua delle cascate.Nella sua focosa corsa i suoi zoccoli strepitano come tuono, piegando gli arbusti come il vento.Al suo passaggio si accendonodue scintillanti scie di fuoco, cancellate poi dalla sua fluente coda.I suoi begli occhi, neri come eclissi di luna, scrutano attenti tutti i sentieri. Nessun alto destriero può competere per forza e irruenza con questo splendido cavallo.

Cinta da nove granitiche rocce, sulla riva del fiume, splendente come l’oro,

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si erge la grande tenda, casa dell’alyp.Nei pressi dell’entrata c’è un palo d’argento3

per attaccarvi i cavalli. Il palo è piantato così profondamente da giungere sino al mondo sotterraneo, mentre la sua cima si innalza sino al cielo.A questo palo legano il loro cavalli fatati anche i più potenti padroni del mondo, sia il malefico Ajbystan, che il celeste Ul’ghen.

Dentro la casa, tra arazzi ricamati e luci soffuse,abita l’alyp Maaday-Kara.Ora dorme un sonno profondo, sereno, steso fra calde pelli di pecora candide come i chiari di luna.Settanta giorni di sonno hanno fatto incanutire le sue tempie, mentre la sua mente ormai sfuma nella nebbia.

Altyn-Targa, la moglie, sta seduta accanto al focolare

3 Questo palo rappresenta il bastone sciamanico: significa stabilità, potere, collegamento, dominio delle forze terrestri e celesti. è anche la colonna vertebrale eretta, simbolo dell’uomo e del suo cammino. è il bastone che aiuta il viandante o la verga di legno che colpisce: è la motivazione dell’uomo che lo impugna a renderlo utile o dannoso, positivo o negativo, bacchetta magica o arma.

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e il suo splendido viso è luminoso come il sole.Le sue gote sono rosa come l’alba, la sua fronte è alta, candida come la neve verginale delle vette.La sua veste brillatutta tempestata di diamanti. Ma quando appare in cielo la stella del mattinoAltyn-Targa è invasa da una profonda angoscia.4

Esce per vedere ciò che succede.Tutto sembra tranquillo, le mandrie ben pasciute continuano a pascolare nelle valli e la gente, come al solito, è felice e serena.Ma, scrutando il lontano orizzonte, Altyn-Targa si accorgeche, lontano, tutto sta andando in rovina:le mandrie vagano sbandate piluccando la misera erba, mentre le magre greggi si trascinano a stento sui pascoli aridi e pietrosi. Ovunque regnano l’incuria e la decadenza, mentre le personesi scannano l’un l’altra. Gli umili e onesti sono costretti a vivere

4 Il messaggio premonitore arriva dal cielo ed è una donna a riceverlo e a capirne il significato.

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in miseria e nell’oblio. Gli splendenti Altai di un tempo ora sono immersiin una densa caligine.

Allora Altyn-Targa,con un lungo ago, punge il marito gridando: «Dai svegliati! Su alzati! Non senti i laceranti gemiti e le disperate urla che si levano ovunque?Il popolo rimasto senza guida vaneggia e impazzisce, come quando in una famiglia viene a mancare l’autorità paterna o come un gregge quando rimane senza pastore».

Appena l’alyp si sveglia, ancora insonnolito dice: «Proprio non so spiegarmi la ragione di questo mio lungo sonno, tanto da rendermi in settanta notti e ottanta giorni così vecchio. Cosa sarà mai successo?»

Aiutato da Altyn-Targa,si alza e incomincia a vestirsi: mette gli stivali con suole di ferro,indossa la pelliccia di ermellino, candida e lucente come la neve al sole, poi indossa il pesante elmo di bronzo con una lucente stella d’oro,

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come d’oro è la fibbia della sua larga cintura di cuoio, e, indossata la corazza,si rivolge alla moglie: «è tempo che agisca e vada per gli Altai a fermare questa terribile siccità, che priva mandrie e greggi di erba da brucare».

Allora il vecchio alyp chiamò il suo amato cavallo e Karis-Kulak, come d’incanto, si presentò. Maaday-Kara gli mise i finimenti bellissimi e prese le sue armi:una lancia brunita come una notte senza luna, una spada acuminata con una lama dai riflessi verdastri, e, per ultimo, prese l’arco mettendo nella faretra, tanto larga da poter ospitare il nido di cento corvi, centoquaranta frecce alate.

Brillava la lama della spada, scintillava la punta della lancia,ma quando Maaday-Kara si pose in sella al suo fido destriero, divenne improvvisamente triste e si disse: «Il mio cavallo è ormai vecchio e serve solo da macello, e guarda i miei due cani:

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Azar è diventato cieco, mentre Kazar ha perso i denti. Io stesso sono invecchiato e non ho avuto figli.La mia testa, un tempo nera come ali di corvo, ora è bianca come il latte. La voce trema e sussulta come fronda lambita dal vento mentre la mente, un tempo limpida come la rugiada del mattino, ora è offuscata da brumosa nebbia. Mi sento debole come l’ombra che m’insegue e le uniche cose che sorgono dalla mia testa sono le orecchie sporgenti».

Ciò malgrado, il vecchio alyp, sulla sella, era saldo come una roccia. La testa ritta come una rupe, gli occhi azzurri, brillanti come le stelle del mattino, la barba rigogliosa come gli arbusti della steppa,i denti taglienti come spadee le sopracciglia nere morbide come il velluto. Sulle sue possenti reni potevano pascolare due greggi di pecore, e sulla sua larga schiena intere mandrie di cavalli.5

5 L’alyp è il saggio, il maestro spirituale, ma anche il guerriero coraggioso che protegge il suo popolo a costo della sua vita. Per questo Madre Terra lo aiuta, gli dà conforto e protezione con l’energia delle sue creature, i nemici lo temono e lo pensano invincibile.

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Il vecchio alyp mai ha esitatoa versare il suo ardente sangue per difendere la giusta causa del suo popolo e mai la sua anima ha ceduto dinanzi alle difficoltà. I nemici, anche i più potenti e terribili, mai nulla hanno potuto fare contro l’invincibile alyp.Maaday-Kara, con l’aiuto del suo destriero Karis-Kulak,con l’aiuto degli spiriti protettori dei monti e delle acque, sempre ha vigilato perché la gente del natio Altai vivesse felice e serena.

Con voce possente gridò: «Ora basta! Voglio che il mio popolo torni a vivere concorde e felice, che la caccia sia fruttuosa, e le greggi tornino a essere ben pasciute come prima!»Sprona il suo destriero6

che, come una freccia, lasciandosi dietro l’accampamento, galoppa dove sta declinando il sole, e in un attimo arriva a sfiorare le bianche nubi che veleggiavano in cielo.

Ormai il Baj Terek e la casa erano scomparsi in lontananza, quando l’irruento destriero

6 Il viaggio dell’alyp è fisico e spirituale insieme.

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si fermò in cima alla più alta vetta. Qui l’alyp, dopo aver dato un rapido sguardo al paesaggio che si stendeva sotto di lui, si tramutò in aquila e con un possente volo planòverso le valli del suo paese natale.

«Le mie settanta tribù» disse, «si stanno dando alla pazza gioia.7Ovunque si organizzano feste con canti e danze e giochi a non finire. Le gambe delle graziose fanciulle ballano in sfrenate danze mentre i giovani non pensano che a divertirsi e giocare».Passavano i giorni, ma nel bel paese dell’alyple feste non accennavano a diminuire.Si consumavano montagne di grasso e di carne e scorrevano torrenti di araka, la bevanda ricca di alcool.Ormai l’opulento banchetto durava da ottanta giorni, e, mentre i cani ingrassavano, le pecore diventavano sempre più magre. Passavano novanta giorni e ancora si gozzovigliava, e mentre i servi la facevano da padroni il bestiame vagava allo sbaraglio.

7 Il piacere e la decadenza hanno degenerato e indebolito il popolo dell’alyp. Il paradiso terrestre, la terra bellissima e felice dell’Altai sta diventando un inferno. La decadenza porterà alla schiavitù. è la legge di causa-effetto.

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Alla vista di tale dissoluzione l’alyp esclamò sconsolato:«Ormai il mio amato paese non è che un’enorme baldoria dove si spreca e si consuma ogni cosa.Ma perché il mio popolo, un tempo così solerte e onesto, si è dato a questa vita oziosa e dissennata?Non si accorgono, quegli stolti, che quando si è ubriachi la mente perde ogni volontà e si piega al volere degli altri?»

Allora sfogliò il libro del destino, ma su quel libro lunareniente stava scritto e, non trovando alcuna soluzione, Maaday-Kara si mise a pensare:«Conosco tutte le tribù dell’Altai e quelle che stanno ai suoi confini, come pure conosco i loro khan; io sono il più anziano e autorevole di loro, ma qui mi torna alla mente che nella mia lontana giovinezza litigai con uno di questi khan. Si trattava del gigante Kara-Kula, dai cattivi occhi sprizzanti sangue. Aveva un veloce destriero dal mantello grigio. Ma perché ora, che io son vecchio e stanco, egli cerca di vendicarsi per quella lontana lite?

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Perche viene a scorrazzare per l’Altai per corrompere il mio popolo?»

Così si chiedeva tristemente Maaday-Kara,guardando sconsolato i miseri armenti.E là, dove s’alzava una densa nebbia mortale, s’udivano laceranti grida e strazianti lamenti ed era strano che i khan di cento tribùnon s’accorgessero della sanguinaria invasione di Kara-Kula.

Il gigante Kara-Kula8 proveniva dal profondo della terra, dove aveva preso in moglie una sciamana nera come la notte,la figlia di Erlik, il re delle tenebre. Ormai erano sette anni ch’egli viveva laggiù, assieme alla figlia di Erlik.E un giorno al malvagio khan venne in mente di mandare pestifere nebbie nella terra di Maaday-Kara,per distruggere le mandrie e le greggi dei pastori bivaccanti negli accampamenti.

Erano ormai sei giorni che l’orda di Kara-Kula

8 Il ritratto di Kara-Kula è l’opposto di Maaday-Kara perché opposta è la sua motivazione nell’agire. Questo predone malefico vuole il potere ed è privo di ogni scrupolo; per questo si allea con le forze del male, sempre in agguato, per far degenerare l’essere umano e conquistarlo facilmente, con la violenza.

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seminava devastazioni e morte nel ridente paese dell’Altai. Il sangue scorreva a fiotti imporporando l’acqua dei ruscelli e la neve immacolata delle vette, mentre il fetido respiro dei cavalli appestava tutta l’aria intorno.

A tale orrenda vista, il viso del vecchio Maaday-Karas’oscurò come il cielo nel preludio della tempesta.Gettando lo sguardo agli amati monti che svettavano al sole, il vecchio alyp con gli occhi colmi di lacrime disse al suo baio:9«Cavallo mio, sei ormai vecchio quanto me, sai tu dirmi chi potrà mai fermare questa valanga distruttiva che reca immenso sterminio e che si è abbattuta sul mio paese e la mia gente e presto travolgerà anche me?»

Le ardenti lacrime del vecchio alyp penetrarono per trenta strati nella roccia, fino a formare, nella macchia

9 Il dialogo diretto dell’alyp con il suo cavallo è una costante, splendida, dello opera. è in fondo il rapporto con la saggezza, la dedizione e l’amore di Madre Terra.

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di un boschetto di ginepri, una limpida sorgente.

Maaday-Kara, volgendo i tristi occhi verso le granitiche rupi, disse: «Miei cari bruni monti, mai vi abbandonerò. Resterò qui sino al mio ultimo respiro, qui dove persino i pali per legare i cavalli sono d’argento e ai piedi del grande albero Baj Terek, scorrono innumerevoli torrenti azzurri.Qui, dove accanto al focolare, sta la moglie mia, Altyn-Targa.Qui dove nasce il sole, irradiando, con il suo calore, la tajga immensa. Qui abita anche l’anima mia e non permetterò ad alcuno di venire a profanare il mio Altai, e voglio che esso torni a essere felice e fiorente come prima».

Maaday-Kara spronò il suo destriero verso l’oceano ramato e, dopo aver cavalcato per tre giorni, triste e stanco, tornò finalmente ai suoi adorati monti natali.

Tutto lì era ancora tranquillo: l’acqua gorgogliava gioiosa, le fluenti foreste stormivano ridenti,

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echeggianti delle voci d’oro dei cuculi.Nell’aureo, pietroso Altai, i giorni si susseguivano splendenti come sempre e, come nei bei tempi antichi, il popolo solerte e felice continuava ad accudire le sue feconde mandrie e greggi.

Il viso dell’alyp allora s’accese come l’aurora. Stava ancora ritto in sella quando vede avvicinarsi al gran galoppo cinquanta cavalieri. Appena giunti, il loro capo, con un respiro affannoso, gli disse:«Vengo ad annunciarti, o nostro grande khan, che la tua saggia e potente stirpe ha un nuovo erede!10 Nell’arabescata culla d’oro, c’è un bambino, candido come la neve dei tuoi capelli.Altyn-Targa, tua moglie, ti sta aspettando per dare il nome al piccolo!»

L’alyp nel congedare i cavalieri chiese loro: «So che voi siete molto abili quindi nessuno meglio di voi

10 La nascita dell’erede è un evento del tutto inaspettato, vista l’età della madre, e indica quindi l’arrivo miracoloso di un nuovo alyp, un messia-guerriero capace di riportare la pace e la giustizia sulla terra violentata.

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potrà fornirmi dei flessibili giunchi e del muschio caldo come una pelliccia e morbido come le tenui nubi estive».Mentre i cavalieri galoppavano veloci in cerca di un bosco ricco di muschio e di salici, l’alyp a sua volta prese la via del ritorno a casa.

Quando Maaday-Karascorse la sua casa, fu preso da una profonda tristezza, tanto che nel varcare la soglia dovette appoggiarsi all’elsa della sua tagliente spada e lasciò cadere pesantemente l’armatura che cadde a terra con rimbombo di tuono.Lasciò pure cadere la gualdrappa larga quanto un prato mentre la sferza si piegava inerte, contorcendosi come i ruscelli scendendo a valle.

Quando Altyn-Targa si trovò dinanzi al marito, stentò a riconoscerlo: il viso di Maaday-Kara, un tempo splendente come il sole, ora appariva intristito dai profondi pensieri, e la sua fronte luminosa come una notte di luna

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ora appariva oscurata da una totale eclisse, mentre le sue belle ciglia apparivano confuse come cupe nubi di tempesta.Una fosca nebbia sanguigna veleggiava sulle sue limpide pupille mentre i suoi forti e candidi dentischizzavano vivide scintille, qual fossero tizzoni ardenti. Ma ora il suo viso un tempo radioso e rosato come l’alba aveva un sinistro bagliore come di una foresta in fiamme.

Qui Altyn-Targa, fortemente impressionata dall’aspetto del marito, si avvicinò a luie gli disse dolcemente: «Mio caro Maaday-Kara, speravo tanto di vederti tornare fiducioso e sereno, come eri solito fare al ritorno dei tuoi successi in battaglia e di caccia; mentre adesso che ti ho donato il figlio che tanto abbiamo atteso, torni triste e corrucciato. Ma cos’è, mio grande alyp, quest’angoscia profonda che t’incupisce gli occhi quanto una notte oscura?»

Maaday-Kara andò ad accovacciarsi sulla pelle di montone stesa vicino al fuoco, e chiese cupo:

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«Il piccolo non ha alcun segno sul corpo?»11

Qui la moglie rispose:«Di segni ne ha più d’uno: ha una macchia nera tra le scapole, grande come l’occhio di una pecora. Inoltre ha il petto d’argento, non d’oro come il tuo». «Una macchia scura fra le scapole, e ciò ti sembra cosa da poco?» disse l’alyp preoccupato. «V’è di più»,continuò a dire Altyn-Targa, «Il piccolo quando è nato era senza l’ombelicoe stringeva in pugno una nera pietracon nove sfaccettature12

e dopo due giorni chiamava già “mamma”, e a sette giorni era capace di chiamare “papà”. Il bambino ha già rotto a calci la culla, e per saziarlo ci vogliono cento secchi di latte. Ora sta dormendo su una pelliccia di orso e come coperta ha una ruvida pelle di toro.Solo che il piccolo

11 I segni sul corpo non sono solo caratteristiche genetiche o familiari, ma impronte uniche che indicano esseri speciali, attesi dalla comunità, con una missione da svolgere sulla Terra. Qui non è estraneo il concetto di reincarnazione che, vita dopo vita, vede i Maestri riconoscibili fin dalla nascita per dei tratti somatici particolari. Inoltre, nel nostro caso, il neonato alyp dimostra subito un carattere speciale per dare la certezza delle sue qualità, fin dalla nascita.

12 Pietra dai grandi poteri ritenuta sacra dagli sciamani.

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non ha ancora nome perché aspettavo te per darglielo».

Ma tali parole non scossero il vecchio alyp, che continuava a restare muto e cupo, come se una brumosa foschia fosse venuta a oscurare il suo pensiero.“Cos’è mai ciò che intristisce così tanto mio marito?” pensava frattanto sbigottita la moglie. Ma da lì a poco arrivarono i cavalieri portando i flessibili giunchi e il soffice muschio che il vecchio alyp aveva chiesto.

Maaday-Kara si mise a intrecciare con i flessibili vimini una culla che foderò col muschio, soffice come cirri estivi, quindi mise nella culla il figlioletto, fasciandolo con sette pelli di bue.Per rendere il giaciglio ancora più soffice mise sul fondo della culla morbide e scure pelli di zibellino, mentre per guanciali vi pose candide pellicce di pantera delle nevi.

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Dopo avere steso il figlio nella culla grande e calda come una valle estiva, Maaday-Kara prese un grosso budello di puledro e lo riempì del dolce latte di Altyn-Targa, quindi prese la culla con dentro il figlio, s’avviò verso la cima di una grande montagna, la cui ombra oscurava la chiara luce del giorno. Vedendo ciò, gli occhi neri di Altyn-Targa si riempirono di lacrime inondandole le gote come i fiumi a valle in primavera, mentre il latte le si raggelava nelle mammelle come i laghi al gelido lambire dell’inverno.

Intanto Maaday-Kara,13

giunto in un boschetto di stormenti betulle, legò a queste la culla e quindi appese sulla testa del figlio il grosso budello colmo di latte, perché, gocciolando, andasse ad alimentare l’avida bocca del bambino. Infine con il coltello

13 Il piccolo è affidato a Madre Terra e la sua sopravvivenza sarà un’altra prova della sua “divinità”.

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incise il tronco della betulla perché la linfa dell’albero finisse nell’insaziabile bocca del piccolo.

Il vecchio alyp sentenziò: «Se morirai, figlio mio, così avrà voluto il destino, ma se avrai la fortuna di salvarti per poi vivere saggiamente, dispenserai giustizia e libertàal tuo popolo,che mai ti dimenticherà.La montagna ti proteggerà, e la betulla madre ti nutrirà. Ricorda che è meglio viverein onorata povertà, che in dorata schiavitù!»14

Ciò detto, il vecchio alyp si asciugò le lacrime e prese triste la via del ritorno, abbandonando il figlio lassù, sull’alta vetta, dove veleggiavano liberamente le nubi.

Quando tornò, nel vedere la moglie piangente e desolata, Maaday-Kara, con un nodo alla gola, le disse:«Fatti animo, vecchia mia, non piangere! Il destino di nostro figlio è legato saldamente alla sorte del nostro popolo. Dai, su, fatti animo,

14 La libertà è la condizione per una vita vera.

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accendi il fuoco e porta vino. Perché nostro figlio ora è felice e sereno lassù, vicino alle nuvole, allevato dalla nostra benevola madre betulla, sotto lo sguardo del nostro possente padre-monte. E vedrai che quando il piccolo sarà cresciuto forte e saggio, la prima cosa che farà sarà quella di tornare qui da noi. Ora ben più gravi disgrazie s’abbattono sull’Altai.Proprio nel momento in cui la vecchiaia sta spegnendo i miei antichi vigori, sta avanzando verso di noil’inesorabile orda devastatrice di Kara-Kula, il khandi stirpe nera e maligna, dagli occhi iniettati di sangue».

Quelle ardenti parole scossero Altyn-Targa dal suo profondo dolore e, come risvegliandosi da un pauroso sogno, si mise ad accendere il fuoco per far bollire in un paiolo la carne di cento tori e di cento cammelli. Poi mise sulla tavola un enorme tegame,

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così colmo di carne d’agnello da toccare le nubi in cielo.

Allora Maaday-Kara invitò al grande banchetto i suoi amati sudditi accompagnati dalle loro belle e giovani mogli. Per sette interi giorni durò la festa,si beveva araka e si cantavano allegre canzoni, ma quando scoccò il nono giorno, allora l’alyp disse ai commensali: «Ecco, bevendo quest’ultima coppa di araka termina il nostro periodo felice, perché d’ora innanzi ci aspettano terribili giorni. Come vedete, io sono ormai vecchio e sento le forze sfuggirmi ogni giorno di più. Di ciò si è accorto il malefico Kara-Kula, il sanguinario gigante, che ora sta venendo per rapire i nostri armenti, e piegare il popolo alla più vile schiavitù e dominare il paese che spetta di diritto al mio unico figlio: ma egli ora sta crescendo forte e saggio,

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e vedrete che un giorno ritornerà, per riportare nel nostro amato Altai felicità e giustizia!»15

Sotto l’immensa cupola celeste tutto proseguiva tranquillo, ma ecco, un giorno, levarsi selvagge urla e grida. Anche il bestiame impaurito si mise a muggire e belare, fuggendo all’impazzata. Nel frattempo cominciò a spirare un forte vento che, sradicando cedri e betulle, le faceva volare come fuscelli, mentre le vette del Lemeten-Tufurono sommerse da una densa nebbia sanguigna.Arrivò una forte grandinata, si congelarono i raggi del sole, rendendo l’acqua dei fiumi dura come pietra. Pure la granitica vetta del Lert-Lemet si sgretolò in polvere, sotto la ferrea morsa del gelo.

Allora tra le fronde del sacro pioppo ammutolirono le voci dorate dei cuculi, si levarono alte

15 È incrollabile la fiducia nel futuro di chi crede nella giustizia e nell’aiuto degli dei.

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le stridenti grida acute delle due nere aquile e per tutto l’Altai si sentìil ringhioso abbaiare dei due neri cani. Il viso di Kara-Kula era torvo, come nera nube di tempesta, e il respiro del suo destriero s’era fatto ancor più fetido. Continuava ad avanzare la nera orda, turbinando come il mare in tempesta, mentre intere mandrie e greggi finivano nella bocca bavosa del terribile khan, grande e oscura come un antro, per essere stritolate sotto i suoi terribili denti felini.Così il malefico Kara-Kula continuava ad avanzare, conquistando l’uno dopo l’altro interi villaggi; ormai le settanta tribù dell’Altai, disperate e insanguinate, stavano per cadere ai piedi del terribile usurpatore. La furia devastatrice di Kara-Kula pareva non avere mai fine. Era talmente grande

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la potenza del suo braccio che poteva gettare in alto la lanciatanto da perforare le nubi,mentre la sua spada affilata mandava vivi riflessi, come fanno le vette innevate.Gli occhi sanguigni di Kara-Kula sembravano due laghi lambiti dal sole ramato del tramonto, mentre la sua nera orda, scura ed enorme come una gigantesca montagna, continuava a seminare distruzione e morte.Ovunque passava, era come se fosse arrivato un infuocato vento infernale.

E intanto, in mezzo a quella bolgia, Kara-Kula gridava:16 «Vecchio Maaday-Kara, cancellerò le orme dei tuoi accampamenti e cancellerò anche te, pastore delle mandrie e delle greggiche ora sono miee tu mi servirai come schiavo.Ormai il tuo ricco paeseè nelle mani della mia inarrestabile orda.

16 L’accanimento e la violenza dell’usurpatore vanno, soprattutto, verso chi si oppone alla sua logica malvagia e rappresenta il bene e la coscienza libera del suo popolo.

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Ehi vecchio, perché non mi rispondi? Non hai più fiato o è la paura a paralizzarti la lingua?»

Quelle sferzanti parole fecero sussultare l’Altai, tremò il cielo, si spezzò il ghiaccio nei fiumi, muggirono le mandrie terrorizzate.Il vecchio Maaday-Kara, guardando fuori dalla sua tenda, si accorse che là sul pioppo argentato le aquile gridavano cupe come gufi, e ai piedi del pioppo i due grandi cani, pur mostrando i denti gialli, non ringhiavano più, ma guaivano come cuccioli.

Allora l’orgoglioso alyp rispose al borioso Kara-Kula:«Anche se tu ora invadi il mio fecondo paese, distruggendo le mandrie e le bianche greggi, presto verrà il giornoche sarai tu a subire la sorte che hai destinato a me: un giovane alyp verrà a invertire le parti».

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Intanto l’orda del perfido Kara-Kula avanzava spietata, depredando come neri corvi tutto ciò che incontrava al suo passaggio e riempiva di una fosca tenebra le radiose verdi valli.

Infuriava da sei giorni la carneficina nell’Altai e al settimo giorno le rocciose montagne grondavano tutte di sangue.Le piante venivano divelte sino alle radici, mentre la canapa veniva maciullata, sotto gli zoccoli dei cavalli del malefico Kara-Kula.Là, dove un tempo pascolavano feconde mandrie e greggi, tutto era ridotto in polvere.

Sempre più inebriato dalla folle sete di conquista Kara-Kula pensò perfino di deviare il corso del fiume sacro,17 ma malgrado tutti i suoi sforzi il fiume non si discostò dal suo corso naturale.Il malefico khan cercò anche di incendiare la tajga, ma questa si difese facendo affondare i cavalli

17 L’usurpatore vuole profanare anche la natura, ribellandosi a Madre Terra, che però si dimostra molto più forte di lui.

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nella neve, dove sprofondarono sino alla pancia. Per vendicarsi allora uccise i due cuculi che stavano nel grande pioppo perché si erano rifiutati di dargli il loro responso.In preda all’ira, Kara-Kula pensò di abbattere il grande pioppo sacro che si ergeva alla confluenza degli azzurri fiumi, ma, malgrado tutto, le radici dell’albero rimasero tenacemente abbarbicate alla terra.18

Tentò anche di svellere l’alto palo che serviva per attaccarvi i cavalli, ma il palo non si mosse.19 Allora Kara-Kula pensò di profanare la sacra montagna azzurra ma, man mano che saliva, la vetta diventava sempre più alta, tanto che dovette desistere. E alla fine, convincendosi che era inutile volere cose impossibili, il malefico khan decise di seguire la via più facile: inseguire la gente e il bestiame

18 L’albero sacro resiste a ogni attacco, l’integrità di un popolo è preservata.19 Il vero potere sciamanico-spirituale non è conquistabile con la violenza e con il potere.

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di Maaday-Kara in fuga verso le alte montagne.

Così il vecchio alyp, per sfuggire al nemico fu costretto a spingere a suon di frusta, la nuvola di mandrie e greggi verso una terra forestiera.Ma nell’andarsene Maaday-Kara disse all’odiato nemico: «Anche se riuscirai a distruggere il mio pietroso amato Altai, riducendo me a un semplice pastore, credi forse di essere invincibile? Vedrai che presto verrà mio figlio, un giovane coraggioso e forte, e allora sarai tu a sbalzare da cavallo, canaglia!»

Così gridò il vecchio alyp e, stando malfermo in sella al suo vecchio baio, continuò a spingere addolorato la sua gente e le mandrie verso lo sconosciuto paese straniero.

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Kara-Kula, per festeggiare la conquista del paese di Maaday-Kara, preparò un grande banchetto dove si beveva sangue umano e sangue raffreddato di cavallo.

Dinanzi al malefico khan passavano secchi di carne di giumenta e montagne di carne di montone castrato. Tutto ciò era stato depredato nell’Altai.Nella bocca di Kara-Kula, nera come una profonda voragine, erano ormai finite metà delle mandrie e greggi rubate a Maaday-Kara ed era finito metà del sangue del suo popolo.Stando nell’ozio più completo e mangiando a dismisura, il maligno khan era talmente ingrassato che i suoi occhi appena si scorgevano sotto gli zigomi, e così era successo al suo destriero che era ingrossato dieci volte.

Ormai tutto il popolo dell’Altai20

con il suo bianco bestiame

20 Il triste destino di un popolo conquistato è la perdita della sua terra, la deportazione, le torture, la schivitù: oggi parleremmo della perdita dei diritti umani…

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dipendeva dai voleri di Kara-Kula.Nelle sue ferree prigioni giacevano sessanta tribù, mentre gli altri stavano imploranti ai suoi piedi.Lo stesso Maaday-Kara, ormai stanco e vecchio, veniva trattato come schiavo.

Solo una vecchia donna e una mucca si erano salvate dalla distruzione.La donna, accarezzando l’animale, disse tra le lacrime: «Di tutto il numeroso bestiame che un tempo pascolava in queste fertili valli, ora sei rimasta solo tu…»21 Ogni giorno la vecchia mungeva la mucca,e nel suo cuore regnava una profonda tristezza.

Ma ecco che un forte strillo le trapassò le orecchie: «Cosa succede?»,si chiese la donna,«vado a vedere cos’è successo!»Per sette giorni la vecchia andò cercando per i monti,

21 Il mito indiano di Krishna, la venerazione verso la mucca considerata sacra, viene dalla considerazione che una mucca macellata sfama un popolo per un giorno, mentre il suo latte, alimento completo, per giorni e mesi.

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ed ecco che alfine trovò una betulla con appesa una culla, e dentro un bambino che piangeva disperato.22 Il piccolo veniva nutrito mediante un canna di bambù, che gli faceva gocciolare in bocca la linfa che colava dalla betulla.Un grosso budello gli pendeva sulla testae il piccolo tentava di succhiare il latte da una dura tettarella di pietra.Alla vista della vecchia donna, il bambino rimase otto giorni senza mangiare né pronunciare parola, ma alla fine si mise a piangere e gridare che voleva mangiare e bere e la vecchia, tutta felice, sbottò: «Oh, luce dei miei occhi, luce della mia vecchia anima, tesoro mio, finalmente ti ho trovato!Era tempo che tu conoscessi tua madre e tuo padre: Maaday-Kara, che tanto ti hanno desiderato».Detto ciò, la vecchia prese il piccolo tenendolo con il braccio destro, badando di tenere alto con il braccio sinistro il budello pieno di latte,

22 Ogni donna, anche se vecchia e sola, è sempre madre e il suo istinto non sbaglia.

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perché lo nutrisse mentre discendeva dalla vetta. Ma proprio in quell’istante s’alzò una fitta nebbia, seguita da una dirotta pioggia e da un violento vento che ululava furioso tra i monti. Sotto la sferza di quel vento malignonon resse la debole donna, che, cadendo sul pietroso sentiero, perse i sensi. Poi, ripresasi, accorgendosi che nel cadere aveva perso il bambino, stringendo disperata la bianca testa tra le mani, si mise a gridare: «Ma perché, maledetto destino, non sono morta anch’io con il mio povero figlioletto?»E qui sentì una voce cristallina, che le chiedeva: «Cos’è che avete perso?»Allora la vecchia si voltò, e con grande meraviglia vide che accanto a lei stava un bel bambino vivo e vegeto, che stringeva della mano sinistra una pietra dalle nove sfaccettature, mentre nella mano destra teneva una dura pietra nera.23

23 Nell’antico Sciamanesimo sia la pietra nera che il numero nove avevano un carattere magico [Riccardo Bertani].

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Il bimbo era completamente nudo, come mamma l’aveva fatto, quindi il suo vestito non era che la splendente luce della luna. La vecchia allora prese il piccolo in braccio e lo portò nella sua tenda e la mucca cominciò ad allattarlo.

Non passò molto tempo e il piccolo, ormai diventato grande, disse alla madre: «Ti sei accorta che, sul nostro immortale Baj Terek, stanno svolazzando degli uccellacci che con un baccano infernale stanno straziando la sacra pianta? Su, presto, procurami arco e frecce perché io possa

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uccidere quegli uccellacci!»24 Sentendo ciò la vecchia si mise a gridare tutta giuliva: «Ecco, è arrivato colui che ci vendicherà!» Ciò detto si mise subito a costruire un arco e delle frecce acuminate. Armato di arco e frecce, il ragazzo andò subito a uccidere gli uccelli che stavano appollaiati sul sacro pioppo, e quando caddero giù, come pietre ai piedi della pianta, le foglie si misero a stormire gioiosamente. Vedendo ciò allora la vecchia disse: «Sì, figlio mio,hai dimostrato di essere un valido arciere, e saprai sbarazzarti del malefico Kara-Kula e del suo infernale destriero, che sta divorando la saporita erba dell’Altai».

La vecchia, orgogliosa di avere un così tanto prode figlio, si mise tutta giuliva a spennare i corviper fare un morbido guanciale

24 L’arco è l’arma simbolo della precisione, della concentrazione, del volo: è l’arma per eccellenza, ogni grande capo è un ottimo arciere. Il fatto che domandi un arco indica la qualità del ragazzo: è un alyp.

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e rivolta al giovane disse: «Ormai per te, mio caro, è giunto il tempo di tornare alla tua natale dimora, dove il padre ti ha cullato, e la madre dolcemente accarezzato. Ma ora l’impero è nelle mani di un malefico gigante che cavalca un destriero grigio scuro, dal fetido respiro, che come tossica nebbia uccide tutti quelli che incontra.Tuo padre è Maaday-Kara, e tua madre si chiama Altyn-Targa,ora essi si trovano prigionieri del malefico nemico. Si tratta del terribile Kara-Kula,un maligno volgare khan venuto da un paese lontano che domina su numerose terre e sull’Altai. La sua coppa trabocca del sangue preso dai popoli soggiogati, mentre il suo cavallo dal fetido respiro,dove passa, rovina più di un violento uragano. Quando tuo padre aveva ancora l’ardore della gioventù, quel maligno si guardò bene dall’attaccarlo, e invadere la felice e ubertosa terra dell’Altai, ma appena Maaday-Kara cadde in preda alla vecchiaia il maligno Kara-Kula,

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come un uccello rapace, è piombato su di lui, devastandone il ridente paese e schiavizzando il popolo,mentre le sue greggi e mandrie sono state condotte a suon di frusta nel lontano paese dell’usurpatore.

Quindi il destino ha voluto che ora sia tu, mio diletto, a riscattare l’amata terra paterna! E in questa tua gloriosa impresa non mancherà certo di aiutarti l’onnipresente spirito delle acque, mentre lo spirito dei monti ti eleggerà quale alyp di tutte le tribù dell’Altai ponendoti il glorioso nome di Koghjudej-Merghen!»

Nel sentire quelle ardenti parole,il giovane eroe balzò in piedi e rispose con fierezza alla donna: «Voglio subito andare da mio padre, per vedere almeno che barba ha, e ardo dal desiderio di conoscere il dolce viso della madre mia! Poi cercherò un cavallo per raggiungere quel maledetto Kara-Kula, che ha devastato la terra di mio padre. Dove posso trovarne uno? Ma anche se sono appiedato, troverò la forza di battere quella canaglia di Kara-Kula. Non voglio che la gente

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mi giudichi un codardo e un inetto!»

La vecchia disse al prode giovane: «Figliolo, non cercare la morte invano, tu sei ancora troppo giovane per batterti contro uno forte e astuto come Kara-Kula, quindi impara a correre prima di affrontare questa impari lotta. Poi ricorda che dietro quel mostro sta sempre Kara-Taadi, sua moglie, la nera sciamana,la figlia prediletta di Erlik. è una strega nera come la notte ed è capace di fare qualsiasi maleficio. Quindi, prima di precipitarti in questa lotta, impara a tener frenata la ragione con il senno. Sappi che non è sempre facile camminare sulla giusta via, spesso è scivolosa come quella battuta dal male. Infine ricorda che il perfido lupo agisce sempre con scaltrezza e coraggio, quindi devi agire sempre con prudenza ed evitare di lanciarti in imprese impossibili. Se vuoi veramente liberare l’Altai e ripristinare il potere di tuo padre, devi decidere tutto con calma. Preparati quindi a essere pronto, sia ad attraversare il profondo mare

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che a valicare le più alte vette, e non dimenticare mai di combattere sempre con onore e coraggio. Solo allora potrai salire nell’immenso Sjumer-Ulam,il paradiso degli eroi,leggero come piuma».

Così la vecchia dall’alba al tramonto continuò a dar consigli al giovane: «E non dimenticarti che sei l’unico figlio del grande alyp, Maaday-Kara. Ricordati anche che, per riuscire nella tua gloriosa impresa, dovrai superare settanta impervie vette, e novanta irruenti fiumi. Tu sai che il cavallo a forza di galoppare si stanca, ma tu cerca di resistere sino all’impossibile, così sarai onorato per sempre».25

Per giorni e giorni la vecchia continuò con i suoi consigli e, quando smise, ecco sbucare da sotto terra un carro trainato da un robusto stallone. Sul carro stavano vestiti e armi

25 La madre adottiva, come deve fare in fondo ogni madre, rinuncia al figlio capendo l’ideale che lo anima, gli dà consigli e lo sprona all’azione, mai alla fuga e alla paura. Lo vestirà con un’armatura che simboleggia il suo affetto che sempre lo proteggerà.

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splendenti come una chiara notte di luna. La vecchia allora si mise a vestire il giovane.Il cimiero del berretto brillava come le fulgide stelle. I begli stivali erano tutti arabescati d’oro, mentre la cintura della fibbia, dorata come i raggi del sole, brillava con un raggio di sole. Dopo avergli fatto indossare la pelliccia, la vecchia gli porse un’acuminata spada e una luccicante lancia. Gli diede quindi un ferreo arco munito di una faretra colma di frecce e, infine, due guanti per strangolare i nemici. Il giovane diventò audace e forte come un vero potente guerriero.26

Allora la vecchia disse all’alyp: «Guarda là, dove si perde la grande catena nell’Altai».Koghjudej-Merghen si voltò, e vide che là dove rimbombava forte il tuono e nascevano il sole e la luna, stava pascolando

26 L’iniziazione è giunta a compimento.

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un cavallo grigio scuro con una magnifica criniera bianca. Le sue orecchie rasentavano il cielo, mentre i suoi occhi stellati splendevano come chiari di luna. Nel suo sfrenato galoppo il cavallo sfiorava le vaganti nubi in cielo, mentre i suoi scalpitanti zoccoli facevano sprizzare scintille verso le alte vette. Quel cavallo dalla meravigliosa criniera biancaera feroce e ardito in battaglia, quanto era instancabile nel suo irruento galoppo. Le bellissime redini, d’oro massiccio,toccavano terra. «è veramente uno stupendo cavallo!» disse l’alyp.

Quindi, dopo aver indossato la coriacea corazza, luccicante di borchie d’oro, affibbiò alla schiena del cavallo cento colpi con rami di betulla,lo caricò con cento sacchi di sabbia e balzò in sella, ma quando infilò

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i piedi nelle staffe, stranamente, la luna s’offuscò, e così fece il sole quando tentò di tirare le redini. Così il destriero rimase immobile come pietra, con la testa a ciondoloni e lo sguardo opaco come nebbia. Allora l’alyp gridò stizzito: «Che razza di cavallo sei, da startene qui immobile come un sacco di paglia?» «La colpa è tua, che monti in sella come un fantoccio. Datti da fare, e fai schioccare la frusta!»27 gli ribatté frattanto il cavallo. Allora l’alyp, con il viso porpora per la vergogna, batté forte la frusta sulla groppa del destriero, il quale, lanciando un lacerante nitrito, che si perse lontano nella steppa, partì veloce come una freccia.

Dopo quella folle corsa, tra romiti monti e valli, l’alyp disse riconoscente al cavallo: «Mi sono accorto che tu sei uno splendido destriero!»«Come tu sei un valoroso eroe!» gli fece subito eco il cavallo.

27 Il destriero ha scelto il suo padrone, inizia una simbiosi bellissima. Il cavallo sarà la guida dell’alyp.

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Qui l’alyp si mise a dire: «Entro i giorni che scorrono in un anno, bisogna che troviamo Kara-Kula, il malefico khan che ha depredato le nostre greggi e mandrie, e ha ridotto in schiavitù il nostro libero popolo!»

Il giovane alyp tornò dalla vecchia28 e si inginocchiò devotamante: «Oh, mia cara madre, che mi hai raccolto e nutrito, fornendomi tutto quel che mi occorreva, compreso questo magnifico destriero,fa’ che ora io possa andare ad abbracciare la mia vera madre e il padre mio, se no a che vale avermi reso un glorioso alyp?»

Allora la donna, accarezzando dolcemente il giovane, gli disse: «Ricordati, figliolo, sopra a ogni altra cosa devi pensare al tuo natale Altai, il paese dove nelle vaste steppe scorrono rapidi fiumi. Sta scritto nel destino che, prima di battere il nemico,

28 Qui l’opera insegna il rispetto per gli anziani e la riconoscenza per chi ci aiuta.

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dovrai superare sette inaccessibili vette, e solo allora potrai assaporare appieno il respiro della terra natale. Porta sempre rispetto alle calvizie dei vecchi, perché chi agisce come un luporischia di essere ucciso.Mantieniti sempre sulla retta via, e non abusare mai della tua forza fisica, perché ricorda che anche i giganti possono scivolare inavvertitamente sul ghiaccio. Non usare mai la freccia senza prima prendere la mira, vedrai che il momento di usarla verrà da solo! E non gettare mai le parole al vento senza prima meditarne il valore. Ma ora, figliolo, è giunto per te il momento di tornartene nell’Altai,che hai tanto sognato. Adesso, mio caro, voltati…»Girò il viso il prode Koghjudej-Merghen, ma quando si rigirò, i suoi occhi di falco non scorsero più la vecchia, e la tenda era ridotta in fumante cenere. Allora il giovane alyp si tolse rispettoso il copricapo e si inchinò profondamente dinanzi ai monti, ai fiumi,al ridente cielo azzurrodella sua grande terra.

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Canto secondo

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Kara-Taadi, la perfida sciamana nera, di Alfonso Borghi.

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Il prode alyp corre veloce in sella al suo focoso destriero.La sagoma scura della sua lancia si riflette sull’argentea faccia della luna, mentre l’acuminata puntaacceca più dello splendente sole.Nel suo frenetico galoppo, il destriero grigio scuro

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sventola al vento la sua stupenda criniera bianca, mentre i suoi turbolenti zoccoli macinano la terra e gli immacolati fiori delle verdi valli.Saettando come sibilante freccia l’irruente destriero supera in un baleno tumultuanti fiumi, e valica, strepitando come tuono, le vette delle rocciose montagne.

Alla fine l’alyp e il suo destrierogiunsero finalmente nelle valli dove vivevanoalcune tribù che venivanodall’amata terra dell’Altai.L’alyp fu accolto fra le lacrime:«Grazie o nostro grande alyp, per essere venuto a difenderci dal feroce Kara-Kula e a portarci l’alito della speranza!»

Ma tutta quella speranza,iniziata in una calda notte d’estate,finì ben presto con l’arrivo del freddo inverno.

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Infatti, dopo che il nostro glorioso alyp, in sella al suo focoso destriero, aveva valicato inaccessibili monti e attraversato tumultuosi fiumi, ecco che una notte scomparve,stranamente, la luna e i due si trovarono dinanzi a novanta altissime montagne, che sbarravano loro la via del sud.

Oltre le cime nevose di quelle montagne, brillanti più delle stelle in cielo, stava il paese nemico. Allora il prode Koghjudej-Merghensaltò a terra e disse al suo fido destriero: «Oh, mio fedele compagno di tante avventure, cui il destino mi ha unito saldamente per la vita e per la morte, sai dirmi ora come dobbiamo comportarci?»

Il fido destriero rispose: «La miglior cosa è fermarsi qui, perché oltre quelle nevose cime sta il regno d’ombra dell’infido Erlik.Sono stati i suoi neri spiriti

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che abitano l’oscuro mondo sotterraneo a occultare l’argentea luna. Da settant’anni due guerrieri sono posti di guardia al valico di questi monti, uccidendo con il loro pesante martello di ghisa e la loro luccicante picca d’oro chiunque s’azzardi a passare, perché là, a sud, sta il regno di Kara-Kula, il terribile khan dagli occhi iniettati di sangue».

Ma l’alyp replicò:29 «Siccome la morte fa parte della vitae a lei nessuno può sfuggire,neppure tu, mio fido destriero, e nemmeno io, vale la pena di agire.Meglio è morire difendendo la propria libertà che vivere in schiavitù».

Ciò detto, Koghjudej-Merghen balzò in sella al suo focoso destriero e lo spronò avanti e si scagliò contro i due guerrieri che stavano a guardia del valico montano.

29 L’alyp esprime qui l’ideale di ogni capo, di ogni maestro di vita: il valore supremo della libertà. Pensiamo al valore e alla forza di questi versi cantati a un popolo oppresso.

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Essi tentarono di fermarli lanciando contro di loro un martello di ghisa e la luccicante picca d’oro. Ma l’alyp fece impennare il destriero e le due terribili armi volanti andarono a perdersi nel vuoto.I due guerrieri rimasero stupiti e ammirati perché non era mai capitato loro di vedere un destriero così agile, con l’occhio sinistro brillante come il sole e l’occhio destro dai riflessi argentei come la luna.

L’ardito cavaliere era un vero gigante.30 La sua poderosa schiena è larga quanto la steppa, mentre il suo chiaro volto pareva infiammato di tramonto e i suoi occhi brillavano come le vivide stelle della sera. I due guardiani si spaventarono credendo che quel gigante fosse il figlio dello spirito padrone dei monti.

Koghjudej-Merghen, brandendo la frusta, s’avvicinò ai due guardiani dicendo a uno di loro:31

«Perché, bel giovane, vuoi rischiare

30 L’alyp è descritto qui come il Creato stesso che in lui vive e si riflette.31 Prima di colpire, l’alyp tenta con ogni mezzo di evitare la violenza.

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i tuoi magnifici denti lanciandomi contro il tuo martello di ghisa?»E, rivolgendosi all’altro guardiano, disse: «E tu, giovane dalle belle robuste gambe,perché vuoi tentare di colpirmi con la tua picca, rischiando così di rimanere storpio?Ho sentito dire che voi siete soliti uccidere chiunque si azzardi a passare il valico: volete forse farmi fare la stessa fine?»

I due guardiani gli risposero incolleriti: «Chi credi di essere? Sicuramente il tuo cavallo non avrà tempo di venire qui a calpestare quest’erba».Detto ciò, uno dei giovanilanciò il suo pesante martello che andò a colpire, in mezzo alla fronte,il destriero dell’alyp. L’eco di quel terribile colpo rimbombò per quattro giorni, con un fragore di tuono,e alla fine il martello cadde in frantumi nel turbolento Toibadin,il grande fiume. Il secondo guardiano

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lanciò la sua picca che, sibilando, andò a colpire l’alyp tra gli occhi. Allora la terra tremò tuttae un profondo boato la percorse per sette giorni.Ma alla fine anche la picca andò in frantumi,a inabissarsi nel turbolento Toibadin. Però, malgrado quei terribili colpi l’alyp e il suo destriero erano miracolosamente indenni.

Allora l’alyp gridò:32 «Non è con la brutalità, miei cari giovani, che si possono vincere le dispute!»

Detto ciò si mise a flagellare con la sferza i due prepotenti riducendoli in brandelli così minuti da sfuggire anche agli occhi dei corvi. Poi, in sella al suo focoso destriero, galoppò veloce tra monti e valli.

Ma ecco pararsi dinanzi a lui cinque nere montagne oltre le quali si stendeva un immenso mare,

32 L’alyp prima ha cercato di evitare ogni contesa poi esprime l’idea dell’inutilità della violenza.

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dall’acqua ribollente, gialla e torbida come resina.Per attraversare quell’immenso fumante mare, ci voleva il tempo segnato da cinquanta lune.Lì sfociava l’infernale Toibadin e se i corvi e altri esseri avevano la sfortuna di sfiorare appena quella malefica acqua, rimanevano sull’istante fulminati. Trecento anni erano passati, ma nessuno era ancora riuscito ad attraversare quell’ardente mare che il feroce Kara-Kula aveva posto a difesasua e della moglie, la perfida Kara-Taadi, figlia prediletta di Erlik, strega dall’anima tenebrosa e nera come la buia notte.

L’alyp, allora, si fermò a riflettere,mandò il suo destriero ad abbeverarsi alla sorgente sacra e si nutrì con il cibo migliore.Ma era troppo grande e bollentequel mareper poterlo attraversare.

Deluso e amareggiato, l’alyp stava per prendere

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la via del ritorno, quando apparvero due corvi gialli, che gli gridarono in volo:33 «Dacci gli occhi del tuo cavallo, così saprai quello che non sai!»Ma l’alyp, senza dar loro ascolto, si avviò lungo la riva, e gli apparve uno stormo di gazze gialle, che gli gridò dall’alto: «Se ci lasci beccare le croste sui fianchi del tuo cavallo, ti sveleremo come si fa ad attraversare questo mare!»

«Mai permetterò ad alcuno di tormentare il mio destriero!» rispose Koghjudej-Merghen pieno di collera, e i corvi lo rimbeccarono, dicendo: «Allora perché sei venuto qui, ben sapendo che senza il nostro aiuto mai nessuno è riuscito ad attraversare questo mare, dove sgorga perenne il fiume Toibadin?» Al gracchiare dei corvi fece subito eco quello delle gazze, dicendo all’alyp: «Vattene, che fai tu qui senza volere il nostro aiuto? Cosa ti costava

33 Il male tenta l’alyp chiedendo il tradimento in cambio del potere.

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lasciarci beccare le piaghe sui fianchi del suo cavallo?»

Allora l’alyp, gettando due tizzoni ardenti contro i corvi, gridò: «Ecco i due occhi del cavallo, che volete!» Quindi, rivolgendosi alle gazze, gettando contro di loro pezzi di un rugoso tronco di pino, disse: «Ecco quel che cercate!» e facendo sibilare la sferza, come lampeggianti saette, si mise a colpire quei malefici uccelli, che, cadendo, scomparvero l’uno dopo l’altro nei gorghi dell’incandescente mare.

Nel prendere la via del ritorno il destriero disse a Koghjudej:«è triste, dopo avere galoppato un anno intero tra mille vicissitudini, essere costretti a rinunciare al nostro piano. D’altronde poco mi garba finire arrostito in questo orrido mare giallo». Quindi all’alyp non rimase che volgere il suo destriero sulla malinconica via del ritorno,gettando con i suoi acuti occhi di falcoun ultimo sguardo ai cinque neri monti, oltre i quali ribolliva il pestifero mare giallo.

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Era da dieci giorni che Koghjudej-Merghen, in sella al suo fido destriero, galoppava veloce nella steppa e ormai all’orizzonte erano scomparse le nere sembianze dei monti, oltre i quali ribolliva il pestifero mare e l’alyp decise di riposarsi un poco, all’ombra di un cedro. Lanciò poi, di nuovo, il suo fido destriero in uno sfrenato galoppo, piegando come un vento di bufera l’erba alta della steppa, e, fragoroso come tuono, volò tra gli alti dirupie tra verdi valli, punteggiate da azzurri laghi romiti.Dopo aver valicato quaranta rocciose montagne e aver superato in un baleno cinquanta impervi valichi, e attraversato sessanta steppe sconfinate, il destriero a un tratto si fermò e disse all’alyp: «Chiudi gli occhi e tieniti forte in sella!» Allora Koghjudej-Merghen stringendo l’arco al petto, chiuse gli occhi,

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e quando li riaprì si accorse che il destriero, in quel mentre, aveva saltato l’immenso mare, la cui riva deserta si perdeva all’infinito. Il sole lassù in cielo era fosco, come fosse stato coperto di cenere. L’alyp meravigliato si complimentò con il suo destriero, e questi gli rispose: «Non meravigliarti, sono soltanto un cavallo degno di te!»Ripresero i due la loro sfrenata corsa e al calare di un dorato tramonto, si parò loro innanzi la cupa sagoma del Dier-Dyumar,un ammasso di rocce sgretolateper sbarrare la strada.Ovunque era facile scorgere ossa di cavalli e cavalieri che avevano osato passare oltre quel cumulo di pietre, perché al di là stava il regno del perfido Kara-Kula.

Qui allora Koghjudej-Merghen liberò il destiero dai finimenti, e gli disse: «Vai, corri libero come il vento, vai a prendermi l’acqua della miracolosa sorgente. Io, intanto, in attesa di un tuo veloce ritorno,

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starò qui a riposarmi!» L’alyp stese a terra la gualdrappa del cavallo, si sdraiò e, coprendosi con la sua calda pelliccia, ben presto si addormentò. Erano passati sei giorni, ed ecco che il settimo giorno l’alyp, sprofondato nel sonno, fece un meraviglioso sogno:34 gli sembrava di essere nel suo assolato Altai, tra la sua gente libera e felice. E là, seduti su una pietra, al centro del natale Altai, scorse i suoi vecchi genitori, che discorrevano sereni fra di loro.

Ma ecco che il dolce sogno si ruppe e al risveglio l’alyp, alla vista dell’orrido cumulo di pietreche si ergeva davanti a lui, fu preso da una profonda tristezza, e si mise a gridare disperato. Al rimbombo di quelle angoscianti grida, rotolarono giù i massi dalle alte vette e fecero schizzare l’acqua dai laghi sparsi tra i monti. Le potenti grida arrivarono persino nel buio mondo sotterraneo,

34 Nello Sciamanesimo i sogni premonitori sono tenuti in grande considerazione e la loro interpretazione apre a grandi verità.

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facendo tremare di paura il malefico Erlik. Le grida squarciarono persinoil nero manto della notte, facendo apparire una radiosa alba.35 A quell’insolito avvenimento trepidarono le tribù, sparse nei lontani accampamenti, e qui i loro capi si chiesero con apprensione: «Di chi sarà mai quel possente grido? Del perfido Kara-Kula o del re glorioso Koghjudej-Merghen?»

Quando si placòl’eco del suo urlo, l’alyp si mise ad agitare le briglie del suo cavallo,ed ecco d’incanto apparire il fido destrierodalla bianca criniera sparsa nel vento, tutto madido di sudore, per l’impetuosa corsa.Gli occhi erano lucenti, come la vagante luna in una notte serena.

Ma quando l’alyp si mise in sella al suo destriero,

35 È l’aurora boreale, che infiamma magicamente le lunghe notti del nord.

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si accorse che, mentre l’animale durante quel tempo si era rinvigoritocon l’acqua della miracolosa sorgente, lui, invece, era dimagrito e indebolito.Allora prese dalla sacca di pelle appesa alla sella il formaggio che gli aveva preparato con il latte la vecchia madre della foresta.36

E appena l’alyp ne addentò un pezzosi sentì il vigore duplicato e, dopo aver mangiato l’altro pezzo di cacio, la sua forza si era centuplicata. Allora balzò agilmente in sella al suo scalpitante destriero, fece sibilare la sua sferza dal manico d’oroe si lanciò come una freccia verso quell’orrido ammasso di pietre.

Galoppava veloce, lo sfrenato destriero, incurvando al suo passare le secolari foreste, e sfiorando sull’orizzonte la bassa cupola del cielo.

36 Il cibo dato dalla madre è l’energia di Madre Terra, è cibo sacro dai poteri magici.

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Arrivò in un attimo, in una terra arida e glabra, dove nemmeno il corvo e il veloce falco avrebbero osato volare. Era tanto veloce la corsa, che l’alyp nemmeno si accorse di aver attraversato quell’orrido ammasso di pietre che intralciava la via. Oltre quella catasta di massi scuri come la buia notte, scorreva un torbido fiume sulla cui riva si alzava uno squallido pioppo dalle foglie grigie come la cenere, mentre dai cupi monti scendeva una fosca nebbia sanguigna: era l’arido e tenebroso regno del malefico Kara-Kula.

In quello squallido paese, il feroce e crudele Kara-Kula aveva deportato molte tribù dell’Altai riducendole in umiliante schiavitù. Lungo la riva del torbido e tumultuoso fiume, chiassose come cornacchie,

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muggivano mandrie dal mantello bianco o scuro quanto l’imbrunire della sera. Di guardia a quelle mandrie, gracchianti come corvi, stava la gente del glorioso popolo dell’Altai fatta prigioniera. Erano ingiuriati come rospi e costretti a strisciare come serpi.Racchiuse in un tetro recinto di ferro,belavano candide greggie mandrie di jak, i bisonti dal lungo pelo.A lato del recinto da una piccola jurta usciva un esile filo di fumo.Dentro la tenda, una povera vecchia distrutta dagli stentimetteva sterco secco sul focolare per ravvivare la fiamma. Fuori, il marito, un vecchio ormai tremolante per gli anni, vestito di lacera pelliccia, badava alle greggi con l’aiuto di un nodoso bastone.

Intanto, il giovane alyp, inoltrandosi con cautela in quel lugubre, squallido paese, vide venirgli incontro una nera mandria, con al centro un gigantesco toro

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dallo sguardo torvo e minaccioso, tetro nugolo di tempesta, mentre le sue ricurve cornasi inarcavano fino al cielo: il corno sinistro gli serviva per sterminare gli armenti mentre con il destro fracassava le membra e le ossa della gente. Con la sua enorme coda faceva sollevare la polvere sino alle stelle, mentre sulla schiena portava una striscia di corteccia di betulla, su cui stava seduta una giovane donna, con un berretto di penne di gufo, che le scendeva fin sugli occhi.

Il viso della donna era nero come il carbone e il suo sguardo era torvo come quello di un cane in un’uggiosa foschia.Un perfido ghigno le contraeva la diabolica faccia, presagio di morte,e appesi ai lobi delle orecchie pendevano due cerchietti di rame. La giovane portava a tracolla il suo tamburello sciamanico, mentre in una mano teneva strette le redini, fatte di pelle di serpi,

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e nell’altra mano stringeva un contorcente serpente, che usava come frusta.Mentre lo frustava, il toro si mise a urlare con una voce stridula e sguaiata che faceva inorridire a sentirla.

Ed ecco, dinanzi a Koghjudej, apparire un grande palazzo, con al centro un palo per attaccarvi gli armenti, così alto da toccare il cielo. Là intorno era tutto un brulicare di genti e di animali gracchianti come gazze, fitti come uno stuolo di corvi.

L’alyp chiese al suo fido destriero: «Di chi sono tutti questi armenti e greggi?Chi comanda qui?»Il cavallo subito rispose: «Le mandrie e le bianche greggi, e la gente dal volto bianco che vedi qui rinchiusa, appartengono tutte al pacifico popolo dei tuoi genitori. Quei due poveri vecchi, che hai appena scorto in quella misera jurta: non sono altro che tua madre e tuo padre.

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Il padrone, invece, di questo oscuro paeseè Kara-Kula,mentre la giovane che sta in sella al toro è Kara-Taadi, la sua malefica moglie, una sciamana nera che sa leggere il futuro della gente».

Kara-Taadi infatti già sapeva che, in uno sperduto paese tra i monti, era nato un aquilotto. Quel figlio dei monti era stato allevato da una betulla, tanto da crescere forte e ardito, come voleva madre natura. Quell’aquilotto, chiamato Koghjudej-Merghen, aveva il viso splendente come la luna e la voce possente come il tuono, gli occhi di fiamma e la mente limpida come il giorno. E ora, dopo essere riuscito a superare ogni ostacolo, era arrivato finoall’oscuro paese di Kara-Kula per liberare, a costo della propria vita, gli armenti, le greggi e la sua gente.

Visto ciò, la perfida Kara-Taadi pensò:37 «è meglio che a mio marito non dica ciò che ho visto scritto nel destino

37 La sciamana nera è sinonimo del male, dell’infedeltà, della perfidia e della falsità, ma anche lei esprime il suo anelito verso la luce e la liberazione, come ogni essere umano.

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perché, se Koghjudej-Merghen riesce a uccidere Kara-Kula e riportarsi a casa i propri genitori, assieme a tutto ciò che a loro apparteneva, allora cosa faccio io? In tal caso non mi resta che usare la mia arte di maliarda, seducendo Koghjudej e facendomi sposare da lui. Così anch’io potrò andarmene dal buio regno sotterraneo di Erlik, e finalmente vedere le stelle!» Ma mentre la perfida moglie di Kara-Kula stava tramando contro il marito, stranamente Koghjudej-Merghen cadde in catalessi e quando si riprese si vide tramutato in Tastarakaj,un mendicante coperto di stracci,38 e così accadde anche al suo destriero, che cadde fulminato a terra per rialzarsi tramutato in Tarbok, un misero ronzino.

Adesso un povero pezzente tutto lacero se ne stava andando in sella al suo magro cavallo,

38 Anche Buddha, da principe, diventò un mendicante per attingere all’illuminazione, vincere il male e guidare l’umanità.

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vagabondando per gli erti sentieri montani. Quel mendicante non era altri che il povero Tastarakaj, che, per rompere la monotonia del dinoccolato trotto del suo ronzino,si mise a cantare.39 Udendo quel canto allegro e vivace i cedri rinsecchiti dagli anni rialzavano orgogliosi la chioma, mentre si accendevano i colori dei fiori iridati delle valli.Quella voce pura e argentea si spandeva lontano, tanto da essere udita da Altyn-Targa,la moglie di Maaday, che disse stupita: «Chi sarà mai colui che sta cantando le dolci canzoni della nostra terra, che mi riempie l’anima di nostalgia?»Il soave canto giunse anche all’orecchio di Maaday-Kara, che rimase colpito. «Chi è chesta cantando così soavemente tanto da strapparmi l’anima? E quale sarà la ragione che l’ha portato in questa triste terra di Kara-Kula?»

39 La natura e le sue creature non si fanno ingannare dalle apparenze e sanno riconoscere un alyp anche sotto le vesti di un mendicante.

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Ma l’arrivo del pezzente travestito in sella al suo misero ronzino non sfuggì nemmeno alla vista della perfida figlia di Erlik, che gli lanciò contro uno stuolo di cani feroci, neri come la notte.I famelici cani si gettarono sul povero cavallo, ma Tastarakaj si mise a colpire quei dannati con un lungo ramo di vimini che usava come frusta. La nera muta, sentendosi spellare la schiena dalle frustate, fuggì dal dolore.Tastarakaj si rimise in cammino,in sella al suo povero ronzino e capitò nella misera jurta dove stavano i suoi genitori.

Quando entrò nella tenda vide i due vecchi e inchinandosi disse loro:«Ezen ezen. Ensen, Ermen Eermen.Vi saluto, miei cari vecchi, io vengo da un lontano paese».

Maaday-Kara, scuotendo la fiera testa canuta, chiese sospettoso al pezzente: «Cosa ti ha spinto a lasciare la tua terra per venire in questo luogo oscuro e desolato?»

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Gli rispose il mendicante: «Ho sentito dire che voi siete alla mercè di un perfido khan, quindi non penserete di stare qui tutta la vita, vero? Io voglio incontrarmi con i lama gialli,40 sapete voiindicarmi dove si trovano?Per giungere fin qui ho dovuto attraversare innumerevoli monti, foreste e steppe sconfinate, e affrontare le acque ribollenti di un tossico mare, e valicare le infide rupi del Dier-Dyumar, il tutto per potermi incontrare con i lama gialli. Il mio viaggio è durato parecchio, ma ora credo che sia giunto il momento di riposarmi un poco, sento che le mie gambe, al pari di quelle del mio ronzino, si piegano sotto il peso della stanchezza. Siete in grado di darmi un poco di ospitalità?»41

Mentre Altyn-Targa ascoltava commossa le parole del pezzente,

40 Si tratta dei monaci buddisti dai “berretti gialli”, una corrente del Lamaismo tibetano diffusasi nell’Altai nel quindicesimo secolo.

41 I due vecchi offrono allo sconosciuto pezzente ospitalità e cibo. L’ospite è sacro!

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Maaday-Kara, sputando in terra,42 disse: «I nostri saggi vecchi dicevano che come è impossibile ricavare panna dal latte di cagna, così è impossibile ricavare un buon giudizio da degli stolti lama. Quindi stento a credere che tu abbia affrontato tutte quelle peripezieper questa ragione».

In quel momento entrò Altyn-Targa, recando un vassoio pieno di fumante carne di rana e di serpenti bolliti. Maaday-Kara non ebbe animo di guardare Tastarakaj mangiare quelle repellenti schifezze, ma il misero pezzente trangugiò tutto in un attimo, e alla fine disse soddisfatto: «Ora sì che mi sento bene! Poi, non dicono forse che mangiando carne di serpente si diventa un intrepido eroe, e mangiando carne di rana un potente khan?»

Maaday-Kara allora disse: «Spero che non ti sia offeso nel vederti costretto a mangiare questa porcheria. La colpa non è nostra, ma del feroce Kara-Kula e della sua perfida moglie Kara-Taadi,

42 Il giudizio di Maaday sui monaci buddisti è molto duro, segno della convivenza, non sempre facile, fra l’originale Sciamanesimo e il più recente Buddismo.

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che ci hanno ridotti in questo miserevole stato, tanto che per tener viva la fiamma del focolare siamo costretti a bruciare sterco di vacca. è proprio triste vedersi ridotti così».

Non riuscendo a sentire le accorate parole del vecchio, Tastarakaj uscì fuori, ma di lì a poco tornò nella jurta, dicendo: «Là fuori ho visto un grosso toro nero in testa alla sua mandria che, con le sue enormi corna acuminate come aghi,uccide tutti quelli che incontra. Lo voglio uccidere, così avrete da mangiare carne a volontà!» «E tu credi, misero pezzente, di poter uccidere quel toro? Quello appartiene al feroce Kara-Kula, quindi nessuno è capace di ucciderlo!»

Ma Tastarakaj, incurante di quell’avvertimento, uscì munito di un acuminato coltello e di una clava di pietra.Andò diritto ad affrontare il mugghiante toro, spaccandogli la testa

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con la pesante clava che gli penetrò fino alla punta del muso.

Lo trascinò fino ai piedi di Maaday-Kara e disse: «Adesso avrete da mangiare!» Ma il vecchio gli disse preoccupato: «Cos’hai fatto, sventato? Non lo sai che questo era il toro su cui andava in sella la perfida sciamana Kara-Taadi? Ora sicuramente se la prenderà con me!»Mentre il vecchio continuava a lamentarsi, Tastarakaj andò nella foresta, a raccogliere

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legna secca per far bollire la carne che stava nel paiolo e dopo aver mangiato si svestì e si mise a dormire accanto al focolare.

I due vecchi si accorsero che sul petto nudo del dormiente spiccava una voglia, larga come un occhio di pecora. Vedendo ciò, Altyn-Targa scoppiò a piangere esclamando: «Anche nostro figlio aveva una voglia simile!»Mentre Maaday-Kara si chiedeva sconcertato: «Ma chi è costui che ha una voglia simile e nello stesso posto dove l’aveva nostro figlio?» Tastarakaj, vedendo il dolore e la tristezza che avevano colpito i due vecchi, balzò in piedi, ed esclamò:«Miei cari vecchi, credete che ci sia bisogno di affliggersi per avere ritrovato il proprio figlio?»

Nel sentire queste parole sobbalzarano i due vecchi non credendo alle proprie orecchie,

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e Altyn-Targa, non osando alzare gli occhi, facendo finta di attizzare il fuoco, disse furibonda, rivolgendosi al pezzente:«Il sonno ancora ti annebbia la vista. Come puoi tu dileggiarti del dolore di due poveri vecchi, che piangono la morte di un figlio?»

Nell’udire quell’accorato rimprovero il pezzente batté la mano sulla schiena del suo ronzino, che d’incanto riprese le sue primarie sembianze e, come rimbombante masso cadente, o roboante fulmine, ecco apparire il giovane alyp dinanzi ai due poveri vecchi strabiliati. Inginocchiandosi dinanzi a loro disse: «Salve, mia diletta madre, e salute a te, mio caro padre». Allora i due vecchi, al colmo della felicità, abbracciarono stretto quel figlio che avevano creduto caduto nelle grinfie del malefico Kara-Kula.

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«D’ora in poi, miei diletti genitori, smetterete di languire in schiavitù, in questo maledetto triste paese, perché io sono venuto a liberarvi, così finalmente potrete ritornare assieme alle vostre mandrie e candide greggi col vostro sfortunato popolo, nelle amate terre dell’Altai. Io intanto me ne resterò qua per punire il feroce Kara-Kulaper tutte le pene e gli oltraggi che ha fatto subire a noi tutti!»

Altyn-Targa, la vecchia madre, guardando il figlio con gli occhi pieni di tristezza, disse: «No, non t’azzardare a fare ciò figliolo! Tu sei ancora troppo giovane per poter affrontarel’astuto e crudele Kara-Kula. Anima mia, dai retta a me, tornatene là, tranquillo tra i monti!»

Alle parole accorate della madre fecero eco quelle sensate del padre: «Figliolo, mio diletto,non ci pensare nemmeno a batterti con Kara-Kula. è un gigante

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dalla forza e ferocia tremende, tanto che nessuno finora è riuscito a batterlo. E si nutre di sangue umano, che beve dal teschio di chi uccide, mentre i femori degli uomini uccisigli servono da scettro. Quindi, vattene figlio mioprima che sia troppo tardi».

«Per ora vi prometto di seguire,43 anche se con estrema fatica,i vostri saggi consigli.Ma verrà il giorno in cui tornerò per liberare tutti voi e portarvi lassù nel vostro amato paese».

L’alyp e il destriero ripresero di nuovo le sembianze di un pezzente e di un ronzino. Tastarakaj si mise allegramente a cantare e nell’udire quel melodioso cantole frondose foreste si misero a stormire giulive, mentre le fiere,nel sentire quel soave canto,balzarono fuori dalle loro tane,abbandonando i loro piccoli.Anche gli uccelli lasciarono il nidoper unirsi in un fitto stormo,tanto da formare un nero nugolo in cielo,

43 Il figlio obbedisce al padre, insegnando il rispetto sempre dovuto ai genitori.

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per seguire da lassù quel meraviglioso cantore.

Intanto la figlia di Erlik, la nera sciamana, che tutto vedeva, sapeva che l’alyp travestito da pezzente, dopo aver ucciso il suo nero toro, stava dirigendosi verso il paese dei lama gialli per sapere dove stava nascosta la malefica anima di Kara-Kula.La perfida sciamana si recò dal demoniaco padre per dirgli che era stanca di avere per maritouno stupido come Kara-Kula, che non sapeva nemmeno reggersi in sellasfiancando il cavallo.Ma poi pensò: «Non gli dirò niente di quel che ho visto e delle intenzioni di Koghjudej di uccidere mio marito. Anzi, è meglio che quello lo uccida, così io potrò sposare Koghjudej e tornare assieme a lui nella sua terra natale, dove potrò anch’io vedere finalmente la luce del sole abbandonando per sempre questo lugubre mondo sotterraneo».

Intanto Tastarakaj continuava a trotterellare in sella al suo ronzino

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su per i pietrosi sentieri montani, e vide profilarsi all’orizzonte una catena montagnosa, dalle vette brillanti sotto la luna. Oltre quei monti, luccicava un mare azzurro da far invidia allo stesso cielo. Là si trovava la terra dei sette saggi lama, che sapevano predire il futuro della gente, fino al momento estremo della loro morte. Per sentire il responso di quei sapienti lama accorrevano khan da tutte le parti e dalle diverse tribù.Il più autorevole fra di loroera il più anziano. Prima di recarsi dinanzi a quel saggio lama,Tastarakaj, con una scorza d’albero, intrecciò una borraccia,la riempì di vino che aromatizzò con i petali di settanta fiori diversi da offrire come dono.

Frusciavano gli arbusti di salici sotto la sgraziata pancia del ronzino, mentre ballonzolava appesa alla sella la borraccia di corteccia di betulla,

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ma ecco che alla fine Tastarakaj arrivò dinanzi alla luccicante porta d’oro44 della grande jurta, dove stavano ad attenderlo i sette lama. Nell’entrare il pezzente si inchinò fino a terra, a mo’ di rispetto dinanzi al lama anziano, quindi distribuì ai presenti il vino che aveva portato con sé. I lama, inebriati dal vino, vedendo il suo miserabile aspetto sghignazzarono ironici: «Sembra che tu abbia bevuto latte di cagna! Cosa ti ha spinto a venire sin quassù, e da dove vieni?»

«Vengo da un paese lontano, e non poche sono state le difficoltà che ho incontrato per potervi raggiungere. Ma grazie al mio fedele Tarbok, con il quale nessun cavallo al mondo può competere per forza e agilità, eccomi qui!Purtroppo questi son brutti tempi, i khan diventano sempre più feroci: è ciò che mi ha spinto a venire da voi per sentire il vostro sommo parere e per sapere come devo comportarmi in questa difficile situazione».

44 L’immagine evoca un tempio buddista il cui ingresso è una porta dorata.

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Nel sentirlo i lama scoppiarono a ridere e risposero in tono ironico: «Tu dici, miserabile pezzente, di essere un glorioso alyp, e che questo tuo scheletrico ronzino è il più forte cavallo del mondo? Ma smettila di scherzare! Come puoi aver attraversato le alte montagne dell’Altai, affidandoti alle esili gambe di questo cavallo tutto ossa e pelle?» I lama gialli, accorgendosi che ormai l’inebriante vino stava dominando la loro lingua, dissero in tono gentile:«Dai, su, resta da noi un paio di giorni, così avremo il tempo di darti una buona risposta. Purtroppo ora la nostra mente è annebbiata dal vino, proprio come le vivide braci pian piano si coprono di cenere». Allora Tastarakaj cercò di riempire le coppe dei lama più moderatamente, passando il tempo cantando allegre canzoni e bevendo solo acqua.

Ed ecco che,allo scadere dei due giorni, il lama anziano disse al pezzente:

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«Possiamo dire che qui da noi sono venuti tutti i khan della terra per chiederci come si fa a salvare l’anima.Tra questi c’era anche Kara-Kula. Solo che quell’infame invece di salvare l’anima l’ha definitivamente perduta e così si è messo a tormentare gli uomini, e a rompere la pace e la concordia che regnavano fra le genti!»

Intervenne il secondo lama, chiedendosi: «Ma dove sarà andata mai a finire l’anima di Kara-Kula?Lo sa solo lui dove si trova!»

Il terzo lama allora disse: «Anche se nessuno sa dov’è andata a finire l’anima di quel dannato, ben si conosce il male che egli sta facendo sulla terra. Lassù nel buio infinito stanno le lucenti stelle di Jac-Myjgak, le tre maral celesti.45

Una di queste serba nel ventre uno scrigno d’oro».

Qui intervenne il quarto, che disse: «E voi sapete cosa c’è dentro quello scrigno?

45 Così gli altaici chiamavano la costellazione d’Orione, le cui tre stelle allineate sono qui viste come tre cerve siberiane: le maral siberiane [Riccardo Bertani].

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Ci sono rinchiusi due piccoli sparvieri: uno è l’anima malvagia di Kara-Kula, mentre l’altro è l’anima belluina del suo feroce destriero».

Il quinto lama prese la parola e disse:«Ciò è vero, ma chi è colui che si azzarda a salire fin lassù, nei gelidi spazi siderali, per colpire le tre stelle della splendente Jac-Myjgak?»

Intervenne allora il sesto lama, dicendo: «Sicuramente si tratta di un’impresa impossibile. Ma esiste un alyp che dovrebbe riuscire a catturare il piccolo Andalba, il cucciolo di cervo, il mitico figlio delle tre maral celesti,che sta nella remota tajga.Quando si metterà a invocare l’aiuto delle sue tre madri celesti, le maral scenderanno subito dal cielo per salvare il loro adorato figlioletto. Appena toccheranno terra, il glorioso alyp potrà colpirle con una freccia per prendere loro

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lo scrigno d’oro dove stanno rinchiusi i due piccoli sparvieri. Catturati i due uccelli, il malefico Kara-Kula, senza anima, non avrà più via di scampo. Andalba, il piccolo maral, ora è nascosto alla confluenza dell’azzurro fiume, dove si ergeva la casa del vecchio Maaday-Kara, lui che guidava con bontà e saggezza il suo amato popolo».

Nel sentire ciò, l’anziano lama, scuotendo la canuta testa, disse: «Non so perché, quando sento nominare Kara-Kula il mio cuore si riempie di inquietudine. Che sarà?»

Ormai tutti i lama avevano espresso il loro parere e il vino aveva finito di scorrere nelle ciotole. Tastarakaj s’apprestò a partire mettendosi in sella al suo ronzino,e, nel salutare i lama, disse loro: «Addio, miei saggi di lama, e grazie per ciò che mi avete suggerito!»

Batté il ronzino con la verga di vimini, e quello partì veloce come una freccia,

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toccando con la criniera il cielo, mentre i suoi scalpitanti zoccoli, sfiorando le foreste, si lasciavano dietro un nugolo di polvere tanto da oscurare l’aria.Nel vederlo partire in tal modo i monaci andarono preoccupati a sfogliare di nuovo il libro delle lune,46 e lessero che il figlio del glorioso Maaday-Kara stava in quel momento dirigendosi verso la ridente e smeraldina terra natale dell’Altai. Visto ciò, i lama si dissero: «Koghjudej riuscirà sicuramente a liberare la sua amata terra e il suo popolo. Il feroce Kara-Kula è troppo stupidoper riuscire a batterlo».47

Mentre i lama erano intenti a fare pronostici sul destino di Koghjudej-Merghen, Tastarakaj si era tramutato in una potente aquila con quattro ali, e prese a volare veloce, superando le alte vette montane.

46 I lama tibetani sono famosi per i loro libri da consultare per conoscere il futuro.47 I lama sanno con certezza che la conoscenza supera ogni difficoltà.

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Nel frattempo il suo ronzino, tramutato in un lupo grigio della steppa, seguiva il volo dell’aquila sfrecciando per valli e tajghe segnate da azzurri laghi romiti. Così rapidi erano il volo dell’aquila e la corsa del lupo, che in soli sette giorni riuscirono a percorrere un cammino che sarebbe durato settant’anni.

Giunti finalmente nel luogo dove stava il piccolo Andalba, l’aquila e il lupo presero le sembianze di due cervi, entrarono nel folto dell’oscura tajga, e qui cominciarono a lanciare frementi bramiti di richiamo che riempivano la notte oscura. Il piccolo cucciolo Andalba stava nascosto nel folto della foresta e udendo quei frementi bramiti, pensò: «Chi sarà mai che lancia questi richiami, in questa notte quieta?» E, non resistendo, decise di uscire dal suo nascondiglio, per salire su una pietra e osservare da dove arrivavano

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quei forti lamenti. Ma, in un attimo, il piccolo si trovò imprigionato tra le ramose corna dei due cervi.

Allora il piccolo Andalba si mise a gridare spaventato: «Perché volete uccidermi? Cosa vi ho fatto di male per aggredirmi in questo modo?»

Allora Koghjudej riprese il suo vero aspetto e altrettanto fece il suo destriero.Rivolgendosi al trepidante Andalba disse: «Non temere, piccolo maral, io non ho nessuna intenzione di farti del male. Sono venuto qui solo per punire il feroce Kara-Kula di tutto il male che ha fatto al mio amato popolo, rubando mandrie e greggi e rendendolo schiavo insieme ai miei vecchi genitori. Il mio scopo è di venire a chiederti aiuto per vendicarmi del terribile Kara-Kula. Lassù, nel profondo cielo dove regnano eterne le tenebre, stanno le tre luccicanti maral della costellazione di Orione.

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Nel ventre di una di queste maral sta uno scrigno d’oro, con dentro due piccoli sparvieri: uno rappresenta l’anima malefica di Kara-Kula, mentre l’altro rappresenta l’anima del suo grifagno destriero. Solo che io non so distinguere chi sia l’uno o l’altro. Ciò che vale, però, è poter catturare quei due piccoli sparvieri, perché solo così si potrà debellare per sempre la nefasta opera di Kara-Kula e del suo malefico destriero. Tu potresti aiutarmi lamentandoti disperato, così le tre maral scenderanno subito dal cielo per accorrere in tuo aiuto».

Il piccolo cervo rispose: «Dato che le tue sono buone intenzioni è giusto che io ti aiuti. Quel sanguinario di Kara-Kulamerita veramente di essere punito. Così mentre io cerco di attirare l’attenzione delle tre celesti maral mettendomi a gridare disperato, tu andrai a nasconderti in quella folta foresta che sta sotto la montagna, e appena le maral

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metteranno piede sulla terra, colpiscile con la tua acuta freccia. E allora vedrai che sull’Altai tornerà finalmente a risplendere il sole della pace e della serenità!»

Penetrato nel folto della foresta,Koghjudej si fece un morbido giaciglio, ammucchiando tra i sassi del vellutato muschio strappato dalle cortecce degli alberi e lì rimase in attesa delle tre maral celesti. Per sette lunghi giorni e notti si udirono gli strazianti lamenti di Andalba, prima che le tre maralsi decidessero ad abbandonare la loro stellata sede celeste, per accorrere in aiuto del figlio.

Koghjudej, vedendo scendere nell’oscura notte quelle tre stelle cadenti, scoccò verso di loro una freccia che, come sibilante saetta, volò sulle foreste dell’Altai, illuminando, con la sua scia infuocata, le alte vette nevose col chiarore dell’aurora. La freccia andò a colpire direttamente il ventre del cervo femminae lo scrigno d’oro

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cadde a terra, mentre le tre maral fuggivano veloci verso lo spazio infinito del cielo.

Vedendo ciò, il prode Koghjudej gridò: «Perdonatemi. Io proprio non volevo farvi del male. Io ce l’ho solo con il feroce Kara-Kula per aver depredato la mia amata terra, e avere reso schiavo il mio libero popolo, che ora langue in terra straniera assieme ai miei amati genitori. Non è voi

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che voglio colpire, ma quel malefico tiranno di Kara-Kula!»

Qui, dalla buia immensità del cielo, si sentì una voce gridare: «La ragione sta dalla tua parte, prode Koghjudej. Perché il feroce Kara-Kula e il suo malefico destriero meritano di essere severamente puniti!»Quella era la voce della maral colpita al ventre dall’alyp, che continuò a dire: «Grazie glorioso Koghjudej, per avermi liberato di quel fardello pesante che mi opprimeva da tempo il ventre. Quindi ora che mi sento più libera e leggera, ti dico nuovamente grazie, augurandoti che la fortuna e la felicitàti siano sempre fedeli compagne per tutta la vita!»

Ormai le tre maral erano ritornate a splendere nella luminosa costellazione di Orionee Koghjudej, afferrato il possente scrigno d’oro, lo lanciò contro una dura pietra, tanto da mandarlo in frantumi,e due sparvieri ne uscirono fuori.Qui si udì un terribile rimbombo di tuono, che spaventò persino

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gli almysi, gli spiriti vampiridel buio mondo sotteraneo.

Ma ecco che Koghjudej si ricordò della nera pietra magica che teneva in tasca.Gettò la pietra dietro le spalle, e, come d’incanto, si levò sulla catena degli Altai una caligine tanto densa da oscurare l’argentea luna e le sfavillanti stelle. E allora l’alyp strappò due sottili raggi di sole e li lanciò come lacci contro i due sparvieri che, catturati, andarono a cadere ai piedi di Koghjudej.Avvolse i due uccelli nel suo largo fazzoletto e se li si mise in tasca assieme alla magica pietra nera. D’incanto sparì la fosca caligine e sulla catena dell’Altaitornarono a splendere una falcata luna e il radioso sole.

Allora l’alyp, in sella al suo fido destriero, riprese la sua veloce corsa

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verso la tenebrosa terra di Kara-Kula.Continuava a galoppare sul suo destriero, ma ecco che si fermò, perché trovò il sentiero sbarrato da una nera montagna. Koghjudej si disse: «Mi sembra di aver già visto questo luogo». E nel guardarsi intorno scorse che là svettavano un pioppo dalle tintinnanti foglie ferrigne, sotto il quale, dentro a un robusto recinto di ferro, mugghiavano pezzate mandrie e belavano bianche greggi, mentre dietro alle sbarre di tetre prigioni si intravedevano uomini gementi che trascinavano pesanti catene.

Intanto il feroce Kara-Kula se ne stava tornando dalla caccia, in sella al suo bel destriero, che appariva sfiancato.48 A dire la verità, anche Kara-Kula era smagrito e molto invecchiato, tanto che, appena arrivato al suo palazzo,

48 Senza l’energia dell’anima, il corpo perde ogni sua forza.

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s’accasciò esausto, dicendo alla moglie: «Mi sento molto debole e di certo ora non sono in grado di combattere. Quale sarà il malanno che mi ha colpito?» Allora Kara-Taadi, la sua perfida moglie, figlia prediletta del padrone dell’eterno regno delle tenebre, consultò il magico libro della luna, dove stava chiaramente scritto che la fine di Kara-Kula era segnata. Tale nefasto responso rallegrò la maligna Kara-Taadi, perché questo significava che poteva sposarsi con Koghjudej e, quindi, vedere finalmente la luce del sole.

In quel momento Koghjudejstava rotolandosi per terra per prendere di nuovo le sembianze di Tastarakaj e così fece il suo focoso destriero per tramutarsi nello scheletrico Tarbok. I due si rimisero in viaggio e, mentre il ronzino trottava dinoccolato verso la rugginosa montagna, il pezzente si mise a cantare le melodiose nenie della sua patria.

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Nell’udire quel soave canto il cuore dei vecchi deportati si riempiva di nostalgie e di speranza.

Da parte sua Kara-Kula, udendo quella dolce nenia, sbottò adirato:«Se è vero che la mente di uno stupido vale quanto il latte di cagna, uno sciocco è di certo anche colui che vien cantando allegramente mentre io sto male. Cacciate subito via quel mentecatto!»E, scoppiando di rabbia, chiese alla perfida moglie: «è vero che nel tuo oscuro paese c’è uno sciamano di nome Tordoor che, eseguendo il rituale del fuoco, è capace di guarire tutte le malattie? Voglio consultarlo, per vedere se riesce a guarirmi da questo insopportabile malanno!»49

Tastarakaj, intanto, in sella al suo scheletrico ronzino, arrivò alla tenda dove stavano prigionieri i suoi genitori. Nel vederlo, il vecchio padre, abbracciandolo teneramente, gli disse:

49 Gli sciamani sono anche i guaritori più potenti.

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«Ma perché, figlio mio, sei voluto tornare in questo maledetto paese? Perché vuoi rovinare la tua giovane vita, affrontando il feroce e invincibile Kara-Kula?Tu sei il nostro unico figlio, se manchi chi penserà alla nostra vecchiaia?»

Intanto la vecchia madre,nel porgere al figlio una fumante ciotola di grasso dorato, gli disse tristemente, con gli occhi colmi di lacrime: «Questa è l’ultima volta che ti porgo da mangiare…»

Appena sorse l’alba Kara-Kula mandò a prendere, nel tenebroso regno di Erlik,Tordoor, il nero sciamano che sapeva trarre auspici dal fuoco e già nell’oscurarsi della sera lo sciamano, con il suo magico tamburello a tracolla si trovava davanti a Kara-Kula.

La prima cosa che fece fu serrare la porta d’entrata, e quindi chiuse il buco per l’uscita del fumoche stava alla sommità della jurta.

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Poi, battendo freneticamente sul tamburello, si mise a danzare attorno al focolare acceso.50

Tastarakaj si rotolò per terra ed ecco che d’incanto prese le sembianze di un topolino grigio, con lo scopo di penetrare inosservato dentro la jurta di Kara-Kula.Là dentro, lo sciamano Tordoor, latrando come un cane e mugghiando come un toro, stava danzando freneticamente attorno al fuoco, quando d’un tratto, tutto ansante e sudato, si fermò di colpo dinanzi a Kara-Kula, chiedendogli:51 «Dimmi, khan: dopo che hai devastato la ricca terra di Maaday-Karain che stato ora si trova?»«è una terra deserta, non si trova più nemmeno un esile filo d’erba».

Allora lo sciamano Tordoor, latrando come una belva ferita, continuò a danzare

50 è un antico rituale sciamanico legato al culto del fuoco [Riccardo Bertani].51 è la descrizione di una trance sciamanica, uno stato di coscienza che consente allo

sciamano di entrare in altre dimensioni.

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attorno al fuoco, poi, fermandosi di nuovo davanti al khan, disse con occhi spiritati: «Ho visto in trance che, tempo fa, nell’ail di Maaday-Karaè nato un piccolo aquilotto, che è poi cresciuto tra i rocciosi monti, nutrito da una betulla. Quell’aquilotto ora è diventato un prode alyp chiamato Koghjudej-Merghen. è stato lui a uccidere e mangiare il tuo toro nero. Ora sta venendo qui con l’intento di vendicare i tanti torti che tu hai fatto subire ai suoi genitori e al loro amato popolo. Per questo è andato dai saggi lama gialli, per chiedere loro dove sta nascosta la tua nera anima.Sotto forma di un piccolo sparviero,stava nascosta in uno scrigno d’oro che si trovava nel ventre di una maral celeste.Ora Koghjudej è riuscito a catturare lo sparviero, e questa è la ragione della tua malattia.

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Con le tue porcherie e nefandezze hai fatto traboccare il vaso, quindi ora, per rimediare al malfatto, non ti resta che liberare i genitori dell’alyp,affinché possano tornare,assieme al loro amato popolo, a vivere liberi e felici.Solo agendo in tal modo potrai avere la clemenza del prode Koghjudej!»52

Nel sentire l’amaro responsodel nero sciamano, Kara-Kula si mise a piangere disperatamente.

Allora Koghjudej cambiò il suo aspetto di topolino per prendere le sembianze di un grosso orso e si lanciò sullo sciamano gridando: «Tordoor, tu che sai tutto del passato e del futuro, prova a difenderti, se ne sei capace!»

Lo sciamano tentò di fuggire, ma l’orso svelto gli sferrò una violenta zampata, tanto da scaraventare il nero Tordoor in una profonda voragine che s’apriva tra i monti e con lui finirono

52 Tutti si possono redimere. Occorre pentirsi e cambiare vita.

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anche il tamburello e il suo fumante campanello rituale.

Koghjudejsi rigirò per terra, e tornò a essere il prode alyp e così fece anche il ronzinotrasformandosi nel suo focoso destriero.

Il luminoso viso dell’alyp splendeva quanto il solee la sua spaziosa fronte era candida come la neve immacolata delle vette, mentre il suo naso era dritto come superbo picco montano.Lo sguardo era fermo e fiammeggiante tanto da intimorire chiunque, mentre la sua voce era forte e potente come il tuono che fa fremere la terra.

Intanto Kara-Kula, disperato,guardò fuori dalla jurta e si accorse della presenza di uno strano destrierocon una superba testa che si ergeva alta, tanto da tagliare con le orecchie le azzurre nubi in cielo.I finimenti del destriero erano di fattura antica, dorati,

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con pettorali e briglie finemente arabescate, la gualdrappa era bianca e brillava come neve al sole.

Koghjudej, il prode alyp,allora si fece avanti e gridò minaccioso: «Vieni fuori, maledetto. Ora basta con le ruberie del bestiame e con le avvilenti condizioni di schiavitù in cui tieni il mio amato popolo.Basta con gli umilianti oltraggi ai miei poveri genitori! Ormai la storia è finita! Su, esci, vigliacco! O forse non hai il coraggio di farti vedere?»

Kara-Kula si mise a ruggire come una belva feritae urlò: «Credi forse di spaventarmiperché mi vedi debole e malato? Fatti pure avanti, così vedremo dove andrà a finire tutta la tua boria!»Il malefico khan, indossata la sua pesante armatura di cuoio, prese il suo enorme arco, nero come la notte più profonda,e si fece avanti minaccioso, gridando: «Ho bevuto secchi di caldo sangue umano, e mangiato una montagna di carne, appartenente a giovani e vecchi, ed ecco giunto il momento di poter finalmente bere il tuo sangue

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e mangiare la tua carne. è giunta la tua fine!»

L’ardito Koghjudej allora gli rispose: «Dunque è proprio vero, come dicono i saggi vecchi: chi è lesto di parole è lento di cervello! Hai fame, ti darò allora da mangiare i due sparvieri che tengo in tasca».

L’alyp prese dalla tasca lo sparviero che rappresentava l’anima del destriero di Kara-Kula e lo uccise. Subito il cavallocadde a terra fulminato. «Adesso tocca a te fare la stessa fine!» disse l’alyp, cercando di togliere dalla tasca l’altro sparviero,ma Kara-Kula gli saltò addosso come un toro infuriato.

Terribile fu la lotta tra due giganti scatenati, tremava la terra sotto i loro piedi, al loro lottare le foreste venivano divelte, mentre le loro selvagge grida arrivavano fino al cielo.Continuò la furiosa contesa, durante l’alternarsi dei chiari giorni e le buie notti, ma l’esito della vittoria

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rimaneva sempre incerto. Ormai un’oscura nube di polvere copriva tutta la terra, da sette giorni durava la selvaggia e incerta lotta, quando Kara-Kulariuscì a colpire con la sua colossale clava l’alyp, proprio sulla bianca fronte.Koghjudej, accusando il colpo, barcollò e subito ne approfittò Kara-Kulaper togliergli lo sparviero che teneva in tasca, ma, nella fretta di prendere l’uccello che rappresentava la sua anima,il balordo lo schiacciò.

Kara-Kula, rimasto senz’anima, piombò a terra rantolante come una belva ferita a morte, e gridò: «Ormai sono perduto! Miei spiriti protettori potete salvarmi?»

Ma il suo grido sfuggì alle perfide orecchie del demoniaco Erlik,mentre fu udito dal sommo Ul’ghen,la divinità celeste.

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Tremò tutta la terra, ondeggiarono le montagne, quindi un terribile urlo andò a disperdersi nell’infinita profondità del cielo. Ma quel grido inumano sprofondò pure nel buio mondo sotterraneo, è spaventò i neri spiriti di laggiù. Il popolo prigioniero dell’Altai,udendo quell’agghiacciante urlo esultò gridando: «Finalmente Koghjudej-Merghenè riuscito a uccidere l’odioso Kara-Kula. Così ora siamo liberi di tornarenel nostro paese natale, assieme alle nostre mandrie e alle bianche greggi!»

Gli anziani capi tribù chiesero al prode alyp: «E ora che ne facciamo delle nere mandrie di Kara-Kula?Riuscirà la nostra terra, devastata da quel demonio, a ritornare fertile come prima?»

Il prode e saggio Koghjudej-Merghen, rispose loro: «La terra di per sé non è mai sterile, sono gli uomini inetti a renderla tale. Quindi sono convinto che con il vostro tenace lavoro la nostra terra fiorirà di nuovo,

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e le nostre mandrie e bianche greggi torneranno feconde e potranno bere nella limpida corrente dei fiumi montani.Invece le mandrie nere come il carbone di Kara-Kula, cacciatele nel buio mondo sotterraneo di Erlik, che là regna sovrano,affinché quegli orrendi esseri, figli dell’eterne tenebre, mai più vengano a torturare le ridenti terre dell’Altai».

Ma ecco apparire la perfidamoglie di Kara-Kula, con i suoi scricchiolanti stivali di corteccia di betullae i tintinnanti orecchini di rame. La perfida sciamanasi avvicinò a Koghjudej, e gli disse in tono lamentoso: «Adesso che hai ucciso Kara-Kula, che ne sarà di me, povera vedova? Lo sai che io vengodall’oscuro mondo sotterraneo e mi piacerebbe tanto conoscere le terre baciate dal luminoso sole, dall’argentea luna e non tornare più laggiù, nell’oscuro mondo di mio padre!Non sono stata io a uccidere il tuo bestiame e a torturare la tua gente,ma mio marito Kara-Kula.

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Io non ne ho proprio colpa, e quel che desidero è solodiventare tua moglie, mio glorioso Koghjudej-Merghen!»

Nell’udire tale sfacciata proposta, l’alyp, adirato,le gridò: «Vattene, maledetta, prenditi le tue nere mandrie,e tornatene nel tuo tenebroso paese, là dove è sprofondata anche l’anima impura del tuo feroce marito! Non venire qui a inquinare,con il tuo fetido respiro, l’aria pura dei nostri monti e la limpida acqua dei nostri fiumi montani!»

Profondamente offesa da quelle ardenti parole, la perfida figlia di Erlik sbottò come una serpe velenosa:53

«Ah, quindi non vuoi saperne di me, vero? Vedrai che ciò ti costerà più caro di quel che pensi! Perché ti ostacolerò in ogni cosa che farai e ricordati che, se anche non mi vuoi, verrai tu a cercarmi nel mio oscuro mondo sotterraneo!»

La nera sciamanatrasformò il suo bestiame

53 Il male cerca sempra sempre la vendetta.

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in piccoli granelli di sabbia che pose dentro alla sua bisaccia, poi partì gridando all’alyp:«Non ti rallegrare Koghjudej, perché non passeranno sette giorni e sarai tu a venirmi a trovare laggiù,nel mio mondo sotterraneo!» Dopo aver lanciato l’oscura minaccia, la nera sciamana scese nelle viscere della terra, dove il rumore dei suoi passi finì per scomparire nel nulla.

Il prode Koghjudej-Merghen disse al suo saggio padre, Maaday-Kara:«Ora potremo finalmente tornare nel nostro argenteo Altai, e riprendere la nostra vita libera e serenadi pastori nomadi,lassù fra gli eterni monti, dove scorrono rapidi fiumi,dalle acque pure e azzurrecome l’alta volta del cielo.Le nostre mandrie e le bianche greggipascoleranno l’erba rigogliosa donandoci ricchezza e prosperità.Io intanto andrò a ricostruire la jurta dove un giorno sono nato e là starò ad aspettare il vostro ritorno».

Nel salutare la gente osannante, gridò: «Ora siete liberi! Potete ritornare sicuri nella vostra terra natale, che non ha uguali al mondo».

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Detto ciò Koghjudej-Merghenspronò il suo destriero, dirigendosi verso le dorate vette dell’Altai.Il suo viso era radioso e sereno, come il cielo dopo una sconvolgente tempesta.Ora il popolo del saggio Maaday-Karapoteva finalmente tornare a condurre la sua vita pacifica e serena di pastori nomadi, lassù, nell’ineguagliabile, pietroso, argenteo Altai!

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Canto terzo

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Il terribile toro nero cavalcato dalla sciamana, di Alfonso Borghi.

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Galoppa veloce il possente destrierodel glorioso alyp, lasciandosi alle spallele terre dell’oscuro paese,sfiorando con gli scalpitanti zoccoli le cime delle foreste,mentre la sua bianca fluente criniera si confonde con i lanosi cirri in cielo.Al suo irruento passaggio l’erba si incurvacome scossa da un vento impetuoso.

Da quattro giorni ormai durava l’impetuosa corsa,venti azzurri laghi, quaranta inaccessibili vette, cinquanta orribili dirupie sessanta sterminate pianure quell’irruente destriero aveva superato, quando a un tratto si sentì terribilmente stanco.Incespicava e i suoi zoccoli si staccavano a fatica da terra,era stranamente dimagrito,si contavano le sue costole e i suoi poderosi fianchi apparivano flosci

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come un secchio di corteccia di betulla.Gli occhi erano cisposi come se nelle sue orbite gli uccelli avessero costruito un nido.Si adirò Koghjudej,che gridò stizzito: «Cos’hai, maledetto, da non riuscire nemmeno a muovere le gambe?E sì che fino a poco tempo fagaloppavi pieno di vigore!»

L’alyp prese a picchiare il destriero sulla testa e sui fianchi con la sua frusta dal manico d’oro, arrabbiato come non mai. E proprio in quel momento scorse una mandria di sauri intenti a pascolare tranquillamente, ma, quando lo videro avvicinarsi,fuggirono veloci come il vento su per le erte montagne.

Koghjudej pensò: «Se io, invece di questo brocco,mi prendessi uno di questi cavalli,sicuramente andrei più veloce!»54 Si rotolò per terra e in un attimo apparve un laccio lungo e tortuoso come un fiume montano, mentre attorno calò una fitta nebbia scura come una notte tempestosa. In quella caliginosa foschia i sauri si smarrironoe l’alyp ne approfittò per catturare il migliore.Il cavallo si divincolava e scalciava,

54 Anche un alyp, seguendo il desiderio, rinnega la sua guida, dimentica il suo ideale.

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ma Koghjudej riuscì ugualmente a mettergli la bianca gualdrappa,la briglia e i finimenti.

L’alyp scacciò con la frustail suo ormai inutile destriero.Ma poi, vedendo il suo sguardo triste,fu preso da un profondo rimorsoe disse fra sé e sé: «Dopotutto, il mio povero destriero non meritava un simile trattamento.Quante volte mi ha salvato in situazioni difficili!Ma che devo fare, sento qualcosa in me che mi costringe a scacciarlo brutalmente».Spronò il nuovo cavallo, che partì veloce come una saettante freccia, verso il punto dove il fiume si gettava in un azzurro lagoche specchiava la rosa catena dell’Altai.Ma Koghjudej si sentì precipitare in una profonda voragine, perse i sensi e quando si riebbe si accorse di trovarsi in un luogo oscurodove non brillavano né il sole, né la luna, né le stelle.Capì subito di essere precipitato nel buio mondo sotterraneo del perfido Erlik.

Il cavallo era misteriosamente scomparso e Koghjudej si trovò steso sulla bianca gualdrappa con le armi al fiancoe la testa appoggiata alla sella che faceva da cuscino.

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L’alyp era stato proprio uno stolto, a cadere così scioccamente nelle grinfie delle forze del male.

Ma ecco apparire Kara-Taadi,la perfida figlia di Erlik,con al petto la fascia sciamanica.Con voce stridula e ghigno sarcastico chiese all’alyp: «Cosa ti ha spinto a venire quaggiù?Forse non hai trovato lassù quella buona moglie che cercavi?Dove hai lasciato il tuo fido destriero che non vedo vicino a te?»Si guardò attorno Koghjudeje non vide alcun cavallo,e subito capì che aveva scambiato la mandria degli scalpitanti sauri con le gialle serpi e i velenosi rospi che gli stavano strisciando e saltellando attorno.Era stato un magico inganno ad attirarloin quel buio malefico mondo!Intanto la nera sciamana continuava a dirgli: «So che vuoi tornartene lassù, nel mondo della luce, ma io non te lo permetterò perché brucerò il tuo corpo, salvando solo l’anima, che farò eternamente mia».

La perfida sciamana mise a guardia dell’alypdue giganti armati di spada e d’arco. Quando giunse la buia notte i due guardiani, vedendo splendere il radioso viso di Koghjudej, dissero: «Quanto è bello questo giovane venuto dal soleggiato Altai!

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Peccato che sia cadutonel buio mondo di quaggiù».

Ma proprio in quel momentoscoccò in cielo un vivido lampo seguito da una folata di vento e apparve un’enorme aquila con quattro ali.Andò a posarsi su un’alta rupee piombando dall’alto ghermì l’alyp con i suoi potenti rostri per portarlo via assieme ai finimenti del suo vecchio destriero. I due guardiani rimasero attoniti,ma la nera sciamana, vedendosi sfuggire l’alyp, si rivolse inviperita ai due giganti gridando loro: «Cosa state a fare qui, buoni a nulla! Colpite con le frecce quell’uccellaccioprima che riesca ad andarsene da qui!»

Allora uno dei giganti scagliò la sua saettante freccia,che andò a colpire l’aquila quando ormai era alla fine della sua parabola lasciando l’uccello illeso. L’altro gigante scagliò a sua volta un’acuta freccia avvelenata, ma questa, dopo aver sfiorato la coda dell’aquila, si perse, sibilando, nel vuoto. Visto vano ogni tentativodi colpire Koghjudej,la sciamana smise di inveire e infuriarsi contro di lui giurando di fare presto un’atroce vendetta.

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Intanto l’aquila dalle quattro possenti ali andò a posarsi fra i ridenti monti dell’Altai,là dove zampillava l’Arzan,la magica sorgente dalla prodigiosa acqua,che correva giù a valleper andare a sfociare in nove rotondi laghi.Nei primi tre, si tramutava in bianco latte, negli altri tre diventava subito ghiaccio e, nei tre rimanenti,si metteva immediatamente a ribollire. La possente aquila dalle quattro larghe ali immerse l’alyp, uno dopo l’altro, nei nove laghi.55 E a Koghjudej, come d’incanto,tornarono a brillare gli occhi,il suo respiro si fece regolare,le sue ossa e i muscoli tornaronosaldi e vigorosi come prima. L’aquila andò a deporre il prode eroein una verde vallata e qui, come d’incanto, si trasformò nel suo destrierodal manto grigio scuro e dalla fluente bianca criniera e, rivolgendosi a Koghjudej, disse:«Tu, malgrado il mio statodi profonda debolezza, non hai esitato a scambiarmi con un giovane sauro.Io ti sono sempre rimasto fedele, padrone mio! Si vede che in quel momento avevi il cervello coperto di cenere».56

Koghjudej cercò di discolparsi: «Devi perdonarmi, ma il mio pensieroera caduto sotto il malefico influsso

55 L’acqua vivifica e l’alyp prova il potere della sauna, popolare fa i popoli del nord! [Riccardo Bertani].

56 Il fido destriero è maestro dell’alyp stesso. Madre Terra e i suoi esseri non tradiscono mai l’uomo!

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della perfida Kara-Taadi.Ma vedrai che presto verrà il momento in cui farò pagare a quella maledetta tutto ciò che mi ha fatto».

L’alyp rimise i finimenti al suo fido destrieroe lo lanciò al galoppo verso la ridente terra dell’Altai dove erano tornati a vivere, liberi e felici,i suoi genitori, assieme al loro amato popolo. Ovunque si allestivano festosi banchetti,con montagne di carne, coppe colme di araka,straripanti come i fiumi al tempo del disgelo. Persino i poveri cani randagi scodinzolavano felici nel sentirsi finalmente sazi.Dalla valle di Osghylyk a quella di Kusghylyksi udivano i giovani innamorati cantare dolci canzoni d’amorealle fanciulle dalle gote vellutate come seta.A tale vista, il cuore di Koghjudejardeva e gioiva come un radioso giorno di sole. Al suo arrivo la gente corse a festeggiare il glorioso liberatore e mentre gli anziani legavano il fido destriero dell’alyp al palo d’oro al centro del villaggio,il giovane andò ad abbracciare i vecchi genitoriche l’attendevano ansiosi nella loro jurta.

Maaday-Kara e Altyn-Targastavano accovacciati su un candido tappeto e Koghjudej si sedette dinanzi a loro su una vellutata stuoia,azzurra come la tajga.Ma ecco che Koghjudejdiventò improvvisamente triste e disse:«Come gli animali per vivere

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hanno bisogno della loro pelliccia, così l’esistenza dell’uomo non ha scopo senza avere al fianco una dolce compagna.Che vale vivere quando uno si sente disperatamente solo? Quindi, mio saggio padre, mi sai indicare una fanciulla che possa esaudire il mio desiderio?»Maaday-Kara rimase un attimo pensieroso, poi disse: «Sì, figliolo,affrontare la vita da solinon è certo cosa facile e bella,però non è nemmeno facile trovare una moglie come tu vuoi,perché se ti indicassi una che già conoscil’avresti già scoperta da solo. Viceversa, se t’indicassi una fanciulla che non conoscipotrebbe non piacerti. Conosco però una fanciulla di stupenda bellezza che non trova pari al mondo:si tratta della figlia del grande Aj-Kaan e si chiama Altyn-Kjuskyn.Abita in un remoto paese ai confini del mondo,dove il giorno si congiunge con la notte.La fanciulla è così bella che si direbbefiglia dell’argentea luna e dello splendente sole. Ma la strada per arrivare laggiù in quel lontano remoto paese è lunga e difficile.Dovrai valicare centinaia di catene montuose e attraversare altrettanti fiumi impetuosi e in più dovrai superare molte difficili prove».

Udendo dell’esistenza di quella meravigliosa fanciulla Koghjudej, smanioso, decise subito di partire dicendo al padre: «Sappiamo che per ogni essere, sia esso un uomo o un cavallo,

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giunge, inesorabilmente, il momento della fine. Quindi voglio andare a trovare quella fanciulla, anche rischiando la vita, perché penso sia meglioraggiungere il proprio ideale che vivere da codardo,deriso dalla gente».

Preso dal fuoco ardente della passione,che non conosce ostacoli, il prode alyp disse al suo fido destriero:«Caro mio compagno di tante avventure,ora ci aspetta un’altra dura prova:andare a trovare la fanciulla dei miei sogni, in un remoto paese ai limiti del mondo».Koghjudej prese l’acuminata lancia,la tagliente spada, l’arco e le saettanti frecce,balzò in sella al suo fido cavalloe partì verso l’ignoto destino.

L’alyp correva in sella al suo destriero e il suo sensibile udito57 era così fine da percepire il silenzioso crescere dell’erba e lo spandersi delle radici sotto terra.Ma ecco che, portato sulle lievi ali del vento,gli giunse alle orecchie il rumore di cigolanti carri. Quei carri appartenevano a Kuvakayu,il crapulone figlio di Erlik,anche lui stava recandosi dalla bella Altyn-Kjuskyn.Con lui viaggiava Kara-Taadi, la sua perfida sorella, la sciamana nera.I loro carri erano carichi di gioielli d’oro e d’argento e di otri colmi di araka, nera come la pece. I due infidi fratelli volevano ammaliarecon quei preziosi regali la stupenda Altyn-Kjuskyne ubriacarne con l’alcool il padre perché concedesse al crapulone la figlia in sposa.

57 Un maestro sa ascoltare la voce più nascosta della natura.

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Koghjudej disse stizzito:«Ecco che quella maledetta sciamana neraviene di nuovo a intralciarmi il cammino!» Ma proprio in quel momento,apparvero dinanzi al prode alyp sei giovani:parevano scolpiti nella roccia,e assomigliavano perfettamante a lui.Anche i loro cavalli erano identici al suo destriero dalla fluente bianca criniera. Incuriosito da quella perfetta somiglianza58

Koghjudej chiese a quei baldi giovani:«Perché mi somigliate tanto e siete venuti a trovarmi?»Risposero in coro: «Koghjudej, siamo qua perché tu sei quel glorioso alypche è riuscito a battere il feroce Kara-Kulae a liberare le tribù dall’oppressione. Quindi il grande spirito dell’Altaiha mandato noi in tuo aiuto ogni qualvolta ne hai bisogno».Detto ciò i giovani si unirono al prode alyp e insieme ripresero il lungo cammino.

Giunto in quel remoto paeseper conquistare la mano della sposa, con coraggio e abilità, l’alyp sbaragliò ogni avversarioaffrontando numerose prove,ma il padre della bella Altyn-Kjuskynalzava sempre la posta. Eccolo annunciare ai pretendentiuna nuova, difficile sfida: «Là, in mezzo a quella steppa c’è una rupe sulla quale ho posto un ago e uno splendente bottone d’oro.

58 I maestri conoscono il segreto della bilocazione: cioè possono essere contemporanea-mente in posti diversi. L’alyp si moltiplica per sette!

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Chi di voi riuscirà a colpire con una freccia quell’ago e il bottone d’oro avrà diritto a prendere mia figlia in sposa».Tutti i pretendentisi misero a scagliare frecce contro quella lontana rupe nera,ma nessuno riuscì a colpirla.Ci provò anche quel crapulone di Kuvakayu,ma la sua possente freccia, sbagliando bersaglio, andò a perdersi tra gli anfratti dei monti. Si fece avanti il glorioso Koghjudej, imbracciò il suo arco dalle cento tacche,lanciò la sua alata freccia che, sibilando sulle frementi foreste, con una fiammante scia,disegnò in cielo una precoce alba e andò diritta a colpire l’ago e il bottone d’orosulla lontana rupe nera.59

Tutti gridavano meravigliati e la gente dell’accampamento accorse a osannare Koghjudejper l’immensa forza dimostrata. Ma la perfida figlia di Erlikcominciò a lamentarsi con il padre della sposa:«Che vantaggio abbiamo ottenuto con tutti i nostri doni?Tutta questa gentaglia ha bevuto e mangiatoquello che abbiamo portato,ed ecco che tu, Aj-Kaan, per riconoscenza destini vigliaccamente tua figlia a uno qualunque!»Si fece avanti il prode Koghjudej,disonorato dall’inviperita sciamana nera:

59 Il mito di Krishna, il sommo arciere, divinità dell’olimpo induista, colora d’Oriente il Maaday nordico.

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«Da parte mia», esclamò adirato, «io non ho mangiato i vostri cibi né bevuto la vostra infima araka.E mi sono guadagnato la mano della bella Altyn-Kjuskynsuperando le prove meglio degli altri pretendenti.Quindi è inutile che tu stia qui a strillare come un grillo. Torna al maledetto paese da dove sei venuta!»Tintinnando gli orecchini in ramee sbavando fiele dalle labbra,la sciamana nera sibilò fra i denti:«Mi pagherai cara questa offesa.Ti stanerò, ovunque andrai,anche nella più folta selva, e per vendicarmi rapirò i tuoi genitori e li ucciderò.Per trovarli, ti toccherà scendere nel buio mondo sotterraneo e io allora sarò lì ad attenderti». Detto ciò, la perfida figlia di Erliksprofondò nelle profonde viscere della terralasciando nell’aria un nero, tossico fumo.

Sparito l’influsso malefico della nera sciamana apparve la stupenda figlia di Aj-Kaan:il suo viso splendeva radioso come il sole mentre i suoi stupendi occhi brillavano come stelle in cielo. Le sue guance arrossate facevano invidia all’iridescente sorgere dell’alba,mentre le sue lunghe trecce nere le cadevano fino ai piedi.La fanciulla indossava un vestitoche brillava come fosse costellatoda miriadi di diamanti, mentre i bottoni d’oro lampeggiavano come fiamma. Mai Koghjudej aveva visto una fanciulla così stupenda

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e disse teneramente a quello splendore: «Ho superato tutte le prove,ho battuto tutti i contendenti per averti sposa:vuoi tu avermi come marito?»60

La stupenda fanciullarispose con voce soave:«Ognuno di noi ha segnato il proprio destino.Così come lo zibellino, sin dalla nascita,deve essere agile e ogni animale,per ripararsi dal freddo,ha bisogno di una folta pelliccia,l’uomo, a sua volta, per vivere, ha bisogno di una donna accanto e quella donna per te sono io».I due giovani, al colmo della felicità,balzarono in sella ai loro focosi destrieri e partirono veloci come frecce, coprendo in sette giorni lo spazio di dieci anni.

60 Il vincitore, che potrebbe esigere la sposa, chiede alla donna il suo consenso. Il Maaday è il manifesto dei diritti della donna, da secoli!

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Arrivati in vista del suo paese natale,Koghjudej mostrò alla sua incantevole compagna la stupenda bellezza dell’Altai.La quieti valli apparivano costellate di candidi fiori,mentre sulle acque cristalline di serpeggianti fiumisi specchiavano, nitide, le sagome massicce dei monti.E là, sotto il sereno cielo assolato,svettava il gigantesco Baj Terek, il pioppo dalla dura corteccia ferrosa,mentre le sue foglie argentee cantavano un inno al sole.In quelle ridenti valli, pastori floridi e felici badavano a bianche pecore, infinite come fiocchi di neve. E anche i lupi apparivano satolli con la loro coda stesa.La gente e gli armenti non avevano più nulla da temere,tutti vivevano tranquilli e felici.La gente festosa era accorsa all’arrivo dei due giovanie primi tra questi i vecchi genitori di Koghjudej.Dopo averli teneramente abbracciati, egli presentò loro Altyn-Kjuskyn, dicendo: «Dopo avere sostenuto aspre lotte e vinte tante proveper meritarmi la moglie che desideravo, eccola qui».Allora per i due sposi si organizzò un grande banchetto nuziale, con montagne di grasso, fiumi spumeggianti di araka.La gente cantava spensieratae i bambini giocavano felici sull’erba di velluto.Le fanciulle danzavano leggerecome alito di vento e nell’assolata valle accorrevano frotte di giovani,attirati dalla loro splendida bellezza.Terminato il lungo, festoso, convivio, Koghjudej costruì una jurta tutta d’oroe vi andò ad abitare con Altyn-Kjuskyn,la giovane e bella moglie.

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Canto quarto

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La vittoria del bene, di Alfonso Borghi.

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Per i due giovani sposi il tempo trascorreva felice etranquillo, quando un giorno Koghjudej, passando accanto al gigantesco pioppo Baj Terek, si accorse che due delle sue foglieerano stranamente inclinate verso Occidente. E si chiese:«Che segnale sarà mai questo?»L’alyp andò subito a consultare il libro del destino e vide che Kara-Taadi, la perfida figlia di Erlik, stava velocemente arrivando verso la casa di Maaday-Kara.

Koghjudej corse subito alla jurta dei due genitori, ma quando arrivòerano già stati uccisi.

Provò a riscaldare i corpi dei due poveri vecchi,esponendoli ai caldi raggi del sole, ma sia Maaday-Kara che Altyn-Targa rimasero freddi come il ghiaccio.

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Scoppiò allora Koghjudej in un disperato pianto e così fece la bella Altyn-Kjuskyn quando seppe del truce fatto.Solo calde lacrime per sette giorni, poi Koghjudej disse:«è inutile stare qui a piangere, nello scorrere del tempo tutto ha fine.Questa volta, purtroppo, è toccato ai miei amati genitori lasciare la vita terrena!»

Detto ciò, alla presenza dei capi tribù, si mise a costruire una solida jurta di pietra,61 dove adagiòi corpi inanimati di Maaday-Kara e di Altyn-Targa, i suoi indimenticabili, vecchi, amati genitori.

Per settanta notti Koghjudej vegliò sul sepolcro, ma ecco che una notte fu preso da una profonda sonnolenza e gli parve di veder uscire dalle tenebre Kara-Taadi, la sciamana nera,la perfida figlia del maligno Erlik, che, avvicinandosi all’alyp, disse: «Mio padre vuole che io ti porti da lui, perché vuole punirti per tutti gli affronti che mi hai fatto!»

61 Si tratta sicuramente della costruzione di un sepolcro che un tempo veniva riempito con oggetti d’oro e di argento, spesso profanato dai ladri [Riccardo Bertani].

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Si scosse Koghjudej dal suo torpore e si accorse che quella visione non era un sogno: la sciamana era proprio davanti a lui.

Balzò in piedi e, per nulla intimorito da quella spettrale figura, gridò: «Ah, maledetta, questa volta non avrai il tempo per uccidere anche me e la mia cara moglie. Vai tu dal tuo buon padre!» L’intrepido alyp prese con le sue mani d’acciaio la nera sciamana e, legatala a quattro grossi pali, cominciò a batterla con un ramo di vimini, spellandole la schiena, tanto da scoprire le costole.

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La perfida sciamana sotto quegli inesorabili colpi si contorceva e sibilava come una nera serpe velenosa, e, con la bava alla bocca, riuscì a dire:«Ho fatto male ad aizzarti contro quell’inetto di mio maritoe a uccidere i tuoi genitori. Non pensavo che un giorno questo mi sarebbe costato la vita!» Ciò detto, Kara-Taadi dette gli ultimi rantoli e la sua nera anima svanì per sempre in un volo senza ritorno, negli spazi infiniti del tempo.

Scomparsa la nera sciamana, il prode Koghjudejbalzò in sella al suo focoso destriero e galoppò veloce verso il buio mondo sotterraneo di Erlik.62 Sfrecciando come un fulmine, arrivò nello spazio di un attimoin quel tenebroso mondo, mai lambito dai ridenti raggi del sole.

Avanzando in quel paese d’ombra,Koghjudej scorse a un tratto un cavallo appeso a testa in giù a un ramo di un alto pioppo. Il povero cavallo appariva tutto lordo di sterco e coperto da schifosi insetti. Qui l’alyp, chiese al suo saggio Argamak:63 «Cosa ha fatto quel povero cavallo

62 Il male va sconfitto alla radice.63 In questo viaggio sotterraneo il destriero viene chiamato Argamak, nome di un cavallo

alato presente in molte fiabe siberiane [Riccardo Bertani].

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per essere punito quel modo?»Gli rispose Argamak: «Quel cavallo quand’era lassù sulla terra non rispettava nessuno, scalciava perfino i bambini».

Proseguendo il viaggio in quel tenebroso paese, l’alyp vide in una valle un povero toro nero che non riusciva a sollevare la testa da terra, perché aveva infilate nelle corna due pesanti palle di ghisa.«Perché quel povero toro è condannato a tale pena?»chiese allora Koghjudej,e Argamak rispose: «Quel toro quando si trovava sull’Altai, non si sa quanta gente abbia incornato».64

L’alyp e Argamak non avevano fatto molta stradache incontrarono un cane scheletrito e spelacchiato, con le fauci sbarrate da un grosso anello di ferro:«Ecco vedi, quel cane non può mangiareperché ha la bocca bloccata e tutto questo perché era solito azzannare tutti quelli che incontrava» spiegò Argamak.

I due fecero pochi passi e videro un uomo e una donna magrissimi, intenti a chiedere l’elemosina

64 Nessuno sfugge alle conseguenze dei propri atti, animali compresi. è la legge del Karma.

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sul ciglio della strada.«Che hanno fatto quei due per essere così denigrati dalla gente?»E Argamak rispose: «Quelli sono marito e moglie che durante la vita non hanno fatto che rubare. Ora la gente si vendica negando loro l’elemosina».

Più avanti i due si imbatterono in un uomo scheletrito e macilento, legato stretto a un palo. Cercava di allungarsi per prendere il pane e l’acqua posti a poca distanza, senza però riuscire ad afferrarli. Il pover’uomo implorava e supplicava i passanti di porgergli il pane e l’acqua, ma nessuno lo ascoltava. «Perché lasciano quel pover’uomo morire di sete e di fame?»chiese l’alyp. E Argamak rispose: «Quell’uomo, quando si trovava sull’Altai, trattava male il suo cavallo, tenendolo sempre legato al palo, facendogli partire la sete e la fame».

I due giunsero in una brumosa steppa, e là videro uno strano individuoche, seduto su una sella posta su di un ceppo, si dannava a frustare il tronco come fosse un cavallo. «Crede forse quello stolto che frustare un ceppo serva a farlo galoppare?» disse divertito l’alyp.

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«Quello è stato uno che non ha mai avuto pietà del proprio cavallo, frustandolo continuamente» spiegò Argamak.

Giungendo a un bivio i due scorsero un uomo che si dannava a correre continuamente tra una jurta e l’altra, cercando di gridare, ma la sua bocca rimaneva muta come un pesce: «Vedi, la dannazione di quell’uomo, sta nel fatto che egli, per tutta la vita, non ha fatto che raccontare maldicenze e fare pettegolezzi da una jurta e l’altra».

Argamak non aveva ancora finito di parlare, che si udirono lancinanti grida di dolore, e quando i due si avvicinarono videro che le urla provenivano da un uomo appeso per le orecchie al ramo di un albero: «Non ci badare, quello non è altro che uno avvezzo a origliare», disse Argamak.

Ma ecco che, poco più avanti, un uomo si lamentava disperato, perché non riusciva mai a chiudere occhio. «Vedi, quello non riesce a dormire perché il suo mestiere era quello di spiare tutta la notte».

Poi videro un uomo passare senza tregua da un jurta all’altra, senza mai fermarsi e Argamak disse: «Quello è uno che,

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senza rispettare la moglie, ha passato tutta la vita a correre dietro alle donne senza mai riuscire a sceglierne una».

Così commentando, Koghjudej e il suo fido Argamak arrivarono in un’altra brumosa radura, e lì videro un cacciatore che stava inseguendo una lepre ma, appena puntava la freccia per colpirla, la lepre subito scappava, lasciando il cacciatore avvilito.«La disperazione di quel cacciatore» disse Argamak, «è dovuta al fatto che per tutta la vitanon ha mai rispettato la legge naturale, che vuole la caccia limitata a regole precise.65 Quel cacciatore invece uccideva tutti gli animali che incontrava, e così viene giustamente punito».

Pochi passi e si imbatterono in un uomo e una donna che cercavano l’un l’altro di strapparsi la pelliccia di dosso.«Vedi, quelli sono marito e moglie che non sono mai andati d’accordo e quindi sono condannati a litigare per tutta la vita».

I due videro poi un uomo e una donna che, coricati in un giaciglio,

65 Il cacciatore vero non uccide mai per il piacere di togliere una vita, ma per necessità. Se può, sceglie una preda già ferita o malandata.

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cercavano di coprirsi l’un l’altro con l’unica pelliccia che avevano. Allora Argamak disse: «Vedi, questi sono due coniugi che, a differenza dei primi, si sono sempre amati, e questo ci dimostra che la forza dell’amore supera ogni cosa».66

Vagando per il tenebroso regno del maligno Erlik, Koghjudej e il suo fido Argamak incontrarono orridi mostri, come uomini-rospo o gente con uno schifoso grugno di porco, esseri terrificanti e orribili a vedersi.Lungo fu il cammino in quel paese d’ombra, prima che i due arrivassero alla dimora di Erlik.

Quell’essere maligno aveva un’immensa barba nera, e baffi lunghissimi

66 L’amore unisce e continua anche dopo la morte.

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attorcigliati alle orecchie. Appena Koghjudej scorse Erlik, gli si lanciò contro. Il suo destriero,con un terribile nitrito, balzò su quell’essere maligno che, sotto l’urto, barcollò e, con voce confusa, da ubriaco, disse: «Ma tu chi sei?»

L’alyp gli disse: «Mi ha mandato a chiamare da tua figlia, ed eccomi qui! Cosa vuoi da me?» E prima che Erlik rispondesse, Koghjudej gli afferrò con la mano sinistra la folta barba nera, mentre con la mano destra gli torse il gomito e diede una forte spinta a quell’essere maligno, che andò a sfracellarsi in un nero crepaccio. L’alyp, in segno di giubilo, lanciò la sua sibilante freccia alata, che in un attimo andò a uccidere gli esseri perversi che stavano nascosti negli oscuri meandri di quel buio mondo sotterraneo.Poi bruciò il corpo di Erlik, perché la sua anima maligna scomparisse per sempre dalla faccia della terra.

Il primo pensiero di Koghjudejfu quindi di andare alla ricerca degli amati genitori, ma ben presto si accorse che essi non si trovavano più in quell’orrido mondo sotterraneo. Chiese spiegazioni al suo fido Argamak, che gli disse:

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«Stai cercando invano i tuoi genitori. Kara-Taadi ha bruciato la loro anima, per paura che tu venissi a prenderli per riportarli nell’Altai». Il prode alyp allora disse: «Be’, se proprio non posso far niente per salvare i miei cari genitori onorerò almeno la loro memoria, riportando tutti i loro amati sudditi nei radiosi pascoli dell’Altai».

Il glorioso alyp liberò il popolo da quell’orrido mondo sotterraneo e condusse tutti a rivedere la luce del sole. La gente, felice e garrula come le rondini in primavera, si mise a implorare: «Oh, fuoco, tu che hai distrutto i resti mortali degli amati genitori di Koghjudej, il nostro intrepido salvatore, il grande alyp, lascia che le anime pure dei due suoi amati vecchi risorgano dalla cenere per trasformarsi in candidi fiori, affinché il glorioso figlio possa vedere nel loro fiorire l’eterna immaginedei suoi amati genitori».

Come le garrule rondini a primavera, il popolo tornò a vivere felice nell’assolato e ridente Altai.E qui Koghjudej-Merghen,

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in segno di giubilo, lanciò la sua saettante freccia alata che, rimbombando come un tuono, dopo aver fatto venti giri attorno alla terra, andò a perdersi nello spazio infinito del cielo. Allora tornarono a rianimarsi i verdi pascoli dell’Altai, baciati dall’ardente sole e accarezzati dal chiarore tenue della luna.

Koghjudej un giorno disse al suo popolo:«D’ora in avanti lasciate ogni contesa e, vivendo in pace e concordia, pensate solo a rendere più feconde e floride le vostre mandrie e le bianche greggi. Amate la vostra Terra come la vostra Anima.67 Ora la malefica presenza di Erlik, assieme alla sua nefasta stirpe, è scomparsa per sempre. Fate di questa nostra terra un paradiso, dove mai più possano arrivare i tossici vapori del buio miasma sotterraneo. Io intanto volerò lassù in cielo, per trasformarmi in brillante stella, che dall’imbrunire della serafino al sorgere della rosata aurora veglierà sempre su di voi, nei secoli dei secoli».

67 Questo comandamento sublime lasciato dall’alyp è l’essenza del Maaday-Kara.

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Così il glorioso Koghjudej-Merghen, assieme alla bella moglie Altyn-Kjuskyn, volò lassù, nello spazio infinito.68

E quando alziamo gli occhi lo vediamo brillare nell’immenso cielo stellatocon tutti gli altri alyp.

Ai limiti sconfinati del cielobrillano anche le tre stelle di Orione, le tre maral celesti,e la più lucenteè quella che nel ventre celava l’anima malvagia di Kara-Kula. Quindi lassù, tra le stelle, sta scritta la meravigliosa storia del grande, immortale alyp che, con le sue gloriose imprese,ha donato al suo popolo le mandrie e le greggi e l’oro e l’argentoche fanno ricca l’unica e radiosa terra dell’Altai.

Ma ormai il cantore è stancoe non ha più parole per continuare.

68 Per celebrare l’amore e l’unione, l’alyp va su una stella con la sua sposa. La nuova vita non fa di lui un dio: le stelle segnano infatti il limite estremo tra il mondo terrestre e l’infinito. Da lì, l’alyp contempla entrambe le dimensioni: protegge e ispira gli uomini che possono guardarlo e si nutre d’infinito [Riccardo Bertani].

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Verdechiaro nasce dalla fusione del verde e del giallo e rappresenta la realizzazione nel concreto di un progetto individuato attraverso l’intuizione: poter contribuire alla circolazione delle idee in cui cre-diamo. Le nostre proposte editoriali sono libri che portano il seme di un messaggio evolutivo che sentiamo in modo particolare. Sono opere indirizzate alla mente e al cuore dell’uomo, che pensiamo non debbano mai essere disgiunti per il raggiungimento di una più pro-fonda consapevolezza.

Che questi libri possano essere un faro per colui che desidera ad-dentrarsi nel viaggio interiore.

Verdechiaro Edizionivia Montecchio, 23/2

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Incontri con il NagualArmando Torres

Carlos Castaneda ha istruito Armando Torres per rive-lare la «regola del Nagual a tre punte» quattro anni dopo la sua partenza. La regola è completa e copre tutti gli aspetti della via del guerriero. Descrive come il gruppo di un Nagual viene creato e nutrito, come le generazioni si collegano le une alle altre per formare un lignaggio e la guida verso la libertà. Ma per usarla come chiave che apre le porte al potere, deve essere verificata di persona.

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