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Antonio Tabucchi IL PICCOLO NAVIGLIO Romanzo ARNOLDO MONDADORI EDITORE 1978 Arnaldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1 edizione febbraio 197 S II piccolo naviglio A Luciana Stegagno Picchio conforto ai piccoli navigli

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Tabucchi's novel

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Antonio Tabucchi

IL PICCOLO NAVIGLIORomanzo

ARNOLDO MONDADORI EDITORE

1978 Arnaldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1 edizione febbraio 197 S

II piccolo naviglio

A Luciana Stegagno Picchio conforto ai piccoli navigli

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Arremba su la strinata proda le navi di cartone . Eugenio Montale

Parte prima

Dalla fine al principioNe sarebbero dovuti passare degli anni dall'inizio di questa storia, quando Leonida (o Leonido) stava attraversando a nuoto un torrente gelido, prima che Capitano Sesto si mettesse a percorrere a ritroso tutta la sua rotta. A quel tempo Leonida doveva essere il giovanotto tutto ossa e baffi del ritratto che Capitano Sesto ritrovò nel solaio della casa paterna, e non disse mai esattamente i motivi che lo avevano spinto alla fuga ne come erano andate le cose quella notte. Certo doveva essere una notte d'inverno, i gendarmi dovevano essere in due perché andavano sempre a coppia e l'unico bene che Leonida portava con sé, oltre i vestiti che aveva indosso, doveva essere un vecchio ricettario di famiglia avvolto in una tela incerata. Anche l'anno in cui tutto questo succedeva fu impossibile stabilirlo con sicurezza, nonostante tutta la buona volontà con cui Capitano Sest^flLercò di fare i calcoli; certo era un anno in cui l'altra sponda si chiamava ancora Regno delle Due Sardegne e in qualche modo anche lui. Capitano Sesto, era presente: come ipotesi biologica navigava infatti nei lombi di Leonida (o Leonido) che nuotava come un disperato nei flutti del torrente ghiacciato. Cominciando dunque a raccontare quella lontana fuga, Capitano Sesto ricostruì la scena con la sua immaginazione, e rivide la magra figura di un giovanotto baffuto, scalzo e a capo scoperto, con la giubba svolazzante, che correva sull'arginello di un fiumiciattolo che a quel tempo segnava ilil confine fra il Granducato di Toscana e il Regno delle Due Sardegne. La campagna è immobile, attanagliata dal freddo, e un livido chiaro di luna illumina il paesaggio, la figura che corre nel paesaggio e due ombre inseguitrici. L'inseguito è appena scomparso, infilandosi fra i canneti che orlano il bordo del torrente, quando i tricorni dei gendarmi granducali prendono il suo posto contro la luna. Immobile, con gli occhi spalancati, acquattato fra i cespugli, il fuggiasco fruga con lo sguardo attraverso gli interstizi del canneto. Nella corsa ha abbandonato gli zoccoli e sta accoccolato a piedi nudi nella fanghiglia del canneto. I suoi occhi tradiscono terrore e una muta disperazione; nella mano destra stringe un robusto bastone del quale pare risoluto a servirsi nel caso che venga stanato dal suo nascondiglio. Intanto la luna, che rischiara a giorno la campagna, si è lasciata velare da una nube sfilacciata che viaggia nella notte cristallina. Il fuggiasco, con l'istinto di una bestia inseguita, capisce che non c'è tempo da perdere. Si rialza rapidamente e con pochi passi leggeri che si traducono in uno sciaguattio appena avvertibile, raggiunge la riva del torrente. Potrebbe lasciarsi scivolare nell'acqua in silenzio, ma forse è troppo impaziente di lasciare quella riva, sicché si tuffa a braccia tese nell'acqua torbida. Lo scroscio è fragorosamente delatorio, ma a causa dell'oscurità i gendarmi non possono localizzare il punto del fiume in cui si trova il fuggiasco. Risuona un colpo di fucile che disegna un lampo azzurrino sulla riva granducale e che si perde nella notte. Allora dall'altra riva, quasi per risposta, giunge un verso di scherno che risuona nel silenzio.Certo il luogo e le circostanze in cui Capitano Sesto cominciò a raccontare non erano le più propizie alla ricostruzione storica. Era infatti un pomeriggio di tarda estate e lui se ne stava seduto sul muretto di un sagrato polveroso abitato da un cane giallo, in attesa di una cotriera ballonzolante che lo avrebbe portato lontano. La corriera, come era sua abitudine, ritardava, il pomeriggio caldo e silenzioso invitava al sonno, il cane giallo si era acciambellato sulla porta della chiesa e il paese riposava sotto un velo di polvere. Capitano Sesto teneva fra le mani il quaderno comprato alla botteguccia sulla piazza, sul quale aveva scritto il nome di Leonida e, fra parentesi, quello di Leonido. Provava quel vago senso di eccitazione e di meraviglia che viene dallo sconosciuto, e insieme un senso di ebbrezza e di turbamento per la libertà che si prendeva, perché si rendeva conto che tutto ciò che era stato dipendeva unicamente da lui. Poi, con decisione, accanto al nome di Leonida (o Leonido), scrisse anche quello di Argia.

Due mestrui l'annoLa medicina, nella persona del dottor Poldi, aveva diagnosticato ad Argia pubertà e funzioni ovariche improbabili appena la prematura era sbucata dal ventre di sua madre; e al tempo che Capitano Sesto scelse come inizio della sua storia doveva essere la minuscola ragazza del ritratto che egli aveva ritrovato nel solaio della casa paterna, con gli occhi rotondi e un visetto appuntito che la faceva rassomigliare vagamente a una talpa. Viveva allora con i suoi genitori in un casolare giallino, scrostato dagli anni, in mezzo a un'aia popolata da galline e da due vacche che ogni sera rientravano da sole nella stalla: il tutto proprietà di un funzionario regio che stava a Torino e veniva ogni morte di papa. Insomma si sopravviveva, grazie a Dio, e non sarebbe stata una vita disgraziata senza la disgrazia di quella figlia.La stessa diagnosi il dottor Poldi l'aveva pronunciata quando, ai nove anni compiuti, la statura dell'ex-moribonda aveva raggiunto il metro e dieci: misura sulla quale pareva decisa a restare vita naturai durante, nonostante il massiccio impiego di uova di giornata cui veniva sottoposto il suo modesto piloro. Il balzo decisivo e disperato di centimetri trenta, fino all'estrema tappa della sua nascita, Argia lo aveva compiuto nella sua pubertà, che con la peluria inguinale e il giusto indurimento delle ghiandole mammarie, non le aveva però portato le regolari regole mensili. Il dottor Poldi, interrogato per la terza volta dall'angustia materna, di fronte alla defezione del mestruo che poi doveva rivelarsi solo la dilazione di un esiguo flusso che cercava la sua via d'uscita, per la terza volta si era lisciato il mento barbuto confer mando la sua diagnosi. Ma la scienza del dottor Poldi non supponeva un equilibrio, un'intima congruenza che sono noti alla natura, alle maree

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linfatiche e sanguigne, all'oscuro precipitare degli ovuli negli inesplorati spazi ovarici retti e guidati da loro peculiari leggi. Un giorno di un dolce autunno incipiente, mentre la minuscola ragazza stava mungendo la vacca nella stalla, accoccolata sullo sgabello della mungitura, aveva sentito fra le gambe un liquido tiepido come il latte che le spruzzava tra le dita. E contemporaneamente a questa sensazione era stata sconvolta dalla violenza con cui i suoi sensi avevano reagito alla realtà circostante. Argia, pur comprendendo di essere diventata una donna con tutti i crismi, non aveva dato all'avvenimento eccessiva importanza, perché si rendeva conto che quella moderata visita sanguigna non si sarebbe ripetuta con frequenza mensile. Aveva ragione. L'inverno era passato senza altre visite: solo una ventata di sensazioni aumentate di intensità, come se l'olfatto e l'udito si dilatassero, lasciavano intendere alla ragazza, ogni trenta giorni, che era il giorno della sua mestruazione a secco. Con l'arrivo della primavera le regole si erano manifestate di nuovo, anche se solo con una macchietta rossa. E così era sempre stato, da allora.La minuscola Argia riuscì a tenere nascosto il suo stato per quarantasei giorni, finché vomiti e nausee non la fecero decidere. Il dottor Poldi allargò le braccia, poi si lisciò il mento e borbottò: « Tutto è relativo, tutto è relativo ».Dopodiché si sedette e prescrisse un decotto che preveniva le nausee gravidiche.Ma quando la ragazza uscì con la ricetta, il dottor Poldi si accorse di essere stanco morto e si sbottonò il colletto della camicia. "Tutto è relativo", rimuginò una decina di volte prima di trovare un breve sonno agitato sul divanetto del suo studio. Quell'idea lo stregò per tutta ia giornata e lo costrinse a scarabocchi, algoritmi e teoremi sul suo ricettario. Ma quello fu un inverno di un freddo spropositato che portò con sé un catafascio di polmoniti: e impiastri di senape, coppette calde e visite notturne lo distolsero, forse con suo sollievo, dalle tentazioni della filosofia. Di quel pensiero nuovo e fascinoso gli restò però l'esclamazione, che sarebbe diventata il suo motto preferito negli anni che gli restavano da vivere.Mosso dalla confessione di Argia e da una polmonite galoppante che il dottor Poldi si incaricò di curare con impiastri di senape, l'ingravidatore misterioso sbucò dal fienile dove per molti giorni si era rintanato; dichiarò di chiamarsi Leonida, di avere trentadue anni e di fare il tipografo: mestiere totalmente ignoto ai genitori di Argia, ma da essi supposto incompatibile o perlomeno estraneo all'agricoltura; disse di venire da una città della Toscana che pareva di mitica lontananza, ma che in realtà distava un centinaio di chilometri; si guardò bene dal confessare i motivi che lo avevano indotto a tuffarsi nel gelido torrente sul quale si arrestava il confine del suo stato.La cerimonia nuziale fu rapida e vespertina, come si addice a un matrimonio senza velo bianco; Argia vestiva un cappotto castagno che le dava un'aria topesca. La cena fu abbondante e silenziosa: sul tavolo di cucina apparecchiarono una zuppa di cotiche, un cappone e un dolce d'uova, con vino santo. Nel camino ardeva un ceppo da festa grande che la madre di Argia si premuniva di ravvivare quando era assalita da ondate di commozione. Il dottor Poldi, che aveva fatto da testimone, improvvisò un discorsetto fondato sulla tesi che a questo mondo tutto è relativo; ma prima di arrivare a una conclusione che si prometteva molto interessante da lui definita "il dunque", dovette accomiatarsi in fretta e furia per una polmonite che reclamava la sua visita senaposa.Gli sposi partirono all'alba. Tutto era già stato convenuto nella scarna conversazione fra Leonida e il suocero, il giorno in cui l'ignoto amante era sbucato dal nascondiglio. E così fu. I genitori di Argia acconsentirono, paventando la solitudine: ma il mestiere del giovanotto non si addiceva all'aratro, e inoltre egli non appariva molto tranquillo in un casolare che gli pareva troppo vicino a un torrente di cattiva memoria. Ma nessuno chiese niente, nessuno fece pressioni di alcun genere. Con una mula e un calessino gli sposi partirono all'alba. Portavano un lavandino di smalto, due coperte di lana, un sacco di tela con biancheria, un pacchetto di candele di sego e un lampadario mostruoso ornato da palline di vetro, regalo di nozze del dottor Poldi. Dove sarebbero andati non seppero dirlo, ne lo sapevano esattamente. Leonida indicò confusamente verso le montagne, neanche troppo lontane: ma dal suo sguardo perso e dal gesto dell'indice che scavalcò l'aria i suoceri intuirono che voleva dire "di là". Argia, con la bocca piena di nausea nonostante l'infuso bevuto a digiuno, digrignò i denti in uno stoico sorriso e alzò la minuscola mano per dire ciao. La mula si avviò di malavoglia, ciondolando e buttando fumo dalle froge; Leonida, che teneva le guide, cercò di incitarla senza successo e alla fine si rassegnò al passo. Argia tenne la mano nel gesto di saluto finché potè vedere i due in piedi in mezzo all'aia. Poi si sporse dal calesse e senza far rumore vomitò tutto il decotto del dottor Poldi.

Nomi d'aritmetica e capelli rossiQuando Capitano Sesto, alla fine della sua storia, si mise a ripensare a chi aveva portato prima di lui il suo aritmetico nome, ritornò con l'immaginazione a una lontana serata d'agosto rinfrescata da un temporale estivo, allorché il primo di tutti quanti i Sesti di questa storia, vincendo le anguste viscere materne, si era affacciato sull'orizzonte di questo mondo.A quel tempo, però, il nome aritmetico aveva una sua ragione; infatti prima che quel lontano Sesto e suo fratello Quinto, dopo aver coabitato per nove mesi in uno scomodo involucro riuscissero a superare le difficoltà del cammino, era stato necessaria che quattro loro fratelli tentassero con fallimento il breve ma arduo viaggio dall'utero di Argia fino alla luce. Ne Quinto ne il primo Sesto poterono dunque conoscere i precedenti fratelli, dato che essi, forse spossati dallo sforzo di raggiungere la luce, morivano poche ore dopo la nascita. Prima diventavano gialli, poi viola come melanzane, ronfavano come gatti in amore e finalmente si stecchivano, bianchissimi. Ghiacciavono in pochi secondi, con le mascelline incanaglite che non si staccavano: di marmo. Restavano esposti per un giorno sopra un catafalco preparato sulla tavola di cucina, col

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vestito di taffetà bianco che era stato cucito per il primo e che era servito per la veglia funebre di tutti e quattro; poi, dopo essere stati spogliati, venivano adagiati in cassettine da piccioni e Leonida (o Leonido) se li portava al campo santo sottobraccio, come pacchetti da consegnare a domicilio.Ma quella sera d'agosto in cui il primo Sesto, resistendo a una lunghissima espulsione e a un forcipe che lo snidò dalla posizione in cui era arroccato, seguì riluttante la via degli altri cinque fratelli, Leonida (o Leonido), al sentire due voci che piangevano con rabbia, capì che quel parto era stato diverso e che l'indomani non sarebbe dovuto andare al cimitero con due cassette sotto il braccio. Si spolverò il vestito da lavoro e si tolse gli scarponi per entrare nella camera matrimoniale. A quel tempo Leonida non era già più il giovanotto tutto ossa e baffi del ritratto che Capitano Sesto ritrovò nel solaio della casa paterna; in pochi anni la montagna bianca ne aveva fatto un uomo dalle membra mature, anche se snelle, con le spalle robuste e un incedere felino e sincopato. I baffi, tuttavia, restavano madornali come quando si era tuffato nel torrente, su un viso con già troppe rughe. Un viso così rude e così virile che Argia, parendole incongruo per quel viso un nome dalla terminazione femminile, aveva preso a chiamarlo Leonido, rifiutandosi di ammettere il suo vero nome.« E questo da dove viene? », dissero i baffi di Leonido, allargandosi in un sorriso. Il padre prese fra le braccia uno dei marmocchi congestionati dal pianto e lo portò verso il lume per poterlo osservare meglio. Anche Argia, per quanto stremata, lo scrutò attentamente, con aria stupita.« Non mi hai mai detto che c'erano dei rossi nella tua famiglia. »Leonido guardava il rosso insolito di quei capelli rossi, un rosso acceso e inconsueto: una peluria fiammeggiante e lucida su un cuoio capelluto altrettanto rosso. E in un attimo ripercorse tutto il suo albero genealogico, finché memoria glielo consentiva, alla ricerca di un antenato dai capelli rossi, che tuttavia non riuscì a trovare. E allora, come in un lampo, gli tornò , il A ^.fc-tt. tafcin mente un ricettario che aveva portato con sé la notte della fuga. Era un semplice quaderno di ricette, una casalinga farmacopea sulla cui copertina una calligrafia svolazzante aveva scritto; Centoventi ricette per centoventi malanni.Centoventi ricette, al ritmo di una al mese, sono dieci anni. Per dieci anni infatti, al ritmo di uno al mese, una donna aveva distillato centoventi giulebbi diversi onde curare il marito dei mali che lo tormentavano. La ricetta del giulebbe mensile quella donna la vergava con svolazzante calligrafia su un foglietto di quaderno a quadretti che univa alla bottiglia del farmaco con l'indicazione delle dosi e della posologia. E da quel ricettario, Leonido, interrogandosi sui capelli rossi del suo sestogenito, era risalito a un fatto che non aveva mai raccontato a nessuno.Il primo lunedì del mese, a notte fonda, sua madre lo svegliava e gli metteva i panni nuovi. Fuo ri passavano i barrocci artritici che si recavano nelle campagne. Erano vaghi lumi, all'inizio disabitati, ma poi subito voce: « Saluta tuo padre da parte di Masino... Sono il Bigio, saluta tuo padre... Un abbraccio a tuo padre dai fratelli Ziilèri... ». Leonida registrava i nomi, li ripeteva durante il viaggio in diligenza: Masino, il Bigio, Ziilo-i. Era un calessino trasformato in diligenza grazie a un'intelaiatura che sorreggeva un incerato precario e percorso dal vento, velieresco. Masino, il Bigio, Ziilèri. E Leonido si addormentava. Le ruote gli ripetevano nel sonno:Masino, il Bigio, Ziilèri. Era una campagna di colline e cipressi, con qualche casa sparsa e cium di macchia scura che sottolineavano la notte, pieni di cornacchie che al passaggio del cavallo tossivano con un volo breve:Ziilèri, Ziilèri. Rispondeva una civetta tardiva: Masino, Masino. Il Bigio era un fruscio quatto, forse biscia o coniglio, nell'erba. Leonida si svegliava quando la diligenza imboccava la salita, al bivio di Saline. Allora il bosco era già fitto, materassato di foglie umide e rossicce, fumoso nell'alba; e la strada era ripida e lustra di brina, si opponeva agli zoccoli del cavallo, sfuggiva di sotto, se ne andava per conto suo, diventava un nastro che saltava le ripe del monte e volava diritta verso le mura grigie che merlavano il cielo incerto. Leonida teneva gli occhi socchiusi per poter vedere ciò che sognava, abbracciato alla bottiglietta di giulebbe che era un po' suo padre, perché avrebbe fatto bene a suo padre, e se suo padre resisteva a passare l'inverno, allora era salvo, diceva sua madre, perché l'avvocato aveva promesso che non avrebbe passato un altro anno in penitenziario e l'appello aveva da dimostrare che fra il brigantaggio e la carità c'è una bella differenza. Però, a tu per tu, l'avvocato aveva detto al reo: « Certo che la faccenda del fucile mi complica un po' le cose, perché è difficile che la carità possa essere violenta ». « E lei dica che è giustizia », aveva risposto il reo.Per giustizia o per carità morì dopo dieci anni di Maschio di Volterra; e una mattina (era marzo) che la donna e il bambino arrivarono come al solito, il primo lunedì del mese, non lo trovarono ad aspettarli in parlatorio. Il cortile suonava come cristallo sotto le scarpe, perché di marzo Volterra è ghiacciata dove non batte il sole, e quel cortile non vedeva il sole da quando lo avevano costruito. Pietre enormi, grigie, macchiate di umido verde e corrose dalla ruggine delle grate: pietre e ferro; e quando un chiavistello scorreva sulla pietra pareva un gemito o una risata, una lama che raschiava il cortile e s'innalzava fino alle finestre della chiostra, fino al cielo quadrato.« Allora lo voglio vedere », disse la madre di Leonida.« Ci vorrebbe una domanda ufficiale », disse il direttore.« Macché domanda », disse la madre di Leonida, « è stato qui dieci anni e volete anche la domanda? »« E il bambino? », obiettò il direttore.« II bambino lo ha sempre visto quasi morto, lo può vedere morto del tutto. »Così attraversarono il cortile di pietra e un corridoio senza porte; e poi Leonida ricordava il tavolaccio, le mani bianche in

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croce, e in tasca si stringeva la bottiglia dell'inutile rimedio.« Sono gli effetti personali », disse il direttore spingendo sulla scrivania un sacco di tela. « Firmi qui, per favore. »Era un ometto grigio divorato dall'umido di quella città grigia nella quale aveva passato tutta la vita, prigioniero della sua stessa prigione. E sua madre firmò.« C'è anche questo », disse il direttore.Si trattava di un quaderno con una copertina di cartone ondulato ricavato dalle scatole delle candele, coi bordi consunti e gli angoli arricciati dall'uso, chiuso con un fiocco rosso che lo avvolgeva vistosamente: centoventi ricette, che al ritmo di una al mese l'uomo aveva rilegato insieme in dieci anni, i foglietti con l'indicazione dell'uso e della posologia che ogni volta accompagnavano i giulebbi della moglie. La donna lo affidò al ragazzo.Leonido adagiò il neonato nel letto e si affacciò ali» finestra. Era una serata tersa, per via del temporale che aveva spazzato la polvere, e il biancore della montagna creava una macchia chiara nel crepuscolo. I bambini si stavano quietando, e Argia si era assopita. Leonido si lisciò i baffi e sorrise con soddisfazione. Quello che pensava se lo tenne per sé, perché aveva paura di essere considerato matto; ma era convinto che il rosso di un fiocco che fino dall'infanzia si nascondeva nei fondali della sua memoria era venuto a galla, come una corrente marina che trova un imbuto di risalita per venire in super ficie, nella peluria del suo sestogenito: e che quel rosso era qualcosa di più di un semplice aspetto somatico: era un'inclinazione e una scelta, una volontà e una predestinazione. Una vita.Ma anche Argia, prima di scivolare nel sonno, si era soffermata a pensare a un altro fatto che, come il fiocco del ricettario, avrebbe avuto un collegamento arcano ma non illogico col futuro carattere del primo Sesto. E di questo inspiegabile nesso Argia ebbe il sospetto e l'intuizione, mentre giaceva esausta nel suo letto di puerpera, anche se non riuscì a capirne il significato. Questo il fatto: le cateratte della nuvolaglia grassa si aprirono e piovve come se la pioggia volesse spaccare i tetti. Il mondo sparì dietro il sipario d'acqua che calò sulle finestre;in casa scese una penembra rischiarata dal lume a petrolio e Argia sentì che il forcipe afferrava il renitente alla nascita: e allora fu scossa da un tremito di terzana e si aggrappò all'inferriata del letto e inarcò la schiena e chiese aiuto: e pioveva. Pioveva come una cascata. Argia vide il suo sesto figlio che finalmente si era arreso all'assedio del parto e pensò: "Tutta quest'acqua ha un significato?". Formulò una domanda alla quale potè dare una risposta solo diciotto anni più tardi, quando ormai l'interrogativo si era impigliato nei veli della dimenticanza, in un torrido pomeriggio che durò un'eternità prima di rassegnarsi alla notte, quando il giovane Sesto, ubbidendo alla sua natura di uomo acquatico, la salutò per sempre.

La legge di gravitaL'infanzia del primo Sesto della storia di Capitano Sesto trascorse quietamente miserevole in una casa ocra e piena di crepe in un paese polveroso, sotto l'egida e la minaccia di una montagna bianca. Fu un'infanzia popolata dal cicaleccio di una donna minuscola, dall'ottuso senno di un fratello e dall'uguaglianza di due sorelle, così identiche in tutto e per tutto che più tardi Sesto fu assalito dal sospetto di aver avuto una sola sorella che la sua memoria troppo libera aveva scisso in due immagini perfettamente uguali. Ma di queste due sorelle, naturalmente anch'esse gemelle, Maria e Anna, di Sesto poco più giovani, questa storia parlerà più avanti, all'epoca in cui sbucarono dal bozzolo di una scipita e doppionesca infanzia, perennemente infagottate in due grembiuli gialli, per sbandierare i colori trionfali di un^ feroce e identica bellezza. Per rispetto della cronologia bisogna prima parlare di un Leonido e della sua follia, e dunque delle gru. Perché la follia di Leonido prese lentamente l'avvio, come le ali dei gruidi che stancamente battono l'aria, dal passaggio di uno di questi uccelli sopra la montagna bianca; e non già, come erroneamente si ritenne, da una terrificante caduta lungo i fianchi del monte che per vivere Leonido cesellava a colpi di scalpello. I più, a quel tempo, propesero per questa realistica spiegazione: e non si può dar loro torto, ove si consideri il senno e la saggezza (tutte apparenti, però) di cui il baffuto Leonido aveva sempre fatto mostra fino al momento della caduta. Infatti, sin da quando un calessino trascinato da una mula malinconica lo aveva sbarcato, lui e la sua minuscola moglie incinta, in quel paese polveroso raggrumato alla base della montagna bianca, Leonido aveva sempre mostrato doti di saggezza, di oculato buon senso, di temperato carattere. Ma esistono le gru. E le gru sono uccelli migratori che svernano nei paesi mediterranei e nell'Africa settentrionale; il loro cammino, disegnato a forbice, è già scritto nell'aria, ed esse lo seguono da secoli, ripetendolo ad ogni autunno. E da questa mappa, per ragioni note solo alle gru, erano esclusi la montagna bianca e i paesi limitrofi. Finché un giorno ne arrivò una. Incauta, forse perduta, aveva deviato dalla rotta marina, si era spinta nell'interno e aveva trovato forse il piombo dei cacciatori, forse le insidie della montagna. Leonido la portò a casa sottobraccio, come quando portava i figli al camposanto, una sera d'autunno inoltrato:lo videro imboccare la stradicciola sassosa che portava al loro polveroso cortile e sostare sotto l'ulivo per accomodarsi il fardello. Forse cominciò a volare proprio quella sera d'autunno, sul viale di casa, con una gru fra le braccia: lo spingeva una leggiadria uccellesca, una molla segreta, una natura fino allora taciuta o nascosta; finché coi suoi passi di aereo folletto, Leonido depose ai piedi di Sesto e di suo fratello Quinto un niveo cuscino di piume solcato da un rigagnolo rossastro.« Cosa sarà? », si chiesero i ragazzi.« È una cicogna! »« No, è un airone! »« Guarda com'è grande! »

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« Attento che ti becca, tieni lontano le mani! » ( Quinto ).« Vuoi scommettere che no, che non mi becca? » (Sesto).« Vuoi scommettere che sì? »« Scommetto. »« Quanti? »« Cinque. »Sesto scommetteva spesso con suo fratello Quinto, e l'unica posta in gioco erano i bottoni, loro unici giocattoli, che egli perdeva regolarmente. Ma quella volta vinse. L'uccello non beccò, non avrebbe potuto. Non era morto, però. L'occhio, vitreo, roteava stancamente; e il becco annaspava, mordeva il vuoto per recuperare l'aria che usciva da due buchini vicino agli occhi, rossi di sangue, sfrigolanti di bollicine. Un'ala era raccolta sul petto, rattrappita, come a difendere le ferite; l'altra, abbandonata, remo alla deriva, solcava il pavimento di cucina rassegnata alla corrente della morte. Ma la morte non venne. Il ferito fu steso sul tavolo di cucina e disinfettato con cromo di mercurio che inzuppò le ali di una tunica violetta; poi fu nutrito con pane bollito nel latte: una zuppa tiepida e salutare che lo ristorò e acquietò il becco singhiozzante. Un'armatura di fil di ferro, una seconda ala posticcia e meccanica, gli fece da stampella. Gliela legarono al petto mentre li guardava docilmente con l'occhio giallino. Non era una gru, ma allora non potevano saperlo. Era un'egretta nivea, della famiglia delle gru, ma di esse molto più piccola, più esile e graziosa. Aveva un piumino sulla nuca, come un timone o \in vessillo, due zampe lunghe venate di giallo, l'aria di una verginità violata. Fu messa a svernare nel polla io, al chiuso, e non parve adontarsi per la presenza dei pennuti vanesi e ciarlieri che popolavano il gabbione: con un fendente della sua sciabola si fece rispettare da un gallinaceo curioso che aveva violato la privatezza del suo piumaggio, e poi accettò una convivenza basata sul mutuo rispetto.Le ali ferite guarirono presto. A gennaio la gru poteva muovere i suoi remi con cautela, mentre l'occhio rotondo indicava con giri deliziati il piacere di trovare la guarigione. A febbraio potè uscire dal suo albergo e divenne ospite di casa: anzi ospite di Leonido, per il quale il volatile mostrava una dedizione che andava al di là di quel sentimento di riconoscenza con cui talvolta la natura ingentilisce le sue creature. Quando LeonidaLeonido tornava dal lavoro, stanco e imbiancato, trovava sulla porta due figli e due figlie che lo aspettavano intenti ai loro giochi di bottoni; e in cima al vialetto di casa, sotto l'ulivo, un candido uccello meditabondo dalle ali convalescenti lo aspettava per accompagnarlo a passi malsicuri e molleggiati fino alla soglia. Sesto ignorò sempre la segreta complicità che il suo baffuto padre instaurò con l'uccello ferito; certo qualcosa successe. Qualcosa successe in quel lontano inverno sotto la montagna bianca, quando un uomo che risponde al doppio nome di Leonida-Leonido cominciò a ritirarsi privatamente con l'uccello, a seguirne con l'occhio i passi e i brevi voli, a fissare su dei fogli, con schizzi improvvisati, un'apertura alare, una piuma, una vescica natatoria, uno scheletro. I due amici trovarono il linguaggio comune che non è ne la favella umana ne la lingua ornitologica, ma un sistema di segni di comunicazione, al di là del raziocinio umano, che per comodità e convenzione gli uomini comuni definiscono follia. In quel porto affrancato dalle dogane di Euclide e dall'abbecedario, il baffuto Leonido e la gru intrecciarono la loro intesa non umana, la solidarietà dei diversi, l'ineffabile logica dei folli. E si capirono. Risero insieme, con la complicità di antichi compagni che si riconoscono nonostante i mutamenti della vita; e insieme spiccarono lo stesso volo. O meglio: prima volò la gru, ormai guarita, verso il Nord, verso una rotta cui la obbligavano millenni di abitudine. Partì in una splendida mattina di un marzo vetroso, che tornava bene a quel proverbio che dice: "Marzo, chi ha le gambe buone vada scalzo"; e che continua: "ma chi ha le scarpe se le metta", perché al sole era già primavera, ma all'ombra l'inverno non aveva ancora lasciato le pozzanghere; il ghiaccio, testardo, resisteva, e una brezza rasoterra di tramontana tagliuzzava gli stinchi dei quattro ragazzi che attoniti, contrariati, forse disperati, assistevano sotto l'ulivo al decollo dell'ospite che li aveva rallegrati durante l'inverno. L'uomo teneva la gru fra le braccia come quel giorno che se l'era portata ferita a casa:con protezione, con tenerezza, con la solidarietà di chi afferma: "Vai pure, presto verrò anch'io". I ragazzi no;sapevano che il pennuto li lasciava per sempre, che non avrebbero mai potuto raggiungerlo. Leonido tirò la gru per aria, con dolcezza, ed essa aprì le ali bianche. Per un attimo, per la lentezza del battito, parve ricadere a terra;poi i remi lenti e pausati disegnarono una rotta calma e irrinunciabile, essa si alzò sopra l'ulivo, sopra la testa dei ragazzi che la guardavano, sopra la casa ocra, sopra il paese pieno di sassi, sopra la montagna bianca, finché diventò un puntino bianco nel vento di marzo cercando lentamente il Settentrione. Nessuno parlò. In silenzio ritornarono verso il loro guscio ocra e pieno di crepe, finché il padre, parlando a se stesso, sussurrò: « Le gru volano per magrezza e per caparbia ».E così Sesto, che lo capiva, capì anche il suo pensiero, capì il senso nascosto della sua convinzione, capì cosa Leonido pensava degli uccelli: che fossero nati per pertinacia e per sfida alla natura, per rivincita sulle leggi della fisica che li avrebbero voluti goffi e saltellanti sulla terra; insomma che si erano ribellati e che avevano vinto. Il piccolo Sesto, nella limitata intelligenza dei suoi pochi anni, capì tutto questo nelle avare parole di suo padre; e capì anche che Leonido si era avviato sulla privilegiata strada della follia dalla quale non si può più tornare, non tanto perché non si possa quanto perché non si vuole. In quelle poche parole il piccolo Sesto colse l'irrevocabile volontà di suo padre di diventare pazzo. Quel mattino di marzo, dunque, partì solo la gru e Leonido rimase a terra sotto l'ulivo, nella casa ocra e piena di crepe. Ma era come se fosse già partito, come se le sue braccia esili di eterno adolescente sciaguattassero calmamente in uno spazio fatto a sua misura, come se i baffi si fossero trasformati in un piumaggio smagliante. Non partì, ma era partito, sarebbe partito: il

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resto è in più, il resto sono chiacchiere.Per raccontare il resto Capitano Sesto fu poi costretto a fare un balzo in avanti di quattro o cinque anni, quando le due gemelle stavano tacitamente preparando la messinscena della loro insospettata bellezza e Quinto e Sesto erano cresciuti magri e lunghi, arcigni come il paesaggio. Andavano già alla cava come apprendisti scalpellini, maneggiavano un mazzuolo ridotto, tornavano a casa bianchi e affamati. Quinto, grazie al suo carattere pertinace e massiccio, aveva a suo modo preso dimestichezza con la montagna; ma Sesto era in balia di un sogno assillante, di una semplicità indecifrabile. Sognava di scrivere un biglietto che non sapeva leggere, e poi partiva. Albeggiava sulla montagna bianca: Sesto apriva la porta di casa, prendeva un fagotto, lasciava un biglietto sulla tavola e si chiudeva la porta alle spalle. Nel suo biglietto spiegava perché partiva, ma non riusciva a leggere. A quel tempo, gravido del sogno ripetuto, il giovane Sesto fu assalito da una turpe malinconia che sua madre commise l'errore di credere il torpore dell'adolescenza e che cercò maternamente di curare con un rimedio erboreo del quaderno di casa. Sesto si piegò, anche se a malincuore, alle amare pozioni che gli rovesciavano lo stomaco: ma la malinconia impellente, resistente alle nausee e ai vomiti procurati dai decotti, lo spingeva nelle notti estive sul terrazzino di casa, dove si intratteneva a fissare le stelle, a contarle, a misurare la distanza l'una dall'altra con l'indice puntato e un occhio chiuso. Argia sperimentò la preoccupazione nella solitudine: con Leonido non comunicava, perché la legge di gravita lo aveva totalmente assorbito; e Quinto, per quanto assennato e risoluto, era troppo giovane per potersi assumere responsabilità paterne. La minuscola Argia seguiva con occhio fintamente disattento il suo malinconico sestogenito e pensava: "Diamogli un po' di tempo, sarà l'annata, la luna, la crescenza". E invece arrivò l'anno della siccità. Ma prima che arrivi quella torrida estate in cui la malinconia di Sesto si sciolse come neve al sole, è necessario parlare della caduta di Leonido, che amici e parenti, a esclusione di Sesto, ritennero con credula semplicità la causa della sua follia. Era stato proprio un tuffo: un volo ad angelo di dieci metri, dal cornicione che correva sulla parete superiore della montagna, fino alle creste inferiori già lavorate dalle mine. Ma non si era fermato là: aveva continuato a precipitare per una trentina di metri, rotolando e rimbalzando, fino alla piana; un davanzale largo venti metri che serviva da base agli argani. E qui si era fermato, sullo scrimolo, con la testa infilata fra le gambe, un braccio che pendeva sul petto e uno che si affacciava sulla schiena.« Quando venivi giù parevi un fantoccio », gli raccontò il capocava che andò a trovarlo all'ospedale, « uno di quei fantocci che si fanno per la pentolacela e si buttano per aria, pieni di segatura. »Non morì, infatti, quell'involontario imitatore di fantocci: si spezzò tutte le cestole, le anche, i femori, le tibie, i tarsi e i metatarsi, oltre a procurarsi un numero incalcolabile di ferite lacero-contuse. Non morì. Restò centodieci giorni inchiodato in un letto, fasciato come una mummia, rinchiuso in una scatola di gesso, obbligato a guardare un punto fisso del soffitto, perché non poteva muovere neppure il collo. E neanche le mandibole, rotte anch'esse. Sicché lo nutrivano con una gomma, versandogli liquidi in gola, come a una papera. E guarì. Avvenimento miracoloso, guarì: o così credettero tutti quando tornò a casa con le sue gambe e abbracciò i ragazzi sollevandoli da terra per provarsi le forze, e poi si sedette a capotavola ringraziando per l'accoglienza. Per centodieci giorni non avevano potuto vederlo, perché l'ospedale, un lazzaretto monacale che si trovava in un paese eia quasi città, era lontano tanti chilometri di cavallo, verso le piane dell'interno, dove la gente ricominciava a essere contadina. Il piccolo Sesto, che ebbe sempre una memoria gastrica particolarmente sviluppata, ricordò per tutto il resto dei suoi giorni una zuppiera di mitiche dimensioni piena di francesina di cipolle e una torta di riso spolverata di zucchero che le minuscole mani di Argia, già tendenti al topesco, avevano preparato con amoroso tremito.« Vedrai che non mangia », suggerì Sesto.« Scommettiamo che sì? », ribattè Quinto che giudicava gli altri col metro del suo appetito.« Scommettiamo che no. »« Quanto scommettiamo? »« Dieci bottoni. »Perse Sesto. Leonido non parlò per tutto il pranzo: mangiava in silenzio sorridendo coi baffi, guardava tutti con la gratitudine del condannato a morte strappato al capestro all'ultimo momento, come se essi fossero i suoi salvatori e il suo pubblico. Ma alla fine del pranzo, al momento del brindisi col vino santo che l'amico Mentore aveva portato in dono, Leonido si schiarì la voce e si alzò in piedi. Parlò rivolto al capocava, suo grande amico e acerrimo rivale, e lo fece con evidente tono di sfida, forse di sberleffo, alle idee di Carlo Filippo Degli Angeli. Di costui si deve dire che era capocava da vent'anni, era più realista del rè e lo affliggeva un varicocele mostruoso che gli gonfiava i calzoni, portati all'uopo ampi e bassi, ma inutilmente. Per quanto la sua bontà rasentasse la bonomia, e la rettitudine gli avesse propiziato l'amicizia fraterna di Leonido, pure le sue idee politiche erano la causa di litigate furibonde con Leonido il quale nutriva la profonda convinzione che i gendarmi fossero tutti uguali, sia che prestassero servizio presso granduchi che presso rè. E le idee politiche, o meglio, il favore o l'avversione alla monarchia, avevano un'importanza straordinaria tra gli abitanti di quel sassoso paese.Se dunque Leonido, durante il conciso discorso del brindisi, si rivolse direttamente al capocava realista e orchitico, non fu per indirizzare una meschina ingiuria a un avversario politico; fu piuttosto un improperio verso le "circostanze storiche", perché si deve sapere che quando egli venne giù a rimbalzoni, imitando suo malgrado i fantocci di segatura, la cava della montagna bianca era agitata da una frenetica attività provocata dal fatto che il proprietario del Regno delle Due Sardegne si

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apprestava a diventare rè d'Italia (o forse lo era già diventato), e voleva festeggiare tradizionalmente quello che egli considerava uno storico evento.« II nostro peggior destino è la legge di gravita. Per adesso », esclamò dunque Leonido a capotavola.La dichiarazione provocò un certo imbarazzo fra i commensali, non solo perché fu interpretata, in parte giustamente, come una sfida di carattere politico a Carlo Filippo Degli Angeli, ma anche perché nessuno sapeva bene in cosa consistesse quella legge per la quale Leonido si mostrava tanto afflitto. Carlo Filippo Degli Angeli, con la mestizia che gli era propria e il fare conciliante che la circostanza festiva richiedeva, aggiustandosi goffamente il varicocele fra le gambe, dette a intendere che Casa Savoia avrebbe fatto giustizia anche di quella legge, se di una legge ingiusta si trattava. Ma Leonido non pareva in vena di polemiche e mise fine all'incidente diplomatico alzando il bicchiere di vino santo e brindando alla salute di tutti i presenti, compreso il Degli Angeli, al quale battè qualche colpettino di scusa sulla spalla: colpettini che, a voler guardare bene, avrebbero voluto significare: te lo farò vedere io chi mette a posto la legge di gravita, altro che la Casa Savoia.La brigata si sciolse nell'allegria: Quinto ripulì la tovaglia dalle briciole meglio di un esercito di formiche;Mana e Anna si alzarono contemporaneamente, dissero arrivederci contemporaneamente e si ritirarono in cucina contemporaneamente; Degli Angeli e Mentore se ne andarono a braccetto, col cameratismo dato dal vino, il secondo fischiando una marcetta di sua composizione, il primo segnando il tempo con l'andatura delle gambe divaricate cui lo obbligava l'orchite spropositata. Il fatto apparentemente finì lì, ma Argia si appuntò nella memoria la frase del marito: e poiché, durante gli sbalzi tiroidei che le turbe mestruali le provocavano, aveva necessità di un argomento con cui intrattenere le proprie insonnie, cominciò a tentare di decifrare il mistero delle parole del marito, così come anni prima aveva tentato senza successo di risolvere il mistero di un figlio dal pelo rosso. Dopo centinaia di congetture, che nella sua immaginazione andavano dal malocchio al verme solitario, si decise a scrivere ali'"Amico della Famiglia", quattro fogli di romanzi a puntate, economia domestica, lunari e varia umanità che arrivavano trimestralmente con la posta, affinchè le fosse spiegato, in parole povere e concise, com'era quella tale legge. L'" Amico della Famiglia" rispose con puntualità e benevolenza tre mesi più tardi. Dopo la prima puntata del nuovo romanzo intitolato Resia la schiava africana, gli occhi ansiosi di Argia trovarono, accanto all'illustrazione di una mora velata e pingue che veniva trascinata in catene su un veliero, un trafiletto che diceva: "La legge di gravita è quella legge per la quale i gravi sono attratti dalla terra; la scoprirono G. Galilei buttando palline dalla torre di Pisa e I. Newton grazie a una mela".È comprensibile se l'assalirono l'inquietudine, il terrore, il panico che la legge di gravita fosse un morbo oscuro e vergognoso; bisogna essere indulgenti se il fatto che Galileo l'avesse scoperta nella città di Pisa le insinuò il sospetto che anche il suo Leonido, che era nativo di quelle zone, con tale morbo avesse una qualche complicità, un qualche losco commercio, una turpe e segreta confidenza. Infine è comprensibile se durante le sue insonnie essa cercò un rimedio nell'unico vademecum di cui era composta la biblioteca di famiglia: le Centoventi ricette per centoventi malanni. È superfluo dire che nessun giulebbe e nessuna tisana prevedevano la cura della legge di gravita: Argia lesse il quaderno da cima a fondo con tutta l'attenzione del suo indice destro, ma le uniche parole che potevano avere una qualche rassomiglianza con la malattia misteriosa erano cecità e obesità, e non facevano al caso suo.Se ne andò un inverno di angustie e di sbalzi tiroidei;Leonido aveva ripreso a cesellare con lo scalpello i fianchi della montagna senza più fare menzione dell'oscura legge; la casa ocra segnava il fluire del tempo con le sue meridiane di crepe e Maria e Anna tramavano la sommossa della loro bellezza nella prigione gialla dei grembiuli. Argia era quasi riuscita a chiudere nelle reti della memoria quella frase minacciosa che le era martellata nelle tempie durante le sue deambulazioni notturne; finché il mattino di una domenica, all'alba, svegliatasi per un soprassalto della tiroide, trovò il letto vuoto accanto a sé. In ciabatte, avvolta nella mantella di lana marrone, seguì la scia di corpo caldo e di tabacco che portava senza equivoci dal letto alla scala a pioli della soffitta. Col presagio che quella mattina avrebbe svelato il mistero delle perline sparite dal lampadario del dottor Poldi, Argia si arrampicò sulla scala, spinse avanti le sue minuscole mani un gradino dopo l'altro, e fece capolino come un topo mattiniero dalla botola della soffitta. Il fiuto non l'aveva ingannata, e neanche il presagio. Leonido era là. Accoccolato davanti alla finestrella rotonda che serviva da piccionaia, dopo aver ripulito il davanzale degli escrementi che vi si erano incrostati da anni, era intento a dare affettuosi colpetti alle perline del lampadario nuziale, allineate come nel gioco delle biglie, sporgendosi a ogni colpo per vederle cadere. La pietà coniugale ebbe il sopravvento sul dolore, la minuscola testa topesca sparì nel vano della botola senza che Leonido si accorgesse di essere stato scoperto, la mantella di lana scivolò sino al cuscino delle insonnie e lì Argia pianse in segreto, bagnando la federa, sulla certezza che la malattia della gravita galoppava nelle vene del suo disgraziato consorte.Questa è la cronaca della follia di Leonido, o perlomeno del suo inizio; anzi, del suo supposto inizio, perché Capitano Sesto fu sempre sicuro che Leonido avesse trovato l'irrinunciabile vocazione alla follia assai prima di precipitare dalla montagna, una mattina di marzo in cui aveva salutato la partenza di un uccello dalle ali candide. Questa follia ebbe naturalmente un seguito e un epilogo, ma il primo Sesto, che avrebbe potuto raccontarlo a qualcuno che poi lo raccontasse a Capitano Sesto, non potè assistervi perché quando il fatto avvenne lo custodivano già le gelide mura del seminario, o forse perché, già uomo d'acqua, vagava nella vastità dei mari. È più probabile la prima ipotesi; perché quel motto latino che Capitano Sesto trovò poi sulla tomba di Leonido non poteva essere che del primo Sesto, e dunque egli non era ancora partito per quel suo viaggio

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acquatico dal quale non avrebbe più fatto ritorno. Non poteva essere che del primo Sesto quella ambigua frase latina, perché denotava una convinzione che egli aveva avuto fin da quando suo padre aveva cominciato a studiare il volo delle gru; perciò quando Capitano Sesto si mise a immaginare che cosa poteva avere immaginato il primo Sesto davanti alla tomba spoglia di suo padre, gli venne da pensare alla scena carnevalesca di un carnevale lontano che si svolse sulle balze di una montagna bianca prospicienti la piazza di un paese pieno di polvere.È la scena di una tragedia ilare, lieve e velata come le cose del sogno. Vii vecchio magro con due maestosi baffi bianchi appare sullo strapiombo del monte. Due enormi ali di incerato e fil di ferro gli ondeggiano sulle spalle, sicché quando egli se.luta il pubblico una maestosa apertura alare si staglia contro il cielo. Quando l'uomo-uccello muove verso il precipizio, una banda di pochi elementi, schierata sulla piazza in divisa da cerimonia, obbedisce a un cenno del maestro Mentore attaccando una composizione intitolata La libellula. Per felice auspicio. L'uomo-uccello è ora sull'orlo dello strapiombo. I suoi occhi vagabondano sulla folla assiepata nella piazza e poi, oltre la piazza, sul paese, sulla torre campanaria, sull'orizzonte, sul cielo aperto. Le ali, che si spalancano con un movimento che disegna un angolo di 180 gradi, abbracciano il panorama. Poi, un attimo di immobilità; la banda si ferma con un colpo di piatti e l'uomo-uccello si lancia. Precipita dolcemente, trasportato dal vento, come un aquilone dal filo spezzato: ondeggia alla deriva per alcuni metri, evita le insidie dei cespugli del fianco del monte, si sottrae alla trappola dei fili degli argani e si dirige ondeggiando come una foglia verso le ghiaie del terreno. Non c'è rumore nel suo atterraggio: un nuvolo di polvere. Resta sulle pietre, dall'altro lato della piazza, come un uccello abbattuto, mentre la minuscola Argia, il musicista Mentore e il varicocelico Carlo Filippo Degli Angeli si precipitano a raccogliere le misere spoglie del fu Leonido, cercando inutilmente di ricomporre quel cadavere dalle giunture spezzate, quel fantoccio di segatura.Ma questo era il modo assurdo in cui il primo Sesto avrebbe potuto immaginare l'epilogo della follia di suo padre. Per fare una cronaca ragguagliata e credibile sarebbe stato necessario suo fratello Quinto, che aveva uno spiccato senso realistico. Ma egli mancò troppo presto per poter raccontare a qualcuno la vera conclusione della vita di Leonida-Leonido. Forse, se fosse campato di più, e se avesse avuto animo di raccontare come andarono veramente le cose, avrebbe descritto credibilmente la malinconica vecchiaia di un folle che minato da una paralisi progressiva conseguente alla sua caduta (quella vera), si spense seduto su una sedia sotto un orribile lampadario di vetro. Ebete e bleso, ormai p rivato anche della favella, il baffuto Leonido, guardando stoltamente il soffitto, passerebbe gli ultimi anni della sua vita mimando con le braccia, come un vecchio corvo implume, le ali di un uccello. Sesto no. Sesto non potè mai dire tutto questo. Sesto non c'era, e fu libero di immaginare a suo piacimento. Per questo quando entrò in un piccolo cimitero posseduto dal sole e dalla polvere, andò a scrivere su una lapide, sotto il nome di Leonida-Leonido, un motto latino che in un modo o nell'altro compendiava alla perfezione la vita del suo baffuto padre:

GRAVITAS ME RAPUIT

L'acqua

Non fu agevole, per Capitano Sesto, parlare dell'adolescenza del primo Sesto della sua storia. Si inceppò in un nodo di commozione e di nostalgia quasi stesse parlando di un amico carissimo o di un congiunto assieme al quale si sono passati gli anni migliori. Lo legava una naturale simpatia a quel suo sconosciuto omonimo;e forse perché sentiva con lui troppe affinità di carattere e di vita, non riuscì mai a parlarne col distacco che avrebbe voluto. Anche quel Sesto, infatti, era andato a cercare se stesso in luoghi sconosciuti : dove, fu impossibile stabilirlo perché non tornò più a raccontarlo; probabilmente in lontani mari dove aveva fatto naufragio. E la vocazione al vagabondaggio, lo struggimento per l'ignoto, per le vie del possibile, quel malinconioso primo Sesto aveva cominciato a sentirli fino dall'adolebi.en/a. allorché aveva deciso di indossare l'acerba tonaca di seminarista nel seminario di una certa città.Sesto espresse tale proposito una mattina, mentre scendeva le scale, perché le risoluzioni importanti della sua vita le comunicò ambedue la mattina, essendo solito prendere decisioni notturne. E lo disse con una risolutezza inespugnabile da ogni obiezione, così come voleva la sua natura testarda di uomo rosso di pelo: con la testardaggine di cui aveva dato prova anni prima quando per convincerlo a uscire dall'utero di sua madre era stato necessario un forcipe laborioso. Erano quelli tempi di gravi ristrettezze per la famiglia del baffuto Leonido, e quel proposito suscitò la disperazione e la rabbia di un padre che per educazione e convinzione non vedeva di buon occhio gli abiti talari. La reazione della minuscola Argia fu invece molto più saggia e prudente. Senza dire niente al marito, si recò all'indomani a parlare col curato del paese, tale Giacomino Settimelli, di anni sessantadue, penitente e gottoso. Don Giacomino, detto don Secco per via della magrezza, era un uomo irascibile e ipocondriaco oberato dall'idea di un peccato commesso in un'ipotetica gioventù, che stava ancora espiando con prolungati digiuni e veglie che gli avevano emaciato le guance e spiritato gli occhi.« Per l'Assunta ne parlerò col vescovo », disse don Giacomino sbadigliando dal sonno, perché aveva passato una bianca nottata d'espiazione.Argia cercò risolutamente di venire a galla in quel pozzo di incomprensione. « L'Assunta è fra sei mesi », ribattè, « figuriamoci se Sesto aspetta sei mesi. »

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Don Giacomino allargò le braccia magre su cui sventolavano le maniche della tonaca come per dire: il calendario non l'ho mica inventato io, cosa ci posso fare.« Senta, don Giacomino », lo incalzò Argia, « se Sesto ha il battesimo è perché glielo dette il dottore quando nacque più morto che vivo. Crede che se non era una cosa urgente venivo da lei? »Don Secco la guardò e cercò di rompere l'ovattato biancore di prostrazione in cui lo gettavano le veglie prolungate. Argia non si era seduta: stava in piedi con le mani lungo i fianchi, la mantella di lana sulle spalle, l'espressione di un topo morto che per togliere dal suo posto bisogna buttare via.« Forse il vescovo viene anche per il mese mariano », sussurrò pavidamente don Secco.Argia scosse la testa e strinse le labbra, incrollabile. Il curato si alzò e raggiunse a fatica la scrivania ingombra dei fogli sui quali aveva passato la notte a scrivere il nome dei santi in ordine alfabetico per ingannare il sonno. Prese carta e penna e indirizzò la lettera a Sua Eminenza.Sesto partì la domenica dopo con la vettura pubblica, unico passeggero in quella mattinata di brezza fredda che fletteva i pennelli dei cipressi e si accaniva a taglio sugli usci; e se c'era in giro qualche tabarro non aveva viso e passava svelto lungo i muri. Argia, sfidando il disprezzo di Quinto e di Leonida-Leonido che si erano tappati in casa per freddo e rappresaglia, lo accompagnò fino alla porta della vettura e rimase nel vento a salutarlo agitando la sua manina topesca. Così partì il giovane sestogenito verso un seminario gelido: e allontanandosi rinfagottato nel suo tabarrucolo, mentre sua madre diventava sempre più piccola nel finestrino della diligenza, Sesto ebbe il presagio che non l'avrebbe più rivista, che non avrebbe più rivisto il baffuto padre, le spalle massicce di Quinto, i grembiuli delle identiche sorelle, il paese pieno di sassi che scompariva dietro la curva della strada. Ma si sbagliava.Il seminario era un edificio settecentesco, a metà fra la villa padronale e la fattoria. Sorgeva su un colle, circondato da lecci, abbracciandolo con le ali della costruzione a quadrilatero aperto. Su ogni ala due torrette l eggiate, una volta garitte e osservatori, erano adibite dai preti a piccionaie. Il giovane Sesto, con le tasche piene di buchi e di malinconia, trovò il luogo di suo gradimento. Gli piacquero il silenzio delle gelide sale a volta dove il rumore dei passi sottolineava la solitudine, le finestre lunghe e nude, precipitate sulla campagna da cui si alzavano i fumi della sera. Era un autunno ultimo, e i contadini bruciavano erbacce e foglie per nutrire la terra. Fu ricevuto dallo sguardo celestino di un direttore quasi trasparente, con la voce prosciugata dagli anni, che pareva vivere per abitudine, come se avesse già dato le dimissioni da questo mondo.« Hai la vocazione? », gli chiese un abito che sapeva di canfora. La stanza pareva più un tabernacolo che l'abitazione di un mortale; il direttore era schiacciato da una scrivania scura sovrastata da un Cristo che faceva finta di scendere di croce a ogni oscillazione del lume.« Dio lo dirà », rispose Sesto, e guardò la finestra assediata dalla notte. Dalla porta semiaperta della cappella traboccava la litania assonnata dei seminaristi. Allontanandosi nel corridoio Sesto contò sulle mattonelle i giorni che mancavano a Natale.E invece non sarebbe tornato a casa a Natale, e nemmeno a Pasqua, e nemmeno quell'estate. Sarebbero dovuti volare due inverni di geloni alle dita dei piedi e due primavere tutte umori e malinconie, prima che i biscotti di Argia, dopo molti mesi, lo richiamassero a casa per una festa di famiglia. Ma quelle stagioni e quel tempo, che in questa sto ria passano con illecita fretta, passavano invece lenti, là e a quel tempo. Passavano lenti portando con sé l'abitudine che tutto rende sopportabile e crea altri sistemi di vita, a loro modo legittimi e autentici e vivibili. Argia, ormai in balia di uragani tiroidei, aspettava sveglia la fine di ogni notte; e Leonido, già prigioniero di una lapide senza parole, aveva lasciato un grande vuoto e un grande silenzio in quella casa. Immobili nel solaio dormivano i fantocci aerostatici arabescati dallo stereo dei piccioni, e i disegni leonardeschi avrebbero fornito cibo sufficiente per generazioni alle colonie dei topi e delle piattole. Da Sesto arrivavano rare lettere prolisse e laiche in cui le chiacchiere sulla vita comunitaria, sugli studi e sugli orti seminarili non riuscivano a celare la malinconia che continuava a succhiarlo fra le gelide mura dell'edificio settecentesco. Non diceva di pregare, e scarsi parevano i suoi contatti col divino, forse avvicinato attraverso l'astronomia che diceva di studiare: e ogni volta si dilungava nella descrizione di costellazioni e pianeti dai nomi improbabili e dimenticabili, latini come le sue non dichiarate preghiere. Quinto si era fatto un uomo silenzioso e robusto, con due mascelle forti ombreggiate da una barba bluastra che gli invecchiava il viso. Dalla montagna aveva dedotto scabri gesti, pose aggrottate, rustiche fissità. Parlava poco per disabitudine alla parola, nel suo convivio con la pietra: e sulla pietra le mani si erano modellate con l'età virile: mani secche e arcigne, con dita quadrate e nocche sassose. Ora che egli era l'unico sostegno della famiglia andava alla cava all'alba e ritornava sul vespro;tanto che, insensibilmente, era diventato proprietà della montagna prima di esserne vittima, e quella sera che con parole scontrose annunzio che la domenica ventura avrebbe portato in casa Addolorata, Argia provò compassione per la futura nuora, perché essa aveva g'à perduto il marito prima di sposarlo. Ma fece lo stesso un vassoio di biscotti e scrisse a Sesto una lettera rapida.Addolorata era la traduzione fisica del nome che per infelicità o bizzarria sua madre le aveva imposto. Era una ragazzina bruna, poco più che una bambina, la cui robustezza tradiva la segreta voglia di essere magra e piccola per vivere inosservata dietro due occhi di lutto, con una voce che se d'uomo sarebbe stata d'asceta, ma su quel volto di femminile afflizione pareva raucedine, o singhiozzo represso, o selvatica sgarbatezza. Era dolore. Di che cosa Argia non riuscì mai a sapere, il fatto è che non la vide mai allegra; nemmeno quella domenica che venne, già futura nuora, a mangiare i suoi biscotti.

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"Domenica prossima in casa nostra rinfresco di fidanzamento. La famiglia deve essere riunita", scrisse; poco più che un telegramma.E Sesto ritornò per mangiare i biscotti, tanto più che stava entrando il luglio e con esso le vacanze. Tornò con la tonaca quasi matura per gli ordini, una tonaca bianca per la polvere che quell'anno di secca aveva sparso sul mondo. Aveva cominciato col non piovere per tutto il mese di marzo, ma ciò non aveva destato eccessiva preoccupazione: a volte capitava, marzo è un mese da non farci affidamento. La montagna spandeva talco che un vento secco e compiacente provvedeva a stendere tutt'intorno. Ma in aprile le cose cominciarono a mettersi male, specie per chi non lavorava il monte e viveva di terra. Le campagne verso le piane ingiallirono. A maggio il cielo si imbronciò, s'arruffò, si rabbuiò. Si temettero acquazzoni: quasi peggiori della siccità, per chi lavora i campi. Invece il cielo si sgonfiò, il sipario dei nuvoloni svanì oltremonte e rimasero nuvolette ironiche a vagare in un cielo da acquerello. A giugno fece un caldo da bestie; la notte non si chiudeva occhio, le cicale erano sul sentiero di guerra, il grano rachitico era assediato da nuvole di lucciole; seccò il torrente e poi le polle. Ci si riforniva ai pozzi artesiani, i pochi che c'erano, perché prima l'acqua non era mai mancata e di scavare pozzi non c'era mai stata necessità. Il luglio arrivò con nebbioline mattutine piene di promesse, ma dopo qualche giorno fu evidente che erano nebbie di calura; il sole rabbioso cavava dalla terra gli ultimi umori che il fresco notturno teneva sospesi a mezz'aria fino al mattino e che svanivano di nuovo allo spuntar del sole cedendo il posto all'arsura. Alla fine di luglio seccarono anche le falde acquifere e i secchi appesi alle corde rimbombarono senza speranza sulle pietre del fondo dei pozzi.A luglio arrivò Sesto, quasi prete, a mangiare i biscotti di Argia, cantuccini all'anice secchi e un po' salati; salutò il silenzioso fratello e conobbe la sua addolorata cognata. Fu un mese di calure vulcaniche. Quinto aveva smesso di andare alla cava, come tutto il paese; si dormiva di giorno e si viveva di notte, per sopravvivere. Argia chiese preghiere al figlio, intercessioni alla Madonna, scongiuri segreti, esorcismi. Sesto rifiutò fermamente parlando di congiunzioni astrali e di tempeste solari che parvero dottrine profane, se non blasfeme: forse eresie.Con l'entrare dell'agosto si levò un vento torrido di ponente, lento e pertinace, che soffiando sulla montagna si caricava di polvere di marmo, una sfarinatura leggera come il talco che in una settimana velò il paese di neve artificiale. Diventò tutto bianco: i tetti delle case e le strade, gli alberi, i capelli della gente. Pareva un grottesco paese di gesso al quale l'artigiano si fosse dimenticato di dare il colore. Cominciarono a verificarsi segni isterici di un nervosismo che covava da mesi. Un giorno don Secco ricevette un'ambasceria in cui le pie donne del paese gli intimavano una processione votiva. L'ambasciatrice, una donna tutta spigoli con un gozzo nervoso e due battetti protervi, gli lasciò intendere aspramente che lui, quale servo di Dio, doveva intercedere senza indugi presso il suo principale, e che sarebbe stato ritenuto responsabile, e forse capro espiatorio, di un incaponimento divino sulla siccità.La cerimonia si svolse ordinatamente, ma l'aria era elettrica e i visi tesi sotto le maschere di polvere. All'uscita della chiesa, quando il trono con la Pietà di gesso •celeste scendeva gli scalini, fu visto un nuvolone promettente che procedeva dal settentrione. Era una nuvolaglia obesa e lattiginosa, più cirro che nembo, e in altri tempi non avrebbe promesso ne il buono ne il cattivo tempo, per la sua neutralità; ma dopo centinaia di giorni di cielo terso bastò a promettere acquazzoni, burrasche, temporali. Tanto più che al primo giro del paese, quando la Madonna oscillava sulle spalle degli uomini davanti a una cappella, la nuvola s'era ingrigita allargandosi a frittata, allegramente minacciosa. Pochi minuti dopo serpeggiarono i primi segni di entusiasmo, perché qualcuno aveva gridato di aver sentito alcuni schizzi. Ma quando la processione rientrò in chiesa la nuvola partorì due nuvolette bianchissime e sgravata se ne andò per diporto in un cielo di smalto. La sera un vento torrido, spesso come un materasso, si accaniva sulle mura della canonica. Si era allora verso la metà di settembre, ma la temperatura si manteneva eccezionale, con punte massime da pieno luglio. La campagna, che ormai era avvizzita da tempo, ora era seccata del tutto e il vento caldo trasportava foglie ed erbe a briciole: un polverone ocra come argilla.Ottobre portò la disperazione, la certezza del disastro imminente. Si tentò il tutto per tutto: una cerimonia quasi pagana di fuochi propiziatori sul sagrato, col concorso di tutti gli abitanti di quel paese ateo e il beneplacito di don Secco, anch'egli disperato e minato dal sospetto che la siccità fosse una vendetta divina per il suo ipotetico peccato commesso in gioventù. La notte precedente il giorno fatidico, il curato non riuscì a chiudere occhio, e non fu per sacrificio o penitenza. Fu un passeggiare continuo dal letto alla finestra, da dove si vedevano le cataste del sagrato, minacciose e enormi. Scrisse alcune volte tutti i santi del calendario in ordine alfabetico, pregò la Madonna ricordandole insistentemente questa "valle di lacrime", perché di un qualsiasi umore c'era un bisogno urgente. Ma non piovve. Arrivò invece l'alba di un domani teso come una corda, perché pareva che il sole avesse seccato il mondo, lo avesse fatto di ceramica, e un ritorno alla materia molle pareva cosa assurda. Quel mattino don Secco, secco come non mai, si vestì con la rassegnazione del condannato a morte, si pettinò con la pomata, indossò la tonaca e la stola, prese l'aspersorio e il secchiellino asciutto dove una riga bianca di sali segnava ancora l'antico livello dell'acqua e uscì. Davanti alla chiesa c'era già una folla in silenziosa attesa. Tutti portavano addosso i segni della secca: i capelli opachi, ritti sulla testa, ispidi, ormai ritrosi a ogni pettine; le labbra tirate e pallide, i vestiti bianchi. Passarono la mattina in preghiera. Cominciarono con la messa all'aperto sulla pietra che dieci volenterosi si incaricarono di prelevare dall'altare, poi passarono ai canti di giubileo, alle invocazioni di grazia, al tantumergo e infine a un canto per voci femminili composto da Mentore. A mezzogiorno si ristorarono sulle panche della chiesa bevendo una brezzetta che si era levata da ponente e che arrivava quasi fresca dopo aver percorso tutta la navata.

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Ma verso le due, per la calura soffocante, cominciò a serpeggiare un malessere contagioso; qualche donna svenne, si verificarono alcuni casi di visioni isteriche. Per evitare il legittimo terrore di una prossima fine del mondo, don Giacomino uscì di canonica con una torcia e provvide a incendiare le cataste. La legna, secca come era , prendeva fuoco alla sola vista della torcia, sicché in pochi minuti il sagrato era circondato dalle fiamme. I mucchi bruciarono in un attimo, scoppiando con fragore, e i tizzoni si coprirono di cenere lasciando qualche filo di fumo contro il cielo livido che si andava rassegnando alle ombre della sera. Don Giacomino, ormai, si aspettava il peggio: magari uno scoppio di follia collettiva, un linciaggio, perfino un trapasso allo stato minerale per essiccazione. Fu in quel momento che arrivò Sesto. Veniva avanti di corsa, attaccato a braccia stese, come se la rincorresse, a una forcella di legno che guizzava come una serpe. Sul viso il ragazzo aveva un'espressione di sofferenza e insieme di felicità, con la bocca aperta in un riso di nervi. Balbettava: « Presto, presto, venite, prendete le pale ». Lo seguirono senza sapere perché e cominciarono a girare per il paese. La bacchetta ogni tanto diminuiva la velocità, svettava come una frusta, si abbassava, annusava il terreno come un cane. Poi ripigliava la corsa all'impazzata, trascinandosi dietro Sesto e con lui la folla. Don Giacomino, col fiato corto, era passato in fondo al gruppo e reggendosi la tonaca con le mani cercava di non perdere contatto. Quando arrivarono in fondo al paese la bacchetta fece uno scarto brusco, come se avesse agguantato la pista. Fu una corsa ininterrotta fino al greto di quello che una volta era stato un modesto torrente e ora era un deserto. Avrebbero potuto pensarci prima che quella era la zona adatta a scavare; ma come individuare il luogo esatto? A un certo punto le mani di Sesto cominciarono a singhiozzare, sconvolte da un tremito convulso:la bacchetta si agitò, si impennò; infine fece un balzo in avanti, trascinando nel tuffo Sesto che non l'aveva mollata, e si piantò per terra. Sesto si rialzò e si scosse gli abiti. Il sudore del viso aveva formato un pastone con la polvere, una maschera d'argilla che colava agli angoli della bocca. La bacchetta, conficcata nel terreno, vibrava come una lama.« Scavate qui », sussurrò Sesto. E si lasciò andare esausto.Bastarono un paio di picconate. Pareva che la polla premesse sotto la corteccia della terra, perché il getto d'acqua venne fuori vigoroso e spruzzante. Vi si bagnarono tutti, dopo nove mesi d'asciutto. Poi andarono a prendere i recipienti. Quella notte fu festa generale. Le finestre restarono accese a lungo, si sentirono canzoni e musiche.Ma Sesto quella notte dormì poco. Si coricò tardi, restò appoggiato alla finestra rispondendo vagamente alle domande di Argia. Poi, mentre andava a letto, si soffermò a metà scala e disse: « Stanotte sarà diverso ».Argia lo ricordò sempre così, il suo Sesto: in piedi sul ballatoio con la candela in mano che gli illuminava il viso sofferente, che se ne andava finalmente in pace a sognare il suo sogno.Non lo videro più. L'indomani mattina, sulla tavola, trovarono un biglietto scritto col carbone: "Sono fatto per l'acqua. Sesto".

Due madri due

Quando Capitano Sesto arrivò a questo punto della sua storia, forse temendo di avere ecceduto nell'immaginazione, cercò un conforto di verità nelle autorevoli cronache di uno storiografo locale. Erano quattro volumi di un venerabile chierico, capitati chissà come nel solaio della sua casa paterna, fra pacchi di giornali, uccelli impagliati e ritratti di famiglia. Ma, com'era prevedibile, i fededegni Annali della città di *** e dei paesi limitrofi, rifusi, arricchiti di molti fatti e seguitati fino all'anno Millenovecento e "^*, in tomi quattro, non facevano menzione di seminaristi rabdomanti ne di campane che suonassero a stormo per celebrare rigogliose polle d'acqua.Sì, suonavano le campane, nelle impeccabili pagine bodoniane di Paolo Fonzio, ma sotto forma di numerini incolonnati in una tabella d'appendice. "Deceduti nelle cave di marmo", era la dizione del paragrafo: nomi e date. Il sedici gennaio del Millenovecento, per esempio, le campane avevano rintoccato per un certo Quinto, unico Quinto di quel paese pieno di sassi. Ma il Fonzio era avaro di particolari, nel suo impegno statistico; faceva Storia e non storie come quella di Capitano Sesto. Non parlava perciò di una certa Addolorata che era sopraggiunta sul luogo dell'incidente scarmigliata e terrea, ne di una vecchietta cui il dolore accelerava la regressione verso originarie forme di talpa, racchiusa in una casa piena di crepe. Il Fonzio non diceva niente di tutto questo, perché tutto questo non è Storia. E allora a Capitano Sesto non restò altro che ricorrere all'immaginazione.Capitano Sesto cercò poi la conferma di un altro fatto, e si inoltrò in quei corridoi cartacei ricchi di date, di vescovi, di lapidi, di credenze, di regi sponsali, di confische, di sommosse, di legiferazioni e di pestilenze;indagò fra tumulti e acclamazioni, condanne e amnistie, dazi e congrue parrocchiali, alla ricerca di due sorelle ge melle che un giorno ruppero la crisalide dei grembiuli gialli per esibire al mondo una stupefacente bellezza. Nel maggio di un anno lontano due fanciulle infagottate di giallo si svegliarono in una pozza di sangue. Una rosa di sangue che si allargava sui lenzuoli, misteriosa e terribile. Esse si alzarono e corsero allo specchio. Quanti anni avevano? Il Fonzio non lo dice , ma certo erano in grande ritardo sul primo mestruo, se somigliavano alla madre. Erano già adulte pur senza essere donne, non avevano mai parlato perché nessuno glielo aveva mai chiesto, non avevano mai espresso desideri perché non sapevano di averne; vivevano nel bozzolo di due grembiuli gialli da idiote, come si addiceva alla loro uguale bruttezza. Ma que lla mattina corsero allo specchio, si guardarono e sciolsero le trecce. Avevano capelli castani con riflessi rossastri, di un rosso

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che faceva pensare al rosso dei fiocchi natalizi; e avevano occhi verdi e mani lunghe, e seni piccoli e rotondi, e la vita strettissima su due natiche candide. Avvenne così che scoprirono la loro bellezza, identica, in uno specchio grazie a cui erano quattro gocce d'acqua: e quale fosse Maria e quale Anna sarebbe inutile indagare, e forse esse stesse non erano perfettamente sicure della propria identità. Si affacciarono alla finestra, come nelle favole fanno le figlie dei mugnai che sposano i figli del rè, e senza ritegno offrirono al mondo lo spettacolo della loro identica bellezza. E vennero pellegrini dai paesi più lontani solo per vedere le due fanciulle: pretendenti malinconici e cavalieri spavaldi, vecchi avari, garzoni coraggiosi, maturi possidenti; ma a tutti le due belle di identica bellezza dicevano superbamente di no con un cenno del capo che agitava la cascata dei capelli rossastri. Finché un giorno, tra i visitatori, spuntarono i battetti aitanti e l'orologio al panciotto di Corrado Zanardelli, il figlio del nuovo padrone delle cave. Di lui Paolo Fonzio è prodigo di ragguagli: "Bei giovane", potremmo leggere, "onesto e coraggioso, amante della legalità e dei lavoratori, che alla immatura scomparsa del padre Federigo diresse con accortezza la grande cava di marmo. Fu insignito dell'ambito titolo di Cavaliere del lavoro; la cerimonia, semplice e modesta, si svolse nel Municipio di *** l'anno di grazia del 19**".Così, testualmente, il Fonzio, che parla per stilemi e luoghi comuni, conosce i fatti ma ignora l'animo umano. In realtà il bei Corrado Zanardelli era semplicemente un bei vanesio, elegante e futile, che del mondo amava soprattutto le scarpine di vernice, gli abiti di lana inglese, gli orologi da taschino e le automobili. Questo era il bei Corrado che un giorno imprecisato passò sotto le finestre di una certa casa e puntò i suoi begli occhi su quattro occhi verdi che da una di quelle finestre deridevano i passanti. E se ne innamorò. Di chi si innamorò il bei Corrado Zanardelli, di Maria o di Anna? Gli Annali del Fonzio non lo dicono, preferiscono tralasciare un argomento così delicato. Ma chi vide prima, il bei vanesio, nella sua passeggiatina esploratrice per le vie di quel paese pieno di sassi di cui si apprestava a diventare il padrone? Neanche questo dicono gli Annali del Fonzio, di solito così ricchi di particolari. Il giovanotto azzimato si innamorò di un'astrazione femminile che gli rimase negli occhi, nella memoria, che guardò e riguardò, spogliò, baciò, carezzò, amò tutta la prima notte di permanenza nella locanda del paese, del suo futuro paese. Si innamorò di una ragazza dai capelli rossi, dagli occhi verdi, dal sorriso malizioso che stava affacciata a una finestra; solo che quella ragazza erano due ragazze e... beh, perbacco, poteva essere il riflesso della finestra, finì col pensare per trovare sonno e darsi pace il giovanotto innamorato. E invece no: le ragazze erano proprio due. Se ne rese conto il giorno dopo, quando, forte della sua intraprendenza, bussò con un fiore in mano alla porta di una casa ocra. Gli aprì un viso addolorato che lo fece entrare in un salottino nudo col soffitto occupato da un lampadario mostruoso; lo spiarono due occhi topeschi che passarono davanti alla porta senza fermarsi; e quando egli chiese al viso addolorato che voleva vedere una ragazza, una voce che su un viso d'uomo sarebbe stata raucedine, ma che su quel volto femminile pareva il belato di una capra, gli chiese:« Quale delle due? »E il bello e vanesio Corradino dette una risposta all'altezza delle sue capacità intellettuali. « Ma io... », balbettò, « io credevo, beh, io credevo che era il riflesso del vetro... » E scappò a precipizio abbandonando il fiore sulla sedia.Chi prese quel fiore lasciato sulla sedia da un innamorato disorientato di trovare una amata doppia: Maria o Anna? E che cos'era quel fiore di cui una delle due, se non entrambe si impossessarono amorosamente? Anche questo, come al solito, gli Annali di Paolo Fonzio non lo dicono. Gli Annali di Fonzio dicono invece, a pagina 132 del tomo IV, che il signor Corrado Zanardelli, suddito fedele del Regno Sabaudo, amministrò oculatamente la cava che la generosità regia gli aveva concesso in appalto; che in matura età levò in moglie una giovane vedova fiorentina e andò a passare gli ultimi anni della sua vita sui colli fiesolani, tornando alla montagna bianca sempre più di rado; infine che la provvidenza celeste fu con lui avara di filiali affetti e che si spense solo, in circostanze misteriose che s'indovinano tragiche, nella sua villa fiesolana. Non dice, il chierico storiografo, che due giorni dopo la sua fuga, sulla soglia della casa ocra si ripresentò il be i sorriso vanesio dell'alierà trentenne Córradino, e che questa volta egli entrò nel salotto del lampadario mostruoso tenendo in mano due fiori per la sua doppia amata; e che in tale modo cominciò il suo folle bifidanzamento che lo avrebbe portato in età matura al colpo di pistola risolutore taciuto dai pudori del chierico Fonzio. Sì, un doppio fidanzamento, o meglio un alterno fidanzamento, ora con Maria ora con Anna, che egli mai seppe distinguere.Chi amò veramente il bei vanesio Corrado Zanardelli, Maria o Anna? Chi era la ragazza con cui egli usciva sottobraccio la domenica, che andava a trovare la sera del sabato, che aveva fatto conoscere al padre ricco, avaro e diffidente? Maria o Anna, o alternativamente Maria e Anna? Forse anche Corrado, nel suo folle amore di vanesio, mai se lo chiese: lasciò perdere i nomi e si contentò di amare una ragazza che aveva il viso di Maria e di Anna, la voce di Maria e di Anna, il sorriso di Maria e di Anna, e che egli, brevemente e complessivamente chiamava Lei, eludendo ogni dubbio di identità grazie a un pronome personale.Arrivava il bei Corrado, attaccava il cappello al becco di una gru impagliata che sorvegliava il salottino, aspettava che dal piano di sopra scendesse la sua Lei, cioè o Maria o Anna, e si intratteneva in amoroso colloquio finché la tosse bolsa dell'orologio del campanile non abbaiava le undici. Allora si alzava con gli occhi languidi, baciava su una guancia la sua alterna fidanzata, salutava l'Addolorata di guardia e scivolava nella notte.Sapeva il bei Córradino? E sapeva (come forse sapeva), in quale maniera pensava di risolvere il suo doppio amore? Come poterlo sciogliere con un matrimonio unico, univoco e legittimo, cioè con Maria o con Anna? Tanto pensò il bei Córradino, si arrovellò, ebbe insonnie, problemi di coscienza, soprassalti, fece calcoli, misurò possibilità. Sopra differenze, inutile

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contare. Cercò un segnale particolare, un tic, un tono di voce, una piega della bocca della sua Lei per confrontarlo con un segnale particolare, un tic, un tono di voce e una piega della bocca della sua Lei: ma la sua Lei aveva segnali particolari e tic e toni di voce e pieghe della bocca perfettamente identici a quelli della sua Lei. E allora, finalmente, dopo dieci mesi di dubbi d'amore, il vanesio Córradino ebbe un'illuminazione che gli parve geniale, maturò un piccolo piano empirico e infallibile, naturale e risolutore.Fece quello che doveva e aspettò. Si mise a sedere sopra la sua sicurezza e con un sorriso vanesio cominciò a covare, senza saperlo, il colpo di pistola risolutore. E intanto correva il mondo, che aveva nomi esotici ma già italiani: il Tigre era buono e il Negus Menelik un feroce oppressore; l'Almanacco di Gotha era stato informato che il nome di Etiopia sarebbe presto sparito dalle carte geografiche: il Rè Buono era buonissimo, secondo Paolo Fonzio, e non ancora morto per mano di un anarchico sconosciuto. Il bei Córradino aspettava, fiducioso e allegro della sua vanesia allegria, spiando ogni sabato sera un segnale indicatore sul volto della sua Lei. E intanto passavano le settimane e correva il mondo: l'Africa Orientale era italiana o lo sarebbe stata, e dagherrotipi cartonati ritraevano carrozze lucidissime, senza cavalli e con timone da guida, dette automobili. Era il progresso, e il vanesio Córradino, con le sue scarpette di vernice e un orologio d'oro padrone del tempo di quei tempi di progresso, aspettava sotto il lampadario che l'infallibilità della natura risolvesse per lui il dilemma del suo doppionesco amore.Finché, un sabato sera, il bei Córradino, invece della sua Maria o della sua Anna, fu ricevuto da Addolorata e seppe che Lei non sarebbe scesa, perché era indisposta. Fu il segnale di una illusoria vittoria. Scappò via per felicità e liberazione, ringraziò Addolorata, corse in città, dormì in un albergo, passò una domenica di progetti e di esultanza, lasciò venire il lunedì, andò in un padiglione pieno di luci e tornò al paese sassoso seduto al timone di una automobile con una tromba di ottone gigantesca.Il paese si affacciò per guardare gli occhialoni del bei Corradino, già padrone delle cave, che emergevano da un nuvolone di polvere bianca e rumorosa. Il nu voltane si fermò sotto le finestre di Maria e di Anna, il bei Corradino ne scese appoggiando gli occhialoni di celluloide sui capelli impomatati, si spolverò la giacca con le mani, dette una strizzatina alla pera della tromba d'ottone ed entrò maestosamente per fare il suo dovere di fidanzato, di marito di un'unica moglie, di futuro padre.Ahimè, come dirlo, bei Corradino? Ci voleva è vero, faccia tosta: ma era necessario. Avrebbe detto: "Sono venuto a fare il mio dovere di uomo d'onore, a chiedere in moglie colei che aspetta un bambino". A chi, non sapeva, perché Argia, sempre più topesca, passava le giornate a letto; e Addolorata non gli pareva la persona adatta per una richiesta di codesto genere. Perciò entrò nel salottino dal lampadario mostruoso, appese gli occhiali automobilistici al becco della gru e aspettò. Non ebbe bisogno di aspettare molto. Furono brevi le parole di Argia, ma gli Annali di Paolo Fonzio non le riportano. Le cronache fonziane sono tutte occupate a descrivere un regno che voleva diventare a tutti i costi un impero, con la felicità c he ne consegue per i suoi sudditi: e parla del marmo, Paolo Fonzio: il marmo che in gran quantità veniva estratto dal ventre della montagna bianca e che portato a blocchi nelle segherie e nei laboratori veniva trasformato in Storia dagli scultori e dagli scalpellini del regno.E mentre tutto ciò succedeva, il vanesio Corradino, attonito sotto il lampadario del salotto, apprendeva dalle avare parole di Argia che Maria e Anna erano incinte. Incinte di lui, Corrado Zanardelli fu Federigo, di anni trentuno, scapolo, danaroso e disonesto. Ma questo gli Annali di Paolo Fonzio non lo dicono.Non si discolpò, Corradino Zanardelli fu Federigo; forse balbettò ma non discusse: e scappò via precipitosamente come la prima volta in cui era arrivato, promettendo con la voce alterata che sarebbe presto ritornato per "mettere tutto in chiaro". Ma non c'era nulla da mettere in chiaro, perché tutto era chiarissimo. Quando, una settimana dopo, rimessosi dal colpo e da una sbornia ininterrotta, Corradino Zanardelli si ripresentò nel salottino pieno di crepe, il ventre in lievitazione di due bellissime amate uguali e distinte gli dimostrò senza equivoci che egli si apprestava a diventare due volte padre. È impossibile sapere cosa pensò in quel momento il cervello del disperato Corradino; e gli Annali del Fonzio si guardano bene dal supporto, così come non fanno cenno del desiderio di verità che cominciò a travolgerlo e che doveva portarlo in età più matura al colpo di pistola risolutore. Certo è che la sua memoria cominciò a lavorare al millimetro per ricostruire nei minimi particolari un episodio successo quattro mesi prima che era il responsabile della sua attuale situazione. Pensò e ripensò a una sera d'ottobre in cui, deviando dalla sua usuale passeggiata, aveva convinto la sua amata Lei a visitare la cava di cui era già diventato proprietario: « Per mostrare i progetti delle nuove cave da aprire », aveva detto. Ma il Fonzio, com'è solito fare nei momenti più controversi, non registra i movimenti di quella sera ottobrina del bei Corradino che egli ricostruì minuziosamente nei minimi particolari. E cioè: che lui e Lei, passeggiando sottobraccio, arrivarono fino al piazzale delle segherie; e che Lei, fosse stata Maria o fosse stata Anna, era senza dubbio una sola; e che dopo averle fatto ammirare le pareti marmoree e intatte sulle quali era intenzionato ad aprire nuove cave, il Corradino le cinse la vita col braccio (il destro, secondo la sua ricostruzione) e la spinse dolcemente dentro la prima baracca di lamiera nella quale aveva surrettiziamente preparato una branda il giorno prima; che l'abbracciò con passione; che Lei rispose con altrettanta passione all'abbraccio continuando a essere una sola, fosse stata Maria o fosse stata Anna; e che seguì naturale, spontaneo e travolgente un amplesso, un monoamplesso, perché la ragazza fremente e bellissima stesa sotto di lui era una sola, una sola, porco mondo, una sola!!!C'erano forse stati altri incontri? No, rispose risolutamente a se stesso il vanesio Corradino, non c'erano stati: la sua

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memoria, interrogata giorno per giorno, non ne ricordava nessuno.E così passarono i mesi, i restanti cinque mesi. Di questi mesi le cronache fonziane registrano una grande produzione di marmo, due incidenti mortali per marmo, un'estate che vide un'esplosione di voglie marittime, di stabilimenti balneari, di ombrellini di pizzo, di automobili, di feste mondane, di monumenti equestri ( il tutto, naturalmente, molto lontano dai luoghi narrati in questa storia): insomma, una incontestabile e storica realtà effettuale che esclude nel modo più categorico il parto di Maria e di Anna: il quale non sarà difficile indovinare sincronico, in ossequio alla natura sincronica delle due gemelle.E così fu. Le doglie, com'era prevedibile, colsero le due sorelle contemporaneamente, ma esse non lo dissero:per tutto un pomeriggio se le tennero in silenzio nel ventre continuando a fare le faccende. Solo le occhiaie marcate e il volto di un pallore insolito sotto i capelli flosci, denotavano il dolore. « State male », accusò Argia con le poche parole che ancora le consentiva la sua natura; « state male, mettetevi a letto, ci vuole il dottore ».Perché Argia sapeva che quelle due pazze erano sincroniche perfino nell'utero e si sarebbero decise a partorire allo stesso momento. Ma esse, obbedendo a un disegno misterioso, si schernirono, dettero la colpa all'aria pesante, all'aria di luglio. Ma non vollero cenare e in un silenzio pieno di complicità prepararono l'occorrente al parto: panni e teli, acqua bollita, alcool. Poi si chiusero in camera e dettero sfogo, mordendo i cuscini, ai lamenti delle doglie.« Fatemi entrare! », bussava Argia, « Addolorata, fai qualcosa, corri a chiamare qualcuno! » Quando il bei Corradino arrivò con la levatrice, pallido e alterato, il suo orologio padrone del tempo segnava esattamente mezzanotte e mezzo; ma l'ora è controversa, perché gli Annali di Paolo Fonzio, naturalmente, non ne fanno menzione. La pagina 294 del tomo IV, proprio in quella pagina che ci si aspetterebbe parlasse finalmente del parto, è occupata dal rammarico che in quell'anno, a causa di un'eroica sconfitta subita dalle truppe italiane a Adua, le monete d'argento con l'effige di Umberto vennero fuse per pagare i debiti. Fra Adua, numismatica, Mar Rosso e generale Baratieri, non c'è posto per Maria e Anna, trincerate nella loro camera piena di crepe, sorde ai lamenti e alle invocazioni del bei Corradino Zanardelli fu Federigo che si dovette rassegnare alla decisione delle partorienti autarchiche. Finché... Sì, finché non ci fu un silenzio, e poi un sospiro, e poi un vagito. E allora (forse era l'una di notte, ma Paolo Fonzio non lo dice ) la chiave della serratura venne girata dall'interno e il viso appuntito di Argia, il dolore di Addolorata, e l'orologesco Corradino Zanardelli poterono entrare nella camera. Si è detto di un vagito. Un vagito solo, perché il neonato era uno. Un visetto urlante e congestionato posto fra due puerpere identiche. E aveva i capelli rossi.Quali le parole esatte che gorgogliarono in gola del bei Corradino Zanardelli giocato dalla sorte e da due identiche sorelle? È impossibile saperlo: ma certo egli, pur senza gridare, con la gelida calma della disperazione, fece la domanda più legittima per un uomo in quelle condizioni: « Chi l'ha fatto? ». Gli annali fonziani, naturalmente, non rispondono a questa legittima e paterna e patetica e assurda domanda: e neppure Maria e Anna, naturalmente risposero. Mai avrebbero risposto. Mai più avrebbero risposto. Mai più avrebbero risposto, capisci bei vanesio Corradino Zanardelli fu Federigo, padrone del tuo tempo grazie al quadrante del tuo orologio d'oro massiccio?! Cosa fai, ora, Corradino Zanardelli? Possibile che ti lasci invadere dalla disperazione? E perché pronunci frasi insensate, minacci il suicidio, accusi di pazzia? Chi è il vero pazzo della storia, Corradino Zanardelli: le tue due amanti ingravidate una per via genitale e l'altra per autoconvinzione, o tu, che mai le sapesti distinguere e credesti di risolvere un dilemma d'identità grazie alla realtà fattuale di un rapido coito in una baracca di lamiera? E come puoi accusare due identiche e inscindibili ragazze di averti amato in maniera identica e inscindibile? Calmati, vanesio Corradino, riponi l'orologio nel taschino del panciotto: il tuo quadrante spavaldo segna le due di notte, il mondo corre. Paolo Fonzio ti trascura, il viso buono e argenteo di Umberto I si è appena liquefatto nelle caldaie del regno per pagare i debiti di una guerra imperialista e tu hai il coraggio di inveire? Calmati, vanesio Corradino: ti aspetta una vita senza autentici filiali afretti;tu, padrone delle cave, del tuo tempo e di una carrozza senza cavalli detta automobile, sposerai in età matura una giovane vedova fiorentina e morirai in solitudine in una villa fiesolana per un colpo di pistola che i pudori chiericali del Fonzio non vogliono ammettere, senza aver risolto il mistero di essere unico padre di un unico figlio nato da doppia madre. La madre fisiologica, dovremmo dire, perché in realtà entrambe erano madri: e questa opinione fu perfettamente condensata dalla dolorosa voce di Addolorata che forse riportò, se non la serenità, almeno la rassegnazione e una certa naturale letizia di fronte alla vita che continua: « La chiameremo Marianna ».« È un bambino », mormorarono contemporaneamente Maria e Anna.« Fa lo stesso », ribattè Addolorata con dolorosa gaiezza.

Un bambino chiamato Marianna« Marianna, dai, prestami il temperino », dice Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli, « mi piace tanto, voglio giocarci anch'io. »Sesto ha un sorriso accondiscendente, si passa una mano fra i capelli rossi, comprensivo e dubbioso. « Ma tuo padre non vuole mica che giochi con me, è venuto a proibirmelo. »È una giornata estiva, i ragazzi scendono verso il fiume con due canne da pesca e Sesto porta in tasca il suo temperino. Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli è alto e bruno, sa fischiare coi diti in bocca, sa dire bonfour e conosce le

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bestemmie in francese. È linfatico e cordiale e sa tante cose del mondo, perché viene dalla città, e quel paese di sassi proprio non lo sopporta, gli fa venire l'asma. E poi ha dodici anni.E così scendono al fiume, che ora è un rigagnolo fra i sassi perché è estate: ci sono solo piccoli ghiozzi e quniche rovellina rossastra e affamata che abboccherebbe anche senza esca. La montagna è bianca più di sempre, di una bianchezza estiva, e le sere estive sono calde, piene di moscerini, e un tantino mitiche, come sono miriche le infanzie nei romanzi. Paolo Fonzio ha smesso di scrivere per cause naturali e riposa sotto una lapide in un elegante cimitero urbano: ma la Storia scorre anche senza la sua penna e se Paolo Fonzio potesse rincorrerla scriverebbe che quell'anno un'eruzione del Vesuvio aveva sepolto centinaia di villaggi ma che gli aiuti governativi solerti e cospicui avevano riportato la calma e la fiducia nelle zone devastate dal terremoto.« Allora se non mi presti il temperino ti dico una cosa che non vuoi sapere », dice Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli, e squadra di sottecchi il compagno per vedere l'effetto della minaccia.Sesto ha buttato la lenza con un'esca piccola e segue con gli occhi il sughero che la corrente fa vibrare a pelo d'acqua. Non risponde, fortedel suo temperino e della sua innocenza. Sul fiume c'è un silenzio attraversato da nuvoli spessi di moscerini e zanzare, i denti di Sesto masticano un filo d'erba e gli occhi seguono il sughero che vibra sull'acqua.« Dai, Marianna, prestami il temperino, se no ti offendo, rossaccio. »Fischietta ora, quel Sesto testardo. Quando si azzuffa con Anselmo, lo sa, ci rimette sempre. Si picchiano tutte le estati, quando Anselmo viene con suo padre a passare un periodo di vacanze al paese. Arrivano in automobile, perché vengono da lontano, da Firenze; il signor Corrado ha due occhialoni di celluloide e un berretto di panno, e la signora un cappello attaccato alla testa con un velo che le fascia la gola.« Ecco, allora le tue zie ecco che mestiere fanno, che fanno le prostitute giù in città, che lo ha detto la mamma! »E Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli si alza rosso in viso, fa una linguaccia di scherno e gli occhi cattivi, canzonatori. Sesto si lancia a testa bassa. Ma non per ira: per dovere, per raccogliere la sfida. Rotolano sul greto graffiandosi le ginocchia. Il sughero se ne va sulla corrente, la canna scivola nell'acqua, beccheggia, s'impiglia, forza l'erba, la spunta, prende la corsa, supera il sughero e gli fa strada oscillando, È facile per Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli avere ragione di quel ragazzine rosso e spigoloso che ha due anni meno di lui;lo immobilizza con le spalle a terra, puntandogli i ginocchi sulle mani in croce, e a pochi centimetri di distanza crii spruzza affannosamente sul viso, col trionfo del vincitore: « Le prostitute, le prostitute, le prostitute! ». E poi lo lascia, pago e soddisfatto. Sesto si alza e si ricompone i capelli rossi. Gli sanguina il naso e scende a lavarlo nel fiume. La sua canna ormai è irraggiungibile, perduta, forse fuggendo trascina una piccola rovella affamata che ha abboccato al volo. Piange in silenzio, per non farsi scorgere dal rivale, e si lava anche gli occhi. E allora Anselmo Menichelli legittimato Zanardelli gli si avvicina alle spalle in punta di piedi, cauto e timoroso. Si inginocchia anche lui, si lava un graffio su una gamba, si rinfresca un occhio malconcio, si pettina con le dita bagnate. « Ti do la mia canna, dai, ti do la mia canna, non piangere. » Ma il bambino chiamato Marianna non lo guarda, guarda lontano sul fiume seguendo la sua canna finché non la inghiottirà la curva, pensa al mestiere delle zie che vivono in città, al temperino che gli hanno regalato: un temperino di madrcperla verde dove c'è scritto "Hotel Majestic" sopra una corona dorata, che ha una bella lama, e se si preme un bottone ne viene fuori una lametta a torciglione per cavare i tappi.« E allora ti do la tromba », dice Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli.« Che tromba? »« La tromba dell'automobile di mio padre. »« Ma come fai? »« Beh, la smonto. Vado là col cacciavite e la smonto, che tanto nell'autorimessa non c'è nessuno. »« E se ti scopre? »« Ti dico di no. »« E se ti scopre lo stesso e poi scopre me, che non vuole che tu ci giochi? »« Ti dico di no. »« Ma tu poi non fai la spia che me l'hai data a me? »« Ti dico di no. »« Allora facciamo il patto di sangue. »Risoluto Sesto ha buttato la proposta. Stringe nella tasca il temperino dell'Hotel Majestic, regalategli dalle zie che vivono in città e fanno un mestiere sconosciuto, il temperino col quale ha inciso la panca della chiesa, la tavola di cucina, l'ulivo davanti a casa, e che ora testimonierà col sangue di uno storico baratto.Anselmo tende l'avambraccio e strizza gli occhi. Sesto esita, guarda la lama del temperino, ci mette sopra un po' di saliva e la strofina sui pantaloni per pulirla.« Fai presto », mormora Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli, « fai presto che se viene sera mio padre va alla rimessa a prendere l'automobile e poi non facciamo più in tempo. »E allora Sesto prende il polso dell'amico e lo tasta con la punta, ma la pelle è elastica, resiste al taglio, diventa bianca e poi rossa quando il sangue rifluisce.

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« Ma così mi fai male », si lamenta Anselmo che ora forse è pentito della proposta.Ma ormai è troppo tardi: apre gli occhi e guarda il suo polso su cui è inciso un graffio rosso che sgocciola, mentre Sesto, accucciato con un'espressione di sofferenza, sta facendo la stessa cosa sul suo avambraccio. Bisogna far presto perché sta scendendo la sera e se il Signor Zanardelli va a prendere la macchina, addio tromba;nessuno di loro ha ben chiara la formula del patto di sangue: avvicinano i polsi e premono i due taglietti uno sull'altro, guardandosi negli occhi. Il fiume sta prendendo un colore violetto, la canna di Sesto è ormai scomparsa dietro l'ansa trascinando il sughero traballante, il contratto è stipulato.« Per sempre », dice Sesto.« Per sempre », ripete Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli. E si riabbassa la manica fino al polso, scappa via, dice « aspettami » e scompare fra le canne.Ma questo succedeva in un'infanzia mitica, e dunque improbabile, allorquando Anselmo Zanardelli veniva ancora a passare le estati al paese e non pensava ancora a diventare un buon italiano; prima che la Sto ria si rimettesse a correre, alla faccia del Fonzio che riposa sottoterra, e trascinasse nella sua corsa da una parte Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli e dall'altro Sesto detto Marianna. Dunque la Storia era ancora ferma quella sera, e così il rosso Sesto detto Marianna, accucciato sulla sponda del fiume, tagliuzzava una canna per farci uno zufolo a tre buchi; e mentre stava lì, impaziente e attento, sentì una tromba d'automobile che strepitava dietro le canne, finché spuntò Anselmo tutto sudato che gonfiava le guance e faceva « Vrum, vrum, vrum », suonando contemporaneamente la tromba. Allora risero a crepapelle, inseguendosi a vicenda sulle rive quasi buie, poi si misero a sedere e Anselmo Zanardelli cavò di tasca un sigaro e disse : « Guarda, ho preso anche questo ».Così cominciarono a fumare, in quella buia pozza immobile che la Storia aveva creato sopra di loro e sopra il fiume. Verso il paese si accese qualche lume e una campana suonò. « Mio padre stasera non va in città », disse Anselmo Zanardelli. « La mamma gli ha fatto una scenata che se va di nuovo a puttane lo manda al diavolo e torniamo a Fiesole, e allora ho potuto frugare nella tasca dell'automobile dove ci tiene i sigari. » Accesero due o tre fiammiferi, perché il sigaro, mal trattato, si spengeva spesso soffocando il fuoco all'interno. Ma fumarono lo stesso, soffiando il fumo più lontano che potevano, sentendosi affratellati dal patto di sangue e dal sigaro che a ogni tirata brillava nel buio. E quando già la nausea cominciava ad annebbiare loro gli occhi, Anselmo Zanardelli, assalito dai rimorsi e dalla paura, disse che era necessario nascondere la tromba in modo che non la trovassero più; e Sesto detto Marianna, travolto dalla commozione del patto di sangue, disse che aveva un nascondiglio sicuro che solo lui conosceva, che andava benissimo. Così si alzarono cercando di raccapezzarsi nel buio.« Giura che non lo dirai mai. »« Giuro », disse Anselmo Zanardelli.« Per sempre? » « Per sempre. »Si cercarono un'altra volta i tagli dei polsi, ma erano ormai secchi e dunque si strinsero la mano; e mano nella mano per non scivolare proseguirono lungo il fiume, tra i sassi, fino al vecchio pozzo sepolto dalle canne che nessuno conosceva a parte lui, Sesto detto Marianna, perché lo aveva scavato tanto tempo fa un suo zio che era andato in America, come gli aveva detto la zia Addolorata che egli considerava madre legittima.« Accendi un fiammifero », disse Sesto chiamato Marianna.Il pozzo era profondo appena un paio di metri, perché era stato riempito di pietre, e lo si scendeva con facilità grazie alle pareti sconnesse. Scesero con cautela e quando furono sul fondo fecero un altro piccolo nascondiglio con le pietre dove seppellirono la tromba.« Giura che non lo dirai mai. »« Giuro », disse Anselmo Zanardelli.« Per sempre? »« Per sempre. »Bruciarono l'ultimo fiammifero e rimasero al buio in quella nera pozza della notte, cercando con la paura dell'infanzia la strada del paese.Ma questo succedeva tanto tempo fa, quell'estate in cui la Storia cominciò a scorrere in quel paese pieno di sassi e il signor Corrado Zanardelli, a bordo di una rombante automobile senza la tromba, abbandonò il paese prima del previsto, mentre Sesto detto Marianna, in piedi sul muro del sagrato, guardava allontanarsi in una nuvola di polvere il braccio del suo amico Anselmo Zanardelli che sporgeva dal finestrino in segno di saluto.Prima la Storia cominciò a rumoreggiare con un rumore sordo, non molto percepibile, di fondo: ma dalla bella casa degli Zanardelli non la si poteva sentire. Serpeggiò invece nelle case ocra e piene di crepe di quel paese pieno di sassi, e l ì covò per qualche giorno, come un fiume che sta covando la piena. Peccato che i fededegni Annali di Paolo Fonzio, rivisti, accresciuti e seguitati fino all'anno 1900 e ''•"•'•", in tomi quattro, siano finiti da un pezzo; peccato davvero, perché se il buon chierico reggesse ancora la penna non potrebbe fare a meno, nonostante i suoi pudori chiericali, di raccontare che una mattina di fine agosto, arrivando alle sue cave di marmo, il signor Corrado Zanardelli fu Federigo fu sorpreso di trovare gli operai, i suoi operai, raggruppati sul piazzale antistante gli argani. Le cave erano ferme, le macchine spente, i nastri

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scorrevoli dormivano e la nuova segheria che il signor Corrado Zanardelli aveva creato con un ingente impiego di capitale non dava segno di vita. E tutto ciò era strano, insolito e incomprensibile per l'intelligenza del signor Zanardelli, che preferiva impiegare il suo tempo a lucidare una macchina senza la tromba con la quale andava a puttane tutti i dopocena. E dunque la sua reazione fu quella semplice e volitiva di un uomo che pensava che il tempo gli appartenesse come gli appartenevano le cave, un'automobile senza la tromba e le puttane. Perciò disse:« E io chiamo le guardie », girò sui tacchi e se ne andò.La partita per il momento finì lì per defezione di una delle parti. Ne l'altra parte stette ad aspettare che l'avversario ritornasse con i rinforzi. Gli operai si dispersero lentamente, appena Vittorio Emanuele Degli Angeli riferì le intenzioni del padrone; e le guardie, un gruppetto che arrivò un paio d'ore dopo, trovarono la cava deserta, il paese deserto, le porte sprangate. Pareva proprio, a passeggiare per le vie deserte, in quella sera di un anno imprecisato, che la Storia fosse ancora immobile; e invece i suoi ingranaggi complicati e silenziosi avevano già preso a girare dietro le imposte serrate, alla luce fioca dei lumi a petrolio; si mosse appena, si dette una scrollatina, e lentamente, insensibilmente cominciò a tracciare strade. Perché lo sciopero, così inaspettato e improvviso, non ebbe per il momento nessuna storica conseguenza. Le case del paese rimasero chiuse per una settimana e con esse restò chiusa la casa di Sesto-Marianna, che la sua vicemadre Addolorata sprangò con chiavistello; e così in quel silenzio gravido di minacce il previdente Corradino Zanardelli fu Federigo apprestò la sua macchina lucida e rombante, vi caricò la signora col cappello e l'Anselmo Menichetti e li riportò a Fiesole a tutta velocità. SestoMarianna, che vagabondava dietro a un cane bastardo in un sagrato deserto in preda al sole, vide passare un nuvolone di polvere da cui spuntava un braccio salutante che riconobbe appartenere al suo compare o fratello di sangue Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli. Rispose al saluto, sventolando più che poteva tutte e due le braccia, e salì anche sul muretto di cinta del sagrato per farsi vedere meglio: e poi gli venne in mente la tromba d'ottone che avevano nascosto in un poz/o, qualche settimana prima, e pregustò il piacere di andarla a disseppellire, di pulirla con uno straccio fino a farla diventare lucidissima e poi di suonarla maestosamente sul greto del torrente fingendo di essere a bordo di una rombante automobile come quella che stava scomparendo seguita da un nuvolone di polvere. Ma non fece in tempo, il piccolo Sesto rosso di capelli, perché la Storia, neghittosa e sorniona, entrava solennemente in paese, sotto forma di un gigantesco rocchetto di filo di rame, a bordo di un carro trascinato da buoi. Era l'elettricità, ma il piccolo Marianna non poteva saperlo, e si mise a seguire assieme al cane bastardo il carro misterioso dal quale quattro uomini vestiti di marrone srotolavano un lucido filo. Sulle prime Sesto-Marianna, a vedere quel filo luccicante, sentì ancora più imperiosamente il desiderio di andare a disseppellire la sua tromba; ma poi quegli uomini si misero a scavare delle grosse buche piantandovi dei pali sormontati da denti di porcellana; e vi si arrampicavano, ne scendevano, si chiamavano srotolando il filo. E intanto il paese, dopo essersi convinto che quelli non erano uomini di Corrado Zanardelli, aveva cominciato ad aprire le porte e la gente si era radunata sulla piazza; alle prime incredula, ma poi convinta dell'evidenza dei fatti. E cominciava già a serpeggiare un nome magico e pieno di elettricità: Volta, Alessandro Volta. Fu così che il bambino dai capelli rossi dimenticò completamente la sua tromba d'ottone sepolta nel pozzo:perché quella sera nella piazza del paese brillò un lampione senza petrolio, e anche sulla chiesa di don Giacomo una croce che non si spegneva al vento tentò inutilmente di fare una luminosa pubblicità alla messa solenne celebrata in onore della Corrente Elettrica. E anche quando un drappello pennacchiuto di carabinieri venne a ingrossare la caserma, per prudente richiesta di Corrado Zanardelli, l'ufficiale che li guidava trovò esagerate le preoccupazioni di quel signore elegante e impomatato: trovò che tutto era così quieto, così funzionante, così a posto. E intanto era precipitato l'autunno, e il rosso Sesto chiamato Marianna aveva completamente dimenticato la sua tromba sepolta nel pozzo; cioè, g li era venuta in mente un paio di volte, ma aveva dovuto rinunciare ad andare al fiume perché quell'autunno non fece altro che piovere. Sesto, dietro i vetri della sua casa, guardava il mondo trasformato in pioggia pensando con nostalgia a una tromba d'ottone; ma poi, quando tornava il sereno, la tromba gli passava di mente come per sortilegio e non ci pensava più fino al prossimo giorno di pioggia. Nell'incedere lentissimo del tempo dell'infanzia passò veloce anche l'inverno, e anche la primavera, e il sole tornò a dardeggiare su un sagrato dove c'erano un cane bastardo e un ragazzine chiamato Marianna seduto sul muretto di cinta con le gambe penzoloni intento a intagliare una canna con un nuovo coltellino di madrcperla arrivato dalla città, che portava la stampigliatura dorata di un Hotel Majestic. E in quel mentre una macchina spuntò dalla curva e arrivò fino alla piazza in mezzo a un nuvolone di polvere, si soffermò dando accelerate potenti e infilò la strada privata del signor Corrado Zanardelli fu Federigo. Allora al bambino chiamato Marianna ritornò in mente la tromba d'ottone e pregustò un'estate di bagni nel torrente insieme con Anselmo Zanardelli: un'estate di pesca ai ghiozzi, di corse sul greto del fiume guidando un'automobile immaginaria; e aspettò, con l'impazienza di chi si ricorda improvvisamente un piacere dimenticato, che il suo amico e fratello per patto di sangue lo raggiungesse sul sagrato. Tutto sembrava favorire l'incontro di due ragazzi che avevano sepolto una tromba d'ottone: il luglio era una chiara pozza immobile, sul sagrato c'era solo un cane giallastro e l'estate poteva benissimo essere quella dell'anno precedente. Ma non era così, perché Anselmo Zanardelli che aveva già quasi quattordici anni, doveva diventare un buon italiano e arrivava vestito con una uniforme celestina sormontata da un berretto vinaccia e caudata da uno spadino che pareva un tagliacarte.« Sono un cadetto », disse. E si mise sul riposo allungando un piede. Il bambino chiamato Marianna lo guardava e aveva smesso di dondolare le gambe.

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« Perché io ho quasi quattordici anni », disse laconicamente Anselmo incrociando le braccia sul petto, « e mio padre vuole che studi per diventare un buon italiano. » II bambino chiamato Marianna fece un ultimo tentativo per riportarlo ai vecchi tempi del fiume: allungò la mano sporca e tagliuzzata dalle canne offrendo un nuovo coltellino dell'Hotel Majestic. Ma Anselmo guardò con sufficienza quell'arma infantile e ridicola fornita di cavaturaccioli, e con perfetto stile sfoderò il suo spadino d'argento dalla lama arabescata. « E poi », disse con noncuranza fingendo di pulirsi le unghie con lo spadino, « papa non vuole più assolutamente che io giochi con te. »« Perché? »« Prova un po' a indovinare. »« Ma se non lo so. »« Ti ho detto di provare, grulletto. »« Hai fatto la spia », gridò Sesto-Marianna scendendo dal muretto, « hai fatto la spia! Spia, spia, spia! »« Ma di che parli? », disse indietreggiando Anselmo Zanardelli, « ma di che stai parlando? »Ma ormai Sesto chiamato Marianna, nella sua innocenza che gli impediva di pensare a due zie cittadine che mandavano ogni mese una lettera a sua madre, si era lanciato a testa bassa trascinando nella polvere del sagrato Anselmo Zanardelli e la sua divisa da cadetto. Non fu difficile per lo spigoloso Sesto avere la peggio, come era sempre successo. Così le circostanze vanificarono ancora una volta il progetto di disseppellire una tromba d'automobile nascosta in un pozzo asciutto; e si deve credere che Sesto chiamato Marianna se ne dimenticò, o forse non ebbe più il desiderio di andare a disseppellirla, e preferì trascorrere il resto dell'estate sul sagrato posseduto dal sole, in compagnia di un cane bastardo, tagliuzzando una canna per ricavarne uno zufolo a tre buchi, forse aspettando che ritornasse a giocare con lui Anselmo, che invece non si fece più vedere.Ma ancora per poco finse di dormire la storia privata di un bambino chiamato Marianna: giusto il tempo che egli impiegò ad arrivare a casa. Sulla tavola lo aspettava una lettera con l'intestazione dell'Hotel Majestic in cui le zie cittadine gli comunicavano in maniera perentoria che era già riservato un posto per lui in un convitto dove si sarebbe fatto uomo e avrebbe studiato, perché era già tempo che si pensasse alla sua educazione. Insomma anche il giovane Sesto chiamato Marianna percepì con confuso orgoglio che qualcuno si stava dando da fare affinchè anche lui diventasse un buon italiano come Anselmo Menichetti legittimato Zanardelli. E intanto la Storia, ormai scatenata, macinava fra le sue mandibole anni, date e avvenimenti; gli italiani imparavano da un libro intitolato La nostra terra promessa che la loro terra promessa era la Libia; e tale concetto fu inculcato anche nella mente di un ragazzo che una volta chiamavano Marianna, senza che potesse sospettare che al suo paese pieno di sassi le cave di Corrado Zanardelli erano bloccate per protestare contro l'aggressione italiana in Africa. Il giovane Sesto, lungo e spigoloso, con un ciuffo rosso sulla fronte pallida, stava scomodamente seduto su un banco di scuola a cui dava il suo contributo di geroglifici con un temperino di madreperla e ascoltava svogliatamente la voce di un professore di lettere recitare sommi poeti italiani che esprimevano in rima la loro adesione alla conquista. Fino a che l'Italia andò a cercare lo spazio vitale e le strade furono invase da folle urlanti, da striscioni, da cartelli, da bandiere, da fanfare, da cappelli, da uniformi. E intanto Sesto, con una crescita annua di sei centimetri, cercava di penetrare nel banco che si faceva sempre più piccolo per le sue ginocchia, scriveva lettere alla sua vicemadre, incideva il banco con un coltellino di madrcperla e guardava dalla finestra il tempo che correva a folle andatura; alle orecchie gli arrivavano, smorzati dalla voce di chi raccontava, gli scoppi del bombardamento di Tripoli, le gloriose marce italiane, le grida vittoriose dei soldati italiani in Africa, le rime dei sommi poeti italiani. In queste circostanze arrivò l'estate, ma durò pochissimo perché il tempo la stritolò in un attimo:lo spigoloso Sesto che da bambino chiamavano Marianna sbarcò con una valigia di cartone da una corriera sconquassata, trovò un paese desertico che la guerra di Libia aveva fatto rassomigliare alla Libia, rimasto abitato da vecchie e carabinieri che incrociavano per le strade nel crepuscolo, con passi stanchi e ritmati, sempre a coppia. Troppo poco durò quell'estate che in pochi giorni arrivò a settembre: e Sesto, mentre sul sagrato della chiesa e con la valigia ai piedi aspettava la stessa corriera che lo avrebbe riportato al convitto, improvvisamente ripensò a una tromba d'ottone d'automobile che giaceva sepolta in un pozzo asciutto. E proprio mentre stava per lanciarsi di corsa verso il fiume, sbottonandosi il colletto della camicia, il muso azzurro della corriera sbucò mestamente dalla curva; sicché Sesto, con la valigia di cartone che sobbalzava sulla reticella, lasciò di nuovo il paese spenzolando fuori dal finestrino una mano che non salutava nessuno perché le vie erano deserte, e la sua vicemadre Addolorata, chiusa in casa, dormiva un pisolino pomeridiano carico di sogni dolorosi.Il tempo che seguì fu ancora più esiguo sotto le mandibole della Storia ormai lanciata che masticava, al di là dei vet ri del convitto, fatti e fatti e fatti. Quegli anni passarono improvvisi come per un colpo di vento che sfoglia un libro: a ogni pagina c'erano nomi, date, luoghi che circolavano, sventagliavano, mulinellavano sempre più rapidi mentre lui, il Sesto che da bambino chiamavano Marianna, era diventato un giovanotto lungo e spigoloso, incapsulato in un banco che gli pareva cresciuto addosso, leggeva di nascosto Pascoli, l'"Avanti!" e lettere uguali e distinte intestate "Hotel Majestic" che dopo tanti anni gli spiegavano la verità, come è stata raccontata in questa storia, ammesso che possa essere creduta verità. E intanto continuavano i pancotti lunghissimi navigati dalle croste di pane, il De bello gallico era diventato civile e il calendario segnava inspiegabilmente il 1914. Quello fu l'anno più lungo della giovinezza di quel Sesto lungo di membra e rosso di pelo, che guardava il mondo dalle finestre di un convitto. Fu l'anno più lungo perché i peli, naturalmente rossi, che

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gli erano cresciuti sugli stinchi, col conseguente impiego di pantaloni lunghi, lo autorizzavano a uscire il pomeriggio dalle mura del convitto per frequentare il mondo degli adulti. Usciva dal convitto dopo i pancotti refettoriali e con i pochi spiccioli in tasca che gli mandavano le madri del Majestic se ne andava a spasso per le strade di quella città di provincia. La città non era bella per monumenti, ma per paesaggio: una città quieta e rosata, in collina, con un palazzo ducale neoclassico e un vescovato di portici rinascimentali, sobrio e inferriate. Sesto, con una copia dell'" Avanti! " in tasca, attraversava i selciati sonori, in quell'inverno del Quattordici, fino a una viuzza di muri alti e rotondi oltre i quali si affacciavano cipressi e bossi di giardini padronali. Le riunioni erano alle quattro del pomeriggio, tutti i venerdì, in uno scantinato am mobiliato con panche, con una cattedra scolastica che serviva da palco per chi prendeva la parola, con una lavagna e un armadietto pieno di libri. Si parlava della guerra, in quell'anno, per condannarla ed esorcizzarla, perché la guerra era già presente anche senza esserci, e la si studiava nei suoi meccanismi sociali, che allora al giovane Sesto parevano oscuri e complessi. Quell'anno passato nelle riunioni dello scantinato il ragazzo cominciò ad accorgersi con un certo stupore che le guerre sono volute dagli uomini e dunque sono motivate da idee e da interessi. A queste conclusioni non ci anivò da solo ma grazie all'aiuto di infervorate discussioni coi compagni del circolo, grazie specialmente ai suggerimenti di una ragazza dolce e decisa, che diceva di chiamarsi Carlotta. E che era dolce, bassina, cattolica, sapeva tutto sulle masse contadine, non aveva i soldi per pagarsi la carrozza, era miope ma non portava gli occhiali e credeva nella cultura popolare. Sesto ebbe con lei un amore cosiddetto platonico, intenso e fiaccante come una camminata sotto il sole, fatto di sguardi appiccicosi che non riuscivano più a spiccicarsi, di rossori, di passeggiate, di comuni ideali, di fiducia negli uomini, nelle masse contadine e nel socialismo cristiano di padre Curci: e che nessuno dei due ebbe mai il coraggio di confessare all'altro, anche se si guardavano sempre più spesso sopra le panche dello scantinato. Fino al giorno in cui il giovane Sesto dai capelli ro ssi si accorse che ogni venerdì faceva di corsa la viuzza dai muri alti non tanto per le discussioni politiche, quanto per incontrare lo sguardo dolce e miope di Carlotta. Questo accadeva alla fine di maggio del Millenovecentoquindici in una città rosata e piena di calabroni: e il giovane Sesto, cui avevano concesso di dare in anticipo gli esami di licenza magistrale onde poter compiere il suo dovere di soldato italiano, con il tasca il diploma, qualche spicciolo e una copia dell '"Avanti!", andò a dire platonicamente addio al suo amore. Poi andò alla stazione delle corriere, lasciò la valigia di cartone al deposito bagagli, prese una carrozza con gli ultimi centesimi che gli restavano e disse al vetturino: « All'Hotel Majestic ».L'Hotel Majestic era assai meno maestoso di quanto facessero pensare il nome e i temperini di madrcperla. Era al primo piano di un edificio con una facciata di finte finestre che prendeva luce dalla chiostra, e nell'atrio c'era lo sgabello di un lustrascarpe disoccupato. Il luogo doveva aver conosciuto tempi migliori, pensava il giovane Sesto salendo le scale; e anche l'interno del Majestic, che con quella carta alle pareti e le poltroncine imbottite color verde oliva aveva quasi l'aria di una pensione per famiglie. L'incontro con la doppia madre fu breve e cordiale, come se essa lo stesse aspettando. Maria e Anna10 ricevettero in un salottino da tè, si commossero con garbo, lo abbracciarono con impacciato affetto, gli fecero domande sulla sua salute. Il giovane Sesto era stato portato a salire quelle scale da una domanda che gli urgeva in petto e non voleva andare alla guerra senza aver saputo; ma davanti a quelle due donne sedute nel salottino gli parve inutile, quasi retorica. Erano tanto uguali nel viso, nella voce e nei gesti, quelle sue due madri belle e sfiorite, che non c'era nessuna differenza che egli fosse figlio dell'una o dell'altra; anzi, erano così uguali, troppo uguali, che quando scese le scale e si trovò nella luce di quel maggio pieno di calabroni gli sorse il sospetto di aver avuto un'allucinazione, come se la sua mente avesse scisso un'immagine in due. E si era preparato anche un altro discorso, il giovane Sesto, prima di ar rivare in quel salottino verde oliva; ma ora ne ricordava solo dei segmenti un po' confusi in cui apparivano il socialismo cristiano, la redenzione degli oppressi e padre Curci; sicché preferì tacere e ascoltare doppie e tenere parole materne, bere un tè al limone, fumare una sigaretta. E quando, sul punto di accomiatarsi, le due madri gli chiesero sottovoce se aveva una fidanzata, lui diventò più rosso di quello che già era per natura, balbettò, si confuse, disse che conosceva una ragazza e ci andava a passeggio il venerdì e che andavano al circolo e che beh, insomma, non si erano mai detti niente ma era chiaro che entrambi... Allora le due madri lo spinsero dolcemente in un altro salottino dove c'era la ragazza che prima gli aveva aperto la porta e poi si ritrassero raccomandandogli di mandar loro una cartolina dal fronte. Così il giovane Sesto che da bambino chiamavano Marianna usò per la prima volta il suo coltellino personale all'Hotel Majestic, con una ragazza profumatissima e tenera che gli disse tante dimenticabili paroline all'orecchio; poi si ritrovò sul ballatoio, scese le scale fino al lustrascarpe disoccupato, ritornò fino alla stazione domandandosi se non avesse avuto una sola madre che la sua immaginazione malata aveva scisso in due madri uguali e distinte, salì su una corriera sconquassata, sistemò la valigia di cartone sulla reticella e ritornò ballonzolando dalla sua vicemadre.Non si è adulti finché non si pensa all'infanzia con nostalgia, anche se è stata un'infanzia di sassi; allora essa appare come un pianeta perso nel tempo, irraggiungibile e ancora presente come una fotografia che ci ritrae ma da cui siamo usciti irreversibilmente; e ci si accorge che essere adulti è solo avere disimparato a essere bambini. Questo pensò il giovane Sesto vestito della divisa grigioverde, un giorno di giugno che lasciò il suo paese pieno di sassi: poiché nel frattempo, in quello sperduto pezzette di mondo in cui era già arrivata la corrente elettrica, avevano portato anche le rotaie, un troncone che si ricollegava alla strada ferrata della pianura e che finiva proprio sotto le cave; e ora, invece dei blocchi di marmo, il treno si portava via una diecina di giovanotti grigioverdi confusi tra la folla, e per festa o per orgoglio i paesani avevano inna lzato una pensilina di lamiera con un cartello toponomastico che faceva da stazione. Per l'occasione era venuta la banda vestita a

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festa e per attaccare l'inno aspettava in fila che il treno fischiasse; e il giovane Sesto, affacciato dal finestrino, guardava la folla venuta a salutare i soldati. Avrebbe voluto rispondere ai saluti della gente che tendeva la mano per stringere le mani, invece ebbe solo il tempo di indirizzare un saluto a Vittorio Emanuele Degli Angeli che reggeva in braccio l'ultima figlia, perché i suoi occhi furono attratti dal vecchissimo Mentore che aveva alzato il braccio destro per dare il via alla banda; e dalla mano di Mentore gli occhi gli scivolarono su un vecchietto della prima fila che aveva le gote piene di fiato per somare nel suo strumento. Come si è detto era giugno, e c'era il sole, sicché quando il musicista si avvicinò lo strumento alle labbra il sole lo fece luccicare con un abbaglio; lo strumento era una tuba, una tuba corta e ritorta con pochi tasti di ottone lucente. Perciò a Sesto ex-Marianna ritornò in mente una tromba d'ottone che da bambino aveva seppellito fra le pietre di un pozzo asciutto; e gli venne il desiderio di correre a riprenderla e di restare sul greto del fiume a suonarla fingendo di guidare una rombante automobile come quella di Corradino Zanardelli. Ma la banda, ormai, aveva attaccato le prime note dell'inno e le ruote del treno giravano in direzione opposta alla pensilina: e in un attimo banda, folla, pensilina, paese, montagna erano diventati a ritroso un quadro incorniciato dalle tendine del finestrino, e l'infanzia di Marianna, questa volta, se n'era andata per sempre.