riassunto sociologia economica

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SOCIOLOGIA ECONOMICA SOCIOLOGIA ECONOMICA (sintesi del Trigilia - Vol.1) Le scienze sociali non possono aspirare a produrre teorie a elevata generalizzazione, ma sviluppano modelli storicamente orientati, con coordinate limitate nello spazio e nel tempo, largamente basati sul metodo comparativo. INTRODUZIONE che cosa è la sociologia economica La sociologia economica è l’insieme di studi e ricerche volti ad approfondire i rapporti di interdipendenza tra fenomeni economici e sociali. Definizioni di ECONOMIA: 1) «Insieme delle attività stabilmente intraprese dai membri di una società per produrre, distribuire e scambiare beni e servizi » (Polanyi, ‘77); Riguarda cioè il processo istituzionalizzato di interazione tra gli uomini e la natura per il soddisfacimento dei bisogni di una società; 2) «Attività che hanno a che fare con la scelta individuale di impiego di risorse scarse, che potrebbero avere usi alternativi , al fine di ottenere il massimo dai propri mezzi » (allocazione delle risorse) . La quantità effettiva di beni che saranno prodotti e il loro prezzo dipenderà dall’incontro della domanda dei consumatori e dell’offerta dei produttori sul mercato. Lo stesso meccanismo vale per le quote di reddito distribuite tra i vari soggetti economici (per esempio se l’offerta di lavoro cresce rispetto alla domanda, il salario tende a sua volta a scendere). Le definizioni richiamate non devono essere considerate come alternative: la prima è più generale e consente di valutare come il soddisfacimento dei bisogni e il comportamento economico possano assumere forme diverse, condizionate dal modo in cui è organizzata la società; la seconda apre maggiormente allo studio dell’interazione tra economia e società. E per questo motivo sembra più adatta alla prospettiva con cui la sociologia economica guarda all’economia. Un elemento che può accomunare diversi approcci teorici o discipline come la sociologia, l’antropologia e la storia economica è l’ottica che guarda all’attività economica come processo istituzionalizzato. Non si parte cioè dal singolo individuo isolato cui vengono imputate motivazioni utilitaristiche per poi ricostruirne gli effetti aggregati sul piano della produzione e distribuzione di beni e servizi, ma dalle ISTITUZIONI. Definizioni di ISTITUZIONI: 1

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SOCIOLOGIA ECONOMICASOCIOLOGIA ECONOMICA (sintesi del Trigilia - Vol.1)

Le scienze sociali non possono aspirare a produrre teorie a elevata generalizzazione, ma sviluppano modelli

storicamente orientati, con coordinate limitate nello spazio e nel tempo, largamente basati sul metodo comparativo.

INTRODUZIONE che cosa è la sociologia economica

La sociologia economica è l’insieme di studi e ricerche volti ad approfondire i rapporti di interdipendenza tra

fenomeni economici e sociali.

Definizioni di ECONOMIA:

1) «Insieme delle attività stabilmente intraprese dai membri di una società per produrre, distribuire e

scambiare beni e servizi» (Polanyi, ‘77); Riguarda cioè il processo istituzionalizzato di interazione tra gli

uomini e la natura per il soddisfacimento dei bisogni di una società;

2) «Attività che hanno a che fare con la scelta individuale di impiego di risorse scarse, che potrebbero avere

usi alternativi, al fine di ottenere il massimo dai propri mezzi» (allocazione delle risorse). La quantità

effettiva di beni che saranno prodotti e il loro prezzo dipenderà dall’incontro della domanda dei consumatori

e dell’offerta dei produttori sul mercato. Lo stesso meccanismo vale per le quote di reddito distribuite tra i

vari soggetti economici (per esempio se l’offerta di lavoro cresce rispetto alla domanda, il salario tende a sua

volta a scendere).

Le definizioni richiamate non devono essere considerate come alternative: la prima è più generale e consente di

valutare come il soddisfacimento dei bisogni e il comportamento economico possano assumere forme diverse,

condizionate dal modo in cui è organizzata la società; la seconda apre maggiormente allo studio dell’interazione tra

economia e società. E per questo motivo sembra più adatta alla prospettiva con cui la sociologia economica guarda

all’economia.

Un elemento che può accomunare diversi approcci teorici o discipline come la sociologia, l’antropologia e la storia

economica è l’ottica che guarda all’attività economica come processo istituzionalizzato. Non si parte cioè dal

singolo individuo isolato cui vengono imputate motivazioni utilitaristiche per poi ricostruirne gli effetti aggregati

sul piano della produzione e distribuzione di beni e servizi, ma dalle ISTITUZIONI.

Definizioni di ISTITUZIONI:

«Complesso di norme sociali che orientano e regolano il comportamento e si basano su sanzioni che

tendono a garantirne il rispetto da parte dei singoli soggetti». In ambito sociologico si parla di istituzioni

con riferimento a quelle pubbliche (politiche, giudiziarie, militari). Include anche il sistema di regole che

fondano tali collettività e rendono possibile il loro funzionamento, per esempio norme che regolano il diritto

di proprietà o i rapporti di lavoro.

Definizione di ORGANIZZAZIONI:

«Collettività concrete che coordinano un insieme di risorse umane e materiali per il raggiungimento di un

determinato fine». A differenza delle istituzioni, le organizzazioni compiono azioni.

Definizione di SISTEMA ECONOMICO:

«Diverse modalità nello spazio e nel tempo, attraverso le quali le istituzioni orientano e regolano le attività

economiche ».

La sociologia economica secondo SHUMPETER e WEBER

SCHUMPETER attribuisce alla sociologia economica il compito di spiegare >«come le persone sono giunte a

comportarsi in un certo modo», specificando che le azioni devono essere messe in rapporto con le istituzioni che

sono rilevanti per il comportamento economico, come lo stato o la proprietà privata e i contratti. Il sociologo

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dell’economia non si sofferma solo sull’influenza del contesto istituzionale sull’economia; tenderà anche a prendere

in esame anche il condizionamento inverso (bidirezionalità).

WEBER dice che una scienza «economico sociale» studia i rapporti di interdipendenza tra fenomeni economici e

sociali (l’economia si concentra invece soprattutto sulla formazione del mercato). Egli distingue tra fenomeni:

ECONOMICAMENTE RILEVANTI (riguardano l’influenza esercitata da istituzioni non economiche (es. quelle

religiose o politiche) sul funzionamento dell’economia.

ECONOMICAMENTE CONDIZIONATI: mettono in evidenza come anche gli aspetti non economici della vita

sociale, come quelli estetici o religiosi, siano influenzati da fattori economici.

Anche in questo caso emerge la bidirezionalità. Inoltre Weber dice che in nessun caso la tendenza della sociologia

deve condurre alla ricerca di leggi generali. Incoraggi l’uso limitato nel tempo degli ideal-tipi.

Lo studio di questi due fenomeni porta alla ricerca di regolarità e di nessi causali tra i fenomeni stessi.

SOCIOLOGIA, ANTROPOLOGIA e STORIA ECONOMICA

Le differenze tra queste discipline sono relative e spesso su determinate tematiche concrete, sfumano fino a lasciare

il posto a pratiche di ricerca simili, che a volte si estendono anche agli economisti meno ortodossi.

o ANTROPOLOGIA ECONOMICA: studia le strutture economiche delle società primitive; tra gli

strumenti utilizzati particolare rilievo ha l’osservazione partecipante. Tende a ricostruire i caratteri di una

società concreta vista nella sua totalità.

o STORIA ECONOMICA: si concentra sul passato; ha un orientamento individualizzante volto a costruire

fenomeni concreti servendosi dell’analisi documentaria. Le generalizzazioni teoriche sono limitate e viste

con diffidenza.

o SOCIOLOGIA ECONOMICA: l’oggetto di indagine prevalente è costituito dalle società contemporanee.

Strumenti: analisi documentaria, indagine empirica basata su interviste o sulla raccolta diretta di

informazioni trattabili quantitativamente. Ha un’ottica più generalizzante rispetto alla storia economica.

Punta maggiormente ad elaborare generalizzazioni teoriche sui rapporti tra fenomeni economici e non

economici, o sui rapporti tra industrializzazione e conflitto sociale, tra strutture economiche e

urbanizzazione. Si pone in posizione intermedia tre l’ottica generalizzante dell’economia e quella più

individualizzante della storia, secondo modelli teorici limitati a particolari contesti spazio-temporali.

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LO STATUS SCIENTIFICO DELLA DISCIPLINA

L’economia privilegia modelli analitico–deduttivi in cui è possibile determinare a priori il comportamento

dell’attore. La sociologia economica privilegia un approccio più induttivo, con l’attore che non agisce solo in base a

semplici motivazioni utilitaristiche (da qui la tendenza a limitare le generalizzazioni e ad ancorarle a confini spaziali

e temporali più definiti)1. Per questi motivi, le connessioni causali, oltre ad essere limitate, saranno più

empiricamente fondate.

In sociologia se si segue l’individualismo metodologico si sottolinea in genere l’influenza dei fattori sociali (valori,

norme, rapporti di potere) sull’azione individuale, mentre in economia prevale di solito una concezione più

atomistica dell’attore che prescinde da fattori extraindividuali; si insiste maggiormente sul perseguimento razionale

dell’interesse individuale da parte dei singoli soggetti.

Le scienze sociali possono aspirare alla formulazione di modelli; costruzioni ideali di situazioni particolari (la legge

ha invece una pretesa di applicabilità generale), definite da specifiche condizioni che ne limitano la validità nel

tempo e nello spazio.

La linea di frattura tra individualismo metodologico (che cerca di spiegare i fenomeni sociali partendo dalle

motivazioni individuali) e olismo metodologico o collettivismo (per i quale l’azione degli individui è ricondotta alle

condizioni che la influenzano) alimenta il cosiddetto PLURALISMO INTERPRETATIVO, cioè la coesistenza di diversi

modelli interpretativi in concorrenza tra loro.

IL PLURALISMO INTERPRETATIVO: SCIENZA E VALORI

L’obiettivo dello studio scientifico dei fenomeni sociali consiste nel ricostruire l’interazione tra condizioni esterne

dell’azioni e motivazioni degli attori. Si tratta di un obiettivo difficile da raggiungere e che si presta a diverse

soluzioni. Per due motivi:

La complessità dell’oggetto su cui si indaga. Le condizioni e le motivazioni che influenzano l’azione sono

molteplici e variano nel tempo e nello spazio. Il risultato di questi vincoli è una maggiore discrezionalità

dell’interprete nel selezionare alcune condizioni e motivazioni e nel metterle in rapporto;

La rilevanza dei valori del ricercatore (legati all’ampio margine di discrezionalità), dal momento che egli stesso

è parte della società in cui studia, ed ha a sua volta preferenze e criteri di orientamento che lo guidano nello

studio.

Il pluralismo interpretativo è una caratteristica ineliminabile, intrinsecamente legato alla storicità della società

stessa. In quest’ambito, WEBER distingue tra:

RELAZIONE AI VALORI, per cui nella selezione del tema di ricerca e nell’individuazione delle

connessioni causali tra fenomeni, il ricercatore non può non essere guidato dai suoi valori, e

GIUDIZI DI VALORE , riferiti invece alla desiderabilità di determinati fini, e quindi non giustificabili su

base scientifica.

La scienza deve essere al servizio della chiarezza dice Weber.

1 Si colloca, in questo senso, in una posizione intermedia tra l'ottica generalizzante dell'economia e quella più

individualizzante della storia.

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CAP. 1 Economia e istituzioni nella formazione dell’economia classica

QUANDO NASCE L’ECONOMIA

L’economia come disciplina nasce quando le attività economiche si emancipano da controlli e vincoli sociali

(religiosi e/o politici) e sono regolate dal mercato: produzione e distribuzione dipendono dal gioco della domanda e

dell’offerta sul mercato, con i soggetti coinvolti impegnati a massimizzare le possibilità di guadagno individuale.

Nelle SOCIETÀ ARCAICHE E PRIMITIVE le attività economiche erano incorporate in un sistema di istituzioni non

economiche. La produzione e lo scambio possono essere organizzati sulla base del principio di “reciprocità” o di

quello di “redistribuzione”, ma non dello “scambio di mercato”.

RECIPROCITA’ – Si producono e distribuiscono beni e servizi sulla base di obblighi di solidarietà condivisi

nei riguardi degli altri membri del gruppo (parentale o della tribù); tali obblighi sono di solito legati alle

prescrizioni di una religione, con un flusso di doni e contro doni, dove il comportamento economico dei singoli

non è motivato dal guadagno individuale. Non è altresì influenzata dal libero gioco della domanda e

dell’offerta sul mercato neanche la quantità dei beni prodotti e distribuiti;

REDISTRIBUZIONE – le norme sociali prevalenti prescrivono che determinati prodotti vengano

consegnati al capo del villaggio o della tribù per essere successivamente redistribuiti, in occasioni

cerimoniali particolari, secondo regole diverse, comunque basate su diversi gradi di disuguaglianza. È una

forma di organizzazione che consente una divisione del lavoro specializzata su scala territoriale più vasta

della precedente, e ha per questo bisogno di strutture politiche differenziate, con un “centro” che stabilisce

diritti e doveri dei sudditi con riferimento all’economia. Si amplia il volume delle attività economiche e si

comincia a far uso della moneta. Il comportamento economico non è più definito solo da obblighi sociali

condivisi, ma da specifiche regole formali fatte valere dal potere politico (di solito legittimato in termini

religiosi);

SCAMBIO di MERCATO – modo relativamente pacifico per acquisire beni non immediatamente

disponibili attraverso un rapporto bilaterale, che può essere sotto forma di:

Scambio di doni (tipico di una relazione di reciprocità regolata da norme condivise),

Scambio amministrato (transazioni rigidamente controllate dal potere politico),

Mercati autoregolati (mercati che determinano i prezzi attraverso il gioco della domanda/offerta; il

comportamento economico non è più condizionato da obblighi sociali o politici e risponde alla

“speranza di guadagno” o al “timore della fame”; l’ordinamento politico si limita a garantire

dall’esterno i diritti di proprietà e la libera contrattazione, mentre la possibilità di vita dei singoli

dipendono in misura crescente dalla vendita delle risorse di cui dispongono sul mercato.

Solo l’emancipazione delle attività economiche dai condizionamenti sociali e politici può, quindi, rendere possibile

l’economia come scienza.

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LA GRANDE SINTESI DI ADAM SMITH

Smith critica l’idea che il libero perseguimento dell’interesse individuale sia in grado di conciliare "naturalmente",

per mezzo del mercato, benessere individuale e collettivo. Infatti il benessere collettivo è favorito solo se il mercato

e la ricerca dell’interesse sono controllati da precise regole istituzionali.

I FONDAMENTI SOCIALI DELL’AZIONE ECONOMICA

L’azione umana è influenzata dalle norme sociali, e il guadagno individuale non deve essere considerato un fine in

sé, come un obiettivo naturale dell’uomo, ma è piuttosto uno strumento per ottenere approvazione sociale. Il

desiderio di migliorare le proprie condizioni appare come un dato permanente del comportamento umano, ma non

sempre questo si esprimerà nella ricerca della ricchezza, che avviene tipicamente in una “società commerciale”. In

altre situazioni il desiderio di affermazione individuale si esprime in forme diverse, definite dai valori dominanti

(forza fisica, potere politico, capacità militare ecc.).

Vi sono quattro stadi dello sviluppo storico che si succedono nel tempo, ciascuno caratterizzato da un tipo di

organizzazione economica prevalente, istituzioni e costumi diversi: caccia, pastorizia, agricoltura e commercio. A

ognuno di questi stadi corrispondono istituzioni diverse: le istituzioni che governano la società cambiano, infatti,

storicamente, come pure cambia l’azione economica che viene da queste variata e socialmente determinata.

Dopo aver definito una teoria generale del comportamento individuale come socialmente condizionato (nel quale

trova spazio anche l’azione economica come influenzata e vincolata dalle istituzioni), Smith esplora le conseguenze

economiche che discendono dal diffondersi dei nuovi comportamenti attraverso due modi:

Il primo riguarda le modalità secondo cui avviene la produzione dei beni e la distribuzione dei redditi in

una società capitalistica. Qui prevale una prospettiva di STATICA ECONOMICA: si suppone che non si crei nuova

ricchezza, ma che si usi quella esistente per soddisfare i bisogni. Le istituzioni capitalistiche sono considerate

come date;

Il secondo riguarda la DINAMICA DELL’ECONOMIA, ovvero la creazione di nuova ricchezza, con il problema

dello sviluppo. In questo caso, per Smith le istituzioni capitalistiche sono considerate delle variabili.

PRODUZIONE DI BENI e DISTRIBUZIONE DEI REDDITI in una "SOCIETÀ COMMERCIALE "

In una «società commerciale» l’attività economica non è più regolata in maniera prevalente dalla reciprocità e dalla

redistribuzione, ma dallo scambio di mercato. In questo senso, Smith distingue tra:

Prezzo di mercato, che riflette le oscillazioni di breve periodo della domanda e dell’offerta, e

Prezzo naturale, che si afferma nel lungo periodo e che riflette il costo della produzione. Il prezzo naturale di

una merce è ciò che è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti dei fondi impiegati

per coltivare, preparare e portare sul mercato la merce stessa

Nel lungo periodo la quantità di beni prodotti sarà pari al livello della domanda che rende possibile remunerare il

costo di produzione. La quantità di beni prodotti è strettamente collegata ai meccanismi di distribuzione del reddito

tra coloro che partecipano all’attività economica.

Anche per la distribuzione del reddito si suppone l’esistenza di un prezzo definito dal mercato per salari, profitti e

rendite. Il SALARIO si forma nel mercato del lavoro, con dei meccanismi che spingono verso il prezzo naturale, che

corrisponde al minimo necessario perché i lavoratori possano riprodursi. Di questi meccanismi, Smith ne individua

in particolare due:

La capacità di organizzazione dei lavoratori e dei datori di lavoro , per cui i primi si coalizzano per elevare il

salario, mentre i secondi per diminuirlo. Questi ultimi sono favoriti perché in numero minore e perché la legge

non proibisce loro di coalizzarsi (e possono quindi resistere più a lungo);

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I movimenti demografici: se i salari diminuiscono troppo, s’innesca una reazione che porta, attraverso il calo

delle nascite, alla riduzione quantitativa della forza lavoro e quindi al ristabilimento dell’equilibrio.

In generale Smith ritiene che i salari siano destinati a crescere per effetto dello sviluppo economico, che fa

aumentare la domanda di lavoro. Quindi anche i lavoratori sono interessati oggettivamente all’aumento della

ricchezza della società.

Il PROFITTO invece non cresce con la prosperità e non diminuisce con il declino della società, come avviene per la

rendita e per i salari. Al contrario esso è naturalmente basso nei paesi ricchi ed è alto in quelli poveri: infatti, se

nella produzione di un determinato bene, vi è poca concorrenza, il profitto tenderà a salire, ma al crescere della

concorrenza, con l’entrata di nuovi investitori, si verificherà l’opposto. Con lo sviluppo delle attività economiche

diventa più difficile trovare impieghi redditizi per gli investimenti2.

Smith non è comunque pessimista e ritiene che un basso tasso di profitto sia un ingrediente necessario per stimolare

la ricerca di nuovi impieghi e la crescita della produttività.

La RENDITA è indirettamente influenzata dalla crescita economica. Il prezzo pagato per l’uso della terra tenderà

infatti a corrispondere a quella parte del valore del prodotto che eccede i salari e i profitti necessari per produrlo ai

saggi medi fissati per i rispettivi mercati. Salari e profitti alti o bassi sono le cause del livello dei prezzi; una rendita

alta o bassa è l’effetto di tale livello. In una società che si sviluppa la rendita tenderà pertanto a crescere.

Per Smith, affinché i meccanismi di distribuzione del reddito ed i legami con la produzione (e quindi il mercato)

possano funzionare nella maniera indicata, occorrono nuove regole che definiscano il comportamento degli attori,

e cioè:

a) Che in seguito al processo di espropriazione dei contadini si formi una classe di lavoratori salariati le cui

condizioni di vita dipendano dalla vendita del loro lavoro sul mercato;

b) Che si affermi una classe di capitalisti che concentrano nelle loro mani le risorse necessarie ad avviare e

condurre il processo produttivo, e le cui condizioni di vita dipendano dal profitto conseguito con

l’investimento del capitale;

c) Che i proprietari terrieri traggano a loro volta il sostentamento dalla possibilità di affittare la terra ai

capitalisti agrari, che la coltivano pagando loro una rendita.

Queste innovazioni configurano l’emergere di una società capitalistica, dotata di proprie istituzioni che spingono

l’economia a emanciparsi da controlli sociali e politici, e di nuove classi che su tali istituzioni si fondano.

Smith afferma inoltre che il costo di produzione non si esaurisce nel costo del lavoro necessario a produrre una

determinata merce: se nelle società precedenti il valore del lavoro incorporato in una merce equivaleva al suo valore

di scambio, in un contesto istituzionale in cui si siano consolidate l’accumulazione di fondi e l’appropriazione

della terra (quindi in un contesto capitalistico), il prezzo naturale delle merci viene determinato da una calcolo dei

costi più complesso, che oltre al salario del lavoro deve includere anche il profitto e la rendita.

Smith ha una visione ottimistica dell’economia capitalistica e ritiene che a certe condizioni, le istituzioni

capitalistiche siano le più appropriate per garantire assieme benessere ed equità, efficienza economica e consenso.

Egli ritiene inoltre che non vi sia contraddizione tra il fatto che il lavoro è la fonte originaria della ricchezza e che da

esso siano anche dedotte le quote di reddito dei capitalisti e dei proprietari terrieri.

LO SVILUPPO ECONOMICO E LE ISTITUZIONI

La concorrenza determina un’allocazione efficiente delle risorse all’interno di una determinata attività, perché

spinge i prezzi ad avvicinarsi ai costi di produzione, e fra le diverse attività, perché spinge capitale e lavoro a

2 Vedi la variabilità dei mercati e la veloce obsolescenza di categorie di investimento.

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spostarsi verso gli impieghi più vantaggiosi, riducendo così le differenze di rendimento. In questo modo il mercato

concorrenziale assicura ciò che è più domandato ai prezzi più bassi possibili.

Gli economisti sono stati affascinati dalle capacità ordinatrici di questa macchina per cui ogni individuo

perseguendo il suo interesse, spesso persegue l’interesse della stessa società in modo molto più efficace di quanto

intende effettivamente perseguirlo.

Smith, però, era interessato all’efficienza dinamica, più che a quella statica, del mercato: in questo senso,

nell’analisi dinamica sulle cause della ricchezza delle nazioni, le istituzioni diventano delle variabili ed il mercato

può avere una funzione dinamica e sostenere lo sviluppo economico se regolato da istituzioni appropriate. Ne

discendono queste conseguenze:

a) Nell’analisi del processo di sviluppo economico, i fattori non economici come le istituzioni hanno un ruolo

esplicativo essenziale, sono le variabili indipendenti;

b) Per Smith le istituzioni capitalistiche sono tanto più appropriate a sostenere lo sviluppo economico, tanto

più si avvicinano a quelle del «capitalismo concorrenziale»;

c) Lo sviluppo economico, è lo strumento principale che consente al capitalismo concorrenziale di evitare le

tensioni tra economia e società, di tenere assieme efficienza economica e consenso sociale.

Per Smith, molto importante per la crescita della produttività – e quindi della ricchezza – è la DIVISIONE DEL

LAVORO. L’aumento della produttività (cioè la quantità di lavoro che lo stesso numero di persone può svolgere) ha tre

ragioni:

Perché accresce l’abilità di ogni singolo operaio che si può così specializzare in una mansione;

Per il risparmio di tempo che si perde passando da un lavoro ad un altro;

Perché viene facilitata l’invenzione di macchine che riducono il tempo di lavoro;

Per quanto riguarda le condizioni da cui dipende la divisione del lavoro, Smith afferma che essa «è limitata

dall’ampiezza del mercato». Essendo quest’ampiezza e il volume degli scambi a loro volta funzione della quantità

di fondi impiegati, si può affermare che la divisione del lavoro varia con l’entità degli investimenti. Quanto più

questi cresceranno, tanto più, attraverso la concorrenza verrà incoraggiata la specializzazione produttiva, e di

conseguenza la divisione del lavoro all’interno delle singole unità produttive.

L’accumulazione del capitale è dunque una condizione necessaria per la crescita della produttività, perché favorisce

l’allargamento del mercato e la divisione del lavoro. Necessaria ma non è sufficiente, perché per Smith occorre che

l’accumulazione sia stimolata e regolata da istituzioni appropriate.

VANTAGGI DEL CAPITALISMO CONCORRENZIALE SU QUELLO MONOPOLISTICO

In ogni attività produttiva è opportuno che vi sia un numero elevato di capitalisti che investono fondi, in

concorrenza tra loro, senza essere in grado di manipolare le quantità offerte e i prezzi. Ciò è possibile

fondamentalmente in presenza di scelte politiche opportune, che eliminino gli ostacoli istituzionali alla mobilità del

capitale e del lavoro. Smith critica in questo senso le politiche protezionistiche e di incentivazione del

mercantilismo, proponendo un limitato intervento dello stato nell’economia: una volta eliminate le barriere

istituzionali dovute a politiche errate, la società civile si avvierà spontaneamente verso un’imprenditorialità diffusa

in grado di alimentare mercati concorrenziali.

Le condizioni di monopolio non sono invece vantaggiose, perché alterano i prezzi e le quantità, in modo tale che ciò

che viene domandato sia ottenuto in modo più costoso dai consumatori. L’interesse del capitalista «è sempre di

allargare il mercato e restringere la concorrenza», ma in realtà sono più vantaggiose, per lo sviluppo economico,

le difficoltà a ottenere o mantenere il profitto, perché stimolano l’imprenditorialità del singolo capitalista e

favoriscono la crescita della produttività.

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Per Smith un alto tasso di profitto è deleterio, perché distrugge la parsimonia, virtù connaturata al carattere del

mercante, e spinge verso un lusso dispendioso, che influenzerà i costumi di tutta la parte attiva della popolazione.

Due sono le condizioni istituzionali che definiscono l’assetto del capitalismo concorrenziale:

L’impegno diretto del capitalista come imprenditore nella gestione dell’impresa – Smith è contrario alle società

per azioni, perché i manager, per il fatto di amministrare denaro non proprio, hanno meno incentivi a

comportarsi in modo efficiente di quanto non possa fare il proprietario. Lo stimolo a reagire alla concorrenza e

ad accrescere la produttività sarà più elevato nelle imprese gestite direttamente dal proprietario;

Norme di comportamento che limitino gli effetti della concorrenza sul salario dei lavoratori – Smith

considerava negativamente le organizzazioni sindacali, per i rischi di distorsione del mercato del lavoro.

Riteneva invece opportuna, per migliorare la produttività, una politica unilaterale da parte degli imprenditori di

alti salari, che avrebbero indotto gli operai ad essere più attivi, più diligenti e svelti di quando i salari sono

bassi, e incoraggiato la produttività in caso di più elevate possibilità di mobilità sociale.

RUOLO DELLO STATO NELLO SVILUPPO ECONOMICO

Smith considerava positive per lo sviluppo economico tutte quelle condizioni istituzionali che potevano favorire la

combinazione di bassi profitti e alti salari. Lo stato doveva quindi restare fuori dall’economia e limitarsi ad

assolvere queste tre funzioni:

Assicurare la difesa nazionale

Garantire l’amministrazione della giustizia

Provvedere a opere pubbliche necessarie alle attività economiche e all’istruzione

Tutte attività di estrema importanza per la società che non possono essere svolte adeguatamente dal settore privato.

Il capitalismo concorrenziale può assicurare più sviluppo se anche le attività statali sono permeate da quei principi

di responsabilizzazione e impegno personale che sono presenti nella società civile, dove sono stimolate dal mercato.

Le istituzioni sono in grado di conciliare efficienza economica e consenso per due ragioni:

Perché producono più sviluppo (e con lo sviluppo aumenta il benessere di tutte le classi sociali);

Perché il mercato concorrenziale riduce le disuguaglianze (porta a bassi profitti e alti salari) di quella misura

giudicata necessaria affinché il desiderio di migliorare la propria condizione possa produrre insieme un impegno

maggiore ed un beneficio collettivo.

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CAP.2 La svolta economicista e i suoi critici: storicismo e marxismo

LA CRITICA DI MARX

Marx condivide la visione più pessimistica dello sviluppo che si era fatta strada con Malthus e Ricardo, ma mentre

questi ultimi parlavano di limiti naturali allo sviluppo, per Marx esistono vincoli sociali legati alle istituzioni

fondamentali dell’economia capitalistica, cioè la proprietà privata dei mezzi di produzione e il lavoro salariato

come strumenti che regolano la produzione dei beni e la distribuzione dei redditi.

Alla visione armonica di Smith, Marx contrappone una visione dialettica, influenzata dalla filosofia idealistica

tedesca. Il capitalismo genera una polarizzazione crescente delle classi sociali, e ciò porta ad una progressiva

intensificazione del conflitto, che a sua volta determina il superamento delle vecchie forme di organizzazione

economica.

Mentre lo storicismo insiste sulle differenze nazionali che si accompagnano allo sviluppo, Marx guarda a quelle di

classe. Lo storicismo resta legato alla visione idealistica dello sviluppo storico, in cui l’evoluzione culturale

condiziona l’organizzazione economica, mentre Marx ribalta il rapporto tra gli aspetti culturali ed economico-

sociali, individuando in questi ultimi il motore dello sviluppo storico. Marx non si propone di mostrare una generica

interconnessione tra i diversi aspetti della realtà sociale, vuole piuttosto formulare una teoria generale dello sviluppo

storico.

L’obiettivo di Marx non è ne sviluppare l’indagine economica in senso stretto, né di fondare una sociologia

economica, ma gettare le basi per una scienza complessiva della società in cui aspetti economici e aspetti

istituzionali sono strettamente collegati e non separabili. In tal modo sarà anche possibile prevedere lo sviluppo storico e

fondare scientificamente una guida per l’azione politica. Da qui l’impegno di Marx e Engels non solo sul terreno

scientifico, ma anche su quello politico come organizzatori del movimento dei lavoratori.

LA TEORIA DELLO SVILUPPO STORICO

Marx imputa ai classici di considerare naturale la divisione di classe che regola le modalità di produzione dei beni e

distribuzione dei redditi proprie dell’economia capitalistica, e quindi di non valutare adeguatamente le differenze

storiche nelle forme di organizzazione economica. I classici non ritenevano che lo sviluppo dovesse portare

inevitabilmente al conflitto di classe e che tale conflitto dovesse a sua volta generare un superamento dell’economia

capitalistica3 . Marx invece si pone due obiettivi

Storicizzare l’analisi economica, individuando sia forme di organizzazione corrispondenti a società diverse, a

stadi differenti dello sviluppo, sia meccanismi di passaggio tra stadi.

Mettere in evidenza il ruolo del conflitto di classe nell’economia capitalistica e il mutamento che esso imprime

all’intera società.

Per Marx non è possibile studiare l’economia prescindendo dalle istituzioni che la regolano, perché la produzione è

sempre un processo sociale e non solo economico. Da ciò discendono una serie di conseguenze, tra loro collegate.

I RAPPORTI SOCIALI DI PRODUZIONE, cioè i rapporti sociali entro i quali gli individui producono, sono per Marx

l’elemento essenziale. Essi fondano la divisione in classi, nel senso che i membri di una determinata società si

dividono a seconda del modo in cui partecipano alla produzione. I rapporti di proprietà sono la forma giuridica dei

rapporti di produzione. La distribuzione del prodotto, e quindi la disuguaglianza sociale, saranno condizionate dalla

posizione di classe. Marx insiste sul fatto che la società capitalistica non può essere concepita secondo il modello

individualistico–utilitaristico dell’economia classica.

3 Per Smith, lo sviluppo capitalistico avrebbe favorito cooperazione ed integrazione sociale. Per Malthus e Ricardo,

vincoli naturali legati alla dinamica demografica e alla scarsa disponibilità di terre avrebbe costretto la classe operaia a

livello di sussistenza, impedendole di organizzarsi per mutare le proprie condizioni.

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Essa non è costituita da un insieme di individui isolati, con pari opportunità, che si scambiano beni e servizi

cercando di massimizzare il loro interesse. Coloro che dispongono solo della propria capacità di lavoro sono

costretti ad accettare le condizioni di scambio imposte da chi controlla i mezzi di produzione, cioè dai capitalisti.

L’ordine sociale si basa dunque, sulla coercizione esercitata dalle classi dominanti .

I rapporti di produzione e le relative classi, non variano accidentalmente: essi corrispondono ad un determinato

grado di sviluppo delle forze produttive, cioè l’insieme dei mezzi materiali di produzione.

I rapporti di produzione corrispondenti a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive costituiscono la

“struttura” della società. La struttura economica condiziona a sua volta l’organizzazione sociale e politica,

l’ordinamento giuridico e le forme di sviluppo culturale, religioso e artistico. L’insieme di questi aspetti rappresenta

la “sovrastruttura” della società.

L’ordine sociale si mantiene fino a quando lo sviluppo delle forze produttive non è ostacolato dal modo di

produzione, con i suoi specifici rapporti e le sue classi. In questa situazione permane la congruenza tra struttura e

sovrastruttura. I valori della classe che controlla i mezzi di produzione riescono a imporsi e sono condivisi anche

dalla classe dominata. Anche le forme della politica sono congruenti con il modo di produzione, perché riflettono gli

interessi della classe dominante e contribuiscono a rafforzarla. L’ordine sociale non si mantiene perciò solo sulla

coercizione, che sarebbe costosa, ma sul consenso.

La società caratterizzata da un determinato modo di produzione è destinata a cambiare, perché viene messa in

discussione quando lo sviluppo delle forze produttive non può più essere contenuto nel precedente modo di

produzione e trova in esso dei vincoli crescenti. La nuova classe emergente lotta contro la vecchia classe dominante

e i vecchi rapporti di produzione che costituiscono ora un vincolo per le forze produttive. Nel corso del conflitto

viene meno la congruenza tra struttura e sovrastruttura. Le stesse istituzioni politiche non riescono più a difendere

adeguatamente la classe dominante e i preesistenti rapporti di produzione. Alla fine del processo un nuovo modo di

produzione si afferma. L’affermazione di una nuova classe, e il conflitto di classe, non possono essere accidentali,

ma sono fondamentalmente ancorati alla relazione tra forze produttive e rapporti di produzione. Marx non rinnega

mai il ruolo attivo nel processo storico della coscienza di classe e dell’azione politica, ma questi fattori possono

esplicarsi pienamente solo quando si danno le condizioni economiche favorevoli.

Vengono individuati quattro tipi di società, ciascuna si basa su un modo di produzione dominante

Antica schiavitù

Feudale servitù della gleba

Borghese lavoro salariato

Asiatica subordinazione dei lavoratori agricoli allo stato

Le prime tre si sono succedute nella storia occidentale, mentre quella asiatica si riferisce alla specifica esperienza di

paesi come India e Cina.

In Europa, l’espropriazione dei contadini, e la successiva appropriazione da parte della nascente borghesia dei

possedimenti ecclesiastici, sono alla base della formazione del capitale e del lavoro salariato, cioè dei rapporti di

produzione necessari per l’economia capitalistica. Marx però, sottolineando il ruolo della violenza e del conflitto

politico, lascia intravedere una dinamica del processo che non è congruente con la sua teoria generale dello sviluppo

storico. Non è, infatti, la crescita economica della borghesia a generare le modificazioni del quadro istituzionale

necessarie per il funzionamento del capitalismo, ma è piuttosto un processo politico che crea i presupposti per la

crescita della borghesia.

LO SVILUPPO CAPITALISTICO

Marx vuole dimostrare che lo sviluppo capitalistico crea, nel corso della sua evoluzione, le condizioni economiche

per il rafforzamento della classe operaia. In un’economia capitalistica, basata sulla proprietà privata dei mezzi di

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Page 11: riassunto sociologia economica

produzione, non ci può essere produzione di beni se non c’è profitto per i detentori del capitale. Nello stesso tempo

però il valore di scambio delle merci riflette la quantità di lavoro in esse incorporata.

Marx riprende la teoria del valore–lavoro di Ricardo, per cui la forza lavoro è una merce con una caratteristica

particolare, nel momento in cui è utilizzata nel processo produttivo crea un valore aggiuntivo rispetto a quello

necessario a produrla, e quindi ad acquistarla sul mercato. Il valore della forza lavoro, cioè il salario, è fissato dalla

quantità di lavoro incorporata nelle merci necessarie ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione dei lavoratori e

delle loro famiglie.

A differenza delle altre merci però, la forza lavoro crea più valore di quello necessario ad acquistarla, cioè il salario

con cui viene retribuita. Il tempo di lavoro dell’operaio salariato è, infatti, superiore a quello necessario per produrre

un valore corrispondente al suo salario. Questa differenza costituisce un pluslavoro che è fonte di plusvalore.

L’entità del plusvalore rispetto al salario anticipato dal capitalista dà la misura del tasso di sfruttamento.

Sarà interesse del capitalista aumentare tale tasso allungando la giornata lavorativa o riducendo il salario a parità di

orario. Il progresso tecnico nella misura in cui accresce la produttività del lavoro, si risolve in un aumento del

plusvalore prodotto. Posto che:

Per CAPITALE VARIABILE s’intendono le anticipazioni salariali, e che

Il CAPITALE COSTANTE è quello rappresentato dagli impianti e dalle materie necessari per la produzione,

Secondo Marx il capitale costante non crea valore aggiuntivo (solo il lavoro ha questa qualità), perciò il tasso di

profitto diminuirà al crescere della «composizione organica del capitale», cioè il rapporto tra il valore del

capitale costante e quello del capitale variabile.

In una situazione di concorrenza, i singoli capitalisti–imprenditori sono forzati ad introdurre nuove macchine e

quindi ad aumentare il capitale fisso a spese del lavoro, così riducono il costo del lavoro e godono di maggior

profitti fino a quando anche gli altri capitalisti non saranno spinti ad introdurre le stesse innovazioni e questo ha due

conseguenze fondamentali:

Fa aumentare la disoccupazione e peggiora le condizioni della classe operaia;

Determina una caduta tendenziale del saggio di profitto che riduce lo stimolo alla produzione.

Il livello dei salari dipende dall’entità della disoccupazione, cioè da quello che viene chiamato «esercito

industriale di riserva»: quando cresce la domanda di lavoro, tale esercito si riduce e i salari aumentano,

determinando una diminuzione del saggio di profitto e quindi un successivo calo della domanda di lavoro e un

abbassamento del salario.

Un’eventuale crescita dei salari costituisce inoltre un incentivo alla sostituzione di lavoro con macchinario. Secondo

Marx, quindi, la tendenza alla meccanizzazione determina nel lungo periodo un ingrossamento dell’esercito

industriale. Solo le imprese più grandi riescono a mantenersi nel mercato, facendo crescenti investimenti in capitale

fisso. Si determina così una proletarizzazione dei piccoli produttori. La disoccupazione non è dunque per Marx

dovuta alla pressione demografica, ma al funzionamento stesso dell’accumulazione capitalistica.

L’introduzione di nuove macchine si accompagna inoltre al processo di “alienazione” dei lavoratori, ridotti ad

insignificante appendice della macchina.

L’accumulazione capitalistica ha inoltre conseguenze sociali negative per i capitalisti, visto che quando le

innovazioni si sono diffuse, si determina un abbassamento complessivo del saggio di profitto dovuto al maggior

peso del capitale costante rispetto a quello variabile, e quindi al minor plusvalore.

I limiti dell’economia capitalistica non sono più naturali, come per Malthus e Ricardo, ma sociali: sono legati

ai rapporti di classe che connotano il processo produttivo.

Le contraddizioni però non portano automaticamente alla crisi e al suo superamento, ma costituiscono le premesse

che determinano la progressiva trasformazione della classe operaia da un aggregato di individui in concorrenza tra

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Page 12: riassunto sociologia economica

loro sul mercato del lavoro, ad un gruppo sociale coeso, attore storico. Solamente quando questo processo si

compie, e la classe operaia si organizza politicamente si determina la trasformazione del vecchio modo di

produzione.

IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA SOCIOLOGIA ECONOMICA DI MARX

L’esigenza di non separare l’analisi economica dal contesto istituzionale ha innanzitutto portato Marx a una teoria

dei diversi modi di produzione e della loro evoluzione nel tempo, e ad analizzare un classico problema della

sociologia economica, in genere tralasciato dagli economisti, eccetto Smith, cioè le origini dell’economia

capitalistica.

Tra i punti di forza dell’interpretazione marxiana del capitalismo, va annoverata la capacità di render conto degli

aspetti dinamici dell’economia e degli effetti di destabilizzazione sociale e di conflittualità, che non trovano

adeguato posto negli schemi degli economisti classici.

Il CIRCOLO VIZIOSO è questo: la crisi economica dipende dal conflitto di classe, che porta alla crisi economica.

Un punto critico è che l’introduzione di nuove tecniche fa in genere aumentare la produttività del lavoro, e se i

salari non salgono più della produttività, ciò non determina un calo, ma una crescita dei profitti.

Questi possono essere destinati a nuovi investimenti e quindi ad una nuova domanda di lavoro che compensa quella

eliminata dalla meccanizzazione.

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Page 13: riassunto sociologia economica

Il conflitto di classe invece viene sopravvalutato per due motivi:

1. Al mancato realizzarsi di quelle previsioni pessimistiche sull’andamento dell’economia che Marx

pensava di stabilire con precisione da scienze naturali

2. La maggiore rilevanza delle determinazioni “sovrastrutturali” delle classi, cioè all’influenza autonoma

di fattori socio–culturali e politici.

La forte sottovalutazione dello stato, che riflette l’immagine del capitalismo liberale di tipo inglese, impediva a

Marx di prevedere come il conflitto potesse essere attenuato o controllato dal sistema politico, ponendo pochi

vincoli all’organizzazione della classe operaia e accogliendo le domande economiche, sociali e politiche delle

organizzazioni di rappresentanza.

Gli esiti rivoluzionari si sono avuti in paesi come la Russia e la Cina dove le forze produttive erano più arretrate, e

non laddove maggiore era il loro sviluppo, come la teoria suggeriva.

Marx era convinto sin dalla gioventù della necessità della rivoluzione e tutta la sua analisi spinge a ricercare delle

leggi che mostrassero l’inevitabilità (non solo la necessità) di questa. La soluzione viene trovata nelle leggi

dell’economia classica, modificate con l’innesto dell’elemento storico costituito dal conflitto di classe.

Ciò richiedeva però di ridurre drasticamente la variabilità del comportamento umano, facendolo dipendere in ultima

istanza dalle istituzione economiche, conducendo ad una teoria troppo rigida, in cui poco peso hanno le istituzioni

non economiche.

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Page 14: riassunto sociologia economica

CAP. 3 Economia neoclassica e sociologia economica (omissis)

CAP. 4 Origini e sviluppo del capitalismo: SIMMEL e SOMBART

IL CAPITALISMO COME PROBLEMA

L’economia classica teneva conto del capitalismo in termini di proprietà privata, mezzi si produzione, lavoro

salariato, ruolo del mercato e dello stato, senza però preoccuparsi di indagare sulle origini e sull’evoluzione del

capitalismo come fenomeno storico.

LA FILOSOFIA DEL DENARO DI SIMMEL

L’obiettivo di Simmel è quello di chiarire la genesi e i caratteri della società moderna, e di valutare il senso, il

significato ultimo che essa assume per la vita degli uomini. La società non è per lui un sistema, un organismo

costituito da varie parti tra loro funzionalmente collegate; è piuttosto formata da un insieme di istituzioni che

nascono dall’interazione tra gli uomini e, una volta consolidatesi, ne condizionano il comportamento. Simmel parla

in proposito di forme pure. La sociologia studia le origini e i caratteri di tali forma, ovvero dei modelli di

comportamento istituzionalizzati.

IL DENARO È UNA DI QUESTE ISTITUZIONI, ma per Simmel ha un’importanza cruciale, nel senso che condiziona

sempre più estesamente e profondamente le relazioni tra gli uomini nella società moderna. Chiarire le origini e le

conseguenze dell’uso del denaro, ovvero dell’economia monetaria, è essenziale per comprendere la società moderna.

In questo, Simmel presenta somiglianze con Marx, Weber e Sombart:

L’insistenza sui presupposti culturali e istituzionali dell’economia monetaria e del capitalismo;

Il riconoscimento del fatto che alcuni soggetti (stranieri, ebrei), in virtù della loro condizione sociale di

marginalità, esercitano un ruolo primario per la diffusione dell’economia monetaria;

L’immagine delle conseguenze sociali dell’economia monetaria in termini di crescente spersonalizzazione e

razionalizzazione delle relazioni sociali e degli ambiti di vita;

L’immagine del socialismo, in contrasto con quella di Marx, come ulteriore sviluppo della razionalizzazione

delle relazioni sociali e degli ambiti di vita.

LE CONDIZIONI NON ECONOMICHE DEL DENARO

Il capitalismo come sistema economico presuppone:

Accumulazione privata del capitale la quale, a sua volta, richiede che

Il denaro si diffonda come strumento degli scambi e si allarghi dunque la cerchia dei soggetti coinvolti

nell’economia monetaria; serve però una condizione non economica:

Occorre che cresca la fiducia nel denaro come aspettativa che il suo impiego possa sempre disporre di una

contropartita in beni concreti.

L’accumulazione del capitale presuppone dunque un’accumulazione di fiducia, e questa condizione culturale è a sua

volta sostenuta da fattori istituzionali:

La legittimazione e l’efficacia del potere politico e le garanzie fornite dall’ordinamento giuridico.

Il denaro diventa così un’istituzione pubblica.

Tra l’economia monetaria e lo stato centralizzato e il sistema giuridico, si stabilisce un rapporto di interdipendenza.

La prima cresce grazie ai secondi che la garantiscono, ma questi a loro volta si rafforzano in relazione agli effetti

indotti dalla diffusione del denaro come mezzo di scambio.

L’economia monetaria è stata un fattore di dissoluzione dell’economia naturale basata sull’autoconsumo, favorendo

in tal modo la formazione dello stato centralizzato, che doveva svolgere la funzione di controllo della moneta.

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Page 15: riassunto sociologia economica

I protagonisti della diffusione del denaro e degli scambi sono soprattutto gli individui e i gruppi sociali esclusi dal

pieno godimento dei diritti vigenti in una determinata società, che si dedicano più facilmente all’accumulazione di

denaro come strumento per il conseguimento di posizioni sociali che non possono raggiungere con i mezzi

tradizionali. Nei riguardi di questi non valgono le sanzioni giuridiche che nella società tradizionale dell’economia

naturale allontanano dall’uso del denaro.

La marginalità sociale alimenta lo sviluppo di attività commerciali e finanziarie negli stranieri e negli ebrei, nei

moriscos in Spagna, i paria in India, e nei quaccheri in Inghilterra. Sono questi i principali agenti del mutamento

che prepara le condizioni per lo sviluppo del capitalismo.

LE CONSEGUENZE DELL’ECONOMIA MONETARIA

Da questo punto di vista, Simmel mette in luce l’ambivalenza del fenomeno, che presenta aspetti positivi e negativi:

Il denaro favorisce la crescita della libertà individuale. L’economia monetaria rende sostituibili i rapporti

sociali nella sfera dello scambio come nella sfera della produzione, attenuando la dipendenza; è possibile

scegliere tra fornitori diversi e questo spersonalizza le relazioni tra chi compra e vende e aumenta

l’indipendenza reciproca di entrambi. La libertà si accresce anche nei riguardi degli oggetti, rompendo la fissità

e la ritualità delle forme di consumo tradizionali;

Nella sfera della produzione, al rapporto di dipendenza totale del servo della gleba nei riguardi del signore

subentra uno specifico e determinato contratto di lavoro, che spersonalizza il rapporto, lo lega al

perseguimento di un obiettivo limitato che non include la sfera extralavorativa, e soprattutto lo rende sostituibile

da una parte e dall’altra;

Peggiorano le condizioni dei lavoratori rispetto all’economia naturale, in cui vi era l’obbligo di protezione

sociale dei subalterni da parte dei signori (ma questo è il prezzo della libertà). Per Simmel è un prezzo che vale

la pena pagare, per acquisire la consapevolezza di sé e per fornire solo una prestazione che vale precisamente il

suo equivalente in denaro;

La caratterizzazione tecnico-funzionale delle prestazioni lavorative favorisce l’accettazione delle posizioni di

superiorità e di subordinazione tra i lavoratori, in un’organizzazione che rende risultati vantaggiosi.

L’allargamento e la pluralizzazione delle cerchie sociali in cui il singoli s’inserisce per sua scelta è

l’espressione e lo strumento attraverso cui si forma la personalità individuale.

Simmel non condivide i giudizi di Marx sul carattere problematico dei rapporti di produzione.

Il denaro aumenta la libertà individuale, ma da mezzo per il raggiungimento di determinati scopi

tende a trasformarsi in fine esso stesso. L’economia monetaria viene a condizionare sempre più il

comportamento individuale con le sue esigenze, ma gli uomini perdono il controllo sui fini ai quali il denaro

piega l’organizzazione sociale. Non solo i mezzi tendono a trasformarsi in fini, ma anche la vita quotidiana è

caratterizzata dalla perdita di qualità dei rapporti sociali, con una spersonalizzazione crescente di questi. Si

diffondono la razionalizzazione e il calcolo in tutti gli ambiti di vita: la calcolabilità diventa l’essenza dell’epoca

moderna.

I valori qualitativi si trasformano in quantitativi; l’uso del tempo e dello spazio sono sempre più

piegati alle esigenze dell’economia monetaria che dissolve le vecchie solidarietà tradizionali. Gli uomini

acquistano maggiore libertà individuale, ma si ritrovano anche più soli e più incapaci di definire le loro mete

collettive.

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Page 16: riassunto sociologia economica

CAPITALISMO E SOCIALISMO

Simmel non vede nel socialismo una soluzione per le conseguenze dell’economia monetaria. Per lui il socialismo è

nello stesso tempo razionalismo e reazione al razionalismo, reazione alla perdita dei vecchi legami collettivi

tradizionali e il tentativo di ricostruire nuove solidarietà collettive.

Ma la reazione è destinata ad accentuare le caratteristiche costrittive, perché la centralizzazione assoluta dei mezzi di

produzione nelle mani della società porterebbe inevitabilmente ad un socialismo di stato, ben lontano dagli ideali di

nuova solidarietà.

Il cambiamento del capitalismo dovrebbe per Simmel seguire due direzioni:

Le istituzioni dell’economia capitalistica troverebbero maggiore legittimazione quanto più fossero fondate su

motivi tecnico-funzionali, cioè sulla valorizzazione delle competenze e dei meriti, senza alimentare stabili e

ingiustificate disuguaglianze sociali.

Ridurre l’umana tragedia della concorrenza, attraverso lo sviluppo tecnico finalizzato a mettere a disposizione

nuove risorse della natura per ridurre la concorrenza degli uomini per l’acquisizione di beni scarsi; e attraverso

la crescita dei beni collettivi, cioè la capacità di ridurre di produrre risorse la cui fruibilità da parte di alcuni non

va a scapito di altri.

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Page 17: riassunto sociologia economica

IL CAPITALISMO MODERNO DI SOMBART

Per Sombart è centrale l’obiettivo della costruzione consapevole di una sociologia economica. La nuova «scienza

sociale della vita economica» ha obiettivi teorici, vuole contribuire alla spiegazione scientifica dei fenomeni

economici, ma in un quadro storico, nell’ambito di coordinate spaziali e temporali ben definite (distinguendosi

dall’economia politica e dallo storicismo).

ELEMENTI DI SOCIOLOGIA ECONOMICA

Per Sombart l’economia è «l’attività umana volta alla ricerca dei mezzi di sussistenza». I bisogni umani variano

nel tempo e accanto a quelli relativi alla sopravvivenza fisica si aggiungono nel corso dello sviluppo storico nuovi

bisogni culturali, ma è sempre necessario produrre dei beni e dei servizi che vengono distribuiti e consumati

secondo alcune regole condivise.

La mentalità economica o spirito economico, l’insieme dei valori e delle norme che orientano il

comportamento dei soggetti economici

L’organizzazione economica, complesso di norme formali e informali che nell’ambito di una società regolano

l’esercizio delle attività economiche da parte dei soggetti

La tecnica, riguarda le conoscenze e i procedimenti utilizzati per produrre beni e servizi e soddisfare i bisogni

degli individui

Questi tre aspetti variano nel tempo e nello spazio, nel loro insieme consentono di individuare un SISTEMA

ECONOMICO, «una forma particolare di economia, una determinata organizzazione della vita economica nel cui

ambito regna una determinata mentalità economica e si applica una determinata tecnica».

Il concetto di sistema economico riassume il carattere tipicamente storico della vita economica.

Relativamente allo SPIRITO ECONOMICO, Sombart distingue tra:

Orientamento volto alla copertura del fabbisogno, dove il comportamento economico è solo rivolto al

soddisfacimento di bisogni naturali e culturali, la produzione è orientata al consumo;

Orientamento di tipo acquisitivo, che comporta il fatto che l’attività economica sia sottoposta alla ricerca di

maggiori guadagni monetari e orientata al mercato.

Lo SPIRITO TRADIZIONALISTICO, si basa sull’obbedienza passiva a regole tramandate, mentre lo SPIRITO

RAZIONALISTICO ricerca sistematicamente i mezzi più adeguati allo scopo, è disposto all’innovazione ed è aperto a

nuove tecniche.

La mentalità economica può infine essere di tipo solidaristico o avere orientamento individualistico.

Per l’ORGANIZZAZIONE vengono considerati diversi aspetti:

Carattere vincolato dell’attività economica, legato a norme che ne regolano il funzionamento;

L’esistenza di una sfera di libertà economica riconosciuta giuridicamente;

Proprietà pubblica o privata dei mezzi di produzione;

L’orientamento al consumo o allo scambio attraverso il mercato;

Organizzazione aziendale basata sulla piccola impresa familiare o grande impresa con lavoro salariato.

La TECNICA può essere basata su procedimenti empirici, se si fonda su conoscenze tramandate e accettate

passivamente, o su procedimenti scientifici, che consentono una spiegazione scientifica dei fenomeni e

un’applicazione razionale delle conoscenze.

Il sistema economico capitalistico è quindi caratterizzato da una mentalità acquisitiva, razionalistica e

individualistica, che si esercita nell’ambito dell’organizzazione economica libera, basata sulla proprietà privata dei

mezzi di produzione e su aziende che utilizzano il lavoro salariato. Sombart distingue questo sistema da altri due

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Page 18: riassunto sociologia economica

tipi: l’economia diretta, nella doppia forma di diretta contadina e del proprietario terriero, e l’economia

artigianale.

Per ogni sistema si possono individuare tre periodi: gli albori, la maturità, e il tramonto. Questo fa sì che un

sistema all’inizio conviva con altri in fase di transizione. Per il capitalismo Sombart considera il primo capitalismo

quello che si conclude alla fine del ‘700 ed il capitalismo maturo quello che diventa dominante, contrassegnando

l’epoca economica che abbraccia tutto il XIX secolo e si conclude con la prima guerra mondiale.

LE ORIGINI DEL CAPITALISMO

Sombart vuole dare una spiegazione del mutamento a partire dalle specifiche motivazioni individuali dei soggetti e

dalle conseguenze delle loro azioni. Le forze motrici dello sviluppo vanno cercate in quei soggetti, gli imprenditori,

che all’interno del vecchio sistema pre–capitalistico si fanno portatori di una nuova mentalità economica e

introducono dei cambiamenti nel modo in cui vengono combinati i fattori produttivi e viene organizzata l’economia.

Le innovazioni dapprima sono limitate, perché i soggetti coinvolti sono pochi e la loro azione non riesce ad incidere

in profondità sull’organizzazione del vecchio sistema economico; nel tempo però la nuova mentalità economica si

diffonde e porta ad un cambiamento delle istituzioni.

LO SPIRITO CAPITALISTICO

Lo spirito capitalistico è uno stato d’animo risultante dalla fusione in un tutto unico dello spirito imprenditoriale e dello

spirito borghese. Lo SPIRITO DI INTRAPRESA è aspirazione di potere, intesa come volontà di affermazione e di

riconoscimento sociale che spinge gli uomini a rompere la tradizione e a cercare nuove strade.

Questo processo si manifesta dapprima nella politica, con la costruzione dello stato moderno, e nella conoscenza

scientifica.

Solo più tardi lo spirito di intrapresa si estende anche all’economia e s’identifica con una ricerca di guadagno, che

si esercita in modo sistematico all’interno dell’organizzazione dell’attività produttiva, e non più nella conquista,

avventura o ricerca di metalli preziosi. Perché possa nascere il sistema economico capitalistico è necessario che lo

spirito di intrapresa si fonda con quello borghese. L’acquisività si deve combinare con la razionalità con un’ordinata

e disciplinata amministrazione del capitale.

Le origini di questi tratti sono per Sombart strettamente legati alla matrice religiosa cristiana-ebraica e prendono

forma soprattutto nelle città europee.

LA FORMAZIONE DELL’IMPRENDITORIALITA’

Per Sombart non bastano la matrice cristiana e l’ambiente urbano per spiegare la formazione dell’imprenditorialità

borghese. L’attenzione è posta su tre gruppi: gli eretici, gli stranieri e gli ebrei.

Gli eretici sono i non appartenenti alla chiesa di stato, come i cattolici nei paesi protestanti o il contrario e

soprattutto gli ebrei. Il loro status è quello di semicittadini, cui sono preclusi l’accesso ai pubblici uffici, o altri

riconoscimenti sociali e professionali. Esclusi dalla vita pubblica non potevano che estrinsecare la loro forza vitale

nell’economia, che era l’unica che poteva offrire la possibilità di procurarsi quella posizione di rilievo nella

comunità che lo stato negava loro.

Gli stranieri. Le migrazioni implicano sempre una selezione che fa compiere la scelta di partire ai più

intraprendenti, audaci e determinati. Questi, una volta diventati stranieri in un paese diverso dalla loro origine, sono

portati a rompere con le vecchie abitudini e con le relazioni sociali tradizionali. Il guadagno diventa l’unica cosa

importante, l’unico mezzo con il quale costruire il futuro, visto che la mobilità sociale è molto limitata in settori

diversi dall’attività economica.

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Page 19: riassunto sociologia economica

Gli ebrei hanno dato un contributo rilevante allo sviluppo capitalistico. La situazione di marginalità sociale in cui si

trovano come stranieri è rafforzata dall’attitudine stessa a isolarsi, a non identificarsi in una determinata nazionalità

e a mantenere legami internazionali nell’ambito della comunità ebraica. Questo fattore alimenta i rapporti fiduciari

che facilitano le attività economiche nel mercato internazionale.

IL MODELLO DELLO SVILUPPO CAPITALISTICO

Sombart dà dunque particolare importanza all'imprenditorialità per spiegare lo sviluppo capitalistico. Essa è

caratterizzata da una determinata mentalità economica, che è alimentata dalla religione cristiana e dalla città

occidentale ed è stimolata in particolar modo dalla condizione di marginalità sociale in cui si trovano determinati

gruppi.

La mentalità capitalistica si afferma, infatti, in stretta interdipendenza con un complesso di fattori istituzionali che

contribuiscono alla sua formazione e ne sono a loro volta condizionati. In questo senso si può dire che per Sombart

gli imprenditori sono l'elemento catalizzante «che fa scoccare la scintilla» dello sviluppo capitalistico:

1. Sombart, come Simmel, considera anzitutto cruciale il contributo dello STATO. Nella costruzione dello

stato moderno si esprime, originariamente, lo spirito di intrapresa occidentale. Lo stato stimola a sua volta

lo sviluppo tecnico, che è essenziale per aumentare l'efficienza militare e quindi per il suo rafforzamento.

Alla lotta per la supremazia tra i vari stati è anche legato il sostegno alla politica di conquista e alle

intraprese coloniali, e in genere l'orientamento mercantilista. L'obiettivo è quello di accrescere la di-

sponibilità di metalli preziosi, che aumentano le risorse della finanza pubblica e quindi la potenza militare;

2. L'interdipendenza che si stabilisce tra stato, sviluppo tecnico e politica di acquisizione dei metalli preziosi

ha influenze sia dirette che indirette sullo sviluppo capitalistico. Per quel che riguarda le prime, gli aspetti

principali sono i seguenti:

a) Lo stato influisce sull'imprenditorialità di origine politica attraverso le politiche mercantiliste

(protezione tariffaria, politiche coloniali, ecc.), ma influenza anche l’imprenditorialità dal basso, in

particolare, contribuendo a creare la situazione sociale degli eretici, estranei alla chiesa di stato, che

attraverso le migrazioni alimentano anche l’imprenditorialità degli stranieri. Inoltre, con le sue

commesse militari, lo stato contribuisce a allargare il mercato perla nascente industria;

b) La nuova tecnica razionale, basata sul progresso delle conoscenze scientifiche, è importante per lo

sviluppo capitalistico soprattutto perché facilita, a sua volta, la crescita dell'industria e migliora le

condizioni di trasporto dei beni;

c) Le politiche coloniali e di conquista, che incrementano la disponibilità di metalli preziosi,

favoriscono la crescita dei consumi e l'allargamento del mercato.

Le influenze indirette della costruzione dello stato si esercitano soprattutto nel processo di formazione della

ricchezza borghese:

a) L’interdipendenza tra stato, tecnica e afflusso dei metalli preziosi alimenta anzitutto la formazione

del capitale privato, che è un presupposto essenziale dello sviluppo. Il mercantilismo stimola cioè,

secondo Sombart, l'accumulazione del capitale;

b) La formazione della ricchezza borghese porta a nuovi bisogni, specie negli strati sociali più ricchi.

In questo modo si allarga ulteriormente il mercato, perché una domanda privata di beni si aggiunge

a quella statale.

3. Il fattore decisivo che consente di sfruttare il capitale, il mercato e le nuove tecniche produttive e di

trasporto è per Sombart l'IMPRENDITORIALITÀ “dal basso”, con il decisivo incontro tra spirito di intrapresa e

spirito borghese. Lo spirito borghese ha un'origine indipendente dallo stato. Si forma infatti sotto l'influenza

culturale della religione cristiana e nell'ambiente particolare delle città europee, segnate dall'esperienza dei

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Page 20: riassunto sociologia economica

comuni. Lo stato entra in questo processo contribuendo a creare quelle condizioni di esclusione dalla

cittadinanza che rendono eretici, stranieri e ebrei più sensibili di altri gruppi sociali alla formazione della

mentalità capitalistica;

4. Una volta che l'imprenditorialità borghese ha fatto scoccare la scintilla dello sviluppo capitalistico, si

determina un vasto processo di dissolvimento degli antichi ordinamenti economici. Sombart si riferisce

alla dissoluzione delle forme tradizionali di economia agricola, del lavoro a domicilio nelle campagne e

dell’artigianato. Per effetto di questi cambiamenti economici e politici si determina un processo di pro -

letarizzazione del lavoro agricolo e di crisi dell’organizzazione artigianale, che libera forza lavoro per la

nascente industria moderna;

5. Nel tempo lo sviluppo capitalistico contribuisce al mutamento dell’ordinamento giuridico e delle politiche

statali: aumentano le spinte per un orientamento più liberista dello stato in economia e per il riconosci mento

di un’ampia sfera di libertà economica in cui si possono ora muovere le imprese. Si accresce inoltre la

sicurezza del processo economico, sia attraverso l'azione repressiva dello stato, che favorisce la sicurezza

dei traffici, sia con l'introduzione di un sistema monetario razionale che facilita a sua volta gli scambi. Si

afferma così, nel XIX secolo, il capitalismo maturo.

Fig. 4.1. Il modello dello sviluppo capitalistico di Sombart.

IL CAPITALISMO MATURO

Per Sombart, i cambiamenti intervenuti nella fase di piena maturità del capitalismo, che si conclude con la prima

guerra mondiale, si possono tutti ricollegare al processo di razionalizzazione che investe l’economia e si esprime

nella tendenza a ricercare e applicare i mezzi più adatti al perseguimento del profitto di impresa. Questo principio

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Page 21: riassunto sociologia economica

condiziona sempre più la produzione, la distribuzione e il consumo dei beni. Possiamo valutare gli effetti della

razionalizzazione considerando le diverse componenti del sistema economico.

LO SPIRITO CAPITALISTICO

Anzitutto, per quel che riguarda lo spirito capitalistico, esso cresce di intensità e si estende a gruppi sociali più larghi

e a nuove aree geografiche. Il processo è dovuto sia a un cambiamento interno che a fattori esterni.

Quello interno è legato alla trasformazione ideologica della mentalità imprenditoriale che porta alla

secolarizzazione dello spirito capitalistico: le motivazioni religiose che sostenevano il comportamento degli

imprenditori lasciano il posto a un credo più laico, che porta a valutare l'impegno nel lavoro e il rendimento come

fonte primaria del benessere economico e del riconoscimento sociale. Si sviluppa così un «amore della propria

attività» che spinge gli imprenditori a trascurare interessi diversi dal lavoro (per esempio, l'arte, la politica, le

amicizie, ecc.) e ad a intensificare rispetto al passato le energie vitali che vengono incanalate nell'attività economica.

Tra i fattori esterni c’è la spinta verso la maggiore specializzazione della funzione imprenditoriale, che consente

di delegare a altri dipendenti una serie di compiti prima poco differenziati, e permette quindi all'imprenditore di

concentrare il suo impegno in alcune funzioni di direzione strategica.

In tal modo Sombart lascia intravedere - pur se implicitamente - un cambiamento importante nella formazione

dell'imprenditorialità: se alle origini del capitalismo le componenti normative4 erano più importanti delle

componenti cognitive (es. le conoscenze produttive e commerciali), con il maturare del capitalismo, in una si-

tuazione in cui l’innovazione economica non è più ostacolata ed è anzi socialmente legittimata, l’equilibrio si

inverte.

In questo quadro si afferma una democratizzazione dell'imprenditorialità, per cui è più facile accedere al ruolo di

imprenditore da tutti i gruppi sociali. Ciò che più conta è ora disporre delle conoscenze adeguate. Le istituzioni

creditizie giocano un ruolo importante in questo processo di maggiore apertura, poiché mettono a disposizione di

chi ha buone idee i capitali necessari per la loro realizzazione (un tema che sarà ampiamente ripreso anche da

Schumpeter).

Vi sono poi altri fattori di contesto che si aggiungono alla secolarizzazione e alla specializzazione nel favorire

l'intensificazione dello spirito capitalistico. Tra questi vanno considerati alcuni stimoli negativi:

L’inasprimento della concorrenza sul mercato dei beni, e del rafforzamento del movimento operaio, che condiziona

il mercato del lavoro, Per quel che riguarda in particolare quest'ultimo aspetto, è da notare come Sombart, a

differenza degli economisti, sottolinea i positivi contributi che ne possono discendere per lo sviluppo economico

dalla distorsione del funzionamento del mercato del lavoro che il movimento operaio può comportare. Con le

rivendicazioni sindacali e politiche del movimento operaio, infatti, migliora l’integrazione sociale dei lavoratori,

mentre gli imprenditori sono spinti a innovare continuamente per aumentare la produttività e compensare così i

maggiori costi del lavoro.

Accanto a quelli negativi vi è poi un potente stimolo positivo all'intensificazione e all'estensione dello spirito

capitalistico. Si tratta degli effetti che discendono dall'evoluzione della tecnica, che genera continue occasioni per

modificare le condizioni di concorrenza. Ne discende anche una spinta alla razionalizzazione dello sviluppo

tecnologico, che si manifesta attraverso una maggiore istituzionalizzazione della ricerca applicata e della

formazione, e una crescente incorporazione di queste attività all'interno stesso delle imprese, soprattutto delle più

grandi.

4 I valori che sono stati importanti nella formazione dei primi imprenditori, e cioè lo spirito borghese alimenta to dal

retroterra religioso e stimolato dalle condizioni di marginalità sociale.

21

Page 22: riassunto sociologia economica

L’ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA ECONOMICO

Il rafforzamento dell’imprenditorialità capitalistica spinge sia indirettamente, sul piano politico che direttamente sul

piano economico, verso una razionalizzazione dei meccanismi regolativi, in modo da aumentare le possibilità di

profitto delle imprese. Un primo ambito riguarda l’ordinamento giuridico e l’intervento dello stato in campo

economico.

Si afferma altresì la razionalizzazione del lavoro, del consumo e dell’azienda, di cui si fanno portatori gli

imprenditori stessi.

L’esodo dalla campagne verso le grandi città industriali assicura forza lavoro per le nuove attività industriali, ma si

poneva il problema di adattare i lavoratori dal punto di vista culturale e professionale al lavoro di fabbrica (un aiuto

importante è venuto in questo senso dalla religione protestante).

La scarsa disponibilità di operai qualificati rendeva poi più elevato il costo del lavoro. Da qui la spinta alla

decomposizione del lavoro: le mansioni complesse vengono scomposte in una pluralità di compiti più accessibili

anche agli operai meno qualificati. In questo senso Sombart, come aveva fatto Marx, percepisce la subordinazione

del lavoratore alla macchina.

La razionalizzazione tende ad estendersi anche all’azienda nel suo complesso, e porta, come conseguenza ad una

spersonalizzazione dell’azienda, dal momento che si riduce lo spazio per quegli elementi della conduzione

dell’impresa legati alla personalità dell’imprenditore e ai rapporti tra questi e i dipendenti. L’azienda comincia a

burocratizzarsi, con procedure e gerarchie dei ruoli.

Altro aspetto della razionalizzazione interna è costituito dalla condensazione aziendale, ovvero lo sfruttamento

intensivo di economie di spazio, di materia e di tempo (= crescente concentrazione di macchine e uomini all’interno

dell’azienda per aumentare la capacità produttiva).

Nel capitalismo maturo, le imprese si fanno più grandi per sfruttare le economie di scala e controllano

maggiormente l’offerta. Influenzando l’andamento della moda l’industria può accelerare il ritmo di introduzione di

nuovi prodotti, ma ha anche maggiore possibilità di standardizzare i bisogni creando un mercato di massa.

Quest’ultima tendenza si realizza creando beni di qualità inferiore che imitano i modelli d’élite imposti dalla moda e

richiesti ora da un largo pubblico di consumatori.

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Page 23: riassunto sociologia economica

IL FUTURO DEL CAPITALISMO

Nel capitalismo maturo e nella sua razionalizzazione sono già insiti i germi che porteranno al declino questo sistema

economico. Sombart non si aspetta il crollo come Marx: lo sviluppo tecnico e l’aumento del capitale fisso non

comportano necessariamente una caduta del saggio di profitto e una crescente disoccupazione. Le nuove tecniche

aumentano la produttività e – se i salari non crescono più di quest’ultima – consente di aumentare i profitti e di

destinarli a nuovi investimenti che possono compensare e assorbire la disoccupazione, che è per Sombart

congiunturale, generata dalla continua ristrutturazione produttiva, ma non destinata a crescere strutturalmente fino

ad alimentare un processo rivoluzionario.

I sistemi economici si fondano su economie di piano, con un maggior intervento dello stato nell’economia. Si va

insomma verso un capitalismo stabilizzato e regolato.

Il sistema economico capitalistico s’indebolisce dal suo interno stesso. La mentalità economica vede attenuarsi lo

spirito di intrapresa a spese della componente del razionalismo dello spirito borghese.

L’organizzazione del sistema economico capitalistico è caratterizzata da crescenti restrizioni alla libera ricerca del

massimo profitto, alcune di queste autoimposte.

Altre forme di regolazione sono invece imposte dall’esterno (lo stato), legate alla legislazione sociale e del lavoro,

sollecitata anche dal movimento operaio, o a controlli sui prezzi o sulle modalità del processo produttivo.

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Page 24: riassunto sociologia economica

CAP. 5 Capitalismo e civiltà occidentale: Max Weber

La sociologia dell’economia di Weber si articola e arricchisce, in un percorso ricco, articolato e ambizioso sino a

divenire una sociologia della storia dell’Occidente moderno. La ricerca sulle origini del capitalismo diventa una

ricerca sulle origini del razionalismo occidentale.

LE PRIME RICERCHE SULLA SOCIETÀ TEDESCA

Weber rimase colpito dalla tendenza dei lavoratori impegnati nelle tenute dei grandi proprietari (Junker) a lasciare la

condizione di contadini fissi, legati più stabilmente all’azienda, per quella di salariati, o addirittura ad emigrare. I

lavoratori volevano liberarsi dai pesanti rapporti di dipendenza nei riguardi degli Junker, nonostante la perdita di

sicurezza economica che ciò comportava nell’immediato. Anche il comportamento degli operatori di borsa tedeschi,

che Weber considera nel suo studio su La borsa, non è comprensibile in termini strettamente utilitaristici, secondo

gli schemi della teoria economica. In GB e USA le borse sono dei club riservate ai soli commercianti di professione,

istituzioni autogestite che decidono autonomamente i loro criteri di ammissione.

I posti si tramandano e se si acquistano è necessaria una consistente cauzione. Questo non avviene in Germania,

dive il quadro istituzionale è più esposto ai rischi di comportamenti non corretti. Le ricerche di Weber sollevano

importanti interrogativi e attirano l’attenzione sul ruolo cruciale di condizioni non economiche di natura culturale e

istituzionale per comprendere il comportamento economico.

L’attività imprenditoriale non è considerata una costante ma una variabile che dipende dal contesto istituzionale in

cui i soggetti sono inseriti. Ne consegue che come per il lavoro e per la finanza (mercato dei fattori), anche per la

produzione (mercato dei beni) è essenziale un appropriato quadro istituzionale. Solo se esso sostiene la crescita

dell’imprenditorialità si può generare lo sviluppo economico.

LO SPIRITO DEL CAPITALISMO (per Weber)

Non s’identifica affatto con l’impulso acquisitivo e l’avidità di denaro, sempre esistite in tutte le epoche e società,

dove la ricerca del profitto può essere ancor più spregiudicata perché non vincolata da norme etiche.

L’orientamento economico tradizionalistico appare contraddistinto da due aspetti principali:

Profitto non giustificato dal punto di vista etico, ma tollerato. La ricerca avviene con gli estranei alla

comunità, stranieri;

Acquisività nel commercio, ma non nella sfera della produzione governata da routine tradizionali.

Weber critica Sombart per non aver riconosciuto che il carattere tradizionalistico dello spirito economico può essere

proprio anche di una economia già organizzata in forma capitalistica, con imprenditori dall’atteggiamento statico,

che si accontentano del solito livello di profitto e si muovono sui binari di tradizioni consolidate. Anche gli operai

non sono spinti a lavorare di più.

Lo spirito del capitalismo si differenzia nelle due dimensioni dell’orientamento tradizionalistico:

Profitto non solo tollerato ma sollecitato sul piano etico. L’impegno nel lavoro diventa impegno etico e viene

condannato ogni godimento spensierato o finalità edonistica nell’impiego dei guadagni. Il profitto deve essere

fatto fruttare reinvestendo il capitale in attività produttive e non impiegandolo solo per accrescere il patrimonio

familiare.

Ricerca del profitto basata sul calcolo razionale del rendimento del capitale, nella sfera della produzione;

l’acquisività si esprime nell’organizzazione razionale del processo produttivo, rompendo la staticità

dell’economia tradizionale.

Il tradizionalismo viene travolto da una nuova imprenditorialità fortemente motivata a combinare in modo più

efficiente i fattori produttivi. Gli imprenditori modificano i prodotti, i metodi di produzione, i rapporti con i

fornitori e con il mercato, alla ricerca del massimo profitto.

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Page 25: riassunto sociologia economica

Non dispongono di molto capitale, ma di qualità etiche che alimentano l’energia e l’impegno nel lavoro che

caratterizzano i nuovi soggetti economici.

L’ETICA ECONOMICA DEL PROTESTANTESIMO

La diffusione dello spirito del capitalismo è vista da Weber come conseguenza inintenzionale dell’etica economica

della componente calvinista del protestantesimo (calvinismo, metodismo, pietismo e sette battiste). Gli eletti sono

predestinati, scelti da Dio al momento della creazione. Il loro destino non può essere modificato, né con le proprie

azioni né con mezzi ecclesiastici

Vediamo quindi rigettati come superstizione e empietà tutti i mezzi magici di ricerca della salvezza. Il calvinismo

determina anche profonda solitudine nel credente. L’idea di predestinazione genera angoscia e bisogno psicologico

di rassicurazione. Il credente deve comportarsi come se fosse eletto e impegnarsi in modo rigoroso nel mondo, con

il proprio lavoro.

Il successo della sua attività professionale viene interpretato come un segno della sua elezione e ciò spinge ad

impegnarsi ancor di più per mantenere e rafforzare tale condizione. Non solo ricerca del profitto come dovere etico,

ma anche impegno a un impiego produttivo e condanna del consumo di lusso e dei piaceri.

Il risultato della combinazione tra spinta all’impegno rigoroso nel lavoro e restrizione del consumo è un

orientamento verso l’attività economica che favorisce la formazione del capitale attraverso la costrizione ascetica al

risparmio.

Vi è profonda differenza per il comportamento individuale tra l’essere membro di una chiesa o di una setta.

CHIESA - associazione che amministra la grazia (beni religiosi che garantiscono la salvezza) e pretende

obbligatorietà per tutti.

SETTA - associazione volontaria che raggruppa coloro che per la loro condotta appaiono qualificati eticamente.

Nella chiesa si nasce, nella setta si è ammessi, ma per diventare membri occorre mostrare di essere osservanti di

determinate norme e una volta ammessi, occorre confermare la propria qualificazione etico–religiosa con i

comportamenti successivi.

Si determina quindi anche un interesse materiale a mantenere un comportamento eticamente qualificato, interesse

che acquista via via maggior rilievo con l’attenuarsi delle originarie motivazioni religiose. Le sette hanno una forma

organizzativa che tende a stimolare un comportamento più rigoroso di quanto non accada con la chiesa.

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Page 26: riassunto sociologia economica

CARATTERI E ORIGINI DEL CAPITALISMO MODERNO

LA DEFINIZIONE DEL CAPITALISMO MODERNO

Per capitalismo moderno s’intende «una forma di organizzazione economica che consente il soddisfacimento dei

bisogni attraverso imprese private che producono beni per il mercato sulla base di un calcolo di redditività del

capitale da investire (cioè delle aspettative di profitto), e che impiegano forza lavoro salariata formalmente libera»

Questa definizione contiene tre elementi che sono per Weber rilevanti per distinguere il capitalismo moderno sia da

forme di organizzazione economica non capitalistiche, che da altri tipi di capitalismo più tradizionali.

Il primo è il SODDISFACIMENTO DEI BISOGNI TRAMITE IL MERCATO, che distingue il capitalismo moderno

dall’«economia domestica», in cui la produzione di beni è volta in misura prevalente all’autoconsumo,

ovvero alla copertura del fabbisogno di una famiglia o di una comunità locale;

Il secondo è la RAZIONALIZZAZIONE DEL CALCOLO DEL CAPITALE grazie ad accorgimenti contabili e or-

ganizzativi (come la tenuta razionale dei conti e la separazione giuridica tra impresa e patrimonio familiare

dell’imprenditore). Questa è a sua volta favorita, sempre secondo Weber, da una terza condizione, assente

nell’economia domestica e nel capitalismo tradizionale:

L’ORGANIZZAZIONE RAZIONALE DEL LAVORO SALARIATO FORMALMENTE LIBERO: solo sulla base del lavoro

libero (governato da accordi salariali) è, infatti, possibile un calcolo razionale del capitale.

Per Weber, invece, le forme tradizionali si manifestavano:

– Nel commercio di beni e nel credito (specie con gli stranieri), quando orientate dalle opportunità di

profitto offerte dal mercato (opportunità economiche);

– Oppure concentrate in attività che sfruttano opportunità politiche.

Per Weber, se si eccettuano il commercio e il credito, le forme tradizionali sono soprattutto di tipo politico, ovvero si

basano sull’uso della forza come nel caso del capitalismo predatorio e d’avventura (guerre, pirateria, ecc.), o sull’uso di

risorse garantite politicamente, cioè dallo stato (come nel caso di appalto di imposte, acquisto di uffici pubblici da

parte di privati, monopoli di commercio coloniale concessi dallo stato, ecc.).

TAB.5.1. Capitalismo politico ed economico

SFERA DELLA CIRCOLAZIONE SFERA DELLA PRODUZIONE

RISORSE POLITICHE

Capitalismo di guerra e di avventura.

Pirateria

Capitalismo industriale con lavoro servile

Capitalismo coloniale e di appalto fiscale.

Usura

RISORSE ECONOMICHECapitalismo commerciale, creditizio, di

borsa

Capitalismo industriale con lavoro

formalmente libero

Alla distinzione tra capitalismo economico e politico corrisponde quella tra imprenditorialità economica e politica.

Per Weber, quindi, il vero tratto distintivo del capitalismo moderno è il capitalismo industriale; una forma di

organizzazione economica che sfrutta opportunità di profitto determinatesi nel mercato dei beni con attività che si

localizzano nella sfera della produzione5.

In questo senso, ed in sostanziale accordo con Marx su questo punto, Weber ritiene che non ci può essere

capitalismo moderno senza classe operaia, e che i passaggi preliminari essenziali di questa forma di

organizzazione (che quando si diffonde connota un’intera «epoca economica») sono:

5 E non solo in quella della circolazione, come per il capitalismo commerciale e finanziario.

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Page 27: riassunto sociologia economica

1. L’appropriazione dei mezzi di produzione da parte dei capitalisti,

2. La formazione del lavoro salariato.

Per Weber, il capitalismo moderno è proprio solo dell’Occidente, e per dimostrare ciò imposta un’imponente indagine

comparata con lo scopo di individuare i fattori causali cruciali presenti nell’esperienza occidentale, e assenti, o

presenti solo in parte, altrove. In pratica si tratta delle condizioni che rendono possibile il soddisfacimento dei

bisogni con imprese private che operano sulla base del calcolo del capitale, producendo per il mercato con capitale

fisso e forza lavoro libera:

La prima condizione è che vi sia APPROPRIAZIONE DEI MEZZI DI PRODUZIONE DA PARTE

DELL’IMPRENDITORE e l’assenza di vincoli alla loro commerciabilità;

La seconda condizione è che vi sia LIBERTÀ DI MERCATO, ovvero che non operino vincoli di natura

culturale e politica sia al consumo di determinati beni che all’impiego dei fattori di produzione (terra, capitale,

lavoro);

La terza condizione è l’ESISTENZA DI FORZA LAVORO LIBERA (contrapposta a forme di

organizzazione che si basano su schiavi o servi), in quanto consente di anticipare con precisione il costo del

lavoro necessario per determinati investimenti e riduce i costi fissi;

La quarta condizione è la TECNICA RAZIONALE, in particolare la disponibilità di una tecnologia

meccanica che consente di calcolare con esattezza i costi di fabbricazione dei beni e, inoltre, permette un

abbassamento significativo dei costi, e quindi una produzione per il consumo di massa;

La quinta condizione è la COMMERCIALIZZAZIONE DELL’ECONOMIA, ovvero la disponibilità di

strumenti giuridici come le azioni e i titoli di credito, che da un lato facilitano la separazione tra patrimonio

familiare e patrimonio dell’impresa – e quindi di nuovo il calcolo più razionale dell’impresa – e dall’altro

favoriscono la trasferibilità del capitale e rendono anche possibile un collegamento più razionale tra risparmio e

investimento (per arrivare alla creazione della borsa);

La sesta e ultima condizione è l’esistenza di uno STATO CHE SOSTENGA IL DIRITTO RAZIONALE ,

ovvero di un ordinamento giuridico che riduca i rischi e renda più prevedibili le relazioni tra privati, e tra questi

e la pubblica amministrazione.

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Page 28: riassunto sociologia economica

LE CONDIZIONI DEL CAPITALISMO MODERNO

Tra i motivi per i quali il capitalismo moderno si sono affermati in Occidente, Weber distingue:

Un complesso di condizioni che egli considera SPECIFICAMENTE OCCIDENTALI, essenzialmente di due tipi:

Quelle culturali, che riguardano l’influenza dell’etica economica di origine religiosa sulla formazione

dell’imprenditorialità;

Quelle istituzionali fanno invece riferimento soprattutto a tre fattori: la città occidentale, lo stato

razionale e la scienza razionale.

Altri fattori complementari, NON NECESSARIAMENTE OCCIDENTALI, ai quali non viene però attribuito un molo

decisivo. Ne vengono menzionati, in particolare, quattro:

Le vicende belliche,

Le conquiste coloniali e l’afflusso di metalli preziosi,

La domanda di beni di lusso delle corti,

Le condizioni geografiche favorevoli.

L’etica economica

Le condizioni culturali sono centrate sull’etica economica. Questo aspetto è stato messo in luce da Weber nei suoi

studi sui rapporti tra etica protestante e spirito del capitalismo. Con studi successivi, l’autore integra e ridefinisce

la prospettiva originaria in più direzioni:

In primo luogo, conferma il RUOLO ESSENZIALE DELL’ETICA ECONOMICA per lo sviluppo capitalistico

occidentale, mostrando come le religioni non cristiane prevalenti altrove avessero alimentato un orientamento

economico sfavorevole al capitalismo moderno;

In secondo luogo, ATTENUA IL PESO ATTRIBUITO ALL’IDEA DI PREDESTINAZIONE rispetto a quella di

vocazione–professione, enfatizzando soprattutto il ruolo delle sette protestanti. Inoltre, più in generale, accanto

al contributo dato dal cristianesimo al processo di demagizzazione e alla razionalizzazione della condotta di

vita, Weber accentua l’importanza della tradizione religiosa occidentale per il superamento del dualismo tra

etica dei virtuosi e delle masse, che si affermerà in forma radicale con il protestantesimo.

Tutte le etiche economiche sono state a lungo caratterizzate dal tradizionalismo (rispetto per le pratiche produttive e

commerciali tramandatesi nel tempo), anche per l’interesse materiale di coloro che sarebbero stati colpiti dall’inno-

vazione economica (principi, burocrati, proprietari terrieri, mercanti, ecc.), che spesso utilizzavano la magia per

legittimare la tradizione. Credere, infatti, che il mondo sia dominato da potenze soprannaturali, scoraggiava

qualsiasi innovazione per il timore di una reazione degli spiriti.

Questa situazione cominciò a mutare con il superamento delle società primitive frammentate e l’emergere delle

religioni mondiali6 , che portò alla separazione tra mondo naturale e soprannaturale: il destino individuale è non più

affidato al capriccio degli spiriti da propiziarsi con pratiche magiche, ma dipende dalla capacità degli uomini di

conformarsi ai precetti morali imposti dalle divinità che vivono nel mondo soprannaturale. Per motivare il

comportamento terreno e di razionalizzare la condotta di vita, assume quindi particolare importanza la salvezza

nell’aldilà.

Le grandi religioni hanno due importanti conseguenze:

Contribuiscono alla riduzione dell’influenza della magia (demagizzazione), ponendo quindi i presupposti per

una spiegazione razionale del mondo naturale sulla quale potrà crescere la scienza e la tecnica;

In secondo luogo, esse, tendendo al monopolio del rapporto con le divinità e, considerando le proprie come

le uniche degne di venerazione, sono più universalistiche delle religioni primitive a connotazione magica.

6 A partire dal V secolo A.C. con il confucianesimo, il buddismo, la filosofia etica greca e l'ebraismo, e più tardi il cattolicesimo e

l'islamismo

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Page 29: riassunto sociologia economica

Queste ultime erano, infatti, confinate ai gruppi sociali ristretti (famiglia, tribù, stirpe), ciascuno dei quali con le

proprie divinità.

Dal punto di vista economico, quest’ultimo aspetto ha importanti implicazioni perché incide sulle possibilità di

superamento del dualismo etico, ovvero di quella doppia morale legata all’esistenza di

Un’ETICA INTERNA, valida per i membri della famiglia, del gruppo parentale, della tribù, che

esclude il perseguimento del profitto e si basa invece sulla reciprocità, l’aiuto fraterno, il prestito gratuito, e

Un’ETICA ESTERNA, da applicarsi nei confronti degli estranei alla solidarietà primaria, sancita

religiosamente, che prevede invece la possibilità di ricercare il profitto nelle transazioni economiche senza alcun

vincolo etico.

Per Weber non ci può essere uno sviluppo del capitalismo moderno senza un superamento di questo dualismo etico

tipico del tradizionalismo, dal momento che la ricerca del profitto, peraltro eticamente vincolata, deve

accompagnarsi ad un allargamento delle relazioni sociali all’interno delle quali tale ricerca può esercitarsi.

Non tutte le religioni contribuiscono però allo stesso modo al processo di riduzione della magia e del dualismo

etico. Ciò si può comprendere se si tiene conto che esistono due tipi essenziali di profezia:

– Quella esemplare, ove il profeta non si presenta come mediatore di Dio, ma indica con

l’esempio la via della salvezza e non pretende obbedienza dalle masse7;

– Quella etica, tipica dell’ebraismo e del cristianesimo, nella quale il profeta si presenta come

mandato da Dio a predicare dei comandamenti per i quali richiede a tutti (intellettuali e masse) obbedienza come

un dovere morale. Solo seguendo l’etica prescritta si può accedere alla salvezza nell’aldilà.

Weber, opera dunque una prima importante distinzione tra le grandi religioni universali dell’India e della Cina, dove

la profezia etica non aveva attecchito, e il ceppo ebraico–cristiano nell’ambito del quale essa si era invece

maggiormente sviluppata. Le prime danno un contributo limitato al processo di demagizzazione e al superamento

del dualismo etico8.

È invece in Israele che si afferma la profezia etica: i profeti richiedono obbedienza in nome di un Dio trascendente

e interpretano fortune e sventure del popolo in relazione alla fedeltà a una divinità che è però ancora presentata come

il Dio d’Israele. Ciò porta al superamento della magia, ma non a quello del dualismo etico: anche dopo la diaspora,

infatti, gli Ebrei, per il fatto di essere considerati un popolo–paria, al di fuori della comunità politica, pratica sì

attività economiche, ma sempre su basi rigidamente tradizionalistiche (attività commerciali e finanziarie – credito,

usura – nei riguardi dei privati e degli stati, cioè di estranei, che escludono il formarsi di quello spinto del capi-

talismo eticamente vincolato che è alla base del capitalismo moderno, in particolare di quello industriale).

Con il Cristianesimo, tutti gli uomini diventano fratelli in quanto figli di Dio, ed in tal modo vengono rotti i confini

ristretti dell’identità religiosa ebraica e poste le basi di una prospettiva etica universalistica. La religione cristiana

può così diffondersi e unificare il mondo occidentale.

7 Tipico è il caso del profeta Buddha in India. Egli indica con il suo esempio che chi vuole salvarsi deve uscire dalla

vita mondana e dedicarsi alla vita contemplativa. Ma ciò è il frutto di una libera scelta: non tutti devono ac cedere al Nirvana

dopo la morte. Ne discende che solo nuclei limitati di intellettuali religiosamente qualificati seguono la strada indicata

facendosi monaci ed eremiti, mentre le masse rimangono in preda alla magia e al tradizionalismo.8 In India, si afferma la profezia esemplare che porta le élite intellettuali verso il disimpegno dalla vita attiva e lascia

le masse in preda alla magia e agli effetti paralizzanti del sistema castuale. Secondo la dottrina indù della reincarnazione,

infatti, soltanto il rispetto rigoroso degli obblighi di casta, che scoraggiano qualsiasi innovazione economica, permette dì

reincarnarsi in una posizione migliore. In Cina, manca una vera e propria profezia; il confucianesimo non è, infatti, una

religione di redenzione che prevede la salvezza nell'aldilà. Si tratta essenzialmente di un insieme di precetti etici che

prescrivono il rispetto della tradizione, e lasciano intatte una serie di credenze magiche con effetti scoraggiami sulla

razionalizzazione del comportamento economico.

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Page 30: riassunto sociologia economica

La religione cristiana, per Weber, porta l’individuo ad avere un rapporto con Dio non più collettivo e tribale, ma

personale ed individuale, con una rottura sempre più marcata dei rapporti di solidarietà interni alla propria comunità.

Tuttavia, sia la riduzione della magia che quella del dualismo etico trovano ancora dei limiti nell’esperienza della chiesa

cattolica. Quest’ultima, infatti, attraverso i sacramenti9, continua ad creare nell’immaginario dei fedeli una sorta di

atmosfera magica che attenua la responsabilità individuale e la razionalizzazione della condotta. Nello stesso tempo,

la chiesa mantiene una differenziazione tra etica dei virtuosi (es. i monaci) e etica delle masse, che comporta una

forma, seppure attenuata, di dualismo etico.

Per Weber questi limiti vengono definitivamente superati solo con la Riforma, soprattutto con il Calvinismo

protestante, la cui etica rifiuta ogni mediazione tra il credente e Dio; quest’individualismo crea le condizioni per

legare il successo nell’attività mondana e nei propri affari (e quindi il primato all’interno della propria comunità)

alla benevolenza divina.

Fig. 5.1. Il modello dello sviluppo capitalistico di Weber

CAP. 6 Le conseguenze sociali del capitalismo: Durkheim e Veblen

LE CONSEGUENZE SOCIALI DELLA DIVISIONE DEL LAVORO

Durkheim è nel complesso ottimista circa le capacità di una società a elevata divisione del lavoro di generare quella

solidarietà di cui ha bisogno, anche se si rende conto che tale esito non è scontato, dal momento che, in realtà, lo

sviluppo della divisione del lavoro si accompagna in realtà a tensioni e conflitti sociali.

Durkheim affronta il problema degli effetti socialmente destabilizzanti della divisione del lavoro, considerando, in

prima approssimazione, come «eccezionali» e «anomale» le situazioni in cui la specializzazione non si accompagna

alla crescita della solidarietà. Egli distingue tra due modalità prevalenti attraverso le quali la divisione del lavoro

produce effetti socialmente destabilizzanti:

Quando essa TENDE A CRESCERE PIÙ RAPIDAMENTE RISPETTO ALLE REGOLE ISTITUZIONALI: si determina

dunque una situazione di «anomia» (carenza di norme);

Quando LE REGOLE CI SONO MA SONO INADEGUATE RISPETTO AI PROBLEMI: la divisione dei compiti

assume allora un carattere «coercitivo»,

9 In particolare la confessione e la comunione, attraverso le quali si può riacquistare lo stato di grazia perduto con i

peccati.

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Page 31: riassunto sociologia economica

LA DIVISIONE ANOMICA

Per Durkheim, la principale fonte di anomia nelle società moderne è il forte sviluppo delle attività economiche, non

perché esso si è accompagnato a una crescita della divisione del lavoro, ma perché questo processo si è affermato

senza un’adeguata istituzionalizzazione.

Due forme tipiche attraverso le quali si manifesta l’anomia sono le crisi industriali e commerciali e l’antagonismo

tra capitale e lavoro.

LE CRISI ECONOMICHE

Divenute più frequenti, sono dovute all’espandersi del mercato come meccanismo di regolazione delle attività

economiche: la crescita della divisione del lavoro e della produzione per il mercato comportano, infatti, la

possibilità che si determini uno scarto tra produzione e consumo – tra offerta e domanda – che genera crisi ricorrenti

(di sovrapproduzione o dì sottoconsumo).

La conseguenza è che ogni industria produce per consumatori che sono dispersi su tutta la superficie del paese o

anche del mondo intero. Il contatto non è quindi più sufficiente, dal momento che il produttore non può più avere

sotto gli occhi tutto il mercato né immaginarselo. Alla produzione mancano così sia i freni, sia le regole; da qui le

crisi che turbano periodicamente le funzioni economiche.

Durkheim non nega la tendenza del mercato all’equilibrio tra produzione e consumo, ma afferma che ad esso si

arriva attraverso continue e prolungate destabilizzazioni delle relazioni sociali, di cui i fallimenti e la disoccupazione

sono un pesante segno.

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Page 32: riassunto sociologia economica

ANTAGONISMO TRA CAPITALE E LAVORO

Un fenomeno di anomia molto simile si manifesta nei rapporti tra capitale e lavoro. Esso riguarda sia il mercato

che l’organizzazione del lavoro. Sotto il primo profilo Durkheim nota che la diffusione dell’occupazione industriale

è avvenuta senza un’adeguata regolamentazione (e quindi tutela) giuridica del rapporto di lavoro, specie in relazione

alle variazioni dell’andamento del mercato.

Sotto il profilo della divisione del lavoro all’interno della fabbrica, una parcellizzazione dei compiti, una

routinizzazione e una perdita di qualità del lavoro che riducono l’operaio ad appendice di una macchina. Tutto ciò,

secondo Durkheim – qui vicino all’analisi dell’alienazione svolta da Marx –, entra in contrasto con gli ideali di

arricchimento e perfezionamento individuale che sono alla base della coscienza collettiva nella società moderna, e

produce, oltre ai conflitti sociali, anche una difficoltà di integrazione dei singoli individui nell’ordine sociale.

LA DIVISIONE COERCITIVA

Il disordine sociale che si accompagna alla diffusione delle moderne attività industriali è anche da collegare alle

regole che presiedono alla distribuzione del lavoro che generano una divisione coercitiva del lavoro. Tutto questo va

letto in un duplice senso: nell’assegnazione dei singoli individui ai ruoli specializzati e nella regolazione delle

ricompense del lavoro che viene prestato in tali ruoli.

ASSEGNAZIONE DEI SINGOLI INDIVIDUI AI RUOLI SPECIALIZZATI

Una società basata su un’elevata divisione del lavoro presuppone un allentamento della coscienza collettiva, che lascia

ora più spazio alle scelte individuali. Si affermano così ideali che assegnano un valore morale al perfezionamento e

alla realizzazione della personalità individuale ed un «culto dell’individuo», per il quale «ognuno è destinato alla

funzione che può adempiere meglio e riceve la giusta remunerazione per le sue prestazioni».

Questi ideali entrano però in contrasto con un insieme di regole10  (spesso frutto di una fase precedente della

società), che ne limitano la piena attuazione. L’assegnazione dei singoli ai compiti specializzati finisce per essere

imposta piuttosto che scelta, dal momento che non corrisponde più alle vocazioni individuali, ma ai

condizionamenti esercitati dalla classe sociale di origine.

Perché gli effetti negativi di fattori istituzionali di questo tipo non si verifichino è allora necessario che si

modifichino queste regole e che nuove norme garantiscano che nessun ostacolo impedisca agli individui di

occupare nei quadri sociali il posto che più risponde alle loro facoltà . Solo in condizioni di questo tipo la

concorrenza tra i singoli individui può generare solidarietà.

10 Esempi di regole (giuridiche e morali) che producono effetti di questo tipo si possono riscontrare nel diritto ereditario, che

altera la concorrenza tra gli individui per assumere determinati ruoli sulla base delle loro capacità; o ancora nelle regole che

limitano l'accesso ai ruoli pubblici su basi di classe.

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Page 33: riassunto sociologia economica

REGOLAZIONE DELLE RICOMPENSE DEL LAVORO

Questa seconda forma di divisione coercitiva del lavoro è relativa alle ricompense da assegnare ai compiti divisi.

Perché una società basata sulla divisione del lavoro generi solidarietà è necessario che tali ricompense

corrispondano all’effettiva utilità per la società dei servizi prestati, ovvero al «valore sociale» che ne discende.

La stima del valore da assegnare alle diverse attività lavorative non è però molto chiaro. La Teoria neoclassica

della distribuzione del reddito, in condizioni di mercato concorrenziale, vuole il compenso dei fattori produttivi, tra

cui il lavoro, determinato dal contributo da essi dato al valore della produzione (teoria della produttività marginale).

Durkheim non contesta, in linea di principio, che il mercato possa essere uno strumento efficace per stabilire la

corrispondenza tra valore di scambio di un bene, o anche del lavoro, e utilità sociale; evidenzia però il fatto che il

valore assegnato attraverso il mercato alle diverse attività lavorative, può nascondere uno squilibrio di potere tra i

contraenti che porta ad allontanare la ricompensa dall’effettiva utilità sociale e impedisce ai meccanismi di mercato di

stabilire l’effettiva equivalenza tra i due fenomeni11.

Si verifica così secondo Durkheim una «violenza» che finisce per minare la legittimità dei contratti e per generare

disordine e conflitti sociali.

Anche in questo caso, come già per l’accesso ai ruoli specializzati, la condizione necessaria per contratti giusti è

costituita dal fatto che «i contraenti si trovino in condizioni esteriori uguali». Occorre dunque fare in modo che le

remunerazioni siano determinate dal «merito sociale» e non da altri criteri. Solo questa situazione può far accettare la

disuguaglianza in una situazione di elevata divisione del lavoro.

Durkheim si preoccupa quindi delle «condizioni morali dello scambio», normalmente trascurate dagli economisti.

Ciò richiede una regolazione del mercato che non si limiti soltanto a perseguire le frodi e a far rispettare i contratti,

ma incida efficacemente su quegli squilibri di risorse che possono portare a uno scambio ingiusto e quindi generare

conflitti che mettono a repentaglio le stesse attività economiche.

11 L'esempio che Durkheim porta è quello del mercato del lavoro: se una classe della società è obbligata per vivere ad

accettare qualsiasi prezzo per i suoi servizi, mentre un'altra può farne a meno grazie alle risorse di cui dispone, non

necessariamente dovute ad una superiorità sociale, la seconda impone ingiustamente la sua legge alla prima. In altri termini

non possono esservi ricchi e poveri di nascita senza che vi siano contratti ingiusti.

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Page 34: riassunto sociologia economica

CORPORAZIONI E SOCIALISMO

Due aspetti particolari del contributo di Durkheim alla sociologia economica riguardano:

– I rimedi ai quali egli pensava per far fronte ai problemi sociali posti dalla divisione del lavoro e

– I rapporti tra tale prospettiva e quella di Marx e quella del socialismo non marxista.

Durkheim, riconosce che gli effetti socialmente destabilizzanti indotti dalla divisione del lavoro sono molto diffusi e

strutturali (fino a costituire una caratteristica essenziale della società moderna) e propone una nuova

regolamentazione, sia giuridica che morale, delle attività economiche che defini sca i diritti e i doveri dei datori di

lavoro e dei lavoratori, la «quantità del lavoro» e la «giusta remunerazione».

In particolare, Durkheim concentra la sua attenzione sui soggetti istituzionali che dovrebbero realizzare questo

nuovo tipo di regolamentazione dei mercato. Egli ritiene che un compito di questo genere non dovrebbe essere

affidato esclusivamente allo stato, troppo rigido e troppo lontano dai bisogni e dalle esigenze specifiche dei diversi

settori di attività economica. Lo stato dovrebbe invece limitarsi a fissare i principi generali, lasciando alle

corporazioni il compito di adattarli alle esigenze specifiche dei diversi settori di attività.

Le CORPORAZIONI sono istituzioni costituite da rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori di ogni

settore. Come concepite da Durkheim, le corporazioni sono «istituzioni pubbliche» obbligatorie (e non volontarie),

organizzate in modo gerarchico sul territorio (dal centro alla periferia), con funzioni di:

Rappresentanza congiunta dei diversi interessi,

Soluzione di controversie economiche e di lavoro (attraverso «tribunali» costituiti dalle rappresentanze

congiunte di lavoratori e datori di lavoro).

Accanto a queste funzioni, specificamente economiche, esse avrebbero dovuto svolgere anche compiti collaterali di:

Assistenza sociale,

Formazione tecnica e professionale,

Organizzazione di attività culturali e ricreative.

Durkheim poneva sicuramente una fiducia eccessiva nelle corporazioni, senza rendersi conto che problemi come la

regolazione del ciclo economico, del conflitto tra capitale e lavoro, e più in generale delle disuguaglianze sociali, si

sarebbero dimostrati al di là della loro portata.

La forma pubblica obbligatoria e gerarchica, poi, ne avrebbe ancor di più limitato il possibile contributo integrativo

e le avrebbe fatte diventare uno strumento di regimi autoritari o totalitari per cercare di controllare dall’alto la

società, (come fecero il fascismo e il nazismo tra le due guerre, o come successivamente avvenne, per esempio, in

America Latina).

Spogliata di tali limiti, l’analisi di Durkheim anticipa comunque alcune importanti tendenze delle società più

sviluppate dell’Occidente, ossia il passaggio da un sistema politico liberale ad uno di tipo pluralista, caratterizzato

dal peso crescente di gruppi di interesse organizzati (associazioni sindacali, imprenditoriali, di categoria) nel processo

politico. A partire dalla prima guerra mondiale questo processo si sarebbe intensificato, portando in alcuni casi verso

quelle forme di «corporativismo autoritario» e «dall’alto» cui prima si accennava, mentre in altri si ponevano invece

le basi per un «corporativismo societario» o «dal basso» (basato sulla collaborazione volontaria tra grandi gruppi di

interesse organizzati quali quelli di imprenditoriali e sindacali). In questo senso più limitato dunque – come

anticipazione del ruolo crescente delle associazioni degli interessi nella regolazione dell’economia – l’analisi di

Durkheim resta di notevole interesse.

REGOLAZIONE DEL MERCATO DI DURKHEIM E PROSPETTIVA SOCIALISTA

34

Page 35: riassunto sociologia economica

Entrambi gli autori riconoscono che la divisione del lavoro è un fattore che se da una parte contribuisce

notevolmente all’aumento della produttività del lavoro e alla crescita della ricchezza, dall’altra ha come risvolti

negativi:

Una crescita della disuguaglianza tra capitalisti e lavoratori, che Marx definisce alienazione dei lavoratori dal

loro prodotto (crescita dello sfruttamento) e Durkheim divisione anomica e coercitiva;

Una parcellizzazione e dequalificazione del lavoro operaio, che Marx definisce alienazione nei processo

lavorativo e Durkheim ancora una forma di divisione anomica.

A questo punto, però, cominciano le divergenze. Esse si manifestano in particolare su due aspetti:

1. MARX riteneva che lo sviluppo ulteriore della divisione del lavoro avrebbe inevitabilmente aggravato le

diverse forme di alienazione, innescando un conflitto sociale sempre più dirompente che alla fine avrebbe tra-

volto le stesse istituzioni capitalistiche.

Per DURKHEIM, invece, il disordine sociale e la crescita della conflittualità sono dei fenomeni transitori, dovuti

non tanto alla divisione del lavoro in quanto tale, quanto all’assenza o alla carenza di regole istituzionali.

2. DURKHEIM, in contrasto con Marx, riteneva però che le società sviluppate non potessero fare a meno della

divisione del lavoro, pena la regressione e l’incapacità di soddisfare la quantità e la qualità dei bisogni

individuali in esse presenti. In questo senso la specializzazione diventa un dovere morale da perseguire, perché

corrisponde alle esigenze funzionali della società moderna (anche se le sue forme concrete devono essere

adeguatamente regolate).

MARX riteneva invece che il problema delle disuguaglianze fosse risolvibile solo eliminando la stessa divisione

del lavoro, anche se egli collocava in un futuro indefinito questa possibilità e la legava al massimo sviluppo

delle forze produttive (in particolare nell’Ideologia tedesca).

Occorre però notare che queste divergenze con Marx non sono sottolineate da Durkheim, che cerca invece di

distinguere la dottrina del comunismo dalle idee del socialismo.

Per Durkheim, la dottrina del comunismo è apparsa più volte nei corso della storia e assume sempre un

carattere utopistico (v. Platone, Moore, Campanella). L’idea di fondo è che «la ricchezza è nociva e occorre

estrometterla dalla società». Di conseguenza i sostenitori di questa prospettiva si pongono tutti l’obiettivo di

limitare fortemente la divisione del lavoro e di mettere in comune il prodotto del lavoro. Si tratta insomma di

una specie di impossibile ritorno alla società primitiva;

Ben diverso è il caso del socialismo (nel cui alveo Durkheim colloca lo stesso Marx), definito un fenomeno

tipicamente moderno, che presuppone la crescita della divisione del lavoro ed esprime l’obiettivo di porre

rimedio ai problemi sociali che questo fenomeno ha prodotto tra la fine del ‘700 e il secolo successivo. Il

socialismo quindi non vuole limitare la divisione del lavoro e ridurre la ricchezza, ma si pone l’obiettivo di

sfruttare al massimo la divisione del lavoro per rendere possibile un maggior grado di soddisfacimento dei

bisogni da parte di tutti gli individui e per controllare quindi le disuguaglianze. Ciò richiede una maggiore

regolamentazione delle attività economiche da parte dello stato.

Durkheim è dunque certamente più vicino alla prospettiva socialista, perché ritiene necessaria una regolamentazione

della divisione del lavoro, ma se ne distanzia perché è convinto che il socialismo trascuri la dimensione morale

(ovvero la solidarietà, sottoforma di legami morali che si sostituissero a quelli della solidarietà meccanica).

Ciò che è necessario perché l’ordine sociale regni è che la maggior parte degli uomini si accontenti della propria

sorte; ma ciò che è necessario perché se ne accontentino non è che posseggano di più o di meno, ma che siano

convinti di non aver diritto ad aver di più. È perciò indispensabile che vi sia un’autorità di cui venga riconosciuta

la superiorità e che decida i diritti degli uni e degli altri (senza quest’autorità, l’individuo, abbandonato alla sola

esigenza dei propri bisogni, non ammetterà mai di essere arrivato al limite estremo dei suoi diritti).

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Page 36: riassunto sociologia economica

È in questa prospettiva che Durkheim concepisce il ruolo delle corporazioni, più adatte dello stato a svolgere un

ruolo di regolazione morale oltre che economica, «quella funzione di freno senza il quale non si potrebbe avere la

stabilità economica».

Nei suoi lavori non usa il termine capitalismo, anche se le sue analisi si possono anche considerare come una critica

(sociale, non economica) al capitalismo liberale, cioè a quella specifica forma di capitalismo in cui il mercato ha un

ruolo preminente nella regolazione delle attività produttive e nella distribuzione del reddito.

In conclusione, per Durkheim, affinché il mercato possa essere un efficace strumento di regolazione delle attività

economiche specializzate, è necessario:

Che ci siano alcune regole giuridiche e morali che diano stabilità ai contratti facendoli rispettare e perse-

guendo le frodi;

Che s’intervenga sulle risorse dei soggetti che si confrontano nel mercato, riducendo gli squilibri di potere,

ad esempio, attraverso legislazioni antimonopolistiche, sul lavoro o mediante la contrattazione tra

associazioni degli interessi;

Che, soprattutto, l’accesso ai diversi ruoli si avvicini alle effettive vocazioni e capacità dei soggetti, con le

remunerazioni congruenti al «merito sociale». In questi casi si svilupperebbe una forte coesione sociale che

da un lato porterebbe gli individui a impegnarsi maggiormente nei compiti specializzati e dall’altro

ridurrebbe i conflitti, a beneficio dello sviluppo economico.

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Page 37: riassunto sociologia economica

CAP. 7 La Grande Crisi e il tramonto del capitalismo liberale: Polanyi e Schumpeter

L’800 fu il secolo d’oro del capitalismo liberale: senza grandi guerre per circa cento anni, l’Europa vide il mercato

affermarsi come principio regolatore dell’economia interna e internazionale, assicurando una forte crescita della

produzione e degli scambi.

Col tempo emersero però le tensioni sociali e politiche legate, in particolare, alle nuove domande di riconoscimento

sociale e di integrazione politica della classe operaia, che cresceva insieme con l’impetuoso sviluppo delle attività

industriali. Già negli ultimi decenni del secolo cominciano a manifestarsi più distintamente le difficoltà del

capitalismo liberale a tenere insieme crescita economica, integrazione sociale e rapporti pacifici tra gli stati.

Il primo conflitto mondiale comportò costi economici e sociali altissimi e accelerò il mutamento istituzionale.

Nonostante i tentativi di ricostituire l’ordine prebellico, nulla tornò più come prima e le condizioni economiche e

sociali restarono estremamente instabili. Malgrado gli ingenti prestiti forniti dagli Stati Uniti, In Europa la ripresa

economica è lenta e la disoccupazione resta elevata; Il commercio internazionale stenta a riprendersi e a tornare ai

livelli prebellici, anche se la produzione di manufatti cresce a ritmi elevati, grazie alle innovazioni tecnologiche e

organizzative ed al formarsi di grandi imprese.

Si trattava di una situazione ad alto rischio, perché l’interruzione dei flussi creditizi americani, legata a motivi

interni di quel paese, avrebbe potuto avere effetti a catena disastrosi sull’economia europea e mondiale. Ed è proprio

questo che si verificò in seguito al crollo della Borsa di New York nel ‘29. La Grande Crisi trascinò tutta

l’economia dei paesi sviluppati in una gravissima e prolungata depressione, con crollo della produzione, fallimenti a

catena delle imprese e picchi di disoccupazione mai raggiunti in precedenza.

Il capitalismo liberale, già stato minato dalla grande guerra e dagli eventi successivi, viene progressivamente sostituito,

in forme diverse, da un nuovo quadro istituzionale nel quale rilevante importanza andava ad assumere il ruolo dello

stato.

È su questo sfondo che si colloca la riflessione di Karl Polanyi e Joseph Schumpeter. Mentre Durkheim e Veblen

contribuirono a mettere a fuoco le conseguenze sociali del capitalismo liberale, Polanyi e Schumpeter si

concentrarono sulla crisi di questa forma di organizzazione economica.

Essi cercano di dare una risposta, dal punto di vista della sociologia economica, agli interrogativi sulle cause del

declino, e insieme delineano i processi che, a partire dagli anni ‘30, porteranno alla formazione di un capitalismo

più regolato, in cui lo spazio del mercato si riduce e l’economia viene «reincorporata nella società» (Polanyi).

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Page 38: riassunto sociologia economica

DOMINIO DEL MERCATO E AUTO DIFESA DELLA SOCIETÀ

L’ECONOMIA COME PROCESSO ISTITUZIONALE

Karl Polanyi è un istituzionalista – di matrice socialista riformista – che ritiene che l’azione economica sia

influenzata dalle istituzioni sociali (e quindi non comprensibile in termini individualistici), e che vuole dimostrare,

con i suoi studi, che la ricerca del guadagno è una motivazione che non è stata sempre alla base del comportamento

economico.

Solo negli ultimi secoli, con il crescere dell’economia di mercato, il perseguimento del guadagno è diventato

rilevante. Ciò è avvenuto perché l’economia ha cominciato a essere sempre più regolata dal mercato, cioè da

un’istituzione che favorisce e incentiva un’azione economica improntata alla ricerca del guadagno.

Critica, quindi, l’idea di Adam Smith di una propensione naturale dell’uomo al commercio (da cui doveva nascere il

concetto di «uomo economico») ed afferma che l’indagine economica non può essere separata dal contesto storico.

Polanyi individua tre principi fondamentali di regolazione delle attività di produzione, distribuzione e scambio dei

beni, che egli chiama «forme di integrazione» dell’economia, ciascuna delle quali si differenzia dalle altre sia per

l’organizzazione delle attività economiche che per i rapporti tra tali attività e le altre sfere della vita sociale (la

famiglia, la politica, la religione, ecc.):

RECIPROCITÀ,

REDISTRIBUZIONE

SCAMBIO DI MERCATO.

Fig. 7.1. Rappresentazione grafica delle forme d’integrazione secondo le indicazioni di Polanyi

Quando prevale la RECIPROCITÀ, come nelle componenti primitive, beni e servizi vengono prodotti e scambiati

sulla base di aspettative di ricevere altri beni o servizi secondo modalità e tempi fissati da norme sociali condivise.

Tali norme di reciprocità si fondano su specifiche istituzioni (in particolare famiglia e parentela) che la sostengono e

sanzionano in varie forme coloro che non le rispettano. Gli scambi di beni e servizi non avvengono necessariamente

tra gli stessi gruppi ma sono, comunque, sempre simmetrici: l’economia delle società primitive si basa, infatti, su

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Page 39: riassunto sociologia economica

complessi flussi di doni e “controdoni” regolati da norme sociali condivise, che sanciscono obblighi nei riguardi

dei diversi gruppi parentali.

In queste situazioni diventa fuorviante voler vedere la ricerca del guadagno individuale come motivazione delle

azioni economiche. La reciprocità, peraltro, continua a regolare, attraverso la famiglia e la parentela, aree consistenti

delle relazioni economiche anche nelle società sviluppate, dove non è più la forma di integrazione prevalente (es.

Sostegno economico dei genitori ai figli giovani o dei figli nei riguardi dei genitori anziani, o, ancora, scambi di

aiuto tra familiari e parenti).

Quando prevale la REDISTRIBUZIONE, come nelle società più evolute dell’antichità con dimensioni territoriali

ed unità politiche più ampie (es. i grandi imperi dell’antichità – Mesopotamia, Egitto dei faraoni, Impero romano –

o anche il feudalesimo europeo), i beni e servizi vengono prodotti e allocati sulla base di norme che stabiliscono le

modalità delle prestazioni lavorative, l’entità delle risorse che devono essere trasferite a un capo politico – un capo

tribù, o un signore con un apparato amministrativo – il quale a sua volta le redistribuisce ai membri della società

secondo determinate regole.

I meccanismi di redistribuzione possono essere egualitari o comportare forti disuguaglianze tra i gruppi sociali. Perché

funzioni questa forma, deve esistere un «centro» politico, che disponga del potere necessario per fare accettare le

complesse modalità di redistribuzione dei beni. Le istituzioni politiche diventano quindi più importanti di quelle fa-

miliari e parentali, mentre prendono forma embrioni di organizzazione statuale e di centralizzazione amministrativa,

appunto per regolare le attività economiche e far rispettare, anche con la coercizione, gli obblighi di fedeltà politica,

di solito giustificati su base religiosa.

Per la redistribuzione, come per la reciprocità, non si può ancora parlare di ricerca del guadagno come motivazione

dell’azione economica, che in questo caso traggono invece origine da obbligazioni di tipo politico. La redistribuzione

può persistere nelle società più evolute (Polanyi interpreta come una ripresa di forme di redistribuzione, con il

declino del capitalismo liberale, anche il nuovo stato sociale, che attraverso la spesa sociale redistribuisce12 le risorse

acquisite attraverso la tassazione risorse).

Lo SCAMBIO DI MERCATO è una forma di integrazione dell’economia che appare solo di recente nella storia

dell’umanità e raggiunge il suo culmine nel corso del XIX secolo. Lo scambio dei beni avviene solo attraverso il

commercio, regolato dal mercato sulla base del meccanismo dell’incontro tra domanda e offerta. Il mercato, attraverso

i prezzi, regola anche la produzione dei beni e servizi e la distribuzione dei redditi (si decide di produrre sulla base

dei prezzi per determinati beni e si remunera il lavoro sulla base di prezzi che si formano anch’ essi all’incrocio tra

domanda e offerta).

L’ascesa del mercato a forza determinante nell’economia può essere ricostruita osservando la misura in cui la terra e

il cibo venivano mobilizzati mediante lo scambio e il lavoro trasformato in una merce liberamente acquistabile sul

mercato.

In questo caso è quindi essenziale l’esistenza di mercati regolatori dei prezzi (o «MERCATI AUTOREGOLATI»).

Ciò comporta anche che siano presenti quei prerequisiti istituzionali dei mercati autoregolati, già indicati da altri

autori, da Marx a Weber:

– La proprietà privata dei mezzi di produzione (capitale, terra, lavoro),

– Il lavoro salariato,

– La piena commerciabilità di tutti i fattori produttivi.

È solo in questo quadro che secondo Polanyi si può propriamente parlare di motivazioni utilitaristiche dell’azione

economica.

Vi sono due aspetti della riflessione metodologica di Polanyi da tenere presente:

12 Potere d'acquisto dai gruppi più ricchi a quelli più poveri

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Page 40: riassunto sociologia economica

1. L’IDEA DI SISTEMA ECONOMICO. Tale concetto, tipico della tradizione della sociologia economica, viene

utilizzato legandolo a quello di forma di integrazione. Quest’ultima acquista un carattere prevalente in una

determinata economia – e quindi definisce un sistema economico – nella misura in cui si estende alla sfera

produttiva e in particolare quando regola l’uso della terra e del lavoro. Ciò vale anche per la reciprocità e la

redistribuzione;

2. Per Polanyi, le FORME DI INTEGRAZIONE NON RAPPRESENTANO «STADI» DELLO SVILUPPO. Non vi è una

sequenza temporale necessaria lungo la quale esse si avvicendano, e di solito più forme si combinano in un

sistema economico in cui una è prevalente (ad es. i mercati sono stati spesso importanti, anche se non

prevalenti, nell’antichità, mentre le altre forme sono a volte ricomparse anche nell’epoca dello scambio di

mercato, soprattutto nei momenti di crisi di tale modello). Per questo motivo, soprattutto studiando il siste -

ma economico basato sullo scambio di mercato, occorre tenere conto della situazione storica nel corso della

quale si sviluppa l’economia. È quindi un errore stabilire un’uguaglianza fra l’economia umana in generale e

le sue forme di mercato. In questo senso Polanyi parla di «fallacia economicistica».

È per evitare questo errore che egli introduce la distinzione tra significato formale e sostanziale di economia:

Nel SIGNIFICATO FORMALE, economia è sinonimo di economizzare, ovvero il processo razionale di

allocazione di risorse scarse (definizione tipica dell’economia neoclassica);

Il SIGNIFICATO SOSTANZIALE di economia fa invece riferimento alla sussistenza umana, e sottolinea il

fatto che l’uomo dipende per la sua sopravvivenza dalla natura e dagli altri uomini (il suo ambiente naturale).

La fallacia economicistica tende a legare la sussistenza all’allocazione razionale di risorse scarse da parte di

soggetti che cercano di ottenere il massimo reddito dai mezzi di cui dispongono, cosa che, nella realtà, avviene

effettivamente solo dove si è affermato lo scambio di mercato. In altri sistemi economici il soddisfacimento dei

bisogni e la sussistenza dell’uomo avvengono in base a regole che non coincidono con quelle della massimizzazione

dell’interesse individuale in un contesto di mercato.

Per questo egli ritiene importante per le scienze sociali – storia, antropologia, sociologia economica – un concetto

più ampio di economia che può permettere lo studio, e la comparazione nel tempo e nello spazio, di sistemi

economici diversi.

LA GRANDE TRASFORMAZIONE

La grande trasformazione è quella che investe le società occidentali a partire dagli anni ‘30, quando:

Viene superato il capitalismo liberale affermatosi nel XIX secolo,

Viene ridimensionato lo spazio del mercato come forma di integrazione dell’economia,

Lo stato assume un ruolo più rilevante per la regolazione dell’economia e della società (con la diffu sione di

forme moderne di redistribuzione).

Gli interrogativi ai quali Polanyi cerca di dare una risposta sono due:

1. Quali sono le origini storiche del mercato autoregolato (e come si è affermata questa forma di

integrazione);

2. Quali sono le conseguenze sociali del mercato autoregolato e gli effetti che ne derivano per il

funzionamento dell’economia, dagli ultimi decenni dell’800 alla Grande Crisi del 1929 dalla quale si

avvierà la grande trasformazione.

ORIGINI STORICHE DEL MERCATO AUTOREGOLATO

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Page 41: riassunto sociologia economica

Per Polanyi un’economia di mercato è un sistema economico controllato, regolato e diretto soltanto dai mercati;

l’ordine nella produzione e distribuzione delle merci è affidato a questo meccanismo di autoregolazione per il quale

tutta la produzione è in vendita sul mercato e che tutti i redditi derivano da queste vendite.

Si produrrà, quindi, solo se c’è una domanda e dei prezzi tali da garantire un profitto, e si guadagnerà un reddito che

dipende dal valore del proprio lavoro sul mercato.

Tra i fattori che hanno contribuito a questa modalità di organizzazione delle attività economiche, uno appare decisivo:

l’invenzione e la realizzazione di macchinari complessi e costosi che rivoluzionano il modo di produrre. Queste

macchine, che consentono di abbassare i costi di produzione, possono essere utilizzate con profitto solo se è

possibile smerciare il più gran numero di beni che con esse si fabbricano in modo regolare; e solo se è possibile

alimentarle stabilmente con le materie prime e il lavoro che sono necessari.

Deve quindi esserci un mercato ampio, e tutti i fattori produttivi devono essere disponibili; se queste condizioni

non ci sono, l’investimento nelle nuove macchine diventa troppo rischioso.

Qui l’analisi di Polanyi si avvicina a quella di Weber, come pure quando individua la figura sociale del mercante

che, grazie alle macchine, avvia le nuove forme di produzione per il mercato e diventa imprenditore capitalistico.

Il commerciante, che prima acquistava le materie prime e le faceva lavorare da altri, per esempio con il lavoro a do -

micilio nel tessile, a un certo punto, investe il suo capitale nelle nuove macchine disponibili, si trasforma in

imprenditore e crea la fabbrica moderna impiegandovi lavoro salariato.

Tutto ciò è però possibile, però, solo se si hanno dei mercati sia per le merci da vendere che per le materie prime e il

lavoro da acquistare. Le motivazioni all’azione economica passano dalla sussistenza al guadagno individuale (è

questo il motivo per cui, secondo Polanyi, il passaggio dalla sussistenza al guadagno non è naturale, ma storico).

In particolare, la formazione dei mercati per i fattori produttivi (la terra e il lavoro) avviene come conseguenza di

interventi politici, di misure amministrative (a volte di vere e proprie forme di violenza privata).

41

Page 42: riassunto sociologia economica

Per quel che riguarda la TERRA, tutto ciò portò all’eliminazione del controllo feudale, alla secolarizzazione delle

proprietà della chiesa, fino al pieno riconoscimento giuridico della commerciabilità dei diritti di proprietà. Con la

crescita delle città, e con le esigenze di mantenimento della popolazione urbana, si sviluppò inoltre la piena

commercializzazione dei beni stessi prodotti dalla terra, a partire dal grano, e i proprietari terrieri furono spinti a

incrementare la produzione per la vendita sul mercato, mentre venivano eliminate le restrizioni di natura giuridica o

consuetudinaria che limitavano in passato la quota di produzione commercializzabile, garantendo il soddisfacimento

delle esigenze di auto–consumo locale.

Relativamente alla formazione del MERCATO DEL LAVORO fu necessario eliminare le forme di controllo sociale e

giuridico che regolavano i rapporti di lavoro (derivanti dalle corporazioni di origine medievale).

In particolare, in Inghilterra, la persistenza di salari bassi portò all’erogazione di sussidi ai lavoratori che ricevevano

un salario inferiore ad livello previsto (che teneva conto del carico familiare), introducendo, di fatto, un reddito

minimo garantito. Questo sistema determinò un abbassamento dei salari e una crescita consistente dei sussidi, dal

momento che i lavoratori preferivano i sussidi al lavoro (anche se ciò li teneva in condizioni di vita degradate), con

il conseguente peggioramento delle finanze. Fu così che, sotto la pressione degli imprenditori e del la classe media,

si arrivò nel 1834 all’abolizione del sistema dei sussidi. Da quel momento cominciò a funzionare pienamente in

Inghilterra un mercato del lavoro concorrenziale.

CONSEGUENZE SOCIALI DELL’AFFERMAZIONE DELLO SCAMBIO DI MERCATO

Le conseguenze sociali della piena affermazione del sistema economico basato sullo scambio di mercato,

porteranno alla Grande Crisi della fine degli anni ‘20.

Il lavoro, la terra e la moneta sono dunque trasformati in merci, cioè in beni prodotti per essere comprati e venduti

sul mercato. Queste merci non sono, però, come tutte le altre, perché:

– Il lavoro è legato alla vita umana che non è prodotta per essere venduta,

– La terra è un aspetto della natura, che non è prodotta dall’uomo,

– La stessa moneta è un simbolo del potere di acquisto e non un prodotto.

Non si tratta dunque di vere merci ma di «merci fittizie»; tuttavia, trattarle come tali, come è richiesto dal sistema

economico basato sui mercati autoregolati, porta a conseguenze distruttive per la società:

Per Polanyi, la RIDUZIONE DEL LAVORO A MERCE , il cui valore è fissato dalla domanda e

dall’offerta sul mercato, ha pesanti conseguenze sulle condizioni di vita di masse crescenti di popolazione:

Prende avvio una progressiva distruzione delle forme di protezione tradizionale, sia quelle legate alle

strutture della parentela, del vicinato, della professione, che quelle dipendenti dal potere politico;

Gli individui e le loro famiglie sono così sradicati dal contesto ambientale e sociale in cui vivono e

costretti a spostarsi per ricercare occasioni di lavoro. Le loro condizioni di vita vengono così a dipendere

esclusivamente dagli alti e bassi del mercato;

Specie nella fase iniziale della rivoluzione industriale, a ciò si accompagna una forte INSTABILITÀ DEI

GUADAGNI, la formazione di sacche di disoccupazione e di nuova povertà nelle periferie delle città

industriali, condizioni di lavoro e di vita degradate.

Insomma, con il mercato del lavoro si crea anche una miseria moderna, fino ad allora sconosciuta alle società

tradizionali, dove la sussistenza era sempre stata garantita dal modo in cui le istituzioni sociali e politiche

incorporavano e regolavano l’economia.

Dal punto di vista della NATURA , la piena commercializzazione del fattore terra e l’abolizione di

restrizioni istituzionali al commercio dei beni agricoli (ovvero il libero scambio dei prodotti), accompagnato dal

miglioramento dei trasporti, mise in crisi quote crescenti di produttori agricoli, specie in Europa, presto

inondato dal grano americano. I contadini dovettero abbandonare le campagne alla ricerca di un lavoro e si

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Page 43: riassunto sociologia economica

determinò la «distruzione della società rurale», con conseguenze dirompenti sull’ambiente, in particolare

sull’integrità del suolo e delle sue risorse e sul clima del paese a causa della spoliazione di foreste, con erosioni

e formazioni di deserti (tutti fenomeni che dipendono tutti dal fattore terra);

Anche la RIDUZIONE DELLA MONETA A MERCE acquistata e venduta sul mercato determina

conseguenze sociali dirompenti. Nei mercati autoregolati dell’800, la moneta diventa un mezzo di scambio

legato all’oro. In questo modo venivano a essere incoraggiati gli scambi internazionali, perché si garantiva la

stabilità del cambio, ma crescevano i rischi per l’economia interna:

Ad una crescita delle importazioni, corrispondeva un deflusso di oro e quindi una riduzione della quantità di

moneta circolante in un paese e, di conseguenza, una diminuzione della moneta disponibile per i pagamenti

interni e quindi un calo delle vendite, con danni alle attività produttive ed all’occupazione. È vero che

l’abbassamento dei prezzi, col tempo, determina un aggiustamento dell’economia interna che avvantaggia le

imprese esportatrici ristabilendo l’equilibrio dei conti con l’estero. Tuttavia, nel frattempo, i costi della deflazione

per l’economia e per la società sono molto alti.

Se, quindi, è vero che i mercati del lavoro, della terra e della moneta sono essenziali per un’economia di mercato, è

anche vero che la società non può a lungo sopportare i costi che le vengono imposti da tali modalità di

funzionamento dell’economia.

Per questo motivo la SOCIETÀ mette in atto dei MECCANISMI DI «AUTODIFESA», attraverso provvedimenti e misure

politiche destinate a controllare l’azione del mercato relativamente al lavoro, alla terra e alla moneta:

Protezionismo del lavoro: la reazione si esprime con lo sviluppo del movimento operaio, la crescita delle

organizzazioni sindacali e dei partiti socialisti. A ciò si accompagna a una nuova legislazione nel campo sociale

e del lavoro (regolamentazione dell’orario di lavoro, del lavoro minorile e femminile, forme di assicurazione

contro gli infortuni, le malattie, la disoccupazione, la vecchiaia, ecc.);

Protezionismo agrario: a partire dal 1870, si diffondono interventi di protezione tariffaria e di sostegno

all’agricoltura. Contadini e proprietari terrieri si alleano per difendere la società tradizionale minacciata dal

mercato;

Protezionismo del mercato della moneta: la centralizzazione ed il controllo dell’offerta di credito ad opera delle

banche centrali nei vari paesi permetteva di mitigare gli eventuali effetti negativi derivanti dalle transazioni

internazionali (in particolare, gli effetti deflattivi della riduzione di moneta dovuta a pagamenti internazionali

potevano essere attutiti attraverso la crescita dei prestiti).

Tuttavia, il nuovo protezionismo se dal lato della società, attenua i costi e le tensioni legate al diffondersi dal

mercato, dal lato dell’economia genera vincoli crescenti che intralciano il funzionamento dei mercati autoregolati

nel campo dei fattori produttivi. Si riduce la flessibilità e cresce il costo del lavoro, mentre le tariffe doganali

limitano gli scambi commerciali (oltretutto, le diverse forme di protezionismo s’influenzano a vicenda).

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Page 44: riassunto sociologia economica

L’effetto di tutto ciò, nota Polanyi, è un restringimento del commercio e degli scambi internazionali, che limita le

possibilità di smercio dei beni proprio nel momento in cui il progresso delle tecniche aumenta la produttività delle

imprese.

Per combattere le crisi di sovrapproduzione, si gli stati si muovono lungo due direttive:

1. Attuando politiche coloniali e di «imperialismo economico», per procurarsi materie prime a più basso

costo e possibili mercati in regioni politicamente non protette (queste strategie, però, anche per il

nazionalismo politico sempre più diffuso ed estremizzato che le accompagnava, finiranno per preparare quel

clima economico–politico che sfocerà nel primo conflitto mondiale);

2. Attraverso la diffusione dei prestiti e del credito a livello internazionale, che effettivamente riuscirono ad

evitare la crisi economica, specie negli anni successivi alla prima guerra mondiale Il continuo ricorso al

credito per alimentare le imprese e sostenere la bilancia dei pagamenti dei vari paesi però, a lungo non

poteva reggere, ed alla fine i nodi giungeranno al pettine con la Grande Crisi del ‘29, che per Polanyi segna

il tramonto del sistema economico basato sui mercati autoregolati e porta al superamento del «capitalismo

liberale».

Insomma, per lo studioso ungherese, la fine della civiltà del XIX secolo che s’incarnava nel capitalismo liberale non

fu dovuta alle conseguenze della grande guerra, né all’avvento del socialismo in Russia e dei regimi fascisti in

Europa. Piuttosto, questi fenomeni ne aggravarono la crisi, furono più dei sintomi che delle cause profonde della

malattia. È il conflitto di fondo tra il funzionamento del mercato e le esigenze della vita sociale a generare le tensio-

ni che portarono alla fine della società del capitalismo liberale.

Le nuove forme di regolazione sociale e politica che si sperimentano con l’avvio della grande trasformazione sono

soluzioni di segno diverso al problema di sottrarre il lavoro, la terra e la moneta ai mercati.

Per Polanyi, questi esperimenti possono essere comunque compatibili con la persistenza del mercato e con quella

della libertà:

Relativamente al primo punto, egli sostiene che «la fine della società di mercato non significa in alcun

modo l’assenza di mercati»; questo vuol dire che i mercati concorrenziali possono continuare a funzionare

per la produzione di beni e servizi, assicurando la libertà del consumatore, influendo sul reddito dei produttori

e in ultima analisi agendo come strumento di calcolo per il soddisfacimento più efficiente dei bisogni della

popolazione. Il mercato, infatti, non è necessariamente in contraddizione con gli obiettivi e gli strumenti di

programmazione economica necessari allo sviluppo dell’industria;

La reincorporazione dell’economia nella società non sarebbe parimenti per la libertà: il collasso del

capitalismo liberale metterebbe, infatti, a repentaglio solo la libertà di sfruttare gli altri uomini, o quella di

realizzare guadagni non commisurati ai benefici collettivi che discendono dalla propria azione; resterebbero

invece valide quelle libertà di elevato valore (di coscienza, di parola, di riunione, di associazione, di scelta

del proprio lavoro) che, cresciute insieme al mercato, in realtà non dipendono solo dall’esistenza di mercati

autoregolati.

La fine del capitalismo liberale, quindi, non comporta necessariamente quella del mercato e della libertà.

DECLINO DELLA BORGHESIA E POLITICHE ANTI-CAPITALISTICHE

Joseph Schumpeter (più economista che sociologo) analizzò in modo particolare la dinamica storica e l’influenza

delle istituzioni, ponendo al centro dell’analisi il cambiamento economico. Tale prospettiva lo spinge

inevitabilmente a misurarsi con il ruolo delle istituzioni.

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Page 45: riassunto sociologia economica

ECONOMIA E SOCIOLOGIA ECONOMICA

Schumpeter diede particolare importanza, fin dai suoi primi lavori, al problema della definizione dei confini tra

«teoria economica», «storia economica» e «sociologia economica», senza trascurare la conoscenza della storia e del

ruolo delle istituzioni.

Egli difende, infatti, la validità dell’economia neo classica, sottolineando però che per analizzare le attività

economiche concrete occorre tenere conto della loro collocazione nel processo storico. Da qui l’importanza della

storia economica, perché per il suo tramite è possibile comprendere come i fatti economici e quelli non–economici

si combinino tra loro nell’esperienza concreta, e come tale combinazione cambi nel tempo.

D’altra parte, l’importanza che assumono i fattori non economici, cioè gli aspetti istituzionali, nel condizionare le

attività economiche e la loro variazione nel tempo e nello spazio fa sì che si debba anche prendere in considerazione

il contributo della sociologia economica.

IMPRENDITORIALITÀ E SVILUPPO ECONOMICO

Schumpeter, più interessato alla teoria piuttosto che alla sociologia economica, ritiene necessario separare

nettamente i due approcci, che devono essere combinati solo nelle analisi di taglio storico–empirico. Punto di

partenza della sua analisi è l’insoddisfazione per i limiti della prospettiva economica tradizionale, giudicata incapace

di uscire da una visione statica dell’equilibrio economico.

Per questo motivo, egli distingue la crescita dallo sviluppo:

La CRESCITA è un fenomeno graduale, fatto di continui aggiustamenti:

Lo SVILUPPO è invece una discontinuità ed è caratterizzato dall’«introduzione di nuove combinazioni». La

novità può riguardare cinque dimensioni:

– La creazione di prodotti,

– L’introduzione di metodi di produzione,

– L’apertura di mercati,

– La scoperta di fonti di approvvigionamento di materie prime o semilavorati,

– La riorganizzazione di un’industria (es. con la creazione o la distruzione di un monopolio).

Schumpeter è quindi interessato alle cause endogene dello sviluppo. Egli riconosce che la discontinuità rispetto alla

routine del «flusso circolare» – che corrisponde ad un’economia che si perpetua senza sostanziali variazioni nei

modi di produrre e nei rapporti tra consumatori e produttori –, può derivare da motivi extraeconomici, come la

crescita della popolazione, o da improvvisi rivolgimenti sociali e politici.

Il suo interesse si concentra però sullo sviluppo legato all’azione degli IMPRENDITORI, singoli individui che

introducono nuove combinazioni dei mezzi di produzione, realizzano un’innovazione in una o in più delle

dimensioni prima indicate, che riguardano i prodotti, i metodi di produzione e i mercati.

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Page 46: riassunto sociologia economica

Per Schumpeter, non basta, infatti, differenziare tra il capitalista, proprietario dei mezzi di produzione o del capitale,

e l’imprenditore, dirigente di un’impresa che può non esserne proprietario: occorre distinguere quando le attività di

direzione e gestione delle imprese (cioè di management) hanno un carattere di routine e quando portano

all’innovazione, a «realizzare cose nuove»; è a queste ultime che va collegato in senso specifico il concetto di

imprenditore.

Da quest’impostazione discendono una serie di conseguenze.

a) L’imprenditore può essere sia il classico uomo d’affari autonomo, sia un lavoratore dipendente (manager);

b) Non è necessario un rapporto continuativo con una singola impresa;

c) Gli imprenditori non appartengono a una specifica classe sociale. Per effetto della loro attività possono

conseguire un successo economico che li trasforma in proprietari dei mezzi di produzione o del capitale, cioè li

fa diventare «capitalisti». Non è tuttavia necessario che essi lo siano quando svolgono la loro attività innovativa,

dal momento che spesso, in questa fase, gli imprenditori attingono al credito per introdurre le nuove

combinazioni di mezzi di produzione.

Schumpeter sottolinea dunque il LEGAME TRA CREDITO E INNOVAZIONE, anche se è ben conscio del fatto che per

utilizzare concretamente il capitale a fini di sviluppo innovativo l’imprenditore deve essere dotato di rare e

particolari qualità di leadership (poco diffuse tra i membri di una determinata società). Un soggetto che voglia

realizzare un’innovazione, infatti, deve essere in grado di:

Misurarsi con carenze di informazioni, con condizioni di maggiore incertezza di quando si opera in

un contesto di operazioni tradizionali e consolidate;

Combattere e vincere i propri schemi mentali già consolidati (che possono essere un ostacolo);

Superare le resistenze dell’ambiente sociale, che si possono presentare come «impedimenti

giuridici e politici», o come disapprovazione sociale per pratiche che fuoriescono dai canali della tradizione o,

ancora, come resistenze legate a vari fattori (gruppi minacciati dall’innovazione, difficoltà di trovare la

cooperazione necessaria o di convincere i consumatori a cambiare prodotti...).

Questi ostacoli fanno sì che l’imprenditore che vuole introdurre con successo l’innovazione deve combinare un

insieme di qualità e andare oltre il puro calcolo razionale.

Schumpeter, per questo, introduce dei requisiti di tipo psicologico, legati alla personalità individuale, ma lascia

anche intravedere i possibili collegamenti con il retroterra sociale e istituzionale, accennando inoltre anche alla

marginalità sociale come possibile fonte di imprenditorialità.

In un successivo testo, sulla base dei legami dell’imprenditore-innovatore con il suo contesto sociale, lo studioso

austriaco distingue quattro tipi di imprenditore:

Il «padrone di fabbrica», figura che prevale nella fase iniziale dell’economia di mercato e che unisce insie-

me compiti amministrativi, tecnici, commerciali. Egli è anche proprietario dei mezzi di produzione, pur se

di solito la proprietà è una conseguenza della capacità di innovazione;

Il «capitano d’industria», o il manager di formazione tecnica (nella fase più evoluta del capitalismo), a

seconda che l’imprenditore innovatore sia proprietario del capitale azionario, o che sia distaccato dagli

interessi capitalistici e spinto a innovare dal suo orientamento alla buona prestazione professionale;

Il «fondatore di imprese», ovvero l’imprenditore puro, che ha con esse solo rapporti temporanei.

In ultima analisi, per Schumpeter il profitto è il guadagno dell’imprenditore legato al successo della sua

innovazione (che fa crescere le entrate rispetto alle spese); si tratta quindi di una temporanea rendita di tipo

monopolistico, che si mantiene fino a quando l’innovazione non riesce ad essere imitata anche dagli altri concor -

renti.

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Page 47: riassunto sociologia economica

L’innovazione consente a Schumpeter di affrontare meglio il problema, irrisolto nell’economia neoclassica, dei

CICLI ECONOMICI:

La fase espansiva del ciclo è collegata all’introduzione dell’innovazione e alla sua prima diffusione, che

aumenta la domanda di beni di produzione e di consumo;

Successivamente, le vecchie unità produttive, sempre più aggredite dalla concorrenza delle imprese

innovative, sono costrette a imitare le prime o ad uscire dal mercato, con effetti recessivi sull’economia;

Si entra così nella fase discendente del ciclo, fino a quando non si ristabilisce un nuovo equilibrio tempo-

raneo che verrà poi alterato da un nuovo ciclo di innovazione.

La teoria di Schumpeter, pur presentandosi come un tentativo di dare una spiegazione endogena (interna

all’economia) dello sviluppo economico, ha quindi, a differenza della teoria economica neoclassica, evidenti

collegamenti con il contesto sociale e istituzionale, in particolare sotto il profilo dell’influenza di quest’ultimo

sull’imprenditorialità.

PUÒ SOPRAVVIVERE IL CAPITALISMO ?

Il funzionamento dell’economia capitalistica ha determinato un cambiamento della cultura e delle istituzioni che, a

sua volta, ha fatto inceppare i meccanismi di autoregolazione dei mercati. Si è passati quindi da un capitalismo «non

regolato» a uno «regolato», che secondo Schumpeter avrebbe dovuto preparare gradualmente la strada al socialismo.

Era questo un esito che egli peraltro non auspicava, ma che riteneva inevitabile, anche se per motivi diversi da quelli

previsti da Marx: il capitalismo non sarebbe sopravvissuto, non per fattori di natura economica13, bensì per le

reazioni culturali e sociali che il suo funzionamento provocava.

PERCHÉ IL DECLINO NON HA CAUSE ECONOMICHE?

Schumpeter inizia con il contestare la tesi che vuole l’evoluzione del capitalismo implichi un aumento della

disoccupazione: la crescita dei disoccupati negli anni ‘30 è risultata sì «anormalmente elevata», ma si è trattato di

un fenomeno temporaneo, legato alla fase di recessione che di solito segue, nel ciclo economico, una fase di

prosperità legata a un periodo di innovazione.

Insomma, la crisi del ‘29 è il frutto di un insieme di cause che aggravano gli effetti di una fase discendente

particolarmente acuta del ciclo. Tali fattori si collocano però tutti sullo sfondo di un irrigidimento comples sivo dei

meccanismi di autoregolazione dei mercati per effetto di quelle che Schumpeter chiama le «politiche

anticapitalistiche», e che Polanyi chiamava invece nuovo protezionismo sociale.

In realtà, secondo Schumpeter, se il sistema economico guidato dal mercato fosse stato lasciato libero di funzionare

e di riequilibrarsi autonomamente, avrebbe potuto assicurare un tasso di sviluppo tale da ridurre i problemi di

povertà. La disoccupazione non sarebbe stata eliminata del tutto (perché legata al meccanismo dell’innovazione e

del ciclo economico che ne segue), ma si potrebbero però creare le risorse necessarie per attenuare il problema della

mancanza temporanea di lavoro dei disoccupati per evitare loro le conseguenze in termini di povertà.

In ultima analisi, quindi, non è stato il capitalismo di mercato a creare meno svi luppo, ma altri fattori di natura

istituzionale, come le politiche anticapitalistiche, che hanno portato il capitalismo ad operare con sempre minore

efficienza.

Anche l’idea che il passaggio a una fase in cui prevalgono aziende monopolistiche e oligopolistiche implichi di per

sé minore efficienza e minor dinamismo, per Schumpeter, non è condivisibile, in quanto l’effetto frenante sullo svi-

luppo indotto da fenomeni di oligopolio o di monopolio, con prezzi più alti e restrizioni della produzione, è limitato

13 Per Schumpeter, dal punto di vista economico il capitalismo liberale, basato sul ruolo preminente del mercato, avrebbe

potuto continuare ad assicurare dinamismo e sviluppo.

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Page 48: riassunto sociologia economica

al breve periodo; a medio e lungo termine si diffondono invece vantaggi legati alla qualità e ai costi, che migliorano

per effetto dell’innovazione.

Dal punto di vista dinamico, la concorrenza di tipo oligopolistico o monopolistico, quindi, creando nuovi beni,

nuove tecniche, nuove fonti di approvvigionamento e metodi di organizzazione a lungo andare espande la

produzione e riduce i prezzi.

Infine, Schumpeter passa a confutare la tesi del «declino delle opportunità di investimento». A suo avviso, al

contrario delle idee dell’economista inglese Keynes, le potenzialità di innovazione e quindi di sviluppo del ca-

pitalismo non sono affatto esaurite: sono state le politiche governative, che con la leva fiscale e della spesa do -

vrebbero sostenere la domanda e gli investimenti per contrastare il ristagno, ad aggravare il male che vorrebbero

curare. Fattori come la più alta pressione fiscale sulle imprese o le politiche di protezione del lavoro hanno avuto

l’effetto di frenare le aspettative di profitto e gli investimenti.

Per questo motivo, secondo Schumpeter, occorre trovare una diagnosi diversa per il ristagno. Esso non ha motivi

economici, ma socioculturali e politici, nella fattispecie l’atmosfera ostile che, col tempo, lo sviluppo del

capitalismo ha alimentato spingendo verso politiche anticapitalistiche.

LE CAUSE CULTURALI E SOCIALI DEL DECLINO

Per Schumpeter, quindi, le cause del declino del capitalismo liberale sono culturali e sociali. Gli aspetti sui quali si

concentra l’attenzione sono essenzialmente tre: l’indebolimento sociale e politico della borghesia, la distruzione

degli strati sociali che sostenevano la borghesia stessa, il diffondersi di un’atmosfera ostile al capitalismo.

1. L’INDEBOLIMENTO DELLA BORGHESIA è a un processo complesso che, sua volta, dipende da vari fattori,

legati alle trasformazioni economiche e alle loro conseguenze sociali e politiche;

a) La decadenza della funzione imprenditoriale, per il fatto che le grandi imprese burocratizzate

soppiantano sempre più le piccole e medie aziende. L’innovazione, tende a spersonalizzarsi e ad

automatizzarsi, mentre gli imprenditori perdono la funzione sociale di motori dell’innovazione per

diventare amministratori di possessi ereditati;

b) La «disintegrazione della famiglia borghese», che viene sostituita da uno spirito utilitaristico, che

si manifesta anche in una spinta a mettere al mondo meno figli e nel guardare ad un futuro sempre più

prossimo. Ciò, scoraggia il risparmio e gli investimenti a più lungo termine, influenzando anche il

comportamento politico: la borghesia crede più nei suoi ideali di vita, e quindi non si batte più con forza

contro quelle politiche anticapitalistiche (specialmente nel campo fiscale e della legislazione sociale)

che indeboliscono le imprese private.

2. La DISTRUZIONE DEGLI STRATI SOCIALI CHE SOSTENEVANO LA BORGHESIA:

a) In particolare l’aristocrazia, che nei paesi europei aveva assumendo un ruolo essenziale per la

formazione della classe dirigente. L’esaurirsi del ruolo storico dell’aristocrazia priva la borghesia di una

risorsa importante per affrontare quei problemi politici interni e internazionali che essa, per le sue

attitudini e la sua storia, non è in grado di governare da sola;

b) Un mutamento sociale di rilievo è poi legato anche alla «distruzione dell’impalcatura di istituzioni

della società capitalistica», per la progressiva eliminazione di piccole imprese agricole, artigianali,

industriali e commerciali. Ciò ha rilevanti conseguenze politiche, perché priva la borghesia dei suoi

tradizionali alleati sociali, non rimpiazzati dalla nuova classe manageriale e amministrativa delle grandi

imprese burocratizzate che, non essendo interessata alla proprietà, non è motivava a difendere

efficacemente il capitalismo liberale dagli attacchi dei suoi nemici.

3. Questo progressivo indebolimento sociale e politico della borghesia favorisce l’instaurarsi di

un’«ATMOSFERA SOCIALE» OSTILE AL CAPITALISMO LIBERALE, soprattutto per l’attività degli intellettuali

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che fomentano ed organizzano il risentimento popolare dovuto alle crisi cicliche ed alla disoccupazione

legati all’economia capitalistica; questi “intellettuali”, in realtà, sono professionisti della parola, (giornali sti,

avvocati, leader politici…), e hanno in comune l’attitudine a criticare con lo scopo di mettersi in mostra e

costruire il loro status sociale. Essi riescono, in questo modo, ad influenzare la politica e le sue decisioni (ad

esempio radicalizzano il movimento operaio – anche al di là delle richieste dei sindacati);

4. L’elemento decisivo che porta all’indebolimento del capitalismo liberale è costituito dalle «POLITICHE

ANTICAPITALISTICHE», ovvero da quel complesso di misure legislative e amministrative14 che si vanno

diffondendo nei vari paesi, parallelamente all’indebolimento della borghesia e alla crescita del

malcontento fomentato dagli intellettuali. Tutte queste politiche, che hanno avuto un’accelerazione

dopo la Grande Crisi del ‘29, pongono vincoli crescenti al funzionamento delle imprese private e

introducono un graduale spostamento dei principi di regolazione dell’economia dai mercati autore-

golati a forme di pianificazione socialista.

Fig. 7.2. Le cause culturali e sociali del declino del capitalismo liberale secondo Schumpeter.

Schumpeter vede nel capitalismo americano del New Deal, e poi in quello che si sarebbe affermato dopo la guerra in

America e in Europa, una sorta di «capitalismo laburista», in cui le imprese private sono sottoposte a oneri fiscali e

regolativi crescenti. Schumpeter è più scettico sul fatto che questa forma di capitalismo più regolato politicamente

14 Si tratta di tutti quegli interventi che estendono il ruolo dello stato o della contrattazione collettiva: le politiche della spesa

pubblica in deficit per sostenere la domanda e ovviare alle crisi cicliche; le politiche redistributive, volte a realizzare una

maggiore uguaglianza sociale, in particolare attraverso una crescita della pressione fiscale; strumenti regolativi come quelli

legati alle misure antitrust per contrastare le imprese monopolistiche, e al controllo per via amministrativa dei prezzi; la

diffusione di imprese pubbliche; la legislazione assistenziale e del lavoro e la crescita della contrattazione sindacale nel

mercato del lavoro.

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possa sopravvivere a lungo; il capitalismo è per lui legato è, infatti, una specifica struttura istituzionale e uno

schema di valori: è una civiltà. Gli risulta quindi difficile credere che un capitalismo che abbia eroso le basi

istituzionali su cui poggiava possa continuare ad esprimere un elevato dinamismo economico.

Per Schumpeter, il declino del capitalismo liberale prepara gradualmente il passaggio al socialismo, inteso come

forma di organizzazione della società in cui i mezzi di produzione sono controllati dall’autorità pubblica

(responsabile anche delle scelte relative alla produzione dei beni e alla distribuzione dei redditi) che egli ritiene sia

efficiente sul piano economico, sia compatibile con la permanenza della democrazia politica15.

15 Questa tesi, sebbene formulata con cautela, avrebbe trovato delle chiare smentite nella successiva esperienza storica dei

paesi socialisti.

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Page 51: riassunto sociologia economica

CONVERGENZE ANALITICHE E DIVERGENZE POUTICHE

Polanyi e Schumpeter sono due autori che non appartengono allo stesso ambiente culturale e non hanno interazioni

tra loro, anche se furono entrambi segnati dal clima della Vienna di inizio secolo. L’uno era un socialista laburista e

gildista, l’altro un liberista conservatore. Nonostante queste differenze, entrambi contribuiscano sul piano analitico a

mettere a fuoco secondo linee convergenti il problema del declino del capitalismo liberale e della grande

trasformazione che si avvia dopo la crisi degli anni ‘30.

Polanyi è un istituzionalista, Schumpeter è un economista che esce dagli schemi tradizionali della disciplina e

riconosce l’importanza delle istituzioni per comprendere il cambiamento dell’economia.

Polanyi limita drasticamente la validità scientifica dell’economia e ne storicizza i risultati. Gli strumenti della

disciplina servono per comprendere il funzionamento dell’economia solo quando questa è dominata dai mercati

autoregolati. La sua efficacia è dunque ristretta al secolo nel quale trionfa il capitalismo liberale: l’800. Estenderne

la portata all’indietro nel tempo significa cadere nella «fallacia economicistica». Da questo punto di vista, Polanyi è

dunque più vicino a Durkheim e soprattutto a Veblen: il suo è un istituzionalismo più alternativo che integrativo

rispetto all’economia di tipo neoclassico.

Per Schumpeter l’economia teorica è una disciplina analitica, e come tale non fonda la sua scientificità sulla verifica

empirica dei suoi schemi e non richiede pertanto di essere storicizzata. Tuttavia, nell’ambito dell’economia deve

esservi spazio sia per la componente teorica, di taglio analitico, che per quella storico–empirica. Quest’ultima

prende in esame il rapporto tra fenomeni economici e contesto istituzionale, basandosi sul contributo della storia e

della sociologia economica. Ed è proprio alla sociologia economica che Schumpeter fa ricorso quando s’interroga

sul cambiamento del capitalismo e sul suo futuro. Da questo punto di vista, egli si avvicina, di fatto, a un tipo di

indagine simile a quella condotta da Polanyi.

Quanto alle cause del declino, essi convergono in sostanza nel sottolineare che le conseguenze sociali innescate dal

prevalere dei mercati autoregolati nell’organizzazione economica scatenino delle reazioni sociali e politiche le quali,

a loro volta, inceppano progressivamente il funzionamento dei mercati stessi, la loro capacità di riequilibrarsi.

Contrariamente quindi a quanto pensava Marx, le cause del declino sono sociali prima che economiche, anche se

esse si ripercuotono poi sul funzionamento dell’economia.

Si potrebbe dire che in un certo senso viene ribaltata l’enfasi di Marx sulle crisi economiche come fenomeni di

accelerazione del cambiamento sociale e politico: per i nostri due autori è vero il contrario.

Polanyi parla in proposito di «autodifesa della società», un processo che si esprime con la diffusione di varie forme

di protezionismo (sociale e del lavoro, agrario, creditizio). Schumpeter fa invece riferimento alle «politiche

anticapitalistiche» che vedono un’accelerazione dopo la Grande Crisi, ma trovano un terreno favorevole

nell’indebolimento del quadro culturale e istituzionale del capitalismo liberale e nella crescita del malcontento

sociale. Polanyi vede già avviati alla fine dell’800 i processi di cambiamento istituzionale che preparano il declino e

raggiungono l’apice nella crisi del 1929, mentre Schumpeter tende a spostare più in avanti i fenomeni di

irrigidimento dei mercati autoregolati, considerando tali fenomeni più come una conseguenza delle reazioni

istituzionali alla crisi del ‘29 che come fattore che prepara la crisi stessa.

Ma è soprattutto una questione di enfasi. Anch’egli, infatti, vede negli anni ‘30 uno spartiacque che separa l’epoca

del capitalismo non regolato da quella del capitalismo regolato; un fenomeno che prepara, in una prospettiva più

lunga e più incerta, l’avvento del socialismo.

È poi significativo che entrambi gli autori arrivino a conclusioni simili sui requisiti non economici per il

funzionamento del mercato: si tratta di un giudizio che acquista un rilievo particolare per l’analisi storico–empirica,

perché sottolinea come il funzionamento dei mercati concreti non sia comprensibile senza prendere in esame come

essi siano integrati nella società, cioè in che modo si combinino con un contesto istituzionale che fornisce le risorse

per motivare gli attori a un comportamento economico congruente, e per far loro accettare le conseguenze sociali

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che discendono, dall’operare dei mercati. Questi ultimi non possono dunque esistere in concreto senza un adeguato

supporto istituzionale.

Seguendo questa prospettiva, Polanyi e Schumpeter mostrano sul piano storico come l’affermarsi del mercato eroda

le vecchie istituzioni, generi instabilità sociale e politica, e porti alla sperimentazione di nuove istituzioni.

Anche sul terreno dell’analisi del processo di trasformazione del capitalismo vi è poi una convergenza significativa

tra i due autori, pur se essi divergono nettamente nella valutazione politica di tale fenomeno. La direzione di mar cia

che entrambi tratteggiano è, infatti, quella del passaggio a un capitalismo in cui il ruolo del mercato è più limitato e

più regolato socialmente e politicamente. È questa la «grande trasformazione» di Polanyi, mentre Schumpeter parla

di un «capitalismo laburista» che avrebbe preparato un probabile passaggio a una forma di organizzazione

economica di tipo socialista.

Tuttavia, Schumpeter non giudica favorevolmente il processo in corso, egli resta legato ai valori della civiltà

capitalistica che vorrebbe difendere, ma che gli sembra in un declino difficilmente arginabile. Polanyi ritiene invece

che il passaggio ad un’economia più reincorporata nella società, più regolata socialmente e politicamente, sia non

solo inevitabile, ma anche auspicabile, sia per il futuro dei paesi occidentali che per i nuovi paesi sottosviluppati che

si andavano affacciando sulla scena della storia, e che non avrebbero necessariamente dovuto sostenere i costi

sociali del mercato.

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