Riassunto P.scarduelli, L'Europa Disunita. Etnografia Di Un Continente

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Antropologia Culturale A P. Scarduelli-L'Europa disunita Introduzione 1989: fine XX secolo, con caduta del Muro di Berlino. Appaiono così nuovi scenari: terrorismo islamico, globalizzazione, migrazioni transcontinentali, Internet. Nuovi protagonisti sulla scena politica: Cina, India, Brasile, l'Europa unita. L'antropologia non poteva trascurare il ruolo fondamentale dell'Europa nel XXI sec., infatti gli antropologi degli ultimi vent'anni hanno osservato e studiato il modo di pensare della nuova eurocrazia: l'élite tecnocratica dell'UE. Sebbene l'antropologia sia tipicamente collegata allo studio di società esotiche, esiste una tradizione di studi sull'Europa, anche se tardiva. L'antropologia prende forma nella II metà dell'800, in un contesto di pensiero tipicamente evoluzionista, con l'interesse per studiare gli Altri, ovvero le culture arretrare dei continenti extra- europei (le culture “selvagge”). Agli inizi del '900, grazie all'operato di Malinowski presso le Isole Trobriand nella Melanesia occidentale (1914-1918), viene messa a punto una metodologia che si basa sull'osservazione partecipante. L'antropologia elegge a proprio soggetto di ricerca le entità socioculturali delimitate, isolate: le società tribali. Per molti decenni l'antropologia ha rivolto raramente, dunque, il proprio sguardo verso l'Europa; ricercava solo le sue isole d'arretratezza; nella I metà del '900 questo tipo di approccio all'etnologia dell'Europa ha assunto la forma di studi folclorici (Van Gennep : dopo essersi occupato dei “Riti di passaggio” [1909], si è dato allo studio sulle culture rurali della Francia; in Italia ricordiamo Pitré : sul folclore siciliano, con Cocchiara che ha proseguito il lavoro di Pitré concentrandosi sulla musica e sul folclore letterario siculo). Questi studi si collocano nella tradizione del “recupero dell'anima popolare”, ma risentono ancora della matrice evoluzionista di Taylor (antropologo di fine '800 a cui si deve la definizione antropologica di cultura [Primitive culture, 1871]): egli infatti riteneva i contadini della campagna inglese, con le loro tradizioni superstiziose, più simili ai selvaggi africani che ai londinesi. Nel II dopoguerra, con l'attivo degli antropologi britannici e statutinensi e i loro studi sulle piccole comunità meridionali dell'Europa (Italia/Spagna), si crea una nuova disciplina: antropologia mediterranea . La sua nascita di natura anglosassone, ha diverse spiegazioni: secondo

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Antropologia Culturale A

P. Scarduelli-L'Europa disunita

Introduzione

1989: fine XX secolo, con caduta del Muro di Berlino.

Appaiono così nuovi scenari: terrorismo islamico, globalizzazione, migrazioni transcontinentali, Internet.Nuovi protagonisti sulla scena politica: Cina, India, Brasile, l'Europa unita.

L'antropologia non poteva trascurare il ruolo fondamentale dell'Europa nel XXI sec., infatti gli antropologi degli ultimi vent'anni hanno osservato e studiato il modo di pensare della nuova eurocrazia: l'élite tecnocratica dell'UE.

Sebbene l'antropologia sia tipicamente collegata allo studio di società esotiche, esiste una tradizione di studi sull'Europa, anche se tardiva.

L'antropologia prende forma nella II metà dell'800, in un contesto di pensiero tipicamente evoluzionista, con l'interesse per studiare gli Altri, ovvero le culture arretrare dei continenti extra-europei (le culture “selvagge”).Agli inizi del '900, grazie all'operato di Malinowski presso le Isole Trobriand nella Melanesia occidentale (1914-1918), viene messa a punto una metodologia che si basa sull'osservazione partecipante.L'antropologia elegge a proprio soggetto di ricerca le entità socioculturali delimitate, isolate: le società tribali.

Per molti decenni l'antropologia ha rivolto raramente, dunque, il proprio sguardo verso l'Europa; ricercava solo le sue isole d'arretratezza; nella I metà del '900 questo tipo di approccio all'etnologia dell'Europa ha assunto la forma di studi folclorici (Van Gennep: dopo essersi occupato dei “Riti di passaggio” [1909], si è dato allo studio sulle culture rurali della Francia; in Italia ricordiamo Pitré: sul folclore siciliano, con Cocchiara che ha proseguito il lavoro di Pitré concentrandosi sulla musica e sul folclore letterario siculo).Questi studi si collocano nella tradizione del “recupero dell'anima popolare”, ma risentono ancora della matrice evoluzionista di Taylor (antropologo di fine '800 a cui si deve la definizione antropologica di cultura [Primitive culture, 1871]): egli infatti riteneva i contadini della campagna inglese, con le loro tradizioni superstiziose, più simili ai selvaggi africani che ai londinesi.

Nel II dopoguerra, con l'attivo degli antropologi britannici e statutinensi e i loro studi sulle piccole comunità meridionali dell'Europa (Italia/Spagna), si crea una nuova disciplina: antropologia mediterranea.La sua nascita di natura anglosassone, ha diverse spiegazioni: secondo Goddard, Llobera e Shore gli interessi verso il vecchio continente furono delineati in gran parte dalla necessità, in clima di Guerra Fredda, di controllare l'egemonia sovietica. Una scelta quindi strategica quella di mettere sotto la lente la cultura dei paesi sconfitti, destinata a cogliere la motivazione per il quale si erano piegati a un regime dittatoriale. Gli studi sulle comunità contadine dell'Europa mediterranea erano determinati dal fatto che Italia, Spagna e Grecia erano il ventre molle del continente, quello più esposto ai tentativi dell'URSS di espandere la propria zona d'influenza.

E' però più plausibile che gli antropologi inglesi e americani fossero interessati all'Europa perché le differenze culturali permettevano di esperire lo straniamento fondamentale per l'osservazione partecipata.Persiste un'ottocentesca ideologia del progresso di matrice evoluzionistica, che spinge gli

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antropologi a ricercare in Europa i contesti socioculturali più marginali e periferici.

La nozione di società mediterranea

Fra i primi antropologi che negli anni Cinquanta inaugurarono questo campo di studi ricordiamo Banfiel, con il suo studio sul sistema etico-normativo dei contadini lucani (familismo amorale) e

l'inglese Pitt-Rivers, con il suo lavoro sul viaggio Alcalà in Andalusia e i suoi successivi saggi del 1963, dove compare la nozione di società mediterranea.Pitt-Rivers viene dalla scuola struttural-funzionalista fondata da Radcliffe-Brown e ritiene che la società mediterranea sia un tipo, una categoria che emerge dalla comparazione di dati provenienti da società situate all'interno di una specifica aerea geografica, che considera dunque culturalmente omogenea, dove sono riscontrabili varianti locali ma soprattutto significative ricorrenze.

L'aerea geografica culturalmente omogenea sarebbe dunque delineata dalle somiglianze nell'organizzazione sociale e in costellazioni di valori simili, esiste infatti un codice morale proprio della società mediterranea, basato sull'onore e il pudore, valori strettamente legati alla sfera sessuale e di genere (Onore=Virilità: difesa della famiglia e della castità delle donne al suo interno; Pudore=Femminilità, legata alla verginità e alla modestia).

Dunque P.R. identifica una duplice delimitazione: geografica e il codice d'onore come elemento strutturale delle piccole comunità dell'area mediterranea, minacciato però dai fenomeni di urbanizzazione che sono incompatibili con tale codice.

L'associazione di una specifica struttura sociale ad un altrettanto specifico sistema di valori è tipica della prospettiva teorica strutturalfunzionalista, applicata (1930-1950) dagli allievi di Radcliffe-Brown allo studio delle società africane, definite tribali: Evans-Pritchard, Fortes, Shapera, Richards, Oberg, Nadel. P.I. proietta di fatto sulle piccole comunità rurali dell'Europa meridionale le categorie analitiche che la Scuola aveva adottato nello studio di quelle società tribali.

Dalla tradizione strutturalfunzionalista P.I. eredita anche l'idea che l'antropologia studia società congelate nel tempo, allocroniche, estranee alla dinamica temporale dell'occidente.

Gli esiti dell'applicazione della nozione di società localizzata, circoscritta e immobile nel tempo sono molteplici:

1. Espulsione della realtà osservata dal tempo dell'osservatore impedisce di cogliere da parte di quest'ultimo la storicità di quella realtà

2. La presunta staticità della società studiata genera la tendenza a essenzializzarne i tratti ritenuti tipici, a creare categorie concettuali che tendono a fossilizzarsi e che, espresse da uno studioso in un determinato contesto, vengono poi riprese da altri in contesti ritenuti analoghi, si creano così forme socioculturali etichettate come tipiche di una determinata aerea.

3. Ad esempio, la categoria “società mediterranea” crea altre società mediterranee, orientando così lo sguardo dell'osservatore, che cerca ciò che presume di dover trovare. Si genera così una precomprensione per cui il corpus di conoscenze accumolate nelle etnografie precedenti, influenza la raccolta dei dati nelle ricerche successive

La categoria “società mediterranea” dell'antropologia degli anni '50/'60 risente dunque del lascito strutturalfunzionalista africanista e si incardina su due “concetti-guardiani”:

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“piccola comunità” e “onore”.Il secondo concetto servì per innervare il primo, perché le piccole comunità mediterranee non presentavano le strutture sociali o la solitarietà interna tipica delle tribù africane. L'unica matrice condivisa era una costellazione di valori: onore , reputazione , prestigio .

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Il modello di società mediterranea fu messo in discussione dagli anni '70:

-Davies (1977) affermò che i precedenti lavori non avevano preso in considerazione la dimensione diacronica e la complessità delle realtà urbane, oltre che le relazioni città-campagna e quindi un contesto più vasto entro cui queste piccole realtà erano inserite.Dunque con “società mediterranea” non si deve definire un tipo in cui incasellare entità culturalmente omogenee incluse in una specifica area geografica ma il prodotto di processi storici che hanno reso possibile la creazione di una rete di relazioni fra popoli diversi che hanno, nei secoli, plasmato istituzioni e valori simili.

-Boissevain (1979) sostiene che il modello astorico proposto da P.I. debba essere sostituito da un'analisi che tenga conto dell'influenza che hanno esercitato scambi economici, prestiti culturali, conquiste e invasioni e conversioni religiose nel corso dei secoli. Dunque è necessario mettere a fuoco i tratti culturali condivisi considerandoli una stratificazione all'interno di un campo di interazioni.

-Gilmore (1982) ha posto l'accento sul carattere unilaterale del modello di società mediterranea, che essendo costruito solo su valori di onore e pudore, non include altri valori non meno importanti, come ospitalità e rispetto.

-Herzfeld (1987) ritiene che la nozione di società mediterranea sia totalmente priva di valore euristico in quanto basata su una prospettiva evoluzionista che arcaicizza la cultura rurale per renderla esotica e confinarla i una radicale “alterità”.Creano dunque un oggetto di studio del tutto fittizio.

L'antropologia europea nella II metà del Novecento

Mentre va pian piano indebolendosi la sua identificazione con l'originario oggetto di studio, l'antropologia europea comincia ad acquisire un profilo distinto e una certa autonomia come campo di studio.

Alla costruzione di questo nuovo profilo concorrono più fattori:

L'incremento degli studi e delle ricerche, quantitivamente. Questo sviluppo della ricerca può essere ricondotto in parte al fatto che

l'antropologia europea era, all'epoca, un campo di studi ancora poco sfruttato Riservava un vantaggio economico svolgere ricerche “nel cortile di casa”, poiché i

fondi erano un problema cronico per gli antropologi I nuovi scenari creati dal crollo degli imperi coloniali portarono un clima di generica

diffidenza verso gli antropologi da parte delle nuove élites politiche indigene delle zone geografiche solitamente studiate queli Africa e Asia, poiché li ritenevano spie legate agli ex dominatori

Si sviluppano nuovi temi di ricerca e nuovi oggetti di indagine: infatti gli antropologi non si limitano più a studiare comunità isolate e periferiche ma cominciano a cercare collegamenti fra queste realtà locali e contesti più ampi in cui sono inserite

Elaborazione nuovi modelli teorici: il declino dello strutturalfunzionalismo comporta l'abbandono della loro tendenza a privilegiare lo studio delle piccole comunità e la prospettiva che mette in luce solo gli aspetti strutturali, istituzionali. Emergono quindi nuovi metodi d'indagine (analisi situazionale e antropologia dinamica) che privilegiano lo studio dei processi e che si concentrano su situazioni specifiche dove l'elemento decisionale del soggetto e il suo comportamento individuale sono fondamentali

I principali esponenti di questo nuovo orientamento teorico: Smith, Easton, Bailey, Turner, Cohen, Barth.

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Pongono al centro l'indagine dei processi attraverso cui i soggetti perseguono la realizzazione di fini personali e il conseguimento di vantaggi, quali il potere, il controllo di reti di relazioni e clientele, il prestigio.

Questa nuova prospettiva teorica porta a vedere la politica come un campo di sfida tra soggetti in competizione.Tramonta quindi il modello di relazioni politiche come struttura e nasce un nuovo tipo di analisi che mira a ricostruire i processi di formazione delle decisioni.Questo nuovo orientamento ha un presupposto implicito e fortemente ideologico: le scelte compiute dai soggetti sarebbero basate su un criterio universale che va al di là dei condizioni culturali propri di ogni contesto specifico.

Negli anni '90 il panorama dell'antropologia europea diventa ancora più variegato, in particolare grazie all'influenza di fattori esterni, quali gli stravolgimenti politici di questo periodo: la crisi e l'implosione dell'URSS, lo sviluppo progressivo del processo di integrazione europea e il crescente flusso migratorio.Si aprono così nuove tematiche e nuovi spazi geografici, soprattutto nel caso del collasso dell'Unione Sovietica, poiché prima del 1989 gli antropologi occidentali dovevano stare al di qua della cortina di ferro.

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Capitolo 1 – L'identità europea

L'identità europea viene data come un dato di fatto, ma è tutt'altro che scontata dal punto di vista antropologico: infatti il tentativo di definire l'Europa come un'entità culturare distinta richiede una questione teorica generale che è preliminare: qual è la natura dell'identità collettiva?

Nella prima metà del '900 prevaleva la teoria essenzalista, secondo cui il gruppo etnico ha un carattere sostantivo, è un'entità oggettiva data a priori: esiste a prescindere dalle relazioni che intrattiene con altri soggetti collettivi in quanto dotati di tratti costitutivi (religiosi, culturali, linguistici) trasmetti attraverso le generazioni.

Negli anni '60 Barth sostituì la nozione di gruppo etnico con categoria etnica, reimpostando così in termini nuovi il problema tra identità collettiva e cultura.Secondo lui l'identità collettiva non è una realtà oggettiva, non è legata da un particolare pratimonio culturale, ma ha un carattere situazionale, relazionale, contestuale. E' un costrutto, creato da attori sociali che attribuiscono a se stessi particolari tratti, operando inclusioni o esclusioni. I tratti culturali identicati come rilevanti sono dunque quelli che gli attori sociali ritengono significativi.

L'Europa non fa eccezione: non è una realtà oggettiva, ma un manufatto culturale determinato da criteri adottati dai soggetti che ne progettano la costruzione.

Come osserva Maryon McDonald, l'Europa è stata rimodellata nei contenuti e nei confini molte volte, dunque è un costrutto culturale ambiguio, polisemico. Si è attinto alla geografia, alla storia, ai modelli economici, politici o sociali, ma in particolare, per sostenere l'omogeneità culturale europea, si sono sottolineate le matrici comuni: civiltà greco-romana, il cristianesimo e l'illuminismo (e con lui la ragione, la scienza e la democrazia che ha generato).Il passo è stato usato per dare senso all'oggi.

Il meccanismo utilizzato per creare un'identità europea è il medesimo utilizzato nel processo di etnogenesi: un soggetto sociale o politico crea un'identità collettiva presentadola come sbocco di un processo storico che essero ha plasmato elaborandolo come narrazione.In particolare la coesione europea viene giustificata come continuità culturale con un passato che l'élite tecnocratica dell'UE ha inventato: infatti non solo affermano l'esistenza di una eredità culturale eurpea, ma la presentano come oggettivamente esistente.

Tutto questo si è concretizzato nella creazione di manuali scolastici di “storia europea”, finanziati con fondi dell'UE, dove i primi abitanti del continente sono definiti “i primi europei” e via dicendo.L'individuazione di tratti sotici debitamente selezionati, che nel loro insieme disegnano un'ipotetica matrice comune, ha anche lo scopo di tracciare i confini: infatti la creazione di un'entità europea avviene in contrapposizione con ciò che non è europeo.Si pensi infatti alla denuncia ricorrente di “americanizzazione”, che può erodere valori e tradizioni (si pensi al caso della domanda di ammissione della Turchia).

Il rapporto con la storia presenta un doppio vincolo: le numerosi configurazioni politiche, sociali e culturali che compongono l'Europa sono l'esito di processi storici e si pensano, al tempo stesso, in termini storici. Dunque il primo aspetto pone l'accento sulla dimensione strutturale, il secondo su quella simbolica. Struttura storica e immagine storica di un qualsiasi soggetto collettivo non coincidono, perché il modo in cui esso si rappresenta e racconta il suo passato non costituisce una descrizione fedele di ciò che è realmente accaduto.

Inoltre, se prendiamo in considerazione l'immagine storica, la rappresentazione che una

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nazione elabora di sé e su cui fonda il senso di appartenenza dei suoi membri, allora osserviamo che il rapporto con il passato è duplice: da un lato la comunità culturale che si definisce nazione si storicizza poiché inventa un passato creando un'immagine di sé che proietta nel tempo.Dall'altro lato di destoricizza affermando la sua immortalità nel corso dei secoli.

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Capitolo 2 – L'unione europea

Il processo di costruzione dell'Europa iniziò intorno agli anni '50.I trattati del 1951 e 1957 pongono, con la creazione del Mercato Comune Europeo, le prime basi.Si tratta di una situazione anomala, essendo che questa futura entità politica dovrebbe includere un insieme di Stati che si rappresentano come Stati-nazione e si sarebbe sostituita a loro in molte funzioni strategiche.

Quest'anomalia va intesa nella sovrapposizione crescente dell'idea di Nazione a quella di Stato: le identità nazionali, sviluppatesi nel corso del XIX sec., si sono pietrificate nel panorama politico e ideologico europeo sottoforma di lingue nazionali, miti etnogenetici, memorie storiche.

I primi trattati del '51 e del '57, fino agli accordi di Schengen (1958-1995) hanno mirato alla creazione di istituzioni che realizzino un'integrazione economica e politica che sia sempre più vincolante, con poteri che sottraggono di fatto spazio di manovra ai singoli Stati nazionali.

Tuttavia si rende necessario che il processo politico sia seguito paripasso da quello culturale, mirante a innescare l'identità comune, “Siamo tutti europei”.

NB: Il fatto che ogni identità collettiva sia un'invenzione, un manufatto culturale, (vd Cap I) non significa che sia totalmente arbitriaria, perché deve risultare plausibile agli occhi di coloro che si pensano come membri della collettività che rivendica come tale questa identità.La selezione operata nell'etnogenesi considerando solo gli elementi ritenuti più idonei, però, non è falsificazione, ma una manipolazione, una ricostruzione selettiva che preleva solo gli aspetti ritenuti idonei a costruire una narrazione adeguata al progetto politico attuale.Inoltre per creare queste narrazioni si è attinto a qualcosa di già esistente: quali storie nazionali, o identità religione, linguistiche...

LA COMUNITA' SEMIOTICA

E' un campo di significati culturali e di valori condivisi, uno spazio mentale collettivo.I membri sono tali quanto condividono o almeno riconosco un insieme di simboli, significati, valori, norme e tradizoni.E' uno spazio immaginato, costituito da mappe mentali, che coloro che abitano condividono un repertorio di tratti culturali.

E' uno spazio elastico perché non si basa solo sulla condivisione ma anche sul riconoscimento di una specifica costellazione di significati e valori.

La nozione di “comunità semiotica” è applicabile al processo di eurogenesi.

Es: nel tentativo di creare un senso di appartenenza transnazionale, si è sostenuta l'esistenza di un'eredità culturale europea. Fra le matrici prese in considerazione, c'è il cristianesimo. I principi etico-religiosi del cristianesimo sono riconosciuti da tutti gli europei, sia che creadano o meno, che pratichino o no, o che siano di confessione anglicana, cattolica, protestante e via dicendo. Vi sono dunque profonde variabili nel rapporto ideologico con il cristianesimo, eppure tutti condividono la cognizione della sua costellazione di simboli, tutti hanno consapevolezza dei valori che rappresenta e dei suoi dogmi.Dunque il cristianesimo è sicuramente una comunità di fedeli ma in senso più ampio è una comunità semioticai che include anche coloro che anche professandosi non credenti, sono cresciuti in un ambiente culturale il cui paesaggio è dominato dal cristianesimo.

La nozione di comunità semiotica è dunque fondamentale affinché il progetto di Europa unita abbia successo, tuttavia attualmente mancano gli strumenti politici, culturali e tecnici per innescare questo processo di eurogenesi, tipo mass-media europei, movimenti transnazionali, partiti politici europei. Senza tali strumenti è difficile avviare qualsiasi tentativo di superamento di barriere linguistiche, storiche e religiose.

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Inoltre si è sempre pensato che l'integrazione economia e giuridica fosse primaria rispetto a quella sociale e politica, che anzi, l'avrebbe seguita.Si è dunque pensato che i vantaggi economici avrebbero generato una crescita di consenso intorno al progetto europeo.Tra il 1950 e il 1970 ha prevalso questo approccio neofunzionalista, ovvero basato sull'idea secondo cui l'integrazione economica realizzata abolendo le dogane e favorendo la libera circolazione di merci, dei capitali e del lavoro avrebbe automaticamente portato all'integrazione politica.

Con piccoli passi in questa direzione si è pian piano tolto potere decisionale agli Stati nazionali, che invece è andato ad agenzie internazionali.Tale strategia è stata messa in atto dall'élite tecnocratica formata dai leaders politici e dai funzionari comunitari.Proprio il fatto che questo progetto di unificazione sia stato e sia tuttora gestito dall'alto, lo rende poco popolare.L'indifferenza dell'opinione pubblica nei confronti dell'UE è chiaramente rivelata dal calo della partecipazione alle elezioni per il parlamento europeo: 61% del 1979, 40% del 2009.

L'assenza di una saldatura, nell'opinione pubblica, fra le istutizioni europei e la nozione di “interessi comuni trasnazionali” impedisce, insieme all'assenza di soggetti politico-sociali trasnazionali e la persistenza di forti identità nazionali, che si compia un primo passo verso la costruzione di una vera comunità semiotica europea.

TECNICHE DI FORMAZIONE DELL'IDENTITA' TRANSNAZIONALI

Al momento l'unico soggetto che può promuovere la formazione di un'opinione pubblica europea in assenza di soggetti trasnazionali (mass-media, partiti politici...) è proprio l'Unione, attraverso l'élite tecnocratica e poltica e le sue istituzioni, in particolare la Commissione per la cultura, la gioventù, l'educazione e i media.

Anche se le istituzioni comunitarie hanno cominciato a considerare la cultura uno strumento efficace per la costruzione di un'identità europea, il limite delle loro iniziative consiste nell'adozione di una strategia basato un modo antico di intendere la cultura: ovvero il sapere alto, l'eredità artistico-letteraria dei secoli passati e “modernizzata” con l'aggiunta di settori quale l'industria dello spettacolo e l'informazione.Nell'orizzonte concettuale di “Noi europei” la cultura viene rappresentata al tempo stesso come una somma di parti (arte+letteratura+musica ecc...) e come parte di un settore distinto e separato da altri settori quali politica, economia ecc...Il limite principale della strategia dell'UE in campo cultura sta nell'incapacità di utilizzare il concetto antropologico di cultura.Infatti il progetto dell'UE si limita a iniziative eterogenee che non aiutano la reale integrazione culturale, quali gemellaggi di città di Stati diversi, l'istituzione di un premio letterario europeo, uno per la donna europea dell'anno, di settimane europee, di mesi della cultura europea, di anni europei dedicati a temi specifici.

Il progetto di europeizzare gli europei favorendo la nascita di una nuova identità trasnazionale si concretizza, oltre che nell'integrazione culturale, anche nell'elaborazione di strategie di persuasione che vengono messe in atto parallelamente al processo di costruzione legislativa e normativa.Se l'edificazione di questa intelaiatura mira a ridurre sempre di più gli spazi di sovranità dei singoli Stati membri, le strategie di persuasione perseguono l'obiettivo completare di diffondere e radire un senso di appartenenza transnazionale che tolga spazio mentale al senso di appartenenza nazionale.

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Fra le strategie di persuasione messe in atto per costituire questa cittadinanza mentale, vanno annoverate le tecnologie politiche, grazie ai quali si producono e si erogano informazioni e conoscenze che mirano a rimodellare il modo di percepirsi e di comportarsi dei cittadini europei, creando un'opinione pubblica che rappresenta un passaggio necessario per trasformare gli abitanti del Continente in una comunità semiotica.La rappresentazione della realtà sociale viene influenzata in modo da alimentare la credenza nell'esistenza di entità etichettate come “opinione pubblica europea”, “cittadini europei”. Una volta che gli abitanti si sono persuasi dell'esistenza di tale entità, è assai facile indurli a credere di farne parte e a comportarsi di conseguenza.

Non è da sottovalutare anche la barriera linguistica: se nella creazione delle Comunità Nazionali l'omogeneità linguistica fu un fattore determinante, la sintesi pan-europea trova un enorme ostacolo nella frammentazione linguistica. Ma nessuna lingua può aspirare a prendere un ruolo egemonico, anche se, la sostanziale equipotenza delle tre lingue più importanti e la rilevanza che hanno sul piano demo-culturare anche lo spagnolo e l'italiano, produce una sorta di neutralizzazione reciproca tra queste cinque lingue.

Capitolo 3 – La nuova cittadinanza

L'isituzione di una cittadinanza europea è uno dei pilastri della strategia adottata degli organismi dell'UE per creare una nuova identità sovranazionale.

La cittadinanza da un lato è un insieme normativo di diritti, doveri e privilegi emanato da un'entità politicamente sovrana (uno Stato), dall'altro è una componente dell'identità individuale e include elementi autorappresentativi che plasmano comportamenti, relazioni e il modo in cui un soggetto concepisce il rapporto tra sé e lo Stato e fra sé e le catogorie di “cittadino” e “straniero”.

La questione della “cittadinanza europea” è ancora nel pieno del dibattito e il punto di partenza è costituito dalla nozione di “cittadinanza nazionale”.Il trattato di Maastricht del 7 Febbraio 1992, istituisce all'articolo 8 lo status di cittadinanza dell'Unione, cui associa specifici diritti politici e privilegi, quali libertà di movimento e residenta nei territori degli Stati membri, libertà di voto e candidatura al Parlamento Europeo e diritto di presentare petizioni in tale Parlamento.

Il Trattato di Amsterdam del 1997 precisa che la cittadinanza europea è complementare e aggiuntiva a quella nazionale e non la sostituisce.In sostanza la cittadinanza europea non abolisce né altera i diritti e gli obblighi di ogni europeo in quanto cittadino di uno Stato membro dell'unione.

Anche dal punto di vista legale la cittadinanza europea si rivela poca cosa, in quanto la sua sostanza consiste in un fascio di diritti già esistenti e riconosciuti dalle Costituzioni degli Stati membri dell'Unione. Questa leggerezza della cittadinanza europea induce a ritenere che essa non possa svolgere un ruolo significativo come fattore identitario e strumento destinato a potenzare il senso di appartenenza all'Europa.

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Capitolo 4 – Simboli ed emblemi dell'Europa unita

La creazione di un repertorio di simboli condivisi costituisce un passaggio cruciale nella creazione di unità e senso di appartenenza; pertanto sono i medesimi che incarnano le idee di sovranità statale e di identità nazionale: bandiere, inni, passaporti, monete e banconote.

La bandiera dell'UE, adottata ufficialmente nel Giugno 1985, è costituita da un cerchio, scelto in quanto figura geometrica che meglio esprime il senso di unità, mentre il numero 12 delle stelle non sta per il numero di Stati membru, ma perché ricorrente nelle mitologie e nella storia che l'Europa ha adottato come matrici ideologiche.12 è il il simbolo di perfezione, pienezza, associato agli apostoli, ai figli di Giacobbe, alle tavole delle leggi romane, alle fatiche di Ercole, alle ore del giorno e i mesi dell'anno e ai segni dello zodiaco. La Commissione lo scelse quindi come simbolo dell'identità europea, cosa comprensibile dato che rimanda ai tre pilastri fondamentali che l'Europa ha costruito per rappresentare il suo passato: mitologia greca, ebraismo e cristianesimo, civilità romana.

In molti casi il simbolismo del vessillo nazionale è comprensibile immediatamente perché rimanda a una narrazione nota come storia condivisa (es: stelle della bandiera USA, falce e martello dei sovietici, le tre croci sovrapposte della Union Jack...); quello europeo però è un simbolismo artificioso e quasi nessuno dei cittadini europei è a conoscenza dei riferimenti storico-mitici del numero di stelle.

L'inno è strettamente associato alla bandiera (vd. l'alzabandiera). La diffusione planetaria del mezzo televisivo ha reso possibile anche una versione elettronica di questa cerimonia: infatti molti programmi, al termine, trasmettono la bandiera nazionale che sventola sullo sfondo di un cielo azzurro.

Sia Durkheim che Radcliffe-Brown ci hanno insegnato che molti rituali hanno lo scopo di associare le emozioni suscitate dal rito ai valori collettivi evocati dai simboli che vengono esibiti (nel caso dell'alzabandiera sono l'orgoglio nazionale, il senso di appartenenza e la fedeltà alla patria).Per produrre tali sentimenti devo avere determinate caratteristiche: un tema semplice da memorizzare e cadenzato per coinvolgere. Alcuni puntano sulla solennità per evocare la potenza della nazione (God save the Queen), altri un ritmo incalzante per suscitare un senso di mobilitazione collettiva (la Marsigliese).

La scelta dell'Inno alla gioia come inno europeo è stata adeguata: per solenne e commuovente al tempo stesso. Come rileva Abélès l'inno rimane però senza parole e questo è significativo. Infatti l'assenza di un messaggio segnata un “deficit simbolico” nella costruzione dell'Europa.

Altri simboli accompagnano questi due pilastri fondamentali: i passaporti dei cittadini europei sono stati uniformati, così anche le patenti di guida e le targhe automobilistiche (dove però è inserita, sotto il simbolo dell'UE, lo Stato di provenienza).

Infine vi è il simbolo che riunisce tutti: la moneta unica, l'€. E' il simbolo più forte dell'identità europea e quello che più di ogni altro contribuisce alla costruzione di una coscienza sovranazionale.E' stato adottato ufficialmente il 1 Gennaio 1999 da 11 Stati membri (no GB, Svezia, Danimarca e Grecia [che però lo adotto in seguito]), entrò però in effettiva circolazione tre anni dopo.Segnò un'innovazione di rilievo nel quadro dell'economia planetaria, destinata a cambiare gli equilibri, infatti l'euro copre circa 370 milione di utenti ed è la valuta di riferimento di un'entità economica che copre il 20% della produzione di commercio mondiale.

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Ma l'introduzione dell'euro ha implicazioni che vanno oltre la sfera economica: le monete nazionali hanno una dimensione emotiva, soprattutto le immagini che le ricoprono. Grazie all'euro, l'Europa si fa mezzo di scambio comune a buona parte del Continente, elemento della cultura materiale, oggetto pratico che entra nella vita quotidiana.

Il passaggio all'euro fu preparato per circa un decennio. La fase conclusiva fu agganciata ad una precisa scadenza temporale, il 1 Gennaio 2002, simbolicamente rafforzata dal Capodanno. La forte carica emotiva e simbolica di cui questa conversione monetaria è stata investita, è stata fondamentale per rendere possibile un'altra fase della costruzione della nuova identità politica sovranazionale.Per raggiungere questo scopo furono pianificate campagne di informazione articolare (vedi “Building Europe together” del 1996), volantini, pubblicazioni, bollettivi, conferenze, trasmissioni radiofoniche e televisive, materiale educativo per le scuole.Tutto questo materiale era informativo e propagandistico al tempo stesso, tendente a sottolineare i benefici economici derivanti dall'introduzione della moneta unica.

Dato che una valuta è potenzialmente un simbolo identitario per i membri di un'entità politica statale, è comprensibile che l'aspetto grafico sia molto importante.Il simbolo scelto è €, che pare essere un incrocio tra la e latina e la epsilon greca. La decisione della doppia sbarra che taglia la e pare suggerire stabilità e al tempo stesso richiamare il dollaro in chiave competitiva.

La scelta delle immagini per la banconota è stata affidata a una commissione, istituita nel 1995, composta da storici d'arte, grafici ed esperti di analisi di mercato. Selezionarono due temi: Età e stili d'Europa e design astratto e moderno.Vennero identificati 7 tagli per le banconote e a ognuno fu associato uno specifico stile architettonico (classico, romanico, gotico, rinascimentale, barocco e rococò, architettura ferro/vetro, architettura del XX sec.) in modo che la sequenza dei valori coincidesse con la sequenza cronologica.

La caratteristica peculiare delle banconote europee è la totale assenza di figure umane, cosa invece che è tipica delle banconote di tutti gli altri paesi. Inoltre ciò che viene rappresentato non sono delle architetture reali, ma immaginarie.I personaggi illustri sono stati eliminati per il loro legame con le storie nazionali, che avrebbero quindi offuscato l'immagine di unità europea. Lo stesso motivo è applicabile ai monumenti.Shore propone un altro possibile messaggio: le architetture rimandano all'idea di costruzione dell'Europa.Inoltre Shore sottolinea che tutti gli elementi architettonici richiamano l'idea di “soglia”, “passaggio”, da un'Europa delle nazioni a un'Europa unita.

Le monete invece hanno una faccia con valore e il contorno del continente con le stelle attorno, mentre l'altra faccia è stata selezionata a discrezione del singolo Stato.Per la faccia principale però non è stata selezionata un'unica mappa: infatti ne sono state scelte 3 diverse che compaiono in sequenza (1^ su 1,2,5 cent; la 2^ su 10,20,50 cent e la 3^ su 1, 2€) trasmettono diversi significati ideologici: la prima è l'Europa all'interno del mondo, la seconda è l'Europa con i confini nazionali demarcati e la terza senza i confini. Mondo->confini->Europa senza frontiere, come un punto di arrivo.

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Capitolo 5 – I nuovi europei: una gioventù transnazionale

La costruzione di quella che si è definita una comunità semiotica degli europei sarà più probabilmente l'esito di un processo molecolare, di una stratificazione di pratiche sociali condivise, di una sorta di habitus che si diffonde e si radica.

L'accumularsi di pratiche e comportamenti identici può modificare il paesaggio mentale degli abitanti dell'Europa, moltiplicare i significati e i valori culturali condivisi.Ovviamente questo vale in misura maggiore per le nuove generazioni.

Nei primi decenni del dopoguerra la mobilità e la “fruibilità” dell'Europa erano molto più limitate rispetto ad oggi: era minore la facilità di movimento, minore il numero di chi aveva la disponibilità economica per viaggiare e di chi, per formazione e livello culturale, ritenevano utile un viaggio all'estero, senza considerare che era molte di meno le persone in grado di parlare una lingua straniera.

Negli ultimi quarant'anni, il cosmopolitismo dei giovani si è progressivamente trasformato in uno stile di vita diffuso. L'esperienza giovanile del viaggio all'estero è condizionata dal livello sociale e culturale di chi lo compie. La modalità più diffusa è il sempre viaggio turistico, favorito da tariffe dedicate ai giovani e dai voli low cost e dalla facilità di prenotazione dei soggiorni tramite internet.Una variante è il turismo scolastico, destinato a stimolare la conoscenza dei luoghi e non un superficiale consumo visivo dei monumenti più importanti.Ben più importante è la possibilità di viaggi all'estero per soggiorni studio, finalizzati all'acquisizione di una lingua straniera, specialmente dell'inglese.Un altro passo, anche se riservato a strette minoranze, possono essere il progetto Erasmus, varato dall'UE stessa, i dottorati in università estere o i periodi lavorativi.

Tuttavia, la maggior parte fruisce di esperienze brevi e turistiche, ma la facilità con cui queste sono rese possibili è legato a una nuova concezione mentale: l'Europa è uno spazio trasnazionale condiviso. Questo spazio è innanzitutto geografico continuo, senza passaporti e frontiere. Inoltre, oltre ai passi compiuti in ambito legislativo, anche i mutamenti economici hanno favorito lo spostamento, si pensi infatti che adottando l'euro non si sono più rese necessarie le operazioni di cambio sull'acquisto di voli e pernottamenti.

Le città europee sono inoltre sempre più simili fra loro: al di là della loro diversità architettonica, ovunque ci sono le stesse grandi catene commerciali e di fast food, le metropolitane, internet café, discoteche e via dicendo.

Lo spazio comune dei giovani europei però non è solo geografico ma anche culturale: i giovani di oggi che sono nati con l'eurom condividono mode, gusti, stili di vita, forme di consumo, abiti mentali e tecnologie e condividono mezzi comunicativi che plasmano e omologano i costumi e i rapporti sociali. Queste nuove tecnologie sono un potente fattore di omogeneizzazione culturale, facilitando anche l'abbattimento delle differenze linguistiche, aiutate anche dalla diffusione di un “basic English” come lingua franca.

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Capitolo 6 – Identità regionali ed etnonazionalismi

1. I MOVIMENTI NAZIONALISTI REGIONALI

Negli ultimi decenni lo sviluppo dell'UE e la progressiva integrazione sovranazionale che ha perseguito e, in parte realizzato, si sono scontrati con un processo opposto: la fioritura di rivendicazioni regonali su base etnica e di nazionalismi sub-statali.

Già nel 1975 il politologo Connor aveva sottolineato l'ampia diffusione delle manifestazioni di inquietudine etnica nel Continente europeo, sottoforma di ostilità verso i poteri centrali: Corsica, Paesi Baschi, Catalogna, cattolici dell'Ulster, i fiamminghi del Belgio, la popolazione di lingua tedesca dell'Alto Adige.

Per comprendere il paradosso del processo di integrazione che al tempo stesso produce localismi, è necessario analizzare la strategia politica che è alla base della costruzione dell'Unione: la nuova identità europea non è concepito come drastico superamento dei nazionalismi statali e non mira a sradicarli, piuttosto opera una sintesi delle differenze.

Diversi fattori hanno contribuito: la capacità di penetrazione nei mercati delle potenze emergenti e la forza destabilizzante delle speculazioni finanziarie si sono aggiunti all'azione di maggior controllo, vigilanza e imposizione esercitata dagli organi centrali dell'UE. Tali misure mirano a indebolire la sovranità nazionale, ovviamente gli stati più colpiti sono stati quelli economicamente più fragili (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna). La drastica riduzione della loro sovranità ha avuto l'effetto di far perdere ai loro governi il consenso popolare, ma anche la loro capacità di mantenere la coesione nazionale e di tener a freno le rivendicazioni delle minoranze etniche e i sub-nazionalismi regionali.

Le spinte si sono manifestate con particolare rilevanza negli ultimi decenni, determinando il raffornzamento di movimenti nazionalisti regionali che rivendicano la secessione degli stati di appartenenza.Connor ha sottolineato che queste revendicazioni non arrivano da aree depresse o remote, ma anzi, da regioni caratterizzate da un tenero di vita più alto di quello medio degli Stati in cui sono incapsulati.

Alcuni di questi movimenti separatisti hanno una lunga tradizioni di lotte e un profondo radicamento storico, come quello irlandese che ha carattere irredentista, o come quello basco, sviluppatosi nella lotta al franchismo che aveva cancellato l'autonomia della regione basca. Altri sono inece comparsi recentemente, come la Lega Nord.Il loro orientamento politico è un panorama variegato.

Un altro aspetto importante dei movimenti separatisti è il loro ancoraggio etnico: in proposito va rilevato che non svolge un ruolo fondamentale: è vero che viene spesso invocata ma in realtà funge di solito solo come legittimazione ideologica a posteriori delle rivendicazioni politiche.Il ricorso a specifiche matrici culturali quali la lingua o la religione non sembra essere fondamentale per il loro sviluppo. Dove non è stato possibile ricorrere né alla lingua né alla religione per costruire un'identità etnica ma questa mancanza non è stata una difficoltà (vd. Scozia [p.76]).

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2. L'ETNONAZIONALISMO DELLA LEGA NORD

Nel panorama europeo il caso più evidente di assenza di fattori etnici nello sviluppo di un movimento regionale indipendentista è senza dubbio la Lega Nord.

L'ideologia entonazionalista elaborata dalla LN costitusce un'etnogenesi realizzata in laboratorio per costruire un'identità nazionale ex nihilo, ancorata a una possibilità geopolitica inventata: la Padania.

Fondata del 1991 con l'obiettivo dichiarato di ottenere l'indipendenza della Padania dall'Italia, ha ottenuto risultati altalenanti ma ha progressivamente consolidato un discreto consenso nelle regioni dell'Italia settentrionale, ottenendo in alcune elezioni circa il 20% dei voti.

Il suo successo è determinato dalla sua capacità di intercettare il consenso di strati popoli, sia dei ceti medi, attraendoli con proposte poltiche xenofobe e demagogiche.Il successo iniziale è stato determinato dalla capacità di dare risposta al disorientamento generato dalla crisi di rappresentanza dei partiti centristi che avevano dominato la scena politica dal dopoguerra agli anni Novanta. Dall'altra puntò sin da subito a sfruttare il malcontento popolare causato dalle disfunzioni dell'apparato statale, dalla corruzione del ceto politico, dalla gestione clientelare delle risorse e dall'ingiusta redistribuzione delle risorse fiscali, prelevate dal Nord e dirottate al Sud.

La rivendicazione del diritto degli abitanti del Nord a utilizzare esclusivamente a proprio vantaggio le risorse economiche locali senza devolverle allo Stato si ritrova anche nel programma politico di altri movimenti separatisti (vd. secessione Slovenia e Croazia dalla Federazione jugoslava).Facendo leva su una delle principali linee di frattura economica e sociale che attraversano l'Italia, la Lega ha quindi deliberamente scelto una strategia politica che consiste nel concentrare l'azione nel bacino costuito dall'elettorato settentrionale.

L'orientamento fortemente xenofobo che caratterizza la Lega è presente anche in altri movimenti separatisti ma non in tutti. La Lega ha concentrato l'attenzione all'elettorato settentrionale, coltivandone l'ostilità dapprima nei confronti delle popolazioni meridionali e in seguito nei confronti dell'immigrazione extra-comunitaria.

In Veneto e in Lombardia, dove ottiene maggiori consensi, l'area è caratterizzata dallo sviluppo di piccole/medie imprese, con una bassissima sindacalizzazione ma lealtà all'azienda.Si è generato un diffuso benessere che è però basato non sull'innovazione tecnologica ma su un costo della manodopera bassissimo e sull'evasione fiscale.In questo humus il discorso politico della Lega Nord ha forte presa, perché lo Stato, con le sue vessazioni burocratiche e fiscali, è visto come il nemico comune di imprenditori e lavoratori.

I ceti sociali che danno il loro consenso vedono lo Stato italiano come un apparato centrista e oppressivo e dunque, la secessione proposta dalla Lega, è vista come lo strumento più adeguato per difendere i propri privilegi.La Lega ha dunque attinto consensi soprattutto fra commercianti, piccoli imprenditori e operai non sindacalizzati.

La crescente presenza di immigrati nelle aree metropolitane di queste regioni, soprattutto nelle zone periferiche, ha acuito il senso di insicurezza di quella parte di popolazione socialmente, economicamente e culturalmente più debole (pensiati, artigiani, commercianti ambulanti) che vive a stretto contatto con gli immigrati.Le aree periferiche soffrivano già in precedenza di servizi insufficienti e la massiccia presenza di immigrafi ha aumentato il degrado. Inoltre l'elevato numero di clandestini privi di fonti di reddito e di fissa dimora ha provocato reazioni xenofobe e ostili verso tutti gli immigrati.

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La Lega ha fortemente sfruttato nella sua propaganda questo malessere sociale, presentandosi come difensore della popolazione residente contro l'invasione della xenofobia.

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3. L'ETNOGENESI PADANA

Per rendere credibile l'obiettivo della secessione delle regioni del Nord Italia e della creazione di un nuovo Stato, è stato necessario costruire un'immaginaria identità etnica che sarebbe condivisa dalle popolazioni di queste regioni.A questa identità è stata attribuita una matrice celtica, per differenziarla dall'identità latina delle popolazioni dell'Italia centro-meridionale.

L'invenzione di un'identità padana, che il realtà non ha fondamento né un confine geografico, ha reso possibile la trasformazione degli elettori della Lega da una comunità di interesse a una comunità di destino.

Per costruire quest'identità padana la Lega ha attinto sia a miti sulle origini celtiche, sia alle idee del teorico valdostano Bruno Salvatori.Ma il tratto peculiare è che tutta la simbologia è stata studiata e confezionata a tavolino da dirigenti del partito e politologi e ha avuto un duplice utilizzo sul piano politico: da un lato ha favorito la formazione ideologica di militanti su una base etnica condivisa. Dall'altro ha permesso l'elaborazione di un corredo cerimoniale che ha accresciuto l'impatto emotivo dei raduni politici.

Esistono inoltre i Quaderni padani, articoli concernenti la storia dell'etnica padana, le sue origini celtiche, i tratti culturali che corrono a definirne l'identità.

Per mobilitare i suoi elettori la Lega ha fatto ricorso a manifestazioni di massa, che sembrano rituali colletivi nel quale la Padania viene presentata come un'entità storico-territoriale del tutto reale, che aspetta solo la legittimazione.In questa strategia si iscrivono l'annuale ritrovo a Pontida, luogo della battaglia dei Comuni guidata da Alberto da Giussano, che sconfisse Federico Barbarossa; il primo rito di fondazione della Padania, del 15 Settembre 1996 a Mantova, con una Dichiarazione di Indipendenza. Per la cerimonia si allestì un'accurata scenografia con il Po come protagonista, con la raccolta dell'acqua della sorgente, poi trasportata in un'ampolla fino a Venezia, dove viene versata nella laguna (cerimonia che si ripete ogni anno da allora).

Ma la costruzione dell'identità padana passa attraverso anche pubblicazioni quali il quotidiano La Padania e i periodici Quaderni Padani.

Costruita simbolicamente attraverso l'ancoraggio ad un elemento del territorio (il fiume che l'attraversa) e l'individuazione di radici celtiche e medievali, la Padania viene tratteggiata come una patria perduta, espropriata e negata da dominatori stranieri, un'entità etnonazionale che solo con la Lega Nord ha ritrovato la coscienza di sé.La due fasi storiche (il periodo celtico pre-romanico e quello medievale) rappresentano quindi due Età dell'oro.

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4. L'INTEGRAZIONE EUROPA COME MINACCIA

Lo sviluppo di movimenti indipendentisti e secessionisti regionali è stato favorito dal processo di integrazione europea perché la parziale sottrazione di sovranità a favore dell'UE ha indebolito lo Stato, rafforzando al loro interno le forze centrifughe.

In generale i movimenti etnonazionalisti regionali non sono favorevoli all'integrazione europea perchéla prospettiva a cui è legata, la progressiva sottrazione di sovranità agli Stati e lo sviluppo di un'entità politica centrale, è incompatibile con i loro progetti.

La Lega Nord si caratterizza per il marcato antieuropeismo; la sua ostilità all'integrazione europea nasce dalla diffidenza nei confronti delle politiche comunitarie, viste come espressione delle strategie di un'élite tecnocratica transnazionale.La Lega ritiene che sia necessario difendersi con misure protezionistiche che pongano un argine all'invasione di profotti stranieri a basso costo. L'UE è accusata di non erigere difese contro questa invasione.

Localismo, xenofobi,a gestione autonoma delle risorse fiscali senza intrusione dello Stato, difesa dalla globalizzazione: questi sono gli ingredienti dell'ideologia della Lega Nord, costruita intorno alla rappresentazione del mondo esterno come minaccia.Se il localismo e la diffidenza nei confronti dell'integrazione europa sono tratti condivisi anche dagli altri movimenti etnonazionalisti, la xenofobia contraddistingue la Lega ne fa emergere l'affinità ideologica con i gruppi di estrema destra.

L'antieuropeismo proprio di alcuni etnonazionalismi regonali e dei partiti di estrema destra è condiviso anche da forze politiche nazionaliste conservatrici che hanno governato di recente membri dell'UE, come la Polonia, e che governano tuttora, come in Ungheria.

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Capitolo 7 – Immigrazione e Islam

1. EGUAGLIANZA DI DIRITTI, DIFFERENZE DI CULTURA

La mobilità delle persone è stata enormemente accresciuta negli ultimi decenni dalle esigenze di un'economia integrata a livello planetario.

L'Europa ha visto crescere in modo esponenziale questi flussi e questi hanno prodotto molteplici e complessi mutamenti culturali: la formazione nelle metropoli europee di consistenti comunità di immigrati provenienti dall'America Latina, Romania, Ucraina, Africa settentrionale, Bangladesh, Filippine e Sud Est Asiatico ha innescato processi e dinamiche fra i cui effetti principali vi è lo sviluppo di nuove configurazioni culturali: una comunità di immigrati lontana dalla terra d'origine è culturalmente diversa da una comunità radicata nel proprio territorio perché risente sia degli influssi del contesto in cui si inserisce, sia della lontananza dalla madrepatria e tende a produrre nuove forme di identità.

Comunità etnicamente e culturalmente omogenee, private del loro ancoraggio territoriale, ricreano la propria immagine in relazione al nuovo contesto ma anche in rapporto alla terra d'origine “pensata da lontano”.

Nelle città europee gli immigrati provenienti da uno stesso paese spesso cercano di costruire una rete di relazioni e di attivare forme di solidarietà, dotandosi di propri servizi (negozi con prodotti alimentari dalla madrepatria ad esempio), creando luoghi d'incontro, di culto, associazioni e strutture deputate alla riproduzione culturale (es: scuole coraniche).

Fra gli emigranti che raggiungono le metropoli europee vi sono coloro che progettano di stabilirvisi definitivamente e coloro che invece hanno optato per una permanenza momentanea.

Gli stranieri, che ormai costituiscono una percentuale significativa della popolazione degli Stati dell'Europa occidentale, si dividono quindi in due categorie: coloro che danno via a una comunità stanziale e coloro che vanno e vengono e costituiscono una presenza continua ma fluida, però invisibile (poiché soggetti marginalizzati, costretti a lavori clandestini, privi di fissa dimora).

Gli immigrati clandestini rappresentano una presenza problematica da molti punti di vista. Tuttavia anche per gli immigrati che considerano il loro approdo in Italia, Francia, Germania, Spagna o Gran Bretagna come scelta definitiva, l'integrazione non è facile. Si pongono per loro problemi di convivenza con i residenti, sia di definizione dell'identità, problemi la cui radice sta nel conflitto fra eguaglianza e differenza, cioè la differenza tra diritti e doveri, che sono identici per nativi e non, e l'ineliminabile differenza culturale con la popolazione autoctona.

Il conflitto fra immigrati che elaborano strategie per conservare la propria identità e i residenti che percepiscono gli immigrati come un corpo estraneo è un fattore di instabilità e di potenziali conflitti nei paesi europei ad alto tasso d'immigrazione.

Sul versante dei nativi la diversità degli immigrati interferisce con la rappresentazione collettive dello Stato come comunità nazionale culturalmente omogenea.Sul versante degli immigrati il problema di conversazione dell'identità si pone anche per loro, soprattutto per quelli di seconda o terza generazione, nati nel paese di accoglinza e perciò maggiormente integrati dal punto di vista linguistico e sociale rispetto ai loro genitori o nonni.

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2. DALLA COMUNITA' SEMIOTICA ALLA COMUNITA' ETNICA: IL NEOTRIBALISMO URBANO

Il termine “metropoli multietnica” suggerisce l'immagine di una società urbana in cui soggetti collettivi di varia matrice culturale si integrano e interagiscono.In realtà l'osservazione rivela come fra i residenti e gli immigrati non si attivino scambi sul piano sociale e culturale, non si verifica la cossidetta “ibridazione culturale”.

La creazione di etichette, categorie e di ambiti di interazione chiusi su base etnica all'interno del sistema urbano produce una situazione di sostanziale apartheid culturale.

Ma come si formano queste comunità etniche di immigrati? Non è sufficiente che un gruppo di immigrati condivida un fascio di tratti culturali, che formi cieè la “comunità semiotica”, che rappresenta un'entità fluida, il cui tessuto connettivo è di natura esclusivamente culturale e non sociale e consiste nella condivisione o anche solo nel riconoscimento di una costellazione di significati, simboli, valori, tradizioni, norme religiose.

Un comunità semiotica è una comunità immaginata e ciò che la caratterizza è la sua natura estremamente liquida, perché basata non necessariamente sull'adesione a determinate norme e valori, ma anche solo sul loro riconoscimento.Affinché una comunità semiotica si trasformi in comunità etnica è indispensabile che siano presenti anche specifiche condizioni socioeconomiche.

Quando gli immigrati sono dispersi sul territorio urbano, isolati, costretti a contare solo su se stessi per trovare lavoro, non riescono a creare comunità etniche, basate su interessi economici condivisi oppure da una coresidenza in un quartiere, che sia spunto per ritrovarsi saltuariamente nel tempo libero, sebbene la coresidenza non sembri essere una variabile significativa per lo sviluppo di interazioni etniche o interetniche.

Il processo di aggregazione su base etnica può quindi incontrare ostacoli insormontabili, legati anche a situazioni di estremo disagio economico, indigenza, privi di strumenti per orientarsi nel contesto urbano. Questa è la situazione in cui si trovano in molte città europee che non hanno approntato strumenti adeguati per controllare e gestire i flussi migratori in entrata.

I processi di acculturazione innescati dai flussi migratori non sono però riducibili alla somma delle volontà dei singoli emigranti, ma sono plasmati da fattori oggettivi di carattere economico e sociale, in particolare dal tipo di offerta che trovano al loro arrivo.

Nel caso della Rhodesia degli anni '30, il passaggio da contesti rurali ai centri minerari e industriali innescava un processo di destrutturazione e ristrotturazione della rete di relazioni sociali e degli orrizonti culturali.L'identità originaria, definita dagli antropologi della Scuola di Manchester identità tribale veniva abbandonata e sostituita, nel nuovo contesto urbano, da un'identità etnica.Mentre nei villaggi gli status e i ruoli sociali erano plasmati dai rapporti di parentela e le interazioni regolate dalle consuetudini, in città gli immigrati esperivano una condizione di isolamento, entravano in contatto con estranei di diversa origine tribale, assumevano un nuovo ruolo lavorativo come salariati.L'identità tribale originaria mutava quindi significato, trasformandosi da sistema di rapporti sociali in semplice etichetta utilizzata per classificare sé e gli altri e porre ordine in relazioni sociali molto più numerose e superficiali di quelle del villaggio.

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3. CONFLITTI FRA COMUNITA' SEMIOTICHE

L'afflusso di immigrati di varia provenienza in una città europea ha come conseguenza la compresenza di più comunità semiotiche ed etniche nello stesso spazio urbano.Questo fatto rende di per sé problematica l'organizzazione sociale di un universo di significati condivisi, perché ogni comunità semiotica è ancorata ad una propria visione del mondo, diversa e a volte incompatibile con le altre.

Prima che i flussi migratori trasformassero negli ultimi decenni le città europee, la comunità urbana coincideva con una comunità semiotica. Quando questo si verifica i simboli e i significati condivisi dalla totalità dei membri della comunità creano il senso comune e vengono usati in modo quotidiano, intrecciati alle pratiche sociali.

Quando però, con l'arrivo degli immigrati, si formano altre comunità semiotiche oltre a quella dei residenti e ognuna di essere scopre la relatività della propria visione del mondo.

Il confronto con sistemi di valori diversi o incompatibili con la loro visione del mondo può indurre i membri di una comunità semiotica ad una reazione difensiva che li porta a ribadire enfaticamente “la verità” di cui si sentono portatori.

La reazione difensiva è generata da un senso di insicurezza; in tal modo si creano le premesse per un conflitto latente o aperto fra comunità semiotiche, fra residenti e immigrati.Da una situazione iniziale di coesistenza senza interazioni fra comunità semiotiche idealmente separate da un confine invisibile, posso generarsi dinamiche conflittuali che producono reciproco disconoscimento, che alimenta ed è alimentato da stereotipi sull'Altro e dalla essenzializzazione della sua identità.

4. L'IMMIGRAZIONE MUSULMANA

L'ostilità dei residenti non si manifesta nella stessa misura nei confronti di tutte le comunità semiotiche intruse, è evidente che è più forte nei confronti di quelle la cui intrusione è percepibile, perché più numerose o manifestano la tendenza a ostentare i propri simboli e le proprie pratiche sociali o religiose.

Siccome questo atteggiamento è riscontrabile negli immigrati musulmani, è comprensibile che sia soprattutto nei loro confronti che si manifestano forme più o meno esplicite di rigetto attraverso la produzione di stereotipi negativi.

Uno dei tratti tipici di questi stereotipi elaborati dai residenti è la confusione fra identità araba e identità musulmana, che vengono confuse e arbitriaramente sovrapposte per profurre un'immagine i crui tratti distintivi sono l'inferiorità culturale., l'arretratezza dell'Islam rispetto all'Occidente, e la pericolosità sociale.

L'appartenenza religiosa viene enfatizzata ed essenzializzata: l'Islam è rappresentato come un'entità monolotica, priva di differenze interne e l'adesione all'Islam viene concepita e raffigurata in termini di “fanatismo”.

Si tratta di soggetti che, arrivati in un Paese straniero, non puntano al cuore della struttura metropolitana ma si collocano ai suoi margini, spaziali e sociali, accentando lavori, scarsamenti visibili (manovali, operai, imbianchini ecc...) o aprendo piccoli esercizi commerciali dei quartieri periferici (macellerie islamiche, kebab, tavole calde ecc..).

Tuttavia proprio l'ostilità dei residenti nei confronti degli immigrati favorisce un processo di visibilizzazione, indicendoli a costruire, ricorrendo a simboli, credenze, valori religiosi da loro condivisi, un'identità difensiva, un Islam “reinventato”, adattato alla situazione migratoria e a una situazione in cui le condizioni economiche disagiate, a cui si aggiunge il disconoscimento culturale.

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5. PROCESSI DI REISLAMIZZAZIONE

La costruzione di un'identità da parte degli immigrati musulmani determina il loro passaggio da comunità semiotica implicita e latente a comunità etnica consapevole di sé, un passaggio che si produce attraverso un processo di reislamizzazione dello stile di vita: si diffonde quindi l'associazionismo religioso, le moschee si riempiono di fedeli per la preghiera del Venerdì, l'identità religiosa viene esaltata e la sua ostentazioni diventano una prova di forza.

La reislamizzazione infatti non è un semplice recupero di tratti culturali e pratiche sociali, ma utilizza tali tratti nel quadro di una strategia destinata a creare una sperazione, un confine.L'assenza dell'Islam come habitus, cioè come insieme di schemi concettuali e di azione, generativi della pratica sociale, come ambiente mentale e senso comune, costringe gli immigrati musulmani a convertirlo in emblema identitario interiorizzato e ricostruito individualmente.

Ad acutizzare la sindrome dell'accerchiamento contribuiscono i modelli di integrazione che orientano le strategie politiche adottate da governi europei nei confronti di flussi migratori in entrata.

Ad esempio la Francia persegue un'integrazione coercitiva, che dovrebbe portare gli immigrati musulmani a rinunciare alla propria identità etnica, culturale e religiosa e all'accettazione dei valori repubblicani in cambio della cittadinanza.Si tratta di un modello assimilazionista basato su una concezione dell'appartenenza di natura contrattuale (la jus soli), che offre a qualunque straniero, a patto che si impegni a realizzare un certo grado di integrazione culturale, la possibilità di acquistare la nazionalità e di diventare un cittadino. Alla radice di questo orientamento vi è una filosofia universitalista che si basa sul postulato dell'unità del genere: se ciò che conta è la sostanziale identità degli esseri umani: le barriere etniche non sono invalicabili e ogni persona è in grado di diventare un membro a pieno titolo della Cité”.

In altri paesi europei, invece, o per tradizione ideologica o semplicemente perché sono al potere forze politiche conservatrici, privilegiano la jus sanguinis, che si fonda da l'inclusione sul principio di consanguineità: la discendenza e l'origine sono assunti come criteri fondamentali per distinguere il nativo dallo straniero. Il popolo è una comunità biologicamente determinata.

Di fatto lo Stato rinuncia all'integrazione e abbandona consapevolmente gli immigrati alla loro condizione di separatezza, i quali tendono a strutturarsi in comunità etnica che opera come soggetto sociale e anche giuridico.Questo è testimoniato dalla nascita in Italia e Gran Bretagna di tribunali islamici autonomamente costituiti, gestiti da imam che amministrano la giustizia per chi si riferisce a loro, sulla base della sharia.

In Gran Bretagna, 5 di questi tribunali chiamati Muslim Arbitration Tribunals, sono stati legalmente riconosciuti nel 1996 con l'Arbitration Act, che attribuisce valore legali agli arbitrariati nei casi in cui le parti riconoscano agli arbitri il potere di sentenza. Sono presenti a Londra, Manchester, Birmingham, Edimburgo e Glasgow, Broadford e Nuneaton.Questi tribunali etnici sono chiamati a risolvere questioni civili di modesta portata a due condizioni: le parti in causa si devono essere rivolte volontariamente al tribunale sharaitico e che il verdetto sia sottoposto alla corte britannica, la quale verifica che la decisione sia conforme alla legge nazionale.In realtà però questi tribunali sono molti di più e operano al di fuori della legge, decidendo anche di cose più complicate quali dispute finanziare, violenze, eredità e divorzi. Inoltre molte coppie musulmane decidono di sposarsi davanti a un imam e non registrano il matrimonio in municipio.

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In Italia, ad esempio a Milano, analoghi tribunali sharaitici operano celebrando matrimoni, componendo conflitti familiari, verificando la conformità delle dichiarazioni di ripudio, pronunciandosi sull'affidamento dei figli e sui casi di maltrattamento delle mogli.Se chiamato a celebrare un matrimonio, l'imam controlla che sussitano le condizioni che lo rendono valido. Caso particolare è quello delle famiglie poliginiche: in teoria l'imam dovrebbe controllare l'assenza di matrimoni per entrambi, soprattutto per l'uomo perché in Italia la poligamia è reato, ma in realtà sul suolo nazionale ci sono circa 14000 famiglie poliginiche. Tali famiglie, sebbene vivano in Europa, continuano a vivere secondo le loro tradizioni, guidate da una logica di isolamento.Questa chiusura identitaria, che è sintomo della spaesamento culturale di molti immigrati e delle conseguenti difficoltà di ambientamento, trova sostegno proprio dell'azione delle corti sharaitiche, che operando al di fuori della legge dello Stato, instaurano, in specifiche nicchie della comunità islamica, un diritto di famiglia parallelo.In Italia però non è stata promulgata alcuna legge che riconosca i tribunali islamici. La scelta della GB è dettata dal voler evitare conflitti etnici, che scoppierebbero sicuramente se si obbligassero i musulmani osservanti a optare o per la loro fede o per le leggi dello Stato in cui vivono.Quindi la GB ammette che la diversità culturale si possa esprimere anche, seppur in misura limitata, sul piano giuridico.

6. IL VELO COME SIMBOLO IDENTITARIO

La reislamizzazione dello stile di vita degli immigrati, basata sul ripristino di tratti culturali e pratiche sociali ritenuta da loro fondativi della loro identità tradizionale, si identificano in ritorno alla frequentazione delle moschee, alla celebrazione pubblica della fine del Ramadan, la rigorosa osservanza dei precetti religiosi, i tentativi di creare scuole islamiche alternative a quelle pubbliche, il ricorso a tribunali etnici e l'uso del velo da parte delle donne.

Quest'ultima pratica tende a suscitare nell'opinione pubblica sia reazioni emotive di inquietudine, fastidio, rigetto e rifiuto, sia reazioni di natura ideologica.

La parola “velo islamico” è però improprio, vi sono ben 7 diversi nomi in base alla copertura della persona:

hijab : scialle che copre solo le spalle e la testa

al amira : due pezzi, un berretto a cuffia aderente che trattiene i capelli, sul quale si indossa un fazzoletto di forma tubolare che copre il collo

shayla : una lunga sciarpa che si avvolge intorno alla testa e scende a coprire le spalle

khimar : una sciarpa ancora più lunga, che copre i capelli, il collo, le spalle e scende fino alla vita

chador : un mantello che copre completamente il corpo dalla testa ai piedi, lasciando scoperto solo il viso

niqab : indossato con il khimar copre la parte inferiore del volto lasciando scoperti solo gli occhi

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burqua : un mantello che copre completamente testa, viso e corpo. Una retina all'altezza degli occhi consente alla donna che lo indossa di vedere

Perché questo capo d'abbigliamento produce quel tipo di reazione? L'esibizione del niqab o del burqua fa emergere un contrasto di fondo, non mediabile, in un settore fondamentale dei sistemi simbolici e baloriali delle due comunità semiotiche a contatto, un contrasto che riguarda la concezione della donna e i rapporti fra i sessi.Il conflitto interculturale che si genera intorno a questo capo d'abbigliamento è forte perché investe aspetti cruciali delle due visioni del mondo sul piano etico, normativo e comportamentale.

Per comprendere è necessario decodificare i significati dei comportamenti esibiti e nelle reazioni dei residenti:

Dal punto di vista islamico niqab e burqua sono espressione tangibile della rappresentazione del rapporto fra sessi e della concezione della donna, che è legata al concetto di purezza, sulla quale sono chiamati a vigilare prima i parenti maschili e poi il marito.Il concetto di purezza implica quello di separazione tra il corpo della donna e il mondo circostante e indicando una sorta di territorialità. Il concetto che esprime è questo corpo appartiene a un soggetto maschile.Il velo tutela questo monopolio, concepito in termini di custodia della purezza, sottraendo il corpo femminile allo sguardo degli altri uomini, che lo consumerebbero.Il solo sguardo è concepito dal soggetto maschile proprietario come una violazione della sua territoralità e per le donne una violenza subita.Le donne che indossano il velo per libera scelta lo considerano una difesa, protezione.Inoltre il velo ha una rivendicazione identitaria, assurge ad emblema di un rifiuto ideologico dell'Occidente, considerato immorale e decaduto. Niquab e burqua diventano espressione di un'antitesi assoluta al disvelamento del corpo femminile, mercificato dai mass media.

Dal punto di vista occidentale vigono norme relative all'interno della intagibilità del corpo femminile, ma sono meno, molto meno, estentive: il consumo visivo è considerato lecito e la frontiera da non oltrepassare è quella del contatto fisico, escluse quelle forme cerimoniali come il saluto per stretta di mano o bacio sulla guancia, consentito nei vincoli familiari e di amicizia.

L'ostentazione del velo, per gli occidentali, genera ostilità, giustificata dall'idea che non sono indossati volontariamente ma imposti alla donna da una figura maschile dominante e che, pertanto, il loro uso rappresenta una forma di oppressione.Nelle donne occidentali suscita al tempo stesso solidarietà di genere e irritazione, suscitata dalla passiva accettazione delle donne islamiche.

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Che questi indumenti colpiscano un punto nevralgico della cultura occidentale è confermato dal fatto che hanno suscitato anche reazioni istituzionali. Il primo governo a trattare questo come un problema è stato quello francese e non stupisce, considerato che il modello di integrazione degli immigrati per la Francia è laico e assimilazionista. La loro esibizione viene considerata come espressione di separazione e diversità e in un certo senso come rigiuto della comune appartenenza repubblicana.Nel 2004 viene approvato un provvedimento legislativo che viena il velo nelle scuole e negli uffici pubblici, nel 2009 l'Assemblea nazionale ha considerato niquab e burqua come un'offesa alla dignità della donna e nel Gennaio, una commissione parlamentare ha proposto di estendere il divieto a tutti i servizi pubblici, all'uscita delle scuole e in generale a ogni luogo dove si deve verificare l'identità persona, in una concezione dell'integrazione culturale che bandisce dagli spazi pubblici qualsiasi forma di ostentazione dell'appartenenza religiosa (dunque non solo il velo islamico, ma anche la croce e la kippah).

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7. USO IDEOLOGICO DEL CONCETTO DI CULTURA

Le comunità semiotiche dei residenti sono afflitte, chi più chi meno, dalla sindrome dell'invasione.Si crea una spirale di disconoscimento che genera un'etnicizzazione tale da vedere le due sfere, residenti e immigrati, arroccarsi sulle loro credenze e valori religioni; in tal modo l'identità culturale diventa uno stigma.L'ambiente multietnico delle metropoli europee favorisce la tentenza a naturalizzare il patrimonio culturale e ad assimilarlo al patrimonio genetico, al punto che la biologizzazione delle appartenenze etniche entra nel senso comune: la comunità semiotica diventa una comunità di sangue.

A facilitare questo passaggio è il ormai l'utilizzo del termine ex-antropologico di “cultura”, ormai ripiegato a diversi contesti, banalizzato e deformato. Così depotenziato e trasformato in un contenitore buono per tutti i contenuto, è diventato terreno di manipolazioni ideologiche.

Wilkam ha registrato, ad esempio, che a Oslo la grande presenza di immigrati ha alimentato nel discorso pubblico un uso del concetto di cultura come versione aggiornata e politicamente corretta di “razza”.

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Capitolo 8 – La Coppa dei campioni: un rituale calcistico europeo

1. LA FINALE DI CHAMPIONS LEAGUE

Ogni anno nel mese di Maggio si svolge in una capitale o in una grande città europea una partita di calcio che attira decine di migliaia di spettatori e viene trasmessa sulle tv non solo europee.A giocarla sono le due squadre sopravvissute a una lunga selezione: è la finale del campionato calcistico europeo, la Champions League.

Il calcio ha un diffusione mondiale ma ha radicamento di massa solo in due Continenti: l'Europa e l'America meridionale.

La Champions League viene istituita nella seconda metà degli anni Cinquanta, in coincidenza casuale con la nascita del Mercato Comune Europeo.La sua fama, inizialmente minore dei tornei nazionali, sono cresciuti in modo costante nel corso dei decenni, di pari passo con lo sviluppo del processo di integrazione europea.

Il grande interesse suscitato da questa partita è il punto d'arrivo di un lungo processo di evoluzione del calcio iniziato con l'introduzione del professionismo.La passione degli europei per il calcio è progressivamente cresciuta nel corso di tutto il Novecento ma in particolare negli ultimi decenni grazie alla diffusione dei mass media, di un mercato collaterale di prodotti associati alle squadre, lo sviluppo delle scommesse ecc.

2. LA PARTITA DI CALCIO: UNA BATTAGLIA SIMULATA

Perché il calcio è così contagioso? La spiegazione può essere cercata in alcune caratteristiche sociopsicologiche dei maschi della specie umana: la componente ludica, una propensione al gioco fisico come forma di addestramento dei “cuccioli” della nostra specie alle attività adulte, l'aggressività, selezionata dalla filogenesi, e lo spirito gregario.La combinazione di queste tre caratteristiche dei maschi umani produce una miscela che può assumere diverse forme: la caccia collettiva, il combattimento e le attività sportive di squadra.

Molti studiosi condividono la natura “bellica” del calcio. La partita, in sostanza, sarebbe una battaglia simulata fra due eserciti, uno dei quali sgomina l'avversario e resta padrone del campo.Anche se questa visione tralascia il fatto che il carattere ludico dello scontro ne accentua gli aspetti rituali. Più che una caotica battaglia, sarebbe meglio dire un duello fra due contendenti collettivi.Le analogie con questo sono chiare: la battaglia aveva una sua liturgia, i re e i capi arringavano i cavalieri, i vescovi celebravano la messa, li esortavano a comportarsi da prodi e dipingevano il nemico come l'origine di tutti i mali.Gli spettatori del calcio somigliano alle truppe di fanteria schierate dietro i cavalieri, come loro incitano per incutere timore nel nomico. Lo schieramento preordinato dei calciatori ricordano le schiere di cavalieri.Le magliette sgargianti che indossano ricordano le tuniche che coprivano le armature mentre sugli spalti sventolano bandiere.

La territoralità entra in gioco quando una squadra gioca nel proprio stadio, sia quando gioca in trasferta. La partita giocata da una squadra nella propria città è considerata più facile perché si combatte in territorio amico con il sostegno dei tifosi. La vittoria in casa rappresenta una riaffermazione del dominio della squadra e dei tifosi sul proprio territorio. La vittoria in trasferta è considerata più prestigiosa perché costituisce una violazione del territorio nemico.

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3. IL CALCIO COME RELIGIONE: FEDE, RITUALITA', MAGIA

Il sostegno dei tifosi nei confronti della loro squadra trascende dunque l'evento e si manifesta in modo continuativo, assumendo caratteristiche religiose.

I tifosi hanno nei confronti della propria squadra un rapporto di adorazione analogo a quello che intercorre fra fedeli e divinità. In sostanza si comportano come adepti di un culto: venerano i propri simboli come oggetti sacri, cantano dentro e fuori dallo stadio cori che inneggiano alla squadra così come i fedeli inneggiano agli dei e considerano la loro fede come l'unica “vera”.

A questi aspetti si aggiunge l'identificazione dei singoli con un Io collettivo costituito dalla comunità di tifosi.Questo Io collettivo ha una territoralità reale, strettamente legata alla territoralità simbolica che si manifesta nello svolgimento del gioco.

L'Io collettivo costituito dalla comunità dei tifosi prende corpo nel corso della partita o nei festeggiamenti di piazza per una vittoria importante.In queste occasioni si genera fra i tifosi una sintonia emotiva che produce quella che è stata definita da Tunner communitas, una specifica modalità di organizzazione sociale non strutturata, caratterizzata da solidarietà e egualitarismo, tipica di movimenti religiosi come l'ordine francescano alle sue origini e di movimenti millenaristici.

Come ha osservato Bromberg questi aspetti dell'incontro di calcio e del suo contesto (rottura del quotidiano, ripetitività, convenzioni e codici delle pratiche, partecipazion corale, densità simbolica) evidenziano significative analogie fra partita di calcio e rituali religiosi.

Nella finale di Champions League gli aspetti rituali sono particolarmente evidenti. La trasmissione televisiva dell'incontro è preceduta da un prologo in cui mentre sullo schermo compare il profilo del trofeo assegnato, sovrapposto alla bandiera europea, risuonano le note dell'inno ufficiale: l'Inno alla Gioia.

Elaborato cerimoniale è anche la premiazione: le due squadre sfilano in tribuna, prima la sconfitta. Ogni giocatore riceve una medaglia, infinite al capitano vincente viene consegnata la coppa che solleva la testa in gesto codificato di trionfo.

L'unica analogia che pare mancare con la religione è la credenza in entità invisibili: in realtà, nel calcio, questo si traduce in pratiche che sono destinate a cambiare il corso del caso. Quella che si può chiamare “magia propiziatoria”Idem per i giocatori, che riproducono una serie di cose fatte prima di una vittoria al fine di propiziarne un'altra (come la magia contagiosa di Frazer).

4. L'ARALDICA DEL CALCIO

Un aspetto che il calcio eredita dalla battaglia medievale e dai tornei cavallereschi è l'uso di codici cromatici. Nel calcio è evidente, infatti, l'uso dei colori come elementi di immediata identificazione.Il calcio ha dunque il proprio linguaggio dei colori.

L'aspetto religioso della passione calcistica si manifesta anche sotto forma di venerazione dei colori e dei simboli della squadra. I colori che identificano la squadra hanno nella casacca dei giocatori il loro locus fondamentale.

Vengono riprodotti all'infinito su bandiere, striscioni e via dicendo e sono fondamentali nella coreografia delle partite.

Come l'araldica, il calcio usa un lessico cromatico limitato, ricorrendo a colori netti e puri, che pertanto facilitano l'identificazione.

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5. IDENTITA' E ANTAGONISMO

L'identificazione dei tifosi con la propria squadra si accompagna all'antagonismo e alla conflittualità nei confronti delle altre squadre, conflittualità che raggiunge il culmine nel corso della partita.Identificazione e antagonismo sono indissolubilmente legati: l'identificazione, come ogni forma di identità, è di natura essenzialmente contrastiva: l'identità si definisce in contrapposizione con l'Altro.

Se l'antagonismo raggiunge la sua maggior intesità nei confronti della squadra che minaccia la supremazia cittadina, è comunque assai forte anche nei confronti delle squadre di altre città considerate le più pericolose; infatti se la vittoria della partita è un'affermazione di supremazia cittadina, quella di tutto il campionato è di supremazia nazionale.

L'antagonismo invece si attenua nei confronti delle squadre che non sono considerate rivali pericolose e ovviamente ha scarse occasioni di manifestarsi verso squadre straniere che raramente si incontrano.

Ancora più significativo è però il comportamento nel caso della finale della Champions ad esempio: i tifosi rivali si incontrano su un campo neutro: non esiste rivalità tradizionale. Ciò spiega l'assenza di aggressività reciproca e, anzi, la tendenza a fraternizzare e scambiarsi sciarpe.

6. RITUALI DI BATTAGLIA

Prima della battaglia e durante i tifosi occupano gli spalti, loro territorio, creando confusione, sbandierando striscioni e inneggiando cori contro il “nemico”...come in battaglia.

Inoltre, sebbene si registri una crescente presenza femminile allo stadio, rimane un luogo prettamente maschile, ricalcando le tappe fondamentali del ciclo esistenziale del maschio: l'iniziazione sotto l'ala protettrice di un parente maschio, poi l'adolescenza con gli amici in curva, un breve periodo dove costringono le povere consorti a partecipare, per poi riprendere il ciclo di socialità maschile andando alla partita con amici del bar, cognati, ex-compagni di scuola.

Uno dei codici più utilizzati nello scontro verbale è quello sessuale: la sopraffazione del nemico viene concepita come sottomissione e umiliazione inflitta dal maschio dominante.Come in ogni rituale vi sono azioni stereotipate che canalizzano le emozioni, quali applausi, fischi e via dicendo.

7. LA CHAMPIONS LEAGUE NEL PROCESSO DI EUROGENESI

La finale di Champions è un evento mediatico di portata planetaria. Vengono organizzate migrazioni di decine di migliaia di persone.

Ovviamente gli interessi economici in gioco sono enormi ed è quindi comprensibile che la possibilità di partecipare a questa finale rappresenti un successo notevole per una società calcistica, che ne ricava prestigio e rilevanti vantaggi economici.Ma per partecipare alla Champions e arrivare alla finale le società calcistiche tradizionalmente più facoltose dell'Europa occidentale hanno dovuto trasformare il proprio assetto, affidandosi a dirigenti specializzanti per tutti gli aspetti, dalla gestione tecnica a quella finanziaria.In sostanza il crescente successo della Champions come evento sportivo e di spettacolo è legato alla professionalizzazione e commercializzazione del calcio.

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Se facciamo riferimento alla nozione di “cultura” in senso antropologico, possiamo affermare che il calcio rientra nell'orizzonte della cultura degli europei e che la Champions è diventata un fattore di integrazione culturale, un contributo alla costruzione di quella comunità semiotica, senza la quale il processo di eurogenesi non può realizzarsi.

Il calcio, con l'emotività che coinvolge, la partita è un concentrato di gioie, drammi, tappe di cui è dissiminata un'esistenza. Per la sua risonanza, nel caso specifico della Champions, rappresenta un contributo di integrazione culturale del Continente.

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Conclusione

L'Europa non è solo un costrutto culturale ma è un costrutto plurale, una galleria di immagini diverse e a volte confliggenti, plasmate nel corso del tempo da molteplici soggetti politici, da ideologie, partiti e movimenti.

L'omogeneità culturale vendicata come punto di partenza del processo di unificazione e chiamata a legittimare questo stesso processo è in realtà ciò che si sta cercando di costruire e, al momento attuale, può essere considerata solo l'eventuale punto di arrivo.

Se un senso di appartenenza pan-europeo si svilupperà, sarà una configurazione culturale nuova e diversa. Potrà scaturire dalla consapevolezza che esistono interessi comuni trasnazionali, premessa indispensabile alla nascita di un'opinione pubblica europea la quale, a sua volta, sarà la base per la costruzione di una comunità semiotica, cioè di un campo di significati, valori e simboli condivisi.Solo quando questo orizzonte condiviso, questo paesaggio culturale comune avrà acquistato una forza sufficiente, le identità nazionali cominceranno a deperire.