Riassunto diritto penale Fiandaca Musco

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ORIGINE ED EVOLUZIONE DEL DIRITTO PENALE MODERNO 1. Il diritto penale pre-moderno: cenni Se si vuole individuare un punto di svolta nella storia del diritto penale non lo si può non rintracciare nell’illuminismo settecentesco e nei principi che hanno portato al superamento dell’ancient regime. Tre erano principalmente i settori in cui il diritto penale distava maggiormente da quello moderno: - La definizione normativa dei reati: infatti mancavano delle codificazioni vere e proprie ed inoltre l’ambito di applicazione spaziale della legge era molto confuso essendo frequenti numerose interferenze. Altri problemi in questo settore erano rappresentati dalla prevalenza del potere esecutivo sugli altri due e dalla pericolosa commistione tra delitti e peccati essendo fortissima l’influenza della religione; - La definizione degli strumenti sanzionatori: infatti le sanzioni lungi dall’essere inflitte su base personale avevano un carattere innanzitutto deterrente e spettacolare essendo contraddistinte da crudeltà, arbitrio ed eccessi. - La disciplina del processo: mancava qualsiasi forma di garanzia per il sospettato che in tal modo era colpevole ancor prima di essere giudicato. Caratteristiche del processo inquisitorio erano la segretezza, la scrittura, e la preponderanza dell’accusa anche nei mezzi inquisitori. Le prime premesse del cambiamento furono poste dal giusnaturalismo laico del 1600 ma la vera svolta si ebbe solo con la caduta dell’ancient regime. 2. L’illuminismo penale Fra gli artefici della svolta illuminista si ebbero pensatori di varie nazioni come Bentham, Montesquieu, Voltaire, Feuerbach, Beccarla etc. La base del loro pensiero era costituita dall’esigenza di razionalizzare il sistema penale in modo da renderlo efficiente nella prevenzione dei reati e da evitare gli abusi giudiziari. In un certo senso chi si occupava di queste questioni lo faceva più da politico che da giurista in senso stretto partendo comunque da teorie filosofiche come il contrattualismo e l’utilitarismo.

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ORIGINE ED EVOLUZIONE DEL DIRITTO PENALE MODERNO

1. Il diritto penale pre-moderno: cenni

Se si vuole individuare un punto di svolta nella storia del diritto penale non lo si può non rintracciare nell’illuminismo settecentesco e nei principi che hanno portato al superamento dell’ancient regime. Tre erano principalmente i settori in cui il diritto penale distava maggiormente da quello moderno:- La definizione normativa dei reati: infatti mancavano delle codificazioni vere e proprie ed

inoltre l’ambito di applicazione spaziale della legge era molto confuso essendo frequenti numerose interferenze. Altri problemi in questo settore erano rappresentati dalla prevalenza del potere esecutivo sugli altri due e dalla pericolosa commistione tra delitti e peccati essendo fortissima l’influenza della religione;

- La definizione degli strumenti sanzionatori: infatti le sanzioni lungi dall’essere inflitte su base personale avevano un carattere innanzitutto deterrente e spettacolare essendo contraddistinte da crudeltà, arbitrio ed eccessi.

- La disciplina del processo: mancava qualsiasi forma di garanzia per il sospettato che in tal modo era colpevole ancor prima di essere giudicato. Caratteristiche del processo inquisitorio erano la segretezza, la scrittura, e la preponderanza dell’accusa anche nei mezzi inquisitori.

Le prime premesse del cambiamento furono poste dal giusnaturalismo laico del 1600 ma la vera svolta si ebbe solo con la caduta dell’ancient regime.

2. L’illuminismo penale

Fra gli artefici della svolta illuminista si ebbero pensatori di varie nazioni come Bentham, Montesquieu, Voltaire, Feuerbach, Beccarla etc. La base del loro pensiero era costituita dall’esigenza di razionalizzare il sistema penale in modo da renderlo efficiente nella prevenzione dei reati e da evitare gli abusi giudiziari. In un certo senso chi si occupava di queste questioni lo faceva più da politico che da giurista in senso stretto partendo comunque da teorie filosofiche come il contrattualismo e l’utilitarismo.

2.1. Dal principio contrattualistico derivano varie conseguenze tra cui l’accettazione del principio di legalità nella definizione dei reati. Per dirla con Beccaria “solo le leggi possono decretare le pene sui delitti, e questa autorità non può risiedere che presso il legislatore che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale”. In questo modo il cittadino può vivere liberamente e senza timori con la possibilità di fare tutto ciò che non è contrario alle leggi. L’impostazione garantistica assunta dalla legge penale passa attraverso la predeterminazione legale dei diritti, la certezza della pena ed il rispetto dei diritti individuali. Quanto all’interpretazione si cerca di imbrigliare il più possibile i poteri in tal senso del giudice che diventa bouche de la loi, viene bandita la ricerca della ratio legis, si distingue la sfera morale da quella giuridica, il criterio di identificazione dei fatti punibili diventa il danno sociale con il ripudio dei reati-peccati.

2.2. Le parole d’ordine in campo sanzionatorio sono razionalizzare ed umanizzare. In primo luogo la pena deve essere necessaria ai fini della difesa sociale dal crimine ed accettata preventivamente dal cittadino che delega allo Stato la funzione di difesa della collettività, nasce l’idea della pena

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come estrema ratio. Da un altro punto di vista oltre alla necessarietà si richiede proporzionalità della pena alla gravità del reato.

2.3. In questo contesto illuministico di (ri)nascita del diritto penale ebbe un ruolo predominante l’opera di Cesare Beccarla “dei delitti e delle pene” che rappresentò una sorta di compendio efficace e razionale di politica criminale. Quest’opera ebbe una grande influenza su molti sovrani illuminati europei come Caterina II di Russia, Giuseppe II d’Austria e Pietro Leopoldo granduca di Toscana. Furono perciò introdotte nei loro territori delle misure molto innovative come la proporzione tra pena e sanzione, la tipizzazione delle figure di reato e varie garanzie processuali. Altro ruolo guida fu assunto dalla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1789 la quale introdusse definitivamente ed in un’ottica internazionale dei principi che costituiscono tutt’ora la base del diritto penale moderno: la dannosità sociale, il principio di legalità, la necessità della pena e la presunzione di innocenza. Si rifiuta il modello del diritto penale dell’autore e grazie alle pene fisse per i singoli reati si passa ad un modello di diritto penale dell’evento.

2.4. I principi illuministi tuttavia non attecchirono integralmente nelle legislazioni a causa anche dell’avvento della reazione anti-illuministica del primo ottocento. Il codice penale napoleonico del 1810 fu paradigmatico esempio del compromesso che spesso si realizzava tra idee illuministiche e la svolta autoritaristica. Un passo indietro si registrò nell’estensione dei casi di applicabilità della pena di morte, la reintroduzione di pene infamanti come la gogna, il marchio, l’irrigidimento delle pene per i delitti contro lo Stato. La controriforma si intensificò man mano che ci si inoltrò nel 1800 a causa anche del diffondersi di tendenze spiritualistiche e retribuzionistiche della pena e del fatto che la borghesia, una volta abbattuto l’ancient regime, si comportò allo stesso modo della nobiltà nel precedente contesto storico, con la preoccupazione di difendere lo Stato espressione della loro classe sociale e del loro ordine economico. La concezione illuministica viene messa in pericolo soprattutto nei periodi di maggiore pressione autoritaria. Tutto ciò però non deve indurre a considerare l’illuminismo da un punto di vista critico sottolineandone alcune storture: la concezione meccanicistica dell’attività interpretativa, la preferenza per le pene fisse ed il rigido ancoraggio della pena alla gravità della lesione del bene giuridico trascurando le modalità di aggressione e la personalità del reo.

3. La nascita della moderna scienza penalistica italiana; e la cosiddetta scuola classica

L’evoluzione della scienza penalistica italiana si deve far coincidere con la nascita della cosiddetta scuola classica nella seconda metà dell’Ottocento per opera di Francesco Carrara. Questa scuola, il cui nome le fu attribuito a posteriori, risulta essere tuttavia più composita di quello che sembra infatti comprende studiosi e correnti anche distanti tra di esse., tuttavia se ne possono tracciare dei profili comuni. Ad esempio le fondamenta filosofiche sono da rintracciare nel razionalismo e giusnaturalismo illuministico senza però trascurare gli apporti dello spiritualismo cattolico. La prospettiva di fondo consiste nel creare una disciplina razionale ed esente dagli arbitri che sappia conciliare le leggi immutabili della ragione con il diritto positivo contingente, questo dualismo sarà sempre oggetto di dialettica fra i vari esponenti della scuola. Al di la della considerazioni teoriche la base per una teoria generale del diritto in senso moderno è la considerazione del reato come ente giuridico. Il reato viene studiato quindi non come evento naturalistico ma come ente concettuale trattato scientificamente e consistente nell’azione umana che scaturisce dalla libera volontà dell’individuo. Questo presuppone una visione antropocentrica dell’uomo cara allo spiritualismo cattolico, che vede l’uomo come dotato di libero arbitrio cosicché il reato non scaturisce mai dall’ambiente ma sempre da una libera scelta dell’agente, essendo irrilevante ogni

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valutazione circa la personalità del reo, il diritto penale si orienta verso una connotazione oggettivistica giudicando i fatti e non gli autori. Al Carrara è da attribuire la scomposizione strutturale dell’illecito penale in un elemento oggettivo ed uno soggettivo. Per quanto riguarda le teorie della pena sicuro è il distacco da quelle preventive di stampo utilitaristico tipiche dell’illuminismo mentre vi furono varie correnti di pensiero all’interno della stessa scuola tuttavia la dominante fu quella retribuzionistica sviluppata in maniera molto problematica dal Carrara. Tenendo presente la distinzione tra valutazione etica e valutazione giuridica, egli afferma che la pena non può essere retribuzione morale visto che essa spetta solo a Dio ma rappresenta più propriamente il ristabilimento dell’ordine esterno turbato dal delitto. La scuola classica sebbene con gli inevitabili problemi legati ai suoi tempi ha gettato le vere basi per un diritto penale moderno: fuori dall’illusoria pretesa di poter attingere ad immutabili verità di ragione, l’aspirazione a costruire un diritto penale sempre più razionale ed ancorato ai principi garantistici può essere considerato come il lascito più autentico e vitale della scuola classica.

4. La scuola positiva

Dal 1870 in poi in Italia nasce e si diffonde la cosiddetta scuola positiva che fa capo attorno Cesare Lombroso, Enrico Ferri e Raffaele Garofalo la quale, per certi versi, rivoluzionò il panorama penale esistente. L’attributo positiva sta ad indicare le sue radici filosofiche affondate nel positivismo del secondo ottocento europeo, da cui poi trasse la sua origine il cd. positivismo criminologico cioè l’applicazione dei postulati positivistici al campo criminologico. Il mutamento di prospettiva rispetto alla scuola classica è evidente: il reato non è più ente giuridico costruito secondo i razionali principi giusnaturalistici ma diviene evento naturalistico, bio-psicologico e sociale inteso come azione dell’uomo concreto esposto ad una varietà di stimoli esterni. Da questo aspetto discendono contrapposte indicazioni circa il libero arbitrio dell’uomo che sarebbe in talune circostanze annullato, venendo il soggetto costretto da varie forze a compiere il reato; e deriva anche l’esclusione dell’idea di colpevolezza come rimproverabilità e la concezione retributiva della pena. Capisaldi del pensiero positivistico diventano quindi la pericolosità sociale e lo strumento penale come strumento di difesa sociale, si escogitano strumenti di neutralizzazione della pericolosità del reo e si classificano le varie tipologie di delinquenti in modo da conoscerli e combatterli meglio. Sebbene questi siano gli aspetti comuni della scuola, ogni esponente ha approfondito alcuni temi:Lombroso, autore dell’opera “L’uomo delinquente”, fu sostenitore del determinismo biologico, teoria secondo la quale il delinquente sarebbe assimilabile ad un malato per una serie di fattori fisici e biologici. Egli credette di aver riscontrato delle caratteristiche fisiche tipiche dei delinquenti che fossero la causa della loro attitudine criminale. Questa teoria scientificamente priva di alcun serio fondamento era molto rischiosa dal punto di vista sociale in quanto tendeva ad additare i criminali come una razza inferiore con caratteristiche fisiche e psichiche simili agli animali; il Garofalo soffermava la sua attenzione maggiormente sui fattori psicologici. In questo senso la sua indagine considerava il delitto come una sorta di offesa alla misura media dei sentimenti di altruismo e pietà dimostrando la stessa lacuna dello studio lombrosiano cioè quella di considerare sempre e comunque il criminale come un malato; un po’ più resistente fu la teoria del Ferri il quale basò la sua analisi su aspetti sociali della delinquenza cercando di individuare un nesso tra contesto sociale di appartenenza ed azioni compiute. Con Ferri si passo quindi alla sociologia criminale che aveva lo scopo precipuo di fornire delle indicazioni di politica criminale studiando i fattori sociali che incidono sui delitti. Dal Ferri giunse infatti l’idea degli strumenti denominati “sostitutivi penali” cioè dei rimedi di carattere sociale tendenti a modificare il contesto esterno da cui trae origine il crimine cercando di rimuoverne preventivamente le cause. L’indagine ferriana

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pur innovativa fu contrassegnata da qualche banalità e da ambiguità ideologica infatti egli non fu mai un sostenitore del marxismo come qualcuno pretese di ricavare dal suo pensiero anzi fu piuttosto un moderato esponente del liberalismo borghese nel quale prevalsero negli ultimi anni degli istinti repressivi di difesa sociale come dimostra l’adesione al regime fascista. Capisaldi della scuola positiva:

a) Il reato non è più visto come ente giuridico ma come evento naturale e sociale, il diritto penale diventa una scienza empirico sociale sottovalutandone le esigenze garantiste;

b) Si sostituisce il paradigma del libero arbitrio e della colpevolezza individuale con quello della responsabilità sociale e questo implica che ai fini della punibilità non è richiesta la rimproverabilità ma solo la pericolosità sociale;

c) Si sposta l’attenzione dal fatto all’autore e se ne compiono varie classificazioni. Secondo Lombroso i criminali potevano essere suddivisi in 1) delinquenti nati, 2) delinquente d’occasione, 3) delinquenti per passione. Benché scientificamente criticabili tali classificazioni aprirono le porte per l’introduzione delle misure di sicurezza;

d) La concezione sanzionatoria dal paradigma retributivo privilegia la concezione della difesa sociale per cui si studiano i mezzi di tutela adeguati. Le sanzioni perdono certezza e diventano più modulabili, si rifanno strada la pena di morte e la detenzione a vita.

Critiche: il positivismo nato con il fine di contrastare la vecchia metafisica finì per eliminare ciò che di buono era stato fatto dal razionalismo sostituendolo con una metafisica di segno contrario che trovava il suo fondamento in discutibili teorie scientifiche. Dal punto di vista della politica criminale è da sottolineare il progetto Ferri del 1921 il quale introdusse una parte generale comprendente i principi di responsabilità del delinquente, le sanzioni penali indeterminate, parificò il tentativo e la consumazione. Esso tuttavia non fu discusso in parlamento a causa del clima politico che fece da cornice all’avvento del fascismo.

5. Genesi ed evoluzione dell’indirizzo tecnico-giuridico

Negli ultimi anni del 1800 si scatenò più che una disputa dottrinaria una vera e propria tenzone tra classici e positivisti che tuttavia diede origine anche a posizioni mediane di carattere compromissorio. La scuola eclettica (Alimenta, Carnevale) cercò di mediare le posizioni in contrasto ad esempio fondando l’imputabilità non già sul libero arbitrio ma su di una nozione di normalità in senso psicologico. La scuola di pensiero di tendenza socialista (Ellero, Vaccaro, Manes) accentuò il momento ideologico insistendo sul carattere classista del diritto penale e proponendone una riforma. Anche in altri paesi europei si manifestò la tendenza a stipulare compromessi tra diritto penale e scienze sociali: Franz v. Listz propone un modello di scienza penale integrata fondendo naturalismo criminologico e diritto penale inteso come Magna Charta Libertatum. In quest’ottica il diritto penale dovrebbe essere una giusta sintesi fra il diritto positivo e la conoscenza empirica delle cause del delitto e delle tipologie dei delinquenti privilegiandone l’aspetto teleologico che è stato individuato nella prevenzione della criminalità. Il dibattito di fine 1800 fu molto ricco di voci ed opinioni ma anche gli studiosi più critici nei confronti della scuola positiva non poterono fare a meno di riconoscere l’importanza dei contributi metagiuridici per il diritto penale. Questa tendenza di integrazione fra scienze sociali e diritto penale regredisce man mano che ci si inoltra nel 1900 e questo sia a causa del mutato contesto storico-politico sia in seguito agli sviluppi del dibattito metodologico penalistico. In questi anni infatti si sviluppò anche in Italia, una tendenza ad affermare il primato dell’elaborazione giuridica del diritto penale vigente cd. indirizzo tecnico-giuridico. In Germania tali idee avevano radici giuspositivistiche risalenti a Karl Binding mentre in Italia risalgono, con una certa sfasatura temporale, alla prolusione del corso di diritto e procedura penale tenuto da Arturo Rocco il 15 Gennaio 1910.

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Secondo Rocco la funzione del giurista sarebbe quella di limitarsi allo studio delle norme penali vigenti, lasciando la scienze sociali agli specialisti dei rispettivi ambiti, cercando di dare alle stesse una lettura scientifica e dogmatica e non solo empirica. Lo scopo di fondo era forse quello di far riacquisire alla scienza penalistica la dignità persa dal momento in cui le posizioni in lotta sono diventate così sterili, senza tuttavia perdere di vista l’esigenza di uno studio interdisciplinare dei fenomeni criminosi. In quel particolare contesto storico-politico tuttavia la svolta di Rocco assunse caratteri conservatori se non addirittura autoritari infatti si decise di mettere da parte del tutto le discussioni sul fondamento politico del diritto penale. La sterilizzazione del diritto penale tuttavia lungi dall’allontanarlo alla politica lo rendeva completamente suo schiavo essendo il dogma primario costituito dall’adesione indiscriminata alle leggi dello Stato che perdeva sempre di più i suoi caratteri liberali. La tradizione conservatrice dell’indirizzo tecnico giuridico andò accentuandosi sempre di più negli anni fino a quando raggiunse il suo culmine con il codice Rocco, autentica espressione del regime fascista, che tuttavia riuscì a conservare alcuni dei capisaldi penalistici dello Stato liberale come il principio di legalità, il divieto di analogia. Tendenze più estreme avrebbero voluto radicalizzare maggiormente l’influenza fascista nel codice cd. totalitarismo penale (Maggiore) concependo magari il reato come la violazione di un dovere di fedeltà nei confronti dello Stato. La prospettiva tecnico-giuridica ha dominato la scena penalistica fino agli anni ‘60 ed anche tutta la letteratura del tempo basata sul mero racconto dogmatico dell’ordinamento positivo vigente provocando un isterilimento del dibattito culturale. Voce dissonante fu quella del Bettiol che cercò sempre di recuperare i nessi fra diritto penale e filosofia tuttavia il suo teleologismo lungi dal contrapporsi pregiudizialmente al tecnicismo giuridico, ha preteso di integrarlo e vivificarlo.

6. Il movimento della nuova difesa sociale

Il movimento della nuova difesa sociale si sviluppò a partire dal secondo dopoguerra specialmente in Francia affondando le sue radici nel positivismo criminologico ma con una più spiccata tendenza umanitaria cercando di ammodernare il diritto penale soprattutto dal punto di vista del trattamento punitivo e tuttavia non risolvendosi in un movimento unitario. Una tendenza radicale (Filippo Gramatica) ha suscitato nella dottrina un’influenza minore, essa era finalizzata alla sostituzione del concetto di responsabilità penale ancorata alla realizzazione di una fattispecie di reato con quello di antisocialità soggettiva. Il termine di riferimento della reazione statale diventa la personalità dell’agente, le misure di sicurezza vengono concepite come misere preventive a carattere pedagogico e terapeutico, in tal modo la garanzie vengono azzerate. Un’altra tendenza più moderata (Marc Ancel) sicuramente più diffusa a livello internazionale era basata su di un atteggiamento spirituale per un diritto penale più umano con pene su misura e risocializzanti. Questa teoria perciò non stravolse né l’ambito delle fattispecie incriminatici né al principio di colpevolezza rimanendo la sua efficacia limitata all’ambito dell’esecuzione penale.

7. Gli orientamenti attuali della scienza penalistica

La dottrina giuridica italiana si distacca dall’indirizzo tecnico-giurido negli anni ’60 quando comincia ad allargare i suoi confini alla Costituzione Repubblicana pur senza rigettare il tecnicismo giuridico in quanto tale. In questa nuova ottica il testo costituzionale diventa il metro critico per ricostruire e rivisitare un sistema penale in gran parte figlio del passato, in un primo momento ci si riferisce solo agli articoli 25 e 27 che interessano direttamente l’ambito penale poi si apre il dibattito sul significato da attribuire al carattere personale della responsabilità penale e sulla funzione rieducativi della pena ed in questo modo si è evitato lo scontro frontale con il codice

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Rocco. In un secondo momento a partire dagli anni ’70 l’approccio costituzionale si sviluppa con più slancio e vigore come dimostra lo sviluppo della teoria del b.g. costituzionalmente orientato. Tuttavia non si è realizzata una riforma omogenea in modo da seguire un progetto lungimirante ma si sono operate varie riforme estemporanee e settoriali. Dalla disillusione per il fallimento dell’orientamento costituzionale è rinato l’interesse per un modello integrato di scienza penale che tenga conto delle funzioni politico-criminali degli istituti indagati e che valorizzi i dati conoscitivi dalle scienze sociali.

PARTE PRIMA- DIRITTO PENALE E LEGGE PENALE

Capitolo 1 – Caratteristiche e funzioni del diritto penale

1. Premessa

Il diritto penale è quella parte del diritto pubblico che disciplina i fatti costituenti reato. Si definisce reato ogni fatto umano alla cui realizzazione la legge riconnette sanzioni penali. Queste possono essere la pena o la misura di sicurezza, che hanno lo scopo di difendere la società e risocializzare il reo. Sono definibili, poi, leggi penali quelle che riconnettono sanzioni penali alla commissione di determinati fatti. Il concetto di reato ruota intorno a tre principi: 1) principio di materialità, e cioè non vi è reato se non vi è un comportamento esterno, 2) principio di necessaria lesività o offensività, e cioè non vi è reato se non vi è la lesione di beni giuridici, 3) principio di colpevolezza, e cioè non vi è reato se quel determinato comportamento non è “rimproverabile”. La necessità di ricorrere al diritto penale risiede nella particolare dannosità sociale di determinati comportamenti; il diritto penale ha, inoltre, una forte forza preventiva, che si esplica in due modi: attraverso la minaccia di infliggere una pena (prevenzione generale), e attraverso la concreta inflizione della pena che non permette al reo di essere dannoso (prevenzione speciale).

2. Funzioni di tutela del diritto penale: la protezione dei beni giuridici

Il bene giuridico è quel bene socialmente rilevante meritevole di tutela penale. Tale definizione, molto generica, è stata oggetto di aggiunte e modifiche aventi l’intento di riempirne il significato. Tuttavia, è difficile trovare una definizione che riesca nettamente a separare ciò che è meritevole di tutela da ciò che non lo è. La recente elaborazione teorica ha presentato un’idea di bene giuridico dinamico, e cioè di un bene giuridico che è tutelabile in quanto è funzionale alla vita sociale, e non in quanto bene giuridico in sé. Sotto tale profilo, è bene giuridico solo quell’interesse, o quell’insieme di interessi, idonei a realizzare un determinato scopo utile per il sistema sociale o per una sua parte. Ovviamente, tale definizione, come tutte d’altronde, soffre di non poche eccezioni e forzature.La prospettiva della protezione di determinati beni giuridici, beni essenziali, ha matrice illuminista, nelle opere di Beccaria e Feuerbach, in cui viene sottolineato che il diritto penale debba intervenire solo nei limiti della stretta necessità. Tuttavia, il concetto di un diritto penale che tutela solo alcuni beni essenziali è un’idea lontana dal nostro ordinamento che, in verità, punisce comportamenti che neppure raggiungono la soglia di percepibile aggressione all’interesse protetto. Da questo punto di vista, si assiste ad una divaricazione tra la concezione teoria di diritto penale e la realtà dell’ordinamento. L’idea di bene giuridico, che, come facilmente si può notare, ha la funzione di limitare la potestà punitiva dello Stato, essendo molto generica e ampia rischia di divenire un contenitore che si presta a ricomprendere contenuti vari in dipendenza della società e del tempo. Storicamente, è stato Birnbaum il padre del “bene giuridico”: egli,criticando la concezione illuministica di bene giuridico = diritto soggettivo,

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sottolineava come questo dovesse essere di un particolare rango, superiore a quello del diritto soggettivo. Tutto intento alla creazione di un concetto di bene giuridico che limitasse la sovranità statale, poi, Franz v. Liszt propose un concetto materiale di bene giuridico basato su interessi preesistenti alla valutazione del legislatore: “il contenuto antisociale dell’illecito è indipendente dal suo giusto apprezzamento da parte del legislatore; la norma giuridica lo trova, non lo crea. Di inclinazione diversa appare, invece, la concezione di Arturo Rocco, nell’opera “L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale”. Secondo Rocco, propugnatore dell’indirizzo tecnico – giuridico, la determinazione del concetto di bene giuridico non può prescindere da valutazioni normative già compiute dal legislatore, per cui il concetto di bene finisce col coincidere con l’oggetto di tutela di una norma penale già emanata; proprio per questo era avverso a qualsiasi tentativo sociologico per configurare una nozione di bene giuridico. Risale a Rocco, inoltre, la distinzione tra oggetto giuridico formale (= diritto dello Stato all’obbedienza alle proprie norme da parte dei cittadini), oggetto giuridico sostanziale generico (= interesse dello Stato alla sicurezza della propria esistenza e conservazione), oggetto giuridico sostanziale specifico (= bene o interesse di pertinenza del soggetto passivo del reato). Tale impostazione è sintomatica di quel processo di <<formalizzazione>> tipica delle correnti positiviste e tecnico – giuridiche. Altra concezione del bene giuridico, che ha portato ad ancora maggiore formalismo, è quella metodologica, elaborata dalla dottrina tedesca negli anni ’30. Secondo i metodologi, il concetto di bene giuridico si riduce ad una mera formula abbreviatrice del più ampio concetto di scopo della norma penale, che è possibile individuare solo attraverso un’attenta attività interpretativa; quindi, il bene giuridico non sarebbe una realtà preesistente alla norma, ma esso si ridurrebbe al risultato di una interpretazione c.d. di scopo. Tale concezione, tuttavia, finisce con l’identificare il bene giuridico con la ratio legis. Secondo la concezione nazionalsocialista, poi, al centro del reato non si troverebbe più il bene giuridico oggetto di tutela, bensì la violazione del dovere di fedeltà nei confronti dello Stato etico, impersonato dal Führer. L’idea della protezione dei beni giuridici come scopo del diritto penale ritorna sulla scena del dibattito penalistico a partire dai primi anni ’60 in Germania e ’70 in Italia. E questo anche in seguito al riassetto politico dello Stato: la progressiva conquista di spazi di libertà e democrazia ha, infatti, imposto, sul terreno penalistico, un ripensamento critico dei criteri di legittimazione dell’intervento punitivo nell’ambito di un moderno Stato di diritto. Si ritorna ad una concezione liberale, vicina a quella di v. Liszt, secondo cui il concetto di bene giuridico preesiste al dato positivo – normativo, e tale concezione muove dall’obiettivo di liberare il diritto morale dall’attaccamento alla morale corrente (vedi il problema della laicità del diritto penale). Secondo tale concezione può assurgere a bene giuridico solo entità materiali concretamente ledibili; tenuto conto della genericità della nozione, è facile intuire come il problema di tale norma sia l’incapacità di individuare una concezione univoca di bene giuridico. Proprio per evitare l’arbitrio del legislatore, la dottrina ha elaborato una concezione di bene giuridico costituzionalmente orientata, dove la Costituzione viene presa come riferimento per ciò che può realmente costituire reato. Inoltre, la costituzionalizzazione del bene giuridico ha portato il ricorso allo strumento penale solo nei casi di <<stretta necessità>>. Si possono al riguardo richiamare: 1) l’art. 25, comma II Cost., che, affidando interamente al Parlamento o al Governo il potere di legiferare in materia penale, non può non muovere dall’esigenza di una riduzione del campo dell’illiceità penale; b) l’art. 27, comma I Cost., il quale sancisce il principio del carattere personale della responsabilità penale; c) l’art. 27, comma III Cost., che attribuisce alla pena una funzione rieducativa. Infine, vi sarebbe da aggiungere l’art. 13 Cost. il quale sancisce l’inviolabilità della libertà personale.Inoltre, la pena sacrifica altri valori costituzionali come la dignità sociale e frusta una piena estrinsecazione della personalità umana: se così è, la pena incide anche sui valori protetti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione. Quindi, il ricorso alla pena trova giustificazione solo se diretto a

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tutelare beni socialmente apprezzabili dotati di rilevanza costituzionale. L’assunto della necessaria rilevanza costituzionale dei beni oggetto di tutela penale non deve, però, essere inteso in senso eccessivamente letterale, dovendosi includere anche i beni che trovano nella Costituzione un riconoscimento implicito: 1) beni non previsti costituzionalmente ma funzionali alla tutela di altri beni giuridici costituzionalmente garantiti, 2) altri beni che rientrano nel sistema sociale dei valori (come la pietà per i defunti). Il fatto che vi siano altri valori rilevanti per il diritto penale è un qualcosa di naturale, essendo la tutela penale differente da quella costituzionale. Dopo tali precisazioni, è più agevole rispondere alla critiche secondo cui la concezione costituzionalmente orientata del bene giuridico non sarebbe idonea a soddisfare le nuove esigenze di tutela scaturenti dal continuo evolversi della realtà sociale. Proprio l’estensione della tutela ai beni di rilevanza costituzionale anche implicita, fa ritenere ammissibile l’eventuale tutela di beni non ancora emersi nel periodo in cui la Costituzione ha visto la luce. È poi da rilevare che, di fronte all’apparente affiorare alla ribalta di un nuovo bene meritevole di protezione, non di rado non si tratta di altro che dell’esigenza di proteggere un bene già esistente da una nuova forma di aggressione. Il catalogo degli oggetti di tutela recepiti nel sistema penale vigente è ben lungi dal soddisfare le rigorose pretese della teoria costituzionale dei beni giuridici fin qui esposta. Invero, i motivi di frizione tra detta teoria e l’ordinamento positivo non sono pochi e si possono analizzare sotto due angolazioni: a) da un lato, verificando se si tratti di fattispecie poste a tutela di un bene sufficientemente definito e, per di più, in armonia con il sistema dei valori costituzionali, b) dall’altro, controllando la conformità ai principi costituzionali delle tecniche di tutela adottate dal legislatore per garantire la salvaguardia del bene stesso. Riguardo il primo punto, abbiamo i c.d. reati senza bene giuridico, ed in particolare, si fa riferimento a quei tipi di reati che impongono di tenere una determinata morale (ad es. la pornografia), e reati che riguardano fattispecie tutelate per proteggere interessi quali l’economia, l’ambiente, il territorio, gli interessi diffusi. In quest’ultimo caso si tratterebbe di tutelare funzioni amministrative o la disciplina di determinate attività. In ogni caso, non bisogna ridurre la consistenza del bene protetto alla semplice materialità del suo substrato fisico: non pochi beni superindividuali, come l’ambiente, hanno acquisito un rango crescente nella stessa coscienza sociale. Sicché la prospettiva del discorso finisce col mutare: il problema si sposta su un terreno diverso, che è quello della corretta tecnica di strutturazione delle fattispecie incriminatrici. Problematici, sotto il profilo dell’enucleazione di uno specifico bene giuridico quale oggetto di tutela, possono apparire i delitti omissivi c.d. propri, consistenti nella mera inosservanza di un obbligo di condotta penalmente sanzionato. Quanto alla tecnica di strutturazione delle fattispecie incriminatrici, sollevano problemi di costituzionalità i seguenti modelli criminosi. I reati di sospetto: la repressione di siffatti comportamenti ha una giustificazione accentuatamente preventiva, nel senso che serve ad assicurare una tutela particolarmente anticipata del patrimonio, facendo però leva più sulla presunta pericolosità soggettiva dell’agente che sull’idoneità offensiva della condotta. I reati c.d. ostativi: in questo caso si tratta di delitti – ostacolo, in quanto la funzione delle relative norme è quella di frapporre un impedimento al compimento dei fatti concretamente offensivi (es. possesso di sostanze stupefacenti); l’ammissibilità di tali fattispecie, per loro natura più compatibili con la sanzione amministrativa, dovrebbe essere circoscritta a casi eccezionali, al verificarsi di due condizioni: a) l’effettiva idoneità preventiva della fattispecie deve essere suffragata empiricamente, e non presunta, b) il bene finale da salvaguardare deve essere di alto rango. I reati di pericolo presunto (in senso stretto): tale modello delittuoso tipicizza fatti che, secondo una regola di esperienza, è presumibile provochino una messa in pericolo del bene protetto. I delitti di attentato: secondo la tradizione, tale modello delittuoso colpisce già gli atti preparatori di condotte destinate ad offendere interessi attinenti alla personalità dello Stato. I reati a dolo specifico con condotta neutra: si tratta di illeciti imperniati su di una condotta che, considerata in se stessa, può

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addirittura costituire esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, ma che assume, invece, rilevanza penale in virtù del fine soggettivamente perseguito dall’agente (es. associazione sovversiva). Difficile è rispondere all’interrogativo, se la teoria costituzionale dei beni giuridici sia idonea ad offrire parametri di giudizio utilizzabili anche dalla Corte Costituzionale in sede di sindacato sulla legittimità delle norme penali incriminatrici e questo perché, rientrando il processo di selezione dei beni (c.d. politica dei beni giuridici) nell’ambito della discrezionalità valutativa del legislatore penale, un controllo della Corte che entrasse troppo nel merito delle opzioni di tutela compiute da quest’ultimo, rischierebbe di tradursi in una inammissibile ingerenza nelle scelte politiche del Parlamento. Il criterio della rilevanza costituzionale del bene si presta meglio a fungere da parametro del controllo di legittimità, solo nei casi, poco frequenti, di macroscopica o manifesta inconsistenza dell’interesse protetto. In ogni caso, non risultano casi di espressa recezione, da parte della Corte, della teoria costituzionale dei beni giuridici negli stessi termini in cui essa viene proposta dalla più recente elaborazione dottrinale. Ciò non vuol dire che il sindacato di legittimità dei beni assunti ad oggetto di protezione sia rimasto terreno precluso all’intervento dei giudici costituzionali. Al contrario, questo tipo di sindacato è stato più volte esercitato da parte della Corte: il modello di controllo di legittimità prevalentemente adottato si incentra sul rapporto tra norma penale denunciata e l’esercizio di libertà costituzionalmente garantite. L’applicazione di tale modello ha causato pronunce inquadrabili sotto tre diverse tipologie. 1) Sentenze di rigetto – sono la maggior parte; di non poche fattispecie di matrice <autoritaria> del codice Rocco contrastanti con fondamentali diritti di libertà. 2) Sentenze <manipolative> del bene protetto – l’esigenza di conservare nell’ordinamento figure sospettate di contraddire i principi costituzionali, ha indotto la Corte a riformularne l’oggetto della tutela, per renderlo compatibile con la Costituzione (ad es. le pronunce interpretative in tema di delitti di religione e delitti di sciopero). Nella concezione del legislatore del ’30, la religione è tutelata quale bene istituzionale funzionale allo Stato fascista; la Corte costituzionale ha enucleato, come nuovo bene protetto, il sentimento religioso quale espressione della personalità del singolo credente. Analogamente è avvenuto con riferimento alle norme in tema di sciopero che tutelavano l’economia corporativa fascista; la Corte ha finito con elevare ad oggetto di tutela un indefinito <ordine costituzionale>. In linea generale, la legittimità della ridefinizione del bene giuridico dovrebbe sostare a limiti rigorosi. In primis, la ridefinizione per essere lecita dovrebbe essere univoca, nel senso che non vi è spazio per altre soluzioni, nel qual caso la scelta spetterebbe al legislatore; come secondo aspetto, è necessario rispettare il tenore letterale della fattispecie incriminatrice. 3) Sentenze di accoglimento – la ritenuta illegittimità della norma penale in questione viene fatta dipendere dalla sua attitudine a comprimere diritti di libertà costituzionalmente garantiti, senza che tale incidenza possa considerarsi giustificata dall’esigenza di tutelare altri beni o interessi costituzionalmente rilevanti (ad es. la sentenza n. 269/86 con la quale la Corte ha dichiarato incostituzionale il reato di eccitamento all’emigrazione). I recenti tentativi di costituzionalizzazione del diritto penale hanno portato al suggerimento di direttive programmatiche di tutela tendenzialmente vincolanti per il legislatore, e criteri di controllo di legittimità costituzionale della normativa penale vigente. Non possono essere elevati a reato fatti che corrispondono all’esercizio di libertà fondamentali garantite dalla Costituzione. Il legislatore non è legittimato ad incriminare l’immoralità in sé perché non è compito di un diritto penale di uno Stato pluralistico conforme a Costituzione educare coercitivamente i cittadini adulti. Vi è poi la tendenza a decriminalizzare e depenalizzare i c.d. illeciti bagatellari (derivanti da azioni frivole). Sul lato dell’esigenza di dilatare l’area dei fatti punibili, va segnalata l’esigenza di rafforzare la salvaguardia di quei valori collettivi che la stessa coscienza sociale odierna vorrebbe più incisivamente protetti. Ora accenniamo ad alcuni orientamenti teorici che tendono a contestare o ridimensionare il ruolo della protezione dei beni giuridici quale ragione giustificatrice del moderno diritto penale.

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Uno studioso celebre e autorevole come Hans Welzel ha già da tempo sostenuto, in contrasto con la dottrina dominante, che il compito primario del diritto penale consiste nel formare i comportamenti etico – sociali dei cittadini, al fine di favorirne la disponibilità psicologica a rispettare le leggi.Più di recente, la riflessione sulla teoria del bene giuridico si è anche arricchita di apporti sociologici. Nell’ambito delle posizioni più radicali, si segnalano quelle di Amelung e di Jackobs, accomunate dal tentativo di trapiantare nel diritto penale l’ormai nota teoria <sistemica> di Luhmann. Amelung tenta di riproporre, con l’ausilio della moderna teoria sociologica, la dottrina della <dannosità sociale> di ascendenza illuministica: in tal senso, il reato sarebbe definibile come un fatto socialmente dannoso. Il problema allora consiste nel determinare meglio il concetto di dannosità sociale. Muovendo dal modello teorico che concepisce la società come un <sistema di interazioni>, dannoso socialmente viene definito <un fenomeno disfunzionale, che impedisce o frappone ostacoli a che il sistema sociale risolva i problemi della sua conservazione>. Tuttavia, una prospettiva puramente sociologica è priva di qualsiasi vincolatività per il legislatore. Secondo Jackobs, in sede di valutazione penalistica, assumerebbe rilievo non tanto un comportamento inteso come mero accadimento esteriore che lede un bene concepito come oggetto materiale del mondo esterno. Rileverebbe, piuttosto, un comportamento da considerare quale accadimento significativo sul piano dell’interazione sociale: e il significato del comportamento criminoso consisterebbe nel rappresentare la negazione della norma penale. Conseguentemente, il compito del diritto penale risiederebbe nel confermare la validità o obbligatorietà della norma violata. Tuttavia, l’accento posto sull’esigenza primaria di confermare la validità delle norme agli occhi dei consociati, finisce con lo sfociare nella conclusione un po’ tautologica che il diritto penale ha per scopo di tutelare se stesso.Nella prospettiva di una proficua integrazione tra teoria del bene giuridico e approccio sociologico si muove l’indagine di Hassemer. Ed, infatti, lo sforzo teorico tende questa volta a dilatare l’orizzonte conoscitivo della teoria del bene giuridico, sino a ricomprendere in essa lo studio delle condizioni empiriche che ne dovrebbero assicurare il successo pratico. Questo tentativo di porre la concezione del bene giuridico coi piedi per terra, ha tra gli obiettivi principali quello di individuare i fattori sociali che abitualmente presiedono al processo legislativo di penalizzazione della condotta umana. Da questo punto di vista, una politica dei beni giuridici razionale e avveduta dovrebbe sollecitare mutamenti legislativi che non contrastino troppo con le concezioni sociali predominanti.Il dibattito teorico intorno ai presupposti di legittimazione del diritto penale moderno è andato negli ultimi anni evolvendosi lungo molteplici direttrici. Oltre ai già accennati tentativi di connubio tra diritto penale e scienze sociali, è emersa infatti più di recente una tendenza che può, a prima vista, apparire sorprendente: si allude cioè alla prospettiva di tornare a ricercare la legittimazione del magistero punitivo in un rinnovato ancoraggio al pensiero filosofico.

3. I principi di <sussidiarietà> e di <meritevolezza della pena>

La sussidiarietà del diritto penale concerne l’idea dello strumento penale come estrema ratio. L’utilizzazione della sanzione penale è legittima nella misura in cui si riveli uno strumento promettente in vista di un’efficace tutela del bene giuridico. Da qui l’esigenza che il legislatore si avvalga il più possibile del contributo conoscitivo fornito dal sapere socio–criminologico. Il principio di sussidiarietà costituisce una specificazione del principio di proporzione, e cioè un principio logico immanente allo Stato di diritto che ammette il ricorso a misure restrittive dei diritti dei singoli solo nei casi in cui ciò si riveli necessario per la salvaguardia del bene comune. Il criterio della sussidiarietà può essere concepito in due accezioni diverse che, rispettivamente, ne circoscrivono o estendono la portata. Secondo una concezione “ristretta”, il ricorso allo strumento penale appare superfluo quando la salvaguardia del bene in questione sia già ottenibile mediante

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sanzioni di natura extrapenale: a parità di efficacia di strumenti di tutela potenzialmente concorrenti, il legislatore dovrebbe optare per quello che comprime meno i diritti del singolo. Secondo una concezione più <ampia> della sussidiarietà, la sanzione penale sarebbe comunque preferibile per far percepire un determinato comportamento più riprovevole e quindi per una energica riaffermazione dell’importanza del bene tutelato. Si riflette, in questo contrasto di vedute, il conflitto tra due orientamenti di fondo: l’uno tendente a privilegiare l’utilità pratica del ricorso alla pena, l’altro invece incline a sottolineare la capacità di incidere sugli stessi atteggiamenti etico – sociali dei cittadini. L’accoglimento della prima concezione, oltre ad allinearsi ad una concezione più moderna del diritto penale, consente di meglio raccordare la tutela penalistica alle altre tecniche di tutela extrapenale. Il principio della c.d. meritevolezza della pena esprime l’idea che la sanzione penale deve essere applicata non in presenza di qualsiasi attacco ad un bene degno di tutela, bensì solo nei casi in cui l’aggressione raggiunga un tale livello di gravità da risultare intollerabile. Ovviamente, quanto più alto è il livello del bene all’interno della scala gerarchica recepita nella Costituzione, tanto più giustificato risulterà asserire la meritevolezza di pena dei comportamenti che tale bene ledono o pongono in pericolo.

4. Il principio di frammentarietà

Il principio di frammentarietà è solitamente considerato operante a tre livelli. Innanzitutto, alcune fattispecie di reato tutelano il bene oggetto di protezione non contro ogni aggressione proveniente da terzi, ma solo contro specifiche forme di aggressione. In secondo luogo, la sfera di ciò che rileva penalmente è molto più limitata rispetto alla sfera di ciò che è qualificato antigiuridico alla stregua dell’intero ordinamento: ad es., le violazioni contrattuali sono di regola irrilevanti in sede penale. In terzo luogo, l’area del penalmente rilevante non coincide con ciò che è moralmente riprovevole. Tale modo di operare del principio di frammentarietà è riconducibile allo stesso processo genetico delle fattispecie incriminatrici. Determinati comportamenti umani si ripetono nel tempo con modalità pressoché eguali e il legislatore spesso si limita a dare veste giuridica a comportamenti già ben profilati nella realtà sociale. Inoltre, la stessa tendenza alla riproduzione stereotipica delle forme di aggressione ai beni induce a configurare corrispondenti tipi di autore: il ladro, il truffatore, ecc... . In tale rapporto quasi osmotico tra fatto e soggetto, il principio di frammentarietà funge tendenzialmente da antidoto: la limitazione del controllo penale a specifici comportamenti garantisce rispetto alla tentazione di incentrare la valutazione penalistica tutta sulla personalità del soggetto. Contro la frammentarietà della norma penale si sono mosse alcune obiezioni. In una prospettiva di prevenzione generale si è rilevato come tale principio contrasti con l’esigenza di reprimere tutti i comportamenti capaci di ledere il bene protetto, anche se non formalmente tipizzati. Per rimediare a tale presunta lacunosità, la stessa giurisprudenza non di rado indulge verso interpretazioni estensive delle fattispecie incriminatrici. Tuttavia, la pretesa alla completezza della tutela di determinati beni rischia di condurre ad una sorta di assolutizzazione degli stessi, dimenticandosi del bilanciamento già effettuato del legislatore nella scelta del come tutelare quel bene. In una prospettiva di prevenzione speciale si è detto che la frammentarietà contrasti con la risocializzazione del reo: cioè, se la pena deve tendere a riorientare il reo secondo il sistema di valori dominanti, sarebbe più coerente penalizzare tutte le condotte lesive dei beni assunti a punti di riferimento del processo rieducativo. Tuttavia, proprio perché il processo rieducativo ha lo scopo di favorire nel reo la riacquisizione dell’integrale rispetto dei valori, questi deve essere tendenzialmente sollecitato a riorientare la sua condotta in modo da evitare tutti i comportamenti offensivi di tali valori, e non solo quelli che dovessero risultare formalmente penalizzati. A questo punto, è chiaro che anche il principio di frammentarietà rappresenta un’ulteriore proiezione della concezione dello strumento penale come ultima ratio.

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5. Il principio di <autonomia>

Un orientamento teorico risalente a Binding, ritiene che la funzione del diritto penale sia di rafforzare con la propria sanzione i precetti e le sanzioni di altri rami del diritto. In Italia, tale teoria è stata interpretata nel senso che ogni condotta costituente reato sarebbe sempre vietata anche da un’altra norma di diritto privato o pubblico e ogni reato integrerebbe un illecito di natura non penale prima ancora di essere vietato dal diritto penale (tesi del carattere sanzionatorio del diritto penale). Tale tesi è oggi respinta nella parte in cui pretenderebbe di disconoscere l’indubbia autonomia funzionale e tecnica dello strumento penalistico. Ma, a ben vedere, essa nasconde un nocciolo di verità sotto il profilo politico – criminale: se la sanzione penale deve costituire l’extrema ratio cui ricorrere una volta esauriti tutti gli altri strumenti di tutela, ne deriva logicamente che il diritto penale non può precedere gli altri settori dell’ordinamento.In verità, il diritto penale rappresenta la più antica forma storica di manifestazione del diritto e, ancora oggi, esso disciplina vari settori in modo autonomo. Ma un dato è inconfutabile: per poter procedere all’applicazione delle tipiche sanzioni punitive, il giudice penale di regola non è vincolato a precedenti valutazioni di altri giudici o autorità amministrative, per cui è indifferente che la sanzione penale sia preceduta o no da altri tipi di sanzione. Tuttavia, neppure la tesi della natura autonoma del diritto penale deve essere aprioristicamente enfatizzata.

6. Partizioni del diritto penale

Il codice penale è costituito da una parte generale e una speciale. La prima ricomprende la disciplina dei criteri, oggettivi e soggettivi, di imputazione del fatto delittuoso al suo autore, delle conseguenze giuridiche del reato, e di ogni altro elemento condizionante la punibilità. La seconda contiene il catalogo delle fattispecie che descrivono i singoli comportamenti illeciti. Le due parti dovrebbero essere trattate insieme, integrandoci vicendevolmente. La parte generale è di formazione recente e costituisce il risultato di un processo di astrazione teorica delle caratteristiche dei singoli delitti e del consolidamento di alcuni fondamentali principi politico – ideologici, di ascendenza illuministico – liberale (principio di legalità, del diritto penale del fatto, ecc...). La parte speciale, invece, è organizzata secondo un criterio sistematico che fa capo al concetto di bene giuridico di categoria, secondo cui vengono raggruppati insieme i reati che offendono un medesimo bene (patrimonio, fede pubblica, ecc...). Da un punto di vista funzionale, la parte generale predispone si i principi generali comuni ai singoli delitti, ma è <cieca> rispetto alla sfera dei beni tutelati: in questo senso, vive necessariamente in rapporto alla parte speciale.

7. Caratteristiche del codice Rocco

Il codice Rocco, dal nome del guardasigilli del tempo, non è unicamente imperniato sull’ideologia fascista. Questa è presente soprattutto nella parte speciale in cui vengono previsti alcuni reati contro la personalità dello Stato. Per il resto, il catalogo delle fattispecie di parte speciale rispecchia per grandi linee quello ereditato dalla tradizione penalistica liberale, con la differenza però che il legislatore del ’30 inasprisce pesantemente il trattamento sanzionatorio. In una prospettiva di continuità rispetto alla tradizione precedente si colloca anche la parte generale. È vero che sussistono numerosi indici di un rigorismo repressivo dettato dall’intento di assegnare allo strumento penale la funzione di rappresentare lo Stato fascista come Stato forte; tuttavia, si tratta di una stretta rigoristica realizzata con tecniche suscettive di essere inquadrate in un modello astratto di risposte repressive adottabili anche da uno Stato liberale. Sul terreno delle

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conseguenze sanzionatorie, la novità è rappresentata dall’introduzione delle misure di sicurezza, in aggiunta o in sostituzione della pena (sistema c.d. del doppio binario).

8. Codice Rocco, interventi riformatori e legislazione speciale

Per essere snaturato dai principi fascisti, il codice Rocco ha subito delle modifiche. Col d.lg.lgt. 288/1944 sono state reintrodotte: 1) la scriminante della reazione legittima del cittadino agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, 2) la c.d. exceptio veritatis, cioè l’istituto con cui si attribuisce all’imputato il diritto di provare la verità dell’addebito di fronte ad un fatti determinato, 3) le attenuanti generiche (circostanze non tipicizzate individuate dal giudice, aventi la funzione di umanizzare la condanna adeguandola al caso di specie). Col d.lg.lgt. 224/1944 è stata abolita la pena di morte. Con la legge 127/1958 è stata riformata la disciplina penale della responsabilità per i reati commessi per mezzo di stampa e si è eliminato il rigido criterio della responsabilità oggettiva del direttore di giornale. Con le leggi 191/1962 e 1634/1962, sono stati rispettivamente modificati gli istituti della sospensione condizionale della pena e della liberazione condiziona nel in senso più favorevole al reo. Un’azione di depenalizzazione, per rispondere all’inflazione del sistema penale, è avvenuta incisivamente con la legge 689/1981. Da un lato, il legislatore ha introdotto un sistema di principi destinato a costituire la parte generale sia dell’illecito depenalizzato che di quello originariamente amministrativo. Dall’altro, ha esteso la depenalizzazione agli illeciti puniti con la sola multa, così investendo ipotesi delittuose contenute nel codice penale. Tuttavia, il riferimento al criterio della sanzione comminata, come parametro selettivo del processo di depenalizzazione, appare troppo formale per una selezione che dovrebbe far riferimento ad aspetti sostanziali del bene giuridico da tutelare. Rispetto alla parte generale del codice penale, il primo intervento di ampio respiro è costituito dalla c.d. novella del 1974, con la quale si introducono: a) la possibilità di un giudizio di comparazione tra le attenuanti e le aggravanti, b) il cumulo giuridico delle pene per il concorso formale di reati, c) l’estensione della disciplina del reato continuato fino a ricomprendervi anche violazioni di <diverse> disposizioni di legge, d) la trasformazione dell’aggravante della recidiva da obbligatoria a facoltativa e la mitigazione dei suoi effetti, e) l’estensione dei limiti della sospensione condizionale della pena anche per il caso di seconda condanna.Il secondo intervento di grande portata è costituito dalla riforma dell’ordinamento penitenziario (354/1975) caratterizzata dal duplice obiettivo di disciplinare l’esecuzione della pena in armonia col principio costituzionale della rieducazione, e di potenziare le garanzie dei diritti del condannato. Inoltre, sono state introdotte sanzioni alternative come l’affidamento in prova, la semilibertà e la liberazione anticipata. In parte contraddetta da provvedimenti legislativi emanati durante gli anni dell’emergenza terroristica, la prospettiva rieducativa è stata rilanciata con la <miniriforma> dell’ordinamento penitenziario dell’ottobre ’86 (l. 663/ 1986). Ma essa ha subito una nuova battuta d’arresto per effetto dei provvedimenti legislativi adottati per fronteggiare l’emergenza mafiosa. Il terzo intervento di grande respiro concerne il sistema sanzionatorio: la già citata l. 689/1981 introduce sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (semidetenzione, libertà controllata), detta una nuova disciplina della pena pecuniaria e modifica in maniera incisiva le pene accessorie.Per quanto riguarda gli interventi legislativi sulla parte speciale, si ricorda l’introduzione dei nuovi reati di associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, dell’associazione di tipo mafioso, dello scambio elettorale politico – mafioso, delle manovre speculative su merci, delle nuove fattispecie di riciclaggio. Più di recente, la parte speciale ha subito ulteriori innovazioni per effetto della riforma dei reati sessuali, dell’introduzione dei reati in materia informatica e di sfruttamento sessuale dei minori. La parte speciale del codice non

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contiene tutta l’area di ciò che è penalmente sanzionato nell’attuale momento storico. Anzi, il catalogo dei beni contemplati nel codice rappresenta ben poca cosa rispetto alla mole delle fattispecie penali previste dalle leggi penali speciali o complementari. Si pensi alle leggi speciali in materia di tutela dell’ambiente, del territorio, degli alimenti, ecc... . Secondo un’opinione radicale, anche nell’ambito del diritto penale si assisterebbe all’insorgere di una tendenza alla <decodificazione>, analoga a quella già manifestatasi nel diritto civile: in questo senso, emergerebbe una tendenza alla degradazione del codice Rocco da fonte principale e comune delle norme penali a fonte integrativa e sussidiaria. Secondo un’altra opinione, il codice Rocco non avrebbe subito alcun processo di decodificazione e potrebbe, pertanto, essere ancora considerato al centro dell’intero sistema penale. In ogni caso, un dato resta fermo: anche se le leggi complementari contengono non di rado sottosistemi penali dotati di logiche peculiari alle materie affrontate, è pur vero che le regole relative quasi mai si pongono in contrasto o alternativa con i principi generali del codice. Tuttavia, le modificazioni subite hanno finito col trasformare il codice in una sorta di strumento adattabile agli usi più svariati, anche in chiave di mistificazione ideologica: a seconda delle convenienze del momento, se ne è rivendicata l’idoneità a tutelare l’ordinamento democratico, o se ne è stigmatizzata l’ascendenza illiberale. Bisogna comunque dire che l’attuale assetto della tutela codicistica non riflette adeguatamente il sistema dei valori suscettivi di tutela penale in uno Stato democratico quale quello prefigurato dalla Costituzione.

Capitolo 2- La funzione di garanzia della legge penale

1. Premesse generali

Il principio di legalità non ha una matrice penalistica ma risale alla dottrina del <contratto sociale>, e si giustifica con l’esigenza di vincolare l’esercizio di ogni potere dello Stato alla legge. L’idea della tutela dei diritti di libertà del cittadino nei confronti del potere statuale si esprime nel divieto di retroattività della legge penale: agli illuministi appare lesivo di tali diritti punire successivamente un’azione la quale, al momento in cui viene commessa, non è ancora penalmente sanzionata. Tale divieto ha trovato riconoscimento formale, oltre che in alcune costituzioni di Stati nordamericani, anche nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. La traduzione in termini giuridico – penali del fondamento politico del principio di legalità avviene nei primi anni dell’800, ad opera del criminalista tedesco Anselm Feuerbach, il quale lo canonizza con la celebre formula latina nulla poena sine lege. Inoltre, se la minaccia della pena deve funzionare da deterrente psicologico nel distogliere dal commettere reati, è necessario che i cittadini conoscano prima quali sono i fatti, la cui realizzazione comporta l’inflizione della sanzione. Il principio di legalità ha trovato riconoscimento nell’art. 25, comma II, Cost. e nell’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’art. 25, co. II, Cost. stabilisce che <nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite>. La diversa formulazione letterale dell’art. 25, co. II, Cost., rispetto all’art. 1 c.p. non deve trarre in inganno. Muovendo dalla ratio che vi è sottesa, la disposizione costituzionale non può non avere contenuto significativo corrispondente a quello della disposizione codicistica. Il significato di garanzia del principio di legalità e le tensioni conflittuali che la stretta osservanza può in certi casi sollevare, sono evidenziate nel caso 1; è ovvio, infatti, che il comportamento dell’uomo di Hyde Park rientra tra le condotte che la norma incriminatrice dovrebbe reprimere. È altrettanto ovvio però che l’essere nudi non è assolutamente

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assimilabile all’essere vestiti. Il principio di legalità ha come destinatari sia il legislatore, sia il giudice e si articola in quattro sottoprincipi: 1) la riserva di legge, 2) la tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale, 3) l’irretroattività della legge penale, 4) il divieto di analogia in materia penale.

2. La riserva di legge: fondamento e portata

Il principio di riserva di legge esprime il divieto di punire un determinato fatto in assenza di una legge preesistente che lo configuri come reato: in particolare, esso tende a sottrarre la competenza in materia penale al potere esecutivo. Nell’attuale momento storico, solo il procedimento legislativo appare lo strumento più adeguato a salvaguardare il bene della libertà personale: esso consente di tutelare i diritti delle minoranze e delle forze politiche dell’opposizione. Nello stesso tempo, l’attribuzione del monopolio delle fonti al potere legislativo tendenzialmente evita forme di arbitrio del potere sia esecutivo che giudiziario. Nell’ordinamento italiano, il principio della riserva di legge non è stato inteso del tutto in linea con la motivazione ideologica ad esso sottesa, ma non prevalse interpretazioni ispirate alla preoccupazione di conservare buona parte dell’ordinamento penale esistente. Si è così tentato di ridimensionare il valore della riserva degradandola a relativa: in questo senso si è ritenuta ammissibile, e costituzionalmente legittima, la partecipazione di fonti normative secondarie, come i regolamenti, alla creazione della fattispecie penale. Questa concezione, tuttavia, non può essere accolta perché finisce con l’eludere le esigenze di garanzia cui il principio di legalità deve soddisfare. Pertanto la riserva di legge deve essere intesa come assoluta. La riserva assoluta esclude che il legislatore possa attribuire il potere normativo penale ad una fonte di grado inferiore. Questa versione del principio in esame è in armonia con il fondamento politico nullum crime sine lege. Si è osservato che <il rigore della riserva assoluta, sicuramente da condividere nella sua istanza ideologica, non lo è più nel contesto di uno standard normativo come quello attuale: proficuo se contribuisse a trovare finalmente un confine più o meno marcato dell’autentico diritto criminale, non è invece realistico né praticabile nel contesto di una normazione penale che persiste a penetrare in ogni settore con una organicità e capillarità degna di miglior causa>. Da qui l’opportunità di concedere al potere regolamentare uno spazio di intervento normativo anche limitato, nel quale siano consentiti accertamenti di indole tecnica o specificazione di dati: si pensi al decreto del Ministro della Sanità cui spetta di aggiornare le tabelle delle sostanze rientranti nel concetto di <stupefacente> ai fini dell’applicazione della normativa in materia. La concezione qui sostenuta consente di rinvenire un punto di equilibrio tra il profilo della riserva e quello della <tassatività>: le scelte di fondo relative alla incriminazione restano monopolio del legislatore, mentre resta affidata alla fonte normativa secondaria la possibilità di specificare dal punto di vista tecnico il contenuto di elementi di fattispecie già delineati in sede legislativa.

3. Il concetto di <legge> nell’art. 25, co. II, Cost. e nell’art. 1 c.p.

È evidente che il concetto di riserva di legge rinvia immediatamente alla legge in senso formale, cioè all’atto normativo emanato dal Parlamento ai sensi degli artt. 70 – 74 Costituzione. Vi è sa chiedersi se siano da ammettersi anche le leggi in senso materiale, come i decreti – legge e le leggi delegate; invero, la dottrina dominante le annovera tra le legittime fonti di produzione di norme penali: cioè, posto che lo stesso ordinamento costituzionale riconosce a tali atti normativi efficacia pari a quella delle leggi ordinarie, se ne deduce la loro rilevanza anche in materia penale. Tuttavia, le caratteristiche della legge delegata e del decreto – legge appaiono poco compatibili con la ratio sottesa al principio di riserva di legge. Infatti, queste forme di produzione normativa comprimono

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uno dei requisiti della riserva di legge e cioè la partecipazione delle minoranze. Muovendo dalla premessa del monopolio della legge statale in materia penale, la dottrina dominante e la quasi unanime giurisprudenza escludono dal novero delle fonti la legge regionale nelle ipotesi sia di competenza esclusiva, sia di competenza concorrente ex. art. 117. Nell’ambito della giurisprudenza costituzionale, la motivazione dell’esclusione di una potestà normativa penale delle Regioni è contenuta nella importante sentenza n. 487/89, nella quale tra l’altro si afferma: <La criminalizzazione comporta, anzitutto, una scelta tra tutti i beni e valori emergenti nell’intera società: e tale scelta non può essere realizzata dai consigli regionali per la mancanza d’una visione generale dei bisogni di esigenze dell’intera società. Meno problematica appare, invece, l’ammissibilità dell’intervento di una legge regionale in funzione <scriminante>: per esemplificare, si pensi all’ipotesi di uno stabilimento industriale che scarica sostanze ritenute inquinanti alla legge statale a tutela delle acque, ma rientranti nei limiti di tollerabilità da una legge successiva regionale.

4. Rapporto legge – fonte subordinata: i diversi modelli di integrazione

In astratto, i modelli di integrazione e fonte normativa subordinata (regolamento, ordinanza, ecc...) possono essere così schematizzati: a) la legge affida alla fonte secondaria la determinazione delle condotte concretamente punibili (c.d. norme penali in bianco); b) la fonte secondaria disciplina uno o più elementi che concorrono alla descrizione dell’illecito penale; c) l’atto normativo subordinato assolve alla funzione di specificare, in via <tecnica>, elementi di fattispecie legislativamente predeterminati nel nucleo significativo essenziale; d) la legge consente alla fonte secondaria di scegliere i comportamenti punibili tra quelli da quest’ultima disciplinati. Riguardo la prima ipotesi, la norma che viene in questione è l’art. 650, che incrimina l’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità. Si tratta di un esempio tipico di norma in bianco perché la fattispecie corrispondente è molto generica: la disposizione incriminatrice si limita ad affermare che <è punito colui che non osserva un provvedimento emanato dall’Autorità amministrativa>. Come nel caso 3, la effettiva determinazione del fatto costituente reato resta affidata alla stessa Autorità amministrativa. Ciononostante, con sentenza n. 168 del ’71, la Corte costituzionale ha dichiarato legittimo l’art. 650, in relazione all’art. 25, co. II, Cost., motivando nel senso che <la materialità della contravvenzione è descritta tassativamente in tutti i suoi elementi costituitivi> e sostenendo che le norme penali in bianco non violano il principio di legalità quando sia una legge dello Stato ad indicare i caratteri, i presupposti, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’Autorità amministrativa, alla cui trasgressione l’art. 650 riconnette una sanzione penale. A simili argomentazioni, che finiscono col sovrapporre il profilo della tassatività a quello della legalità, si deve replicare osservando che, nel caso delle norme penali in bianco, l’apporto della fonte normativa inferiore non si limita a specificare elementi di un precetto posto dalla legge, ma si estende sino al punto di porre esso stesso la regola di comportamento da osservare in concreto. Considerazioni in parte analoghe valgono per la seconda ipotesi; si pensi alla contravvenzione ex art. 659, commessa esercitando un mestiere rumoroso contro le prescrizioni dell’Autorità legale: in tal caso, le prescrizioni dell’Autorità contribuiscono a delineare le modalità del fatto vietato, incidendo sul suo disvalore penale. Nessun problema di violazione di riserva di legge suscita, invece, quell’apporto della fonte secondaria che si limiti a specificare, da un punto di vista <tecnico>, elementi del fatto già contemplati dalla legge che configura reato (vedi il caso 4).È certamente illegittimo, infine, il modello di integrazione nel quale la legge consente alla fonte secondaria di selezionare i comportamenti punibili tra quelli da quest’ultima disciplinati: qui infatti il legislatore si spoglierebbe della funzione di cui è investito in forza della riserva, per delegarlo interamente al potere regolamentare. La sentenza n. 282/90, oltre a puntualizzare la

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giurisprudenza in materia, sembra interpretare la riserva di legge in maniera più rigorosa che in passato. Da questa emergono tre indicazioni fondamentali: a) è compatibile col principio di riserva di legge l’integrazione del precetto rispetto ad elementi suscettivi di specificazione tecnica; b) è compatibile col principio predetto l’ipotesi in cui il precetto penale assuma funzione sanzionatoria rispetto a provvedimenti emanati dall’autorità amministrativa, quando sia la legge ad indicarne presupposti, carattere, contenuto e limiti; c) è, invece, da ritenere in contrasto col principio suddetto la tecnica del rinvio a fonte secondaria per la determinazione di elementi essenziali dell’illecito.

5. Rapporto legge – consuetudine

La consuetudine è la ripetizione generale, uniforme e costante di un comportamento, accompagnata dalla convinzione della sua corrispondenza ad un precetto giuridico. In diritto penale, in forza del principio di riserva di legge, la consuetudine non può svolgere né funzione incriminatrice né aggravatrice del trattamento punitivo. Ad analoga conclusione si deve pervenire con riguardo alla consuetudine abrogatrice o desuetudine; è ben possibile che una o più norme penali restino di fatto inapplicate per lunghissimo tempo. Ma si tratta di una disapplicazione fattuale che esaurisce la sua valenza su di un piano sociologico. Parte della dottrina ammette, invece, una funzione integratrice della consuetudine. Al concetto di consuetudine integratrice si fa ricorso per alludere a quei casi in cui il giudizio penale presuppone il rinvio a criteri sociali di valutazione, come ad esempio in materia di osceno: si tratta però di un richiamo ingiustificato, in quanto una cosa è la consuetudine concepita in senso stretto, altra cosa la recezione da parte della norma penale di criteri di valutazioni dominanti nella società. È, invece, ammissibile la consuetudine c.d. scriminante; infatti, le norme che configurano cause di giustificazione non hanno carattere specificatamente penale, per cui le situazioni scriminanti non sono subordinate al principio della riserva di legge.

6. Riserva di legge e normativa comunitaria

Gli organi istituzionali dell’UE sono carenti di legittimazione a creare norme incriminatrici; manca, infatti, in tutti i Trattati finora emanati la previsione espressa di una potestà penale comunitaria. Ad escludere detta potestà vale in ogni caso lo sbarramento opposto dal principio costituzionale di riserva di legge in materia penale, concepito soprattutto come principio che assicura la garanzia democratica nel processo di formazione delle norme penali, riservando appunto al Parlamento la scelta dei fatti costituenti reato. È proprio il deficit democratico, che caratterizza le istituzioni comunitarie, la causa del mancato riconoscimento di una loro potestà penale (almeno finché il potere normativo in ambito comunitario continuerà a concentrarsi nel Consiglio). Tuttavia, l’UE è senz’altro legittimata a prevedere e irrogare sanzioni amministrative come previsto dall’art. 229 del Trattato CEE. L’UE è comunque interessata ad una tutela penale c.d. mediata degli interessi comunitari: essa cioè si preoccupa che tali interessi ricevano anche a mezzo del diritto penale una protezione non solo efficace, ma anche il più possibile omogenea nell’ambito delle diverse legislazioni nazionali. Le tecniche utilizzabili per raggiungere tale obiettivo sono: a) l’assimilazione degli interessi comunitari agli interessi statali, mediante l’estensione ai primi delle forme di tutela previste per i secondi, b) l’armonizzazione delle legislazioni penali nazionali, c) l’unificazione delle discipline penali nazionali, sfociante nella predisposizione di una normativa penale comune. Allo scopo di promuovere a livello europeo l’armonizzazione penale e la cooperazione giudiziaria, il Trattato di Maastricht ha introdotto il c.d. terzo pilastro dell’Unione, il quale può avvalersi sia dello strumento delle Convenzioni, sia delle decisioni quadro. Queste ultime sono state utilizzate con

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frequenza crescente, anche se il loro impatto concreto sembra piuttosto modesto. Ulteriori passi avanti verso l’europeizzazione del sistema penale potrebbero compiersi con l’entrata in vigore della Costituzione europea. Le modifiche più significative sarebbero tre. In primis vi sarebbe la previsione delle sole <leggi> e <leggi quadro> europee. Poi, la previsione della competenza delle leggi quadro a definire le modalità di avvicinamento delle legislazioni penali, e delle leggi europee al riguardo dell’istituzione di una procura europea, con la relativa previsione dei reati da questa perseguibili. Quanto al già segnalato problema del deficit di democraticità, con riferimento sia alle leggi europee, sia alle leggi quadro europee, si adotterebbe una procedura di <codecisione> in via generalizzata, in cui le tre istituzioni svolgerebbero un ruolo paritario. Chiariamo ora la questione relativa alla influenza che le norme comunitarie possono esercitare sull’applicazione giudiziale del diritto penale interno: e ciò in virtù del principio del primato del diritto comunitario. Vi è da chiedersi se tale principio viga, per il giudice nazionale in sede applicativa, rispetto a tutte le norme comunitarie o solo per alcune. La risposta è sicuramente affermativa per le norme contenute nel Trattato e per i regolamenti, mentre dubbi sussistono relativamente alle direttive, le quali vincolano gli Stati al raggiungimento di determinati scopi, lasciando ampia discrezionalità circa le forme e i mezzi per attuarli. Per loro caratteristica, le direttive <classiche> o generali non sono suscettibili di essere direttamente applicabili dal giudice interno; mentre, un diverso discorso è da farsi per le direttive c.d. self executing (c.d. analitiche o dettagliate),le quali sarebbero direttamente applicabili. Ciò premesso analizziamo le diverse forme di interazione tra norme comunitarie e diritto penale interno. La forma più frequente di interazione si è finora manifestata nei casi di conflitto tra norme comunitarie e legge penale italiana. Competente a mettere in evidenza i problemi di conflitto o compatibilità è il giudice nazionale. Ciò richiede, ovviamente, una previa attività di interpretazione; se il giudice interno è in dubbio circa la più esatta interpretazione della norma comunitaria può effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. La possibilità di un conflitto tra norma comunitaria e norma interna che dia luogo ad una eccezione da sollevare innanzi la Corte costituzionale italiana si spiega in termini di incostituzionalità mediata, in base all’art. 11 Cost. e al nuovo art. 117 Cost. Ove il conflitto si manifesti in forma di incompatibilità evidente, e le norma comunitaria in questione sia contenuta in un regolamento o in una direttiva dettagliata, il giudice italiano è tenuto a disapplicare, o meglio non applicare la norma penale contrastante. Non di rado, le norme comunitarie entrano in conflitto con precedenti norme penali nazionali perché introducono nuovi spazi o porzioni di libertà nell’ambito della circolazione delle persone o del diritto all’esercizio di determinate attività economiche. L’effetto della ritenuta prevalenza della disposizione comunitaria è di tipo limitativo o restrittivo del diritto penale interno.Una seconda modalità di possibile interazione è di tipo specificativo–integrativo: in tal caso, la norma comunitaria concorre a delineare i presupposti di applicazione di fattispecie incriminatrici interne, appunto specificandone o integrandone gli elementi costitutivi. Bisogna, tuttavia, specificare in che forme e limiti ciò sia ammissibile, salvaguardando il principio di riserva di legge. In proposito, si possono riproporre i criteri utilizzati per stabilire la legittimità dell’eterointegrazione della fattispecie penale ad opera di fonti normative secondarie interne. Sarà, dunque, ammissibile che un regolamento comunitario specifichi o concretizzi dal punto di vista tecnico elementi di fattispecie già definiti nel nucleo significativo essenziale dal legislatore nazionale. Più discussa può apparire l’ipotesi in cui la norma comunitaria si presta ad integrare elementi normativi della fattispecie incriminatrice. Un discorso analogo può valere rispetto ad una norma comunitaria che configuri una nuova posizione di garanzia, quale presupposto dell’obbligo di impedire l’evento nell’ambito dei reati omissivi c.d. impropri. Se si ammettono le suddette forme di integrazione, è evidente che l’effetto prodotto dall’impatto della norma comunitaria questa volta è nel senso di estendere il diritto penale interno. Per completare il quadro è opportuno accennare ai c.d. obblighi comunitari di tutela penale a carico degli Stati membri (nel

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senso che ciascuno Stato sarebbe obbligato a provvedere o mantenere, all’interno del proprio ordinamento , norme penali a tutela di interessi comunitari rilevanti. Ma tali obblighi di incriminazione di fonte europea sono compatibili con il principio di riserva di legge statale? Sul punto sorgono problemi sia di carattere formale che sostanziale del principio di legalità: infatti ammettendo che una fonte comunitaria sia legittimata ad imporre ad uno Stato membro l’adozione di sanzioni penali per la tutela di un determinato bene o interesse comunitariamente rilevante, risulterebbe nella sostanza vanificata la garanzia democratica del processo genetico delle norme penali, perché al Parlamento nazionale verrebbe di fatto sottratto il potere di valutare autonomamente i presupposti politico – criminali che rendono necessario il ricorso alla tutela penale. La Corte di Giustizia ha più volte affermato che, in assenza di una potestà punitiva autonoma in capo all’UE, gli Stati, in forza del principio di leale collaborazione, sono comunque tenuti ad adottare tutte le misure atte ad assicurare l’osservanza delle norme comunitarie. Pur conservando la competenza a scegliere il tipo di sanzioni da adottare, gli Stati devono vigilare a che le violazioni di diritto comunitario siano colpite con sanzioni interne aventi carattere di effettività, proporzionalità e capacità dissuasiva. Accenniamo, per esemplificare, ad alcune prese di posizione della Corte di Giustizia sul punto. A) La pronuncia più recente afferma esplicitamente la competenza della normativa comunitaria a imporre agli Stati l’obbligo di prevedere sanzioni penali finalizzate alla tutela di un bene giuridico comunitariamente rilevante, costituito nel caso specifico dall’ambiente. B) Sotto il profilo dell’obbligo statale di garantire una protezione efficace a beni comunitariamente rilevanti si segnalano due pronunce e le questioni demandate dai giudici nazionali alla Corte di Giustizia sono così riassumibili: se sia legittimo che il legislatore nazionale sostituisca una precedente disciplina penale, considerata compatibile con un obbligo di tutela di fonte comunitaria, con una successiva disciplina penale meno rigorosa, e meno adeguata in termini di efficace tutela dell’interesse comunitario; e se sia legittima la conseguenza pratica che, ove si ritenga applicabile la disciplina successiva restrittiva dell’area della punibilità, i fatti di causa (commessi al momento in cui era in vigore la disciplina più rigorosa) non risultino punibili. Entrambe le questioni, tuttavia, non hanno ricevuto soluzioni univoche dalla Corte di Giustizia. C) Una ulteriore pronuncia, e cioè la sentenza Pupino del 16 giugno 2005, pur riferendosi direttamente ad una problematica processuale, ha in realtà affermato un principio che può assumere rilievo sul piano del diritto penale sostanziale: e cioè il principio secondo cui l’obbligo di interpretazione giudiziale conforme deve valere anche con riguardo ad atti del c.d. terzo pilastro, quali le decisioni quadro. È evidente che, dalle decisioni fin qui esposte, gli attuali rapporti tra diritto penale e fonti comunitarie risentono di quell’incertezza e mutevolezza tipiche delle fasi storiche di transizione.

7. Il principio nulla poena sine lege

Il principio nulla poena sine lege è tra i principi penali fondamentali di uno Stato democratico. Una legge che si limitasse a prevedere il fatto ma rimettesse al giudice la scelta del tipo e/o della durata della sanzione, contraddirebbe le istanze garantistiche sottese al principio di legalità proprio nel momento più nevralgico in cui si infligge un effettivo sacrificio al bene della libertà personale. Predeterminazione legale della sanzione non significa, tuttavia, esclusione di ogni potere discrezionale del giudice. La possibilità di scegliere tra più tipi di sanzioni legalmente predeterminate, sono imposte, da un lato, dall’esigenza di adattare la pena al disvalore del reato commesso, e dall’altro, dalla necessità di rispettare i principi costituzionali della individualizzazione della pena e del finalismo rieducativo. Incostituzionale sarebbe, altresì, la previsione normativa di uno spazio edittale di pena oscillante tra limiti eccessivamente dilatati (ad es. pena detentiva da 15 giorni a 15 anni). Il principio di legalità è veramente rispettato solo se lo spazio edittale oscilli entro

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minimi e massimi ragionevoli: ragionevolezza rapportata al rango del bene protetto e alla gravità dell’offesa arrecata dal fatto incriminato. Anche rispetto alle pene il principio di legalità opera come riserva di legge assoluta: e cioè, solo la legge o un atto normativo equiparato possono stabilire con quale sanzione ed in quale misura debba essere represso il comportamento criminoso. La riserva assoluta di legge concerne non solo le pene principali, ma anche quelle accessorie, nonché gli effetti penali della condanna. Infine, la garanzia della legalità deve intendersi estesa alla fase della esecuzione della pena.

8. Il principio di tassatività

Se il reato fosse configurato in termini troppo generici da non lasciar individuare con precisione il comportamento da sanzionare, il principio di legalità, pur rispettato nella forma, sarebbe eluso nella sostanza, ed è questa la ragione ispiratrice del principio di tassatività o sufficiente determinatezza. Tale principio tende a salvaguardare i cittadini contro eventuali abusi del potere giudiziario. Inoltre, il principio di tassatività fa da pendant col criterio della frammentarietà: se cioè la tutela penale è tendenzialmente apprestata solo contro determinate forme di aggressione ai beni giuridici, è necessario che il legislatore specifichi con sufficiente precisione i comportamenti che integrano siffatte modalità aggressive. La determinatezza della fattispecie penale rappresenta una condizione indispensabile affinché la norma possa efficacemente fungere da guida del comportamento del cittadino. Inoltre, quanto più il cittadino è posto in condizione di discernere cosa sia lecito e cosa no, tanto più cresce il rapporto di fiducia partecipativa nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni. Tra il principio di tassatività assunto nella molteplicità delle sue implicazioni e la realtà dell’ordinamento penale vigente, esiste una sensibile divaricazione. Tale scarto deriva non solo dalla obiettiva difficoltà di rinvenire il livello di sufficiente determinatezza delle fattispecie incriminatrici, ma anche dal comportamento della Corte costituzionale che al solenne riconoscimento del principio di rado ha fatto seguire un effettivo controllo sulle modalità di tipizzazione legislativa dell’illecito. Essa, infatti, ha quasi sempre respinto le eccezioni sollevate sotto il profilo della violazione del principio in questione; tale atteggiamento di chiusura è stato condizionato dalla duplice preoccupazione di creare vuoti di tutela e di entrare in conflitto col legislatore. A) In un primo filone la Corte ha sostenuto che al giudice sarebbe sempre possibile rintracciare un significato linguistico determinato, corrispondente al normale uso linguistico dei termini impiegati nelle norme sospettate di eccessiva indeterminatezza; senonché, tale argomento può risultare utile in rapporto ad espressioni che il legislatore trae dal linguaggio comune, ma problemi sorgono in relazione a termini specialistici o tecnici. B) Un altro filone della giurisprudenza costituzionale fa leva sull’argomento del <diritto vivente>, utilizzato tra l’altro in due versioni. Nella prima, la Corte tende ad identificare il diritto vivente con l’interpretazione dominante della giurisprudenza; la seconda versione viene adottata nei casi in cui manca un’interpretazione dominante, per cui la Corte concepisce come diritto vivente il rapporto dialettico tra le diverse interpretazioni giurisprudenziali. Tuttavia, a ben vedere tale criterio, oltre ad essere suscettivo di applicazioni troppo duttili, attribuisce un ruolo eccessivo alla giurisprudenza ordinaria, che viene così caricata del ruolo di supplire alle deficienze del legislatore. C) Vi sono, poi, degli orientamenti che si segnalano per una maggiore apertura costituzionale nell’interpretazione del principio di tassatività. Viene in rilievo la pronuncia in tema di plagio; in tale occasione la Corte ha dichiarato: <nella dizione dell’art. 25 Cost. che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intelligibilità dei termini impiegati, deve ritenersi anche implicito l’onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà. Sarebbe, infatti, assurdo ritenere che possano

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considerarsi determinate in coerenza col principio di tassatività della legge, norme che, sebbene intellegibili concettualmente, esprimano situazioni e comportamenti irreali o fantastici o comunque non avverabili e tanto meno concepire disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o puniscano fatti che per qualunque nozione ed esperienza devono considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili>. D’altra parte, l’ambiguità riscontrabile nella normativa penale, specie di recente, è anche una diretta conseguenza della tendenza compromissoria dell’attuale attività legislativa. Nonostante la maggiore sensibilità riscontrata da parte del legislatore in seguito all’emanazione della circolare del 5 febbraio 1986 della Presidenza del Consiglio dei Ministri (che si prefigge come obiettivo quello di formulare dei criteri orientativi per la formulazione legislativa delle fattispecie penali), non bisogna nutrire illusioni inutili nell’auspicare una maggiore precisione legislativa nella definizione dei fatti di reato. Il linguaggio costituisce una struttura aperta, per cui non di rado i termini linguistici impiegati sono suscettibili di assumere più significati, tutti astrattamente possibili. In tal senso, fondamentale diventa il ruolo di dottrina e giurisprudenza.

9. Principio di tassatività e tecniche di redazione della fattispecie penale

Le principali tecniche di legiferazione sono quelle di <normazione descrittiva> e di <normazione sintetica>. La prima tecnica descrive il fatto criminoso mediante l’impiego di termini che alludono a dati della realtà empirica. La seconda adotta una soluzione di sintesi mediante l’impiego di elementi normativi (ad es., atti osceni), rinviando ad una fonte esterna rispetto alla fattispecie incriminatrice (ad es., buon costume in materia sessuale) come parametro per la regola di giudizio da applicare nel caso concreto. Gli strumenti di tecnica legislativa atti a garantire la tassatività della fattispecie sono i c.d. elementi descrittivi: elementi cioè che traggono il loro significato direttamente dalla realtà dell’esperienza sensibile. Evidenti esempio di fattispecie costituite in forma descrittiva sono i delitti di omicidio o di lesione personale. Quanto agli elementi normativi, occorre operare una precisazione. Se si tratta di elementi normativi giuridici, l’esigenza di tassatività è per lo più rispettata perché la norma giuridica richiamata è di solito individuabile senza incertezze (si pensi alle norme civili, richiamate dalle norme sul furto per specificare il significato di “altruità” della cosa). Se si tratta di elementi normativi extragiuridici, rinvianti a norme sociali o di costume, il parametro di riferimento diventa incerto e dubbi sorgono circa il limite discretivo tra rispetto di un sufficiente livello di determinatezza e carattere indefinito dell’elemento del fatto di reato. È quest’ultimo proprio il caso delle fattispecie poste a tutela del pudore; la persistente oscillazione della giurisprudenza tra parametri di valutazione dell’osceno contraddittori al di là di ogni ragionevolezza, costituisce la migliore riprova dell’indeterminatezza del concetto di buon costume (es. della donna che prende il sole a seno nudo). L’elemento normativo risulta, inoltre, indeterminato in quelle fattispecie nelle quali il parametro valutativo, prima ancora di apparire non univoco, difetta di qualsiasi predeterminazione legislativa: si pensi, ad es., ad espressioni quali <sensibilità ed impressionabilità dell’adolescente>; fortemente indiziati di violazione del canone della tassatività erano anche, ad es., il reato di abuso innominato e di interesse privato in atti di ufficio.

10. Il principio di irretroattività

Il principio di irretroattività fa divieto di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in vigore. L’art. 11 delle disp. prel. stabilisce: <La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo>. Ma esso ha rango costituzionale solo in materia penalistica, ai sensi dell’art. 25, Cost., per il quale <Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso>. A livello di legislazione ordinaria il principio trova

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riconoscimento nell’art. 2 c.p.: i commi II e III appaiono ispirati al diverso principio della retroattività di una eventuale norma più favorevole, emanata successivamente. La ratio sottesa al principio codicistico è identica a quella che giustifica il riconoscimento costituzionale del principio di irretroattività: in entrambi i casi, infatti, all’ordinamento sta a cuore di garantire al singolo maggiori spazi di libertà. Inoltre, il principio di retroattività della legge più favorevole assume rilevanza ai sensi dell’art. 3 della Cost.: infatti, in termini di uguaglianza sostanziale, non sarebbe giusto punire qualcuno per un determinato fatto che non costituisce più reato (o che viene punito con sanzioni meno severe).Bisogna, infine, precisare che il divieto di retroattività ex art. 2 c.p. riguarda solo il diritto penale sostanziale e non anche quello processuale penale.

11. La disciplina dettata dall’art. 2 codice penale

Il primo comma dell’art. 2 stabilisce: <Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato>. Tale disposizione si riferisce al fenomeno della c.d. nuova incriminazione, che ricorre quando la legge introduce una nuova forma di reato. Inoltre, tale principio si traduce nell’espressione latina nullum crimen, nulla poena sine <praevia> lege penali. Il secondo comma dell’art. 2 dispone: <Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali>. La norma allude al fenomeno dell’abolizione di incriminazioni prima esistenti. Il fondamento della norma è evidente: se l’abrogazione di un illecito penale costituisce il risultato di una valutazione di compatibilità tra il comportamento incriminato e l’interesse collettivo, sarebbe contraddittorio e irragionevole continuare a punire l’autore di un fatto ormai tollerato dall’ordinamento giuridico. Può accadere, tuttavia, specie in tempi di intensa riforma legislativa, che una legge penale successiva, lungi dal limitarsi ad abrogare una disposizione incriminatrice preesistente, ne <riformuli> il contenuto mediante la sostituzione degli elementi costitutivi o l’aggiunta di nuovi. Bisogna, a tal punto, fissare i criteri che presiedono alla individuazione del fenomeno <successione di leggi penali nel tempo>. Secondo un primo orientamento, sostenuto dalla dottrina tedesca, si ha successione allorché nel passaggio dalla vecchia alla nuova norma permane <la continuità del tipo di illecito>: si utilizzano in proposito come parametri di valutazione sia l’interesse protetto, sia le modalità di aggressione del bene. Tuttavia, tale criterio presta il fianco a due tipi di obiezioni. Ad intenderlo in senso stretto, le due condizioni summenzionate si verificherebbero solo nel caso di perfetta identità del fatto di reato. A concepirla in senso lato, la tesi finisce per risultare di incerta applicazione, perché fondata non solo su apprezzamenti di valore opinabili, ma anche sull’indeterminatezza del peso rispettivamente attribuibile al criterio del bene e a quello delle modalità aggressive del fatto. Altro criterio è quello facente leva su di un <rapporto di continenza> tra la nuova e la vecchia fattispecie: occorre cioè un rapporto strutturale tra le fattispecie astrattamente considerate, tale per cui possa tra le stesse instaurarsi una relazione di genere a specie. Ciò sicuramente si verifica quando la fattispecie successiva sia pienamente contenuta nella precedente: il che tipicamente avviene quando la norma posteriore sia speciale rispetto ad una precedente di contenuto più generico. Ma, allo scopo di evitare applicazioni troppo anguste del criterio in esame, parte della dottrina ammette il rapporto di continenza, e quindi la successione di leggi, anche nel caso in cui la norma successiva ampli il contenuto di una precedente più specifica.

12. (segue) Successione di leggi e applicabilità della disposizione più favorevole al reo

Il IV comma dell’art. 2 stabilisce: <Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata

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pronunciata sentenza irrevocabile>. La disposizione introduce il principio della retroattività della norma più favorevole al reo: fondamento del principio è la garanzia del favor libertatis. Tale principio è indirettamente ricollegabile anche al principio costituzionale di uguaglianza, che impone di evitare ingiustificate o irragionevoli disparità di trattamento.Il fenomeno della successione di leggi in senso più favorevole al reo investe anche il piano del trattamento sanzionatorio latu sensu inteso, riferito cioè non solo al tipo e alla misura della sanzione, ma anche al regime giuridico della procedibilità. Si pensi, ad es., al reato di pascolo abusivo (art. 636) divenuto punibile solo a querela di parte per effetto dell’art. 96 della Legge di Modifiche al sistema penale (l. 689/1981): in applicazione dell’art. 2, co. IV, non saranno, dunque, più punibili i fatti di pascolo abusivi commessi prima dell’emanazione della legge su citata, rispetto ai quali non sia stata sporta querela. Per stabilire, poi, quando ci si trovi di fronte ad una disposizione più favorevole, occorre operare un raffronto tra la disciplina prevista dalla vecchia norma e quella introdotta dalla nuova e tale raffronto va effettuato in concreto: cioè non paragonando le astratte previsioni normative, ma mettendo a confronto i rispettivi risultati dell’applicazione di ciascuna di esse alla situazione concreta oggetto di giudizio. Ad es., se la vecchia legge prevede un massimo di pena più elevato ed un minimo più ridotto e la nuova, invece, introduce un massimo più mite ed un minimo più rigoroso, si applicherà la prima legge o la successiva a seconda rispettivamente che il giudice intenda applicare al caso concreto una pena edittale minima o massima. L’art. 14 della legge 85/2006 ha aggiunto un nuovo III comma all’art. 2, per il quale <Se vi è stata una condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 135>.

13. Successione di leggi integratrici di elementi normativi della fattispecie criminosa (modifiche cosiddette mediate della fattispecie incriminatrice)

Si discute se, e in quali limiti, la disciplina di cui all’art. 2 sia applicabile alle modifiche normative che non incidono direttamente sugli elementi costituitivi della fattispecie incriminatrice, ma che vi incidono in maniera solo <indiretta> o <mediata> (es. del soggetto falsamente accusato di essere partigiano durante la Rep. di Salò). Problemi analoghi sorgono, ad es., ove venga eventualmente abrogato il delitto per la cui realizzazione sia stata costituita una associazione a delinquere. La soluzione del problema è controversa, essendo in dottrina e giurisprudenza registrabili vari orientamenti. Secondo un orientamento descrittivo, prevalente in dottrina, la disciplina dell’abolitio criminis (art. 2, co. II) è inapplicabile al caso di abrogazione di norme integratrici di elementi normativi: infatti, la legge abrogatrice non introdurrebbe alcuna differente valutazione dell’astratta fattispecie incriminatrice e del suo disvalore, ma eliminerebbe dall’ordinamento disposizioni penali o extrapenali che si limitano ad influire nel singolo caso sulla concreta applicabilità della norma incriminatrice stessa. Secondo un altro orientamento, per così dire mediano, occorre invece distinguere a seconda che l’elemento normativo in questione sia o non in grado di incidere sulla portata e sul disvalore astratto della fattispecie incriminatrice, condizionandone l’ampiezza con riferimento sia alla descrizione del tipo di reato, sia ai soggetti attivi. Così, ad es., nel reato di calunnia il disvalore astratto del reato permarrebbe, perché la falsa incolpazione continuerebbe a mantenere il suo significato offensivo anche dopo che sia stato abrogato il reato oggetto di incolpazione. A ben vedere, essendo difficile stabilire con certezza in quali casi la modifica mediata incida realmente sulla fattispecie incriminatrice astratta, appare preferibile la tesi più estensiva che riporta alla disciplina dell’art. 2 tutte le ipotesi fin qui considerate. Questo perché la disposizione integratrice, nella misura in cui contribuisce a disciplinare i presupposti normativi della rilevanza penale del fatto, finisce col far corpo con la norma incriminatrice. La disciplina dell’art. 2 viene altresì in gioco quando la variazione abbia ad

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oggetto una norma integratrice di natura non solo extrapenale, ma anche extragiuridica (si pensi al mutamento del parametro sociale alla cui stregua va valutata la <oscenità> di un comportamento).

14. Successione di leggi temporanee, eccezionali e finanziarie

Ai sensi dell’art. 2, co. V, il principio della retroattività in senso più favorevole al reo è inoperante rispetto alle leggi temporanee ed alle leggi eccezionali. Sono eccezionali quelle leggi, il cui ambito di operatività temporale è segnato dal persistere di uno stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori dall’ordinario (guerre, epidemie, terremoti, ecc...); sono <temporanee> le leggi, rispetto alle quali è lo stesso legislatore a prefissare un termine di durata. Analoga disciplina era dettata dall’art. 20 della legge 4/1929 rispetto alle norme che reprimono le violazioni delle leggi finanziarie: <Le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione>. Il fondamento di tale disciplina derogatrice, ravvisato dalla Corte costituzionale nell’interesse primario alla riscossione dei tributi, non era così decisivo da far ritenere giustificata la disparità di trattamento che ne conseguiva, alla stregua dell’art. 3 Cost.: infatti, vi erano non pochi interessi dotati di rilevanza costituzionale anche superiore a quello tributario, per la cui tutela non era invece prevista alcuna deroga al principio della retroattività della legge più favorevole. Senonchè l’art. 20 citato è stato di recente abrogato, per cui i commi II e IV dell’art. 2 c.p. in atto si applicano anche nel caso di successione di leggi penali finanziarie.

15. Decreti – legge non convertiti

L’art. 2, co. VI, stabilisce: <Le disposizioni di questo articolo si applicano anche nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto – legge e nei casi di un decreto – legge convertito in legge con emendamenti>. Il legislatore costituente, quindi, preoccupato di subordinare l’efficacia legislativa dei provvedimenti urgenti del Governo all’approvazione del Parlamento, ha introdotto l’opposto principio della cessazione ex tunc degli effetti del decreto non convertito (art. 77 Cost.). Ne consegue che, nell’ipotesi di decreti non convertiti che eventualmente introducano, modifichino o abroghino fattispecie penali preesistenti, viene meno la possibilità stessa di configurare una successione di leggi penali nel tempo. Perplessità sorgono per l’ipotesi di decreti – legge non convertiti che dispongano delle modifiche più favorevoli per il reo. Si pensi ad un decreto – legge che abroghi una incriminazione preesistente: si dovrebbe pervenire alla conclusione che un fatto non costituente reato, tornerebbe a costituire reato dopo la caducazione del decreto – legge, il che è inaccettabile. Invero, il principio di irretroattività della legge penale incriminatrice o più sfavorevole, sancito dall’art. 25, co. II Cost., non può mai essere derogato, a garanzia del ruolo primario spettante al favor libertatis, quindi anche le esigenze di cui all’art. 77 Cost. devono restare subordinate a detto principio. Tale tesi potrebbe apparire in contrasto con l’orientamento della Corte costituzionale che nella sent. n. 51 del 1985 ha dichiarato illegittimo il comma VI dell’art. 2 per violazione dell’art. 77 Cost. nella parte in cui rendeva applicabili le disposizioni di cui ai co. II e IV ai casi di mancata conversione di un decreto – legge recante norma penale abrogatrice o più favorevole; tuttavia, l’effettiva portata della sentenza sfugge se non si considera la motivazione della Corte secondo cui tale illegittimità va circoscritta solo ai casi in cui esso renderebbe applicabile il decreto non convertito ai fatti <pregressi>, commessi cioè anteriormente alla sua entrata in vigore.

16. Leggi dichiarate incostituzionali

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L’art. 136 Cost. stabilisce che <quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione>. Una prima interpretazione di tale articolo fu che la dichiarazione di incostituzionalità di una legge produceva ex nunc la cessazione di efficacia, e quindi era perfettamente possibile la successione di leggi tra una legge antecedente e una posteriore successivamente dichiarata incostituzionale. Tuttavia, tale interpretazione portava ad un inconveniente: in un ordinamento in cui l’eccezione di costituzionalità presuppone la concreta rilevanza della questione in un giudizio pendente, sarebbe venuto meno lo stesso interesse ad adire la Corte costituzionale se la invalidazione di una legge dichiarata incostituzionale non ne avesse fatto cessare gli effetti anche rispetto ai rapporti maturati prima della sentenza di accoglimento.Il riesame della questione ha condotto alla legge 87/1953, che all’art. 30 dispone: <Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando, in applicazione della norma dichiarata incostituzionale, è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali>.

17. Sindacato di costituzionalità sulle norme penali <di favore>

L’esigenza di rispettare il principio di irretroattività in materia penale pone problemi di limiti al sindacato di costituzionalità delle leggi penali c.d. di favore: infatti, l’effetto della pronuncia di incostituzionalità potrebbe essere quello di far rivivere una precedente norma più sfavorevole al reo, sino a renderla applicabile ad un fatto commesso sotto il vigore della norma denunciata. La prevalente giurisprudenza della Corte è incline ad ammettere l’impossibilità che una eventuale sentenza di accoglimento possa produrre un effetto pregiudizievole per l’imputato nel processo penale pendente innanzi al giudice a quo. Tuttavia, tale tendenza è stata più volte superata perchè la Corte ha affermato che il favor libertatis, riconosciuto dall’art. 25, co. II Cost., non può impedire il sindacato di costituzionalità sulle leggi penali anche di favore, <a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Cost., all’interno delle quali la legislazione ordinaria diventerebbe incontrollabile>. Bisogna, tuttavia, sottolineare come la Corte rischi di arrogarsi il potere di compiere valutazioni di merito per loro natura spettanti al legislatore: è questi che deve, infatti, decidere cosa debba essere incriminato, in che limiti e se vi siano eventuali situazioni da sottrarre alla sfera del penalmente rilevante. Quindi, il sindacato della Corte è da ritenere ammissibile solo a due condizioni: cioè quando, una volta accertato che la scelta legislativa è in linea di principio quella di penalizzare un certo tipo di condotte, appaia palesemente arbitraria, alla stregua del principio di uguaglianza, una eventuale discriminazione nel trattamento punitivo delle condotte appartenenti allo stesso tipo.

18. Tempo del commesso reato

Per il tempus commissi delicti, la dottrina ha prospettato tre criteri: 1) la teoria della condotta, la quale considera il reato commesso nel momento in cui si è realizzata l’azione o l’omissione; 2) la teoria dell’evento, per cui il reato è commesso quando si verifica il risultato lesivo causalmente riconducibile alla condotta e necessario ai fini della compiuta configurazione dell’illecito; 3) la teoria mista, che guarda sia all’azione che all’evento, nel senso che il reato si considera indifferentemente commesso quando si verifichi l’uno o l’altro estremo.Con riguardo alla tematica della successione di leggi penali nel tempo, occorre riprendere le mosse dalla ratio dell’art. 2. Facendo leva sul fondamento della norma, si concorda nel respingere sia la teoria dell’evento che

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quella mista: la prima perché porterebbe ad un’applicazione retroattiva della legge penale in tutti i casi in cui la condotta si sia svolta sotto il vigore di una precedente legge e l’evento si sia verificato dopo l’introduzione di una nuovo norma incriminatrice; la seconda perché non sembra ragionevole considerare commesso un reato indifferentemente sotto la vigenza di due norme incriminatrici diverse. Non resta, dunque, che il criterio della condotta. Tuttavia, tale criterio si atteggia in maniera differente in dipendenza delle diverse tipologie delittuose. In particolare, la determinazione del tempus commissi delicti crea problemi nei reati causalmente orientati c.d. a forma libera, nei quali manca la tipizzazione legislativa delle specifiche modalità di realizzazione dell’evento lesivo. In proposito occorre distinguere a seconda che si tratti di reati dolosi o colposi: nel primo caso, il tempus commissi delicti coincide con la realizzazione dell’ultimo atto sorretto dalla volontà colpevole; nel secondo caso, con la realizzazione di quell’atto che per primo dà luogo ad una situazione di contrarietà con regole di diligenza, prudenza, ecc... .Nei reati c.d. di durata si registrano diverse opinioni. Cominciando dal reato permanente, la tesi prevalente in dottrina e giurisprudenza fissa il tempo del commesso reato nell’ultimo momento di mantenimento della condotta antigiuridica; tuttavia, tale orientamento comporta il rischio che possa essere applicabile una legge penale più sfavorevole che, eventualmente emanata poco prima della cessazione della permanenza, aggravi il trattamento penale del reato permanente. Per questo, sembra preferibile la tesi minoritaria secondo cui il tempo del commesso reato va individuato nel primo atto della sequenza. Un discorso analogo vale per il reato abituale. Quanto al reato continuato, esso non rappresenta nell’ottica della successione di leggi un fatto unitario: ci si trova piuttosto in presenza di un concorso materiale di reati, ciascuno dei quali presenta un proprio tempus commissi delicti. Nei reati omissivi , infine, si fa riferimento al momento in cui scade il termine utile per realizzare la condotta doverosa.

19. Divieto di analogia

L’analogia consiste in un processo di integrazione dell’ordinamento attuato tramite una regola di giudizio ricavata dall’applicazione dell’ipotesi di specie, non regolata espressamente da alcuna norma, di disposizioni regolanti casi o materie simili: presupposto di tale procedimento integrativo è la presenza della stessa ratio. L’art. 14 delle disp. prel. esclude la possibilità di ricorrere all’analogia nel caso di leggi eccezionali e di leggi penali. Ma, nonostante il silenzio del legislatore costituente, il divieto di analogia deve ritenersi anche implicitamente costituzionalizzato? Ovviamente la risposta è affermativa, se si considera che il criterio ispiratore a tale divieto obbedisce alla medesima ratio di garanzia della libertà del cittadino in generale sottesa al nullum crime sine lege. Tuttavia, non sempre si riesce a distinguere il fenomeno dell’analogia dall’interpretazione estensiva. In realtà, l’interpretazione estensiva diventerebbe analogia nel momento in cui la soluzione proposta non rientri in ogni caso nell’ambito dei possibili significati letterali dei termini impiegati dal legislatore nel testo. Nonostante la dottrina maggioritaria non dubita della legittimità dell’interpretazione estensiva, bisogna far conto di alcune riserve. In primis, il rispetto del carattere frammentario del diritto penale impedisce che si forzino i limiti di tipicità prefissati dal legislatore. In secundis, si ricade sicuramente nel divieto di analogia nel momento in cui l’opzione ermeneutica va al di là della massima estensibilità interpretativa del testo di legge (caso 10). Proprio la difficoltà di trovare un confine certo tra interpretazione estensiva e analogia, ha portato la giurisprudenza a contrabbandare per interpretazioni estensive forme più o meno occulte di applicazione analogica. Secondo la Cassazione, poi, la differenza tra i due aspetti sarebbe la seguente: <l’interpretazione estensiva mantiene il campo di validità della norma entro l’area di significanza dei segni linguistici coi quali essa si esprime, mentre l’analogia estende tale

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validità nell’area di similarità della fattispecie considerata dalla norma>. Il divieto di analogia è inoltre violato nei casi in cui il legislatore utilizza tecniche di tipizzazione accompagnate dall’aggiunta di formule di chiusura quali <in casi simili>, <in casi analoghi>, ecc..., non riempibili mediante l’applicazione di un criterio univoco legislativamente prefissato. Controversa è, tuttavia, la portata del divieto di analogia. Secondo la dottrina minoritaria, questo divieto sarebbe assoluto e quindi applicabile sia alle norme incriminatrici che a quelle di favore, per rispettare l’esigenza di certezza. Secondo la dottrina maggioritaria, invece, tale divieto è da contemperare con il disposto dell’art. 25, co. II della Cost. che sancisce il primato della libertà del cittadino: quindi sarebbe legittima una applicazione analogica che abbia come obiettivo quello estendere la portata delle norme più favorevoli al reo. Tuttavia, bisogna contemperare tale orientamento con l’art. 14 delle preleggi. Quindi, l’utilizzo dell’analogia nei casi di norme penali favorevoli al reo, è comunque non consentito nell’ipotesi in cui ci si trova di fronte ad una norma eccezionale. Quest’ultima è una norma in cui viene introdotta una deroga, rispetto a casi particolari, alla efficacia potenzialmente generale di una o più disposizioni. L’analogia, poi, risulta inammissibile rispetto: a) alle c.d. immunità, le quali derogano al principio della generale obbligatorietà della legge penale rispetto a tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato; b) alle cause di estinzione del reato e della pena, che derogano alla normale disciplina dell’illecito penale e delle conseguenze sanzionatorie; c) alle cause speciali di non punibilità, che rispecchiano valutazioni politico criminali legate alle caratteristiche specifiche della situazione presa in considerazione e perciò estensibili ad altri casi. Infine, rispetto alle circostanze attenuanti, il problema dell’applicabilità dell’analogia appare privo di importanza pratica in seguito all’introduzione delle c.d. attenuanti generiche

CAPITOLO 3- L’INTERPRETAZIONE DELLE LEGGI PENALI

1. Premessa

La locuzione <interpretazione della legge penale> designa il complesso delle operazioni intellettuali finalizzate all’individuazione del significato delle norme da applicare. In tal senso, l’interpretazione va, innanzitutto, intesa come attività conoscitiva di natura strumentale. Ma il termine interpretazione si presta, altresì, ad indicare il risultato conseguito attraverso l’attività interpretativa medesima, identificandosi così con la scelta compiuta dall’interprete circa il senso da attribuire ad una determinata norma.

2. Classificazioni dell’interpretazione in base ai soggetti tipici

In base alla fonte soggettiva dalla quale promana, l’interpretazione viene distinta in <autentica>, <ufficiale>, <giudiziale> e <dottrinale>. Si definisce autentica quell’interpretazione emanata dallo stesso organo che ha prodotto la norma: ad es., legge interpretativa di altra legge. Per interpretazione ufficiale si intende l’attività ermeneutica svolta dai pubblici funzionari dello Stato nell’ambito delle competenze istituzionali: ad es., circolari ministeriali, pareri consultivi, ecc... . L’interpretazione giudiziale è quella tipicamente effettuata dai giudici nell’emanare sentenze. Per interpretazione dottrinale, infine, è da intendere quella realizzata dagli studiosi di diritto nelle opere di dottrina. Quest’ultima riesce ad influenzare il diritto solo grazie alla sua intrinseca forza persuasiva.

3. Le ragioni della <problematicità> del vincolo del giudice alla legge penale

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L’esigenza di evitare l’arbitrio giudiziale è stata particolarmente avvertita nell’ambito del pensiero illuministico, che ha esaltato il vincolo del giudice alla legge quale naturale corollario del principio della divisione dei poteri. Per Montesquieu: <Les juges ne sont que la bouche qui prononce les paroles de la loi>. La convinzione dell’assoluto primato della legge ha, per molto tempo, caratterizzato anche un certo positivismo giuridico di marca tradizionale. L’idea positivistica del giudice mero esecutore della volontà legislativa, peraltro, continua a far parte del bagaglio culturale della nostra giurisprudenza. Ma è lecito chiedersi: questa professione di fede positivistica fino a che punto corrisponde al reale modo di operare dei giudici? In realtà, il giudice come bocca della legge è ormai una pura illusione. A dispetto dell’antico brocardo in claris non fit interpretatio, anche la formula legislativa apparentemente più chiara abbisogna di interpretazione, giacché ciò che veramente conta per il giudice non è il semplice significato linguistico di una disposizione, ma l’obiettivo di tutela che con essa il legislatore intende perseguire. Inoltre, è evidente che anche la tecnica legislativa va incontro agli stessi limiti oggettivi inerenti all’uso del linguaggio: i segni linguistici non sempre riescono a riflettere tutte le sfaccettature dei dati reali simboleggianti, per cui è inevitabile un certo scarto tra linguaggio e realtà. L’esigenza di un’indagine ermeneutica, che non si limiti ad una meccanica riproduzione del significato letterale del testo normativo, è del resto imposta dalla stessa natura del procedimento di sussunzione del caso concreto nella norma generale astratta. La scelta ermeneutica finale rappresenta il risultato di una sorta di mediazione tra norma astratta e caso concreto. Inoltre, sapendo che le disposizioni normative sono spesso carenti di un significato univocamente determinabile, ci fa capire perché l’atto interpretativo difficilmente possa ridursi a operazione ideologicamente neutra. Negli ultimi lustri, l’incidenza delle pregiudiziali politico – ideologiche sull’attività interpretativa è diventata più di frequente visibile anche nell’ambito del diritto penale. Ovviamente, una cosa è ammettere il momento creativo insito nell’attività intesa a svelare il contenuto della legge, altra cosa è legittimare il principio di una libera creazione del diritto da parte dei giudici.

4. La lettera della legge e l’intenzione del legislatore

L’art. 12 delle preleggi dispone: <Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro significato che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore>. La norma fornisce all’operatore due criteri: il significato proprio delle locuzioni legislative e l’intenzione del legislatore. A parte i limiti intrinseci ai due canoni in questione, la maggiore debolezza dell’art. 12 è il non aver specificato una gerarchia tra i due criteri. L’assenza di sicuri punti di riferimento legislativi induce, quindi, a ricercare i criteri di orientamento nelle teorie dell’interpretazione via via elaborate dalla dottrina.

5. I tradizionali canoni ermeneutici

L’elaborazione tradizionale tramanda uno strumentario articolato complessivamente in un insieme di canoni interpretativi così riassumibili: a) criterio semantico, b) criterio storico, c) criterio logico – sistematico, d) criterio teleologico.Il canone semantico, tradizionalmente detto grammaticale, tende ad individuare il senso della norma facendo leva sul significato lessicale dei termini utilizzati nella formula legislativa. Nonostante sia un punto di partenza imprescindibile, il riferimento al linguaggio comune non sempre, tuttavia, offre un orientamento sicuro. Si è già accennato come nel linguaggio concreto i termini spesso presentino uno spazio semantico <aperto>, per cui spetta all’interprete operare una scelta tra i possibili diversi significati di una parola. Inoltre, il linguaggio legislativo, in non pochi casi, adotta termini tecnico – giuridici che non appartengono al linguaggio

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comune, ma che danno vita ad un linguaggio specialistico. Ovviamente, in presenza di concetti tecnico – giuridici o più genericamente tecnici, il significato specialistico deve prevalere su quello comune. Il criterio storico mira a ricostruire la volontà espressa dal legislatore al momento dell’emanazione della norma. Secondo i sostenitori del primato di tale criterio, vi sarebbe maggiore coerenza con il principio di separazione dei poteri. Senonché, lo stesso concetto di volontà storica si presta ad essere inteso almeno in due sensi. Da un lato, come volontà soggettiva del legislatore del tempo: tuttavia, questa concezione va incontro all’obiezione che, specie oggi, l’immagine di un legislatore personificato è una pura figura retorica che maschera un molteplicità di soggetti che non formano una corrente unitaria. La seconda accezione identifica la volontà del legislatore con la volontà storica obiettiva nella legge: in tal senso, l’indagine deve avere ad oggetto il contesto storico nel quale la legge si iscrive, i motivi obiettivi che hanno dato causa alla sua emanazione e il modello di disciplina che ha finito col trovare accoglimento nella norma. Tuttavia, ricostruire la volontà storica obiettiva è un’operazione difficile all’interno delle moderne democrazie pluralistiche. Beninteso, può riuscire utile consultare i c.d. lavori preparatori, ma è purtroppo un dato che non tutti i partecipanti al processo di legiferazione abbiano reale cognizione dell’oggetto di cui discutono. Inoltre, in un regime parlamentare come il nostro può anche accadere che ciascun gruppo politico approvi un certo testo di legge con la riserva mentale di poter poi invocare l’interpretazione più gradita o più conveniente. Pur con tutti i limiti appena accennati, il metodo storico, se utilizzato in via concorrente, resta uno strumento di grande utilità per l’interprete. Infine, l’interpretazione storica è preferibile con riguardo a norme emanate dal legislatore al preciso scopo di risolvere questioni degmatico – interpretative molto controverse. Il canone logico – sistematico coglie le connessioni concettuali esistenti tra la norma da applicare e le restanti norme, sia del sistema penale che dell’intero ordinamento. All’interno dell’ordinamento penale, ai fini dell’interpretazione di un elemento costitutivo di fattispecie può risultare necessario accertare il tipo di collegamento che lega l’elemento in parola ad altri elementi di altre fattispecie. Il nesso sistematico tra norme penali e norme extrapenali è evidente nei casi in cui la fattispecie contiene elementi normativi la cui determinazione implica il riferimento a norme extrapenali (es. l’altruità della cosa nel furto), ed è indispensabile per risolvere le ipotesi di conflitto scaturenti dalla presenza di cause di giustificazione. Si comprende, pertanto, come il criterio logico – sistematico miri sempre a garantire l’unità concettuale dell’ordinamento. Il criterio teleologico richiede uno sforzo da parte dell’interprete, il quale deve attualizzare il senso della norma, in base al più congruo scopo di tutela che ad essa può essere assegnato nel preciso momento in cui si procede all’atto interpretativo. Nell’ambito di questa ricognizione di scopi, assume un ruolo centrale la considerazione del bene o interesse protetto: bene considerato non già staticamente alla stregua dell’originaria volontà del legislatore storico, ma dinamicamente, nel senso che l’interprete è legittimato a sviluppare e portare alle estreme conseguenze le considerazioni di valore e gli obiettivi finalistici presi di mira al momento dell’emanazione della norma. Tale orientamento ha come vantaggio quello di includere nella sfera di operatività della norma anche fatti nuovi che non potevano costituire oggetto di previsione da parte dei compilatori della norma; ma ha come svantaggio quello di prestare il fianco ad interpretazioni legate a preferenze ideologiche o vedute personali dei singoli interpreti. Nella prospettiva di fondo di un’interpretazione orientata secondo gli scopi di tutela si colloca, in certa misura costituendone una sottospecie, la interpretazione c.d. orientata secondo le conseguenze, che cioè raccomanda all’interprete di scegliere la soluzione ermeneutica che provoca l’impatto più favorevole sul reo e/o sull’ambiente cui la decisione si rivolge.

6. Recenti sviluppi della teoria dell’interpretazione

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I più recenti sviluppi della teoria dell’interpretazione sfociano in un comune risultato: viene sempre più posto in crisi l’assunto secondo cui l’interpretazione e l’applicazione della legge poggerebbero su di un atto di pressoché meccanica sussunzione logica del caso concreto nella norma astratta. Mentre esiste un nucleo centrale riscontrabile con certezza nei casi che ricorrono più frequentemente, residuano incertezze ai margini allorché il termine generale in questione debba essere applicati ai casi nuovi o meno evidenti di quelli che corrispondono alla prassi più diffusa. Si pensi al divieto di introdurre <veicoli> in un parco: nel termine <veicolo> rientrano di certo l’auto o il camion, ma dubbi sussistono circa la bicicletta o un’auto giocattolo. La stessa ratio di tutela talvolta si chiarisce proprio sulla base delle caratteristiche del caso concreto, come avviene nel caso precedente. Se si muove dalla premessa che l’originario scopo di tutela del divieto di introdurre veicoli in un parco è quello di preservare la quiete del luogo, questo scopo di tutela resta ancora troppo generico per poter stabilire con certezza se l’introduzione di una bicicletta sia in grado di minacciare il bene protetto. Ecco che il riferimento al caso concreto serve al giudice per determinare meglio lo scopo di tutela. È un dato ormai definitivamente acquisito, l’impossibilità di ridurre l’interpretazione e l’applicazione della legge penale a un mero sillogismo logico. Viene quindi richiesta anche una certa creatività all’interprete che, d’altro canto, ha come limite il principio di legalità. Questo si estrinseca nella circoscrizione dello spazio entro limiti corrispondenti al significato letterale, sia pure teso all’estremo, del testo di legge. Nell’esempio del veicolo, l’interprete è senza dubbio legittimato a farvi rientrare, nel termine, anche le biciclette, ma non è altrettanto legittimato per quel che concerne le automobili giocattolo: ancorché si tratti di un mezzo capace di recare disturbo, una macchina giocattolo non rientra tra i mezzi di trasporto linguisticamente riconducibili al termine veicolo. In caso contrario, ci si troverebbe di fronte ad una vera e propria interpretazione analogica. La messa in crisi delle vecchie concezioni positivistiche dell’interpretazione è stata provocata dall’esigenza di evitare applicazioni eccessivamente formalistiche delle norme: applicazioni che trascurano, cioè, l’effettiva congruenza tra i casi concreti e gli scopi di tutela perseguiti dal legislatore. Ciò ripropone il problema dei limiti di ammissibilità di una interpretazione estensiva in diritto penale. Invero, la dottrina prevalente considera ormai scontata la legittimità di una interpretazione estensiva delle stesse norme penali, facendo leva sul rilievo che l’esigenza di proteggere i beni giuridici deve prevalere sull’ossequio al tenore letterale delle norme. A ben vedere, il complesso dei principi che concorrono a delineare l’attuale volto del sistema penalistico, e cioè l’idea del diritto come estrema ratio, i criteri di sussidiarietà, meritevolezza della pena e frammentarietà, non possono non avere una ulteriore proiezione sull’attività interpretativa, almeno sotto un triplice profilo: a) innanzitutto, per escludere dall’area del penalmente rilevante comportamenti che non raggiungono la soglia minima di offensività; b) in secondo luogo, per evitare di estendere, in violazione del principio di frammentarietà, la tutela nei confronti di forme di aggressione al bene protetto non espressamente tipizzate nella fattispecie incriminatrice; c) in terzo luogo, per scegliere comunque, tra le diverse interpretazioni possibili, quelle più rispettose della concezione del diritto penale come estrema ratio.

CAPITOLO 4- AMBITO DI VALIDITÀ SPAZIALE E PERSONALE DELLA LEGGE PENALE

Sezione I – Ambito di validità spaziale della legge penale

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1. I principi che presiedono all’applicazione della legge penale nello spazio: premessa

Per determinare l’ambito si applicazione della legge penale nello spazio sono prospettabili quattro principi: 1) territorialità, per il quale la legge nazionale si applica a chiunque delinque nel territorio dello Stato; 2) difesa o tutela, che rende applicabile la legge dello Stato cui appartengono i beni offesi o cui appartiene il soggetto passivo del reato; 3) universalità, in virtù del quale la legge nazionale si applica a tutti i delitti ovunque e da chiunque commessi; 4) personalità, che fa riferimento allo Stato di appartenenza del reo. Da un esame del nostro ordinamento, sembra potersi desumere che nessuno dei principi sopra elencati predomini in modo assoluto.La prevalenza, nel passato, del principio di territorialità è venuta meno per reprimere quelle forme criminali che investono un carattere transnazionale. Attraverso il ricorso, sempre più frequente, allo strumento delle Convenzioni internazionali, infatti, anche l’ordinamento penale italiano tende a concedere crescente spazio al principio di universalità, con conseguente incremento dei casi di punibilità di delitti commessi all’estero. Ulteriore passo avanti è rappresentato dalla creazione di una Corte penale internazionale (Trattato di Roma 1998): nuovo organo competente a giudicare di alcuni crimini di rilievo internazionale.

2. Reati commessi nel territorio dello Stato: concetto di territorio

L’art. 6, co. I, afferma che è punito secondo la legge italiana <chiunque commette un reato nel territorio dello Stato>. La nozione di territorio è fornita dall’art. 4: <agli effetti della legge penale è territorio dello Stato il territorio della Repubblica e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato, le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera>. È da precisare che il territorio dello Stato è costituito dalla superficie terrestre compresa nei suoi confini politico – geografici, nonché dal mare costiero e dallo spazio aereo. Il mare territoriale italiano si estende per 12 miglia marine dalla linea costiera e dalle linee rette che uniscono i promontori; e lo spazio aereo incontra il suo limite nella zona c.d. ultratmosferica, cioè sovrastante l’atmosfera terrestre. Ovviamente, fa parte del territorio statale anche il sottosuolo fino alle profondità raggiungibili con l’impiego di mezzi meccanici, rispetto alle quali è perciò possibile l’esercizio di un’effettiva sovranità. Un concetto convenzionale di territorio vale, invece, per le navi e gli aeromobili, che si considerino come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, ad una legge territoriale straniera. L’applicabilità di tale principio, detto della bandiera, è incondizionata per le navi e gli aeromobili di Stato, mentre per quelli privati è limitata alle ipotesi in cui essi si trovino in alto mare, o gli eventuali fatti verificatesi a bordo non producano alcuna conseguenza esterna nei confronti dello Stato rivierasco.

3. (segue) Locus commissi delicti

Art. 6, co. II: <Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione od omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, o si è verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione> (c.d. principio della ubiquità). Controversa è la formula <azione od omissione in parte avvenuta in Italia>: ci si chiede, cioè, se la parte di azione od omissione debba o no integrare gli estremi del tentativo punibile; è da preferirsi la tesi negativa perché l’art. 56 presuppone che <l’azione non si compia o l’evento non si verifichi>, mentre l’art. 6, co. II, prevede ipotesi delittuose che pervengono allo stadio di reato consumato. Agli effetti

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dell’art. 6, co. II, la parte o frazione di azione deve rappresentare un anello essenziale della condotta conforme al modello criminoso. L’accoglimento del principio dell’ubiquità comporta, in tema di concorso di persone, che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato sia quando l’azione venga iniziata all’estero e proseguita in Italia, sia quando, pur essendo il reato commesso completamente all’estero, un qualsiasi atto di partecipazione sia compiuto in Italia.

4. Reati comuni commessi all’estero

Gli artt. 7, 9 e 10 c.p. contemplano diverse ipotesi di reati comuni commessi all’estero. a) Alcuni reati, commessi all’estero, non importa se da un cittadino o straniero, vengono puniti incondizionatamente secondo la legge italiana. È il caso, ai sensi dell’art. 7, dei seguenti delitti: 1) contro la personalità dello Stato, 2) di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto, 3) di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano, 4) commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti le loro funzioni, 5) nonché di ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana. b) L’art. 9 disciplina i delitti comuni commessi all’estero rispetto ai quali la punibilità è subordinata a determinate condizioni, e cioè: 1) che si tratti di delitto per il quale la legge italiana stabilisce l’ergastolo o la reclusione non inferiore al minimo a tre anni, 2) che il cittadino si trovi nel territorio dello Stato. È controverso se sia necessario che il reato commesso all’estero costituisca <reato> anche alla stregua della legislazione penale straniera. In base all’art. 9, co. II, ove si tratti di delitti punibili con una pena inferiore a tre anni, occorre, oltre alla presenza del reo nel territorio dello Stato, la richiesta del Ministro della Giustizia o l’istanza o la querela della persona offesa. c) L’art. 10 disciplina l’ipotesi dello straniero che commette all’estero delitti comuni a danno dello Stato o di un cittadino italiano, o a danno di uno Stato estero o di un cittadino straniero. Nelle prime due ipotesi, occorre che si tratti di delitto punito con la reclusione non inferiore ad un minimo di un anno, che il reo si trovi nel territorio dello Stato e che vi sia richiesta del Ministro della Giustizia o istanza o querela della persona offesa. Nei secondi due casi, è necessario, oltre alla presenza del reo nello Stato e alla richiesta del Ministro, che sia prevista per il delitto la pena dell’ergastolo o la reclusione nel minimo di tre anni, e che l’estradizione non sia stata concessa o accettata.

5. Delitto politico commesso all’estero: nozione

Art. 8: <Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato, o un diritto politico del cittadino. È altresì considerato politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici>. Il legislatore introduce un concetto molto ampio di delitto politico, in linea con l’ideologia fascista del tempo. Tale nozione si specifica in due sottospecie: delitto politico in senso oggettivo, ed in senso soggettivo. Il primo fa riferimento ai delitti contro un interesse politico dello Stato (inteso come popolo, territorio, indipendenza, ecc...), e ai delitti che offendono un diritto politico del cittadino. Il secondo è più controverso; problemi interpretativi ha suscitato la locuzione <delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici>, in particolare sulla distinzione tra delitto politico e delitto comune: il primo si riferisce a quel motivo del reato che determina la condotta in funzione di una concezione ideologica relativa alla struttura dei poteri dello Stato e sui rapporti Stato – cittadino, il secondo si riferisce al motivo che orienta la condotta dell’agente in funzione di una concezione della società che non necessariamente si riflette in maniera immediata sulla forma politica. Tuttavia, la determinazione concettuale del delitto politico è resa più complessa dalla

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contemporanea presenza di due norme costituzionali che, nel menzionare il delitto politico in rapporto sia all’estradizione (art. 26) sia al diritto di asilo (art. 10), non ne forniscono alcuna definizione: ci si chiede, allora se la nozione codicistica sia stata costituzionalizzata o se dalla Costituzione sia desumibile un concetto di delitto politico diverso ed autonomo. Subito dopo l’emanazione della Costituzione, è invero parso prevalere un orientamento incline a considerare costituzionalizzato il contenuto dell’art. 8; maturata, tuttavia, nel corso degli anni una diversa sensibilità costituzionale nei confronti della stessa materia penale, si è andato assistendo ad un mutamento di indirizzo, tanto che oggi è divenuta prevalente la tesi <autonomistica>, seppure espressa secondo diverse formulazioni.

Sezione II – Ambito di validità personale della legge penale

1. Premessa

La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano sul territorio dello Stato, e tutti coloro, cittadini o stranieri, che si trovano all’estero nei casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale (art. 3 c.p.). Il principio di obbligatorietà della legge penale deve considerarsi una proiezione del principio di uguaglianza. Agli effetti della legge penale, è considerato cittadino chi è in possesso dei requisiti previsti dalla legge per l’acquisto della cittadinanza; mentre straniero chi è legato da rapporto di cittadinanza con altro Stato, oppure apolide residente all’estero. L’art. 3 fa salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale: tali eccezioni vengono denominate immunità penali e definiscono un complesso di situazioni unificate dall’effetto finale della sottrazione al potere coercitivo dello Stato. Le immunità possono avere carattere assoluto (si riferiscono a tutti i reati) o relativo (sono riconosciute in costanza di carica e richiedono un’autorizzazione al procedimento penale da parte di organi diversi dal giudice ordinario). Si distinguono ancora le immunità di natura sostanziale, che sono riferite agli atti compiuti, alle opinioni espresse ed ai voti dati nell’esercizio di funzioni, dalle immunità processuali riferite agli atti compiuti fuori dall’esercizio delle funzioni, e perseguibili al momento della cessazione della carica.

2. Fonte giuridica dell’immunità: il diritto pubblico interno

Le immunità derivanti dal diritto pubblico interno mirano a garantire e proteggere non privilegi concernenti persone fisiche, ma prerogative riguardanti le funzioni esercitate e quindi valide solo nei limiti fissati tassativamente dalla legge. Tali immunità possono riassumersi nel modo seguente.1) Il Presidente della Repubblica, quale capo dello Stato, non è responsabile, ex art. 90 Cost., degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. Per gli atti non compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, il Presidente della Rep. è equiparato ad un comune cittadino e, come tale, sottoposto alla coercizione penale. La responsabilità penale del Pr. della Rep. è piena nel caso di alto tradimento o di attentato alla Costituzione: per tale reato egli è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri, e giudicato dalla Corte costituzionale integrata. Molto controversa è, tuttavia, la determinazione dei concetti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione.2) Il Presidente del Senato gode delle medesime immunità del Presidente della Repubblica.

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3) I membri del Parlamento, a norma dell’art. 68 Cost., <non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni>. Questa è un’immunità assoluta, riguardante l’ambito penale, civile e disciplinare: vi rientrano anche le interrogazioni, le interpellanze ed ogni altra attività compiuta nell’esercizio di funzioni derivanti dalla carica o comunque ad essa collegate, restandone fuori le opinioni manifestate in sede esterna e i comportamenti di carattere materiale. L’art. 3 della legge n. 140/2003 stabilisce che l’immunità debba applicarsi non solo alle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche, ma anche ad ogni altra attività, di ispezione, divulgazione, critica, denuncia politica, che sia comunque connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori dal Parlamento. La Corte ha poi precisato che l’uso del turpiloquio non rientra nell’esercizio delle prerogative parlamentari; di conseguenza, non può invocare l’immunità il deputato che dice di <usare la bandiera tricolore solo per pulirsi il culo>. È stato, poi, abolito l’istituto della c.d. autorizzazione a procedere (che subordinava a nulla osta del Parlamento la stessa sottoponibilità a procedimento penale). Il parlamentare gode comunque di altre prerogative; il nuovo art. 68, co. II Cost., stabilisce: <Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza>. Se l’esigenza di prevenire arbitrarie ingerenze della magistratura nell’esercizio dell’attività parlamentare resta a tutt’oggi pacifica, continua nondimeno ad apparire difficile bilanciare in modo equilibrato i contrastanti interessi in giuoco. Da questo punto di vista, neanche la modifica dell’art. 68 Cost. prospetta una soluzione appagante. Infatti, basta osservare che è insensato esigere che siano autorizzati atti a sorpresa, come perquisizioni o intercettazioni.4) I giudici della Corte costituzionale godono di immunità analoga a quella dei parlamentari, con l’esclusione però della prerogativa di cui al III co. dell’art. 68 Cost.; l’autorizzazione a procedere è data dalla stessa Corte costituzionale.5) I membri dei consigli regionali (art. 122, co. IV Cost.) e i membri del CSM (art. 5, legge n. 1/1981) godono solo della garanzia dell’irresponsabilità per opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.

3. (segue) Il diritto internazionale

Le immunità derivanti dal diritto internazionale sono riconosciute dall’ordinamento italiano in forza dell’art. 10, co. I Cost., che garantisce la conformità della nostra legislazione alle <norme del diritto internazionale generalmente riconosciute>. Tali immunità possono così essere riassunte. La persona del Pontefice è considerata sacra ed inviolabile; tale immunità è assoluta e viene riconosciuta non solo nella sua veste di Stato estero, ma anche nella sua “altissima” posizione spirituale di Capo della cristianità. I capi di Stato esteri e i Reggenti che si trovino in tempo di pace nel territorio dello Stato beneficiano di un’immunità totale, estesa anche al seguito e ai familiari. Il Presidente del Consiglio e i ministri per gli affari esteri godono di un’immunità per tutti i fatti commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Gli agenti diplomatici godono dell’immunità penale assoluta dello Stato accreditato e dell’esenzione da qualsiasi misura esecutiva, a norma della Convenzione di Vienna del 18 aprile 1961. Essi sono dichiarati inviolabili e non possono essere sottoposti ad alcuna forma di arresto e di detenzione. Il personale di rango inferiore delle rappresentanze diplomatiche gode, invece, di un’immunità funzionale. I funzionari internazionali godono della sola immunità funzionale per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni. I

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parlamentari europei godono sia della prerogativa dell’irresponsabilità, sia delle immunità riconosciute ai membri del Parlamento del loro Paese, nonché sul territorio di ogni Stato membro, dell’esenzione da ogni provvedimento di detenzione o da procedimenti giudiziali, per la durata delle sessioni dell’assemblea. Gli agenti diplomatici e gli inviati dei governi presso la c.d. Santa Sede godono delle stesse immunità degli agenti diplomatici presso lo Stato italiano.L’immunità sussiste anche per i giudici della Corte dell’Aja, e in misura più ridotta per i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo. Beneficiano ancora dell’immunità i membri e le persone al seguito delle forze armate della NATO di stanza nel territorio italiano che sono soggetti alle leggi e alla giurisdizione militare dello Stato di appartenenza. Godono, infine, di immunità i militari stranieri che si trovano, con previa relativa autorizzazione, nel territorio dello Stato.

4. Natura giuridica dell’immunità

Per determinare la natura giuridica dell’immunità, occorre individuare l’effetto tipico della situazione di immunità di volta in volta esaminata, nonché il contesto in cui essa si trova ad operare. Così in relazione all’effetto tipico, in tutti i casi in cui l’immunità di un soggetto è conseguenze dell’esercizio delle sue funzioni, non può seriamente contestarsi che si è in presenza di una causa di giustificazione. In altri casi, l’immunità va spiegata con il ricorso alla categoria dell’incapacità penale o processuale o, più semplicemente, va considerata come una forma di sottrazione alla potestà di coercizione penale. Con riferimento al contesto è, invece, possibile distinguere a seconda che si tratti di immunità funzionali di diritto interno o internazionale: nel primo caso, infatti, la tutela delle funzioni attiene ad interessi coessenziali all’integrità del nostro sistema e dunque prevalenti rispetto ad altri contro interessi; mentre nel secondo caso il riconoscimento dell’immunità discende dalla necessità di mantenere relazioni diplomatiche con Stati esteri, a garanzia di una pacifica convivenza tra i popoli.

CAPITOLO 5- NOZIONI DI TEORIA GENERALE DEL REATO

Sezione I – Concetti generali

1. Definizione formale di reato

Tradizionalmente si definisce reato <ogni fatto umano cui la legge ricollega una sanzione penale>. Questa definizione è di natura formale, limitandosi ad indicare i fatti che costituiscono reato per un determinato ordinamento positivo: il concetto di reato, infatti, è determinato solo in funzione delle conseguenze giuridiche che il legislatore riconnette ai fatti in questione. La definizione suddetta appare tuttavia insufficiente, poiché non tiene conto dei principi che la Costituzione prevede esplicitamente come propri della materia penale, alla stregua dei quali l’illecito penale presenta le seguenti caratteristiche: a) è di creazione legislativa perché, in omaggio al principio nullum crime sine lege, solo una legge in senso stretto può disciplinarne gli elementi costitutivi; b) è di formulazione tassativa perché la legge deve fissare con la maggiore determinatezza possibile i fatti costituenti reato; c) ha carattere personale. Tali caratteristiche differenziano l’illecito penale da quello civile: quest’ultimo, infatti, non rispetta necessariamente la riserva di legge, né si attiene al principio di tassatività (vedi le clausole generali), e conosce anche forme di responsabilità

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indiretta ed oggettiva. Maggiori affinità sono rinvenibili tra illecito penale ed amministrativo, specie in seguito alla legge n. 689/1981 dell’illecito c.d. depenalizzato per effetto della quale sono stati estesi a tale tipo di illecito alcuni principi fondamentali tradizionalmente propri della materia penale. La differenza, in realtà, dipende da due elementi: in primis, dalla natura della sanzione scelta dal legislatore (e cioè una sanzione amministrativa di carattere pecuniario), in secundis, dalla natura amministrativa del procedimento e dell’organo competente ad infliggere la sanzione medesima.

2. Il problema della definizione sostanziale di reato

La ricerca delle ragioni sostanziali che inducono a considerare criminoso un determinato comportamento è stata caratterizzata da un’interferenza tra delle tendenze <scientifiche>, latu sensu oggettive, e delle tendenze legate alle concezioni dello Stato e della società di volta in volta dominanti. È per questo che è risultato facile criticare molte delle principali definizioni sostanziali di reato via via proposte. È assai significativo che anche i più recenti approcci di tipo sociologico assumono l’esperienza sociale dei valori orientata secondo la Costituzione a criterio importante di selezione dei fatti che meritano, dal punto di vista sostanziale, la qualifica di reato. In realtà, l’ancoraggio al sistema costituzionale può rivelarsi a maggior ragione fruttuoso per chi oggi propenda verso una concezione teleologica dell’illecito penale e, dall’altro inclini a ricostruire gli scopi del sistema penale alla luce della Costituzione. Il reato va, dunque, definito come lesione o messa in pericolo di un bene giuridico, e, più precisamente, di un bene giuridico che appaia meritevole di protezione penalistica in base alle direttive di tutela potenzialmente vincolanti desumibili dalla Costituzione. Ma poiché l’esistenza di un bene bisognoso di protezione è presupposto necessario e non già sufficiente del ricorso alla pena, occorre altresì tener conto degli altri criteri: e cioè i principi di sussidiarietà e di meritevolezza di pena. Alla stregua di tali premesse, si può proporre del reato la seguente definizione sostanziale: è reato un fatto umano che aggredisce un bene giuridico ritenuto meritevole di protezione da un legislatore che si muove nel quadro dei valori costituzionali, sempreché la misura dell’aggressione sia tale da far apparire inevitabile il ricorso alla pena e alle sanzioni di tipo non penale non siano sufficienti a garantire un’efficace tutela.

3. (segue) Portata e limiti del c.d. principio di offensività

Se il significato ideologico del principio di offensività è ampiamente condiviso, essendo coerente il suo riconoscimento col rifiuto di incentrare il reato sulla pericolosità o sull’atteggiamento interiore dell’autore, ciò su cui si controverte riguarda: a) la costituzionalizzazione del principio o il suo fondamento giuridico – positivo a livello codicistico o di altre fonti ordinamentali, b) la sua valenza sia sul piano della astratta strutturazione legislativa dei fatti di reato, sia di quello della concreta interpretazione – ricostruzione delle fattispecie incriminatrici ad opera dell’interprete dottrinale e/o giurisprudenziale. Cominciando dalla prima questione, va premesso che manca nel nostro ordinamento una disposizione che enunci esplicitamente il principio di offensività, attribuendogli il ruolo di principio generale del diritto penale; ciò spiega la tendenza a concepire tale principio come immanente o implicito. Il primo tentativo è stato fatto attraverso l’interpretazione dell’art. 49, co. II (per il quale la punibilità è esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso). Tale tentativo interpretava tale articolo come se dicesse <non può esservi reato senza effettiva lesione o messa in pericolo di un bene giuridico>. Tale prospettiva è stata a volte anche accolta dalla giurisprudenza. Tuttavia, la possibilità di ravvisare nella disposizione suddetta la fonte normativa, a livello codicistico, della

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concezione realistica del reato ancorata al principio di offensività, è contestata da altra parte della dottrina sulla base di argomenti persuasivi; se la dottrina sul punto è divisa, non certo omogenea appare anche la giurisprudenza.A partire dagli anni ’70, si è individuata nella Costituzione la fonte legittimatrice del principio di offensività, prescegliendo come norme chiave gli art. 25, co. II e 27, co. I e III, e cioè quelle stesse disposizioni normative che hanno fornito l’appiglio per la formulazione della teoria costituzionalmente orientata del bene giuridico. Sulla base di tali disposizioni, la dottrina dominante è giunta ad affermare che in base ai fondamentali principi costituzionali in materia penale, il reato non può incentrarsi su di un atto di infedeltà all’autorità statale o sulla pericolosità soggettiva dell’autore; esso deve, piuttosto, consistere in un fatto socialmente dannoso, e cioè in un fatto oggettivamente lesivo di beni giuridici o interessi rilevanti. Il principio di offensività è, poi, suscettibile di essere considerato operante su un duplice piano. Da un alto, esso ambisce a fungere da criterio di conformazione legislativa dei fatti punibili, vincolando il legislatore a costruire i reati dal punto di vista strutturale come fatti che incorporano un’offesa a uno o più beni giuridici. Dall’altro, tale principio tende ad atteggiarsi a criterio giudiziario – interpretativo impegnando il giudice in sede applicativa a qualificare come reati solo fatti che siano idonei in concreto ad offendere beni giuridici. In entrambi i casi, tuttavia, sussistono delle difficoltà di tipo interpretativo. Il duplice ruolo del principio di offensività è da qualche tempo riconosciuto e ribadito dalla Corte costituzionale. Tuttavia, la stessa Corte tende a ridimensionare l’apparente assolutezza a fronte di giustificare esigenze di anticipazione di tutela: essa affievolisce, infatti, la portata del principio di offensività, ammettendo che non sono incompatibili con tale principio neppure le fattispecie di pericolo presunto o astratto, purché la scelta legislativa di simili modelli di incriminazione non sia irrazionale o arbitraria, ma si fondi su collaudate regole di esperienza.

4. Delitti e contravvenzioni

Il codice Rocco distingue i reati in delitti e contravvenzioni. In linea di principio, i primi rappresenterebbero le forme più gravi di reato, mentre le seconde quelle meno gravi. Storicamente, buona parte delle contravvenzioni costituiscono il risultato della recezione nel diritto penale dei c.d. illeciti di polizia, affidati prima dell’illuminismo alla competenza dell’Autorità amministrativa. Per molto tempo, la dottrina ha cercato di trovare una differenza sostanziale tra le due forme di reato, anche se spesso si è lasciata influenzare della concezioni politico – criminali di volta in volta dominanti. Secondo una concezione risalente al Beccaria, i delitti offenderebbero la sicurezza pubblica e privata mentre le contravvenzioni violerebbero solo leggi destinate a promuovere il pubblico bene; tuttavia, è facile obiettare che tale impostazione è ormai lontana dagli ordinamenti penali moderni. Secondo una concezione risalente a Rocco, le contravvenzioni sarebbero <azioni od omissioni contrarie all’interesse amministrativo dello Stato>, interesse che si riflette sia nell’attività della polizia, sia in quella della P.A. diretta a migliorare le condizioni del vivere civile. Tuttavia, tale criterio non tiene conto parallelamente alla crescente assunzione da parte dello Stato di funzioni interventistiche di ispirazione solidaristica, sono aumentate le ipotesi delittuose poste a tutela di interessi latu sensu amministrativi. Oggi, le due forme di reato, vengono distinte solo sulla base di un criterio qualitativo, che fa cioè riferimento alla maggiore o minore gravità. Tuttavia, la recente riforma dell’illecito depenalizzato, ha fatto ritornare di attualità la questione relativa all’individuazione di criteri sostanziali di distinzione tra delitti e contravvenzioni. Ci si chiede se non sia opportuno superare tale distinzione e spostare in blocco gli illeciti contravvenzionali nel settore degli illeciti puniti con sanzione pecuniaria amministrativa. Tuttavia, tale soluzione appare sconsigliabile poiché esistono degli illeciti posti in una situazione intermedia che, pur integrando i requisiti richiesti dalla qualificazione di delitto, non tollerano

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tuttavia la loro riduzione a mero illecito amministrativo per due ragioni: o perché la semplice sanzione amministrativa apparirebbe poco proporzionata rispetto al rango del bene protetto, oppure perché detta sanzione garantirebbe un’efficacia preventiva minore rispetto al ricorso alla sanzione penale. Nello stesso ordine di idee si colloca la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 5 febbraio 2006 che ha stabilito che il settore privilegiato della materia contravvenzionale dovrebbe circoscriversi a due categorie di illeciti: a) fattispecie di carattere preventivo – cautelare, che codificano regole di prudenza diligenza, perizia, ecc...; b) fattispecie concernenti la disciplina di attività sottoposte ad un potere amministrativo, in vista del perseguimento di uno scopo di pubblico interesse. Quanto all’indifferenza tra il dolo e la colpa, la circolare osserva che, nelle fattispecie a carattere preventivo – cautelare, la loro inosservanza è ugualmente significativa, quale che sia l’elemento psicologico che sorregge l’azione; mentre nelle fattispecie concernenti attività soggette a potere amministrativo, l’atteggiamento psicologico resta egualmente indifferente, poiché l’illiceità dipende da una valutazione operata dalla P.A. . Circa poi la non punibilità del tentativo, essa viene giustificata nelle fattispecie del secondo tipo, ciò che rileva penalmente non è un’azione diretta a realizzare l’attività sottoposta al potere amministrativo, ma proprio la realizzazione di quest’ultima attività. Tale circolare ha il merito di introdurre elementi di razionalizzazione per la scelta legislativa tra delitti e contravvenzioni. Sul piano del diritto sostanziale, il criterio più appagante di distinzione resta quello formale, facente leva sul diverso tipo di sanzioni. L’art. 39 c.p. stabilisce: <i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice>; l’art. 17 dispone che <le pene principali stabilite per i delitti sono l’ergastolo, la reclusione e la multa>, mentre <le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono l’arresto e l’ammenda>. Mentre i delitti richiedono, di regola, il dolo e la punibilità a titolo di colpa rappresenta l’eccezione, nelle contravvenzioni si risponde indifferentemente a titolo di dolo o colpa. Quanto al tentativo, esso è di regola configurabile solo nell’ambito dei delitti.

5. Il soggetto attivo del reato

Si definisce soggetto attivo o autore chi realizza un fatto conforme ad una fattispecie astratta di reato. Autore di un reato può essere solo una persona fisica, essendo ormai lontani i tempi in cui i processi si intentavano contro animali o cose. Parte della dottrina parla di capacità penale alludendo all’attitudine di tutte le persone a porre in essere un fatto rilevante per il diritto penale. Si parla di capacità alla pena (imputabilità), capacità alla misura di sicurezza (pericolosità sociale) e di immunità come incapacità di essere assoggettati a conseguenze penali. Quando un reato può essere commesso da chiunque, il fatto incriminato va sotto il nome di reato comune. Si parla, invece, di reato proprio quando il soggetto attivo deve essere in possesso di determinati requisiti o qualità che possono essere naturalistici (ad es. l’essere madre nel delitto di infanticidio) o giuridici. Queste ultime tipologie di reati sono andate aumentando nella legislazione penale complementare. I reati propri sono poi distinguibili a seconda chela qualifica del soggetto attivo rilevi ai fini della stessa qualificazione del fatto come reato (ad es. la condizione di fratello o ascendente che determina la punibilità dell’incesto), o del mutamento del titolo del reato (ad es. appropriazione indebita si trasforma in peculato se commessa da un pubblico ufficiale ai danni della P.A.).

6. Il problema della responsabilità penale delle persone giuridiche

Il nostro diritto positivo non conosce forme di responsabilità penale a carico delle persone giuridiche: societas delinquere non potest. Tuttavia, la presa d’atto del fatto che alcune tra le più

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gravi forme di criminalità economica sono vere e proprie manifestazioni di criminalità d’impresa o c.d. societaria, ha sollevato il problema del superamento dell’esclusione della responsabilità penale delle persone giuridiche. I maggiori inconvenienti della sopravvivenza di tale principio vengono alla luce con specifico riferimento a quei casi in cui l’illecito costituisce la conseguenze di precise scelte di politica d’impresa: per cui la mancata punizione dell’impresa si traduce in un ingiustificato accollo di responsabilità ad un altro soggetto. Tra l’altro, i paesi angloamericani conoscono da tempo la figura del corporate crime. Tuttavia, secondo parte della dottrina la responsabilità penale delle persone giuridiche sarebbe esclusa dal carattere personale di tale tipo di responsabilità ex art. 27, co. I Cost.; ed, invero, muovendo dalla tesi che tale principio ha come ratio quella di evitare la configurazione di una responsabilità per fatto altrui, la società non potrebbe rispondere penalmente per la condotta (altrui) di un suo organo; mentre prendendo le mosse dall’interpretazione che identifica il carattere personale della responsabilità penale con la responsabilità ancorata al principio di colpevolezza, la società non potrebbe rispondere personalmente perché incapace di atteggiamento volitivo colpevole. A tali obiezioni si è replicato facendo leva sulla teoria c.d. organicistica della persona giuridica che riconosce soggettività reale all’ente collettivo in base ad un rapporto di rappresentanza organica tra l’ente stesso e le persone fisiche che ne determinano la volontà, con la conseguenza che l’attività degli organi diventa direttamente imputabile alla persona collettiva. In ogni caso, anche tale teoria non riesce a spiegare l’obiezione facente leva sul principio di colpevolezza: l’ente collettivo come tale è capace di agire con dolo o colpa? Per superare l’impasse si è proposto di configurare, a carico della persona giuridica, sanzioni aventi più il carattere di misura di sicurezza che di pena in senso stretto: ciò sul presupposto che l’applicazione delle misure di sicurezza implica la pericolosità sociale, e non già la colpevolezza del destinatario della sanzione. Tuttavia, anche il requisito della pericolosità sociale non tollera una ricostruzione che prescinde dall’atteggiamento psicologico dell’autore del fatto: ecco allora che si ripropone la difficoltà di apprezzare in termini naturalistici le manifestazioni dell’ente collettivo. Si aggiunga, poi, che il concetto di pericolosità è strettamente connesso con quello di risocializzazione, incompatibile con la natura dell’ente collettivo che opera con un personale umano sostituibile nel tempo. Le persistenti difficoltà, relative all’individuazione di un appagante modello di responsabilità penale delle persone giuridiche, spiegano perché parte della dottrina recente propenda per modelli sanzionatori alternativi, di tipo amministrativo o civilistico.

7. La responsabilità da reato degli enti collettivi

Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ha dato attuazione alle legge delega del 29 settembre 2000, n. 330 (che ha ratificato alcune convenzioni internazionali), stabilente la c.d. responsabilità amministrativa degli enti collettivi per i reati commessi dai loro organi o sottoposti. Onorando gli impegni pattizi presi a livello internazionale, il legislatore italiano ha tenuto un profilo basso quando ha proceduto a connotare la nuova forma di responsabilità: la scelta di qualificare amministrativa la nuova forma di responsabilità è frutto della necessità di allentare le consistenti tensioni del mondo imprenditoriale molto preoccupato per le eventuali ricadute economiche della riforma. Per vero, la disciplina predisposta è normativamente articolata in modo tale da suscitare l’impressione che il legislatore abbia voluto formalmente definire <amministrativa> una responsabilità che nella sostanza assume un volto penalistico: la responsabilità dell’ente è infatti agganciata alla commissione di un fatto di reato e la sede in cui essa viene accertata è pur sempre il processo penale. La funzione di tale responsabilità è di apprestare un presidio forte contro la tentazione di commettere reati nell’ambito della politica di impresa. Si è, dunque, costruita la disciplina avendo come punto di riferimento l’azienda normale che delinque e che deve essere

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riportata alla legalità; tuttavia, tale modello nell’attuale realtà economica ha un sapore mitologico: e ciò perché è sfumata l’immagine della persona morale come organismo i cui meccanismi interni siano invisibili ma razionalmente dominati dalla convergenza delle singole volontà verso la realizzazione dello scopo sociale. Al contrario si denuncia la sussistenza di varie anomalie che si concentrano nel comportamento della media dirigenza che a volte per conservare il posto di lavoro, altre per compiere delle scalate verso i vertici, non esitano a tenere comportamenti ai margini della legalità. Più discutibile rispetto agli obiettivi politico – criminali presi di mira appare la scelta, attuate in sede di ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli dell’ONU contro il crimine organizzato transnazionale che ha portato all’inclusione tra i reati cui si applica la relativa disciplina, anche l’associazione a delinquere, mafiosa, volta al traffico di droga, volta al contrabbando. Tale opzione politico – criminale rischia di mettere in crisi l’impianto della nuova normativa perché appare incongruo pensare che si possa riportare alla legalità con le sanzioni previste siffatte organizzazioni.A) Le disposizioni sulla responsabilità amministrativa degli enti si applicano, quanto alla cerchia dei soggetti destinatari, non solo agli enti forniti di personalità giuridica ma anche alle società ed associazioni che ne sono prive.B) La fattispecie obiettiva costitutiva dell’<illecito amministrativo dipendente da reato> va desunta da diverse disposizioni del d.lgs. 231 del 2001, che subordina il giudizio di responsabilità alla presenza dei seguenti requisiti: a) la commissione da parte di una persona fisica di un determinato reato, consumato o tentato, espressamente previsto dalla legge ai fini della responsabilità dell’ente; b) l’esistenza di un rapporto qualificato tra l’autore del reato e l’ente; c) l’interesse o il vantaggio dell’ente; d) il carattere non territoriale, non pubblico o non di rilievo costituzionale dell’ente; e) l’inesistenza di un provvedimento di amnistia per il reato da cui dipende l’illecito amministrativo. Questi requisiti vanno rigorosamente accertati in sede giudiziale, anche in fase cautelare qualora ne ricorrano gli estremi.C) Quanto ai criteri di imputazione soggettiva, è stato normativamente configurato un modello di colpevolezza sui generis: all’ente viene richiesta l’adozione di modelli comportamentali volti ad impedire, attraverso la fissazione di regole di condotta, la commissione di determinati reati. In altri termini, la specifica colpevolezza della persona giuridica si configurerà quando il reato commesso da un suo organo o sottoposto rientra in una decisione imprenditoriale, o è conseguenza del fatto che l’ente medesimo non si è dotato di un modello di organizzazione idoneo a prevenire reati del tipo di quello verificatosi, o ancora che vi sia stata al riguardo omessa o insufficiente vigilanza da parte degli organismi dotati di potere di controllo. Ciò premesso, i criteri di imputazione soggettiva del reato all’ente vengono, poi, normativamente differenziati a seconda che il reato sia commesso da soggetti in posizione apicale, o da persone sottoposte all’altrui direzione.D) È introdotto il principio dell’autonomia della responsabilità dell’ente, nel senso che quest’ultimo risponde anche quando: a) l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.E) È da precisare che l’introduzione della responsabilità amministrativa dell’ente non ha, allo stato, portata generale, ma è circoscritta all’ipotesi di reato per le quali è dal legislatore previsto in modo espresso. Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 231 del 2001, il catalogo dei reati per i quali trova applicazione la responsabilità amministrativa dell’ente collettivo è notevolmente allargato.F) Variegato risulta, infine, il ventaglio delle sanzioni che per l’ente prevede: sanzioni pecuniarie, sanzioni interdittive, confisca, pubblicazione della sentenza di condanna.

8. Il problema dei soggetti responsabili negli enti o nelle imprese

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Nell’ambito delle imprese è difficile individuare il soggetto suscettivo di essere chiamato a rispondere di reati commessi nello svolgimento dell’attività facente capo all’ente superindividuale. Tale difficoltà nasce dalla circostanza che il soggetto formalmente titolare dei numerosi obblighi di condotta penalmente sanzionati non sempre è in grado di adempiervi personalmente: ciò induce il titolare originario a delegare l’adempimento degli obblighi. Il problema è se e in presenza di quali condizioni, il fenomeno della delega possa assumere rilevanza penale, sia sotto il profilo di una eventuale esenzione da responsabilità del titolare originario, che sotto quello di un’assunzione di responsabilità da parte del delegato. La giurisprudenza prevalente condiziona la rilevanza penale della delega alla presenza dei seguenti presupposti: a) l’impresa deve essere di grandi dimensioni, 2) la ripartizione di funzioni non deve avere carattere fraudolento, 3) i collaboratori delegati devono essere dotati dei poteri e dei mezzi necessari per svolgere efficacemente i compiti loro affidati, 4) inoltre, essi devono possedere una provata competenza tecnica. Tale impostazione è avallata da quella parte di dottrina che propende per un orientamento c.d. funzionalistico, secondo cui l’individuazione del soggetto responsabile deve essere effettuata sulla base della funzione di fatto esercitata all’interno dell’ente collettivo. Altra parte della dottrina, mossa dalla preoccupazione di evitare il rischio di trasferimento o concentrazione <verso il basso> della responsabilità, ritiene che il delegante manterrebbe quantomeno un obbligo di vigilanza sull’adempimento delle incombenze affidate al collaboratore. In caso di inadempimento del delegato, il delegante risponderebbe, eventualmente in concorso, sotto forma di mancato impedimento di reato ex art. 40 c.p., purché l’adempimento dell’obbligo di vigilanza risulti completamente esigibile alla stregua dei criteri che presiedono all’imputazione a titolo di colpa.

9. Il soggetto passivo del reato

Per sottolineare il carattere pubblicistico del diritto penale, si suole dire che ogni reato offende lo Stato, quale garante dell’interesse generale. In realtà, il soggetto passivo è il titolare del bene protetto dalla singola fattispecie incriminatrice di parte speciale: in tale senso, il soggetto passivo coincide con quello che, nel linguaggio del codice, viene denominato persona offesa dal reato. Concettualmente, la nozione di soggetto passivo si distingue da quella di oggetto materiale del reato che allude invece alla persona o cosa su cui materialmente ricade l’attività delittuoso (non sempre le due nozioni coincidono). Il concetto di soggetto passivo non coincide necessariamente neppure con quello di danneggiato dal reato: cioè, il soggetto che subisce un danno patrimoniale o non patrimoniale risarcibile e che è, pertanto, legittimato a costituirsi <parte civile> nel processo penale. Si ammette che la posizione di soggetto passivo possa spettare, oltre che alle persone fisiche, anche allo Stato e alle persone giuridiche, nonché alle collettività non personificate. Si parla anche di reati a soggetto passivo indeterminato per alludere ad ipotesi in cui l’interesse offeso appartiene ad una cerchia indeterminata di persone (c.d. reati vaghi o vaganti). Può aversi anche una pluralità di soggetti passivi: ciò si verifica quando una stessa offesa coinvolge più titolari del medesimo bene. Le caratteristiche del soggetto passivo possono assumere rilevanza penale sotto diversi profili. Innanzitutto, ai fini della stessa configurabilità del reato (si pensi alla corruzione di minorenne); poi, possono anche determinare il mutamento del titolo del reato (si pensi alla violenza privata che si trasforma in violenza al pubblico ufficiale). Possono incidere sulla disciplina penale anche le relazioni che legano il soggetto passivo al soggetto attivo, e ciò sotto il triplice profilo di conferire rilevanza al fatto, di determinare all’opposto la non punibilità o di rendere applicabile una circostanza aggravante. Il soggetto passivo può assumere rilevanza anche

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per la condotta tenuta prima (ad es. attenuante della provocazione), contemporaneamente (ad es. l’attenuante del concorso del fatto doloso della persona offesa), o successivamente al reato (es. l’iniziativa del soggetto passivo necessaria per consentire all’offensore la prova della verità dell’addebito nei delitti contro l’onore). Più di recente, si ricorre talora all’espressione reati senza soggetto passivo o senza vittima per indicare ipotesi di incrminazione, dietro le quali non è facile individuare l’offesa ad un bene giuridico <afferrabile> (si pensi ai reati contro la moralità pubblica). Lo studio del soggetto passivo del reato forma oggetto di una branca della criminologia, la c.d. vittimologia, che ultimamente ha assunto dignità autonoma. Tale studio può riuscire di grande utilità nel far luce sul complesso di fattori implicati nella genesi e nella dinamica del delitto. Così, il rischio della commissione del delitto cresce quanto più la vittima sia <fungibile> e, all’opposto, decresce nel caso di sua <infungibilità>. L’arricchimento delle conoscenze empiriche in materia è, altresì, utile sotto il profilo politico – criminale, in quanto fornisce al legislatore futuro una base conoscitiva indispensabile per modellare la tutela penale tenendo anche conto del grado di vulnerabilità delle vittime dei diversi reati.

Sezione II – Struttura del reato

1. Premessa

La varietà fenomenica dei diversi tipi di reato non ha impedito alla dottrina penalistica di tendere alla costruzione di una teoria generale del reato. Per molto tempo, l’elaborazione dogmatica della materia penalistica ha avuto come obiettivo di rinvenire il maggior numero di elementi comuni a tutte le diverse forme di reato. Tale tendenza a costruire dei modelli superiori unitari ha comportato la creazione di soluzioni artificiose; si spiega così l’impegno della dottrina del secondo dopoguerra di verificare gli abusi di generalizzazione compiuti dalle dottrine generali del reato tradizionalmente ricevute: ne è derivata la scoperta che le diverse tipologie delittuose presentano elementi che non possono essere appiattiti all’interno di una teorizzazione generale troppo onnicomprensiva per poter essere dotata di reale contenuto conoscitivo. Il rifiuto di una dogmatica astrattamente concettualistica, e la conseguente adesione ad una prospettiva <teleologica>, sollecitano un costante raccordo tra l’elaborazione della teoria generale del reato e le indagini di parte speciale: è dalle singole figure criminose, infatti, che le categorie generali traggono vita e giustificazione.

2. Analisi della struttura del reato

Il fatto umano corrisponde alla fattispecie obiettiva di una figura criminosa: il giudizio di corrispondenza tra il fatto e lo schema legale di una specifica figura criminosa di reato si traduce nel concetto di tipicità. Un fatto tipico, tuttavia, non sempre contrasta con i dettami dell’ordinamento giuridico, essendo configurabili situazioni particolare in cui è eccezionalmente consentita la realizzazione di un fatto altrimenti punibile (es. legittima difesa). L’effettivo contrasto tra fatti tipico ed ordinamento di riassume nel giudizio di antigiuridicità. Altro presupposto per la punibilità del fatto è che esso sia riconducibile alla responsabilità del soggetto che ne risulta autore: le condizioni di tale riconducibilità si riassumono nel concetto di colpevolezza. Tale modello di scomposizione analitica degli elementi di reato va sotto il nome di concezione tripartita. Nell’ambito della dottrina italiana, tale concezione sopravvive con quella bipartita che esclude l’elemento dell’antigiuridicità. Tuttavia, è la fedeltà al metodo teleologico anche nello

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studio dell’illecito penale che ci induce a preferire la concezione tripartita. Le tre categorie sistematiche assolvono, infatti, funzioni specifiche, come tali non intercambiabili, corrispondenti ciascuna ad un peculiare aspetto della tecnica di tutela penalistica. Inoltre, il metodo tripartito scandisce i passaggi in cui normalmente si snoda il processo mentale del giudice in sede di accertamento del fatto di reato. Così ad es., l’accertamento giudiziale di un omicidio presuppone: a) la prova del fatti tipico, b) l’assenza di cause di giustificazione, c) la prova della colpevolezza dell’agente. La concezione tripartita non è finora riuscita ad affermarsi nell’ambito della giurisprudenza italiana che continua a mantenere sul terreno della teoria generale del reato atteggiamenti ambigui. In effetti, il punto più controverso concerne soprattutto la collocazione sistematica delle cause di giustificazione. La giurisprudenza tradizionale ha escluso che esse ineriscano la struttura del reato, qualificandole cause esterne, impeditive della punibilità e perciò suscettive di operare solo ove ne sia stata raggiunta la prova piena. A ben vedere, una simile tesi non riflette però un’autentica scelta di teoria generale del reato, ma rappresenta un espediente concettuale per assecondare preoccupazioni di difesa sociale: e cioè, la ritenuta non appartenenza delle cause di giustificazione alla struttura del reato consente infatti di evitare che il dubbio sulla esistenza di una causa di giustificazione possa giustificare sentenze assolutorie. Senonché, la tradizionale preoccupazione della giurisprudenza oggi non ha più ragion d’essere stante la chiara soluzione normativa in proposito espressamente accolta nel III co. dell’art. 530 c.p.p.: infatti, il giudice dovrà comunque pronunciare sentenza di assoluzione piena anche ove vi sia dubbio sull’esistenza di cause di giustificazione.

3. Fatto tipico

In sede di teoria generale del diritto, i termini <fatto> o <fattispecie> alludono a tutti i presupposti oggettivi e soggettivi necessari a produrre la conseguenza giuridica: tale nozione di fatto risulta, in verità, troppo ampia per poter soddisfare alla condizione d’uso del concetto di fatto tipico come specifica categoria penalistica. Nell’ambito del diritto penale, il concetto di fatto tipico va inteso in un’accezione più ristretta comprendente, cioè, il complesso degli elementi ce delineano il volto di uno specifico reato: perciò il <fatto> ingloba solo quei contrassegni in presenza dei quali può dirsi adempiuto un particolare modello delittuoso. Tale modello è conforme al principio nullum crime sine lege: in tal modo, la categoria dogmatica in esame assolve la funzione garantista di indicare ai cittadini i fatti che essi devono astenersi dal compiere per non incorrere nella sanzione penale. Nel tipizzare i contrassegni delle diverse figure delittuose, il fatto si atteggia anche a precipitato tecnico di un diritto penale ispirato all’idea della protezione dei beni giuridici. In tal senso, compito del fatto tipico è di ritagliare e circoscrivere specifiche forme di aggressione ai beni penalmente tutelati (si pensi all’ipotesi in cui la norma prescriva come reato solo alcune modalità di offesa al bene giuridico). La categoria del fatto tipico deve essere idonea a rispettare il più possibile tutte le esigenze poste dal principio di materialità secondo cui il reato si deve manifestare in un contegno esteriore accertabile nella realtà fenomenica. Affinché ciò avvenga è necessario evitare che il legislatore crei tipi artificiali di reato che non trovano riscontro nella realtà (si pensi al delitto di plagio dichiarato incostituzionale perchè la fattispecie incriminatrice non riusciva a descrivere un fatto materiale riscontrabile nella realtà).

4. Tipicità e offesa del bene giuridico

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La tipicità del fatto si riconnette intimamente alla lesione del bene giuridico. Se compito primario di un diritto penale moderno è quello di garantire la salvaguardia dei beni giuridici, tale categoria non può non occupare un ruolo centrale nella costruzione della fattispecie criminosa. Il bene giuridico, oltre ad assumere un ruolo costitutivo della punibilità quale criterio legislativo di criminalizzazione e a fungere da criterio ermeneutico in una prospettiva teleologica, assolve un’altrettanto importante funzione dogmatica. Con riferimento alla categoria della tipicità, tale ruolo dogmatico consiste nel far sì che la tipicità stessa concettualmente includa una lesione del bene giuridico. Un fatto che non sia in grado di offendere un bene giuridico, è solo in apparenza conforme al modello legale. Che la tipicità della condotta inglobi la lesione di un bene giuridico appare in alcuni casi di evidenza tangibile. In altri, invece, all’esteriore conformità del fatto alla fattispecie legale non si accompagna una effettiva lesione del bene protetto (si pensi al furto di un chiodo arrugginito, al peculato per appropriazione indebita di un foglio di carta appartenente alla P.A., ecc...). È non men vero che il principio della tendenziale corrispondenza tra tipicità e offesa del bene giuridico può, di fatto, subire deroghe a causa della difettosa formulazione tecnica delle fattispecie incriminatrici. Il fenomeno è riscontrabile specie nell’ambito della legislazione extra – codicistica, dove tende peraltro a predominare un modello di illecito di stampo formale la cui idoneità lesiva è spesso presunta e, comunque, non è facilmente verificabile nei diversi casi concreti.

5. Antigiuridicità

In alcuni casi, il fatto presumibilmente antigiuridico in quanto penalmente tipico risulta, tuttavia, consentito o giustificato in base ad una valutazione effettuata alla stregua non solo del sistema penale, ma dell’intero ordinamento giuridico. Tale secondo filtro del carattere illecito del fatto tipico è imposto dal principio dell’unità del sistema giuridico. Proprio nell’esame dell’antigiuridicità come momento di <conferma> del carattere illecito del fatto tipico, si pone in relazione la norma penale col complesso delle altre norme e se ne chiarisce il reciproco condizionamento. Conflitti fra norma, come pure collisioni tra beni giuridici sono tipicamente valutati e risolti in sede di giudizio di antigiuridicità. Solo l’intero ordinamento giuridico è in grado di indicare ad un soggetto la regola di condotta da adottare nel singolo caso (si pensi all’ufficiale giudiziario che procede ad un pignoramento: se pure viene commesso un fatto conforme al delitto di furto nel sottrarre al proprietario la cosa pignorato, non viene punito perché esiste una norma del c.p.c. che gli fa obbligo di compiere tale atto). Il giudizio di antigiuridicità si risolve strutturalmente nella verifica che il fatto tipico non sia coperto da alcuna causa di giustificazione o da alcuna esimente. Per converso, la presenza di una causa di giustificazione o esimente annulla l’antigiuridicità di un comportamento <indiziata> dalla semplice conformità al tipo. All’interno della concezione tripartita del reato, la categoria dell’antigiuridicità intesa nel senso ora precisato, ha carattere oggettivo poiché costituente una qualità oggettiva del fatto tipico, che come tale prescinde ed è distinta dalla colpevolezza. Tale modo di intendere la giuridicità è conforme anche all’impostazione codicistica: l’art. 59, nel fissare la regola della rilevanza <obiettiva> delle cause di giustificazione, nel senso che esse operano anche se non conosciute dall’agente, presuppone infatti un’antigiuridicità concepita su base puramente oggettiva. Tuttavia, parte della dottrina nega che l’antigiuridicità obiettiva sia una categoria autonoma del reato e per spiegare sul piano dogmatico l’operatività delle cause di giustificazione taluni autori fanno ricorso al concetto di elementi negativi del fatto: elementi cioè che devono mancare perché l’illecito si configuri tuttavia tale impostazione è da respingere per una serie di motivi. La collocazione delle scriminanti sullo stesso piano del <fatto>, infatti, pur essendo ammissibile su un piano meramente logico – astratto, risulta, tuttavia, inopportuna ad una considerazione teleologica attenta a cogliere la rispettiva

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funzione del fatto e delle scriminanti nel sistema penale. Funzione della categoria del fatto è di selezionare le forme di offesa meritevoli di sanzione penale, ragion per cui la categoria stessa assume una connotazione prettamente penalistica. Mentre la categoria delle cause di giustificazione, proprio perché va ricostruita alla stregua dell’intero ordinamento giuridico, non ha funzione prettamente giuridico – penale: al contrario, le scriminanti servono ad integrare il diritto penale nell’ordinamento giuridico generale. Dal carattere non specificatamente penale delle norme che configurano le cause di giustificazione derivano, peraltro, importanti conseguenze. E cioè, da un lato, la disciplina delle situazioni che integrano scriminanti non è necessariamente subordinata al principio di riserva di legge; d’altro lato, essendo le norme sulle scriminanti autonome norme extrapenali desumibili da tutto l’ordinamento, se ne deduce la loro estensione analogica. Inoltre, il fatto obiettivamente lecito sarà tale in tutti i rami dell’ordinamento: sicché non si potrà agire in sede civile o amministrativa. Tuttavia, bisogna sottolineare che la verifica dell’esistenza di cause di giustificazione poggia su criteri più formali che sostanziali. A tale concetto di antigiuridicità, parte della dottrina suole affiancare un concetto di antigiuridicità materiale che darebbe conto delle ragioni sostanziali che sono alla base dell’incriminazione, ravvisate nell’antisocialità del fatto, e nella lesione del bene penalmente protetto. Una nozione di antigiuridicità così intesa è in parte superflua e in parte fuorviante; a nostro avviso, il profilo di incidenza lesiva del fatto sul bene protetto è già assorbito nel giudizio di tipicità. Nel linguaggio penalistico si suole, poi, parlare di antigiuridicità o illiceità speciale riguardo a casi in cui la stessa condotta tipica è contraddistinta da una nota di illiceità desumibile da una norma diversa da quella incriminatrice: questa nota di illiceità costituisce un elemento diverso e ulteriore rispetto alla normale antigiuridicità oggettiva intesa come assenza di cause di giustificazione. La presenza di questa speciale antigiuridicità è indiziata da espressioni come <illegittimamente>, <abusivamente>, <arbitrariamente>, <indebitamente> e simili. Si tratta, nella gran parte dei casi di elementi c.d. normativi della fattispecie, per la cui determinazione concettuale occorre far riferimento ad una disposizione extrapenale potenzialmente appartenente a qualsiasi altro ramo dell’ordinamento. Si consideri, ad es., il delitto ex art. 348 che incrimina <chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato>: l’avverbio abusivamente richiede appunto, ai fini dell’integrazione della condotta tipica, il contrasto con le disposizioni amministrative che disciplinano l’esercizio delle varie attività professionali. Può, inoltre, succedere che una nota di illiceità o antigiuridicità speciale emerga per via interpretativa. Per converso, non sempre all’uso di una delle tipiche formule linguistiche suddette corrisponde realmente un requisito di illiceità speciale; tali formule si risolvono in una ridondanza retorica. La distinzione tra illiceità speciale effettiva ed apparente è questione interpretativa, rimessa come tale all’analisi attenta della varie fattispecie.

6. Colpevolezza

La colpevolezza riassume le condizioni psicologiche che consentono l’imputazione personale del fatto di reato all’autore. Nel giudizio di colpevolezza rientra, innanzitutto, la valutazione del legame psicologico o, comunque, del rapporto di appartenenza tra <fatto> e <autore>; nonché la valutazione delle circostanze, di natura personale e non, che incidono sulle capacità di autodeterminazione del soggetto. Ovviamente ciò non significa che il concetto di colpevolezza presupponga, come condizione necessaria, il libero arbitrio in senso filosofico: oggi, infatti, si riconosce unanimemente che l’idea della responsabilità umana sia un dato costante dell’esperienza della nostra coscienza morale e della nostra vita sociale. L’affievolirsi della disputa sul libero arbitrio è anche una conseguenza del mutato rapporto tra la categoria della colpevolezza e la concezione relativa alle funzioni della pena. Nell’attuale momento storico, caratterizzato da

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una concezione più laica e secolarizzata del diritto penale, la colpevolezza perde il tradizionale ruolo di fondamento della pena stessa, e la sua ratio va individuata nell’ambito di una prospettiva idonea a contemperare l’efficienza preventiva del sistema penale con la garanzia delle fondamentali libertà del singolo. In tal senso, la legge penale rifiuta la responsabilità oggettiva, e subordina la punibilità alla presenza di coefficienti soggettivi (dolo e colpa). Tale interpretazione liberalgarantista della funzione della colpevolezza, è in linea con l’orientamento della Corte costituzionale che nella sentenza 364/88, relativa all’efficacia scusante dell’errore inevitabile di diritto, ha ravvisato la ratio della colpevolezza nell’esigenza di garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producono delle conseguenze penalmente vietate. La colpevolezza assurge anche a criterio cardine cui commisurare la stessa conformità a Costituzione della disciplina dei presupposti della responsabilità penale; queste valenze sono colte sempre nella stessa sentenza 364/88, specie nel punto in cui la Corte ravvisa nella colpevolezza <un principio costituzionale, garantista in base al quale si pone un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell’incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti minimi d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può essere legittimamente sottoposto a pena>. Proprio alla luce della ratio spiccatamente garantistica del principio di colpevolezza si rafforza la tesi della illegittimità costituzionale delle residue ipotesi di responsabilità obiettiva ancora presenti nel nostro ordinamento. Divisioni in dottrina vi sono circa il contenuto della colpevolezza: in particolare, mentre è pacifico che essa abbracci come requisiti minimi il dolo e la colpa, si discute se vi rientrino elementi ulteriori e di quale natura siano. Nella dottrina contemporanea, la colpevolezza in senso dogmatico tende ad essere concettualmente distinta a seconda che essa funga da elemento costitutivo del reato (c.d. Strafbegründungsschuld) che si pone accanto alla tipicità e all’antigiuridicità, o da criterio di commisurazione della pena (c.d. Strafzumessungsschuld). In questa seconda accezione, la colpevolezza assurge a categoria di sintesi di tutti gli elementi, imputabili al soggetto, da cui dipende la gravità del singolo fatto di reato.

7. Costruzione <separata> dei tipi di reato

Storicamente, l’elaborazione delle dottrine generali del reato si è sviluppata assumendo a modello l’illecito commissivo doloso e, in particolare, il delitto di omicidio. In seguito all’evoluzione tecnologica si è registrato una crescita di reati colposi e omissivi derivante dall’aumento di fattispecie in cui si richiedevano obblighi positivi di condotta. La scienza penalistica contemporanea è andata approfondendo lo studio delle fattispecie colpose e omissive, giungendo a prospettare una nuova sistematica del reato intesa a meglio valorizzarne in piena autonomia le relative peculiarità strutturali. L’effetto più rilevante dell’accennato processo di revisione dogmatica è sfociato in un’inversione di tendenza segnata dal passaggio dalla costruzione unitaria dell’illecito penale alla costruzione separata delle rispettive tipologie delittuose del delitto doloso e colposo, nonché del delitto commissivo ed omissivo.

8. Classificazione dei tipi di reato

Le tipologie delittuose si possono suddividere in diverse tipologie. Alcune di tali distinzioni riflettono la struttura dei tipi fondamentali di reato, altre sono connesse all’applicazione di una particolare disciplina (e perciò assumono molta rilevanza), altre ancora concernono tipologie delittuose che prestano acuti problemi dogmatici e politico – criminali. Nei reati di evento la

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fattispecie incriminatrice tipicizza un evento esteriore come risultato concettualmente e fenomenicamente separabile dall’azione e a questa legato in base ad un nesso di causalità. I reati di evento possono poi essere <a forma vincolata> (es. art. 438, <chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni>), o <a forma libera> (o reati causali puri, es. art. 575, <chiunque cagiona la morte di un uomo>). Ricorrendo a quest’ultima tecnica di incriminazione, il legislatore mira all’obiettivo di apprestare una tutela molto estesa al bene oggetto di protezione. I reati di azione consistono, invece, nel mero compimento dell’azione vietata, senza che sia necessario attendere il verificarsi di un evento causalmente connesso alla condotta medesima (es. l’evasione dal carcere nell’ipotesi di cui all’art. 385). Tra le conseguenze pratiche più importanti della distinzione in esame ricordiamo quelle relative al momento consumativo del reato e alle questioni connesse (es. tentativo), nonché al tempo e luogo del commesso reato. I reati si distinguono, poi, in commissivi ed omissivi. Questi ultimi vengono, inoltre, distinti tra reati omissivi impropri e propri. I primi (anche detti reati commissivi mediante omissione) si configurano quando l’evento lesivo dipende dalla mancata realizzazione di un’azione doverosa: ad es. omicidio colposo dovuto alla mancata sorveglianza di un bambino. I secondo consistono, invece, nel semplice mancato compimento di un’azione imposta da una norma penale di comando, a prescindere dalla verificazione dell’evento come conseguenza della condotta omissiva (es. omissione di soccorso). Nei reati istantanei la realizzazione del fatto tipico integra ed esaurisce l’offesa, perché è impossibile che la lesione del bene persista nel tempo (es. omicidio). Esistono, invece, dei beni che l’azione delittuosa riesce solo a comprimere (es. sequestro di persona o violenza sessuale); in tali ipotesi, l’agente ha il potere di rimuovere, dopo averla creata, la situazione antigiuridica determinando così la riespansione del bene compresso: si definiscono reati permanenti quei reati, appunto, in cui il protrarsi dell’offesa dipende dalla volontà dell’autore. In questi tipi di reati, dunque, assumendo valore anche il momento successivo del mantenimento della situazione antigiuridica, gli estremi della fattispecie non sono ancora realizzati finché non si realizza il mantenimento stesso: ad es. non realizzano il reato di sequestro di persona i ladri che immobilizzano per breve tempo i custodi della villa. Il reato permanente, poi, cessa quando si mette fine alla condotta volontaria di mantenimento della stato antigiuridico. Secondo un criterio diffuso nella prassi applicativa, il reato omissivo sarebbe permanente nelle volte in cui per l’adempimento dell’azione doverosa sia previsto un termine puramente ordinatorio, nel qual caso la permanenza perdurerebbe fino a quando il soggetto non adempia all’obbligo di agire; sarebbe invece istantaneo quando, ai fini dell’adempimento sia previsto un termine di scadenza perentorio, decorso il quale l’obbligato non è più in grado di far cessare lo stato di antigiuridicità determinato dalla condotta illecita. Tuttavia, è facile obiettare che il termine di adempimento, che assume rilevanza penale, è solo quello perentorio: nel caso di termine ordinatorio, infatti, è concessa al soggetto la facoltà di decidere il momento dell’adempimento, onde non può entro tale spazio di tempo parlarsi di obbligo penalmente sanzionato. Prive di reale autonomia sono le figure di reato eventualmente permanente (nel quale, cioè l’offesa è fatta durare nel tempo dall’agente: es. ingiuria effettuata con numerosi insulti) e quelle di reato istantaneo con effetti permanenti (caratterizzato dalla durata delle conseguenze: es. omicidio). Il reato permanente è un reato unico in quanto lesivo di un medesimo bene giuridico. La dottrina ha, poi, coniato l’etichetta di reati abituale per definire quegli illeciti penali per la cui realizzazione è necessaria la reiterazione nel tempo di più condotte della stessa specie. A differenza che nel reato permanente, caratterizzato dal perdurare nel tempo senza interruzione della situazione antigiuridica prodotta dall’agente, nel reato abituale ci si trova di fronte alla reiterazione intervallata nel tempo della stessa condotta o di più condotte omogenee: si pensi al reato di maltrattamenti in famiglia. Un discorso analogo vale rispetto al delitto di sfruttamento della prostituzione. Si distingue, inoltre, un reato abituale proprio da quello improprio; nel primo, come nel caso dello sfruttamento di prostituzione, le

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singole condotte, autonomamente considerate, sono penalmente irrilevanti, mentre nel secondo, come nella relazione incestuosa, ciascun singolo atto integra di per sé altra figura di reato. Dalla circostanza che il disvalore deriva solo dall’insieme delle condotte reiterate non può, tuttavia, farsi discendere la necessità che il soggetto agisca anche con un dolo unitario, equivalente ad un disegno complessivo anticipatamente programmato: basta piuttosto una coscienza e volontà di volta in volta rapportata alle singole condotte. Si distingue anche tra reato proprio e reato comune. Si definisce reato proprio quell’illecito che può essere commesso solo da chi riveste una particolare qualifica o posizione, idonee a porre il soggetto in una speciale relazione con l’interesse tutelato. I reati propri sono ulteriormente differenziabili a seconda che il possesso della qualifica determini la stessa punibilità del fatto (reato proprio in senso puro), o comporti un mutamento del titolo del reato (reato proprio in senso lato). Infine, la distinzione tra reati propri e comuni assume rilevanza soprattutto ai fini della determinazione del dolo e in sede di concorso di persone. I reati si distinguono ancora in illeciti di danno e illeciti di pericolo, a seconda che la condotta criminosa comporti la lesione effettiva o la semplice messa in pericolo o lesione potenziale del bene giuridico assunto a oggetto di tutela penale. Come esempio paradigmatico di reato di danno, si consideri il delitto di omicidio; il danno può anche consistere in una diminuzione del bene. Come esempio di reato di pericolo si consideri, invece, il delitto di incendio preveduto dall’art. 423. Sussistono precise correlazioni tra la struttura di danno o di pericolo del fatto di reato e la natura del bene oggetto di protezione. Suscettivi di essere materialmente distrutti o menomati sono soprattutto i beni che hanno un substrato empirico: si pensi appunto alla vita. La possibilità di accertare un effettivo nocumento decresce, invece, a misura che il bene protetto perde di spessore materiale e si sublima in un’entità di tipo ideale.I reati di pericolo vengono distinti in due categorie: di pericolo concreto o effettivo e di pericolo presunto o astratto. Nei primi, il pericolo rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice, onde spetta al giudice, in base alle circostanze concrete del singolo caso, accertarne l’esistenza (es. art. 422). Nei secondi, si presume, in base ad una regola di esperienza, che al compimento di certe azioni si accompagni l’insorgere di un pericolo. Il legislatore fa a meno di inserire il pericolo come requisito esplicito della fattispecie e si limita a tipizzare una condotta, al cui compimento tipicamente o generalmente si accompagna la messa in pericolo di un determinato bene: sicché, una volta accertata la prima, il giudice è dispensato dallo svolgere ulteriori indagini circa la verificazione del secondo. Tale tradizionale distinzione ha subito tentativi di revisione nel corso degli ultimi anni, essendosi evidenziato la relatività della stessa contrapposizione tra pericolo astratto e concreto; il grado di concretezza del pericolo dipende, infatti, sia dalla collocazione che esso riceve nella struttura del tipo delittuoso, sia dai criteri di accertamento adottati per verificarne l’esistenza, sia infine dal momento del giudizio. I reati di pericolo presunto, inoltre, sollevano problemi di costituzionalità; infatti, se tale modello di illecito si caratterizza per il fatto di tipicizzare una condotta assunta come pericolosa in base ad una regola di esperienza, non è escluso che di fatto di verifichino casi in cui quel giudizio fondato sull’esperienza sia falso. Da qui il pericolo che i reati si pericolo astratto rischiano di reprimere la mera disobbedienza dell’agente: ciò che viene meno è il principio di necessaria lesività. In realtà, il problema sta nell’individuare i settori in cui appare consigliabile, o necessario, anticipare la tutela sino alla soglia dell’astratta pericolosità. Per tale aspetto è divenuto ormai usuale far riferimento a situazioni di pericolo standardizzate. In questo ambito, l’incriminabilità delle condotte pericolose in se stesse presenta due vantaggi: a) viene posto un argine alla particolare <diffusività> del pericolo insito in questo tipo di condotte; b) essendo non di rado ignoto scientificamente lo specifico meccanismo che conduce alla verificazione dell’evento dannoso, si evita la probatio diabolica dell’attitudine del fatto a provocare una effettiva lesione nel caso concreto. Vi sono poi i beni collettivi, o superindividuali, come l’ambiente o l’economia pubblica che, per loro natura, possono essere danneggiati solo da

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condotte cumulative, reiterate nel tempo: ciò rende impossibile provare che una singola condotta tipica sia in concreto idonea a compromettere l’integrità dell’ambiente o a provocare uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti e simili. Tuttavia, finché si riterrà che beni come questi necessitano della tutela penale, il ricorso alla figura del reato di pericolo presunto sarà necessaria. L’esigenza di attribuire al reato un contenuto concretamente pericoloso diventa, invece, meno eludibile quanto più l’incriminazione interferisca con l’esercizio di libertà politiche. Si pensi non solo al settore dei reati di opinione o dei reati a carattere ideologico, ma anche a delitti come l’associazione a delinquere, rispetto ai quali l’adozione in chiave interpretativa della categoria del pericolo presunto crea il rischio che la repressione penale si risolva in un’inammissibile limitazione delle libertà ideologico – politiche costituzionalmente garantite. La dottrina penalistica ha, infine, operato ulteriori distinzioni di diversa rilevanza pratica. Ci si limita qui ad accennare ai reati aggravati dall’evento per i quali è prevista un aumento di pena se dalla realizzazione del delitto base deriva come conseguenza non voluta un evento ulteriore. Poi vi sono i delitti di attentato consistenti nel compimento di atti o nell’uso di mezzi diretti ad offendere un bene giuridico; la caratteristica di tali reati è data dalla circostanza che la legge considera consumato un delitto pur in presenza di atti, al più, tipici rispetto ad una fattispecie di delitto tentato: es. attentato contro l’integrità dello Stato.

PARTE SECONDA- IL REATO COMMISSIVO DOLOSO

CAPITOLO 1- TIPICITÀ

1.Premessa: la fattispecie ed i suoi elementi costitutivi

Fattispecie di reato→ il complesso di elementi che contraddistinguono ogni illecito penale. Detta anche tipo legale essa ricomprende non solo gli elementi oggettivi di un fatto criminoso ma anche quelli soggettivi ed ogni altro requisito capace di influire sulle conseguenze giuridico-penali. In questa accezione essa svolge una funzione di garanzia nei confronti del cittadino in quanto solo e soltanto una fattispecie legalmente tipizzata può integrare un illecito penale.Ma vi è anche un’altra accezione più ristretta del concetto di fattispecie di reato ed è quella di fatto tipico→ quale categoria distinta da quella dell’antigiuridicità e della colpevolezza.Secondo una concezione ottocentesca (Beling) la fattispecie obiettiva designerebbe solo gli elementi descrittivi ed obiettivi del fatto di reato come la condotta , gli eventuali presupposti, il rapporto causale nonché l’evento lesivo e non anche quelli soggettivi.L’origine storica di questa categoria era influenzata da due ordini di preoccupazioni: l’ideologia positivista legata agli schemi delle scienze naturalistiche e la preoccupazione garantista di costruire una categoria dogmatica in cui fosse facile ed oggettiva la distinzione tra i comportamenti leciti e quelli illeciti. In seguito si ebbe una crisi delle scienze naturalistiche e della concezione belinghiana ed un’affermazione di un indirizzo teleologico che valorizza l’apertura ai valori ed alla funzione politico-criminale. Con le nuove teorie è nata la differenza fra “elementi normativi”cioè quei requisiti che non rappresentano una realtà naturalistica ma il risultato di una qualificazione giuridica operata dal legislatore ed “elementi subiettivi” cioè quegli elementi soggettivi necessari per tipizzare gli illeciti soggettivamente pregnanti ( ex. concetto di ingiuria è collegato ad un elemento soggettivo). La concezione oggi dominante interpreta il fatto tipico in una accezione più ampia comprendendo sia elementi in senso oggettivo e materiale ma anche

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componenti soggettive con funzione integratrice degli elementi oggettivi. Questo è necessario ad esempio nei casi di reati soggettivamente pregnanti come il vilipendio, la diffamazione ma in generale ritroviamo frammenti di elemento soggettivo sia nell’ambito della colpevolezza sia in quello della tipicità Ex. dolo o colpa possono essere presenti già nella struttura del reato: come sarebbe possibile una violenza sessuale colposa? Fatto tipico→ elementi obiettivi ( descrittivi e normativi) ed elementi a carattere soggettivoElementi oggettivi del fatto tipico:- CONDOTTA - OGGETTO MATERIALE- EVENTO- RAPPORTO DI CAUSALITA’

2. Concetto di azione

L’azione umana è la base su cui poggia l’intera costruzione del reato commissivo doloso tuttavia il suo ruolo era in passato considerato sproporzionatamente importante e ad esso erano affidate due funzioni fondamentali: fornire una nozione unitaria per tutti i modelli di reato (omissivo, commissivo, doloso, colposo) ed orientare la dogmatica degli elementi costitutivi del reato.a) La teoria causale: espressione del positivismo naturalistico di fine 1800 ha definito l’azione come una modificazione del mondo esterno cagionata dalla volontà umana. Il dolo trova posto solo nell’ambito della colpevolezza. Critiche: non si adatta al reato omissivo; il dolo a volte di fatto incide anche sulla tipicitàb) La teoria finalistica: elaborata da Hans Welzel identifica l’azione umana come l’esercizio di un’attività orientata verso uno scopo. Questa concezione vuole che l’agire sia diretto verso uno scopo mentre l’accadere casuale non retto da uno scopo sia il risultato delle condizioni di volta in volta presenti. Critiche: il dolo non può essere solo un elemento del fatto tipico e n on appartenere all’alveo della colpevolezza; non sempre le azioni volontarie sono rigorosamente programmate secondo lo schema mezzo-scopo (si pensi alle azioni impulsive o automatiche); lo schema finalistico non regge nel caso dei reati colposi e dei reati omissivi dove il rimprovero non è dovuto ad un’azione diretta ad uno scopo ma ad un’azione compiuta male o da una non azione.Dagli sforzi della teoria in parola è stato possibile accertare l’inutilità dei tentativi diretti a prospettare un concetto di azione validi per tutti i tipi di reato.c) La teoria sociale: il comportamento penalmente rilevante consisterebbe in ogni risposta dell’uomo ad una pretesa nascente da una situazione riconosciuta/riconoscibile attuata grazie alla messa in atto di una possibilità di reazione liberamente scelta tra quelle disponibili. Questa teoria non si può definire dogmatica in quanto permette con la sua elasticità di adattare tale concetto a tutte le forme delittuose ma forse è proprio la sua genericità il suo punto debole. La sua unica funzione sarebbe allora quella di escludere dal concetto di azione quelle compiute in condizione di piena inconsapevolezza.Fiandaca’s opinion: Le teorie in esame sono fallite in quanto hanno preteso di inquadrare dogmaticamente una volta per tutte ed in maniera ontologica il concetto di azione. Stante l’impossibilità di un concetto unitario ed aprioristico di azione i criteri per la determinazione del concetto di azione si uniformano ai principi dell’imputazione penale e non viceversa.1° passo: verificazione di un accadimento che lede o pone in pericolo beni giuridici;2° passo: accertamento della riconducibilità o meno del fatto al comportamento di qualcuno.Nell’ambito del reato commissivo la condotta criminosa è rappresentata da un’azione in senso stretto intesa come movimento corporeo dell’uomo ed ai sensi dell’art 42,1 questo deve essere cosciente e volontario senza tuttavia con questo indicare una formula psicologica valida per tutti i

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tipi di reato. Nel reato commissivo doloso la partecipazione della coscienza e della volontà deve essere sempre effettiva ed è proprio questo che configura il dolo.

3. Azione determinata da caso fortuito o da costringimento fisico. Caso fortuito

Come visto è necessaria per l’addebito penale un’azione cosciente e volontaria e perciò il legislatore ha tipizzato due ipotesi in cui manca la precondizione per considerare l’azione criminosa come opera propria di un determinato soggetto: forza maggiore e costringimento fisico.FORZA MAGGIORE: Art 45: esclude la punibilità per chi ha commesso il fatto per forza maggiore→ qualsiasi energia esterna contro la quale il soggetto non è in grado di resistere e che perciò lo costringe necessariamente ad agire. Si parla di azioni in cui il soggetto difetta del potere di signoria per cui si può dire che non gli appartengono e non possono essere oggetto di un rimprovero di colpevolezza. La forza maggiore è esclusa nel caso in cui il soggetto abbia qualche possibilità di scelta ( al massimo si può ipotizzare uno stato di necessità o una coazione morale)COSTRINGIMENTO FISICO: Art 46: parla di un’azione compiuta nell’impossibilità di resistere o sottrarsi ad una violenza fisica ed in un certo senso rappresenta una specificazione della forza maggiore con la differenza che in quest’ultimo caso la forza è quella della natura mentre nel caso in parola è quella di un uomo. Anche in questo caso il soggetto costretto non deve avere margini di scelta affinché l’azione sia addebitata a chi lo costringe (altrimenti coazione morale ex art 54).CASO FORTUITO: è un’altra causa di esclusione della responsabilità ammessa dall’art 45. Sebbene siano accostate dal legislatore queste due figure mantengono una certa autonomia infatti mentre la forza maggiore annullando la signoria del soggetto non configura un’azione penalmente rilevante, il caso fortuito non esclude l’esistenza dell’azione. Esso risulta dall’incrocio fra un accadimento naturale ed una condotta umana da cui deriva l’evento lesivo imprevedibile. Il caso fortuito esclude comunque la responsabilità dell’agente anche se la dottrina è divisa nella sua collocazione fra le maglie della colpa o del nesso causale. In verità questo è un istituto polivalente che può incidere in entrambi i settori: sulla colpevolezza (malore improvviso alla guida che impedisce di osservare le regole di diligenza) e sul nesso causale ( ferito da un terzo perde la vita in ospedale a causa di un incendio).

4. Presupposti dell’azione

Presupposti dell’azione ≠ Presupposti dell’azionePresupposti dell’azione (o del fatto)→ circostanze di fatto o di diritto che in taluni casi devono preesistere o essere concomitanti alla condotta perchè questa assuma un significato criminoso. Queste pur estranee alla condotta illecita in quanto tale rientrano nel fatto tipico come elementi costitutivi. Possono riferirsi: al soggetto attivo ( qualifica di pubblico ufficiale); all’oggetto materiale ( un documento perchè ci sia falsità); al contesto (situazione di pericolo per configurare l’omissione di soccorso); al soggetto passivo ( qualifica di Capo dello Stato nei delitti ex art 276). Sono utili sul terreno del dolo infatti trattandosi di elementi che precedono l’azione possono essere non già voluti ma soltanto conosciuti dal reo.

5. Oggetto materiale dell’azione

Oggetto materiale dell’azione→ la persona o la cosa sulla quale ricade l’attività del reoOggetto giuridico→ sinonimo di bene penalmente protettoSoggetto passivo del reato→ è l’interesse leso dal reato e protetto dall’ordinamento

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Ex. Delitto di falso: oggetto materiale è il documento falsificato, oggetto giuridico è la fede pubblica; Ex. Delitto di sottrazione consensuale di minorenni: oggetto materiale dell’azione è il minore protetto, soggetto passivo è la potestà dei genitoriIn alcuni casi tuttavia questi possono anche coincidere come nell’omicidio. La distanza fra oggetto materiale dell’azione ed oggetto giuridico si distanzia tanto più quanto il bene è spiritualizzato o immateriale mentre il contrario avviene quando il bene è materializzato in un sostrato naturalistico. L’oggetto materiale dell’azione rileva: nella determinazione/specificazione del fatto tipico; nella conoscenza degli aspetti della fattispecie utili nella configurazione del dolo.

6. Evento

Soprattutto nei cd. reati di evento compare la nozione di evento concepito come risultato esteriore causalmente riconducibile all’azione umana. Ex Delitto di omicidio: un evento riconducibile all’azione di un soggetto causa la modificazione della realtà naturale (arresto dei processi biologici). Questa nozione di evento in senso naturalistico è quindi più ristretta di quella comune che comprende ogni accadimento della realtà esterna. L’evento naturalistico si può concretizzare oltre che nell’effettiva lesione del bene anche in una sua messa in pericolo Ex art 434. il pericolo tuttavia deve essere concreto cioè accertato dal giudice e non presunto dal legislatore. L’utilità della nozione in esame pare evidente nella ricostruzione del nesso di causalità essendo l’evento un elemento costitutivo del fatto tipico ma può rilevare anche come aggravante in un reato già perfetto ( morte in seguito all’omissione di soccorso) o come condizione obiettiva di punibilità. 6.1. Intorno alla nozione in parola c’è stata una grande contesa dottrinale, a volte anche sterile, che ha preso spunto da alcuni articoli (40-41-43-49) i quali riconnettono ad ogni reato un evento dannoso o pericoloso come risultato dell’azione criminosa. Il nostro codice infatti nasce dall’idea tedesca che ogni reato consiste nella lesione o messa in pericolo di un b.g. tradotta in una formula che suona così: la lesione o messa in pericolo del bene protetto è stata dal legislatore configurata come un risultato che sempre si aggiunge all’azione delittuosa. Da qui l’identificazione fra offesa ed evento non in senso naturalistico ma come evento in senso giuridico→ cioè l’offesa (lesione o messa in pericolo) all’interesse protetto dalla norma penale. Nei reati di mera condotta questa accezione di evento risulta inutili in quanto è sufficiente la condotta senza il bisogno di una ulteriore entità aggiuntiva che configuri l’offesa al b.g.; secondo la teoria dell’evento giuridico al giudice non basterebbe la mera condotta ma dovrebbe accertare l’effettivo impatto della condotta sul bene protetto bypassando di fatto il legislatore che aveva già compiuto una presunzione di lesività della condotta. In realtà anche nel nostro ordinamento esistono fattispecie difettose che lamentano un deficit di offensività Ex. art 324 Interesse privato in atti d’ufficio. Il rischio della teoria dell’evento giuridico è quello di risolvere giurisprudenzialmente il deficit di offensività lasciato in alcune occasioni dal legislatore ma questa soluzione non è accettabile nel diritto penale dove la garanzia per la libertà dei cittadini richiede fattispecie legislative ben precise. Ci vuole perciò una riforma legislativa che sia in grado di selezionare i b.g. meritevoli di tutela e di tipicizzarne le modalità di aggressione in maniera tangibile ed inequivoca. Fiandaca’s opinion: L’unica nozione tecnicamente accettabile è quella di evento naturalistico inteso quale conseguenza dell’azione e consistente in una modificazione fisica della reltà esterna. E’ indifferente la contestualità dell’evento con l’azione e l’omogeneità di luogo fra azione ed evento.

7. Rapporto di causalità

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Nesso di causalità→ il legame fra l’azione e l’evento. E’ un elemento costitutivo della fattispecie obiettiva presupposto per una visione oggettivistica del diritto penale. Fare luce su questo non è però sufficiente a risolvere i problemi giuridici e filosofici legati all’accertamento del nesso di causalità finalizzato per il giurista all’emissione del giudizio di responsabilità. La causalità funge quindi da criterio di imputazione oggettiva del fatto al soggetto. il giudizio di responsabilità si compone infatti di varie fasi concettualmente separate: il fatto è avvenuto e corrisponde ad una fattispecie astratta; l’evento è stato causato dall’azione del soggetto; l’azione è avvenuta in modo colpevole.Vi sono varie teorie che permettono di collegare le azioni umane agli accadimenti esterni ma il codice Rocco prende posizione disciplinando la materia agli art 40-41 sebbene non riesca a risolvere del tutto le dispute dogmatiche. Gli sforzi dottrinali si sono indirizzati più in ambito storico che dogmatico e questo ha fatto perdere di vista i veri obiettivi della ricerca.

8. La tradizionale teoria condizionalistica: insufficienze

L’art 40 nel ricostruire il legame fra azione ed evento richiede che l’evento dannoso o pericoloso, dal quale dipende l’esistenza del reato, sia conseguenza dell’azione del reo. Questo ci dice ben poco però su quando un evento può essere conseguenza di un’azione.Teoria condizionalistica→ è la teoria dominante al tempo della redazione del codice ed afferma che è causa ogni condizione dell’evento, ogni antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato. Questa teoria parifica tutte le condizioni non differenziandone il rango purché concorrano a causare l’evento, per cui l’azione umana può essere anche una delle tante concorrenti. In pratica si accerta il nesso attraverso un procedimento di eliminazione mentale denominato della condicio sine qua non , cioè un’azione è considerata condicio sine qua non se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento venga meno. Il nesso sussiste se l’azione è condizione senza la quale l’evento non sarebbe accaduto. Svantaggi della teoria condizionalistica:1) Vi sono casi in cui la condicio sine qua non, non è di aiuto visto che mancano le conoscenze scientifiche o d’esperienza necessarie per ritenere l’evento collegato all’azione. La legge in parola quindi incontra un limite nei casi in cui non si conoscano in anticipo le leggi causali che esistono tra determinati fenomeni. Casi 12 e 13. 2) La teoria in esame porterebbe in alcuni casi a considerare condicio sine qua non delle azioni remotissime rispetto all’evento tanto da giungere a situazioni paradossali cd. regresso all’infinito. A mo’ di esempio potrebbe portarsi l’ipotesi di un omicidio in cui vengano considerati responsabili i genitori dell’omicida poiché se non l’avessero messo al mondo non avrebbe compiuto l’azione.3) La teoria presenta inconvenienti nei casi in cui l’evento sarebbe stato ugualmente prodotto da un’altra causa intervenuta all’incirca nello stesso momento cd. causalità alternativa ipotetica. Vedi caso 14.4) Altro ostacolo è posto dal caso in cui l’evento sia prodotto dal concorso di più condizioni, ciascuna capace da sola di produrre il risultato cd. causalità addizionale. Questo potrebbe portare a risultati aberranti vedi caso 155) Altra situazione problematica è quella di una causa sopraggiunta da sola idonea a cagionare l’evento come previsto dall’art 41. Il rischio è quello di lasciare impunita la vera causa dell’evento.

9. Segue: correttivi

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Per far fronte al regresso all’infinito bisogna osservare che sul terreno dell’imputazione penalistica si considerano solo le condotte che assumono rilevanza rispetto alla fattispecie di volta in volta considerata ed in ogni caso sia il dolo che la colpa operano come fattori che circoscrivono la rilevanza penale di tutti i possibili antecedenti dell’evento. Rimangono gli eccessi della teoria in parola nei casi di responsabilità oggettiva.Per quanto riguarda le obiezioni di cui ai punti 3 e 4 del precedente paragrafo, esse sono facilmente superabili ricordando che la versione aggiornata della teoria considera l’evento non come genere di evento in astratto ma come evento concreto che si verifica hic et nunc per cui è importante che ci sia un nesso concreto tra l’azione dell’autore e questo evento concreto mentre sono irrilevanti eventi che si verificherebbero per altre cause operanti all’incirca allo stesso momento. Così nel caso 14 non avrebbe efficacia liberatoria dell’autore dell’incendio un’altra eventuale causa che lo avrebbe causato allo stesso modo (la casa infatti non sarebbe stata distrutta in quel momento ed in quel modo) e nel caso 15 hanno efficacia causale quelle condizioni che cumulativamente, ne costituiscono presupposto necessario e che lo sarebbero alternativamente se l’altra mancasse: Nel caso concreto vanno ritenuti colpevoli di omicidio entrambi gli agenti.

10. La teoria condizionalistica orientata secondo il modello della “sussunzione sotto leggi scientifiche”

L’insufficienza della teoria condizionalistica si palesa qualora non siano noti i nessi fra taluni antecedenti e conseguenti per mancanza ad esempio di conoscenze scientifiche. Con riferimento a questi casi problematici si profilano due alternative:

1) Metodo di spiegazione causale individualizzante: l’accertamento del nesso di causalità si svolge fra accadimenti singoli e concreti, non importa se singoli o riproducibili in futuro. Il giudice valuterebbe solo sul piano storico senza cercare di trovare tra i singoli accadimenti delle leggi universali. In questo modo però il giudice, essendo libero da qualsiasi legge o spiegazione empirico-scientifica, avrebbe nelle sue mani un potere discrezionale tale da lasciarlo libero di valutare il caso concreto facendo affidamento unicamente sulle proprie intuizioni o particolari competenze. Questo orientamento,diffuso nei casi particolarmente complessi, fa del giudice un vero e proprio produttore di norme. Tale orientamento come espresso dalla corte nel caso 13 sembra giustificato dal fatto che il giudice è sempre tenuto a dare un responso giuridico anche quando non può ancorarlo ad una certezza scientifica tuttavia deve rappresentare sempre un’estrema ratio (il giudice non deve arrendersi troppo presto nel cercare dei parametri più oggettivi).

2) Metodo di spiegazione causale generalizzante: l’accertamento eziologico viene ancorato a leggi generali che individuano rapporti tra azione ed evento che prescindono dal singolo caso ma diventano ripetibili. Questa teoria risulta subito essere maggiormente garantista in quanto in ottemperanza con il principio di tassatività sottrae il potere assolutamente discrezionale del giudice nel determinare il nesso eziologico e per questo motivo risulta essere preferibile. In questo modo il giudizio di accertamento del nesso causale assume la forma della sussunzione sotto leggi scientifiche cioè un metodo di accertamento che necessita di una legge generale di copertura scientifica affinché possa essere riconosciuto il collegamento causale nel caso concreto fra azione ed evento. Il diritto utilizza lo schema della ripetibilità dei risultati, tipico delle scienze naturali.

10.1. Fra le varie leggi di copertura quali sono quelle legittimamente utilizzabili dal giudice?Vi sono infatti sia leggi universali sia leggi statistiche, sono entrambe accettabili?

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Leggi universali→ quelle in grado di affermare che la verificazione di un evento è inevitabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento. Cioè quelle leggi che non ammettono eccezioni e che perciò conferiscono logicamente il margine della certezza.Leggi statistiche→ collegano l’evento antecedente a quello successivo ma soltanto in una certa percentuale dei casi per cui non conferiscono il margine della certezza. Il loro grado di attendibilità si misura in maniera percentuale.Le leggi universali tuttavia sono molto poche ed anche quelle esistenti spesso si basano su presupposti dati per scontato cd. assiomi , c’è da considerare inoltre che il giurista non ha le stesse capacità di analisi delle leggi dello scienziato e che comunque le leggi universali nel campo giuridico sono di fatto impossibili vista la varietà di fattori che influenzano le scelte umane e quindi anche le fattispecie criminose. Per tutte queste ed altre ragioni la verità processuale non potrà mai fondarsi sulla certezza delle leggi universali ma dovrà accontentarsi di un livello di certezza minore o di probabilità intesa come credibilità tendenziale dell’enunciato che viene formulato. Il carattere probabilistico degli assunti è confermato dalla presentazione in forma statistica delle leggi che indicano un livello di incertezza pari alla percentuale espressione della possibilità di verificarsi di un evento in seguito ad un altro. Ex di legge statistica: nel 70% dei casi se avviene A avverrà anche B, ciò implica che la possibilità che ciò non accada è del 30%. Le leggi statistiche sono spesso l’unico strumento di cui il giudice dispone ed è di queste che dovrà servirsi nell’individuare la portata ed i limiti del concetto di causalità penalmente rilevante. Altro problema è quello del corretto utilizzo delle leggi statistiche da parte del giudice.Nell’affrontare questo problema il giudice dovrà tener conto dei concetti di probabilità statisticariferita al tipo di evento in generale e di probabilità logica riferita al singolo evento concreto. Quest’ultima presuppone l’applicazione della probabilità statistica al caso concreto e si sostanzia in definitiva nella ricostruzione dell’evento concreto escludendo in via induttiva che esso possa essere causato da fattori causali alternativi. Esempio del sieropositivo che infetta la moglie: a prescindere dalla probabilità statistica del contagio se la moglie ha avuto rapporti non protetti solo con il marito questa circostanza costituisce la probabilità logica in quanto esclude altre possibili cause dell’evento contagio.Uno dei problemi concreti più ostici per il giudice è quello di sapere sia il livello di probabilità sufficiente per considerare attendibile il nesso di causalità. Sebbene la giurisprudenza offra soluzioni non univoche e che non esiste una percentuale valida per qualsiasi situazione tuttavia si è concordi nel richiedere sempre un alto grado di probabilità specialmente in un periodo in cui si sente un bisogno di rafforzare le garanzie individuali ed in un settore del diritto come quello penale che richiede un criterio di prova elevato come il beyond any reasonable doubt esssendo invece sufficienti in altri settori come il civile la preponderance of the evidence. La teoria condizionalistica integrata dal criterio della sussunzione sotto leggi scientifiche è ben accolta sia in dottrina che in giurisprudenza come dimostra la ben nota sentenza delle sezioni unite del 2002 “Franzese”. Questa sentenza in tema di responsabilità omissiva del medico per il decesso del paziente ha introdotto al fine di bilanciare prevenzione generale ed garanzie individuali la distinzione fra probabilità statistica e probabilità logica richiedendone la sussistenza di entrambe. RATIO DELLA SENT. FRANZESE: ai fini della prova giudiziaria della causalità decisivo non è il coefficiente percentuale più o meno elevato desumibile dalla legge di copertura ma poter confidare nel fatto che la legge generale trovi applicazione anche nel caso concreto stante l’alta probabilità logica che siano da escludere fattori alternativi. Ricorda esempio Aids citato sopra.Al buon grado di razionalità raggiunto dalla teoria condizionalistica orientata in senso nomologico si contrappongono alcune difficoltà di applicazione nella prassi dovute soprattutto alla necessità avvertita da molti giudici di farsi carico di esigenze general-punitive.

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10.2. Ad esempio nei casi 12 e 13 i giudici hanno dato prova di fare ciò ignorando la teoria esaminata. Caso 12 Quasi tutte le donne che hanno ingerito un certo farmaco partoriscono figli con malformazioni, tuttavia il meccanismo di produzione del fenomeno non è scientificamente chiaro. A favore del nesso di causalità remavano in tal caso: rapporti di differenti scienziati , esperimenti compiuti sugli animali, al blocco delle vendite corrispondeva il blocco delle malattie, riscontri chiari dell’incidenza del farmaco in base alla sua distribuzione geografica, riscontro oggettivo fra periodo di ingestione del farmaco e tipologia di malformazione riscontrata. Era in tal caso percorribile una via probabilistica di spiegazione del fenomeno.Caso 13 Gli abitanti di una zona in cui è sita una fabbrica di alluminio vengono colpiti da manifestazioni cutanee a carattere epidemiologico (cd. macchie blu) e lamentano simili danni alle bestie ed alle colture, le cause del fenomeno sono però sconosciute. Elementi a favore del nesso di causalità: coincidenza dei sintomi su persone, animali, cose; cessazione degli effetti in seguito all’installazione di un depuratore , guarigione delle persone che si allontanavano dalla zona interessata. Anche in tal caso la teoria probabilistica suffragata da mezzi di prova empiricamente controllabili sarebbe risultata la soluzione più corretta.

11. La teoria della causalità adeguata

La teoria in parola si presenta piuttosto che come una teoria autonoma come un correttivo apportato alla teoria condizionalistica soprattutto per quanto riguarda i reati aggravati dall’evento. Essa non rinnega la teoria condizionalistica ma tra i molteplici antecedenti causali tende a selezionare quelli veramente rilevanti in sede giuridico-penale. Questa teoria è molto utile nei casi in cui il decorso causale sia atipico cioè non segua gli esiti di ordinaria prevedibilità come nel caso dei reati aggravati dall’evento i quali vedono un’attribuzione dell’aggravante all’agente solo sul presupposto della sua responsabilità oggettiva. Ad esempio nel caso 16 allo spacciatore potrebbe essere accollata l’aggravante della morte nel caso in cui venga accertato sussistere il nesso di causalità. Si tratta di ipotesi che esulano dagli schemi sia del dolo sia della colpa e perciò sono dubbie di incostituzionalità. In tal senso per evitare di far rientrare nel nesso di causalità eventi imprevedibili ed atipici per l’agente la teoria in esame considera antecedente causale penalmente rilevante solo quella condizione che è tipicamente idonea o adeguata a produrre l’evento in base ad un criterio di prevedibilità basato sull’id quod plerumque accidit. Siamo di fronte ad un modello generalizzante di spiegazione della causalità in quanto la connessione azione-evento non deve essere peculiare del caso concreto ma deve avere un effetto generale, tipicamente idoneo. I criteri di accertamento di questa generale idoneità sono costituiti da giudizi di probabilità che si emettono nella vita pratica perciò il diritto penale non si prepone di punire solo ciò che è effettivamente dannoso ma anche ciò che lo è solo potenzialmente o che semplicemente aumenti il rischio di un danno.

11.1. La teoria nata quindi in particolare per i reati aggravati dall’evento ha assunto poi dignità di teoria generale di spiegazione del nesso causale ed oggi viene proposta in termini negativi: il rapporto di causalità sussiste tutte le volte in cui non sia improbabile che l’azione produca l’evento. Questa interpretazione si spinge maggiormente verso esigenze di repressione penale. Per quanto riguarda invece il giudizio di probabilità si ritiene che esso debba essere effettuato sulla base delle circostanze presenti e conoscibili ex ante da un osservatore avveduto, con l’aggiunta di quelle superiori eventualmente possedute dall’agente concreto (cd. prognosi postuma). Con queste conoscenze si può risolvere il caso 16 nel senso di scagionare lo spacciatore che non poteva evidentemente prevedere la morte vendendo una dose non mortale di eroina, e così anche il nipote che ha fatto prendere l’aereo al nonno nella speranza che esso precipitasse. Non si tratta

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infatti di azioni tipicamente idonee ad uccidere. La teoria in esame tuttavia ha difficoltà nel delimitare la responsabilità in situazioni in cui l’evento pur voluto ex ante sopraggiunge per altre circostanze non volute ed imprevedibili. Ex Tizio ferisce Caio per ucciderlo ma questi una volta guarito in ospedale vi muore per un incendio. La teoria in esame non è adeguata in questi casi poiché difetta nella descrizione dell’evento. L’evento lesivo va considerato come astratto o concreto? La dottrina ha suggerito per superare l’impasse di dividere in due fasi il giudizio di adeguatezza: fase anteriore all’evento in cui si verifica se l’evento è improbabile rispetto all’azione, fase posteriore all’evento in cui si verifica se l’evento concreto realizzi il pericolo tipicamente o generalmente connesso all’azione delittuosa. Secondo questa ricostruzione Tizio sarebbe immune poiché il rischio concretizzatosi non ha nulla a che fare con l’azione del ferire. Critiche alla teoria in esame:1) difficilmente conciliabili prevedibilità ex ante con l’accertamento del nesso causale che dovrebbe svolgersi ex post ed in maniera oggettiva;2) L’accertamento della causalità investirebbe considerazioni proprie delle sfera della colpevolezza;3) Il concetto di adeguatezza è incerto in quanto si basa su considerazioni di carattere sociale.

12. Teorie minori: la causalità umana

Tra le concezioni minori è quella che ha avuto maggiore presa fra la giurisprudenza e della dottrina.Causalità umana→ possono essere considerati causati dall’uomo soltanto i risultati che egli può dominare in virtù dei suoi poteri conoscitivi e volitivi,che rientrano nella sua sfera di signoria.Secondo l’Antolisei, principale sostenitore della teoria, sfuggono ala signoria dell’uomo i fatti la cui probabilità che si realizzino è minima, fatti eccezionali. Ai fini dell’esistenza del nesso sono richiesti quindi due elementi: uno positivo, che l’uomo abbia posto in essere una condizione dell’evento senza la quale esso non si sarebbe mai verificato; uno negativo, che il risultato non sia dovuto a fattori eccezionali. Critiche alla teoria della causalità umana:1) E’ un tentativo mal riuscito di migliorare la teoria della causalità adeguata infatti sebbene voglia distinguere tra atipico ed eccezionale, dire che è eccezionale quel fattore che ha una probabilità minima di verificarsi è come non dire nulla, in questo senso risulta essere tautologica;2) Il concetto di eccezionalità è relativo e non si capisce se sia riferito all’evento-astratto, all’evento-concreto ovvero all’intero nesso causale;3) Non risulta essere maggiormente risolutiva rispetto alla teoria della causalità adeguata;4) Il problema relativo al potere di signoria riguarda maggiormente il piano della colpevolezza.

13. La teoria di imputazione obiettiva dell’evento

Altri paradigmi concettuali della dottrina tedesca hanno cercato di dare spiegazioni meno meccanicistiche ai decorsi causali atipici. La teoria in esame di matrice hegeliana parte dalla matrice comune che il nesso causale costituisce presupposto indispensabile della responsabilità in quanto riflette la signoria dell’uomo sul fatto ma poi si ramifica in varie sottoscuole di pensiero. La scuola non manca di sottolineare però che in alcuni casi sebbene sussista un nesso in senso condizionalistico non si accompagna una corrispondente capacità umana di governarlo e controllarlo per cui tende non tanto a verificare se l’agente abbia cagionato l’evento ma stabilire se questo gli possa essere obiettivamente imputato come fatto proprio o meno. In un certo senso le preoccupazioni della teoria sono simili a quelle della teoria della causalità adeguata finendo per riformularne gli assunti di fondo.

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Teoria di imputazione obiettiva dell’evento→ un evento lesivo può essere obiettivamente imputato all’agente soltanto se esso realizza il rischio giuridicamente non consentito o illecito creato dall’autore con la sua condotta.Contro la teoria in esame si pone una semplice osservazione: facendo entrare nel giudizio di causalità considerazioni normativo-valutative sulla tollerabilità sociale del rischio si aprono le porte ai giudizi di valore che non dovrebbero far parte della tematica della causalità. La teoria inoltre sebbene parte da un presupposto comune “la comune creazione e realizzazione di un rischio non consentito” si dirama in varie sottoteorie in funzione del criterio di volta in volta prescelto: aumento/diminuzione del rischio, rischio consentito, scopo di tutela della norma violata.

1) Teoria dell'aumento del rischio: l'imputazione obiettiva presuppone oltre al nesso condizionalistico, che l'azione in questione abbia aumentato la probabilità di verificazione dell'evento dannoso. Questa teoria presuppone l'esistenza di un rischio socialmente consentito. In quest'ottica non si può dire che il nipote invitando lo zio su di un aereo ne aumenti il rischio visto che questo è distribuito nel tempo e nello spazio, ma certamente lo fa lo spacciatore che offre una dose ancorché non letale di droga ad un tossicodipendente caso 16.

2) Teoria dello scopo della norma violata: tale impostazione tende ad escludere il nesso causale qualora l'evento pur riconducibile all'azione, non costituisce specifica concretizzazione del rischio che la norma cerca di evitare. La teoria appena enunciata presta il fianco ad inconvenienti applicativi dovuti alle difficoltà nella ricerca della ratio della norma.

Critiche alla teoria dell'imputazione obiettiva: innanzitutto si deve dubitare della compatibilità della stessa con l'ordinamento italiano visto che esso, a differenza di quello tedesco in cui la teoria è sorta, si è dotato di una espressa disciplina causalistica; per quanto riguarda l'ambito dell'aumento del rischio non sono rispettate le garanzie del favor rei passando da ipotesi di illecito di danno ad ipotesi di illecito di pericolo e questo aspetto assume una particolare rilevanza sul piano dell'illecito omissivo improprio ( o di evento). La teoria dell'imputazione obiettiva seppur suggestiva non rappresenta oggi un valido strumento di ricerca del nesso eziologico anche se non va trascurata la sua capacità risolutrice in fattispecie particolari in cui la prova del nesso è altamente problematica e si potrebbe risolvere in chiave probabilistica come nel caso della responsabilità omissiva del medico.

14.Concause

L'art 41 disciplina il fenomeno del concorso di più condizioni nella produzione dello stesso evento cd. concause. che possono intervenire prima, durante e dopo la condotta del reo. Il fenomeno è piuttosto diffuso essendo improbabile che solo una singola azione esaurisca il decorso causale inoltre affinché una singola azione assurga a causa dell'evento basta che essa sia una delle tante in grado di provocarlo. Senso dell'art 41,1: si riafferma la teoria condizionalistica di cui all'art 40,1; infatti se il feritore vede poi morire l'aggredito sotto i ferri per una cardiopatia congenita non è esonerato da responsabilità. Senso dell'art 41,3: più cause concorrenti possono essere costituite da fatti illeciti altrui. Senso dell'art 41,2: “le cause sopravvenute da sole sufficienti a produrre l'evento escludono il rapporto di causalità”. Data l'oscurità della formulazione legislativa per evitare che l'art in questione fosse una ripetizione concettuale del principio condizionalistico si è cercata una corretta interpretazione nel senso che esso potesse assurgere a temperamento garantista nei confronti degli eccessi rigoristici del principio condizionalistico. In tal senso l'art 41,2 legittimerebbe teorie alternative a quella condizionalistica , ci si riferirebbe ai casi di decorso

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causale atipico (caso del ferito che muore in ospedale a causa di un incendio). Questi casi potrebbero allora legittimamente trovare soluzione attraverso le teorie della causalità adeguata e dell'imputazione obiettiva dell'evento abbandonando il nesso condizionalistico in senso stretto. Ai sensi dell'art 41,2 il nesso causale sarebbe escluso nei casi in cui sebbene sussista un nesso condizionalistico con la condotta tipica, non sia inquadrabile in una successione normale di accadimenti. Escluso il nesso nel caso del nipote e del tizio che muore per l'incendio in ospedale, rimane nel caso 17 ( S colpisce con un pugno Z e lo lascia cadere sulla strada: viene poi investito da un auto) manca infatti un'interruzione del nesso penalmente rilevante.

CAPITOLO 2- ANTIGIURIDICITÀ E SINGOLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONI

1. Premessa

Come detto una condotta per essere penalmente rilevante deve essere tipica cioè espressione di una previsione del legislatore ed antigiuridica cioè contraria all'ordinamento nel suo insieme. Cause di esclusione dell'antigiuridicità→ sono quelle situazioni normativamente previste in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto illecito tipico e l'intero ordinamento. La valenza delle cause di giustificazione non è limitata quindi al solo ambito penale. Tale categoria di origine dottrinaria nel linguaggio del legislatore coincide con le cause di esclusione della pena senza la preoccupazione quindi di collocarle all'interno della teoria del reato, ma la categoria da ultimo richiamata è troppo vasta ed eterogenea per costituire un unicum dogmatico. Le ipotesi contemplate dal legislatore svariano dalla legittima difesa (art 52), all'esercizio di un diritto (art 51), all'incapacità di intendere e di volere (art 85), al figlio che ruba ai danni del genitore (art 649) etc. Tutte queste cause di esclusione della punibilità sono in realtà raggruppabili in tre differenti categorie: cause di giustificazione o esimenti:elidono l'antigiuridicità e quindi rendono inapplicabile qualsiasi tipo di sanzione (civile, amministrativa), si estendono a tutti i compartecipi del fatto e si applicano in maniera obiettiva a prescindere dalla loro conoscenza; cause di esclusione della colpevolezza o scusanti:operano sul piano della rimproverabilità dell'autore, situazioni in cui il soggetto opera in particolari stati psicologici che rendono difficilmente esigibili alcuni comportamenti e proprio per questo operano in maniera soggettiva cioè solo se conosciute e non sono estensibili ad eventuali compartecipi cause di non punibilità in senso stretto:non interessano né l’antigiuridicità né la colpevolezza ma operano sul piano dell’opportunità di infliggere una pena avendo riguardo di salvaguardare contro-interessi che in tal caso ne risulterebbero lesi. Non sono proprio per questo motivo estensibili ad eventuali concorrenti, un esempio è costituito dal figlio che ruba al padre, non punibile per salvaguardare l’unità della famiglia ex art 649.Nella trattazione si terrà conto solo delle cause di giustificazione ed in particolare quelle comuni cioè applicabili a tutti i tipi di reato e contenute nel codice agli art 50 e ss. mentre non saranno trattate quelle speciali che si applicano cioè a specifiche figure di illecito e sono contenute nella legislazione speciale.

2. Fondamento sostanziale e sistematica delle cause di giustificazione

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La dottrina da tempo si interroga sul fondamento e sulla collocazione delle cause di giustificazione con una finalità sia dogmatica sia pratica (una migliore interpretazione delle stesse). Il fondamento delle stesse è esplicato con un modello monistico secondo cui tutte le scriminanti sarebbero ricollegabili allo stesso principio ispiratore di volta in volta individuato nel mezzo adeguato per raggiungere uno scopo da parte dell’ordinamento, del bilanciamento tra beni in conflitto etc. Di contro il modello pluralistico (preferibile vista la natura eterogenea delle cause di giustificazione, d’ora in poi c.d.g.) tende a raggruppare le varie c.d.g. sotto il principio o dell’interesse prevalente ( esercizio del diritto, adempimento di un dovere, legittima difesa, uso legittimo delle armi ) o dell’interesse mancante ( consenso dell’avente diritto, stato di necessità ). Da un lato non bisogna sopravvalutare l’universalità di queste ripartizioni dogmatiche ma dall’altro non bisogna arrendersi dinanzi al fatto che le c.d.g obbediscano sempre a criteri mutevoli infatti soltanto partendo dal fatto che esse abbiano una matrice comune si possono individuare dei principi generali in materia utili al fine di praticare la tanto auspicata estensione analogica delle c.d.g..3. Disciplina delle cause di giustificazione

Le regole comuni per le c.d.g. sono stabilite dagli art 55 e 59del codice.a)Rilevanza puramente obiettiva: L’art 59,1 stabilisce il criterio dell’applicazione oggettiva delle c.d.g. cioè anche se non conosciute dall’agente o ritenute da lui per errore inesistenti. si deve sottolineare però che sebbene il legislatore ponga questa regola generale è compito dell’interprete prendere in considerazione eventuali coefficienti soggettivi che possono venire in rilievo stante la particolare struttura di un a c.d.g., anche se ciò avviene maggiormente per le scriminanti speciali.b) Rilevanza del putativo: l’art 59 ultimo comma stabilisce che se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui, cd.scriminante putativa. Perchè tale figura sia rilevante l’errore deve investire i presupposti di fatto che integrano la c.d.g. oppure una norma extrapenale mentre non rileva un errore di diritto che è regolato dall’art 5 e dal principio ignorantia legis non excusat ivi contenuto così come rimodulato dalla Corte costituzionale con la sentenza 364/1988. Questa regola risulta essere l’estensione della disciplina dell’art 47 sull’errore di fatto infatti chi agisce pensando che esiste una c.d.g. che facoltizzi o imponga un comportamento si configura di commettere un’azione del tutto lecita per cui manca il requisito del dolo. La giurisprudenza ha apportato come correttivo interpretativo alla norma in esame il requisito della ragionevolezza/logica giustificabilità/scusabilità dell’errore. c) Errore colposo: lo stesso art 59 ultimo comma esprime il concetto di punibilità per delitto colposo qualora la legge lo preveda se l’errore sulla presenza della scriminante sia dovuto a colpa dell’agente. Si pensi al caso di Tizio che, in una strada buia, creda di essere aggredito e che provochi la morte di un inerme passante, risponderà in tal caso di delitto colposo se la legge lo prevede. La disciplina in esame è simile a quella dell’art 47,1: l’errore di fatto e l’errore sulle scriminanti viene trattato allo stesso modo non rimanendo impunito ma, quando la legge lo prevede, essendo sanzionato in base ai canoni del delitto colposo (si parla solo di delitti ma si pensa che la disciplina si estenda anche alle contravvenzioni come anche nel caso dell’art 47).d) Eccesso colposo: l’art 55 prevede che se per i fatti previsti dagli art 51, 52, 53 e 54 si eccedono colposamente i limiti imposti dalla legge , dall’ordine dell’autorità o dalla necessità, si risponde se la legge lo prevede, per delitto colposo. In generale l’eccesso colposo sussiste se esiste una c.d.g ma l’agente per colpa ne travalica i limiti. Eccesso colposo ≠ Errore colposo poiché nel secondo caso la scriminante non esiste proprio mentre nel primo sebbene esista l’agente che ne beneficia supera con colpa i limiti del comportamento consentito. Il carattere colposo dell’eccesso si ricava

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dai criteri enunciati nell’art 43 (errore inescusabile di conoscenza, inosservanza di regole a contenuto cautelare). La dottrina tende in tal senso a distinguere fra un errore nel valutare il fatto ed un errore nell’esecuzione della condotta tuttavia in entrambi i casi è richiesta la buona volontà iniziale dell’agente. Nel caso in cui invece sia la volontà del soggetto a dettare un superamento dei limiti si passa dalla fattispecie in esame all’eccesso doloso che si riferisce non già ai mezzi dell’agire ma ai fini. La dottrina ha ritenuto che in mancanza di una specifica indicazione legislativa l’eccesso colposo sia applicabile anche all’art 50 (consenso dell’avente diritto) ed alla scriminante putativa. La natura dell’eccesso colposo è la stessa del delitto colposo visto che non si configura il dolo per mancanza dell’elemento cognitivo (esatta conoscenza della situazione concreta) e l’eccesso potrebbe essere evitato prestando maggiore cautela (presupposto del comportamento colposo).

4. Consenso dell’avente diritto (art 50 cp)

L’art 50 esprime nel nostro ordinamento il brocardo volenti et consenzienti non fit iniuria la cui ratio consiste nel disinteresse da parte dello Stato di apprestare tutela penale ad un bene di cui il titolare mostra di consentire la lesione. Dall’ambito di questo articolo sono escluse le situazioni in cui il consenso del titolare non agisce sull’antigiuridicità ma sulla tipicità, impedendo la configurazione della stessa fattispecie tipica ( violenza privata, violenza sessuale, violazione di domicilio), la conseguente formula assolutoria sarebbe “perchè il fatto non sussiste”. Nell’ambito dell’art 50 invece il fatto tipico si configura ma verrebbe elisa l’antigiuridicità per cui la conseguente formula assolutoria sarebbe “perchè il fatto non costituisce reato”. Il consenso non ha natura negoziale ma è un semplice atto giuridico con il quale si investe qualcuno della facoltà di agire ma non ha carattere obbligatorio per cui è revocabile in ogni momento.4.1. Requisiti affiche il consenso abbia efficacia scriminante:a) Il consenso deve essere libero e spontaneo cioè immune da violenza, errore, dolo. La forma del consenso è libera infatti può essere anche tacito purché sussista al momento del fatto, non scrimina la ratifica successiva dell’operato. Il consenso putativo rileva sole se le ragioni su cui si fonda il convincimento di avere a che fare con il vero titolare del diritto sono fondate, allo stesso modo funziona il consenso presunto ma la sua efficacia è osteggiata dalla giurisprudenza che in questo modo ritiene inapplicabile la scriminante nel caso 18 e simili.b) E’ legittimato a prestare il consenso il titolare (o tutti i contitolari) del bene, ma anche il rappresentante legale o volontario tranne nei casi in cui il bene sia di tipo personalissimo. E’ richiesta per questi soggetti la capacità di agire che si sostanzia nella capacità di intendere e di volere (capacità naturale) visto che l’atto non ha natura negoziale. Vi sono poi casi in cui il legislatore richiede un’età necessaria per potersi vincolare come nel caso dei diritti patrimoniali in cui vige il principio civilistico della maggiore età.4.2. I diritti oggetto di consenso da parte del titolare devono effettivamente essere nell’ambito della sua disponibilità infatti lo Stato può astenersi da qualsiasi intervento solo per i beni di esclusiva pertinenza dei privati e che non abbiano rilevanza per l’intera collettività. Naturalmente definire quali siano i diritti disponibili è compito dell’interprete sulla scorta delle indicazioni desumibili dall’intero ordinamento e dalla consuetudine. In genere sono considerati disponibili i diritti che non presentano un’immediata utilità sociale come i diritti patrimoniali purché non si eccedano i limiti stabiliti dalla legge (vedi art 423,2), gli attributi della personalità come l’onore , la liberta morale, la libertà sessuale purché la lesione sia circoscritta e non comporti il totale sacrificio degli stessi. E’ da sottolineare il fatto che la portata ed i limiti alla disponibilità dei diritti sono un dato storicamente variabile e condizionato dai differenti atteggiamenti del potere statuale nei confronti dei privati. Nel momento attuale dei limiti alla disponibilità dei diritti sono posti dall’esigenza di rispettare interessi superindividuali costituzionalmente protetti. Problematico

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sotto questo aspetto è il bene integrità fisica per il quale bisogna tener presente l’art 5 c.c. il quale ritiene vietati gli atti di disposizione del corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica stessa o siano contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. La lesione permanente sarebbe concessa solo in caso di miglioramento della salute, secondo un’interpretazione evolutiva dello stesso art 5 c.c. , tenendo presente la necessità del cd. consenso informato del paziente. Nel caso 19 la Cassazione ha ritenuto disponibile il diritto in questione in disaccordo con questa interpretazione dottrinale che sembra essere da un punto di vista assiologico-evolutivo quella più corretta (come dimostrerebbero anche gli art 2 e 32 Cost.). Sono considerati indisponibili tutti gli interessi che fanno capo allo Stato , agli enti pubblici ed alla famiglia e secondo la giurisprudenza non c’è efficacia scriminante nei reati contro la fede pubblica ( falsità in scrittura privata, frode in commercio, false comunicazioni sociali). Indisponibile di certo è il bene della vita come dimostrano i reati di omicidio del consenziente e di istigazione al suicidio. 5. Esercizio di un diritto (art 51 cp)

L’articolo in questione esclude la punibilità di chi compia un fatto panalmente tipico nell’esercizio di un suo diritto in ottemperanza al brocardo qui suo iure utitur neminem laedit. La ratio di questa scelta riposa oltre che nella prevalenza del diritto esercitato rispetto ad eventuali interessi confliggenti anche nel principio di non contraddizione che verrebbe violato qualora l’ordinamento riconoscesse un diritto e poi ne sanzionasse l’esercizio. Il concetto di diritto va qui interpretato nella sua accezione più ampia come potere giuridico di agire senza tener conto né della corrispondente denominazione legislativa o dogmatica (dir. soggettivo, potestativo, potestà, facoltà giuridica) né della fonte del diritto mentre ne restano esclusi gli interessi legittimi e gli interessi semplici ( non suscettivi di esercizio). Nell’introdurre il principio della prevalenza del diritto sulla norma incriminatrice il legislatore non trascura i casi in cui sia necessaria una deroga come ad esempio nel caso dell’art 423 che punisce chi incendia la cosa propria con pericolo per la pubblica incolumità. I criteri per stabilire la prevalenza fra diritto e norma incriminatrice sono tre:- gerarchico: lex superior derogat legi inferiori;- cronologico: lex posterior derogat legi anteriori;- di specialità: lex specialis derogat legi generali.Da sottolineare inoltre è che non basta vantare un diritto un astratto ma bisogna che se ne abbiano le utilità connesse alla commissione della condotta tipica in questione altrimenti si configura un caso di abuso del diritto ed i limiti della scriminante vengono superati. Oltre agli abusi al libero esercizio del diritto si frappongono limiti interni desumibili dalla natura e dal fondamento del diritto e limiti esterni ricavati dal complesso delle norme di cui fa parte la norma attributiva del diritto. In caso di limiti di rango inferiore rispetto alla norma attributiva del diritto non ci saranno problemi, in caso contrario si dovrà desumere la prevalenza del limite o della norma attributiva da altri criteri.5.1. Alcuni esempi:a) Diritto di cronaca giornalistica: lo scontro spesso si fa stridente fra diritto all’informazione (specificazione del diritto alla libera espressione) ed diritto all’onore ed alla reputazione protetti dal reato di diffamazione(art 595). Sebbene sia stato dichiarato prevalente il primo la giurisprudenza a fronte del pari rango del diritto contrapposto ha fissato alcuni limiti all’applicazione della c.d.g. in parola: verità/verosimiglianza della notizia, esistenza di un pubblico interesse alla conoscenza dei fatti, obiettiva e serena esposizione della notizia. In questo senso va risolto il caso 20.b) Diritto di sciopero: questo incontra limiti interni desumibili dalla sua stessa ratio ed esterni costituiti dalla tutela di altri interessi rilevanti con esso in conflitto. Il caso 21 esemplifica lo scontro

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fra diritto di sciopero e diritto alla libertà dei non scioperanti di recarsi al lavoro che viene risolto in maniera contrastante dalla giurisprudenza (che propende per il primo) anche se sembra preferibile la tesi che privilegia il secondo in quanto diretta espressione del principio di libertà personale, assolutamente primario nel nostro ordinamento.c) Ius corrigendi: a dire il vero il diritto dei genitori di educare i figli può confliggere con il settore penale in varie occasioni (percosse, limitazioni della libertà personale, offese) ed è perciò soggetto a dei limiti come dimostra la stessa fattispecie di cui all’art 571, abuso dei mezzi di correzione. Il problema in materia è costituito dal fatto che i limiti non sono legislativamente prefissati ma sono affidati a valutazioni sociali storicamente variabili e di conseguenza l’area della scriminante in questione è in continua evoluzione ( si registra una tendenza ad un suo restringimento). Tale diritto è naturale in capo ai genitore, può essere delegato ad altre figure ma mai esercitato arbitrariamente, non esiste più come in passato lo ius corrigendi del marito nei confronti della moglie.d) Offendicula: spesso si invoca questa c.d.g. per legittimare l’uso di questi strumenti a tutela della proprietà che provocano offese ai terzi (cocci di vetro sui muri di cinta, filo spinato). Se la giustificabilità di tali strumenti può essere raggiunta deve passare attraverso uno stretto giudizio di proporzionalità fra interesse tutelato e strumento concreto impiegato e comunque sembrerebbe più corretto inquadrare questa tematica nell’ambito della legittima difesa.

6. Adempimento di un dovere (art 51 cp)

L'art 51 stabilisce che l'adempimento di un dovere imposto da una norma o da un ordine dell'autorità pubblica esclude la punibilità. Anche qui la norma trova la sua ratio giustificatrice nel principio di non contraddizione infatti non è razionale ricevere un ordine , eseguirlo e poi essere puniti per averlo fatto. a) Dovere imposto da una norma giuridica: esempi sono il poliziotto che procede ad un arresto, il testimone che lede la dignità altrui attraverso i fatti raccontati etc. Se la norma in questione è una legge non c'è problema ma se il precetto è contenuto in un regolamento c'è chi lo ritiene inapplicabile e quindi inoperante la c.d.g. In realtà per le c.d.g. non vige il principio di riserva di legge tipico del diritto penale visto che è un istituto che riguarda l'ordinamento nel suo complesso per cui la soluzione più razionale impone di considerare norma giuridica (in senso lato) qualsiasi precetto giuridico di provenienza legislativa o esecutiva. In virtù dell'art 10 Cost. il dovere scriminante potrà trovare la sua fonte anche in un ordinamento straniero.b) Dovere imposto da un ordine dell'Autorità: cioè in una manifestazione di volontà che un superiore rivolge ad un subordinato per il compimento di una condotta. Requisito affinché l'ordine assuma efficacia scriminante è che viga un rapporto di subordinazione di diritto pubblico ( così non è ad esempio nel caso 22 in cui l'ordine dato può rilevare a discolpa dell'agente non già sul piano dell'antigiuridicità ma su quello della colpevolezza). Il concetto di Autorità ha confini molto labili ed è controverso. Altro requisito necessario è la legittimità dell'ordine vagliata sul piano formale (competenza ad emettere l'ordine, competenza ad eseguirlo, forma prescritta) e su quello sostanziale (presupposti di legge necessari per emettere un ordine). 6.1. Il subordinato ha poteri di sindacare l'ordine del superiore?La risposta affermativa la fornisce l'ultimo comma dell'art 51 quando prevede che non sia punibile l'esecutore di un ordine illegittimo quando la legge non gli consente alcun sindacato sullo stesso. Da ciò emerge che le regola è la sindacabilità dell'ordine e ciò al fine di affermare la legalità e l'autoresponsabilità del singolo negli ordinamenti democratici. L'ordinamento sembra quindi legittimare una ricerca dei presupposti formali e sostanziali dell'ordine al subordinato che non rivesta un ruolo meramente esecutivo. Il limite del sindacato si può riscontrare nel merito lasciato

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al superiore per legge (il poliziotto può accertare che ci sia la firma del magistrato sull'ordine di arresto ma non può valutare se sussistano i gravi indizi di colpevolezza necessari per una misura cautelare). Ai fini dell'individuazione dei limiti al sindacatore soccorrono altri criteri come la natura dell'ordine impartito ed il rapporto tra subordinato e superiore. L'art 51,2 pone in capo ai soggetti legittimati a sindacare un onere di sindacato pena rispondere personalmente dell'ordine illegittimo eseguito insieme al superiore. Vi sono pero due eccezioni: se per errore di fatto taluno ha pensato di obbedire ad un ordine legittimo (art 51,3): questo

caso è una specificazione dell'errore su legge extrapenale. Se la segretaria non conosce le regole per l'iscrizione ed iscrive illegittimamente un non diplomato su ordine del Rettore.

se la legge non consente al subordinato alcun sindacato sull'ordine (art 51,4): come avviene nei rapporti tra militari dove c'è la necessità di eseguire rapidamente gli ordini cd. illegittimi vincolanti. L'insindacabilità di tali ordini è limitata tuttavia al solo piano sostanziale mentre è sempre sindacabile la legalità esterna di un ordine.

E' da sottolineare che l'impunità dell'esecutore di ordine illegittimo non sindacabile trova il suo fondamento non nell'antigiuridicità ma su piano della colpevolezza, la corte costituzionale ha parlato di causa personale di esenzione da responsabilità anziché di c.d.g.Dottrina e giurisprudenza sono concordi nell'individuare un limite assoluto all'impossibilità di sindacare la legittimità sostanziale dell'ordine cioè la sua manifesta criminosità mutuata da una fattispecie ora abrogata del codice penale militare. In tal senso si può risolvere il caso 23.

7. Legittima difesa (art 52 cp)

Art 52: “ Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.” Questo è l'ultimo residuo di autotutela concesso dallo Stato in ottemperanza al brocardo vim vi repellere licet a causa di situazioni in cui la celerità di intervento è fondamentale. Lo schema della legittima difesa può essere scisso in due: condotta aggressiva e condotta difensiva.7.1. Condotta aggressiva: La minaccia deve provenire da una condotta umana (commissiva o omissiva) o da animali o cose se è individuabile un soggetto tenuto ad esercitare su di essi una vigilanza. Ex condotta omissiva del padrone di un cane che non gli impedisce di attaccare un bambino, se il padre impugna un’arma può puntarla per far allontanare il cane. L’antigiuridicità della condotta rileva in termini oggettivi in quanto per nulla rileverebbe la non imputabilità o l’immunità dell’aggressore. L’attacco deve avere ad oggetto un diritto altrui inteso come qualsiasi interesse giuridicamente tutelato e quindi la facoltà di difesa è esercitabile per la salvaguardia di tutti i beni indistintamente inclusi i diritti patrimoniali. Altro presupposto è l’attualità del pericolo di offesa cioè nè passato nè futuro e questo risulta chiaro tenendo conto che la ratio che giustifica la legittima difesa è quella di essere l’unica soluzione possibile per proteggere un bene che rischia la lesione e non può attendere l’intervento della forza pubblica. L’attualità persiste anche nei reati permanenti.Caso 24: il pericolo qui è attuale durante la sottrazione dei cavolfiori ed al più tardi, fin quando il ladro tiene in possesso la refurtiva ma non più quando il ladro si spoglia della refurtiva e scappa. Da quel momento in poi l’inseguimento del derubato non rientra più nello schema della legittima difesa ma in quello dell’esercizio di un diritto: infatti l’art 383 cpp consente al privato l’arresto in flagranza. Si può dire comunque in ultima analisi che la legittima difesa può essere concessa al ladro in fuga che sentendosi attaccare si giri e spari ferendo il proprietario. La scriminante in esame non è invocabile qualora la situazione di pericolo sia cagionata volontariamente dal soggetto venendo meno la necessità della difesa e l’ingiustizia dell’offesa

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come dimostra di intendere la giurisprudenza nei casi di provocazioni, raccoglimento di una sfida o rissa. A tal proposito infatti il legislatore non ha menzionato nella disciplina della legittima difesa l‘involontarietà del pericolo cosa che ha fatto per lo stato di necessità (art 54). Nel caso della rissa inoltre la difesa non è l’unica soluzione visto che ci sarebbe sempre la possibilità di non cogliere l’intento aggressivo dell’avversario ed andarsene, tuttavia la giurisprudenza nonostante ammette tacitamente l’involontarietà del pericolo applica la c.d.g. in alcuni casi particolari di pericolo volontariamente cagionato: quando la reazione della vittima della provocazione risulti assolutamente imprevedibile e del tutto sproporzionata oppure quando taluno intervenga in una rissa per difendersi da una precedente aggressione. Resta allora da esaminare il requisito dell’ingiustizia dell’offesa che vedrebbe interpretarsi come ingiusta un’offesa quando l’aggressione oltre a minacciare un diritto altrui, non deve essere espressamente facoltizzata dall’ordinamento perciò non può invocare la legittima difesa chi reagisce contro una persona che agisca nell’esercizio di un diritto o nell’adempimento di un dovere.7.2. Condotta difensiva: affinché la reazione sia giustificata sono necessari due requisiti:a) Necessità: della reazione per salvare il bene posto in pericolo, equivale all’inevitabilità della stessa cioè quando non c’è la possibilità di sostituire quella reazione con un’altra meno dannosa ugualmente idonea a tutelare il bene. Il requisito in esame lungi dall’essere assoluto varia in relazione a vari fattori del caso concreto anche soggettivi. Discussa è la possibilità di fuga infatti si sostiene che quando questa sia tale da far apparire vile il soggetto aggredito non dovrebbe essere considerata una ulteriore possibilità rispetto alla reazione che sarebbe quindi legittima. Tale interpretazione sembra però non essere del tutto al passo con i tempi moderni per cui si è detto che il discrimen fra fuga e reazione dovrebbe essere compiuto sulla base di un’analisi costi-benefici per il bene protetto tenendo presente inoltre che sono possibili per il soggetto aggredito varie modalità di reazione di differente entità. b) Proporzione tra difesa ed offesa: Secondo un primo orientamento(in via di superamento) la proporzione dovrebbe sussistere tra mezzi difensivi a disposizione dell’agente e mezzi effettivamente utilizzati , ma questo potrebbe portare a conseguenze aberranti. Innanzitutto non si vede perchè il legislatore non abbia fatto intendere espressamente questa teoria e si sia limitato a mettere in relazione difesa ed offesa; in secondo luogo, ma in maniera ancor più decisiva aderendo alla tesi in esame potrebbe procedersi legittimamente ad una reazione che sovverte la gerarchia dei beni tutelati purché i mezzi più inflittivi e sproporzionati utilizzati siano gli unici a disposizione dell’agente. Ex. un vecchietto potrebbe sparare un giovane che gli ruba i frutti dall’albero solo perchè in casa non ha altro mezzo per difendersi se non il fucile. Il secondo orientamento assume a termine di giudizio di proporzione il rapporto di valore tra i beni in conflitto con la conseguenza che all’aggredito che si difende non è consentito ledere un bene superiore a quello messo in pericolo dall’aggressione iniziale. Anche in tal caso il giudizio non va fatto tra i beni considerati in astratto ma alla situazione concreta tenendo conto anche del grado della messa in pericolo degli stessi. Ex. sarebbe ingiustificabile uccidere per salvare un bene patrimoniale ma giustificato un ferimento. Se il confronto avviene fra beni omogenei (integrità fisica vs integrità fisica) il giudizio è più facile essendo necessario considerare il grado di lesività dell’azione aggressiva e di quella difensiva se al contrario interviene tra beni eterogenei (vita vs integrità fisica) salvi i casi in cui vi sia un divario consistente, si devono utilizzare dei criteri suppletivi come la rilevanza costituzionale del bene, la sanzione prevista dal legislatore per la violazione della norma protettrice del bene, eventuali norme extrapenali nonché in un secondo momento il grado di lesività dell’offesa. Caso 24: per un furto di cavolfiore sarebbero proporzionati dei colpi sparati in aria a scopo intimidatorio mentre non lo sarebbe il ferimento o l’uccisione del ladruncolo. Caso 25: E’ un’ipotesi di legittima difesa putativa per cui ai sensi dell’art 59,4 il

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gioielliere sarebbe scusato visto che ha ritenuto senza colpa esistente la c.d.g. della legittima difesa.7.3. La legittima difesa “domiciliare”: la disciplina della legittima difesa è stata innovata dalla l. 13 febbraio 2006, n. 59, la quale ha aggiunto due commi dedicati a regolare il diritto di autotutela in un privato domicilio. La ratio della riforma è da ricercare nella volontà di ampliare i poteri di reazione di chiunque venga aggredito in casa o in un altro luogo chiuso assimilabile, scopo raggiunto soprattutto grazie alla modifica di disciplina del requisito della proporzione che oggi non deve più essere accertata nel caso concreto dal giudice ma è presunto dal legislatore iuris et de iure. Se da un lato la riforma può essere giustificata come dimostra la comparazione con altre legislazioni che rafforzano i poteri di chi viene aggredito in casa, dall’altro deve essere attaccata sotto più punti di vista. In primo luogo vi è il pericolo che i cittadini credano di avere una licenza di uccidere nelle proprie case, poi non è da sottovalutare l’impatto criminogeno che essa può avere sia in coloro i quali reagiscono sia in quelli che attaccano e sanno adesso di dover essere più spietati vista la legittimazione dei cittadini a difese drastiche. Da sottolineare è anche la cattiva tecnica legislativa.7.3.1. Art 52,2: “ Nei casi preveduti dall’art 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difenderea) la propria o altrui incolumità;b) i propri beni o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. Art 52,3: “ La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto in ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.Rimangono invariati alcuni requisiti come la necessità di difendersi ed il pericolo attuale di un offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui. Nuova è invece la presunzione di proporzione nonché le condizioni del contesto in cui viene sorpreso l’aggressore. Si deve infatti configurare un’ipotesi di violazione di domicilio ex art 614 cioè si deve trattare di un estraneo che si introduca nell’abitazione altrui (o in altri luoghi di privata dimora espressi nell’art 52,3) o che vi permanga contro la volontà dell’avente diritto. Sono necessarie inoltre le condizioni a) e b) di cui all’art 52,2: A) La propria o altrui incolumità: Sembra che debba sussistere una situazione oggettiva di pericolo ma anche una configurazione soggettiva della stessa da parte dell’aggredito cd. animus defendendi che andrebbe accertato dal giudice. Per quanto riguarda i beni protetti sembra che essi siano configurabili nella vita e nell’integrità fisica essendoci così omogeneità tra il bene difeso e quello offeso. Ma la novità consiste proprio nel fatto che il giudice non deve accertare in concreto la proporzione tra danno minacciato e danno subito invece dall’aggressore, essendo questa presunta dal legislatore. A rigore allora la c.d.g. in esame dovrebbe scriminare anche se per respingere l’aggressore sarebbe bastata una reazione armata o meno lesiva. Ex. tra due amanti scoppia un litigio a casa di lei, questa gli intima di uscire e lui reagisce con fare minaccioso, lei gli spara per allontanarlo. A questo potrebbe portare la riforma del governo di centrodestra del 2006!Parte della dottrina avanza come correttivo all’eliminazione de facto della proporzione un inasprimento interpretativo del requisito della necessità, eliminando l’efficacia scriminante in tutte quelle ipotesi in cui la condotta difensiva sarebbe sostituibile con un’altra meno lesiva. La proposta ermeneutica sembra essere plausibile ma visto che nel previgente contesto la necessità era parificata alla proporzionalità in concreto,tale soluzione contrasterebbe con la ratio innovatrice della novella che vuole escludere qualsiasi accertamento concreto della proporzionalità.B) I beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione: questo criterio desta ancora maggiore preoccupazione infatti sembrerebbe che il legislatore abbia voluto invertire

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il valore di beni come la vita ed il patrimonio in ottica lontanissima da quella costituzionale. Una tale legge sarebbe infatti incostituzionale ed in contrasto con la CEDU che all’art 2 considera legittima la privazione della vita solo per difendersi da una violenza illecita. Per fortuna sono stati inseriti due altri requisiti per poter legittimamente fare uso di un’arma:- che l’intruso non desista;- che sussista un pericolo di aggressione.La prima condizione sembra ripetere ad abundantiam il requisito dell’attualità del pericolo, anche se parte della dottrina in linea con i lavori preparatori propone di individuare dall’espressione una sorta di invito a desistere da parte del padrone di casa che tuttavia è stato abbandonato anche dai legislatori per la paradossale situazione di pericolo in cui potrebbe mettere il padrone di casa. Il secondo requisito, secondo l’interpretazione più plausibile dovrebbe richiedere, per legittimare la difesa, un’aggressione al bene vita o integrità personale infatti lo stesso verbo aggredire dal punto di vista semantico ci indica questa soluzione. A conferma di ciò vi sono inoltre le disposizioni della CEDU e della Costituzione che non potrebbero tollerare altrimenti tale disciplina. Se così fosse sarebbe ristabilita la proporzione tra beni offesi e difesi. Rimane ancora un dubbio: il pericolo di aggressione deve essere anch’esso attuale? Le prime risposte propendevano per il sì in una prospettiva costituzionalmente orientata ed in analogia con il primo comma. A questo punto non cambierebbe nulla rispetto alla vecchia legge perciò sembra più coerente un’interpretazione che non richiede l’attualità del pericolo di aggressione ma piuttosto una sua probabilità. Anche questa interpretazione si presta a legittimare abusi infatti in astratto non è mai escludibile la possibilità che il malvivente scoperto aggredisca il padrone di casa. Si va allora alla ricerca di artifici ermeneutici come quello di rendere stingente il controllo sulla necessità di difendersi. A tale artificio oltre alla critica mossa prima circa un suo contrasto con il dettato legislativo, si aggiunge il fatto che sembra poco razionale pretendere dall’aggredito la scelta del mezzo meno lesivo a fronte di una situazione di pericolo che è solo potenziale. Conclusione→ perchè una reazione difensiva violenta risulti scriminata, occorre la presenza di un pericolo incombente ai beni personali del soggetto che si difende. L’innovazione allora sarebbe la seguente: l’entità dei pregiudizi arrecati ai beni personali cioè è considerato legittimo, per salvaguardare la propria incolumità, ferire l’aggressore laddove poteva bastare assestargli un pugno e simili. In entrambe le ipotesi sub a) e b) è richiesta una doppia condizione di legittimità:- che chi si difende sia presente legittimamente nel luogo chiuso in questione: questo implica l’esclusione della legittima difesa per l’intrusore;- che l’arma sia legittimamente detenuta: cioè che si posseggano le relative autorizzazioni dimostrando di essere un buon cittadino (meritandosi così la legittima difesa). Qualora l’arma non fosse legittimamente detenuta verrà meno la presunzione di proporzione ma sarà ugualmente applicabile, se ne ricorrono i presupposti, la legittima difesa tradizionale di cui all’art 52,1.

8. Uso legittimo delle armi (art 53 cp)

L’art 53 facendo salve le disposizioni della legittima difesa e dell’esercizio di un diritto/ adempimento di un dovere, si riferisce al pubblico ufficiale che nell’adempiere al proprio ufficio utilizza le armi per respingere una violenza nei confronti dell’Autorità o comunque evitare determinate fattispecie di delitti. La scriminante in parola ha avuto una autonoma collocazione solo nel codice Rocco infatti in passato la sua funzione era svolta dalla legittima difesa ordinaria. Proprio in linea con il codice Rocco essa rappresenta una manifestazione della concezione di onnipotenza del potere statale in epoca fascista e ciò risulta chiaro anche dal fatto che non venga menzionata affatto come requisito della scrminante la proporzione. In chiave evolutiva periò la c.d.g. deve essere adeguatamente ristretta interpretativamente. Dall’espressione “fatte salve le

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disposizioni...” si ricava la sussidiarietà della clausola cioè la sua applicazione avviene solo quando non operi la legittima difesa o l’adempimento del dovere. Requisito per l’applicazione dell’esimente è la qualità di pubblico ufficiale in un’accezione ristretta comprendente solo gli agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria ed i militari in servizio di Pubblica sicurezza. il secondo comma tuttavia estende l’ambito di applicazione a “qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza”. Altro requisito consiste nel fatto che il p.u. deve “adempiere ad un dovere del proprio ufficio”. Inoltre l’intervento coattivo deve essere necessario nel senso che non può essere sostituito con un altro comportamento dovendosi privilegiare altresì il mezzo meno lesivo. Requisito per l’utilizzo delle armi da parte del p.u. è la violenza (comportamento attivo tendente a frapporre ostacolo all’adempimento del dovere) o la minaccia senza distinzione anche se si è detto che quest’ultima deve essere particolarmente seria e grave. Dubbi persistono invece sulla natura della resistenza che legittimerebbe la reazione armata, in passato si richiedeva necessariamente che la resisitenza fosse attiva mentre oggi sembra più corretto non escludere neanche forme di resistenza passiva purché sia rispettato il rapporto di proporzionalità tra mezzi di coazione impiegati ed il tipo di resistenza da vincere. Alla stregua di quanto detto va risolto il caso 26 in cui non sembra essere giustificabile una risposta armata degli agenti ad una fuga dei soggetti in questione, i quali pur pericolosi in astratto versano in uno stato di resistenza passiva che di norma non legittima la risposta armata. Come ha detto infatti l’organo giudicante, la fuga non legittimerebbe la risposta armata anche se i fuggiaschi sono pericolosi terroristi in quanto essa non va riferita ai precedenti reati commessi.8.1. L’ultima parte dell’articolo in cui sono elencati dei reati particolarmente gravi che richiedono comunque una certa risposta è stata aggiunta dalla l. 22 maggio 1975, n. 152. Tuttavia dando all’art in parola un’interpretazione ordinaria questo sembra essere superfluo in quanto la violenza insita in questi delitti (mutuati dalla legislazione speciale come contrabbando, espatrio clandestino, evasione dei detenuti) legittimerebbe ugualmente la reazione. L’unico modo per dare un’efficacia autonoma allo stesso è quello di interpretarlo come un tentativo di anticipare la reazioni in quei particolari casi alle fasi antecedenti rispetto a quella in cui sono ravvisabili gli estremi dell’idoneità e dell’univocità degli atti come elementi del tentativo punibile. Ma questa interpretazione si espone a riserve critiche poiché consente la reazione armata anche in assenza di un effettivo pericolo per i beni presi di mira.

9. Stato di necessità (art 54 cp)

L’art 54 parla di “necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona” affinché si possa usufruire della scriminante in parola. Legittima difesa→ si reagisce contro un aggressore che minaccia di offendere un nostro dirittoStato di necessità→ si reagisce per sottrarsi al pericolo di un danno grave alla persona ( l’azione difensiva ricade non sull’aggressore ma su di un terzo che non ha provocato il pericolo, spasso cagionato dalle forze cieche della natura).Se in passato si giustificava l’esclusione della colpevolezza di chi agisce in stato di necessità poiché non erano umanamente esigibili altri comportamenti da parte dell’agente, tale paradigma non è sembrato adeguato per spiegare il cd. soccorso di necessità cioè diretto non a salvare sé stesso ma altri, sebbene anche in questo caso l’agente sia determinato da un’anomala situazione psicologica. La dottrina attuale ha allora preferito abbandonare il terreno della colpevolezza per la ricerca della ratio giustificatrice della c.d.g. in esame che viene fatta risiedere nella mancanza di interesse dello Stato a salvaguardare l’uno o l’altro dei beni in conflitto, posto che uno di essi sia destinato a soccombere. Bisognerebbe operare comunque un bilanciamento fra gli interessi in gioco

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salvaguardando quelli di rango superiore. La ricostruzione unitaria dello Stato di necessità dovrebbe considerare la differenza fra soccorso di necessità (il cui fondamento è il bilanciamento di interessi) e lo stato di necessità cd. cogente (il cui fondamento è l’inesigibilità psicologica).9.1. Differenze con la legittima difesa:vista già la figura del terzo estraneo che viene danneggiato nel caso dello stato di necessità, in quet’ultimo caso l’azione giustificata tende ad evitare il pericolo attuale di un danno grave alla persona e non a salvaguardare un diritto come nella legittima difesa.- Attualità del pericolo: situazione di fatto che permette di formulare un giudizio di

probabilità sul prossimo verificarsi della lesione (la disciplina è pressappoco quella della legittima difesa). L’attualità del pericolo non è un criterio solamente temporale infatti vi sono beni che presentano pericolo attuali di lesioni sebbene queste non siano temporalmente immediate come nel caso del bene vita.

- Involontarietà del pericolo: la ratio di questo requisito la si può individuare sulla lesione di un interesse di un terzo incolpevole. Sebbene tale nozione sia controversa sembra potersi affermare che rileva la situazione pericolosa immediatamente collegata alla lesione e non i suoi lontani antecedenti. ( il dissipatore che ruba un medicinale per salvare la figlia è scusato sebbene abbia egli in passato causato questa situazione attuale. Si può legittimamente affermare che rimangono escluse dall’ambito della scusabilità le situazioni causate dall’agente con colpa (cosciente o incosciente) proprio in linea con la ratio dell’istituto attenta a salvaguardare la posizione del terzo incolpevole.

- Inevitabilità altrimenti del pericolo: è un requisito rafforzativo della necessità di salvare sé o altri da un pericolo attuale di danno grave alla persona. Sembra che nel caso dello stato di necessità, tale requisito operi più rigorosamente che nella legittima difesa per cui ad esempio si ritiene che la fuga sia sempre preferibile rispetto all’offesa arrecata al terzo innocente. Un’interpretazione particolarmente rigorosa in tal senso viene dalla Corte di Cassazione che parla di necessità inderogabile e cogente e che così argomentando tende ad escludere l’applicabilità dell’art 54 ai casi di bisogno economico che potrebbero essere risolti al giorno d’oggi con altri strumento predisposti dallo Stato sociale. Questa interpretazione non sembra del tutto corretta visto che si valutano le situazioni solo in astratto non tenendo conto invece della inevitabilità in concreto. Questo discorso vale per il caso 27 il quale in astratto configura un’ipotesi di invasione di edifici ma in concreto è l’unico modo per salvaguardare il bene in pericolo per cui dovrebbe giustamente applicarsi l’esimente dello stato di necessità.

- Danno grave alla persona: parte minoritaria della dottrina vi ricomprende solo la morte o la lesione grave mentre altra dottrina include anche i beni di natura personale dell’uomo come anche quelli di personalità morale dell’uomo. Nell’attuale momento storico non sono accettabili soluzioni aprioristiche ma bisogna includere qualsiasi lesione rilevante di un bene personale penalmente o non penalmente tutelato. La gravità del danno è poi quantificabile in termini quantitativi o qualitativi.

- Rapporto di proporzione tra fatto e pericolo: secondo la tesi dominate ma comunque troppo chiusa, tale rapporto dovrebbe sussistere tra i beni in conflitto: il bene privilegiato deve essere superiore o almeno uguale a quello sacrificato. La critica a tale teoria consiste nel fatto che essa consideri i beni come entità astratte senza tener conto degli altri requisito (attualità del pericolo, necessità-inevitabilità dell’azione difensiva. Il criterio di accertamento del rapporto di proporzionalità dovrebbe mettere in raffronto il valore dei beni con l’esame comparativo dei rischi rispettivamente incombenti, con un accertamento ex ante sul bene da salvaguardare e sul bene del terzo. Se il rischio maggiore grava sul terzo il valore del bene da salvaguardare deve essere maggiore (caso a); se invece il bene di

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maggior peso è quello del terzo il rischio maggiore deve essere quello sul bene da salvaguardare (caso b). Il caso a) ricorre nel caso 27 in cui il rischio maggiore incombe sull’ente proprietario mentre il pericolo di vita è meno prossimo ma il rapporto tra i beni è sicuramente a vantaggio del bene vita. Si applica perciò l’art 54. Il caso b) ricorre nel caso di una corsa per portare in ospedale un cittadino che sta per perder un braccio effettuata con modalità tali da non ferire nessuno. Se la corsa provocherà un morto sussisterà lo stesso lo stato di necessità in quanto l’interesse da salvaguardare era rilevante e l’evento era difficilmente immaginabile ex ante. Per quanto riguarda il caso 28 per scongiurare il pericolo attuale dell’eversione lo strumento della violenza fisica e morale nei confronti dei brigatisti non può essere considerato uno strumento necessario ed inevitabile per combattere il terrorismo . Per quanto riguarda la possibilità di applicare l’art 54 agli organi pubblici che eccedono i loro poteri, è da escludere nel senso che in tal modo potrebbe essere aggirato il principio di legalità nell’azione degli organi pubblici. Ciò è evidente nel caso 28.

-9.2. L’ipotesi del cd. soccorso di necessità che ricorre se l’azione necessitata è compiuta non dallo stesso soggetto minacciato ma da un terzo soccorritore, è contemplata nell’art 54. Vi sono tuttavia casi che configgono con un’altra scriminante cioè l’adempimento di un dovere come nell’omissione di soccorso ex art 593. Dibattuta è la necessità del soccorso qualora non sia richiesto dall’interessato come nel caso dell’alimentazione forzata.Il secondo comma dell’art 54 esclude l’applicabilità della c.d.g. in esame a “chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo” ( vigili del fuoco, guardie alpine etc) tuttavia si ritiene che l’art 54 si applichi comunque se chi ha quel particolare dovere realizza un’azione necessitata per salvare non sé stesso ma altri in pericolo.L’ultimo comma dell’art 54 estende invece l’ambito di applicazione alle ipotesi di coazione morale cioè ai casi in cui lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia. Del fatto risponde chi minaccia costringendo a commetterlo, per l’applicazione della scriminante in questione devono sussistere tutti i requisiti analizzati per lo stato di necessità.Altra differenza fra stato di necessità e legittima difesa la troviamo sul piano sanzionatorio infatti ai sensi dell’art 2045 c.c. al danneggiato è dovuta un’indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice e ciò si spiga in base al ruolo incolpevole del terzo nella vicenda dello stato di necessità.

CAPITOLO 3- LA COLPEVOLEZZA

Sezione I: Nozioni generali

1. Premessa

Terzo momento del reato penale dopo la tipicità e l’antigiuridicità del fatto è la colpevolezza dell’agente, forse alla luce dell’attuale ordinamento costituzionalmente orientato il più importante di tutti. Il principio nulla poena sine lege presuppone che l’uomo agisca secondo un modello di responsabilità su più strati. Il suo modello di comportamento non è rigidamente orientato ma grazie ai poteri di signoria (strati superiori della personalità) è in grado di reagire agli stimoli esterni scegliendo fra diverse possibilità di condotta orientate secondo un sistema di valori. Questi

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poteri di scelta dell’uomo sono alla base della possibilità di configurare il reato come opera dell’agente e da ciò può discendere la rimproverabilità dello stesso. Reato→ Imputazione soggettiva all’agente→ Rimproverabilità.Art 27 Cost.: Esprime il principio della personalità della responsabilità penale nel senso del divieto di responsabilità per fatto altrui e di responsabilità per fatto proprio e colpevole. Tale indirizzo desumibile dall’art 27 Cost. è stato confermato dalla Corte costituzionale nelle sentenze 364/1988 e 1085/1988 che ha affermato che l’imputazione soggettiva del reato all’agente deve avvenire perlomeno a titolo di colpa escludendo così le possibilità di responsabilità oggettiva.La funzione primaria della colpevolezza la si può desumere anche dall’art 27,3 Cost che introduce il principio della finalità rieducativi della pena. In base ad una semplice argomentazione logica, se la costituzione prevede che le pene debbano rieducare il condannato ciò implica che esso possa essere rimproverato per il comportamento tenuto e che quindi debba rispondere quantomeno a titolo di negligenza (colpa) e non solo per il semplice nesso di causalità materiale. Altrimenti la sanzione risulterebbe ingiusta e non verrebbe accettata dall’agente per cui non spigherebbe il proprio effetto rieducativo rafforzando in esso al contrario l’ostilità nei confronti dell’ordinamento come espresso nella citata sentenza 364/1988. Questi sono i principali settori in cui vi è accordo in dottrina:- L’esigenza di ricondurre il fatto criminoso ad un singolo autore sotto forma di imputazione

soggettiva: la colpevolezza avrebbe la funzione di racchiudere i presupposti per l’attribuibilità soggettiva del fatto criminoso;

- Il concetto di colpevolezza presuppone il rifiuto della responsabilità per l’evento (oggettiva) in ossequio al principio secondo cui l’imputazione penale si arresta laddove il soggetto non sia in grado di signoreggiare il verificarsi degli eventi. Per rimproverare un soggetto è necessario che esso abbia avuto la possibilità di agire diversamente;

- La colpevolezza quale categoria generale dell’imputabilità del fatto al soggetto rispecchia i differenti gradi di partecipazione interiore al fatto: si differenzia perciò in dolo (volontarietà del fatto) e colpa (involontarietà del fatto) in base al disvalore dell’azione compiuta

- Deve sussistere un rapporto di proporzione tra grado della colpevolezza ed intensità della risposta sanzionatoria.

- La colpevolezza è un dato riferito all’azione concreta e non al soggetto in quanto tale per cui sono da escludere le ipotesi di colpa d’autore nelle versioni di colpevolezza per il carattere e colpevolezza per la condotta di vita.

Simili concezioni tipiche dei totalitarismi tendono a spostare l’attenzione dal fatto all’intera personalità dell’autore. In particolare la colpevolezza per il carattere rimprovererebbe all’autore il fatto di non aver saputo frenare le sue pulsioni antisociali, formandosi un carattere meno malvagio. La colpevolezza per la condotta di vita tende a rimproverare le abitudini o lo stile di vita del reo che starebbero alla base della sua inclinazione al reato spiegando così alcuni reati costituiti non da un singolo episodio ma da un modus vivendi come lo sfruttamento della prostituzione o aggravamenti di pena come la recidiva o l’ubriachezza abituale. Altre correnti contemporanee hanno dato rilievo in ossequio al carattere personale della responsabilità penale, all’atteggiamento interiore del reo nel commettere il fatto valutando a suo favore atteggiamenti come le motivazioni ideali ed a suo sfavore altri come la violenza, la durezza d’animo, la brutalità etc. Queste dottrine cercano di spostare il fulcro verso un deprecabile diritto penale dell’autore abbandonando invece l’atteggiamento oggettivistico il quale impone di individuare il nucleo del disvalore penale nel fatto offensivo di un interesse tutelato. In uno Stato costituzionale di diritto l’ambito penale non più che seguire l’orientamento oggettivistico tanto più se si considera che il giudice non è dotato di adeguati strumenti processuali in grado di indagare l’aspetto interiore della fattispecie criminosa. Quanto detto vale però in linea tendenziale infatti sono presenti in ogni ordinamento casi limite in

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cui si viene puniti pur in assenza di un effettivo legame psicologico fatto-autore, ad esempio nei casi di colpa incosciente si rimprovera all’autore di non aver impersonato il ruolo sociale di persona diligente ed avveduta. Colpevolezza→ concetto che privilegia il fatto e concerne i soggetti capaci di intendere e di volere, quindi rimproverabili. Porta all’applicazione della pena.Pericolosità sociale→ concetto che privilegia la personalità dell’autore e fa riferimento piuttosto che ad un fatto già avvenuto, alla probabilità che l’autore continui a delinquere in futuro. Porta all’applicazione della misura di sicurezza.Nella pratica tuttavia le due categorie tendono ad avvicinarsi per varie ragioni: la tendenza giurisprudenziale a valutare la personalità del reo piuttosto che il singolo reato; presenza di alcuni istituti di confine fra la due categorie come la “capacità a delinquere” di cui all’art 133; prassi penalistica orientata verso la funzione socialpreventiva ; crescente spazio della legislazione antimafia. In generale si assiste ad una erosione della colpevolezza a vantaggio della pericolosità sociale che determina un indebolimento del paradigma del diritto penale del fatto.

2. Concezioni della colpevolezza: la concezione psicologica

Le concezioni della colpevolezza lungi dal riflettere solo i vari orientamenti dogmatici, rispecchiano anche i presupposti dei fondo desunti dal contesto politico nonché le funzioni del diritto penale.Concezione psicologica: dal 1850 in poi, Carrara, pensiero liberalista, scuola classica, ha un valore fortemente garantista. La colpevolezza sarebbe una relazione psicologica tra fatto ed autore.La prima funzione della teoria sarebbe quella di costituire un presupposto indefettibile cioè la partecipazione psicologica alla commissione del fatto. Colpevolezza come categoria comprendente dolo e colpa: “e il rapporto psicologico tra l’agente e l’azione che cagiona un evento voluto o non voluto ancorché non preveduto ma prevedibile”. La seconda funzione è quella di circoscrivere la colpevolezza al solo ambito del fatto. La teoria è di chiare origini illuministiche in quanto considera gli uomini tutti uguali consentendo di differenziare il trattamento punitivo solo in base alla gravità del fatto sulla base di criteri oggettivi (entità del danno cagionato) e non di considerazioni sul soggetto. La concezione della pena di conseguenza è quella retributiva non essendovi quindi spazio per funzioni di prevenzione generale né speciale ne per la recidiva.Critiche: non riesce a fornire una nozione unitaria di colpevolezza posto che tra dolo e colpa vi sono rilevanti differenza; non tiene conto della possibilità di graduare la colpevolezza visto che rimangono indifferenti i motivi che inducono a delinquere.

3. Segue: la concezione normativa

Essa nasce per far fronte alle lacune lasciate dalla concezione psicologica e per apprestare qualche rimedio contro la crisi della concezione retributiva della pena. Si fanno strada così i motivi dell’azione e le circostanze in cui essa si realizza più in linea con la prassi giudiziaria che tende a diversificare il rimprovero per ogni diverso fatto volontario o involontario che sia. Questa concezione si presta perciò a fungere da criterio di commisurazione giudiziale della pena avvicinando la concezione A) e B) della colpevolezzaColpevolezza A)→ CONCEZIONE NORMATIVA←Colpevolezza B)Colpevolezza A)→ elemento costitutivo dell’illecito penale insieme con la tipicità e l’antigiuridicitàColpevolezza B)→ criterio di commisurazione della penaEsempio di Frank: il furto di un cassiere scapolo ed abituato agli svaghi non può essere considerato allo stesso modo di quello compiuto da un fattorino sposato e con i figli da mantenere; stessa cosa

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per l’errore di manovra compiuto dal ferroviere di prima mattina rispetto a quello compiuto dal ferroviere stanco all’ultima corsa della sera.Concezione normativa: Frank, da una risposta all’esigenza di valutare le circostanze dell’agire e il processo di motivazione. La colpevolezza consiste nella valutazione normativa di un elemento psicologico, e precisamente nella rimproverabilità dell’atteggiamento psicologico tenuto dall’autore.Si sostiene che il fatto doloso è un fatto volontario che non si doveva volere e quello colposo, un fatto involontario che non si doveva produrre, per questo l’elemento comune sarebbe l’atteggiamento antidoveroso della volontà ma nello stesso tempo la rimproverabilità/riprovevolezza permetterebbe di graduare i giudizi di colpevolezza in rapporto alla qualità dell’elemento psicologico. Ciò non deve indurre a credere che si parli di riprovevolezza in senso morale infatti ciò che importa è l’aspetto normativoColpevolezza giuridica: si distacca dalla concezione retributiva della pena assurgendo invece in relazione alle funzioni di prevenzione generale e speciale a baluardo garantistico per le libertà del singolo; Colpevolezza morale: non azioni contrarie alle concezioni morali o religiose ma azioni socialmente dannose. La concezione normativa sebbene non siano ben chiari i suoi elementi costitutivi ed il legame personalistico fatto-autore è accolta dalla maggior parte della dottrina soprattutto di lingua tedesca.

4. Orientamenti attuali

La teoria della colpevolezza ha profondi riflessi sulla concezione generale del diritto penale ed in particolare sulla concezione della pena. Se in passato dominava la funzione retributiva la teoria della colpevolezza ne risultava influenzata essendo necessaria un’azione colpevolmente commessa affinché si potesse predisporre una pena retributiva del male commesso. Oggi che la concezione retributiva è entrata in crisi lasciando spazio a funzioni di prevenzione (speciale o generale) si apre il problema di una nuova concezione della colpevolezza. Questa nell’attuale sistema è condizione necessaria ma non sufficiente della punibilità infatti le funzioni preventive generale (distogliere altri dal delinquere) e speciale ( impedire che lo stesso autore del fatto torni a delinquere) richiedono qualcosa in più che la semplice riparazione alla pena.Domanda: la tradizionale categoria della colpevolezza ha una vera ragion d’essere all’interno del diritto penale della prevenzione ovvero la sua sopravvivenza è una sorta di provvisorio compromesso col vecchio diritto penale retributivo? Per la risposta è opportuno distinguere tra colpevolezza A) e colpevolezza B).

4.1. COLPEVOLEZZA (A)Parte della dottrina sostiene che la colpevolezza come elemento costitutivo riceve oggi una rinnovata legittimazione grazie al suo rapporto di strumentalità rispetto alla funzione preventiva della pena. Intanto sì è visto che la rieducazione del reo è tanto più semplice quanto più sia possibile rimproverare il suo comportamento altrimenti essa non verrebbe compresa oppure verrebbe considerata ingiusta. Inoltre la presenza della colpevolezza come limite alla punibilità può svolgere funzioni dei prevenzione generale o deterrenza sulla scorta del fatto che la minaccia della pena agisce nel reo attraverso un’analisi dei costi e dei benefici del reato, questa analisi presuppone che il potenziale reo compia una decisione autonoma circa la sua astensione dai reati per cui il fatto che non possa essere punito per il semplice nesso di causalità risulta coerente con la libera scelta del potenziale reo di astenersi. In altre parole una legge penale che punisce fatti incontrollabili, difficilmente potrebbe fungere da appello rivolto alla volontà dell’agente per distoglierlo dal commettere illeciti penali. Potrebbe tuttavia valere il discorso contrario: cioè

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sapere di poter essere incriminati per fatti incontrollabili potrebbe provocare nel potenziale reo un innalzamento degli standards di diligenza. Per cui se si seguisse tale ragionamento la categoria della colpevolezza sarebbe superflua ai fini della prevenzione generale. In realtà in un ottica di bilanciamento delle esigenze preventive e di quelle garantiste la colpevolezza funge da argina garantistico a presidio delle libere scelte d’azione ( sentenza 364/1988).

4.2. COLPEVOLEZZA (B)La funzione individualgarantistica della colpevolezza risalta ancora di più nel terreno della commisurazione della pena, fase anch’essa influenzata da esigenze preventive. Il problema in proposito riguarda le pene esemplari cioè quei provvedimenti adottati dal giudice nel caso concreto (per cui si tratta di pene inflitte ad un singolo reo) che tuttavia hanno volutamente una valenza deterrente. E’ giusto in questi casi prescindere dalla colpevolezza del reo nel singolo caso per soddisfare esigenze di carattere generale? E’ rispettato in questo modo il principio di colpevolezza? Se si rispondesse di sì, si finirebbe per accettare in uno Stato di diritto, la soppressione dei diritti individuali e la strumentalizzazione della persona umana per fini di politica criminale. Il principio di colpevolezza al contrario prevede che ci sia una proporzione tra il fatto commesso e la punizione anche in un’ottica rieducativi. Questa accezione del principio di colpevolezza assolve dunque una funzione limitativa della sfera di punibilità poiché il suo rispetto vieta per perseguire scopi di prevenzione generale/speciale, di infliggere pene di ammontare superiore al limite massimo corrispondente all’entità della colpevolezza individuale. E’ da sottolineare il fatto che tale accezione di colpevolezza è sinonimo di fatto colpevole cioè una categoria di sintesi che include tutti gli elementi dai quali dipende la gravità del singolo reato e rispetto ai quali può essere mosso un rimprovero all’agente.4.3. Problema: limiti e portata della possibilità di agire diversamente. La possibilità di agire diversamente quale presupposto del rimprovero di colpevolezza si valuta in relazione al caso concreto o in base al criterio dell’uomo medio? In passato si accettava la seconda possibilità evidenziando le difficoltà di individuare nel processo la possibilità di autodeterminazione dell’agente concreto, per contro sostengono di andare alla ricerca dei motivi nel caso concreto coloro i quali pensano che il riferimento all’uomo medio sottragga alla colpevolezza ogni fondamento reale trasformandola in una formula vuota e completamente asservita ad esigenze preventive. Il dibattito su tutti i temi afferenti alla colpevolezza, lungi dall’essere solo teorico, è ancora molto aperto.

5. Struttura della colpevolezza

La concezione normativa oggi dominante, afferma che è colpevole un soggetto imputabile, il quale abbia realizzato con dolo o colpa la fattispecie obiettiva di un reato, in assenza di circostanze tali da rendere necessitata l’azione illecita. Concetto di colpevolezza (presupposti): - Imputabilità (sezione II)- dolo o colpa (sezione III)- conoscibilità del divieto penale (sezione VI)- assenza di cause di esclusione della colpevolezza (sezione VII)

Problema preliminare: dove si colloca l’imputabilità (capacità d’intendere e di volere)?Antolisei (orientamento tradizionale: imputabilità come qualificazione soggettiva estranea alla teoria del reato ma che fa parte della teoria del reo. E’ come un modo di essere, uno status della persona necessario poiché l’autore del reato sia assoggettabile a pena (causa di esenzione personale da pena). Pagliaro, analogamente, la considera un aspetto della capacità giuridica penale, presupposto per l’attribuzione di un illecito sanzionato con pena. L’opinione tradizionale è

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fondamentalmente accolta in giurisprudenza. Tutto si basa sul fatto che gli art 222 e 224 riferiti alle misure di sicurezza farebbero richiamo all’intensità del dolo e della colpa anche<quindi per i non imputabili. La dottrina in esame ne deduce allora che l’imputabilità non è presupposti per la colpevolezza ma stato soggettivo che decide della assoggettabilità a pena in senso stretto.Fiandaca’s opinion: Critica l’eccesso di formalismo della teoria tradizionale e riconduce l’imputabilità all’alveo della colpevolezza. L’imputabilità intesa come maturità psicologica del reo, consente di muovergli un rimprovero. Un rimprovero ha senso solo se il destinatario può comprenderlo. Per controbattere alla teoria precedente si deve dire che non si contesta il fatto che il nostro sistema penale riferisca il dolo e la colpa anche agli incapaci di intendere e di volere ma in questi soggetti hanno sicuramente una valenza differente rispetto ai soggetti capaci. Il dolo del non imputabile può non ricomprendere la consapevolezza del suo significato offensivo come la colpa del non imputabile consiste nella violazione di una misura oggettiva di diligenza.L’imputabilità si distingue dalla coscienza e volontà dell’azione di cui all’art 42,1 che sono condizioni dell’attribuibilità psichica di una singola azione od omissione al suo autore mentre l’imputabilità (capacità di intendere e di volere) rispecchia una qualità personale dell’autore che permette di qualificare colpevole un comportamento già ascrivibile a lui come cosciente e volontario. Ex: se una sentinella omette di dare l’allarme perchè è stata legata ed imbavagliata non c’è volontarietà dell’omissione ma c’è la capacità di intendere e di volere.

Sezione II- Imputabilità

1. Premessa

Ricordando che la colpevolezza presuppone la capacità di scegliere tra diverse alternative d’azione, l’imputabilità intesa come capacità di autodeterminarsi, rappresenta il momento imprescindibile della colpevolezza. Art 85,2 : “ E’ imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”In passato l’imputabilità veniva identificata con la libertà del volere in senso filosofico ma così non è infatti la vecchia disputa fra determinismo ed in determinismo si è affievolita lasciando spazio alla prospettiva scientifica delle moderne scienze sociali. Ormai infatti è acclarato che la volontà umana è soggetta ad una miriade di condizionamenti per cui non ne può esistere una completamente libera, in una accezione più realistica e meno pretenziosa si può essere definiti libero quando non si soccombe passivamente a tutti gli impulsi psicologici interni ed esterni e si è dotato di poteri di inibizione e di controllo capaci di permettere scelte consapevoli. E’ una continua dialettica tra impulsi e controllo, si tratta perciò di una nozione di libertà relativa, condizionata tra l’altro dalle aspettative altrui. La prospettiva in esame di una libertà condizionata è proprio quella preferita dal diritto penale che non ricerca la libertà del volere come dato ontologico scientificamente dimostrabile ma come un necessario presupposto della vita pratica come contenuto nelle aspettative giuridico-sociali. La pena infatti ha senso solo in quanto l’uomo può essere condizionato dal suo timore e può quindi decidere in maniera quasi libera, di non delinquere.La categoria dell’imputabilità come visto ha un forte legame con quella della colpevolezza visto che non è logico rimproverare per un’azione un soggetto non in grado di capirne il significato o di astenervisi. Assonanze ancora più significative sono presenti nel settore sanzionatorio infatti non si comprende come un soggetto potrebbe essere influenzato da esigenze di deterrenza se non è in

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grado di coglierne il significato e nell’ambito della prevenzione speciale non sarebbe possibile la rieducazione del reo se esso non è stato in grado di comprendere nemmeno il significato della sua azione criminosa. Si parla a tal proposito di motivabilità normativa intesa come attitudine a recepire l’appello della norma penale e si lamenta un suo difetto in talune categorie di individui come i minori, le persone inferme di mente ed assimilabili. Per la loro incapacità di comprendere il trattamento punitivo questo deve essere limitato ai solo soggetti psicologicamente maturi.Il concetto di imputabilità ha subito nell’ultimo trentennio alterne evoluzioni che lo hanno portato ad essere (anni 70) messo da parte a favore di orientamenti scientifici che individuavano la criminalità come la risultante di disturbi psichici del delinquente; poi si sono diffusi orientamenti anticustodialistici i quali combattono l’equiparazione fra delinquente e malato di mente, considerando questi ultimi alla stregua dei soggetti capaci in modo da responsabilizzarli; si è infine avanzata la proposta di eliminare la categoria in parola con equiparazione del trattamento penale per i sani e per i malati di mente. E’ sbagliato innanzitutto pensare che essi siano completamente incapaci di comprendere il significato della pena, allo stesso modo pensare che essi siano sempre in grado di comprenderla Se l’abolizione del concetto di imputabilità sembra ancora lontana, sarebbe necessario un ripensamento della nozione facendo tesoro dei recenti sviluppi nel campo delle scienze psichiatriche. Tuttavia rimane da chiedersi se ed in che misura sia legittimo prospettare una nozione giuridica dell’imputabilità svincolata dai parametri delle altre discipline scientifiche.

2. La capacità di intendere e di volere

Il concetto imputabilità è di natura sia empirica sia giuridica in quanto in un primo momento sono le scienze naturali a descrivere quali siano i presupposti per poter stabilire che la pena sia compresa dall’uomo ma d’altra parte è l’aspetto giuridico che selezione i dati forniti dalle scienze naturali e li rende vincolanti. Il legislatore all’art 85 fissa i presupposti dell’imputabilità nella capacità di intendere e di volere durante la commissione del fatto. Il legislatore stesso poi compie una tipizzazione delle situazioni in cui manca la capacità di intendere e di volere (minore età, infermità mentale, altre cause come l’alcoolismo) ma lascia aperta la possibilità che questa non sussista a prescindere dalla sua tipizzazione. Nel richiedere la capacità di intendere e quella di volere il legislatore compie questa distinzione, per il vero oggi scientificamente discutibile, dovendo però necessariamente sussistere entrambe infatti qualora ne mancasse una verrebbe meno l’imputabilità. Non è poi difficile capire che ogni tentativo di definirle separatamente non può che essere tautologico mentre è più facile descrivere l’imputabilità in negativo0 mediante le cause che in concreto la escludono.Capacità di intendere→ l’attitudine ad orientarsi nel mondo esterno attraverso una percezione non distorta della realtà, comprendere il significato del proprio comportamento e valutarne le possibili conseguenzeCapacità di volere→ potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi in base ad un sistema di valori, attitudine a scegliere in modo consapevole tra motivi antagonisticiEsse sono in rapporto consequenziale nel senso che la capacità di intendere è il presupposto della capacità di volere (nihil volitum nisi praecognitum).

3. Minore età

Il legislatore ha fissato classi di età medie che presuppongono differenti gradi di maturazione psichica e differenti possibili conseguenze:- minori di 14 anni: presunzione assoluta di non imputabilità (art 97);

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- compresi tra 14 e 18 anni: imputabilità sub-judice ( art 98) se il giudice accerta tuttavia la capacità di intendere e di volere la pena è diminuita;

- Maggiori di 18: presunzione relativa di imputabilità.L’incapacità minorile tuttavia non si basa su di una malattia ma su di una situazione di immaturità cioè un carente sviluppo delle capacità conoscitive, volitive ed affettive comprensiva di una incapacità di intendere il significato etico-morale del comportamento. Dinanzi ad un atteggiamento abbastanza comprensivo del legislatore, i giudici adottano una linea un po’ più restrittiva tendente ad accertare la maturità del minore in relazione alla natura del reato commesso; questo per evitare eccessi di clemenzialismo dove il disvalore sociale è facilmente percepibile.

4. Infermità di mente

Art 88: “ non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto era, per infermità, in tale stato da escludere la capacità di intendere e di volere”. Questa norma è espressione di un indirizzo “biopsicologico” per cui non è sufficiente una malattia mentale accertata per escludere l’imputabilità del soggetto ma bisogna verificare in che misura ne comprometta la capacità di intendere e di volere. Le problematiche relative all’accertamento già ontologicamente problematiche sono complicate dalla mancanza di chiarezza della scienza psichiatrica che adotta differenti paradigmi (medico, psicologico, sociologico). Il ruolo del giudice e del perito è ancora più delicato oggi che in seguito all’abolizione della presunzione di pericolosità del malato di mente (l. 663/1986) ove in concreto non si accerti la pericolosità sociale del malato lo si lascia libero da qualsiasi tipo di trattamento penale con potenziali rischi per la collettività.Problema: “Infermità” ex art 88 corrisponde al termine “malattia”?In realtà il termine infermità sembra avere una portata più ampia ricomprendendo anche disturbi di carattere non strettamente patologico, questa interpretazione sarebbe suffragata anche dalla ratio dell’imputabilità infatti ai fini della non imputabilità non è necessario che la condizione del soggetto sia prevista in qualche trattato di medicina ma piuttosto che sia inidonea a percepire il disvalore commesso e quindi una possibile punizione. Inoltre è da sottolineare che l’infermità di cui agli art 88 e 89 può avere origina anche da malattie fisiche a carattere transitorio purché produttive di vizio di mente. Altra disputa sul concetto di infermità avviene sul terreno della prassi applicativa infatti la nostra giurisprudenza sembra essere orientata verso un paradigma medico nell’individuare il concetto di malattia mentale e questo al duplice scopo di garantire certezza giuridica ed impunità solo ai veri malati di mente. Questo orientamento che esclude dall’area dell’inimputabilità le semplici anomalie psichiche è avversato da un indirizzo minoritario (incrementato negli anni 60-70) che tende a rivendicare maggiore autonomia rispetto alle classificazioni medico-nosografiche dando così la possibilità al giudice di far rientrare negli art 88 e 89 anche disturbi in suscettivi di un preciso inquadramento clinico. Quest’ultimo indirizzo ha permessi di dare rilievo ad alterazioni mentali atipiche cd. psicopatie cioè delle disarmonie della personalità che, in alcune occasioni, bloccano le controspinte inibitorie del soggetto e gli impediscono di rispondere criticamente agli stimoli esterni. Ex. Reazioni a corto circuito come nel caso 30 . Sono ammissibili le psicopatie? Se si privilegia la difesa sociale certamente non, ma se come sembra più corretto, si da conto del principio di colpevolezza anche le psicopatie (almeno nelle situazioni più gravi e meno controverse) possono incidere sulla capacità di intendere e di volere del soggetto fino ad escluderla del tutto. Sulla stessa linea è giunta la Cassazione che ha riconosciuto rilevanza anche ai disturbi della personalità purché “siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere” ed a condizione che sussista un nesso eziologico tra disturbo e condotta criminosa.

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Stati emotivi e passionali: (art 90) prevede che non escludano né diminuiscano l’imputabilità. L’art in questione è espressione del rigorismo del codice Rocco il quale si basava sull’equazione fra infermità che esclude l’imputabilità e malattia mentale in senso stretto al fine di escludere dall’impunità gli autori di delitti passionali o impulsivi. Tuttavia lo stesso è stato oggetto di critiche da parte della dottrina che ne ha auspicato l’abolizione, sebbene altra parte della dottrina ne abbia giustificato la formulazione con la necessità dello Stato di frenare gli impulsi emotivi dei cittadini. Oggi l’efficacia scusante degli stati emotivi è subordinata a due stringenti condizioni:- che lo stato di coinvolgimento emozionale si manifesti in una personalità già per altri versi

debole;- che lo stato emotivo assuma per particolari caratteristiche significato e valore di infermità,

sia pure transitoria.In questo stato delle cose il giudice rischia di disorientarsi avendo tra l’altro un grado di discrezionalità per esso stesso insopportabile, per cui è auspicabile un intervento legislativo chiarificatore.4.1. Vizio totale di mente art. 88 cpE’ totale il vizio se l’infermità di cui il soggetto soffre al momento della commissione del fatto, è tale da escludere del tutto la capacità di intendere e di volere. Ci si è chiesti allora se l’infermità di solo una parte della personalità giustifichi un fatto non eziologicamente connesso con quel disturbo, ed una dottrina non esente da critiche ha risposto in senso affermativo facendo leva sul fatto che l’art 88 rapporta l’incapacità al soggetto nel momento del fatto e non allo specifico fatto commesso. Allo stesso modo si riconosce il vizio totale qualora il vizio di mente sia transitorio sebbene nella prassi si propenda per una responsabilità nei cd. intervalli di lucidità a condizione che sia dimostrato sufficientemente che in quell’intervallo l’agente era realmente lucido.Abolita la presunzione di pericolosità una volta accertato il vizio totale di mente il giudice ai fini dell’applicabilità della misura di sicurezza dovrà accertarne in concreto la pericolosità sociale.4.2. Vizio parziale di mente art. 89 cpColui che “nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato da scemare grandemente senza escluderla , la capacità di intendere e di volere, risponde del reato commesso ma la pena è diminuita”. La differenza fra le due forme di vizio è solo quantitativa e non qualitativa infatti la legge prende in considerazione il grado della malattia. Il vizio parziale non riguarda solo parte della mente ma tutta la mente in misura minore e questo ci fa capire come il suo accertamento lungi dall’essere scientifico ed aprioristico debba essere ancorato al caso concreto ed a tutte le indicazioni desumibili. In pratica il giudice è libero di decidere in modo assolutamente autonomo per cui l’istituto in esame si presta anche a strumentalizzazioni da parte degli agenti e dei loro avvocati. L’istituto in esame rappresenta perciò differenti indirizzi di politica criminale: c’è chi lo avversa per le possibili strumentalizzazioni e chi lo apprezza per la possibilità di sanzionare i comportamenti di persone non completamente sane di mente. Il vizio parziale di mente è compatibile con le aggravanti della premeditazione, dei futili motivi, con l’attenuante della provocazione e le attenuanti generiche. Comporta una diminuzione di pena e se il giudice accerta la pericolosità sociale può portare ad una misura di sicurezza.

5. Ubriachezza ed intossicazione da stupefacenti

Questi due fenomeni sono considerati dal legislatore criminogeni ed inoltre secondo l’ideologia della salute era necessario tutelare la salute pubblica dagli eccessi. La disciplina, rigorosa e complessa è oggi di dubbia legittimità costituzionale nonché scientificamente superata. Il codice prevede una disciplina differenziata in base alla causa dello stato di ubriachezza o intossicazione:

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- Ubriachezza accidentale: per il caso di ubriachezza totale dovuta a caso fortuito o forza maggiore l’imputabilità è esclusa, mentre se la capacità era solo scemata e non esclusa c’è una diminuzione di pena. Questa ipotesi dovuta a forze incontrollabili da parte del soggetto non ne permette il rimprovero. Stessa disciplina per l’intossicazione accidentale (art 93).

- Ubriachezza volontaria o colposa : questa disciplina rigorosa (art 92) estesa anche all’intossicazione volontaria (art 93) suscita dubbi e discussioni. La ratio è evidente: chi si è ubriacato/intossicato volontariamente non può trovare scuse qualora compia un reato ma deve rispondere come se fosse capace. Questo cozza però con un dato di fatto in quanto se è vero che il soggetto ha scelto liberamente tale situazione, il reato viene compiuto da un soggetto incapace. Problema: a che titolo risponderà il soggetto incapace, dolo o colpa? Una prima teoria non accettabile, affermava che per accertare l’elemento psicologico del reato commesso dall’ubriaco bisogna risalire al momento in cui era ebbro. Si confonde in tal caso lo stato psicologico con cui ci si ubriaca con quello con cui si commette il reato rischiando di punire delitti colposi commessi volontariamente e viceversa. La teoria accettabile sostiene che il dolo e la colpa vadano accertati in relazione al momento nel quale il reato in questione viene commesso. Il problema a questa teoria è posto dal fatto che all’art 92 il legislatore pone un fictio iuris di imputabilità dell’ubriaco volontario sebbene sia incapace. Che senso ha accertare l’elemento psicologico di una persona di fatto incapace sebbene imputabile per scelta legislativa? Il dolo dell’ubriaco viene a mancare di alcuni elementi essenziali del dolo tipico così come la colpa, perciò questa è un’ipotesi dei responsabilità oggettiva mascherata. Una terza interpretazione nel tentativo di giustificare costituzionalmente la disposizione argomenta che l’art 92 si limita ad affermare la piena imputabilità senza affermare che questa implichi la colpevolezza per il reato commesso. Si può così configurare un dolo eventuale se il soggetto ha accettato il rischio di commettere un reato ubriacandosi o una situazione di colpa se il reato fu previsto ma non accettato al momento dell’ubriacatura , sempre che si tratti di reato previsto dalla legge come colposo. La teoria in esame sebbene si preoccupi di collegare momento dell’ubriacatura con quello della commissione del fatto non tiene conto del fatto che è difficile accertare le previsioni dell’agente al momento dell’ubriacatura. Conclusione: tutte le ricostruzioni sono criticabili perciò si auspica una riforma della disciplina in modo da renderla più conforme al principio di colpevolezza.

- Ubriachezza preordinata : quando è provocata al fine di commetter un reato o prepararsi una scusa (esemplificazione del principio dell’actio libera in causa di cui all’art 87). Deroga la regola della coincidenza temporale tra imputabilità e commissione del fatto criminoso senza disattendere il principio di colpevolezza. La differenza con l’ubriachezza volontaria sta nel fatto che in tal caso nel momento in cui ci si ubriaca non si ha intenzione di commettere un reato mentre in quella preordinata l’ubriachezza assurge a mero strumento per la commissione del reato che altrimenti non verrebbe commesso o si avrebbe più difficoltà a commettere.

- Ubriachezza abituale : vale anche per analogia per l’intossicazione da droghe. In tal caso non solo non viene esclusa l’imputabilità ma addirittura c’è un aumento di pena nonché la possibilità di vedersi applicate le misure di sicurezza della casa di cura e di custodia o della libertà vigilata. Sono necessari due presupposti: 1) dedizione all’uso eccessivo di bevande alcoliche; 2) frequente stato di ubriachezza. Questa fattispecie appare oggi discutibile soprattutto in relazione al fatto che non viene valutato il fatto ma lo stile di vita.

- Cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti: i compilatori del codice sonno arrivati alla conclusione che solo la cronica intossicazione da alcool o droghe può arrivare ad

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escludere o a far scemare grandemente la capacità di intendere e di volere. E’ definibile cronica intossicazione da alcool quella che provoca alterazioni patologiche permanenti, tali da far apparire indiscutibile che ci si trovi dinanzi ad una malattia. Difficile invece nella prassi discernere tra ubriachezza abituale che è un’aggravante e cronica intossicazione che esclude l’imputabilità a causa delle somiglianze sintomatologiche. Ancora più discutibile è l’equiparazione tra cronica intossicazione da alcool e da droghe infatti in quest’ultima mancherebbero delle alterazioni patologiche permanenti mentre è clinicamente provato che la capacità di un tossicodipendente è ampiamente scemata anche in caso ci non cronicità. E’ necessaria in questa disciplina in attesa di interventi legislativi un’interpretazione evolutiva.

6. Sordismo

Il presupposto, oggi discutibile, della disciplina è che la mancanza di udito e di parola pregiudichi l’autodeterminazione responsabile dell’individuo. L’art 96 tuttavia non pone presunzioni ma richiede sempre l’accertamento della capacità al giudice. Fordismo significa essere allo stesso momento sia sordo che muti per cui la disposizione non si applica ai sordi ed ai muti. Si distinguono sordismo congenito (che ostacola grandemente lo sviluppo) e sordismo tardivamente acquisito (meno grave) e sebbene non sia scritto niente sembra che la disposizione si applichi solo alla prima categoria.

7. Actio libera in causa in causa

Art 87: disciplina lo stato preordinato di incapacità di intendere e di volere dicendo che la regola secondo cui l’imputabilità deve sussistere al momento della commissione del fatto non si applica a chi si è messo in stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commette un reato o prepararsi una scusa. Esemplificazioni del principio in esame sono l’ubriachezza e l’uso di stupefacenti preordinato (artt. 92 e 93). Per giustificare la punibilità di tali comportamenti si ricorre allo schema delle “actiones liberae in causa” cioè condotte peccaminose poste in essere senza libera volontà al momento della loro commissione ma pur sempre riconducibili ad un previo atto di volontà del soggetto. Questo istituto (art 87) deroga al principio di corrispondenza temporale tra imputabilità e commissione del fatto (art 85). Come si giustifica ciò? La dottrina ha cercato di dire che l’azione comincia già nel momento in cui il soggetto si rende incapace,ma si può rispondere che così si dilata troppo la fattispecie di esecuzione del reato; altri si sono accontentati di dire che chi ha determinato una situazione dalla quale deriva un evento lesivo deve rispondere del medesimo indipendentemente dal fatto che sia voluto o meno, ma questa è responsabilità oggettiva e quindi incostituzionale. La teoria più accettabile riconduce la preordinata incapacità all’alveo della colpevolezza per cui all’agente può essere mosso un rimprovero per essersi liberamente posto in una situazione che ha facilitato o permesso un reato. E’ necessario però ai fini della punibilità che il reato commesso sia dello stesso tipo di quello inizialmente programmato poiché altrimenti ci sarebbe una cesura tra fatto e colpevolezza.

Sezione III- Struttura ed oggetto del dolo

1. Il dolo: funzioni e definizione legislativa

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Il dolo costituisce il normale criterio di imputazione soggettiva nonché il fondamentale modello di illecito. Dall’art 42 si desume infatti che le imputazioni per colpa o per preterintenzione sono possibili solo se la legge lo prevede: nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non l’ha commesso con dolo”. Il dolo svolge varie funzione nei diversi settori dell’illecito:- Elemento costitutivo del fatto tipico: nel senso che il dolo orienta già la fattispecie tipica

esistendo dei reati che, ontologicamente, non possono che essere dolosi (non esiste una violenza sessuale colposa).

- Forma più grave della colpevolezza: nel senso che chi agisce con dolo aggredisce il bene in maniera più intensa di chi agisce con colpa. Il maggiore disvalore del delitto doloso viene avvertito non solo dalla vittima ma anche dalla collettività in generale per cui deve essere proporzionalmente sanzionato.

Elementi oggettivi e soggettivi del dolo si sono saldati e vengono rappresentati separatamente solo per fini dogmatici.

1.1. Art 43,1: “ il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato della azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.Elementi strutturali: INTENZIONE divisa in PREVISIONE e VOLONTA’Elemento attinente all’oggetto: EVENTO DANNOSO O PERICOLOSO.L’elemento intenzione, è stato scisso dal legislatore 1930 in un’ottica compromissoria fra teoria della rappresentazione e della volontà.Teoria della rappresentazione: considerava la volontà e le rappresentazione (previsione) come elementi distinti: la prima ha ad oggetto il movimento corporeo dell’uomo (premere il grilletto) mentre la seconda, le modificazioni del mondo esterno provocate dalla condotta (evento-morte). Teoria della volontà: privilegia l’elemento volitivo del dolo pensando che possano costituire oggetto di volontà anche i risultati della condotta. Tale teoria pur non rinunciando alla rappresentazione la considera un presupposto della volontà.Il contrasto fra le due teorie può essere superato pensando che la volontà in realtà comprende tutto anche la rappresentazione dell’evento precedentemente voluto. Per quanto riguarda il contenuto del dolo l’art 43 fa riferimento “all’evento dannoso o pericoloso” ma anche se si privilegi la teoria dell’evento naturalistico (risultato esterno casualmente riconducibile all’azione umana) la definizione in parola risulta difettosa in quanto l’evento non è presente in tutti i modelli delittuosi. Da ciò si deve concludere che la definizione del dolo dell’art 43 è solo parziale essendo richiesta invece l’analisi dell’intera disciplina e per questo è stata un po’ messa da parte dalla giurisprudenza nella prassi.

2. Struttura del dolo: rappresentazione e volontà

Struttura del dolo: consta di due componenti psicologiche: RAPPRESENTAZIONE ( presupposto della volontà) e VOLONTA’, queste due categorie sebbene concettualmente distinguibili vanno considerate in rapporto reciproco (nihil volitum nisi praecognitum). La tesi di fondo, accettata in dottrina assegna al dolo una duplice dimensione: intellettiva e volitiva. Il dibattito che ha agitato la dottrina in passato continua a tener banco oggi attraverso la dottrina tedesca che propone un modello in cui viene privilegiata la rappresentazione ridimensionando la volontà e ciò è dovuto a vari fattori come il disinteresse scientifico per i processi volitivi, la difficoltà della prova della volontà quale elemento psicologico e la tendenza dei giudici a ricorrere a schemi di tipo presuntivo, e tendenze oggettivizzanti della struttura del dolo (si desume dalla struttura del fatto

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che questo non poteva non essere voluto). Queste caratteristiche attecchiscono bene soprattutto nell’area tedesca dove predomina una concezione funzionalistica della colpevolezza cioè asservita ad esigenze repressive. Di contro è preferibile una concezione della colpevolezza che la ponga come baluardo garantista nella direzione di eliminare gli elementi normativi o presuntivi ed accentrare il giudizio di colpevolezza nelle mani del giudice nel caso concreto sebbene questo comporti non pochi inconvenienti pratici. L’importanza del dolo e la sua sensibilità si colgono in particolar modo nel momento volitivo che rappresenta il vero discrimen con le fattispecie colpose per cui le difficoltà probatorie insite nella sua ricerca sono imprescindibili.

2.1. L’elemento intellettivo: rappresentazione o conoscenza degli elementi che integrano la fattispecie oggettiva. Non si può punire a titolo di dolo un soggetto che non conosce o si rappresenta erroneamente un requisito del fatto tipico. All’interno della componente conoscitiva un distinzione deve essere compiuta a seconda che si tratti di elementi descrittivi della fattispecie dei quali è necessaria una conoscenza elementare così per come appaiono nella loro dimensione naturalistica o di elementi normativi di fattispecie che non basta conoscere come meri dati di fatti ma che bisogna conoscere nella loro rilevanza giuridica senza con questo voler dire però che l’autore per rispondere di dolo debba conoscerne l’esatto significato giuridico. Un esempio del primo tipo è la conoscenza del concetto di uomo, di morte di cosa mobile mentre del secondo è la conoscenza di elementi normativi poiché individuati dalle leggi come il concetto di documento, di pubblico ufficiale, di altruità della cosa etc. Richiedere nel caso degli elementi normativi una conoscenza della loro rilevanza giuridica vuol dire avere una conoscenza non tecnica nel campo del diritti ma un’idea parallela nella sfera laica. Ex. Senza conoscere le leggi sulla proprietà si può individuare il proprietario di un bene attraverso il senso comune. La rappresentazione nel dolo si atteggia a previsione di un evento causato dalla propria condotta ed è compatibile anche con uno stato di dubbio che equivarrebbe ad accettazione del rischio di compiere un reato (dolo eventuale), va ricordato però che vi sono delle fattispecie dolose strutturalmente incompatibili con lo stato di dubbio come la calunnia (art 368) che richiede nella tipicità la certezza sulla falsità dei fatti narrati.Problema: La rappresentazione deve essere attuale in relazione a tutti i requisiti del fatto delittuoso o basta che si abbia una conoscenza solo potenziale di determinati elementi di fattispecie? Per rispondere a tale interrogativo bisogna abbandonare la via astratta e filosifica ed utilizzare le più recenti conoscenze scientifiche. Così va esclusa la possibilità astratta che il soggetto si soffermi su tutti i singoli elementi della fattispecie di reato mentre è necessaria una soglia minima di consapevolezza per imputare il fatto a titolo di dolo. Si concorda dal punto di vista psicologico nell’ammettere che per attribuire un reato a titolo di dolo l’uomo è considerato cosciente quando le circostanze del reato, ancorché non siano oggetto di esplicita riflessione, siano inconsciamente conosciute o facilmente conoscibili attraverso una semplice riflessione. Il dolo esulerebbe se il passaggio da una rappresentazione potenziale ad una attuale presupponesse non già un po’ di attenzione ma un processo di deduzione logica del dato attualmente noto dalle circostanze note in precedenza.

2.2. L’elemento volitivo: volontà consapevole di compiere il fatto tipico, è l’elemento che differenzia il dolo dalla colpa. La volontà interessa il movimento corporeo ed il fatto complessivo colto nella sua unità complessiva mentre sono irrilevanti semplici desideri, speranze, proponimenti, tendenze ed inclinazioni. Da non confondere è il dolo con i motivi o movente che consiste nell’impulso affettivo che spinge a commettere il reato mentre il dolo è volontà di realizzare il reato ed è compatibile con i più vari moventi. Ai fini della punibilità del dolo vista

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l’irrilevanza dei pensieri, sono necessari gli estremi del tentativo punibile (art 56) è per questo che il dolo non rileva antecedentemente o successivamente alla condotta ma solo al momento del fatto per tutto il tempo in cui esso rientra nei poteri di signoria dell’agente. In questo senso il dolo si configura se la volontà accompagna l’agente fino all’ultimo atto infatti un mero pentimento psicologico non accompagnabile dalla possibilità di incidere sullo svolgimento degli accadimenti, non rileva.

2.3. Intensità del dolo: Fra i criteri di commisurazione della pena ex art 133 c’è anche l’intensità del dolo che si ricava dalla rispettiva consistenza di volontà e rappresentazione. Dal punto di vista conoscitivo rileva la chiarezza con cui l’agente si configura i fatti di reato nonché la consapevolezza dell’illiceità penale del fatto mentre da quello volitivo rilevano le forme del dolo, il grado di adesione psicologica del soggetto al fatto, la complessità e la durata del processo deliberativo. Sarebbero meno gravi i delitti d’impeto in cui la deliberazione è presa in un breve e non lucidissimo lasso di tempo mentre più gravi sarebbero i delitti con dolo cd. di proposito in cui è presente un rilevante stacco temporale tra decisione ed esecuzione nonché quelli premeditati in cui il rilevante lasso di tempo tradisce un’ostinazione criminosa particolarmente riprovevole.

3. Oggetto del dolo

Come detto l’art 43 considera come oggetto del dolo “l’evento dannoso o pericoloso” con una scelta infelice vista l’imposssibilità di scorgere un evento (in senso naturalistico) in ogni reato come ad esempio nei reati di mera condotta. Accogliendo poi la tesi dell’evento (in senso giuridico) concepito come lesione o messa in pericolo dei b.g. si incappa nell’obiezione che, specialmente nei reati di creazione legislativa, la consapevolezza del carattere lesivo del fatto non può prescindere dall’effettiva conoscenza del precetto contro il principio di cui all’art 5 cp. Fiandaca’s opinion: L’oggetto del dolo in realtà è il fatto tipico cioè tutti gli elementi obiettivi positivamente richiesti per l’integrazione delle singole figure di reato. Solo in tal modo si possono ricomprendere tutte le tipologie di reati ( di azione e di evento). Ciò sembra essere confermato dall’art 47 che esclude il dolo in caso di errore sul fatto e per cui ammette che volontà e rappresentazione devono avere ad oggetto il fatto tipico ( cioè condotta, circostanze tipizzate dalla norma incriminatrice, evento). Affinché l’azione sia imputabile a titolo di dolo nei reati a forma vincolata bisogna che si abbia coscienza e volontà delle modalità di condotta richieste mentre in quelli a forma libera il dolo deve accompagnare l’ultimo atto compiuto prima che il decorso causale sfugga di mano all’agente. Per quanto riguarda il nesso causale invece non è necessario che l’agente si configuri tutti i dettagli ma è sufficiente che riconduca la sua azione ad un evento tipico prescritto dalla norma, sono rilevanti anche le modalità secondarie nei rati a forma vincolata.Il dolo riguarda anche gli elementi normativi cioè quelli che rinviano ad altre norme rispetto a quella incriminatrice ma questo riguarda la disciplina dell’errore (art 47 ultimo comma). Dibattuta è la questione se il dolo rilevi nel caso di mancata conoscenza delle qualificazioni nei reati propri, la soluzione più attendibile in tal caso è quella che privilegia non la conoscenza effettiva ma la conoscenza dei sostrati di fatto della qualifica soggettiva che sono gli unici rilevanti ai fini del dolo. Un soggetto perciò può rispondere di bancarotta fraudolenta anche se non consapevole della propria qualificazione giuridica di imprenditore abbia consapevolezza della natura dell’attività da esso svolta. Conclusione: nel dolo rilevano i sostrati di fatto su cui si basano le qualifiche soggettive non le fonti giuridiche delle stesse essendo detta conoscenza irrilevante ex art 5.

4. Dolo e coscienza dell’offesa

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Problema: il dolo comprende oltre alla coscienza e volontà del fatto materiale anche la coscienza dell’offesa?Offesa: 1) antigiuridicità o illiceità penale del fatto valutata alla stregua della norma incriminatrice di cui si presuppone la conoscenza (non accettabile); 2) incidenza negativa del fatto su interessi meritevoli di protezione a prescindere dalla conoscenza della norma incriminatrice in questione (accettabile). In passato a causa del dogma “ignorantia legis non excusat” la prima definizione veniva messa da parte in quanto il dolo non poteva abbracciare la conoscenza dell’illiceità in quanto tale. Si privilegiava per questo motivo una nozione di offesa scissa dall’antigiuridicità penale, presupponendo la conoscenza della norma incriminatrice in modo da dover ricomprendere del dolo almeno la coscienza dell’offesa in senso fattuale, pregiuridico ( di cui il comune cittadino può avere percezione). Con la sentenza 364/1988 è caduto il dogma predetto e perciò si è fatto spazio ad ipotesi in cui la non conoscenza del precetto può essere scusata ed è di conseguenza scemata la disputa circa i rapporti tra dolo ed offesa. La prima accezione dell’offesa come sinonimo di illiceità penale non può essere accettata in quanto sebbene gli antichi criminalisti richiedevano ai fini del dolo l’effettiva conoscenza del precetto il nostro legislatore ha recepito all’art 5 il principio dell’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale (ridimensionato oggi) mentre la seconda accezione rende più compatibile l’offesa, intesa come danno socialmente percepibile ad un bene protetto, con l’oggetto del dolo. Tale binomio dolo-offesa sembra coerente con la costruzione del fatto tipico intesa come offesa di un bene giuridico e permette di utilizzare un’accezione del dolo molto concreta ed ancorata alla realtà piuttosto che astratta e vuota come il diritto penale non può permettere essendo il dolo la forma più grave di colpevolezza. La dottrina italiana ha sostenuto in tal senso che per configurare il dolo è indispensabile la consapevolezza del carattere antisociale del fatto sottolineando che tale parametro non è ricavabile dalle proprie impressioni ma alla stregua dei criteri valutativi dominanti nella comunità sociale di riferimento. Questa soluzione presta il fianco tuttavia all’impossibilità di trovare in uno Stato laico modelli sociali completamente accettati tali da assumersi a caratteristica definitoria o momento costitutivo dell’illecito penale. Altra parte della dottrina in maniera del tutto analoga a quella appena esposta ha sostenuto che il dolo include la coscienza dell’offesa dell’interesse protetto in termini fattuali e non formali. Rima ne così da chiedersi in che modo sia compatibile con l’attuale sistema delle incriminazioni l’assunto teorico dell’inerenza al dolo della coscienza dell’offesa. Infatti mentre nei reati con evento naturalistico il disvalore è chiaro dalla compenetrazione tra fatto ed evento, nei reati cd. di pura creazione legislativa manca di solito un disvalore socialmente percepibile per cui la conoscenza dell’offesa non può aversi se non con la conoscenza della disposizione incriminatrice. Conclusione: l’affermazione secondo cui al dolo inerisce la coscienza dell’offesa presupporrebbe una riforma dell’ordinamento penale diretta a sanzionare penalmente solo quei reati il cui disvalore sia socialmente percepibile.

5. Forme del dolo. Cenni sulla problematica dell’accertamento

Queste sono le figure classiche di dolo elaborate dalla dogmatica:- Dolo intenzionale (di primo grado): si integra quando il soggetto ha di mira proprio la

realizzazione della condotta criminosa o la causazione dell’evento. Coincidenza totale tra voluto e realizzato, il ruolo della volontà raggiunge la massima intensità. Il dolo eventuale è

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compatibile anche con delle situazioni in cui non vi sia la certezza ma la probabilità di riuscire nell’intento criminoso (il dolo esula nel caso in cui la condotta sia oggettivamente priva di ogni idoneità di cagionare l’evento).

- Dolo diretto (di secondo grado): si verifica quando l’agente si configura tutti gli elementi della fattispecie e si rende conto che la sua condotta la integrerà, tuttavia l’evento cagionato non è l’obiettivo che da causa alla condotta, ma solo uno strumento necessario affinché l’agente realizzi lo scopo perseguito. Ex. Uccisione della scorta per uccidere il politico. Rientra in questa fattispecie anche il dolo indiretto in cui l’evento lesivo rappresenta una conseguenza accessoria necessariamente connessa alla realizzazione volontaria del fatto principale. Ex. Armatore che fa affondare la nave con l’equipaggio per intascare i soldi dell’assicurazione. Questa figura di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della rappresentazione.

- Dolo eventuale ( o indiretto): questa è la figura più problematica infatti si avvicina fino a toccarsi con la categoria della colpa cosciente (o con previsione). Presupposto per il dolo eventuale è che il soggetto agisca senza il fine di commettere il reato ma che si configuri tale conseguenza come possibile evoluzione di una condotta diretta ad altri scopi. Unità d’intenti c’è sul momento rappresentativo che richiede come elemento minimo che l’autore preveda la concreta possibilità del verificarsi di un evento lesivo. Ex tizio sentendo ragazzi schiamazzare lancia un bottiglia di vetro pur prevedendo possibili ferimenti.

Basta solo questo per parlare di dolo eventuale?- Teoria della possibilità: afferma che ciò è sufficiente poiché agisce dolosamente chi

prevede la concreta possibilità di ledere un b.g. e ciononostante agisce ugualmente.- Teoria della probabilità: sarebbe sufficiente per configurare il dolo non la mera possibilità

di provocare la lesione ma la probabilità che ciò avvenga. Queste due prime teorie non reggono se si tiene presente che il dolo si caratterizza più per l’elemento volitivo che per quello rappresentativo per cui occorrerà qualcosa in più.

- Teoria del consenso: cerca di rispondere all’esigenza di colmare il vuoto volitivo configurando il dolo a causa dell’approvazione interiore della realizzazione dell’evento preveduto come possibile. E’ criticabile in questa teoria il peso attribuito all’atteggiamento interiore non in linea con un diritto penale del fatto. Formula di Frank: il dolo eventuale sussiste quando è prevedibile che il soggetto avrebbe agito ugualmente agito anche se si fosse rappresentato l’evento lesivo come certamente connesso alla sua azione.

- Teoria dell’accettazione del rischio: ( è la teoria dominante in dottrina ed in giurisprudenza) perché il soggetto agisca con dolo eventuale non basta la rappresentazione mentale della concreta possibilità di verificazione dell’evento: è altresì necessario che egli faccia seriamente i conti con questa possibilità e ciononostante, decida di agire anche a costo di provocare un evento criminoso. Questa accettazione del rischio si avvicina il più possibile alla vera e propria volizione del fatto e si sostanzia in una accettazione preventiva dell’evento. La differenza fra dolo eventuale e colpa cosciente starebbe proprio nel fatto che in quest’ultimo caso sebbene il soggetto si rappresenti l’ipotesi di verificazione dell’evento lesivo confida nelle proprie capacità di evitarlo. Una delle critiche alla teoria in esame consiste nel fatto che talora il rischio non viene accettato in maniera consapevole ma superficiale (e non perché abbia già deciso di agire in ogni modo) per cui è difficile ricostruire l’aspetto conoscitivo del dolo come dovrebbe essere. E’ da sottolineare inoltre che pur diverse dal punto di vista dogmatico spesso finiscono per coincidere nella prassi dove è indubbio che il giudice si trovi di fronte a difficoltà insite nella natura psicologica dei fenomeni da studiare e possa risolverle facendo ricorso a massime d’esperienza: escluderà il dolo eventuale nei casi lievi e ordinari mentre lo integrerà in presenza di rischi gravi e

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tipici. Nella prassi tuttavia le fattispecie di dolo eventuale vengono spesso dilatate in nome di esigenze general-repressive.

- Dolo alternativo: si verifica quando l’agente prevede come conseguenza certa (dolo diretto) o possibile (dolo eventuale) della sua azione, il verificarsi di due eventi, ma non sa quale dei due si verificherà in concreto. Non è una forma di dolo autonoma ma una situazione di dolo diretto o eventuale in cui il soggetto si rappresenta come possibile conseguenza più eventi tra loro incompatibili.

- Dolo generico: nozione tipica di dolo, coscienza e volontà di realizzare la fattispecie. Caratteristica è la congruenza tra volontà e realizzazione.

- Dolo specifico: consiste in uno scopo o una finalità particolare ulteriore che l’agente deve prender di mira ma che non è necessario che si realizzi effettivamente perché il reato si configuri. Ex Nel furto è necessario che l’agente oltre all’impossessamento dell’altrui cosa persegua l’ulteriore fine di trarre profitto ma per configurare il reato basta che sottragga la cosa altrui e non già che ne abbia effettivamente tratto profitto. La previsione del dolo specifico può avere varie funzioni tra cui restringere l’ambito della punibilità, determinare la punibilità di un fatto che risulterebbe altrimenti lecito (associarsi senza commettere reati è lecito), produrre il mutamento del titolo di reato. Più recentemente l’utilità di tale categoria è stata messa in dubbio da parte della dottrina che sostiene che in alcuni casi in cui il dolo specifico ha la funzione di punire condotte altrimenti lecite questo crea un deficit di offensività nelle fattispecie in questione.

- Dolo di danno: lesione del bene giuridico; Dolo di pericolo: messa in pericolo del bene giuridico. In realtà non si tratta di due forme diverse di dolo.

-5.1. L’accertamento del dolo.La prova del dolo è difficile da trovare visto che si tratta di un processo psicologico interno che si rispecchia in fatti esterni conformi a fattispecie di reato. Non esistono criteri prefissati di accertamento infatti l’indagine del giudice è libera da qualsiasi aprioristico limite. Il giudice potrà tener conto di tutte le circostanze che possono assumere un valore sintomatico ai fini dell’esistenza della volontà colpevole: modalità della condotta, scopo perseguito, comportamento tenuto successivamente etc. Spesso sono usate delle regole di esperienza che tuttavia se mal utilizzate possono essere fuorvianti mentre sono di certo vietati gli schemi presuntivi che cozzano con il concetto stesso di coscienza e volontà reali. Esistono tuttavia situazioni soggettivamente pregnanti che dimostrano una volontà colpevole nella sola commissione del fatto. Principio generale in materia è che il dolo deve essere sempre oggetto di reale accertamento (sia nei casi dubbi che nei casi apparentemente scontati). E’ pertanto da respingere la tendenza giurisprudenziale del dolus in re ipsa che a fini probatori presume il dolo fino a prova contraria sebbene esistano fattispecie in cui ciò sembra essere ammissibile come nel caso del falso documentale in cui sembra improponibile una falsificazione per leggerezza o superficialità.

Sezione IV- La disciplina dell’errore

1. Premessa

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La disciplina dell’errore ha un ruolo fondamentale nella trattazione della colpevolezza infatti non ci può essere volontà colpevole se l’agente ha una falsa rappresentazione della realtà. Errore→ mancanza di colpevolezza→ impunibilitàErrore di fatto→mancata o errata percezione della realtà (il cacciatore non si accorge di prendere di mira un uomo anziché la selvaggina)Errore di diritto→ ignoranza o erronea interpretazione di una norma giuridica, penale o extrapenale. (Tizio provoca la morte di un feto mostruoso, nella supposizione che non si tratti di un uomo).Errore ed ignoranza sono equiparati infatti provocano lo stesso effetto, quello di impedire che l’agente si renda conto di commettere un fatto tipico, differente è invece lo stato di dubbio che se non permette un puntuale conoscenza non integra neanche un errore e perciò non esclude la responsabilità. Di particolare importanza è la tematica dell’errore di diritto che si divide in errore sul precetto penale o errore su una norma extrapenale. Errore sul precetto penale: ricade sulla norma incriminatrice ed ha ad oggetto l’illiceità penale del fatto. L’agente per ignoranza,o per errata interpretazione, non si rende conto di realizzare un fatto penalmente illecito. Nel disciplinare la materia il legislatore si preoccupa di bilanciare la piena affermazione del principio di colpevolezza con l’esigenza general-preventiva di non indebolire l’effettiva tenuta dell’ordinamento penale. Così come affermato nella storica sentenza 364/1988 il principio generale in materia è il seguente: l’errore sul precetto penale è irrilevante, a meno che non si tratti di errore inevitabile e perciò scusabile. Errore su norma extrapenale: ha ad oggetto una norma diversa da quella incriminatrice. (Caio, errando nell’interpretazione delle norme civili sulla proprietà, si impossessa di una cosa che ritiene res nullius e perciò non è consapevole di sottrarla arbitrariamente). Ai sensi dell’art 47,3 affinché rilevi tale errore deve incidere sul fatto di reato: cioè il soggetto deve essere fuorviato in modo tale da non essere consapevole di compiere un fatto conforme ad una fattispecie di reato. Se l’errore su norma extrapenale non ricade sul fatto segue la disciplina dell’errore sul precetto.

2. Errore di fatto sul fatto

L’errore corrisponde di fatto al rovescio della componente conoscitiva del dolo infatti una delle caratteristiche imprescindibili del dolo è l’esatta conoscenza della fattispecie incriminatrice in cui si incorre. In base ad un criterio quantitativo l’errore può consistere nell’ignoranza o nella falsa rappresentazione della situazione di fatto anche se l’effetto prodotto è lo stesso: una deficienza cognitiva. Questo tipo di errore che incide sul processo formativo della volontà e perciò detto errore motivo va tenuto distinto dall’errore inabilità che interviene invece durante la fase esecutiva ed assume rilevanza nei casi di reato aberrante. L’art 47 stabilisce che l’errore (o anche l’ignoranza, per costante interpretazione dottrinale) del fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell’agente, mentre se si tratta di errore determinato da colpa e se la legge prevede il corrispondente reato colposo l’agente ne risponde a tale titolo. Sia l’errore sia l’ignoranza devono vertere su elementi essenziali cioè quelli la cui mancanza determina l’impossibilità che il soggetto si rappresenti un fatto corrispondente al modello legale. Questo avviene nel caso 31, che rende scusabile l’errore. Sono irrilevanti gli errori che comportano uno scambio del soggetto e dell’oggetto che rivestono posizione equivalente rispetto alla fattispecie incriminatrice. Può succedere tuttavia che l’errore sul soggetto o sull’oggetto faccia mutare il titolo di reato, faccia venir meno il reato oppure incida sulle circostanze. Irrilevante è anche l’errore sul nesso causale a meno che il gap fra quello prefigurato e quello effettivo non sia tale da far escludere che l’evento sia riconducibile al rischio inizialmente accettato. L’errore pur escludendo il dolo non elimina la responsabilità che può residuare a titolo di colpa se sussistono le seguenti condizioni:

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- rimproverabilità dell’errore di percezione: cioè che esso sia dovuto all’inosservanza di regole precauzionali di condotta.

- previsione da parte della legge del delitto colposo: infatti il criterio soggettivo di imputazione normale per i delitti è il dolo, la colpa solo se espressamente prevista.

2.1. Errore del soggetto inimputabileBisogna distinguere in questo ambito tra errore condizionato dall’infermità ed errore non condizionato. Il primo non ha efficacia scusante in quanto altrimenti sarebbero inapplicabili la necessarie misure di sicurezza nei confronti dell’individuo socialmente pericoloso; al contrario invece l’errore incondizionato ha efficacia scusante se caratterizzato da circostanze che avrebbero tratto in inganno anche una persona capace. L’efficacia liberatoria non vale tuttavia in generale essendo irrilevante ad esempio nel caso dell’error aetatis per i reati previsti dagli art 609 bis e ss. Si tratta di reati contro la libertà sessuale e per i quali il legislatore ha posto una presunzione assoluta di conoscenza dell’età contro le persone che si congiungono carnalmente con infraquattordicenni. Art 47,2: “l’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso” ciò implica che si risponde del reato di cui si sono posti in essere gli estremi materiali e psicologici. Ex Tizio si impossessa di un oggetto smarrito ritenendolo altri, non si configura il furto ex art 624 ma l’appropriazione di cose smarrite ex art 647. La figura dell’errore su elementi degradanti il titolo di reato è molto controversa infatti se alcuni propendono in maniera rigorosa per l’applicazione non degli elementi rappresentatisi dall’agente ma di quelli materiali e psicologici effettivamente posti in essere, altri invece, giustamente, escludono che il dolo del reato meno grave possa inglobare quello del reato più grave così propendono per l’applicazione della fattispecie di reato meno grave. Ex. Se il soggetto suppone il consenso della vittima alla sua uccisione si applicherebbe non la fattispecie di omicidio (art 575) ma quella di omicidio del consenziente (art 579). Quest’ultima soluzione sarebbe un’applicazione analogica dell’errore sulle cause di giustificazione ex art 59,4.

3. Errore sul fatto determinato da errore su legge extrapenale

Art 47,3: “ l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”. Ex. un soggetto non conosce la disciplina della proprietà (principio con sensualistico) e proprio per questo compie di fatto un furto.Ci si chiede come mai un errore su legge extrapenale (errore di diritto) si comporti in modo diverso rispetto ad un errore su legge penale che segue la disciplina dell’art 5 e quindi il principio ignorantia legis non excusat. Prima teoria: questo indirizzo consolidato in giurisprudenza distingue tra norme extrapenali che integrano la norma penale incriminatrice (che di fatto si integrano con la stessa) e norme extrapenali che non integrano la fattispecie incriminatrice (rimanendone distinte). Pe queste ultime quindi un errore scrimina come un qualsiasi errore sul fatto. C’è da dire però che la Cassazione ha storicamente allargato la prima categoria di norme lasciando poco spazio quindi alla scusabilità dell’errore previsto per la seconda categoria spinta da preoccupazioni politico-criminali e tendente a non indebolire il sistema penale. In questo modo interpretata l’art 47,3 è come tacitamente abrogato. Tale indirizzo rigoristico è stato ridimensionato dalla sentenza 364/1988 la quale ha introdotto fattispecie di errore anche sulla legge penale ma scusabile o inevitabile.

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Seconda teoria: secondo questa autorevole teoria si partirebbe dal presupposto che tutte le norme extrapenali integrano la fattispecie penale (primo tipo di norme della teoria precedente). L’errore ex art 47,3 sarebbe quindi sempre un errore su legge penale ma sarebbe scusabile in quanto deroga espressa all’art 5 giustificabile con la natura marginale ed il minore valore sintomatico e sociale di tali ipotesi. La teoria in esame sebbene si sforzi di far fronte alla tacita disapplicazione dell’art 47,3 ha il toro di non considerare che esistono ipotesi in cui la norma extrapenale non integra direttamente al fattispecie penale. Fiandaca’s Opinion: per spiegare l’ipotesi di cui all’art 47,3 non c’è bisogno di pensare ad una deroga espressa all’art 5 infatti nel codice Zanardelli pur in assenza di una norma del genere era ben accetto il principio della scusabilità di un errore su norma extrapenale facendo leva sui principi generali in materia di responsabilità dolosa. Tale modello esplicativo è valido anche oggi posto che il dolo presuppone la perfetta conoscenza della fattispecie astratta che, qualora sia composta da elementi normativi di carattere extrapenale può creare nell’agente una imperfetta rappresentazione della situazione tale da escludere il dolo stesso. L’errore sulla legge extrapenale finisce allora per produrre gli stessi effetti dell’errore sul fatto perciò l’art 47,3 si colloca nello stesso alveo dell’art 47,1 cioè nel caso di errore sul fatto che costituisce reato. Per questo motivo parte della dottrina e della giurisprudenza pensano che anche per i casi di cui al terzo possa residuare una responsabilità a titolo di colpa qualora la legge lo preveda.Secondo quanto detto il caso 33 dovrebbe risolversi con l’esclusione della responsabilità per mancanza di dolo del genitore.

3.1. Per precisare l’ambito di operatività dell’art 47 bisogna specificare il significato di “legge extrapenale”. Innanzitutto è pacifico che si intenda per leggi extrapenali non solo le leggi civili o amministrative etc. ma anche le leggi penali diverse dalla legge incriminatrice. Vi sono però in via di sintesi quattro principali categorie di leggi extrapenali:- Elementi cd. normativi della fattispecie penale: si tratta di elementi per la definizione dei quali soccorre il rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice, se l’errore ricade su di essi è sempre scusabile. Vale anche per le ipotesi di illiceità speciale ( vedi pag. 186) in cui nella norma incriminatrice siano contenute espressioni tipo: “ illegittimamente”, “abusivamente” etc- Elementi normativi di natura etico-sociale: vale la stessa soluzione adottata nel caso precedente nei casi in cui qualcuno ritiene erroneamente il proprio comportamento conforme al comune senso del pudore ad esempio. Sembra infatti che la valutazione sociale comportandosi come una norma integratrice di una norma incriminatrice, se non venga conosciuta escluda la possibilità di incriminare l’agente.- Norme extrapenali integratrici di una norma penale in bianco: in tal caso non facendo l’art 47 ultimo comma riferimento all’ampiezza delle norme, la dottrina propone di distinguere tra le norme penali in bianco che contengano un precetto generico ma sufficientemente determinato ( in tal caso l’errore scuserebbe) e le norme in bianco che siano così indeterminate da rinviare interamente per l’individuazione del loro contenuto, alla norma extra penale richiamata ( in tal caso l’errore non scuserebbe in automatico me seguendo la regola di cui all’art 5 così come corretto dalla sentenza 364/1988). - Norme extrapenali che incidono ai fini dell’individuazione del significato di un elemento costitutivo del fatto: in questi casi pur non instaurandosi sul piano della fattispecie astratta un richiamo espresso, l’errore scusa. Ex. Caso 33.

4. Errore determinato dall’altrui inganno

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L’art 48 contempla il caso in cui l’errore sia dovuto all’inganno subito da terzi estendendo all’ingannato la disciplina della scusabilità dell’art 47 ma aggiungendo che la responsabilità del fatto commesso dall’ingannato è posta in capo a chi lo ha tratto in inganno. Il rinvio all’art 47 fa si che anche in questo caso l’errore debba ricadere su di un elemento costitutivo del reato se altrimenti riguardasse i motivi, le circostanze e simili non escluderebbe né il dolo né la responsabilità. Pe inganno si intende l’impiego di mezzi fraudolenti come gli artifici ed i raggiri del delitto di truffa, purché questi siano atti a ledere la buona fede ed a provocare una distorta rappresentazione della realtà. Parte della dottrina per cercare di restringere il campo sostiene che l’inganno rivela solo se effettivamente in grado di provocare l’errore ed in un certo senso non sia evitabile con l’uso della normale diligenza. Questa impostazione è criticabile nel suo intento e dal punto di vista tecnico visto che il rinvio all’art 47 induce a credere che fra decipiens e decuptus si istauri un concorso nella rappresentazione della realtà per cui quest’ultimo possa rispondere eventualmente a titolo di colpa del fatto commesso. In realtà il semplice fatto di ingenerare in altri un errore può considerarsi un’efficace mezzo di determinazione dell’altrui volontà. Un orientamento giurisprudenziale consolidato e parte della dottrina, l’art 48 configurerebbe un’ipotesi di autoria mediata cioè una situazione in cui il deceptus assurge a mero soggetto esecutivo dell’azione del decepiens che è invece l’unico e vero autore del reato. In realtà la categoria in esame ha una sua utilità nell’ordinamento tedesco, ma in quello italiano tali ipotesi potrebbero essere inquadrate nell’ambito del concorso di persone nel reato.

5. Reato putativo

Art 49,1 : “ non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato”. Reato putativo perché si crede di compiere un reato ma in realtà non lo si fa, l’errore in questione può derivare da un errore di fatto (Tizio crede di impossessarsi di un oggetto altrui ma in realtà è suo) , (Tizio errando nell’interpretazione della legge civile sul matrimonio crede di commettere il reato di bigamia, in questo caso l’errore è su legge extrapenale e come visto può essere assimilato ad errore di fatto) o da un errore di diritto (Tizio crede che l’adulterio sia ancora reato). Può anche accadere che l’errore derivi dall’ignoranza di una causa di giustificazione a proprio favore ma come visto esse operano in maniera oggettiva, anche se non conosciute. E’ stato detto che il reo putativo rimane un soggetto incline alla delinquenza ma questo rimane indifferente nel nostro ordinamento a tutela del principio di offensività e di materialità, perciò anche in mancanza della norma in esame il reo putativo non sarebbe potuto essere perseguito in un ordinamento oggettivistico.

Sezione V- Il reato aberrante

1. Errore inabilità

A) ABERRATIO ICTUS MONOLESIVA: la divergenza fra voluto e realizzato può dipendere non solo da un errore che incide sul momento formativo della volontà ma anche da un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato. Tale ipotesi è disciplinata dall’art 82 il quale prevede che in tal caso il colpevole risponda come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere, salve, per quanto riguarda le attenuanti e le aggravanti, le disposizioni dell’art 60. Nell’aberratio delicti monolesiva mutano, per errore esecutivo, l’oggetto materiale ed il soggetto passivo ma non muta il titolo di reato. Nata per i delitti di sangue, la norma esaminata, si ritiene applicabile a tutti i delitti essendo posta nella parte generale del codice.

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Problema: l’art 82 pone una deroga ai principi dell’imputazione dolosa?L’indirizzo dominante la considera superflua in quanto sarebbe la ripetizione dei principi generali dell’elemento psicologico: error in persona o in obiecto considerato irrilevante (vedi pag. 371). La tesi in parola non è esente da critiche infatti, ove si privilegi una concezione che esalti la concreta dimensione psicologica del dolo, non è sufficiente verificare il dolo in astratto ma bisogna qualificare come dolosa la causazione di un determinato evento concreto. Tale corrispondenza tra voluto e realizzato sembra non esserci nell’aberratio ictus infatti il bersaglio che si voleva colpire non è stato raggiunto ed uno che non si intendeva colpire è stato colpito. Rimane uguale l’evento materiale ed anche l’atteggiamento psicologico ma manca la congruenza fra questo atteggiamento psicologico e l’evento concreto. Accogliendo l’ultima teoria si finisce per dire che l’art 82 costituisce un’ipotesi mascherata di responsabilità oggettiva cosicché in attesa di un intervento legislativo la dottrina propone di interpretarlo in maniera più conforme al principio di colpevolezza ed agli enunciati delle sentenze 364/1988 e 1985/1988. Da ciò conseguirebbe che ciascun elemento che incide sulla fattispecie penale deve essere collegabile all’autore almeno a titolo di colpa. Cercare di trovare delle regole di diligenza violate nell’azione illecita di chi compie un delitto sembra però logicamente un controsenso perciò al massimo al reo che ha sbagliato nell’esecuzione materiale del delitto potrebbe richiedersi la mera prevedibilità in concreto dell’altro evento pur non voluto. La parte finale dell’art 82 è dedicata alle aggravanti ed attenuanti e propone un modello di applicazione delle stesse in cui viene privilegiato il putativo sul reale.

1.1. B) ABERRATIO ICTUS PLURILESIVA: l’ultimo comma dell’art 82 continua prevedendo che se oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l’offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave, aumentata fino alla metà. Caso 34 è un esempio del genere in cui l’errore inabilità provoca un evento lesivo ( o anche un tentativo) ulteriore rispetto a quello previsto. Per quanto riguarda la responsabilità, la soluzione più conforme al dettato legislativo, vuole che mentre si risponde a titolo di dolo per l’offesa arrecata alla vittima designata, l’ulteriore offesa non prevista è attribuita a titolo di responsabilità oggettiva. Altre teorie cercano invece di dare una reinterpretazione correttiva volta a rendere compatibile l’istituto in parola con il principio di colpevolezza richiedendo anche in tal caso la colpa o la prevedibilità dell’evento ulteriore. Dal punto di vista sanzionatorio la soluzione legislativa sembra fin troppo rigorosa (la pena per il reato più grave aumentata fino alla metà) infatti è molto superiore rispetto a quella calcolabile per il concorso formale di un delitto doloso ed uno colposo. Problema: qual è il trattamento applicabili quando si ledano più di due persone? Per alcuni si applicherebbero tanti aumenti di pena fino alla metà quante sono le persone ulteriori colpite; altri sostengono che dovrebbe essere applicato un secondo aumento di pena a prescindere dal numero delle persone offese; altri ancora sostengono che la disciplina dell’aberratio ictus sia applicabile solo ad un evento non voluto che sia simile a quello voluto mentre per gli altri si potrà avere una responsabilità a titolo di colpa. Fiandaca’s opinion: è meglio limitare le ipotesi di analogia in malam partem così nei casi in cui siano interessati più soggetti si applica il più benevolo regime del concorso formale del reato doloso con eventuali delitti colposi qualora ne sussistano i requisiti.

2. Aberratio delicti

Art 83: “ Fuori dai casi preveduti dall’art precedente se, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde a titolo di colpa dell’evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. In questo caso di aberratio delicti ciò che cambia in base all’errore esecutivo non è il sogetto o l’oggetto colpito dal reato ma è il reato stesso come nel caso 35 da danneggiamento che

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si voleva provocare si passa ad una lesione personale. A che titolo risponderà l’agente del reato non voluto? L’art 83 dice che l’agente risponde a titolo di colpa ma ciò può voler significare sia che risponde se sussistono i requisiti della colpa, sia che esiste una fictio iuris per la quale il legislatore si limita a dire che per l’evento non voluto si risponde come se fosse colposo (in tal caso si tratterebbe di responsabilità oggettiva). La ricerca della ratio legis sembra far propendere per la seconda soluzione per cui si risponderebbe ex art 83 sia in caso di imprudenza sia in base al semplice nesso causale. Questa presunzione di colpa è ingiustificata sebbene qualcuno abbia ipotizzato la colpa per inosservanza di leggi, visto che la colpa nasce dalla violazione di una norma cautelare specifica e cioè posta a salvaguardia di una determinata situazione e non di un’altra. Nel caso 35 la colpa non può presumersi poiché la norma che vieta il danneggiamento non ha come scopo neppure secondario quello di evitare danni alla persona. Per questo motivo è necessario che per il delitto eventuale commesso sia prevista la responsabilità per colpa. L’ultimo comma dell’art 83 recita: “se il colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto, si applicano le regole sul concorso dei reati” per cui l’agente come nel caso 36 risponde di due reati, uno doloso ed uno colposo. Sia in dottrina sia in giurisprudenza si è soliti ricondurre allo schema dell’aberratio delicti con pluralità di eventi l’art 586 (morte o lesioni come conseguenza di un altro delitto) in cui la colpa concerne non il fondamento della responsabilità (che rimane la responsabilità oggettiva) ma il piano delle sole conseguenze sanzionatorie. Anche per l’aberratio delicti come per l’aberratio ictus la dottrina suggerisce un’interpretazione più conforme al principio di colpevolezza come espresso nelle ben note sentenze del 1988, non però secondo lo schema della colpa presunta ma chiedendo al giudice di accertare in concreto la colpa in relazione all’evento non voluto.

Sezione VI- La coscienza dell’illiceità

1. La possibilità di conoscere il precetto penale

Nella concezione normativa della colpevolezza (che richiede la rimproverabilità della condotta) gioca un ruolo importante la coscienza dell’illiceità come elemento autonomo distinto dall’imputabilità, dal dolo e dalla colpa e dall’assenza di cause di discolpa. La ratio sta nel fatto che tanto più è conosciuto un precetto tanto più si è rimproverabili se lo si infrange e si è consci del disvalore del proprio comportamento. In tal senso la coscienza dell’illiceità rimane separata dal dolo nel senso che può sussistere quest’ultimo senza che sussista anche la prima, infatti nell’ordinamento italiano il dolo non include nel suo oggetto la coscienza dell’illiceità penale del fatto, al massimo si è visto che rilevano come conoscenza i sostrati di fatto (coscienza della dannosità sociale del fatto). L’importanza della conoscenza del precetto ai fini della rimproverabilità e della punibilità rimane invariata sia che si privilegi una concezione redistributiva della pena sia che se ne privilegi una rieducativa. Lo strumento penale infatti è visto come iniquo ed oppressivo se i cittadini non dispongono degli strumenti necessari per conoscere i precetti da non infrangere. La conoscenza delle norme penali può giovare anche sotto il profilo della prevenzione generale infatti la deterrenza sta proprio nella conoscenza dell’illecito accompagnata dalla paura di incappare in una sanzione. Portata e limiti del principio secondo cui non esiste colpevolezza senza la coscienza dell’illiceità: principio generale in materia è quello di cui all’art 5 ignorantia legis non excusat che si riferisce sia all’errata conoscenza che alla totale ignoranza. Questo principio senza i dovuti temperamenti ha

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una portata un po’ drastica e trova il suo fondamento nella prevalenza della legge e degli interessi pubblici nell’ottica di una concezione statalista. La Corte costituzionale sebbene consapevole della ratio sottesa all’art 5 ha in un primo momento giustificato la stessa adducendo come motivazione che sarebbe sufficiente la mera pubblicazione delle leggi, comprensiva della garanzia dell’irretroattività, per renderle conoscibili. La prassi ha dimostrato il contrario, infatti la legislazione consta di reati cd. naturali cioè che preesistono nella coscienza sociale rispetto alla loro positivizzazione legislativa e di reati cd. di pura creazione legislativa i quali al contrario non sarebbero percepibili con disvalore se non fossero posti come tali dal legislatore. Il proliferare nell’immensa giungla penale di questo tipo di reati pone il cittadino sempre di più in una posizione di inevitabile ignoranza. Una soluzione correttiva proposta allora da parte della giurisprudenza consisteva nella scusabilità dell’error iuris in buona fede almeno nelle contravvenzioni acondizione che però l’errore derivasse da un elemento positivo consistente in una circostanza che facesse propendere per la liceità del comportamento. Queste timide aperture pur andando in direzione di equità sono lontane dal mettere seriamente in discussione il principio di cui all’art 5.

1.1. La chiave di volta per una rilettura seria dell’art 5 è presentata dall’art 27,1 Cost. che affermando il carattere personale della responsabilità penale impedisce di ritenere irrilevante la mancata percezione del disvalore penale. Altra chiave di rilettura dell’art 5 è costituita dall’art 27,3 Cost. che affermando il carattere rieducativi della pena lascia intendere che sia necessario comprendere l’errore compiuto ed il suo disvalore, altrimenti si altererebbe quel rapporto di fiducia tra cittadino ed istituzioni e la pena sarebbe vista come intervento repressivo ed ingiustificato. Per ritenere soddisfatte queste due condizioni non è, tuttavia, necessaria l’effettiva conoscenza da parte dell’agente del carattere criminoso del comportamento infatti se così fosse in nome del principio di colpevolezza sarebbero sacrificate le pur necessarie esigenze di prevenzione generale e di tenuta complessiva dell’ordinamento. In ogni processo sarebbe moltiplicati esponenzialmente gli oneri probatori e si darebbe la possibilità di prendere una scappatoia ai criminali che intendano invocare pretestuosamente l’ignoranza a loro discolpa. Il criterio guida in nome di un giusto bilanciamento sarebbe quello di richiedere non l’effettiva conoscenza ma la conoscibilità dell’illiceità del fatto: sarebbe così sufficiente apprendere il carattere antigiuridico del comportamento per essere considerati colpevoli e quindi per essere rimproverati, l’errore sarebbe evitabile ed inescusabile. Si può essere rimproverati quindi anche se si è in una situazione di ignoranza che si poteva evitare.Evitabilità-inescusabilità dell’errore→ colpevolezza e responsabilità penale.Inevitabilità-scusabilità dell’errore→ assenza di colpevolezza ed esclusione della punibilità.Visto il carattere probabilistico della conoscibilità se ne può dedurre la sua strutturale estraneità rispetto al dolo il quale invece consta di coefficienti psicologici certi. La tesi secondo cui l’effettiva possibilità di conoscenza del precetto penale costituisce un autonomo requisito dell’imputazione soggettiva è stata avallata dalla Corte Costituzionale con la storica sentenza 364/1988 la quale ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art 5 nella parte in cui non escludeva dal principio della inescusabilità dell’ignoranza della legge penale i casi di ignoranza inevitabile e perciò scusabile. La corte ha richiamato la lettura congiunta degli art 27,1 e 27,3 nei termini sopraindicati ed ha menzionato i cd. doveri strumentali che incombono sui privati in vista dell’osservanza dei precetti penali. Questi doveri di informazione che discenderebbero dall’art 2 Cost. se onorati dal cittadino possono pesare in suo favore sebbene esso sia poi risultato ugualmente ignorante.

1.2. Quando l’ignoranza della legge risulta inevitabile? La Corte Cost. ha enucleato vari criteri:

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- Criteri soggettivi cosiddetti puri: che fanno principalmente leva sulle caratteristiche dell’agente, come il livello di intelligenza, la maturazione della personalità, il grado di scolarizzazione etc. Se da un lato questi criteri permettono di personalizzare il giudizio, dall’altro essi tendono a recare il pericolo di eccessivo indulgenzialismo o rigorismo da parte del giudice vista la natura non oggettiva degli stessi. Per questi motivi, l’utilizzo di tali criteri è circoscritto ai soli casi estremi in cui i dati soggettivi siano così evidenti da risultare certi. - Criteri oggettivi puri: che tengono conto di cause che rendono impossibile la conoscenza della legge penale da parte di ogni consociato, qualunque siano le sue condizioni personali. Tra questi, l’assoluta oscurità del testo legislativo, un repentino cambio di giurisprudenza. Circostanze di questo tipo hanno rilievo ancor prima che sulla colpevolezza, infatti come dice la sentenza 364/1988: “ intanto i cittadini hanno l’obbligo di osservare la legge penale, in quanto il legislatore adempia preventivamente al suo obbligo di rendere le norme riconoscibili. Testi legislativi assolutamente oscuri ancor prima di elidere la colpevolezza fanno venire meno la loro vincolatività in violazione del principio di legalità e di sufficiente determinatezza. Nel caso del repentino mutamento di giurisprudenza viene meno di fatto il principio di non retroattività della legge penale infatti chi agisce nella convinzione (legittima) che un comportamento sia lecito non può poi vedersi incriminato per un mutamento di orientamento giurisprudenziale. - Criteri misti: tengono conto allo stesso momento delle circostanze oggettive esoggettive che inducono ad ignorare la legge. Questi criteri ancor più degli altri si collocano sul piano di una colpevolezza che si preoccupa di bilanciare esigenze individualgarantistiche e generalpreventive. Si considerano come circostanze oggettive: le indicazioni fuorvianti ricevute dalle autorità competenti, le autorizzazioni amministrative o le prassi di tolleranza della p.a., l’emanazione di più sentenze contrastanti l’una con l’altra; mentre sono circostanze soggettive: il livello di scolarizzazione, il ruolo sociale, la cerchia professionale di appartenenza dell’agente. Si utilizza in tal senso il criterio dell’homo eiusdem professionis et condicionis secondo cui il contenuto e la misura dei doveri di conoscenza varia in relazione al diverso campo di esperienza ed al diverso livello di socializzazione e cultura corrispondenti ai tipi di agente modello. Più in generale vale la regola per cui chi esercita una particolare attività professionale è tenuto ad informarsi sulle leggi che ne disciplinano lo svolgimento, perciò appare senza nessuna colpa il cittadino di cui al caso 37 che esercitando la professione di medico non era perito del settore delle armi per cui si è rivolto per un supplemento di informazione alle autorità competenti che lo hanno invece fuorviato. La Cassazione in particolar modo fa rigorosa applicazione degli obblighi di informazione settoriali mentre c’è maggiore disponibilità a riconoscere l’efficacia scusante dell’ignoranza da parte dei giudici di merito soprattutto nell’ambito delle contravvenzioni di scarsa gravità.

1.3. Rimane ora da sottolineare che i modi di accertamento dell’inevitabilità-scusabilità dell’errore sono condizionati dalla concezione della colpevolezza da cui si prendono le mosse: a seconda che si privilegi una colpevolezza come categoria che riflette coefficienti psicologici reali oppure una colpevolezza intesa come categoria accentuatamente normativa (funzionale a volte, ad obiettivi repressivo-preventivi). Problema: quanto bisogne tener conto dei processi psicologici reali nel giudizio di rimproverabilità dell’ignoranza? Se l’agente si rappresenti prima di agire, la possibilità che il suo comportamento sia antigiuridico e purtuttavia decida di agire l’ignoranza può essere rimproverata; se invece l’agente non si rappresenti affatto una tale possibilità e quindi nessuna preoccupazione lo sfiori prima di agire, il discorso si fa più problematico. Infatti la rimproverabiltà

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dell’ignoranza è qui priva di un dato psicologico reale e si basa solo su di un aspetto normativo cioè il fatto di aver violato l’obbligo di preventiva informazione posto dall’ordinamento. Quest’ultima ipotesi è funzionale ad esigenze di carattere repressivo.1.4. La problematica dell’ignorantia iuris fin qui esposta prende il nome di teoria della colpevolezza elaborata in ambienti dogmatici tedeschi e frutto di un compromesso tra esigenze repressive e garantistiche. Questo è ben noto anche nel carattere ibrido del giudizio di colpevolezza che finisce per essere un misto di dolo e colpa. Nei casi di ignoranza evitabile-inescusabile il rimprovero si fonda sul dolo del fatto tipico e sulla colpa della mancata conoscenza del divieto penale. Sembra perciò che si configuri un criterio soggettivo intermedio fra dolo e colpa per cui in futuro il legislatore dovrebbe considerare l’idea di introdurre una circostanza attenuante dell’ignorantia legis. Il legislatore dovrà farsi carico inoltre di verificarne la compatibilità della disciplina con l’art 27,1 ed il carattere personale della responsabilità penale. Ci richiede così se la soluzione della conoscibilità sia veramente idonea a tal fine, specialmente per quanto concerne i cd. delitti di pura creazione legislativa per i quali e per tutta la normativa extracodicistica sarebbe più indicata l’applicazione la teoria del dolo secondo la quale il dolo viene appunto a ricomprendere la coscienza attuale dell’illiceità.

Sezione VII- Cause di esclusione della colpevolezza

1. Dolo e normalità del processo motivazionale; la cosiddetta inesigibilità

Secondo la concezione normativa il rimprovero di colpevolezza presuppone oltre ai requisiti già esaminati anche l’assenza di circostanze anormali che rendano psicologicamente necessitato il comportamento delittuoso. Da ciò è nata la categoria dogmatica dell’inesigibilità (causa di esclusione della colpevolezza) cioè l’impossibilità di pretendere, in presenza delle circostanze concrete in cui l’agente è chiamato ad operare, un comportamento diverso da quello tenuto. La categoria in esame oltre a raccogliere in sé il fondamento di alcune delle cause di discolpa codificate ha la funzione di raccogliere entro di sé analogicamente situazioni simili a quelle disciplinate dal legislatore. a) Parte della dottrina configura come causa di esclusione della colpevolezza lo stato di necessità e la coazione morale , entrambe situazioni in cui per cause esterne la scelta è quasi obbligata. b)Tuttavia, a prescindere dai casi espressamente contemplati, l’inesigibilità dovrebbe fungere da valvola di sfogo del sistema in modo che esso funzioni in termini umani, dovrebbe essere perciò un qualcosa che opera in maniera extralegale ed analogica in modo da tutelare interessi che sebbene non siano stati previsti dal legislatore siano meritevoli. Ex. Un medico rifiuta di recarsi da un malato grave perché non è nelle condizioni di marciare quattro ore sotto la neve. Fra la morte del paziente ed un pericolo per la sua integrità fisica propende per la prima.c) Per analogia si può parlare di inesigibilità nel caso di insolubile conflitto tra doveri Ex. Medico che davanti a due pazienti in fin di vita applica l’unico macchinario disponibile ad uno di essi.d) A questa situazione di conflitto di doveri possono essere ricondotte tutte le situazioni in cui a scontrarsi siano l’ordinamento giuridico statale e quelli etico-religiosi. In questi casi in cui si agisce in maniera illecita in nome di un ideale religioso, politico o per un convincimento morale si parla di illecito per convinzione. Ex testimoni di Geova che rifiutano la trasfusione.1.1. Nonostante le suggestioni di avere una categoria elastica che faccia da contrappeso alle formalità insite nel sistema penale è da escludere che la categoria in esame possa assumere quei

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connotati analogici che la dottrina le vuole attribuire. In questo modo l’inesigibilità si ridurrebbe ad una vuota formula che investirebbe il giudice di un immenso potere discrezionale di decidere, senza una precisa indicazione legislativa, quando un comportamento sia inesigibile. Inoltre ai fini dell’inesigibilità si deve ricorrere all’individuazione del soggetto con riferimento al quale va compiuta la verifica ed il rischio è quello di subordinare l’obbligatoria osservanza della legge agli interessi e alle passioni dei singoli. Al contrario, adottando il criterio dell’uomo medio ci si allontana dalla concretezza del fatto rischiando di rendere ancora più vuota, e quindi suscettibile di essere riempita soggettivamente, la formula in esame. Questi problemi hanno messo in crisi la categoria in esame anche negli ambienti tedeschi in cui era stata fortemente apprezzata e perciò si è osteggiata una sua applicazione in senso analogico a prescindere da riscontri positivi. Questo abbandono è parso particolarmente evidente nei reti commissivi dolosi ma non nei reati commissivi colposi né in quelli omissivi. L’inesigibilità risulta essere inutile anche nei casi di conflitto di doveri che si risolvono sul piano dell’antigiuridicità e non già della colpevolezza e nei casi di contrasto fra ordinamento statale e convinzioni morali. In quest’ultimo caso infatti è da escludere che delle convinzioni morali o religiose, pur costituzionalmente garantite, possano intaccare la tenuta dell’ordinamento giuridico che opera in maniera obiettiva. Detto ciò non si vuole far intendere che le circostanze anormali concomitanti vadano completamente ignorate ai fini della colpevolezza infatti sebbene non la escludano esse avranno una funzione attenuante ai fini della graduazione della pena.

2. Scusanti legalmente riconosciute

Se nel paragrafo precedente si è esclusa l’efficacia extralegale dell’inesigibilità intesa come categoria generale, lo stesso non vale per le cause di esclusione della colpevolezza espressamente previste dal legislatore. Cause di esclusione della colpevolezza ≠ Cause di giustificazione Le prime infatti lasciano integra l’antigiuridicità obiettiva del fatto e fanno venir meno soltanto la possibilità di muovere un rimprovero all’autore (senza possibilità di essere estese ai compartecipi).Queste sono le scusanti riconosciute dal nostro ordinamento:

a) Stato di necessità scusante o cogente o la coazione morale: per quanto riguarda il primo ci si riferisce al caso in cui il pericolo incomba su se stesso o su di un prossimo congiunto e non al caso in cui incomba su terzi, cd. soccorso di necessità. Solo in tal caso l’azione diversa è psicologicamente inesigibile. Nel caso della coazione morale (art 54,3) si tratta di un’azione compiuta sotto la minaccia psicologica esercitata da un’altra persona per cui un comportamento diverso è oggettivamente inesigibile.

b) Ordine criminoso insindacabile della pubblica Autorità: si differenzia dall’esecuzione di un ordine legittimo che interviene sull’antigiuridicità mentre l’ordine criminoso insindacabile non esclude l’illiceità del fatto commesso. Anche questo è un caso di inesigibilità dovuta alla situazione di forte pressione psicologica subita dal subordinata.

c) Ignoranza (o errore) inevitabile-scusabile della legge penale, a seguito della sentenza costituzionale n. 364/1988: va ricondotta nell’ambito delle situazioni nelle quali non si può psicologicamente pretendere da chi ha agito un comportamento diverso da quello tenuto. Questo è insito nel carattere di inevitabilità dell’ ignoranza.

Sezione VIII- La colpevolezza nelle contravvenzioni

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1. I criteri di imputazione soggettiva: dolo e colpa

Art 42,4: “ Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”.Art 43,4: “ La distinzione tra reato doloso e colposo, stabilita per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qual volta la legge panale faccia dipendere da tale situazione un qualsiasi effetto giuridico”.L’interpretazione dell’art 42,4 è stata molto problematica anche se oggi si esclude la tesi che vuole che nelle contravvenzioni ai fini della sussistenza fosse sufficiente la mera coscienza e volontà, non essendo richiesti invece né dolo né colpa. La tesi è stata giustamente respinta per sospetto di responsabilità oggettiva inoltre si è giunti alla conclusione che la disposizione in esame significhi solo che dolo o colpa sono indifferenti ai fini della colpevolezza cioè se per i delitti il criterio di imputazione è il dolo e la colpa solo se espressamente prevista, per le contravvenzioni la colpa si può configurare anche se non espressamente prevista. Ma mentre questo sembra essere pacifico, non c’è unanimità di consensi sulle tecniche di accertamento dell’elemento soggettivo nelle contravvenzioni. Se alcuni sostengono che il giudice sarebbe addirittura dispensato dall’accertare l’elemento soggettivo in virtù di una presunzione iuris tantum di colpevolezza, altri sostengono che l’elemento soggettivo possa essere accertato facendo ricorso a delle semplici massime di esperienza che permetterebbero la condanna in ogni caso in cui non vi siano situazioni eccezionali tali da escluderla. Queste supposizioni sono del tutto infondate non essendoci una norma che permetta di derogare i normali canoni di accertamento dell’elemento soggettivo in nome di presunte esigenze di speditezza. Al contrario invece la disposizione dell’art 43,4 impone di accertare il dolo o la colpa ai fini della commisurazione della pena e di qualsiasi altro effetto giuridico possibile. Conclusione: anche nel campo delle contravvenzioni rimarranno in vigore i normali criteri di accertamento dell’elemento soggettivo con l’ulteriore precisazione che vi sono degli illeciti contravvenzionali che per loro stessa struttura, possono essere commessi soltanto con dolo (abuso di credulità popolare art 661) o con colpa (rovina di edificio art 676). La distinzione fra dolo e colpa rileva oltre che nella commisurazione della pena anche agli effetti dell’abitualità, dell’amnistia limitata ai solo reati colposi etc.

CAPITOLO 4- CIRCOSTANZE DEL REATO

1. Premessa

1.1. L’esigenza di aggiungere nella valutazione del disvalore commesso oltre agli elementi costitutivi del reato, anche altre circostanze in grado di accentuarlo o attenuarlo è avvertita sin da tempi remoti, tuttavia fu in età illuministica che, in linea con il principio di legalità, sorse il problema di una loro previsione legislativa. Si definiscono così circostanze del reato quegli elementi che stano intorno (circum stans) o accedono ad un reato già perfetto nella sua struttura , e la cui presenza determina soltanto una modificazione della pena. Si parla di esse anche come accidentalia delicti per sottolineare il fatto che la loro presenza è indifferente ai fini della configurazione del reato non trattandosi di elementi essenziali. Ve ne sono vari tipi: attenuanti comuni (riferibili a tutti i reati), aggravanti speciali (relative a specifiche ipotesi di reato) e, novità del codide Rocco, aggravanti comuni (circostanze aggravatrici di pena applicabili a tutti i reati). La

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prima funzione delle circostanze in parola è quella di garantire flessibilità alla pena in modo da renderla più aderente al caso concreto; la seconda funzione legata al fatto che esse siano legalmente tipizzate, è quella di sottrarre al giudice l’intera disciplina delle modulazione sanzionatoria in base alle circostanze concrete. Si dibatte circa la natura autonome delle circostanze o il loro inserimento, insieme agli elementi essenziali del reato, all’interno della fattispecie panale complessa. Se si propende per una soluzione che valorizza ogni singolo elemento che incide sulla sanzione, la distinzione fra elementi essenziali ed accidentali viene meno e, rispetto alla fattispecie circostanziata, le circostanze sono elementi essenziali come gli altri. Questo tuttavia non è un vero problema come invece 1) la determinazione dei criteri idonei a distinguere sul piano ermeneutico, tra elementi essenziali e circostanze del reato ed 2) il rapporto tra le circostanze in senso stretto ed i criteri di commisurazione della penna ex art 133.1.2. La disciplina delle circostanze è stata pesantemente innovata di recente dalla legge 5 dicembre 2005 n. 251 recante modifiche al codice penale ed alla l. 26 luglio 1975 n. 354 in materia di attenuanti generiche, recidiva etc. Con questo intervento legislativo il governo Berlusconi ha voluto riprendere l’ideologia punitiva statunitense della “tolleranza zero” cioè un strategia criminale finalizzata alla neutralizzazione totale dei delinquenti recidivi. Con questo modo discutibile di affrontare la politica criminale si sono creati “due binari della risposta penale”: uno più mite per i delinquenti alla prima esperienza, di norma i cd. colletti bianchi; ed un’altro assai più severo per i recidivi. Bisogna perciò sottolineare come il legislatore abbia riportato indietro le lancette della storia di molti anni rinnegando la riforma del 1975 attraverso l’obbligatorietà degli aumenti di pena per i recidi e l’esasperato inasprimento del regime sanzionatorio.

2. Classificazione delle circostanze

A seconda del lato d’osservazione prescelto si possono distinguere:a) Circostanze aggravanti che comportano un aumento (quantitativo) della pena comminata per il reato base, anche se in taluni casi l’aggravio può essere di natura qualitativa; e circostanze attenuanti al contrario intervengono in modo da attenuare quantitativamente o qualitativamente la pena.b) Circostanze comuni potenzialmente applicabili ad ogni tipo di reato e contenute nella parte generale del codice e circostanze speciali previste dal legislatore solo in relazione ad alcune ipotesi previste dal legislatore.c) Circostanze oggettive se concernono”natura, specie, mezzi, oggetto,tempo, luogo ed ogni modalità dell’azione, la gravità del danno o del pericolo, ovvero le condizioni o le qualità personali dell’offeso” ai sensi dell’art 70 e le circostanze soggettive che riguardano “l’intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni o le qualità personali del colpevole, o i rapporti tra colpevole ed offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole” (ad esempio l’imputabilità e la recidiva). Questa distinzione assume rilievo nel concorso di persone in ordine all’estensibilità o meno delle circostanze agli altri concorrenti.d) Circostanze tipiche se predeterminate dal legislatore e circostanze generiche se determinate dal giudice nel caso concreto. Si parla ancora di aggravanti indefinite quando le espressioni utilizzate dal legislatore sono così generiche da dover essere concretamente riempite di significato dal giudice. Esistono tuttavia anche delle attenuanti indefinite come le attenuanti generiche ex art 62 bis che, tuttavia, a differenza delle corrispondenti aggravanti non presentano profili di incostituzionalità visto che si applicano pro reo.

3. Criteri di identificazione delle circostanze (problema nr. 1 del par. 1.1.)

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Mentre in alcuni casi la natura circostanziale di alcuni elementi è particolarmente evidente dalla formulazione legislativa, in altri casi invece, non è chiaro se un dato elemento sia una circostanza o un elemento essenziale di una diversa e autonoma figura di reato. Da questa mancanza di chiarezza non derivano solo conseguenze dogmatiche ma anche pratiche sul piano delle regole di imputazione soggettiva e del bilanciamento tra circostanze eterogenee. In realtà mentre le circostanze agiscono sulla pena, gli elementi costitutivi agiscono sul reato per cui vista la non secondarietà del problema la dottrina ha utilizzato a tal fine criteri di natura ora sostanziale ora formale. Il criterio prevalete oggi mette in relazione in rapporto di specialità l’ipotesi circostanziata e quella semplice di reato→ Ipotesi circostanziata: Ipotesi semplice = Specie: GenereL’ipotesi circostanziata è speciale in quanto include tutti gli elementi di quella semplice con l’aggiunta di uno o più requisiti specializzanti. Nel caso 38 ad esempio sebbene l’art 583 definisca la lesione grave o gravissima come circostanze aggravanti, parte della dottrina ha invece sostenuto che sia l’una che l’altra costituiscono figure criminose autonome. A ben vedere però la specialità è condizione necessaria, non anche sufficiente ai fini della qualificazione di un dato circostanziale infatti anche un figura autonoma di reato può essere speciale rispetto ad un’altra. Criteri ausiliari utili al riguardo sono il nomen iuris, i precedenti storici, la rubrica legislativa tuttavia la ricerca della natura circostanziale o autonoma di una fattispecie va effettuata in ultima analisi caso per caso. In tal senso per maggiore chiarezza sarebbe auspicabile un intervento del legislatore atto a tipizzare meglio le circostanze o ad abolirle del tutto.

4. Criterio di imputazione delle circostanze

Il criterio di imputazione delle circostanze in origine puramente oggettivo (esse operavano cioè in virtù della loro esistenza senza che fosse necessario che il soggetto se le rappresentasse) è stato di recente modificato. La legge 7 febbraio 1990, n. 19 “modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale e destituzione dei pubblici dipendenti” ha sottoposto le circostanze aggravanti ad un criterio di imputazione soggettiva. Ecco la nuova formulazione dell’art 59,2: “le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa”. Questa riforma sembra quindi estendere anche alle circostanze il principio nulla poena sine culpa mentre l’imputazione oggettiva delle attenuanti è rimasta invariata sempre in un ottica pro reo. Dai lavori preparatori della legge tuttavia, si è osservato che questa innovazione non era nelle intenzioni del legislatore per cui fu inserita senza un adeguato retroterra scientifica in maniera alquanto frettolosa allo scopo di adeguare il nostro impianto codicistico al principio di colpevolezza così come interpretato nelle storiche sentenze del 1988. Rimane perciò il dubbio che questa riforma da sola non possa adeguare l’intero ordinamento penale, rimasto invariato, ai canoni richiesti dalla Corte costituzionale. Il legislatore ha invece tenuto presenti le indicazioni dottrinarie tendenti a differenziare nell’imputazione soggettiva le circostanze che accedano ad un reato doloso da quelle che accedano ad uno colposo: nel primo caso sarebbe richiesta l’effettiva conoscenza delle stesse mentre nel secondo caso sarebbe sufficiente ai fini dell’applicazione della stessa la mera conoscibilità. L’interpretazione dominante dell’art 59 tuttavia ai fini dell’imputazione della circostanza aggravante, considera necessaria in ogni caso (sia reato doloso sia colposo) che il reo ne abbia ignorato per colpa l’esistenza, richiede cioè il requisito minimo della colpa. Da questo punto di vista l’impatto della riforma sembra essere più ridotto di quanto ci si attenderebbe infatti deroghe in senso soggettivo esistevano già prima in un contesto oggettivistico, inoltre ci si è resi conto che in presenza di circostanze strutturalmente oggettive, la giurisprudenza ha utilizzato

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l’effettivo atteggiamento psicologico dell’agente per determinare in concreto la pena. E’ da sottolineare allo stesso modo che talune circostanze aggravanti erano state originariamente pensate come oggettive dal legislatore, come le cd. circostanze estrinseche che consistono in elementi che non hanno nulla a che fare con quelli del fatto tipico. Ex Recidiva si fonda su presupposti che assumono rilevanza a prescindere dalla conoscenza/conoscibilità che il reo ne possa avere. In base all’art 59 dovrà richiedersi la conoscenza/conoscibilità almeno dei presupposti oggettivi dalla cui presenza dipende l’applicabilità della circostanza in questione?Certo è che l’estensione del principio di responsabilità per le aggravanti ha per effetto di sdrammatizzare i dilemmi circa l’inquadramento di alcune situazioni fra gli elementi costitutivi o circostanziati, infatti anche propendendo per la natura circostanziale, l’attribuzione della circostanza aggravante presupporrà sempre un coefficiente psicologico.

4.1. Una disciplina ancora più rispettosa del principio di colpevolezza è prevista per l’errore sulla persona offesa dal reato. In base all’art 60 infatti in caso di errore sulla persona dell’offeso non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti che riguardano la materia in errore mentre sono valutate in suo favore le attenuanti erroneamente considerate esistenti. In tal caso per l’errore sull’identità non si fa riferimento neanche al grado di scusabilità dell’errore che perciò è sempre considerato scusabile. Questo art 60 risulta quindi più favorevole per il reo rispetto al novellato art 59,2. Una deroga alla disciplina oggettiva di applicazione delle attenuanti è contenuta nell’ultima parte dell’art 60 quando esso assegna rilevanza alla attenuanti erroneamente considerate esistenti. L’ultimo comma dell’art 60 invece ripristina i criteri generali di imputazione di cui all’art 59,2 “qualora si tratti di circostanze che riguardano l’età o altre condizioni o qualità, fisiche o psichiche, della persona offesa”.

5. Criteri di applicazione degli aumenti o delle diminuzioni di pena

Sebbene la funzione di tutte le circostanze sia quella di intervenire sulla pena prevista per il reato semplice vi sono vari criteri che presiedono a questa operazione. Si distingue in proposito fra circostanze ad effetto comune le quali consistono in una diminuzione o aumento della pena prevista per il reato semplice fino ad 1/3 e circostanze ad effetto speciale le quali ai sensi dell’art 63,3 importano un aumento o una diminuzione di pena superiore ad 1/3. Per queste ultime vale la regola secondo cui la diminuzione o l’aumento per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria ma sulla pena stabilita per la circostanza speciale. In passato (fino alla riforma operata dalla l. 400/1984) si tendeva ad includere nelle circostanze ad effetto speciale ex art 63,3 anche le circostanze in cui la circostanza comporta un aumento di pena di specie diversa da quella prevista dal reato base (da reclusione ad ergastolo) oppure ne determina la misura in modo indipendente dalla pena ordinaria (circostanza cd. indipendente). Il legislatore del 1984 per alleggerire la competenza dei tribunali per ampliare la competenza pretoriale introdusse la denominazione di circostanza ad effetto speciale affermando che la sua competenza andava calcolata tenendo conto degli effetti delle stesse. Il nuovo terzo comma non menziona più le cd. circostanze indipendenti che determinano la pena in maniera indipendente da quella ordinaria fra le circostanze ad effetto speciale ma ciò secondo una teoria dottrinaria accettabile continuerebbero ad essere soggette alla disciplina dell’art 63,3. Se così è l’unica novità della novella 1984 sarebbe quella di far rientrare nelle circostanze ad effetto speciale quelle che comportano un aumento di pena superiore ad un 1/3.

6. Concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti

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a) Concorso omogeneo: si ha quando sono compresenti circostanze della stessa specie, tutte attenuanti o tutte aggravanti. La disciplina differenzia i due tipi di circostanze appena esaminate:- Per le circostanze ad efficacia comune l’art 63,2 afferma che ogni ulteriore circostanza si aggiunge matematicamente con il limite che l’art 66 individua nel triplo della pena massima stabilita in caso di circostanze aggravanti e comunque in ogni caso 30 anni se si tratta di reclusione e 5 anni in caso di arresto. Dal punto di vista delle circostanze attenuanti la pena non può mai essere inferiore ai 10 anni se si tratta di ergastolo mentre negli altri casi non può essere inferiore ad 1/4 (art 67)- Per le circostanze ad effetto speciale l’art 63,4 stabilisce che se concorrono più circostanze aggravanti si applica la pena per la circostanza più grave (ma il giudice può aumentarla) mentre se concorrono più attenuanti si applica la meno grave (ma il giudice può diminuirla). - Per il concorso omogeneo di circostanze ad effetto comune e circostanze ad effetto speciale l’art 63,3 stabilisce che l’aumento o la diminuzione per le circostanze diverse da quelle ad efficacia comune non opera sulla pena ordinaria del reato ma sulla pena stabilita per la circostanza. L’art 68 stabilisce infine che nel caso in cui al di fuori dei casi di specialità, se in base ad un giudizio di valore una circostanza ne comprenda in sé un’altra, il giudice valuta a carico del colpevole solo la circostanza che comporta il maggior aumento o diminuzione di pena.6.1. b) Concorso eterogeneo: quando ad un medesimo fatto di reato accedono più circostanze aggravanti ed attenuanti. Mentre il codice Zanardelli prevedeva l’applicazione congiunta dei singoli aumenti e diminuzioni di pena, il codice Rocco ha introdotto il principio del bilanciamento, infatti ai sensi dell’art 69 il giudice deve procedere ad un giudizio di prevalenza o equivalenza tra le circostanze eterogenee. Deve cioè far luogo all’applicazione delle sole circostanze ritenute prevalenti, ovvero della pena che sarebbe stata inflitta in assenza di circostanze in questo modo nelle intenzioni del legislatore la commisurazione della pena doveva essere il risultato di un giudizio complessivo e sintetico sulla personalità del reo. Il giudizio del bilanciamento era in passato limitato alle sole circostanze ad efficacia comune visto che per quelle ad efficacia speciale è stato compiuto già a monte dal legislatore mentre dopo la novella del 1974 è stato esteso a tutte le circostanze. Questa estensione del bilanciamento a tutte le circostanze è forse volta in direzione di attenuare l’eccessivo rigore del codice Rocco ma suscita delle riserve critiche infatti il legislatore del 1974 avrebbe potuto seguire la strada della riduzione degli ambiti edittali di pena senza invece lasciare, come avviene oggi, il compito di adeguare il trattamento sanzionatorio al solo giudice in sede di commisurazione della pena. In questo modo si è dilatata oltremodo la discrezionalità del giudice lasciando spazio a delle conseguenze dannose non previste dal legislatore, come ad esempio nel caso dei delitti aggravati dall’evento (art 588) ove il giudice ammetta la natura circostanziale dell’evento-morte e ritenga di doverla bilanciare con un’attenuante, il reo potrebbe cavarsela solo con una lieve multa. Il legislatore ha tuttavia omesso di indicare quali siano i criteri guida per il bilanciamento. Prima teoria: dottrina e giurisprudenza prevalenti pretendono di ricavare tali criteri da quelli di cui all’art 133 utilizzati in sede di commisurazione giudiziale della pena. Una critica a tale teoria consiste nel fatto che l’articolo in questione non indica una gerarchia fra questi criteri.Seconda teoria: orientamento minoritario ma preferibile secondo cui il giudizio di comparazione andrebbe effettuato mettendo a reciproco confronto le circostanze eterogenee , considerate però non nella loro dimensione astratta, bensì nella loro specifica intensità accertata in concreto. Tale teoria incontra un problema nel fatto che non tutte le circostanze sono così omogenee da poter essere confrontate e nel concetto di intensità in concreto che si presta ad apprezzamenti soggettivi ed arbitrari. In questo modo si può legittimamente affermare che il giudizio di bilanciamento come disciplinato dall’art 69 è completamente discrezionale e libero da qualsiasi in dilazione normativa. In senso

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opposto è intervenuto sull’art 69 il legislatore del 2005 inserendo un ultimo comma il quale introduce un divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti in due ipotesi: (1) nei casi di recidiva reiterata di cui all’art 99,4; (2) nei casi previsti dall’art 111 e 112 relativi alla determinazione al reato di persone non imputabili o non punibili. L’inasprimento del trattamento per i recidivi ha suscitato dubbi di incostituzionalità disattendendo la ratio del principio del bilanciamento che è quella di meglio adattare la pena alla personalità del colpevole. Non si capisce perché anche alla luce degli articoli 27,1 e 27,3 si debbano escludere dai benefici costituzionalmente garantiti una categoria di persone sebbene deprecabile come quella dei recidivi reiterati.

7. Applicazione delle circostanze e commisurazione delle pena (problema nr.2 del par 1.1.)

Le circostanze ad efficacia generale comportano un aumento o una diminuzione fino ad 1/3 della pena ma il quantum è deciso dal giudice, questo momento discrezionale si aggiunge a quello tipico di cui all’art 133 di commisurazione giudiziale della pena. Considerata questa struttura bifasica nella commisurazione della pena sorge il problema di una possibile valutazione ripetuta più volte delle stesse circostanze. Ex l’art 61 nr. 8 prevede come circostanza aggravante il fatto di avere aggravato le conseguenze del delitto commesso e l’art 133 indica la condotta susseguente al reato.La doppia valutazione della stessa circostanza violerebbe il principio ne bis in idem sostanziale.

8. Le singole circostanze aggravanti comuni

Sono enunciate singolarmente all’art 61:1) L’aver agito per motivi abietti o futili: si parla di motivi come la molla psicologica che spinge

ad agire per distinguerli dallo scopo che costituisce l’obiettivo dell’azione. E’ considerato abietto il motivo turpe che rivela nell’agente un certo grado di perversione e desta una forte ripugnanza sul piano morale medio, futile quando sussiste una grossa sproporzione tra movente ed azione delittuosa. E’ incompatibile con l’attenuante della provocazione e con il vizio parziale di mente, ha natura soggettiva.

2) L’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di un altro reato: è giustificabile in base alla maggiore pericolosità di colui il quale per compiere un reato non arretra di fronte alla commissione di un reato-mezzo. L’aggravante è applicabile anche se il reato-fine non si è realizzato purché ci fosse la volontà di commetterlo ed anche se la procedibilità del reato sia impedita dalla mancanza di querela. Ci si chiede se l’aggravante in esame possa continuare ad esistere anche dopo la riforma del reato continuato del 1974 che richiede oggi come requisito per la perseguibilità la medesimezza del disegno criminoso. La contraddizione sta nel fatto che da un lato l’ordinamento consentirebbe un trattamento di favore grazie alla medesimezza del disegno criminoso (reato continuato) dall’altro prevede un aggravamento di pena (aggravante comune nr. 2 ex art 61). La tesi dell’abrogazione tacita pur verosimile è respinta dalla giurisprudenza prevalente.

3) L’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento: si tratta dell’ipotesi di colpa cosciente o con previsione che sarà trattata in seguito.

4) L’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone: per sevizie si intende l’inflizione di sofferenze fisiche non necessarie ai fini della realizzazione del reato, per crudeltà l’inflizione di sofferenze morali che oltrepassano i limiti del normale sentimento di umanità e che appaiono comunque superflue. Non è chiaro se la natura sia oggettiva o

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soggettiva mentre è ritenuta compatibile con l’attenuante della provocazione. 5) L’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la

pubblica o privata difesa: è la cd. minorata difesa che presuppone che l’agente conosca la situazione di vulnerabilità e la sfrutti in suo favore. Ha natura oggettiva.

6) L’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato: si tratta di compiere un reato durante la cd. latitanza in senso atecnico ed ha il suo fondamento nella più accentuata volontà di ribellione del soggetto che dopo essersi sottratto all’autorità per un precedente reato ne compie un altro. Ha natura soggettiva poiché si riferisce alle qualità personali del colpevole.

7) L’avere nei delitti contro il patrimonio,o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità: il danno viene inteso per costante giurisprudenza in maniera oggettiva e non in relazione alla capacità economica del danneggiato, tenendo conto del momento in cui il reato venne commesso, nonché del lucro cessante. In caso di reato continuato bisogna prendere in esame i singoli episodi criminosi. Ha natura oggettiva.

8) L’avere aggravato, o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso: si fa riferimento alla condotta successiva al reato anche se la circostanza viene applicata raramente. Dubbi sussistono sulla natura soggettiva o oggettiva della circostanza in esame.

9) L’avere commesso il fatto con abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto: va sottolineato che l’applicabilità di questa aggravante è esclusa nei casi in cui l’abuso costituisce elemento integrante del reato base. Ai fini dell’applicazione non basta la particolare qualifica ma è necessario che essa abbia agevolato l’esecuzione del reato perciò solo nel caso in cui l’abuso sia doloso. Ha natura soggettiva.

10) L’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un altro culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio: l’aggravante si giustifica con il prestigio del ruolo ricoperto dai soggetti in questione sebbene non sia richiesta omogeneità tra il reato commesso e la qualifica rivestita. Le nozioni in esame si ricavano dalla legge o dal diritto internazionale. Ha natura oggettiva poiché riguarda la persona dell’offeso.

11) L’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche ovvero con abuso di relazione d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità: la ratio dell’aggravante è costituita dall’abuso di fiducia che insiste (in realtà si considera presunto) tra l’agente ed il soggetto passivo. Anche in tal caso ci vuole la condizione mentale dell’abuso nei vari ambiti tipizzati dal legislatore come la famiglia, l’ufficio inteso in senso lato, la prestazione d’opera ma anche la coabitazione o l’ospitalità. Ha natura soggettiva.

9. Le singole circostanze attenuanti comuni

Esse sono elencate all’art 62:1) L’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale: secondo la giurisprudenza

questa valutazione va effettuata alla stregua degli atteggiamenti etico-sociali prevalenti, solo che essa spesso ne esclude l’applicabilità facendo confusione fra i motivi e la valutazione della condotta (che non può che essere illecita). Se tuttavia si facesse leva

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soltanto sui motivi l’attenuante in esame rischierebbe di essere concessa a tutti così è richiesto un rapporto di congruenza esteriormente accettabile (in base ad una valutazione oggettiva e non soggettiva) fra azione delittuosa e motivo apprezzabile. In genere essa è riconosciuta nei casi di obiezione di coscienza, manifestazioni pacifiste, violenza investigativa per scopi di terrorismo. Ha natura soggettiva e può concorrere con la premeditazione.

2) L’avere reagito in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui: è l’attenuante della provocazione costituita da un momento soggettivo costituito dall’ stato d’ira cioè un impulso emotivo incontenibile che provoca nell’agente la perdita dei poteri di autocontrollo e da un momento oggettivo costituito dal fatto ingiusto (contrario alle norme giuridiche, o all’insieme delle regole di convivenza sociale) che deve essersi realmente verificato. La giurisprudenza richiede ai fini dell’applicazione dell’attenuante un rapporto di proporzionalità tra fatto provocatorio e fatto reattivo. Può concorrere con i motivi di particolare valore morale e sociale, col vizio parziale di mente ma non con la premeditazione. Ha natura soggettiva.

3) L’avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’Autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale, o delinquente per tendenza: risente di alcune concezioni positivistiche abbastanza datate essendo basata sull’assunto (criticabile) della minore resistenza psichica derivante dalla fermentazione psicologica per contagio che si sprigiona dalla folla. In realtà si tratta di un volontario allentamento dei freni inibitori. Strutturalmente l’attenuante richiede il dato oggettivo di una moltitudine in stato di violenta tensione (ma comunque non vietata dalla legge o dall’Autorità) e quello soggettivo del trasporto esercitato dalla folla sull’agente. Ha natura soggettiva.

4) L’aver agito nei reati contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di particolare tenuità, ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro,l’avere agito per conseguire o l’avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità: la circostanza in esame che prima faceva riferimento solo al danno e non al lucro è stata integrata dalla l. n. 19/1990. In questo modo l’attenuante in esame costituisce l’opposto simmetrico rispetto all’aggravante di cui all’art 61 n. 7 e perciò sono ad essa applicabili gli stessi criteri oggettivi esaminati in quella sede, rimanendo solo in via sussidiaria quelli soggettivi. Il legislatore ha ritenuto opportuno restringere il campo richiedendo oltre alla tenuità del lucro anche quella dell’evento dannoso o pericoloso, cioè l’azione tipica deve apparire per qualità e grado, priva di serio disvalore penale. Nell’ipotesi di reato continuato la valutazione va compiuta in relazione ai singoli episodi criminosi. Ha natura oggettiva.

5) L’essere concorso a determinare l’evento, insieme con l’azione o l’omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa: il primo requisito necessario è quello materiale dell’inserimento dell’azione dell’offeso nella serie delle cause che determinano l’evento, il secondo, quello psichico, rappresentato dalla volontà di concorrere alla produzione dell’evento medesimo. Il fatto della persona offesa pur essendo una concausa all’evento non deve essere da solo idoneo a produrlo altrimenti ai sensi dell’art 41 si interromperebbe il nesso causale tra evento ed azione del colpevole. E’ stata esclusa nei casi di delitti sessuali contro minorenni o gli incapaci di intendere o di volere i quali sono incapaci di apportare un contributo volontario alla verificazione dell’evento. Ha natura oggettiva.

6) L’avere prima del giudizi, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e,

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quando sia possibile,mediante le restituzioni; o l’essersi prima del giudizio e fuori dal caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’art 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato: la ratio dell’attenuante in esame consiste nel ravvedimento del colpevole successivamente alla commissione del reato e comunque prima dell’inizio del giudizio. In realtà si tratta di due ipotesi: (A) risarcimento o riparazione del danno presuppone che il ristoro si effettivo ed integrale in modo da compensare il danno patrimoniale e quello non patrimoniale. Se la dottrina ricostruisce l’attenuante in maniera soggettiva escludendo quindi la rilevanza del risarcimento da parte di un terzo in quanto non denoterebbe alcuna forma di ravvedimento del reo, la giurisprudenza tende a ricostruirla in termini oggettivi (come nella sentenza interpretativa di rigetto n. 138/1998) stabilendo che il fatto che il risarcimento debba essere integrale non denota la necessità di un ravvedimento interiore del reo. ; (B) adoperarsi in modo spontaneo ed efficace al fine di elidere o attenuare le conseguenze del reato in cui per spontaneità non si intende un autentico ravvedimento morale ma la mancanza di imposizioni esterne e per conseguenze si intendono quelle non patrimoniali. Ha natura soggettiva.

10. Circostanze attuenuanti generiche

10.1. Con il d.lg.lgt 14 settembre 1944, n. 288 sono state reintrodotte nel nostro ordinamento, attraverso l’art 62 bis, le attenuanti generiche che nell’ottica rigoristica del codice Rocco non erano state inserite nel codice stesso nel 1930. Ai sensi dell’art 62 bis il giudice, indipendentemente dalle circostanze dell’art 62, può prendere in considerazione circostanze diverse qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione di pena. Esse si considerano come una sola circostanza la quale può concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto art 62. Circa la funzione e la natura delle stesse vi sono varie teorie tra cui la prima le considera come una sorta di appendice dell’art 133 diretta a ridurre il minimo edittale qualora questo si riveli sproporzionato rispetto alla gravità del fatto ed alla personalità del colpevole (non accettabile poiché in questo modo l’art 62 bis perderebbe la sua funzione autonoma); un’altra teoria invece pretende che l’art 62 bis permetta al giudice di cogliere un valore positivo del fatto, nuovo o diverso rispetto ai valori espressamente indicati nell’art 62 (accettabile poiché conferisce all’art 62 bis la funzione autonoma di valvola di sfogo del sistema tipico di circostanze). Secondo questa teoria perciò esse possono essere applicate a prescindere dalla gravità del reato e dalla personalità del reo ed anche se la pena base sia irrogata in misura superiore al minimo. Vale per l’art 62 bis il principio del divieto di doppia valutazione infatti in ossequio al ne bis in idem sostanziale se una situazione è valutata ai fini dell’art 133 non può essere rivalutata ai fini del 62 bis. La disciplina applicabile è quella delle circostanze in senso tecnico: si considerano come una solo circostanza e sono soggette al principio del bilanciamento. 10.2. La citata legge di riforma 2005 ha innovato anche nell’ambito delle attenuanti generiche aggiungendo un secondo comma all’art 62 bis limitandone l’applicabilità ai recidivi reiterati che siano autori di delitti previsti dall’art 407 cpp. Oltre alla cattiva formulazione legislativa devono essere sollevate delle riserve di merito infatti si intende escludere la possibilità del giudice di attenuare la pena in ragione dell’intensità del dolo (art 133 1° comma n. 3) e della capacità a delinquere del colpevole (art 133 2° comma) con la conseguenza che potranno essere usati solo i parametri oggettivi di cui allo stesso art 133. Questo vuol dire che il legislatore 2005 pone per i recidivi reiterati una presunzione di elevata intensità del dolo e capacità a delinquere ma ciò si pone in contrasto con i principi della responsabilità penale nonché con la concezione di un diritto penale del fatto.

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11. Recidiva

Essa, intesa come ricaduta nel reato, va inserita tra le circostanze inerenti la persona del colpevole. In passato il codice prevedeva che “chi dopo essere stato condannato per un reato, ne commette un altro” poteva vedersi infliggere un aumento di pena ma la disciplina è stata oggetto di una radicale modifica con la l. n. 251/2005 cd. Ex Cirielli. La ratio legis della riforma è stata quella di reagire al rischio di una eccessiva svalutazione della risposta punitiva dovuta al clemenzialismo giurisprudenziale. Perciò la recidiva è stata ampiamente trasformata da facoltativa ad obbligatoria, sono stati previsti aumenti di pena più consistenti ed ulteriori effetti giuridici. La recidiva ha ad oggetto solo i delitti non colposi ad esclusione quindi dell’illecito colposo e contravvenzionale per il frutto di una scelta abbastanza casuale sebbene ispirata ad introdurre un temperamento al rigorismo della disciplina. Il fondamento dell’istituto è oltremodo non univoco infatti in passato l’istituto sebbene conosciuto non era molto diffuso in quanto alterava le basi della concezione retributiva della pena. Superate tali difficoltà la recidiva ha soddisfatto esigenze di prevenzione speciale ed il suo fondamento sarebbe proprio quello di assegnare quel surplus di pena sufficiente al reo di comprendere lo sbaglio che la prima volta non ha compreso. Nel nostro codice il concetto in esame è molto vicino a quello di capacità a delinquere di cui all’art 133,2 in quanto il recidivo dimostrerebbe una maggiore insensibilità ai dettami dell’ordinamento ed una maggiore propensione a delinquere in futuro. In base all’art 99 vi sono tre forme di recidiva:

1) La recidiva semplice: consiste nella commissione di un delitto non colposo in seguito alla condanna per un altro delitto non colposo essendo indifferente il tempo trascorso tra l’uno e l’altro. La nuova disciplina prevede un aumento di 1/3 della pena prevista per il reato base (in misura fissa e non graduabile dal giudice come prima fino ad 1/6). Presupposto è la sentenza definitiva di condanna tenendosi conto anche delle condanne per le quali sia intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena e non le cause estintive di tutti gli effetti penali (Ex. riabilitazione).2) La recidiva aggravata: Quando il delitto non colposo è della stessa indole (recidiva specifica) o è stato commesso entro cinque anni dalla condanna precedente (recidiva infraquinquennale), ovvero è stato realizzato durante o dopo l’esecuzione della pena oppure ancora durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena stessa. La pena può essere aumentata fino alla metà (in passato fino ad 1/3) in maniera discrezionale dal giudice. Se invece ricorrono più circostanze per la recidiva aggravata l’aumento “è della metà” ( e non, “può essere della metà”). Nell’ambito della recidiva aggravata ed in particolare quella specifica assume rilevanza il concetto di reati della stessa indole cioè non solo quelli che violano la stessa norma ma anche quelli configurati da norme diverse purché per la natura dei fatti che li costituiscono o per i motivi che li determinarono presentano caratteri fondamentalmente comuni. I caratteri fondamentalmente comuni sono desumibili sotto un duplice aspetto: innanzitutto dal punto di vista della natura dei fatti che li costituiscono esaminati non in astratto ma in concreto ad esempio considerando le modalità di lesione o i risultati lesivi; poi dal punto di vista dei motivi che determinarono la commissione dei reati indagando appunto la motivazione psicologica.3) Recidiva reiterata: quando il delitto non colposo è commesso da chi è già recidivo. La riforma 2005 ha aumentato le pene: l’aumento è della metà nel caso di recidiva semplice, di 2/3 se la precedente recidiva è aggravata.4) Recidiva reiterata obbligatoria: prevista del novellato art 99,5 riguarda chi compie un delitto di cui all’art 407 2° comma lettera a) del codice di procedura penale. Per la prima

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volta una serie di reati del codice viene presa a fondamento della disciplina di un istituto di diritto sostanziale forse a causa della loro maggiore gravità per presunzione legislativa.5) L’ultimo comma dell’art 99 prevede che “ in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo”. Quanto agli effetti, la recidiva comporta oltre agli accennati aumenti di pena, ulteriori conseguenze giuridiche minori in rapporto all’amnistia, all’indulto, alla sospensione condizionale, all’estinzione della pena etc. A parte l’ipotesi di recidiva reiterata obbligatoria, l’applicazione della recidiva resta facoltativa confermando le scelte del legislatore del 1974 e lasciando un’ampia discrezionalità al giudice. Visto che la legge omette di indicare i criteri guida per il giudice la Cassazione ha cercato di colmare tale vuoto richiedendo che tra i reati ci sia un nesso personologico tale per cui la ricaduta nel reato manifesti una medesima insensibilità etica all’obbligo di non violare la legge ed una medesima attitudine a commettere in futuro nuovi reati. Tuttavia questo rimane un criterio non certo per cui si auspica un intervento legislativo. Le modifiche intervenute nella disciplina hanno rimesso in discussione la natura dell’istituto e la sua collocazione tra le circostanze infatti non si capisce cosa c’entri con il fatto uno status della persona. La generalizzata facoltatività dell’istituto tende a far apparire la recidiva non come una circostanza in senso tecnico ma come una sorta di indice di commisurazione come quelli dell’art 133. La giurisprudenza tuttavia continua a ritenere che essa sia una circostanza con la sua conseguente assunzione ad oggetto del giudizio di bilanciamento tra circostanze ex art 69 ma solo per quanto riguarda l’aumento di pena mentre gli altri effetti giuridici minori si applicano automaticamente. Contro questa lettura parte della dottrina ritiene insensato ammettere che il giudice possa escludere l’effetto principale della recidiva e, nello stesso momento, tenerne conto per gli effetti minori.

CAPITOLO 5- DELITTO TENTATO

1. Premessa: la consumazione del reato

Delitto consumato→ totale corrispondenza tra fattispecie concreta e fattispecie astratta delineata dal legislatore. Per accertare la consumazione del reato bisogna accertare caso per caso la compiuta realizzazione di tutti gli elementi costitutivi del reato. Nei reati di mera condotta la consumazione avverrà con la compiuta realizzazione della condotta, nei reati di evento invece presuppone oltre al compimento dell’azione anche la produzione di un evento. La determinazione del momento consumativo del reato assume rilevanza sotto vari profili:- per l’individuazione della norma applicabile in caso di successione delle leggi panali nel

tempo (art 2);- ai fini della decorrenza del termine di prescrizione;- ai fini della concessione dell’amnistia e dell’indulto;- ai fini della competenza territoriale;- per l’applicazione della legge penale italiana rispetto alla legge penale straniera.

Il concetto di consumazione è necessario inoltre per individuare la distinta ed autonoma ma connessa figura del tentativo. Il caso 39 che potrebbe sembrare un tentativo in realtà è un delitto consumato infatti è irrilevante la realizzazione dell’intero piano criminoso mentre è sufficiente che siano stati realizzati gli elementi costitutivi della fattispecie astratta.

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2. Delitto tentato: in generale

Delitto tentato o tentativo→ individua i casi in cui l’agente non riesce a portare a compimento il delitto programmato, ma gli atti parzialmente realizzati sono tali da esteriorizzare l’intenzione criminosa. Diversamente ci si troverebbe di fronte ad un mero proposito delittuoso ed in quanto tale irrilevante (cogitationis poenam nemo patitur). Il fondamento per la punibilità del tentativo la ritroviamo nell’esigenza di anticipare la tutela per dei beni particolarmente sensibili prevenendo la loro esposizione a pericolo (teoria cd. oggettiva, accettata). Vi sono poi due altri tipi di teoria che però nell’ambito del diritto penale ispirato alla protezione dei beni giuridici.- Teorie soggettive: esse sono legate a matrici politico-ideologico differenti, in primo luogo alla scuola positivistica di Lombroso, Ferri e Garofano che si contrapponeva a quella classica obiettando che i fondamenti della punibilità andavano spostati dal fatto materiale alla personalità dell’autore, essi ravvisavano il fondamento del tentativo nel suo assurgere a sintomo di pericolosità sociale. In secondo luogo le teorie soggettive sono ricollegate al diritto penale della volontà di matrice totalitaria che ravvisano il fondamento della punibilità del tentativo nel fatto che esso costituisca un’avvisaglia di volontà ribelle. In un’ottica di tipo soggettivo il legislatore coerente non dovrebbe differenziare il delitto consumato da quello tentato infatti la volontà criminale è la stessa, inoltre tale concezione potrebbe portare alla punibilità del tentativo inidoneo o addirittura cervellotico. - Teorie miste o eclettiche: mettono insieme motivazione oggettiva e soggettiva, esse partono dal presupposto che il tentativo sia manifestazione di volontà ribelle ma ritengono meritevoli di punizione soltanto quelli in grado di scuotere la fiducia dei cittadini nell’ordinamento. Anche questa teoria sviluppata coerentemente potrebbe portare alla punizione del tentativo cervellotico.La teoria oggettiva risulta essere più conforme ai canoni del diritto penale del fatto avendo come presupposto la fondamentale esigenza che il proposito criminoso si traduca in un comportamento materiale che a sua volta produca una effettiva lesione o almeno una messa in pericolo, obiettivamente accertabile, del bene protetto. Tali segnali provengono dal diritto positivo come dall’art 56 che parla di idoneità dell’azione intesa come attitudine della condotta materiale ad aggredire il bene tutelato, l’art 49 che parlando di reato impossibile per inidoneità dell’azione conferma che nel nostro ordinamento il tentativo inidoneo non ha cittadinanza. Il fondamento della differenziazione sanzionatoria compiuta dal legislatore fra delitto tentato e consumato è il fatto che il primo consista in una lesione potenziale mentre il secondo lesione effettiva e perciò il minor grado di aggressione del bene fa si che il delitto tentato sia una sorta di delitto di minore grado. Non si deve però considerare il delitto tentato come imperfetto infatti esso consta di tutti gli elementi necessari per assurgere a delitto perfetto: tipicità (in un’accezione peculiare), antigiuridicità e colpevolezza. Sul piano normativo esso costituisce un titolo autonomo di reato caratterizzato da un profilo offensivo proprio sebbene conservi lo stesso nomen iuris del corrispondente delitto consumato. In questo senso esso nasce dall’incontro tra due norme: la norma incriminatrice di parte speciale e l’articolo 56 che disciplina i requisiti del tentativo punibile ed ha la funzione di anticipare la tutela per alcuni fatti sebbene non raggiungano la soglia della consumazione. In ogni caso per stabilite se una norma incriminatrice preveda anche la forma del delitto tentato si dovrà avere riguardo alla materia cui la legge si riferisce ed alla relativa ratio.

3. L’inizio dell’attività punibile

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Il problema fondamentale dell’istituto del tentativo è quello di individuare la soglia del tentativo punibile operando un delicato bilanciamento tra garanzie individuali (che sarebbero frustrate in caso di un arretramento eccessivo della tutela) ed esigenze repressive. In linea di principio si può dire che la soglia di punibilità sarà raggiunta soltanto in coincidenza con la messa in pericolo del bene protetto, ma quando si può dire che il bene è in pericolo? Nell’ottocento si tentava di dare una risposta a questa domanda distinguendo tra atti meramente preparatori ed atti esecutivi così il codice Zanardelli identificava il tentativo come il cominciamento dell’esecuzione del delitto programmato, in quest’ottica erano irrilevanti gli atti preparatori in quanto non aggressivi del bene protetto. Nella pratica questa distinzione non aveva il potere di individuare precisamente ed in maniera certa gli estremi del tentativo punibile così si è fatto uso di vari altri criteri:- Criterio dell’univocità: Francesco Carrara nella prima fase del suo pensiero definì

preparatori tutti gli atti che, ancorché idonei alla commissione del reato, sono contrassegnati da una perdurante equivocità; mentre esecutivi gli atti univoci. Anche tali definizioni presentano dei problemi.

- Criterio dell’aggressione della sfera del soggetto passivo: Francesco Carrara in una seconda fase del suo pensiero definì preparatori tutti gli atti che rimangono nella sfera del soggetto attivo; esecutivi quelli che riescono ad invadere la sfera personale del soggetto. Oltre alla solita indeterminatezza insita nel concetto di sfera del soggetto passivo, la teoria si espone a problemi nel caso di reati a soggetto passivo pubblico o indeterminato.

- Criterio dell’azione tipica: va sotto il nome di “teoria formale oggettiva” ed è frutto di una elaborazione più matura. Qualifica come esecutivi solo e soltanto gli atti che danno inizio all’esecuzione della condotta descritta dalla fattispecie di parte speciale. Questa teoria perciò finisce per restringere troppo l’area del tentativo ed incontra dei problemi anche nei reati causali in cui è difficile individuare l’inizio della condotta tipica. Ex. Omicidio Questa teoria è stata rivista da Frank il quale ha elaborato la “teoria materiale oggettiva” che attrae nell’ambito della punibilità a titolo di tentativo solo gli atti prossimi o contigui a quelli tipici cioè gli atti strettamente connessi od omogenei e coerenti rispetto a quelli tipici. Stessi problemi della teoria precedente presenta quest’ultima nell’ambito dei reati casuali.

Le esigenze repressive del regime fascista fecero in modo che il codice Rocco abbandonò il tradizionale criterio dell’inizio dell’esecuzione elaborato nel codice Zanardelli. L’art 56 infatti dispone: “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco, a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”. Vengono introdotti quindi due requisiti per la punibilità del tentativo: idoneità ed univocità degli atti. In realtà sembra che tutto sia cambiato affinché nulla cambi, infatti la vecchia diatriba fra atti preparatori ed esecutivi non si è mai spenta e comunque i due requisiti in parola conducono alle stesse conseguenze del passato. Il vero punto dolente consiste ancora oggi nell’evitare che l’istituto venga manipolato in senso illiberale ed a tal fine appare decisivo l’impegno diretto a riempire di significato i requisiti dell’idoneità e dell’univocità degli atti tenendo presente la reale esposizione a pericolo del bene.

4. Idoneità degli atti

Ai sensi dell’art 56 si ha tentativo se l’azione non si compie o l’evento non si verifica due casi che potrebbero definirsi rispettivamente di tentativo incompiuto e di tentativo compiuto anche se il codice Rocco li sottopone al medesimo trattamento sanzionatorio. Per quanto riguarda invece i requisiti che devono positivamente sussistere il codice parla di atti idonei in modo non equivoco alla commissione di un delitto individuando l’idoneità e la non univocità degli atti . Da sottolineare subito che, a differenza del codice Zanardelli, l’idoneità è riferita agli atti e non ai mezzi impiegati,

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per cui anche un mezzo inidoneo può configurare un atto idoneo ed allo stesso modo un mezzo idoneo può dar vita ad un atto inidoneo. Il requisito dell’idoneità degli atti ha natura oggettiva anche se non si concorda sul suo significato. Una teoria dottrinaria superata ma ancora accettata in giurisprudenza risolve il concetto di idoneità in quello di efficienza causale nel senso che gli atti realizzati dovrebbero essere capaci di cagionare l’evento. Questa teoria strettamente causale è avversata oggi che si riconosce che nel delitto tentato manca uno dei termini necessari per il rapporto eziologico ed inoltre si avrebbe un giudizio ex post che in mancanza di un evento (che per definizione deve mancare nel delitto tentato) porterebbe sempre alla conseguenza che gli atti sono inidonei, rimane da obiettare infine che non tutti i reati hanno un evento naturalistico come dimostrano i reati di mera condotta. Si concorda oggi nel ritenere che il parametro di accertamento dell’idoneità consiste in un giudizio ex ante ed in concreto cd. di prognosi postuma in quanto il giudice deve collocarsi idealmente nella posizione dell’agente all’inizio dell’attività criminosa ed accertare con le conoscenze dell’uomo medio o quelle eventualmente maggiori dell’agente concreto, se gli atti erano in grado di sfociare nella commissione del reato (tenendo conto delle circostanze concrete). A questo punto rimane ancora da capire se la prognosi postuma debba essere effettuata applicando un giudizio di idoneità su base parziale o su base totale. Cioè il giudizio deve tener conto soltanto delle circostanze conosciute o conoscibili al momento dell’azione dall’uomo avveduto pensato al posto dell’agente ( a base parziale, teoria preferita dalla dottrina) oppure deve tener conto anche di circostanze eccezionali, oggettivamente presenti dall’inizio, ma conosciute dopo ( a base totale, teoria accettata in giurisprudenza e nella dottrina classica) ? La teoria a base parziale tende a contemperare la concreta pericolosità del tentativo con le esigenze di prevenzione generale facendo prevalere la preoccupazione che il reo possa beneficiare dell’impunità per effetto di circostanze non conoscibili che hanno fatto venir meno la pericolosità dell’azione tentata; la teoria a base totale invece segue un concetto di idoneità coerente con la tesi che ravvisa il fondamento della punibilità nella effettiva esposizione a rischio dei beni. Così ad esempio sarebbe non punibile, causa inidoneità originaria, chi tenta di rubare da una tasca senza soldi, anche se ne era all’oscuro.

4.1. Non c’è unità di vedute in relazione al grado o livello di idoneità necessario ai fini della configurabilità del tentativo punibile. C’è chi si accontenta che gli atti rendano meramente possibile il verificarsi dell’evento(1); chi ne richiede una ragionevole possibilità(2); chi considera idonea l’azione adeguata rispetto all’evento voluto(3); altri richiedono che appaia verosimile la capacità dell’azione rispetto allo scopo criminoso(4); infine chi richiede la probabilità di verificazione dell’evento(5). Queste diverse voci spesso si risolvono in mere dispute terminologiche convergendo poi a simili risultati pratici affidati, in mancanza di una chiara indicazione legislativa, alla discrezionalità giudiziale. Essendo tutte le teorie citate degne di rappresentare il grado di idoneità la soluzione più adeguata per uscire dall’impasse è quella di accogliere un orientamento teleologico. Fiandaca’s opinion: se il fine è quello di impedire la messa in pericolo del bene giuridico, questo presuppone almeno la probabilità di verificazione dell’evento lesivo cioè la rilevante attitudine degli atti a conseguire l’obiettivo. Una volta descritta l’idoneità in termini dottrinali non resta che indagarne il suo accertamento concreto nelle varie ipotesi delittuose. Nei reati casualmente orientati come l’omicidio dove non vi sono grandi criteri di esperienza relativi alla realtà fisica, il giudizio di accertamento dell’idoneità diventa più aleatorio man mano che ci si allontani dalla fase esecutiva. Nel caso 40 si può affermare che versare veleno in una botte è mezzo idoneo a provocare ma l’intorpidimento del vino potrebbe trarre in salvo il vecchio qualora si accorgesse di qualcosa di strano, ipotesi tuttavia

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remota. Per cui le possibilità di riuscita sono al 50%. È da escludere l’idoneità invece nei casi in cui il mezzo sia totalmente inidoneo.

5. Univocità degli atti

Già Carrara aveva intuito che un atto finché sia tale da poter condurre tanto ad un delitto quanto ad una azione innocente, non può essere che preparatorio e quindi non punibile. L’univocità può quindi essere intesa come possibilità di ricondurre in maniera certa un atto ad un delitto. È noto infatti che degli atti pur idonei a commettere un delitto possano essere compiuti anche per scopi leciti. Ex. Ci si può introdurre in una abitazione altrui per rubare, violentare o uccidere.Per questo motivo anche se non è chiaro il significato preciso di “atto diretto in modo in equivoco a commettere un reato risulta lampante l’obiettivo dell’univocità di restringere gli estremi del tentativo punibile. Secondo la concezione soggettiva l’univocità farebbe riferimento ad un criterio di prova cioè indicherebbe l’esigenza di provare in sede processuale il proposito criminoso anche da indizi esterni al fatto di reato. Questo non è possibile in quanto la prova della volontà criminosa discende dalle regole sull’elemento soggettivo mentre l’univocità è riferita al solo tentativo. Secondo la concezione oggettiva l’univocità rappresenterebbe un criterio di essenza cioè una caratteristica oggettiva della condotta nel senso che gli atti, nel contesto in cui sono inseriti, devono possedere l’attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito. Per accertare l’univocità bisognerebbe avere quindi qualche indizio in più della semplice azione idonea. Ex Entrare in casa muniti di grimaldelli di notte denota un furto. In questo modo però si restringe forse eccessivamente l’ambito di operatività del tentativo dato che è raro rinvenire simili indizi espliciti. Allora bisogna sottolineare che l’esigenza di ricondurre l’univocità a caratteristica dell’azione non esclude che la prova del fine delittuoso possa essere desunta anche dai normali canoni in tema di elemento soggettivo solo che una volta avuto un indizio ricavato al di là dei fatti di reato bisognerà riconsiderarlo nella dimensione oggettiva del fine criminoso concreto. Così nel caso 41 il venditore ambulante non avrà posto in essere un’azione univoca fin quando non scenderà le scatole dall’auto; mentre nel caso 42 l’univocità è in re ipsa visto che gli indizi sono così eloquenti da non richiedere altre verifiche. Vi è anche una terza teoria cd. materiale oggettiva individuale che nel ricostruire l’univocità degli atti attorno al concetto di tipicità fa, al contempo, riferimento al concreto piano criminoso dell’agente. Questa teoria considera univoci gli atti che secondo il programma dell’agente sono prossimi o contigui all’azione esecutiva ma le difficoltà sono in gran parte riscontrabili nell’individuazione in sede processuale del concreto piano criminoso. Così di solito non costituiscono tentativo punibile gli atti diretti a procacciarsi gli strumenti con cui si agirà o a prepararsi il campo.

6. Elemento soggettivo

È controverso se le particolarità dl tentativo si riflettano anche sul piano dell’elemento soggettivo ma è certo che il tentativo è punibile solo se commesso con dolo, visto che la legge non parla di tentativo colposo, anche se parte della dottrina esclude la possibilità di un tentativo colposo già sul piano ontologico. Rimane perciò da sapere se il dolo del tentativo comprenda tutte le forme del dolo del reato consumato compreso il dolo eventuale. Ex. Tizio da fuoco ad una palazzina accettando il rischi che vi dorma qualcuno, può rispondere di tentato omicidio con dolo eventuale?

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La dottrina minoritaria e la giurisprudenza dominante (ora non più) partono dal presupposto che il nostro ordinamento non distingua i due tipi di dolo fra reato consumato e tentato, per cui essi differirebbero solo sul piano strutturale oggettivo. Questo si dedurrebbe anche dalla concezione oggettiva dell’univocità che dovrebbe non riflettersi sul piano dell’elemento soggettivo. Questo atteggiamento rigoristico può ritenersi motivato sia da esigenze generalpreventive che di semplificazione probatoria (infatti il giudice si accontenterà di supporre che l’agente fosse ben consapevole di provocare eventi lesivi più gravi di quelli voluti).La giurisprudenza emergente ritiene invece incompatibile il tentativo con il dolo eventuale. Volendo si può giustificare tale teoria con l’accoglimento della teoria soggettiva dell’univocità ma se non si vuole accettare quest’ultima, la teoria in esame è suffragata da vari altri argomenti tra cui: l’autonomia strutturale del tentativo rispetto alla consumazione; l’incompatibilità tra il dolo eventuale ed il requisito dell’univocità (anche in senso oggettivo) infatti è inevitabile nel tentativo individuare una condotta orientata verso uno scopo e non una semplice accettazione del rischio. L’inequivocità degli atti va sempre correlata infatti con l’atteggiamento psicologico. Conclusione: la direzione finalistica dell’atto deve essere certa tanto sul piano materiale che su quello psicologico. Non può dirsi infatti univoco, un comportamento che l’agente realizzi senza tendere a realizzarlo ma soltanto accettando il rischio della sua verificazione. La soluzione raggiunge esiti pro reo infatti ove l’evento morte, nel caso dell’incendio di Tizio, non si verifichi esso risponderà solo dell’incendio ma non di tentato omicidio.

7. Il problema della configurabilità del tentativo nell’ambito delle varie tipologie delittuose

Spetta all’interprete, in mancanza di una disciplina positiva, il compito di individuare quali tipologie delittuose siano compatibili con i requisiti di cui all’art 56. Ecco una serie di regole:- Il tentativo non è ammissibile nelle contravvenzioni cioè vale solo per i delitti, questa è

semplicemente una scelta del legislatore che ha ritenuto di non perseguire a titolo di tentativo i reati di minore gravità.

- Il tentativo non è ammissibile nei delitti colposi, questa volta per ragioni strutturali infatti il tentativo non può coesistere con la mancanza di intenzione di commettere il reato.

- Per il tentativo nei reati omissivi vedi la sezione apposita dei reati omissivi.- Il tentativo non è ammissibile nel delitto preterintenzionale infatti se il soggetto passivo

sopravvive la responsabilità rimane limitata al delitto di lesione o percosse.- Il tentativo non è ammissibile nel caso dei reati cd. insussistenti dal momento che essi si

perfezionano con un solo atto. Ex. Ingiuria verbale- Il tentativo non è ammissibile nei delitti di attentato e nei delitti a cd. consumazione

anticipata in quanto in essi il tentativo equivale alla consumazione e comunque sarebbe illogico ipotizzare “atti diretti in modo non equivoco a commettere atti diretti in modo non..”

- Discussa è la configurabilità del tentativo nei reati di pericolo anche se si propende per la soluzione negativa in quanto sarebbe come reprimere il pericolo di un pericolo.

- Nei reati aggravati dall’evento il tentativo è configurabile solo quando l’evento ulteriore può realizzarsi indipendentemente dall’esaurimento della condotta vietata.

- Nei reati condizionati la configurazione del tentativo dipende dalla possibilità del verificarsi della condizione obiettiva di punibilità indipendentemente dal perfezionarsi della condotta tipica.

- Non ci può essere tentativo nei reati abituali dal momento che le singole azioni non assumono rilevanza penale autonoma.

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- Nei reati permanenti la configurabilità del tentativo è possibile a condizione che la condotta positiva sia frazionabile.

8. Tentativo e circostanze

I rapporti tra tentativo e circostanze sono particolarmente dibattuti ed a tal proposito si distingue tra tentativo circostanziato di delitto o tentativo di delitto circostanziato: nel primo caso le circostanze si realizzano nel contesto dell’azione tentata, mentre nel secondo caso qualora un delitto se fosse giunto a consumazione sarebbe stato qualificato dalla presenza di una o più circostanze. Prima che il reato giunga a consumazione non c’è dubbio sulla configurabilità delle circostanze mentre i problemi cominciano a sorgere nell’ipotesi di tentativo circostanziato di delitto caratterizzate da una realizzazione soltanto parziale delle circostanze (tentato omicidio ed atti diretti a seviziare) e sono ancora maggiori nell’ipotesi di tentativo di delitto circostanziato riconosciuta dalla giurisprudenza in relazione al danno di speciale tenuità, sulla base di un giudizio prognostico che l’iter consumativo avrebbe realizzato con certezza gli elementi costitutivi della circostanza. Il problema insormontabile qui è il principio di legalità che non può essere derogato imponendo che le circostanze siano applicate in presenza dei requisiti esplicitamente previsti dalla legge. Altri problemi sono di carattere strutturale infatti le circostanze relative all’evento consumativi del reato risultano compatibili soltanto con la compiuta realizzazione dell’illecito penale. Le uniche circostanze compatibili col tentativo sono quelle che si realizzano compiutamente nello stesso contesto dell’azione tentata.

9. Desistenza e recesso attivo

In alcuni casi per impedire la consumazione del reato non è un evento esterno ma un’iniziativa dell’agente stesso che muta il suo proposito. Art 56,3: “se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano di per se un reato diverso” cd. desistenza volontaria, art 56,4: “se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà” cd. recesso attivo o pentimento operoso. La legittimazione politico-criminale dei due istituti è rinvenibile nella teoria dei ponti d’oro secondo la quale l’ordinamento giuridico al fine di evitare l’offesa ai beni protetti, farebbe promessa di impunità o di riduzione di pena come controspinta psicologica alla spinta criminosa. Contro tale teoria si muove la critica che non tutti conoscono tali norme ed inoltre chi delinque spesso non è così lucido da valutare razionalmente costi e benefici della sua azione, tuttavia tali argomentazioni non sono tali da smontare la teoria. I due istituti potrebbero trovare il loro fondamento nelle esigenze di prevenzione speciale e generale infatti chi ritorna sui suoi passi non rappresenta un esempio pericoloso per gli altri e non mostra una volontà criminale tale da giustificare una pena rieducativa. In quest’ottica però la desistenza dovrebbe assumere rilevanza solo qualora fosse espressione di un autentico ravvedimento e non anche quando fosse semplicemente libera da ogni costrizione esterna. La distinzione tra desistenza e recesso attivo ripercorre quella tra tentativo incompiuto e tentativo compiuto in base ad un giudizio ex post che fa leva sull’esaurimento o no dell’azione esecutiva. Desistenza volontaria→ finché l’azione non ha ancora compiuto il suo iter esecutivo. Ex. Caso 43Recesso attivo→ tutte le volte in cui l’azione si è compiutamente realizzata ma l’agente riesce ad impedire il verificarsi dell’evento lesivo. Ex. Caso 44

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9.1. Per essere efficaci sia desistenza volontaria sia recesso attivo devono verificarsi volontariamente al di là dei motivi che inducono a mutare proposito, cioè non è richiesto che la scelta dell’agente sia espressione di un autentico ravvedimento ma solo che sia libera da imposizioni esterne che ostacolano la consumazione del reato. I criteri per individuare la volontà sono vari e diversificati ma spesso si verifica che la scelta non sia esclusa da fattori che rendono irrealizzabile l’impresa criminosa, o da percezioni di elementi di rischio, oppure quando la situazione appare talmente rischiosa che nessuna persona ragionevole continuerebbe nell’intento criminoso.

9.2. E’ necessario inoltre approfondire gli stessi parametri di demarcazione tra desistenza volontaria e recesso attivo infatti il criterio esposto dell’esaurimento dell’azione esecutiva desta delle perplessità in alcuni casi limite. Ex. Una donna si fa inserire una cannula in vagina a fine di provocarsi un aborto, la estrae dopo un certo lasso di tempo ed evita l’aborto. La Cassazione in questi casi ha parlato ora di desistenza volontaria ora di recesso attivo Problemi ci sono anche nel caso 45 in cui la moglie apre il rubinetto del gas per uccidere il marito ma poi pentitasi chiama i vigili del fuoco e lo fa mettere in salvo. Anche in questo caso che sembra più di recesso attivo sembra iniquo discriminare fra situazioni sostanzialmente leggibili in modi differenti da parte dei diversi giudici, per questo motivo si auspicherebbe una revisione adeguata.

10. Tentativo ed attentato

I delitti di attentato per i quali la tutela del bene giuridico viene anticipata sono quelli che il legislatore considera perfetti durante il compimento di atti idonei a ledere il bene protetto. Si tratta di reati principalmente contro la personalità dello Stato e di una categoria dogmatica nata per astrazione dalle caratteristiche delle singole fattispecie disciplinate. Ci si chiede se in mancanza di una espressa previsione i delitti di attentato puniscano già l’attività preparatoria oppure siano necessari gli elementi costitutivi del tentativo punibile. Sotto il codice Zanardelli tentativo ed attentato erano concetti omogenei la cui tutela anticipata poteva spingersi fino agli atti esecutivi mentre il codice Rocco in aderenza alla sua logica repressiva ha fatto anticipare la soglia della punibilità a livello di attività preparatoria. Senonché per il tentativo si è imposta una tendenza restrittiva che richiede per la sua punibilità un’attività sostanzialmente esecutiva, mentre per l’attentato si è registrata una tendenza a conferirgli un’autonomia strutturale rispetto al tentativo e questo al fine di colpire anche gli atti più remoti purché espressione di una volontà intesa a ledere il bene protetto. Dagli anni 60 in poi in ossequio al principio di offensività si è valorizzato il requisito dell’idoneità. Conclusione: oggi si ritiene che vi sia omogeneità strutturale tra tentativo ed attentato e che , per la punibilità dell’attentato, occorre che l’attività sia anch’essa idonea a ledere il bene protetto. La legge cd. Reale 1975 ha riesumato la nozione di atti preparatori per l’applicazione delle misure di prevenzione ante delictum.

11. Reato impossibile

Art 49,2: “la punibilità è esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”, “il giudice può ordinare che l’imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza”. Interpretazione tradizionale: una simile disposizione potrebbe sembrare una ripetizione in negativo i requisiti del tentativo così il reato impossibile altro non sarebbe se non un tentativo impossibile. Tale situazione avrebbe portato all’impunità anche senza un’apposita norma a disciplinarla. Alcuni autori tuttavia non limitano l’efficacia della disposizione in esame al solo tentativo ma la estendono all’intero sistema penale:

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si tratterebbe del principio generale che funge da criterio ispiratore della concezione per la quale non può esservi reato, senza una lesione o una messa in pericolo effettiva del bene protetto (concezione realistica). Secondo tale teoria la punibilità sarebbe esclusa in quanto sebbene sussista la tipicità la condotta risulta talmente innocua da essere assolutamente incapace di ledere il bene protetto. Tale teoria considera inoltre tentativo e reato impossibile come fattispecie autonome in quanto l’idoneità di cui all’art 49 sarebbe riferita all’azione e non agli atti inoltre non si spiega come mai gli atti diretti in modo non equivoco a commettere una contravvenzione rimangono impuniti se idonei a produrre l’evento posto che il tentativo nelle contravvenzioni non è punibile, mentre possono portare all’applicazione di una misura di sicurezza. Critiche alla tesi esposta: l’articolo 49 non informando sulla natura degli interessi tutelati non può riuscire di ausilio nello stabilire quando sussista la lesione o messa in pericolo del bene protetto; inoltre se il bene protetto deve essere desunto dalla intima struttura della fattispecie ne consegue che riesce impossibile ipotizzare un fatto conforme a quest’ultima ma non lesivo del primo.; ci sarebbe un problema di legalità infatti se il giudice dovesse operare un primo giudizio di corrispondenza tra fatto e fattispecie astratta ed un secondo giudizio sull’effettiva lesività ciò sarebbe una minaccia per la certezza del diritto.

11.1. Fiandaca’s opinion: è preferibile la prima teoria ma non basta.Si deve così risalire alle origini storiche della disposizione: infatti il legislatore del 1930 ha dedicato una disposizione al reato impossibile per fugare ogni dubbio relativo alla irrilevanza penale del tentativo assolutamente inidoneo in concreto a mettere in pericolo il bene protetto. Il tentativo esula quando l’azione pur idonea in astratto non può sfociare in un delitto consumato per circostanze che ne rendono in concreto impossibile la realizzazione. Per accertare se il bene abbia corso un reale pericolo bisogna compiere in primis la verifica del giudizio prognostico su base parziale ex art 56 nella sola ottica del soggetto agente; in seguito se ne deve compiere un’altra compiuta questa volta su base totale nell’ottica della vittima come titolare del bene posto in pericolo (quindi tenendo conto non solo delle circostanze conosciute o conoscibili dall’agente al momento dell’azione , ma di tutte le circostanze presenti nella situazione data). Così si risolve il caso 46 nel senso di escludere la punibilità per mancanza dell’oggetto dell’azione. Le stesse considerazioni valgono anche per il tentativo impossibile per l’inidoneità della condotta. Ex. Un furto progettato non viene portato a compimento per la predisposizione della forza pubblica con forze e mezzi tali da far ritenere con certezza, impossibile la realizzazione del reato. I casi di tentativo inidoneo se non mettono in pericolo il bene protetto possono tuttavia assurgere ad indici di pericolosità sociale ed è per questo che il giudice può autorizzare una misura di sicurezza.

CAPITOLO 6- CONCORSO DI PERSONE

1. Premessa

Concorso di persone nel reato→ istituto che disciplina i casi in cui più persone concorrono alla realizzazione di un medesimo reato. È un istituto che nei tempi moderni va sempre più diffondendosi a causa delle forma di criminalità organizzata e della figura affine dell’associazione a delinquere. Secondo un teoria tradizionale ma non immune da critiche, mentre l’associazione a

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delinquere presupporrebbe un vincolo stabile tra più soggetti ed un programma criminoso, il concorso di persone nel reato determina solo un vincolo occasionale tra più persone finalizzato alla realizzazione di uno o più reati. Così si può dire che la funzione del concorso di persone è quella di facilitare la commissione di un reato che potrebbe essere realizzato anche da un singolo; esso può essere definito eventuale per distinguerlo dal cd. concorso necessario che ricorre quando è la stessa fattispecie di parte speciale a richiedere la presenza di più soggetti per la integrazione del reato. Ex. Rissa (art 588); associazione per delinquere (art 416); corruzione (art 318)

2. I problemi dei modelli di disciplina del concorso criminoso

Le fattispecie degli attuali sistemi penali sono basate sulla figura dell’autore individuale per cui non sono applicabili a quei concorrenti che pur apportando un contributo alla realizzazione del fatto si limitano a porre in essere contributi da soli insufficienti ad integrare la fattispecie. Si pone quindi il problema in ossequio al principio di legalità, di individuare una norma che permetta di punire anche il compartecipe. Le norme sul concorso allargano l’ambito della punibilità a contributi singolarmente non punibili ed anche atipici, integrando le disposizioni di parte speciale. Dal punto di vista della configurazione normativa della fattispecie concorsuale il legislatore si trova di fronte alla scelta tra un modello differenziato ed un modello unitario di tipizzazione del fatto. MODELLO DIFFERENZIATO: in questo modello il legislatore si sforza di differenziare le varie forme di partecipazione distinguendo in funzione dei ruoli effettivamente rivestiti dai vari concorrenti. Questo modello tipico delle codificazioni liberali ottocentesche, si preoccupa di differenziare la responsabilità di ciascun concorrente sul piano della tipicità, riposando così la sua ratio giustificatrice, nell’intento di non appiattire le responsabilità individuali posto che nella graduazione della pena non può non influire il tipo di contributo arrecato da ciascun concorrente. Questo modello ha però anche dei limiti nella genericità delle figure normative di tipizzazione che consente alla giurisprudenza di manipolarle al fine di reprimere i contributi partecipativi più atipici. MODELLO UNITARIO: in questo modello il legislatore opta per la cd. tipizzazione causale in quanto sono riconducibili alla fattispecie concorsuale tutte le condotte dotate di efficacia eziologica nei confronti dell’evento lesivo, senza differenziare le forme primarie o secondarie di partecipazione. Della reale entità del contributo apportato da ciascun concorrente si potrà tener conto in sede di commisurazione della pena. 2.1. Il codice Rocco ribaltando l’ottica del codice Zanardelli ha optato per un modello di tipizzazione unitaria basata sul criterio dell’efficienza causale della condotta di ciascun concorrente. Art 110: lungi dall’operare distinzioni tra diversi ruoli di concorrente si limita a stabilire che “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”. Ecco qui di seguito alcune delle ragioni che hanno portato all’inversione di tendenza:- Il retroterra del pensiero “positivistico-naturalistico” incline a valorizzare il dogma della

causalità anche sul terreno dei presupposti della responsabilità penale; - L’influenza del “positivismo criminologico” di matrice lombrosiana e ferriana che sminuiva

le responsabilità individuali per privilegiare il valore sintomatico dei singoli contributi in modo da dedurne elementi di pericolosità sociale.

- Sollecitazioni provenienti dalla prassi che lamentavano la mancanza di criteri idonei a differenziare e tipizzare i singoli contributi criminosi. La tesi della maggiore impraticabilità della tipizzazione differenziata è sostenuta dalla maggior parte della dottrina che predilige oggi il modello unitario.

- La scelta politico-criminale di stampo autoritativo finalizzata alla repressione delle condotte

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anche di minima entità.Come per la disciplina del tentativo anche per quella del concorso il legislatore ha raggiunto un compromesso fra le varie istanze infatti all’art 114 ritorna la differenza fra compartecipazione primaria e secondaria quando si legge: “il giudice, qualora ritenga che l’opera prestata da talune delle persone che sono concorse nel reato a norma dell’art 110 e 113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato, può diminuire la pena”. Attraverso il contributo di minima importanza quindi si è ripristinata una parvenza di modello differenziato. D’altra parte, la rinuncia ad una distinzione analitica, da parte del legislatore non ha neppure agevolato il consolidarsi di una prassi applicativa veramente appagante infatti il fatto di non aver disciplinato i vari contributi partecipativi ha prodotto di fatto un’eccessiva dilatazione della responsabilità a titolo di concorso. Questo ha reso tutta la disciplina del concorso di persone di dubbia costituzionalità per mancanza di tassatività tanto che buona parte della dottrina recente ne ha auspicato una più dettagliata e garantistica disciplina.

3. Le teorie sul concorso criminoso

Varie teorie sono nate per spiegare il meccanismo che permette di inquadrare condotte concorsuali atipiche all’interno di fattispecie di parte speciale.

a) La teoria dell’accessorietà: Secondo tale teoria che ha dominato soprattutto in passato, la partecipazione criminosa (con dotta atipica) ha natura accessoria cioè assume rilevanza penale nella misura in cui accede alla condotta principale o tipica dell’autore. Ex se Tizio fornisce a Caio un grimaldello, questa condotta non è punibile finché Caio non compie un furto. Tale teoria permeata da preoccupazioni di tipo garantistico ribadisce con forza che il concorso criminoso debba rispettare il principio di tipicità oggettiva, si è tuttavia sviluppata in diverse sottoteorie: se alcuni hanno sostenuto che la punibilità della partecipazione è subordinata alla assoggettabilità a pena in concreto della condotta tipica (cd. accessorietà estrema) altri hanno ritenuto sufficiente l’antigiuridicità oggettiva della condotta tipica senza richiedere l’assoggettabilità in concreto a pena (cd. accessorietà limitata). Critiche: la teoria non giustifica la punibilità dei concorrenti nei casi di cd. esecuzione frazionata in cui nessuno dei concorrenti compie una condotta tipica ma tutti concorrono nel configurarla; inoltre nei casi di concorso nel reato proprio, posto che esso può essere posto in essere solo da un particolare soggetto, si dovrebbe rinunciare all’incriminazione per tale titolo di reato del compartecipe extraneus (privo della qualifica necessaria).

b) La teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale: tale teoria che conferisce un’autonoma dignità alla fattispecie concorsuale rispetto a quella incriminatrice di parte speciale consentirebbe di far fronte alle critiche della teoria precedente. La combinazione tra l’art 110 e le singole disposizioni di parte speciale creerebbero un’entità nuova nella quale le singole condotte perdono la loro autonomia per divenire parti di un tutto, in questo modo la rilevanza penale della condotta partecipativa (atipica) non avrà più il suo fondamento nel rapporto di accessorietà con la condotta principale.

c) La teoria delle fattispecie plurisoggettive differenziate: nasce dall’estro costruttivo di una parte della dottrina che dall’inontro tra art 110 e singole norme incriminatici fa discendere non una solo fattispecie plurisoggettiva eventuale ma tante fattispecie plurisoggettive differenziate per quanti sono i soggetti concorrenti. Queste singole fattispecie pur originate da un fatto materiale comune, si distinguerebbero tra di loro per l’atteggiamento psichico e per taluni aspetti esteriori che ineriscono alle condotte dei singoli compartecipi.

d)

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3.1. Fiandaca’s opinion: in realtà sia la teoria dell’accessorietà sia quella della fattispecie plurisoggettiva eventuale contengono degli elementi di verità. Le critiche alla teoria dell’accessorietà possono essere superate asserendo che nel caso di cd. esecuzione frazionata, sebbene non esista una condotta principale ed una accessoria, le varie condotte atipiche si integrino a vicenda e si potrebbe parlare di accessorietà reciproca; quanto poi alla problematica del reato proprio si deve fare riferimento, in assenza di una chiara indicazione legislativa che non proviene neanche dall’art 117 che disciplina il mutamento del titolo di reato, alla fattispecie incriminatrice di parte speciale. Se così fosse l’art 117 presupporrebbe che l’intraneus svolga nella fattispecie di concorso lo stesso ruolo rivestito nella corrispondente figura monosoggettiva. Ex. Se è un inserviente e non il titolare dell’ufficio a sottrarre il denaro non si potrà parlare di concorso in peculato ma di con corso in appropriazione indebita ex art 117. Da sottolineare invece che la teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale spiega meglio il fenomeno della punibilità delle condotte atipiche anche se solo sul piano logico-formale infatti non va al di là di un approccio dogmatico logico-astratto lasciando insoluto il problema della rilevanza delle semplici condotte di partecipazione nei confronti della fattispecie concorsuale come fattispecie autonoma e diversa rispetto alla fattispecie monosoggettiva. Problema: quando una fattispecie atipica rispetto alla norma incriminatrice potrà dirsi invece tipica rispetto al concorso? La risposta non è fornita dalla teoria plurisoggettiva eventuale per cui in mancanza di una tipizzazione legale delle varie forma di partecipazione, stabilire quali di esse siano penalmente rilevanti è compito affidato alla dottrina ed alla giurisprudenza. La dogmatica quindi un contesto deficitario di tassatività non deve affidarsi a teorie aprioristiche ma adattarsi alle indicazioni positive e pragmatiche.

4. Struttura del concorso criminoso: pluralità di agenti

Nel nostro ordinamento i requisiti strutturali del concorso di persone sono quattro: 1) la pluralità di agenti; 2) la realizzazione della fattispecie oggettiva di un reato;3) il contributo di ciascun concorrente alla realizzazione del reato comune;4) l’elemento soggettivo.

La pluralità di agenti è un requisito ontologicamente necessario infatti non ha senso parlare di concorso se a commettere il fatto non sono almeno due soggetti. Non rileva inoltre la punibilità in concreto dei concorrenti quanto la partecipazione degli stessi alla fattispecie come dimostrano gli artt 112 e 119. L’art 112 stabilisce che gli aggravamenti di pena si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto non è imputabile o non è punibile mentre l’art 119 afferma che le circostanze soggettive, le quali escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato, hanno effetto soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono. Ciò implica che la pluralità di soggetti sussiste anche se taluno sia incapace di intendere o do volere o agisca senza volontà colpevole, si possono perciò ricomprendere nell’ipotesi di concorso criminoso: il costringimento fisico a commettere un reato (art 46); il reato commesso per errore determinato dall’altrui inganno (art 48); il costringimento psichico a commettere un reato o coazione morale (art 54 ultimo comma); la determinazione in altri dello stato di incapacità allo scopo di far commettere un reato (art 86); la determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile.

5. segue: realizzazione della fattispecie oggettiva di un reato

Anche la fattispecie concorsuale si compone di un elemento oggettivo e di un elemento soggettivo, ciò implica che innanzitutto i contributi dei singoli devono confluire nella realizzazione della fattispecie oggettiva a prescindere dal ruolo rivestito da ciascun partecipe nell’esecuzione del

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fatto. Altro problema è infatti quello della determinazione dei coefficienti minimi della rilevanza penale di ciascuna condotta di partecipazione. In applicazione dei principi generali non è necessario che il reato giunga a consumazione ma sono sufficienti gli estremi del tentativo punibile in tal caso si avrà un concorso in delitto tentato. L’imprescindibilità del momento oggettivo è desumibile dall’art 115 quando afferma che nessuno è punibile per il semplice fatto di essersi accordato con altri qualora non segua la messa in atto del piano realizzato o per il semplice fatto di aver istigato altri qualora il reato non sia commesso (in quest’ultimo caso il giudice se riscontra la pericolosità sociale può applicare una misura di sicurezza tanto all’istigatore quanto agli istigati). La disposizione ora richiamata fa salva la diversa disposizione della legge, nel senso che esistono autonome figure di reato che prevedono la commissione della sola istigazione o del solo accordo che vengono quindi puniti: art 302 istigazione a delitti contro la personalità internazionale ed interna dello Stato; art 304 cospirazione politica mediante accordo; art 322 istigazione alla corruzione.

6. segue: Contributo di ciascun concorrente: a) concorso materiale

Affinché ogni concorrente sia chiamato a rispondere a titolo di concorso è necessario che arrechi un contributo personale alla realizzazione del fatto: questi si distinguono in base alla loro natura in contributi che intervengono nella serie materiale degli atti (concorso materiale) e contributi che conferiscono solo un impulso psicologico alla realizzazione del reato (concorso morale o psicologico). All’interno del concorso materiale vi sono ruoli di diverso rango:- L’autore ed il coautore : rispettivamente colui il quale compie gli atti esecutivi del reato e

colui che interviene con altri nella fase esecutiva- L’ausiliatore o complice : cioè quel partecipe che si limita ad apportare un qualsiasi aiuto

materiale nella preparazione o nell’esecuzione del reato. La prestazione di aiuto del complice, qualunque essa sia, si manifesta sempre al di fuori della fattispecie incriminatrice di parte speciale.

Se risultano essere abbastanza pacifiche le responsabilità dell’autore o del coautore più problematica sembra la posizione del complice che si inquadra nel problema dei coefficienti minimi che ne giustificano l’incriminazione a titolo di concorrente nel reato. Vi sono tre teorie al riguardo:

a) Teoria condizionalistica: seguendo l’impostazione causale tipica dell’istituto del concorso la teoria in esame considera un contributo accettabile quello che sia condicio sine qua non del fatto punibile (partecipazione non necessaria).Critiche: tale criterio restringe eccessivamente l’area del concorso infatti vi sarebbero condotte meritevoli di punizione sebbene non strettamente indispensabili ai fini della riuscita dell’impresa criminosa. Ex. Si può scassinare una cassaforte in 20 minuti ma se un terzo ne fornisce la chiave la si può aprire in un attimo.

b) Teoria della causalità agevolatrice o di rinforzo: per superare le insufficienze della teoria condizionalistica nelle ipotesi di partecipazione non necessaria la teoria in esame considera penalmente rilevante non solo l’ausilio necessario, che non può essere mentalmente eliminato senza che il reato venga meno ma anche quello che si limita ad agevolare o a facilitare il conseguimento dell’obiettivo finale. Critiche: Anche in questo caso tuttavia ci sarebbero dei casi meritevoli di punizione nonostante manche il nesso causale ed anche la causalità agevolatrice. Ex il complice fornisce la chiave ma l’autore non la utilizza; o addirittura il complice maldestro che ostacola la riuscita del piano criminoso. Questi contributi pur risultando ex post inutili o addirittura dannosi sono meritevoli di punizione.

c) Teoria della prognosi o dell’aumento del rischio: questa propone un abbandono

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dell’approccio causale sostituito da un giudizio di semplice prognosi: basterebbe che l’azione del partecipe appaia idonea ex ante a facilitare la commissione del reato, accrescendone la probabilità di verificazione. Si cerca di giustificare tale assunto attraverso il richiamo dell’art 56 il quale richiede l’idoneità degli atti, sostenendo che i giudizi causali possono essere formulati non solo nell’ottica di un legame effettivo fra una condotta ed un evento ma anche sul piano della pura attitudine causale. Critiche: la tesi in esame non convince per il fatto che non è sensato compiere un giudizio prognostico di fatti che sono giunti alla consumazione infatti anche l’art 56 si riferisce a fatti che non giungeranno mai a consumazione per cui un tale giudizio può avere senso solo in tale contesto. La teoria in esame perciò si giustifica solo in base al tentativo di fornire un avvallo teorico ad una prassi rigoristica. Ma in questo modo tale acriticità della dogmatica finisce per punire forme di complicità solo potenziali spostando il baricentro del diritto penale dal fatto all’autore. Ugualmente da respingere è la tendenza giurisprudenziale che tende a compiere un automatismo fra fornitura del mezzo ed istigazione o complicità psichica.

6.1. A conclusione di quanto detto fin qua si può affermare che non può esservi partecipazione materiale penalmente rilevante a prescindere da un influsso effettivo sull’azione tipica, rimangono tuttavia da precisare portata e limiti del contributo materiale del complice. Da questo punto di vista sembra essere accettabile la teoria della causalità agevolatrice la quale ammette i contributi causali e quelli meramente agevolatori. Si deve sottolineare però che la causalità agevolatrice accettata è quella non potenzialmente idonea ad agevolare o facilitare un reato del tipo in questione ma quella che agevola l’evento hic et nunc. Ex. Nel caso del complice che fornisce la chiave della cassaforte allo scassinatore permettendogli di anticipare i tempi non conta il fatto che egli avrebbe aperto lo stesso la cassaforte ma che la chiave ha agevolato la riuscita dell’impresa, conta quindi il fatto concreto e non le cause alternative che non hanno avuto sviluppo. Applicando in questo modo i normali canoni causale si risolve il caso 47 nel senso di escludere la responsabilità del soggetto che decide volontariamente ed all’insaputa dei ladri di fargli da palo in quanto non ha arrecato alcun apprezzabile contributo alla realizzazione del furto.

7. segue: b) concorso morale

Anche se il contributo del partecipe si manifesta sotto forma di impulso psicologico se ne possono distinguere almeno due tipi:- Il determinatore: cioè il compartecipe che fa sorgere in altri un proposito criminoso prima

inesistente;- L’istigatore: cioè colui il quale si limita a rafforzare o eccitare in altri un proposito

criminoso gia esistente.A queste due figure corrisponde un diverso disvalore e per questo in altri ordinamenti esse ricevono un differenziato trattamento sanzionatorio ma nell’ordinamento italiano questa differenziazione non ha luogo, infatti il termine istigazione viene utilizzato come comprensivo di ogni forma di partecipazione psichica. L’art 115,3 stabilendo la non punibilità dell’istigazione rimasta sterile, riconosce implicitamente che, quando l’istigazione viene accolta ed il reato è commesso, l’istigatore ne risponde a titolo di concorso. Da questa norma qualcuno ha dedotto che chi istiga non è punito per il fatto di aver posto in essere un antecedente causale ma per aver tenuto una condotta corrispondente al modello tipico ex art 115,3 e da ciò non è difficile intuire come si allarghi il campo rispetto dalle condotte che insistono sul nesso causale a quelle ad esso estranee ma che rinsaldino l’altrui proposito criminoso. La cd. causalità psicologica che pretende di indagare la successione ed il collegamento di dati psicologici è un campo molto più problematico

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di quello eziologico tuttavia ciò non autorizza, come pretende di fare la giurisprudenza e parte della dottrina, a ripiegare su giudizi di tipo prognostico come se la condotta di partecipazione psichica potesse essere individuata in base alla sua generica attitudine a rafforzare l’altrui proposito criminoso. Come nel caso del concorso materiale anche per il concorso morale bisogna accertare caso per caso l’effettiva influenza sulla psiche dell’esecutore materiale del reato. Le condotte istigatorie sono varie ma veramente rilevanti solo quelle in grado di incitare o sollecitare a comportarsi in un determinato modo ma non i meri consigli o le semplici indicazioni. Non basta quindi la mera connivenza o l’adesione psichica come nel caso 48 come anche la mera presenza sul luogo quand’anche possa far derivare un sentimento di sicurezza per chi delinque e nemmeno il mero compiacimento di cui al caso 49, sebbene la giurisprudenza la pensi in modo differente. Può talora accadere che vi sia divergenza tra il fatto oggetto di istigazione e quello effettivamente realizzato sia in relazione al tipo astratto di reato sia all’oggetto materiale dell’azione. Nel primo caso si tratta della fattispecie di cui all’art 116 “reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti” , la seconda ipotesi invece la ritroviamo esemplificata nel caso 50 (il caso dei quadri rubati per rifarsi delle spese a causa del mancato furto di un quadro per il quale era stato progettato il colpo). Se si guarda bene il nesso psicologico in questo caso risulta infranto ma l’esclusione di responsabilità nel nostro ordinamento che non conosce il tentativo di istigazione, lascerebbe scoperte alcune ipotesi che andrebbero sanzionate.

7.1. Altra forma di istigazione è quella realizzata dal cd. agente provocatore cioè colui il quale (di norma un poliziotto) provoca un delitto al fine di assicurare il colpevole alla giustizia. Tale figura ricomprende casi come l’infiltrato o l’agente di polizia che si fa truffare, o in cui semplicemente esso funge da istigatore morale. Tali situazioni sono state tipizzate dalla normativa extracodicistica in materia di sostanze stupefacenti e di criminalità organizzata, in cui gli agenti di polizia giudiziaria godono di ampi poteri in tal senso. Che effetti hanno queste discipline sulla punibilità dell’agente provocatore?- Una teoria rigoristica ma ancora accettata in giurisprudenza, afferma che il fine di far

perseguire i rei non potrebbe comunque giustificare un comportamento che ha contribuito a mettere in pericolo o ledere un bene giuridico, per cui la punibilità non è esclusa.

- La teoria dottrinaria oggi dominante invece afferma che l’agente provocatore non può essere punito per mancanza di dolo tutte le volte in cui egli abbia agito col precipuo scopo di assicurare i colpevoli alla giustizia e non abbia accettato il rischio della effettiva consumazione del reato.

Per quanto riguarda invece le situazioni descritte sopra dalla normativa extracodicistica, esse sono inquadrabili nelle cause di giustificazione ed in particolare nell’adempimento di un dovere.

8. L’elemento soggettivo del concorso criminoso

Dato che ciascuna condotta di partecipazione deve essere sorretta da un corrispondente requisito psicologico, si può affermare che l’elemento soggettivo del concorso si scinde in due componenti: la coscienza e volontà del fatto criminoso ed un quid pluris rappresentato dalla volontà di concorrere con altri alla realizzazione di un reato comune. Questa seconda componente non richiede comunque un previo accordo o la reciproca consapevolezza dell’altrui concorso: basta che la coscienza del contributo all’altrui condotta esista unilateralmente. Potrà perciò configurare un concorso sia un previo accordo, sia un’intesa istantanea, sia una semplice adesione all’opera altrui

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anche se costui ne rimane ignaro mentre non c’è concorso se più soggetti operano tutti all’insaputa l’uno dell’altro. Nei casi in cui la fattispecie richieda la sussistenza del dolo specifico è sufficiente che esso sia perseguito almeno da uno dei concorrenti.8.1. E’ configurabile una partecipazione dolosa a delitto colposo?Ex. Tizio spinge Caio, il quale versa in un errore inescusabile sulla natura tossica di una sostanza, ad immetterla in acque destinate all’alimentazione allo scopo di provocare un avvelenamento di cui Caio è ignaro. In questo caso se non si prospettasse tale figura tizio rimarrebbe impunito in quanto non ha compiuto l’azione tipica, non è applicabile l’art 48 in quanto Caio versava già in una situazione di errore inescusabile e non ci sono i presupposti di una responsabilità colposa di Tizio.Contro la possibilità che del medesimo fatto rispondano più partecipi a titoli differenti vi sono varie argomentazioni: innanzitutto l’art 110 parlando di concorso nel medesimo reato apre le porte ad una concezione unitaria dello stesso per cui esclude la possibilità che si risponda a titoli differenti in un ottica del concorso costituito da una pluralità di reati (concezione pluralistica); inoltre se il legislatore avesse voluto questa possibilità lo avrebbe fatto con una norma espressa come nel caso dell’art116 che considera concorrenti soggetti che rispondono a titolo di dolo e responsabilità oggettiva. La regola desumibile da tali argomentazioni è che nel concorso i concorrenti devono rispondere allo stesso titolo.

8.2. È configurabile una partecipazione colposa a delitto doloso?Ex. Tizio pur conoscendo il proposito di uccidere di una sua amica le consegna veleno nella supposizione che le serva per derattizzare un ambiente, la donna usa il veleno per uccidere il marito. Oltre alle argomentazioni già affrontate se ne aggiungono altre peculiari di questa ipotesi di concorso: secondo un principio inderogabile del nostro ordinamento la responsabilità colposa presuppone una espressa previsione legislativa . A riprova di ciò starebbe l’art 113 che nell’ammettere espressamente la sola cooperazione nel delitto colposo sembra escludere implicitamente la cooperazione colposa nel delitto doloso, idea rafforzata da alcune ipotesi di agevolazione colposa di un altrui fatto doloso tassativamente espresse dal legislatore (artt 254, 259 e 350). Al di là di questi riscontri positivi è oggi diffusa la tendenza a circoscrivere l’ambito del dovere obiettivo di diligenza che incombe su ognuno nei limiti compatibili con il carattere personale della responsabilità penale. Da ciò discende il fatto che il nostro ordinamento prevede un obbligo di diligenza solo per la propria sfera personale e non per quella altrui cosicché un soggetto non può essere compartecipe colposo solo perché con la sua condotta ha agevolato l’altrui fatto doloso. Ex. Non è punibile chi fornisce il veleno nel caso sopraccitato.

9. Il concorso nelle contravvenzioni

Per quanto riguarda il concorso nelle contravvenzioni dolose, l’art 110 facendo riferimento ai reati comprende sia i delitti sia le contravvenzioni ma l’art 113 nel disciplinare le cooperazioni colpose fa esclusivo riferimento ai delitti. Secondo l’opinione prevalente tuttavia sarebbero configurabili le contravvenzioni colpose visto che l’art 110 fa un generico riferimento ai reati e l’art 113 menziona i soli delitti non già per escludere le contravvenzioni ma per estendere ai delitti medesimi la disciplina del concorso colposo già implicitamente applicabile alle contravvenzioni in base all’art 110. L’art 113 menzionerebbe solo i delitti poiché la responsabilità colposa per questo tipo di reati deve essere espressamente prevista mentre per le contravvenzioni no. Esistono alcune ragioni tuttavia per militare per altre teorie che escludono la possibilità di un concorso colposo nelle contravvenzioni: innanzitutto le aggravanti di cui ai primi due numeri dell’art 112 sarebbero applicabili alle contravvenzioni colpose e non ai più gravi delitti colposi. Nella stessa direzione va

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un’altra ragione di natura politico-criminale. Che consiste nell’eccessivo allargamento dell’area dell’art 110 includendo partecipazioni atipiche in numero maggiore rispetto a quelle dei delitti colposi.

10. Le circostanze aggravanti

Come controaltare rispetto alla tipizzazione unitaria di cui all’art 110 il legislatore ha introdotto una serie di circostanze aggravanti ed attenuanti al fine di graduare la pena in funzione dell’effettivo contributo di ciascun soggetto alla realizzazione comune. Ai sensi dell’art 112 l’applicazione delle aggravanti è obbligatoria e comporta un aggravamento di pena, lo stesso articolo ne fissa quattro:

1) Se il numero di concorrenti è di cinque o più salvo che la legge disponga altrimenti. La ragione di questa scelta sta nel maggior allarme sociale provocato da gruppi numerosi di criminale a prescindere però dalla colpevolezza, imputabilità o punibilità dei singoli concorrenti.

2) A chi ha promosso, organizzato o diretto la partecipazione al reato. La ratio evidente in tal caso è quella di punire maggiormente chi ha una posizione preminente nel sodalizio criminale. La giurisprudenza definisce promotore chi ha ideato l’iniziativa criminosa, organizzatore chi predispone il progetto esecutivo, scegliendo i mezzi e le persone, e direttore chi assume una funzione di guida ed amministrazione.

3) A chi nell’esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza ha determinato a commettere il reato persone ad esso soggette. In tal caso non basta una semplice pressione ma è necessaria una vera e propria coazione psicologica sul soggetto sottoposto.

4) A chi ha determinato a commettere un reato il minore di anni 18, o una persona in stato di infermità mentale o di deficienza psichica, ovvero si è comunque avvalso degli stessi nella commissione di un delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza. Questa circostanza integra l’art 111 in quanto si applica ai soggetti affetti da vizio parziale di mente anche se la giurisprudenza la considera applicabile anche ai casi di ipoevoluzione psichica o do decadimento intellettuale che rendano il soggetto preda della suggestione altrui.

Viste le recenti emergenze provocate dallo sfruttamento di soggetti non imputabili nella criminalità organizzata il legislatore è intervenuto sull’art 112 aggiungendo due nuovi commi con le leggi n.203/91 e n.172/92. Vedi i commi 2° e 3° dell’art 112.

11. Le circostanze attenuanti ed in particolare il “contributo di minima importanza”

Al contrario delle aggravanti, l’applicazione delle attenuanti è facoltativa. - L’art 114 ne prevede due anche se la più importante è quella di cui al primo comma. Il

giudice può diminuire la pena qualora ritenga che l’opera prestata da taluno dei concorrenti “abbia avuto una minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato (semprechè non ricorra taluna delle aggravanti di cui all’art 112). In realtà si tratta di una sorta di clausola generale che si presta alle più svariate applicazioni. Secondo l’opinione dominante la determinazione della minima importanza presuppone un giudizio ipotetico in cui si valuta l’apporto del concorrente e se ne ipotizza la sua mancanza cercando di configurarne le conseguenze. Si avrebbe così un contributo di minima importanza quando l’azione del correo può essere facilmente sostituita con l’azione di altre persone, ovvero con una diversa distribuzione dei compiti. Dell’attuale circostanza in parola tuttavia la giurisprudenza tende a farne un’interpretatio abrogans infatti da un lato ne circoscrive l’applicazione attraverso uno stringente criterio eziologico, dall’altro ne

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esclude l’applicabilità nella maggior parte dei casi o la concede nei casi in cui il contributo non sarebbe dovuto neppure entrare nella fattispecie concorsuale (come nel caso del soggetto che assiste al lancio di pietre dal cavalcavia rafforzando l’intento criminoso degli autori).

- La seconda ipotesi prevista dall’art 114, 3 è detta della minorazione psichica ed è stabilita in favore di chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato, quando concorrono le condizioni della coercizione esercitata da un soggetto rivestito di autorità oppure della minorità o infermità mentale (sono ipotesi speculari a quelle dell’art 112 n.3-4).

12. La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto

È una particolare ipotesi molto diffusa di aberratio delicti prevista dall’art 116 il quale stabilisce che “qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione” ed aggiunge che “se il reato è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave” Ex. Caso 51.La differenza fra l’art 116 e l’aberratio delicti in senso stretto consiste innanzitutto nel fatto che quet’ultima dipende da un errore nell’esecuzione materiale del reato mentre la prima ipotesi è determinata non da un errore ma da una scelta consapevole altrui ed inoltre l’art 83 per l’aberratio delicti richiede che l’evento diverso sia prevedibile a differenza dell’art 116. Non è difficile intuire come l’art 116 rappresenti un’ipotesi di responsabilità oggettiva in linea con lo spirito del codice Rocco teso a disincentivare la realizzazione in concorso di attività criminose. Come contemperamento già dal dopoguerra una giurisprudenza minoritaria subordinava la punibilità del colpevole all’ulteriore requisito della previsione dell’evento medesimo. Ma questo non bastava per evitare di sollevare la questione di incostituzionalità per contrasto con l’art 27 Cost. enunciante il principio della personalità della responsabilità penale. La Corte Costituzionale con una tipica sentenza interpretativa di rigetto ha escluso l’incostituzionalità dell’art 116 affermando che tale responsabilità non sarebbe basata solo sul mero nesso di causalità ma anche da un rapporto di causalità psichica nel senso che il reato più grave per poter essere attribuito anche al concorrente dissenziente deve essere nell’ordinario svolgersi dei fatti, uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, affermandosi anche in tal modo la necessità di un coefficiente di colpevolezza. Su questa scia si può affermare oggi che i presupposti della responsabilità ex art 116 sono:

1) il rapporto di causalità tra l’azione di ogni partecipe e il reato diverso da quello programmato;

2) la prevedibilità di tale reato diverso non voluto. Su questo requisito vi sono due teorie interpretative: la prima considera sufficiente la prevedibilità in astratto facendo riferimento ai tipi di reato aprioristicamente possibili conseguenza di altri reati; la seconda teoria (preferibile in chiave costituzionale) richiede la prevedibilità in concreto tenendo conto quindi di tutte le circostanze relative alla singola vicenda concreta. Bisogna in tal caso valutare non i reati considerati in astratto ed ex ante ma il piano criminoso e valuatarne eventuali cambiamenti in corso d’opera. In virtù di questa interpretazione correttrice l’art 116 perde la sua dimensione rigidamente oggettivo-causale per tendere ad un modello di imputazione più vicino a quella colposa pur mancando il requisito della prova della violazione del dovere obiettivo di diligenza. L’art 116 si applica anche nei casi in cui insieme col reato concordato se ne commetta un altro che costituisce un prevedibile sviluppo del primo. Nel caso 51 sebbene sia chiara la sussistenza della prevedibilità in

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astratto è necessario accertare la prevedibilità in concreto. Va infine sottolineato che la disciplina dell’art 116 si applica a prescindere dalla maggior o minore gravità del reato non voluto ma nel caso in cui questo sia meno grave il giudice deve applicare una diminuzione di pena per chi volle il reato meno grave. Si tratta di una circostanza attenuante che in quanto tale sottostà alla relativa disciplina giuridica.

13. Concorso nel reato proprio e mutamento del titolo di reato per taluno dei concorrenti

Concorso nel reato proprio→ si verifica quando un soggetto privo della qualifica personale (extraneus) concorre alla realizzazione di un reato realizzabile solo da un soggetto qualificato (intraneus). Ex. Cittadino che istiga un militare alla diserzione.Dal momento che con la sua condotta partecipa alla lesione del bene protetto, l’extraneus vede applicarsi la disciplina dell’art 110 anche se l’imputazione dolosa presuppone la sua consapevolezza di concorrere in un reato proprio e quindi della qualifica dell’intraneus. Può accadere tuttavia che la qualifica non sia determinante ai fini dell’esistenza del reato ma comporti solo una diversa qualificazione giuridica del fatto che costituirebbe reato ad altro titolo. In questi casi se l’extraneus è a conoscenza della qualifica dell’intraneus, nulla quaestio, infatti si configura un concorso nel reato proprio ex art 110. Il problema si pone invece se invece l’extraneus ignori la qualifica del concorrente. A tale situazione fa riferimento l’art 117 che afferma: “se, per le condizioni o le qualità, personali del colpevole, o per i rapporti tra il colpevole e l’offeso, muta il titolo di reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato. Nondimeno, se questo reato è più grave, il giudice può, rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire la pena”. Questa disciplina è finalizzata ad estendere l’incriminazione a titolo di reato proprio anche a soggetti che non potrebbero risponderne in base ai principi generali poiché è irrazionale che alcuni rispondano ad un certo titolo mentre altri a titolo differente solo per la mancata conoscenza di una qualifica. Si tratta di una norma che disciplina una ipotesi di reato diverso da quello voluto (similmente all’art 116) non per variazioni nel programma ma per la particolare posizione soggettiva di qualcuno dei concorrenti. Anche questa come l’art 116 è un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendo in contrasto con i principi dell’imputazione dolosa il fatto che qualcuno debba rispondere di concorso in un reato proprio pur ignorando la qualifica soggettiva del soggetto rispetto al quale muta il titolo di reato. A conferma di ciò vi è l’art 1081 del codice della navigazione che richiede la conoscenza della qualità personale ai fini della configurabilità di un reato del codice stesso. Per reagire ad un trattamento così rigoroso la dottrina ed anche una proposta di legge del 1973 hanno richiesto di esigere che l’extraneus fosse a conoscenza della qualifica dell’intraneus.

13.1. Si discute se l’art 117 presupponga una determinata distribuzione di ruoli tra intraneus ed extraneus, cioè è necessario per integrare il mutamento del titolo di reato che sia l’intraneus a porre in essere l’attività esecutiva? Se un pubblico ufficiale agevola il furto di un ladro comune, si configura un concorso in peculato o in furto? Nel silenzio del legislatore non rimane che farsi guidare dall’interpretazione delle fattispecie di parte speciale di volta in volta considerate. Così nel caso indicato l’unico che può porre in essere l’azione esecutiva è l’intraneus in virtù del vincolo che lo lega al bene protetto per cui si configurerebbe un concorso in furto. Bisogna però evitare di limitare il significato di attività esecutiva al solo aspetto naturalistico ma occorre incentrarlo sull’idea di signoria o dominio dell’accadimento infatti qualora l’usciere si limitasse ad aprire la cassaforte e prelevarne il denaro, tornerebbe un’ipotesi di mutamento del titolo di reato in peculato ex art 117. Se si accettasse invece come oggi si tende, la teoria plurisoggettiva eventuale (vedi paragrafo 3) diventerebbe indifferente ai fini della configurabilità del concorso nel reato

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proprio il ruolo rivestito dall’intraneus nell’ambito dell’esecuzione del fatto, si configurerebbe sempre un concorso in peculato per tornare all’esempio. La stessa disposizione stabilisce una circostanza attenuante facoltativa a favore di chi volle il reato meno grave, questa è applicabile secondo la giurisprudenza, soltanto al soggetto ignaro della qualifica.

14. La comunicabilità delle circostanze

Per quanto riguarda la comunicabilità o estensibilità delle circostanze agli altri concorrenti è intervenuta con la l. 19/1990 una modifica del regime di imputazione delle stesse. Disciplina previgente: ai sensi delle vecchia formulazione dell’art 118 la disciplina della comunicabilità delle circostanze era differente per quelle oggettive e quelle soggettive. Mentre le prime erano sempre comunicabili ai concorrenti, anche se non conosciute, le seconde si applicavano solo ai singoli concorrenti a cui si riferivano. Nell’ambito delle circostanze soggettive tuttavia facevano eccezione quelle che fossero servite ad agevolare l’esecuzione del reato che venivano estese a tutti i concorrenti. Ex. La premeditazione o la qualità di coniuge.Disciplina vigente: il nuovo art 118 si limita a stabilire la seguente regola: “le circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole (imputabilità e recidiva ex art 70 ultimo comma) sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono”. Questo articolo si limita quindi a nominare delle circostanze che soggiacciono al regime della insensibilità ma non stabilisce quale sia la disciplina applicabile alle altre circostanze. L’alternativa è fra l’estensibilità automatica a tutti i concorrenti ovvero l’applicazione dei criteri introdotti dal nuovo art 59. Sembra più corretto ritenere applicabile il regime generale di imputazione, dal momento che il nuovo art 59 ha mirato all’obiettivo di affermare anche su questo terreno il principio di colpevolezza. La disciplina in esame prevede che le circostanze attenuanti abbiano una rilevanza oggettiva per cui si applicano a tutti i compartecipi (ad eccezione di quelle soggettive); le circostanze aggravanti possono essere applicate soltanto in quanto conosciute o conoscibili dal reo per cui la loro applicazione non presuppone un coefficiente di colpevolezza riferito a ciascuno dei singoli concorrenti. Conclusione: l’ambito di estensione delle circostanze ai concorrenti desumibile dal nuovo art 118 è più ampio che in passato infatti diventano estensibili tutte le circostanze soggettive (diverse da quelle di cui all’art 118) purché conosciute o conoscibili anche se non siano servite ad agevolare il reato.

15. La comunicabilità delle cause di esclusione della pena

Si estendono a tutti i concorrenti le circostanze oggettive di esclusione della pena come le cause di giustificazione (art 119,2). Queste si estendono a tutti in quanto elidono l’antigiuridicità del fatto criminoso, che diviene lecito per tutti e non potrebbe essere altrimenti. Non si comunicano invece ma si applicano solo ai correi cui si riferiscono, le cause soggettive di esclusione della pena come l’eventuale vizio di mente, la circostanza che partecipi al reato il figlio della vittima, la circostanza che uno dei compartecipi agisca senza dolo o benefici di una situazione di immunità personale. In questo caso l’incomunicabilità delle circostanze soggettive è dovuta al fatto che esse lasciano sussistere l’illiceità del fatto facendo venire meno solo la sottoposizione a pena del singolo reo.

16. Desistenza volontaria e pentimento operoso

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Il problema della desistenza nel concorso si riduce al seguente interrogativo: per essere esente da pena, il concorrente che desiste si può limitare a neutralizzare il proprio contributo oppure deve impedire la consumazione del reato anche da parte degli altri correi? È da sottolineare inoltre che le modalità di desistenza sono differenti in relazione ai ruoli rivestiti dai singoli concorrenti: l’esecutore deve interrompere l’azione già iniziata ed in questo modo blocca la consumazione del reato; il semplice complice ha invece una posizione problematica in quanto in genere egli fornisce il suo apporto ancor prima che la realizzazione collettiva raggiunga la soglia del tentativo punibile, perciò la sua situazione risulta più svantaggiosa in quanto una volta fornito il suo contributo ad egli non basterà astenersi da ulteriori comportamenti ma dovrà attivarsi per neutralizzare quelli posti in essere. Problema: rimane da chiedersi se a questo punto sarà sufficiente che egli neutralizzi il suo apporto oppure se sia obbligato a scongiurare la commissione del reato. Per rispondere bisogna tener conto del fatto che anche nel concorso il problema della responsabilità non può che essere individuale e personale per cui si deve ritenere che la desistenza da parte del partecipe si possa limitare alla neutralizzazione del suo apporto alla produzione collettiva dell’evento, da quel momento il reato infatti non può più essere considerato opera sua. Per scongiurare l’apporto di un qualsiasi effetto si deve fare un’indagine sul nesso causale e verificare che il desistente non vi rientra affatto. La desistenza è una causa personale di esclusione della pena per cui non si estende agli altri concorrenti. La figura del pentimento operoso invece presuppone che l’azione collettiva sia giunta ad esaurimento e che uno dei concorrenti riesca ad impedire il verificarsi dell’evento lesivo, essa ha natura di circostanza attenuante soggettiva.

17. Estensibilità della disciplina del concorso eventuale al concorso necessario

Concorso necessario (reato necessariamente plurisoggettivo)→ ricorre quando è la stessa fattispecie di parte speciale a richiedere la presenza di più soggetti per l’integrazione del reato.I reati necessariamente plurisoggettivi sono distinguibili in propri ed impropri: nei primi sono assoggettabili a pena tutti i concorrenti (associazione per delinquere); nei secondi invece la norma incriminatrice dichiara punibili soltanto uno o alcuni dei compartecipanti al fatto (usura, corruzione di minorenni, corruzione impropria susseguente). Problema: in un reato plurisoggettivo improprio, il concorrente necessario esentato da sanzione dalla norma incriminatrice di parte speciale, può essere ritenuto responsabile ex art 110 e ss.?La prima teoria cerca di risolvere il problema in ossequio alla voluntas legis asserendo che la responsabilità a titolo di concorso eventuale del cogente necessario andrebbe certamente esclusa in tutte le ipotesi in cui la norma incriminatrice tende alla protezione anche dei concorrenti necessari dichiarati non punibili. La seconda teoria, tradizionale, (preferibile) nega la punibilità del concorrente non espressamente incriminato dalla norma di parte speciale vista la scelta normativa a favore dell’impunità altrimenti si violerebbe il principio nullum crimen sine lege. Problema 2: sono applicabili ai concorrenti necessari, punibili in base alle norme incriminatici di parte speciale, le norme sul concorso eventuale relative alle aggravanti ed attenuanti nonché sulla comunicabilità delle circostanze medesime e delle cause di esclusione della pena?A differenza della giurisprudenza,la dottrina dominante le ritiene applicabili a meno che espressamente derogate dalle norme incriminatici. Un concorso eventuale è configurabile anche da parte di soggetti diversi dai concorrenti necessari di un reato necessariamente plurisoggettivo: Ex. Chi istiga altri ad una rissa o a corrompere un pubblico ufficiale.

18. Concorso eventuale e reati associativi

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Negli ultimi anni l’emergere dei fenomeni di criminalità terroristica o mafiosa ha portato a dei problemi di interferenza tra la disciplina del concorso di persone e quella dei reati associativi (reati a concorso necessario). I problemi sono fondamentalmente due:

a) In presenza di quali condizioni i membri di un’associazione criminosa (ed in particolare quelli di vertice) rispondono a titolo di concorso eventuale, dei cd. reati-scopo commessi da altri associati? In tale contesto bisogna evitare di attribuire una sorta di responsabilità di posizione ai capi delle associazioni criminali facendoli automaticamente assurgere al ruolo di concorrenti morali senza accertarne in concreto i requisiti necessari. I presupposti della responsabilità associativa e di quella concorsuale vanno tenuti distinti. La soluzione consiste nell’applicare la disciplina del concorso morale, essendo a tal fine necessari alcuni requisiti minimi perché i vertici delle associazioni criminose assumano il ruolo di istigatori o determinatori degli illeciti commessi dagli associati. Non è sufficiente che gli atti illeciti compiuti dagli associati rientrino nelle direttrici programmatiche dell’organizzazione ma è necessario che il piano criminoso di base contenga tratti già ben determinati in grado di concretizzarsi solo in un numero circoscritto di reati, solo così sarà ipotizzabile una responsabilità concorsuale a titolo di dolo.

b) In presenza di quali presupposti è configurabile esterno ex art 110 e ss. ad un’associazione criminosa da parte di soggetti estranei all’associazione stessa? Si tratta in questo caso di soggetti che pur non appartenendo all’organigramma interno dell’associazione intrattengono tuttavia rapporti di collaborazione con la stessa in modo da contribuire alla sua conservazione ed al suo rafforzamento (politici, professionisti). Atteso che per rientrare nella fattispecie del reato associativo è necessaria una partecipazione interna all’organizzazione, si aprirebbero dei vuoti di tutela nei casi suddetti, se non si ipotizzasse una responsabilità a titolo di concorso esterno ex art 110 e ss. nei reati che di volta in volta vengono in rilievo. Bisogna però tener presente che data la complementarietà logica delle due figure la definizione dall’ambito di una (concorrente esterno) dipende dall’ampiezza dell’altra (associato) e viceversa. Proprio a causa di questa difficoltà una parte minoritaria della dottrina e della giurisprudenza contestano la configurabilità di un concorso esterno nel reato associativo asserendo che non si può concorrere in un reato associativo se non facendo parte tout court di un’associazione. La Cassazione una volta ribadita la legittimità dogmatica e politico-criminale della figura del concorso esterno ex art 110 nel reato associativo ne ha precisato i presupposti ed i limiti (sentenza 12/7/2005 Mannino). La suprema corte ha fatto un passo avanti nel definire i contorni del concorso esterno precisando la stessa nozione di partecipazione interna nell’associazione che ne costituisce il prius logico. È definito partecipe interno colui che risulta in rapporto di stabile ed organica compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio criminale, con un ruolo dinamico e funzionale tale da rimanere a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni scopi criminosi (non è necessario a tal fine un’affiliazione formale ma bastano facta concludentia). Questa definizione conferisce spessore alla figura in esame in ossequio ai principi di materialità e di offensività. Per contro assume la veste di concorrente esterno colui il quale “pur non essendo inserito nella struttura organizzativa dell’associazione, fornisce tuttavia ad essa un concreto, specifico, consapevole, volontario contributo: sempre che questo contributo esplichi una effettiva rilevanza causale e cioè si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento della capacità operativa dell’associazione o di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale”. Tale definizione privilegia l’efficacia causale del contributo fornito dall’extraneus in termini di conservazione o rafforzamento del sodalizio criminale,

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accertata ex post cioè alla stregua dei rigorosi criteri che caratterizzano la sussunzione sotto leggi scientifiche. Se questo rigore nel controllo dell’efficacia causale funge da baluardo garantista per evitare eccessive dilatazioni della rilevanza penale delle forme di contiguità alle associazioni criminali rappresenta tuttavia una difficoltà di non poco momento dato che in questo settore è difficile individuare leggi scientifiche o anche solo massime di esperienza che consentano di dimostrare il consolidamento dell’organizzazione per mezzo del concorrente esterno. Il rischio è allora quello che la causalità scada a mero espediente retorico per le convinzioni del giudice motivo per cui sarebbe auspicabile un intervento legislativo atto tipizzare le forme di contiguità davvero intollerabili e perciò meritevoli di repressione penale.

PARTE TERZA- IL REATO COMMISSIVO COLPOSO

CAPITOLO 1- IL REATO COMMISSIVO COLPOSO

Sezione I – Tipicità

1. Premessa

Oggi non c’è ricerca sulla problematica della colpa che non prenda le mosse dall’aumento della criminalità colposa negli ultimi decenni. Si pensi alle occasioni di danno alle cose, e soprattutto alle persone, connesse all’incessante sviluppo della tecnica e alla crescente meccanizzazione della vita sociale. Da qui l’esigenza di una costruzione autonoma di tale modello di reato. Diversamente da quanto si è sostenuto, il reato colposo non costituisce solo una seconda e meno grave forma di colpevolezza da affiancare al dolo, ma esso rappresenta un modello specifico di illecito penale, dotato di struttura e caratteristiche proprie che emergono già sul piano della <tipicità> e che si riflettono sul terreno della <colpevolezza>.

2. Il fatto commissivo colposo tipico: l’azione

Gli elementi costitutivi della fattispecie commissiva colposa sono più complessi di quella dolosa, e tale maggiore complessità in parte deriva dal ritardo con cui la dottrina si è appassionata alla questione. Il vero significato pratico del concetto di azione consiste nella sua funzione selettiva dei comportamenti penalmente rilevanti. Da questo punto di vista, il punto nevralgico è costituito proprio dal delitto colposo nel cui ambito assumono rilevanza penale anche comportamenti che non corrispondono al concetto di azione quale dato sorretto dalla coscienza e volontà come coefficienti psicologici effettivi (colpa c.d. incosciente). Nel campo del delitto colposo vi è azione penalmente rilevante finché è possibile muovere un rimprovero per colpa: in altri termini, i presupposti dell’azione finiscono col coincidere con le condizioni che rendono possibile l’imputazione colposa. Detto in breve: azione e colpa stanno e cadono insieme. Detto questo, si comprende come il concetto di <coscienza e volontà> ex art. 42 vada differenziato a seconda che si tratti di reati dolosi o colposi: nei primi la coscienza e la volontà consiste in un coefficiente psicologico effettivo, mentre nei secondi tale requisito si identifica ora con un dato psicologico (colpa c.d. cosciente), ora con un dato normativo (colpa c.d. incosciente). In quest’ultimo caso, l’azione si considera voluta anche quando risulta solo <dominabile> dal volere; è dominabile o impedibile un atto che può essere impedito mediante l’attivazione dei normali poteri di arresto o

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impulso della volontà. All’agente cui si imputa il fatto, si rimprovera di non aver attivato quei poteri di controllo che doveva e poteva attivare per scongiurare l’evento lesivo.

3. Inosservanza delle regole precauzionali di condotta

L’art. 43 definisce il delitto colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente, e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Tale disposizioni, nel prevedere gli elementi strutturali del delitto colposo, richiama requisiti sia di natura psicologica che normativa. Sul terreno del reato causalmente orientato con evento naturalistico, il contenuto della regola cautelare si specifica in rapporto all’evento da evitare: azione tipica sarà da considerare quella che, nel complesso degli atti compiuti da un soggetto e causalmente collegati con l’evento, per prima dia luogo ad una situazione di contrarietà con la regola di condotta a contenuto preventivo. L’inserimento dell’inosservanza del dovere obiettivo di diligenza tra gli elementi della tipicità del fatto colposo consente di raggiungere due importante obiettivi. In primis, tale inosservanza, nella misura in cui arricchisce il contenuto di disvalore dell’azione, riequilibria la criticabile tendenza ad attribuire, sul terreno della colpa, peso decisivo alla <causazione materiale dell’evento>. In secundis, la enucleazione di una misura oggettiva di diligenza concorre a rafforzare la funzione di tutela dei beni giuridici tipicamente spettante alla norma penale: pretendere una misura oggettiva equivale, infatti, ad esigere da parte di tutti i consociati, un livello minimo e irrinunciabile di cautele nello svolgimento della vita sociale.

4. Criteri di individuazione delle regole di condotta: <prevedibilità> ed <evitabilità> dell’evento. Il limite del caso fortuito

Alla base delle norme precauzionali vi sono <regole di esperienza> ricavate da giudizi ripetuti nel tempo sulla pericolosità di determinati comportamenti e sui mezzi più adatti ad evitarne le conseguenze. Proprio la prevedibilità e la evitabilità sono i criteri di individuazione delle misure precauzionali da adottare nelle diverse situazioni concrete, una volta che sia insorta una situazione di pericolo. Nelle situazioni di pericolo già da tempo sperimentate, l’agente avrà a disposizione una serie di regole di condotta diffuse che gli suggeriranno gli strumenti da adottare per prevenire o ridurre determinate conseguenze dannose. Tuttavia, l’agente dovrà, di volta in volta, emettere un rinnovato giudizio di prevedibilità ed evitabilità, inteso a verificare la persistente validità della regola cautelare che dovrebbe essere osservata. Il richiamo alle regole precauzionali consolidate nella prassi è, invece, escluso nei casi in cui l’uso sociale non si è ancora pronunciato; nell’ambito di tali attività il soggetto si trova costretto a dover compiere ex novo il giudizio prognostico circa la pericolosità dell’attività in questione. Bisogna, tuttavia, tener presente che l’osservanza di regole precauzionali trova un limite nell’ambito della attività rischiose consentite dal nostro ordinamento: da questo punto di vista, le cautele da osservare non possono giungere fino al punto di pregiudicare nei suoi aspetti essenziali il comportamento autorizzato. Affermava Antolisei: <di un’imprudenza o negligenza generica è possibile parlare solo quando era prevedibile che dall’azione sarebbe derivato l’evento nocivo perché se il risultato non poteva essere previsto, nessun rimprovero può muoversi all’agente>. Il criterio della prevedibilità ed evitabilità dell’evento opera anche nell’ambito della c.d. colpa specifica, cioè dovuta all’inosservanza di regole scritte di condotta: in questo caso, però, il giudizio prognostico sul pericolo, e sui mezzi atti ad evitare l’evento dannoso, è compiuto dal legislatore. Limite negativo della colpa è costituito dal caso fortuito: i due concetti sono complementari tra loro. Il caso fortuito esclude cioè la colpa proprio perché consiste in un accadimento imprevedibile.

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5. Fonti e specie delle qualifiche normative relative alla fattispecie colposa

Le regole precauzionali richiamate dalle fattispecie colpose hanno una fonte sociale o giuridica. Le prime sono la negligenza, l’imprudenza e l’imperizia: queste non sono predeterminate dalla legge o da altra fonte giuridica, ma sono ricavate dall’esperienza della vita sociale (colpa c.d. generica). Si ha negligenza se la regola di condotta violata prescrive un’attività positiva (ad es. controllare che il gas sia chiuso prima di andare a dormire). L’imprudenza consiste, invece, nella trasgressione di una regola di condotta da cui discende l’obbligo di non realizzare una determinata azione oppure di compierla con modalità diverse da quelle tenute. L’imperizia consiste, infine, in una forma di imprudenza o negligenza <qualificata> e si riferisce ad attività che esigono particolari conoscenze tecniche (es. attività del chirurgo). Nella prassi applicativa, la valutazione penalistica delle diverse forme di colpa generica risente di condizionamenti legati alle caratteristiche dei settori di vita coinvolti. Significativo è il settore della responsabilità medica nel cui ambito un orientamento tradizionale distingue a seconda che si tratti di negligenza o imprudenza, oppure di errore diagnostico dovuto ad imperizia. Mentre nei primi due casi la rilevanza penale potrebbe sussistere anche in seguito a colpa lieve, nel secondo l’errore medico sarebbe penalmente censurabile solo nel caso di colpa grave, secondo quanto disposto dall’art. 2236 c.c. (ove la prestazione implichi la soluzione di <problemi tecnici di speciale difficoltà>, il prestatore d’opera risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave). La differenza tra le qualifiche normative in questione non va, tuttavia, sopravvalutata: ciò che conta è che si riesca ad individuare la regola di condotta violata in concreto e la cui osservanza avrebbe scongiurato l’evento. Le regole precauzionali possono essere richiamate anche da una fonte giuridica (legge, regolamento, ordine o disciplina – c.d. colpa specifica). Anzi, oggi si assiste al fenomeno di una <crescente positivizzazione delle regole di prudenza>: si pensi ai settori della circolazione stradale.Nel concetto di <leggi> di cui all’art. 43, co. III, rientra non una qualsiasi legge penale, ma solo quella che abbia una specifica finalità precauzionale. Quindi non rientra in tale concetto le norme penali genericamente intese. Per quanto riguarda i regolamenti, questi contengono norme a carattere generale predisposte dall’Autorità pubblica per regolare lo svolgimento di determinate attività. Gli ordini e le discipline contengono, invece, norme indirizzate ad una cerchia specifica di destinatari e possono essere emanate sia da Autorità pubbliche che private. La responsabilità colposa non viene meno, ove la regola precauzionale violata sia contenuta in un regolamento o in altra fonte scritta eventualmente viziata da invalidità formale. Da un lato, la predeterminazione legale delle regole di prudenza garantisce la certezza del diritto. Tuttavia, la colpa specifica presenta un inconveniente: se, infatti, la semplice difformità della condotta concreta dalle norme scritte basta a far presumere l’esistenza della colpa, e se poi l’evento tipico cagionato da quella condotta viene addossato all’agente solo sul presupposto del rapporto di causalità, allora per tutti i reati colposi con evento, l’avvento massiccio della positivizzazione delle regole di prudenza segna nientemeno che il ritorno alla responsabilità per il mero versati in re illicita. Beninteso, bisogna verificare nel caso concreto se le norme scritte esauriscono la misura di diligenza richiesta all’agente nelle situazioni considerate: solo in tal caso l’osservanza di dette norme esclude la responsabilità penale. In caso contrario, ove residui cioè uno spazio di esigenze preventive non coperte dalla disposizione scritta, il giudizio di colpa può tornare a basarsi sulla inosservanza di una generica misura precauzionale. Le norme giuridiche a contenuto prudenziale sono, a loro volta, distinguibili in rigide ed elastiche. Le prime predeterminano in modo assoluto la regola di condotta da osservare (ad es. arrestarsi davanti al rosso). Le seconde presuppongono che la regola di condotta sia specificata in base alle circostanze del caso concreto (ad es. la distanza di sicurezza).

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6. Contenuto della regola di condotta

In alcuni casi il dovere obiettivo di diligenza consiste in un obbligo di astensione (es. di un uomo colto da malore che deve astenersi dal guidare finché non stia meglio). Un obbligo analogo grava su chi non è sufficientemente esperto per espletare prestazioni che richiedono particolari cognizioni tecniche. Nella gran parte dei casi, l’osservanza del dovere di diligenza impone l’obbligo di adottare misure cautelari per compiere l’azione. Il dovere di diligenza potrà avere a contenuto anche un obbligo di preventiva informazione: l’automobilista, che intende compiere un viaggio all’estero, deve prendere conoscenza delle norme del codice della strada vigenti nei paesi stranieri. Un obbligo di controllo sull’operato altrui ricade, poi, su chi riveste una posizione gerarchicamente sovraordinata nell’ambito lavorativo; d’altro canto, i dipendenti devono attenersi scrupolosamente alle istruzioni loro impartite.

7. Standard oggettivo del dovere di diligenza

Il giudizio di prevedibilità ed evitabilità va effettuato ex ante in base al parametro oggettivo dell’homo eiusdem professionis et condicionis: cioè, la misura di diligenza, perizia e prudenza dovuta sarà quella del modello di agente che svolga la stessa professione, o mestiere dell’agente reale. Così chi dispone tegole sul tetto, anche se è il proprietario di casa, sarà giudicato con il metro dell’operaio specializzato. Beninteso, l’utilizzo di un tipo oggettivo di agente – modello non impedisce in certi casi di individualizzare ulteriormente la misura della diligenza imposta. In proposito, qualche autore distingue tra maggiori conoscenze (ad es. Tizio conosce la particolare pericolosità dell’incrocio perché ci passa ogni giorno) e speciali capacità (ad es. Caio è un esperto pilota da corsa): le prime sarebbero sufficienti per far innalzare il livello di diligenza imposta, mentre le seconde no. Parte della dottrina penalistica, specie di lingua tedesca, infine, sostiene che l’accertamento della colpa debba seguire due fasi (c.d. doppia misura della colpa): cioè, mentre in sede di tipicità si accerta la violazione del dovere obiettivo di diligenza commisurato alla stregua dell’agente – modello, rimarrebbe da verificare in sede di colpevolezza se il soggetto che ha agito in concreto era in grado di impersonare il tipo ideale di agente collocato nella situazione data.

8. Limiti del dovere di diligenza: a) rischio consentito

Il giudizio di colpa presuppone che sia oltrepassato un limite: quello dell’adeguatezza sociale o rischio consentito. Vi sono cioè attività intrinsecamente pericolose, ma che sono consentite in quanto utili alla vita sociale (ad es. la circolazione dei veicoli). Si ritiene che, qualora un danno si verifichi nonostante il diligente svolgimento delle suddette attività, ciò che manca è il disvalore tipico dell’illecito colposo. La soluzione dei conflitti tra valori contrapposti è oggi particolarmente sentita nell’ambito della responsabilità per il tipo di produzione, laddove si tratti di attività pericolosa e sia, da un lato, assente la previsione legale di misure precauzionali e sia, dall’altro, carente il sistema di controllo preventivo da parte dell’autorità amministrativa. In casi come questi, la formula del rischio consentito è di poco aiuto: se l’osservanza dell’obbligo della necessaria prudenza imponga addirittura la rinuncia a realizzare l’attività produttiva pericolosa, è giudizio che resta infatti affidato al giudice e che può essere emesso solo in base a complessi bilanciamenti di interessi. In realtà, formule quali quelle dei rischio consentito e della adeguatezza sociale costituiscono il risultato di una valutazione non di rado operata secondo criteri meramente fattuali: si ritiene, cioè, consentito ciò che di fatto viene tollerato dalla comunità sociale. Un criterio giuridicamente più vincolante di individuazione preventiva dell’area del rischio consentito

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può essere, invece, offerto dal riferimento alle autorizzazioni amministrative che rendono esplicitamente lecito lo svolgimento di determinate attività.

9. (segue) b) Principio dell’affidamento e comportamento del terzo

Dall’esistenza a carico di ciascun consociato di un dovere obiettivo di diligenza nella vita di relazione, derivano anche obblighi a contenuto cautelare relativi alla condotta di terze persone. Per rispondere a tale interrogativo occorre distinguere a seconda che la regola, che si assume violata, sia una norma scritta o desumibile dagli usi sociali. Nel primo caso, si tratterà di accertare in via interpretativa se nello scopo perseguito dalla disposizione scritta rientri anche l’impedimento di eventi cagionati dall’azione di terze persone. Nel secondo caso, bisogna, invece, distinguere a seconda che la condotta del terzo dia luogo, a sua volta, ad una forma di responsabilità colposa o dolosa. Nel primo caso, la semplice circostanza di prevedere o poter prevedere che una nostra condotta agevoli il comportamento colposo di un’altra persona, non è ancora sufficiente a farci incorrere in responsabilità poiché vige il c.d. principio del legittimo affidamento secondo cui ogni consociato può confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell’attività che di volta in volta viene in questione. Inoltre, il principio del legittimo affidamento è conforme con il carattere personale della responsabilità penale. Tale principio subisce, tuttavia, delle eccezioni. Innanzitutto, vi sono dei casi in cui particolari circostanze lasciano presumere che il terzo non sia in grado di soddisfare le aspettative dei consociati. Poi vi è l’ipotesi in cui l’obbligo di diligenza si innesta su di una <posizione di garanzia> nei confronti di un terzo soggetto incapace di provvedere a se stesso. E’ sulla base di tali premesse che bisogna valutare la responsabilità dell’equipe medica (caso 53): in tal caso, ogni partecipante risponde solo del corretto adempimento dei doveri di diligenza e perizia inerenti ai suoi compiti, salvo la possibilità di configurare in capo ad un soggetto determinati poteri di controllo e sorveglianza sull’operato altrui. Nel secondo caso (forma di resp. dolosa), proprio poiché l’azione dolosa è frutto di una libera scelta del soggetto che ne è autore, vale a maggior ragione il principio dell’autoresponsabilità. Alla stregua di tale principio appare assurda la condanna inflitta da un’autorità giudiziaria spagnola al giornalista del caso 54. Tuttavia, anche tale principio subisce delle eccezioni. La prima è nel caso in cui un soggetto rivesta una posizione di garanzia avente a contenuto la difesa di un bene rispetto anche alle aggressioni dolose di terzi (es. guardia del corpo). La seconda riguarda ipotesi in cui un soggetto abbia il controllo di fonti di pericolo e vi siano particolari conoscenze o circostanze che fanno desumere la pericolosità del terzo (es. Caio da a Tizio la pistola nonostante lo stato di agitazione di quest’ultimo e la conoscenza del fatto che poco prima avesse percosso la moglie).

10. Causazione dell’evento

Nel reato colposo di evento il risultato lesivo rappresenta la conseguenza della condotta illecita: anche in tale modello di reato, il nesso di causalità di accerta secondo la teoria condizionalistica. Sul terreno della responsabilità colposa, l’evento deve apparire come una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. Pacifico si può ritenere in proposito un fatto: l’evento lesivo cagionato effettivamente deve appartenere al tipo di quelli che la norma di condotta mirava a prevenire; in caso contrario, la responsabilità colposa si ridurrebbe a mera responsabilità oggettiva basata sul semplice nesso di causalità materiale. Il dubbio concerne,

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piuttosto, il punto se la prevedibilità dell’evento debba essere verificata in astratto o in concreto. A favore della prima tesi vi sono motivi di certezza del diritto; inoltre, accettando tale tesi, si intende potenziare l’efficacia preventiva della norma, degradando però la responsabilità colposa a mera responsabilità oggettiva. Per evitare ciò, appare preferibile la tesi che richiede la prevedibilità in concreto dell’evento. Se si accoglie tale prospettiva, non è però agevole giustificare, sul piano dogmatico, perché la responsabilità venga meno in tutti i casi in cui si fondatamente sostenibile che l’evento lesivo si sarebbe egualmente verificato pur osservando la condotta prescritta. Giurisprudenza e dottrina tedesca, sul punto, ricorrono a spiegazioni dogmatiche diverse. L’orientamento più diffuso ritiene che nelle ipotesi in esame manchi il nesso causale tra <colpa> ed evento, nel senso che quest’ultimo non rappresenterebbe una vera conseguenza della violazione della regola di condotta: è appena il caso di ribadire che il nesso causale si pone tra due realtà fisiche come l’azione e l’evento e non tra l’evento e un’entità astratta costituita in tal caso dalla trasgressione della norma. Una seconda soluzione consiste nello scindere l’accertamento in due fasi. In un primo momento si tratta di stabilire se l’azione ha materialmente cagionato l’evento: ma la risposta a questo interrogativo può, nei casi problematici, lasciare insoluto il problema se sussiste uno specifico legame colposo tra condotta ed evento. Ecco che per accertare tale legame si rende necessario compiere una ulteriore verifica: occorre, cioè chiedersi se l’osservanza della condotta conforme al dovere di diligenza sarebbe valsa ad impedire l’evento. Secondo una terza opinione, che riceve sempre più consensi, l’imputazione dell’evento nei casi nevralgici in discorso deve essere effettuata in base al criterio dell’aumento del rischio: cioè, ai fini dell’affermazione della responsabilità sarebbe sufficiente accertare che l’inosservanza della regola di condotta ha determinato un aumento del rischio di verificazione dell’evento. L’impiego di tale criterio sarà tanto più appagante quanto più <controllabile> risulterà il giudizio ipotetico sull’attitudine della condotta alternativa lecita a prevenire l’evento: l’esclusione della responsabilità potrà essere adeguatamente motivata quando cioè sussistano elementi di fatto, empiricamente verificabili, che lasciano apparire come altamente improbabile l’impedimento dell’evento mediante l’osservanza della condotta doverosa.

Sezione II – Antigiuridicità

1. Premessa

Anche nell’ambito del reato colposo, la tipicità ha una funzione <indiziante> rispetto all’antigiuridicità concepita come assenza di cause di giustificazione: onde, se si accerta l’esistenza di un’esimente, il fatto commesso non costituisce reato.

2. Consenso dell’avente diritto

La giurisprudenza prevalente tende ad escludere l’efficacia scriminante del consenso nei reati colposi, facendo leva su due ordini di argomentazioni. Per un verso, il consenso non scriminerebbe a causa della natura indisponibile dei beni della vita e dell’integrità fisica. Per altro verso, sussisterebbe incompatibilità tra il consenso concepito come volontà di lesione e il carattere involontario del reato colposo. Per quanto riguarda il primo aspetto, questo dimostra solo che la tesi della compatibilità ha una portata pratica assai limitata, considerato lo scarso numero di reati colposi posti a tutela di interessi disponibili. Per il secondo, è da obiettare che si può consentire ad

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un’attività pericolosa senza volerne l’effettiva verificazione dell’evento lesivo: se tre giovani, ad es., salgono sulla motocicletta di un amico pur consapevoli che la strada sconnessa può provocare una caduta, e la caduta si verifica cagionando loro leggere escoriazioni, nessun dubbio che il conduttore della moto potrà beneficiare della esimente dell’art. 50. D’altra parte non è neanche vero che non si possa mai consentire alla esposizione a pericolo dello stesso bene della vita; l’obbligo di non esporre a rischio la vita altrui trova infatti un limite nel riconoscimento del principio dell’autodeterminazione responsabile. Tradizionalmente, la scriminante del consenso ha esercitato un ruolo per circoscrivere la responsabilità colposa nei due importanti settori dell’attività medica e dell’attività sportiva, ma la dottrina oggi prevalente tende a ridimensionare la funzione scriminante del consenso, rinvenendo il fondamento della liceità sia dell’attività medica che di quella sportiva nell’art. 51 (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere).

3. Legittima difesa

L’applicabilità della legittima difesa al reato colposo è contestata da parte della giurisprudenza secondo cui, in tale tipo di reato, mancherebbe la volontà dell’offesa, requisito necessario per tale esimente. In realtà, entro lo spazio occupato dall’azione difensiva appare legittimo provocare anche un evento lesivo che l’agente, in realtà, non ha voluto e che avrebbe potuto evitare con l’uso della dovuta diligenza: sarebbe, del resto, strano che l’ordinamento consentisse di ledere volontariamente l’aggressore e punisse, invece, le conseguenze involontarie di un’azione difensiva che fa a meno di prendere di mira l’avversario.

4. Stato di necessità

Lo stato di necessità nel delitto colposo è generalmente ammessa da dottrina e giurisprudenza. Ad es., si pensi al genitore che uscendo dal garage con l’auto e vedendo il figlio camminare pericolosamente su di un argine, arresti l’auto in mezzo la strada e provochi lesioni ad un motociclista in arrivo. In casi simili, tuttavia, la giurisprudenza tratta lo stato di necessità come una causa di esclusione della colpevolezza e non come causa di giustificazione. È da precisare che lo stato di necessità ricorre solo quando l’azione necessitata viola il dovere obiettivo di diligenza. In altre ipotesi, invece, l’azione necessitata solo apparentemente viola tale dovere: si pensi al conducente di autobus che effettua una frenata brusca per evitare lo scontro con l’autocarro, provocando lesioni ai passeggeri. In casi simili, il comportamento del soggetto realizza in concreto il miglior adempimento possibile del dovere generale di prudenza posto a garanzia della sicurezza della circolazione.

Sezione III – La colpevolezza

1. Struttura psicologica della colpa

Anche nel reato colposo la colpevolezza ha la funzione di racchiudere i presupposti dell’imputazione soggettiva del fatto al soggetto agente. Dal punto di vista psicologico, la colpa presuppone l’assenza della volontà diretta a commettere il fatto. Nella manualistica tradizionale si continua a differenziare colpa propria, caratterizzata dalla mancanza di volontà dell’evento, ed

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impropria, ipotesi eccezionale poiché si configurerebbe nonostante la volizione dell’evento (es. eccesso colposo delle cause di giustificazione, errore di fatto determinato da colpa, ecc). in realtà, il reato colposo improprio è comunque un reato strutturalmente colposo: infatti, nonostante la volizione in senso psicologico dell’evento, il dolo non è configurabile perché manca la coscienza e volontà dell’intero fatto tipico. Quanto all’elemento conoscitivo, occorre precisare che non vi è incompatibilità tra colpa e previsione dell’evento: si parla, infatti, di colpa cosciente, o con previsione, rispetto alle ipotesi in cui l’agente non vuole commettere il reato, ma si presenta l’evento come possibile conseguenza della sua condotta. I casi statisticamente più frequenti sono, però, quelli di colpa incosciente che ricorre quando il soggetto non si rende conto di poter ledere o porre in pericolo beni giuridici altrui con il proprio comportamento.

2. La misura <soggettiva> del dovere di diligenza

Una volta accertata in sede di tipicità la violazione del dovere obiettivo di diligenza enucleato alla stregua dell’homo eiusdem condicionis et professionis, il rimprovero di colpevolezza viene fatto dipendere dall’accertamento dell’attitudine del soggetto ch ha in concreto agito ad uniformare il proprio comportamento alla regola di condotta violata: tale verifica va fatta tenendo conto del livello individuale di capacità, esperienza e conoscenza del singolo agente (c.d. misura soggettiva). Si pensi al principiante che pur guidando con diligenza si trovi di fronte ad una situazione di emergenza e a causa dell’inesperienza non riesce ad effettuare la manovra adatta. Si tratta, dunque, di stabilire fino a che punto possa giungere l’esigenza di personalizzare il rimprovero di colpa. Di sicuro, se si pretendesse di considerare tutte le caratteristiche dell’agente si finirebbe col giustificare ogni azione colposa disattendendo le esigenze di prevenzione. Per questo motivo, si deve tener, comunque, come punto di riferimento un soggetto ideale; anche il giudizio più personalizzato non può, perciò, rinunciare a un certo grado di oggettivizzazione. È da escludere che ai fini della soggettivizzazione della misura della colpa possano assumere rilevanza tratti caratteriali o disposizioni emotive come l’indifferenza, l’insensibilità, la superficialità, ecc...; il punto dolente che divide oggettivisti e soggettivisti è l’assunzione di rilevanza delle caratteristiche fisiche e/o intellettuali come difetti, menomazioni, conoscenze, esperienze, ecc. La scelta a favore o contro l’inclusione nel giudizio di colpa dei limiti fisici o intellettuali è, in verità, influenzata da opzioni di fondo circa il peso rispettivo da assegnare al principio di colpevolezza o all’esigenze di prevenzione generale. Se si privilegiano quest’ultime è più coerente oggettivizzare il giudizio di colpa, mentre la scelta è contraria se si privilegia il principio di colpevolezza, per evitare il rischio di strumentalizzazione dell’agente concreto per fini di difesa sociale. Quest’ultima è la tesi preferita dal libro.

3. Il grado della colpa

L’art. 133 menziona, fra gli indici di commisurazione della pena, il grado della colpa. Per stabilire quanto grave sia la colpa dovrà accertarsi la misura di divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era invece da attendersi in base alla norma cautelare cui ci si doveva attenere nel caso di specie. In sede di verifica di questo grado di divergenza, soccorreranno un criterio di valutazione oggettivo ed uno soggettivo: in un primo momento si tratterà, cioè, di accertare quanto il comportamento concretamente realizzato si allontani dallo standard oggettivo di

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diligenza richiesta e poi si dovrà verificare le cause soggettive che hanno fatto sì che l’agente concreto non osservasse la misura di diligenza prescritta.

4. Cause di esclusione della colpevolezza

L’adesione alla concezione normativa della colpevolezza impone di tener conto, anche sul terreno del reato colposo, delle circostanze anormali concomitanti all’agire (si pensi ad un malore improvviso o ad un intenso stato di terrore durante la guida dell’automobile). Se l’esigenza di riconoscere efficacia scusante alle circostanze anormali capaci di condizionare il giudizio di colpa è da molti condivisa, il vero punctum dolens concerne la ritenuta necessità di una loro tipizzazione legislativa espressa. Secondo parte della dottrina, a tale necessità il legislatore del ’30 sarebbe venuto incontro più di quanto fosse avvenuto in altri ordinamenti; ed è in tale prospettiva, infatti, che qualche autore legge le disposizioni codicistiche relative al caso fortuito, alla forza maggiore e al costringimento fisico (art. 45 – 46): tali articoli costituirebbero delle ipotesi previste dal legislatore di circostanze anormali. In realtà, la vera importanza pratica del richiamo con efficacia scusante previste dagli artt. 45 e 46: trattandosi in questi casi di circostanze scusanti legalmente tipizzate, il giudice è comunque costretto a tenerne conto. La rilevanza pratica del ricorso alla categorie in esame si coglie con riferimento a tutte quelle circostanze anomale le quali possono inibire le capacità psicofisiche dell’agente: si pensi ad es., alla stanchezza eccessiva, allo stordimento, al terrore, ecc... . A ben vedere, la rilevanza scusante delle situazioni di perturbamento ora accennate può, nel nostro ordinamento desumersi da una avveduta interpretazione dell’art. 42 co. I. La formula <nessuno può essere punito per un azione od omissione previste dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà> è, infatti, idonea a fungere da clausola generale comprendente tutte le circostanze anormali non tipizzate o innominate.

Sezione IV – La cooperazione colposa

1. La disciplina prevista dall’art. 113

L’art. 113 c.p. stabilisce: <Nel delitto colposo,quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. La pena è aumentata per chi ha determinato altri a cooperare nel delitto, quando concorrono le condizioni stabilite nell’art. 111 e nei numeri 3 e 4 dell’art. 112>. Con l’art. 113 il legislatore del ’30 ha risolto la disputa dottrinale del tempo circa l’ammissibilità di una compartecipazione criminosa sul terreno del reato colposo: l’obiezione principale che veniva mossa faceva leva sulla denuncia del contrasto tra il requisito del <previo accordo> e il carattere <involontario> della colpa. Inoltre, con l’introduzione di tale articolo, il problema dell’ammissibilità di principio del concorso colposo è passato in secondo piano e l’attenzione della dottrina si è, invece, concentrata sui criteri atti a distinguere la cooperazione colposa dal concorso di cause colpose indipendenti. Secondo l’orientamento tradizionale, il discrimine tra cooperazione colposa e concorso di cause autonome viene segnato dall’esistenza o no di un legame psicologico tra i diversi soggetti agenti: si avrebbe, ad es., cooperazione colposa se il proprietario dell’auto istiga il conducente a tenere un’alta velocità, mentre si avrebbe concorso di fatti colposi indipendenti se due automobilisti, uno all’insaputa dell’altro, concorrono a provocare un incidente. Nello stesso orientamento, vi è chi considera sufficiente che il legame psicologico consista nella consapevolezza di collaborare con la

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propria condotta all’azione materiale altrui, beninteso in assenza della volontà di cagionare l’evento lesivo; secondo altri, è invece necessaria l’ulteriore consapevolezza del carattere colposo della condotta altrui. In tal modo, l’art. 113 assolverebbe non solo una funzione di disciplina, ma anche una funzione incriminatrice: esso cioè servirebbe ad attribuire rilevanza penale a comportamenti colposi atipici rispetto alle fattispecie monosoggettive di parte speciale, come tali non punibili in assenza di una norma ad hoc estensiva della punibilità. Tale funzione viene messa in dubbio almeno in relazione degli illeciti causalmente orientati in cui il disvalore penale si accentra tutto nella causazione dell’evento lesivo, mentre appaiono indifferenti le specifiche modalità comportamentali che innescano il processo causale: onde, la condotta sarà tipica se, oltre ad esplicare efficacia causale, si porrà in contrasto con il dovere obiettivo di diligenza. Ne deriva, allora, che in presenza delle suddette condizioni, l’istituto della cooperazione può apparire superfluo, essendo ciascun fatto causalmente orientato punibile alla stregua della norma incriminatrice di parte speciale incentrata sull’autore singolo. Si pensi al caso 56: qui il comportamento del proprietario ha in sé tutti i requisiti dell’art. 590 (lesioni personali colpose), vi è infatti il rapporto causale e la qualifica <colposo> del comportamento (non si può affidare l’auto a terzi non abilitati alla guida). Quindi, l’art. 113, in relazione alle fattispecie causalmente orientate, o causali pure, avrebbe lo scopo di sottoporre le eventuali ipotesi di collaborazione ad un regime penale diverso da quello che si avrebbe applicando le sole fattispecie di parte speciale. Per recuperare la funzione incriminatrice dell’art. 113 sul terreno degli stessi reati causali puri si sono però di recente addotte nuove argomentazioni: sarebbero ipotizzabili comportamenti che, seppure causalmente rilevanti rispetto alla produzione dell’evento e seppure in contrasto con obblighi di natura cautelare, non risulterebbero tipici rispetto alle fattispecie monosoggettive colpose di parte speciale. Tali comportamenti atipici di cooperazione contrasterebbero con <obblighi cautelari di natura secondaria>, che cioè assumono ad oggetto l’altrui comportamento, nel senso che impongono di verificare, controllare e impedire eventuali attività colpose da parte di terzi (e si fa, tra l’altro l’es. del caso 56). A ben vedere, neanche tale ricostruzione appare convincente, poiché finisce per confermare la validità dell’assunto che pretenderebbe di confutare. Se una funzione incriminatrice spetta all’art. 113, questa concerne solo le fattispecie colpose c.d. a forma vincolata le quali reprimono un’offesa realizzata solo mediante specifiche modalità di comportamenti (es. art. 442 e 452). In tali ipotesi, un semplice comportamento di cooperazione risulterebbe penalmente irrilevante: diventa, invece, rilevante proprio in virtù dell’art. 113 che in tal caso, oltre ad una funzione di disciplina, svolge anche una funzione incriminatrice.