Respirazione e Appoggio

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RESPIRAZIONE E APPOGGIO Un discorso sul ruolo della respirazione nel canto potrebbe incentrarsi su due punti. Il primo, formulato con una frase ad effetto, suonerebbe così: “finora gli scienziati hanno cercato di capire la realtà materiale, esterna, visibile della respirazione e del canto, si tratta adesso di penetrarne il retroscena invisibile.” Il secondo, da cui inizierò questa relazione, potrebbe essere invece il seguente: “in materia di respirazione antichi e moderni hanno diviso il corpo in due; adesso occorre riunirlo.” ” E’ noto infatti che la didattica antica ha concentrato l’attenzione sulle componenti toraciche della respirazione, mentre la didattica moderna ha dato risalto alle componenti diaframmatico- addominali. Se la respirazione alta degli antichi rischiava di essere interpretata e realizzata come respirazione clavicolare, la respirazione diaframmatica moderna rischia di essere interpretata e realizzata come respirazione puramente addominale, il che rappresenta uno squilibrio nella coordinazione muscolare funzionale al canto non meno grave del primo. Insomma se i moderni hanno scoperto il diaframma, hanno anche inventato il tabù della respirazione alta, che è uno dei problemi più diffusi che riscontra oggi chi insegna il canto. In effetti è sintomatico il fatto che il concetto di ‘alto’, che ha sempre avuto un valore simbolico positivo, appunto di ‘elevatezza,’ ( basti pensare alla postura a ‘testa alta’ e allo stesso concetto tecnico-vocale di suono ‘alto’) , immediatamente evochi invece, se associato alla respirazione, connotazioni negative. Per di più la tendenza moderna è arrivata a capovolgere la tradizionale simbologia spaziale fino ad attribuire valore positivo a ciò che è basso, ‘affondato’ e addirittura ‘viscerale’. E’ indispensabile perciò risalire ancora una volta a quel ‘day before’ rappresentato dal metodo del Conservatorio di Parigi del 1804, dove il suo autore, il tenore Mengozzi, prescriveva un tipo di respirazione, che, dopo la ‘rivoluzione diaframmatica’ del dr. Mandl, rimarrà ‘diabolus in voce’ fino ai nostri giorni. Nel suo metodo Mengozzi distingue una respirazione normale, non associata al canto, di tipo addominale e che non coinvolge il torace, da una respirazione cantata, in cui, cito testualmente, “nell’inspirare bisogna appianare il ventre, facendo sì che prontamente si deprima, gonfiando e protraendo il petto”, mentre “nell’espirare il ventre deve rimettersi lentissimamente nel suo stato naturale ed il petto abbassarsi a proporzione , affine di conservare ed economizzare pel maggior tempo possibile l’aria introdotta nei polmoni.” Così formulata, la prescrizione di Mengozzi, che probabilmente sanzionava in forma scritta non le sue opinioni personali, ma l’orientamento della tradizione belcantistica, si presta effettivamente a gravi equivoci. Particolarmente infelice e bisognosa d’interpretazione (attività, come si sa, necessaria in tutti i casi in cui si voglia salvare qualcosa o qualcuno….) è l’affermazione di Mengozzi secondo cui nell’inspirazione il ventre dovrebbe ‘prontamente’ risalire. Interpretata alla lettera, essa non può che condurre alla rigidità di ogni posa statica e prefabbricata, quale si è cristallizzata nella formula militaresca del ‘pancia in dentro, petto in fuori’. Non si può sorvolare su questa gaffe di Mengozzi e insisto su questo punto perché oggigiorno si sta affermando una tendenza didattica, testimoniata anche da un recentissimo libro sul canto edito da Ricordi, che vuole acriticamente rivalutare in toto, nel suo significato letterale, la ricetta respiratoria di Mengozzi, quasi facendone un contraltare rispetto alla tendenza diaframmatico-addominale che ha dominato la didattica vocale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Il problema è che in tal modo, invece di integrare nella ‘grande respirazione’ del canto le componenti toraciche, giustamente messe in luce da Mengozzi, non si fa che isolarle in contrapposizione a quelle diaframmatico-addominali. Così, allo scopo di avvalorare una sorta di nuova rivoluzione copernicana nel canto, non si fa che rimanere schiavi di quello stesso modello pendolare di opposti che non si fondono, da cui sono nati gli eccessi addominali di Mandl. Senonché, come sempre accade nel canto, non è questione di aut-aut, ma di et-et. Se la storia dell’opera, come ha osservato acutamente Celletti, si può da un certo punto di vista definire come la storia delle infinite variazioni della figura retorica dell’iperbole, analogamente la tecnica vocale si può considerare come il progressivo approfondimento della figura retorica dell’ossimoro, ovvero il paradosso concentrato. In virtù di esso si scopre via via che il canto è movimento immobile, tensione distesa, altezza profonda, acuta rotondità, concentrazione spaziosa, brunitura lucente, parlare non parlato, svuotamento espanso, densa trasparenza, espirazione ispirata e così via ‘baroccheggiando’ all’infinito, gioco futile e stucchevole in sé, ma in perfetta sintonia filologica con l’epoca e la cultura da cui nacque l’opera….Una cultura appunto che nel gusto dell’ossimoro e in concetti come quello di ‘temperamento’ espresse la sua esigenza

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trattato su respirazione ed appoggio

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RESPIRAZIONE E APPOGGIO Un discorso sul ruolo della respirazione nel canto potrebbe incentrarsi su due punti. Il primo, formulato con una frase ad effetto, suonerebbe così: “finora gli scienziati hanno cercato di capire la realtà materiale, esterna, visibile della respirazione e del canto, si tratta adesso di penetrarne il retroscena invisibile.” Il secondo, da cui inizierò questa relazione, potrebbe essere invece il seguente: “in materia di respirazione antichi e moderni hanno diviso il corpo in due; adesso occorre riunirlo.” ” E’ noto infatti che la didattica antica ha concentrato l’attenzione sulle componenti toraciche della respirazione, mentre la didattica moderna ha dato risalto alle componenti diaframmatico-addominali. Se la respirazione alta degli antichi rischiava di essere interpretata e realizzata come respirazione clavicolare, la respirazione diaframmatica moderna rischia di essere interpretata e realizzata come respirazione puramente addominale, il che rappresenta uno squilibrio nella coordinazione muscolare funzionale al canto non meno grave del primo. Insomma se i moderni hanno scoperto il diaframma, hanno anche inventato il tabù della respirazione alta, che è uno dei problemi più diffusi che riscontra oggi chi insegna il canto. In effetti è sintomatico il fatto che il concetto di ‘alto’, che ha sempre avuto un valore simbolico positivo, appunto di ‘elevatezza,’ ( basti pensare alla postura a ‘testa alta’ e allo stesso concetto tecnico-vocale di suono ‘alto’) , immediatamente evochi invece, se associato alla respirazione, connotazioni negative. Per di più la tendenza moderna è arrivata a capovolgere la tradizionale simbologia spaziale fino ad attribuire valore positivo a ciò che è basso, ‘affondato’ e addirittura ‘viscerale’. E’ indispensabile perciò risalire ancora una volta a quel ‘day before’ rappresentato dal metodo del Conservatorio di Parigi del 1804, dove il suo autore, il tenore Mengozzi, prescriveva un tipo di respirazione, che, dopo la ‘rivoluzione diaframmatica’ del dr. Mandl, rimarrà ‘diabolus in voce’ fino ai nostri giorni. Nel suo metodo Mengozzi distingue una respirazione normale, non associata al canto, di tipo addominale e che non coinvolge il torace, da una respirazione cantata, in cui, cito testualmente, “nell’inspirare bisogna appianare il ventre, facendo sì che prontamente si deprima, gonfiando e protraendo il petto”, mentre “nell’espirare il ventre deve rimettersi lentissimamente nel suo stato naturale ed il petto abbassarsi a proporzione , affine di conservare ed economizzare pel maggior tempo possibile l’aria introdotta nei polmoni.” Così formulata, la prescrizione di Mengozzi, che probabilmente sanzionava in forma scritta non le sue opinioni personali, ma l’orientamento della tradizione belcantistica, si presta effettivamente a gravi equivoci. Particolarmente infelice e bisognosa d’interpretazione (attività, come si sa, necessaria in tutti i casi in cui si voglia salvare qualcosa o qualcuno….) è l’affermazione di Mengozzi secondo cui nell’inspirazione il ventre dovrebbe ‘prontamente’ risalire. Interpretata alla lettera, essa non può che condurre alla rigidità di ogni posa statica e prefabbricata, quale si è cristallizzata nella formula militaresca del ‘pancia in dentro, petto in fuori’. Non si può sorvolare su questa gaffe di Mengozzi e insisto su questo punto perché oggigiorno si sta affermando una tendenza didattica, testimoniata anche da un recentissimo libro sul canto edito da Ricordi, che vuole acriticamente rivalutare in toto, nel suo significato letterale, la ricetta respiratoria di Mengozzi, quasi facendone un contraltare rispetto alla tendenza diaframmatico-addominale che ha dominato la didattica vocale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Il problema è che in tal modo, invece di integrare nella ‘grande respirazione’ del canto le componenti toraciche, giustamente messe in luce da Mengozzi, non si fa che isolarle in contrapposizione a quelle diaframmatico-addominali. Così, allo scopo di avvalorare una sorta di nuova rivoluzione copernicana nel canto, non si fa che rimanere schiavi di quello stesso modello pendolare di opposti che non si fondono, da cui sono nati gli eccessi addominali di Mandl. Senonché, come sempre accade nel canto, non è questione di aut-aut, ma di et-et. Se la storia dell’opera, come ha osservato acutamente Celletti, si può da un certo punto di vista definire come la storia delle infinite variazioni della figura retorica dell’iperbole, analogamente la tecnica vocale si può considerare come il progressivo approfondimento della figura retorica dell’ossimoro, ovvero il paradosso concentrato. In virtù di esso si scopre via via che il canto è movimento immobile, tensione distesa, altezza profonda, acuta rotondità, concentrazione spaziosa, brunitura lucente, parlare non parlato, svuotamento espanso, densa trasparenza, espirazione ispirata e così via ‘baroccheggiando’ all’infinito, gioco futile e stucchevole in sé, ma in perfetta sintonia filologica con l’epoca e la cultura da cui nacque l’opera….Una cultura appunto che nel gusto dell’ossimoro e in concetti come quello di ‘temperamento’ espresse la sua esigenza

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di stabilire una relazione armonica dove gli opposti potessero fondersi e non rimanere separati e contrapposti. Oggigiorno, purtroppo, l’unico ossimoro fatto proprio dagli insegnanti di canto è quello, autopromozionale, della ‘modernità antichizzata’, ossia quel fenomeno per cui tutti quelli che ambiscono a presentarsi come inventori di una nuova, personale tecnica vocale, pretendono nello stesso tempo che questa venga considerata come la riscoperta dei metodi antichi: insomma un ossimoro all’italiana, che con una fava prende due piccioni, quello dell’originalità e quello dei quarti di nobiltà……. Per quanto riguarda l’attuale tendenza a recuperare alla lettera la respirazione toracica di Mengozzi, essa si avvale anche di una sorta di slogan, che suona : “lasciate in pace la pancia, concentratevi solo sul torace”, dato che “i polmoni sono nel torace, non nella pancia.” Argomenti come questi sfruttano ovviamente la forza demagogica di quelle verità autoevidenti che spesso sono solo apparenze superficiali….. Con un analogo facile sillogismo potremmo dire: si cammina con le gambe, ergo non ha senso muovere le braccia camminando….ma chiunque abbia mai avuto gambe per camminare, sa che il movimento delle braccia che ‘accompagnano’ il movimento delle gambe camminando, quasi un loro eco motorio, è ciò che fa la differenza qualitativa tra i due modi di camminare, da puri bipedi o da ex-quadrumani quali siamo…... Ora per uscire dai luoghi comuni che facilmente vengono indotti ogni volta che si contrappone un modello naturale, associato alla semplicità, a un modello tecnico, associato alla complicazione, occorre una volta per tutte definire di quale natura e di quale tecnica stiamo parlando. Gravi equivoci sorgono quando ad esempio si arriva a utilizzare l’antico precetto italiano ‘si canta come si parla’, per legittimare un’equazione parlato = cantato, in virtù della quale anche la respirazione applicata al canto dovrebbe essere la stessa del parlato o un suo sottoprodotto. E’ bene chiarire allora che il canto contiene sì la natura del parlato senza annullarla, ma non è riconducibile a questo, esattamente come una molecola d’acqua contiene sì due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, ma è qualcosa di essenzialmente diverso sia dall’idrogeno, sia dall’ossigeno in essa contenuti e in questo, come succede per il canto, consiste il suo miracolo. Se si teorizza che è l’idrogeno del parlato a produrre l’ossigeno della respirazione e quindi l’acqua vocale del canto, si rimarrà sempre a piano terra, cioè sul piano del ‘parlato intonato’ sotto forma o di declamato o di parlato buffo, senza che il parlato, privato dell’ala del respiro, possa mai spiccare il volo e trasfigurarsi in canto. A trasfigurare il parlato in canto è appunto, secondo tutta la tradizione italiana, il respiro, ma non il respiro superficiale del parlato, per quanto naturale esso sia, né un respiro per così dire tecnologico, anatomico, cioè meccanicistico, bensì il respiro naturale e profondo, dove la ‘profondità’ non è data né da una localizzazione spaziale in una data area del corpo né dalla quantità d’aria incamerata, ma dalla sua percezione come sensazione vitale fondamentale e come presa di coscienza, non intellettuale ma esistenziale, del proprio essere nel corpo. Non si capisce poi con quale arbitrio i sedicenti moderni continuatori di una tradizione belcantistica italiana, la quale esplicitamente riconosceva nel rapporto ‘fiato/parlato’ le due ali senza le quali il canto non può volare (e basti citare le parole del Farinelli ottocentesco, Pacchierotti, che affermava che “chi sa ben respirare e ben sillabare, sa ben cantare”) accettino e pubblicizzino soltanto la seconda parte di questo binomio e disinvoltamente buttino nel cestino la prima, a causa dell’uso semplicistico che essi fanno del concetto di semplicità. Con lo stesso criterio saremmo autorizzati a fondare una didattica pianistica basata sull’uso di due dita, invece che di due mani, una ‘two finger level playing’, solo perché più semplice della tradizionale tecnica a dieci dita…....

Si può dire in sintesi che un’operazione di questo tipo, che sulla base di un equivoco concetto di naturalezza, proponga come modello la respirazione parlata o riproponga una respirazione toracica, entrambe semplificate delle componenti diaframmatico-addominali concepite come complicazione superflua, non può che portarci al punto di partenza, quello da cui è partita l’esigenza, nella metà dell’Ottocento, di mettere in luce anche la dimensione del fondamento dell’edificio respiratorio, così come il grande didatta e trattatista Lamperti ha fatto, elaborando il concetto tecnico di ‘appoggio’ .

Pertanto l’unico modo in cui è possibile ‘salvare’ Mengozzi è quello di interpretarlo alla luce di un moderno pensiero olistico, globale, che non ragiona più per compartimenti stagni ed azioni

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meccaniche localizzate, per cui il vero significato delle sue parole è verosimilmente, il seguente. Mentre la respirazione normale, non associata al canto, è una respirazione parziale e si realizza di solito con movimenti che si rendono visibili essenzialmente nella zona epigastrica (movimenti che nella fase espiratoria sono esclusivamente passivi), la ‘grande respirazione’ del canto esige un coinvolgimento del torace tale da garantire quelli che nella scuola di canto italiana storica sono sempre stati considerati i presupposti tecnici di questo particolare tipo di emissione: la postura eretta, nobile, da una parte, e, dall’altra, l’apertura e la “forza naturale del petto”, come significativamente la definiva il castrato Mancini, intendendo con questa non una tensione dei muscoli pettorali, ma il coinvolgimento del torace nel sistema funzionale dell’appoggio. Se la respirazione è solo addominale e il torace non viene coinvolto, si crea uno squilibrio in basso, che impedisce l’instaurarsi di quelle sinergie muscolari su cui si basa l’emissione libera; in altre parole, antagonismi muscolari non necessari o esagerati (tra i quali possiamo includere il cosiddetto ‘affondo’) o movimenti muscolari di segno opposto, essenzialmente compensativi (tra i quali possiamo includere il ‘sostegno’), verranno inseriti nell’ ‘appoggio’, rendendolo, rispettivamente, o rigido e muscolare, o inefficace.

Il primo caso, squilibrio in basso, si ha con certe tecniche di emissione, di derivazione nordica, trasmesse da insegnanti che magari si spacciano per continuatori dell’antica tradizione italiana. Un esempio è rappresentato dalla tecnica dell’affondo, diffusa da Del Monaco e introdotta in Italia negli anni Trenta dal suo maestro Melocchi, che a sua volta, secondo Anthonisen, l’aveva appresa da un insegnante russo.

Il secondo caso, squilibrio in alto, si ha con quelle tecniche che interpretano erroneamente la postura eretta e l’elevazione del petto, prescritta dagli antichi, come effetto di una spinta consapevole in dentro dei muscoli addominali. Un esempio è rappresentato dall’interpretazione che del sostegno dà Celletti, ‘sostegno’ realizzato scorrettamente come rientro volontario e immediato dell’addome, da effettuare addirittura prima dell’inizio della fonazione ! Partendo da una respirazione sbilanciata in basso si hanno insomma esiti opposti ma ugualmente scorretti a seconda che il movimento naturale discendente dell’appoggio venga, come nel primo caso, esasperato (e avremo quella forma degenerativa dell’appoggio che è l’affondo) o, come nel secondo caso, annullato (e avremo quella forma di falso appoggio, che è il sostegno). Per evitare questi opposti estremismi è opportuno ricordare che il suono galleggia senza affondare, e, che, per quanto riguarda lo squilibrio di segno opposto, cioè il suono ‘per aria’, invece che affondato, è bene tener presente che il suono, pur volando o galleggiando (a seconda delle metafore scelte), non dev’essere del tutto privo di quel peso che fa sì che esso si appoggi su qualcosa e non resti sospeso nel vuoto, che è l’elemento che, in definitiva, conferisce sostanza e apparenza reali alle cose ……..

Paragonando queste due situazioni opposte di squilibrio al normalissimo atto del sedersi, l’equivalente sarebbe dato, rispettivamente, dallo schiacciare attivamente la sedia (affondo) o dal rimanere sollevati (sostegno), invece di adagiarvi naturalmente il peso del corpo. La prescrizione di Mengozzi di “appianare il ventre” nell’inspirazione non va dunque interpretata , come erroneamente fa Celletti, come azione muscolare volontaria diretta dei muscoli addominali allo scopo di far rientrare l’addome (che è la negazione di un canto che nella sua realtà espiratoria, confermata anche dalla ricerca scientifica, consiste in un ritardo nella risalita del diaframma), ma si riferisce al risultato indiretto che si ottiene quando la respirazione è attuata rispettando quelle leggi della coordinazione muscolare naturale, su cui si basa la vocalità italiana storica, e cioè appunto la postura eretta e la partecipazione armoniosa di tutto il corpo (non solo della zona addominale o di quella costale inferiore) alla respirazione. Analogamente l’idea secondo cui nell’espirazione cantata, secondo Mengozzi e la scuola antica, il ventre deve rimettersi nel suo stato naturale e il petto abbassarsi non va interpretata come blocco diaframmatico, torchio addominale o manovra grottescamente defecatoria (che farebbero precipitare il canto da quel piedistallo ideale in cui la postura nobile lo pone), ma come effetto di quel movimento naturale che fa sì che l’onda del respiro, dopo essersi innalzata dal centro del corpo con l’inspirazione, si riabbassa. poi in fase espiratoria. Da qui è nata l’idea dell’appoggio, naturale emanazione ed espressione di quel ‘passo del respiro’, da cui è nato anche il ‘levare’ e il ‘battere’ dei movimenti musicali. Più precisamente, il levare dell’inspirazione è il tempo debole che

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corrisponde alla preparazione dell’attacco del suono, mentre il battere è il tempo forte dell’attacco/appoggio del suono. Questo conferma che anche se nell’inspirazione il diaframma si abbassa, la percezione globale dell’atto respiratorio registra anche l’esperienza del sollevamento della cassa toracica (parte superiore compresa), dato che, come succede versando un liquido in una bottiglia, questo riempie prima il fondo per poi salire. Viceversa, l’inizio della fase espiratoria, che coincide con l’attacco del suono, benché si manifesti fisiologicamente come fiato che sale per uscire, viene anche percepito dal cantante nella sua realtà di ‘appoggio’, ‘battere’, ‘posare la voce’, dato che su questo cuscino d’aria la voce, appunto, si appoggia. Tutto questo non emerge nella respirazione ‘normale’, quotidiana, non associata al canto, che è superficiale e per lo più affidata agli automatismi inconsci.

Questo non significa, ripeto, che il rapporto tra le due respirazioni (quella normale e quella cantata) sia il rapporto di opposizione esistente tra naturale e artificiale, ma quello di integrazione esistente tra il meno e il più, tra natura superficiale e natura profonda. Quest’ultima emerge anche in certi atti ‘globali’, alcuni dei quali istintivi, come la ‘boccata d’ossigeno’ rigeneratrice, il ‘sospiro di sollievo’, l’annusare un aroma piacevole e l’inizio dello sbadiglio. Proviamo a sbadigliare inspirando solo con l’addome e bloccando la parte superiore del torace, e bloccheremo anche lo sbadiglio e il suo benefico senso di distensione. Non solo: una respirazione solo bassa e non globale, non ‘diffusa’ ha come effetto anche quello di rendere evidenti il prolasso addominale e il collasso del torace. Cioè si fa notare negativamente, esattamente come lo ‘zoppicare’, analoga limitazione di un movimento naturale, attira molto di più l’attenzione, in quanto atto disarmonico, del normale camminare.

In questo senso va spiegata l’apparente contraddizione per cui la respirazione delle antiche scuole di canto, pur coinvolgendo anche la parte alta del torace, godeva a suo tempo dell’attributo mitico dell’invisibilità, ed è interessante mettere in risalto come anche in tempi più recenti una cantante come Luisa Tetrazzini, la quale affermava che anche alla sua respirazione veniva riconosciuto dal pubblico la prerogativa di sembrare invisibile, attribuisse esplicitamente la causa di questo fenomeno proprio al fatto di espandere in fase inspiratoria la parte alta del torace. Non si trattava insomma di una invisibilità in senso assoluto, la quale rappresenterebbe una limitazione perché priverebbe il cantante di quella prerogativa che da secoli è imitata da tutti gli strumenti, compresi quelli, come il pianoforte, che ne sono costitutivamente privi, e mi riferisco al senso esistenziale e umanamente espressivo del respiro.

Insomma la verità, tanto semplice quanto profonda, enunciata da Mengozzi è questa: se respiriamo solo con la pancia, come naturalmente facciamo, rimaniamo ‘prosaici’, uomini con la schiena curva e la pancetta; se invece vogliamo innalzarci a quella dimensione di cui il canto e il teatro sono un riflesso, allora dobbiamo ‘accordare’ il corpo a questo scopo, recuperando il senso vero, profondo (che non è quello meccanico) della postura eretta, della respirazione e del loro rapporto, che solo possono restituirci la pienezza del nostro essere umani oltre che cantanti. E’ bene precisare che non si tratta di una questione puramente visiva, dato che a questa ‘postura nobile’, intesa non come autoimposizione esterna e punto di partenza dell’inspirazione, ma come dinamico punto di arrivo dell’espirazione cantata, corrisponde esattamente, come altra faccia della stessa medaglia, ciò che a noi come musicisti più interessa: la nobiltà del suono, di cui la nobiltà della postura è la manifestazione visiva. Se è vero infatti che anche per le discipline orientali la fonte della forza pura è nella zona del ventre, è anche vero che ciò che distingue il canto dal grido non è la quantità di energia sonora erogata, ma la sua qualità. Ora, il ‘trasformatore’, potremmo dire il ‘sublimatore’ del suono spinto o gridato in canto è rappresentato, ovviamente non solo, ma certamente anche dalla postura nobile, ‘allineata’, e dalla respirazione naturale globale, non settoriale e quindi né solo addominale né solo toracica. Al giorno d’oggi la concezione di una respirazione genericamente o esclusivamente addominale è stata corretta inserendo anche parte del torace, le costole inferiori, nella dinamica respiratoria. Abbiamo così la respirazione ‘costo-diaframmatica’, che per altro rischia di essere ugualmente concettualmente sbagliata, perché implica sempre una respirazione settoriale, a zone, quella costale inferiore (con rigorosa esclusione della parte superiore del torace), invece che una respirazione globale, che nasce sì dal centro ma, come appunto un pallone, si espande poi anche in alto. Gli effetti deleteri di questo tabù, sotto forma di rigidità e mancanza di libertà, si fanno sentire ancora oggi in

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moltissime scuole di canto, dove si è molto zelanti nel bloccare questa parte importante dello strumento vocale. A questo proposito occorre osservare che ogni invito a NON alzare le spalle nell’inspirazione, così come succede con gli inviti a NON alzare laringe cantando, è sbagliato per il semplice fatto di presentarsi come prescrizione negativa, che inibisce attivamente e direttamente un movimento, invece che escluderlo in partenza dall’orizzonte percettivo del cantante. Se ci preoccupiamo, infatti, di NON alzare la laringe o di NON alzare le spalle, rimaniamo sul piano di una coscienza e di un controllo del corpo che è locale e periferico, non centrale. Entriamo, invece, nel centro del fenomeno, se cogliamo l’atto nella sua globalità come sensazione. In questo caso il senso vitale del respiro profondo (inteso non in senso letterale, meccanicistico) è ciò che crea i veri spazi di risonanza del canto ( del canto inteso come risonanza libera e fenomeno naturale) ottenendo come risultato indiretto, non ricercato di per sé, anche l’abbassamento rilassato della laringe. Insomma, se mi preoccupo di non alzare la laringe, continuerò a sentirla. Lo stesso, se mi premuro di abbassarla direttamente. Invece, se uso come mezzo indiretto la respirazione per rilassarmi, distendere e aprire gli spazi interni, otterrò come risultato naturale indiretto (quindi non voluto meccanicisticamente) non solo l’abbassamento rilassato della laringe ma anche la sua ‘sparizione’ dall’orizzonte percettivo, che è ciò a cui mirava la didattica degli antichi maestri del belcanto, quando invitavano a “non avere gola cantando”, o parlavano di “gola morta”.

Esiste insomma una differenza tra un movimento o coordinazione muscolare, nati da una certa idea e attitudine psicologica, e lo stesso movimento o coordinazione muscolare, nati da una diversa idea e attitudine psicologica. La differenza non è probabilmente rilevabile esternamente, neppure con la strumentazione scientifica, ma è chiaramente avvertibile nel risultato sonoro. Questo fatto ci porta a sottolineare l’importanza obiettiva degli aspetti psicologici e direi addirittura semplicemente ‘ermeneutici’ del canto. Questi aspetti psicologici intervengono come causa di effetti reali anche nell’ambito della respirazione. Si sa che non voler stare svegli o volere dormire sono entrambi ottimi sistemi per stare svegli. Nel nostro caso, non voler respirare alto o voler respirare basso sono ugualmente ottimi sistemi non dico per respirare alto, ma certamente per respirare male…..

E’ indispensabile quindi che il controllo razionale analitico delle manifestazioni esterne della giusta respirazione, le varie modificazioni corporee insomma, non venga scambiato per la causa prima della giusta respirazione. Esso è importante sì per evitare squilibri muscolari, ma con esso rimaniamo ancora all’esterno del fenomeno. Sperare di arrivare all’essenza vera della respirazione in questo modo è come sperare di mettere in moto un motore, riscaldandolo dall’esterno. La via per arrivare all’essenza intima, alla causa profonda, al centro della respirazione applicata al canto è quella che passa dalla presa di coscienza delle sensazioni vitali suscitate da certi atti profondamente naturali, che già abbiamo visto. Sono queste che ci consentono di passare dalla ‘lettera’ allo ‘spirito’, cioè dall’esterno all’interno del fenomeno della respirazione cantata. Dimensione psicologica interiore e manifestazione materiale esterna si riflettono l’una nell’altra, e, come spesso succede, la spia è il linguaggio. Ad esempio il significato profondo di un concetto come ‘sollievo’ e ‘sospiro di sollievo’ si ricollega evidentemente a quel ‘sollevare’ il torace nella ‘grande respirazione’ naturale. L’onda del respiro nasce nel centro del corpo e poi sale e dev’essere lasciata salire fino alla sommità del petto. A questo punto, perché il beneficio psicologico e fisiologico del ‘sollievo’ possa essere percepito, occorre non solo che il torace si sollevi leggermente, ma che l’inizio della fase espiratoria, rispettando il ritmo binario di ‘levare’ e ‘battere’ del passo, sia realizzato appunto, per dirla con Pertile, ‘appoggiando i polmoni al diaframma’ e non lasciando innaturalmente sospesa la cassa toracica. Ciò che distingue questo modello respiratorio da una respirazione clavicolare basata su vistosi innalzamenti e abbassamenti, essenzialmente esterni e rigidi, del torace, è il fatto, appunto centrale, intimo, di coinvolgere anche il diaframma nell’inspirazione. Come sempre succede nel canto, non bisogna pensare in termini di compartimenti stagni, di settori respiratori separati ( del tipo di tutti quelli che inizialmente si è portati a stabilire artificialmente, ad esempio tra parlato e cantato, tra le note, tra le vocali, tra i registri), ma di fusione, di collegamento fluido, di grande sinergia, di onda respiratoria che trascende le barriere anatomiche. Se la realtà respiratoria del canto si concretizza nel suo momento ‘concreto’, sonoro, come ‘appoggio’ e ‘posa della voce’, è chiaro che i suoi presupposti, la sua origine prima si trovano nel

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momento dell’inspirazione. E’ significativo che, come abbiamo visto con il concetto di ‘sollievo’, anche la realtà dell’inspirazione si illumini di significati che vanno al di là dell’atto fisico, ma che soli ne restituiscono la profondità e complessità. L’inspirazione è allora il momento passivo, ricettivo in cui, se rinunciamo a incamerare o risucchiare attivamente l’aria come ventose, ma ci lasciamo respirare, ci poniamo in grado di accogliere qualcosa di più grande di noi, che nel nostro caso è il suono vero. ‘Inspirare non è sinonimo di prendere, ma di ricevere’, diceva il cantante e didatta francese Charles Panzera, dedicatario di molte melodie di Fauré. Inspirando con il giusto spirito dell’inspirazione diventiamo insomma ‘ispirati’. Simmetricamente, si potrebbe aggiungere, espirare non è sinonimo di emettere o di buttare, ma di porgere. Non si tratta di giochini linguistici o di fantasie, ma di una precisa realtà obiettiva, che ha i suoi riflessi nel canto. Questo perché anche il linguaggio, come anticamente si diceva degli oracoli, non nasconde né rivela, ma accenna.

Oggigiorno si parla ad esempio dell’importanza della ‘sintonizzazione prefonatoria’ nel canto. E’ un concetto che prima di indossare il vestito scientifico di questa espressione, era già presente nelle antiche scuole col nome di ‘intenzione’, come la chiamava Cotogni, o di ‘previsione’, come la chiamava nel Settecento Mancini. Il canto non incomincia cioè nel momento attivo e concreto dell’espirazione e dell’attacco del suono, ma in quello passivo e ‘ispirato’ dell’inspirazione che lo precede, nel momento in cui inspirando lo concepiamo nella mente. Senza l’inspirazione, il suono è detto solo mentale, perché realizzato in base a ciò che il pensiero razionale, statico, immagina siano le caratteristiche del suono vero, che però noi non conosciamo. Occorre assumere l’atteggiamento psichico, da cui è nata la parola greca che significa verità, cioè alétheia. Essa non è indicata positivamente, ma negativamente, cioè come svelamento, scoperta, risultato indiretto e sconosciuto di un togliere. Ugualmente nel canto il suono vero non si trova cercandolo direttamente, ciò che induce a inventarlo artificialmente, attribuendogli caratteristiche che noi pensiamo dovrebbe avere, bensì togliendo ciò che lo ricopre e lo nasconde. Con la giusta inspirazione si diventa ricettivi, si prepara uno spazio che può accogliere in sé l’evento del suono vero. A chi fosse tentato, con la benevolente e sorridente superiorità della persona ‘con i piedi per terra’, di mettere nel novero delle fantasie pseudomistiche queste considerazioni, si potrebbe ricordare che non ci sarà mai il rischio di enfatizzare esageratamente la respirazione, se solo pensiamo che il nostro primo passo nel mondo non lo abbiamo fatto alzando un piede, ma alzando il torace (o la pancia, a seconda delle preferenza) per aprirci e respirare. Questa priorità riconosciuta al respiro è l’elemento che accomuna le tecniche orientali di meditazione alle tecniche occidentali di canto. “Scuola del respiro’ veniva tradizionalmente chiamata l’arte del canto in Italia secondo le testimonianze di Lamperti e Delle Sedie, mentre non è un caso che la massima di Gesù Cristo ‘beati i poveri di spirito’ fosse interpretata dalle prime sette cristiane in senso letterale e il significato letterale della parola ‘spiritus’ è respiro. Rimane a noi moderni il compito di interpretare una frase che rivista filologicamente in questo modo diventa ‘Beati i poveri di fiato’ come intuizione della scoperta scientifica del concetto di minimal breath, minima quantità di fiato necessaria per cantare, o, com’è più probabile, presa di coscienza del significato esistenziale e funzionale dell’inspirazione, che emerge se solo proviamo a rinunciare per un minuto alla nostra consueta ‘ricchezza’ di fiato. La prima inspirazione che faremo dopo questa apnea ci restituirà il senso esistenziale e funzionale del respiro e del canto…..

L’approccio puramente esterno, meccanicistico rischia di intervenire con un condizionamento ancora più pesante che inibisce la coordinazione muscolare naturale, anche quando si viene ad affrontare quello che, tautologicamente, è il fondamento dell’emissione cantata, cioè l’appoggio. E’ mia convinzione che il concetto tecnico di ‘appoggio’, nato nell’Ottocento, non sia che la conseguenza, la naturale emanazione della respirazione belcantistica, malamente descritta da Mengozzi, non a caso rimasta in auge fino a tutta la metà dell’Ottocento con Garcia e Lablache. Una respirazione il cui primo tempo, l’inspirazione, se realizzato come ‘levare’, non può che sfociare naturalmente nel ‘battere’ dell’espirazione, cioè nell’appoggio. Ora se si impedisce, come vogliono i fautori della respirazione solo toracica, che “l’espirazione venga appoggiata coi polmoni al diaframma”, come voleva Pertile, o si pretende che la gabbia toracica rimanga allargata lateralmente nell’espirazone, non si arriverà mai a sperimentare l’appoggio come equilibrio naturale che si autosostiene. Per contro, se si impedisce che l’onda respiratoria, nata nel centro del corpo, si sollevi durante l’inspirazione fino a toccare la sommità del torace, l’appoggio

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non potrà che essere realizzato artificialmente, con uno squilibrio di partenza che si evidenzierà nella zona acuta come eccessiva pressione e tensione muscolare. In effetti il rischio più grave nell’utilizzazione didattica di questo concetto, che è nato come semplice metafora e sensazione cinestetica, è quello di allontanarsi dal suo stretto significato letterale, che è appunto quello di appoggiare, non di schiacciare o di sollevare. La differenza è quella che intercorre tra un atto naturale (l’appoggio), che implica la scoperta, il rispetto di certe leggi naturali per far sì che esse possano operare a nostro favore, e un atto artificiale, attivo, che diventa presto condizionamento inconscio, che si sostituisce e si oppone alla natura. Come scrisse Bacone, “homo naturae parendo imperat”, ossia, traducendo e parafrasando, si comanda alla voce ubbidendole. Ubbidire alla natura, nel caso dell’appoggio, significa tastare il terreno su cui si appoggia la voce, sapere che nel anche nel canto non vige un criterio proporzionale per cui quanto più appoggiamo (o, nel caso della risonanza, quanto più portiamo avanti) un suono, tanto più il suono è giusto. A questo proposito, come insegnante di canto, non posso che confermare in pieno le osservazioni di Fussi, secondo il quale uno dei problemi più diffusi tra gli studenti di canto, non è la mancanza o la scarsità di appoggio, ma l’eccesso di appoggio, la sua eccessiva muscolarizzazione. Anche in questo caso insomma, “less is more”, il meno è il più, dove la differenza di quantità fa la differenza, in senso inversamente proporzionale, di qualità…In parole più chiare, se nel settore centrale della voce l’appoggio non è percepito come puro e semplice contatto morbido con qualcosa di elastico (che tradizionalmente è stato metaforizzato nelle immagini del pallone, del telone o del cuscino, per poi assumere il nome scientifico di ‘diaframma’) ma diviene azione muscolare vera e propria, è quasi certo che nel settore acuto esso non potrà che degenerare nel sua contraffazione di contorsionismo muscolare da facchino o da body-builder. In questo modo ci si allontana sempre di più dal vero significato dell’appoggio, che, ripeto, rappresenta la semplice risposta naturale alle esigenze di ‘fondamento’ e di ‘radicamento’ di noi esseri soggetti alla gravitazione universale. Semplificando: c’è qualcosa che si appoggia e qualcosa che, non esercitando attivamente una forza, ma opponendo una resistenza elastica, si oppone. Il cantante percepisce tutto questo come se l’espirazione non fosse un processo univoco di fuoriuscita del fiato/suono, come i non cantanti sono portati a immaginare, ma biunivoco, cioè come una sospensione dinamica dell’espirazione (da cui le antiche espressioni ‘cantare sul fiato’, ‘appoggiare il fiato contro il petto’, ossia nella zona sterno-epigastrica, e gli inviti del Lamperti a cantare “sull’atto dell’inspirazione”). Questo modello fonatorio, che traduce perfettamente in un’immagine sensibile coerente la realtà di un canto che si autosostiene, senza essere ‘spinto’, è stato liquidato come ‘assurdo’ da studiosi del canto come Celletti che, non essendo cantanti, non potevano che ragionare in base alla logica normale, secondo la quale l’emissione è, per definizione, un ‘mandare fuori’ e non un ‘mandare dentro’. La ripercussione, sul piano didattico, di quest’atteggiamento critico è stata un’interpretazione dei concetti classici di ‘appoggio’ e ‘sostenutezza di petto’, che ne svisa completamente il senso originario: l’appoggio infatti non sarebbe più una forma di equilibrio che si autosostiene, ma sarebbe il risultato dell’azione volontaria di ritrazione della fascia addominale, per cui la colonna sonora non si ‘appoggerebbe’ più, ma sarebbe ‘sostenuta’ dalla nostra attività muscolare volontaria ! La distinzione tra i due concetti di ‘appoggio’ e di ‘sostegno’ si potrebbe chiarire quindi in questo modo: se mi appoggio, c’è qualcosa che mi sostiene, ma non sono io, mentre se mi sostengo, sono io a dovermi sostenere, che è la differenza, rispettivamente, tra equilibrio e compensazione, tra risonanza libera e risonanza forzata, tra lasciare che la voce canti da sola e farla cantare.

La questione non è puramente nominalistica, come potrebbe sembrare, ma implica due diverse concezioni ed esperienze dell’emissione cantata, che hanno un’immediata conseguenza pratica nel canto, dove ‘nomina sunt res’. Proprio per questo occorrerebbe fare un po’ di chiarezza terminologica e concettuale, definendo la spinta verso l’alto come ‘sostegno’, la spinta verso il basso come ‘affondo’ e solo l’equilibrio vero tra queste due tendenze contrapposte (vero nel senso di non essere più percepito come attivazione volontaria) come ‘appoggio’. Di conseguenza il vero appoggio non è né il solo sostegno né il solo affondo né il semplice rapporto/contatto tra queste due forze, che non dia il senso di naturale e tranquilla stabilità, di serena ‘posa della voce’ da cui appunto è nato il concetto di ‘appoggio’.

Esiste un altro motivo importante per cui il ‘sostegno’ non può essere considerato sic et simpliciter come lo stesso fenomeno dell’appoggio visto da un’altra prospettiva, quasi il suo retroscena, ed è

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un motivo di semplificazione degli strumenti di controllo: mentre ‘sostenendo’ non si crea ipso facto l’appoggio (così come chi sta sollevato sulla punta dei piedi non ha lo stesso senso di appoggio di chi sta ‘con i piedi per terra’), invece ‘appoggiando’ il suono iniziale, non occorre poi pensare di sostenere, per il semplice fatto che l’espirazione, senza la quale non si ha il canto, crea da sola, automaticamente, le condizioni del sostegno, che sono date dalla graduale risalita dei muscoli addominali. In pratica, avendo appoggiato il primo suono, è possibile limitarsi in un certo senso ad ‘assistere’ all’espirazione (senza bisogno di accentuarla volontariamente ‘sostenendo’) come a un fenomeno che avviene da solo, ubbidendo alle proprie leggi. Insomma ‘sostenere’ è salire le scale, mentre ‘appoggiare’ è stare fermi, lasciando che siano le scale mobili a farci salire…. Arrivati a questo punto, poiché nella realtà ‘tout se tient’, tutto è collegato, si capisce anche perché l’abbandono della modalità respiratoria belcantistica di Mengozzi, Lablache e Garcia, a favore di una respirazione settoriale, solo bassa, ha potuto dare origine agli opposti squilibri del ‘sostegno’ e dell’ ‘affondo’. Se si inizia infatti il suono partendo da una postura in cui la zona ombelicale dell’addome, inspirando, è fatta sporgere, senza espandere il torace, i casi sono due: o per appoggiare si ‘affonda’, o, per compensare lo squilibrio di partenza, si attiva fin dall’inizio della frase la risalita dei muscoli addominali. In entrambi i casi il vero appoggio non si realizza, ma solo la sua caricatura (l’affondo) o il suo surrogato (il sostegno). Con la respirazione globale di Mengozzi, invece, la fase espiratoria sfocia naturalmente nell’appoggio, dato che essa si realizza come naturale assestamento verso il basso della gabbia toracica, che era stata innalzata leggermente in fase espiratoria, da cui appunto la sensazione di “appoggiare i polmoni al diaframma”, testimoniata da Pertile, e l’idea di Shirley Verret, secondo la quale inspirando il fiato sale ed espirando si abbassa.

Un motivo profondo ci obbliga quindi a concepire/realizzare l’appoggio come forma che rispecchi la bipolarità: l’aderenza alla realtà che, ai suoi livelli profondi,è sempre armonia di opposti. A questo proposito la natura ci offre un modello vivente nell’albero, che scarica il suo peso in basso, si appoggia cioè alla terra, ma vive grazie alla linfa che sale. Movimento gravitazionale discendente e movimento vitale ascendente è ciò che fa vivere anche l’albero della voce….In questo senso è probabile che tutte le forme di spinta volontaria verso l’alto dei muscoli addominali così come tutti i tentativi di proiezione, anche questa artificialmente indotta, della risonanza nelle cosiddette cavità alte, non rappresentino che l’espressione, pesantemente materialistica e quindi degradata, dell’esigenza subconscia di assecondare e sintonizzarsi con l’energia vitale ascendente. Essa può nascere dall’ ipercompensazione di uno squilibrio, come quando certi fautori dell’affondo affermano che il suono va balisticamente proiettato dal basso verso una zona della maschera, definita significativamente ‘distretto di collisione’ dei suoni, oppure può trattarsi della negazione assoluta di ogni componente discendente, considerata tabù, che sfocia ugualmente in una tensione muscolare innaturale verso l’alto, concepito come spazio reale da raggiungere, magica cavità di amplificazione della voce, paradiso delle risonanze, invece che come punto mentale di equilibrio e stato di coscienza. E’ infatti sul piano, apparentemente solo immaginario, ma in effetti pienamente, anzi sottilmente reale, della visualizzazione mentale della direzione dell’energia vitale o comunque dell’onda del canto, che è possibile trovare quell’elemento in grado di bilanciare in modo naturale l’appoggio, senza che esso diventi zavorra muscolare. E’ da questa energia ascendente che nasce quella sospensione, quel ‘rimbalzo’ nei movimenti (come succede nella danza) che fa sì che pur appoggiandosi, la voce riesca a lievitare con grazia. Questa grazia non è che energia pura, svuotata di pesantezza. Per il cantante l’idea di vedere sullo schermo della mente l’arco di energia rappresentato dall’intera frase musicale è ciò che spesso consente di distribuirla in modo uniforme, senza concentrarla con singoli impulsi sulle singole note. Come ogni arco, architettonico o esistenziale, anche l’arco del canto non si appoggia infatti sul presente, cioè sulla nota che si sta cantando, ma su ciò che precede e ciò che segue, sul passato e sul futuro, e da qui nasce il legato. Il legato come distribuzione uniforme e regolare dell’energia è appunto ciò che salva l’appoggio da quell’eccesso di muscolarità, che lo trasforma da salvagente a zavorra.

Il processo di degradazione che ha portato l’atto fisiologico dell’appoggio respiratorio a diventare ‘torchio addominale’ è simile a quello che ha portato il concetto di suono ‘alto’, ‘puro’ e ‘libero’ a cristallizzarsi nel suo contrario di suono ingabbiato nella ‘prigione ai piani alti’ della maschera, vera

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e propria maschera carnevalesca dal sorriso eterno quanto finto. Cantina o soffitta che sia, sempre di prigione si tratta, cioè di un’interpretazione ridicolmente materialistica, letterale dei concetti di alto e basso, che in tal modo non si integrano armonicamente, ma al massimo sono costretti a convivere come inconciliabili opposti.

Nell’eterna diàtriba tra ‘altezza’ e ‘profondità’, tra ‘maschera’ e ‘affondo’ il canto di tradizione italiana ha sempre rispettato i principi dell’armonia classica, dove l’alto è gerarchicamente superiore (cioè ‘sopra’ in tutti i sensi) al basso e ad esso è affidata la melodia. La profondità in questo modo non è annullata, come succede con la ‘maschera’, ma viene vista dall’alto, da cui il concetto di ‘copertura’, nel suo significato originale, che è logicamente contrario al concetto di ‘affondo’, dove l’altezza è vista dal basso e concepita balisticamente come un bersaglio da raggiungere. L’altezza si riconferma così come l’elemento che concilia gli opposti del canto: un’altezza come stato di coscienza di chi domina tranquillamente qualcosa dall’alto e non la raggiunge dal basso, un’altezza come ‘alto mare’ che include in sé la profondità, un’altezza su cui le ‘parole piccole’ di Schipa e la ‘pronuncia semplice e naturale’ di Caruso (contrariamente a quanto succede non le ‘parole grandi’ del declamato pseudoverista) possono galleggiare senza affondare, possono funzionare da sintonizzatori della risonanza libera invece che da detonatori della risonanza forzata, possono insomma finalmente trasfigurarsi nel mitico ‘canto sul fiato’. Purtroppo anche per questo aspetto del canto, l’incapacità di andare per il sottile, banalizzando tutto, è destinata a stravolgere certi principi fondamentali, tramandati dalla vecchia scuola. L’antico precetto italiano del ‘si canta come si parla’ degenera così in un grossolano ‘si canta come si declama’, dove la declamazione, intesa come accentuazione artificiale della pronuncia, non è che uno dei tanti modi, in questo caso mascherato da esigenza espressiva, con cui si manifesta la tentazione di spingere la voce come mezzo per compensare uno squilibrio nel rapporto fonazione/risonanza/respiro. Che non si tratti affatto di una necessità sono lì a dimostrarlo sia le parole di Caruso quando raccomanda di non sostituire l’emissione con l’articolazione sia quelle di Schipa quando raccomanda di evitare sempre quelle che lui chiamava “parole grandi”, ma a questo punto si rischia di iniziare una nuova conferenza…. A scongiurarla e a renderla superflua, sconfessando le pretese di espressione drammatica invocate a giustificazione di chi induce a ‘declamare sui muscoli’, invece che a ‘parlare sul fiato’, bastano infatti le parole con cui Shakespeare, per bocca di Amleto, sottolinea l’importanza di una pronuncia sciolta, raccolta ed essenziale: “Speak the speech, I pray you, as I pronounced it to you, trippingly on the tongue. But if you mouth it, as many players do, I had as lief the town crier spoke my lines.” Ossia: “Mi raccomando, dite le parole come le ho pronunciate io, facendole saltellare sulla lingua. Perché se fate le boccacce per pronunciare, come fanno molti esecutori, tanto varrebbe che i miei versi li dicesse un urlatore di piazza.” Se questa è la lezione impartita dal maestro di drammaticità per eccellenza a quelli che, come gli attori, sarebbero più giustificati a ‘declamare’ per ‘esprimere’, non avendo altri mezzi tecnico-vocali a disposizione, essa diventa un comandamento assoluto per quelli che, come i cantanti, plasmano la parola con una materia sottile e impalpabile come il fiato, materia che, se ‘scolpita’ per declamare, semplicemente svanisce…..

Antonio Juvarra