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1 Report di un lavoro di approfondimento nel quadro del progetto “I linguaggi della contemporaneità” i Muri: il muro di Gerusalemme, nel contesto del conflitto israelo-palestinese Con i miei ragazzi della classe VD, Jacopo Barbiero, Alessandro Bonacina, Pietro Bovio, Vittoria Capponi, Camilla Celè, Carlo Ceretti, Francesco Cilento, Alessia De Luca, Tommaso De Salvo, Riccardo Manta, Giacomo Mantineo, Ambrogio Martinoli, Francesco Massarelli, Alfonso Pellegatta, Jasmine Pioggia e Laura Vichi, abbiamo approfondito il tema dei MURI nel mondo, con particolare riferimento al MURO ( BARRIERA) ISRAELO-PALESTINESE. Nelle mie classi, noi studiamo sempre la storia contemporanea, arrivando fino agli anni ‘80-’90. Dopo aver seriamente studiato la storia del conflitto israelo-palestinese, nel quale l’erezione del muro si inserisce alla fine di una lunghissima e controversa serie di eventi, abbiamo cercato di comprenderne l’esperienza. Il nostro orientamento di fondo è stato quello di non limitarci allo studio obiettivo degli aspetti storici e politici, pur preliminare e fondamentale, ma di percorrere attraverso prospettive diverse, l’esperienza del conflitto e del muro. Accostare, attraverso la lettura dei reportage, l’esperienza di coloro che hanno vissuto questi avvenimenti in prima persona, i fatti raccontati da chi era presente e l’interpretazione della scrittura letteraria ci hanno aiutato a entrare in sintonia con le condizioni di vita di questi uomini al centro dei conflitti o delle difficili convivenze e a comprendere meglio i fatti storici. A guidarci è stata anche un’intuizione -che mi è sorta spontanea come educatrice dei giovani- che, pur dovendo constatare la gravità di un conflitto, quello israelo-palestinese, che si presenta come insolubile, e del quale il muro è solo uno degli aspetti, si dovesse dare voce anche ad esperienze come quella di Nevè Shalom che potessero tener viva la speranza. L’intento è infatti stato quello di dare agli studenti il messaggio che vi sia molto da fare -e che essi debbano fare la loro parte- nel mondo, scongiurando scoraggiamento e ‘resa’. Con i colleghi milanesi della consulta per l’Educazione alla legalità, della quale fanno parte anche docenti universitari della Facoltà di scienze politiche, presidi, giuristi, psicologi, ci prefiggiamo di suscitare nei giovani accanto ad una viva coscienza della realtà storica contemporanea, un esercizio attivo e responsabile dei loro diritti. Abbiamo, inizialmente, tracciato un quadro dei muri nel mondo, studiando il sito interattivo, di The Guardian, sul tema. Abbiamo consultato anche quello del Corriere della Sera e quello di Internazionale. In questo, come per gli altri aspetti del nostro approfondimento, abbiamo vagliato anche le risorse internet. Uno dei nostri fini è, infatti, quello di accedere in modo consapevole e critico alle risorse della rete. Il rinnovamento della didattica, con il fine di proporre agli studenti di partecipare in modo più attivo allo svolgimento delle lezioni, passa anche attraverso l’uso delle tecnologie informatiche (presentazioni in power point proiettate alla LIM) nel corso delle lezioni e attraverso la web quest. Come loro professore di storia, ho dato agli studenti i criteri per individuare i siti seri ed affidabili; ho anche inviato loro una lista dei siti da consultarsi, lasciando loro tuttavia libertà di estendere la ricerca, purché oltre al dovere di citare le fonti, vi fosse quello di motivare, di volta in volta, la scelta. La modalità prevalente del nostro approfondimento storico è stata quella laboratoriale che favorisce lo spirito di iniziativa degli studenti nell’interpretazione dei documenti e delle fonti. Accanto a momenti di ricerca e studio individuali da parte degli studenti, ho previsto dei momenti in cui, riuniti per piccoli gruppi tematici (ad esempio, gli aspetti giuridici, le interpretazioni letterarie), hanno messo insieme gli elementi raccolti e si sono confrontati, facendo il punto delle loro ricerche. La modalità laboratoriale favorisce anche la collaborazione, lo scambio di opinioni, l’interazione anche come dimensione sociale, così importante in una società nella quale una certa ‘passivizzazione’, anche causata da un uso acritico dei media e dell’IT sono rischi ricorrenti. Non ultima, viene favorita l’integrazione degli studenti con qualche difficoltà espressiva, l’emergere delle diverse identità nella complementarietà degli apporti. Al termine di questi momenti, l’insegnante ha guidato momenti di condivisione dei dati raccolti e soprattutto delle

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Report di un lavoro di approfondimento nel quadro del progetto “I linguaggi

della contemporaneità” i Muri: il muro di Gerusalemme, nel contesto del

conflitto israelo-palestinese

Con i miei ragazzi della classe VD, Jacopo Barbiero, Alessandro Bonacina, Pietro Bovio,

Vittoria Capponi, Camilla Celè, Carlo Ceretti, Francesco Cilento, Alessia De Luca, Tommaso

De Salvo, Riccardo Manta, Giacomo Mantineo, Ambrogio Martinoli, Francesco Massarelli,

Alfonso Pellegatta, Jasmine Pioggia e Laura Vichi, abbiamo approfondito il tema dei MURI nel mondo, con particolare riferimento al MURO ( BARRIERA) ISRAELO-PALESTINESE. Nelle mie classi, noi studiamo sempre la storia contemporanea, arrivando fino agli anni ‘80-’90. Dopo aver seriamente studiato la storia del conflitto israelo-palestinese, nel quale l’erezione del muro si inserisce alla fine di una lunghissima e controversa serie di eventi, abbiamo cercato di comprenderne l’esperienza. Il nostro orientamento di fondo è stato quello di non limitarci allo studio obiettivo degli aspetti storici e politici, pur preliminare e fondamentale, ma di percorrere attraverso prospettive diverse, l’esperienza del conflitto e del muro. Accostare, attraverso la lettura dei reportage, l’esperienza di coloro che hanno vissuto questi avvenimenti in prima persona, i fatti raccontati da chi era presente e l’interpretazione della scrittura letteraria ci hanno aiutato a entrare in sintonia con le condizioni di vita di questi uomini al centro dei conflitti o delle difficili convivenze e a comprendere meglio i fatti storici. A guidarci è stata anche un’intuizione -che mi è sorta spontanea come educatrice dei giovani- che, pur dovendo constatare la gravità di un conflitto, quello israelo-palestinese, che si presenta come insolubile, e del quale il muro è solo uno degli aspetti, si dovesse dare voce anche ad esperienze come quella di Nevè Shalom che potessero tener viva la speranza. L’intento è infatti stato quello di dare agli studenti il messaggio che vi sia molto da fare -e che essi debbano fare la loro parte- nel mondo, scongiurando scoraggiamento e ‘resa’. Con i colleghi milanesi della consulta per l’Educazione alla legalità, della quale fanno parte anche docenti universitari della Facoltà di scienze politiche, presidi, giuristi, psicologi, ci prefiggiamo di suscitare nei giovani accanto ad una viva coscienza della realtà storica contemporanea, un esercizio attivo e responsabile dei loro diritti. Abbiamo, inizialmente, tracciato un quadro dei muri nel mondo, studiando il sito interattivo, di The Guardian, sul tema. Abbiamo consultato anche quello del Corriere della Sera e quello di Internazionale. In questo, come per gli altri aspetti del nostro approfondimento, abbiamo vagliato anche le risorse internet. Uno dei nostri fini è, infatti, quello di accedere in modo consapevole e critico alle risorse della rete. Il rinnovamento della didattica, con il fine di proporre agli studenti di partecipare in modo più attivo allo svolgimento delle lezioni, passa anche attraverso l’uso delle tecnologie informatiche (presentazioni in power point proiettate alla LIM) nel corso delle lezioni e attraverso la web quest. Come loro professore di storia, ho dato agli studenti i criteri per individuare i siti seri ed affidabili; ho anche inviato loro una lista dei siti da consultarsi, lasciando loro tuttavia libertà di estendere la ricerca, purché oltre al dovere di citare le fonti, vi fosse quello di motivare, di volta in volta, la scelta. La modalità prevalente del nostro approfondimento storico è stata quella laboratoriale che favorisce lo spirito di iniziativa degli studenti nell’interpretazione dei documenti e delle fonti. Accanto a momenti di ricerca e studio individuali da parte degli studenti, ho previsto dei momenti in cui, riuniti per piccoli gruppi tematici (ad esempio, gli aspetti giuridici, le interpretazioni letterarie), hanno messo insieme gli elementi raccolti e si sono confrontati, facendo il punto delle loro ricerche. La modalità laboratoriale favorisce anche la collaborazione, lo scambio di opinioni, l’interazione anche come dimensione sociale, così importante in una società nella quale una certa ‘passivizzazione’, anche causata da un uso acritico dei media e dell’IT sono rischi ricorrenti. Non ultima, viene favorita l’integrazione degli studenti con qualche difficoltà espressiva, l’emergere delle diverse identità nella complementarietà degli apporti. Al termine di questi momenti, l’insegnante ha guidato momenti di condivisione dei dati raccolti e soprattutto delle

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interpretazioni, chiedendo a ciascuno di motivare le sue scelte di alcuni passi dei documenti (forniti in gran parte dall’insegnante, ma in alcuni casi proposti dagli studenti). Ne sono nati confronti (sui muri), costruttivi anche se animatissimi, poiché le posizioni sono diversissime, quando non dichiaratamente opposte. Abbiamo imparato a rispettare rigorosamente i turni di parola e ad argomentare in modo logico, portando prove di quanto di volta in volta si affermasse. Abbiamo ascoltato insieme il professor Agnoletto, in due suoi interessantissimi interventi da noi organizzati anche per le altre classi sull’emigrazione italiana nel mondo e sui diritti sanciti dalla Costituzione. Andremo insieme ad ascoltare in questi giorni il professor Maurizio Ambrosini, del quale ho spiegato gli elementi essenziali del suo ultimo libro del quale mi ha fatto dono. Abbiamo guardato insieme i video realizzati lo scorso anno nell’ambito dei Linguaggi della Contemporaneità, in particolare quelli sulle partigiane che ci ha aiutato a mettere a fuoco altri movimenti(non eserciti regolari),implicati nel conflitto israelo-palestinese. Non sono mancati naturalmente momenti di lezione frontale nei quali il professore ha spiegato in forma articolata e continuativa gli aspetti storici del conflitto israelo-palestinese, nonché un intenso lavoro di ricerca e di studio preliminare del professore nell’individuazione dei saggi e dei passi dei testi, nella scelta delle fonti narrative, filosofiche, giuridiche, delle esperienze comunitarie, iconografiche, teatrali, musicali, cinematografiche, bibliche e coraniche. Detto questo, in alcuni momenti, anche alcuni studenti hanno dimostrato di essersi veramente appassionati alla ricerca e di aver letto e riflettuto a fondo sui testi, pervenendo non solo ad una loro rielaborazione personale, ma offrendo anche degli interessanti spunti interpretativi. Alcuni miei studenti hanno proseguito per conto loro la ricerca, aggiungendo elementi di riflessione e in alcuni casi documenti. Credo che intercettare le passioni giovanili sia uno dei fini dell’insegnamento, solo attraverso questa via passerà il testimone e forse si realizzerà la trasformazione degli allievi in maestri. Vi sono stati momenti di così intensa animazione e vivacità intellettuale nella ricerca ma anche etica nel riconoscimento di alcuni diritti inviolabili, di entusiasmo e sintonia che ci hanno mostrato come valga veramente la pena rinnovare la didattica, chiamare i ragazzi ad una partecipazione più attiva, lavorare in team con gli altri professori degli altri licei dei Linguaggi della contemporaneità, avere il professor De Luna e i suoi validissimi collaboratori, uno più bravo dell’altro, come nostri interlocutori. Abbiamo preso le mosse da un inquadramento storico (dopo aver tracciato un quadro sintetico della presenza dei muri nel mondo), del conflitto israelo-palestinese, all’interno del quale si colloca anche la costruzione della barriera israeliana. Abbiamo studiato la storia del conflitto israelo-palestinese. Queste lezioni sono state preparate dalla professoressa, studiando il saggio di CLAUDIO VERCELLI, STORIA DEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE (e seguendo un corso di lezioni che il professor Vercelli ha tenuto presso il teatro Franco Parenti di Milano sulla STORIA DELLO STATO DI ISRAELE). Queste lezioni sono state tenute in classe, dopo aver spiegato, nel corso dello svolgimento del programma, il sionismo, le conseguenze della Shoah, il contesto storico, nel secondo dopoguerra, della ‘guerra fredda’. L’intento è sempre stato quello di pervenire ad una comprensione ragionata degli avvenimenti, capace di tenere presente la complessità del contesto storico politico della regione palestinese e più in generale del mondo. Nella mattina in cui abbiamo tenuto il nostro Seminario (avventurandoci ‘coraggiosamente’ nei giorni della cogestione) aperto a tutti gli studenti della scuola, dopo la lezione della professoressa che ha tracciato un quadro sintetico ma organico e chiaro dei momenti cruciali del conflitto (dei soggetti coinvolti, delle loro motivazioni e posizioni politiche ed ideologiche), i momenti salienti della storia del conflitto israelo-palestinese, visti all’interno della situazione politica internazionale sono stati efficacemente riassunti ed espressi da Tommaso. Uno studente, Carlo, si è dedicato ad approfondire la situazione creatasi in diversi contesti geo-politici con la costruzione di alcuni dei muri più significativi del mondo, spiegandone le diverse ‘cause’ nei diversi contesti. Un altro studente, Riccardo, ha approfondito la storia della barriera israeliana, dalla sua prima erezione alla situazione presente, mettendone in luce le addotte

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motivazioni da parte israeliana e gli effetti per i villeggi palestinesi coinvolti. In seguito, dopo essere state spiegate in classe le dichiarazioni dell’Onu e degli altri tribunali (in particolare quello

dell’Aja e Russell) che difendono i diritti umani (in merito all’erezione della barriera), è stata assegnata a due studenti, Alfonso e Alessandro, una lettura approfondita dei testi giuridici: la dichiarazione dell’O.N.U. che afferma che la barriera costruita dallo Stato di Israele, e che è stata condannata anche dalla Corte costituzionale, vìola i diritti delle popolazioni palestinesi, come pure le dichiarazioni del Tribunale dell’Aja e del Tribunale Russell. Di questo approfondimento, Alfonso ha esposto, in breve, ma in forma giuridicamente accurata, gli esiti. Abbiamo proceduto nel nostro percorso con un’interessante e coraggiosa esperienza storiografica, quella di P.R.I.M.E. che ha visto la collaborazione di docenti e studenti israeliani e palestinesi alla redazione di una storia in parallelo dei più importanti avvenimenti storici recenti della loro terra, così da poterne leggere le differenti e contrastanti versioni dei medesimi fatti. Questo approfondimento (affidato a Francesco) si è rivelato molto significativo perché ci ha consentito di indagare le ragioni per le quali si scrive la storia e si studia la storia, tra istanze identitarie e terminus ad quem dell’obiettività. La riflessione metastorica ha acuito la nostra coscienza del carattere interpretativo di ogni narrazione storica.

Abbiamo, in seguito, letto gli articoli di un reporter di guerra che ci offrono la testimonianza di un nostro corrispondente, Vittorio Arrigoni, che, in toccanti reportage, ci ha raccontato alcuni momenti dell’avanzata dell’esercito israeliano nei villaggi palestinesi. Anche queste letture (e il loro approfondimento da parte di Pietro) ci hanno consentito di comprendere come il giornalismo possa offrirci una vivida testimonianza degli avvenimenti.

Abbiamo accostato un’esperienza, forse unica, di convivenza pacifica tra due popoli in guerra da decenni: quella di Nevè Shalom. Avendo conosciuto ad Assisi il fondatore, ho potuto trasmettere ai miei studenti il senso che lui mi trasmise della loro comunità. L’approfondimento, a partire dalla lettura di una testimonianza è stato affidato ad una studentessa, Vittoria. La studentessa ha colto con grande maturità lo spirito di Nevè Shalom, concentrandosi, in particolare sul vivacissimo resoconto fatto da una giovane ragazza della sua esperienza con i bambini palestinesi in ‘vacanza’ al villaggio: tra patemi di un’esperienza impossibile, forse anche lacerante, ma così piena di vita.

Abbiamo ascoltato la voce di alcuni scrittori israeliani (e non), profondi e responsabili interpreti delle inquietudini e delle sofferenze di questo angolo del mondo. La letteratura occupa un posto d'onore nel nostro percorso poiché siamo persuasi che la dimensione narrativa conferisca, come, anche se diversamente, il giornalismo di guerra, la poesia, il cinema, nelle sue microstorie dietro le quali si intravede sempre la storia, volti, anima e sangue alle vicende narrate. Dopo averne avviato la lettura e l’interpretazione in classe, ho affidato a tre studentesse, Jasmine, Alessia e Camilla, particolarmente sensibili, l’approfondimento dei testi: David Grossman, Con gli occhi del nemico,

la guerra che non si può vincere, A un cerbiatto somiglia il mio amore, Tahar Ben Jelloun, il pianto dei mandorli, il razzismo spiegato a mia figlia, L’Islam spiegato ai nostri figli. Alessia ha approfondito con dedizione e fine penetrazione psicologica l’analisi che David Grossmann ci offre dell’esperienza dello straniero, con il suo vissuto ansiogeno e patogeno, con le inquietudini interiori di conflitti irrisolti che porta con sè. La sua riflessione ci ha consentito di comprendere che questo saggio di Grossmann non è solo un libro sul conflitto israelo-palestinese, anche se essenzialmente tutto nel testo racconta di quel conflitto, che attraversa le loro giornate, ma un approfondimento sui nostri conflitti interiori ed esterni, sul conflitto in sé. Camilla ha letto, dopo una breve introduzione esplicativa dei temi del romanzo, le pagine di A un cerbiatto somiglia il mio amore l’angoscia, nelle quali il piccolo Ofer, scopre la piccolezza sulla carta geografica dello stato di Israele, e prova un terrore, cha assume una connotazione traumatica di essere assediato dai nemici. Jasmine ha approfondito, oltre alla lettura del testo poetico di Tahar Ben Jelloun, sulle distruzioni israeliane dei villaggi palestinesi, il suo meritatamente premiato approfondimento teorico, scritto in una forma pedagogica perché esplicitamente rivolto ai ragazzini, delle motivazioni del razzismo.

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Abbiamo, quindi, seguito un’esperienza teatrale straordinaria, quella guidata da Angelica Livne Calò, allora una giovane ragazza ebrea, che ha creato una compagnia teatrale, formata da giovani palestinesi ed ebrei, che lavora sull’elaborazione e il superamento dei conflitti. Questo approfondimento è stato affidato ad una studentessa, Laura, che frequenta da anni il laboratorio teatrale della scuola e che ha sempre rivelato di possedere l’intuizione profonda delle sue valenze: coloro che si avvicinano e che si riconoscono, se veramente si ascoltano, se ascoltano le sofferenze gli uni degli altri, non riescono più a farsi la guerra.

Abbiamo poi guardato le opere di denuncia di un artista della ‘street art’: Bansky, del quale abbiamo analizzato i temi ricorrenti e il linguaggio espressivo. Il tema è stato assegnato per un approfondimento a Jacopo, lo studente che più di ogni altro nella classe ama e conosce la street art, della quale è anche un esponente nel suo quartiere, Quarto Oggiaro. L’approfondimento gli ha consentito di comprendere che, accanto al tema della protesta e dell’atto ‘illegale’ che egli sente consono al proprio orientamento, possa esservi anche un’arte di denuncia e impegnata.

Francesco, uno studente, appassionato di cinema, che ha frequentato negli Stati Uniti una scuola di cinema e che ha curato il montaggio del nostro video, ha scritto le recensioni di due film, Il figlio

dell’altra e Il giardino dei limoni, che hanno a tema questo conflitto e che abbiamo visto. Egli ha descritto in modo consapevole l’uso degli strumenti espressivi del cinema per dare voce alle esperienze radicalmente diverse dei due ragazzi, dietro alle quali vi son quelle delle loro due madri (e padri) e dei loro due popoli.

Abbiamo letto i testi e ascoltato la voce di un grande filosofo ebreo del Novecento, Emmanuel Lévinas, in particolare sul volto dell’altro, per riflettere sulle dinamiche che portano ad erigere muri anziché aprire un dialogo e cercare di trovare un accordo. L’approfondimento è stato assegnato ad Ambrogio che, più di tutti, ha seguito con un interesse profondo le lezioni della sottoscritta sul pensiero e sui testi del filosofo.

Abbiamo cercato qualche indicazione sul divario tra la storia delle religioni, spesso attraversata dai conflitti anche di matrice religiosa, e il messaggio originario dei testi sacri. Si è rivelata particolarmente illuminante la lettura di un passo della Bibbia, da noi (e da Giacomo in particolare) interpretato con l’ausilio di un grande esegeta.

Abbiamo infine tenuto un Seminario sulla storia del conflitto israeliano-palestinese e sulla

barriera israelo-palestinese, aperto a tutti gli studenti del liceo nei giorni della cogestione della scuola: una lettura attraverso una prospettiva storica, giuridica, del giornalismo di guerra, letteraria, del teatro, dell’arte, del cinema, della filosofia, delle religioni. In questo seminario, la sottoscritta e gli studenti di classe VD hanno esposto, nel corso della mattinata, gli esiti della nostra ricerca storica. Al seminario abbiamo invitato anche il professor Maurizio Gusso, presidente di IRIS(Insegnamento e Ricerca Interdisciplinare di Storia: www.storieinrete.org), membro del Direttivo di Clio '92 (www.clio92.it), etc.…che ha ascoltato con vivo interesse le nostre due ore di Seminario, esprimendo tutto il suo supporto e la sua stima al nostro lavoro e ricordando infine alla sottoscritta, prima di congedarsi, il tema del significativo inno di Solidarnosc…ad una delle cui riunioni clandestine avevo partecipato da ragazza, invitata dai K.I.K. prima dell’89…tout se tient. In fondo, uno dei fini fondamentali delle ricerca è condividerne con altri gli esiti. Ci è sembrato giusto comunicare il frutto delle nostre ricerche a tutti gli studenti del liceo interessati soprattutto perché, non sempre, nello svolgimento dei programmi di quinta, si riescono ad affrontare i temi della storia contemporanea. Il nostro seminario è quindi andato in molti casi a colmare alcune lacune nelle conoscenze degli studenti. Il seminario ha ottenuto un numero molto alto di adesioni e i partecipanti ci hanno confermato in seguito di aver ascoltato con grande interesse quanto proposto. Ci sono pervenute, in seguito, molte

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domande. Questo, nonostante un clima di apparente disattenzione, in realtà determinato da quell’attitudine ‘disinvolta’ da ‘cogestione’ che è più ostentata che reale. E questo, anche dopo che un brain storming iniziale aveva rivelato, negli studenti presenti, accanto all’emergere in molti di un’inattesa non conoscenza delle cause del conflitto israelo-palestinese, la convinzione, del tutto erronea e irresponsabile, che sia una questione, oltre che insolubile(da molti additata come la questione insolubile tout court), tutta interna ai conflitti mediorientali della regione palestinese con la quale noi avremmo poco o nulla a che fare. Questo ci ha indotto, en passant, una riflessione sulle contraddizioni di una percezione diffusa tra i giovani di società globale dove tuttavia solo un mondo occidentale (ci si passi l’espressione ‘capitalistico’) sarebbe connesso, anzi ipnoticamente sempre connesso, mentre esisterebbero popoli, conflitti, che non farebbero la storia...che vengono percepiti come vittime senza nomi… L’attenzione che gli studenti, provenienti da tutte le classi del liceo e anche dalle classi dei professionali(odontotecnici e meccanici), hanno mostrato al nostro seminario è molto importante poiché spesso si deve registrare nel mondo giovanile una certa lontananza dai temi della politica, oltre alla presenza troppo diffusa di luoghi comuni. Forse quest’esperienza mostra che questa supposta lontananza non è del tutto vera e in ogni caso che si deve indefessamente lavorare per risvegliare le passioni giovanili, forse solo sopite, forse prese nella morsa dello scoraggiamento che la crisi economica ha creato per molti: il timore di dover restare ai margini della società, di non poter essere protagonisti della loro vita e che la società non abbia bisogno di loro. Credo fermamente che queste esperienze di approfondimento nel vivo delle questioni della contemporaneità intercettino le passioni giovanili e alimentino il desiderio, naturalmente generoso, dei giovani di dare il loro apporto alla società: è il nostro mondo di adulti a dar spesso loro, anche con le migliori intenzioni, quelle di proteggerli, di preservarli dal dolore e dalle disillusioni, il messaggio che non vi sia un vero bisogno di loro. Molto armonica, autentica e sostanziale è stata la collaborazione tra di noi, all’interno di un’interazione libera volta alla ricerca della verità, in un confronto serrato di diverse posizioni, aperti all’ascolto delle esperienze e non solo allo studio dei dati storici. Ci siamo tutti insieme posti in una posizione di ricerca, sempre più consapevoli dei processi di costruzione della storia e delle questioni che ci interrogano in profondità: è stato entusiasmante! Si costituisce una comunità di formazione all’interno della quale avviene la trasmissione generazionale nel momento stesso in cui si pongono, attraverso lo studio della storia, le questioni sociali e politiche sul presente: sono quelle che ci chiamano a passare dalla ponderata riflessione all’azione, anche umile e quotidiana ma consapevole e feconda. Di seguito, alcuni dei testi consultati e letti nel corso del Seminario. Vi presentiamo un video, frutto della registrazione nei giorni della cogestione, al quale abbiamo ‘tagliato’ la lezione iniziale del professore sulla storia del conflitto israelo-palestinese, per dare più spazio alle esposizioni dei ragazzi.

1) I MURI DEL MONDO Articoli dedicati ai Muri : The Guardian https://www.theguardian.com/world/ng-interactive/2013/nov/walls#intro (Sezione dedicata al muro di Gerusalemme) https://www.theguardian.com/world/ng-interactive/2013/nov/walls#westbank Corriere della sera http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_17/tutti-muri-mondo-eb5c054e-5d39-11e5-aee5-7e436a53f873.shtml e Internazionale http://www.internazionale.it/notizie/2015/06/18/una-mappa-dei-muri-del-mondo

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2) Abbiamo, in seguito, letto e discusso in classe alcuni articoli [ pubblicati in internet], dei quali diamo qui solo i riferimenti bibliografici:

Muri di ieri e di oggi Articolo della redazione italiana di Pressenza http://www.pressenza.com/it/2014/11/muri-di-ieri-e-di-oggi-

I MURI COSTRUITI DA ISRAELE: SOLO RAGIONI DI SICUREZZA? Scritto da Paolo Brusadin, lunedì 7 settembre 2015 in Aree Geografiche, Israele, Vicino e Medio Oriente ©www.osservatorioanalitico.com

Il cuore del nemico Il nove novembre e gli altri muri di Bijan Zarmandili

La caduta del muro di Berlino e la fine del mondo bipolare. Le barriere tra Israele e Palestina, tra Messico e Stati Uniti...e quelle virtuali. Tratto da Il cuore del nemico, blog di Bijan Zarmandili, scrittore e corrispondente di Limes per l’Iran. http://temi.repubblica.it/limes/il-nove-novembre-e-gli-altri-muri/8347?printpage=undefined Un muro, un significato David Bidussa 04 agosto 2013

http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-08-04/muro-significato-083958.shtml?uuid=Ab0j69J Di seguito i testi: 1)Abbiamo ascoltato dal sito interattivo le interviste: Strait are the gates

transcript dal sito di The Guardian, WALLS, sezione dedicata al muro di Gerusalemme. Location Israel and the West Bank First built 2002 Made of concrete, steel, razor wire Harriet Sherwood Israel started building the West Bank wall in 2002. It said the barrier was designed to prevent the incursion of Palestinian militants. Palestinians say the purpose is to grab land and impose a de facto border. The barrier takes 9.4% of the West Bank and East Jerusalem and “no-man’s land” onto the Israeli side; about 85% of Israeli settlers live between the Green Line and the barrier. Hajajla is a construction worker from al-Walaja, a village surrounded by the barrier. In 2008, we were surprised to be told by the occupation authorities that this house would be the only one in the village outside the wall. They told us this would create a lot of trouble for us, and they offered us money and land to move. My answer was that the only thing I want is my house and my land, nothing more, nothing less. Then they threatened me, but I said I am supported by someone even stronger than the state of Israel – God. They suspended my permit to work in Jerusalem. They used dynamite close to the house in the hope it would be destroyed. They harassed us every day. But we refused to leave. Now the tunnel is the only way to connect the house to the village. My children go to school two minutes away, but now it takes 45 minutes to go round the barrier. The truth is, the psychology of my children has changed. Their friends don’t come to visit them; people are scared because we live in a military zone, they can be stopped and asked for IDs. The children feel like they are living in a jail. When the barrier is finished, the whole of al-Walaja will be surrounded, with only one gate. People will be suffocated inside a cocoon. Israel says the wall is for security, but the real reason is to confiscate as much Palestinian land as they can, and to isolate us in the hope that we go away. Anastas is a Bethlehem souvenir-shop owner, whose home is surrounded on three sides. I’ve lived in this house since I got married in 1988. During the second intifada [Palestinian uprising], the soldiers used to come to our house to shoot from the roof. It was very frightening, they would wake up the children and threaten us with guns, and cage us in a corner. We lived in the middle of fear. In 2003, they built the wall around the house in one day. They blocked the entrance to our shop. They wanted us to leave, but we refused. This used to be a lively area, on what was the main road between Jerusalem and Bethlehem. Our customers were mostly [Christian] pilgrims, but also Jews. Since the wall came, we lost millions. Local people were afraid to send their children to play or come to a birthday party. We are on the front line. My daughter left to live in England because she couldn’t stand it. There are 14 in this house, including nine children. We need a permit just to go on our own roof, for “security reasons”, they tell us. We are buried alive in a big tomb. It’s inhuman. But we hope the wall will come down one day. Nothing is impossible. Amireh is unemployed, from Ni’lin village. The village land used to be 5,800 hectares (14,300 acres). Now, after the barrier and five settlements, we have 800 hectares left (1,980 acres).

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When we started our protests, we walked with our hands in the air, saying: ‘Just leave our land alone.’ But they shot at us with rubber bullets, teargas, stun grenades. They thought they would frighten us and we’d stop. But we are under occupation, we have to fight back. Five people from our village have died, and hundreds have been arrested, including many children. There are 34 people from Ni’lin still in jail. Now the barrier is complete, but we are still trying to break through it every Friday, although the numbers are fewer. The area between the village and the fence is a closed military zone. We have prayers there on Fridays, under the olive trees, to show our steadfastness. My family lost all its land, we have eight dunams (8,000 sq m) left out of 240. My father lost his permit to work in Israel because he was active in the protests and went to prison. My sister was shot in the hand at the age of 13; two of my brothers have been arrested. Eight women in the village miscarried after inhaling tear gas. The Israelis find it difficult to deal with peaceful protests. We practice unarmed resistance, but we believe it is our right to resist the occupation by all means. We’re proud of our resistance against a strong military power. If you bring a stone, they bring an F16. It is not an equal fight. If you are unarmed, it doesn’t mean you’re weak. It takes more courage to stand with a bare chest against an army. Yousef Selmi, 25. Selmi is a farmer in Qalqilya, a West Bank city enclosed by the wall, apart from one road and a tunnel to a neighbouring village. Our family has farmed this land for 45 years. Before the wall, Israeli-Arabs and Jews used to stop on the main road to buy from us. But everything is different since the wall came. Now Qalqilya is isolated. We live in a bottle. Sometimes they take off the lid, then they put it back on again. When they built the wall, they destroyed our land and everything on it. The wall devoured five or six dunams (5-6,000 sq metres). Even the local market is affected. People can’t work inside Israel now, so they can’t afford to buy fruit and vegetables. Some families don’t even have five shekels (90p) to buy bread. A lot of people don’t have work. The soldiers have a road next to the wall; they come every few days. Sometimes they give us a hard time, put us against the wall and interrogate us. We are always afraid. The wall even took our view, and stopped the breeze coming from the sea. The wall suffocates us. When I was younger, we used to go to the sea every week. Since they built the wall, I’ve not been even once. You need a permit. There’s not even one in a thousand chances that the wall will ever come down. I have no hope. Yesterday was better than today, and today is better than tomorrow. Al Jib

2)Tutti i muri del mondo 18/ 6/ 2015 da Internazionale L’Ungheria ha annunciato che costruirà un muro al confine con la Serbia per impedire ai migranti di entrare nel paese. La recinzione, che sarà lunga 175 chilometri, è solo l’ultima in ordine di tempo di una serie di barriere che sono state costruite in diversi paesi. Ecco una mappa di tutti questi muri: Arabia Saudita–Yemen Anno di costruzione: 2013 Lunghezza: 1.800 chilometri Motivo: impedire presunte infiltrazioni terroristiche Ceuta e Melilla–Marocco Anno di costruzione: 1990 Lunghezza: 8,2 chilometri e 12 chilometri Motivo: bloccare l’immigrazione irregolare dal Marocco nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla Cipro zona greca–zona turca, linea verde Anno di costruzione: 1974 Lunghezza: 300 chilometri Motivo: il muro corrisponde alla linea del cessate il fuoco voluto dall’Onu in seguito al conflitto che divise l’isola Bulgaria-Turchia Anno di costruzione: 2014 Lunghezza: 30 chilometri Motivo: arginare i flussi migratori provenienti da est Iran–Pakistan Anno di costruzione: 2007 Lunghezza: 700 chilometri

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Motivo: proteggere il confine dalle infiltrazioni dei trafficanti di droga e dei gruppi armati sunniti Israele–Egitto Anno di costruzione: 2010 Lunghezza: 230 chilometri Motivo: contrastare terrorismo e immigrazione irregolare Zimbabwe–Botswuana Anno di costruzione: 2003 Lunghezza: 482 chilometri Motivo: la motivazione ufficiale è contenere i contagi tra il bestiame ed evitare lo sconfinamento delle mandrie, ma in realtà la motivazione sembrerebbe essere quella di impedire l’arrivo di migranti irregolari Corea del Nord–Corea del Sud Anno di costruzione: 1953 Lunghezza: 4 chilometri Motivo: la divisione delle due Coree in seguito alla guerra del 1953 Marocco–Sahara occidentale, Berm Anno di costruzione: 1989 Lunghezza: 2720 chilometri Motivo: difendere il territorio marocchino dal movimento indipendentista Fronte Polisario Irlanda, Belfast cattolica–Belfast protestante, peace lines Anno di costruzione: 1969 Lunghezza: 13 chilometri Motivo: separare i cattolici e i protestanti dell’Irlanda del Nord Stati Uniti–Messico, muro di Tijuana Anno di costruzione: 1994 Lunghezza: 1.000 chilometri Motivo: impedire l’arrivo negli Stati Uniti dei migranti irregolari messicani e bloccare il traffico di droga Israele–Palestina Anno di costruzione: 2002 Lunghezza: 730 chilometri Motivo: impedire l’entrata in Israele dei palestinesi, prevenire attacchi terroristici India–Pakistan, line of control Lunghezza: 550 chilometri Motivo: dividere la regione del Kashmir in due zone, quella sotto il controllo indiano e quella sotto il controllo pachistano India–Bangladesh Anno di costruzione: 1989 Lunghezza: 4.053 chilometri Motivo: fermare il flusso di immigrati provenienti dal Bangladesh, bloccare traffici illegali e bloccare infiltrazioni terroristiche Pakistan–Afghanistan, Durand Line Lunghezza: 2.460 Motivo: chiudere i contenziosi territoriali tra i due stati che risalgono all’epoca coloniale Kuwait–Iraq Anno di costruzione: 1991 Lunghezza: 190 chilometri Motivo: arginare un’eventuale nuova invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, dopo la guerra del golfo

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Abbiamo letto alcuni articoli, pubblicati in internet:

Muri di ieri e di oggi Articolo della redazione italiana di Pressenza

(Foto di http://www.nipmagazine.it) Il 9 novembre di 25 anni fa cadeva il muro di Berlino, l’emblema della separazione tra Est ed Ovest. Con la sua caduta, l’Europa ha iniziato un percorso verso l’unificazione, fatto di parole di libertà, democrazia e pace. La fine del mondo diviso in due e la morte della Guerra Fredda e delle dittature erano delle buone premesse per un mondo che finalmente parlasse il linguaggio della pace e della nonviolenza.Tuttavia, oggi, 25

anni dopo la caduta di quel muro che divideva l’Europa a metà, sono ancora molte le barriere che continuano a dividere

popolazioni e culture diverse. Per ragioni politiche o di sicurezza queste barriere alimentano tensioni e conflitti. In un’epoca in cui la globalizzazione avrebbe dovuto abbattere le barriere, nuovi muri continuano ad essere eretti, ottenendo effetti, come dimostra la storia, totalmente opposti a quelli desiderati. Il mondo di oggi, di fronte ad una crisi umanitaria che sta mettendo in ginocchio Oriente ed Occidente, invece di eliminare le frontiere continua a costruirne. Il muro è un paradosso dei nostri tempi, difficile da spiegabile in un mondo in cui la libera circolazione di merci e di persone dovrebbe essere un obiettivo fondamentale e un valore irrinunciabile per una crescita economica e sociale. Oltre ad impedire lo sviluppo economico dei Paesi, i muri a volte, come quello tra Israele e Gaza, imprigionano e violano i diritti fondamentali e le libertà delle persone, primi tra tutti il diritto di movimento, al lavoro e alla salute. I muri limitano l’accesso alle risorse e non permettono di condurre una vita dignitosa. Nel caso della Palestina poi, il muro di separazione, dichiarato illegale dall’Onu già dal 2004, invece di essere una “soluzione temporanea” al conflitto diventa una realtà permanente di apartheid. Di acciaio o di cemento, con torrette di guardia o

filo spinato, gli esseri umani continuano a costruire barriere di separazione e “muri della vergogna” in numero sempre più elevato. Come spiegano le analisi del Guardian, circa 6.000 miglia di

muri sono state costruite solo nell’ultimo decennio. Ecco alcune tra le barriere di separazione più controverse, impressionanti e contestate oggi.

La barriera di separazione israeliana Un palestinese davanti al muro

eretto dal governo israeliano nella città di Qalqilya, in Cisgiordania.

Anche detto “il muro della vergogna” o “muro dell’apartheid” è un sistema di barriere fisiche costruito da Israele in Cisgiordania a

partire dal 2002 sotto il nome di security fence (chiusura di sicurezza), allo scopo, secondo Israele, di impedire fisicamente l’intrusione di “militanti” palestinesi nel territorio israeliano. Secondo i palestinesi invece lo scopo è quello di rubare altra terra ed imporre un confine de facto. La barriera occupa il 9,4% della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Lunga 730 km, ingloba la maggior parte delle colonie illegali israeliane (circa l’85% dei coloni israeliani vivono tra la Linea Verde e la barriera) e la quasi totalità dei pozzi d’acqua. Essa si discosta in certi posti a più di 28 chilometri dalla Linea Verde, il che significa che i confini della Linea non vengono rispettati da Israele. Questa barriera consiste in una successione di muri, trincee e porte elettroniche ed è l’emblema dell’occupazione israeliana in Cisgiordania, in quanto gran parte di essa è costruita su terre confiscate ai palestinesi. I contadini sono ormai costretti a chiedere permessi alle autorità israeliane per accedere alle loro terre situate dall’altra parte della barriera.Una delle aree che più hanno sofferto per la costruzione di questo muro è sicuramente il distretto di Qalqilya che è passato da area in forte espansione a zona cuscinetto con la più alta disoccupazione di tutta la Cisgiordania. Nel 2003, la costruzione del muro israeliano ha diviso in due il distretto, rendendo inaccessibili la metà dei terreni agricoli, fonte di reddito primaria per la popolazione. Gli agricoltori sono stati privati di gran parte dei loro mezzi di sussistenza, il muro ha spaccato in due i terreni agricoli, parte dei quali, rimasti dal lato israeliano, sono diventati inaccessibili. Qui si trova anche la principale

falda acquifera di tutta la Cisgiordania e secondo le stime della Banca Mondiale, Israele estrae circa l’80% del “potenziale stimato” da questa falda mettendo così a rischio la sostenibilità di questa risorsa.Nel 2004 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha fortemente criticato la costruzione della barriera ricordando che il muro ed il regime che gli è associato sono contrari al diritto internazionale. Molti artisti esponenti della “guerrilla art“, tra cui Banksy, hanno eseguito sul muro disegni e graffiti a sfondo provocatorio e di protesta.

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La barriera al confine tra Stati Uniti e Messico Croci appese sul lato messicano del muro di confine a Nogales, in Messico, per

commemorare le 4.000 persone che hanno perso la vita nel tentativo di

attraversare il deserto in cerca di una vita migliore negli Stati Uniti.

Anche questa barriera è chiamata “muro della vergogna”. Prima dell’amministrazione Clinton erano poche e distanziate le barriere fisiche lungo questo confine. A partire dal 1993, con la barriera tra El Paso e Ciudad Juárez e poi nel 1994 tra San Diego e Tijuana, gli Stati Uniti hanno iniziato un vero e proprio giro di vite intorno ai principali punti di attraversamento secondo l’ottica di

un triplice progetto antimmigrazione: il progetto Gatekeeper, in California, il progetto Hold-the-Line in Texas ed il progetto Safeguard in Arizona. Gli attacchi dell’11 settembre e la guerra al terrorismo che ne è seguita hanno poi rafforzato l’idea che il Paese avesse bisogno di impedire il passaggio di terroristi insieme ai migranti, ma il motivo principale era quello di limitare l’immigrazione dal Sud e Centro America.Bush e poi Obama hanno costruito barriere sempre più salde e controlli sempre più robusti lungo questo confine. La barriera tra Tijuana e San Diego è fatta di lamiera metallica ed è alta dai 2 ai 4 metri ed illuminata ad alta intensità. È dotata di una rete di sensori elettronici e di strumentazione per la visione notturna, oltre ad un sistema di vigilanza permanente effettuato dagli elicotteri. Il confine tra Stati Uniti d’America e Messico, lungo 3.140 km, attraversa territori di diversa conformazione, aree urbane e deserti. Dal lato statunitense la barriera è situata nelle sezioni urbane del confine, come San Diego, mentre dal lato messicano è situata nel deserto di Sonora. Migliaia di persone, soprattutto messicani, sono morte in questi anni tentando di superare la barriera. Il risultato immediato della sua costruzione, contrariamente agli scopi per cui è stata eretta, è stato un numero sempre crescente di persone che hanno cercato di varcare illegalmente il confine, attraverso il deserto di Sonora, o valicando il monte Baboquivari, in Arizona. Questi clandestini hanno dovuto percorrere circa 80

km di territorio inospitale prima di raggiungere la prima strada. Tra il 1 ottobre 2003 ed il 30 aprile 2004, 660.390

persone sono state arrestate dalla polizia di confine statunitense mentre cercavano di attraversare illegalmente il confine. Nello stesso periodo dalle 43 alle 61 persone sono morte mentre cercavano di attraversare il deserto di Sonora.

Il muro marocchino Il muro del Sahara Occidentale, confine tra

Mauritania e Marocco.

È una berma di sabbia e pietra di lunghezza superiore ai 2.720 km, costruita dal Marocco nel Sahara Occidentale per difendersi, a suo dire, dal Fronte Polisario. Tuttavia non è una struttura solo difensiva ma una zona militare a tutti gli effetti con bunker, fossati, reticolati di filo spinato e campi minati.

Il campo minato che corre lungo il perimetro è quello con la più alta concentrazione di mine al mondo e si stima sia formato da circa 4.000 mine anti uomo per chilometro quadrato. Si tratta della barriera più grande del mondo dopo la muraglia cinese. Una parte del muro marocchino si estende per diversi chilometri anche nel territorio mauritano. Da decenni, il Marocco avanza pretese su quest’area ricca di fosfati, inducendo la popolazione locale, i Saharawi, ad opporre resistenza attraverso il Fronte Polisario, che combatte dal 1975 per l’autodeterminazione del popolo Saharawi. Già nel 1960 l’ONU votò la risoluzione n.1514 con la quale si riconosceva il diritto all’indipendenza per le popolazioni dei Paesi colonizzati e nel 1963 il Sahara Occidentale fu incluso nell’elenco dei paesi da decolonizzare. Il Polisario è riuscito ad allontanare la Spagna e la Mauritania che rinunciarono a quel territorio rispettivamente nel 1975 e nel 1979, ma i marocchini non si sono mai arresi e con l’aiuto della Francia, di Israele e degli Stati Uniti, hanno messo a punto una strategia basata sulla costruzione di muri nel deserto. Quando l’Onu ordinò il cessate il fuoco nel 1991 erano stati eretti sei muri che si estendevano per tutto il territorio del Sahara Occidentale. Oggi gran parte dei Saharawi vive nei campi per rifugiati allestiti in una striscia di deserto tra Algeria e Marocco, in condizioni durissime ai limiti della

sopravvivenza. L’ultimo muro d’Europa, quello tra Grecia e Turchia Barriera di filo spinato a Evros, confine tra Grecia e Turchia

Il muro di Evros, al confine tra Grecia e Tuchia, è stato costruito dal governo greco nel 2012 per fermare l’immigrazione clandestina alla frontiera terrestre tra Grecia e Turchia. Segno di un continente che si chiude verso

sud (e non più verso est), questa barriera, una recinzione costata alla Grecia 3 milioni di euro, avrebbe dovuto comprendere anche un fossato, ma a causa dei costi molto elevati, la Grecia ha deciso di mantenere soltanto una doppia barriera di reticolato e filo spinato alta quattro metri. L’Unione Europea non ha finanziato questa barriera (ritenendola un “affare interno”) ma non l’ha messa in discussione, e altri Paesi, come la Francia, hanno incoraggiato la sua

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costruzione. Lunga 12 chilometri e mezzo, si estende lungo il confine naturale del fiume Evros, uno dei confini più oltrepassati negli ultimi dieci anni (Frontex ha stimato una media di 250/300 tentativi di ingresso al giorno) il confine naturale tra Europa ed Asia. Da qui arrivano immigranti da Afghanistan, Pakistan, Armenia, Kurdistan, Iraq, Siria, Somalia, Egitto e dal Nord Africa.Sempre più dura diventa la realtà dei migranti in Grecia, dove da qualche anno è cresciuto a dismisura un sentimento forte di xenofobia e ostilità verso gli immigrati e le comunità rom. Numerosi sono stati gli attacchi

razzisti da parte dei membri del partito di estrema destra Alba dorata.

Il muri delle enclavi spagnole in Nord Africa, Melilla e Ceuta

La barriera di Ceuta illuminata di notte

Altro esempio del fallimento europeo in fatto di gestione della crisi umanitaria è quello di Ceuta e Melilla, le enclavi spagnole in Nord Africa. Fino agli anni ’90, il confine tra il Marocco e queste città spagnole era appena percettibile, vi erano poche barriere fisiche e un flusso continuo di persone e merci. Marocchini e spagnoli andavano e venivano senza restrizioni, il che rendeva difficile capire esattamente dove finiva un Paese e iniziava l’altro.Ma quando l’immigrazione di massa dall’Africa occidentale verso l’Europa è decollata, la richiesta europea di una barriera fisica permanente ha portato allo sviluppo della recinzione che oggi si erige per più di sei metri, con sensori hi-tech, filo spinato e guardie armate 24 ore su 24. Qui è dove la Fortezza Europa incontra l’Africa del nord.

La barriera di Melilla

Il prezzo di questi muri metallici, 30 milioni di euro, è stato pagato dalla Comunità Europea e sono formati da barriere parallele di 6 metri di altezza, con posti di vigilanza alternati. Dei cavi posti sul terreno connettono una rete di sensori

elettronici acustici e visivi. È dotata di un’illuminazione ad alta intensità, di un sistema di videocamere di vigilanza a circuito chiuso e strumenti per la visione notturna. La barriera è lunga 8 km a Ceuta e 12 km a Melilla ed è costata all’Ue 140 milioni di investimenti in 15

anni. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha denunciato recentemente la proposta avanzata dal governo spagnolo di legalizzare i respingimenti automatici di coloro che cercano di oltrepassare le recinzioni di confine per entrare nelle sue enclavi in Nord Africa. La proposta introduce il concetto di “rifiuto alla frontiera” (“rechazo en frontera” in spagnolo) e mira a legalizzare l’attuale prassi dei respingimenti. Una pratica simile non permetterebbe più ai migranti in fuga da persecuzioni e conflitti di fare richiesta di asilo.

I 99 muri di Belfast Un tratto delle ‘Peace Lines’ di Belfast

Sono 99 i muri che dividono Belfast. Li chiamano “Peace Lines” (muri della pace), un ossimoro quando si parla di muri che dividono religioni, classi sociali e popolazioni. In questo caso la separazione è quella tra le comunità

protestanti e quelle cattoliche. Sono stati costruiti a partire dal 1969 dopo lo scoppio della fase più recente del conflitto nordirlandese, anche detto Troubles. I residenti di Short Strand, una parte cattolica di East Belfast, per difendersi dagli attacchi dei lealisti crearono dei muri di protezione che furono in seguito rinforzati e ai quali si aggiunsero nuovi tratti di barriere fino a raggiungere gli attuali 15 km di lunghezza, gran parte dei quali tra Belfast e Derry.Costano allo stato circa 1 miliardo di sterline l’anno e sono alti fino a 8 metri, composti di metallo, cemento e di reticolati di filo spinato. Hanno dei cancelli sorvegliati dalla polizia che vengono chiusi di notte. Dividono e segregano le due comunità che hanno ben pochi contatti l’una con l’altra perché la paura gioca ancora un ruolo molto importante. I cittadini si sentono al sicuro al riparo delle barriere, che da quasi mezzo secolo li proteggono dai lanci di sassi, bottiglie e petardi della parte avversa. La povertà persistente mantiene vivo il risentimento e le barriere psicologiche tanto quanto quelle fisiche.

Le condizioni di vita dei quartieri popolari infatti non sono migliorate rispetto a quarant’anni fa e questo impedisce lo sviluppo di quel progresso che porterebbe ad abbattere i muri invece che nascondersi dietro di essi. Dopo gli Accordi del Venerdì Santo, che hanno spento il conflitto almeno apparentemente e trovato una soluzione definitiva nel primo governo di coalizione fra i repubblicani del Sinn Fein e gli unionisti del Dup, nel 2007, nessuna delle barriere che dividono le due comunità è stata distrutta. Anzi, ne sono sorte di nuove e quelle esistenti sono state rinforzate, segno che questi muri hanno davvero poco a che vedere con la pace. Oggi le Peace Lines sono una delle principali attrazioni turistiche della città.

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La barriera tra le due Coree

Messaggi di carta colorata sulla barriera che divide le due Coree che incitano alla

loro riunificazione. La Guerra di Corea (1950-1953) separò la Corea del Nord da quella del Sud con la zona demilitarizzata o ZDC. L’attrito, creato alla fine della Seconda Guerra Mondiale da Stati Uniti e Unione

Sovietica che occuparono l’area e dividendola in zone d’influenza lungo il 38° parallelo, si prolungò durante i decenni successivi a causa di divergenze politiche sociali ed economiche che hanno mantenuto i due stati tecnicamente in conflitto dalla Guerra Fredda fino ad oggi. La DMZ si estende per 155 miglia da est a ovest ed è fiancheggiata lungo il suo perimetro nord e sud da recinzioni con

filo spinato. Una fascia di quattro chilometri, disseminata di mine e sorvegliata da oltre 1.000 posti di guardia, per impedire invasioni e defezioni. Queste barriere sono state erette nel 1953 dopo che l’armistizio tra le due Coree ha definito l’esatto confine entro cui entrambe le parti dovevano ritirarsi. La recinzione è regolarmente pattugliata da soldati che indossano contrassegni speciali per indicare al nemico che le loro intenzioni non sono ostili. I soldati di entrambe le parti possono pattugliare all’interno della DMZ, ma non è loro permesso attraversare la linea di demarcazione militare che divide le due zone.Come spiega The Guardian, al confine si trovano numerosi posti di sorveglianza e quasi due milioni di soldati nascosti tra le colline e le montagne vicine, di questi circa 640.00 sono sudcoreani e 28.000 degli Stati Uniti. Gli esperti ritengono circa il 60% delle risorse militari della Corea del Nord, tra cui 600.000 truppe, armi convenzionali e nucleari, si trovano nell’area della DMZ. Centinaia di sudcoreani, nordamericani e nordcoreani sono stati uccisi durante scontri nel corso degli ultimi 60 anni.

Dandong, Cina. La Cina ha costruito nel 2003 un muro lungo il confine con la Corea del Nord in seguito agli

esperimenti nucleari condotti dal governo di Pyongyang

Molti altri sono i muri che dividono il mondo. L’Arabia Saudita ha costruito recentemente un muro di cemento al confine con lo Yemen, attrezzato con le più sofisticate e moderne tecnologie di sorveglianza, per “proteggere” il Paese dagli immigrati provenienti dallo Yemen.

Il Botswana ha eretto una barriera elettrica metallica, lunga 500 chilometri, al confine con lo Zimbabwe. Un muro di due metri di altezza edificato con lo scopo di prevenire la diffusione di malattie infettive tra il bestiame ma che effettivamente voleva essere una

barriera contro i civili in fuga dallo Zimbabwe.

Tra India e Pakistan esiste una linea di demarcazione militare chiamata “Linea di Controllo”, che si estende per 3.300 chilometri e dal 1949 divide la regione del Kashmir in due zone: quella sotto il controllo indiano e quella sotto il controllo pachistano.

Il conflitto siriano ha portato invece alla costruzione di muri nella città di Homs per dividere la popolazione sulla base della religione e della fedeltà al regime di Assad, mentre in Brasile, nel 1978, sono stati eretti muri per edificare un santuario metropolitano, Alphaville, che difendesse l’élite metropolitana dalla criminalità della città.

Altri muri sono stati costruiti tra Thailandia e Malesia, Israele ed Egitto, Iran e Pakistan e la lista potrebbe continuare ancora a lungo a dimostrazione che il muro di Berlino e la storia non hanno in fondo molto sulla risoluzione dei conflitti. Mentre il muro di Berlino con la sua caduta accendeva la speranza di un mondo libero e senza frontiere, altre barriere venivano erette con lo scopo di “portare la pace”. Tuttavia nessuna pace è mai arrivata con un muro o una frontiera. Mai un muro potrà risolvere un conflitto, ma solo placarlo temporaneamente, quando non lo alimenta creando attriti e risentimenti sempre maggiori.

Un mondo fatto di muri e frontiere in cui gli esseri umani sono segregati, bloccati o semplicemente nascosti non sarà mai un mondo fatto di pace, nonviolenza e cooperazione. In un momento storico come questo, in cui la crisi umanitaria aumenta di pari passo ai conflitti, i governi e gli stati dovrebbero invece optare per soluzioni che guardano alla cooperazione e alla solidarietà.

http://www.pressenza.com/it/2014/11/muri-di-ieri-e-di-oggi-

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I MURI COSTRUITI DA ISRAELE: SOLO RAGIONI DI SICUREZZA?

Scritto da Paolo Brusadin , lunedì 7 settembre 2015 in Aree Geografiche, Israele, Vicino e Medio Oriente

Il ‘Muro’ di Israele

E’ un obbligo scientifico riflettere sui ‘Muri’ costruiti o da costruire….a cosa servono in realtà, oltre alle dichiarazioni

di vario genere dei governanti?

Il Direttore scientifico: Maria Gabriella Pasqualini

La storia insegna che tutti i muri costruiti per dividere popoli ed etnie (il Muro di Berlino è l’esempio più famoso nel recente passato), alla fine sono destinati a cadere senza raggiungere -se non parzialmente, limitatamente e a caro prezzo anche in vite umane- l’obiettivo per cui sono stati eretti. I muri degli israeliani seguiranno la stessa sorte? Quelli costruiti nel passato sì, per i “nuovi” lo dirà il tempo. Sin dalla sua fondazione, lo Stato di Israele ha sempre avuto l’obiettivo strategico, in ragione della sicurezza nazionale, di costruire delle barriere divisorie con i paesi arabi. Tale obiettivo, nel corso della sua travagliata storia, non è mai cambiato. Infatti, l’idea della separazione delle diverse “civilizzazioni” espresso dal padre fondatore del sionismo, Theodor Herzl, è la stessa espressa molto tempo dopo da Ariel Sharon. Ciò che si percepisce è che, probabilmente, la volontà di perpetrare la separazione tra arabi e israeliani, è la conseguenza del perenne stato di paura in cui vive Israele. Paura che ha fatto costruire diverse barriere: nei territori palestinesi, lungo i confini, nei territori occupati militarmente nella penisola del Sinai e del Golan, nel West Bank. Già negli anni Trenta fu costruito un primo muro lungo il confine tra la Palestina e il Libano, per evitare il flusso di persone dal nord della Palestina. Un muro che negli anni Settanta fu ricostruito dagli israeliani, senza peraltro rispettare appieno il vecchio tracciato, allungato verso nord nella seconda metà degli anni Ottanta, a seguito di un attentato in cui morirono dodici soldati israeliani. Il muro è considerato la spina dorsale della difesa passiva d’Israele lungo la parte nord del suo confine e, tra tutti i muri, è quello tecnologicamente più avanzato. Filo spinato, sensori sofisticati, infrarossi, circuiti televisivi, punti di rilevamento delle impronte e pattuglie che non hanno però impedito nel 2006 a dei militanti di Hezbollah di penetrare all’interno e uccidere cinque soldati israeliani. A seguito dell’occupazione delle alture del Golan nel 1967, Israele iniziò a costruire un muro, completato nel 1975, con l’intento di separarle dalla Siria e colonizzarle. La situazione è rimasta sotto controllo sino al 2011 quando la barriera fu violata a seguito di violente proteste da parte dei siriani e palestinesi in concomitanza con le commemorazioni delle guerre Naqba e Naksa. La reazione dell’esercito d’Israele provocò la morte di una trentina di manifestanti. Per prevenire le proteste fu eretto un nuovo muro, lungo quattro chilometri e alto una decina di metri, da Maid al-Shams fino a Quneitra. Un muro che ha provocato le reazioni, e continua a suscitare un forte risentimento da parte delle autorità siriane, per la separazione “razzista” dei siriani di stirpe drusa con la terra madre del Golan. Sino al 1994, la Giordania ha riconosciuto il confine con Israele in conformità a quanto sancito dall’armistizio del 1949; dopo il 1994 il confine è regolato dal trattato di pace secondo le due risoluzioni delle Nazioni Unite del 1967 e del 1973. 1961: iniziava la costruzione del Muro di Berlino. Tra tutti i confini, quello con la Giordania è certamente il più tranquillo, ma non manca il filo spinato che, partendo dal Mar Morto arriva al Mar Rosso, e non manca una divisione, anche se non continua, lunga più di duecento chilometri di confine. Nel 2011 il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu rilanciò l’idea di pianificare la costruzione di un nuovo muro allo scopo di prevenire l’infiltrazione di contrabbandieri ed eventuali attacchi, ma tale progetto sta andando a rilento nella sua effettiva realizzazione. Altri muri hanno costellato la storia di Israele, tra cui la famosa linea Bar-lev, costruita dopo la conquista del Sinai nel 1967 durante la guerra dei sei giorni contro gli egiziani, che costeggiava per più di centosettanta chilometri tutta la parte est del Canale di Suez. Tuttavia, la costruzione di un muro di sabbia per preservare i vantaggi militari acquisiti, mantenere la favorevole posizione strategica e prevenire gli attacchi da parte dell’esercito egiziano, non durò moltissimo. Infatti, gli egiziani, nel corso dell’offensiva dell’ottobre 1973 riuscirono a trasformare il muro di sabbia in un vantaggio strategico a loro favore e, nascondendosi dalla visuale del nemico, riuscirono a pianificare un attacco a sorpresa contro l’esercito israeliano. Gaza è stata militarmente occupata da Israele a partire dalla guerra dei sei giorni nel 1967, non rispettando appieno la risoluzione 242 delle Nazioni Unite dello stesso anno che prevedeva il ritiro completo delle truppe israeliane dai territori occupati. L’idea di costruire un muro attorno alla cittadina di Gaza, con l’obiettivo di isolare i palestinesi dal resto del mondo, iniziò a palesarsi più di trent’anni fa con l’allora Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin. In due anni fu eretto un muro, abbattuto dai palestinesi e nuovamente ricostruito dagli israeliani nei primi anni duemila. In seguito, Israele costruì anche un muro lungo il confine tra Gaza e l’Egitto. In fasi successive si arrivò alla dichiarazione, da parte di Israele, che la Striscia di Gaza era da considerarsi zona militare. Una dichiarazione rimasta valida sino alla metà degli anni duemila, quando Israele iniziò lentamente a ridurre la pressione militare lasciando gradualmente il controllo della zona all’European Union Border

Assistant Mission EUBAM. La dimostrazione dell’inefficacia degli undici chilometri di muro che separa Israele con Gaza, sono i numerosi e continui attacchi dei militanti palestinesi con razzi e missili. Attacchi e contro attacchi che hanno spesso colpito l’inerme popolazione d’entrambi le parti. Undici chilometri di muro alto più di dieci metri con tecnologia sofisticata e con solo tre blindatissimi varchi autorizzati per il passaggio di uomini e merci, Beit Hanoun nel

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Nord, el Montar ad Est e Rafah a Sud che, in definitiva, si sono rivelati inefficaci. Nel 1995 l’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin propose la costruzione di un muro lungo la così detta West Bank, compresa la zona est della città Santa Gerusalemme. Ben presto però l’idea fu accantonata per paura delle reazioni da parte dei coloni israeliani e il rischio del venir meno del progetto di un grande Israele. L’anno dopo però furono istallati dei checkpoints sulla falsa riga di quelli esistenti a Erez, per il controllo in entrata e uscita della popolazione nella striscia di Gaza. Nel 2000, a causa di un continuo crescendo di tensione dopo lo scoppio della seconda intifada e un’escalation degli attacchi armati, il Primo Ministro israeliano Ehud Barack fece approvare un piano per la creazione di una barriera per limitare il transito dei mezzi. Nel 2002 fu decisa la costruzione di un muro in tre zone ritenute particolarmente vulnerabili: la regione Umm el-

Fahm e i villaggi di Baka e Barta’a, la regione di Qalqilya-Tulkarm e la zona della Grande Gerusalemme. Il passo successivo fu la costruzione di un muro senza soluzione di continuità non solo per separare gli israeliani dai palestinesi, ma gli stessi palestinesi dalla loro terra. Un muro che supera i settecento kilometri di lunghezza, il doppio della vecchia “linea verde” tracciata a seguito dell’armistizio del 1949. Un muro costruito e voluto dagli israeliani in nome della sicurezza, rigettato dai palestinesi perché, con esso, Israele perpetua la sua occupazione e colonizzazione delle terre palestinesi. Una guerra senza fine. Tutte queste barriere e tutti gli sforzi, anche finanziari, compiuti dagli

Israeliani, alla fine hanno prodotto dei risultati tangibili? Sembra proprio di no, almeno non per quanto riguarda la sicurezza, giacché gli israeliani vivono in una regione circondati da palestinesi e arabi che continuano a disconoscerli quali cittadini dello Stato d’Israele. Israele che continua a vivere in un perenne stato d’insicurezza e di paura in una regione in cui la fiducia nei suoi confronti in quanto Stato -e soprattutto della sua politica- non riesce a raggiungere quel minimo standard che garantisca una convivenza pacifica in tutta l’area. E la storia insegna…. ©www.osservatorioanalitico.com – Riproduzione riservata

Il cuore del nemico

Il nove novembre e gli altri muri

di Bijan Zarmandili

La caduta del muro di Berlino e la fine del mondo bipolare. Le barriere tra Israele e Palestina, tra Messico e Stati Uniti...e quelle virtuali.

Il 9 novembre sono stati celebrati i vent’anni dal crollo del muro di Berlino e basta leggere articoli e dossier che diversi media hanno dedicato a quel tema per capire le profonde trasformazioni che il mondo ha subito dalla fine del mondo bipolare. Sappiamo inoltre che, demolito il muro di Berlino, nel corso degli anni seguenti si sono alzati altri muri, forse meno famosi e meno simbolici, comunque dei muri, e alcuni carichi di altrettanti significati drammatici come è stato quello tra le due Germanie. E’ certamente tale quello che è stato alzato tra la Cisgiordania e lo Stato palestinese, emblema di uno dei conflitti, quello israelo-palestinese, tra i più insidiosi ereditati dalla fine della seconda guerra mondiale. Oppure il muro elevato contro l’esodo dei poveri dell’America meridionale verso l’America ricca del nord, e da dimenticare è il muro d’ acqua nel Mediterraneo che divide l’Europa opulenta dall’Africa affamata. Si rischia tuttavia di dimenticare altri muri, magari virtuali, ma non per questo meno significativi: muri tra civiltà, tra religioni, tra culture che si sono alzati negli ultimi vent’anni mutando profondamente l’aspetto geopolitico e geoculturale del mondo post muro di Berlino. Lo scontro tra le civiltà era stato teorizzato, vi ricordate?, dall’americano Samuel P. Huntington e aveva trovato diversi sostenitori un po’ in tutto il mondo occidentale. I blocchi marmorei di questo muro sono stati posati nel corso degli anni dagli strateghi del terrorismo, dagli integralisti religiosi e dal cinici politici dei "mondi contrapposti", provocando guerre, devastazioni, miseria e morte, ma anche odio. Nel romanzo "Il cuore del nemico" racconto ciò che può accadere dietro a quel muro virtuale costruito con l’odio e con la follia, che viene demolito però dall’antica saggezza di un gruppo di uomini e donne che abitano su un’isola incontaminata, forse ignari sia della costruzione del muro di Berlino che del suo crollo: metafora di un mondo senza confini. Tratto da Il cuore del nemico, blog di Bijan Zarmandili, scrittore e corrispondente di Limes per l’Iran. http://temi.repubblica.it/limes/il-nove-novembre-e-gli-altri-muri/8347?printpage=undefined

Un muro, un significato David Bidussa 04 agosto 2013

Le frontiere, scrive lo storico Lucien Febvre a metà degli anni '20, segnano luoghi di passaggio, più che linee di interdizione. L'idea di Febvre è che i luoghi di confine sono punti di sutura più che di frattura. Fine della politica è nel proporli appunto come luoghi di sutura per fare in modo che lo siano per davvero: la geografia non è mai ciò che c'è e la politica è uno strumento per fare in modo che la geografia non sia il registro dei conflitti. Una conclusione che ha un doppio significato: da una parte le frontiere non sono oggetti dati, hanno una storia e nascono in relazione a un rapporto tra attori che si fronteggiano. Dall'altra ci sono muri diversi che rinviano a cause, funzioni e anche storie distinte. Ci sono muri che indicano una coabitazione guardinga più che una distanza. Così accade nell'antichità. È per esempio il caso del tracciato fortificato che segue il Reno e che divide Roma dai Germani. L'effetto, nel tempo, è quello di creare i

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Germani come coscienza di sé. Finalità simili ha la muraglia cinese, volta più al contenimento che non alla separazione. Un muro diverso è quello del vallo danese costruito nell'Alto Medioevo per impedire ad altri di invadere la Danimarca. Il timore è quello che giungano dei barbari da Sud, salvando il proprio livello di civiltà. Nel tempo il risultato sarà opposto, decretandone l'isolamento rispetto ai ritmi dello sviluppo europeo. Ma quella del vallo danese, più che un'ironia della storia, dice di una regola: si erge un muro di separazione, una muraglia che è di difesa e di frontiera, quest'ultima sempre per iniziativa unilaterale, perché non si vuole frequentare chi sta dall'altra parte. Accade a Manhattan già nel '600 in quella che è oggi Wall Street, un luogo che al momento dell'insediamento olandese e poi degli inglesi, successivamente, segna lo spartiacque tra nuovi arrivati e la popolazione indigena che viene collocata dall'altra parte.Diverso il caso dei muri di prescrizione. Il fine non è non frequentare qualcuno, ma controllarlo. I muri dei lazzaretti, le zone di reclusorio isolate dal resto della città negli episodi di epidemie sono esempi di questo tipo. Così come i ghetti ebraici che si diffondono in Europa a partire dal '500. Spazi urbani che servono a controllare una popolazione, ma che talora sono anche dei territori di rifugio per i loro abitanti (è ciò che accade nei giorni di Carnevale, quando per gli ebrei il ghetto diventa una protezione, più che una prigione, perché li sottrae al possibile linciaggio della folla). Il ghetto così non è solo una struttura di costrizione, talora è anche uno scheletro che "salva" e, nel tempo, fornisce identità. È uno dei motivi per cui l'abolizione del ghetto non significa automaticamente fuoriuscita dei suoi abitanti/reclusi da quel territorio. Spesso, al contrario, si traduce in ulteriore radicamento in quel luogo. Ma i muri hanno anche altre funzioni. Un fine fiscale, oppure un luogo di memoria. In entrambi i casi è emblematico il caso di Parigi. Il disegno del perimetro murario a fine '700 stabilisce il regolamento daziario e differenzia chi cade dentro la fiscalità e chi ne è esente. A fine '800 il muro dei federati, il luogo dove migliaia di insorti della Comune di Parigi (marzo-maggio 1871) sono uccisi tra il 24 e il 28 maggio, diventa mèta di pellegrinaggio dei cortei della sinistra, dall'inizio del Novecento a oggi. Il Muro di Berlino raduna tutte le funzioni illustrate finora: muro di costrizione, frontiera, luogo di esclusione. Una icona della divisione che nel momento in cui si disintegra, la notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, con centinaia di migliaia di persone che l'attraversano sembra decretare la fine dell'idea stessa di separazione e che per alcuni significa anche il ritrovamento di una parte della propria vita come dirà Mstislav Rostropovich: l'11 novembre in mezzo alla folla si presenta di fronte al muro per suonare il suo violoncello e ritrovare in quel luogo, come dirà, l'altra metà della sua vita spezzata in due dall'esilio. I muri non sono finiti allora. Nei 25 anni circa che ci separano da quella scena, nuovi muri sono sorti in molte parti. Muri di separazione che dividono popolazioni in conflitto (a Gaza e in Cisgiordania, a Hong Kong, per esempio) ma soprattutto di protezione. Sono ora i ricchi che si isolano in nome della sicurezza, della tranquillità, del silenzio, del diritto alla propria privacy. Con ciò segnando anche un differente significato delle parole.Pubblico significa "invasione di campo", privato diventa sinonimo di salvaguardia. Forse è cominciata un'altra storia, suggerisce Quétel, e i muri di oggi sono destinati ad avere un futuro, più che essere un residuo del passato: non più segno della vergogna o dell'offesa, ma della tutela. Per questo, suggerisce, la loro abolizione non è più una priorità. Magari teorizzando che ognuno ha diritto al suo muro. È la conseguenza della società multiculturale anziché dell'intercultura. Una condizione che propone spazi per tutti, ma senza contaminarsi. Coabitando, ma senza mescolarsi. Ciascuno « a casa sua.

http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-08-04/muro-significato-083958.shtml?uuid=Ab0j69J

3) IL MURO DI GERUSALEMME

Barriera di separazione israeliana Da Wikipedia, l'enciclopedia libera [VEDI NOTE BIBLIOGRAFICHE DEL TESTO]. Tracciato della "Barriera di separazione" approvato nel luglio 2006, ma teoricamente suscettibile di modifica. La barriera di separazione israeliana (in ebraico: ההפרדה גדר, o ההפרדה חומת, od anche הביטחון גדר, rispettivamente "barriera di separazione", "muro di separazione"; in arabo: ارqr stuvاwxxxxxxxxxxxxyزل إ}~ , "barriera di separazione israeliana") è un sistema di barriere fisiche costruito da Israele in Cisgiordania a partire dalla primavera del 2002[1] sotto il nome di chiusura di sicurezza (o security fence in inglese), con lo scopo d'impedire l'intrusione dei terroristi palestinesi nel territorio nazionale. La barriera, il cui tracciato di circa 700 km è controverso ed è stato ridisegnato più volte particolarmente a causa di pressioni internazionali, consiste per tutta la sua lunghezza in una alternanza di muro e reticolato, con porte elettroniche. Questa barriera è chiamata muro salva-vita da un lato, muro della vergogna o muro dell'annessione dall'altro. Alcuni parlano anche di muro dell'Apartheid. I palestinesi si riferiscono spesso a questa barriera usando l'espressione araba jidār al-faṣl al-ʿunṣūrī, che può significare tanto muro di separazione razziale, quanto muro di separazione razzista. Il nome ufficiale che lo Stato di Israele dà a tale muro è, comunque, chiusura di sicurezza israeliana o barriera anti-terrorista o, ancora, muraglia di protezione. L'ONU e la comunità internazionale utilizzano più frequentemente il termine muro, ma sono usate talora anche altre espressioni: chiusura/muro/barriera di separazione/sicurezza. Struttura della barriera e sua costruzione

Lunga 730 km, la barriera ingloba la maggior parte delle colonie israeliane e la quasi-totalità dei pozzi d'acqua. Essa si discosta in certi tratti dalla "linea verde" anche 28 chilometri. Il suo tracciato fu modificato decine di volte nel 2004 e nel 2005, su domanda dei palestinesi, degli Europei e della Corte Suprema di Giustizia israeliana. Le locali comunità

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cristiane si sono espresse apertamente e hanno manifestato più volte contro la costruzione del muro[2][3][4]. È equipaggiata sulla sua parte più lunga di barriere elettroniche, come la barriera che separa il Messico dagli Stati Uniti d'America. I sostenitori del muro ritengono che esso abbia portato ad un decremento di attentati anti-israeliani, mentre i suoi detrattori (principalmente palestinesi o appartenenti alla sinistra politica israeliana) sottolineano la mancanza di libertà di movimento che essa comporta, la perdita dell'accesso alle terre coltivate da parte degli agricoltori, l'isolamento di certi villaggi, il sentimento d'imprigionamento e la convinzione che essa rappresenti di fatto una futura frontiera di cui rifiutano il tracciato. Tracciato geografico

A nord di Tulkarem. A nord di Tulkarem, la barriera si estende fino al fiume Giordano, al di sotto della frontiera con la Giordania. Lungo la parte orientale essa segue all'incirca la Linea Verde. All'altezza della colonia di Rehan, la barriera penetra per circa 5 km all'interno della Cisgiordania. Il muro di separazione di Tulkarem. La cittadina di Tulkarem è divisa dal suo circondario da due barriere. Da un lato un muro di separazione (alto 8 metri) e dall'altro una barriera, detta «barriera d'isolamento», che costituisce un'estensione del muro, col risultato appunto di isolare quasi totalmente la cittadina. Il muro di separazione di Qalqiliya. Il muro tra Gerusalemme e Betlemme visto dalla parte palestinese Il muro di separazione di Gerusalemme. Nell'agglomerato urbano di Gerusalemme la barriera è costituita da un muro alto 8 metri. Esso si estende nei quartieri arabi di Gerusalemme e in corrispondenza del confine fra gli agglomerati di Gerusalemme e di Betlemme. Su tali porzioni il muro è situato fino a 5 km al di là della Linea Verde, all'interno della cosiddetta Cisgiordania. Attraversa in particolare i quartieri di Abū Dis e di Azariyye a sud, fino alla strada che permette di accedere a Betlemme. A nord, il muro costeggia in parte i limiti del comune di Gerusalemme, sulla parte annessa da Israele del territorio cisgiordano. A sud di Gerusalemme A sud di Gerusalemme e di Betlemme, la barriera, dapprima al livello del blocco di colonie di Gush Etzion, penetra fino a quasi 10 km in Cisgiordania. Essa si prolunga poi approssimativamente lungo la Linea Verde, ma non si prolunga fino al Mar Morto, fermandosi a circa 20 km da esso. Conseguenze

Sulla sicurezza degli israeliani. Uno studio statistico[5] fornito dal Ministero degli Affari esteri israeliano afferma che la costruzione della barriera di separazione ha permesso di ridurre il numero delle infiltrazioni di attentatori palestinesi in territorio israeliano. Questo studio mostra che dal nord della Cisgiordania: Fra aprile e dicembre 2002, prima della costruzione della barriera, 17 attacchi suicidi sono stati commessi da terroristi infiltrati. Nel 2003, quando la barriera è stata completata, 5 attacchi suicidi sono stati commessi da terroristi infiltrati. Al contrario, i dati provenienti dal sud della Cisgiordania, dove non sono state adottate queste misure, indicano che: Fra aprile e dicembre 2002, 10 attacchi suicidi sono stati commessi da terroristi infiltrati. Nel 2003 11 attacchi suicidi sono stati commessi da terroristi infiltrati. Secondo questo rapporto, le conclusioni sono innegabili: la costruzione della barriera di sicurezza permette di ridurre fortemente il numero d'infiltrazioni e di ridurre di conseguenza il numero degli attentati terroristici. I responsabili palestinesi spiegano queste cifre col cambiamento di strategia dei movimenti palestinesi, negoziato con l'Autorità Nazionale Palestinese per mettere fine agli attentati. In realtà nel 2003 il muro non era (non lo è tuttora) stato completato. Il periodo da considerare è quello tra il 2002 e il 2008, nel quale la curva degli attentati da parte di palestinesi in Israele e in Cisgiordania ha lo stesso andamento, sia pure con numeri diversi dalle due parti del muro. Sui palestinesi Sono stati denunciati effetti estremamente negativi della barriera sulla vita dei palestinesi. Nel suo ultimo rapporto in proposito, l'ONU indica: « ...it is difficult to overstate the humanitarian impact of the Barrier. The route inside the West Bank severs communities, people's access to services, livelihoods and religious and cultural amenities. In addition, plans for the Barrier's exact route and crossing points through it are often not fully revealed until days before construction commences. This has led to considerable anxiety amongst Palestinians about how their future lives will be impacted...The land between the Barrier and the Green Line constitutes some of the most fertile in the West Bank. It is currently the home for 49,400 West Bank Palestinians living in 38 villages and towns[6] » La barriera segue la Linea Verde, ma penetra profondamente all'interno della Cisgiordania per integrare le cosiddette colonie israeliane.[7] A causa del complesso tragitto seguito, la maggior parte della barriera è situata in Cisgiordania[8], mentre il 20% di essa è posizionata esattamente sulla Linea Verde.[9] Sezioni della barriera sono costruite su terre confiscate a palestinesi.[10][11]. In un rendiconto recente, l'ONU ha precisato che il tracciato più recente della barriera prevede più segmenti costruiti sulla Linea Verde stessa rispetto alle precedenti variazioni di tracciato.[12] Un esempio frequentemente offerto degli effetti della barriera è la città palestinese di Qalqiliya, un agglomerato di circa 45.000 abitanti, in cui un pannello del muro in cemento, di 8 metri d'altezza, è eretto sulla Linea Verde fra la città e la vicina autostrada trans-israeliana. Il muro in questo punto è descritto da Israele stesso come il "muro-cecchino", a causa della possibilità che da esso si portino attacchi armati contro gli automobilisti israeliani o contro la città israeliana di Kfar Saba.

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La barriera penetra in particolare al livello di Qalqilya nelle sezioni settentrionali e meridionali, con un andamento seghettato e scanalato. La città è accessibile da una strada a est, come pure da un tunnel costruito nel settembre 2004 che la collega al villaggio di Habla, anch'esso isolato da un altro muro. Secondo il Dipartimento Palestinese per gli Affari Negoziali e altre fonti, il 45% delle terre coltivate palestinesi (compresa una parte fra le più fertili)[13][14], e un terzo dei pozzi d'acqua della cittadina, si ritrovano all'esterno della barriera, e i contadini devono ormai chiedere permessi alle autorità israeliane per accedere alle loro terre situate dall'altra parte della barriera. (La Corte Suprema israeliana prende atto delle dichiarazioni del governo che respinge le accuse di annessione di fatto di questi pozzi, affermando: «the construction of the fence does not affect the implementation of the water agreements determined in the (interim) agreement » ("la costruzione della barriera non influenza l'implementazione degli accordi sull'acqua determinati nell'accordo (ad interim)"[15]). Esistono tre punti transito di questa parte di barriera destinati a consentire ai contadini di accedere ai loro terreni, passaggi aperti 3 volte al giorno per un totale di 50 minuti[16], malgrado secondo il Dipartimento Palestinese per gli Affari Negoziali essi siano chiusi frequentemente per lunghi periodi, arrecando la perdita dei raccolti per i contadini. Uno di questi passaggi è chiuso dall'agosto del 2004 dopo un attentato suicida perpetrato presso il luogo di transito. Recentemente la Corte Suprema israeliana ha ordinato al governo di modificare il tracciato della barriera in questa zona, al fine di facilitare gli spostamenti dei palestinesi fra Qalqilya e i 5 villaggi confinanti. In questo stesso deliberato, la Corte ha rigettato l'argomento affermando che la barriera doveva seguire precisamente la Linea Verde, rispettando le sezioni 43 e 52 della Convenzione dell'Aia del 1907, come pure dell'articolo 53 della IV Convenzione di Ginevra. All'inizio del 2003, il comando centrale delle forze armate dichiara la zona fra la barriera di separazione e la Linea Verde sulla sezione settentrionale «zona militare interdetta» per un periodo di tempo indefinito. Le nuove direttive indicano che tutti i palestinesi di più di 12 anni che vivono in questa zona interdetta possono ottenere un'attestazione di «residenza permanente» da parte dell'amministrazione civile, che permetterà loro di continuare a vivere nelle proprie case. Gli altri residenti della Cisgiordania dovranno ottenere un permesso speciale per entrare in questa zona[8]. Nel maggio 2004, la costruzione di muri e passaggi obbligati della barriera ha costretto allo sradicamento di 102.326 olivi e piante d'agrumi, alla demolizione di 75 acri (30 ettari) di serre e 37 km di condotte d'irrigazione. Fino ad oggi la barriera corre lungo 15.000 dunum (15 km²) di terre "confiscate", a ridosso dei villaggi. All'inizio del 2003, allo scopo di costruire una sezione della barriera verso la Linea Verde, un mercato di 63 negozi è stato demolito dall'esercito israeliano nel villaggio di Nazlat Isa (Nazlat ʿĪsā), dopo che i proprietari ebbero ricevuto un preavviso di soli 30 minuti:[17],[18],[19]. Nell'agosto di quello stesso anno, 115 negozi supplementari che costituivano un'importante fonte di reddito per numerose comunità, furono demoliti sul luogo, insieme a 5-7 case[20][21]. Le Nazioni Unite hanno organizzato un registro per ospitarvi i reclami relativi al danneggiamento di proprietà causati dalla barriera di separazione. Kofi Annan, Segretario generale dell'ONU, ha detto: "stiamo organizzando un registro che possa col tempo aiutare a risolvere questi reclami"(... we are establishing that register to be able in time to help those with claims)[22]. Il Governo israeliano ha promesso che gli alberi danneggiati dalla costruzione sarebbero stati reimpiantati[23]. Secondo la United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (un tempo semplicemente UNRWA), 15 comunità sono state direttamente danneggiate, per un numero di persone ammontante a 138.593 unità, incluse 13.450 famiglie di rifugiati palestinesi per un totale di 67.250 persone. Nel giugno 2004, il quotidiano statunitense Washington Times[24] ha riferito che le ridotte necessità dell'apparato militare israeliano a Jenin hanno avuto l'immediato effetto di far ricostruire le strade danneggiate e hanno consentito il graduale ritorno alla normalità, e infine in una lettera datata 25 ottobre 2004[25], inviata dalla missione israeliana all'ONU e indirizzata a Kofi Annan, il governo d'Israele ha sottolineato che un numero di restrizioni imposte nella parte orientale della barriera erano state eliminate, come risultato conseguito dall'innalzamento della barriera, compresa la riduzione dei checkpoints da 71 a 47 e dei blocchi stradali da 197 a 111. Il giornale israeliano Jerusalem Post riporta che, per alcuni palestinesi che sono cittadini israeliani e che vivono nella città araba israeliana di Umm al-Fahm (di 42.000 abitanti) presso Jenin, la barriera ha "significativamente migliorato le loro vite" perché, da un lato, previene ladri e terroristi dall'entrare nelle loro città e, d'altro lato, ha accresciuto il flusso di clienti dalle altre parti d'Israele che sarebbero normalmente andati verso la Cisgiordania col risultato di un apprezzabile aumento d'affari per loro. La relazione stabilisce che d'altronde l'aspetto negativo è che la barriera avrebbe diviso delle famiglie e "danneggiato la solidarietà degli Arabi israeliani nei confronti dei palestinesi che vivono dall'altra parte della Linea Verde"[26] Un rapporto dell'ONU reso pubblico nell'agosto 2005 osserva che con l'esistenza della barriera "il movimento all'interno della parte settentrionale della Cisgiordania è meno restrittivo di quando la barriera non esisteva. Ostacoli fisici sono stati rimossi nei governatorati di Ramallah e Gerusalemme, in cui la barriera è ancora in fase di costruzione". Il rapporto nota che maggior libertà di movimento nelle aree rurali può aiutare l'accesso dei palestinesi agli ospedali e alle scuole, ma nota altresì che le restrizioni dei movimenti fra la popolazione dei centri urbani non sono significativamente cambiate[27]. Punti di vista giuridici

Diritto internazionale e diritti umani Nell'ottobre 2003, alcuni paesi arabi hanno deciso di sottoporre la questione della barriera di separazione all'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Essa ha adottato il 21 ottobre 2003 la risoluzione ES-10/13 che condanna la costruzione di una "Barriera" gravante sul «territorio palestinese occupato».[28] Questa decisione non è vincolante ed è stata respinta

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dallo Stato di Israele. Il ministro israeliano del Commercio e dell'Industria ha dichiarato: «La chiusura di sicurezza continuerà a essere costruita». L'8 dicembre 2003, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione ES-10/14 che domandava alla Corte Internazionale di Giustizia di emettere un parere consultivo sulla seguente questione:[29] «Quali sono in via di diritto le conseguenze della costruzione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, al suo interno e intorno a Gerusalemme Est, secondo quanto esposto nel rapporto del Segretario generale, tenendo conto delle regole e dei principi del diritto internazionale, in particolar modo della quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e delle risoluzioni consacrate all'argomento da parte del Consiglio di Sicurezza e dell'Assemblea generale?». Il 9 luglio 2004, la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia ha emesso il suo parere sulla questione che gli era stata sottoposta dall'Assemblea generale dell'ONU. Essa ha affermato nella sua risposta[30] che: « L'edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l'interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale». Il 20 luglio 2004, l'Assemblea generale dell'ONU ha adottato la risoluzione ES-10/15, dopo aver preso atto del parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia. La risoluzione « esige che Israele, potenza occupante, rispetti i suoi obblighi giuridici come essi sono enunciati nel parere consultivo».[31] Decisioni della giustizia israeliana Il 30 giugno 2004, la Corte Suprema d'Israele non ha rimesso in discussione l'esistenza della barriera di separazione ma ha ordinato che il suo tracciato sia modificato là dove edificata in territorio occupato.[32]. Il 15 settembre 2005, la Corte Suprema d'Israele ha giudicato all'unanimità che una parte della barriera di separazione sia illegale riferendosi a quella parte edificata in territorio occupato. Ha chiesto al governo di Ariel Sharon di riesaminare il tracciato prossimo alla colonia di Alfei Menashe.[33] Il governo israeliano di Ariel Sharon, che ha impegnato risorse considerevoli per realizzare questo progetto (che era stato proposto a suo tempo dal governo laburista di Ehud Barak), ha dichiarato che questa barriera non pregiudicherà in nulla il tracciato frontaliero fra Israele e il costituendo Stato indipendente di Palestina che dovrà essere negoziato dalle parti. Il muro e l'arte impegnata Nel 2004, la cineasta marocchina Simone Bitton ha realizzato un film-documentario sulla barriera intitolato "Mur"[34]. Il documentario del 2004 Good Times racconta il rapporto della popolazione con il muro ad Abu Dis, periferia est di Gerusalemme[35]. Nel 2006 è stato realizzato il documentario The Iron Wall (Il muro di ferro). Nel giugno 2006, il musicista Roger Waters, in occasione di una sua visita in Israele, dove ha tenuto un concerto a Nevè-Shalom, ha scritto "Tear down the wall" sul muro, una frase contenuta nel doppio CD The Wall dei Pink Floyd, band di cui Waters fece parte fino al 1983[36] Il graffitaro iconoclasta Banksy, a partire dal settembre 2006, ha eseguito sul muro molti disegni e stencil a sfondo provocatorio e di protesta. Inoltre, durante le festività del Natale 2007, una galleria d'arte di Betlemme - città fortemente interessata dalla costruzione del muro - ha esposto le sue opere[37]. Nel 2009 il documentario "Israel only wants Peace" tentava di far comprendere anche ai più accesi antisemiti e anti-israeliani che la barriera difensiva ha soltanto scopo difensivo, in chiave anti-terroristica e mostrava come il governo abbia tentato di tutto pur di limitare qualsiasi disagio involontariamente provocato ai Palestinesi. L'iniziativa «Scrivi sul muro»

Grazie ad una ONG dei Paesi Bassi di ispirazione cristiana (ICCO), il 9 dicembre 2007 è nata l'iniziativa "Send a message", tramite la quale, attraverso internet, si poteva inviare un proprio messaggio che alcuni incaricati palestinesi avrebbero scritto, con la vernice spray, sul muro, scattando delle foto che venivano poi inviate - come testimonianza - al richiedente. L'iniziativa, nata in sordina, ha attratto subito l'attenzione dei media[38][39], conquistando rapidamente l'interesse generale. Sul website ufficiale era possibile inviare il testo che si voleva trascrivere sul muro. Questa operazione, che aveva il benestare sia dell'ANP che del Governo israeliano, mirava a raccogliere fondi per finanziare attività sociali in Cisgiordania.

Note [1] FactsOfIsrael.com: CBS correspondent Bob Simon shows clear bias on Israel’s security fence [2] Intervista con il nuovo custode di terra santa, da OFM -Notizie francescane [3] Appello contro il muro ad Aoud, petizione dell'associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, giugno 2005 [4] Non dimenticare la Terra Santa. L'appello ai vescovi del mondo, articolo del portale cattolico korazym [5] Vedere il documento sul sito http://securityfence.mfa. gov.il [6] The Humanitarian Impact of the West Bank Barrier on Palestinian Communities (PDF), humanitarianinfo.org, ONU, marzo 2005. URL consultato il 14 ottobre 2014 (archiviato dall'url originale il 23 marzo 2009). [7] Fonte: Cnn.com [8] Vedere il documento su btselem.org [9] Vedere il documento su domino.un.org [10] Fonte: Cnn.com [11] Fonte: Bbc [12] Vedere il documento su humanitarianinfo.org (in formato PDF) [13] Vedere il documento su miftah.org [14] Vedere il documento su nad-plo.org (in formato PDF) [15] Israel High Court Ruling Docket H.C.J. 7957/04 International Legality of the Security Fence and Sections nearAlfei Menashe September 15, 2005 Section 67d

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[16] Vedere il documento su ahram.org.eg [17] Vedere il documento (su humanitarianinfo.org (in formatoPDF [18] Vedere il documento su nytimes.com [19] Vedere il documento su unitedjerusalem.org [20] vedere: miftah.org [21] vedere palestinemonitor.org [22] tratto da Cnn.com [23] fonte: mfa.gov.il [24] Leggi l'articolo [25] Il testo completo della lettera [26] L'articolo sul Jerusalem Post. [27] Il rapporto di humanitarianinfo.org (in formato PDF) [28] Risoluzione ES-10/13 [29] Risoluzione ES-10/14 [30] (FR) Conséquences juridiques de l'édification d'un mur dans le territoire palestinien occupé (Requête pour avis consultatif) - Résumé de l'avis consultatif du 9 juillet 2004, Cour internationale de Justice, 9 luglio 2004. URL consultato il 6 settembre 2015 (archiviato dall'url originale il 17/2/06 [31] Risoluzione ES-10/15 [32] Vedere i documenti su imra.org.il prima parte seconda parte terza parte 6 10 COLLEGAMENTI ESTERNI [33] Vedi la notizia su lemonde.fr [34] La scheda del fil su filmsduparadoxe.com [35] Bei tempi, in Filmitalia. [36] BBC NEWS | Entertainment | Waters writes on West Bank wall [37] Banksy - Outdoors [38] Globo Tv (Brasile): Jovens se expressam em muro isolante [39] Dal Corriere della Sera del 18 aprile 2009: Cisgiordania, il muro innalzato per separare adesso unisce 8 Voci correlate: Conflitti arabo-israeliani Cisgiordania; Israele; Territori Occupati; Qalqilya; Barriera tra Israele e Siria; 9 Altri progetti Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla barriera di separazione israeliana 10 Collegamenti esterni(EN) Sito ufficiale israeliano della barriera di separazione, seamzone.mod.gov.il. (EN) Mappe aggiornate ogni 4 mesi dell'OCHA che mostrano lo stato di avanzamento del Muro (EN) Report Ufficiale sulle conseguenze umanitarie del muro OCHA, luglio 2008 (EN) Report Ufficiale sull'avanzamento di barriere e ostacoli che impediscono il movimento dei palestinesi nei Territori Occupati (oltre il Muro anche: checkpoint fissi e mobili, blocchi stradali, fossati, reti, cancelli). A a cura dell'OCHA Il sito del villaggio palestinese Bil'in: gli abitanti con l'aiuto delle organizzazioni umanitarie israeliane e internazionali sono riusciti ad ottenere dalla Corte Suprema israeliana lo spostamento del muro già costruito che separava gli abitanti del villaggio dalle terre coltivabili di loro proprietà (EN) Sito dell'iniziativa Send a message, sendamessage.nl. (EN) Grafico degli israeliani assassinati dal terrorismo dal 1948 al 2011. 11 Fonti per testo e immagini; autori; licenze 11.1 Testo Barriera di separazione israeliana Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Barriera_di_separazione_israeliana?oldid=83114001 Contributori: Snowdog, Marcok, Shezarainbow, Piero129, MM, Pil56, Cloj, Zuccherinodolce, Hasanisawi, Yoggysot, Beta16, Jalo, Jacopo, Rojelio, Eumolpo, Piero Montesacro, Annuale, Syrio, Aldo Ardetti, Agnellino, Thijs!bot, F l a n k e r, Gacio, Gce, Killer BOB, JAnDbot, Bramfab, Hrundi V. Bakshi, Rbernascone, RolloBot, Andre86, Lord Hidelan, VolkovBot, Gspinoza, DE.MOLAI, Xxghizmoxx, BetaBot, Abbot, Marcol-it, Rebecca2, Veneziano, AlnoktaBOT, YonaBot, BotMultichill, Harlock81, Pablowsky, OKBot, BotSottile, Pracchia-78, Lo Scaligero, Scallegari, Ita01.bot, Bottuzzu, Marco Plassio, FixBot, Guidomac, Chebfab, FrescoBot, ArtAttack, Dome, AttoBot, Marco27Bot, Leonj, Xqbot, AushulzBot, MerlLinkBot, Svello89, Gambo7, RedBot, Dega180, Stamsofer, Franz van Lanzee, EmausBot, ZéroBot, Shivanarayana, Tommaso Ferrara, ZimbuBot, CocuBot, Massimiliano Panu, MerlIwBot, Lombres, Gryphon, YFdyh-bot, Botcrux, ValterVBot, Roberto Company, Euparkeria, Anciton e Anonimo: 55 11.2 Immagini File:Barriera_di_separazione_israeliana.jpg Fonte: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/f/f2/Barriera_di_separazione_ israeliana.jpg Licenza: Public domain Contributori: ? Artista originale: ? File:Commons-logo.svg Fonte: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/4a/Commons-logo.svg Licenza: Public domain Contributori: This version created by Pumbaa, using a proper partial circle and SVG geometry features. (Former versions used to be slightly warped.) Artista originale: SVG version was created by User:Grunt and cleaned up by 3247, based on the earlier PNG version, created by Reidab. File:Security_Fence.jpg Fonte: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/47/Security_Fence.jpg Licenza: CC BY 2.0 Contributori: Flickr Artista originale: Jacob Rask da Alingsås, Sweden File:Westbank_barrier.png Fonte: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f5/Westbank_barrier.png Licenza: CC-BY-SA- 3.0 Contributori: B'tselem[1] Artista originale: Ynhockey 11.3 Licenza dell'opera Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0

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4) IL CONFLITTO ARABO ISRAELIANO E ISRAELIANO PALESTINESE

Le lezioni sul conflitto arabo israeliano e israeliano palestinese sono state preparate dalla professoressa studiando il saggio di Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese e seguendo un corso di lezioni del professor Vercelli.

1) GLI ASPETTI GIURIDICI Dossier 2014/07/11/01 Le Nazioni Unite e la Corte Internazionale di Giustizia sul Muro costruito da Israele nei

Territori palestinesi occupati [N.B. abbiamo letto e riflettuto su questo dossier, anche se non recente, perché valido dal punto di vista delle questioni che pone] Indice Una mappa del Muro Premessa Boicottare Israele: un dovere morale, un dovere politico 1. Un quesito dell'Assemblea Generale dell'ONU 2. Il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia 3. L'Assemblea Generale dell'ONU acquisisce il parere consultivo della CIJ

4. 4. L'atteggiamento dell'Italia 5. L'Europa fa finta di niente, salvo ….. 1. Emettere il 19 luglio 2013 un divieto per aiuti Ue a favore delle colonie israeliane nei Territori 2. Alcuni Ministeri degli esteri europei alzano (?) i toni 6. Il parere sul Muro di John Dugard 7. Il parere sul Muro di Arnon Soffer 8. Il parere sul Muro di Stop The Wall 9. Il parere sul Muro di un giurista, Domenico Gallo 10 Allegati 1. Un rapporto dell’ONU accusa Israele di costruire il Muro per confiscare la terra by Reuters (Haaretz,

25/09/2004)

2. Nous avons tracé la clôture di Arnon Soffer 3. Da Stop the Wall - About the Apartheid Wall 4. I muri possono crollare di Domenico Gallo, 8 luglio 2004 5. La Corte Internazionale di Giustizia abbatte il muro di Domenico Gallo, 15 luglio 2004 “Verrà il tempo in cui i responsabili dei crimini contro l’umanità che hanno accompagnato il conflitto israelo-palestinese e altri conflitti in questo passaggio d’epoca, saranno chiamati a rispondere davanti ai tribunali degli uomini o della storia, accompagnati dai loro complici e da quanti in Occidente hanno scelto il silenzio, la viltà e l’opportunismo.” ISM-Italia Torino, 9 luglio 2014 [email protected] www.ism-italia.org 1 Una mappa del Muro Non è una mappa aggiornata ma è sufficiente per indicare i veri obiettivi del progetto. 2 Premessa Questa ricostruzione sommaria della vicenda del Muro ha quattro obiettivi: • il primo informativo, per non dimenticare • il secondo per sottolineare che in 10 anni nulla è cambiato • il terzo perché è un case-study di double-standard, il diritto internazionale non si applica ai forti • il quarto per la necessità di riprendere con più efficacia le campagne BDS Il 9 luglio 2004, dieci anni fa, la Corte Internazionale di Giustizia, rispondendo a un quesito dell'Assemblea Generale dell'ONU, dichiarava il Muro israeliano illegale e, tra le altre indicazioni, affermava:

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Tutti gli Stati hanno l’obbligo : • di non riconoscere la situazione illegale che deriva dalla costruzione del muro • di non prestare aiuto o assistenza nel mantenere la situazione creata da questa costruzione • di assicurare la conformità da parte di Israele con la legge internazionale umanitaria contenuta nella Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione di Civili in Tempo di Guerra del 12 Agosto 1949. Non è accaduto nulla secondo la tradizione israeliana di far parte dell'ONU, ma di ignorarne le risoluzioni, le raccomandazioni e ogni altra indicazione ritenuta contraria ai propri interessi. L'Occidente assicura a Israele la stessa impunità e immunità che invoca per se, secondo un sistematico e inossidabile double-standard. Non si è nemmeno permesso di portare di fronte a un tribunale internazionale un personaggio come Ariel Sharon, responsabile compiaciuto, tra i molti altri, del massacro di Sabra e Chatila. L'Italia aveva invitato la CIJ a soprassedere. L'Italia e l'Europa sono impegnate a perfezionare con Israele una serie di accordi di ogni tipo, tanto che si può dire tranquillamente che Israele fa parte della NATO e fa parte dell'Europa. Manca un atto formale, ma i rapporti sono così stretti che è come se lo fosse. Israele abituato a prendere a schiaffoni Obama, Bidel e Kerry, ha verso l'Europa un atteggiamento sistematicamente provocatorio. L'Europa dei diritti ogni tanto deve farsi sentire, ma lo fa molto debolmente (pensate solo alla signora Ashton), presto si dice sostituita da tal MOGHERINI, sicuramente chiedendo poi scusa a Israele dietro le quinte. Gli insediamenti sono talmente illegali che ogni tanto è necessario ricordarlo all'unico stato democratico del Medio Oriente e al suo esercito, definito da Henry-Bernard Levy, il più morale del mondo. Ma naturalmente nessuno parla di sanzioni. E le dichiarazioni europee sembrano più orientate a premere per una ripresa dei negoziati a sostegno della soluzione due-stati. Per questi motivi al cap. 5 sono riportate due prese di posizione, una della UE e una di alcuni stati europei, compresa l'Italia. Segue il parere di John Dugard, Special Rapporteur on the Situation of Human Rights in the Palestinian Territories Occupied since 1967 prima di Richard Falk, che sostiene che il muro è stato costruito per annettere a Israele le principali colonie. Molto interessante è il parere di Arnon Soffer, che è uno dei responsabili della definizione del tracciato del Muro. Conferma che il Muro non è stato costruito, come sostiene la vulgata della propaganda israeliana, per impedire l'ingresso in Israele dei suicide-bombers, ma come antidoto alla “bomba demografica” palestinese. “Il problema maggiore, dice, che abbiamo oggi in Israele è quello della demografia.” Arnon Soffer in una intervista al Jerusalem Post del 20 maggio 2004,http://groups.yahoo.com/group/New-EFL/message/2628?var=1 afferma la legittimità del progetto sionista sino a giustificare il genocidio: Innanzitutto il muro non è costruito come quello di Berlino. È un muro che noi possiamo controllare anche dall’altra parte. Invece di entrare a Gaza, come abbiamo fatto la scorsa settimana, noi diremo ai palestinesi che se un solo missile è lanciato oltre il muro, noi ne lanceremo 10 in risposta. Donne e bambini saranno uccisi e case saranno distrutte. Dopo il quinto incidente di questo tipo, le madri palestinesi non permetteranno ai loro mariti di lanciare Qassam, perché sapranno che cosa li aspetta. Inoltre se 1,5 milioni di persone vivono a Gaza, chiuse dentro, diventerà una catastrofe umana. Quelle persone diventeranno animali più di quanto lo sono oggi, con l’aiuto di un Islam fondamentalista demente (sic!). La pressione alla frontiera sarà terribile. Sarà una guerra terribile. Se vorremo rimanere vivi, noi dovremo uccidere, uccidere e uccidere. Tutti i giorni, ogni giorno. In sintesi, un sionista doc. Ma non possiamo non citare le affermazioni del rabbino capo di Safed, Shmuel Eliyahu, su Gaza, www.jpost.com/Israel/Article.aspx?id=63137: Se non si fermano dopo che noi ne abbiamo uccisi 100, allora dobbiamo ucciderne mille, e se non si fermano dopo mille allora dobbiamo ucciderne 10.000. E se ancora non si fermano dobbiamo ucciderne 100.000, e anche un milione. Dobbiamo fare qualsiasi cosa per farli smettere. Una perfetta identificazione tra Stato (Soffer) e chiesa (Eliyahu). 3)Segue una descrizione del Muro da parte di Stop the Wall una organizzazione palestinese che si è dedicata in modo specifico a questo problema. A differenza di John Dugard che considera il Muro non illegale se avesse seguito il tracciato della Green Line, Stop the Wall sostiene: 8) Would it be acceptable if the Wall was built on the 1967 Green Line? It is entirely unacceptable to build the Wall on the 1967 Green Line—there is a fundamental injustice in caging in an entire population. While the 1967 Green Line is advocated by the UN and many others to be the “international border” between Israel and the West Bank, the fact is that, following the 1948 war and the proclamation of the State of Israel, communities were forcibly and artificially divided into east/west by this “border”. However, the residents continue to share social services, markets, and familiar ties. To advocate that the Wall could be built on the 1967 Green Line is to legitimize the forcible separation of these communities. 4)Seguono due articoli di Domenico Gallo, ineccepibili sul piano giuridico, ma troppo ottimistici/ingenui su quello che sarebbe accaduto dopo l'advisory opinion. Il Muro israeliano è un monumento al sionismo! Farà la stessa fine di altri muri. La vicenda non va dimenticata anche perché, un anno dopo, il 9 luglio 2005, preso atto che nulla si era mosso, la società civile israeliana ha lanciato l'appello BDS al boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni contro Israele (contro Israele e non solo contro le colonie nei Territori occupati).Contestare i complici, boicottare Israele per decolonizzare la Palestina storica. Boicottare Israele: un dovere morale, un dovere politico (da Boicottare Israele: una pratica non-violenta di Diana Carminati e Alfredo Tradardi, DerveApprodi 2009)Jean-Moïse Braitberg, uno scrittore ebreo francese ha scritto

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al presidente dello Stato di Israele una lettera (Le Monde, 28 gennaio2009) nella quale chiede che sia cancellato il nome di suo nonno, Moshe Brajtberg, dal Memoriale di Yad Vashm dedicato alla memoria degli ebrei vittime del nazismo. “Le chiedo di accogliere la mia richiesta, signor presidente, perché quello che è accaduto a Gaza e, più in generale, la sorte imposta da sessant’anni al popolo arabo di Palestina squalifica ai miei occhi Israele come centro della memoria del male fatto agli ebrei, e quindi a tutta l’umanità. …. Conservando nel Memoriale di Yad Vashem, nel cuore dello Stato ebraico, il nome dei miei cari, il suo Stato tiene prigioniera la mia memoria familiare dietro il filo spinato del sionismo per renderlo ostaggio di una sedicente autorità morale che commette ogni giorno l’abominio che è la negazione della giustizia.” Il 16 marzo 2009 Michael Neumann, docente di filosofia alla Trent University in Ontario, Canada, e suo fratello Osha, artista e avvocato hanno fatto la stessa richiesta per la loro nonna Gertrud Neumann. Michael Neumann ha scritto: “La nostra complicità è spregevole. Non credo che il popolo ebraico, nel cui nome avete commesso così tanti crimini con un simile compiacimento oltraggioso, possa sbarazzarsi della vergogna che gettate su di noi. La propaganda nazista, nonostante tutte le sue calunnie, non ha mai disonorato né corrotto gli ebrei; voi ci siete riusciti. Non avete il coraggio di assumere la responsabilità dei vostri atti di sadismo: con un’insolenza mai vista prima, vi siete fatti portavoce di un’intera razza, come se la nostra stessa esistenza fosse un’approvazione alla vostra condotta. Avete macchiato i nostri nomi non solo con i vostri atti, ma con le menzogne, i discorsi evasivi, la compiaciuta arroganza e l’infantile moralismo con cui avete ricamato la nostra storia.” Osha Neumann ha aggiunto: “Sono cresciuto credendo che gli ebrei fossero un gruppo etnico con la missione storica di trascendere l’etnicità in un fronte unico contro il fascismo. Essere ebreo significava essere anti-fascista. Da tempo Israele mi ha svegliato dal mio sonno dogmatico sull’immutabile relazione tra ebrei e fascisti. È stata macchinata una fusione tra l’immagine di torture e criminali di guerra ebrei e quella di vittime emaciate dei campi di concentramento. Trovo che questa commistione sia oscena. Non voglio farne parte. Avete perso il diritto di essere i custodi della memoria di mia nonna. Non desidero che Yad Vashem sia il suo memoriale.”

Tre prese di posizione a dimensione di umanità e di verità che indicano anche quale sia il nostro dovere morale e politico: non accettare, non collaborare, non mentire. Non accettare, non collaborare e non mentire boicottando Israele e i suoi complici. RESTIAMO UMANI! 5) 1. Un quesito dell'Assemblea Generale dell'ONU. L'8 dicembre 2003 l'Assemblea Generale dell'ONU, nella risoluzione ES-10/14, aveva chiesto alla Corte Internazionale di Giustizia di formulare un parere consultivo sul

seguente quesito: “Quali sono le conseguenze legali provocate dalla realizzazione del muro in costruzione da

parte di Israele, la Potenza occupante, nei Territori palestinesi occupati, incluso quello all’interno e intorno a

Gerusalemme est, come descritto nel rapporto del Segretario Generale, tenuto conto delle norme e dei principi

della legge internazionale, inclusa la quarta Convenzione di Ginevra, del 1949, e le specifiche risoluzioni del

Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale? Vedi http://unispal.un.org/UNISPAL.NSF/0/F953B744269B9B7485256E1500776DCA 2. Il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia. Il 9 luglio 2004, la Corte Internazionale di Giustizia

(Tribunale dell’Aja), costituita dal presidente Shi Jiuyong (Cina), dal vice-presidente Raymond Ranjeva (Madagascar) e dai giudici Gilbert Guillaume (Francia), Abdul G. Koroma (Sierra Leone), Vladlen S. Vereshchetin (Federazione Russa), Rosalyn Higgins (Regno Unito), Gonzalo Parra-Aranguren (Venezuela), Pieter H. Kooijmans (Olanda), Francisco Rezek (Brasile), Awn Shawkat Al-Khasawneh (Giordania), Thomas Buergenthal (Stati Uniti d’America), Nabil Elaraby (Egitto), Hisashi Owada (Giappone), Bruno Simma (Germania), Peter Tomka (Slovacchia), approva il parere consultivo costituito da 59 pagine. Nei primi 162 punti la Corte, vedi www.icj-cij.org/docket/index.php? p1=3&p2=4&case=131&p3=4, ripercorre le premesse di ordine giuridico e la storia del conflitto israelo-palestinese per concludere come segue: 163. Per queste ragioni, La Corte,(1) All’unanimità, Ritiene di avere la giurisdizione per dare il parere consultivo richiesto.(2) Con 14 voti contro 1, Decide di accettare la richiesta di un parere consultivo;Contro: giudice Buergenthal (USA); 3) Risponde nel modo seguente alla domanda posta dall’Assemblea Generale: A. Con 14 voti contro 1,

La costruzione del muro da parte di Israele, la Potenza Occupante, nei Territori Palestinesi Occupati, inclusa

Gerusalemme Est e dintorni, e la regolamentazione che ne deriva, è contraria alla legge internazionale; Contro: giudice Buergenthal (USA); B. Con 14 voti contro 1, Israele ha l’obbligo di porre termine alle sue violazioni della legge internazionale; ha

l’obbligo di cessare immediatamente i lavori di costruzione del muro nei Territori Palestinesi Occupati, inclusa

Gerusalemme Est e dintorni, di demolire immediatamente le strutture situate in queste zone, e in più di abrogare

o rendere inefficaci immediatamente tutti gli atti legislativi o regolamentari relativi, in accordo con il paragrafo 151 di questo Parere; Contro: giudice Buergenthal (USA); C. Con 14 voti contro 1, Israele ha l’obbligo di risarcire tutti i danni causati dalla costruzione del muro nei

Territori Palestinesi Occupati, inclusa Gerusalemme Est e dintorni; Contro: giudice Buergenthal (USA); D. Con 13 voti contro 2, Tutti gli Stati hanno l’obbligo di non riconoscere la situazione illegale che deriva dalla costruzione del muro e di

non prestare aiuto o assistenza nel mantenere la situazione creata da questa costruzione; tutti gli Stati aderenti

alla Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione di Civili in Tempo di Guerra del 12 Agosto 1949

hanno inoltre l’obbligo, rispettando la Carta delle Nazioni Unite e la legge internazionale, di assicurare la

conformità da parte di Israele con la legge internazionale umanitaria contenuta in quella Convenzione; Contro: giudici Kooijmans (Olanda), Buergenthal (USA) ; E. Con 14 voti contro 1, Le Nazioni Unite, e in particolare l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza,

dovrebbero prendere in esame quali ulteriori azioni sono necessarie per mettere fine alla situazione illegale che

deriva dalla costruzione del muro e dalla regolamentazione che ne deriva, tenendo in dovuta considerazione il

presente Parere(Advisory Opinion). Contro: giudice Buergenthal (USA).

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3. L'Assemblea Generale dell'ONU acquisisce il parere consultivo della CIJ www.un.org/News/Press/docs/2004/ga10248.doc.htm Il 20 luglio 2004 l'Assemblea plenaria dell'ONU adotta la seguente risoluzione: Tenuto conto che il rispetto per la Corte e per le sue attribuzioni è essenziale per il governo della legge e della ragione negli affari internazionali, 1. Acquisisce il parere consultivo della Corte internazionale di Giustizia del 9 luglio 2004, sulle conseguenze legali della costruzione del muro nei territori palestinesi occupati, inclusi quelli all’interno e intorno a Gerusalemme est; 2. Chiede che Israele, la potenza occupante, si conformi ai suoi obblighi legali come richiamato nel parere consultivo; 3. Invita tutti gli stati membri delle Nazioni Unite a conformarsi ai loro obblighi legali come ricordato nel parere consultivo; 4. Chiede al Segretario Generale di istituire un registro dei danni causati a tutte le persone fisiche o legali coinvolte, in riferimento ai paragrafi 152 e 153 del parere consultivo; 5. Decide di riconvocarsi per valutare la realizzazione della presente risoluzione, con lo scopo di porre fine alla situazione illegale risultante dalla costruzione del muro e dal suo regime associato nei territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme est; 6. Invita sia il Governo di Israele, sia l’Autorità Palestinese a portare a compimento immediatamente gli impegni loro previsti dalla road map, in collaborazione con il Quartetto, come approvato dalla risoluzione 1515 (2003) del Consiglio di sicurezza, per realizzare la visione di due Stati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza, e sottolinea che sia Israele che l’Autorità Palestinese hanno l’obbligo di osservare in modo scrupoloso le leggi del diritto internazionale umanitario; 7. Invita tutti gli Stati partecipanti alla quarta Convenzione di Ginevra a garantire il rispetto da parte di Israele della Convenzione e invita la Svizzera, nella sua qualità di depositaria della Convenzione di Ginevra, a promuovere consultazioni e a riferire all’Assemblea generale sull’argomento, con riguardo anche alla possibilità di riconvocare la Conferenza dei partecipanti alla quarta Convenzione di Ginevra; 4. L'atteggiamento dell'Italia http://www.icj-cij.org/docket/files/131/1593.pdf Il signor Ivo M. Bragaglia, in rappresentanza dell'Italia ha comunicato, la posizione del Governo della Repubblica Italiana invitando la Corte a non rispondere alla domanda formulata dall'Assemblea Generale dell'ONU nella risoluzione dell'8 dicembre 2003. 5. L'Europa fa finta di niente, salvo ….. 5.1 Emettere il 19 luglio 2013 un divieto per aiuti Ue a favore delle colonie israeliane nei Territori BRUXELLES - Il bando della Ue agli aiuti per le entità israeliane che abbiano sede nelle colonie è in vigore. Il documento denominato "Orientamenti sull'ammissibilità delle entità israeliane e relative attività nei territori occupati da Israele da giugno 1967 alle sovvenzioni, ai premi e agli strumenti finanziari dell'Ue a partire dal 2014" è stato infatti pubblicato oggi sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea. Esclude tutte le entità ma "non si applica alle persone fisiche" residenti fuori dei confini del '67. Nel testo si specifica che "per territori occupati si intendono le Alture del Golan, la Cisgiordania inclusa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza", ovvero quanto conquistato da Israele nella 'Guerra dei Sei Giorni'. Inoltre viene ribadito che "l'Unione europea non riconosce la sovranità di Israele" su quei

territori perché la Ue "ha dichiarato esplicitamente di non riconoscere alcun cambiamento ai confini precedenti

al 1967 che non sia stato concordato dalle parti del processo di pace in Medio Oriente". Le 'linee guida ' si applicano "alle sovvenzioni, ai premi e agli strumenti finanziari gestiti, a seconda del caso, dalla Commissione, dalle agenzie esecutive o dagli organismi" che agiscono con fondi del bilancio Ue. Sono incluse nel bando tutte le persone giuridiche israeliane la cui sede legale sia al di fuori del confini del '67, con la specifica indicazione che, per determinarne l'indirizzo fisico, "non è ammesso l'uso di caselle postali". Lo scopo politico delle 'linee guida' è indicato all'art. 1: "(...) garantire il rispetto delle posizioni e degli impegni assunti dall'Unione conformemente al diritto internazionale, in relazione al non riconoscimento della sovranità di Israele sui territori occupati da giugno 1967". 5.2 Alcuni Ministeri degli esteri europei alzano (?) i toni http://www.esteri.it/MAE/IT/Sala_stampa/ArchivioNotizie/Approfondimenti/2014/06/20140627_insediamenticittadiniimpreseUe.htm

Messaggi comuni volti a sensibilizzare i cittadini e le imprese dell'UE in materia di coinvolgimento in attività finanziarie ed economiche negli insediamenti. 27 Giugno 2014 L’Unione Europea e i suoi stati membri ritengono che gli insediamenti israeliani siano illegali ai sensi del diritto internazionale, sono un ostacolo alla Pace e rischiano di rendere irrealizzabile una soluzione del conflitto israelo-palestinese basata sui due Stati. L’UE e i suoi Stati membri non riconosceranno alcuna modifica alle frontiere pre-1967, incluso riguardo a Gerusalemme, ad eccezione di quelle concordate tra le Parti. La Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, Gaza e le alture del Golan sono territori occupati da Israele a partire dal 1967. In conseguenza di ciò, l’Unione Europea e i suoi stati membri intendono sensibilizzare i cittadini e gli ambienti economici europei sui rischi associati alla conduzione di attività economiche e finanziarie negli insediamenti. Transazioni finanziarie, investimenti, acquisti, appalti e altre attività economiche (ivi compresi i servizi turistici) in insediamenti israeliani o che beneficiano insediamenti israeliani, comportano rischi di ordine legale ed economico derivanti dal fatto che gli insediamenti israeliani, secondo il diritto internazionale, sono costruiti su un territorio occupato e non sono riconosciuti quale parte legittima del territorio di Israele. Ciò potrebbe comportare controversie su titoli di proprietà di terreni, risorse idriche, minerali o altre risorse naturali oggetto di acquisto o di investimento.

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Dovrebbero inoltre essere tenute in considerazione eventuali violazioni del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani. Potenziali acquirenti o investitori devono essere consapevoli che un futuro accordo di pace tra Israele e i Palestinesi, o tra Israele e la Siria, potrebbe avere conseguenze sui beni acquistati o sulle attività economiche condotte in questi insediamenti. In caso di controversie, potrebbe essere molto difficile per gli Stati membri garantire la tutela nazionale dei propri interessi. I cittadini e le imprese dell'Unione Europea coinvolti in attività economiche e finanziarie negli insediamenti dovrebbero inoltre essere consapevoli delle potenziali implicazioni negative di tali attività sulla loro reputazione o immagine. I cittadini e le imprese dell’Unione Europea che stessero meditando un eventuale coinvolgimento economico o finanziario negli insediamenti dovrebbero avvalersi di un’opportuna consulenza legale prima di procedere. 6. Il parere sul Muro di John Dugard. John Dugard, Special Rapporteur on the Situation of Human Rights in the Palestinian Territories Occupied since 1967, nel suo rapporto del 2004 E/CN.4/2004/6/Add.1 del 27 febbraio 2004, sostiene che “Il Muro avrebbe potuto essere giustificato come una legittima misura di sicurezza per impedire ai cosiddetti suicide bombers di entrare in Israele se avesse seguito il percorso della Green Line. Il modo in cui è stato costruito, ampiamente in territorio palestinese, non può però essere giustificato per motivi di sicurezza,. La costruzione del Muro, in modo tale da separare i contadini dalla loro terra, isola i villaggi dai luoghi di lavoro, dalle scuole e dalle strutture sanitarie, porta di fatto I coloni nel confini israeliani e conferma l'annessione illegittima di Gerusalemme Est, suggerisce che il principale obiettivo del Muro è l'annessione, di fatto, di ulteriore terra allo Stato di Israele (vedi report all'indirizzo http://unispal.un.org/unispal.nsf/0/631c8deb907650e985256e6000520f3b?OpenDocument.

Vedi anche, in allegato 1, l'articolo apparso sul quotidiano israeliano Haaretz il 25 settembre del 2004. 7. Il parere sul Muro di Arnon Soffer. Per il parere di Arnon Soffer, responsabile della definizione del tracciato del Muro (UTR Terre n. 9 2004, revue française de géopolitique) vedi allegato 2. 8. Il parere sul Muro di Stop The Wall Per il parere di Stop the Wall (http://www.stopthewall.org/) vedi allegato 3. 9. Il parere sul Muro di un giurista, Domenico Gallo Per il parere di Domenico Gallo vedi allegati 4 e 5. 10. Allegati Allegato 1 Un rapporto dell’ONU accusa Israele di costruire il Muro per confiscare la terra by Reuters (Haaretz, 25/09/2004) Nazioni Unite – Un osservatore dell’ONU ha detto venerdì che Israele sta costruendo la sua barriera nella terra della West Bank non per impedire gli attacchi suicidi ma per confiscare la terra e per premere sui Palestinesi affinché se ne vadano via. "Non c’è una prova convincente che gli attacchi suicidi non potrebbero essere efficacemente prevenuti dall’entrare in Israele se il muro fosse stato costruito lungo la linea verde (the Green Line) – il confine accettato tra Israele e Palestina – o all’interno della parte israeliana della Green Line," ha sostenuto John Dugard in un rapporto all’Assemblea Generale dell’ONU. "Il percorso del muro indica con chiarezza che il suo obiettivo è quello di incorporare il maggior numero di coloni dentro Israele," ha detto Dugard, un professore di diritto sudafricano incaricato di monitorare la West Bank e la striscia di Gaza dalla Commissione sui Diritti Umani dell’ONU con sede a Ginevra. "Questo è confermato dal fatto che circa l’80% dei coloni che si trovano nella West Bank saranno inclusi nella parte israeliana del muro ," ha proseguito. I rappresentanti israeliani dicono che i 600 km di sbarramento di filo spinato o di muro di cemento, dei quali 200 già completati, sono necessari per tenere lontani gli attacchi suicidi e che gli attacchi terroristici all’interno di Israele sono già diminuiti drasticamente come risultato della sua costruzione. I Palestinesi sostengono che si tratta di un furto di terra teso a cancellare le loro speranze di uno stato indipendente. L’Assemblea Generale a luglio ha adottato una risoluzione che chiede che il muro sia distrutto, in linea con un parere consultivo non vincolante della Corte Internazionale di Giustizia che ha definito illegale il percorso del muro. Israele ha detto che si rifiuta di uniformarsi all’opinione della corte e alla risoluzione dell’ONU. Ma ha anche annunciato che sta riesaminando il percorso pianificato del muro, a seguito di una decisione di giugno dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana. La corte ha sostenuto che parti del muro devono essere spostate per eliminare eccessive sofferenze ai Palestinesi che vivono lì vicino. Dugard ha respinto le ragioni affermate da Israele per il muro. "Spiegazioni più convincenti" sarebbero che l’obiettivo è quello “di espandere il territorio israeliano " e "costringere i Palestinesi residenti che vivono tra il muro e la Green Line e vicini al muro, ma separati dalla loro terra dal muro, a lasciare le loro case e iniziare una nuova vita altrove nella West Bank, rendendo loro la vita intollerabile" ha proseguito. "Terra agricola ricca e risorse di acqua sono state confiscate lungo la Green Line e incorporate in Israele," ha detto. Allegato 2 Nous avons tracé la clôture di Arnon Soffer. Arnon Soffer, directeur de la chaire de géostratégie, coprésident du Center for National Security Studies. Université de Haifa. La Chaire de géostratégie et le Centre d'études de sécurité nationale de l'université de Haifa s'honorent d'avoir joué un rôle essentiel dans la cartographie du désengagement et de la clôture qui nous séparera complètement des Palestiniens. Le problème majeur que nous rencontrons aujourd'hui en Israël est celui de la démographie. Et le moment de vérité approche. Or, ceux qui nourrissaient l'espoir d'une nouvelle immigration massive de millions de juifs ne peuvent plus, désormais, faire la sourde oreille. Plusieurs solutions ont été formulées: le statu quo. Mais le poids électoral croissant, entre autres, des Arabes israéliens, menace notre pays en tant qu'entité judéo-sioniste. D'ailleurs: les relations entre eux et ceux de l'Autorité palestinienne vont s'intensifiant, ce qui pose un véritable problème de sécurité; • un statut nettement dégradé pour les Arabes d'Israël. Mais la communauté internationale n'acceptera évidemment pas semblable recul en termes de démocratie. Il n'empêche que la détérioration des relations judéo-arabes et le rôle

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grandissant des Arabes israéliens en matière de terrorisme et de sabotage pourrait mener à l'adoption de cette alternative. D'autant que le 11 septembre, d'une part, et de I’autre la montée de l'islam radical vont nous autoriser à prendre des mesures plus dramatiques que dans le passé. Ce que comprendront au moins les États-Unis et plus tard l'Europe, une fois que cette dernière aura été touchée massivement par le terrorisme; • un État d'Israël qui n'aurait plus rien de juif, c'est-à-dire à citoyenneté abstraite. Mais une écrasante majorité des citoyens juifs ne l'accepteront pas; • un État binational du Jourdain à la mer. C'est justement ce vers quoi, dans l'état actuel des choses, nous nous orientons, soit la disparition de l'entité juive au Moyen-Orient d'ici fort peu d'années. Ironie tragi-cornique de l'Histoire: tant la droite que la gauche radicales nous entrainent, délibérément ou pas, dans cette direction; • le transfert/l'expulsion. L'hypothèse n'est pas réaliste, car la superpuissance américaine s'y opposera : en témoigne l'échec des Serbes au Kosovo en 1999. Ceci bien que l'on puisse imaginer un scénario de guerre générale contre Israël et s'accompagnant d'un soulèvement de tous les Arabes. Nous n'aurions dès lors d'autre choix que le transfert de populations. Autant de propositions, donc, qui ne peuvent nous satisfaire du point de vue juif et sioniste. Car l'équilibre démographique, même à l'intérieur d'Israël stricto sensu, penche en faveur des Arabes. Nous devons, si l'État d'Israël doit survivre en tant qu'État juif, raisonner autrement. Phases initiales : la conférence que j'ai donnée à Herzliya, puis Israel-Demography, 2004-2020 " Risks and Opportunities, avec statistiques, largement diffusé dans le pays, y compris par le Zionist Council à Jérusalem . Parmi les premiers à recevoir le document : le Premier ministre, tous les membres du gouvernement, les directeurs-généraux des différents ministères et les hauts fonctionnaires de toutes les agences de sécurité qui ont eux-mêmes veillé à ce qu'il soit reproduit et diffusé à des milliers d'exemplaires. Ceci valant également pour le monde de l'économie, les partis politiques et le public au sens large. 11 Allegato 3 Da Stop the Wall About the Apartheid Wall: http://www.stopthewall.org/faqs 1) How long is the Wall? In total the Wall will run over 800 km in the West Bank. 2) Where is the Wall being built? The Wall is being built deep within the West Bank as it zigzags throughout 10 out of the 11 West Bank districts. The Wall, on this path, de facto annexes nearly 50% of the West Bank and completely destroys all continuity of life in the region. The Wall begins at the northern most point in the West Bank and runs through the western districts of the West Bank to the north of Jerusalem; the Wall is not being built on or near the 1967 Green Line and at points reaches 16 km (some 10 miles) deep right into the heart of the West Bank in order to annex major Israeli Jewish-only settlements (more details in Question 9). After cutting through neighborhoods and villages in East Jerusalem, the Wall picks up by Bethlehem and continues south to Hebron. In eastern West Bank, Israel is implementing a number of infrastructural and administrative measures to de facto isolate the Jordan Valley. The Gaza Strip is since the mid-nineties surrounded by a Wall that encloses the tiny enclave. 3) What does the Wall look like? The Wall takes on a variety of forms; around Qalqiliya the Wall is pure concrete eight meters (25 feet) high and fortified with armed watchtowers and in other areas it may be part concrete/part fence or a series of razor wire and/or electric fencing all of which includes a 70-100 meter (approximately 230-330 feet) “buffer zone” with trenches, roads, razor wire, cameras, and trace paths for footprints. In Bethlehem and Jerusalem, the Wall is made up of a combination of these edifices. Regardless of the Wall’s structural differences, the implications are the same for Palestinians-the inability to travel for employment, medical care, and education atop of the theft of land and resources by and for Israel and in many cases it results in forced displacement. 4) How much of the Wall has been completed and when is it scheduled to be completed? The Israeli government began building the Wall in June 2002 in the northern West Bank districts of Jenin, Tulkarem, and Qalqiliya and aimed for its completion in 2005. At the end of July 2003, Israel announced the “completion” of this section, the so-called “first phase”, which stretches some 145 km (90 miles). Today some 70 percent are built. Popular resistance had a primary role in delaying the completion. Construction was halted in some areas because of resistance by affected communities. Court cases were initiated, which took six or seven months, during which time all construction was put on hold. So the deadline was pushed back from 2005 to 2008. In 2008 Israel moved completion to 2011. Currently, the new deadline set is 2020. 5) Is the Wall temporary? At the cost of 12 million NIS or 2.8 million USD per km, the Wall is not a “temporary” measure but the continuation of Israel’s theft of Palestinian land and iron grip of Palestinian resources. The Wall, through its path which is marked by land annexation and destruction, is clearly a “tool” for the Israeli government in maximizing the confiscation of Palestinian land for future settlement expansion. The devastating reality which the Wall imposes is meant to ensure that Palestinians will be forcibly expelled from areas Israel looks to annex and “demographically contained” in other areas by creating permanent “facts on the ground” for the continued colonization of Palestine. 6) How is the Wall affecting Palestinian communities? The Wall is devastating every aspect of Palestinian life—already tens of communities have experienced the loss of land, water, and resources which provide their sustenance as well as the destruction of community and personal property. Palestinian villages and towns near the Wall have become isolated ghettos where movement in and out is limited, if not impossible, thus severing travel for work, health, education, and visits to friends and family. The Wall is intended to deny any prospects for survival in communities, and therefore is not

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only the negation of Palestinian national aspirations and right to self-determination, but also a tool in the creeping displacement of the population and the realization of the Zionist/Israeli expansionist plans. 7) How is the Wall related to the Israeli settlement policy? The Wall is the continuation of the Zionist/Israeli expansionist agenda of stealing Palestinian land and forcibly expelling residents—the Wall’s path equates to the de facto annexation of nearly 50% of the West Bank and almost all of the Israeli settlements. The Wall will de facto annex 98% of the settler population. Around and in Jerusalem the Wall is completing the Zionist/Israeli project of “Greater Jerusalem”, formally endorsed by the Knesset in 1997, which aims at “judaizing” and annexing East Jerusalem into a Jewish metropolitan area. The path of the Wall has been openly dictated by intentions to include settlements within the Israeli government and society. In March 2003, the Yesha Council of settlers worked with the Israeli government to extend the Wall’s path further into the West Bank south of Qalqiliya in order to bring the settlements of Ariel, Immanuel, and Qedumim into the Israeli “controlled area”. 8) Would it be acceptable if the Wall was built on the 1967 Green Line? It is entirely unacceptable to build the Wall on the 1967 Green Line—there is a fundamental injustice in caging in an entire population. While the 1967 Green Line is advocated by the UN and many others to be the “international border” between Israel and the West Bank, the fact is that, following the 1948 war and the proclamation of the State of Israel, communities were forcibly and artificially divided into east/west by this “border”. However, the residents continue to share social services, markets, and familiar ties. To advocate that the Wall could be built on the 1967 Green Line is to legitimize the forcible separation of these communities. 9) Who is building the Wall? While the overall responsibility over the construction of the Wall is with the Israeli ministry of defense and the Israeli state, the Wall could not be built without the active involvement of dozens of Israeli and international companies. These companies are knowingly and directly complicit with the grave breach of international humanitarian law (a war crime) and violations of Palestinian rights caused by the construction of the Wall. The most important companies are: Elbit Systems, Magal Security Systems, Israel Aerospace Industries, Controp Precision Technologies, Cement Roadstone Holdings, Cape Gate, Ashtrom Group, Tyco Electronics. For more, see factsheet below. A number of these companies are military companies involved in “homeland security” as well as weapons development and production. Stop the Wall calls on all people of conscience, organizations, institutions and governments to boycott and divest from these companies and where possible, hold them accountable in front of national and international courts for their complicity in Israeli war crimes. 10) What is the Wall’s status under international law? The Wall has been confirmed illegal by the International Court of Justice in its 2004 advisory opinion on the legal consequences of Israeli construction of the Wall. The ICJ has mandated Israel to stop its construction, dismantle existing parts of the Wall, repeal the associated regime and to give reparations for the damages created. The ICJ further reminded the international community of their duty not to recognize or to aid or abet grave violations of international law by third states. Neither Israel nor the international community have to day complied with their obligations under international law. The Wall, as well as the Occupation itself, comprises a wide range of violations to international law. A major violation of the Apartheid Wall is the unilateral demarcation of a new border in the West Bank that amounts to effective annexation of occupied land (United Nations Charter,art. 2.4). Furthermore, destruction for and building of the Wall has amounted to numerous more violations of the IV Geneva Convention (IV GC) including the destruction of land and/or property (art. 53) and collective punishment (art. 33). The Wall also breaches the International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR, 1966) and the International Covenant on Economical, Social, and Cultural Rights (ICESCR, 1966), both of which Israel has signed. The rights violated include: freedom of movement (ICCPR, art.12), property (ICCPR, art. 1,), health (ICESCR, art.12 and IV GC, art. 32), education (ICESCR, art.13, and IV GC, art. 50), work (ICESCR, art. 6), and food (ICESCR, art. 11). Under Article 1 of the International Convention on the Suppression and Punishment of the Crime of Apartheid (1979) the Wall constitutes a “Crime against Humanity”. It divides populations on the basis of race and ethnicity and discrimination against residents in the West Bank to benefit illegal Israeli settlers and thus complies with the definition of “apartheid”. Allegato 4 I muri possono crollare di Domenico Gallo, 8 luglio 2004 Molti hanno considerato con scetticismo o con sufficienza la decisione dell'Assemblea Generale dell'ONU, adottata con la Risoluzione dell'8 dicembre 2003, di interpellare la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite sulla legalità della costruzione del muro da parte di Israele. Com'è noto il conflitto israeliano palestinese è un vero e proprio cimitero della legalità internazionale nel quale giacciono sepolte (cioè inattuate) decine di pronunzie del Consiglio di Sicurezza e centinaia di risoluzioni e raccomandazioni dell'Assemblea Generale e di altri organi ausiliari. Le vicende del conflitto e di una occupazione militare che si protrae da quasi quarant'anni (la più lunga che si conosca nella storia moderna) pongono ogni giorno una sfida radicale alla legalità internazionale e mettono in discussione la stessa capacità della Comunità internazionale di organizzare la convivenza fra gli Stati su un sistema di regole condivise. Di fronte a questa situazione catastrofica, molti hanno espresso scetticismo sulla possibilità che una pronunzia consultiva (cioè non vincolante) di un organo di giustizia internazionale possa giocare una concreta influenza sul conflitto in corso, condotto da attori politici che si dimostrano sempre più impermeabili alle ragioni del diritto. Ma adesso siamo arrivati al momento della verità in quanto la pubblicazione della sentenza della Corte di Giustizia dell'ONU è prevista per il 9 luglio. Noi non sappiamo se le parole che pronunzierà la Corte delle Nazioni Unite saranno tanto forti da far crollare il muro, però sappiamo che, ancor prima della pronunzia della Corte, il muro ha cominciato a crollare. E lo ha fatto per effetto delle parole, molto più vincolanti per Israele, pronunziate dalla sua Corte Suprema con la "storica" sentenza del 30 giugno scorso. Sebbene da taluni sia stata

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banalizzata o ridimensionata nella sua portata reale, non v'è dubbio che, per le vicende di Israele si tratti di una sentenza storica, come lo è stata la sentenza del 6 settembre 1999, che ha messo al bando la tortura, sotto ogni sua forma. Con questa sentenza la Corte Suprema ha fatto cadere il tabù del muro, uno dei tabù più duri, più difficili, più radicati nel sentimento comune. L'argomento che in realtà la sentenza non mette in discussione il muro, ma il suo tracciato non comprende la portata della breccia che la Corte ha inflitto al muro. In realtà la discussione sulla legittimità della costruzione del muro non può essere separata dalla discussione sul suo tracciato. E' evidente che se Israele avesse deciso di costruire il muro sulla linea verde, nessuno ne avrebbe potuto contestare la legalità, né avrebbe potuto ingiungere ad Israele di arrestarne la costruzione, come ha fatto l'Assemblea Generale con la Risoluzione approvata, quasi all'unanimità il 21 ottobre 2003. Un muro costruito sul confine si sarebbe prestato a critiche soltanto dal punto di vista della violenza fatta al territorio, ma non avrebbe potuto essere contestato dal punto di vista del diritto internazionale. La decisione assunta dalla Corte Suprema israeliana non è stata semplice come dimostra al sua lunghissima e dettagliata motivazione. Per aprire una breccia nel muro, i giudici israeliani hanno dovuto depoliticizzare al massimo l'argomento, accettare come dogmi indiscutibili la pretesa che la costruzione del muro sia necessitata da esigenze di sicurezza e che il tracciato della barriera non rappresenta un tentativo di modificare le frontiere esistenti, attraverso una alterazione irreversibile dello status quo. Dovendo mantenere la loro navigazione all'interno di queste due insuperabili colonne d'Ercole, i giudici hanno fatto un lavoro di approfondimento delle conseguenze del passaggio del muro, con riferimento ad ogni chilometro percorso, prendendo in considerazione il danno concreto causato ai residenti della zona, quantificando ogni zolla di terreno espropriato per la costruzione del muro o intercluso, contando gli alberi che sarebbero stati sradicati o sottratti all'utilizzazione della popolazione. In questo contesto la Corte ha preso atto della irreparabilità della separazione dei contadini dai loro campi, giudicando che il regime di permessi e le porte aperte per il passaggio dei residenti non avrebbero neutralizzato gli effetti controproducenti sostanziali della barriera. Dopo aver fatto questo esame dettagliato la Corte ha stimato che quasi tutto il tracciato del muro oggetto di contestazione doveva considerarsi illegittimo in quanto, il bilanciamento fra le ragioni (incontestabili) della sicurezza e l'obbligo di tutelare i diritti delle popolazioni occupate si rivelava sproporzionato. In altre parole la Corte ha detto che, seppure in Israele la costruzione del muro è una scelta politica non censurabile dalla giustizia, in quanto fondata su ragioni incontestabili di sicurezza, queste ragioni devono essere tutelate senza, per questo, venir meno agli obblighi imposti dalle convenzioni internazionali. Tradotto in termini pratici, questo vuol dire che se la Corte Suprema manterrà fede a questo orientamento, quasi tutto il muro è destinato a crollare. "Il nostro compito è difficile" - concludono i giudici. "Noi siamo membri della società israeliana. Sebbene qualche volta ci troviamo in una torre d'avorio, quella torre si trova, pur sempre nel cuore di Gerusalemme, che non infrequentemente è colpita da un terrorismo impietoso. (..) Noi siamo coscienti che nel breve periodo questa decisione non renderà più facile la lotta dello Stato contro coloro che gli si levano contro. Ma noi siamo giudici. Quando affrontiamo un giudizio noi siamo soggetti (soltanto) al diritto." Allegato 5 La Corte Internazionale di Giustizia abbatte il muro di Domenico Gallo, 15 luglio 2004 La sentenza emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia dell'ONU il 9 luglio 2004 è un evento storico del quale bisogna capire l'importanza. Il conflitto israeliano Palestinese, com'è noto, è il conflitto internazionale che più profondamente ha intersecato la responsabilità della Comunità internazionale attraverso l'Organizzazione delle Nazioni Unite. A cominciare dall'ormai lontano 1947, quando l'Assemblea Generale, con la Risoluzione n.181 del 29 novembre, decretò la divisione della Palestina soggetta al Mandato Britannico in due Stati, prevedendo uno status speciale per la città di Gerusalemme. Da allora le Nazioni Unite sono intervenute in tutte le maniere possibili per fermare gli eserciti, restaurare i diritti violati, arginare la violenza, dare una prospettiva ai profughi, tracciare un quadro di regole condivise dalla Comunità internazionale e indicare una prospettiva per la costruzione di una soluzione pacifica e definitiva del conflitto, impegnando tutte le loro risorse. L'Assemblea Generale ed il Consiglio di Sicurezza hanno esaminato tutti gli aspetti del conflitto. In particolare quest'ultimo ha pronunziato numerose ed importanti Risoluzioni, come la Risoluzione n. 242 del 22 novembre 1967 e la Risoluzione n. 338 del 22 ottobre 1973, che ancora oggi costituiscono i capisaldi, la via maestra per ogni possibile percorso di pace. L'ultima risorsa del sistema della Nazioni Unite che non era ancora entrata in gioco, la più preziosa, è la Corte Internazionale di Giustizia. A questa si è, infine, rivolta l'Assemblea Generale, chiedendo un "parere consultivo", ai sensi dell'art. 96 della Carta delle Nazioni Unite. Il fatto che la sentenza emessa dalla Corte dell'Aja non sia "vincolante" per le parti non deve trarre in inganno in ordine alla sua importanza. Le parole della Corte sono parole pesanti, definitive, perché la Corte è la bocca del diritto internazionale. Essa ci dice cosa è legale e cosa è illegale nell'ordinamento internazionale, in altre parole qual è il diritto, quale diritto è applicabile in una determinata fattispecie. Ma vediamo, nel dettaglio, cosa la Corte ci fa sapere. Il primo punto è che la Corte è competente a conoscere il conflitto ed a giudicare la questione sollevata dall'Assemblea Generale dell'ONU. Può sembrare banale, ma non lo è affatto se si pensa che un gran numero di Stati, ivi compresi gli Stati Uniti e gli Stati dell'Unione Europea, hanno chiesto alla Corte di non pronunziarsi, di tacere. Ed invece la Corte ha deciso di non tacere, respingendo la tesi della "political question" e riconoscendo che il conflitto deve essere regolato (e giudicato) dal diritto internazionale. Andando in controtendenza rispetto agli assetti del potere, la Corte, in sostanza, ci dice che gli attori politici che guidano gli Stati non sono onnipotenti, che il potere politico deve rispettare delle regole, dei principi, dei valori che l'umanità faticosamente si è data, nel suo cammino storico, per assicurare la convivenza pacifica dei popoli ed il rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo. Quindi la Corte esamina lo stato giuridico dei territori occupati. Essa ribadisce che tutti i territori che si trovano al di là della linea verde (la linea di armistizio del 1949), ivi compresa la zona Est di Gerusalemme, sono territori occupati a seguito di un conflitto bellico e che Israele è una Potenza occupante, come tale vincolata, nell'amministrazione dei territori occupati, al rispetto delle obbligazioni derivanti dal diritto dei conflitti armati. Si tratta di posizioni già espresse con chiarezza in numerose Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (a cominciare dalla 465 del 1° marzo 1980) e dell'Assemblea Generale dell'ONU (da ultimo con la Risoluzione A/ES-10/L.15 approvata il 21 ottobre 2003). Non si tratta tuttavia di una pronunzia superflua. Con la propria statuizione, la Corte "certifica" lo status giuridico dei territori, pronunziando delle parole "definitive", che mettono fine ad ogni possibile querelle politica ed impediscono che le istituzioni internazionali possano in futuro "revisionare" questi concetti, accettando che Israele possa annettersi parte dei territori occupati, modificando unilateralmente i propri confini. Due sono le conseguenze fondamentali che emergono dal riconoscimento dello statuto giuridico dei territori occupati. La prima è che il popolo palestinese è titolare di un diritto all'autodeterminazione, che deve essere attuato - ovviamente - con mezzi pacifici, ma non deve essere pregiudicato con modifiche del territorio e della sua composizione demografica, realizzate attraverso la politica dei "fatti compiuti".

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La seconda è che, nell'amministrazione dei territori occupati, la Potenza occupante deve rispettare i principi consuetudinari del diritto umanitario e le Convenzioni internazionali, ivi compresa la IV Convenzione di Ginevra, che Israele si rifiuta di riconoscere in quanto tale Convenzione contiene una norma che esplicitamente vieta alla Potenza occupante di trasferire una parte della propria popolazione nei territori occupati (art. 49).La Corte quindi riconosce che gli insediamenti dei coloni nei territori occupati sono illegali in quanto costituiscono una "flagrante violazione" della IV Convenzione di Ginevra. Dopo aver così delineato il quadro giuridico, la Corte passa ad esaminare la questione se la costruzione del muro sia contraria al diritto internazionale. A questo riguardo la Corte osserva che il tracciato del muro include circa l'80% delle colonie installate da Israele nei territori occupati, realizzando in questo modo una "annessione di fatto" ad Israele di una parte dei territori occupati: in questo modo resterebbe seriamente pregiudicato il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione. Per questo il tracciato del muro costituisce una grave violazione dell'obbligo di Israele di rispettare il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese e del divieto di annessione di territori con la forza. Sotto un altro profilo, il tracciato del muro, per le conseguenze negative che comporta sui diritti della popolazione palestinese, in termini di libertà di circolazione, accesso alla cure mediche, all'istruzione, al lavoro e di tutela della proprietà, appare incompatibile con le obbligazioni in tema di tutela dei diritti umani che gravano su Israele, sia in virtù del diritto bellico umanitario, sia in virtù della Convenzioni internazionali sui diritti dell'uomo, a cui Israele ha aderito (come i due Patti dell'ONU del 66 e la Convenzione sui diritti del fanciullo). E' interessante notare come sotto questo aspetto, la critica che la Corte dell'Aja fa alla legalità del muro si avvicina molto alle considerazioni svolte dalla Corte Suprema israeliana che ha dichiarato l'illegalità di gran parte del percorso del muro, oggetto di contestazione, con una coraggiosa sentenza emessa lo scorso 30 giugno. Una volta chiarito, attraverso questa strada, che la costruzione del muro è contraria al diritto internazionale, la Corte affronta il problema della conseguenze, cioè delle obbligazioni che incombono sulle parti e sulla Comunità internazionale nel suo complesso, in ragione di tale illecito. La prima conseguenza riguarda le parti direttamente interessate: Israele e i palestinesi, la seconda riguarda gli altri Stati, la terza riguarda l'ONU. Sotto il primo profilo la Corte statuisce che Israele ha il dovere di arrestare la costruzione del muro e di smantellare la parte già costruita. I palestinesi hanno diritto di vedersi retrocessi i beni espropriati e di essere risarciti del danno subito. Sotto il secondo profilo, quella che viene in considerazione è la responsabilità degli altri Stati. Poiché il diritto internazionale è vincolante per tutti, anche gli Stati terzi hanno delle obbligazioni, in particolare non devono riconoscere l'illegale situazione risultante dalla costruzione del muro e non devono aiutare Israele a mantenere in essere tale situazione. In questo contesto una obbligazione rafforzata grava sui Paesi che hanno firmato la IV Convenzione di Ginevra di adoperarsi per ottenere che Israele rispetti le obbligazioni nascenti da tale Convenzione. Sotto il terzo profilo le Nazioni Unite, ed in particolare l'Assemblea Generale ed il Consiglio di Sicurezza hanno il dovere di prendere ulteriori misure per porre fine a tale illegale situazione. Le parole della Corte dell'Aja mettono in mora la Comunità internazionale e ripropongono lo scandalo di un diritto calpestato (con gravi sofferenze di tutti), di una giustizia inattuata. Se è vero che non esistono strutture o istituzioni che possano assicurare il rispetto del diritto internazionale violato, è anche vero che una garanzia c'è, una garanzia che può essere fragile, inconsistente, ma a volte può rivelarsi pesante come un macigno: l'orientamento dell'opinione pubblica internazionale. Le parole che la Corte di Giustizia ha pronunziato sono importanti perché forniscono un'arma alla opinione pubblica internazionale per orientare le scelte degli Stati e giudicare i comportamenti delle élites dirigenti, sono parole che possono far crollare i muri. Principali risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che esprimono condanna all'operato di

Israele. Le risoluzioni sono citate per numero e data; se ne indicano inoltre degli estratti che ne illustrano il

contenuto.

1) RISOLUZIONE N. 93 (18 MAGGIO 1951) Il CS decide che ai civili arabi che sono stati trasferiti dalla zona smilitarizzata dal governo di Israele deve essere consentito di tornare immediatamente nelle loro case e che la Mixed Armistice Commission deve supervisionare il loro ritorno e la loro reintegrazione nelle modalità decise dalla Commissione stessa. 2) RISOLUZIONE N. 101 (24 NOVEMBRE 1953) Il CS ritiene che l'azione delle forze armate israeliane a Qibya del 14 - 15ottobre 1953 e tutte le azioni simili costituiscano una violazione del cessate il fuoco (risoluzione 54 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU); esprime la più forte censura per questa azione, che può pregiudicare le possibilità di soluzione pacifica; chiama Israele a prendere misure effettive per prevenire tali azioni. 3) RISOLUZIONE N. 106 (29 MARZO 1955) Il CS osserva che un attacco premeditato e pianificato ordinato dalle autorità israeliane è stato commesso dalle forze armate israeliane contro le forze armate egiziane nella Striscia di Gaza il 28 febbraio 1955 e condanna questo attacco come una violazione del cessate il fuoco disposto dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU. 4) RISOLUZIONE N. 111 (19 GENNAIO 1956) Il CS ricorda al governo israeliano che il Consiglio ha già condannato le azioni militari che hanno rotto i Trattati dell'Armistizio Generale e ha chiamato Israele a prendere misure effettive per prevenire simili azioni; condanna l'attacco dell'11 dicembre 1955 sul territorio siriano come una flagrante violazione dei provvedimenti di cessate il fuoco della risoluzione 54 (1948) e degli obblighi di Israele rispetto alla Carta delle Nazioni Unite; esprime grave preoccupazione per il venire meno ai propri obblighi da parte del governo israeliano. 5) RISOLUZIONE N. 127 (22 GENNAIO 1958) Il CS raccomanda ad Israele di sospendere la "zona di nessuno" a Gerusalemme. 6) RISOLUZIONE N. 162 (11 APRILE 1961) Il CS chiede urgentemente ad Israele di rispettare le decisioni delle Nazioni Unite. 7) RISOLUZIONE N. 171 (9 APRILE 1962) Il CS riscontra le flagranti violazioni operate da Israele nel suo attacco alla Siria. 8) RISOLUZIONE N. 228 (25 NOVEMBRE 1966) Il CS censura Israele per il suo attacco a Samu, in Cisgiordania, sotto il controllo giordano.

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9) RISOLUZIONE N. 237 (14 GIUGNO 1967) Il CS chiede urgentemente a Israele di consentire il ritorno dei nuovi profughi palestinesi del 1967. 10) RISOLUZIONE N. 248 (24 MARZO 1968) Il CS condanna Israele per il suo attacco massiccio contro Karameh, in Giordania. 11) RISOLUZIONE N. 250 (27 APRILE 1968) Il CS ingiunge a Israele di astenersi dal tenere una parata militare a Gerusalemme. 12) RISOLUZIONE N. 251 (2 MAGGIO 1968) Il CS deplora profondamente la parata militare israeliana a Gerusalemme, in spregio alla risoluzione 250. 13) RISOLUZIONE N. 252 (21 MAGGIO 1968) Il CS dichiara non valido l'atto di Israele di unificazione di Gerusalemme come capitale ebraica. 14) RISOLUZIONE N. 256 (16 AGOSTO 1968) Il CS condanna gli attacchi israeliani contro la Giordania come flagranti violazioni. 15) RISOLUZIONE N. 259 (27 SETTEMBRE 1968) Il CS deplora il rifiuto israeliano di accettare una missione dell'ONU che verifichi lo stato di occupazione. 16) RISOLUZIONE N. 262 (31 DICEMBRE 1968) Il CS condanna Israele per l'attacco all'aeroporto di Beirut. 17) RISOLUZIONE N. 265 (1 APRILE 1969) Il CS condanna Israele per gli attacchi aerei su Salt in Giordania. 18) RISOLUZIONE N. 267 (3 LUGLIO 1969) Il CS censura Israele per gli atti amministrativi tesi a cambiare lo status di Gerusalemme. 19) RISOLUZIONE N. 270 (26 AGOSTO 1969) Il CS condanna Israele per gli attacchi aerei sui villaggi del Sud del Libano. 20) RISOLUZIONE N. 271 (15 SETTEMBRE 1969) Il CS condanna Israele per non aver obbedito alle risoluzioni dell'ONU su Gerusalemme. 21) RISOLUZIONE N. 279 (12 MAGGIO 1969) Il CS chiede il ritiro delle forze israeliane dal Libano. 22) RISOLUZIONE N. 280 (19 MAGGIO 1969) Il CS condanna gli attacchi israeliani contro il Libano. 23) RISOLUZIONE N. 285 (5 SETTEMBRE 1970) Il CS chiede l'immediato ritiro israeliano dal Libano. 24) RISOLUZIONE N. 298 (25 SETTEMBRE 1971) Il CS deplora che Israele abbia cambiato lo status di Gerusalemme. 25) RISOLUZIONE N. 313 (28 FEBBRAIO 1972) Il CS chiede che Israele ponga fine agli attacchi contro il Libano. 26) RISOLUZIONE N. 316 (26 GIUGNO 1972) Il CS condanna Israele per i ripetuti attacchi sul Libano. 27) RISOLUZIONE N. 317 (21 LUGLIO 1972) Il CS deplora il rifiuto di Israele di rilasciare gli Arabi rapiti in Libano. 28) RISOLUZIONE N. 332 (21 APRILE 1973) Il CS condanna i ripetuti attacchi israeliani contro il Libano. 29) RISOLUZIONE N. 337 (15 AGOSTO 1973) Il CS condanna Israele per aver violato la sovranità del Libano. 30) RISOLUZIONE N. 347 (24 APRILE 1974) Il CS condanna gli attacchi israeliani sul Libano. 31) RISOLUZIONE N. 425 (19 MARZO 1978) Il CS ingiunge a Israele di ritirare le sue forze dal Libano. 32) RISOLUZIONE N. 427 (3 MAGGIO 1979) Il CS chiama Israele al completo ritiro delle proprie forze dal Libano. 33) RISOLUZIONE N. 444 (19 GENNAIO 1979) Il CS deplora la mancanza di cooperazione di Israele con il contingente di peacekeeping dell'ONU. 34) RISOLUZIONE N. 446 (22 MARZO 1979) Il CS determina che gli insediamenti israeliani sono un grave ostacolo alla pace e chiama Israele al rispetto della Quarta Convenzione di Ginevra. 35) RISOLUZIONE N. 450 (14 GIUGNO 1979) Il CS ingiunge a Israele di porre fine agli attacchi contro il Libano. 36) RISOLUZIONE N. 452 (20 LUGLIO 1979) Il CS ingiunge a Israele di smettere di costruire insediamenti nei territori occupati. 37) RISOLUZIONE N. 465 (1 MARZO 1980) Il CS deplora gli insediamenti israeliani e chiede a tutti gli stati membri di non sostenere il programma di insediamenti di Israele.

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38) RISOLUZIONE N. 467 (24 APRILE 1980) Il CS deplora con forza l'intervento militare israeliano in Libano. 39) RISOLUZIONE N. 468 (8 MAGGIO 1980) Il CS ingiunge a Israele di annullare le espulsioni illegali di due sindaci e un giudice palestinesi, e di facilitare il loro ritorno. 40) RISOLUZIONE N. 469 (20 MAGGIO 1980) Il CS deplora con forza la non osservanza da parte di Israele dell'ordine di non deportare Palestinesi. 41) RISOLUZIONE N. 471 (5 GIUGNO 1980) Il CS esprime grave preoccupazione per il non rispetto da parte di Israele della Quarta Convenzione di Ginevra. 42) RISOLUZIONE N. 476 (30 GIUGNO 1980) Il CS ribadisce che le rivendicazioni israeliane su Gerusalemme sono nulle. 43) RISOLUZIONE N. 478 (20 AGOSTO 1980) Il CS censura con la massima forza Israele per le rivendicazioni su Gerusalemme contenute nella sua "Legge Fondamentale". 44) RISOLUZIONE N. 484 (19 DICEMBRE 1980) Il CS formula l'imperativo che Israele riammetta i due sindaci palestinesi deportati. 45) RISOLUZIONE N. 487 (19 GIUGNO 1981) Il CS condanna con forza Israele per l'attacco alle strutture nucleari dell'Iraq. 46) RISOLUZIONE N. 497 (17 DICEMBRE 1981) Il CS dichiara nulla l'annessione israeliana delle Alture del Golan e chiede ad Israele di annullare immediatamente la propria decisione. 47) RISOLUZIONE N. 498 (18 DICEMBRE 1981) Il CS ingiunge a Israele di ritirarsi dal Libano. 48) RISOLUZIONE N. 501 (25 FEBBRAIO 1982) Il CS ingiunge a Israele di interrompere gli attacchi contro il Libano e di ritirare le sue truppe. 49) RISOLUZIONE N. 509 (6 GIUGNO 1982) Il CS chiede che Israele ritiri immediatamente e incondizionatamente le sue forze dal Libano. 50) RISOLUZIONE N. 515 (19 GIUGNO 1982) Il CS chiede che Israele tolga l'assedio a Beirut e consenta l'entrata di rifornimenti alimentari. 51) RISOLUZIONE N. 517 (4 AGOSTO 1982) Il CS censura Israele per non aver ubbidito alle risoluzioni dell'ONU e chiede ad Israele di ritirare le sue forze dal Libano. 52) RISOLUZIONE N. 518 (12 AGOSTO 1982) Il CS chiede ad Israele piena cooperazione con le forze dell'ONU in Libano. 53) RISOLUZIONE N. 520 (17 SETTEMBRE 1982) Il CS condanna l'attacco israeliano a Beirut Ovest. 54) RISOLUZIONE N. 573 (4 OTTOBRE 1985) Il CS condanna vigorosamente Israele per i bombardamenti su Tunisi durante l'attacco al quartier generale dell'OLP. 55) RISOLUZIONE N. 587 (23 SETTEMBRE 1986) Il CS ricorda le precedenti richieste affinché Israele ritirasse le sue forze dal Libano e chiede con urgenza a tutte le parti di ritirarsi. 56) RISOLUZIONE N. 592 (8 DICEMBRE 1986) Il CS deplora con forza l'uccisione di studenti palestinesi dell'Università' di Birzeit ad opera delle truppe israeliane. 57) RISOLUZIONE N. 605 (22 DICEMBRE 1987) Il CS deplora con forza le politiche e le pratiche israeliane che negano il diritti umani dei Palestinesi. 58) RISOLUZIONE N. 607 (5 GENNAIO 1988) Il CS ingiunge a Israele di non deportare i Palestinesi e gli chiede con forza di rispettare la Quarta Convenzione di Ginevra. 59) RISOLUZIONE N. 608 (14 GENNAIO 1988) Il CS si rammarica profondamente che Israele abbia sfidato l'ONU e deportato civili palestinesi. 60) RISOLUZIONE N. 636 (14 GIUGNO 1989) Il CS si rammarica profondamente della deportazione di civili palestinesi da parte di Israele. 61) RISOLUZIONE N. 641 (30 AGOSTO 1989) Il CS deplora che Israele continui nelle deportazioni di Palestinesi. 62) RISOLUZIONE N. 672 (12 OTTOBRE 1990) Il CS condanna Israele per violenza contro i Palestinesi a Haram al-Sharif/Tempio della Montagna. 63) RISOLUZIONE N. 673 (24 OTTOBRE 1990) Il CS deplora il rifiuto israeliano di cooperare con l'ONU. 64) RISOLUZIONE N. 681 (20 DICEMBRE 1990) Il CS deplora che Israele abbia ripreso le deportazioni di Palestinesi.

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65) RISOLUZIONE N. 694 (24 MAGGIO 1991) Il CS deplora la deportazione di Palestinesi ad opera di Israele e ingiunge ad Israele di assicurare loro un sicuro e immediato ritorno. 66) RISOLUZIONE N. 726 (6 GENNAIO 1992) Il CS condanna con forza la deportazione di Palestinesi ad opera di Israele. 67) RISOLUZIONE N. 799 (18 DICEMBRE 1992) Il CS condanna con forza la deportazione di 413 Palestinesi da parte di Israele e chiede il loro immediato ritorno. 68) RISOLUZIONE N. 904 (18 MARZO 1994) Il CS: sconcertato dallo spaventoso massacro commesso contro fedeli palestinesi nella Moschea Ibrahim di Hebron il 25 febbraio 1994, durante il Ramadan; gravemente preoccupato dai conseguenti incidenti nei territori palestinesi occupati come risultato del massacro, che evidenzia la necessità di assicurare protezione e sicurezza al popolo palestinese; prendendo atto della condanna di questo massacro da parte della comunità internazionale; riaffermando le importanti risoluzioni sulla applicabilità della Quarta Convenzione di Ginevra ai territori occupati da Israele nel giugno 1967, compresa Gerusalemme, e le conseguenti responsabilità israeliane. Condanna con forza il massacro di Hebron e le sue conseguenze, che hanno causato la morte di oltre 50 civili palestinesi e il ferimento di altre centinaia e ingiunge ad Israele, la potenza occupante, di applicare misure che prevengano atti illegali di violenza da parte di coloni israeliani, come tra gli altri la confisca delle armi. 69) RISOLUZIONE N. 1402 (30 MARZO 2002) Il CS alle truppe israeliane di ritirarsi dalle città palestinesi, compresa Ramallah. 70) RISOLUZIONE N. 1403 (4 APRILE 2002) Il CS chiede che la risoluzione 1402 (2002) sia applicata senza ulteriori ritardi. 71) RISOLUZIONE N. 1405 (19 APRILE 2002) Il CS chiede che siano tolte le restrizioni imposte, soprattutto a Jenin, alle operazioni delle organizzazioni umanitarie, compreso il Comitato Internazionale della Croce Rossa e l'Agenzia dell'ONU per l'Assistenza e il Lavoro per i Profughi Palestinesi in Medio Oriente (Unrwa). 72) RISOLUZIONE N. 1435 (24 SETTEMBRE 2002) Il CS chiede che Israele ponga immediatamente fine alle misure prese nella città di Ramallah e nei dintorni, che comprendono la distruzione delle infrastrutture civili e di sicurezza palestinesi; chiede anche il rapido ritiro delle forze di occupazione israeliane dalle città palestinesi e il loro ritorno alle posizioni tenute prima di settembre 2000. Fonti: 1. Paul Findley, Deliberate Deceptions: Facing the Facts about the US/Israeli Relationship (Chicago: Lawrence Hill, 1993) 2. http://www.un.org/documents/scres.html Abbiamo letto e commentato sia la dichiarazione dell’O.N.U. che quella della Corte Costituzionale e dei tribunali

dell’Aja e Russell.

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5) La stessa storia raccontata da due diverse prospettive

Peace Research Institute in the Middle East, La storia dell’altro, israeliani e palestinesi

Prefazione di Pierre Vidal-Naquet introduzione di Dan Bar-On, Sami Adwan, Eyal Naveh, Adnan Musallam a cura di Asher Salah e Barbara Bertoncini Ed. Una Città, 2003 Progetto coraggioso e interessantissimo per la nostra ricerca, che ha visto coinvolti 700 studenti e circa 12 insegnanti nell’impresa di riscrivere la loro storia, da entrambe le parti, a partire dalla constatazione che i testi di storia sui quali studiavano gli studenti nelle scuole non erano attendibili. Nel corso di un intero anno, gli studenti e i loro professori hanno scritto e riscritto la storia, confrontandosi con la versione dei loro nemici, la visione dell’altro. Si sono resi conto che degli stessi fatti che loro conoscevano potevano essere date versioni molto diverse. 1 Lo scopo della scrittura della storia, scritta dalle due prospettive e posta a confronto era quella di entrare, in qualche modo, in relazione con l’altro, con la sua diversa visione della storia e della realtà. Come sottolinea Walter Veltroni, vi emerge l’immaginario collettivo dei giovani delle due opposte appartenenze. Come osserva sempre Veltroni, si avverte, in quest’opera, una forte passione civile, tesa a difendere la propria identità etnica e culturale, ma capace anche di confrontarsi con quella dell’altro. Molto importante è anche l’apporto di questo lavoro di ricerca alla nostra comprensione della complessità della situazione. Nella sua prefazione Pierre Vidal-Naquet, sostenitore della necessità di creare due stati, uno ebreo e l’altro arabo, guarda al popolo palestinese come vittima di un intento colonizzatore e a quello ebreo come anch’esso vittima, anche se non del popolo palestinese. Egli ricorda come gli autori abbiano scelto tre momenti: la dichiarazione Balfour, che ha dato inizio all’applicazione dell’utopia sionista(fino al Libro bianco, momento drammatico del ’39), la guerra del ’48

che venne considerata dagli ebrei una guerra di indipendenza e per i palestinesi e la prima Intifada palestinese dell’87, che sconvolse i Territori occupati fino ai precari accordi di Oslo. Tra gli esiti emersi da quest’esperienza vi è la conferma dell’impossibilità di scrivere una storia obiettiva, le storie sono sempre diverse quando non conflittuali. Questa ne è virtualmente la prova. Al contempo, nella nostra riflessione sui muri, questa è anche, se non un’esperienza di condivisione come quella di Nevè Shalom, un’esperienza che guarda al di là del muro per intravedere la realtà dell’altro così come egli stesso la percepisce. La stessa storia è vissuta come espropriazione e sconfitta, catastrofe e disonore (nel ’48 e nel ’67) dai palestinesi, mentre come ritorno nella propria terra d’origine dagli ebrei. Pierre Vidal-Naquet ricorda le due versioni della strage del villaggio di Deir Yassin, della quale gli Israeliani sostengono esservi state più di 250vittime, i Palestinesi dicono più di 100, nonché le due versioni del numero di villaggi palestinesi rasi al suolo, 370 secondo gli Israeliani, 418 secondo i Palestinesi. Pierre Vidal-Naquet rimarca anche l’assenza nella loro ricostruzione storica di un episodio chiave: l’accordo tra Golda Meir

e re Abdallah di Transgiordania, entrambi decisi a non consentire la nascita di uno stato palestinese.

Così scrivono Dan Bar-On, Sami Adwan, Adnan Musallam, Eyal Naveh, nell’introduzione al saggio: “Gli studenti che imparano la storia nelle scuole, in tempo di guerra e di ostilità ne conoscono alla fine dei conti soltanto una versione – la loro, ovviamente ritenuta come quella che sta dalla parte del giusto […] Quello che da una parte è considerato l’eroe, dall’altra è visto come il criminale della storia. In una simile situazione, lo Stato forma gli insegnanti a diventare degli agenti culturali preparati solo a giustificare le ragioni dell’uno a scapito di quelle dell’altro. Noi crediamo invece che sia necessario cominciare a istruire i docenti in modo che possano diventare dei promotori di pace, consentendo ai loro allievi di conoscere il racconto degli eventi storici contemporaneamente dai due punti di vista”. Questo lavoro è dedicato a Yousuf Tumaizi, che ha trascorso 20 anni nelle prigioni israeliane, laureato in pedagogia e convinto pacifista, ha partecipato a progetti per la costruzione della pace, tra i quali questo.

1 Prime – Peace Research Institute in the Middle East, La storia dell’altro - israeliani e palestinesi. Presentazione di

Walter Veltroni. Prefazione di Pierre Vidal-Naquet. Introduzione di Dan Bar-On, Dami Adwan, Adnan Musallam, Eyal Naveh. A cura di Barbara Bertoncini e Asher N. Dalah. Traduzioni di Asher N.Salah e Anwar Abu Hashish, Ed. Una città, 2003.

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Qui di seguito tre estratti, dalla prefazione, dall’introduzione e dall’introduzione all’edizione italiana

“Il fatto essenziale e nuovo, assolutamente nuovo, è l’esistenza stessa di questo testo. Il discorso comune è per l’istante impossibile e lo resterà per molto tempo. Ciononostante, i professori che hanno redatto queste pagine l’hanno fatto nel rispetto reciproco dell’altro... Senza dubbio, da una parte e dall’altra si è talvolta nel mito. Se la colonizzazione come "ritorno" rientra nel campo del mito, che dire della definizione del "Muro occidentale", detto Muro del pianto, come appartenente alla moschea Al Aq-sa e atto a commemorare non il Tempio ma il volo del profeta Maometto sulla giumenta Baraq? Non è neanche certo che il re Davide abbia conquistato Gerusalemme battendo un popolo arabo. E ad ogni modo a cosa servono, da ambo le parti, queste leggende? I due popoli sono stati traumatizzati, gli Israeliani dal ricordo del genocidio, i Palestinesi da quello dell’espulsione. Sarebbe puerile chiedere loro di scrivere la stessa storia. E’ già ammirevole che accettino di coesistere in due racconti paralleli. Auguro buon vento a questa magnifica impresa. (dalla prefazione di Pierre Vidal-Naquet) Gli studenti che imparano la storia nelle scuole, in tempo di guerra e di ostilità, ne conoscono alla fine dei conti soltanto una versione –la loro, ovviamente ritenuta come quella che sta dalla parte del giusto. Spesso prevale nell’insegnamento la volontà di indottrinare e di legittimare una sola delle parti in conflitto, mettendo in cattiva luce le posizioni dell’altra. Varie ricerche dimostrano che i libri di storia si concentrano generalmente sulle guerre, sui morti e sulla sofferenza umana, mentre i periodi di pace, di convivenza vengono di regola trascurati. Quello che da una parte è considerato l’eroe, dall’altra è visto come il criminale della storia. In una simile situazione, lo Stato forma gli insegnanti a diventare degli agenti culturali preparati solo a giustificare le ragioni dell’uno a scapito di quelle dell’altro. ... (dall’introduzione di Dan Bar-On, Sami Adwan, Adnan Musallam, Eyal Naveh) Settecento ragazzi e una dozzina di insegnanti israeliani e palestinesi hanno sfidato -e sfidano- occupazione e attentati, blitz e terrorismo. Insieme, con coraggio individuale e intelligenza collettiva, hanno cominciato a bonificare uno dei campi minati più pericolosi per il percorso di pace. Quello della storia. Di parte. Spesso propagandistici. Sempre ignari delle ragioni dell’altro. Così questi ragazzi e questi insegnanti giudica-no i libri di testo sui quali si studia la storia sui banchi di scuola. In Israele come in Palestina, senza molte differenze. E così hanno cominciato a scriverla loro, la storia. Per un anno hanno scritto e riscritto la loro versione, letto e proposto modifiche alla versione degli altri, corretto e cam-biato verbi, sostantivi, aggettivi. Stupiti, increduli, a volte indignati, hanno scoperto racconti e interpretazioni dei fatti molto diversi da quelli che conoscevano. E con grande pazienza, e altrettanta fatica, hanno costruito questo racconto pa-rallelo. Con un obiettivo esplicito: dare, darsi, la possibilità di conoscere meglio l’altro. Un primo risultato l’hanno raggiunto. La storia dell’altro è stata adottata in alcune scuole israeliane e palestinesi. Tra i caratteri della loro scrittura araba o ebraica, altre centinaia di ragazzi scopriranno l’immaginario collettivo dei loro coe-tanei dell’altra parte, lo metteranno a confronto con il proprio, cercheranno di capire. E, sopra tutto, porranno molte do-mande. (dalla presentazione)

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6) Il giornalismo di guerra

7) Vittorio Arrigoni, “Diario di un pacifista sotto le bombe” 15726431_1022960664476729_4829300783585615069_n

il 27 dicembre 2008 ha inizio l’Operazione “Piombo Fuso”, campagna militare lanciata dall’esercito israeliano sulla Striscia di Gaza, che si protrarrà fino al 18 gennaio 2009. I morti furono alla fine 1417, di cui 313 bambini (secondo il Rapporto Goldstone), e i feriti circa 5000. Questo è l’articolo del 29 dicembre 2008, che Vittorio Arrigoni pubblicò su “il Manifesto” : “Diario di un pacifista sotto le bombe”

Nell’aria acre odore di zolfo, nel cielo lampi intermezzano fragorosi boati. Ormai le mie orecchie sono sorde dalle esplosioni e i miei occhi aridi di lacrime dinanzi ai cadaveri.

Mi trovo dinnanzi all’ospedale di Al Shifa, il principale di Gaza, ed è appena giunta la terribile minaccia che Israele avrebbe deciso di bombardare la nuova ala in costruzione. Non sarebbe una novità, ieri è stato bombardato l’ospedale Wea’m. Insieme ad un deposito di medicinali a Rafah, l’università islamica (distrutta), e diverse moschee sparse per tutta la striscia. Oltre a decine di installazioni CIVILI. Pare che non trovando più obbiettivi “sensibili”, l’aviazione e la marina militare si diletti nel bersagliare luoghi sacri, scuole e ospedali. E’ un 11 settembre ad ogni ora, ogni minuto, da queste parti, e il domani è sempre un nuovo giorno di lutto, sempre uguale. Si avvertono gli elicotteri e gli aerei costantemente in volo, quando vedi il lampo, sei già spacciato, è troppo tardi per mettersi in salvo. Non ci sono bunker anti-bombe in tutta la Striscia, nessun posto è al sicuro.

Non riesco a contattare più amici a Rafah, neanche quelli che abitano a Nord di Gaza city, spero perché le linee sono intasate. Ci spero. Sono 60 ore che non chiudo occhio, come me, tutti i gazawi. Ieri io e altri 3 compagni dell’ISM abbiamo trascorso tutta la nottata all’ospedale di al Awda del campo profughi di Jabalia. Ci siamo andati perché temevamo la tanto paventata incursione di terra che poi non si è verificata. Ma i carri armati israeliani stazionano pronti lungo il confine tutto il confine della Striscia, i loro cingoli affamati di corpi pare si metteranno in funerea marcia questa notte. Verso le 23:30 una bomba è precipitata a circa 800 metri dall’ospedale, l’onda d’urto ha mandato in frammenti diversi vetri delle finestre, ferendo i feriti. Un’ ambulanza si è recata sul posto, hanno tirato giù una moschea, fortunatamente vuota a quell’ora. Sfortunatamente, anche se non di sfortuna ma di volontà criminale e terroristica di compiere stragi di civili, la bomba israeliana ha distrutto anche l’edificio adiacente alla moschea. Abbiamo visto tirare fuori dalle macerie i corpicini di sei sorelline. 5 sono morte, una è gravissima. Hanno adagiato le bambine sull’asfalto carbonizzato, e sembravano bamboline rotte, buttate via perché inservibili. Non è un errore, è volontario cinico orrore. Siamo a quota 320 morti, più di un migliaio i feriti, secondo un dottore di Shifa il 60% è destinato a morire nelle prossime ore, nei prossimi giorni dopo una lunga agonia. Decine sono i dispersi, negli ospedali donne disperate cercano i mariti, i figli, da due giorni, spesso invano. E’ uno spettacolo macabro all’obitorio. Un infermiere mi ha detto che una donna palestinese dopo ore di ricerca fra i pezzi di cadaveri all’obitorio, ha riconosciuto suo marito da una mano amputata. Tutto quello che di suo marito è rimasto, è la fede ancora al dito dell’amore eterno che si erano ripromessi. Di una casa abitata da due famiglie, è rimasto ben poco dei corpi umani. Ai parenti hanno mostrato un mezzo busto e tre gambe. Proprio in questo momento una delle nostre barche del Free Gaza Movement sta lasciando il porto di Larnaca in Cipro. Ho parlato coi miei amici a bordo. Eroici, hanno ammassato medicinali un po’ in ogni dove sull’imbarcazione. Dovrebbe approdare al porto di Gaza domani verso le 0800 am. Sempre che il porto esista ancora dopo quest’altra notte di costanti bombardamenti. Starò in contatto con loro tutta questa notte. Qualcuno fermi questo incubo. Rimanere in silenzio significa supportare il genocidio in corso. Urlate la vostra indignazione, in ogni capitale del mondo “civile”, in ogni città, in ogni piazza, sovrastate le nostre urla di dolore e terrore. C’è una parte di umanità che sta morendo in pietoso ascolto. Vik in Gaza, attivista dell’ISM

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http://www.bocchescucite.org/diario-di-un-pacifista-sotto-le-bombe-di-vittorio-arrigoni

Diario da Gaza, mappa dell'inferno

Così scriveva Vittorio il 30 dicembre del 2008, a tre giorni dall'inizio della criminale operazione sionista "Piombo Fuso": Gaza: Le fabbriche degli angeli Jabilia, Bet Hanun, Rafah, Gaza City, le tappe della mia personale mappa per l'inferno

Checché vadano ripetendo i comunicati diramati dai vertici militari israeliani, e ripetuti a pappagallo in Europa e Usa dai professionisti della disinformazione, sono stato testimone oculare in questi giorni di bombardamenti di moschee, scuole, università, ospedali, mercati, e decine e decine di edifici civili. Il direttore medico dell'ospedale di Al Shifa mi ha confermato di aver ricevuto telefonate da esponenti dell'IDF, l'esercito israeliano, che gli intimavano di evacuare all'istante l'ospedale, pena una pioggia di missili. Non si sono lasciati intimorire. Il porto, dove dovrei dormire, ma a Gaza non si chiude un occhio da 4 giorni, è costantemente soggetto a bombardamenti notturni. Non si odono più sirene di ambulanze rincorrersi all'impazzata, semplicemente perché al porto e attorno non c'è più anima viva, sono morti tutti, sembra di poggiare piede su di un cimitero dopo un terremoto. La situazione è davvero da catastrofe innaturale, un cataclisma di odio e cinismo piombato sulla popolazione di Gaza come piombo fuso, che fa a pezzi corpi umani, e contrariamente a quanto si prefigge, compatta i palestinesi tutti, gente che fino a qualche tempo fa non si salutava nemmeno perché appartenenti a fazioni differenti, in un corpo unico.

Quando le bombe cadono dal cielo da diecimila metri di quota state tranquilli, non fanno distinzioni fra bandiere di hamas o fatah esposte sui davanzali, non hanno ripensamenti esplosivi neanche se sei italiano. Non esistono operazioni militari chirurgiche, quando si mette a bombardare l'aviazione e la marina, le uniche operazioni chirurgiche sono quelle dei medici che amputano arti maciullate alle vittime senza un attimo di ripensamento, anche se spesso braccia e gambe sarebbe salvabili. Non c'è tempo, bisogna correre, le cure impegnate per un arto seriamente ferito sono la condanna a morte per il ferito susseguente in attesa di una trasfusione. All' ospedale di Al Shifa ci sono 600 ricoverati gravi e solo 29 macchine respiratorie. Mancano di tutto, soprattutto di personale preparato. Per questo ragione, esausti più che dalle notti insonni dall'immobilismo e dall'omertà dei governi occidentali , così facendo complici dei crimini d'Israele, abbiamo deciso di far partire ieri da Larnaca, Cipro, una delle nostre barche del Free Gaza Movement con a bordo 3 tonnellate di medicinali e personale medico. Li ho aspettati invano, avrebbero dovuto attraccare al porto alle 8 am di questa mattina. Sono invece stati intercettati a 90 miglia nautiche da Gaza da 11 navi da guerra israeliane, che in piene acque internazionali hanno provato ad affondarli. Li hanno speronati tre volte, producendo una avaria ai motori e una falla nello scavo. Per puro caso l'equipaggio e i passeggeri sono ancora tutti vivi, e sono riusciti ad attraccare in un porto libanese. Essendo sempre più frustrasti dall'assordante silenzio del mondo "civile", i miei amici ci riproveranno presto, hanno scaricato infatti i medicinali dalla nostra nave danneggiata, la Dignity, e li hanno ricaricati su di un'altra pronta alla partenza alla volta di Gaza. Certi che la volontà criminale di Israele nel calpestare diritti umani e leggi internazionali, non sarà mai forte come la nostra determinazione nella difesa di questi stessi diritti e uomini. Molti giornalisti che mi intervistano mi chiedono conto della situazione umanitaria dei palestinesi di Gaza, come se il problema fossero la mancanza di cibo, di acqua, di elettricità, di gasolio, e non chi è la causa di questi problemi sigillando confini, bombardando impianti idrici e centrali elettriche. Lunghe file ai pochi panettieri con ancora le serrande semiaperte, 40 50 persone che si accapigliano per accaparrarsi l'ultima pagnotta. Uno di questi panettieri, Ahmed, è un mio amico, e mi ha confidato il suo terrore degli ultimi giorni.

Più che per le bombe, teme per gli assalti al forni. Dinnanzi al suo, si sono già verificate risse. Se fino a poco tempo fa c'era lo polizia a mantenere l'ordine pubblico, specie dinnanzi alle panetterie, ora non si vede più un poliziotto in divisa in tutta Gaza. Si sono nascosti, alcuni. Gli altri stanno tutti sepolti sotto due metri di terra, amici miei compresi. A Jabilia ancora strage di bambini, due fratellini di 4 e 10 anni, colpiti e uccisi da una bomba israeliana mentre guidavano un carretto trainato da un asino, in strada as-Sekka, a Jabalia.

Mohammad Rujailah nostro collaboratore dell'ISM, ha scattato una foto che è più di un fermo-immagine, è una storia, è la rivelazione di ciò che tragico viviamo intensamente ogni minuto, contandoci ogni ora, perdendo amici, fratelli, familiari. Carrarmati, caccia, droni, elicotteri Apache, il più grande e potente esercito del mondo in feroce attacco contro una popolazione che si muove ancora sui somari come all'epoca di Gesù Cristo: Secondo Al Mizan, centro per i diritti umani, al momento in cui scrivo sono 55 bambini coinvolti nei bombardamenti, 20 gli uccisi e 40 i gravemente feriti. Israele ha trasformato gli ospedali e gli obitori palestinesi in fabbriche di angeli, non rendendosi conto dell'odio che fomenta non solo in Palestina, ma in tutto il mondo. Le fabbriche degli angeli sono in produzione a ciclo continuo anche questa sera, lo avverto dai fragori delle esplosioni che sento fuori dalle mie finestre. Quei corpicini smembrati, amputati, quelle vite potate ancora prima di fiorire, saranno un incubo per tutto il resto della mia vita, e se ho ancora la forza di raccontare delle loro fine, è perché voglio rendere giustizia a chi non ha più voce, a chi non ha mia avuto un fiato di voce, forse a chi non ha mai avuto orecchie per ascoltare. Restiamo umani, Vittorio Arrigoni, Vik.

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Ignorando le convenzioni internazionali Tel Aviv ha scatenato un pesante bombardamento sulla Striscia di Gasa uccidendo oltre150 persone. Dietro l’attacco un calcolo politico-militare irresponsabile e pericoloso per tutto il Medio Oriente. Vittorio Arrigoni, Diario di Gaza, la notte dell’invasione

Mentre scrivo i carri armati israeliani sono entrati nella «Striscia». La giornata è iniziata allo stesso modo in cui è finita quella che l’ha preceduta, con la terra che continua a tremare sotto i nostri piedi, il cielo e il mare, senza sosta alcuna, a tremare sulle nostre teste, sui destini di un milione e mezzo di persone che sono passate dalla tragedia di un assedio, alla catastrofe di bombardamenti che fanno dei civili il loro bersaglio predestinato. Il posto è avvolto dalle fiamme, cannonate dal mare e bombe dal cielo per tutta la mattina. Le stesse imbarcazioni di pescatori che scortavamo fino a quale giorno fa in alto mare, ben oltre le sei miglia imposte da Israele come assedio illegale criminoso, le vedo ora ridotte a tizzoni ardenti. Se i pompieri tentassero di domare l’incendio, finirebbero bersagliati dalle mitragliatrici degli F16, è già successo ieri. Dopo questa massiccia offensiva, finito il conteggio dei morti, se mai sarà possibile, si dovrà ricostruire una città sopra un deserto di macerie. Livni dichiara al mondo che non esiste un’emergenza umanitaria a Gaza: evidentemente il negazionismo non va di moda solo dalle parti di Ahmadinejad. I palestinesi su una cosa sono d’accordo con la Livni, ex serial killer al soldo del Mossad, (come mi dice Joseph, autista di ambulanze): più beni alimentari stanno davvero filtrando all’interno della striscia, semplicemente perché a dicembre non è passato pressoché nulla, oltre la cortina di filo spinato teso da Israele. Ma che senso realmente ha servire pane appena sfornato all’interno di un cimitero? L’emergenza è fermare subito le bombe, prima ancora dei rifornimenti di viveri. I cadaveri non mangiano, vanno solo a concimare la terra, che qui a Gaza non è mai stata così fertile di decomposizione. I corpi smembrati dei bimbi negli obitori invece dovrebbero nutrire i sensi di colpa, negli indifferenti, verso chi avrebbe potuto fare qualche cosa. Le immagini di un Obama sorridente che gioca a golf sono passate su tutte le televisioni satellitari arabe, ma da queste parti nessuno si illude che basti il pigmento della pelle a marcare radicalmente la politica estera statunitense. Ieri (venerdì, ndr) Israele ha aperto il valico di Herez per far evacuare tutti gli stranieri presenti a Gaza. Noi, internazionali della Ism, siamo gli unici a essere rimasti. Abbiamo risposto oggi (ieri, ndr) tramite una conferenza stampa al governo israeliano, illustrando le motivazioni che ci costringono a non muoverci da dove ci troviamo. Ci ripugna che i valichi vengano aperti per evacuare cittadini stranieri, gli unici possibili testimoni di questo massacro, e non si aprano in direzione inversa per far entrare i molti dottori e infermieri stranieri che sono pronti a venire a portare assistenza ai loro eroici colleghi palestinesi. Non ce ne andiamo perché riteniamo essenziale la nostra presenza come testimoni oculari dei crimini contro l’inerme popolazione civile ora per ora, minuto per minuto. Siamo a 445 morti, più di 2.300 feriti, decine i dispersi. Settantatré, al momento in cui scrivo, i minori maciullati da bombe. Al momento Israele conta tre vittime in tutto. Non siamo fuggiti come ci hanno consigliato i nostri consolati perché siamo ben consci che il nostro apporto sulle ambulanze come scudi umani nel dare prima assistenza ai soccorsi potrebbe rivelarsi determinante per salvare vite. Anche ieri un’ambulanza è stata colpita a Gaza City, il giorno prima due dottori del campo profughi di Jabalia erano morti colpiti in pieno da un missile sparato da un Apache. Personalmente, non mi muovo da qui perché sono gli amici ad avermi pregato di non abbandonarli. Gli amici ancora vivi, ma anche quelli morti, che come fantasmi popolano le mie notti insonni. I loro volti diafani ancora mi sorridono. Ore 19.33, ospedale della Mezza Luna Rossa, Jabalia. Mentre ero in collegamento telefonico con la folla in protesta in piazza a Milano, due bombe sono cadute dinanzi all’ospedale. I vetri della facciata sono andati in pezzi, le ambulanze per puro caso non sono rimaste danneggiate. I bombardamenti si sono fatti ancora più intensi e massicci nelle ultime ore, la moschea di Ibrahim Maqadme, qui vicino, è appena crollata sotto le bombe: è la decima in una settimana. Undici vittime per ora, una cinquantina i feriti. Un’anziana palestinese incontrata per strada questo pomeriggio mi ha chiesto se Israele pensa di essere nel medioevo, e non nel 2009, per continuare a colpire con precisione le moschee come se fosse concentrato in una personale guerra santa contro i luoghi sacri dell’islam a Gaza. Ancora un’altra pioggia di bombe a Jabalia, e alla fine sono entrati. I cingoli di carri armati che da giorni stazionavano al confine, come mezzi meccanici a digiuno affamati di corpi umani, stanno trovando la loro tragica soddisfazione. Sono entrati in un’area a nord-ovest di Gaza e stanno spianando case metro per metro. Seppelliscono il passato e il futuro, famiglie intere, una popolazione che scacciata dalle proprie legittime terre non aveva trovato altro rifugio che una baracca n un campo profughi. Siamo corsi qui a Jabaila dopo la terribile minaccia israeliana piovuta dal cielo venerdì sera. Centinaia e centinaia di volantini lanciati dagli aerei intimavano l’evacuazione generale del campo profughi. Minaccia che si sta dimostrando purtroppo reale. Alcuni, i più fortunati, sono scappati all’istante, portandosi via i pochi beni di valore, un televisore, un lettore dvd, i pochi ricordi della vita che era in una Palestina perduta una sessantina di anni fa. La maggioranza non ha trovato alcun posto dove fuggire. Affronteranno quei cingoli affamati delle loro vite con l‘unica arma che hanno a disposizione, la dignità di saper morire a testa alta. Io e i miei compagni siamo coscienti degli enormi rischi a cui andiamo incontro, questa notte più delle altre; ma siamo certo più a nostro agio qui nel centro dell’inferno di Gaza, che agiati in paradisi metropolitani europei o americani, che festeggiando il nuovo anno non hanno capito quanto in realtà siano causa e complicità di tutte queste morti di civili innocenti.

http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2009/mese/01/articolo...

Vittorio Arrigoni - Diario da Gaza, un giorno in ambulanza 07/01/09 «Alla gente innocente di Gaza: la nostra guerra non è contro di voi ma contro Hamas, se non la smettono di lanciare razzi voi vi troverete in pericolo». È la trascrizione di una registrazione che è possibile ascoltare rispondendo al telefono

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queste ore a Gaza. L'esercito israeliano la sta diffondendo illudendosi che i palestinesi non abbiano occhi e orecchie. Occhi per vedere che le bombe colpiscono quasi esclusivamente obiettivi civili, come moschee (15, l'ultima quella di Omar Bin Abd Al Azeez di Beit Hanoun), scuole, università, mercati, ospedali. Orecchie per non udire le urla di dolore e terrore dei bambini, vittime innocenti eppure predestinate di ogni bombardamento.

Secondo fonti ospedaliere, nel momento in cui sto scrivendo sono 120 i minori rimasti uccisi sotto le bombe, su un totale di 548 morti, più di 2700 feriti, decine e decine di dispersi. Due giorni fa all'ospedale della mezzaluna rossa nel campo profughi di Jabalia, la notte non è mai calata. Dal cielo gli elicotteri Apache hanno lanciato ordigni illuminanti in continuazione, tanto da non farci accorgere di una qualche differenza tra giorno e notte. Il cannoneggiare ripetuto di un tank posto a meno di un chilometro dall'ospedale ha crepato seriamente le mura dell'edificio, ma abbiamo resistito fino alla mattina. Verso le 10 circa, bombe sul campo incolto adiacente all'edificio, fuoco di mitragliatrice tutt'attorno: per i medici della mezzaluna rossa quello era un messaggio dell'esercito rivolto a noi: evacuazione immediata, pena la vita. Abbiamo trasferito i feriti in altre strutture ospedaliere e ora la base operativa delle ambulanze è sulla strada di Al Nady, il personale medico sta seduto sui marciapiedi in attesa delle chiamate, che si susseguono febbrilmente.

Per la prima volta dall'inizio dell'attacco israeliano ho visto negli ospedali dei cadaveri di membri della resistenza palestinese. Un numero piccolo, di fronte alle centinaia di vittime civili, che dopo l'invasione di terra si sono moltiplicate esponenzialmente. Dopo l'attacco alla moschea di Jabalia (coinciso con l'entrata dei tank) che ha causato 11 morti e una cinquantina di feriti, per tutta la notte di sabato scortando le ambulanze ci siamo resi conto della tremenda potenza distruttiva dei proiettili sparati dagli israeliani. A Bet Hanoun una famiglia che si stava scaldando nella propria casa dinnanzi ad un fornellino a legna è stata colpita da uno di questi micidiali colpi di cannone. Abbiamo raccolto 15 feriti, 4 casi disperati. Poi verso le 3 del mattino abbiamo risposto ad una chiamata d'emergenza: troppo tardi, davanti alla porta di un'abitazione tre donne in lacrime ci hanno messo in braccio una bambina di quattro anni avvolta da un lenzuolo bianco, il suo sudario, era già gelida. Ancora una famiglia colpita in pieno, questa volta dall'aviazione, a Jabalia, due adulti con in corpo schegge di esplosivo. I due figli hanno riportato ferite lievi, ma da come strillavano era evidente il trauma psicologico che stavano vivendo, qualcosa che li segnerà indelebilmente per tutta la vita più di uno sfregio su una guancia. Anche se nessuno si ricorda di citarli, sono migliaia i bambini afflitti da gravi turbe mentali procurate dal terrore dei continui bombardamenti, o peggio dalla vista dei genitori e dei fratellini dilaniati dalle esplosioni.

I crimini di cui si sta macchiando Israele in queste ore vanno oltre i confini dell'immaginabile. I soldati non ci permettono di andare a soccorrere i superstiti di questa immensa catastrofe innaturale. Quando i feriti si trovano in prossimità dei mezzi blindati israeliani che li hanno attaccati, a noi sulle ambulanze della mezzaluna rossa non è concesso avvicinarci, i soldati ci bersagliano di colpi. Avremmo bisogno della scorta di almeno un'ambulanza della croce rossa, in coordinamento con i comandi militari israeliani, per poter correre a cercare di salvare vite: provate a immaginare quanto tempo porterebbe via una procedura del genere, una condanna a morte certa per dei feriti in attesa di trasfusioni o di trattamenti di emergenza. Tanto più che la croce rossa ha i suoi di feriti a cui pensare, non potrebbe in nessun modo rendersi disponibile ad ogni nostra chiamata. Ci tocca allora stazionare in una zona «protetta», eufemismo qui a Gaza, e attendere che i parenti ci portino i congiunti moribondi, spesso in spalla. Così è andata verso le 5.30 di stamane, abbiamo arrestato col motore acceso l'ambulanza al centro di un incrocio e indicato tramite telefono la nostra posizione ad uno dei parenti dei feriti. Dopo una decina di minuti di snervante attesa, quando aveva già deciso di ingranare la marcia ed evacuare l'area per andare a rispondere ad un'altra chiamata, abbiamo visto girare l'angolo e dirigersi verso di noi, lentamente, un carretto carico di persone sospinto da un mulo. Una coppia con i suoi due figlioletti. La migliore rappresentazione possibile di questa non-guerra. Questa non è una guerra perché non ci sono due eserciti che si danno battaglia su un fronte; è un assedio unilaterale condotto da forze armate (aviazione, marina, ed esercito) fra le più potenti del mondo, sicuramente le più avanzate in fatto di equipaggiamento militare tecnologico, che hanno attaccato una misera striscia di terra di 360 kmq, dove la popolazione si muove ancora sui muli e dove c'è una resistenza male armata la cui unica forza è quella di essere pronta al martirio. Quando il carretto si è fatto abbastanza vicino gli siamo andati incontro, e con orrore abbiamo scoperto il suo macabro carico. Un bimbo stava sdraiato con il cranio fracassato, gli occhi letteralmente saltati fuori dalle orbite, lo abbiamo raccolto che ancora respirava. Il suo fratellino invece presentava il torace sventrato, gli si potevano distintamente contare le costole bianche oltre i brandelli di carne lacera. La madre teneva poggiate le mani sul quel petto scoperchiato, come se cercasse di aggiustare qualcosa. Un ulteriore crimine, e nostro ennesimo personale lutto. L'esercito israeliano continua a prendere di mira le ambulanze. Dopo il dottore e l'infermiere morti a Jabalia 4 giorni fa, ieri è toccato ad un nostro amico, Arafa Abed Al Dayem, 35 anni, che lascia 4 figli. Verso le otto e mezza di ieri mattina abbiamo ricevuto una chiamata da Gaza city, due civili falciati dalla mitragliatrice di un tank; una delle nostre ambulanze della mezzaluna rossa è accorsa sul posto. Arafa e un infermiere hanno caricato i due feriti sull'ambulanza, hanno chiuso gli sportelli pronti a correre verso l'ospedale, quando sono stati centrati in pieno da un proiettile sparato da un carro armato. Il colpo ha decapitato uno dei feriti e ha ucciso anche il nostro amico; l'infermiere se l'è cavata ma è ora ricoverato nello stesso ospedale dove lavora. Arafa, maestro elementare, si offriva come volontario paramedico quando c'era carenza di personale. Siamo sotto una pioggia di bombe, nessuno se l'era sentita di chiamarlo in una situazione di così alto rischio. Arafa si era presentato da solo, e lavorava conscio dei pericoli, convinto che oltre la sua famiglia c'erano anche altri essere umani da difendere, da

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soccorrere. Ci mancano le sue burle, il suo irresistibile e contagioso sense of humour che rallegrava l'intero ospedale Al Auda di Jabalia anche nelle sue ore più cupe e drammatiche quando sono più i morti e i feriti che confluiscono, e ci sente quasi colpevoli, inutili per non aver potuto fare qualcosa per salvarli, schiacciati come siamo da una forza micidiale inesorabile, la macchina di morte dell'esercito israeliano. Qualcuno deve arrestare questa carneficina, ho visto cose in questi giorni, udito fragori, annusato miasmi pestiferi, che se avessi mai un giorno una mia progenie, non avrò mai il coraggio di tramandare. C'è qualcuno là fuori? la desolazione del sentirsi isolati nell'abbandono è pari alla veduta di un quartiere di Gaza dopo un'abbondante campagna di raid aerei. Sabato sera mi hanno passato al telefono la piazza di Milano in protesta, ho passato a mia volta il cellulare agli eroici dottori e infermieri con cui stiamo lavorando, li ho visto rincuorarsi per un breve attimo. Le manifestazioni in tutto il mondo dimostrano che esiste ancora qualcuno in cui credere, ma le manifestazioni non sono ancora abbastanza partecipate per esercitare quella pressione necessarie affinché i governi occidentali costringano Israele in un angolo, ad assumersi le sue responsabilità come criminale di guerra e contro l'umanità. Moltissime le donne gravide terrorizzate che in queste ore stanno dando alla luce figli frutti di parti prematuri. Ne ho accompagnate personalmente tre a partorire. Una di queste, Samira, al settimo mese, ha dato alla luce uno splendido minuscolo bimbo di nome Ahmed. Correndo con lei a bordo verso l'ospedale di Auda e lasciandoci dietro negli specchietti retrovisori lo scenario di morte e distruzione dove poco prima stavamo raccogliendo cadaveri, ho pensato per un attimo che questa vita in procinto di fiorire potesse essere il bene-augurio per un futuro di pace e speranza. L'illusione si è dissolta col primo razzo che è crollato a fianco della nostra ambulanza tornando da Auda al centro di Jabalia. Queste madri coraggio mettono tristemente al mondo creature le quali assorbono come prima luce nei loro occhi, nient'altro oltre il verde militare dei tanks e delle jeeps e i lampi intermittenti che precedono le esplosioni. Quali prospettive di vita attendono bimbi che fin dal primo istante della loro nascita avvertono sofferenza e urla di disgrazia? restiamo umani. Vittorio Arrigoni

Pubblicato sul sito internet di Casa della Solidarietà - Rete Radié Resch di Quarrata

Associazione di solidarietà internazionale

Diario da Gaza, noi bersagli ambulanti Testimonianza di Vittorio Arrigoni, 07/01/2009

Sfilano timorosi con gli occhi rivolti in alto, arresi ad un cielo che piove su di loro terrore e morte, timorosi della terra che continua a tremare sotto ogni passo, che crea crateri dove prima c'erano le case, le scuole, le università, i mercati, gli ospedali, seppellendo per sempre le loro vite. Ho visto carovane di palestinesi disperati sfollare da Jabiliya, Beit Hanoun e da tutti i campi profughi di Gaza, ed andare ad affollare le scuole delle Nazioni Unite come terremotati, come vittime di uno tsunami che giorno per giorno sta inghiottendo la Striscia di Gaza e la sua popolazione civile, senza pietà, senza alcuna minima osservanza dei diritti umani e delle convenzioni di Ginevra. Soprattutto senza che nessun governo occidentale muova un solo dito per fermare questi massacri, per inviare qui personale medico, per arrestare il genocidio di cui si sta macchiando Israele in queste ore.

Continuano gli attacchi indiscriminati a ospedali e a personale medico. Ieri dopo aver lasciato l'ospedale di Al Auda a Jabiliya ho ricevuto una telefonata da Alberto, compagno spagnolo dell'Ism, una bomba è caduta sull'ospedale. Abu Mohammed, infermiere, è rimasto seriamente ferito al capo. Giusto poco prima, con lui, comunista, davanti a un caffè, ascoltavo le eroiche gesta dei leader del Fonte Popolare, i suoi miti: George Habbash, Abu Ali Mustafa, Ahmad Al Sadat. Gli si erano illuminati gli occhi al sapere che le prime nozioni di cosa fosse l'immensa tragedia della Palestina mi erano stati impartiti dai miei genitori, comunisti convinti. Mi aveva chiesto quali erano i leader di sinistra italiani davvero rivoluzionari, del passato, e gli avevo risposto Antonio Gramsci, e quelli di oggi, mi ero preso tempo, gli avrei risposto oggi. Abu Mohammed giace ora in coma nell'ospedale dove lavorava, si è risparmiato la mia deludente risposta.

Verso mezzanotte ho ricevuto un'altra chiamata, questa volta da Eva, l'edificio in cui si trovava era sotto attacco. Conosco bene anche quel palazzo, al centro di Gaza city, ci ho passato una notte con alcuni amici fotoreporters palestinesi, è la sede dei principali media che stanno cercando di raccontare con immagini e parole la catastrofe innaturale che ci ha colpito da dieci giorni. Reuters, Fox news, Russia today, e decine di altre agenzie locali e non, sotto il fuoco di sette razzi partiti da un elicottero israeliano. Sono riusciti a evacuare tutti in tempo prima di rimanere seriamente feriti, i cameramen, i fotografi, i reporter, tutti palestinesi dal momento in cui Israele non permette a giornalisti internazionali di mettere piede a Gaza. Non ci sono obbiettivi «strategici» attorno a quel palazzo, né resistenza che combatte l'avanzata dei mortiferi blindati israeliani, ben più a nord. Chiaramente qualcuno a Tel Aviv non riesce a digerire le immagini dei massacri di civili che si sovrappongono a quelle dei briefing, con rinfresco offerto ai giornalisti prezzolati.

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Tramite queste conferenze stampa stanno dichiarando al mondo che gli obbiettivi delle bombe sono solo terroristi di Hamas, e non quei bambini orrendamente mutilati che tiriamo fuori ogni giorno dalle macerie. A Zetun, una decina di chilometri da Jabaliya, un edificio bombardato è crollato sopra una famiglia, una decina le vittime, le ambulanze hanno atteso diverse ore prima di poter correre sul posto, i militari continuano a spararci a contro. Sparano alle ambulanze, bombardano gli ospedali. Pochi giorni fa una «pacifista» israeliana mi avevo detto a chiare lettere che questa è una guerra dove le due parti contrapposte utilizzano tutte le loro armi a disposizione. Invito allora Israele a sganciarci addosso una delle sue tante bombe atomiche che tiene segretamente stivate contro tutti i trattati di non proliferazione nucleare. Ci tiri addosso la bomba risolutiva, terminino l'inumana agonia di migliaia di corpi maciullati nelle corsie sovraffollate degli ospedali che ho visitato. Ho scattato alcune fotografie in bianco e nero ieri, alle carovane di carretti trascinati dai muli, carichi all'inverosimile di bambini sventolanti un drappo bianco rivolto verso il cielo, i volti pallidi, terrorizzati. Riguardando oggi quegli scatti di profughi in fuga, mi sono corsi i brividi lungo la schiena. Se potessero essere sovrapposte a quelle fotografie che testimoniano la Naqba del 1948, la catastrofe palestinese, coinciderebbero perfettamente. Nel vile immobilismo di stati e governi che si definiscono democratici, c'è una nuova catastrofe in corso da queste parti, una nuova Naqba, una nuova pulizia etnica che sta colpendo la popolazione palestinese.

Fino a qualche istante fa si contavano 650 morti, 153 bambini uccisi, più di 3000 i feriti, decine e decine i dispersi. Il computo delle morti civili in Israele, fortunatamente, rimane fermo a quota 4. Dopo questo pomeriggio il bilancio sul versante palestinese va drammaticamente aggiornato, l'esercito israeliano ha iniziato a bombardare le scuole delle Nazioni Unite. Le stesse che stavano raccogliendo i migliaia di sfollati evacuati dietro minaccia di un imminente attacco. Li hanno scacciati dai campi profughi, dai villaggi, solo per raccoglierli tutti in posto unico, un bersaglio più comodo. Sono tre le scuole bombardate oggi. L'ultima, quella di Al Fakhura, a Jabiliya, è stata centrata in pieno. Più di 40 morti. In pochi istanti se ne sono andati uomini, anziani, donne, bambini che si credevano al sicuro dietro le mura dipinte in blu con i loghi dell'Onu. Le altre 20 scuole delle Nazioni Unite tremano. Non c'è via di scampo nella Striscia di Gaza, non siamo in Libano, dove i civili dei villaggi del Sud sotto le bombe israeliane evacuarono al nord, o in Siria e in Giordania. La Striscia di Gaza da enorme prigione a cielo aperto, si è tramutata in una trappola mortale. Ci si guarda sconvolti e ci si chiede se il consiglio di sicurezza dell'Onu riuscirà questa volta a pronunciare un'unanime condanna, dopo che anche le sue scuole sono prese di mira. Qualcuno fuori di qui ha deciso davvero di fare un deserto, e poi chiamarlo pace. Ci aspetta una lunga nottata sulle ambulanze, anche se l'alba da queste parti è ormai una chimera. I ripetitori dei cellulari lungo tutta la Striscia sono stati distrutti, abbiamo rinunciato a contarci. Spero di riuscire a rivedere un giorno tutti gli amici che non posso più contattare, ma non mi illudo.

Qui a Gaza siamo tutti bersagli ambulanti, nessuno escluso. Mi ha appena contattato il consolato Italiano, dicono che domani evacueranno l'ultima nostra concittadina. Una anziana suorina che da vent’anni anni abitava nei pressi della chiesa cattolica di Gaza, ormai adottata dai palestinesi della Striscia. Il console mi ha gentilmente pregato di cogliere quest'ultima opportunità, aggregarmi alla suora e scampare da questo inferno. L'ho ringraziato per la sua offerta, ma da qui non mi muovo, non ce la faccio. Per i lutti che abbiamo vissuto, prima ancora che italiani, spagnoli, inglesi, australiani, in questo momento siamo tutti palestinesi. Se solo per un minuto al giorno lo fossimo tutti, come molti siamo stati ebrei durante l'olocausto, credo che tutto questo massacro ci verrebbe risparmiato. Restiamo umani. Vittorio Arrigoni Chi era Vittorio Arrigoni? Vedi il suo blog https://vittorioarrigoni.wordpress.com/piombo-fuso/restiamo-umani/

8) UN’ESPERIENZA UNICA, ISRAELIANI E PALESTINESI INSIEME Nevé Shalom/Wahat al-Salam La Scuola per la pace TUVWWWWX | עברית

La Scuola per la pace (SFP) fu fondata nel 1979 come istituzione capace di far sentire in massima misura verso l’esterno l’impatto educativo di NSWAS. Tramite una varietà di corsi e seminari diretti a molteplici strati sociali delle

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popolazioni ebraica e palestinese, la Scuola per la pace opera per accrescere la consapevolezza della complessità del conflitto e migliorare - con l’esclusivo ricorso a metodi educativi - la comprensione reciproca tra palestinesi ed ebrei. I programmi cui la Scuola per la pace dà corso sono i seguenti:

- seminari di reciproco incontro e uni-nazionali sul conflitto, dedicati a giovani palestinesi ed ebrei - seminari, programmi e percorsi di tirocinio per gruppi di adulti, quali insegnanti, allievi insegnanti, operatori sociali e altre categorie professionali - incontri di lavoro fra cittadini di Israele e Palestina insieme a ONG Palestinesi - corsi di formazione annuale in cooperazione con l’università di Israele - incontri di lavoro tra professionisti provenienti dai territori amministrati dall’Autonomia palestinese (Cisgiordania e Gaza) e Israele - corsi per la formazione di “facilitatori” - corsi di formazione (nei loro metodi di lavoro) per persone provenienti dall’estero - corsi di "empowerment" per donne Arabe e Ebree - incontri di approfondimento sulla conoscenza del conflitto fra i gruppi Arabi ed Ebrei nella società

I programmi sopra menzionati sono condotti e assistiti da uno staff professionale ebraico-palestinese. I “facilitatori” dispongono di una preparazione accademica nei settori delle scienze sociali e del comportamento, e sono particolarmente allenati a operare con gruppi conflittuali. Vari anni di esperienza, accompagnata da un’intensa attività di ricerca, hanno consentito allo staff della Scuola di sviluppare i suoi specifici metodi educativi. I programmi mettono soprattutto in evidenza quanto sia importante il comprendere la complessità del conflitto tra i due popoli. In tal modo le iniziative della Scuola consentono a ciascuno dei partecipanti di assumere coscienza del proprio ruolo nel conflitto, e di mettere a fuoco elementi quali i rapporti di potere, gli stereotipi e i pregiudizi.

Il numero di giovani che hanno fruito fina ad oggi di tali programmi supera le 40 mila unità, cui si aggiungono circa 3 mila adulti che hanno ricevuto un tirocinio pratico nel campo della gestione delle situazioni conflittuali. Molti di questi adulti sono ora attivi in altre organizzazioni coinvolte nel superamento del conflitto.

La SFP ha fondato un centro di ricerca per la raccolta e la documentazione del lavoro condotto dalla stessa scuola e altre organizzazioni in relazione a incontri fra Arabi-Ebrei, e ai migliori studi delle relazioni fra Arabi-Ebrei. In futuro la scuola ha progettato di creare un percorso di studi riguardo ile tematiche del conflitto e della pace che sará condotto presso la stessa scuola. Oltre ad avere ottenuto - grazie ai risultati conseguiti - ampi riconoscimenti sia a livello regionale che internazionale, la Scuola ha ricevuto numerosi premi. Sono ora disponibili in Arabo, Ebraico e Inglese, le pubblicazioni che descrivono i particolari metodi di lavoro della SFP.

Web (Inglese/Ebraico/Arabo): http//www.sfpeace.org

Nevé Shalom/Wahat al-Salam, Assistenza umanitaria per i Palestinesi Bambini di Guerra nell’Oasi di Pace

giovedì 5 aprile 2007, di Deb Reich

Una settimana estiva di divertimento per i bambini dei campi profughi di Tulkarm, Jenin e Yaabad Resa possibile grazie all’iniziativa e alla generosita` del “fondo monetario di Bruno Hussar”, Germania. Un’intervista con Ranin Boulos (direttrice del campo) di Howard Shippin (che ha effettuato l’intervista) e Deb Reich (che ha pubblicato l’articolo). 1 agosto 2006 Ranin Boulos, 22 anni, figlia di Rita e Daoud Boulos, nata e cresciuta a NSWAS ed ora studentessa presso la City University of London, è tornata a casa in Giugno per trascorrere l’estate nel villaggio. Ahmad Hijazi, che dirige il Progetto di Sussidio Umanitario a NSWAS, l’ha subito individuata per affidarle un’importante responsabilità: un campo estivo di una settimana per i bambini Palestinesi delle zone colpite dei campi profughi di Tulkarm e dintorni. Ahmad fa notare che Aziz, “club director” in Tulkarm, ha confidato che all’inizio è stato un compito duro riuscire a persuadere i genitori affinché` mandassero i loro bambini a questo campo perché avevano saputo che i razzi Katyusha stavano cadendo su Israele e pensavano che sarebbe stato molto pericoloso qui. "Ho dovuto ridere," dice Ahmad ironicamente, "considerando che queste famiglie vivono nel campo profughi di Tulkarm, non esattamente il posto più sicuro al mondo." Questa è la saga di questa esperienza, come afferma Ranin. Tornata a casa da Londra per l’estate, Ahmad mi informa che un po’ di soldi dal fondo monetario di Bruno Hussar sono destinati all’organizzazione di attività con i bambini palestinesi. Nessun altra persona del villaggio si era offerta volontaria; me lo ha proposto; ho accettato. Quando prepari una cena importante, spendi l’intera giornata per la spesa, per cucinare, pulire, allestire la tavola... -tutto questo lavoro e poi, quando arriva la parte divertente e ti siedi con la gente e mangi, tutto finisce troppo in fretta. Allora pensi: Ho lavorato tutte queste ore per un pasto di dieci minuti!- Mi sono sentita così alla fine di questo campo estivo. Ho lavorato al progetto per quasi due mesi, combattendo per ottenere i permessi di soggiorno per i bambini, l’assicurazione, i consulenti, i posti per dormire, i posti per mangiare, le attività, i viaggi... e quando è realmente cominciato, è finito

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così velocemente! Ancora non posso credere che sia finito; Mi piacerebbe il contrario. Perché bambini dalla zona di Tulkarm? Stiamo lavorando con un’organizzazione là? Ahmad conosce qualcuno del posto, Aziz, che dirige un’organizzazione a Tulkarm per aiutare i bambini colpiti. Avevano già fatto campi estivi in passato, ma questo era il primo all’interno dei territori israeliani.... I bambini venivano tutti dai campi profughi, Tulkarm o Yaabad o Jenin. Tutti provenivano da realtà difficili e dolorose, socialmente ed economicamente. Alcuni dei loro padri erano “shaheeds” [ chiunque morisse durante l’Intifada - Ed. ]. Alcuni hanno padri in prigione. Alcuni hanno perso le loro famiglie. Non un bambino con un normale background. Mi sentivo un po’ spaventata a parlare con l’esercito. L’arrivo dei bambini era previsto per domenica 23 luglio, ma i permessi [per entrare in Israele] non erano ancora stati concessi e siamo stati costretti a ritardare di un giorno. Abbiamo ottenuto i permessi domenica notte, così ho chiamato Aziz e gli ho dato il ‘via libera ’, e sono arrivati lunedì 24 luglio. Mi sentivo un po’ spaventata all’idea di dover parlare con l’esercito... Era la mia prima volta... Ho dovuto chiamare il misrad heterim, l’ufficio di permessi dell’esercito (israeliano). Ero davvero nervosa. Ho spiegato loro l’idea del campo e che cosa avremmo fatto. Ma non erano molto incoraggianti e la sensazione che avevo era che il campo non ci sarebbe stato, non si sarebbe potuto fare, c’erano troppi bambini. Ho lavorato a questo campo estivo per due mesi e per tutto questo tempo non sapevo se sarebbe realmente accaduto fino all’ultima notte. Fino alla fine provavo continuamente a telefonare, quasi supplicante, tentando di renderli tristi, cercando di convincerli a provare qualcosa per questi bambini... Soltanto l’ultima notte mi hanno chiamato e mi hanno comunicato che avevo ottenuto i permessi. Ero così felice... Tuttavia ho pensato ’bene, ma ci crederò soltanto quando vedrò i bambini arrivare realmente qui’. Realmente, perché i bambini erano minori di 16 anni, non avevano davvero bisogno dei permessi, ma avevano bisogno di persone che li accompagnassero e queste persone dovevano ottenere i permessi. A nessuno dei loro accompagnatori è stato concesso il permesso eccetto che per una ragazza. Suo padre è morto e lei non sarebbe potuta venire, cosi`, sostanzialmente, non avevano alcun accompagnatore e lo abbiamo scoperto soltanto quando siamo andati ad accoglierli al checkpoint! A quel punto abbiamo deciso che saremmo stati noi i loro accompagnatori. Sedici checkpoints. Siamo andati al checkpoint di Anata a Gerusalemme ed abbiamo atteso con un bus dall’interno del territorio israeliano. I bambini sono venuti con il loro bus e noi li abbiamo trasferiti nel bus israeliano... Non sapevo esattamente come comportarmi ed ero davvero spaventata. I bambini, da dieci a dodici anni, avevano lasciato la loro casa alle otto di mattina e sono arrivati al checkpoint di Anata alle due [in normali circostanze il tempo di percorrenza è di circa un’ora-Ed.]. I bambini più piccoli erano realmente esausti e forse impauriti, viaggiando da soli senza i loro accompagnatori. Stavo attendendo con altri quattro responsabili del campo per accoglierli ad Anata - ma, per raggiungerci, hanno dovuto superare 16 checkpoints. Sono stati perquisiti, persino di persona! Dio, sono bambini! Siamo arrivati, li abbiamo visti, li abbiamo fatti salire sul bus... Ero molto, molto nervosa... Pensavo, oh mio Dio, in che cosa mi sono imbattuta, tutto ciò è più grande di me e di quello che posso fare... e mi aspettavo bambini spaventati e silenziosi, ma in realtà erano caldi e dolci... Una volta arrivati, si sono seduti e mi hanno fatto una buona impressione. Ho visto che non erano più spaventati ed mi sono sentita meglio. Il bus si allontanava e loro erano davvero emozionati; era la prima volta che sarebbero usciti dai loro villaggi... durante il tragitto abbiamo incontrato uno di quei bus a doppia lunghezza con il collegamento flessibile nel centro e tutti si sono eccitati a tale proposito: Guarda! Guarda questo! - tutte queste cose semplici li hanno realmente divertiti. Siamo arrivati al villaggio [ NSWAS ] e siamo andati alla scuola primaria, in cui i bambini ed i loro responsabili hanno dormito per tutta la settimana. Avevamo due aule per dormire, due aule per le attività artistiche, una stanza serviva da ufficio per i responsabili, avevamo a disposizione i bagni della palestra e la palestra stessa per le attività sportive dei bambini... Ci siamo così costruiti un campo molto accogliente e piacevole. Tutto ciò era già pronto prima che i bambini arrivassero. I responsabili ed io avevamo pulito e preparato tutto per il loro arrivo.

Chi erano i responsabili? Ibrahim Haj Yehia, che ha frequentato la scuola primaria di NSWAS quando era bambino e si è trasferito qui cinque anni fa; ora ha 19 anni. Taj Rizik, che ha 17 anni, è cresciuto qui. Sama Daoud, ora diciottenne, cresciuta qui, come Natalie Boulos, mia sorella minore, anche lei diciottenne. [ La lista di tutti i volontari si trova in appendice-Ed. ] Soltanto quattro? Abbiamo avuto soltanto quattro responsabili perché si pensava che i bambini venissero con due dei loro e quando ho saputo che non avrebbero ottenuto il permesso, mi sono agitata. Non sapevo cosa fare, o dove avrei potuto trovare all’ultimo minuto nuovi responsabili. Fortunatamente, in quel periodo stavano con noi due ragazzi del nord, che cercavano di evitare la guerra; sono andato a casa ed ho detto: Hey, dovete aiutarmi! Così sono venuti: Issam Daoud, studia medicina al Technion di Haifa. Ha 24 anni e sta per iniziare la sua professione di medico; di fatto la sua presenza era un’esigenza giuridica! [ la legge israeliana richiede un medico a disposizione dei programmi che coinvolgono i bambini-Ed ]. L’altro ragazzo è Imad Abu Shkara, anche lui ventiquattrenne, di Abu Snan; studia medicina in Italia. Molte persone mi hanno chiesto perché non ci fossero responsabili ebrei a questo campo. In primo luogo, l’ho proposto a Noam Shuster (figlia di Ruti e di Hezi) ed a Naomi Mark (figlia di Bob e di Michal) ma entrambe stavano lavorando e non potevano richiedere una settimana libera. In secondo luogo e più importante, tutti questi bambini erano impauriti e qualsiasi cosa avesse relazione con l’ebraico o con gli ebrei li terrorizzava, perché` tutto quello che conoscono in proposito è l’esercito israeliano. Quando vedevano qualche ebreo qui, o quando sentivano l’ebraico, perdevano il controllo, e ci domandavano: ci sono EBREI nel vostro villaggio? Ho spiegato che gli ebrei nel nostro villaggio sono molto diversi da quelli in uniforme nei campi profughi... Ho portato Noam Shuster ed Naomi Mark (dopo la loro giornata lavorativa) a stare con i bambini e a parlare arabo con loro... Le ho presentate ed i bambini hanno cominciato ad esaminare Naomi, parlando un arabo duro da capire, una sorta di test.

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Dopo Naomi ha detto loro che sta lavorando con i prigionieri palestinesi [ per il suo servizio nazionale alternativo, con i Medici per i Diritti Umani-Ed. ], la hanno accettata ed hanno iniziato a chiamarla Na’ameh (arabo per "Naomi"). Noam è venuta con noi per l’escursione a Jaffa ed Ori Sonnenschein veniva ogni giorno per due ore a realizzare origami con i bambini e devo dire che è stato grande. Alcuni bambini ebrei e arabi del villaggio sono stati coinvolti, compresi Yonatan Oron, Mai Shbeta, Tali Sonnenschein, Mona Boulos ed Amir Kalak, che sono inoltre venuti con noi come accompagnatori durante l’escursione a Gerusalemme. E venivano anche al campo per stare con i bambini la sera.... Amir è un giovane teenager che realizza spettacoli di magia, e quando è venuto ha portato con se` il suo materiale “magico”; Omer Shuster è stato il nostro DJ; i bambini piccoli come Isam, Mahmoud, Rani, Aman e Muhammad sono venuti ad invitare i bambini del campo a giocare a calcio con loro. Speravo in un coinvolgimento maggiore da parte del villaggio, comunque alcuni bambini hanno partecipato attivamente.I responsabili del campo dovevano stare con i bambini 24 ore al giorno per tutta la settimana, quindi dovevano saper parlare perfettamente in arabo. Ma neppure i ragazzini di NSWAS che parlano arabo non potevano sostenere tutti una conversazione fluente con questi bambini. Ecco perché ho deciso che i responsabili 24 ore su 24, che avrebbero fatto le veci dei genitori, fossero arabi e che le altre attività avrebbero coinvolto anche gli ebrei. Mentre la settimana scorreva, potevamo vedere un cambiamento reale da parte dei bambini, anche nei confronti degli ebrei... Dicevano cose come, Hadi yehudiyye, bas yehudiyye mniha... ["quella signora è ebrea, ma è un’ebrea buona”].In piscina e giocando a calcio, hanno incontrato i bambini ebrei dal villaggio. Yonaton Oron, 13 anni, non conosce benissimo l’arabo così parlava ebraico e inizialmente non lo hanno accettato. Quando hanno capito quanto è dolce, si sono legati molto a lui. Hanno provato ad insegnargli arabo! E lui ha portato due bambini a giocare a casa sua. Il mio scopo non era di sedermi con i bambini e provare a convincerli che non tutti gli ebrei sono come i soldati che vedono ogni giorno, o provare a cambiare le loro idee. Tutto quello che ho dovuto fare è stato lasciarli vivere la vita di Neve` Shalom / Wahat al-Salam ed è stato più di quanto mi sarei potuta aspettare. Come sono stati strutturati i giorni? Che cosa hanno fatto esattamente i bambini? Si alzavano circa alle otto di mattina e la prima colazione era alle nove. Per colazione c’erano panini con cioccolato e banane e cioccolata calda; per pranzo avevamo hot dog, hummus, verdure e una bevanda fredda. La cena veniva servita nella sala da pranzo dell’hotel, una cena tipica. Tutto il cibo è stato fornito dalla sala da pranzo - panini, bevande, frutta, ecc... Dopo la prima colazione, andavano in piscina per due ore - la loro prima volta in una piscina. Tutto qui era la prima volta, per loro. Nessun di loro sapeva nuotare. E noi stavamo in piscina con loro, mostrando loro cosa fare... Alla fine della settimana, potevano sguazzare e divertirsi anche nella parte più profonde. Dopo una doccia, si preparavano per il pranzo che veniva servito dall’una alle due. Allora iniziavano le attività d’arte con gli insegnanti speciali che Umar Ighbaria dal villaggio mi ha aiutato a trovare e a invitare per lavorare con i bambini; sono venuti quasi ogni giorno e hanno lavorato come artisti e artigiani, e ancora teatro e musica... La cena era alle sette nella sala da pranzo e poi, dalle otto alle dieci, si svolgeva un’attività serale. Abbiamo organizzato qualche cosa di diverso ogni sera: una notte, un party; una volta, una notte nel bosco; una notte una partita di calcio; una notte in piscina con musica e danze. Il loro personale circus... Martedì, l’ ’Arab-Jewish Youth Circus’ è arrivato nel nostro campo. E per quell’importante giornata vorrei ringraziare Hatem Matar, il responsabile dell’hotel di NSWAS [The White Dove Guest House-Ed. ], che ha organizzato tutto affinché il circus venisse su base volontaria. Hanno realizzato uno show con capriole e acrobazie per un’ora; è stato davvero piacevole. Poi hanno lavorato con i bambini, insegnato loro i trucchi del mestiere e come utilizzare l’attrezzatura: cerchi, capriole sui materassini, sfere da giocoliere... E` stato speciale. Per il resto del tempo i bambini hanno continuato a giocare con queste cose. Ed abbiamo comprato loro dei palloni da calcio... e l’attrezzatura artistica... forbici e vernici e fogli grandi su cui disegnare, abbiamo dato loro qualsiasi cosa servisse per queste attività`. Portami alla mia vera casa.

Giovedi` li abbiamo portati a Jaffa, presso l’Arab-Hebrew Theatre. Qui hanno assistito ad una rappresentazione teatrale in Arabo, Laila wal ghruyum (“notte e nuvole”). Dopo hanno giocato con i burattini, con i volontari del teatro. E hanno creato burattini da portare a casa. Poi hanno fatto un giro nel centro storico di Jaffa con una guida turistica speciale. Abbiamo dato loro spiegazioni riguardo a tutti i posti che hanno visto. Ma ci stupiva il modo in cui conoscessero la storia del Paese. Concludevano i discorsi della guida al suo posto. Tant’è che la guida stessa ha riconosciuto di non aver mai avuto un gruppo come quello. Tutti i bambini venivano dai campi profughi, quindi pro-venivano “da qui” -alcuni di loro provenivano da famiglie di Jaffa, altri sapevano esattamente dove si trovasse la casa dei loro nonni... e volevano visitare quei posti: Per piacere, portami a Taibe; ti prego, portami a Beersheba, a Gerusalemme, a Ramle...Dopo aver visitato Jaffa, li abbiamo accompagnati a fare un giro in barca a vela. Eravamo così spaventati... Avevamo paura che potessero scivolare sul bordo! Mentre i bambini erano eccitatissimi e si sporgevano per vedere l’acqua e la spiaggia; e noi urlavamo “No, no!!!” Allora li ho portati nella cabina del capitano alla guida della barca. Cameriere! Cameriere!

Poi siamo andati al ristorante “Abu Al-Afia” di Jaffa, per pranzo. Non erano mai stati in un ristorante e in questa occasione sono davvero entrati nell’ottica dell’ordinazione! Quando ce ne siamo accorti abbiamo iniziato a ridere. Ho dovuto spiegare la situazione ai camerieri così non sarebbero diventati matti. E` stata un’ulteriore “prima volta”. Infatti continuavano ad agitare le braccia: Portaci questo! Portaci quello! E` stato davvero dolce ma allo stesso tempo triste. Dopo siamo andati al mare. Erano proprio emozionati... Noi invece eravamo terrorizzati perché` non sapevano nuotare perfettamente e il mare in tal caso è spaventoso. Tutti i responsabili si sono tuffati e posizionati in circolo di fronte alla riva, a braccia unite, impedendo loro di oltrepassarci...Hanno nuotato e preso conchiglie... Ogni bambino aveva una bottiglietta -Ti lascio immaginare!-. Allora le hanno svuotate buttando via l’acqua potabile e riempite con l’acqua di

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mare; una volta chiuse le bottiglie, hanno scritto il loro nome e le hanno portate a casa per mostrarle ai loro genitori. (Tulkarm e` a circa mezz’ora di macchina dal mar Mediterraneo in normali circostanze. – Ed.] Dopo il mare siamo tornati al campo. I responsabili erano esausti ma i bambini erano ancora pieni di energie... Non erano mai stanchi - mai stanchi!!!-. Non avevo mai visto bambini come loro prima di conoscerli. Allora sono andati a giocare a calcio, quindi musica e ancora festa, al che abbiamo detto: Ok, questo è quanto, stiamo crollando, tutti a nanna!

Un viaggio allo zoo. Di sabato siamo andati allo Zoo Biblico a Gerusalemme. Hanno visto molti animali per la prima volta nella loro vita, e nella sezione dedicata ai cuccioli, hanno potuto giocare e accarezzarli. Avevamo la mappa del posto ma ogni gruppo ha intrapreso un percorso diverso. Abbiamo organizzato un pic-nic sull’erba... E dopo li abbiamo portati a Gerusalemme, Città Vecchia, un qualcosa che sognavano da sempre. Volevano vedere la Moschea di Al Aqsa ma ho risposto loro che non era possibile, Ero spaventata. Non sapevo come potesse essere la situazione, se ci fossero tante persone o meno. Mi hanno pregato, fino a che ho deciso: Sapete cosa? Andiamo! Era sabato e fortunatamente era vuota. Siamo entrati e abbiamo fatto delle foto. Ma non appena messo piede all’interno della moschea e data un’occhiata in giro per un secondo, hanno deciso : Okay, si`, adesso vogliamo andare al mercato...Sono bambini! Allora li abbiamo portati al mercato e abbiamo comprato loro della roba; quindi siamo tornati al campo... E quei due giorni sono stati gli unici in cui i bambini sono usciti da NSWAS.

Qual è stata la parte migliore... per te? Oh, ad essere onesta...ogni singolo giorno! Per tutto quello che accadeva mi sentivo come “Oh mio Dio!”; poi accadeva qualcos’altro ed era lo stesso, “Oh mio Dio!”, ancora... Non lo dimenticherò mai. Non pensavo che potesse avere un così forte impatto su di me. Ci siamo davvero legati a questi bambini... Il giorno dopo è stato il giorno più triste della mia vita, onestamente, non sto esagerando. I bambini stavano davvero piangendo... e anche noi abbiamo iniziato a piangere. Ibrahim e Issam sono ragazzi grandi e grossi, ma anche loro stavano per piangere. I bambini non volevano partire. Alcuni si sono rifiutati di salire sull’autobus. Uno di loro è scappato via, abbiamo dovuto rincorrerlo, trovarlo e trascinarlo sull’autobus. Mi sono sentita crudele. Ho odiato me stessa. Per aver dato loro questa settimana sorprendente per poi dire “okay, questo è ciò che non avete, adesso tornate alla vostra realtà`.

Ci hanno chiamato il momento in cui sono arrivati... e il giorno dopo... ci hanno chiamati da chiunque avesse il telefono... Noi li abbiamo chiamati quando loro non avevano più credito per parlare. Erano ancora molto tristi. Con gli altri responsabili abbiamo deciso di visitarli la settimana successiva e di portar loro il materiale per la scuola, cartelle e cose varie... Lo avevamo promesso. Per sempre nei nostri cuori

L’ultimo giorno, domenica, abbiamo invitato le persone del villaggio ad un’esibizione artistica con i lavori dei bambini: origami, modellini di creta, pitture, costruzioni con lavori teatrali e di Styrofoam. Hanno studiato un po’ di teatro durante il campo, di conseguenza ogni gruppo ha presentato un lavoro. Non erano divisi per età`, ma a caso, con ragazzi e ragazze e due responsabili per gruppo. Ogni gruppo aveva un nome scelto dai bambini stessi: Al Amal (Speranza), i cui responsabili erano ’Brahim e Issam; Al-Sukour (L’Aquila, “Perché` loro possono volare ed essere libere...”), i cui responsabili erano Sama e Emad; e Al-Nujum (Le Stelle, “Perché sono bellissime, e libere e al sicuro”), con Natalie e Taj. Dopo l’esibizione e le performances, abbiamo fatto loro dei regali. Abbiamo donato loro magliette con su scritto “Wahat al Salam- Summer Camp 2006”, e cappelli che hanno ricevuto il primo giorno del campo. L’ultima notte, domenica, durante la festa, abbiamo regalato loro fotografie -tre foto per ogni bambino: una foto di gruppo; una dei loro capigruppo; e una foto personale per ogni bambino, con una bella cornice. Le cornici sono state offerte da Dyana e Rayek Rizik. Io ho voluto fare loro un’altra sorpresa: un video clip, non che io sia particolarmente brava in questo... Le persone del villaggio sono state invitate per quest’evento serale e alcune di loro sono venute, così come alcuni bambini del villaggio. Il video clip conteneva tutte le foto e i video che noi avevamo filmato durante la settimana. Il titolo di apertura era “ Summer Camp 2006”... Musica Araba Ad esempio? “Atabtat wadulla”, una canzone che loro amavano, che hanno cantato e ballato per tutta la settimana. E` una canzone d’amore di Nancy Atjam. Il video clip terminava con un numero finale ripreso dal film “Dirty Dancing”, che dice “Ho avuto il mio momento... e non mi ero mai sentito così prima...”. Il titolo di chiusura diceva: Per sempre nei nostri cuori. Dopo il video clip hanno iniziato a piangere... Ci siamo dovuti sedere e abbiamo dovuto parlare con loro: Hey, state per tornare dalle vostre famiglie... E loro dicevano: No, no, no, non abbiamo niente li`, siamo più felici qui. Questo è stato duro da vedere. Perfino quando li ho portati negli uffici un giorno per chiamare casa, i genitori sentivano la loro mancanza, ma i bambini erano come “Nah, qui è meglio!”... Qualcuno ha detto: Hanno trascorso una settimana in paradiso e ora stanno per tornare all’inferno, e questo è vero. Giovedì, un responsabile è arrivato qui da Tulkarm, con un permesso; il suo nome è Ali. I genitori lo avevano mandato perché volevano che almeno una persona di lì desse un’occhiata ai loro bambini! Lo stesso, domenica sera, al nostro ultimo party, ci ha guardati e ha detto: il vostro lavoro è finito, adesso è il nostro turno, dobbiamo aiutarli a riadattarsi alla realtà cui stanno per tornare, di nuovo. Ciò mi ha resa molto triste e vuota. Poesie profumate. Quando siamo andati a pulire il posto in cui avevamo dormito, abbiamo trovato un sacco di cose nella confusione: cose che avevano fatto con le loro mani, cose che avevano dimenticato. Non potevamo accettare di gettare via alcun oggetto. Li abbiamo tenuti tutti. Durante la loro ultima notte, ci hanno scritto delle lettere. Scrivevano davvero in un modo sbalorditivo, il loro Arabo è davvero profondo. Ci hanno scritto poesie, parole davvero bellissime. Per rendere le lettere profumate, hanno usato il deodorante spray per l’ambiente del bagno. Natalie ha scritto una poesia per i bambini del suo gruppo, una frase per ogni bambino. Abbiamo pianto quando l’abbiamo letta. Siamo stati iper-sensibili durante l’intera

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settimana; piangevamo per ogni minima cosa. I bambini si sentivano davvero protetti e si fidavano di noi. Abbiamo lavorato duro all’inizio per ottenere la loro fiducia e ci siamo davvero riusciti. Ma le cose che ci hanno raccontato mi hanno spezzato il cuore, sul serio, le esperienze che hanno attraversato con le loro famiglie, tutta quella violenza... C’erano cose che noi non sapevamo gestire -violenza in casa, in famiglia, come l’esercito si comporta con loro nei campi profughi...-. Le loro famiglie sono povere e non hanno soldi per niente... Vivono tutti nella stessa stanza, perfino coppie di famiglie, ovviamente con i loro bambini... Sono spaventati dai loro padri... Non ottengono abbracci o affetto. All’inizio infatti non accettavano il nostro comportamento, ma dopo si sono abituati, e li abbracciavamo e baciavamo continuamente... Sono venuti da noi e ci hanno raccontato un sacco di cose, non credo che fossero autorizzati a parlare della loro vita li, e io non ripeterò qui quello che mi è stato detto. Credi sia stato giusto averli portati qui e averli mandati via dopo un po’? Ho avuto modo di riflettere a lungo a riguardo... Alla fine ho deciso che questo è meglio di non aver alcun tipo di esperienza nella propria esistenza. Ora i bambini hanno almeno qualche ricordo. Adesso hanno qualche speranza. Sono venuti qui e hanno visto che ci sono persone diverse... Hanno addirittura imparato qualche parola in ebraico. Si sono innamorati del nostro villaggio e l’impatto del villaggio su questi bambini è stato davvero trasparente. In questo momento sanno che certe cose possono essere differenti. Quando cresceranno, realizzeranno... Ora hanno ricordi e fotografie... Abbiamo intenzione di restare in contatto con loro.

Hanno capito d’essere Palestinesi in Israele? Pensavo che non avrebbero capito. Pensavo che ci avrebbero guardato e si sarebbero meravigliati di come fossimo simili (stessa lingua, etc.), e tuttavia noi abitiamo ancora qui e loro li`; ma in realtà hanno capito, addirittura più di quanto potessi immaginare. Hanno qualche parente qui. Sono profughi... Lo hanno spiegato perfino a me... Riguardo alla guerra del 1948, e come gli ebrei sono arrivati qui, e come gli arabi sono stati costretti a lasciare le loro case, alcuni lo hanno fatto e altri no e questi ultimi ora si trovano sotto l’autorità del governo Israeliano, mentre quelli che hanno lasciato le loro case ora si trovano nei campi profughi! Loro hanno capito... Ma volevano restare qui. Non interessava loro se il villaggio appartenesse al territorio israeliano o agli Ebrei. Erano felici qui. Dicevano: “Possiamo chiamare i nostri genitori da qui...”

Che cosa faresti di diverso, se avessi l’opportunità di ripetere l’esperienza?

Ad essere onesta: niente. Sono molto soddisfatta e orgogliosa. Penso che sia stato davvero un grande successo per tutte le persone coinvolte. Sono fiero del mio lavoro e dei responsabili che hanno lavorato con me. Sono stati stupefacenti! Neppure dei professionisti sarebbero stati capaci di fare il genere di lavoro che loro hanno fatto con i bambini. Non ho visto mai gente tollerante e comprensiva come Sama, Natalie, Taj, ` Brahim, Issam ed Emad. L’ultimo giorno, i bambini si aggrappavano a noi, non volevano lasciarci andare, non volevano andare via. Ciò ci ha spezzato il cuore! Stavamo li`, in piedi e con gli occhi pieni di lacrime, a guardarli mentre ci salutavano dall’autobus. Dopo averli visti allontanarsi, siamo andati nella stanza dei responsabili e ci siamo seduti là tranquillamente. Nessuno ha detto niente; ci siamo solo seduti lì con lo sguardo fisso nel vuoto. Traduzione: Irene Lucisano

5) LA LETTERATURA

David Grossman, Con gli occhi del nemico. Raccontare la pace in un paese in guerra

"Quando abbiamo conosciuto l'altro dall'interno, da quel momento non

possiamo più essere completamente indifferenti a lui. Ci risulterà difficile

rinnegarlo del tutto. Fare come se fosse una "non persona". Non potremo

più rifuggire dalla sua sofferenza, dalla sua ragione, dalla sua storia. E

forse diventeremo anche più indulgenti con i suoi errori." 2

Oggi, però, vorrei parlare di un ulteriore movente dello scrivere. Esso è certamente legato, in un modo o nell'altro, a tutto quello che ho appena menzionato; dirò anche che, per quanto mi riguarda, è una motivazione che si va facendo sempre più forte a mano a mano che gli anni - quelli della vita e quelli del mestiere - aumentano, a mano a mano che cresce in me, è questo che scopro, la necessità dell'atto creativo, della scrittura in quanto stile di vita, in quanto mio modo di stare al mondo. Il movente di cui parlo è l'aspirazione a rimuovere, volontariamente, ciò che mi difende dall'altro. L'aspirazione ad abbattere quella parete divisoria, per lo più invisibile, che separa me dal prossimo (chiunque egli sia), verso il quale provo un interesse fondamentale, profondo; l'aspirazione a espormi in tutto e per tutto, senza alcuna difesa, in

2 David Grossman, Con gli occhi del n Con gli occhi del nemico. Raccontare la pace in un paese in guerra, Mondadori, 2007.

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quanto individuo e non soltanto scrittore, di fronte alla personalità e alla vita di un altro individuo, alla sua interiorità più segreta e autentica, primordiale. Ma dinanzi a tale aspirazione si pone subito un grosso ostacolo: gia, perché più osservo me stesso, più osservo l'umanità in generale, vicina e lontana, più giungo a una conclusione che a prima vista mi sorprende e mi delude, e che respingo immediatamente, dicendomi che è soltanto una regola infondata. Tuttavia, essa torna di continuo a insinuarsi dentro di me, in innumerevoli forme e sfumature, e perciò qui la espongo, ma voi siete assolutamente autorizzati a liquidarla e a dire che non ha nemmeno un grano di verità. Ecco, ho l'impressione che sotto molti aspetti noi esseri umani - creature sociali per eccellenza, che tanto investiamo nel rapporto affettivo ed empatico con la nostra famiglia, i nostri amici, il nostro pubblico - siamo in realtà sulle difensive, asserragliati in modo assai efficace, non solo di fronte a un nemico: in un certo senso siamo sulle difensive - cioè difendiamo noi stessi - dal prossimo, chiunque esso sia. Dalla radiazione della sua interiorità dentro di noi, da ciò che la sua interiorità esige da noi e che si riversa incessantemente su di noi. Da quella cosa che qui chiamerò il caos che risiede dentro l'altro. «L'inferno è l'altro» ha detto Jean-Paul Sartre, e forse proprio per questo, per la paura di quell'inferno che esiste nel prossimo, il sottile strato d'epidermide che ci avvolge, che separa noi dal prossimo, a volte è spesso e coriaceo come il muro di cinta di una fortezza, nella sua duplice funzione di confine e di ostacolo che separa. Guardiamoci intorno per un momento. Non di rado si riscontra, anche in una coppia che vive insieme magari da decenni - una vita più o meno felice, fatta di reciproco amore e di buona spartizione dei ruoli come genitori e membri di una famiglia -, la presenza, istintiva e inconsapevole, di un tacito accordo (che esige, fra l'altro, una collaborazione sottile, limata!) i cui princìpi si riassumono così: meglio non conoscere il partner fino in fondo. Meglio non scoprire tutto quello che accade in lui. Non conoscere, non chiamare per nome, perché in tale contesto di rapporti coniugali questa «vicenda» interiore non trova posto; e anzi, potrebbe determinare una spaccatura, un collasso che nessuno dei due vuole.[p.7]

Qui giungiamo a una questione ulteriore che si dipana da quanto ho appena detto, che vi è strettamente legata. Vorrei dire infatti qualche parola sul senso della scrittura letteraria per chi, come noi, vive ormai da un secolo in una regione che, senza tema di smentite, si può definire «disgraziata». Lo dico sin d'ora: non intendo parlare di politica in senso stretto e riduttivo, ma dei processi intimi e profondi che avvengono dentro chi vive in una regione come questa. E del ruolo della letteratura e della scrittura in un clima catastrofico come il nostro. Vivere in una regione disgraziata significa, prima di tutto, essere contratti, tanto fisicamente quanto mentalmente. I muscoli del corpo e della psiche sono tesi, sempre un po' contratti, pronti ad assorbire il colpo ma anche a balzare via in fuga. Chiunque viva in una situazione del genere lo sa bene: non solo il corpo, anche la psiche si concentra, si prepara per il boato della prossima esplosione o per la prossima edizione del notiziario. «Colui che ride probabilmente non ha ancora ricevuto la terribile notizia» ha scritto Bertolt Brecht – anche lui esperto cittadino di una regione disgraziata - nella poesia A quelli nati dopo di noi. Già, quando vivi in una zona di tragica emergenza, scopri che sei sempre sul chivalà. Sei sempre pronto e teso con tutto te stesso al dolore che verrà, al prossimo scoramento. Difficile dire quando comincia esattamente la crudele metamorfosi: da quando, insomma, non ha più senso chiedersi se il dolore e lo scoramento verranno o meno, visto che comunque ci sei già dentro anche se tutto per il momento rimane ancora nell'ambito del possibile. In sostanza, tu già crei tutto dentro di te. Stabilisci ormai una normalità di vita già tutta impregnata di disperazione, a causa della perenne paura di questa disperazione. E non ti accorgi nemmeno più quanto la tua vita, come quella di tutti gli altri, scorra per lo più dentro la paura della paura, quanto il terrore distorca ormai il tuo carattere, quanto ti rubi la gioia di vivere e il senso della vita. Così, se è vera quella sensazione di pancia secondo cui in una situazione di minaccia come questa «chi sente di più, soffre di più», allora a questo stadio la cosa si traduce più o meno così: «Chi sente, soffre», punto e basta. In altre parole, il timore costante – e assai fondato – di una lesione, della morte o di una perdita insopportabile fa sì che ciascuno di noi riduca la propria vitalità, la propria tonalità interiore, spirituale e di coscienza. [p. 24]

Scrivere del nemico significa prima di tutto pensare al nemico. Cosa cui è ovviamente tenuto chiunque abbia un nemico, anche se si ha perfettamente chiaro di essere dalla parte della ragione, anche se si è sicuri della cattiveria, della crudeltà e dell'errore di quel nemico. Pensare (o scrivere) il nemico non significa in alcun modo giustificarlo. Non posso nemmeno immaginare, per esempio, di scrivere sul personaggio di un nazista e trovarmi a giustificarlo, benché abbia sentito l'impulso - persino il dovere - di mettere in Vedi alla voce: amore un ufficiale nazista, per poter capire come un uomo comune e normale abbia potuto trasformarsi in un nazista, giustificare a se stesso quel che fa e quel che passa, facendo ciò che fa. A questo proposito sono belle le parole di Sartre contenute nel suo esemplare saggio Perché si scrive?: «Nessuno avanzerebbe mai l'ipotesi che si possa scrivere un buon romanzo facendo l'elogio dell'antisemitismo. Perché non si può esigere da me, nel momento in cui provo che la mia libertà è indissolubilmente legata a quella di tutti gli altri uomini, che usi questa libertà per approvare l'asservimento di alcuni di questi uomini. Così lo scrittore, sia saggista, libellista, satirico o romanziere, sia che parli soltanto delle passioni individuali oppure prenda di mira il regime sociale, in quanto uomo libero che si rivolge a uomini liberi, ha un solo tema: la libertà». Sartre è un po' ingenuo quando scrive che «nessuno potrebbe mai pensare, foss'anche per un solo istante, che sia ammissibile scrivere in favore dell'antisemitismo»: libri in proposito ne sono stati scritti eccome, e tutto fa pensare che se ne scriveranno ancora. Ma egli ha perfettamente ragione quando parla dell'unico argomento che sta alla base dello scrivere, che è l'anima stessa dell'opera letteraria: la libertà. La libertà di pensare diversamente, di guardare in modo nuovo a situazioni e persone, anche se sono i nostri nemici. Pensare il nemico, dunque. Pensarlo con rispetto e profonda attenzione. Non solo odiarlo o temerlo. Pensarlo come una persona, una società o un popolo, distinti da noi e dalle nostre paure, dalle nostre

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speranze, dalle nostre fedi e prospettive, dai nostri interessi e dalle nostre ferite. Permettere al nemico di essere «prossimo» — foss'anche per un solo momento — con tutto ciò che questo comporta. Potrebbe risultare utile anche dal punto di vista della condotta bellica, dell'acquisizione di informazioni essenziali, questo principio del «conoscere il nemico dall'interno», ma può servirci anche per cambiare la realtà, cosicché questo nemico cessi gradualmente di essere tale per noi. Voglio chiarire che non sto affatto invitando ad «amare il nemico». A tale proposito non posso dire di essere stato dotato di una così nobile longanimità (che considero sempre un po' sospetta, peraltro, quando mi capita di incontrarla negli altri). Per parte mia, intendo unicamente lo sforzo di tentare di capire il nemico, i suoi impulsi, la sua logica interiore, la sua visione del mondo, la storia che narra a se stesso. Ovviamente non è una cosa facile né semplice quella di leggere la realtà attraverso gli occhi del nemico. È spaventosamente difficile rinunciare ai nostri sofisticati meccanismi di difesa, esporci ai sentimenti vissuti dal nemico nel conflitto con noi, nella lotta contro di noi, a ciò che prova nei nostri confronti. È un'ardua sfida alla nostra fiducia in noi stessi e nelle nostre ragioni. Contiene il rischio di sconvolgere la «versione ufficiale», che è per lo più anche l'unica lecita, «legittima», che un popolo disorientato, un popolo in guerra, racconta costantemente a se stesso. [p. 32]

Io scrivo. Il mondo non mi si chiude addosso, non diventa più angusto. Mi si apre davanti, verso un futuro, verso altre possibilità. Io immagino. L'atto stesso di immaginare mi ridà vita. Non sono pietrificato, paralizzato dinanzi alla follia. Creo personaggi. Talora ho l'impressione di estrarli dal ghiaccio in cui li ha imprigionati la realtà. Ma forse, più di tutto, sto estraendo me stesso da quel ghiaccio. Io scrivo. Percepisco le innumerevoli opportunità presenti in ogni situazione umana e la possibilità che ho di scegliere fra di esse, la dolcezza della libertà che pensavo di avere ormai perso. Mi compiaccio della ricchezza di un linguaggio vero, personale, intimo, al di fuori dei cliché. Riprovo il piacere di respirare nel modo giusto, totale, quando riesco a sfuggire alla claustrofobia degli slogan, dei luoghi comuni. Improvvisamente comincio a respirare a pieni polmoni. Io scrivo. E mi rendo conto di come un uso appropriato e preciso delle parole sia talvolta una sorta di medicina che cura una malattia. Uno strumento per purificare l'aria che respiro dalle prevaricazioni e dalle manipolazioni dei malfattori della lingua, dai suoi vari stupratori. Io scrivo. Sento che la sensibilità e l'intimità che ho con la lingua, con i suoi diversi substrati, con l'erotismo, con l'umorismo e con l'anima che essa possiede, mi riportano a quello che ero, a me stesso, prima che questo «io» fosse ridotto al silenzio dal conflitto, dal governo, dall'esercito, dalla disperazione e dalla tragedia. Io scrivo. Mi libero da una delle vocazioni ambigue e caratteristiche dello stato di guerra in cui vivo, quella di essere un nemico, solo ed esclusivamente un nemico. Io scrivo, e mi sforzo di non proteggere me stesso dalle sofferenze del nemico, dalle sue ragioni, dalla tragicità e dalla complessità della sua vita, dai suoi errori, dai suoi crimini. E nemmeno dalla consapevolezza di quello che io faccio a lui, né dai sorprendenti tratti di somiglianza che scopro tra lui e me. Io scrivo. A un tratto non sono più condannato a una dicotomia totale, fasulla e soffocante: la scelta brutale fra «essere vittima o aggressore» senza che mi sia concessa una terza possibilità, più umana. Quando scrivo riesco a essere un uomo nel senso pieno del termine, un uomo che si sposta con naturalezza tra le varie parti di cui è composto; che ha momenti in cui si sente vicino alla sofferenza e alle ragioni dei suoi nemici senza rinunciare minimamente alla propria identità. [p. 48]

Parlerò anche del prezzo di una vita senza speranza. Dell'oppressione esercitata dal fatalismo, dal disfattismo, per colpa del quale così tanti israeliani vivono con la sensazione che le cose non andranno mai meglio di così, che le armi avranno sempre pane per i loro denti, e che esiste una specie di «dannazione dal cielo» inflitta su di noi: uccidere ed essere uccisi per l'eternità. Io penso che sessanta, cinquant'anni fa la società ebraica nella giovane terra di Israele era pronta a qualunque sacrificio perché sentiva di avere uno scopo perfettamente giusto. Oggi invece, per parti non indifferenti della popolazione questo scopo non sembra più così giusto, e non di rado si fa persino fatica a comprendere quale sia l'obiettivo. Questa mancanza di senso e di fiducia nella leadership rode gradualmente anche il cuore della questione, la convinzione cioè della legittimità dello Stato ebraico, del suo diritto all'esistenza, e rafforza in alcuni particolari contesti quelle posizioni secondo cui tutto lo Stato di Israele - e non soltanto i suoi insediamenti nei Territori occupati - sarebbe un torto colonialista, capitalista, un regime d'apartheid, estraneo a qualsivoglia motivazioni storiche, nazionali e culturali, e pertanto senza legittimità né diritto all'esistenza. La fine dell'occupazione potrà condurre alla guarigione di alcune di queste lesioni interne. Non credo che un cambiamento tanto drastico possa avvenire in tempi brevi, ma se anche ciò dovesse verificarsi nel giro di una o due generazioni, potrebbe contribuire a sanare la «deformazione» che ha portato Israele lontano dal suo stesso ethos. Se questo dovesse succedere, si svilupperebbe forse qui anche una nuova potenzialità di interessante sintesi fra i due modelli fondamentali del popolo ebraico: da un lato il modello ebraico israeliano, che vive nella propria nazione sopra il suolo e nel paesaggio che gli appartengono, con una sua lingua e cultura, un corpo radicato dentro una quotidianità e una concretezza, in tutti gli aspetti e con tutte le contraddizioni che ciò comporta; dall'altro il modello dell'ebreo universale, cosmopolita, che aspira a compiere una missione intellettuale e morale, a esprimere la voce dei deboli e degli oppressi d'ogni dove, a rappresentare un sistema morale chiaro, deciso, radicato nella forza intellettuale e filosofica, in quella mobilitazione etica che fa di ogni individuo una grande creazione, unica e irripetibile, come hanno detto tanto il profeta Isaia quanto pensatori moderni quali Franz Rosenzweig e Martin Buber. Pensate per un momento alla possibile combinazione di questi due modelli! Pensate a un Israele che riesca a crearsi un posto nuovo, unico nel suo genere, nella famiglia dei popoli: Israele come nazione sovrana, sicura, nel cui patrimonio culturale trovino spazio l'impegno umanistico universale, il coinvolgimento nelle avversità del mondo, la voce morale su questioni sociali, politiche ed economiche, il sostegno umanitario ovunque ce ne sia bisogno. In altre

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parole, uno Stato di Israele che torni a svolgere – questa volta da un posto nuovo, sovrano, integro, sicuro – il ruolo e il compito storico, morale, del popolo ebraico nella storia umana. Talvolta un pensiero solletica la coscienza: che cosa sarebbe successo e come sarebbero andate le cose se Israele fosse riuscito a crearsi come un'entità nazionale e sociale unica nel suo genere, invece di diventare, con una rapidità sorprendente, una parodia un po' grottesca degli Stati arabi? Che cosa sarebbe successo se Israele avesse optato sin dall'inizio per una scelta nazionale e sociale ardita, assai distante da quella su cui si è cristallizzata ora? Una scelta capace di conciliare i valori ebraici universalistici con un sistema economico e sociale veramente umanistico, centrato sull'uomo, invece dell'utilitarismo e della forza e di una competitività aggressiva; una scelta che avesse un che di unico, particolare e financo geniale, come è stata, per esempio, l'idea del kibbutz all'inizio, prima che si guastasse, e quale si è manifestata nell'apporto ebraico a molti e diversi ambiti dell'esperienza umana, nella scienza e nell'economia, nell'arte e nella filosofia, negli studi politici e sociali. [p. 78]

Se c’è una cosa che vorrei sperare che politici e uomini di governo possano prima o poi imparare dalla letteratura, è proprio questo modo di votarsi a una situazione, e alle persone che vi sono intrappolate (in fondo, politici e uomini di governo sono responsabili in misura non irrilevante delle trappole che si sono create, nonché della pesante situazione di chi vi è rinchiuso!). E quand’anche non fossero propriamente capaci di «votarsi», per parte nostra potremmo almeno pretendere da loro quella capacità di ascolto, quel modo di porgersi, che servono più di qualunque altra cosa per resuscitare la persona dentro l’armatura. Chi assume questo atteggiamento di ascolto e attenzione si impegna in sostanza a tenere sempre presente un fatto semplice, banale che però risulta così facile da dimenticare, da rimuovere: il fatto, cioè, che dentro quell’armatura c’è una persona. Dentro la nostra armatura e anche dentro quella del nostro nemico. Così come dietro la corazza della paura, dell’indifferenza, dell’odio, dietro la contrazione della psiche, dietro tutto ciò che è andato spegnendosi in ognuno di noi in questi anni difficili, dietro tutti i muri difensivi, i posti di blocco e le torri di guardia c’è sempre una persona. Infatti, la natura e la sostanza della condizione violenta è il desiderio di provare a rendere le persone senza volto, a trasformarle in una massa indistinta e priva di volontà. Guerre, eserciti, regimi totalitari e religioni fondamentaliste tentano continuamente di cancellare quelle sfumature che creano l’individualità, la peculiarità di ciascuno, il miracolo irripetibile che ogni individuo rappresenta, cercando di trasformare le persone in un gruppo, in una massa, decisamente più congeniale ai loro scopi e alla situazione. La letteratura – non tanto in termini di questo o quel libro, quanto piuttosto nel tipo di ascolto che la vera letteratura suscita – ci rammenta il nostro dovere di pretendere per noi stessi – nella stretta della «situazione» – il diritto all’individualità, alla specificità. Ci aiuta a restituire a noi stessi una parte di quelle cose che questa «situazione» cerca continuamente di sottrarci, di zittire: una considerazione pacata, gentile, della persona intrappolata nel conflitto, sia con noi sia contro di noi; le sfumature composite dei rapporti fra persone e fra gruppi diversi; la precisione nelle parole e nelle descrizioni; l’elasticità di pensiero; la capacità e il coraggio di cambiare, ogni tanto, la prospettiva su cui siamo bloccati (a volte proprio fossilizzati). La consapevolezza profonda e vitale che è possibile - anzi doveroso - leggere qualunque situazione umana sotto diversi punti di vista. Allora potremo forse arrivare in quel luogo in cui è ammesso che esistano insieme – senza cancellarsi a vicenda, senza negarsi l’una al cospetto dell’altra – le storie assolutamente antitetiche di persone diverse, popoli diversi, e persino di nemici giurati. Solo se raggiungeremo quel luogo – e solo se lo raggiungerà anche il nemico – riusciremo alla fine comprendere che in una vera trattativa politica le nostre aspettative dovranno inevitabilmente incontrare quelle del nemico, e ammettere le ragioni, la legittimità, essendo esse legittime e ragionevoli. In quel momento sentiremo tutti – cioè le multiformi parti in causa – quelle dolorose «doglie» della crescita che si accompagnano sempre a ogni sviluppo, alla consapevolezza che la nostra facoltà di foggiare da soli la realtà in modo tale che sia perfettamente congeniale ai nostri bisogni, e soltanto a essi, ha un limite. In quel momento avvertiremo e capiremo veramente quel che prima ho definito il principio del prossimo, il cui significato profondo, se volete, è il diritto del prossimo all’esistenza (all’esistenza e alla storia, così come il diritto alle sofferenze e alle speranze).È come l’esclamazione di Archimede: solo arrivandoci, potremo cominciare a rimuovere gli ostacoli e le schegge che ci impediscono di risolvere il conflitto. Perché, quando abbiamo conosciuto l’altro dall’interno - anche se l’altro in questione è il nostro nemico - da quel momento non potremo più essere completamente indifferenti a lui. Qualcosa dentro di noi sarà debitrice a lui o, quantomeno, alla sua complessità. Ci risulterà difficile rinnegarlo del tutto. Fare come se fosse una «non persona». Non potremo più rifuggire, con la solita e per noi ormai banale facilità, dalla sua sofferenza, dalla sua ragione, dalla sua storia. E forse diventeremo anche più indulgenti con i suoi errori. Anche questi, infatti, li interpreteremo come una parte della sua tragedia. Qualora, poi, ci restassero un po’ di energia e di magnanimità, potremmo persino creare una situazione in cui sia più facile anche per il nostro nemico sfuggire alle proprie trappole interiori, e avremmo anche noi qualcosa da guadagnare. Scrivere del nemico significa prima di tutto pensare al nemico. Cosa cui è ovviamente tenuto chiunque abbia un nemico, anche se si ha perfettamente chiaro di essere dalla parte della ragione, anche se si è sicuri della cattiveria, della crudeltà e dell’errore di quel nemico. Pensare (o scrivere) il nemico non significa in alcun modo giustificarlo. Non posso nemmeno immaginare, per esempio, di scrivere sul personaggio di un nazista e trovarmi a giustificarlo, benché abbia sentito l’impulso – persino il dovere – di mettere in Vedi alla voce: amore un ufficiale nazista, per poter capire come un uomo comune e normale abbia potuto trasformarsi in un nazista, giustificare a se stesso quel che fa e quel che passa, facendo ciò che fa. A questo proposito sono belle le parole di Sartre, contenute nel suo esemplare saggio Perché si scrive?: «Nessuno avanzerebbe mai l’ipotesi che si possa scrivere un buon romanzo facendo l’elogio dell’antisemitismo. Perché non si può esigere da me, nel momento in cui provo che la mia libertà è indissolubilmente legata a quella di tutti gli altri uomini, che usi questa libertà

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per approvare l’asservimento di alcuni di questi uomini. Così lo scrittore, sia saggista, libellista, satirico o romanziere, sia che parli soltanto delle passioni individuali oppure prenda di mira il regime sociale, in quanto uomo libero che si rivolge a uomini liberi, ha un solo tema: la libertà». Sartre è un po’ ingenuo quando scrive che «nessuno potrebbe mai pensare, foss’anche per un solo istante, che sia ammissibile scrivere in favore dell’antisemitismo»: libri in proposito ne sono stati scritti eccome, e tutto fa pensare che se ne scriveranno ancora. Ma egli ha perfettamente ragione quando parla dell’unico argomento che sta alla base dello scrivere, che è l’anima stessa dell’opera letteraria: la libertà. La libertà di pensare diversamente, di guardare in modo nuovo a situazioni e persone anche se sono i nostri nemici. Pensare il nemico, dunque. Pensarlo con rispetto e profonda attenzione. Non solo odiarlo o temerlo. Pensarlo come una persona, una società o un popolo, distinti da noi e dalle nostre paure, dalle nostre speranze, dalle nostre fedi e prospettive, dai nostri interessi e dalle nostre ferite. Permettere al nemico di essere «prossimo» – foss’anche per un solo momento – con tutto ciò che questo comporta. Potrebbe risultare utile anche dal punto di vista della condotta bellica, dell’acquisizione di informazioni essenziali, questo principio del «conoscere il nemico dall’interno», ma può servirci anche per cambiare la realtà, cosicché questo nemico cessi gradualmente di essere tale per noi. Voglio chiarire che non sto affatto invitando ad «amare il nemico». A tale proposito non posso dire di essere stato dotato di una così nobile longanimità (che considero sempre un po’ sospetta, peraltro, quando mi capita di incontrarla negli altri). Per parte mia, intendo unicamente lo sforzo di tentare di capire il nemico, i suoi impulsi, la sua logica interiore, la sua visione del mondo, la storia che narra a se stesso. Ovviamente non è una cosa facile né semplice quella di leggere la realtà attraverso gli occhi del nemico. È spaventosamente difficile rinunciare ai nostri sofisticati meccanismi di difesa, esporci ai sentimenti vissuti dal nemico nel conflitto con noi, nella lotta contro di noi, a ciò che prova nei nostri confronti. È un’ardua sfida alla nostra fiducia in noi stessi nelle nostre ragioni. Contiene il rischio di sconvolgere la «versione ufficiale», che è per lo più anche l’unica lecita, «legittima», che un popolo disorientato, un popolo in guerra, racconta costantemente a se stesso. Anche se forse si potrebbe capovolgere quest’ultima affermazione e dire che non di rado un popolo si trova in uno stato di conflittualità permanente proprio perché è invischiato in una determinata «versione ufficiale»...C’è un altro evidente aspetto positivo in questo sforzo di guardare la realtà attraverso gli occhi del nemico. Perché il nemico vede in noi, il popolo che gli sta di fronte, le cose che ogni popolo attribuisce sempre al nemico: la crudeltà, la violenza, la brutalità, il sadismo, la presunzione, l’autocommiserazione, l’ambiguità morale. Non di rado non ci accorgiamo di quel che «trasmettiamo» al nemico, e di conseguenza anche agli altri che non sono nemici e, alla fin fine, a noi stessi. Non di rado diciamo a noi stessi che adottiamo metodi rigidi, che ci comportiamo in modo violento e brutale solo ed esclusivamente perché siamo impantanati in una guerra, e quando questa sarà finita smetteremo immediatamente di fare così e torneremo a essere quella società e quel popolo morali, nobili, che eravamo prima. Può anche darsi, però, che proprio il nemico, colui verso il quale attiviamo quei meccanismi di ostilità e violenza, colui che ne è divenuto la vittima, stia avvertendo molto prima di noi quanto questi meccanismi siano già diventati parte integrante del nostro presente di popolo e società. Quanto si siano ormai insinuati nelle nostre configurazioni interiori. E può anche darsi che proprio questo capovolgimento di prospettiva, il fatto ciò di vederci con gli occhi del popolo per il quale rappresentiamo i conquistatori, per esempio, possa risvegliare in noi le sirene d’allarme: dandoci modo di capire, e per tempo, il nostro inganno, il danno subito e la nostra cecità. Imparando così da cosa dobbiamo metterci in salvo, e quanto è vitale per noi stessi l’urgenza di cambiare radicalmente la situazione. Perché, quando riusciamo a leggere il testo della realtà con gli occhi del nemico, allora quella realtà in cui noi e il nostro nemico viviamo e agiamo diventa improvvisamente più complessa, più realistica; possiamo riprenderci parti che avevamo espunto dal nostro quadro del mondo. Da questo momento, la realtà non è più soltanto il riflesso delle nostre paure e delle nostre recondite aspirazioni, delle nostre chimere e della nostra ragione inappellabile: ora diventiamo capaci di vedere anche la storia dell’altro, attraverso i suoi occhi; sperimentiamo un contatto più sano e incisivo con i fatti. Aumentano così le nostre probabilità di evitare errori fatali, e diminuiscono quelle di incorrere in una visione egocentrica, chiusa e limitata. Così possiamo anche cogliere – in un modo che prima non potevamo permetterci – il fatto che quello stesso nemico mitico, minaccioso e demoniaco non è altro che un insieme di persone spaventate, tormentate e disperate quanto noi. Questa scoperta, secondo me, è l’inizio necessario di un lungo processo di risveglio e di conciliazione. […] Questo modo di rapportarsi a noi stessi, al nemico, al conflitto in sé, alla nostra vita dentro il conflitto, questo modo di rapportarsi che può essere definito in termini generali come «confronto letterario», rappresenta secondo me, più di ogni altra cosa, un atto di rinnovata autodefinizione in quanto persone, nel contesto di una situazione la cui sostanza e i cui metodi sono nel complesso disumanizzanti. Questo tipo di atteggiamento potrebbe anche restituirci quel qualcosa della nostra umanità che ci è stato sottratto con un processo rapido e cruento, di cui non sempre avvertiamo la gravità. Attenersi con determinazione a una prospettiva come questa potrà anche, con lenta gradualità, condurci sulla via di un vero dialogo con i nostri nemici; un dialogo che porti, ce lo auguriamo, a una vera intesa. Alla pace.

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David Grossman, A un cerbiatto somiglia il mio

amore

Il romanzo è ambientato in Israele. Tra giovani di 16 anni, Orah, Avram e Ilan si incontrano e fanno amicizia, nel reparto di isolamento dell’ospedale, durante la guerra dei sei giorni. Tra Orah e Avram nasce una profonda amicizia. Avram e Ilan faranno insieme il servizio militare, e al suo ritorno Ilan sposerà Orah. Mentre Ilan era tornato a casa e aveva sposato Orah, Avram sarà fatto prigioniero dagli arabi e torturato. Ilan e Orah hanno avuto un figlio, Adam. Orah, in un periodo di assenza di Ilan,

ha avuto un figlio con Avram, Ofer, che Ilan al suo ritorno crescerà come suo figlio. Ofer, ormai grande, torna al fronte per partecipare ad una campagna militare in Cisgiordania. Sua madre, angosciata all’idea che possano inviare qualcuno a comunicarle la notizia della morte del figlio in guerra, sente la necessità di lasciare la sua casa per andare a fare, con Avram che ha trascinato con sé un lungo peregrinare, in luoghi desertici, lontano da telefoni, televisori e giornali Avram non è più il ragazzo che lei aveva conosciuto, è un uomo distrutto nel corpo e nell’anima. Ha subito, quando è stato fatto prigioniero dai nemici, torture che lo hanno ferito profondamente. Orah e Avram camminano insieme per centinaia di chilometri e camminando, lei gli racconta di suo figlio, di quel figlio di cui non ha mai voluto sapere nulla. Emergeranno verità, a lungo taciute. Orah cerca con tutte le forze di conservare vivo dentro di lei il ricordo di suo figlio Ofer, sperando così di proteggerlo e di conservarlo vivo nella realtà. Al contempo, si batte per riportare Avram, che è ormai come un morto, alla vita. Avram è chiuso nel suo dolore, ma a poco a poco, la narrazione dell’infanzia e della giovinezza di suo figlio lo riportano alla vita. Anche la vitalità disperata di Orah finisce con il contagiarlo. Il racconto di Orah farà comprendere a Avram che la vita vale la pena di essere vissuta e che egli ha un figlio che è in pericolo e che sarebbe importante conoscere. È come se per tenerlo in vita e proteggerlo, Orah lo facesse rinascere nel cuore di Avram e così facendo riportasse quest’ultimo alla vita.

Leggendo il romanzo si avverte subito che esso nasce da un’esperienza dello scrittore. David Grossman ricorda di aver iniziato a scriverlo nel 2003, poco prima che il suo figlio maggiore Yonatan tornasse dal servizio di leva e che il minore, Uri, partisse a sua volta per il fronte. L’autore ci confessa che scrivere questo libro gli pareva un modo per proteggere suo figlio Uri, in guerra(come Orah, parlando di Ofer sperava di proteggerlo). Nel 2006, Uri resta ucciso nelle ultime ore della seconda guerra del Libano. Grossman rileggendo e terminando il suo romanzo vi imprimerà la drammaticità della sua esperienza vissuta.

Così scrive l’autore: “Ho cominciato a scrivere questo libro nel maggio 2003, sei mesi prima che mio figlio maggiore, Yonathan, terminasse il suo periodo di leva e suo fratello minore, Uri, si arruolasse. Entrambi hanno prestato servizio nel corpo dei carristi. Uri conosceva bene la trama del libro e i suoi personaggi. Ogni volta che parlavamo al telefono, e soprattutto quando tornava in licenza, mi domandava cosa c'era di nuovo nella storia e nella vita dei personaggi(“cosa gli hai fatto fare questa settimana?” era la sua domanda consueta). Uri ha svolto gran parte del servizio militare nei territori occupati, in pattugliamenti, turni di vedetta, appostamenti e periodi di guardia ai check point. Di tanto in tanto mi parlava delle sue esperienze laggiù. A quel tempo io avevo la sensazione - o meglio, covavo il desiderio - che il libro che stavo scrivendo lo proteggesse. Il 12 agosto 2006, nelle ultime ore della seconda guerra del Libano, Uri è stato ucciso nel Sud di quel paese. Il suo carro armato è stato colpito da un razzo mentre tentava di trarre in salvo un altro tank. Insieme a Uri sono morti i suoi compagni: Benaya Rein, Adam Goren e Alexander Bonimovitch. Al termine della settimana di lutto ho ripreso in mano il libro. La maggior parte era già stata scritta. Ciò che era cambiato, perlopiù, era la cassa di risonanza della realtà in cui è avvenuta la sua stesura definitiva”. David Grossman

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Brano tratto dal romanzo: A un cerbiatto somiglia il mio amore:

“Uccidono tutti i nostri. Tra un po’ non rimarrà nessuno! […] Qualche giorno dopo le aveva chiesto di mostrargli le nazioni “contro di noi”. Orah aveva riaperto l’atlante e le aveva indicate, a una a una. Un momento, aveva domandato lui, e noi dove siamo? Nei suoi occhi si era accesa una scintilla di speranza: forse non siamo in questa pagina. Orah aveva indicato con il mignolo Israele. Dalla bocca di Ofer era sgorgato un mugolio strano, si era appiccicato a lei con tutte le forze fino ad aggrapparsi con braccia e gambe, come se volesse essere riassorbito nel suo corpo. […] Ofer aveva poi preteso di conoscere le cifre. Quando aveva appreso che in Israele c’erano quattro milioni e mezzo di abitanti, era rimasto molto colpito. Si era persino tranquillizzato. Quel numero gli era sembrato enorme. Ma dopo un paio di giorni era spuntato in lui un altro pensiero […] aveva preteso di sapere “quanti sono contro di noi” e non si era dato per vinto finché Ilan non aveva reperito per lui l’esatto numero di abitanti di ogni paese musulmano al mondo. […] Orah era entrata e lo aveva trovato raggomitolato sul suo letto, con le braccia sopra gli occhi, che piangeva sommessamente. […] Ci uccideranno, aveva detto Ofer sgranando gli occhi quando lei lo aveva preso in braccio. La sua bocca era aperta, tremava: mamma, guarda quanti sono. Ci uccideranno! […]

Una notte era sicuro che ci fosse un arabo. Dentro di lui? Inorridì Avram lanciando occhiate di lato, e Orah ebbe l’impressione che le avesse mentito a proposito di qualcosa.

In camera con lui, precisò lei sottovoce […] Il brivido che sentì sulla pelle le suggerì che doveva mostrarsi cauta, anche se non sapeva rispetto a cosa. Avram era come pietrificato. Nelle sue iridi si condensò uno sguardo da animale braccato. Stai bene? I suoi occhi sembravano scrutare dentro di lui e lasciavano trapelare vergogna terrore e un senso di colpa. ” [p.521-524].

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Tahar Ben Jelloun, Les Amandiers sont morts de leurs

blessures, 1976 Cet ouvrage de Tahar Ben Jelloun, écrivain marocain de notoriété internationale, romancier, essayiste, et surtout poète, regroupe trois recueils de poèmes différents, Le discours du chameau, Cicatrices du soleil et le titre éponyme - chronologiquement le dernier, même si l'ordre en est inversé. Bien qu'écrits dans la première moitié des années 1970, ces textes en vers libres et en prose, dont l'un est consacré à Mahmoud Darwish, disparu en août 2008, s'avèrent toujours d'une actualité poignante. Le livre s'ouvre sur la lettre reçue par un exilé qui pourrait être l'auteur. Une lettre de son pays natal lui annonçant la mort de sa grand-mère, vieille femme dont «chaque ride était une tendresse» et qui, ne sachant écrire «avait dessiné» sur son linceul «des roses et des étoiles». Une lettre, touchante de simplicité, emplie d'une profonde sérénité, témoignant d'une époque où l'on pouvait vieillir paisiblement, entouré des siens au pays de ses racines, et se préparer à une mort «heureuse», venue «de l'azur et non des cendres.» Et ce premier texte, intitulé Mourir comme elle contraste fortement avec la nostalgie souvent douloureuse et la révolte parfois violente qui imprègnent bon nombre des poèmes qui

suivent. Bien qu'on lui dise «que la poésie ne peut rien», Tahar Ben Jelloun «refuse la langue pendue au fond de la gorge» et prête voix à ceux qui sont privés d'identité et de mémoire : Palestiniens arrachés à leurs racines, «blessés dans leur terre, humiliés dans leurs arbres», émigrés «habillés de gris», «corps invisibles» venus «laver les trottoirs de notre indifférence», femmes abandonnées à leur solitude, dépossédées de leur féminité, «perdues dans l'image que l'homme a bien voulu fabriquer pour elles», enfants miséreux, «rasant le sol et qui ne peuvent jouer aux enfants, ramassant des mégots, s'accrochant au pan d'une veste étrangère»... Il n'écrit pas «pour eux, mais en et avec eux» et donne aussi parole à «la terre meurtrie» : Arabie «fascinée par l'éphémère occidental» dont le désert «n'est plus digne de la légende», villes maquillées «qui ont donné leur âme aux touristes» venus leur arracher un peu de leur soleil, villes «répudiées» aux «murailles exportées sur dos d'homme, au pays qui n'a pas faim». La poésie de Tahar Ben Jelloun est profondément sensuelle. Au-delà de la musique des mots et des parfums de mer, de sable et de jasmin qui remontent de l'enfance, sa langue nous éblouit de la clarté du soleil et de la blancheur des «murs habillés de chaux» qui «retiennent dans leur luminosité un peu de bleu du ciel». Elle est avant tout charnelle, donnant vie à la nature toute entière, des pierres et sables du désert, aux arbres, au ciel et aux nuages poussés par la brise. Elle dit la douleur de la chair meurtrie des chameaux millénaires, la révolte de ceux «qui ne parlent pas» parce qu'ils «savent trop de choses». Elle charge de sens chaque partie du corps humain, privilégiant les mains, porteuses de toute l'ambivalence de l'homme : mains aux rides profondes, empreintes des gestes ancestraux, caresses ouvertes sur le rêve, ou mains de «métal» s'abattant impitoyablement sur les nuques. Contrairement à ce que pourrait laisser penser le titre de ce recueil, la mémoire, malgré ses blessures, n'est pas morte pour Tahar Ben Jelloun, : «un petit vent a emporté les racines de l'arbre. Le ciel s'est baissé pour les ramasser. Je crois même qu'elles habitent un petit nuage têtu.» Et le chameau a rompu le silence ... Les amandiers sont morts de leurs blessures, Tahar Ben Jelloun, éditions Maspero 1976, éditions du Seuil, collection Points , 1985(épuisé) et 1998, 270 p. I mandorli sono morti per le loro ferite

Trouée de Rafah, villaggio a nord-est del Sinai, è stato appena distrutto dagli israeliani, dopo che ne erano stati cacciati gli abitanti arabi. Uno di questi uomini scrive a suo figlio. Figlio mio, il giorno si è fermato nelle mie rughe, dopo che la loro macchina grigia e sanguinante è passata sopra la nostra casa. È formidabile questa immensa macchina che apre la sua gola per afferrare le poche cose che ci rimanevano: un pezzetto di terra, un tetto e tre mandorli. È una macchina che fa rumore, brilla al sole e scoppia in una risata spezzata ogni volta che trionfa sui piccoli fiori selvatici e fragili che tentano di rialzarsi. Ho visto i suoi denti ingialliti dal sangue della terra spezzarsi su un mucchio di sabbia. Un vento leggero si è portato via le radici dell’albero. Il cielo si è abbassato e le ha raccolte: credo proprio che ora abitino una piccola nuvola a forma di tetto che non ci abbandona più da quando siamo senza tetto, senza patria. Il tuo fratellino correva per salvare dalla polvere sporca i tuoi libri di scuola. Abbiamo avuto paura. La macchina lo ha mancato di poco. Feriti nella nostra terra, umiliati nei nostri alberi, eravamo là tutti e tre, gelati e abitati da una morte improvvisa. Una parte di noi, la più grande, credo, era distrutta; ce l’hanno strappata, con grande semplicità, all’alba. Siamo rimasti tranquilli; hanno aperto le nostre ferite, e noi abbiamo bevuto la nostra morte. Ha il sapore della linfa; tua madre dice che profuma di gelsomino. Il cielo si è aperto al grido dell’uccello rimasto orfano, e abbiamo potuto scorgere qualcosa fatto di luce, coperto di sangue recente. Il sole vacillava quel giorno, perché l’ingiustizia scavava freddamente il suo solco nella nostra terra, nel nostro corpo. La nostra memoria trafitta di stelle non aveva più spazio di silenzio e rifugio: diventava gravida di nuove ferite. Nel 1948, tu non eri ancora nato. Allora la guerra aveva attraversato il nostro campo. L’ulivo fu calcinato. Il nostro destino era

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offuscato dalla miseria, ma aveva la rabbia della speranza. Alcuni sono partiti con una tenda per bagaglio, altri sono morti. Oggi, figlio mio, non sappiamo dove sei. Ovunque tu sia, sappi che non siamo tristi. Ci dicono che le nostre case sono inutili e i nostri mandorli ridicoli. Ci dicono che su questa terra crescerà una città, una città moderna. Avrà delle belle strade, degli autobus e dei carri. Arriverà fino al Mediterraneo e si chiamerà Yamit. Le loro macchine perfette avanzano, avanzano. I nostri vicini hanno ricevuto delle carte verdi. Sai, il piccolo villaggio di Abou-Chanar, anche questo sta per essere distrutto. La macchina grigia e sanguinante avanza, avanza. Ci dicono che bisogna lasciare il posto a uomini venuti da lontano, da molto lontano, ebrei venuti dalla Russia, figlio mio. Il nostro bagaglio è leggero: una sacca di farina e un po’ di olive. La folgore può discendere. Butterà all’aria la sabbia mescolata a pietre sbriciolate e ad arbusti abbattuti. Precipiterà nel vuoto, strangolata dai serpenti dell’odio. Ti rendi conto, figlio mio, chiedono ai figli di questa terra di venire a lavorarla per conto dei ‘nuovi proprietari’! È la sola volta in cui ho pianto. Lo so, non ti piacciono le lacrime; scusami. Mala vergogna si è accumulata nel mio corpo come le pietre, come i giorni, come le preghiere. La nostra terra percossa dal ferro che schiaccia le piccole lucertole, la vedo sulla tua fronte come una stella, un sogno urgente che ci riporta insieme. Tutto cambia nome. La mano metallica cancella le parole sui nostri corpi. Radici di alberi sono i testimoni. Non abbiamo bisogno di lapidi. La nostra memoria è un po’ di sabbia appesa nella luce. È alta tra le tue dita. Ti abbracciamo, ovunque tu sia. Tahar Ben Jelloun Tahar ben Jelloun, Le Racisme expliqué à ma fille, 1997

Edizione italiana, Il razzismo spiegato a mia figlia: I nuovi razzismi in Italia.

“Siamo sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo.” [Il razzismo] “Consiste nel manifestare diffidenza e poi disprezzo per le persone che hanno caratteristiche fisiche e culturali diverse dalle nostre.” “Il razzismo è ciò che trasforma le differenze in disuguaglianze.” “Il razzista è colui che pensa che tutto ciò che è troppo differente da lui lo minacci nella sua tranquillità.”

“La persona razzista non prova il bisogno di giustificare le sue opinioni e i suoi giudizi. Ha delle certezze, si costruisce delle evidenze indiscutibili, delle verità non contestabili.”

“Con la cultura si impara a vivere insieme; si impara soprattutto che non siamo soli al mondo, che esistono altri popoli e altre tradizioni, altri modi di vivere che sono altrettanto validi dei nostri.” “L'integrazione è un’operazione che si fa in due. Non ci si integra da soli. Integrarsi non significa rinunciare alle componenti della propria identità di origine ma adattarle a una nuova vita in cui si dà e si riceve.” “Non si nasce razzista, si diventa. C’è una buona e una cattiva educazione. Tutto dipende da chi educa, sia nella scuola come a casa” “La lotta contro il razzismo comincia con un lavoro sul linguaggio.” La parola straniero ha la stessa radice di estraneo e di strano, che indica ciò che è “di fuori”, “esterno”, “diverso”. "Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità."

Abbiamo tenuto presente anche la sua spiegazione ai giovani dei principi dell’Islam.

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9) Il Teatro di Beresheet LaShalom Foundation

Il Teatro di Beresheet LaShalom Foundation [http://www.beresheetlashalom.org/]

The Beresheet LaShalom Foundation is dedicated to the creation and perseverance of dialogue between children across diverse groups. The object of this dialogue is to educate and imbibe a positive spirit in confronting the difficult problems they face. The youth from these seemingly opposed cultures can unite around the positive interactions of theatre and can put the horrors they have faced into a perspective that does not foster that same hatred. The foundation seeks to create a generation which will approach other cultures with greater compassion and more understanding. Follow Beresheet LaShalom for the latest news and events here:beresheetlashalom.wordpress.com 2012 חושים שיכרון של שבועות שלושה Beresheet LaShalom Foundation's, You Tube Channel BeresheetLaShalom The theatre that educates to peace “Beresheet” is the first word of the Hebrew Bible, and means “In the beginning. . .”

Beresheet La'Shalom is the name of our foundation, and signifies “A Beginning for Peace”.

* Associazione Amici di Beresheet La Shalom, a sostegno delle attività di educazione al dialogo della Fondazione Beresheet LaShalom A sostegno delle attività di educazione al dialogo che la Fondazione Beresheet LaShalom con sede in Israele svolge nel mondo, è nata a Torino nel maggio 2011 l’Associazione Amici di Beresheet LaShalom. La Fondazione israeliana nasce per volontà di Angelica Edna Calò Livnè e del marito Yehuda nel Kibbuz Sasa, in Alta Galilea. L’obiettivo è ambizioso: educare i giovani alla pace attraverso le arti. Sappiamo che non solo il Medio Oriente ha bisogno di pace. Ecco perché Calò Livné, candidata nel 2006 al Nobel per la Pace afferma: “in ogni parte del mondo c’è bisogno di incoraggiare, di consolidare i propri ideali, di combattere il cinismo, di dare legittimità a chi vuole sentirsi positivo, amato, a chi desidera sentirsi libero di danzare, di abbracciare, di sentirsi grande anche se è la più piccola e minuscola parte di un complesso motore. Perché c’è bisogno di tutti. E tutti devono imparare a riconoscere l’altro. Dargli spazio. Dargli pace.” In questo modo Angelica lavora quotidianamente con ragazzi nati e cresciuti in ambienti diversi. Lo fa in Italia, nelle periferie di Roma, Milano, Napoli e lo fa in Israele, Palestina, Giordania, insieme a giovani maltesi e marocchini, polacchi ed estoni. Il suo metodo educativo, che scaturisce da anni di dedizione ed esperienza nel creare la gioia nell’imparare esplorando, non conosce barriere linguistiche, culturali, sociali, religiose. La sua passione e determinazione sono contagiose. La scelta di Torino come sede della prima Associazione Amici di Beresheet LaShalom, può stupire, ma è un segno del destino. Nel 2001 Angelica viene invitata insieme ai ragazzi della Compagnia Arcobaleno a rappresentare Beresheet (che in ebraico significa “In principio”) al teatro salesiano Valdocco. Il successo dello spettacolo la porta all’Unesco che la invita a un congresso sulle donne che operano per la pace, poi altri convegni e dibattiti, quindi a condividere il pane della pace con le vedove palestinesi alla Fiera del Libro 2008, l’anno di Israele. La nascita dell’Associazione torinese è stata resa possibile grazie al sostegno appassionato e volontario di tante persone che in “Amici di Beresheet” hanno trovato una casa comune. Al fianco del presidente Dario Disegni ci sono professionisti come Anna De Bernardin impegnata sul fronte educativo e con un passato da insegnate e alcuni anni trascorsi accanto al marito Sandro De Bernardin ex ambasciatore italiano in Israele e alla sua famiglia in Israele, la giornalista Carlotta Morgana, la commercialista Elena Gilardini e Mario Montalcini, il revisore dei conti. L’Associazione Amici di Beresheet LaShalom è diretta da Maria Grazia Balbiano, organizzatrice culturale ed esperta in comunicazione. Le attività di tutti i soci fondatori sono rese a titolo gratuito. Associazione Amici di Beresheet La Shalom A sostegno delle attività di educazione al dialogo della Fondazione Beresheet LaShalom

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Angelica Edna Calò Livnè (Roma 27 agosto 1955) è insegnante, educatrice, formatrice, regista, scrittrice, fondatrice e direttrice artistica della Fondazione Beresheet LaShalom – Un inizio per la pace – con sede in Alta Galilea in Israele. La svolta della sua vita arriva nel 2001 quando il primo dei suoi quattro figli, viene chiamato per il servizio militare in Israele, nel Paese dove ha scelto di venire a vivere a vent’anni, il suo istinto di madre, la sua vocazione di educatrice, uniti alla preoccupazione si fanno più forti e le fanno decidere di fare qualcosa di concreto per la pace in Medio Oriente. Sviluppa dunque un metodo di educazione per i giovani attraverso le arti nel quale convoglia gli skills di insegnante, attrice, coreografa e regista: nasce prima la Compagnia dell’Arcobaleno con lo

spettacolo di teatro-danza Beresheet, poi la Fondazione: Beresheet La Shalom-Un inizio per la Pace. Da allora viene invitata a rappresentare i suoi spettacoli con ragazzi musulmani, ebrei, cattolici, drusi e cirkassi della Galilea, veri protagonisti e destinatari del suo operato, i quali, essi stessi, si assumono il ruolo di giovani ambasciatori nel mondo di una coesistenza possibile. Angelica Edna Calò Livnè con la sua Fondazione, ha preso parte a workshop in tutto il mondo e ha lavorato con giovani provenienti dall’Egitto, dalla Palestina, Marocco, Giordania, Malta, Italia, Brasile, Polonia, Estonia, Penisola Scandinava e con tante donne straniere, madri ed educatrici, prime mediatrici di un sentire di pace. Il suo impegno per il dialogo tra diversi le è valso molti riconoscimenti e nel 2005 una candidatura al Nobel per la Pace. Contributo al dialogo e alla pedagogia di frontiera.Educare per Angelica E. Calò Livnè significa risvegliare le sensibilità di ognuno, diverse ed uguali nel percepire le emozioni positive e il dolore, a sapersi difendere dal cinismo e dal pregiudizio, creare un canale proficuo di scambio; in questo l’arte, e in particolare il teatro, la danza e la musica, in quanto linguaggi universali, costituiscono uno strumento unico contro le barriere. Dare spazio alle incertezze, ai timori acuiti dall’adolescenza, significa comprendere e dare l’opportunità di trasformare il dubbio in purezza del vedere e il timore in energia positiva. L’espressività della danza, la chiarezza necessaria alla rappresentazione teatrale, la definizione coreografica di un’azione simbolica, mettono in luce gli aspetti più sottili delle identità e spingono a togliere le maschere. La Calò Livnè ha lavorato a destrutturare i canoni classici dell’uso della maschera teatrale per renderli altro, “masks-off” è ormai una formula educativa, una strategia per il dialogo, un’icona riconosciuta del teatro per la pace. Del metodo Calò Livnè si è detto e scritto molto sia a livello divulgativo che accademico: resta, al di là di tutto, un programma educativo di straordinaria efficacia. L’impegno a divulgare il suo metodo e a declinarlo in varie attività con altri educatori, nella gestione di conflitti in ambito aziendale, politico e nel dibattito della società civile nel mondo, portano la Calò Livnè a viaggiare molto spesso per partecipare a dibattiti, forum e conferenze. Per la sua posizione singolare e coraggiosa verso gli eventi in Medio Oriente è stata scelta nel 2006 dal quotidiano italiano La Repubblica per raccontare la guerra in corso in un diario giornaliero parallelo a quello di Lina Khoury dal Libano, la raccolta dei pezzi diventa un libro nel 2008 edito da Proedi e presentato alla 21° Fiera Internazionale del libro di Torino com il titolo “Diario dalla Galilea – Solo in pace vincono tutti”. Libri Un si, un inizio, una speranza edito da Itacalibri, in lingua italiana nel 2002 Giù le maschere – Il bene è in ognuno di noi edito da Proedi nel 2005 Diario dalla Galilea – Solo in pace vincono tutti – Proedi 2008 Una voce mi ha chiamato e sono andata … Beresheet LaShalom i primi dieci anni – Poedi Editore,2011 Premi 2003 Premio internazionale “Donne che educano alla pace” ad Alghero in Sardegna. 2004 “Premio per la Pace al femminile” nel Sacro Convento di Assisi con l’amica palestinese Samar Sahhar. 2005 Candidata al Premio Saharov con l’amica palestinese Samar Sahhar. 2006 Candidata al premio Nobel per la Pace (insieme ad altre 1000 donne da tutto il mondo). 2006 Premio Internazionale Cartagine per i diritti umani a Trani insieme al marito Yehuda che collabora con lei in tutte le attivita’ educative. 2007 Premio Internazionale a Cava de Tirreni Mamma Lucia alle Donne Coraggio con l’amica palestinese Maysa Baransi Seniora. 2008 Premio Takunda per il miglior progetto di solidarietà assegnato a Bergamo insieme all’amica cristiana palestinese Samar Sahhar. 2008 Menzione speciale nel corso Premio Grinzane Carical Per la Cultura del Mediterraneo a Cosenza. 2010 Kiwanis Award per l’attività svolta nel campo educativo 2012 Premio internazionale Rosone del Tempio, indetto dalla Fondazione Stock Weinberg di Trieste per la coesistenza tra i popoli. 2012 Menzione speciale al PREMIO LOMBARDIA PER LA PACE Onorificenze 2007 Onorificenza dell’Ordine della Stella della Solidarieta’ Italiana con il titolo di Cavaliere conferito a lei e a Yehuda, dall’Ambasciatore d’Italia in Israele Sandro De Bernardin per l’attività educativa e il legame creati tra Italia e Israele. * The theatre that educates to peace How it began...Galilee is a natural theatre of stories, legends, dramas and meeting place of different cultures, traditions and religions. We sensed that - out of this wonderful harmony - relationships could be created, through encountering those who may be different, yet are so close to one other. This inspired the creation of the *Amuta Beresheet and the Rainbow Theatre - intended as a platform to unite youngsters from all ethic and religious backgrounds in Israel - in order to preserve this very sensitive balance and safeguard a dialogue which has been subject to great fragility and despair. Through the universal language of the arts, a potential for conversation, questioning and discussion, for engaging and acceptance is discovered, giving young people an opportunity to "drop the masks" and express their feelings. Enriching themselves via the revelation of the inner splendour of each individual, they harmonize their multiplicity to radiate like the colours of a rainbow.There was much excitement and a deep emotional desire to support this joint constructive effort in the hope that, as a result, life would take on a new meaning for the sake of all our children's future.Under the tutelage of Edna Angelica Calò Livné, the Beresheet LaShalom Rainbow Theatre Group came to life in 2002 at Kerem Ben Zimra in the hills of the Galilee thanks to the girls and boys, of all ethnic backgrounds and religious denominations from the many communities in the

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Galilee, who decided to reach out and "dare get to know one another". That which you will see today is no ordinary performance. It is an ever evolving, on-going work of collaboration, discussion and questioning that continues to this day. . . * In 2004 the Beresheet LaShalom Foundation was officially instituted to teach tolerance and mutual respect through the Universal Language of the Arts, as an educational instrument to dialogue - embracing, theatre, music, workshops and personal encounters - teaching & facilitating compassionate listening, critical thinking, and personal goal setting to children and young adults of all denominations aimed at opening creative opportunities for their future. The foundation seeks to create a generation which will approach other cultures with greater empathy and awareness. Objectives Communication Arts as an Educational Model IN TUNE WITH ECO-AWARENESS International Co-existence Networking Initiative by Strengthening Collaboration Across Fields The development of a leadership that will advance peace by means of the arts and education for humane values, involvement in society, support for participatory negotiations and conciliation. The intensification of joint activities by residents of Galilee from different cultures, religions and customs; the development of educational initiatives that will help people from different backgrounds get to know each other. The enhancement of every individual's identity through a more intensive study of the roots and history of each people, in order to make cultural differences a source of enrichment for personality of each individual. Help and support for the victims of terror in this country and elsewhere; the creation of contacts between victims of terror all over the world. The establishment of an Educational Centre for meetings and study in the spheres of human dignity, tolerance, a common multi-cultural existence and, for dialog between people of different backgrounds; to facilitate hospitality of heterogeneous groups and the organization of seminars and Israel studies. The development of contacts between Israel and the rest of the world, through hospitality for heterogeneous groups, the organization of seminars and Israel studies. Accomplishments How a tiny multicultural community theatre blossomed into a pedagogical process. . . The Beresheet LaShalom Rainbow Theatre project activities have been astonishingly beyond our expectations! We are all deeply moved. Our most cherished accomplishment is that the project has won, not only awards and recognition, but has captured the hearts of all the audiences who have "experienced" our performances and felt the vibrancy of our message. Since their official "public" debut in 2002, the youngsters of the our community theatre group have toured both nationally & abroad, performing in theatres before audiences of over 1.000 spectators and out-door audiences of over 100.000 participants, and have delivered and impacted their message to an estimated 30.500.000 addressees in 8 years. The Beresheet LaShalom Foundation Masks Off Project has distinctive productions to it's name. The unique theatre pieces, "Beresheet - In the Beginning", "Anne in the Sky", "The Adventures of Pinocchio in Arabic and Hebrew", two exquisite soundtracks, three books, a radio program and a soccer team - and now a youth leadership hub of volunteers - are just some of fruits of this wonderful experiment!The project's peace radio program, Shalom Lecha Salaam on-air since 2006 is reaching young listeners country-wide thanks to Radio Galil Elyon that broadcasts simultaneously from Galilee, Jerusalem and Ramallah. All their programs are presented in Arabic, Hebrew and English, covering weekly topics accompanied by significant music and songs.The United Colours of Galilee soccer team of local multicultural youngsters continues regular training and participates in the annual summer Mediterranean Soccer Tournament in Italy. The Beresheet LaShalom Multi-Cultural Youth Leadership Hub at Mount Meron was inaugurated in August 2008. A Unique "Shnat Sherut" Gap Year Possibility for Arab and Jewish high-school graduates to spend a year living together as volunteers teaching peace in the various communities of the Galilee with Beresheet LaShalom. The "program value" of our theatre project, for the players and the addressees, can be summed up as follows : For Students & Teachers | curriculum based fulfilling standards in: History Social Studies Literature & Language Arts Multi-Cultural Studies Performing Arts Framework Ecological Consciousness & Preservation Peace Education For Students Education to Dialogue Self-expression Boots self-esteem & confidence Teaches teamwork & coaching Cultural Exchange & Out Reach Public Communication Skills Trust For Audiences Exposure to quality theatre Stimulates awareness Enhances interest in further study Fun and memorable way to learn Participation ! http://www.masksoff.org/EN/the_theatre.htm

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10) La testimonianza dell’arte

Il muro e l'arte impegnata Nel 2004, la cineasta marocchina Simone Bitton ha realizzato un film-documentario sulla barriera intitolato "Mur"[34]. Il documentario del 2004 Good Times racconta il rapporto della popolazione con il muro ad Abu Dis, periferia est di Gerusalemme[35]. Nel 2006 è stato realizzato il documentario The Iron Wall (Il muro di ferro). Nel giugno 2006, il musicista Roger Waters, in occasione di una sua visita in Israele, dove ha tenuto un concerto a Nevè-

Shalom, ha scritto "Tear down the wall" sul muro, una frase contenuta nel doppio CD The Wall dei Pink Floyd, band di cui Waters fece parte fino al 1983[36] Il graffitaro iconoclasta Banksy, a partire dal settembre 2006, ha eseguito sul muro molti disegni e stencil a sfondo provocatorio e di protesta. Inoltre, durante le festività del Natale 2007, una galleria d'arte di Betlemme - città fortemente interessata dalla costruzione del muro - ha esposto le sue opere[37]. Nel 2009 il documentario "Israel only wants Peace" tentava di far comprendere anche ai più accesi antisemiti e anti-israeliani che la barriera difensiva ha soltanto scopo difensivo, in chiave anti-terroristica e mostrava come il governo abbia tentato di tutto pur di limitare qualsiasi disagio involontariamente provocato ai Palestinesi. L'iniziativa «Scrivi sul muro» Grazie ad una ONG dei Paesi Bassi di ispirazione cristiana (ICCO), il 9 dicembre 2007 è nata l'iniziativa "Send a message", tramite la quale, attraverso internet, si poteva inviare un proprio messaggio che alcuni incaricati palestinesi avrebbero scritto, con la vernice spray, sul muro, scattando delle foto che venivano poi inviate - come testimonianza - al richiedente. L'iniziativa, nata in sordina, ha attratto subito l'attenzione dei media[38][39], conquistando rapidamente l'interesse generale. Sul website ufficiale era possibile inviare il testo che si voleva trascrivere sul muro. Questa operazione, che aveva il benestare sia dell'ANP che del Governo israeliano, mirava a raccogliere fondi per finanziare attività sociali in Cisgiordania. Banksy, i 10 murales più provocatori del celebre street artist. Le bombolette come strumento di protesta Andrea de Cesco, L’Huffington Post Risale a venerdì 11 dicembre la comparsa di un nuovo murales di Banksy, il celebre street artist la cui identità è avvolta dall’anonimato. Si tratta di un ritratto dell’ex Ceo della Apple Steve Jobs su un muro della Giungla di Calais, l’enorme baraccopoli dove vivono i migranti che dalla Francia provano a raggiungere il Regno Unito. Jobs è disegnato con in mano una sacca e un vecchio computer Apple, in riferimento al fatto che il padre biologico dell’informatico era un rifugiato siriano che arrivò a New York negli anni Cinquanta. In questo modo l’artista ha voluto esprimere il proprio sostegno nei confronti dei migranti. "Siamo portati a pensare che l'immigrazione dreni le risorse di un Paese e invece Steve Jobs era il figlio di un migrante siriano”, ha spiegato l’artista in un comunicato stampa. “Apple è l’azienda con più profitti al mondo, paga circa sette miliardi di dollari all'anno di tasse ed esiste unicamente perché hanno accolto un giovane uomo da Homs". Del resto sono molte le opere di Banksy che mirano a provocare le autorità, a lanciare un segnale politico di protesta. I suoi lavori si inseriscono infatti all’interno della cosiddetta “guerrilla art”, un movimento di natura illegale che si oppone alle iniziative del governo. Banksy tramite la propria arte lotta contro quegli aspetti della realtà su cui spesso si tende a chiudere un occhio: dal riscaldamento globale alle barbare tecniche di macellazione, dalla sempre maggiore diffusione dell’Aids in Africa alle guerre che tormentano il nostro pianeta, dallo scandalo del Datagate alla prepotenza della polizia. Alcuni dei suoi lavori, considerati troppo offensivi, sono stati rimossi. Abbiamo scelto dieci opere, nello specifico dei murales, che incarnano alcune delle battaglie intraprese dall’artista. L’ordine dei graffiti è puramente cronologico, dai più ai meno recenti.

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1) “Cat” (“Gatto”) Gaza, Febbraio 2015Il gatto siberiano ritratto da Banksy a Gaza, territorio frequentato spesso dall'artista durante gli anni passati, fa parte di una serie di quattro opere che il graffitaro ha realizzato nel corso di un viaggio avvenuto nel febbraio 2015 e documentato da un video girato dal writer stesso. Il filmato mira a mostrare la situazione della striscia di Gaza dopo la guerra con Israele del luglio del 2014 in cui sono morti più di duemila civili e sono state distrutte circa 19mila case, per un totale di 100mila persone rimaste senza un posto dove vivere. “Un uomo mi ha chiesto cosa significasse la mia opera”, commenta l'artista sul suo sito riferendosi all'immagine del gattino, “e ho spiegato che volevo mostrare la distruzione di Gaza mettendo foto sul mio sito, ma che la gente su internet guarda solo foto di gattini”. 7) “Armored Dove” (La Colomba corazzata”) Betlemme, agosto 2005 Su un muro di separazione dei territori palestinesi da Israele, a Betlemme (West Bank, Cisgiordania), Banksy ha disegnato una versione provocatoria della colomba della pace, con indosso un giubbotto antiproiettile, nel becco un rametto d’ulivo e il mirino puntato sul cuore: il graffito non fu apprezzato da tutti i palestinesi. Il graffito fu realizzato nel 2005, anno in cui, dopo una lunga guerra, Israele si ritirò dalla Striscia di Gaza e consegnò l’intero territorio all’Autorità Nazionale Palestinese. (da Wikipedia)

Banksy: nuovi graffiti contro la guerra nella striscia di Gaza

articolo da Il foglio dell’arte di Gessica Ricci

Un invito ironico a scoprire una nuova destinazione, in cui "le opportunità di sviluppo sono ovunque": Gaza. Questo è l´incipit del mini documentario di quasi due minuti realizzato dal maggiore esponente della street art contemporanea, Banksy. Il video, intitolato sarcasticamente "Scopri una nuova destinazione quest´anno", quasi come se si trattasse di una meta paradisiaca ideale per una vacanza, è una chiara e aperta denuncia della situazione in cui si trova Gaza dopo la guerra contro Israele, avvenuta la scorsa estate. Il noto writer inglese, il cui vero nome non è noto, ha compiuto un´incursione artistica nella striscia di Gaza per documentare e mostrare al mondo la vita in quella che viene considerata "la più grande prigione del mondo all´aria aperta", in cui nessuno è

autorizzato a entrare o uscire: Banksy è entrato a Gaza attraverso tunnel sotterranei usati dai palestinesi per portare in questo territorio (sottoposto ad embargo da Israele nel 2007) beni di prima necessità e armi. Nel panorama della città che Banksy ci presenta attraverso le sue riprese spuntano tra macerie, rovine, brandelli di quelle che un tempo erano abitazioni, quattro significativi graffiti: anche in questa parte di mondo "dimenticata", in questa striscia di terra protagonista di uno scenario terribile, Banksy ha lasciato il segno. E lo ha fatto in maniera incisiva, forte, in silenzio. Come al solito, come nel suo stile, caratterizzato prevalentemente da lavori di guerrilla art, movimento artistico che si contraddistingue per l´anonimato dell´autore, il quale deve lasciare le proprie tracce senza svelare la propria identità. Il primo graffito è realizzato sui resti di un muro che si erge solitario in mezzo a un mucchio di macerie: raffigura un uomo intento a pensare, con una mano sul capo; ispirato a "Il pensatore" di Auguste Rodin, il graffito s'intitola, significativamente, Bomb damage. All'interno del suo video, Banksy ci mostra il momento in cui sta realizzando il graffito e la conseguente reazione degli abitanti ad opera compiuta. Gli occhi di queste persone, svuotati di ogni speranza, guardano increduli i disegni che danno un tocco di colore a una realtà grigia di guerra, morte e distruzione; così come quando, adulti e bambini, vedono disegnata su un muro una gigante gatta bianca con un vistoso fiocco rosa al collo. "Sembra dire al mondo intero che si sta perdendo tutto il bello della vita", afferma un uomo seduto

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di fronte il graffito, guardando alcuni bambini giocare di fronte a quel disegno che per loro vuol dire tanto. È lo stesso uomo, qualche secondo dopo, a chiedersi e chiederci incessantemente "Che ne sarà dei nostri bambini?". Bambini, come quelli raffigurati nel terzo graffito eseguito da Banksy: bambini che si divertono su una giostra in movimento, una situazione così semplice ma così lontana da quella realtà piegata dai conflitti. Il noto artista britannico, agitatore di folle, portavoce dell'arte di strada che lascia la sua firma sui muri del mondo dipingendo stencil a sfondo politico e satirico, questa volta ha lasciato un segno importante in una terra avvolta dall' annientamento di tutti i valori, messa in ginocchio da una guerra cruenta. È una scritta color rosso sangue su un muro bianco a sintetizzare il pensiero di Banksy riguardo al conflitto fra Israele e Palestinesi: "Se ci laviamo le mani in un conflitto tra potenti e inermi, stiamo dalla parte dei potenti, non siamo

neutrali." Quella dell'artista è una testimonianza significativa che mostra la distruzione prima e il totale disinteresse poi, attraverso un video che fa vedere al mondo intero quanta distruzione affligga quella striscia di terra.Ancora una volta Banksy ha fatto centro, facendo parlare di sé per una giusta causa. Probabilmente è lo street artist più famoso al mondo e la sua fama è dovuta, oltre che alla sua affascinante e misteriosa arte, contraddistinta da un forte messaggio

anti-sistema, al fatto che non se ne conosca l'identità: un artista senza nome e senza volto che però è sempre in grado di colpire e affascinare. "Alcune persone diventano dei poliziotti perché vogliono far diventare il mondo un posto

migliore. Alcune diventano vandali perché vogliono far diventare il mondo un posto dall'aspetto migliore": questo è il suo motto, lo slogan che contraddistingue la sua arte

11) Il linguaggio della settima arte

« Non ho più il diritto di essere ebreo e non mi sento arabo » (Joseph)

Recensione del film: IL FIGLIO DELL'ALTRA, La regista è Lorraine Levy, francese di origini ebraiche. “Il Figlio dell’Altra” Il film è ben costruito e mette al centro la questione palestinese. La regista ci da la possibilità di vedere e sentire le emozioni di chi sta dall’altra parte, chi sta oltre il muro che divide Israele dalla Palestina da decenni. Lo scopo del film non è dare risposte al problema ma dare semplici suggerimenti. Partirei dall’ambientazione, il cinema permette di viaggiare e Levy ci porta sul territorio Israeliano dove convivono a fatica due culture. I due ragazzi protagonisti del film, Youssef israeliano e Yasin palestinese, e le loro famiglie sono espressione di questi due popoli. Abbiamo da un lato Tel Aviv, una città quasi occidentale, che viene ripresa con inquadrature molto larghe poiché ci vuole dare un senso di maggiore libertà. Quando invece ci spostiamo in Cisgiordania le inquadrature cambiano: sono più strette, ci danno un senso di

prigionia. Da una parte abbiamo luce dall’altra ombra. La storia è basata sulle reazioni dei due protagonisti e dei loro genitori allo scambio avvenuto nel ’91 durante la Guerra del Golfo ad Haifa: Youssef e Yasin vivranno la loro vita in territorio invertito rispetto alla loro origine. Abbiamo due reazioni diverse: i padri reagiscono male, all’inizio non accettano la situazione mentre le mogli vogliono mettere a fuoco la situazione. Da notare che i padri hanno reazioni molto simili nonostante siano di due origini differenti e che i due paesi sono separati perchè considerati diversi. Il film è importante perché protagoniste sono le donne, che spingono affinchè lo scandalo venga reso pubblico e trascinano tutti gli altri personaggi con loro. I figli una volta scambiati vengono accolti dalle madri con immenso amore: ecco qui il suggerimento del film per risolvere la questione del muro, moltiplicare l’amore verso il prossimo. I due ragazzi (quasi diciottenni) hanno un bel percorso. Lo percorrono istintivamente. Youssef è più immaturo rispetto a Yasin che ha vissuto in un mondo di guerra. Youssef farà fatica ad adattarsi alla nuova vita. I temi principali sono l’Accoglienza e la capacità di mettersi nei panni dell’altro. La musica è il filo conduttore di tutta la storia. Francesco ha scritto un suo commento che legge nel filmato.

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12) Lo sguardo della Filosofia

Lévinas: dialogo intimo del volto, presenza del sensibile, desiderio

dell’invisibile Cecilia Maria Di Bona

L’incontro con l’altro: dal dialogo alla prossimità del Volto

L’incontro con l’Altro è all’origine stessa dell’Etica. L’etica nasce dal far precedere il bene dell’altro al mio bene.3 Un momento significativo di questo incontro con l’altro è rappresentato dal dialogo che Lévinas considera, già di per sé, un vero e proprio miracolo.4 Nel dialogo, è attraverso la presenza e la voce, ancor prima che attraverso la comunicazione del messaggio espresso nella parola, che si realizza una dimensione nella quale, in qualche misura, l’io si espone, si lascia incontrare e conoscere. Nell’intima verità dell’incontro, si realizza quel mettere a nudo il proprio essere che rivela il vero sull’essere umano: la sua umanità, la sua sincerità, la sua vulnerabilità.5

3Nel pensiero di Emmanuel Lévinas, questa relazione etica con l’Altro si fonda, in ultima analisi, su una dissimmetria. Scrive l’autore: «On appelle cette mise en question de ma spontanéité par la présence d’Autrui, éthique», in Emmanuel Lévinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Phaenomenologica VIII, Martinus Nijhoff, La Haye 1961, e l’edizione italiana, cui faremo riferimento per le citazioni in lingua italiana, Totalità e

infinito, saggio sull’esteriorità, traduzione a cura di A. Dell’Asta, introduzione di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1980. 4 Scrive Lévinas: «Definiamo linguaggio la messa in questione dell’io coestensiva alla manifestazione d’Altri nel volto. L’altezza da cui proviene il linguaggio la designiamo con il termine insegnamento […]. Il dispiegamento positivo di questa relazione pacifica, senza frontiere o senza negatività alcuna, con l’altro, si produce nel linguaggio». Totalité et Infini, op. cit., pp. 174-175 (cfr. Franz Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Martinus Nijhoff, The Hague 1981, tr. it. La Stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti 1820, Genova-Milano 1985) e ancora, alle pp. 186-187, leggiamo: «Solo nel momento in cui l’ “io” riconosce il “tu” come qualcosa fuori di sé, e quindi solo quando passa dal soliloquio al dialogo vero e proprio […] L’ “io” vero e proprio, non per sé ovvio e comprensibile, ma sottolineato ed accentuato, può risuonare per la prima volta solo nella scoperta del tu» (cfr. anche Richard Cohen, La non-in-différence dans la pensée de Emmanuel Lévinas et de Franz Rosenzweig, in Cahiers de

l’Herne: Lévinas, Paris, 1991). 5 Nel pensiero di Lévinas il dire, inteso come esporsi all’incontro con l’Altro, è uno dei modi attraverso cui si rivela l’essere più profondo dell’uomo, un essere che manifesta un tratto di umanità, sua intima verità, che emerge in questo esporsi, denudarsi, rivelarsi nella propria verità, sotto ogni volontarismo ed ogni razionalismo. Scrive l’autore: «Per potermi liberare dal possesso stesso instaurato dall’accoglienza della casa, per poter vedere le cose in se stesse, cioè per potermele rappresentare, per poter rifiutare sia il godimento che il possesso, è necessario che io sappia donare quello che possiedo […] Ma per questo è necessario che incontri il volto indiscreto d’Altri che mi mette in questione. Altri – assolutamente altro – paralizza il possesso che contesta con la sua epifania nel volto». Totalité et Infini, op. cit., p.174.

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Il senso stesso della comunicazione è in questo incontro, prima ancora che nelle parole e si rivela, progressivamente, come un’apertura al mistero della vita e al futuro; tutto questo perché il riconoscimento stesso dell’alterità dell’altro fa sì che io cerchi, al di là di tutte le definizioni, una verità che è in se stessa mistero. Il mondo stesso, inteso come il nostro mondo comune, la possibilità di coglierlo effettivamente, mi si rivela, a partire da questo dialogo, come un “dono” della parola.6 Nel suo complesso, la relazione umana, centrata sul dialogo, libera potenzialità espressive dell’essere che gli dischiudono le porte dell’infinito.7 Per questo, Lévinas ritiene che la relazione con l’altro, in ultima istanza, intensifichi il vero senso della mia libertà, una libertà non disgiungibile dall’assunzione di una responsabilità.8 Ogni incontro, così come ogni dialogo, è esposto al rischio della violenza prevaricatrice, dell’offesa, della non comprensione e, tuttavia, porta inscritto dentro di sé una possibilità che è anche una responsabilità etica,9 o meglio, che diviene una possibilità a condizione che una forma seria e sincera di partecipazione e di responsabilità vi siano messe in gioco: «le nom sévère de l’amour».10 Nel vero incontro, nel vero dialogo, vi è all’origine un’apertura, una forma di ricettività che assume quasi la forma di una passività: sono coinvolto senza che possa operarsi, da parte mia, una vera forma di scelta.11 Il dialogo, l’incontro, l’irruzione dell’altro nella mia esistenza creano delle condizioni per cui io sono chiamato a rispondere di, ad essere responsabile di Altri.12 Io rispondo ad una chiamata etica inscritta in un comandamento che non viene da me perché non è frutto della mia volontà ed inclinazione, ma che proviene dal di fuori: la chiamata di un comandamento antico. Tuttavia, se il comandamento mi raggiunge dall’esterno e si impone con la forza della legge che occorre rispettare, l’esperienza esistenziale nella quale io mi trovo in prima persona, è caratterizzata da un mio coinvolgimento diretto e spontaneo.13 La dimensione etica si rivela nell’incontro con il volto e l’irruzione de “l’autrement qu’être”, dell’Infinito, nella mia esistenza.14 Il tempo dell’apertura e l’apertura al futuro, sono momenti fertili al dispiegarsi del senso. Scrive Emmanuel Lévinas: «Le dire, dans sa sincérité de signe donné à Autrui, m’absout de toute identité qui ressurgirait comme caillot qui se coagulerait pour soi, coïnciderait avec soi».15

6 Leggendo ed interpretando il pensiero di Lévinas, si comprende come per lui l’origine di ogni comunicazione, inclusa l’istanza stessa dell’obiettività, sia data in questo incontro. Secondo Lévinas sembrerebbe che la stessa gnoseologia – concepita come correlativo naturale di questa concezione dell’ontologia, le cui pretese sono confutate dal riconoscimento della primarietà dell’etica quale è affermata nel suo pensiero – debba essere pensata nuovamente a partire dalla relazione con l’Altro. Scrive l’autore: «L’universalità che una cosa riceve dalla parola che la strappa all’hic et nunc, risale a sua volta al possesso in cui la cosa è posseduta e il linguaggio che la designa all’altro è uno spossessamento originario, una prima donazione. La generalità della parola instaura un mondo comune. Il fatto etico situato alla base della generalizzazione è l’intenzione profonda del linguaggio». Totalité et Infini, op. cit., p. 177. 7 Emmanuel Lévinas ammette che il rapporto con l’altro mi esponga al rischio che la mia stessa libertà venga limitata e, tuttavia, egli sottolinea con forza in che modo questa limitazione si configuri come un’implicazione naturale del riconoscimento della legittimità non solo della mia libertà, ma anche della libertà dell’altro. Scrive l’autore: «La limitazione si produce solo in una totalità, mentre la relazione con Altri infrange il limite della totalità. Essa è fondamentalmente pacifica. L’altro non mi si oppone come una libertà altra, ma come una libertà simile alla mia. […] La sua alterità si manifesta in una signoria che non conquista ma insegna. L’insegnamento non è una specie di un genere definito dominazione, un’egemonia che si esercita in seno ad una totalità, ma la presenza dell’infinito che fa saltare il cerchio chiuso della totalità». Totalité et Infini, op. cit., p. 175; e, Catherine Chalier, La Trace de l’Infini, Les Éditions du Cerf, Paris 2002. 8 Scrive Lévinas: «Ma l’Altro, assolutamente altro – Altri – non limita la libertà del Medesimo. Chiamandola alla responsabilità, la instaura e la giustifica». Totalité et Infini, op. cit., p. 202. 9 Scrive il filosofo ebreo francese: «L’insegnamento significa tutta l’infinitezza dell’esteriorità […] Il primo insegnamento insegna proprio questa altezza che equivale alla sua esteriorità, l’etica». Totalité et Infini, op. cit., p. 174. 10 Il filosofo mette in luce come nell’immersione profonda nel destino dell’altro, nel coinvolgimento in questa relazione, nell’accettazione di una responsabilità, l’uomo sia costretto ad uscire da se stesso, a riconoscere l’alterità dell’altro, la sua irriducibilità alle mie aspettative. Pertanto egli deve riconoscere che la vita stessa, come l’Altro, non gli appartengono, che essa sfugge a tutte le definizioni. Nel riconoscimento della mia finitudine, riconosco la trascendenza come ciò che è al di là di me, di ogni bramosia e desiderio; riconosco la mia vera esistenza, che non comprendo nulla dell’essenziale, che non riesco a controllare nulla veramente. 11 Lévinas descrive quest’esperienza come un momento nel quale mi raggiunge qualcosa di esterno, mi influenza, mi coinvolge prima che io possa volere o meditare coscientemente di impegnarmi. Questo, come altri aspetti dell’esteriorità, vengono colti dall’autore essenzialmente come aperture, come potenzialità, poiché essi mi conservano nell’umiltà, mi insegnano a cercare oltre me stesso.

12 Secondo l’autore, la dissimmetria, che è un tratto costitutivo del mio rapporto con Altri, mi chiama ad una responsabilità infinita nei suoi confronti, una responsabilità che nasce da una maturità umana che non si attende né ricompense né reciprocità.

13 Lévinas, che considera centrale la dimensione etica in quanto rende possibile e fa “parlare” tutte le altre dimensioni svelandone la loro origine interamente umana (etica fondata su di un incontro tra uomini), richiama con forza un comandamento nel quale, forse, è possibile scorgere come questa centralità del volto stia da sempre a fondamento dell’umanità. A tale proposito occorre ricordare in che modo anche il Decalogo, essenziale matrice della nostra concezione di etica e giustizia, sia stato consegnato come un comandamento che trae la sua origine prima di tutto da un rapporto instauratosi tra uomo e Dio. Occorre anche sottolineare come adempiere ai comandamenti “significasse” e “significhi” disporsi in una “traccia”, cioè in un orientamento di speranza, segnato dall’Eterno nell’incontro con il destino dell’uomo. 14 Secondo il filosofo ebreo francese, l’incontro con l’altro si annuncia come un’esperienza esistenziale fondamentale, quantunque sottovalutata nella storia del pensiero filosofico; un’esperienza nella quale è fondamentale la ricettività, una sorta di passività attiva che può arrivare fino alla sostituzione. Catherine Chalier, La Trace de l’Infini, op. cit., p. 110. 15 E. Lévinas, Autrement qu’être ou au- delà de l’essence, Martinus Nijhoff, 1974, pp. 85-86. Prosegue l’autore: «Absolution qui inverse l’essence: non la négation de l’essence mais désintéressement, un ‘autrement qu’être’ s’en allant en ‘pour l’autre’, brûlant pour l’autre […]. Identité dans la patience intégrale de l’assigné qui, patient - malgré soi - ne cesse de mourir, dure dans son instant, ‘blanchit sous les harnais’. Le retournement du Moi en Soi, la déposition ou la destitution du Moi c’est la modalité même du désintéressement en guise de vie corporelle vouée à l’expression et au donner, mais vouée et non pas se vouant: un soi malgré soi, dans l’incarnation comme possibilité même d’offrande, de souffrance et de traumatisme».

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In ogni vero incontro, oltre ad un parlare ed ascoltare, ad un cercare di comprendere e di accogliere la diversità dell’altro, si realizza una forma di condivisione.16 La prossimità si realizza quando, riconoscendone l’alterità, si accetta di prendere in carico l’essere dell’altro.17 L’uomo entra in una fraternità nella quale egli è “per l’altro”, pronto ad offrire qualcosa di proprio per l’altro.18 Scrive il filosofo che la condivisione è «s’entretenir avec lui dans la réciprocité du serrement de mains, de la caresse, de la lutte, de la collaboration, du commerce, de la conversation».19 La condivisione, concepita a partire da un orientamento etico che si riconosce nell’osservanza del Decalogo – nel quale sono chiamato in prima persona a rendere conto non solamente delle mie azioni ma anche di quelle dell’Altro – porta in se stesso significazione di un amore responsabile e vero. Considerare il proprio prossimo fraterno, sentirsi legati al suo destino: è questo il senso ultimo dell’accostarsi all’altro.20 La vita interiore, l’ispirazione più profonda dell’essere umano, si costituisce in questa comunità di affetti e responsabilità.21 Il Bene mi chiama alla sincerità22 e all’assunzione di una responsabilità che riconosco avere per l’altro, che diventa anche condivisione e testimonianza fino alla morte. Il comandamento di sostituirsi all’altro proviene dalla Trascendenza, la cui traccia è presente nel volto dell’altro. 23 Autrement qu’être: il volto

Il volto dell’altro mi sta di fronte nella sua presenza e al tempo stesso nella sua enigmatica astanza: oggetto di un inesauribile desiderio, sempre trascendente rispetto ad ogni tentativo di conoscenza esaustiva, di dominio, di possesso.24 L’epifania del volto si manifesta, sin dall’inizio, come una presenza silenziosa ma interpellante: nella sua alterità alla mia coscienza, l’epifania del volto si annuncia come una presenza incomprensibile ed inafferrabile.25

16 Scrive Lévinas: «La visione del volto non si separa da questa offerta costituita dal linguaggio. Vedere il volto significa parlare del mondo. La trascendenza non è un’ottica, ma il primo gesto etico». Totalité et Infini, op. cit., p. 177. E tuttavia l’espressione non è unicamente affiorante nel linguaggio; il volto, nella nudità del suo porsi, mi chiama ad una condivisione esistenziale che si estende all’assunzione di una responsabilità fino in fondo per lui. L’Altro, il terzo, entra nella mia esistenza nella nudità della sua dimensione creaturale, nella sincerità e onestà del suo porsi. Le figure emblematiche di questa fragilità che sembra chiedere protezione sono quelle dello straniero, del povero. Nei loro confronti sono chiamato ad assumermi una responsabilità infinita che non si attende reciprocità. 17 Leggendo l’opera del filosofo ebreo occorre riconoscere come questo sia vero, quantomeno, nel rapporto con la donna, rapporto che, quantunque la donna occupi un posto a sé stante, si deve in qualche misura considerare come depositario di alcuni elementi che concernono ogni relazione, proteggendone la vulnerabilità. 18 Secondo l’autore, la prossimità è fatta di contatto, di condivisione, di gesti di comprensione e sostegno; essenzialmente, della coscienza di essere, fin dall’inizio, coinvolto nel destino dell’altro. 19 E. Lévinas, Autrement qu’être ou au- delà de l’essence, op. cit, p. 132. 20 È questa una condivisione che, secondo l’autore, si gioca soprattutto sulla responsabilità. La condivisione è sentirsi partecipi della vita dell’altro, responsabili della sua felicità o infelicità, essere a tal punto coinvolti nel suo destino da sentirsi responsabili dei suoi atti, persino degli atti colpevoli, delle sue mancanze. E. Lévinas, Autrement qu’être ou au- delà de l’essence, op. cit., p. 175. 21 Scrive Lévinas, in L’au-delà du verset, lectures et discours talmudiques, Les éditions de Minuit, 1982, p. 178: «L’inspiration n’a pas son mode originel dans l’écoute d’une muse qui dicte les chants, mais dans l’obéissance au Plus-Haut comme relation éthique avec autrui». 22 Il filosofo ebreo descrive questa vocazione come una voce interiore a cui rispondo, un’ispirazione cui resto fedele tanto da sortire dall’ombra: «ordre que je trouve dans ma réponse même, laquelle, comme signe fait au prochain, comme ‘me voici’, m’a fait sortir de l’invisibilité, de l’ombre où ma responsabilité aurait pu être éludé» in Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, op. cit., p. 234; Cfr. anche Totalité et Infini, op. cit., in modo particolare il paragrafo intitolato «Le monde des phénomènes et l’expression». 23 Lévinas, nelle Quatre lectures talmudiques, Les éditions de Minuit, 1968 (tr. it. Quattro letture talmudiche, tr. di Alberto Moscato, il Melangolo, Genova 2000), rilegge e commenta con quella sottile sapienza che unisce intelligenza e saggezza nella linea della interrogazione dei testi del Talmud, quale è stata praticata per millenni nelle scuole rabbiniche, un passaggio della Bibbia, nel secondo libro di Samuele, che racconta di un crudele atto di “compensazione di guerra”, per tener fede ad una promessa fatta dal re David ad un popolo vinto, i Gabaoniti, culminante nell’offerta di undici infelici principi. Questo tener fede alla promessa da parte del re David, che doveva apparire come un atto di arcaica giustizia, questa offerta delle vite dei principi si conclude con la figura di una donna, Rispa, figlia di Aià, che veglia su tutte le vittime, tra cui vi erano i suoi due figli. Quanto rimane, dopo una giustizia umana sempre manchevole, é la testimonianza dell’amore di questa madre, figura di quelle rachamin, le viscere materne, evocate in un passo di Isaia a significare non solo l’amore materno che non può dimenticarsi del frutto del suo ventre, ma anche l’amore divino per l’uomo.

24 Scrive Lévinas: «La differenza tra la nudità del volto e lo svelamento della cosa illuminata […] La trascendenza del volto […] L’estraneità che è libertà». Totalité et Infini, op. cit., p. 73. Interessantissimo si rivela, intorno a questo tema, il confronto con le riflessioni di Jean Paul Sartre, segnatamente con quelle espresse in forma sistematica e paradigmatica nella terza sezione (capitolo I, § 11) di L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943, p. 277. Di grande acutezza appare a questo proposito l’osservazione di Jean-Louis Chrétien in La dette et l’election in Cahiers de l’Herne: Emmanuel Lévinas, Paris 1991, il quale coglie, sullo sfondo degli esiti opposti delle due concezioni, un significativo punto in comune nel rilievo dato all’assoluta centralità della responsabilità della persona nel momento presente dell’incontro e, più precisamente, nell’affermazione che in questa responsabilità consiste l’elezione. Certo, Lévinas si spinge molto oltre questo riconoscimento, fino a cogliere nell’incontro la possibilità che ci è data di conferire un senso all’essere. Anche alla luce di queste considerazioni, ancor più interessante si profila il confronto con il pensiero di Max Scheler, per certi versi così vicino a quello di Lévinas. Nell’opera di Scheler, la coscienza si staglia come un mondo solitario, tanto che secondo il pensatore tedesco la dimensione più profonda della coscienza non è comunicabile, quantunque la prima dimensione che percepiamo della realtà sia proprio la sua espressione psichica. Scrive Scheler in Nature et formes de la sympathie, Payot, 1928, pp. 281-284: «Ce que nous percevons en premier lieu des autres hommes, avec lesquels nous vivons, ce ne sont ni leur corps […] ni leurs idées, ni leurs âmes, mais des ensembles indivis que nous ne séparons pas aussitôt en deux tronçons, dont l’un serait destiné à la perception ‘interne’, l’autre à la perception ‘externe’. […] Ce qui partout et toujours nous est donné d’emblée et avant tout, à nous aussi bien qu’aux animaux et à l’homme primitif, c’est la structure totale, c’est la structure d’ensemble». 25 Scrive il filosofo: «Riconoscere la verità come svelamento significa rapportarla all’orizzonte di colui che svela […] L’esperienza assoluta non è svelamento. Svelare a partire da un orizzonte soggettivo significa già perdere il noumeno. Solo l’interlocutore è il termine di un’esperienza pura in cui altri entra in relazione, pur rimanendo kath’auto […] L’“oggettività” cercata dalla conoscenza pienamente conoscenza si attua al di là dell’oggettività dell’oggetto». Totalité et Infini, op. cit., pp. 62-65.

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Il volto è dotato di una sua intrinseca significazione che va oltre il puro apparire, la pura presenza, l’essere oggetto di una percezione visiva, tattile, etc. Il volto si annuncia come relativo alla persona, la cui verità è irriducibile al mio sguardo, al mio desiderio di conoscerla, alla mia bramosia di dominio.26 Il volto è il vivente, l’esistente, la sua stessa misteriosa esistenza nella singolarità di una persona. Proprio in questa esperienza d’incontro, così diffusamente considerata nella storia del pensiero filosofico come espressione di un’esistenzialità pre-filosofica, Lévinas individua l’esperienza metafisica per eccellenza, il momento della sospensione della presupposizione concettuale, della rinascita del desiderio metafisico, dello stupore, dell’incantamento suscitato dall’alterità dell’Altro, della ricerca del senso, della verità, come terminus ad quem, dimensione mai compiutamente conseguita.27 Il volto nella sua singolarità, nella sua “stranezza”, nella sua “astrazione” rispetto all’ordine del mondo, si autorivela, spezzando con la sua sola presenza la trama della conoscenza concettuale gettata come una rete a raccogliere, unificare e comprendere il mondo.28 Quel volto, quello sguardo ha in sé qualcosa di sacro – Lévinas dice “santo”29 – nella sua nudità, nella sua fragilità, nel suo essere esposto ad ogni violenza sembra tenacemente opporre una resistenza etica ad ogni tentativo di dominio, di conoscenza. Scrive l’autore che «la nudità del volto è indigenza. Riconoscere significa riconoscere una fame. Riconoscere altri significa donare».30 Il volto è presenza, traccia dell’infinito, resistenza infinita alla violenza, presenza trascendente, traccia del trascendente.31 Scrive Lévinas che il volto oppone «à la force qui le frappe non pas une force plus grande […] mais la transcendance même de son être […] Non pas un superlatif quelconque de puissance, mais précisément l’infini de sa transcendance […] L’infini paralyse le pouvoir par sa résistance infinie au meurtre, qui dure et insurmontable luit dans le visage d’autrui, dans la nudité totale de ses yeux, sans défense, dans la nudité de l’ouverture absolue du Transcendant».32 Di fronte al volto, si genera dentro di me come una sospensione, si apre un varco ad una ricerca interiore, ad una contemplazione assorta di fronte a qualcosa che resta per me sotto molti profili misterioso, impenetrabile. Ed è proprio per questo tratto che il volto dell’Altro si annuncia, mi visita come una “presenza” astante che sfugge ad ogni definizione, come una traccia dell’Infinito, del Trascendente.33 Una presenza/assenza che è traccia di un Assoluto che noi avvertiamo come assente. Il silenzio di Dio, la sua apparente estraneità alle vicende umane, i crimini che rimangono impuniti nella storia, l’apparente mancanza di significato dell’universo, degli avvenimenti storici, dell’esistenza umana: agli occhi dell’uomo tutto è nel mondo come se Dio non esistesse. Solo la presenza creaturale dell’altro mi si rivela come traccia dell’Eterno,34 mi annuncia la speranza di un al di là, del quale faccio esperienza come assenza nel mondo. L’impossibilità di penetrare nell’animo dell’altro, di cogliere fino in fondo l’espressività di uno sguardo, fanno risorgere dentro di me il desiderio metafisico.

26 Catherine Chalier, La Trace de l’Infini, op. cit., p. 179. 27 Scrive Lévinas: «Affermare la verità come modalità della relazione tra il Medesimo e l’Altro non significa opporsi all’intellettualismo ma garantirne l’aspirazione fondamentale, il rispetto dell’essere che illumina l’intelletto». Totalité et Infini, op. cit., p. 62; cfr. Catherine Chalier, La Trace

de l’Infini, op. cit., p. 183. 28 Scrive Lévinas in Totalité et Infini, op. cit., p. 98: «La presenza d’altri rompe l’incantesimo anarchico dei fatti: il mondo diventa oggetto. Essere oggetto, essere tema, significa essere ciò di cui io posso parlare con qualcuno che ha infranto il velo del fenomeno e mi ha associato a sé». 29 Il filosofo intende sempre Santo nella significazione più propria ed originaria di trascendente, distaccato, inconoscibile, al di là di ogni rappresentazione. Ricordiamo contestualmente la distinzione Lévinassiana tra sacro e santo, presente in ogni passo della sua riflessione critica in rapporto alle religioni che cercano di ridurre il santo al sacro, così come al “rituale” religioso. Naturalmente anche sacro, nel suo significato originale, espresso nell’ebraico qadosh, qodesh – parola formata dalle tre lettere qof, dalet e shin, che, come radice di altre parole, sono all’origine di una famiglia di significazioni ben definita (quali separare, dividere, misurare separando) – significava, originariamente, “separato”, e nell’originale termine accadico, Kuddusu, possedeva l’accezione di “luminoso”. 30 E. Lévinas, Totalité et Infini, op. cit., p. 73: «Solo nella generosità il mondo posseduto da me […] può essere scoperto da un punto di vista indipendente dalla posizione egoistica». 31 E. Lévinas, Totalité et Infini, op. cit., p. 204. Scrive l’autore: «L’infinito paralizza il potere con la sua resistenza infinita all’omicidio, che, dura ed insormontabile, risplende nel volto d’altri, nella nudità totale dei suoi occhi, senza difesa, nella nudità dell’apertura assoluta del Trascendente ». Cfr. anche Catherine Chalier, La Trace de l’Infini, op. cit., p. 186.

32 E. Lévinas, Totalité et Infini, op. cit., p. 217 ; cfr. Catherine Chalier, La Trace de l’Infini, op. cit., pp. 180-181. 33 Il filosofo precisa il senso più profondo dell’estraneità, della trascendenza dell’altro, inscritto fin dall’origine del mondo prima ancora che nel figlio, virtualmente al tempo stesso parte di sé e di Altri, nella Creazione, nel legame tra Creatore e creatura. Scrive Lévinas: «La grande forza dell’idea di creazione, quale la formulò il monoteismo, consiste nel fatto che questa creazione è ex nihilo […] l’essere separato e creato non è semplicemente venuto dal padre, ma gli è assolutamente altro. Anche la caratteristica di figlio potrà apparire come essenziale per il destino dell’io solo se l’uomo conserva questo ricordo della creazione ex nihilo, senza di cui il figlio non è un vero altro». Totalité et Infini, op. cit., p. 62. Ed è fondamentale osservare, contestualmente, il fatto che Lévinas sottolinei come questo volto non sia il segno né l’icona dell’infinito. Infatti, il volto è colto solo in un incontro, nell’accettazione di una responsabilità per l’altro. Il volto non può essere, in alcun modo, “tematizzato”. Cfr. anche Paul Ricoeur, Soi même comme un autre, Essais, Éditions de Seuil, 1990. 34 Nel pensiero dell’autore la presenza creaturale dell’altro, nel mistero della sua esistenza che sfugge a tutte le definizioni, a tutti gli atti di prensione e di conoscenza avvertita anche come fraternità, è “traccia” dell’Eterno, “traccia” precisa Lévinas, non simbolo o icona. Cfr. Catherine Chalier, La Trace de l’Infini, op. cit., pp. 197-199.

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Il desiderio metafisico: il desiderio dei felici, così lo definisce Lévinas,35 a significare come questo sia animato da una tensione verso una dimensione che oltrepassa la capacità umana di farne esperienza.36 Scrive l’autore: «l’expérience, l’idée de l’infini se tient dans le rapport avec Autrui».37 La traccia dell’infinito si manifesta come visitazione dei tre messaggeri dell’Eterno che sono inviati ad Abramo, i quali, pur essendo presenze misteriose che non rivelano nulla in loro stessi, nel momento in cui sono accolti da Abramo lo mantengono aperto ad ogni alterità, ad ogni trascendenza. È la teofania del divino nel mondo, il suo passare, il suo essere passato, l’attesa della sua venuta: l’aver attraversato, fin dalle origini, la vita dell’essere umano con quel suo apparire senza mai mostrarsi, senza mai lasciarsi vedere in volto.38 Conclusione

La coscienza che a suscitare il desiderio metafisico sia l’irriducibile alterità dell’altro, l’ineffabile mistero della sua vita in lui,39 porta con sé un risveglio d’essere, una percezione profonda del valore di questa stessa esistenza, pur così limitata da ogni parte, la quale è radicata nella coscienza di un’apertura all’altro che è all’origine di una storia; esistenza proiettata verso un futuro nel quale questo compimento, questo terminus ad quem, può essere ancora sperato.40 Quest’anelito di speranza che attraversa tutta la vita e la storia, tra profezia e santità; questa tensione intimamente etica a salvare l’uomo, poiché come dice il Talmud “chi salva una vita salva l’intera umanità”, è tutto il senso di quella scoperta dell’intima verità etica dell’uomo. Secondo Lévinas, all’origine di ogni riflessione, vi sono i rapporti tra esseri umani, rapporti che sono più profondi della ricerca, per sé presa, del senso dell’essere, che la precedono e la fondano, al punto che la ricerca di quest’ultimo può formarsi solo alla luce di quelli, poiché essi sono portatori di un significato in sé che é all’origine del significare stesso. Questi rapporti umani sono un momento essenziale del sorgere di quel desiderio metafisico ingenerato dall’assoluta alterità dell’altro, dall’impossibilità di comprenderlo. Essi risvegliano l’assopito desiderio dell’infinito, l’intima tensione verso l’Eterno: oltre lo sguardo dell’uomo che mi sta di fronte, dello straniero che entra nella mia vita e che la turba con la sua presenza libera ed estranea, intravedo una traccia della presenza dell’Eterno nel mondo.41 La dimensione etica che nasce nel rapporto con l’altro e nell’obbedienza ad un comandamento, nella traccia della Torah, è quella dimensione oltre l’essere, oltre l’esistere, aperta alla trascendenza.42 Nell’innocenza, nella nudità dello sguardo dell’altro che mi è di fronte, avverto che l’uomo è per l’Eterno. [in Thauma - Rivista di arte e filosofia, Vol. 02, THAUMA Edizioni].

35 Scrive Lévinas in Totalité et Infini, p. 61, che questo desiderio, per sua natura inappagabile, è «desiderio in un essere già felice: il desiderio è l’infelicità del felice». Si veda anche l’acuta osservazione di Catherine Chalier, La Trace de l’Infini, op. cit., p. 47, laddove la studiosa riporta un passaggio di Bonhoeffer, precisamente volto ad invocare la gloria di Dio nella gioia, nella pienezza e non unicamente nel dolore, da Résistance et soumission. Lettres et notes de captivité (trad. franc. L. Jeanneret), Labor et Fides, Génève 1973, pp. 290-291. 36 Secondo il filosofo, questo è un desiderio che si configura, per così dire, come una proiezione verso il trascendente, una trascendenza alla quale non si tende solo per questa via contemplativa, ma che implica naturalmente un orientamento etico alla misericordia (hésed).

37 E. Lévinas, Totalité et Infini, p. 61. Scrive l’autore: «L’immortalità non è l’obiettivo del primo movimento del Desiderio, ma l’Altro, lo Straniero. É assolutamente non egoista, il suo nome è giustizia». Cfr. Catherine Chalier, La Trace de l’Infini, op. cit., pp. 199-200. 38 Bibbia di Gerusalemme, Esodo 33,20. Dice L’Eterno a Mosè sul Sinai: «tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». 39 Desiderio che, secondo Lévinas, sarebbe all’origine anche della ricerca filosofica stessa, del suo inesausto cercare, sperare, tendersi verso l’infinito.

40 Secondo il pensatore, quella speranza, pur così duramente messa alla prova, non si estingue. In una forma misteriosa, questa concretezza, questa finitudine ed imperfezione riscattano gli esseri umani dalla tentazione di una perfezione gnostica, disincarnata ed oltre l’“umano”, nella quale è smarrito il “volto” dell’uomo.

41 Nella visione biblica, l’anima, la nefesh, la nishmat-hajjîm é sempre anima incarnata in un corpo, in un volto, nel senso che quest’ultimo, in tutta la sua bontà e bellezza, ne è un’espressione, una manifestazione, e l’attesa messianica ed escatologica che maturerà negli ultimi libri sarà connessa a quella della resurrezione dei corpi. Nell’esperienza della senilità, in quella dissoluzione della bellezza del corpo, del volto, che precede la morte, che ne scarnifica la figura, rivelandone fragilità e solitudine, veglia solo l’etica, le nom sévère de l’amour.

42 Secondo il pensatore ebreo, l’etica veglia come comandamento, un comandamento che viene dall’esterno, dall’Eterno, che si configura come obbedienza alla Torah, e che al contempo viene come interiorizzato nella fedeltà del rapporto con l’altro, con l’Altro, secondo Lévinas.

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13) Lo sguardo della Bibbia

Contestualmente, abbiamo riletto, con l’aiuto dell’esegesi di Gianfranco Ravasi, un passo della Bibbia.

Agar e Ismaele nella Genesi (Gen.21)

Il Signore visitò Sara, come aveva promesso, e fece a Sara come aveva detto. Sara rimase incinta e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva stabilito. Abramo chiamò Isacco il figlio che Sara gli aveva partorito. Abramo circoncise Isacco, quando questi ebbe otto giorni, come Dio gli aveva comandato. Abramo aveva cento anni, quando gli nacque Isacco. Allora Sara disse: "Motivo di allegria mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà di me!". Poi disse: "Chi avrebbe mai potuto dire ad Abramo: Sara allatterà dei figli! Eppure gli ho partorito un figlio nella mia vecchiaia!". Il bimbo visse e fu svezzato e Abramo diede un grande banchetto quando Isacco fu svezzato. Ma Sara vide che il figlio di Agar l'Egiziana, quello che essa aveva partorito ad Abramo, giocava con il figlio Isacco. Disse allora ad Abramo: "Scaccia quella schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non deve essere erede insieme a mio figlio".

Agar ed Ismaele nel deserto

La cosa addolorò molto Abramo perché anche Ismaele era suo figlio. Ma Dio disse ad Abramo: "Non ti preoccupare per questo, per il bambino e la tua schiava: ascolta la parola di Sara, ascolta la sua voce, perché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe. Ma io farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è stato generato da te". Abramo si alzò di buon mattino, prese il pane e un otre di acqua e li diede ad Agar, fissandoli sulle sue spalle; le consegnò il bambino e la mandò via. Essa se ne andò e si perse nel deserto di Bersabea. Tutta l'acqua dell'otre era finita. Allora essa depose il bambino sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte, alla distanza di un tiro d'arco, perché diceva: "Non voglio vederlo morire !". Quando gli si fu seduta di fronte, egli pianse. Ma Dio udì la voce del bambino e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: "Che succede, Agar? Non temere, perché Dio, là dove si trova, ha udito la voce del bambino. Alzati, riprendi il bimbo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande nazione". Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d'acqua. Allora andò a riempire l'otre e fece bere il bambino. E Dio fu con il bambino, che visse e abitò nel deserto e divenne un tiratore d'arco. Egli abitò nel deserto di Paran e sua madre gli diede una moglie del paese d'Egitto.

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Comprensione

I discendenti di Abramo Abramo ebbe come primogenito Ismaele, nato dalla sua unione con la schiava Agar voluta dalla stessa moglie Sara pur di avere un erede. Dopo la nascita di Isacco, figlio della promessa divina, Ismaele viene cacciato dalla tribu' nel deserto insieme alla madre . Dio pero' li protegge . Gli ismailiti vengono identificati con i popoli arabi (l'inimicizia tra arabi ed ebrei avrebbe dunque radici nella storia sacra? ) . Arabo e' Maometto da cui origina il popolo dei musulmani. Da Isacco discende il popolo degli ebrei. In questo popolo nasce Gesu' di Nazareth detto il Cristo (=il messia) , discendente di Davide . Da Gesu' ha origine il popolo dei cristiani. Discendenza di Abramo e Agar Gn 25,12 Questa è la discendenza di Ismaele, figlio di Abramo, che gli aveva partorito Agar l'Egiziana, schiava di Sara. 13 Questi sono i nomi dei figli d'Ismaele, con il loro elenco in ordine di generazione: il primogenito di Ismaele è Nebaiòt, poi Kedar, Adbeèl, Mibsam, 14 Misma, Duma, Massa, 15 Adad, Tema, Ietur, Nafis e Kedma. 16 Questi sono gli Ismaeliti e questi sono i loro nomi secondo i loro recinti e accampamenti. Sono i dodici principi delle rispettive tribù. [12 tribù= un popolo] 17 La durata della vita di Ismaele fu di centotrentasette anni; poi morì e si riunì ai suoi antenati. 18 Egli abitò da Avìla fino a Sur, che è lungo il confine dell'Egitto in direzione di Assur; egli si era stabilito di fronte a tutti i suoi fratelli. I discendenti di Ismaele, gli Ismailiti sono identificati con i popoli della penisola Araba. Dio benedice Ismail BENEDIZIONE="Dio benedisse Adamo ed Eva e soggiunse:crescete e moltiplicatevi"-Dio ad Abramo:" Farò di te un grande popolo e ti benedirò"e "io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza". La benedizione divina è la "fecondazione", il dono della prosperità, di un futuro. Simbolicamente è l´ "inseminazione" della energia divina, della Vita . Ciò che Dio benedice diventa fecondo e porta benedizione, fecondità.Gn 21,13 farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è tua prole». Gn 10,10 Le disse ancora l'angelo del Signore: «Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla per la sua moltitudine» Gn 17, 20 Anche riguardo a Ismaele ...: ecco, io lo benedico e lo renderò fecondo e molto, molto numeroso: dodici principi egli genererà e di lui farò una grande nazione. [da Ismail discenderebbero i popoli Arabi, dove nasce Maometto, dove ha origine l'Islam] Ismail e la sua discendenza godono della benedizione di Abramo, cioè di promesse di Dio. Secondo la Bibbia il popolo religioso dell'Islam, analogamente a quello di Israele, è frutto di una promessa-benedizione divina

Giacomo ha letto anche nel Corano questo testo.

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Mury di Jacek Kaczmarski

Il cantautore polacco Jacek Kaczmarski scrisse nel 1978 "Mury" (muri) che divenne la canzone che I lavoratori di Solidarność cantavano come loro inno. Di seguito una traduzione letterale in italiano di Krzysiek Wrona

I MURI

Lui era giovane ed ispirato Nessuno riuscirebbe a contarli Lui con le canzoni gli dava la forza Cantava che l’alba è già vicino. Migliaia di candele accendevano per lui Il fumo si alzava sopra le teste Cantava che era arrivata l’ora che il muro crollasse Loro cantavano insieme a lui:

Strappa le sbarre delle grate ai muri! Spezza le catene, rompi la frusta! Ed i muri cadranno, cadranno, cadranno E seppelliranno il vecchio mondo!

Presto hanno imparato a memoria la canzone E anche la sola melodia senza le parole Portava con sé l’antico richiamo I brividi attraverso i cuori e le menti. Cantavano allora, battevano il ritmo con le mani Il loro battimano echeggiava come le cannonate E pesava la catena, l’aurora indugiava... Lui continuava a cantare e suonare: Strappa le sbarre delle grate ai muri! Spezza le catene, rompi la frusta! Ed i muri cadranno, cadranno, cadranno E seppelliranno il vecchio mondo! Finché si sono accorti di essere in tanti Hanno percepito la forza e il tempo E marciavano per le strade delle città Con la canzone dell’alba vicina sulle labbra. Abbatevano i monumenti e strappavano il selciato - Questo qua è con noi! Quello là è contro di noi! Chi è solo, è il nostro peggior nemico! Ed anche il poeta era solo.

Guardava la marcia uniforme delle folle Taceva ascoltando il tuono dei passi Ed i muri crescevano, crescevano, crescevano La catena oscillava alle caviglie... Guarda la marcia uniforme delle folle Tace ascoltando il tuono dei passi Ed i muri crescono, crescono, crescono La catena oscilla alle caviglie...