Rene Guitton - Cristianofobia

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Traduzione dal francese di Gianluca Perrini

Copertina di Dada Effe - Torino

© 2009 Flammarion

© 2010 Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 -10128 Torino

Prima edizione: febbraio 2010 ISBN 978-88-7180-855-0

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René Guitton

CRISTIANOFOBIA La nuova persecuzione

LilOAU

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A Sarah, David, Marie, Christian, Fatima, Ismail.

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Introduzione

Il mondo del silenzio

I cristiani del Maghreb, dell'Africa subsahariana, del Me-dio e dell'Estremo Oriente sono perseguitati, muoiono o scompaiono in una lenta emorragia, vittime del crescente an-ticristianesimo.

La cristianofobia è multiforme e si nutre di motivazioni tra loro assai diverse: tuttavia, ogni arino fa parecchie centi-naia o addirittura migliaia di morti. In alcuni casi essa è frut-to dell'adozione di una politica ispirata a idee di «pulizia» etnica e religiosa il cui scopo è cacciare dalla culla del cri-stianesimo le popolazioni cristiane, ostinatamente fedeli al credo dei loro antenati.

II nostro silenzio in proposito ricorda altri silenzi di sini-stra memoria, e nel giro di due o tre decenni provocherà for-se nuovi imbarazzati appelli al pentimento e dichiarazioni di rimpianto per non aver voluto far affiorare una verità che doveva essere resa nota a tutti.

Nel corso di anni di ricerche mi è capitato di incontrare, in Occidente, numerosi cristiani, cresciuti in famiglie cristia-ne, benché non praticanti, i quali non erano minimamente turbati dagli attacchi contro i loro fratelli. Sembrava che quelle persone fossero affette da cecità o amnesia. E quando

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ho presentato il dossier da me raccolto, quando ho tirato fuo-ri fotografie e ritagli di giornali citando statistiche, bilanci e rapporti, mi sono trovato di fronte al rifiuto, talvolta cortese, di ascoltare quanto avevo da dire. Non ero credibile e, so-prattutto, non ero «moderno».

Agli occhi dei miei interlocutori avevo il grande torto di predicare per la mia parrocchia, i cui valori sono rigettati e condannati senza appello.

Dapprincipio ho ingenuamente ritenuto che la colpa di questa situazione fosse da addebitare all'ignoranza. Ma essa non basta a spiegare tutto, anzi. Combattere l'antisemitismo e il razzismo, battaglie alle quali mi dedico con forza da decen-ni, non richiede necessariamente una conoscenza approfondi-ta della letteratura rabbinica o della storia dello schiavismo. Non c'è alcun bisogno di avere un'empatia particolare con co-lui che soffre a causa della propria origine, vittima di una giu-stizia negata, per aver voglia di prendere le sue difese denun-ciando a gran voce il silenzio e l'oblio che circondano la sua condizione. Sono in ballo la dignità e i diritti umani.

Una delle ragioni del silenzio e dell'oblio che circondano le minoranze cristiane è da ricercare nella loro progressiva emarginazione e nella continua perdita di peso politico e de-mografico da cui sono afflitte.

I cristiani d'Oriente sono emigrati o stanno emigrando in massa; sono sempre meno numerosi e in mancanza di me-glio sostengono i regimi al potere (ritenendoli preferibili al-l'avvento di regimi fondamentalisti); in pratica non hanno più alcun ruolo politico nei paesi in cui risiedono.

In più, devono fare i conti con un circolo vizioso: sono emarginati in quanto cristiani, e, in quanto emarginati, di lo-ro si parla sempre meno.

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Il loro isolamento è aggravato dal fatto che le persecuzio-ni contro i cristiani non sono generalmente menzionate nel-le denunce delle violazioni dei diritti umani, per una ragio-ne molto semplice: perlomeno in Occidente i cristiani fatica-no ad associare al cristianesimo il concetto di minoranza.

La difesa dei diritti dell'uomo si è sviluppata a partire dalla lotta per la protezione delle minoranze religiose o etni-che un tempo soggette a persecuzioni. Gli ebrei, i neri o i mu-sulmani in Europa e in America rientrano in questo schema. La mobilitazione in loro favore è resa ancora più incisiva dal senso di colpa prodotto dal coinvolgimento delle Chiese cri-stiane nello sviluppo dell'antisemitismo, nello schiavismo e nel colonialismo (portatore di una visione umiliante per i musulmani).

In Occidente prendere le difese dei cristiani equivale a schierarsi dalla parte della maggioranza.

Il sempre più scristianizzato Occidente fa fatica a concepi-re che i cristiani possano essere perseguitati in quanto cristia-ni, perché essere tali, secondo uno slogan semplicistico che si sente ripetere spesso, significa stare dalla parte del potere.

Occorre combattere la gravissima disinformazione che af-fligge l'opinione pubblica occidentale a proposito della si-tuazione dei cristiani nel mondo e in particolare nelle regio-ni dove essi sono minoritari, come nel Maghreb, nell'Africa subsahariana, in Medio Oriente e in Estremo Oriente.

L'esistenza dei cristiani orientali è poco nota. Coloro che non la ignorano ne danno spesso una valutazione troppo ri-duttiva, che tende a fare delle comunità cristiane d'Oriente una sorta di appendice del cristianesimo occidentale, o la conseguenza dell'espansione coloniale. In altre parole, i cri-stiani d'Oriente non sono considerati autoctoni, ma un ele-mento importato.

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Si dimentica che il cristianesimo è nato in Oriente dove si è sviluppato ben prima che l'Europa diventasse quasi com-pletamente cristiana.

Secondo il punto di vista occidentale, le persecuzioni a cui sono sottoposti i cristiani in quei luoghi lontani colpireb-bero il cristianesimo non in quanto tale, ma nella sua qualità di emanazione dell'Occidente. Inoltre, poiché in Occidente il cristianesimo è maggioritario, non può aspirare allo status di minoranza in Oriente.

Questo ragionamento sortisce l'effetto di negare implici-tamente la sofferenza delle minoranze cristiane e di frenare la mobilitazione in loro favore. Al tempo stesso, iniziative a sostegno delle popolazioni cristiane d'Oriente sono scorag-giate, in quanto potenzialmente controproducenti: trasfor-mare i cristiani orientali in «protetti» dell'Occidente potreb-be esporli a rischi ancora più gravi.

Tuttavia, questa preoccupazione deve forse esonerarci dall'intervenire, dal momento che proprio noi parliamo di «dovere di ingerenza»? E l'indifferenza non apre forse la via all'oscurantismo?

Le guerre di religione o i fenomeni religiosi ci sembrano appartenere a una lontana preistoria: da ciò deriva la radica-le incapacità, da parte dell'Occidente, di affrontare la que-stione in tutti i suoi aspetti.

Per esempio, nella nostra società, la difesa dei cristiani di altre parti del mondo è spesso vista come un tentativo di fa-vorire il ritorno del religioso o di imporre i principi cristiani, che non sono più considerati valori fondamentali; ne conse-gue che coloro che si preoccupano della sorte delle minoran-ze cristiane sono guardati con gran sospetto: nella migliore delle ipotesi sono etichettati come ultraconservatori.

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Nel silenzio cristiano si deve scorgere altresì l'effetto di una svalutazione implicita e sistematica del cristianesimo, largamente incoraggiata da un laicismo ottuso e aggressivo, che spesso si manifesta nel modo in cui i media trattano le vicende che coinvolgono i cristiani.

Tra fine novembre e i primi di dicembre del 2008 due av-venimenti legati alle tensioni interreligiose hanno fatto par-lare di sé attirando l'interesse dei grandi media internazio-nali in modo assai diseguale: ci riferiamo al massacro com-piuto a Mumbai da un gruppo di mujaheddin, che hanno uc-ciso 172 persone e ne hanno ferite circa 300, e alle sommosse anticristiane verificatesi in Nigeria, dove alcuni gruppi mu-sulmani locali hanno attaccato i cristiani, uccidendone più di 300, saccheggiando i loro beni e devastando le loro chiese. Nel 2004 si erano scatenate violenze simili, che avevano la-sciato sul terreno i cadaveri di oltre 700 cristiani.

I fatti di Mumbai hanno occupato le prime pagine di quo-tidiani e telegiornali, mentre l'altro episodio è stato appena menzionato, sebbene l'ammontare delle vittime fosse assai più elevato e le distruzioni nettamente più gravi.

Questo trattamento differenziato da parte dell'informa-zione è emblematico della difficoltà di sensibilizzare l'opi-nione pubblica, persino la più accorta, riguardo alle perse-cuzioni che colpiscono i cristiani in numerose regioni del mondo.

Si usano due pesi e due misure; se qualcuno protesta, vie-ne accusato di essere a favore della censura, contro la libertà di informazione e di essere un bigotto e un baciapile.

Ho avuto occasione di sperimentare personalmente que-sto disprezzo a Parigi, nell'agosto del 1997, in occasione del-la Giornata mondiale della gioventù, che aveva riunito gio-vani giunti da ogni parte del globo.

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Prima della manifestazione la grande stampa internazio-nale aveva pressoché ignorato l'evento. Se n'erano occupati soltanto alcuni editorialisti, i quali avevano previsto che quel tentativo di «irreggimentare» e «manipolare» la gioventù si sarebbe risolto in un insuccesso. Durante la manifestazione un certo numero di giornalisti si è limitato a sottolineare i gravi disagi al traffico cittadino causati del raduno.

Nessuno si interrogava sulle motivazioni che animavano i partecipanti, né sul significato profondo di quel ritorno al religioso.

Di fronte a un giornalista che mi intervistava rivolgendo-mi domande sarcastiche sull'avvenimento, ho abbozzato una provocazione, domandandogli a mia volta quale fosse la sua reazione di fronte al pellegrinaggio islamico canonico al-la Mecca (Hajj). Il mio interlocutore mi ha guardato stupito, come se le mie parole facessero di me un emulo degli antichi inquisitori.

Ho quindi capito quanto sia difficile perorare la causa dei cristiani che soffrono nel mondo e quanto essere cristiano, agli occhi di molti, rappresenti un'intollerabile mancanza di buon gusto, per non dire tiri handicap che sarebbe meglio tentare di nascondere.

Come si può chiedere all'opinione pubblica di mobilitar-si in favore dei cristiani d'Oriente, d'Africa, del Maghreb ecc., se il cristianesimo è la sola religione sottoposta a una si-stematica denigrazione che si prefigge di snaturane lo spiri-to e il messaggio?

La Francia è forse l'unico paese occidentale in cui è buo-na norma stigmatizzare coloro che si dichiarano credenti, e di conseguenza anche le Chiese ufficiali alle quali li lega la fede.

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Questo atteggiamento è evidente ogniqualvolta è tirata in ballo la laïcité, principio legislativo che gode di un consenso quasi unanime e di cui nessuna associazione religiosa uffi-cialmente costituita chiede l'abolizione. Anche i cristiani d'Oriente si richiamano alla laicità. Inchieste e sondaggi han-no dimostrato che i cattolici francesi, praticanti compresi, erano favorevoli alla legge del 1905, la quale è ormai sul punto di diventare quasi un testo sacro, almeno a giudicare dagli strepiti che provengono da certi ambienti dell'integra-lismo laicista quando si affronta l'argomento. La legge del 1905 è probabilmente il solo documento mai votato a Palaz-zo Borbone che sia considerato scolpito nella pietra. Chiun-que osi suggerire l'idea di una sua revisione si attira l'accu-sa di minacciare le fondamenta stesse della République.

Nella loro miopia, i campioni della ragione, del libero esa-me e della critica rifiutano ostinatamente di applicare queste virtù alla propria causa. Chi commette il sacrilegio di non pensarla come loro è regolarmente denunciato come un no-vello inquisitore!

I conflitti politici sono resi ancor più aspri dal fatto che per lungo tempo hanno riguardato la religione: il castello contro il municipio, il curato contro il maestro pubblico ecc. L'adesione alla Repubblica della quasi totalità dei cristiani ha semplicemente cambiato i termini del confronto, spostan-dolo sul terreno della scuola: di qui le grandi crisi provoca-te, nel corso del XX secolo, dai progetti di riforma delle leg-gi che regolano i rapporti tra lo Stato e l'insegnamento con-fessionale. Mentre le manifestazioni del 1° maggio mostra-vano segni di logoramento, quelle a favore della scuola laica o confessionale del 1984 hanno richiamato in piazza centi-naia di migliaia di persone.

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Sembra quasi che la Repubblica sia costantemente minac-ciata dalle oscure trame dei bigotti. Provate a parlare di «lai-cità positiva» e scatenerete immediatamente una bufera dif-ficilmente comprensibile per gli osservatori stranieri, che si stupiscono nel vedere quanto facilmente noi francesi ci cro-gioliamo in vecchie questioni «fratricide».

Gli anticlericali di un tempo hanno lasciato il posto ai nuovi professionisti dell'anticristianesimo, intolleranti e irri-spettosi delle credenze di coloro che hanno la sfortuna di non pensarla come loro. La società francese continua a esse-re impregnata del tanfo di un anticlericalismo primario che si ripresenta ogniqualvolta si discute a proposito di laicità.

Se vi azzardate a far notare la cosa sarete etichettati come «baciapile», e vi sarà quasi certamente sbattuto in faccia l'af-fare delle vignette danesi sul profeta Maometto.

Peraltro, le prime vittime di quelle caricature non sono stati gli anticlericali e i laicisti d'Europa ma i cristiani del Pakistan e della Nigeria, che hanno pagato con la vita 1'«er-rore» dell'Occidente, il quale tanto per cambiare non ha mos-so un dito.

Mentre qui si parla, altrove si uccide.

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Sant'Agostino destati, sono impazziti!

Munitevi di chiodi sufficientemente grossi e rugginosi, di un martello, di corone di spine e crocifiggete tutto ciò che non si adegua al buon senso. All'attacco dei seguaci del falegname con la barba! Dagli ai fan del bue e dell'asinelio! Morte ai preti e ai pastori! In Algeria il cristianesimo non passerà! Il terrorismo, la corruzione, il nepotismo, l'incompetenza, la dittatura, le ingiu-stizie, la disoccupazione, le malattie SÌ! Il cristianesimo NO!

Questo proclama dalle intenzioni apparentemente omi-cide, dovuto all'editorialista Hakim Laàlam, è stato pubbli-cato il 2 febbraio 2008 sulle pagine del quotidiano francofo-no progressista «Le Soir d'Algérie». Esso si fa beffe del mo-do in cui il regime strumentalizza una (vera) campagna an-ticristiana per manipolare l'opinione pubblica. Con il pre-testo di stigmatizzare il proselitismo di pochi predicatori evangelici, il governo algerino sfrutta contro il cristianesi-mo gli stessi argomenti ripetuti all'infinito a proposito del colonialismo. Usando i cristiani come capri espiatori, il re-gime riesce a far passare provvedimenti legislativi che comportano una sensibile restrizione del diritto di pratica-re culti diversi dalla religione musulmana e limitano le li-bertà fondamentali.

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Questa analisi è condivisa da numerosi algerini residenti su ambo le sponde del Mediterraneo, i quali fanno regolar-mente presente ai loro governanti e legislatori di essere libe-ri, in Europa, di praticare il culto musulmano e qualunque altra religione, e si sforzano di sensibilizzare le coscienze dei loro concittadini riguardo al principio di reciprocità.

L'Algeria non ha il «privilegio» di essere l'unico paese in cui è presente la nuova cristianofobia. Da parecchi de-cenni, e in misura crescente oggi, i cristiani mediorientali, dell'Estremo Oriente e africani si obbligano o sono obbli-gati al silenzio, sono vittime di uccisioni e persecuzioni, è loro impedito di esprimersi e di praticare la propria fede; inoltre, i loro luoghi di culto e i loro cimiteri sono oggetto di profanazioni.

A proposito di profanazioni, mi sia concesso di racconta-re in questa sede una recente e dolorosa esperienza persona-le, dalla quale si può evincere che l'odio o il furto di gioielli e denti d'oro non costituiscono l'unico movente di coloro che violano le tombe. Altre motivazioni arcaiche riguardano piuttosto «le buone usanze cristiane» e ciò che alcuni po-trebbero definire una «profanazione positiva».

Stando a quanto le ricerche genealogiche hanno rivelato, le radici del ramo paterno della mia famiglia sono profonda-mente legate alla Vandea. In quella terra il mare esercitava un'attrazione irresistibile, che per secoli ha trasformato i bre-toni e i vandeani in grandi navigatori e corsari: si pensi, tra gli altri, a Jacques Cartier, Duguay-Trouin e Surcouf. Com'e-ra naturale, mio padre, nato sulla riva dell'Atlantico, si lasciò trasportare dai suoi sogni d'oceano. Dopo aver frequentato il liceo a Rochefort e l'Accademia navale, l'aspirante guardia-marina si imbarcò sulla nave scuola La Jeanne, dando inizio

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a una promettente carriera, che ebbe fine alcuni decenni do-po in Marocco.

Pochi giorni prima della proclamazione dell'indipenden-za marocchina, nel marzo del 1956, mio padre lasciava que-sto mondo e veniva sepolto a Casablanca, presso il cimitero di Ben M'Sik: un camposanto europeo, come si usa dire da quelle parti. A poca distanza dal sepolcro di mio padre si tro-vava la tomba di Marcel Cerdan. Ai miei occhi di bambino essa appariva davvero imponente: la lastra era sormontata da una scultura emblematica e sproporzionata, raffigurante il pugno di un pugile in un guanto di marmo. Ero fiero di quella promiscuità funebre.

Trascorsero molti decenni e nostra madre spirò nella re-gione di Parigi. I figli decisero allora di unire i due coniugi nella morte, come erano stati uniti in vita. La pesante in-combenza di provvedere all'esumazione e al trasferimento della salma in Francia cadde su di me; partii così per Casa-blanca per organizzare l'ultimo viaggio di mio padre.

In questo campo i marocchini fanno le cose per bene. Le autorità locali sono abituate a quei trasferimenti, effettuati su richiesta di famiglie desiderose di continuare a riunirsi in preghiera sulle tombe dei loro defunti. Nell'Africa del Nord, tali sepolcri sono spesso in condizioni di abbandono, a cau-sa della partenza della maggior parte degli europei all'indo-mani dell'indipendenza dei vari paesi.

Due rappresentanti di un'impresa di pompe funebri di Casablanca avevano incaricato del lavoro un paio becchini, che si misero all'opera - come vuole la legge - sotto l'occhio attento di un ufficiale di polizia, che vigilava puntigliosa-mente affinché la procedura si svolgesse in maniera corretta.

Si trattava di un signore garbato e istruito, che dimostra-va una certa comprensione verso la prova che stavo affron-

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tando non senza pena. Come per liberarmi dell'emozione, gli spiegai le ragioni della decisione e gli confidai quanto i miei genitori avessero amato il Marocco. L'ufficiale mi ascol-tava, visibilmente felice di poter rievocare con un ex abitan-te di Casablanca un periodo ormai concluso, caratterizzato da una coesistenza lunga e piuttosto riuscita di marocchini ed europei sul medesimo suolo, convivenza che aveva ri-guardato musulmani, cristiani ed ebrei. Tuttavia, sembrava convinto soltanto parzialmente delle mie spiegazioni, e alla fine espresse i propri dubbi: «Mi domando se, trovandomi nella sua stessa situazione, agirei come lei. Noi, musulmani marocchini, non abbiamo con i nostri morti e con le nostre tombe lo stesso rapporto degli europei. In occasione di alcu-ne feste religiose, come ad esempio i moussem, ci ritroviamo in famiglia, come voi ai Santi, per recare omaggio ai nostri defunti. Può succedere che mangiamo al sacco tra le tombe senza che ciò ci crei alcun problema. Però, arrivare addirit-tura a esumare un corpo per trasferirlo...! Mi sembra pro-prio una cosa da europei. Avevo già fatto queste riflessioni qualche anno fa, quando la famiglia Cerdan aveva preso la vostra stessa decisione, organizzando il trasporto in Francia dei resti del campione.

Pensandoci meglio, forse fate bene a traslare le spoglie di vostro padre, anche se per ragioni meno metafisiche di quel-le che vi hanno spinto. Noi, in Marocco, facciamo tutto il possibile per garantire l'integrità dei cimiteri, eppure, con mia grande vergogna, devo confessare che le profanazioni ai danni dei luoghi sacri cristiani sono in aumento».

Questa notizia mi lasciò in qualche modo sorpreso: mi sforzavo di credere che tutti i morti, ebrei, cristiani o musul-mani, riposassero in pace in quel paese. Il camposanto sem-brava curato perfettamente: aveva un impressionante can-

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cello di metallo ed era sorvegliato da un guardiano residen-te sul posto; nulla faceva pensare a uno spazio abbandonato.

Mi erano giunte voci e avevo letto articoli su questo pro-blema, tipico di tutta l'Africa del Nord e particolarmente grave in Algeria. Di fronte allo stato di degrado in cui versa-vano numerosi cimiteri ebraici e cristiani, le autorità france-si e algerine avevano deciso di raggrupparli in un certo nu-mero di necropoli - a Orano, Algeri, Costantina o Annaba - , incoraggiando le famiglie a provvedere al rimpatrio in Euro-pa delle salme dei loro defunti. Il vandalismo che colpisce le tombe cristiane in Africa settentrionale sembra essere legato alla piccola delinquenza, al disagio di giovani disoccupati che si riuniscono clandestinamente in quei cimiteri per ab-bandonarsi al consumo di alcol e di stupefacenti.

Sembrava che l'ufficiale mi fosse grato di aver deliberata-mente evitato di accennare a quegli episodi e di aver fatto ri-corso a una certa nostalgia romantica per giustificare il rim-patrio dei resti di mio padre; avendo dunque preso un po' di confidenza, chiarì il proprio pensiero: «Viviamo in tempi strani: i ciarlatani proliferano e sfruttano la credulità della gente. Si figuri che, in alcune cittadine dell'interno, certi ma-rabutti, o piuttosto individui che si proclamano tali, non esi-tano a violare le tombe cristiane allo scopo di preparare, con le ossa dei morti, amuleti, filtri, tisane e altre pozioni. Dopo la seconda guerra mondiale, i francesi, gli italiani e altri han-no conosciuto il sogno americano. Oggi molti, nell'Africa settentrionale e in quella subsahariana, stanno vivendo il so-gno europeo. Ma chi ne approfitta sono soltanto i "passato-ri" (coloro che guidano i clandestini oltrefrontiera) e i mara-butti che assicurano a chi possiede i loro portafortuna o be-ve i loro intrugli magici la certezza di ottenere un visto vali-do per i paesi di Schengen o addirittura di diventare ricchi in

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Occidente. Si tratta di un fenomeno che sta assumendo pro-porzioni inquietanti».

Con le sue parole il poliziotto confermava le profanazioni causate dalla stregoneria e dall'uso di feticci e pozioni, di cui l'islam marocchino è profondamente impregnato. In Maroc-co, infatti, spesso si fa ricorso ai servizi dei fattucchieri per scacciare il «malocchio», o si invocano i temibili jinn, capaci, secondo la credenza popolare, di impadronirsi delle anime umane. La polizia marocchina riesce talvolta ad arrestare i profanatori di tombe, ma nemmeno il fallimento dei por-tafortuna frena la disperazione degli ingenui. L'esistenza di tali fatti mi è stata confermata da altri funzionari dell'ammi-nistrazione marocchina e dalle autorità consolari francesi.

In un primo tempo ho pensato che simili comportamenti fossero il risultato del recente afflusso in Marocco di immi-grati subsahariani che tentano di raggiungere per via di ter-ra le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, oppure provano a imbarcarsi su zattere dirette verso le Canarie. Questi clande-stini hanno riempito le baraccopoli che circondano le grandi città del Marocco. Si potrebbe a ragione ipotizzare che ab-biano portato con sé un certo numero di usanze, compreso il ricorso a feticci e a filtri magici per ottenere un visto Schen-gen, che sta diventando una sorta di santo Graal per tutti i diseredati del Terzo Mondo.

Eppure, l'ufficiale marocchino non aveva tirato in ballo quegli emigrati, che costituivano un capro espiatorio ideale facilmente accusabile di attentare alla buona reputazione del paese. Perché quelle pratiche non sono un «prodotto di im-portazione». Tra l'altro, un ex giornalista della stampa pana-fricana mi ha detto di non aver mai sentito parlare dell'esi-stenza, nell'Africa subsahariana, di «pozioni per visti d'en-trata» preparate triturando ossa di cristiani. Cristiani euro-

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pei, naturalmente, perché l'efficacia di simili intrugli dipen-de interamente dall'essere fabbricati usando defunti cristia-ni bianchi provenienti dal Vecchio Continente che si vuol raggiungere. L'ingestione di tali resti rappresenterebbe, at-traverso una singolare trasmigrazione delle anime, il mezzo per ritornare verso la tanto agognata Europa.

Si tratta di una forma di cannibalismo rituale praticato nel tentativo di appropriarsi simbolicamente della forza e delle qualità delle persone consumate. La pozione trasmetterebbe a chi l'assorbe lo ius sanguinis, che accorda ai figli la nazio-nalità dei loro genitori, diritto di cui beneficiano gli europei.

Il fatto che tali pratiche siano ignorate nell'Africa sub-sahariana è probabilmente legato alla presenza in quella re-gione di consistenti minoranze cristiane. In quei paesi si può constatare con mano che la religione non garantisce niente e che un cristiano di etnia burkinabé ha le stesse (scarse) pro-babilità di ottenere un visto di un suo concittadino animista o musulmano.

In Marocco, come in tutta l'Africa del Nord, la profonda identificazione dei cristiani con gli europei incoraggia quel tipo di pratiche, che non si limitano all'ingestione di «be-vande per visti d'entrata». L'ondata di proselitismo evange-lico che attualmente sta investendo il Marocco e l'Algeria è direttamente legata alla questione dell'emigrazione: i predi-catori fanno spesso balenare ai candidati alla conversione la possibilità di ottenere lo status di rifugiato politico nel paese d'accoglienza, tacendo sui rischi che si corrono localmente quando si cambia religione.

La conferma dell'esistenza delle profanazioni mi sconvolse. La prudenza mi suggerì, tornato in Francia, di evitare di

manifestare la mia indignazione. Non è politicamente cor-retto evocare l'onnipresenza del soprannaturale e della ma-

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già nelle società africane; se poi tale questione si mescola con quella dell'immigrazione clandestina, si rischia di essere ac-cusati di lesa maestà e di attentato ai diritti umani. Si prefe-risce denunciare - spesso peraltro giustamente - l'intransi-genza delle autorità europee piuttosto che puntare il dito sul ruolo delle mafie e di altri trafficanti di esseri umani in que-sta nuova tratta degli schiavi.

Al ritorno dal Marocco provai a «sondare» blandamente il mio giro di conoscenze, ma le reazioni ottenute dimostra-rono che i miei timori erano giustificati. Nel migliore dei ca-si mi veniva opposto un educato scetticismo, nel peggiore un secco rifiuto di ascoltare. Ho potuto toccare con mano in nu-merose occasioni questa politica degli occhi chiusi.

Ho a lungo esitato prima di cominciare la stesura del pre-sente libro. Nel corso dei miei viaggi di studio, dall'Africa al-l'Asia, durante i quali mi esercitavo nel dialogo tra le cultu-re e le civiltà, ho raccolto anche una vasta documentazione che comprende un gran numero di interviste e colloqui pa-zientemente trascritti. Molti fra i miei interlocutori, alcuni dei quali ricoprivano alte cariche politiche o religiose, hanno accettato di incontrarmi a condizione che fosse loro garanti-to l'anonimato, persino quando le interviste avvenivano in territorio francese.

Inoltre, il mio urgente bisogno di scrivere sull'argomento urtava contro la mia personale reticenza: un muro tanto più alto in quanto l'avevo costruito con gran cura, facendo at-tenzione a non restare mai a corto di mattoni.

Con quale diritto avrei parlato della sofferenza cristiana, dei martiri cristiani, quando altre sofferenze dovrebbero ri-chiedere maggiormente la nostra attenzione? Non correvo forse il rischio di lasciarmi trascinare nella «concorrenza tra

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vittime» che tanti danni sta facendo? E non rischiavo, altre-sì, di incitare all'odio? «Occhio per occhio, dente per dente e il mondo diventerà cieco» soleva dire Gandhi, il cui pensie-ro accompagna le mie riflessioni fin dall'adolescenza. Tutta-via, troppi esempi, ammissioni, confessioni e miserie hanno avuto ragione delle mie esitazioni.

Mi sono dunque imposto di testimoniare, attenendomi a un criterio di completa oggettività, osservando criticamente un passato di cui stiamo raccogliendo i frutti perversi.

Eppure, il mio desiderio di portare testimonianza non correva il rischio di essere interpretato come un modo insi-dioso di relativizzare le tragedie di cui la Chiesa è pesante-mente responsabile? Ero convinto che i miei amici ebrei e musulmani mi avrebbero assillato ponendomi di fronte a ta-li e tanti dubbi e domande. Avendoli frequentati assidua-mente (e avendo spesso militato al loro fianco) so bene che gli ebrei insistono sul carattere inesplicabile e sulla singola-rità della Shoah. È vero: non si può dimenticare che la Chie-sa si è resa colpevole di aver taciuto riguardo all'«insegna-mento del disprezzo» brillantemente descritto dallo storico Jules Isaac (1877-1963), che perdette la moglie e la figlia ad Auschwitz.

50 anche che i miei amici musulmani, in Medio Oriente, ricordano, come se i fatti si fossero svolti ieri, i massacri che contrassegnarono l'irruzione dei crociati nella regione. Nel 1099 le strade di Gerusalemme/al-Quds erano inondate del sangue dei suoi abitanti ebrei e musulmani, sterminati da fe-roci guerrieri che brandivano la Croce, la spada o l'ascia.

51 trattava di una sorta di compendio del lungo fronteg-giarsi di islam e cristianesimo, dall'Andalusia al Maghreb (letteralmente «ovest», riferito all'insieme dei paesi dell'A-frica del Nord), dal Mashriq («luogo ove sorge il sole», rife-

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rito alla totalità dei paesi dell'Oriente arabo, inclusi Israele e l'Autorità palestinese) all'Indonesia. In quelle regioni i cri-stiani usarono la forza bruta più della persuasione e la tiran-nide più della mitezza evangelica. Di conseguenza, i musul-mani hanno spesso assimilato i cristiani ai colonizzatori o agli imperialisti.

Sia gli ebrei sia i musulmani, per ragioni comprensibili, ri-vendicano l'anteriorità o la specificità della tragedia che li ha colpiti. Alcune recenti polemiche hanno permesso di consta-tare fin dove possa spingersi questa corsa a ostacoli politico-storico-isterico-emotiva. La concorrenza tra vittime ha sol-tanto l'effetto di portare a inutili scontri tra i discendenti di chi ha sofferto, e non serve affatto ad alleviare il dolore del ricordo.

La rivalità nella gara per assicurarsi la palma del marti-re e il disgusto all'idea di diventare parte integrante di tale competizione hanno ritardato la redazione del presente li-bro. Tuttavia, il riconoscimento della sofferenza dell'altro non deve avvenire al prezzo della negazione di un'altra sofferenza.

Mi sono pertanto ritenuto autorizzato a parlare delle per-secuzioni e dei massacri dei quali i cristiani in quanto tali so-no vittime nel mondo. Vi sono vari gradi d'orrore, ma non esistono vittime buone o cattive, vittime di cui si deve parla-re e altre di cui conviene tacere.

Christian de Chergé, priore del monastero di Tibhirine, in Algeria, ha detto: «Se tacciamo, le pietre del wed [«fiu-me», N.d.T.], le pietre ancora madide del loro sangue sel-vaggiamente versato urleranno ogni notte». Si sa cosa ne è stato delle parole di quei monaci. Dopo Charles de Fou-cauld dopo molti altri nel mondo, nel maggio del 1996 i sette monaci trappisti di Nostra Signora dell'Atlante, a

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Tibhirine, sono stati assassinati, proprio come monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano, il 1° agosto dello stesso anno. Erano tutti fervidi sostenitori del dialogo tra islam e cristianesimo. La morte di quegli uomini di fede (50 citta-dini francesi, 19 dei quali cristiani, sono periti nella patria di sant'Agostino durante gli interminabili «anni di san-gue» algerini) aveva suscitato un'emozione e un'indigna-zione che superavano le divergenze politiche e univano in un unico dolore ebrei, cristiani e musulmani, agnostici e atei. Quei religiosi cristiani erano stati uccisi insieme a imam moderati e a numerosi credenti musulmani che rifiu-tavano di ridurre l'islam alla visione caricaturale propria degli integralisti.

Occorre farla finita con la macabra aritmetica che preten-de di organizzare una sorta di spareggio tra i credenti, chie-dendo loro di presentare liste di martiri e di certificare, se-condo criteri fluttuanti, le persecuzioni di cui sono o sono stati fatti oggetto.

Ricordiamo, in ogni caso, senza avere la presunzione di fornire in questo libro un elenco completo, che negli ultimi decenni il sangue cristiano in quanto tale è colato, a volte co-piosamente, in Estremo e in Medio Oriente, in Africa e in America.

I cristiani non devono nascondere le proprie sofferenze, anche se provano una sorta di ritegno nel parlarne e nell'in-terrogarsi sul significato che deve essere loro attribuito.

Ricordare le persecuzioni che affliggono i cristiani nel mondo significa anche difendere i musulmani sciiti dell'Iraq, dell'Arabia Saudita o dell'Afghanistan, gli ebrei della dia-spora... Quando un gruppo è perseguitato, è il segnale che altri, presto o tardi, potranno esserlo a loro volta.

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Tacere le sofferenze del presente non è il miglior modo per coltivare la memoria di quelle del passato: significa anzi banalizzarle, mentre dovrebbero indurre l'intera umanità a interrogarsi.

11858-1916, religioso francese, esploratore e linguista, perse la vita a Ta-manrasset, nel deserto del Sahara, durante l'assalto all'eremo da lui co-struito [N.d.T.].

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CRISTIANOFOBIA

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Fatawa alle nostre porte

Nel Maghreb i templi cristiani ricordano vascelli scagliati a riva dalle tempeste della Storia. Sono relitti di Titanic in un'Africa cristiana che pure ebbe il suo momento di gloria. Abbandonate dai passeggeri, queste navi di un tempo anda-to hanno incontrato destini diversi.

Alcune, come la cattedrale di Cartagine, sono diventate musei. Altre, come Nostra Signora d'Africa ad Algeri o San-ta Cruz a Orano, servono ancora oggi al culto cattolico; per-mane attiva anche la monumentale cattedrale di Ippona (og-gi Annaba), il cui seggio episcopale fu occupato un tempo da uno dei Padri della Chiesa, sant'Agostino. Egli era figlio di un colono romano e di una donna berbera che divenne san-ta Monica; preferì alla propria passione per i ludi circensi e i filosofi pagani l'ardente fede di sua madre, che lo condusse sulla via del Signore.

A Casablanca il parroco della chiesa di Notre-Dame offi-cia ancora il rito come il sacerdote che in anni lontani celebrò la mia prima comunione. Quanto all'ex Sacro Cuore, si erge bianco e luminoso nei giardini del parco Lyautey (oggi par-co della Lega Araba), dove troneggia come un cenotafio vuo-to, senza passato né memoria; viene talvolta usato come sa-lone per le esposizioni.

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Abbiamo elencato alcune delle tracce più caratteristiche del passato cristiano nel Maghreb, alle quali è opportuno ag-giungere i cimiteri europei di Agadir a Tunisi e i monasteri come quello, abbandonato, di Tibhirine, in Algeria, la cui eredità è stata raccolta da quello di Nostra Signora dell'A-tlante, a Midelt, nell'Alto Atlante marocchino. Anche nell'e-stremo sud dell'Algeria, ad Assekrem, nel paesaggio lunare del deserto dell'Ahaggar, sorge una specie di Monte delle Beatitudini. Nell'eremo di Charles de Foucauld alcuni Picco-li Fratelli di Gesù perpetuano il suo ricordo: egli fu infatti as-sassinato poco lontano, a Tamanrasset, nel 1916, da un mem-bro della confraternita dei Senussi.

Di fronte a questo plurisecolare passato cristiano i paesi che formano l'attuale Africa settentrionale hanno in comune regole immutabili, alcune delle quali originano nel Corano stesso. Per esempio, un musulmano non può sposare un non musulmano a meno che questi non si converta all'islam; la moglie di musulmano, se resta cristiana, perde ogni diritto all'eredità del marito e la custodia dei figli in caso di separa-zione o di vedovanza. La vendita di bibbie in lingua araba è proibita. Tuttavia, sotto altri aspetti quei paesi si comporta-no in modi assai diversi tra loro. La maniera in cui trattano il periodo preislamico della loro storia è un valido criterio di comprensione del loro atteggiamento nei confronti della componente cristiana.

In Tunisia, sotto la presidenza di Habib Bourguiba (1956-1987), era di moda insistere sulle radici fenicio-puniche di Cartagine. Il «Combattente Supremo» vedeva in questo ri-chiamo storico un modo di criticare l'islam, ai suoi occhi re-trogrado e fanatico, e di insistere sul multiculturalismo, ce-mento della società tunisina. È vero che Amilcare e Anniba-

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le erano preferiti alle sante Perpetua e Felicita, figure di pri-mo piano del martirologio cristiano locale. Tuttavia, la pre-senza cristiana nel passato del paese era data per scontata.

In Marocco l'argomento è stato a lungo, ed è ancora, un tabù. Le rovine di Volubilis, presso Meknes, dimostrano che la presenza romana nella regione fu tutt'altro che trascurabi-le e che le popolazioni locali godettero i benefici della pax ro-mana. Ciononostante, il periodo anteriore alla conquista mu-sulmana non è quasi trattato nei manuali per le scuole pri-marie e secondarie. La storia che vale la pena di essere rac-contata comincia con l'arrivo dei cavalieri dell'islam nel VII secolo. Dei tre paesi del Maghreb, il Marocco è forse quello che valorizza maggiormente la lunga presenza ebraica e in-siste sull'immagine dell'Andalusia vista come culla delle tre religioni.

Anche in Algeria il periodo preislamico è passato sotto si-lenzio. Va detto che la storia algerina è stata scritta in stretta aderenza alle rigide norme stabilite dall'ex partito unico, il FLN (Fronte di Liberazione Nazionale): per esempio, agli studenti di quel paese si insegna che soltanto il movimento nazionalista ha lottato contro gli occupanti francesi. Il MNA (Mouvement National Algérien - Movimento Nazionale Al-gerino, avversario del FLN) di Messali Hadj o l'Unione del Manifesto di Ferhat Abbas non sono nemmeno nominati. La storia ufficiale algerina è monolitica e non sopporta che ven-gano discussi fatti in contraddizione con il mito dell'unità nazionale, meno che mai i fondamenti religiosi su cui poggia l'Algeria. Il paese è stato, è e sarà sempre musulmano, esclu-sivamente musulmano: il passato cristiano è cancellato. Si è dovuta attendere la metà degli anni '90 perché il regime al-gerino, desideroso di conquistarsi le simpatie della comunità internazionale, si decidesse a organizzare qualche manife-

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stazione, strettamente controllata, per celebrare l'«algeri-nità» di sant'Agostino e di sua madre.

Nell'aprile 2001 - in un periodo già troppo lontano da noi - assistetti al Colloque International saint Augustin, che si svolse simultaneamente ad Annaba e ad Algeri. Rammento le dichiarazioni calorose del ministro che faceva gli onori di casa, il quale ci accolse con queste parole: «Noi, i figli di sant'Agostino, vi diamo il benvenuto». Il presidente Boute-flika in persona rivendicò la filiazione con il teologo e filo-sofo di Ippona: «Sant'Agostino appartiene all'albero genea-logico degli algerini», disse orgogliosamente.

Da allora molte cose sono cambiate. Il nuovo atteggia-mento culturale non ha fatto scuola, almeno tra le file dei funzionari governativi, dove i notabili dell'ex partito unico diffidano di qualunque memoria capace di mettere in di-scussione l'identità arabo-musulmana della nazione.

Non si può che disapprovare tale riscrittura della Storia, tuttavia essa si ispira a una realtà incontestabile: nel Magh-reb l'ebraismo e il cristianesimo anteriori all'islam non furo-no forti come in Medio Oriente, luogo di nascita delle due prime religioni monoteiste. Fino al XIX secolo gli ebrei erano presenti nella regione in numero assai ridotto e soltanto in qualche città, dove erano spesso concentrati in quartieri ap-positi (chiamati mellah in Marocco e hara in Tunisia). Salvo poche eccezioni, non svolgevano alcun ruolo in campo so-ciale o intellettuale. Vivevano ai margini della società, ac-contentandosi di essere appena tollerati.

Quanto ai cristiani, se si escludono gli ambasciatori delle potenze europee e qualche mercante che godeva di un trat-tamento di favore, erano rappresentati soltanto dai prigio-nieri, rapiti dai corsari barbareschi durante le loro razzie e rinchiusi nei bagni penali di Algeri, Rabat o Tunisi. I più for-

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tunati tra loro potevano sperare di essere riscattati dalle fa-miglie o dai religiosi; gli altri erano impiegati come mano-dopera servile, a meno che non accettassero di convertirsi al-l'islam, nel qual caso andavano a ingrossare le file dei corsa-ri o dei giannizzeri.

A differenza di quanto avvenne in Medio Oriente, i cri-stiani del Maghreb sopravvissero con difficoltà alla conqui-sta musulmana. Molti di loro si rifugiarono in Gallia o in Italia o si convertirono alla religione dei vincitori per sfug-gire alle pesanti imposte a carico dei dhimmi, gli stranieri non musulmani «protetti». Dunque, verso la metà dell'VIII secolo, nell'Africa settentrionale romana, ormai trasforma-tasi nell'araba Ifrlqiya, esisteva solo più un residuo di cri-stianesimo.

I magrebini musulmani più aperti e laici provano un sen-timento di incredulità quando si accorgono che tra i prota-gonisti della rinascita nazionale araba ci sono intellettuali egiziani copti o libanesi maroniti. Lo stesso stupore li coglie quando incontrano i caldei dell'Iraq o della Siria: per i ma-grebini, i quali ignorano il periodo storico che ha preceduto l'avvento dell'islam, essere contemporaneamente arabi e cri-stiani è impossibile. Nel Maghreb il cristiano è un rumi, un romano. Questo termine è tornato in auge nel XIX secolo, nel quadro della colonizzazione e dell'espansione europea oltre-mare. Dal punto di vista delle popolazioni locali il rumi è un conquistatore, un intruso, un invasore del tutto estraneo al-l'Africa settentrionale, di cui viola l'anima e l'identità.

Questo riassunto storico-religioso, volutamente breve, ci permette di inquadrare lo sfondo regionale delle odierne po-lemiche, che a volte possono sembrare persino caricaturali. In seguito alla decolonizzazione, in Africa del Nord vi sono ormai soltanto piccolissimi gruppi di cristiani, eppure, stan-

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do a quanto sostengono certi articoli di giornale, potremmo credere che il Maghreb sia minacciato da un'ondata di pro-selitismo senza precedenti.

Alcune recenti dichiarazioni sono caratterizzate da toni talmente oltranzisti che la stampa algerina, piuttosto incli-ne alla satira, ne fa la parodia, usando toni appena più esa-gerati rispetto agli originali. Cito qui nuovamente l'articolo di Hakim Laàlam (apparso su «Soir d'Algérie»), di cui ho già riportato uno stralcio nelle prime pagine del presente volume:

Guarda bene dappertutto. Controlla sotto il letto. Scuoti energi-camente lenzuola e guanciali. Tira le tende delle finestre. Passa una mano sotto la tovaglia della cucina. Agita i tappeti del ba-gno. Solleva i mobili, la poltrona e tua suocera ivi sprofondata dal giorno delle tue nozze. Non lasciare nulla al caso. Poiché LORO possono essere ovunque. Non prendere la minaccia alla leggera. Dopo la peste che nel Medioevo si è portata via un quarto della popolazione mondiale, dopo l'influenza spagnola che non ha decimato solo gli spagnoli, questo è il flagello più pericoloso. Il più MORTALE! Il cristianesimo è tra noi. I crocia-ti ci hanno invasi!

Bisogna essere prudenti nel giudicare le voci che si rin-corrono in Algeria e in Marocco. Vale la pena precisare che non esiste una cospirazione organizzata contro l'islam da parte di un cristianesimo desideroso di evangelizzare mas-sicciamente i musulmani. Simili speculazioni sono il prodot-to di una mentalità complottista, tipica di numerose società. È comunque vero che la denuncia del proselitismo cristiano, in Algeria e, in misura minore, in Marocco, è funzionale a una campagna che punta a rimettere in discussione la legit-

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timità della presenza cristiana e a giustificare l'emissione di fatawa o la promulgazione di leggi che limitano la libertà di culto e l'attività delle Chiese coinvolte.

La sordina dell'Atlante

In Marocco l'islam non è sempre stato tollerante come og-gi. Al tempo dell'impero degli sceriffi, ai cristiani era proibi-to soggiornare nel paese; soltanto alcuni mercanti erano au-torizzati a stabilirsi negli empori costieri di Azamor, Moga-dor o Tangeri, dai quali non potevano allontanarsi. Il divieto fu reso più rigido quando, a partire dal 1830, i francesi co-minciarono a insediarsi in Algeria. Nel tentativo di arginare la penetrazione europea, il Vecchio Marocco si barricò nel proprio territorio, intorno al quale eresse un vero e proprio cordone sanitario. Guai a colui che infrangeva la legge! Ri-schiava la pena di morte.

Tra il 1883 e il 1884, allo scopo di concludere la propria missione di studio in Marocco, Charles de Foucauld fu co-stretto a travestirsi da rabbino e a viaggiare in compagnia di un rabbino vero, Mardocheo. Fu un azzardo da parte del fu-turo eremita dell'Ahaggar, ma era l'unico modo per com-pletare il proprio lavoro di ricognizione nell'impero degli sceriffi.

L'instaurazione dei protettorati francese e spagnolo (1912) fornì una base legale al ritorno, già ampiamente in at-to, degli europei. Essi erano percepiti dai marocchini prima di tutto come cristiani, quasi tutti cattolici: l'edificazione dei principali luoghi di culto cristiani risale a quest'epoca.

L'indipendenza, conseguita nel 1956, e la successiva con-fisca dei terreni agricoli (nei primi anni '70) provocò il mas-

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siccio esodo degli europei e, di conseguenza, una netta ridu-zione del numero dei cristiani, i quali godevano di completa libertà di culto, anche se le manifestazioni esteriori della lo-ro fede erano autorizzate soltanto più in rare occasioni. Ram-mento la processione annuale legata al culto di Nostra Signo-ra di Trapani, celebrata dalla comunità italiana (siciliana) an-cora per qualche anno dopo l'indipendenza. L'evento attira-va anche altri europei, e a volte persino alcuni marocchini musulmani. All'inizio degli anni '60, nelle grandi città, a Na-tale, abeti decorati erano posti sui marciapiedi delle vie prin-cipali: si trattava di una tradizione ereditata dal periodo del protettorato. Tuttavia, la celebrazione del Natale era divenu-ta più che altro un rituale pagano: riguardava, infatti, soprat-tutto i bambini, europei cristiani o marocchini musulmani, questi ultimi interessati assai più ai doni che alla Natività.

Nel 1968 si verificò un evento che minò la larga accetta-zione della presenza cristiana in Marocco. Nel 1952 era stato edificato un monastero benedettino nel cuore del paese ber-bero, in un villaggio dell'Atlante, Toumliline, sito a poca di-stanza da Azrou, nel mezzo di una foresta di querce verdi. Io, da bimbo qual ero, vi trascorrevo le estati, ospite di una colonia per le vacanze gestita dalla Croce Rossa francese. La popolazione del villaggio, costituita da berberi e dai monaci del monastero, era numericamente assai inferiore agli unici esseri che abitavano nelle vicinanze: le scimmie.

Quel piccolo borgo era diventato un importante luogo di incontri culturali e interreligiosi, organizzati dalla comunità benedettina negli anni '50 e '60. Ai giovani collegiali di Az-rou erano offerti dibattiti, conferenze e libri della ricca bi-blioteca proveniente dalla Francia. Talvolta erano organizza-ti colloqui ai quali partecipavano ebrei, cristiani e musulma-

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ni. Capitò addirittura che il principe ereditario, il futuro Hassan II, assistesse ad alcuni di quegli incontri. Gli ulema, i dottori della Legge islamica e i nazionalisti dello Hizb al-Isti-qlal (Partito dell'indipendenza) non gradirono: essi disap-provarono la promiscuità religiosa di un futuro Comandan-te dei Credenti con i benedettini, i quali furono sospettati di far opera di proselitismo nei confronti delle popolazioni berbere della regione e vennero pertanto invitati a lasciare l'Atlante.

All'epoca della neonata indipendenza, i berberi si mo-stravano ancora suscettibili a proposito dell'affermazione della propria identità, e alcuni gruppi di ex sostenitori del pascià El-Glaoui, capo della tribù berbera dei Glaoua di Mar-rakech, coltivavano sogni di autonomia. I monaci francesi furono allora pregati di trasferirsi in una zona urbana, il che equivaleva a esigere da loro - fedeli alla regola del ritiro si-lenzioso imposta da san Benedetto - il definitivo abbandono del paese. Così cessò ogni presenza monastica in Marocco.

Dopo l'indipendenza del 1956 essere musulmano o ebreo di nazionalità marocchina implicava una totale fedeltà alla persona del sovrano. Quanto ai cristiani stranieri, erano li-beri di praticare la propria religione. Hassan II, fervido so-stenitore della riconciliazione dei figli di Abramo, ovvero delle tre religioni monoteiste, assunse iniziative spettacolari. Operò in favore del riavvicinamento tra israeliani e palesti-nesi e, nel 1986, accolse nel suo palazzo di Ifrane, città del Medio Atlante, il primo ministro israeliano Shimon Peres. Inoltre, favorì il ritorno come turisti di molti ebrei israeliani di origine marocchina e ricevette più di una volta il Rabbino Capo del Marocco e il suo omologo israeliano.

Nel 1985 Hassan II invitò altresì papa Giovanni Paolo II a incontrare i giovani marocchini nel grande stadio di Casa-

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bianca, che non riuscì a contenere le decine di migliaia di persone (in gran parte musulmane) giunte per avvicinarsi al Santo Padre e per applaudirlo. Quello storico evento, di cui molti conservano un ricordo commosso, mostrò il viso tolle-rante del Marocco. In compenso, l'invito scatenò numerose reazioni negative in Oriente e in particolar modo in Iran, do-ve l'ayatollah Khomeym annunciò il ritiro del titolo di Co-mandante dei Credenti a re Hassan II.

Nello spirito di apertura della visita papale, monsignor Hubert Michon, allora arcivescovo di Rabat, si ricordò del vuoto monastico lasciato dalla partenza dei benedettini di Toumliline nel 1968. Dopo essersi consultato con le più alte cariche del paese invitò Christian de Chergé, priore dei trappisti di Tibhirine (una comunità stanziata in Algeria dal 1843), a fondare una confraternita in Marocco. Essa fu inaugurata nel 1989, paradossalmente proprio a Fez, capi-tale religiosa del regno degli sceriffi. Ufficialmente per ra-gioni di spazio, nel 2000 i trappisti si trasferirono a Midelt, città situata alla congiunzione del Medio e dell'Alto Atlan-te marocchini.

Due dei monaci sopravvissuti al dramma di Tibhirine, frate Amédée e frate Jean-Pierre, vi trascorsero il resto della loro vita, nella fede e nel ritiro. Questa comunità costituisce l'unico monastero maschile di tutta l'Africa settentrionale1.

Altri tempi, altre abitudini. Nessuno aveva mai sentito parlare, in Marocco, di intrighi cristiani per far proseliti ai danni dei musulmani, almeno fino al 2006, quando un evan-gelico tedesco di origine egiziana è stato processato per aver tentato di convertire alcuni giovani ai quali aveva offerto li-bri e CD sulla storia del cristianesimo. Il procedimento si è concluso con una condanna a sei mesi di prigione. L'attuale

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legge marocchina, infatti, punisce con una pena che va dai tre mesi ai tre anni di carcere, ai quali si aggiunge una mul-ta dai 100 ai 500 dirham, chiunque tenti di distrarre un mu-sulmano dalla sua fede o di convertirlo a un'altra religione.

Il 31 marzo 2008, a Zagora, nel grande Sud marocchino, due turisti francesi sono stati arrestati e imprigionati in atte-sa del processo: erano stati trovati in possesso di libri, CD e DVD sul cristianesimo.

La stampa marocchina ha dato ampio spazio a entrambi gli episodi, i quali parevano confermare le voci che ormai da molti anni circolavano a proposito di un'azione su vasta sca-la - anzi di una vera offensiva - da parte del cristianesimo evangelico in Marocco. Sono state indicate cifre del tutto fan-tasiose: si è parlato di 800 missionari schierati nel paese da varie denominazioni cristiane americane, nonché di 7000 convertiti alle Chiese evangeliche, 3500 dei quali nel solo an-no 2007.

Il clima antiamericano che regna in Marocco dallo scop-pio della seconda guerra del Golfo (2003) non è estraneo al-la confusione che si è prodotta tra proselitismo cristiano e so-stegno alla politica estera di George W. Bush.

Tuttavia, all'origine delle accuse di proselitismo si situano altri fenomeni: il primo è l'arrivo in Marocco di numerosi immigrati dall'Africa subsahariana, che tentano di raggiun-gere l'Eldorado europeo; il secondo è costituito dallo stan-ziamento massiccio di pensionati francesi ed europei, attira-ti dal basso costo della vita e dai prezzi modici degli immo-bili, specialmente nelle città della costa atlantica. In Marocco sono ormai decine di migliaia e, in alcune città, stanno ri-creando i gueliz, i bei quartieri europei di un tempo.

Gli ambienti fondamentalisti musulmani hanno ampia-mente sfruttato l'arrivo di quegli «infedeli» per mettere in

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guardia i «buoni credenti» contro un'eventuale «riconquista cristiana» del paese. La tensione è particolarmente forte nel-le bidonville delle grandi metropoli marocchine, dove gli im-migrati subsahariani vivono a contatto con i marocchini più poveri; inoltre, gli imprenditori locali li preferiscono, come manodopera, ai marocchini. In un paese in cui il tasso di di-soccupazione, specialmente tra i giovani, è molto alto, le ri-valità sul mercato del lavoro sfociano spesso in tensioni, che vengono attribuite a differenze religiose.

Quanto agli abitanti originari delle regioni rurali, le più povere del paese, prima d'ora non erano mai venuti a con-tatto con non musulmani. Una volta trasferitisi nelle grandi città incontrano gli immigrati subsahariani, che non pratica-no la stessa religione e con i quali devono condividere la mi-seria. Le differenze di costumi provocano malintesi, soprat-tutto nel periodo del ramadan, epoca che si presta all'esalta-zione delle passioni religiose. Gli uni mangiano, gli altri no.

Gli strati più poveri della popolazione marocchina risco-prono così l'esistenza dei cristiani e vivono accanto a loro, in un clima che non favorisce per niente una coesistenza paci-fica. Gli immigrati sono tre volte stranieri: a causa della loro nazionalità, della loro origine subsahariana e, soprattutto, della loro religione.

Diverso è il problema dei pensionati europei venuti a tra-scorrere la vecchiaia in Marocco. Nella maggior parte dei ca-si sono poco praticanti e il loro arrivo non ha determinato la rinascita delle parrocchie esistenti. Tuttavia, la loro presenza in certe località crea tensioni socioeconomiche che, quando gli islamici soffiano sul fuoco, assumono contorni religiosi. I pensionati hanno comprato in massa immobili ai cui prece-denti inquilini non è stato rinnovato il contratto (molto con-veniente) d'affitto; lo stesso dicasi degli appartamenti che la

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classe media marocchina poteva un tempo permettersi. Per comprarli, i marocchini si indebitavano pesantemente; oggi però, tenendo conto dell'aumento dei prezzi al metro qua-dro, tali acquisti sono fuori della loro portata. Ce n'è a suffi-cienza per ravvivare rancori latenti e per accreditare l'idea che quelle migrazioni siano il volto sorridente di una recon-quista sotto mentite spoglie.

Nel periodo del protettorato la coesistenza di diverse co-munità religiose si accompagnava alla condivisione dei riti festivi. I musulmani offrivano ai loro vicini cristiani o ebrei i dolci del ramadan e li invitavano a mangiare il méchoui2 alla festa dell'interruzione del digiuno. Allo stesso modo, a Na-tale le famiglie cristiane offrivano regali ai bambini musul-mani. Si mangiavano insieme la mona di Pasqua3 e la «torta del Re»4. Quella condivisione, che io ho vissuto da bambino, non esiste più: la sua scomparsa induce alcuni marocchini a interrogarsi sugli europei scristianizzati, la cui ricchezza rap-presenta un promemoria intollerabile della grande frattura esistente non più tra due religioni, ma tra il Sud e il Nord del mondo. Gli integralisti strumentalizzano abbondantemente questa situazione.

Dal momento che avviene in un clima sociale ed econo-mico particolarmente tetro, il seppur limitato «grande ritor-no» dei cristiani in Marocco è particolarmente urtante per una società in cui lo scarto tra ricchezza e povertà è assai for-te. Ci sono tutte le condizioni perché vari gruppi tentino di sfruttare i rancori e il malcontento dando loro una connota-zione ideologica o religiosa.

Ma allora, i timori di cui spesso parla la stampa sono so-lo fantasie? Certamente no. Indubbiamente è vero che il pro-selitismo avviene prima di tutto sul campo, a opera di mis-

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sionari che agiscono dietro il paravento di associazioni uma-nitarie, ma non si deve sottovalutare il ruolo più o meno di-screto e diretto, purtuttavia essenziale, della radio e di inter-net, la cui importanza è cresciuta negli ultimi anni.

Come prova di quanto dico valga il racconto di una mia personale esperienza: durante un viaggio in Marocco avevo deciso di far visita ad alcune suore francescane che operano da decenni per il bene delle popolazioni locali. Risiedono nel cuore del Medio Atlante, a Tatiouine, un villaggio berbero che hanno salvato. La loro storia edificante merita di essere raccontata.

Nella prima metà del XX secolo suor Céline, infermiera, si occupava dei malati ricoverati presso il lebbrosario di Casa-blanca. Dedicò anni a questa vocazione e nel 1969 rispose al-la richiesta di un ambulatorio situato nell'Alto Djebel ma-rocchino, a Midelt, città dove da poco era cominciato lo sfruttamento di giacimenti di minerale di ferro. Quel nuovo eldorado attirava una gran quantità di manodopera, cosic-ché vi era sempre urgenza di personale medico. Un giorno suor Céline, dopo aver curato un uomo appartenente a una tribù di montagna, gli disse di tornare una settimana dopo per rinnovare la medicazione. Tuttavia, da buon nomade, l'uomo, rispondendo al richiamo della transumanza, non tornò. Suor Céline, allora, gli andò incontro a dorso di mulo e scoprì, nella regione del massiccio dell'Ayachi (che rag-giunge l'altezza massima di 3735 metri), popolazioni dram-maticamente prive di cure. Il «telefono» arabo - berbero, in questo caso - fu a tal punto efficace che la religiosa si ritrovò sommersa di chiamate. Si venne quindi a creare una sorta di catena dalla città alla montagna e in seguito suor Céline in-vitò altre religiose della sua congregazione a raggiungerla per aiutarla. Dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1983, il

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suo lavoro è stato continuato da due suore straordinarie, Bé-gonia e Ludivine (soprannominate Bégo e Ludi dagli abitan-ti della regione), poi da altre religiose francescane e recente-mente da suor Marie, di origine irlandese.

In un raggio di cento chilometri i loro diminutivi sono ben noti. Le religiose sono stanziate ai piedi di una parete rocciosa, in un minuscolo villaggio in precedenza distrutto dallo scioglimento delle nevi. Quell'avamposto permette di vivere a stretto contatto con le tribù delle montagne e di re-carsi, sempre a dorso di mulo, anche nei luoghi più isolati per curare i malati.

Le suore intrapresero in primo luogo la costruzione di una cospicua diga per proteggere le case di terra battuta dal-la furia annientatrice degli elementi. Il villaggio riprese len-tamente a vivere e alcune madri di famiglia, spinte dalle re-ligiose, crearono laboratori d'artigianato i cui prodotti sono distribuiti persino in Europa. L'attività divenne a tal punto remunerativa che le suore proposero alle botteghe di unirsi per formare una cooperativa tessile, i cui proventi sarebbero stati destinati in parte agli artigiani e in parte alla manuten-zione del villaggio: la proposta fu accettata. Le religiose par-lano l'arabo e il tamazight, la lingua berbera. Oltre alle mate-rie scolastiche tradizionali, esse insegnano ai bambini del posto lo spagnolo, il francese e, negli ultimi tempi, anche l'inglese; organizzano altresì percorsi di pre-alfabetizzazione per più piccoli. Oggi, in quel villaggio, non è raro sentir par-lare la lingua di Molière condita da gustose espressioni ber-bero-andaluse.

Mi recai dunque a incontrare queste religiose del deserto, e fui accolto cordialmente nel loro rifugio, dove trovai un pa-vimento di terra battuta, un piccolo pozzo, un'infermeria e una minuscola sala di preghiera. Quando lodai la loro vita ri-

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tirata, lontana dalla sporcizia del mondo, suor Bégo mi di-mostrò che nessuno è al riparo da qualunque forma di tran-sumanza. «L'isolamento è una virtù sempre più difficile da coltivare. Da un po' di tempo a questa parte riceviamo trop-po spesso visite di turisti, e tutto perché un editore francese ci ha citate in un libro.» Di fronte al mio sbalordimento si mi-se a frugare tra gli scaffali e mi porse una copia della Guide du Routard5.

L'opera delle francescane prosegue in quei luoghi isolati, dove vivono in pace insieme a coloro che amano, con cui for-mano un solo e unico gruppo nel quale tutti condividono tutto, in ogni momento. Il segreto di questa perfetta integra-zione consiste nel non aver mai tentato di evangelizzare le popolazioni locali.

Sull'unica pista che conduce al loro villaggio caricai un giovane berbero che faceva l'autostop in mezzo al pietrame. Dopo i convenevoli di rito, mi chiese di quale religione fos-si. La domanda mi parve, se non sconveniente, per lo meno insolita. L'immancabile «da dove vieni?», a quanto pareva, era ormai stato relegato tra le preoccupazioni dimenticate. Per adeguarsi alle sue usanze bisognava forse dichiarare la propria religione? Avevo imparato dai saggi ebrei che è me-glio rispondere a una domanda con un'altra domanda, per prender tempo e riflettere. Con mia gran sorpresa, il ragazzo mi rispose con orgoglio: «Io sono battista!». Quel giovane marocchino, berbero e cristiano, ascoltava da anni le tra-smissioni religiose di una stazione radio francese che capta-va di notte sulle onde lunghe. Il programma esaltava il Van-gelo, ne presentava dei brani e offriva una copia della Bibbia agli ascoltatori che ne facevano richiesta, gratis e senza spe-se di spedizione. Il giovane aveva così scoperto le belle pa-

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role del cristianesimo, ricevuto una copia del Libro sacro e aveva contattato i gruppi battisti presenti in Marocco. Dopo-diché, si era convertito e da allora aveva iniziato a praticare assai scrupolosamente la sua nuova religione, non esitando ad affrontare lunghi tragitti per incontrare i gruppi battisti nelle grandi città del paese o a comunicare con loro per te-lefono, lettera o e-mail. Al proselitismo radiofonico si ag-giunge oggi quello via internet.

Al momento di salutarci il mio interlocutore mi chiese di dargli il mio indirizzo di posta elettronica e io ebbi l'indeli-catezza di mostrarmi stupito: «Persino qui, in capo al mon-do, si comunica attraverso il Net?». Lui rispose: «Non sei in capo al mondo, ma nel centro del mondo. Guarda: io non mi sono mosso dalla mia regione, sei tu che sei venuto da me».

Su internet vi sono denominazioni cristiane che non fan-no mistero delle proprie intenzioni. Per esempio, il sito del-la Maison du Salut6 afferma di avere la missione di «annun-ciare la buona novella di un Salvatore ai musulmani del mondo arabo».

Il movimento si appella a coloro che desiderano imitare gli Apostoli:

Noi cerchiamo, con l'aiuto di Dio, di raggiungere i musulmani del mondo arabo ovunque essi siano [...] per incoraggiare le Chiese autoctone o fondarne di nuove. La Maison du Salut in Marocco si propone di formare un esercito di Servi di Dio rin-novati, consacrati e qualificati, i quali dovranno farsi strumenti di Risveglio e incoraggiamento per coloro che in Marocco vivo-no ancora sotto il giogo di Satana.

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In Maghreb i cybercafé hanno sperimentato una straordi-naria diffusione e, come altrove, sono frequentati dai giova-ni. Vari gruppi evangelici sfruttano le chat o i forum virtuali per entrare in contatto con giovani marocchini. Senza far im-mediatamente cenno alla religione, attirandoli con un dialo-go che si protrae per diverse settimane, li indirizzano verso siti specializzati che espongono i principi fondamentali del cristianesimo.

I candidati alla conversione che vivono lontani dai gran-di centri urbani possono connettersi a vari siti per riunioni di preghiera virtuale o per leggere testimonianze di convertiti, riportate in inglese, francese e arabo dialettale. Costoro di-mostrano che internet è il principale strumento usato dai missionari, i quali lo trovano particolarmente efficace, in quanto stabilisce un legame tra il cristianesimo e la moder-nità in opposizione a un islam fondamentalista restio ad ac-cettare le grandi trasformazioni tecnologiche.

Internet permette altresì di aggirare gli ostacoli posti dal regime alla predicazione ufficiale del Vangelo alle popola-zioni musulmane. Nel maggio 2005, a Marrakech, le autorità hanno bloccato i preparativi di una «Carovana dell'amici-zia» dopo aver scoperto che il progetto dissimulava l'orga-nizzazione di un forum di dialogo tra islam e cristianesimo, al quale avrebbero dovuto partecipare migliaia di evangelici giunti dall'Europa e dagli Stati Uniti.

Una nota riservata del Ministero degli Interni marocchino punta il dito contro le attività di una certa «Società biblica uni-ta» dotata di un ufficio a Casablanca; uno dei responsabili del-l'associazione è stato invitato, in maniera discreta, a lasciare il paese. Molti giornali riferiscono notizie sulla distribuzione di bibbie e libri nei quartieri popolari di Casablanca da parte di missionari che, a quanto pare, operano alla luce del sole.

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Occorre restare obiettivi e non giocare a chi le spara più grosse: parecchi siti integralisti marocchini non esitano a de-finire «focolai di proselitismo» le librerie marocchine specia-lizzate nella vendita di libri stranieri. Esse, in effetti, vendo-no sia manuali di economia sia i libri che si trovano nelle classifiche dei best seller stilate dai più importanti periodici, nonché, tra le altre cose, copie dell'Antico o del Nuovo Te-stamento, scritti la cui ispirazione divina è riconosciuta dal-l'islam.

I missionari si rivolgono a due categorie di persone: i gio-vani e i berberi che vivono nelle regioni più remote del Ma-rocco. Questi gruppi sono considerati più malleabili, dunque più inclini di altri a ricevere la «Buona Novella», la cui pre-dicazione si accompagna a promesse ingannevoli.

I giovani rappresentano un bersaglio scelto. La disoccu-pazione è un male endemico del paese e colpisce in partico-lar modo i nuovi diplomati che, al termine della scuola su-periore, non riescono più a impiegarsi nella pubblica ammi-nistrazione. Per coloro che sono in possesso di titoli di grado inferiore, le prospettive di trovare un lavoro nel settore pri-vato sono scarse, salvo nel turismo. Molti di loro vivono di espedienti o di prostituzione. Da quella popolazione sot-toimpiegata, condannata a una povertà permanente, provie-ne il grosso dei simpatizzanti dei locali movimenti dell'isla-mismo radicale. Ma i giovani possono anche farsi sedurre dalle prediche dei missionari, i quali fanno loro balenare, ol-tre alla sicurezza di trovare «il vero Dio», la possibilità di ot-tenere aiuti finanziari regolari o addirittura il famoso visto Schengen.

I giovani marocchini, desiderosi di tentare la fortuna al-trove, sono preda di una vera e propria «febbre da passa-porto»; tuttavia, dopo essersi arrabattati tra uffici ammini-

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strativi e bustarelle, una volta ottenuti i preziosi documenti strappare un visto è quasi un'impresa, considerando la seve-rità delle condizioni richieste. Soltanto un candidato su cen-to ha una piccola possibilità di riuscita; dunque, ogni mezzo è lecito per procurarsi quel lasciapassare. Nel XIX secolo il poeta ebreo tedesco Heinrich Heine, rievocando la propria conversione al protestantesimo, aveva definito il battesimo cristiano un biglietto di accesso alla cultura europea1. Egli rite-neva che soltanto la conversione gli avrebbe assicurato una completa integrazione sociale, oltre all'accesso a ogni posi-zione desiderata. Nel Marocco di oggi si osserva una situa-zione per molti versi simile.

L'altra categoria a cui si rivolgono i missionari evangelici è la popolazione berbera, particolarmente numerosa nel Rif, nell'est e nel sud del paese, cioè nelle regioni più svantag-giate dal punto di vista economico e sociale. Alcune di quel-le aree, come se non bastasse, sono state colpite da calamità naturali, quali per esempio il terremoto di Al-Hoseyma (24 febbraio 2004): in quell'occasione, gruppi evangelici si sono mescolati alle ONG e, a quanto sembra, hanno approfittato della disperazione della popolazione per tentare di trasmet-tere il proprio messaggio.

Alcuni grandi personaggi marocchini hanno dimostrato a loro modo di essere aperti al dialogo tra le culture e le reli-gioni.

Il pascià El-Glaoui di Marrakech (ca 1875-1956), capo ber-bero favorevole alla presenza francese in Marocco, fu un uo-mo estremamente ricco e influente, dotato di un grande po-tere di seduzione sulle dame francesi e cristiane. La scrittri-ce Alice-Louis Barthou lo definiva «una splendida creatura»; Colette lo volle come socio in certi suoi affari ed egli offrì al-

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la sua «protetta», l'attrice Simone Berriau, un teatro parigino che porta oggi il suo nome.

Qualche anno dopo, El-Glaoui ebbe una nuova compa-gna, l'attrice e scrittrice francese Cécile Aubry, che gli diede un figlio, l'attore francese noto con il nome di Mehdi El-Glaoui, protagonista della serie televisiva francese Belle et Sé-bastien (1965).

Se questo tipo di rapporti non divenne mai regale, fu però principesco: il futuro Hassan II, all'epoca principe ereditario, ebbe come amante, nel 1956 e oltre, l'attrice Etchika Chou-reau. La loro relazione riempì le cronache del tempo e non fu gradita ai guardiani della Legge coranica. Dobbiamo forse rimpiangere un'epoca in cui i «contatti interreligiosi» passa-vano attraverso le donne?

Le popolazioni berbere sono toccate soltanto in piccola par-te dalla predicazione dei missionari, in ogni caso infinitamen-te meno di quanto pretendano gli organi di stampa. Contra-riamente all'opinione secondo la quale il proselitismo si con-centrerebbe in particolare sulle popolazioni disagiate, sembra - almeno stando alle dichiarazioni del pastore Jean-Luc Blanc, responsabile della Chiesa evangelica ufficiale in Marocco -che i convertiti, poche migliaia, siano intellettuali o membri di fasce agiate, delusi dal carattere fanatico e intollerante di un certo islam fondamentalista. Si tratta di persone alla ricerca di una spiritualità più adatta alle loro esigenze, che a quanto pa-re vedono nel cristianesimo una religione di pace, amore e fra-tellanza, aperta al mondo e incentrata su figure emblematiche come Cristo o la Vergine, entrambi citati nel Corano, un'inte-ra süra del quale è dedicata proprio a Maria.

Di fronte alla polemica sull'attività dei missionari evan-gelici, monsignor Vincent Landel, arcivescovo cattolico di

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Rabat, ha ribadito su numerosi quotidiani che il cattolice-simo non ambisce in alcun modo a fare proselitismo nel paese.

Il pastore Jean-Luc Blanc, da parte sua, è parso più imba-razzato. Ha infatti dichiarato che la missione delle Chiese consiste nell'assistere i protestanti che vivono nel paese of-frendo loro un luogo di preghiera; ha inoltre preso netta-mente le distanze da «altri» che operano nella clandestinità.

Alcuni organi di stampa marocchini hanno sottolineato l'atteggiamento di papa Benedetto XVI, il quale, in occasio-ne delle festività di Pasqua del 2008, ha battezzato un gior-nalista italiano di origine egiziana, Magdi Cristiano Allam, vicedirettore del «Corriere della Sera» e noto per le sue fero-ci critiche all'islam.

Rachid Benzine, editorialista dell'«Aujourd'hui le Ma-ree», vive da tempo in Francia e si definisce un musulma-no liberale; scrive libri e partecipa a numerose conferenze. In particolare, ha redatto un articolo che ha fatto scalpore, Il nuovo errore di papa Benedetto XVI, che termina così: «Co-me si può convincere l'opinione pubblica che il cattolicesi-mo (quello dei nostri amici cristiani in Francia come in Ma-rocco) non si dedica a un proselitismo aggressivo se il mas-simo rappresentante di questa religione battezza personal-mente con tutti gli onori uno dei più virulenti detrattori dell'islam?»8.

Le autorità marocchine, forse, non sono del tutto estranee alla pubblicità data alle presunte attività dei missionari evangelici in Marocco. Il 2007 è stato contrassegnato dai pre-parativi per le elezioni legislative: si è trattato di una com-petizione elettorale decisiva, nella quale il partito islamico Giustizia e Sviluppo era il grande favorito, al punto che al-

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cuni osservatori avevano evocato la possibilità di uno «tsu-nami verde» (il verde è il colore dell'islam).

Per contrastare l'influenza di quel movimento e per argi-nare il successo dei gruppi clandestini salafiti, il regime ha rafforzato l'isiàm di Stato e ha favorito una più consistente presenza di programmi religiosi, essenzialmente musulma-ni, alla radio e in televisione; inoltre, sono stati presi provve-dimenti contro i marocchini che non rispettavano il ramadan. Il regime intendeva presentarsi, in particolare agli occhi del-le popolazioni locali, come il solo e autentico difensore del-l'ortodossia islamica: ecco perché ha autorizzato i predicato-ri, sulle parole dei quali esercita uno stretto controllo, a pro-nunciare per parecchi venerdì di seguito infuocati sermoni contro i predicatori delle altre religioni. In quelle tirate veni-va fatto puntualmente presente all'uditorio che lo Stato era intenzionato a mostrarsi inflessibile sulla questione.

Alle parole sono seguiti i fatti. Gli arresti di alcuni mis-sionari e una dura campagna di stampa incentrata sulla gra-ve minaccia che pende sull'integrità dell'islam marocchino hanno ampiamente contribuito a garantire il risultato spera-to. Va detto, peraltro, che gli arresti e la campagna di stampa servivano anche a giustificare la lotta contro le diverse cor-renti integraliste.

L'obiettivo di sensibilizzare l'opinione pubblica riguardo alla «minaccia del proselitismo» è stato raggiunto, ma il prezzo da pagare rischia di essere alto. Alcuni giornali di lin-gua araba e molti siti internet hanno approfittato delle circo-stanze per scatenare un virulento jihad contro il cristianesi-mo in generale. Per convincersi di ciò è sufficiente consulta-re i numerosi articoli presenti in rete, uno dei quali, intitola-to La galassia degli evangelici in Marocco, può essere conside-

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rato un condensato delle pubblicazioni apparse sul tema, dal momento che mette sullo stesso piano i missionari evangeli-ci che fanno proselitismo, le parrocchie cattoliche di Rabat e Casablanca e i templi protestanti ben radicati sul territorio.

Secondo quel testo tutti i cristiani, a qualunque comunità appartengano, perseguono uno scopo nascosto e si dedicano allo spionaggio per conto di alcuni paesi, tra i quali spicca Israele. L'anticristianesimo si mescola qui a un antisemiti-smo/antisionismo fin troppo presente nei paesi del Magh-reb, e a un diffuso antiamericanismo.

È dunque facile intuire a quali eccessi potrebbero portare simili campagne, dal momento che i movimenti integralisti continuano a guadagnare consensi presso la popolazione. Il silenzio è diventato il miglior strumento per garantire la so-pravvivenza dei cristiani. Bisogna piegare la schiena in atte-sa di giorni migliori? La speranza è che si tratti di una ten-sione passeggera, priva del carattere sistematico e liberticida che ha assunto nella vicina Algeria, attualmente in preda a un'isteria anticristiana incoraggiata dai vertici dello Stato.

Il «bon usage» della menzogna

Gli algerini, per natura insofferenti delle regole, amano storpiare la lingua francese e coniare bizzarri neologismi, che sono di per sé validi indicatori dell'evoluzione delle mentalità. Una cantante di raP tra le più popolari di Orano ha scelto come nome d'arte Rimitti, forma popolare di «re-mettez ga» («dammene ancora!»), un'espressione impiegata dagli amanti delle bevande forti per ordinare un nuovo giro.

Un altro termine popolarissimo in Algeria è ritourni («ri-girato», «capovolto», ma anche «voltagabbana»), la cui radi-

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ce è facile da comprendere. In origine, esso designava i rari musulmani convertiti al cristianesimo o gli algerini «indige-ni» cui era stata concessa la cittadinanza francese; si trattava di un privilegio accordato con parsimonia ad alcune catego-rie: gli ex combattenti, i laureati, i funzionari ecc. Agli occhi dei dotti conservatori della legge coranica e a quelli dei mi-litanti nazionalisti, diventare cittadino francese equivaleva in tutto e per tutto a commettere apostasia. Coloro che ac-cettavano la nuova condizione erano stati «capovolti» dai conquistatori europei, e la loro empietà gli proibiva di esse-re sepolti in un cimitero musulmano, accanto ai veri fedeli. I funerali di un ritourni si trasformavano spesso in scontri tra le forze dell'ordine e i nazionalisti locali.

Tutto ciò riguarda il passato: al giorno d'oggi un algerino che assuma la cittadinanza francese non fa più scandalo né viene tacciato di apostasia, e il termine ritourni designa gli al-gerini convertiti al cristianesimo. Un tempo non ve n'era che un pugno; attualmente sono circa 5000 secondo la Chiesa cattolica e 10.000 secondo le autorità algerine, che conteggia-no tutti i cattolici presenti nel paese, quale che sia la loro ori-gine. A costoro vanno aggiunti poco meno di 20.000 prote-stanti evangelici, appartenenti a vari gruppi, alcuni legali, al-tri semiclandestini o clandestini, insediati per la maggior parte nella Cabilia; è stata tuttavia rilevata la presenza di pic-cole comunità autonome in Orania, nella regione di Algeri e in quella di Costantina.

La pratica di culti non musulmani non sembrava porre al-cun problema né ai cittadini algerini né al governo; tuttavia, da quattro anni a questa parte la situazione si è radicalizza-ta, se non addirittura capovolta. È dalla conquista arabo-isla-mica del VII secolo che i cristiani non erano tanto persegui-tati: a Orano, recentemente, alcuni zelanti doganieri hanno

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operato un sequestro di bibbie, interpretando l'importazione come un tentativo di introdurre in Algeria materiale propa-gandistico; a Tiaret si sono verificate aggressioni ai danni di studenti cristiani, che hanno preferito abbandonare gli studi piuttosto che rinunciare alle proprie convinzioni; il pastore Yves Gounelle, presidente della commissione delle Chiese evangeliche di espressione francese, si è visto rifiutare il vi-sto d'ingresso nel paese; alcuni studenti cristiani che parteci-pavano a un seminario sulla Bibbia a Tizi Ouzou sono stati espulsi, e la stessa sorte è toccata al pastore americano Hugh Johnson; a Tissemsilt due informatici algerini convertiti al protestantesimo hanno subito pesanti condanne per il reato di proselitismo; nel 2008 il sacerdote cattolico Pierre Wallez è stato arrestato per proselitismo; una giovane algerina con-vertita, Habiba Kouider, studentessa presso il Centro di stu-di biblici di Bousville, è stata arrestata per «pratica non au-torizzata di un culto non musulmano» ecc.

Questo elenco, non esaustivo anche se piuttosto lungo, ha scatenato una valanga di reazioni indignate e di proteste da parte di varie organizzazioni di difesa dei diritti umani e as-sociazioni cristiane internazionali, ma anche di eminenti membri della società civile algerina, che denunciano l'assi-milazione del proselitismo alla semplice pratica di una reli-gione diversa dall'islam. Nel luglio del 2008, in occasione del suo viaggio in Algeria, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha espresso le proprie preoccupazioni al presidente Abdela-ziz Bouteflika. Il 30 giugno 2008, a Parigi, il gruppo francese Pluralisme des cultures et des religions (Pluralismo delle culture e delle religioni), composto da personalità del mon-do intellettuale e politico, tra cui spiccano Bruno Frappai, Jacques Delors, Jean Delumeau, Jacques Duquesne, Jean-Claude Guillebaud, Jacques Huntzinger, Jacques Julliard,

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Jean-Pierre Morel, Étienne Pinte, Michel Rocard, Jean-Marie Rouart e molti altri, ha lanciato un appello alla solidarietà con le minoranze religiose perseguitate, compresi i cristiani d'Algeria.

Come si è arrivati a questo punto? I gruppi evangelici sono apparsi all'inizio degli anni '90,

quando l'Algeria si è scrollata di dosso il giogo del regime a partito unico istituito dal FLN nel 1962.

I moti di Algeri dell'autunno 1988 hanno favorito l'emer-gere sulla scena politica del Fronte Islamico di Salvezza (FIS), braccio legale del fondamentalismo islamico. Il risenti-mento contro il monopolio del potere esercitato dal FLN era tale che il FIS ha vinto con largo margine le prime elezioni municipali libere. Nel 1992 esso sarebbe stato in grado otte-nere la vittoria alle legislative, se l'esercito algerino non avesse imposto lo stato di emergenza e il differimento a da-ta da destinarsi della votazione, facendo ricorso a una figura storica della Rivoluzione algerina, Mohamed Boudiaf, per dare una parvenza di legittimità a quello che nei fatti era un colpo di stato legalizzato.

Per l'Algeria hanno così avuto inizio gli «anni di sangue», con il loro corteo di attentati e massacri, che non hanno ri-sparmiato nemmeno i cristiani di origine straniera, tra cui i monaci di Tibhirine e il vescovo di Orano, monsignor Clave-rie. La Cabilia, regione tradizionalmente ostile al potere cen-trale fin dall'indipendenza, è stata teatro di numerosi atten-tati ai danni di intellettuali, giornalisti, scrittori, cantanti di origine berbera, tutti sospettati di essere cattivi musulmani. Gli abitanti di alcune località hanno addirittura dovuto or-ganizzare ronde di autodifesa per ovviare alla passività del-le autorità.

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In Cabilia le attività dei gruppi terroristi hanno creato nei confronti dell'integralismo musulmano un forte risentimen-to, talvolta degenerato in un rifiuto puro e semplice dell'i-slam. È stato in questo clima di estrema tensione che i primi missionari evangelici hanno cominciato a predicare, all'ini-zio degli anni '90.

A differenza del cattolicesimo, strettamente associato al ricordo del colonialismo francese, il protestantesimo di ori-gine anglosassone ha beneficiato di una simpatia a priori, grazie al sostegno degli Stati Uniti nei confronti del naziona-lismo algerino. In effetti, il presidente Kennedy aveva ap-poggiato l'indipendenza dell'Algeria, ritenendo che fosse l'unico mezzo per impedire che il paese scivolasse nell'orbi-ta sovietica, come poi è comunque accaduto.

Durante il decennio 1990-2000, in Cabilia, i missionari americani hanno compiuto una paziente e discreta opera di evangelizzazione, sfruttando le specificità culturali, lingui-stiche e storiche di quella regione. Il materiale propagandi-stico era redatto in taqbaylit, la varietà berbera locale, e i mis-sionari facevano spesso ricorso a religiosi originari del luo-go, convertiti al protestantesimo mentre soggiornavano in Europa. La conversione era loro presentata come un ritorno alle origini, una riscoperta del lontano passato cristiano del-l'Africa settentrionale.

Si tratta di un argomento di sicura presa; d'altra parte, i cabili ribadiscono in continuazione di essere stati berberi e cristiani prima dell'islamizzazione araba; questa constata-zione serve a riaffermare la loro differenza di fronte all'ideo-logia nazionalista fondata su un regime arabo-islamico. I missionari fanno dunque leva sulle radici locali berbere e sulla Chiesa primitiva, a cui apparteneva il più importante tra i berberi cristiani, sant'Agostino.

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Per ottenere le conversioni, il proselitismo evangelico in Cabilia sfrutta altresì la situazione sociale, economica e cul-turale delle popolazioni a cui si rivolge, che soffrono grave-mente a causa della povertà che affligge la regione e che pro-duce mali cronici quali l'alcolismo e la tossicodipendenza. Durante un viaggio da me compiuto in quei luoghi negli an-ni 2000, un gruppo di anziani rinunciò a offrirmi un aperiti-vo a base di liquore all'anice, proibito da trent'arini come ogni superalcolico dal prefetto di Cabilia. Essi ricordarono i «bei tempi» in cui, per aggirare il divieto, ricorrevano allo zambretto, una bevanda derivata dai pneumatici che ha cau-sato danni gravissimi.

Un altro fattore determinante per la predicazione dei mis-sionari si è rivelato lo choc psicologico provocato dalla spa-ventosa guerra civile algerina. L'ideologia del FLN è crollata senza che il vuoto lasciato da essa fosse colmato. La stra-grande maggioranza degli algerini si fa beffe della politica; i discorsi dei partiti vertono sul nulla; lo scetticismo genera-lizzato favorisce il ricorso a estremi spesso contradditori: la conversione al cristianesimo, religione dell'amore, o l'ade-sione ai gruppi terroristi vicini ad al-Qa'ida. Si tratta di due risposte diverse al profondo malessere della società algerina e della Cabilia in particolare.

I crescenti successi del proselitismo evangelico, che aveva esordito negli anni '90, sono a lungo passati inosservati per una serie di ragioni. Prima di tutto, si tratta di una predica-zione protestante, che in Algeria non ha un passato: per gli algerini il cristianesimo si identifica innanzitutto con il cat-tolicesimo, con il quale hanno avuto a che fare durante il pe-riodo coloniale. Essi ignorano le divisioni all'interno del mondo cristiano, al punto che il presidente algerino Boute-flika, parlando del proselitismo cristiano con l'ex arcivesco-

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vo di Algeri, monsignor Henri Teissier, ha creduto opportu-no dichiarare: «Abbiamo già abbastanza problemi con i no-stri integralisti senza dover pensare anche ai vostri». Era in-fatti convinto, in buona fede, che i missionari evangelici di cui stava parlando fossero seguaci del vescovo cattolico ul-tratradizionalista monsignor Lefebvre, della cui scomunica non era al corrente.

Dopo l'Indipendenza, la Chiesa cattolica non ha più fatto opera di proselitismo in Algeria. Questa linea era ben nota e in parte spiega la lentezza con la quale le autorità algerine hanno preso coscienza del fenomeno delle conversioni al protestantesimo, spesso commettendo il tipico errore di met-tere nello stesso calderone cattolici e protestanti. Ai loro oc-chi tali conversioni erano impossibili, proprio in ragione del-l'ostilità della Chiesa nei confronti di qualunque forma di proselitismo.

In più, il fenomeno delle conversioni era in generale poco visibile, dal momento che intere regioni sfuggivano del tut-to al controllo governativo. Non era certo il caso della Cabi-lia; tuttavia, anch'essa, attraverso il suo sistema di villaggi e di gruppi di autodifesa, aveva acquisito una sorta di auto-nomia. Il regime, che aveva bisogno dell'aiuto dei cabili nel-la lotta all'integralismo musulmano, non desiderava prende-re a livello locale iniziative che rischiassero di alimentare le tensioni, cosicché i wali, i prefetti, non si sono preoccupati più di tanto della proliferazione dei luoghi di culto cristiani. Inoltre, la solidarietà tra i clan cabili garantiva ai neoconver-titi il silenzio dei loro parenti rimasti musulmani.

A partire dal periodo tra il 2003 e il 2004 il regime algeri-no ha cominciato a reagire e a strumentalizzare la lotta con-tro il proselitismo cristiano per ragioni di convenienza poli-tica. Dopo aver per anni perseguito l'estirpazione violenta e

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sistematica dell'islamismo, il presidente Bouteflika e i gene-rali algerini hanno compiuto una vistosa virata abbraccian-do una politica di «riconciliazione nazionale», la quale ha permesso il reintegro dei terroristi pentiti - anche di coloro che si erano resi colpevoli di attentati mortali - nella società algerina. Tale politica è andata di pari passo con l'islamizza-zione dello Stato e della propaganda ufficiale: il regime, in-fatti, si è sforzato di fare qualche concessione agli islamici moderati.

La denuncia del proselitismo cristiano è entrata a far par-te della strategia governativa fin dal 2004, quando sono com-parsi i primi avvertimenti ufficiali.

Nell'estate dello stesso arino il ministro degli Affari reli-giosi ha tuonato contro le conversioni al cristianesimo, evo-cando il «rischio di spargimenti di sangue» in Cabilia. Se-condo la sua opinione, molti musulmani indignati erano pronti a replicare spontaneamente al proliferare di luoghi di culto cristiani. Le sue affermazioni fecero scandalo, ed egli fu costretto a ritrattare e a ribadire che la Costituzione algerina garantiva la libertà di culto e di coscienza.

Contemporaneamente, e in segreto, il regime preparava un testo con norme che regolavano l'esercizio dei culti non musulmani in Algeria. Questo documento, pubblicato nel marzo del 2006 sulla Gazzetta ufficiale dello Stato, ha preoc-cupato non poco le Chiese presenti sul territorio, nonché al-cuni intellettuali algerini e gli osservatori stranieri10.

Il testo, adottato dall'Assemblea Popolare Nazionale al-gerina, risulta contenere, a una prima lettura, disposizioni eccellenti. Altre norme, tuttavia, sono discutibili, e vari arti-coli si prestano a più di un'interpretazione, come la loro ap-plicazione ha ampiamente dimostrato.

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Il concetto di esercizio pubblico del culto in edifici auto-rizzati è stato usato contro religiosi cristiani che avevano il solo torto di svolgere il loro ministero sacerdotale al di fuori delle mura di una chiesa e di un presbiterio.

L'incidente più noto ha riguardato padre Pierre Wallez, un prete che viveva ormai da molti anni in Algeria ed era particolarmente stimato dai suoi vicini e conoscenti musul-mani. Nel dicembre 2006, si è recato nella regione di Magh-nia, in Orania, dove vivono molte migliaia di immigrati clan-destini di origine subsahariana che attendono di raggiunge-re l'Europa. Padre Wallez ha presieduto una riunione di pre-ghiera (senza celebrare la messa) alla quale hanno partecipa-to alcuni migranti camerunesi, ed è stato immediatamente arrestato dalla gendarmeria locale. Dopo essere stato deferi-to al tribunale di Maghnia, nel gennaio 2007 è stato condan-nato in primo grado a un anno di prigione con il beneficio della sospensione della pena; in seguito all'appello, nel 2008 essa è stata ridotta a due mesi di prigione con la condiziona-le, più il pagamento di una multa per essere stato sorpreso all'aperto con altri cristiani.

Ebbene, quale infrazione aveva commesso? Presso i cri-stiani è normale organizzare riunioni di preghiera nei gior-ni che seguono il Natale. Non è stata celebrata alcuna mes-sa, ma una pattuglia della polizia ha notato la scena ed è intervenuta. L'interpretazione dei regolamenti e delle leg-gi è a tal punto ambigua da lasciar libero corso a qualun-que decisione.

Beninteso, alcuni «missionari» praticano un proselitismo aggressivo e distribuiscono bibbie gratis, a volte persino con il metodo del porta a porta; tuttavia, come i protestanti i cat-tolici sono in Algeria per aiutare i poveri, i malati, i disere-dati. In ogni caso, nessuno può negare che il governo algeri-

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no persegua una politica volta a limitare la libertà religiosa dei non musulmani.

La legge sulle religioni del marzo 2006 è particolarmente coercitiva e adattabile a un gran numero di situazioni e in-terpretazioni. Sebbene sia nata con l'obiettivo di colpire prin-cipalmente i gruppi cristiani evangelici, attivi in Algeria da qualche anno, è applicata anche ai cattolici, sacerdoti o laici, molti dei quali si sentono oggetto di pressioni per costrin-gerli a lasciare il paese.

In occasione della promulgazione della legge, monsignor Henri Teissier ha dichiarato di sperare che le autorità fosse-ro in grado di distinguere tra dialogo e propaganda.

Più recentemente, il presidente del Comitato scientifico per gli affari religiosi, il dottor Said Bouziri, professore e muftì a Tizi Ouzou, non ha esitato ad accusare sul suo sito internet il presidente francese Nicolas Sarkozy di sostenere l'azione missionaria, affermando che «c'è il suo zampino nell'evangelizzazione dell'Algeria». Egli ha dichiarato altre-sì che, allo scopo di propagare il cristianesimo in tutto il pae-se, i missionari trasformano in chiese le case e persino le ca-bine telefoniche.

Sulla base di voci allarmistiche o di interpretazioni ten-denziose delle leggi, i cristiani vengono arrestati o sono sot-toposti ad altre sanzioni.

Nel novembre 2007, ad alcuni giovani sacerdoti brasilia-ni, recatisi nel paese per lavorare con gli immigrati africani di lingua portoghese, è stato ritirato il permesso di soggior-no. Un giovane medico algerino è stato condannato a due anni di carcere senza condizionale e a 20.000 dinari di multa per aver distribuito illegalmente, secondo la versione uffi-ciale, medicine dell'ambulatorio pubblico da lui diretto in una baraccopoli abitata da immigrati e situata a pochi chilo-

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metri da Maghnia. La condanna è stata in seguito ridotta a sei mesi con la condizionale. «Medicine regolarmente paga-te dalla Caritas!» hanno invano tentato di spiegare fonti cat-toliche.

Il Vaticano e il Belgio hanno invano chiesto allo Stato al-gerino di modificare la legge sui culti non musulmani. In se-guito alla chiusura di un certo numero di chiese e all'incri-minazione di persone di fede cristiana, nell'aprile 2008 una commissione delle Nazioni Unite ha interpellato i delegati algerini a proposito dell'allarmante deterioramento della li-bertà religiosa nel paese.

Come si vede, è la semplice pratica del cristianesimo a es-sere condannata; infatti, ogni fedele, lontano dal luogo di culto, per il solo fatto di pregare con altri cristiani si espone a sanzioni giudiziarie. La condanna in cui è incorso padre Wallez ha rappresentato un avvertimento, attraverso il qua-le il regime algerino ha tentato di scoraggiare ogni forma di solidarietà della Chiesa cattolica nei confronti dei missionari protestanti, arrestati per la loro attività volta al proselitismo. Il visto del reverendo Johnson non è stato rinnovato nono-stante egli vivesse in Algeria da oltre quarant'anni: le auto-rità, infatti, gli hanno rimproverato di aver coperto le azioni dei predicatori evangelici.

L'obbligo legale di chiedere un permesso per la celebra-zione del culto in un edificio ufficialmente riconosciuto po-ne seri problemi. Nella regione di Tizi Ouzou e di Fort Na-tional molte chiese evangeliche sono state chiuse perché era-no state inaugurate senza un accordo preventivo. Altrove, i gruppi che dispongono di un'autorizzazione devono spesso subire inchieste e far fronte a seccature burocratiche di vario tipo.

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Il 3 giugno 2008, a Tiaret, nell'Orania, sei cristiani recente-mente convertiti sono stati accusati di aver svolto riunioni di preghiera a casa di uno di loro. Benché a tali incontri parteci-passero soltanto i sei incriminati, le riunioni sono state consi-derate ugualmente una forma di esercizio illegale del culto. Non c'è bisogno di dire che se si fossero riuniti per recitare una delle cinque preghiere musulmane quotidiane in un luo-go diverso da una moschea non sarebbero stati importunati.

Un articolo della legge di cui stiamo parlando punisce l'attentato all'integrità della fede di un musulmano, ed è stato usato in due casi che hanno suscitato un certo scalpore a li-vello internazionale.

Il primo riguarda due informatici di Tissemsilt condanna-ti in primo grado, il 20 novembre 2007, a due anni di prigio-ne senza condizionale e all'equivalente di 5000 euro di mul-ta per proselitismo cristiano ed esercizio illegale di un culto non musulmano. Erano stati arrestati per possesso di bibbie e ma-nuali di istruzione religiosa. I due hanno comunque ottenu-to la possibilità di essere nuovamente giudicati in appello per distribuzione di letteratura che attenta alla fede dei musulma-ni: sono stati condannati a sei mesi di carcere con la condi-zionale, abbinati al pagamento di una multa equivalente a 1000 euro. Sebbene si tratti di una condanna assai più lieve rispetto al primo grado di giudizio, nondimeno fa del pos-sesso di bibbie quasi un reato.

L'altro caso emblematico è quello di Habiba Kouider, un'educatrice di 37 anni arrestata preso Tiaret nel marzo 2008, anche lei per possesso di bibbie. Al processo, celebrato due mesi dopo, il pubblico ministero ha chiesto tre anni di prigione senza condizionale, ma non è stato accontentato e il tribunale ha ordinato un supplemento di indagini, accor-pando il fascicolo della donna a quello dei sei fedeli di Tia-

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ret, giudicati lo stesso giorno. Per la procura è stato un co-modo sistema per insabbiare la faccenda, che aveva suscita-to le proteste della comunità internazionale e persino di al-cuni algerini residenti in Francia e nel resto d'Europa, i qua-li non hanno esitato a ricordare ai loro correligionari la com-pleta libertà di cui godono nel Vecchio Continente per quan-to attiene all'esercizio del loro culto. Di più: quante moschee o enti musulmani in Francia hanno creato nella massima li-bertà istituti per la formazione di imaml Tra gli altri, merita di essere menzionato l'istituto Al-Ghazali, annesso alla Mo-schea di Parigi e fondato e diretto da Djelloul Seddiki. Co-stui, in ossequio a uno spirito di apertura, ha organizzato in collaborazione con l'Institut Catholique de Paris stage di lunga durata per i suoi allievi imam, che ricevono un diplo-ma alla fine dei corsi.

Tutto ciò non impedisce ai falchi del regime algerino di manifestare apertamente la volontà di proseguire la loro campagna contro i cristiani di origine algerina. A questo ri-guardo, ogni intervento straniero sarebbe inevitabilmente bollato come un'ingerenza negli affari interni dello Stato.

Il 18 febbraio 2008 il ministro algerino degli Affari Reli-giosi si è lasciato andare a pericolose semplificazioni dichia-rando a Radio Algerie 3: «Per me l'evangelizzazione equiva-le al terrorismo». Secondo lui, il proselitismo punta niente-meno che alla destabilizzazione del regime algerino. Alcuni ulema, invece, facendo leva sull'antiamericanismo, si spingo-no a dire che i predicatori, chiunque siano, sono alleati og-gettivi degli Stati Uniti.

Queste prese di posizione aggressive e roboanti non sono per nulla condivise dalla maggioranza degli algerini, che possono agevolmente constatare come la «minaccia del pro-selitismo» sia sopravvalutata e serva al regime come prete-

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sto per giustificare la propria politica. Per molti, gli ostacoli frapposti all'esercizio del culto cristiano costituiscono l'en-nesimo attentato alle libertà pubbliche fondamentali e devo-no essere combattuti. La stampa algerina francofona si è mo-bilitata per tempo, in particolare con il quotidiano «E1 Wa-tan», che ha denunciato le decisioni governative e gli attac-chi degli islamici contro i cristiani, promuovendo, nel marzo 2008, una petizione contro il ritorno dell'Inquisizione. Sono sta-te raccolte più di 2000 firme e il messaggio è stato ripreso da altri quotidiani.

Il terzo canale radiofonico algerino, francofono, ha dato la parola ad alcuni convertiti in Cabilia, a Orano e a Costanti-na, e ha intervistato i responsabili cristiani d'Algeria, le cui posizioni sono risultate perlomeno contraddittorie. Il reve-rendo Hugh Johnson ha respinto le accuse secondo le quali la Chiesa protestante incoraggerebbe l'evangelizzazione, precisando che la distribuzione gratuita di un gran numero di bibbie non aveva lo scopo di indurre i musulmani ad ab-bandonare la propria fede e che la presenza degli evangelici in Algeria non nascondeva alcuna volontà di «mettere le ma-ni» sugli algerini. Da parte sua, l'arcivescovo di Algeri del-l'epoca, monsignor Teissier, ha ribadito la posizione classica della Chiesa cattolica algerina, ostile fin dall'indipendenza del paese a ogni forma di proselitismo. Il porporato ha pre-cisato altresì che, nel mondo, anche il cattolicesimo è vittima dell'attivismo dei predicatori evangelici.

Tuttavia, i rappresentanti della Chiesa cattolica in Fran-cia, assai preoccupati dall'evolvere della situazione in Alge-ria, hanno manifestato chiaramente il proprio disappunto. Commentando i processi intentati contro protestanti algerini accusati di brigare per far proseliti, monsignor Christophe Courou, responsabile dei rapporti con l'islam della Confe-

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renza episcopale francese, non ha esitato ad alzare la voce: «Non è una cosa seria. Il governo algerino sceglie di punta-re i riflettori su tale questione per mascherare i suoi insuc-cessi. E ancora una volta gli stranieri sono usati come capri espiatori».

Si tratta di una posizione che contrasta in modo singolare con il commento piuttosto moderato di monsignor Henri Teissier a proposito della legge del 1 marzo 2006:

Giudichiamo positivamente la presentazione positiva della leg-ge da parte del presidente Abdelaziz Bouteflika, il quale ha det-to che il fenomeno del proselitismo non riguarda la Chiesa al-gerina, che ha sempre vissuto nel rispetto dell'identità dell'Al-geria. Abbiamo apprezzato in particolar modo l'espressione «Chiesa algerina», poiché essa certifica che facciamo parte del-la società di questo paese. Ci dispiace che il testo preveda san-zioni piuttosto pesanti. Ritengo che, nel campo della religione, dobbiamo poterci incontrare nel rispetto e nella fiducia; la li-bertà serve a comprendere l'altro, non a convincerlo delle no-stre idee.

Una simile prudenza da parte di un prelato cattolico di primo piano ha suscitato l'ira del pastore Claude Baty, presi-dente della federazione protestante di Francia e primo pa-store evangelico a occupare quella carica. Secondo lui il pro-selitismo, lungi dal rappresentare un regresso, prende atto del fenomeno della mondializzazione e dei cambiamenti di mentalità sopravvenuti su scala planetaria. Baty, inoltre, ha contestato la versione data dagli algerini a proposito delle reti di missionari che agirebbero sulla base di un piano co-mune e ha duramente criticato l'atteggiamento remissivo di monsignor Teissier.

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La situazione algerina dimostra che i fatti non si limitano allo scontro tra cristianesimo e islam e pone altresì la que-stione dei rapporti tra le diverse Chiese cristiane e delle loro posizioni contraddittorie riguardo al proselitismo.

La prima regola di buon comportamento non è forse rap-presentata dal principio di reciprocità? Ciò che è accettato per la minoranza musulmana in Francia, paese a maggio-ranza cristiana, non potrebbe esserlo per la minoranza cri-stiana in Algeria?

La portata del fenomeno delle conversioni è nettamente sopravvaluta dal regime algerino, per ragioni che occorre esaminare, se si vuole capire il contesto storico e politico di questo mediocre psicodramma.

La lotta contro il proselitismo cristiano è strumentale alla volontà, da parte del potere politico algerino, di scrivere o di riscrivere la storia nazionale, ma anche e soprattutto la storia dei rapporti burrascosi e complessi tra l'Algeria e l'ex poten-za coloniale, la Francia.

Dopo l'indipendenza, ottenuta nel 1952 al termine di una lunga guerra di liberazione, i rapporti tra l'Algeria e la Fran-cia hanno conosciuto alti e (più spesso) bassi. Il passato co-loniale continua a gravare sulle relazioni tra i due paesi, so-prattutto dopo il 2003, anno in cui le tensioni si sono fatte più forti a causa dell'approvazione, da parte del Parlamento francese, di una legge contenente tra l'altro un articolo che incoraggia a insegnare nelle scuole gli aspetti positivi della co-lonizzazione francese, in special modo nell'Africa settentrionale.

Le autorità algerine hanno considerato quel testo alla stregua di una dichiarazione di guerra e hanno preteso come condizione per firmare il trattato di amicizia franco-algerino che l'ex metropoli chieda onorevolmente scusa e riconosca la

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natura di «crimine contro l'umanità» della colonizzazione e dei comportamenti dell'esercito francese durante il conflitto algerino.

La guerra della memoria ha anche un forte risvolto reli-gioso. Non si può capire l'irrigidimento delle autorità algeri-ne se non si tiene conto, come fanno loro, a volte esageran-do, dei rapporti che sono esistiti tra la colonizzazione e il proselitismo cristiano. In parte staremmo dunque racco-gliendo ciò che il nostro passato coloniale ha seminato.

La conquista dell'Algeria (1830) fu percepita dai suoi abi-tanti come una crociata condotta dalla Francia, Figlia Primo-genita della Chiesa, contro l'islam. I vescovi che si succedet-tero ad Algeri dichiararono la propria volontà di far trionfare la Croce sulla Mezzaluna convertendo in massa gli algerini.

Louis Veuillot, già segretario del maresciallo Bugeaud, pubblicò, al suo ritorno nella metropoli, un libro dal titolo Les français en Algérie", nel quale scriveva: «Gli arabi non sa-ranno fedeli alla Francia fin quando non saranno francesi e non saranno francesi fin quando non saranno cristiani. [...] Non è forse nostro primo dovere porre la religione cristiana in condizione di operare per la conversione dei vinti?».

Le speranze della Chiesa furono ben presto deluse. L'atto di capitolazione di Algeri stabiliva che i musulmani e gli ebrei sarebbero stati liberi di praticare la propria religione e che nessuno avrebbe attentato ai loro edifici di culto. In se-guito i militari, da cui dipendeva l'Algeria, si opposero ai ri-petuti tentativi della Chiesa di intraprendere campagne di proselitismo tra i musulmani. Molti degli ufficiali che aveva-no a che fare con gli arabi erano affascinati dall'islam, e po-chi di loro erano cattolici praticanti: spesso venivano reclu-tati tra i discepoli dei Lumi e non avevano la minima inten-zione di collaborare con la Chiesa.

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La situazione cambiò completamente con la nomina di monsignor Lavigerie, fondatore dei Padri Bianchi, il quale considerava il proselitismo un imperativo indiscutibile. Il suo arrivo ad Algeri, nel 1867, è ancora scolpito nella memo-ria dei responsabili del Ministero dei Culti algerino come se l'avessero vissuto in prima persona. Durante le mie ricerche ad Algeri mi è capitato di sentire per l'ennesima volta l'in-tramontabile storiella - inflittami nell'occasione da un alto funzionario statale - degli orfani musulmani algerini al tem-po della terribile carestia che colpì la Cabilia.

Tuonando contro l'inerzia delle autorità, il prelato aveva preso l'iniziativa di accogliere a Ben Aknoun alcuni orfanel-li che prontamente battezzò. Ai suoi occhi salvare i corpi sen-za salvare le anime era impensabile. Lavigerie si scontrò ben presto con Mac Mahon, all'epoca governatore generale del-l'Algeria. Le famiglie reclamavano il ritorno dei bambini al-la religione d'origine e protestavano contro il battesimo im-posto ai piccoli: il governatore era propenso ad accogliere le loro richieste.

Il prelato ribatté che non se ne parlava nemmeno: «Quei bambini mi appartengono». Per evitare che fossero rapiti dai loro lontani parenti, Lavigerie collocò gli orfanelli a Maison Carrée, una vasta tenuta, culla dei Padri Bianchi, fondata per la conversione degli arabi e per fare di Algeri una nazione gran-de, generosa e cristiana.

L'incidente degli orfani ha segnato profondamente la co-scienza nazionale algerina, senza contare che i cabili cristia-ni sono spesso stati impiegati come ausiliari dall'autorità francese, e a volte sono divenuti addirittura giudici per gli affari indigeni o piccoli funzionari.

Dopo l'indipendenza, il ricordo lasciato da questa vicen-da, occorsa tra il 1867 e il 1868, è stato coltivato con cura dai

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governi algerini. La colonizzazione come attacco alla supre-mazia dell'islam è oggi un comodo spauracchio di cui le au-torità si servono per limitare la capacità di protestare della Chiesa cattolica algerina o per accusare i cabili cristiani di es-sere traditori della patria e dell'islam.

Si tratta di una costante della vita politica del paese. La re-torica attualmente usata dal regime contro i cristiani locali va interpretata in questo senso: si insinua che il cristianesimo, non meno del colonialismo, sia in gran parte responsabile dei mali che affliggono l'Algeria. Se i giovani algerini sono sottoimpiegati, sognano di emigrare o languono nella mise-ria la colpa è da attribuire ai centotrentadue anni di presen-za francese, assimilata alla presenza cristiana, e certamente non alle scelte politiche, sociali ed economiche dei regimi che si sono succeduti al potere o alla corruzione. L'insisten-za sul cristianesimo e sul passato coloniale è un tentativo di evitare di assumersi le proprie responsabilità da parte di un regime che usa la xenofobia e il fanatismo religioso per na-scondere i suoi insuccessi.

L'imperatore Nerone suonava la lira e cantava mentre Roma bruciava. Quando la plebe disorientata cercò i re-sponsabili dell'incendio il sovrano accusò i cristiani e li fece gettare ai leoni. In loro, oggi, il regime algerino ha trovato un eccellente capro espiatorio. C'è un po' di Nerone nel si-gnor Bouteflika.

A passi felpati sulla sabbia

La Tunisia, la Libia e la Mauritania sembrano risparmiate dall'anticristianesimo. La stampa tunisina, strettamente sor-vegliata, non ha praticamente fatto menzione delle attività di

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proselitismo organizzate dagli evangelici europei e america-ni nel paese.

Dopo la partenza degli europei, principalmente francesi e italiani, avvenuta in concomitanza con l'indipendenza del 1956, e soprattutto all'indomani dei fatti di Biserta del luglio 196112, le file della comunità cristiana si sono considerevol-mente assottigliate. Non esistono quasi tunisini cristiani, se si eccettuano i pochi congiunti di coppie miste ebraico-cristiane o cristiano-musulmane e una manciata di greci-ortodossi sta-bilitisi a Sfax nel XVIII secolo. Questa piccola comunità assai chiusa costituisce il solo gruppo cristiano «autoctono», men-tre gli altri cristiani sono tutti stranieri e discendono in gran parte dai coloni stabilitisi nel paese nel XIX secolo.

Il quartiere popolare denominato Piccola Sicilia, a Tunisi, ospita ancora una chiesa troppo grande per il pugno di fe-deli italiani rimasti sul posto. La tradizionale processione del 15 agosto, durante la quale la statua di Maria era portata per le vie della città e alla quale ebrei e musulmani partecipava-no numerosi, è scomparsa da tempo. Sempre a Tunisi, il quartiere di Malta Srira, Piccola Malta, ha perso i suoi abi-tanti maltesi, ferventi cattolici.

Comunque, Tunisi è sede di un arcivescovado tra i più prestigiosi della cristianità, in quanto ricorda il ruolo svolto da Cartagine e dall'Africa del Nord romana nell'espansione del cristianesimo primitivo. Fino al 2005, il posto di arcive-scovo è stato occupato da monsignor Fouad Twal, prelato giordano e oggi patriarca latino di Gerusalemme. Si tratta di un diplomatico che ben conosce la posizione particolare dei cristiani in terra d'islam, e non tollera il proselitismo nei con-fronti dei musulmani.

La Chiesa protestante locale, per parte sua, è pressoché defunta, dopo la partenza, in seguito alla decolonizzazione,

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di quasi tutti i suoi membri; essa, dunque, non può preten-dere di svolgere il benché minimo ruolo nell'attività di pro-selitismo, che supera di gran lunga le sue possibilità. Quan-to all'azione di eventuali missionari europei o americani che si farebbero passare per uomini d'affari, medici od operatori sociali è resa impossibile dalle maglie assai strette della so-cietà tunisina.

Dopo il 1987, anno della «deposizione legale» per motivi di salute del presidente a vita Habib Bourguiba, il generale Ben Ali ha instaurato un regime autoritario fondato sull'eli-minazione degli integralisti dal panorama politico. Egli con-duce una lotta spietata contro il fondamentalismo musul-mano, servendosi spesso di mezzi difficilmente compatibili con la Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo e del cittadino.

La Tunisia ha potuto continuare a incarnare una visione moderata dell'islam, al prezzo, se non di una drastica limita-zione delle libertà fondamentali, di un'onnipresenza delle forze di polizia, ufficiali o parallele, in tutti gli ambiti della società. A ciò si aggiunga che l'esplosione di un'autocisterna carica di gas davanti alla sinagoga di Gerba nell'aprile 2002 (l'attentato ha causato 19 morti) ha costretto le autorità ad accrescere la vigilanza anche nei confronti degli stranieri: in-fatti, il kamikaze autore della strage era originario di Lione.

Gli stranieri che vivono in Tunisia sono dunque sottopo-sti a un'attenta sorveglianza ed è poco probabile che gruppi di evangelici, anche esigui, abbiano la possibilità di agire. Se ve ne fossero, sarebbero immediatamente individuati e i lo-ro membri sarebbero subito espulsi nella migliore delle ipo-tesi, o condannati a pesanti pene detentive nella peggiore. Questa intransigenza sta a dimostrare che, pur combattendo il fondamentalismo, il governo intende far rispettare l'islam,

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religione ufficiale alla quale deve imprescindibilmente ap-partenere il capo dello Stato.

Esiste un altro fattore che spiega l'assenza di proselitismo cristiano in Tunisia: la scarsa presenza di cabili o berberi nel paese.

Non si può quindi parlare di tensioni tra cristiani e mu-sulmani. La Chiesa cattolica intrattiene rapporti eccellenti con il regime e i pochi dissidi che possono essersi verificati appartengono al passato: riguardavano perlopiù questioni finanziarie legate alla nazionalizzazione delle terre agricole appartenenti a stranieri, come le proprietà viticole dei Padri Bianchi o di altri ordini. Un altro problema spinoso concer-neva l'esproprio dei luoghi di culto. Le chiese dell'interno, ormai prive di fedeli, sono state progressivamente trasfor-mate in moschee.

La cattedrale di Cartagine, sconsacrata al momento della dichiarazione di indipendenza, è divenuta un museo, e la statua del cardinale Lavigerie è stata sostituita da quella di Ibn Khaldun, il grande filosofo arabo-musulmano. A condi-zione di non dedicarsi ad attività di proselitismo, i cristiani di Tunisia possono praticare liberamente la propria religione senza subire aggressioni specifiche. Le ricorrenti profanazio-ni di cimiteri cristiani isolati da parte di ladri desiderosi di appropriarsi dei gioielli e dei denti dei defunti sono deplo-revoli, ma si tratta in ogni caso di atti criminali che colpisco-no i cimiteri europei non in quanto cristiani, ma perché spes-so sono in stato di abbandono.

Parlare di una questione delle conversioni, in Tunisia, fa-rebbe certamente sorridere. Ce ne sono state, beninteso, ma dal cristianesimo verso l'islam: la più illustre, citata da seco-li, è decisamente sorprendente, perché riguarda il buon re san Luigi dei nostri testi di storia. Nei nostri libri si legge che

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cadde vittima della peste sotto le mura di Tunisi, dove si era recato a combattere come crociato. «Lei è un credulone!» ha esclamato un accademico tunisino (assai rispettato in quan-to rettore di un'università) dopo avermi sentito esporre la nostra versione dei fatti. «Le cose non stanno affatto così», ha aggiunto con una punta di irritazione ma in fondo per nulla sorpreso dalla mia ignoranza riguardo al vero svolgimento dei fatti. Stando alla versione tunisina non era san Luigi l'uo-mo che spirò cristianamente e il cui corpo fu riportato in Francia per essere sepolto accanto ai suoi antenati nella ne-cropoli reale di Saint-Denis. Il vero san Luigi avrebbe cedu-to al fascino di una bellezza locale e si sarebbe convertito al-l'islam, trascorrendo il resto della propria vita sulla collina di Sidi Bou Sai'd, ove fu eretta, in memoria del monarca, la cat-tedrale. Con un tale precedente, i missionari cristiani do-vrebbero faticare parecchio per convincere eventuali candi-dati tunisini alla conversione.

La Mauritania si definisce una «Repubblica islamica» e applica rigorosamente i precetti della shari'a, la legge islami-ca. Nel paese i cristiani rappresentano lo 0,2% della popola-zione: si tratta per la maggior parte di stranieri, perlopiù francesi, e di afro-mauritani stanziati nella regione al confine con il Senegal. In totale, a quanto sembra, i cristiani mauri-tani sono non più di 4600 e dispongono di chiese a Nouak-chott, Zouérate, Atar, Nouadhibou e Rosso. Tali chiese sono servite da religiosi stranieri.

Essere mauritani significa essere musulmani. Il paese è noto per ospitare un islam rigido, fiero del proprio antico ra-dicamento e del contributo che ha dato allo sviluppo dell'e-rudizione islamica. Le biblioteche private dell'oasi di Chin-guetti custodiscono preziosi manoscritti, i quali rammentano

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che un tempo quella città fu considerata la «Sorbona del Sahara». Vi si insegnavano la matematica, l'astronomia e la medicina, e i suoi teologi erano particolarmente rinomati. Alcuni degli scritti conservati nelle sue collezioni librarie di-mostrano che gli antichi mauritani non erano affatto digiuni di filosofia greca e che non disdegnavano di comporre libel-li polemici contro i cristiani, malgrado non vi fossero segua-ci di Gesù nel paese.

Il carattere islamico dell'attuale regime limita considere-volmente l'attività della Chiesa. Le conversioni dall'islam al cristianesimo sono proibite, come la diffusione di opere reli-giose non musulmane.

Tutto sarebbe tranquillo, se non fosse che, negli ultimi an-ni, in una confusione di generi che si riscontra anche in Oriente, si è manifestato un netto inasprimento dei senti-menti anticristiani e antioccidentali. La ragione di ciò va ri-cercata nella presenza in Mauritania di gruppi salafiti o vici-ni alle posizioni di al-Qa'ida, che si sono resi responsabili di attentati ai danni di turisti stranieri o di diplomatici israelia-ni residenti a Nouakchott. Si tratta finora degli unici attacchi a non musulmani di cui si abbia notizia nel paese.

Charles de Foucauld, com'è noto, fu assassinato in Alge-ria nel 1916 nell'Ahaggar, a Tamanrasset. Meno conosciuto è il fatto che il ramo della Confraternita dei Senussi, responsa-bile del tentativo di rapimento dalle conseguenze mortali, viveva in Libia. I senussi sono originari della regione di Mo-staganem, un porto situato nell'Algeria occidentale; il loro leader e il suo seguito erano immigrati, in un primo mo-mento, verso la Mecca, per poi tornare in Africa e stabilirsi nella Libia sudoccidentale. L'assassinio del religioso france-se fece scalpore, ma si trattò della sola aggressione delibera-

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tamente anticristiana in cui fu coinvolta la Libia. Nel 1951 il nuovo capo della Confraternita, discendente diretto dei fon-datori dell'ordine, fu elevato al rango di sovrano: divenne infatti re di Libia con il nome di Idris I.

In quel paese il cristianesimo è soprattutto una storia di vecchie pietre: infatti, il suolo vanta un imponente patrimo-nio archeologico di epoca romana, con rovine che hanno sfi-dato i secoli. Qui e là si trovano tracce delle prime comunità cristiane o testimonianze risalenti all'epoca bizantina. La Re-pubblica araba di Libia del colonnello Gheddafi, a lungo chiusa, si sta ormai aprendo ai turisti, i quali di solito visita-no il paese in gruppi organizzati dalle agenzie di viaggi.

Essi faranno molta fatica a notare le comunità cristiane, che contano tra i 40.000 e i 50.000 membri. Il colonnello Ghed-dafi è salito al potere nel 1969 in seguito a un colpo di stato che ha posto fine al regno di Idris I; tra i primi atti del suo re-gime si annovera l'espulsione dei coloni italiani stanziati nel paese. Dal 1911 alla seconda guerra mondiale la Libia fu una colonia di popolamento italiana. La Chiesa era penetrata nel paese, ma la maggior parte degli edifici di culto furono ab-bandonati all'indomani del secondo conflitto mondiale, dopo la massiccia partenza degli italiani. Ciononostante, una pre-senza cristiana si è mantenuta fino al 1969, epoca dell'espul-sione degli ultimi coloni della terra di Dante.

Da quella data i soli cristiani residenti in Libia sono i po-chi copti egiziani impiegati nell'industria petrolifera o i tec-nici occidentali delle multinazionali dell'oro nero. A costoro va aggiunto un certo numero di maltesi: il piccolo arcipela-go, infatti, ha sempre mantenuto rapporti economici piutto-sto stretti con la Libia. Negli anni '80 e '90 si è notato altresì l'arrivo di cooperanti provenienti da diversi paesi ex comu-nisti, come la Bulgaria e la Iugoslavia.

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I bisogni religiosi di quelle comunità cristiane sono sod-disfatti dalla presenza di due vescovi latini, residenti a Tri-poli e a Bengasi e da vicariati apostolici nelle città meno im-portanti. A Tripoli esiste una parrocchia anglicana, dipen-dente dalla diocesi del Cairo; gli ortodossi serbi e bulgari, co-me pure i copti egiziani, dispongono di numerosi luoghi di culto.

La presenza cristiana è in ogni caso assai discreta e non si può parlare di tensioni tra cristiani e musulmani. Tuttavia, anche in Libia il recente e massiccio arrivo di immigrati ori-ginari dell'Africa subsahariana ha modificato la situazione. Gli «stranieri» del sud raggiungono il paese per imbarcarsi clandestinamente in direzione delle coste siciliane o delle isole di Pantelleria e Lampedusa; molti di loro, però, spera-no di trovare in Libia un lavoro, confidando nelle dichiara-zioni panafricaniste del colonnello Gheddafi.

Tali speranze si rivelano presto fallaci. In numerose città della Libia si sono manifestate forti tensioni tra gli autoctoni e gli stranieri, vittime di veri e propri raid omicidi. Sebbene siano in maggioranza cristiani, la xenofobia di cui sono vitti-me è più legata al razzismo o a questioni di «concorrenza sleale» nel lavoro a basso costo che a ostilità nei confronti del cristianesimo.

Tuttavia, se è vero che nel 2007 la piccola comunità cri-stiana di Tripoli ha ottenuto la riapertura della chiesa di San-ta Maria degli Angeli, alcune affermazioni del colonnello Gheddafi alla televisione Al-Jazeera-Europe il 10 aprile 2006 non sono per niente rassicuranti: «Non abbiamo bisogno di spade né di bombe per espandere l'islam. Abbiamo già 50 milioni di musulmani che vivono là. Nel giro di dieci anni trasformeremo l'Europa in un continente musulmano!».

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'Cfr. René Guitton, Si nous nous taisons... Le martyre des moines de Tibhirine, Calmann-Levy, Paris 2001 (ristampa: Pocket, Paris 2009). 2 Un piatto a base di agnello [N.d.T], 'Sorta di torta pasqualina a base di farina, zucchero, uova [N.d.T]. 4 Dolce a base di frutta consumato in occasione dell'Epifania soprattutto in Francia, Belgio, Svizzera [N.d.T.]. 5 La Guide du Routard (lett. Guida del giramondo; un routard è una persona che viaggia un po' dappertutto, spesso in autostop), è una nota collana di guide turistiche francesi fondata nel 1973 da Michel Duval e Philippe Gloaguen sulla scia della celebre pubblicazione Hitch-hiker's Guide to Eu-rope (1971) di Ken Welsh [N.d.T.]. 6 «Casa della Salvezza», organizzazione che si definisce «Centro per la re-staurazione cristiana» e la cui sede centrale marocchina è a Casablanca, [N.d.T.]. 7 Cfr. Léon Poljakov, Histoire de l'antisémitisme, tomo 3 (De Voltaire a Wa-gner), Calmann-Lévy, Paris 1973. "«Témoignage Chrétien», 29 settembre 2006. 'Genere musicale algerino nato nella città di Orano, che mescola musica beduina, araba, francese e spagnola [N.d.T.]. 10 Alcuni estratti commentati della legge del 2006, che secondo qualche commentatore è responsabile del riacutizzarsi dello scontro Oriente/Occi-dente, sono reperibili in appendice al presente volume. " Louis Veuillot, Les français en Algérie, Robert Laffont, Paris 1978. 12 Nel luglio 1961 il governo tunisino organizzò il blocco della base marit-tima di Biserta che era rimasta alla Francia dopo la proclamazione dell'in-dipendenza della Tunisia (20 marzo 1956). Ne risultarono violenti com-battimenti, seguiti nell'ottobre del 1963 dall'evacuazione definitiva della base da parte della Francia.

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Dove tutto ha avuto inizio e tutto potrebbe finire

Quando vuol dar prova di eleganza, la Provvidenza si traveste da caso. Ho avuto questa forte sensazione mentre bighellonavo a Parigi, in Rue des Martyrs, ai piedi della col-lina di Montmartre.

All'esterno di una libreria c'era un piccolo allestimento di li-bri d'occasione. Il cielo dirigeva secondo i propri disegni il cor-so delle mie ricerche; infatti, tra i volumi esposti, ebbi il piace-re di fare una scoperta interessante: l'edizione del 1830, in tre tomi color verde pallido, deWItinéraire de Paris à Jérusalem (Iti-nerario da Parigi a Gerusalemme, 1811) di Chateaubriand, un testo di cui avevo sentito parlare ma che non avevo mai letto. Certamente, durante le mie peregrinazioni in Oriente, i rac-conti di scrittori viaggiatori del XIX secolo come Flaubert, La-martine, Nerval o Gautier mi avevano fatto compagnia, ma mai mi ero imbattuto nel resoconto di Chateaubriand.

Terra Santa! Soltanto una certa stampa si ostina a usare questa espressione passe-partout che non corrisponde ad al-cuna realtà, e che tutt'al più si riferisce alla regione del mon-do dove i nazionalisti ebrei o arabi si affrontano da oltre un secolo, rivendicando i propri diritti «storici e imprescrittibi-li» su luoghi nei quali la Storia cova sotto ogni pietra.

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Cosa ne è stato dei cristiani nella terra in cui è nata la lo-ro religione? L'argomento è tabù: evocare la presenza cristia-na in Terra Santa è considerato politicamente scorretto. Inol-tre, vi è il timore di ridestare lo spettro delle Crociate, uno dei periodi più bui del cristianesimo, e dell'espansione euro-pea oltremare. Il paragrafo dedicato da Chateaubriand al proprio arrivo nella baia di Haifa si legge oggi quasi con im-barazzo. Davvero il nostro visconte doveva essere un ro-mantico, per esprimere in questi termini l'emozione che lo travolse:

La vista della culla degli ebrei e dei cristiani mi colmò di timo-re reverenziale e di rispetto. Stavo per sbarcare nella terra dei prodigi, la sorgente della più stupefacente poesia, i luoghi nei quali, anche dal punto di vista umano, si è verificato il più gran-de evento che mai abbia cambiato volto al mondo: mi riferisco alla venuta del Messia.

Il libro di Chateaubriand è di scottante attualità e aiuta a comprendere il dramma vissuto dai cristiani in Terra Santa: il loro numero, va ricordato, non è limitato a qualche mona-co cattolico, greco, copto o armeno che veglia sui luoghi san-ti, né a qualche patriarca in continua processione solenne per le vie di Gerusalemme e nemmeno ai pellegrini che giungo-no dai quattro angoli del globo per levare al cielo le proprie preghiere in un assordante remake della torre di Babele.

Se ti dimentico, Gesù...

Prima di affrontare l'argomento della brutalità, delle ves-sazioni, delle discriminazioni, degli autodafé e degli attenta-

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ti di cui i cristiani sono vittime in quella santa regione, mi pa-re importante esporre la complessità e il paradosso che ca-ratterizzano la componente cristiana della Terra Santa. Sen-za questa premessa, che riguarda in buona parte la singola-re storia e le origini dello Stato d'Israele, il lettore non spe-cialista rischerebbe di smarrirsi.

Il viaggiatore che sbarchi a Tel Aviv potrà rendersi conto immediatamente della presenza cristiana, senza bisogno di spingersi fino a Gerusalemme. I suoi passi lo conducono ine-vitabilmente verso il quartiere che ospita la vecchia stazione dei pullman abbandonata. È il Soho o il Barbès locale, popo-lato da migliaia di lavoratori immigrati, clandestini o regola-ri. Polacchi, romeni, africani, thailandesi o filippini, in mag-gioranza cristiani, hanno sostituito la manodopera palestine-se dei «Territori», alla quale l'accesso in Israele è proibito dall'inizio della Seconda Intifada (2000).

Gli immobili vicini alle vecchie piattaforme degli autobus ospitano decine di luoghi di culto dai quali si levano pre-ghiere a Gesù o alla Vergine Maria in swahili, in lingala, in romeno. Gli inni si mescolano alle sdolcinate melodie orien-tali trasmesse dalle radio delle bettole.

Nel corso degli anni l'area intorno alla vecchia stazione degli autobus, un tempo occupata dagli ebrei provenienti dall'Iraq, dallo Yemen e dall'Africa settentrionale, è inesora-bilmente divenuta il quartiere cristiano di Tel Aviv. Siamo as-sai lontani dalle immagini da cartolina presentate nei dé-pliant del Ministero del Turismo israeliano che esaltano la terra del latte e del miele, dove il popolo ebraico ha intrapreso l'opera di ricostruzione della sua antica patria.

Israele è uno Stato ebraico rivendicato come tale, ma è an-che multietnico e multiconfessionale. Esso protegge e rico-nosce ufficialmente diverse minoranze, che costituiscono

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quasi un quarto della popolazione: i cristiani, i drusi, i mu-sulmani, gli arabi, i beduini, i circassi ecc. Secondo i dati pubblicati da un organismo serio come l'Ufficio statistico i cristiani, in Israele, sarebbero 149.600, ovvero il 2,1% della popolazione. In gran parte (120.000 persone) si tratta di ara-bi israeliani, fieri del loro plurisecolare radicamento nel pae-se. Proclamano orgogliosamente la propria molteplice iden-tità, di cui si vantano: sono infatti arabi, cristiani di cultura musulmana e di memoria bizantina, che vivono in un am-biente a maggioranza ebraica.

I più anziani tra loro hanno scelto di rimanere nelle terre in cui vivevano al momento della proclamazione dell'indi-pendenza di Israele (1948), e sono stati relativamente rispar-miati dalle migrazioni che hanno fatto seguito al primo con-flitto arabo-israeliano. Essendo considerati innocui o co-munque scarsamente pericolosi, sono stati autorizzati a re-stare, anche se non sono mancate le espulsioni: per esempio, alcuni abitanti greco-ortodossi del nord della Galilea sono ancora in attesa di poter ritornare nei loro villaggi d'origine.

II 70% dei cristiani arabi di Israele vive in Galilea, nel nord del paese, dov'è concentrata la maggioranza degli ara-bi israeliani. Se si eccettuano due villaggi esclusivamente cri-stiani (Fassuta con i suoi 3000 abitanti, e Myelia, in cui vivo-no 2800 persone) e quattro altri borghi in cui il cristianesimo è la religione maggioritaria, i cristiani arabi israeliani costi-tuiscono una minoranza nella minoranza: rappresentano in-fatti la metà della popolazione araba di Haifa e un quarto di quella di Tel Aviv-Giaffa. Come si evince da questi dati, è az-zardato parlare di loro come di un gruppo omogeneo. La co-munità arabo-cristiana di Israele rappresenta un agglomera-to di gruppi rivali, presso i quali sono ancora forti le divisio-ni tipiche del cristianesimo orientale.

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Ufficialmente, la comunità più importante è rappresenta-ta dai cattolici melchiti, la cui Chiesa riconosce l'autorità del papa. Nel corso degli ultimi tre secoli questo gruppo ha be-neficiato dell'afflusso di numerosi fedeli greco-ortodossi; tuttavia, la sua preponderanza è oggi minacciata dall'arrivo degli «ebrei» provenienti dall'ex Unione Sovietica, giunti a ingrossare le file delle popolazioni greco-ortodosse dopo il 1989.

Questo recente fenomeno dalle singolari implicazioni me-rita qualche cerino. Per quanto possa sembrare sorprenden-te, si tratta in gran parte di persone soltanto nominalmente ebree. La Legge del Ritorno, adottata dalla Knesset (il Parla-mento israeliano) nel 1950, stabilisce che qualunque ebreo, o chiunque abbia almeno un ascendente diretto ebreo, può ac-quistare automaticamente la cittadinanza israeliana ed estenderla al proprio coniuge e ai propri figli, indipendente-mente dal loro status secondo la giurisprudenza rabbinica, la Halakhah.

Molti «ebrei» sovietici sono il prodotto di unioni avvenu-te al di fuori del loro clan o di matrimoni con persone di fe-de ortodossa. Alcuni sono di etnia ebraica, ma convertiti al cristianesimo ortodosso. È questo, per esempio, il caso del padre di Yuli-Yoel Edelstein, membro del Likud e ministro per l'Integrazione tra il 1996 e il 1999. Edelstein si è conver-tito all'ebraismo e indossa la kippah, ma è stato allevato nel-la religione ortodossa da suo padre, un pope di origine ebraica. L'ex ministro non rappresenta affatto un'eccezione: da alcuni anni l'esercito israeliano fornisce copie del Nuovo Testamento in ebraico a giovani militari di origine russa che ne fanno richiesta; fino a non molto tempo fa si limitava a di-stribuire alle reclute, quasi tutte ebree, una copia del Tanakh, la Scrittura ebraica.

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Gli israeliani di origine russa, che non sono veri ebrei, spesso tacciono riguardo al proprio cristianesimo. Molti di loro scelgono di non rendere nota la loro fede religiosa per non essere classificati a parte rispetto ai concittadini ebrei: sono registrati come russi, senza che sia fatta menzione del-la loro religione. In ogni caso, tra loro i cristiani sarebbero dai 300.000 ai 400.000; il loro arrivo avrebbe quindi notevolmen-te accresciuto i ranghi degli ortodossi, che rappresentano or-mai il 50% della popolazione cristiana d'Israele. Alla luce di quanto abbiamo detto si spiega perché le statistiche ufficiali parlino di soli 149.000 cristiani presenti nel paese, un dato «talmudico» che soddisfa tutti.

Grazie all'immigrazione degli «ebrei russi» la percentua-le di cristiani in seno alla popolazione israeliana è aumenta-ta considerevolmente ed è, a quanto sembra, assai superiore al 2,1% attestato dalle statistiche ufficiali: alcune autorità cri-stiane propongono addirittura una cifra pari all'8%.

Questo cambiamento significativo è assai difficile da scor-gere a occhio nudo, ma la conferma che esso è in atto può ar-rivare casualmente, per esempio in casa di una famiglia ebrea russa, come successe a me quando studiavo presso la Scuola biblica e archeologica francese di Gerusalemme (École bibli-que et archéologique française de Jérusalem), situata vicino al-la porta di Damasco. Si tratta di un'istituzione affidata, fin dalla sua fondazione nel XIX secolo, alle cure dei Domenicani francesi e situata non lontano dal quartiere russo, dove nulla sembra distinguere gli abitanti cristiani dai loro vicini ebrei. Eccetto l'icona della Vergine di Smolensk, rischiarata da un lu-mino: il mio ospite mi mostrò con orgoglio la sacra immagine, la cui singolare presenza mi parve una perfetta conferma del-l'acuta raccomandazione del generale De Gaulle: «Non biso-gna partire per il complicato Oriente con idee semplici».

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In teoria Israele è uno Stato democratico e multietnico che non riconosce alcuna discriminazione fondata sulla reli-gione, l'origine o il sesso. Tuttavia, sebbene godano del di-ritto di voto fin dal 1948, gli arabi israeliani, cristiani o mu-sulmani sono stati sottoposti fino alla metà degli anni '60 a un regime militare che limitava considerevolmente la loro libertà di circolare e che li esponeva a varie misure discri-minatorie, dando vita a una separazione dalla popolazione ebraica. Tale barriera si è trasformata in una sorta di segre-gazione spaziale.

Alcuni sondaggi d'opinione condotti nel 2008 mostrano che il 70% della popolazione ebraica israeliana non desidera avere vicini di casa arabi. A Tel Aviv e a Haifa gli arabi, cri-stiani o musulmani, abitano in quartieri distinti da quelli ebraici e le occasioni di incontro tra le due popolazioni sono piuttosto rare. Né si può dire che l'esercito svolga la funzio-ne di crogiolo tra le componenti etniche del paese, poiché gli arabi, cristiani o musulmani, sono esonerati dal servizio mi-litare, o, più esattamente, non sono autorizzati a compierlo, fatte salve alcune, rarissime, eccezioni.

La situazione degli arabi cristiani israeliani è ben diversa da quella dei cristiani israeliani giunti dall'ex Unione Sovie-tica. Il diplomatico francese Jean-Pierre Valognes scriveva, soppesando con cura le parole: «Gli arabi cristiani sono me-glio protetti dagli abusi [rispetto ai musulmani], tuttavia an-che loro sono vittime, in particolare nei territori occupati, di attentati contro i diritti umani e di discriminazioni che pos-sono essere giudicate incompatibili con gli ideali democrati-ci ai quali Israele si richiama»

Per quanto riguarda gli altri cristiani israeliani, si tratta per la maggior parte di religiosi stabilitisi da lungo tempo in Israele o di congiunti cristiani di ebrei israeliani. Bisogna

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contare anche i discendenti degli ebrei etiopi, o falascià, cri-stianizzati verso il 1860: sono i cosiddetti falascià mura, che hanno seguito in Israele i membri delle loro famiglie rimasti ebrei appena hanno avuto l'autorizzazione da parte delle au-torità, diffidenti nei loro confronti.

Infine, va notata la presenza di lavoratori immigrati cri-stiani giunti dall'Europa, dall'Africa o dall'Asia: in totale, si tratta di poco più di 30.000 persone (ma la cifra potrebbe es-sere approssimata per difetto, perché i clandestini sono nu-merosi). Gli imprenditori israeliani, privati della manodope-ra a basso costo dei Territori occupati (in particolare della Ci-sgiordania), hanno fatto massicciamente ricorso ai bulgari e ai romeni per le costruzioni, ai thailandesi e agli africani per l'agricoltura e ai filippini per i lavori domestici o di assisten-za ad anziani e invalidi.

La maggior parte di queste persone è cristiana, spesso cat-tolica, con una forte percentuale di protestanti appartenenti a sette o Chiese fondamentaliste. Costoro non hanno ricevu-to buona accoglienza dalle parrocchie locali e hanno costi-tuito propri gruppi di preghiera, che svolgono anche un ruo-lo di aggregazione sociale.

I cristiani israeliani hanno un futuro? La domanda può sembrare provocatoria, se si tiene conto della loro importan-za numerica e del fatto che la maggioranza di costoro è prov-vista della cittadinanza israeliana e della protezione da essa garantita. Tuttavia, dobbiamo porcela e porla in modo di-verso a seconda dei gruppi coinvolti.

Nel caso dei cristiani arabi, il pericolo più grave consiste nella tendenza a emigrare da parte delle giovani generazio-ni, che, pur dotate spesso di buoni studi, fanno fatica a inse-rirsi nella società israeliana e nel mondo del lavoro. La pub-

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blica amministrazione offre poche prospettive di impiego o di carriera agli arabi e dunque ai cristiani arabi, il che dis-suade i giovani cristiani diplomati a tentare quella via.

Per quanto concerne il settore privato, esso garantisce ben pochi sbocchi ai candidati arabi. I diplomati arabi israeliani sono dunque fortemente inclini a emigrare negli Stati Uniti, dove spesso hanno dei parenti. Questo fenomeno colpisce in particolare i giovani cristiani i cui genitori sono in grado di finanziare il trasferimento all'estero. L'emigrazione è una minaccia per l'esistenza della comunità arabo-cristiana di Israele, che deve fare i conti con un tasso di natalità eccezio-nalmente basso (1,4%, contro il 3,3% dei musulmani e il 2% dei drusi).

Tra la fine degli anni '60 e la fine degli anni '90, all'inter-no della popolazione araba i cristiani sono sensibilmente di-minuiti. Le previsioni più ottimistiche dell'Ufficio statistico sostengono che nel 2025 essa si manterrà ancora al livello del 2008, mentre i musulmani saranno il 23% della popolazione di Israele (attualmente sono il 16%). La stagnazione demo-grafica dei cristiani avrà certamente ripercussioni sul loro status politico.

Quando evocai questo scenario di fronte a un sacerdote melchita di Gerusalemme egli si mostrò del tutto serafico ri-guardo a «un argomento che non v'è ragione di discutere», stando a quanto disse. Perché mai se ne dovrebbe parlare?

«Tutto va bene nel migliore dei mondi possibili», mi assi-curò, fingendo una punta di irritazione quando citai fatti che contraddicevano il suo beato ottimismo, come la situazione in alta Galilea, a Maghar, dove le tensioni tra drusi (57%) e cristiani (23%) sono in continuo peggioramento dall'inizio degli anni '90: «Si tratta di un fenomeno secondario». Eppu-re, le difficoltà sono tali da spingere numerose famiglie cri-

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stiane a trasferirsi a Nazaret o a Haifa. Ci sarà pure un moti-vo se se ne vanno! «Semplicemente, i genitori desiderano che i figli, che non si sentono a proprio agio nella scuola di Ma-ghar, studino presso istituti di qualità migliore.» E perché i loro figli si sentono a disagio? Il sorriso del mio interlocuto-re mi fece capire che avevo già la risposta.

Citai allora l'esempio delle tensioni tra i cristiani e i mu-sulmani, particolarmente pesanti nelle regioni arabe del Triangolo di Galilea, a sud di Nazaret e a nord della Cisgior-dania, dove imperversa lo sceicco Raed Salah, che persegue l'instaurazione di uno Stato musulmano teocratico in Pale-stina, regolato dalla shari'a e nel quale gli ebrei e i cristiani potrebbero aspirare al massimo allo status di stranieri non musulmani «protetti» (dhimmi).

Il silenzio del sacerdote mi riportò alla mente un episo-dio, sempre presente nei miei ricordi, avvenuto a Nazaret e riguardante il progetto di costruzione di una moschea pro-prio accanto alla basilica dell'Annunciazione.

Nel 2000 ebbi il privilegio di seguire la storica visita di pa-pa Giovanni Paolo II in Medio Oriente. La tappa irachena, che doveva portare sulle tracce di Abramo, era stata annul-lata da Saddam Husayn per ragioni che solo il Dio dei tre monoteismi conosce. Pioveva a Nazaret, culla della famiglia di Cristo. La temperatura di poco superiore allo zero sor-prendeva i giornalisti giunti dall'Europa. Nella città galilea i cristiani sono ormai una minoranza rispetto ai musulmani. La basilica assomiglia a un grosso bignè. È stata eretta in oc-casione della visita di Paolo VI in Israele, avvenuta nel 1964: era la prima volta che un papa si recava in Terra Santa dalla nascita del cristianesimo.

Alla fine degli anni '90 i cristiani di Nazaret si prepara-vano dunque ad accogliere la folla di fedeli che sarebbero

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accorsi per assistere alle cerimonie in onore del bimillena-rio della nascita di Gesù. I militanti islamici locali scelsero proprio quel momento per rivendicare il possesso di un ter-reno situato vicino alla basilica e richiedere il permesso per costruire una moschea, il cui minareto avrebbe superato in altezza il campanile dell'edificio cristiano. Per uno strano caso, il primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu, che pure è un falco della destra, si convinse immediatamente dell'urgente necessità di offrire ai musulmani di Nazaret un luogo di culto: si trattò di un esempio di sollecitudine invero toccante da parte di un uomo fino a quel momento insofferente dell'ecumenismo e della tolleranza religiosa. Ma in Terra Santa i miracoli fanno parte della vita di tutti i giorni.

La concessione dell'autorizzazione a costruire la moschea ebbe un effetto incendiario a Nazaret e nelle cancellerie, al punto da provocare la minaccia di annullamento del viaggio di Giovanni Paolo II. Nel frattempo, il nuovo primo mini-stro, Ehud Barak, succeduto a Netanyahu, pensò che fosse assolutamente necessario attendere, sperando che alla fine i musulmani e i cristiani di Nazaret avrebbero trovato un ac-cordo. Fu necessario l'intervento personale di Ariel Sharon, che era ancora lungi dal diventare capo del governo, per an-nullare tout court la licenza edilizia, con grande soddisfazio-ne del nunzio apostolico, monsignor Pietro Sambi. L'intero affare va probabilmente letto come un'operazione di bassa cucina elettorale in salsa religiosa. Sembra che i militanti islamici avessero fatto balenare a Binyamin Netanyahu la possibilità che gli arabi israeliani votassero in massa per il Likud in occasione delle elezioni legislative. Effettivamente, nel 1996, tra la sorpresa generale, Shimon Peres fu battuto da Netanyahu proprio a causa dell'astensione degli arabi israe-

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liani, che intendevano protestare contro il bombardamento del villaggio libanese di Cana.

L'incidente ha lasciato tracce: con l'intento di evitare che la minaccia si ripetesse, la Custodia francescana di Terra San-ta ha proceduto all'acquisto delle case e dei terreni situati vi-cino alla basilica per creare il Centro internazionale Maria di Nazaret, una sorta di cordone sanitario attorno ai Luoghi Santi. La maggior parte dei proprietari ha venduto a peso d'oro, pretendendo la massima discrezione per paura di su-bire pressioni da parte dei fondamentalisti musulmani. Do-po aver intascato i soldi, hanno lasciato prudentemente Na-zaret: all'epoca, per un musulmano vendere i propri beni a un cristiano era un'azione pericolosa.

L'affare dà un'idea precisa della difficile posizione in cui si trovano i cristiani arabi israeliani, stretti fra la stella di Da-vide e la mezzaluna. Essendo una minoranza nella minoran-za, devono convivere con i loro concittadini arabi di fede musulmana ma non godono della tutela cui avrebbero dirit-to da parte dello Stato, il quale giustifica la propria inerzia trincerandosi dietro a tino stupefacente atteggiamento pila-tesco: sostiene infatti che non può soccorrere i cristiani israe-liani quando sono in conflitto per motivi religiosi con i loro concittadini musulmani, il che di fatto equivale ad avvan-taggiare il gruppo numericamente più importante. E poiché l'aritmetica è contro di loro, i cristiani scivolano ineluttabil-mente verso un'emarginazione sempre crescente.

Nel marzo 2006 Nazaret è stata nuovamente teatro di in-cidenti, questa volta tra ebrei e cristiani. Una coppia di israe-liani ha suscitato la rabbia dei fedeli facendo scoppiare alcu-ni petardi all'interno della basilica dell'Annunciazione: si è trattato di una vera e propria profanazione di un Luogo San-

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to cristiano. Le manifestazioni che sono seguite hanno pro-vocato una ventina di feriti; vi hanno partecipato, al seguito del patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Michel Sab-bah (di origine palestinese), tutti i partiti arabi, nonché lo sceicco islamico Raed Salah, la cui presenza non è certamen-te passata inosservata.

In realtà, i coniugi israeliani (lui ebreo, lei cristiana) che hanno scatenato i disordini intendevano protestare contro la decisione dei servizi sociali di toglier loro la custodia del figlio più piccolo. Con quel gesto speravano di attirare l'attenzione sul loro caso. Il vescovo di Nazaret, monsignor Giacinto-Bou-los Marcuzzo, non ha ritenuto opportuno gettare acqua sul fuoco e ha dichiarato alla stampa: «Ciò che accade qui ci in-duce a pensare che dovremmo esigere protezione legale».

In compenso, il custode francescano di Terra Santa, Pier-battista Pizzaballa, si è mostrato più diplomatico e ha in-contrato i due coniugi in prigione per annunciar loro il per-dono della Chiesa: attraverso tale gesto ha inteso evitare che la situazione degenerasse. Il marito è stato condannato per attentato all'ordine pubblico alla pena severa di tre an-ni di carcere.

I cristiani israeliani di origine russa costituiscono una mi-noranza importante dal punto di vista numerico; il loro fu-turo, però, è incerto. Se si eccettua una piccola frangia profondamente credente e praticante, gli ortodossi russi cor-rono il forte rischio di scomparire schiacciati dal rullo com-pressore di una società fondata sul nazionalismo ebraico con il quale si alleano, spesso per odio nei confronti dei palesti-nesi, che contestano la loro presenza in quella terra.

II fatto di non essere ebrei vieta loro di contrarre matrimo-ni religiosi con ebrei. Ma di ciò si preoccupano relativamente

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poco: sebbene in Israele non esista il matrimonio civile, i de-putati del partito russofono Yisrael Beiteinu hanno ottenuto per loro un apprezzabile strumento giuridico, ovvero un'u-nione civile riservata esclusivamente ai coniugi non ebrei non appartenenti ad altre confessioni. Quanto a coloro che convi-vono senza essere sposati, la pratica delle unioni libere è tal-mente diffusa in Israele che non c'è alcun bisogno di preoc-cuparsi di ciò che potrebbero pensare i vicini di casa.

Il futuro dei religiosi cristiani stranieri che vivono in Israele è altrettanto incerto. La loro situazione è stata a lun-go precaria, soprattutto nel caso dei religiosi cattolici, a cau-sa dell'assenza di relazioni diplomatiche ufficiali tra il Vati-cano e Israele. Fin dagli esordi del movimento sionista, la Santa Sede non ha nascosto la propria ostilità nei confronti di qualunque tentativo di ricreare uno Stato a sovranità ebraica in Terra Santa, anche se Theodor Herzl si era detto pronto a ottenere la conversione in massa dei suoi correli-gionari al cattolicesimo in cambio dell'appoggio di Roma al-la sua lotta2.

Nonostante la visita effettuata da Paolo VI in Israele e in Giordania, la quale comunque dimostrava un miglioramen-to nei rapporti, la segreteria di Stato non intendeva ricono-scere lo Stato di Israele, per due ragioni. Da un lato, la Chie-sa voleva evitare di mettere in difficoltà i cristiani residenti nei paesi arabi; dall'altro, dal momento che Roma si consi-dera il Verus Israel, il vero Israele, il rifiuto da parte degli ebrei di riconoscere la natura messianica e divina di Gesù aveva fatto loro perdere lo status di popolo eletto da Dio. Si è dovuta attendere la firma degli accordi di Camp David tra Israele e l'OLP (1993) perché il Vaticano mettesse in moto un processo di normalizzazione dei rapporti con Israele.

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In ogni caso, gli attriti tra la Chiesa cattolica e le autorità israeliane restano frequenti, specialmente a proposito della concessione di permessi di soggiorno a lungo termine ai re-ligiosi stranieri, che sono visti con diffidenza, specialmente se provengono dall'Europa: gli israeliani li sospettano di es-sere meno filo-israeliani (secondo il loro metro di giudizio) degli evangelici americani.

Inoltre, la «sindrome Capucci» ha lasciato tracce doloro-se: verso la metà degli anni '70, monsignor Hilarion Capuc-ci, vicario patriarcale melchita di Terra Santa, fu condannato per aver trasportato nel proprio veicolo, protetto dall'immu-nità diplomatica, armi destinate a militanti palestinesi della Cisgiordania. A ciò si aggiunga un altro dato di fatto: negli anni '90 il Ministero dell'Interno, che rilascia i visti, era un feudo del partito religioso ultraortodosso sefardita, lo Shas. Anche se esso non controlla più direttamente quel ministero, vi ha piazzato i suoi uomini, noti per essere scarsamente sen-sibili al dialogo interreligioso. S tratta di funzionari che non fanno mistero della loro ostilità nei confronti del cristianesi-mo e giustificano le proprie decisioni agitando, esattamente come i loro omologhi algerini, la minaccia delle attività di proselitismo alle quali si dedicherebbero i cristiani in Israele.

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, i sospetti sono infondati. I suoi religiosi vivono quasi tutti a Gerusalemme Ovest o in località arabe di Galilea e hanno scarsi contatti con gli israeliani ebrei. Tuttavia, nel 2003, la consacrazione di monsignor Jean-Baptiste Gourion (1934-2005) a vescovo in-caricato della «Comunità cattolica di lingua ebraica» ha su-scitato qualche malumore. Gourion era nato ebreo, ma si è convertito al cattolicesimo nel 1958 e nel 1976 ha fondato la comunità benedettina di Abu Gosh. Le tensioni derivanti

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dalla sua nomina sono scemate soltanto alla sua morte, oc-corsa nel 2005.

Le accuse di proselitismo colpiscono più frequentemente i missionari evangelici americani e alcuni ebrei messianici: costoro, in generale, si considerano cristiani, ma sottolineano l'importanza della propria identità ebraica, le cui tradizioni intendono conservare, compatibilmente con il Vangelo. Se-condo loro Gesù sarebbe stato il Messia atteso dagli ebrei.

Nel caso degli evangelici non si tratta più di una questio-ne puramente religiosa. Negli Stati Uniti costoro, punta di diamante dei neoconservatori, sono noti per il forte sostegno a Israele e per i legami che intrattengono con gli ambienti più conservatori della classe politica israeliana, della quale condividono l'ostilità radicale nei confronti di qualunque compromesso territoriale con i palestinesi. I Born Again Ch-ristians (cristiani rinati) vedono negli ebrei, e in particolare negli israeliani, degli alleati dei cristiani e dell'Occidente nel-la lotta contro le «forze del male», incarnate dal fondamen-talismo musulmano o dall'islam tout court.

In Israele, gli evangelici possono contare sulla presenza di circa 15.000 ebrei messianici originari degli Stati Uniti, e di-venuti cittadini israeliani in virtù della Legge del Ritorno; es-si devono comportarsi con grande prudenza, poiché sono sorvegliati da vicino da numerose organizzazioni ebraiche ultraortodosse, che non esitano a denunciare alle autorità gli immigranti ebrei sospettati di aver beneficiato della Legge del Ritorno pur appartenendo a un'altra religione, nella fat-tispecie al cristianesimo. Un ebreo nato da genitori ebrei per-de il diritto al Ritorno se si fa battezzare o se afferma di cre-dere nella natura messianica di Gesù.

Nella quasi totalità dei casi gli ebrei messianici si accon-tentano di distribuire volantini e copie in ebraico del Nuovo

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Testamento nelle buche delle lettere. Tuttavia, alcuni gesti-scono associazioni di volontariato, ufficialmente aconfessio-nali, che operano a favore dei bisognosi; esse sono accusate, però, di esercitare sui beneficiari dei loro aiuti pressioni che preoccupano gli ambienti dell'ebraismo ultraortodosso.

Da ciò derivano tensioni che possono degenerare in inci-denti ai quali la stampa offre sempre ampio spazio. Una fa-miglia di ebrei messianici, gli Ortiz, residenti nella colonia ebraica di Ariel, in Cisgiordania, è stata vittima di un atten-tato: il capofamiglia, un reverendo, ha seguito in Israele la moglie, nata da una famiglia ebrea del New Jersey. Il loro fi-glio maggiore ha servito nell'esercito israeliano, mentre il minore, nato in Israele, stava per entrare in una squadra di pallacanestro di Tel Aviv. Non potrà realizzare il suo sogno di diventare uno sportivo di professione a causa delle ferite riportate in seguito all'esplosione di un pacco bomba spedi-to alla famiglia nel marzo 2008. Il giovane l'aveva scartato senza timore: era l'epoca in cui Israele celebra la festa di Purìm, durante la quale i fedeli hanno l'abitudine di scam-biarsi mishlòach manòt, cestini o pacchi contenenti cibo (per esempio noci e dolciumi, ma anche bevande).

In un paese nel quale gli attentati terroristici sono ogget-to di immediata condanna, l'attacco ai danni del giovane Or-tiz ha suscitato ben poche reazioni sdegnate. Alcune impor-tanti autorità religiose, considerate assai moderate, hanno addirittura dichiarato che gli Ortiz correvano il rischio di ap-parire come traditori agli occhi del popolo di Israele.

Qualche settimana dopo, il capo di Shas, che era anche il ministro dell'Industria e del Commercio, ha preteso dalla sua collega titolare del dicastero dell'Educazione nazionale l'annullamento della finale del celebre concorso biblico or-ganizzato ogni anno in concomitanza con la festa nazionale

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(che si celebra il 29 aprile). Il motivo? Tra i candidati figura-va una giovane israeliana appartenente a una famiglia di ebrei messianici.

Queste tensioni hanno avuto un'appendice caricaturale nel maggio del 2008 a Or Yehuda, cittadina di 34.000 abitan-ti nel distretto di Tel Aviv il cui sindaco ha organizzato un ro-go di copie del Nuovo Testamento. A sentir lui, alcune fami-glie di ebrei messianici avevano distribuito sistematicamen-te nelle buche delle lettere le Sacre Scritture cristiane tradot-te in ebraico. Il primo cittadino ha percorso le strade di quel tranquillo centro a bordo di un'automobile dotata di alto-parlanti, chiedendo agli abitanti di consegnare i «libri equi-voci» a un gruppo di seminaristi talmudici, che avrebbero provveduto a gettarli nel fuoco. A causa della somiglianza dell'iniziativa con i roghi organizzati dai nazisti l'episodio ha destato scandalo.

Verso la fine di maggio del 2008, Barbara Ludwig, una giovane studentessa tedesca del dipartimento di filosofia dell'Università ebraica di Gerusalemme, è stata arrestata e incarcerata per «soggiorno illegale». Il Ministero degli Inter-ni ha emesso nei suoi confronti un provvedimento di espul-sione, motivandolo con il sospetto che la giovane si dedicas-se al proselitismo.

Gli incidenti occorsi nel 2008 non sono che la punta del-l'iceberg. Fin dall'inizio degli anni '80, sia i religiosi sia gli edifici di culto cristiani sono stati bersagliati da attentati o at-tacchi, dovuti quasi sempre a organizzazioni ebraiche ul-traortodosse o a movimenti nazionalisti dell'estrema destra israeliana.

I primi segnali di tensioni tra ebrei e cristiani in Israele ri-salgono al 1983, anno in cui un concerto della Utah Oratorio Society, che aveva in programma il Messiah di Händel, fu in-

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terrotto da alcuni studenti di un seminario talmudico di Ge-rusalemme, i quali vedevano nell'esecuzione dell'opera un'«attività missionaria».

Pochi mesi dopo, alcuni ebrei messianici che partecipava-no a un congresso a Tiberiade subirono atti intimidatori: l'al-bergo che li ospitava fu parzialmente distrutto da un incendio doloso e i partecipanti furono aggrediti da un gruppo di ul-traortodossi locali. Sempre nel 1983 tre librerie cristiane, si-tuate nella zona ebraica di Gerusalemme, vennero date alle fiamme, come il tempio battista dove gli ebrei messianici ave-vano preso l'abitudine di riunirsi. Il custode del cimitero cri-stiano del monte Sion fu assassinato in circostanze misteriose. Due suore del monastero russo di Ein Kerem, nella periferia di Gerusalemme, vennero uccise da uno squilibrato che le ac-cusava di ritardare, con la loro presenza, l'arrivo del Messia.

L'aumento delle violenze indusse il sindaco di Gerusa-lemme a reagire con decisione. L'intervento dei servizi se-greti mise fine agli attacchi criminali, ma non alle manifesta-zioni contro le iniziative in odore di proselitismo. Nel 1985, per esempio, 5000 persone protestarono contro il progetto di costruzione di un'università mormona sul monte Scopus, mentre qualcuno disegnò croci uncinate sul recinto del mo-nastero di Nostra Signora di Sion a Ein Kerem.

Paradossalmente, in passato le attività missionarie rivolte agli ebrei di Terra Santa hanno svolto un ruolo di primo pia-no nel rivitalizzare le comunità cattoliche e ortodosse locali. Nel XIX secolo ognuno dei gruppi religiosi presenti a Geru-salemme viveva nel suo cantuccio e non si preoccupava mi-nimamente di convertire alla propria fede gli estranei. Tutta-via, ogni rottura dello status quo poteva scatenare reazioni inaspettate.

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In occasione di uno dei miei viaggi in Terra Santa mi è ca-pitato di alloggiare in un ostello bed and breakfast di Gerusa-lemme, situato in prossimità della porta di Giaffa e del vec-chio ufficio postale austro-ungarico. Il proprietario del posto ama far visitare ai suoi ospiti la vicina chiesa anglicana. «Qui», mi ha spiegato orgoglioso, «un rabbino - proprio co-sì, un rabbino - ha fatto suonare le campane di Gerusalem-me per la prima volta dalla presa della città da parte del Sa-ladino». In effetti, quella chiesa è stata eretta nel 1842 dal pri-mo e solo vescovo anglicano di Gerusalemme, Michael Solo-mon Alexander, rabbino convertitosi al cristianesimo, dive-nuto sacerdote anglicano e nominato vescovo di Gerusalem-me nel 1841.

All'epoca, l'arrivo del vescovo Alexander venne appena notato dagli ebrei locali, per i quali egli era nella peggiore delle ipotesi un rinnegato e nella migliore un tipo strano. In compenso, cattolici e greci-ortodossi gridarono allo scanda-lo: l'eretico riformato aveva l'ardire di rivendicare l'accesso ai Luoghi Santi! In passato ci si era sgozzati per molto meno.

Per reagire all'ordinazione a vescovo anglicano di Geru-salemme di un ex rabbino, Roma decise di dare un segnale chiaro, riesumando il patriarcato latino di Gerusalemme, abolito sei secoli prima. Gli ortodossi ordinarono al loro pa-triarca, che risiedeva da cent'anni a Costantinopoli, di rag-giungere Gerusalemme, anche se le condizioni di vita nella città santa erano più severe. Come si vede, i patriarchi latino e ortodosso devono la propria posizione ai precursori degli attuali ebrei messianici, il che prova, se ce ne fosse bisogno, che nel Vicino Oriente le vie del Signore sono, se non imper-scrutabili, per lo meno enigmatiche.

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Cercasi cristiani disperatamente

Le discriminazioni o le vessazioni che colpiscono i cristia-ni israeliani sembrano ridicole se confrontate con la situazio-ne drammatica dei loro correligionari palestinesi che vivono a Gerusalemme Est, in Cisgiordania.

Quei 49.500 cristiani, per lo più cattolici, rappresentano l'I,2% della popolazione palestinese. Il loro numero è in con-tinuo declino, il che è indice della grave debolezza di quelle comunità. Alcuni osservatori ritengono che nel prossimo se-colo in Terra Santa potrebbero non esservi più cristiani.

Per indagare sulla sorte dei palestinesi cristiani bisogna essere capaci di decrittare il loro doppio o triplo linguaggio. Sono credenti estremamente suscettibili riguardo a tutto ciò che concerne la loro identità religiosa o nazionale.

Recentemente mi sono nuovamente recato in quei territo-ri per partecipare all'inaugurazione del «cammino di Abra-mo» che collega la città turca di Harran (identificata con Charan, il luogo biblico dove Abramo soggiornò prima di trasferirsi nella terra di Canaan) a Gerusalemme e a Hebron. Si trattava di una specie di itinerario di San Giacomo di Compostela in terra d'oriente; il progetto era coordinato dal-la Abraham Path Initiative. Ho dunque avuto occasione di parlare con numerose autorità politiche e religiose locali, cri-stiane o musulmane, a Gerusalemme, Ramallah, Betlemme o Hebron. Tutti ripetono le stesse parole di circostanza.

Là i cristiani sono palestinesi come gli altri e non godo-no di alcun trattamento di favore da parte degli «occupan-ti israeliani». Soffrono quanto i musulmani a causa della costruzione della «barriera di sicurezza», dell'embargo eco-nomico e delle limitazioni imposte alla libera circolazione delle merci. Sono membri attivi del movimento nazionale

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palestinese, di cui faceva parte - come spesso ricordano, per mostrare la propria erudizione - la grande poetessa cri-stiana Raymonda Tawil, suocera di Yasir Arafat. Tacciono però sul fatto che la figlia della scrittrice, Suha Tawil, per sposarsi è stata costretta a convertirsi all'islam. La moglie del presidente dell'Autorità palestinese non poteva essere cristiana.

A Gerusalemme vivono circa 15.000 cristiani: 4500 cattoli-ci, 3500 greci-ortodossi, 1500 armeni, un centinaio di copti, alcuni anglicani e diverse centinaia di religiosi stranieri, ma anche studenti, e membri di ONG o del corpo diplomatico.

I palestinesi di Gerusalemme beneficiano di uno status privilegiato, in quanto sono in possesso di una carta di iden-tità specifica che li assimila agli israeliani sotto il profilo del-la protezione sociale e permette loro di circolare liberamen-te: dopo l'annessione di Gerusalemme Est da parte di Israe-le (1967) gli abitanti di quel settore della città, sia musulma-ni che cristiani, godono dunque di una posizione assai invi-diabile agli occhi del resto dei palestinesi.

Nella città vecchia, nei pressi della porta di Giaffa, è pre-sente un quartiere cristiano, che si estende fino al Santo Se-polcro. La parte armena ospita essenzialmente i locali del pa-triarcato, il cui titolare non nasconde di essere in rapporti piuttosto tesi con il suo omologo greco-ortodosso.

Gli abitanti del quartiere cristiano si recano a Betlemme senza problemi: infatti possono spostarsi liberamente in Ci-sgiordania e in Israele; tale privilegio è rifiutato ai loro cor-religionari della Cisgiordania, i quali, a partire dalla Secon-da Intifada, per andare a pregare a Gerusalemme hanno bi-sogno di un lasciapassare, documento non facile da ottenere. Dopo la costruzione della «barriera di sicurezza» la loro vita

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è profondamente cambiata; il muro separa quasi completa-mente la Cisgiordania da Israele, e ingloba le colonie ebrai-che e un certo numero di terreni ai quali i proprietari pale-stinesi non hanno più accesso.

I pellegrini cristiani che passano da Betlemme (è raro che vi trascorrano la notte) possono rendersi conto della situa-zione. All'entrata della città, la tomba di Rachele, situata in territorio israeliano, è protetta da un avamposto militare con ima torretta di guardia. Ci si arriva senza difficoltà da Geru-salemme. Per attraversare la strada e trovarsi così in territo-rio palestinese bisogna superare la «barriera di sicurezza» e sottoporsi ai pignoli controlli dei militari israeliani. Il muro taglia in due l'antica strada e con la sua massa imponente schiaccia i negozi di souvenir di proprietà dei cristiani loca-li, quasi tutti chiusi. Infatti, che senso avrebbe tenerli aperti? Vi sono giorni in cui i visitatori si contano sulle dita di una mano e hanno il cattivo gusto di mercanteggiare ferocemen-te sul prezzo di santini di modesto valore che spesso sono made in Hong Kong o made in Taiwan!

Ricordo l'accoglienza ricevuta nel 2000 da Giovanni Pao-lo II nei Territori palestinesi. Prima della sua visita si era svolto un lungo e teso negoziato tra la Santa Sede e l'Auto-rità palestinese su un argomento particolarmente delicato: gli ospiti palestinesi volevano che il Santo Padre si inginoc-chiasse e baciasse la sacra Terra di Palestina. Si trattava di un gesto politico dal valore altamente simbolico, che i vicini israeliani avrebbero interpretato (e deformato) per genera-zioni. La decisione è dunque stata lasciata in sospeso fino al-l'arrivo del papa. Nel campo profughi di Jenin, durante la cerimonia di benvenuto, il Santo Padre non ha dovuto ingi-nocchiarsi: si è visto offrire da una fanciulla e da un ragazzi-

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no alcuni piatti contenenti terra palestinese, che egli non ha potuto far altro che benedire.

Allo stesso modo, le cerimonie di benvenuto a Giovanni Paolo II a Gerusalemme sono state strumentalizzate dalle autorità israeliane della città, che hanno offerto solenne-mente al papa un raro esemplare della Sacra Bibbia: sul fo-glio di guardia erano state scritte le seguenti parole: «A Sua Santità papa Giovanni Paolo II, per celebrare la sua visita a Gerusalemme, capitale dello Stato di Israele». Nessuno sa cosa il Santo Padre abbia scritto nel messaggio che ha fatto scivolare, secondo la tradizione ebraica, tra le pietre del Mu-ro del Pianto a Gerusalemme.

In occasione della visita del papa a Betlemme, l'Autorità palestinese ha fatto le cose in grande. Le numerose autorità religiose cristiane, tutte in abito da cerimonia, erano sedute in una grande tribuna montata nella piazza principale. Si è trattato, però, di una manifestazione del tutto formale, che non ha contribuito in alcun modo ad assicurare la persisten-za della presenza cristiana in Palestina.

I Luoghi Santi cristiani non sono risparmiati dal conflitto arabo-israeliano: possono persino essere sfruttati per fini po-litici dall'Autorità palestinese, come è avvenuto durante la Seconda Intifada.

Già nel 2000, Yasir Arafat aveva giustificato il proprio ri-fiuto di concludere un accordo definitivo a Camp David pre-sentandosi come il «protettore dei Luoghi Santi musulmani e cristiani», ruolo che gli impediva di «disporne a suo piaci-mento» e di accettare qualunque compromesso territoriale relativo a Gerusalemme Est. Al 2002 risale un altro episodio piuttosto noto: la presa di ostaggi nella basilica della Nati-vità a Betlemme. Trentanove attivisti di Fatah sono entrati a

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forza nella chiesa assieme a 200 civili; i francescani, tradizio-nali guardiani dell'edificio, hanno scelto di rimanere all'in-terno per evitare spargimenti di sangue.

Meno note, invece, sono le ragioni che hanno provocato quella crisi di ostaggi e il vantaggio politico che Arafat, allo-ra prigioniero nel suo quartier generale di Ramallah, la Mu-qata, ne poteva trarre. In seguito a un attentato particolar-mente sanguinoso, perpetrato la sera della Pasqua ebraica a Netanya, e alla rioccupazione da parte di Tsahal di numero-se località della Cisgiordania, un certo numero di attivisti pa-lestinesi era ricercato dai servizi di sicurezza israeliani. Per ordine dell'Autorità palestinese, alcuni dei fuggitivi si sono asserragliati nella basilica della Natività. Di fronte all'impos-sibilità di penetrare nell'edificio senza scatenare uno scanda-lo internazionale, Israele ha attuato un rigido blocco del luo-go sacro, cominciato il 2 aprile 2002 e terminato il 10 maggio dello stesso anno in seguito al raggiungimento di un com-promesso. I 200 civili sono stati autorizzati a ritornare alle proprie case dopo essere stati sottoposti a controlli per ac-certarne l'identità; 26 attivisti hanno raggiunto Gaza mentre altri 13 sono stati esiliati per due anni in paesi mediorientali o europei.

Sebbene, secondo la tradizione, abbia dato i natali a Gesù e il suo sindaco sia cristiano, Betlemme sta perdendo la pro-pria identità. I cristiani, in città, sono ormai una minoranza; sono quasi tutti cattolici, se si eccettuano due villaggi greco-ortodossi situati nelle vicinanze, Beit Jala e Beit Sahur, feudi del nazionalismo palestinese. I cattolici assistono, con la morte nel cuore, al declino inesorabile della loro comunità. Ogni anno molte decine di persone abbandonano per sem-pre Betlemme e i suoi dintorni per stabilirsi in Occidente.

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Questo flusso migratorio non è una novità degli ultimi tempi: i cristiani orientali sono in movimento fin dal XIX secolo. Formatisi in scuole gestite dai Padri Bianchi, dagli Assunzionisti, dai gesuiti o dalle congregazioni femminili, i cristiani di Palestina hanno imitato i loro correligionari si-ro-libanesi e sono partiti per cercare fortuna nel mondo. Anche se sognano di ritornare nella propria terra, si sono integrati così bene nei paesi di accoglienza che preferiscono rimanervi.

Dopo i conflitti del 1948 e del 1967 il fenomeno si è ac-centuato e ha subito una brusca impennata nel 2000, allo scoppio della Seconda Intifada. La recessione economica che colpisce la Cisgiordania non risparmia in alcun modo i cri-stiani. Medici, avvocati, ingegneri, architetti e commercianti subiscono anch'essi gli effetti della crescita della povertà tra la popolazione. Inoltre, i cristiani tengono molto al proprio benessere e sono desiderosi di offrire ai loro figli condizioni di vita decenti e studi di buon livello: se sul posto tutto ciò non si trova lo si cerca da un'altra parte.

Pertanto, si sta verificando un'emorragia, lenta ma ine-sorabile. I futuri immigranti adottano un atteggiamento molto discreto: la prudenza consiglia loro di non far parola dei loro progetti, per non essere tacciati di «tradimento» o «diserzione».

Rari, rarissimi sono i cristiani che accennano, sia pur ve-latamente, alla forte pressione esercitata su di loro dagli spe-culatori immobiliari musulmani, vicini all'Autorità palesti-nese. Costoro mettono gli occhi sui beni che si apprestano a cambiar padrone e danno sfacciatamente per scontata la par-tenza dei cristiani, i cui immobili sono sistematicamente sot-tovalutati e talvolta comprati a prezzi irrisori.

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Betlemme non rappresenta un caso isolato. A Gerusalem-me Est il quartiere cristiano è attraversato da una grande via tappezzata di negozi di souvenir. È la «via del quartiere cri-stiano», ma di cristiano non ha che il nome. I tre quarti delle botteghe sono di proprietà di piccoli commercianti musul-mani che le hanno comprate da cristiani stabilitisi negli Sta-ti Uniti.

La crescente emarginazione dei cristiani a Gerusalemme Est o in Cisgiordania è altresì la conseguenza di un malessere in aumento. Essi avvertono confusamente di non essere più al loro posto nella società palestinese, la quale li ha finora accet-tati, ma sta diventando sempre meno tollerante e meno aper-ta all'idea della coesistenza, al proprio interno, di religioni di-verse. A Betlemme, Hamas ha ottenuto un eccellente risultato alle elezioni municipali, e i suoi simpatizzanti si sforzano di far regnare un «ordine morale» che esaspera i cristiani. Se escono senza il velo o se indossano vestiti giudicati «indecen-ti» le loro mogli sono aggredite; nei ristoranti e nei bar sono proibite le bevande alcoliche; non c'è ramadan che non dia luo-go a incidenti tra musulmani e cristiani. Dal momento che il silenzio è per loro una seconda natura, i cristiani della Ci-sgiordania non amano affatto parlare di questi argomenti.

L'ex patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Michel Sabbah, rappresenta a questo proposito un caso da manuale. È stato il primo palestinese a occupare quel ruolo e non ha mai fatto mistero della sua vicinanza ai dirigenti dell'Auto-rità palestinese, né ha mai nascosto il proprio intransigente nazionalismo. Nel 2005 aveva partecipato a una manifesta-zione organizzata a Nazaret contro la profanazione della ba-silica dell'Annunciazione, non esitando a sfilare accanto allo sceicco Raed Salah, un leader islamico noto per le sue predi-che anticristiane.

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Nella notte tra il 3 e il 4 settembre 2005, a Taibeh, vicino a Nazaret, la popolazione cristiana è stata vittima di un attac-co organizzato dagli abitanti dei villaggi musulmani vicini. All'origine dell'incidente c'è un dramma privato. Gli aggres-sori sospettavano un cristiano del luogo di aver sedotto una ragazza musulmana. In effetti, sembra che la giovane fosse una sorta di moderna Maria Maddalena, e che si fosse di-stinta per la sua propensione ad accettare i complimenti de-gli uomini senza distinzione di religione.

L'affare si è concluso con un «delitto d'onore», un feno-meno abbastanza comune nella regione. Il «colpevole» è sta-to trovato morto, senza dubbio assassinato da membri della sua stessa famiglia. Gli omicidi per motivi d'onore sono fre-quenti sia in Israele sia nei Territori palestinesi; in entrambi i casi la giustizia non fa nulla per scovare i colpevoli. A Taibeh la situazione è degenerata: i musulmani hanno accusato il cristiano di essere responsabile della morte della ragazza, da loro vendicata incendiando sette case in cui abitavano quat-tordici famiglie cristiane. Le forze di sicurezza dell'Autorità palestinese si sono ben guardate dall'intervenire; lo stesso dicasi del patriarca latino di Gerusalemme, cui era stato chie-sto aiuto.

Invece di risarcire le famiglie cristiane di Taibeh che ave-vano subito la distruzione delle proprie case, l'Autorità pa-lestinese ha creduto di far cosa giusta consigliando all'accu-sato cristiano di partire con la sua famiglia per gli Stati Uni-ti, facendo addirittura pressione sul consolato americano di Gerusalemme affinché accelerasse le pratiche per la conces-sione dei visti alle persone interessate.

I cristiani della Cisgiordania sanno di correre il rischio di far le spese di un'eventuale riconciliazione tra Fatah e Ha-

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mas, che avrà come prima conseguenza una maggior isla-mizzazione delle istituzioni politiche palestinesi. Tuttavia, ritengono che Hamas sia il male minore, in confronto ad al-tri movimenti che stanno guadagnando terreno nella regio-ne, come, per esempio, il misterioso Hizb ut-Tahrir (Partito della liberazione), vicino alle posizioni di al-Qa'ida e il cui programma prevede l'instaurazione del Califfato universale. Questo movimento è all'origine di vari incidenti ai danni della piccola comunità cristiana di Hebron; ne ho parlato con il governatore cittadino, che tuttavia ha minimizzato l'im-portanza di quegli episodi. Molti cristiani della città cisgior-dana, stanchi di essere bersagliati da minacce e insulti, han-no preferito trasferirsi a Betlemme o a Ramallah. È altresì in atto una massiccia emigrazione di Cristiani fuori dalla Ci-sgiordania, o verso le loro roccaforti in Cisgiordania e a Ge-rusalemme Est.

«E una conseguenza della crisi economica», mi ha assicu-rato il governatore di Hebron. «La crisi si è manifestata do-po la Seconda Intifada», ho osservato. Ha risposto: «Ma so-prattutto è stata causata dagli ostacoli frapposti dagli israe-liani alla libera circolazione delle persone e delle merci».

Finora, i palestinesi delle campagne erano vissuti in un ambiente completamente musulmano, e la scoperta dei cri-stiani suscita in loro sentimenti di rigetto abilmente sfrut-tati dai movimenti fondamentalisti. Il moltiplicarsi degli incidenti, che riguardano la vita quotidiana e raramente hanno una giustificazione ideologica, spinge alcuni cristia-ni della Cisgiordania, troppo poveri per fuggire all'estero e senza altra scelta, a stabilirsi nella periferia di Gerusa-lemme, in particolare nel quartiere di Beit Safafa, a mag-gioranza musulmana, dove recentemente sono stati co-struiti alloggi popolarti per accogliere 700 persone ormai

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isolate, a causa del muro, dalle loro famiglie rimaste in Ci-sgiordania.

La morte o l'esilio

La situazione dei cristiani di Cisgiordania, per quanto preoccupante, appare invidiabile se la si paragona a quella dei loro correligionari residenti a Gaza (circa 3500, di cui 3200 greci-ortodossi e 200 cattolici).

Dopo la ritirata unilaterale israeliana (estate 2005) e la presa del potere da parte di Hamas, Gaza, uno dei territori più densamente popolati del mondo, è stata letteralmente soffocata dall'embargo economico e finanziario. Tale isola-mento, posto in essere dagli israeliani, ha rappresentato la ri-sposta ai lanci di missili Katjusa contro i coloni del Sud.

Tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009 questa spirale infer-nale ha precipitato la regione in un caos di inaudita violen-za. I lanci di razzi e i bombardamenti non fanno alcuna di-stinzione tra civili e militari né tra cristiani e musulmani. È nota la grave crisi umanitaria che ha colpito gli abitanti di Gaza, i quali, durante l'embargo, erano impossibilitati ad at-traversare i valichi che avrebbero loro permesso di raggiun-gere l'Egitto o la Cisgiordania. Gli israeliani hanno interrot-to a più riprese il rifornimento di elettricità e di carburante. Le agenzie specializzate dell'ONU hanno evacuato il pro-prio personale straniero per timore di rapimenti e i combat-timenti si sono alternati a periodi di tregua. Gaza è sprofon-data nella miseria; più di metà della sua popolazione so-pravvive con meno di un dollaro al giorno.

I cristiani della Striscia devono far fronte alle stesse diffi-coltà incontrate dai loro compatrioti musulmani; in più,

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scontano il fatto di essere una minoranza in un territorio sot-to il controllo di Hamas. Gli islamici invocano l'instaurazio-ne di uno Stato teocratico musulmano in Palestina e spingo-no perché i non musulmani siano sottoposti a un regime giu-ridico particolare, come reclamato dallo sceicco Raed Salah.

Se si eccettuano la Chiesa cattolica e i suoi istituti (asso-ciazioni e fondazioni), come l'Œuvre d'Orient o Pax Christi, la sorte dei cristiani di Gaza non importa a nessuno. Sono pochissimi coloro che sanno della loro esistenza in una re-gione considerata a torto esclusivamente musulmana. La presenza cristiana in Terra Santa è antichissima, come attesta il monastero di Deir al-Balah, il monastero dei datteri, il più vecchio luogo di culto cristiano della Palestina, edificato pri-ma della costruzione del Santo Sepolcro. Esso è stato peral-tro saccheggiato, come una delle quattro chiese di Gaza, in concomitanza con la presa del potere da parte di Hamas, il 15 giugno 2007. Il sacco dei luoghi di culto cristiani è stato un tipico risvolto delle manifestazioni di giubilo che hanno con-trassegnato l'espulsione dalla Striscia dell'Autorità palesti-nese, sospettata di essere controllata da miscredenti o da musulmani rinnegati.

Più indietro nel tempo, nel 1994, Yâsir Arafat aveva com-prato a Gaza un terreno per costruire, l'una accanto all'altra, una moschea e una chiesa, che avrebbero dovuto simboleg-giare la convivenza armoniosa tra cristiani e musulmani. La moschea è stata costruita in men che non si dica, mentre a tutt'oggi le fondamenta della chiesa non sono ancora state gettate.

Fin dal conseguimento del potere, Hamas, che tiene alla propria immagine, ha avuto cura di ostentare un comporta-mento improntato a esemplare correttezza nei confronti dei cristiani di Gaza. L'ex primo ministro palestinese Ismail Ha-

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niyeh, per esempio, ha ricevuto le autorità cristiane alla vi-gilia delle festività natalizie del 2007 e ha accordato loro aiu-ti per l'illuminazione delle chiese. L'unico sacerdote cattoli-co di Gaza, padre Jean Moussalam, intrattiene rapporti ec-cellenti con i principali dirigenti di Hamas. La scuola di pa-dre Moussalam accoglie sia musulmani sia cristiani, e anno-vera tra i suoi studenti i figli di molti alti dignitari del parti-to. I dirigenti di Hamas ritengono infatti che le scuole cri-stiane dispensino per natura un insegnamento di qualità, su-periore a quello fornito da una scuola musulmana.

Tuttavia, Hamas si dimostra incapace di frenare le azioni delle frange fondamentaliste dissidenti, come l'«Esercito dell'islam», che si richiama ad al-Qa'ida. Alcuni di questi gruppi sono all'origine del rapimento e dell'uccisione (otto-bre 2007) di un impiegato della Holy Bible Society, ammaz-zato con diversi colpi di pistola alla testa. Vi sono stati atten-tati contro istituzioni cristiane, ma anche contro numerosi esercizi commerciali di proprietà di cristiani: librerie, Inter-net cafè, ristoranti ecc. Gaza è una gabbia dalla quale i cri-stiani vorrebbero poter evadere definitivamente.

Ciò che sta accadendo loro nella Striscia prefigura la sor-te futura dei cristiani che vivono nello Stato palestinese che verrà? I fatti non invitano certo a essere ottimisti.

Le Chiese straniere ritengono probabile una significativa diminuzione del numero dei cristiani palestinesi, se non ad-dirittura la loro scomparsa pressoché totale, anche se una presenza cristiana sarebbe garantita dai religiosi stranieri e dalle attività di cui sono i promotori nel campo dell'istruzio-ne e dell'assistenza ai bisognosi. Ciò è quanto si desume dal notevole cambiamento verificatosi nel 2008 alla testa del pa-triarcato latino di Gerusalemme.

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Monsignor Fouad Twal, ex arcivescovo di Tunisi (carica che ha ricoperto dal 1992 al 2005), è succeduto nel giugno 2008 a monsignor Michel Sabbah. Le differenze tra i due personaggi sono enormi. Il percorso di monsignor Fouad Twal è tanto atipico quanto affascinante: è nato in una tribù di beduini cristiani della Giordania; ha servito nella diplo-mazia vaticana in Honduras, poi presso la Segreteria di Sta-to, per conto della quale si è occupato dell'Africa francofo-na; quindi al Cairo, in Germania e in Perù, prima di essere nominato arcivescovo di Tunisi-Cartagine. Benché sia a fa-vore di un riavvicinamento con gli israeliani, monsignor Twal è tutt'altro che uno yes man. Ritiene la Palestina «il membro più gravemente ferito della nostra diocesi» e ha ri-petutamente denunciato, fin da molto prima di assumere la propria carica, la situazione creata dal «muro della vergo-gna». «Potete venire da tutti i paesi del mondo per pregare presso il Santo Sepolcro di Gerusalemme, ma un cristiano di Betlemme non può recarsi in visita alla tomba di Cristo, pur abitando a soli 10 chilometri di distanza. Si tratta di una situazione intollerabile. Betlemme è inseparabile da Gerusalemme.»3

Monsignor Twal ama insistere sugli aspetti pastorali del-la sua difficile missione presso una comunità cristiana divi-sa in gruppi, ognuno dei quali dà una sua interpretazione del conflitto israelo-palestinese. Il vescovo non può tenere discorsi variabili a seconda delle circostanze e degli interlo-cutori. Accontentare tutti significa prendere in considera-zione anche le autorità israeliane e palestinesi, senza conta-re gli estremisti. Ci si può domandare se l'«impegno pasto-rale» non sia un mezzo per dissimulare pudicamente il dramma dei cristiani di Terra Santa, la cui comunità si sta estinguendo.

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Alcuni osservatori, forse in malafede, notano che le auto-rità israeliane hanno tutto l'interesse a gettare benzina sul fuoco e a istigare le rivalità tra cattolici e ortodossi, non fos-s'altro che per poter esercitare pressioni sugli uni e sugli al-tri allo scopo di regolare numerose controversie finanziarie e fondiarie. Si tratta di cause complesse, e se è vero che «nes-suno può servire due padroni; non potete servire a Dio e a mammona»4, si deve constatare che la questione dei beni im-mobili delle varie Chiese è spinosa e tocca più di un nervo scoperto.

Da anni ormai tra Israele e il Vaticano sono in corso ne-goziati piuttosto tesi sullo status fiscale dei beni della Chie-sa. Roma ritiene che i cristiani debbano continuare a benefi-ciare delle esenzioni ereditate dal sistema ottomano, mentre le autorità israeliane reclamano il versamento da parte della Chiesa di quote annuali decisamente al di là delle possibilità finanziarie delle opere cattoliche di Terra Santa. Diciamolo pure senza mezzi termini: queste pressioni hanno lo scopo di rendere più malleabile sul piano politico il patriarcato latino, la cui sensibilità filo-araba spiace in modo particolare alle autorità israeliane.

La barriera di sicurezza, talvolta, taglia in due terreni ap-partenenti a istituzioni religiose; in più occasioni la Corte su-prema ha deliberato in favore dei querelanti cristiani, susci-tando l'ira degli ambienti della sicurezza israeliana. Israele può essere tentato di favorire in un primo tempo i cattolici per influenzare i greci-ortodossi e indurli a mostrarsi più concilianti sulle questioni fondiarie. In effetti, il patriarcato greco ha perseguito una politica di acquisti che ne ha fatto uno dei proprietari di immobili e terreni e uno dei locatori più importanti di Gerusalemme. Si pensi, per esempio, che

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la Knesset, la Grande Sinagoga di Gerusalemme, il palazzo della presidenza dello Stato e la residenza privata del primo ministro sono situati su terreni di proprietà della Chiesa gre-co-ortodossa. Ebbene, i contratti di locazione stanno per sca-dere, e alla Chiesa ortodossa non dispiace l'idea di negoziar-ne al rialzo il rinnovo, visti i costi assai elevati delle proprietà immobiliari a Gerusalemme.

Le autorità israeliane sperano inoltre di riuscire a dirime-re in via amichevole numerose controversie fondiarie relati-ve a beni ecclesiastici siti nella città vecchia, devastata dalla speculazione edilizia, che si aggiunge ad aspre rivalità poli-tiche e nazionalistiche. Dal 1967, gruppi di ultranazionalisti ebrei effettuano importanti acquisti immobiliari nei quartie-ri musulmani e cristiani, con il fine apertamente dichiarato di «ebraicizzare» la città vecchia e di estendere i confini del suo antico quartiere ebraico.

Non dimentichiamo, inoltre, lo scandalo che ha coinvolto il patriarcato ortodosso! Il patriarca Ireneo I è sospettato di aver venduto al seminario talmudico Atéret Kohanìm due hotel situati in prossimità della porta di Giaffa, all'entrata del quartiere cristiano. La vicenda gli è costata la deposizio-ne; al suo posto è stato nominato Teofilo III, che però le au-torità israeliane si rifiutano di riconoscere finché non avrà dato il suo avallo alla transazione immobiliare contestata, che ha deteriorato gravemente le relazioni tra il patriarcato e il governo israeliano.

Nei prossimi anni lo status giuridico delle proprietà im-mobiliari delle varie Chiese rischia di tenere parecchio occu-pati i cristiani; sicuramente contribuirà ad aggravare le ten-sioni religiose di una città in cui la coabitazione tra le comu-nità è già particolarmente difficile.

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Chi ha visitato Gerusalemme sa che i luoghi di culto cri-stiano sono oggetto di una divisione strettamente regola-mentata tra le diverse confessioni cristiane riconosciute da un decreto del sultano ottomano nel 1852. Ognuno vigila con cura affinché la «parte avversa» non «si allarghi» oltre le pro-prie prerogative.

Il Santo Sepolcro è frequentemente oggetto di incidenti religiosi. Ogni sabato santo del calendario ortodosso è con-trassegnato da tensioni, principalmente tra greci-ortodossi e armeni: i loro patriarchi, infatti, rivendicano entrambi il di-ritto di essere i primi a trasmettere ai fedeli il «fuoco sacro», una torcia composta da 33 candele. Per le ragioni più diver-se, spesso dignitari latini e greci vengono alle mani. Questa tradizione di «effusioni fraterne» continua allegramente, of-frendo uno spettacolo penoso ai telespettatori di tutto il mondo.

Quasi due millenni dopo il suo atto d'amore e la sua Ascensione, Gesù non è ancora riuscito, ai piedi del suo se-polcro, a far cessare queste raffinatezze tutte cristiane.

'Jean-Pierre Valognes, Vie et mort des Chrétiens d'Orient, Fayard, Paris 1994. 2 Ernst Pawel, Théodore Herzl ou le labyrinthe de l'Exil, Le Seuil, Paris 1992. 'Intervista del 17 giugno 2008 di monsignor Fouad Twal presso la sede della Custodia di Terra Santa, CTS News. 4Mt 6,24; Le 16,13.

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Miseria sul Nilo

Davanti a me si ergeva il roveto ardente sul quale, a giu-dicare dal suo stato, veglia da secoli un giardiniere partico-larmente attento. L'arbusto che, secondo la tradizione ebrai-co-cristiana, Mosè vide bruciare, faceva sfoggio di foglie di un verde brillante. La cornice tutt'intorno era magnifica, con il monastero di Santa Caterina ai piedi del monte Sinai, che avrei scalato il mattino dopo, come gli altri visitatori.

Padre Giovanni, vescovo copto del Cairo, parlava france-se con la facilità tipica di una persona che ha studiato in un istituto cristiano del Medio Oriente. Fin dal nostro primo in-contro, avvenuto durante un mio viaggio da studente, pa-recchi anni or sono, avevo indovinato la sua appartenenza alla comunità copta dalla croce che portava tatuata su un polso. Per lui, come per migliaia di suoi correligionari, si trattava di un modo per affermare orgogliosamente la pro-pria fedeltà alla religione ancestrale e di premunirsi contro le tentazioni dell'apostasia. Accortosi dell'insistenza con cui il mio sguardo cadeva su quel simbolo mi aveva sorriso: sape-va che ne avevo compreso il significato.

In quel pomeriggio di febbraio del 2008 meditavamo en-trambi di fronte al minareto che si protende verso il cielo, nel cuore del monastero di Santa Caterina, dove due delle tre

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grandi religioni monoteistiche si incontrano, anche se nes-sun fedele musulmano si reca colà per prostrarsi ai piedi del-la freccia di pietra. Essa è un simbolo di convivenza, e costi-tuisce uno dei privilegi di cui ha per lungo tempo goduto quell'importante luogo sacro del cristianesimo. Per secoli le campane di Santa Caterina sono state le sole il cui suono si sia udito nel Dar ai-Islam, in virtù di un privilegio che, se-condo la tradizione cristiana e musulmana, sarebbe stato concesso ai monaci dal profeta Maometto. Mentre calava la sera, discutevo con padre Giovanni della situazione dei cri-stiani in Egitto. Nei giorni precedenti, aveva solo accennato all'argomento, facendo qualche commento nel corso delle nostre conversazioni. Si era limitato ad alcune osservazioni di carattere generale, dimostrando di essere perfettamente in grado, se necessario, di padroneggiare la lingua del politica-mente corretto quanto quella di Molière.

Quella sera era in vena di confidenze. Mi conosceva bene e sapeva che con me poteva parlare del tutto liberamente. Ri-correndo a una buona dose di humor, come spesso fanno le persone cortesi quando sono angosciate, rispose alla doman-da che ogni cristiano occidentale si pone quando vede una chiesa sulle rive del Nilo: «Vi è un solo segreto custodito be-ne come il numero esatto di persone che hanno votato alle ultime elezioni presidenziali: il numero dei cristiani di ogni confessione che vivono in Egitto!».

In questa battuta c'è il nocciolo della principale contro-versia tra cristiani e musulmani egiziani: la quantificazione demografica di ogni gruppo. Il governo, desideroso di dare prova di «islamicità» ai propri vicini, tende a sottovalutare il numero dei non musulmani. I dati ufficiali, dunque, par-lano di circa 4 milioni di cristiani su un totale di 74 milioni di egiziani.

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Le Chiese, che assicurano di basarsi sui registri battesi-mali, parlano di 9 o addirittura 12 milioni di cristiani, corri-spondenti, secondo le stime più alte, al 14,8% della popola-zione. Essi sono concentrati per la maggior parte nell'Alto e nel Medio Egitto e sono presenti sia nelle aree rurali sia nel-le grandi metropoli come II Cairo e Alessandria.

Naturalmente, le Chiese hanno interesse a gonfiare le ci-fre relative al numero dei cristiani, per due ragioni: deside-rano rendere noto il loro profondo radicamento nel paese e vogliono far sentire il proprio peso onde impedire l'adozio-ne di una legislazione di ispirazione islamista. Le statistiche fornite dalle Chiese locali non sono del tutto affidabili, ma sono più vicine alla realtà di quelle pubblicate dalla pubbli-ca amministrazione. Nelle regioni dove i cristiani sono isola-ti e non desiderano farsi registrare, gli agenti incaricati del censimento non esitano a dichiarare musulmani tutti gli abi-tanti. Eppure, visitando quei borghi, si nota la presenza di-screta di due o tre chiese e qualche passante ha sul polso il tatuaggio rappresentante la croce, simbolo della sua vera fe-de. I funzionari, se interrogati al riguardo, rispondono che si tratta di nuovi venuti, mentre gli interessati ribattono che questa spiegazione è pura fantasia.

Semplice guerra di cifre? Oggi un cristiano d'Oriente su due è egiziano, anche tenendo conto dei cristiani libanesi. Sottovalutare l'importanza numerica di questa comunità si-gnifica cancellare con un tratto di penna il multiculturalismo e il multiconfessionalismo che hanno costituito e continuano a costituire la grande originalità del Medio Oriente. Per con-cludere riguardo al numero: tutto porta a ritenere che oggi in Egitto vi siano circa 7 milioni di cristiani, il 95% dei quali aderisce alla Chiesa copta. Le altre Chiese occupano un ruo-lo marginale.

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I cristiani d'Egitto hanno urgenza di veder riconosciuta la propria importanza e la propria specificità culturale, a mag-gior ragione in un momento in cui lo Stato, in teoria laico, sta sperimentando, come l'intera società egiziana, un processo di conclamata reislamizzazione. Certamente, la Costituzione del paese proclama la libertà di culto e garantisce l'assoluta uguaglianza di tutti davanti alla legge, senza distinzioni di provenienza o di religione, ma il suo articolo 2 stabilisce an-che che «l'islam è la religione dello Stato»; inoltre, i dirigen-ti non perdono occasione di ribadire che l'Egitto è «uno sta-to arabo e musulmano».

Durante un discorso pronunciato il 14 maggio 1979 davan-ti al Parlamento, il defunto presidente Anwar al-Sàdat, peral-tro considerato ben disposto nei confronti dei cristiani, insi-stette su una frase che segnava un netto cambiamento rispetto alla politica nasseriana: «Sono il presidente musulmano di uno Stato musulmano. Governo da musulmano uno Stato islamico nel quale cristiani e musulmani vivono fianco a fianco». Frasi come questa rendevano ufficiali le differenze: i cristiani erano «meno uguali» dei musulmani. Entrambe le comunità erano formate da egiziani, ma la natura islamica del regime faceva sì che non fosse loro accordato lo stesso trattamento.

Sì, vi è discriminazione: in campo giuridico l'Egitto ha ri-nunciato ai principi laici in vigore sotto la monarchia o all'e-poca del nasserismo trionfante. Il Codice civile egiziano del 1949 riconosceva alla legge coranica soltanto un ruolo di sus-sidio nella definizione delle norme giuridiche. Secondo la Costituzione, la sharT'a è una delle fonti del diritto, ma non l'unica. Anwar al-Sadat ha modificato profondamente tale sistema, che incontrava il favore dei cristiani, e nel 1980 ha fatto approvare una revisione dell'articolo 2 della Costitu-zione, il quale ora sancisce che «i principi dell'islam costituì-

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scono la più importante fonte giuridica». Per i cristiani d'E-gitto questo testo, mantenuto dall'attuale presidente HusnI Mubàrak, apre la strada a un possibile riconoscimento della sharï'a come unico punto di riferimento del diritto egiziano.

Il ritorno della legge coranica è vissuto come un incubo da tutti i cristiani d'Oriente. Si tratta di un argomento di con-versazione che li rende particolarmente loquaci: al riguardo sono infatti informatissimi e si mostrano spesso irritati di fronte allo scetticismo di non pochi occidentali.

Al Cairo mi piace dedicarmi alle mie ricerche presso la bi-blioteca dell'Istituto francese di archeologia orientale (Institut Français d'Archéologie Orientale). Il palazzo Mounira, antica e sontuosa residenza principesca, si erge all'interno di un giardino un tempo appartenuto a Ibrahim Pascià. L'edificio custodisce antichi manoscritti di inestimabile valore e molti insegnanti francofoni vi si recano per studio e per lavoro. Un giorno mi capitò di incontrare due professori egiziani, tra cui una donna, ai quali posi una domanda volutamente ingenua: «Secondo voi un paese moderno come l'Egitto rischia una progressiva islamizzazione delle proprie leggi?». Nonostante fossi stato prudente nel formulare il quesito ottenni una vi-vace reazione. Come potevo avere dubbi al riguardo? «Dice-vano che l'islamizzazione sarebbe stata impossibile in Sudan e in Iran. Eppure, in quei due paesi la sharï'a è l'unica fonte a cui attingono per le proprie leggi e i risultati sono sotto gli oc-chi di tutti!» I cristiani non si fidano delle belle parole dei pre-sidenti egiziani, che dissimulano la volontà di fare concessio-ni sempre maggiori agli islamici. La loro diffidenza aumenta quando i governanti assicurano di non voler mettere in alcun modo in discussione i diritti dei cristiani. «Vogliamo parlare dei diritti e degli interessi dei cristiani?» Nella voce della mia

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interlocutrice c'era indignazione. In effetti, in nome della lai-cità, nel 1955 il regime ha soppresso i tribunali confessionali e li ha sostituiti con i tribunali civili, i cui responsabili sono quasi sempre musulmani. Costoro sanno poco o nulla delle norme che regolano certe questioni presso i cristiani e si limi-tano, anche quando la causa riguarda soltanto questi ultimi, ad applicare le disposizioni coraniche, che, per esempio, in materia di diritto ereditario sono decisamente più svantag-giose per le donne.

Nel caso dei matrimoni misti, ancora frequenti special-mente tra la popolazione più istruita, i cristiani e i musul-mani sono trattati in modo diverso. In teoria, un cristiano non può sposare una donna musulmana a meno di non con-vertirsi all'islam, nel qual caso gli è fatta proibizione di ri-tornare alla sua antica religione in caso di divorzio o di de-cesso della moglie. Al contrario, una cristiana può sposare un musulmano senza essere costretta a convertirsi. Tuttavia, come nel Maghreb, in caso di divorzio non può ottenere la custodia dei figli, che devono essere allevati obbligatoria-mente secondo i dettami dell'islam.

Paul, anch'egli insegnante, trovando divertenti le mie do-mande si unì alla conversazione: «Ci fu un tempo in cui cer-ti mariti copti, disperando di riuscire a ottenere il divorzio dalla moglie cristiana, facevano finta di convertirsi all'islam. Un giudice comprensivo li scioglieva dal vincolo matrimo-niale e chiudeva gli occhi sul ritorno immediato del neocon-vertito alla sua fede ancestrale. Oggi una cosa del genere è impensabile: le garantisco che il nuovo corso ha grandemen-te giovato alla stabilità dei matrimoni all'interno della nostra comunità!».

La giovane donna non riuscì a trattenere una risata e ag-giunse: «È la dimostrazione di quello che dicevo. Ogni con-

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cessione fatta agli islamici si ripercuote sulla situazione dei cristiani, anche sulla loro vita privata!».

I cristiani egiziani, preoccupati dall'eventualità che la sharfa sia legalizzata, si lamentano soprattutto delle discri-minazioni di cui sono oggetto sul piano politico, sociale e professionale. In linea di principio, se si eccettua la presi-denza della repubblica, cristiani e musulmani godono di una completa parità di trattamento per quanto concerne l'acces-so alle più alte cariche dello Stato. La Costituzione stabilisce che nessuno può essere discriminato a causa della sua origi-ne o della sua appartenenza religiosa.

Di fatto, dall'inizio degli anni '70 il ruolo dei cristiani nel-la pubblica amministrazione, nell'esercito e nella vita politi-ca ha continuato a perdere importanza. L'esercito, pilastro del regime, ha progressivamente chiuso loro le porte; l'ulti-mo alto ufficiale copto è stato il generale Fouad Aziz Ghali, in servizio sotto Sadat. Oggi un giovane cristiano ha poche speranze di essere ammesso in una scuola militare o in un'accademia: si cerca di scoraggiarlo in tutti i modi, ponen-do sulla sua strada numerosi ostacoli che gli impedirebbero di godere delle promozioni di cui beneficiano i suoi colleghi musulmani.

Anche la polizia e i corpi incaricati di mantenere l'ordine pubblico sono chiusi ai cristiani, i quali, a dire il vero, di ciò si lamentano abbastanza poco: il coinvolgimento di un poli-ziotto cristiano nella repressione di una manifestazione or-ganizzata dai Fratelli musulmani sarebbe sufficiente a pro-vocare sanguinose rappresaglie ai danni della sua comunità.

Le discriminazioni sono lampanti soprattutto per quanto riguarda l'accesso alla pubblica amministrazione. I copti hanno la sensazione di essere alle prese con un enorme peg-

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gioramento della loro condizione rispetto all'epoca della monarchia. Nel 1910, il 45% dei funzionari era cristiano: una percentuale così alta si spiega con la miglior preparazione, da tutti riconosciuta, dei bambini cristiani, e con la lunga as-sociazione dei copti a determinati servizi, come la riscossio-ne delle imposte.

Da allora, il numero degli alti funzionari cristiani è co-stantemente diminuito. Un ex ministro, il professor Merit Boutros-Ghali, denunciava già nel 1979, in un Rapporto pre-sentato alle autorità dello Stato e ai nostri amici musulmani, la si-tuazione dei funzionari cristiani. Secondo lui, non c'era nes-sun cristiano tra i cento detentori delle più alte cariche dello Stato, e non ce n'era quasi nessuno tra gli ambasciatori, i ca-pi di gabinetto, i governatori provinciali, i presidi di facoltà o i rettori universitari. Nell'insegnamento superiore, in par-ticolar modo presso la facoltà di Medicina, i professori cri-stiani erano una sparuta minoranza (il 4% del corpo inse-gnanti), nonostante fossero e siano generalmente considera-ti di ottimo livello (alcuni di loro sono noti specialisti).

Le società pubbliche e parapubbliche non si mostrano più accoglienti nei confronti dei cristiani. A quanto pare, soltan-to una decina tra loro è alla testa di quelle imprese partico-larmente redditizie. Molti altri hanno la carica di direttore aggiunto e assai spesso fungono da amministratori delegati, pur sapendo di essere condannati a restare dei vice.

Nell'insegnamento secondario e primario i professori cri-stiani sono rari, anche nei centri in cui la popolazione cri-stiana è numericamente consistente. Alcune materie sono lo-ro proibite, come l'insegnamento dell'arabo, in conformità a una circolare del 1940 che lo riserva ai soli musulmani, sulla base del fatto che la conoscenza del Corano è fondamentale per poter padroneggiare in tutte le sue sfumature la lingua

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araba. Gli insegnanti di religione, che in Egitto è materia ob-bligatoria, sono soggetti a un trattamento diverso a seconda che siano copti o musulmani. I copti sono formati in istituti e scuole dipendenti dalla Chiesa; tuttavia, i loro diplomi non sono riconosciuti dallo Stato, e chi ne è in possesso è un sem-plice insegnante d'appoggio, un precario che non può spera-re di passare di ruolo. Gli insegnanti di religione musulma-ni, al contrario, sono provvisti di diplomi statali e percepi-scono salari superiori a quelli dei loro colleghi cristiani.

Paul, degno rappresentante dell'umile categoria degli in-segnanti d'appoggio cristiani, precisa: «Persino ai livelli più bassi della pubblica amministrazione diventa sempre più difficile per un cristiano riuscire a farsi assumere. I posti di-sponibili sono assegnati secondo un sistema che sfavorisce i cristiani e contribuisce ad accrescere il loro malessere. Per sbrigare le più insignificanti pratiche della vita amministra-tiva ci troviamo in balia di piccoli funzionari musulmani, an-siosi di ostentare la propria superiorità sui non musulmani o di farsi pagare la propria benevolenza».

Questa situazione, è vero, è stata denunciata dall'Ufficio internazionale del lavoro (International Labour Organiza-tion, ILO) in un rapporto pubblicato nel 2007, dal titolo Uguaglianza nel lavoro: affrontare le sfide. L'ILO si mostra par-ticolarmente severo nei confronti dell'Egitto:

Una delle forme più resistenti di discriminazione colpisce i cop-ti egiziani, i quali non godono di pari opportunità nell'accesso all'educazione né in materia di assunzioni e promozioni. Sono raramente nominati in posti chiave del governo o candidati al Parlamento. Il loro impiego nelle scuole superiori di polizia e nelle scuole militari è limitato e pochissimi di loro sono inse-gnanti e professori.

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Uno dei più brillanti diplomatici egiziani, Boutros Bou-tros-Ghali, appartiene a una famiglia che ha dato all'Egitto numerosi ministri. Parla perfettamente francese e inglese e ha più volte dato dimostrazione del proprio spirito di aper-tura e di tolleranza. Ha sposato un'ebrea egiziana la cui so-rella era moglie del ministro degli Esteri israeliano Abba Eban. Tutto faceva presagire che, nel momento in cui Anwar al-Sädät stava dialogando con Israele, Boutros-Ghali avreb-be assunto la direzione della diplomazia egiziana. In effetti, nel 1977 egli ha accompagnato Sädät a Gerusalemme e ha svolto un ruolo fondamentale nel negoziato che ha portato al trattato di pace di Camp David, ma non come ministro degli Esteri, bensì come semplice segretario di Stato. In seguito è stato messo da parte, e gli è stata attribuita una promozione soltanto onorifica che non ha ingannato nessuno (è stato in-fatti nominato vice primo ministro).

È fuori dall'Egitto che le capacità di Boutros Boutros-Ghali sono state premiate: nel 1992 è stato nominato segre-tario generale dell'ONU. Il fatto di essere egiziano non gli ha impedito di accedere a quella carica, ma il fatto di essere copto gli ha impedito di dirigere la diplomazia del suo pae-se. La carriera egiziana di Boutros-Ghali è un esempio em-blematico dell'emarginazione dei cristiani d'Egitto. Egli è stato l'ultimo copto ad aver rivestito cariche di così grande responsabilità. È vero che ogni governo egiziano annovera tra le proprie file due (o, talvolta, tre) ministri cristiani, ma solitamente vengono loro assegnati portafogli tecnici; inol-tre, appena insediati si premurano di nominare capi di ga-binetto musulmani.

Un tempo i deputati e senatori cristiani che regnavano su feudi elettorali fatti su misura per loro non si contavano; og-gi il Parlamento annovera soltanto 7 cristiani su 444 deputa-

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ti, e ciò benché i copti costituiscano il 12-15% della popola-zione. Inoltre, occorre precisare che quasi nessuno di quei deputati è eletto a suffragio universale. Nel 2008 soltanto un deputato copto è stato eletto dai propri concittadini; gli altri sono stati nominati dal presidente HusnI Mubarak, il quale dispone di una quota di seggi riservati che si dimostra assai utile per garantire una rappresentanza politica, sia pure po-co più che simbolica, ai non musulmani e alle donne, anche loro vittime di pregiudizi duri a morire.

I Fratelli musulmani, la cui organizzazione è in teoria il-legale, hanno scelto di giocare la carta elettorale presentando candidati «indipendenti» e riuscendo in tal modo ad assicu-rarsi il 20% dei seggi nell'attuale Parlamento. Di fronte a questo successo l'ex deputato Milad Hannah, che non na-sconde il proprio pessimismo, ha commentato: «Il giorno in cui i Fratelli musulmani avranno il 50% dei suffragi, i ricchi copti abbandoneranno il paese e rimarranno soltanto i pove-ri, che si convertiranno. Spero di morire prima che arrivi quel momento».

I copti sono impotenti sul piano politico, anche per quan-to riguarda lo status della loro Chiesa. Per costruire un nuo-vo edificio cristiano di qualunque tipo è necessaria un'auto-rizzazione ufficiale, soggetta a un gran numero di impedi-menti e restrizioni. Una chiesa e una moschea, comprensibil-mente, non possono sorgere troppo vicine l'una all'altra; si assiste così a una vera competizione tra musulmani e cristia-ni per il controllo dello spazio. Se, in caso eccezionale, i cop-ti riescono a vincere quella che è una corsa a ostacoli tra le più difficili, appena cominciano i lavori, nonostante i cospi-cui «doni» elargiti a funzionari bisognosi, giunge l'ordine di bloccare il cantiere: alcuni pii musulmani hanno provviden-

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zialmente comprato un fazzoletto di terra e vi hanno im-piantato le fondamenta di una moschea, bloccando in tal modo la costruzione della chiesa.

Il fenomeno ha assunto proporzioni tali, nel corso degli ultimi decenni, da porre seri problemi ai cristiani che dalle campagne si sono trasferiti nei quartieri dormitorio in conti-nua crescita nelle periferie delle grandi città. Le chiese co-struite negli anni '70 e '80 sono state edificate per i due terzi senza permesso e possono essere chiuse da un momento al-l'altro, come le autorità periodicamente ricordano, in manie-ra minacciosa, per assicurarsi la docilità dei copti nonché i loro voti alle elezioni. Gli edifici più antichi non ricevono un trattamento migliore. Le riparazioni possono essere effettua-te soltanto dopo aver ottenuto un'autorizzazione; lo studio della relativa documentazione è oggetto di grande zelo da parte dei funzionari, particolarmente attenti a verificare la regolarità della pratica: in altre parole, prima di ottenere il sospirato permesso possono passare anni.

Le Chiese fanno molta fatica a finanziare i lavori di re-stauro o di costruzione dei loro edifici di culto. La diaspora copta si dimostra molto generosa, ma la sua azione è consi-derevolmente limitata dal severo controllo esercitato dalle autorità sulle sovvenzioni provenienti dall'estero: esso è, però, assai meno stretto nel caso dei finanziamenti di prove-nienza saudita al culto musulmano.

Vi è un altro grave problema, che si presenta in occasione delle celebrazioni religiose. La popolazione cristiana non sfugge al boom demografico: ebbene, dal momento che di fatto è diventato pressoché impossibile costruire nuove chie-se, ogniqualvolta è officiato un rito i luoghi di culto sono pre-si d'assalto da una folla di fedeli che non riesce a entrare nel-l'edificio e staziona in gran numero all'esterno, provocando

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nei musulmani del posto reazioni ostili che talvolta sfociano in vere e proprie aggressioni.

Alle discriminazioni di cui si è fin qui detto si aggiungo-no le vere e proprie esplosioni di violenza anticristiana che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. All'indomani della morte di Gamal Abd el-Nasser, il suo successore, Anwar al-Sadat, ha tentato, per un certo tempo, di conquistare la sim-patia dei Fratelli musulmani, sempre più numerosi, per assi-curarsi il pieno controllo del paese: gli islamici ne hanno ap-profittato per rialzare la testa.

Nel 1972, voci sulla presunta conversione di 300 musul-mani ad Alessandria sono state sufficienti per dar fuoco alle polveri. Due chiese sono state bruciate, rispettivamente a Damanhur e a Khanka, mentre i sacerdoti e i fedeli venivano sottoposti a molestie e violenze. L'incidente ha stabilito un precedente di tale gravità che il nuovo patriarca copto, She-nuda III, ha deciso di organizzare una manifestazione di pro-testa. Cristiani che esigono il rispetto dei loro diritti? Proprio ciò che i simpatizzanti del fondamentalismo non potevano tollerare. Per rappresaglia sono stati dati alle fiamme negozi e immobili appartenenti a cristiani; bisogna tuttavia ammet-tere che in quella circostanza la reazione del regime è stata vigorosa.

Tra il 1978 e il 1980 si è assistito a un sensibile degrado dei rapporti tra le comunità, caratterizzato dal saccheggio di nu-merosi edifici di culto, tra cui la famosa chiesa della Vergine nel quartiere del Vecchio Cairo, o l'assassinio di un sacerdo-te a Salamut (settembre 1978).

Le università egiziane sono divenute teatri di scontri tra studenti cristiani e musulmani; le tensioni hanno raggiunto

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il culmine nel gennaio del 1980, quando alcune bombe collo-cate all'interno di due chiese del Cairo sono esplose provo-cando la morte di una persona e il ferimento di molte altre. Le più importanti autorità ecclesiali hanno addirittura ab-bandonato il Cairo per rifugiarsi nei monasteri dell'Alto e del Medio Egitto.

Il regime ha fatto tutto ciò che era in suo potere per im-porre una rigida censura riguardo a tali fatti, e ha moltipli-cato i gesti di distensione nei confronti della comunità cri-stiana. Dopo l'incendio di luoghi di culto cristiano a Menu-fia e a Minia, il presidente Sadat ha simbolicamente fatto vi-sita alla scuola copta che aveva frequentato da bambino. Qualche mese più tardi, ha nominato un copto, Fikri Mak-ram Ebeid, vice primo ministro, effettuando in sua compa-gnia un viaggio ufficiale nell'Alto Egitto, dove è stato accol-to calorosamente dai cristiani. Contemporaneamente, tutta-via, ha permesso al presidente del Parlamento di sottoporre allo studio numerosi progetti di legge miranti a instillare una buona dose di shan'a nella legislazione.

I disordini sono ricominciati su larga scala nel 1981. Nel mese di maggio due cristiani sono stati assassinati ad Ales-sandria, città un tempo rinomata per le eccellenti relazioni che intercorrevano tra i fedeli delle diverse confessioni. Il cli-ma di relativa apertura mentale di cui godeva la città si può giudicare, tra l'altro, da un film di Yusuf ShahTn, Alessan-dria... Perché? (1978), che ha fatto scandalo alla fine degli an-ni '70. Il regista, un cattolico di origine greca, metteva in sce-na rapporti interconfessionali nella sua città natale, raccon-tando l'amore di un musulmano e di una cristiana e l'idillio tra una giovane ebrea e un musulmano.

Nel giugno del 1981 la violenza si è scatenata nella capi-tale. Nella periferia settentrionale, del Cairo una lite tra vici-

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ni è degenerata in una settimana di sommosse. I disordini si sono propagati fino ad Alessandria, poi nella regione rurale del Faiyum e in numerose località di media importanza. Sembra che si sia trattato di azioni premeditate: gli istigatori erano in possesso di liste aggiornate con i nomi dei cristiani locali. Numerose persone, tra cui parecchi bambini, sono sta-te assassinate nelle loro case, successivamente saccheggiate. Per le strade, passanti copti sono finiti in pasto alla folla e le forze dell'ordine non sono riuscite a contenere le violenze.

Sempre nel 1981, nel mese di agosto, un'esplosione ha provocato due morti e numerosi feriti presso la chiesa della Vergine a Shubra, dove si stava celebrando un matrimonio copto. Il carattere organizzato di quelle azioni ha mostrato che non si trattava di spontanee esplosioni di collera, ma di un tentativo, preparato accuratamente, di destabilizzazione del regime attraverso scontri interconfessionali.

In questo contesto, Anwar al-Sàdàt ha deciso di usare la mano pesante. Nel settembre 1981 un blitz ha decapitato gli ambienti vicini ai Fratelli musulmani: 1500 simpatizzanti del movimento sono stati incarcerati. Contemporaneamente, il raiss egiziano ha fatto incarcerare 150 dirigenti copti, tra cui vescovi e preti. Inoltre, due giornali cristiani sono stati di-chiarati fuorilegge e la stessa sorte è toccata a numerose as-sociazioni copte accusate di favorire il separatismo.

Da allora il regime si è distinto per il ricorso a una politi-ca di «reciprocità»: nel caso in cui si verifichino violenze, la polizia interroga non solo chi le ha compiute, ma anche le persone che le hanno subite, come a insinuare che le vittime in qualche modo se la sarebbero cercata.

Peggio ancora, Sadat si è scagliato contro il patriarca cop-to Shenuda III, che in più occasioni aveva denunciato la pas-sività delle autorità di fronte all'avanzata del fondamentali-

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smo musulmano: nel 1981 il regime ha annunciato di non considerarlo più il capo della Chiesa copta e lo ha spedito a meditare sui limiti della libertà d'espressione presso il mo-nastero di San Bishoi nel deserto di Nitria.

L'esilio gli ha salvato la vita. Infatti, essendogli stato im-pedito di partecipare alla sfilata per la Vittoria, Shenuda III non è caduto sotto i colpi dei terroristi islamici come Anwar al-Sadat e un vescovo copto che si trovava accanto al presi-dente egiziano. L'assassinio di Sàdat ha provocato un vero shock. L'Egitto è sembrato sul punto di cadere nelle mani de-gli integralisti, pur contro la volontà della stragrande mag-gioranza dei suoi abitanti, ma HusnT Mubarak ha preso fer-mamente in mano le redini del paese, ordinando arresti di massa di militanti fondamentalisti e riorganizzando dalle fondamenta l'esercito e i servizi di sicurezza, pesantemente infiltrati dall'integralismo islamico.

Quando è stato sicuro della propria posizione, il nuovo uomo forte si è mostrato magnanimo, facendo liberare, a partire dal dicembre 1981, molte personalità vicine all'oppo-sizione musulmana. In compenso, i notabili copti arrestati sono stati rilasciati con il contagocce. Shenuda III è rimasto nel monastero di San Bishoi fino al 1985, anno in cui è stato ufficialmente reinvestito della carica di patriarca.

L'arrivo al potere di Mubarak ha segnato l'interruzione delle violenze interconfessionali su larga scala, ma non la fi-ne degli attacchi contro i cristiani. Nel 1984, nel Faiyum, una libreria e un cinema sono stati incendiati rispettivamente per aver esposto immagini sacre e per aver programmato la proiezione di un film sulla vita di Cristo.

Nel 1990, nel Faiyum e nell'Alto Egitto, alcuni luoghi di culto sono stati dati alle fiamme. Ogni volta il governo si è

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premurato di inviare sul posto dignitari e ministri musul-mani con il compito di perorare la causa della pace civile.

Nel settembre 1991 migliaia di islamici si sono improvvi-samente riversati in un sobborgo del Cairo: voci infondate avevano annunciato l'assassinio di uno di loro da parte di due copti. I tumulti hanno causato una vittima, numerosi fe-riti e ingenti danni materiali. Nel maggio 1992 la violenza ha colpito la regione di Sanabu, nel Medio Egitto, dove un ba-nale litigio è sfociato nel massacro di 13 copti. Di fatto, l'area era divenuta da parecchi mesi un feudo integralista nel qua-le i Fratelli musulmani si erano per così dire sostituiti alle au-torità, non esitando a imporre ai cristiani il testatico previsto dalla dhimma \

Gli attentati organizzati contro i turisti stranieri minaccia-no una delle principali risorse economiche dell'Egitto, e han-no convinto il regime a dare una dimostrazione di forza nei confronti degli islamici, che sono stati implacabilmente brac-cati, almeno fino all'inizio degli anni 2000. L'offensiva contro l'integralismo musulmano ha avuto effetti positivi per i cri-stiani egiziani, la cui situazione, per qualche mese, è legger-mente migliorata. Tuttavia, nel gennaio del 2000, a Kosheh, un litigio è degenerato in incidenti sfociati nel massacro di 21 contadini copti. Gli assassini se la sono cavata con lievi pene carcerarie.

Verso la metà di giugno del 2007 Alessandria è stata tea-tro di scontri tra copti e musulmani, provocati da un banale alterco tra un cristiano e il figlio di un imam. Entrambi han-no chiamato a raccolta i propri correligionari, obbligando la polizia a bloccare il quartiere per parecchi giorni.

La situazione è nuovamente peggiorata nella primavera del 2008 nell'Alto Egitto, nei dintorni dell'antichissimo mo-nastero di Abu Fana. La vicenda è un esempio della difficile

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situazione dei cristiani egiziani. I monaci avevano deciso di costruire un muro allo scopo di delimitare il perimetro del monastero. Nell'attesa di ricevere le necessarie autorizzazio-ni, hanno dato inizio ai lavori, suscitando la rabbia dei loro vicini musulmani, i quali ritenevano che il recinto sconfinas-se nei loro terreni. La questione si è risolta in una rissa, du-rante la quale quattro copti (tra cui due monaci) sono stati fe-riti, tre altri religiosi sono stati, sia pur per breve tempo, se-questrati e un musulmano è stato assassinato.

Le autorità locali hanno cercato di minimizzare l'inciden-te, ritenendo che si fosse trattato di una semplice controver-sia immobiliare, ma il patriarcato copto ha deciso di farne una questione di principio: in assenza di Shenuda III, all'e-poca dei fatti ricoverato in una clinica americana, il segreta-rio del Sacro Sinodo ha pubblicato, verso la metà di giugno del 2008, una dichiarazione in sei punti che chiedeva solen-nemente al presidente Husni Mubarak di impedire «nuove aggressioni ai danni dei monaci», e di fare in modo che «la croce non sia più insultata».

Il documento è stato pubblicato nel giugno del 2008 dal-la rivista copta «Watani» («La mia patria»), il cui direttore, Yussef Sidhom, ha denunciato «un terrorismo di Stato che si aggiunge al terrorismo dei criminali». Il gruppo islamico clandestino Jama'a al-Islàmiyya ha reagito accusando i cop-ti di «voler formare uno Stato parallelo con l'aiuto di ele-menti stranieri onde cambiare la natura araba e musulmana dell'Egitto»2.

Tali incidenti si iscrivono nel contesto della successione a Mubàrak, da tempo annunciata per il 2011. Dal 2005 il suo partito, il Partito nazionaldemocratico, si è mostrato favore-vole a una certa liberalizzazione del regime, favorita dalle pressioni esercitate dagli Stati Uniti sull'Egitto: in occasione

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delle consultazioni legislative sono stati eletti 88 «indipen-denti» vicini ai Fratelli musulmani. Apparentemente, Husni Mubarak ha vinto la battaglia sulla sicurezza. La polizia e l'esercito hanno il controllo del territorio, come si è visto nel 2008, in occasione delle manifestazioni provocate dall'au-mento del prezzo del grano e della pasta.

Contemporaneamente, gli islamici possono vantarsi di aver prevalso in campo culturale e sociale: l'islamizzazione della società egiziana è ormai a buon punto.

Recentemente, un vescovo egiziano mi raccontava quan-to possa essere rischioso, oggigiorno, far la coda davanti a una panetteria. Alcuni barbuti integralisti ritengono di avere indiscutibilmente la precedenza su qualunque cristiano, e passano davanti a un copto senza che questi abbia il corag-gio di lamentarsi. Le musulmane pie indossano comune-mente il velo islamico, adottato sempre più spesso anche dalle studentesse musulmane quando devono recarsi all'u-niversità per timore delle reazioni ostili dei loro compagni. In alcune regioni persino le donne copte si sentono obbliga-te a coprirsi il capo, onde evitare gli insulti dei vicini.

L'islamizzazione della società egiziana è evidente nei luo-ghi pubblici. Durante il ramadan molti cristiani preferiscono evitare di mangiare o bere davanti a testimoni, per scongiu-rare ogni possibile conflitto.

I Fratelli musulmani traggono vantaggio da questo clima, fortemente incoraggiato dall'islam ufficiale rappresentato dall'università al-'Azhar, e sperano di giungere al potere con le elezioni del 2011, anche se a quanto pare Mubarak ha in-tenzione di ripresentarsi o di nominare suo successore il fi-glio Gamal.

L'Egitto, come la maggior parte dei paesi del Maghreb, è attualmente teatro di violente polemiche sulle conversioni di

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musulmani al cristianesimo. Si tratta di una discussione ri-corrente. In teoria, nulla vieta a un musulmano egiziano di convertirsi al cristianesimo: non è un atto illegale. Tuttavia, tali conversioni sono nella migliore delle ipotesi stigmatiz-zate, e i convertiti sono spesso arrestati, imprigionati e tor-turati in carcere con il pretesto che attentano all'ordine pub-blico, alla pace sociale o all'unità nazionale.

Alcuni recenti episodi hanno riempito le cronache: in par-ticolare, ha fatto scalpore il caso di Mohamed Hegazy e di sua moglie, i quali hanno abbracciato il cristianesimo in età adulta, nel 2003. Sono stati battezzati e hanno chiesto che il loro cambiamento di religione fosse registrato presso lo sta-to civile, per essere considerati cristiani anche ufficialmente. Il rettore dell'università al-'Azhar ha emesso contro la gio-vane coppia, già costretta alla clandestinità, una fatwa che li condanna a morte. Si tratta di un decreto religioso privo di un vero valore legale; tuttavia, dal momento che proviene da una delle più alte autorità religiose dell'islam sunnita, può istigare a compiere qualche folle gesto.

Un altro caso riguarda l'ex imam di una moschea situata nei pressi di Giza, alla periferia del Cairo. Il 6 aprile del 2005 l'uomo è stato arrestato e successivamente imprigionato. Il suo crimine? «Aver oltraggiato una religione divina», un rea-to punito dalla legge egiziana. In realtà, è stata addotta tale motivazione per non dover ammettere che l'arresto era la conseguenza di una conversione che ha scandalizzato nu-merosi ex fedeli dell'imam.

Questi esempi, come molti altri che potremmo citare, sot-tolineano l'inquietante crescita di un anticristianesimo che conquista gli individui e le istituzioni, anche se evita di di-chiararsi apertamente. In Egitto, come in tutti i paesi musul-mani, chiunque può convertirsi all'islam, ma spesso le con-

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versioni di cristiani sono dettate dal desiderio di confonder-si con la massa per poter allevare in pace i propri figli.

Nel gennaio 2009 domandai al vescovo Giovanni cosa ac-cadeva ai rari musulmani convertiti al cristianesimo, ed egli rispose: «Ognuno è libero di entrare nell'isiàm, ma se ne può uscire soltanto in barella».

Un'esistenza prospera e abbastanza tranquilla

Gaspare, Baldassarre e Melchiorre, a quanto pare, percor-sero la rotta seguita da secoli dai mercanti che assicuravano i legami commerciali tra l'Egitto, l'Africa e l'India.

Gaspare, Baldassarre e Mechiorre vennero ad adorare il Bambin Gesù nella grotta di Betlemme, dove Maria e Giu-seppe avevano trovato rifugio. Il viaggio dei Re Magi è inse-parabile da Petra la sublime, città nabatea preislamica di Giordania dai ciclopici monumenti scolpiti nella roccia color ocra. Petra è un libro di storia a cielo aperto. Nell'Antichità essa era un centro commerciale di grande importanza, attra-verso il quale transitavano carovane cariche di spezie, avo-rio, incenso e mirra.

Ammiravo il sorgere del sole sulle rovine di Petra e pen-savo a Gerusalemme, situata solo a qualche decina di chilo-metri a volo d'uccello. Eppure, quanto lontana!

Nella valle di Petra avevo l'impressione di camminare sulle tracce dei Re Magi, della nascita del cristianesimo, che un tempo era ben presente in quei luoghi, dal momento che la città era sede di un vescovato fondato nel 350, tangibile te-stimonianza dell'espansione del cristianesimo al di là del Giordano. La presenza cristiana era ancora attestata al prin-

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cipio del VI secolo, epoca nella quale il vescovo locale, Ate-nogene, redasse un'esauriente descrizione della città prima che fosse distrutta da un terremoto.

Non molto tempo fa mi capitò di parlare dell'antica presen-za cristiana con un vecchio beduino, originario della regione resa celebre da sir Lawrence d'Arabia in 1 sette pilastri della sag-gezza. Trascinato dalle mie visioni romanzesche, provavo a im-maginare lo stupore che doveva aver provato lo svizzero Jean-Louis Burckhardt nel 1812, quando scoperse il sito. Egli era riu-scito, con molta fatica, a vincere la diffidenza dei beduini, noti per attaccare i viaggiatori che si azzardavano a transitare nella regione. Infatti, costoro assaltavano tranquillamente le carova-ne di pellegrini diretti alla Mecca dalla Turchia, dall'Iraq e dal-la Siria per compiere il sacro dovere dello hajj. Dalla fine del mondo antico, Burckhardt è stato certamente il primo cristiano occidentale ad aver visitato quella che un tempo fu una delle città più ricche dell'Impero romano.

Il vecchio beduino chiosò: «Per moltissimo tempo alcuni cristiani sono venuti qui, pur mantenendo il segreto sull'e-satta ubicazione del sito. Erano beduini cristiani come me. E ti assicuro che non avevano scrupoli ad assalire le carovane dirette alla Mecca».

L'Occidente cristiano, che si è ormai da molto tempo au-tonominato «protettore dei cristiani d'Oriente», era sì al cor-rente dell'esistenza dei cristiani turchi, iracheni, libanesi, egi-ziani o della Terra Santa... ma non conosceva quelli di origi-ne beduina.

La presenza cristiana è profondamente radicata nella sto-ria della Giordania e riguarda tutti gli strati della società. Co-me se volesse convincermi di ciò, il mio interlocutore si di-vertì a ricordarmi i modi molto britannici del fu re Husayn, certamente dovuti all'ottima educazione ricevuta presso il

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Bishop College di Amman, di proprietà della Chiesa episco-pale araba di Giordania: all'epoca del mandato britannico era l'edificio più rinomato della capitale giordana.

Quando, nel giugno 2008, il prelato giordano monsignor Fouad Twal è stato nominato patriarca latino di Gerusalem-me, la stampa occidentale si è stupita nell'apprendere che proveniva da una tribù di beduini cristiani, una singolare ca-tegoria di persone, alla quale gli analisti stanno cominciando a interessarsi.

La comunità cristiana autoctona in Giordania è ben lungi dall'essere limitata ai cristiani originari della Palestina, rifu-giatisi prima in Cisgiordania e successivamente in Giordania in seguito ai confitti arabo-israeliani. I cristiani, presenti da secoli, sono fieri del proprio radicamento nella società circo-stante, di cui condividono lingua e tradizioni. Non è un caso che la costituzione giordana, adottata nel 1952, contenga di-sposizioni relative alle minoranze religiose, e in particolare a quelle cristiane.

Tali norme riprendono, con sfumature giordane, quelle che ai tempi del mandato britannico regolavano l'esistenza delle comunità non musulmane presenti nell'allora emirato di Transgiordania. Già nel 1928 una legge riconobbe ufficial-mente la libertà di culto e la prima Assemblea legislativa as-segnò 3 dei 16 seggi disponibili ai cristiani.

La Costituzione del 1952 si ispira a quei principi di tolle-ranza. Pur riconoscendo l'islam quale religione di Stato, essa proclama che tutti i giordani sono uguali davanti alla legge senza distinzione di lingua o di religione; hanno pari diritti e doveri ed è loro garantito il libero esercizio del culto.

A differenza di altri regimi arabi cosiddetti «progressisti», che con il pretesto della laicità hanno soppresso la libertà

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d'insegnamento e hanno chiuso le scuole confessionali cri-stiane, il regno hashemita ha dato prova di un'eccezionale tolleranza, garantendo alle diverse comunità religiose il di-ritto di mantenere proprie scuole. I 125.000 cristiani giorda-ni (pari al 3% della popolazione) sono ancora oggi assai pre-senti nella vita politica del paese: a loro sono infatti riserva-ti 9 degli 80 seggi della Camera dei deputati; in altre parole, dispongono di una rappresentanza di molto superiore alla loro reale importanza numerica. Si tratta di un fatto tanto più notevole in quanto quei deputati sono votati a suffragio universale, sia dai cristiani sia dai musulmani, e votare per un candidato cristiano non è considerato peccato dall'islam ufficiale. Al Senato, invece, i cristiani dispongono di 4 rap-presentanti.

La situazione è identica per quanto riguarda le altre isti-tuzioni dello Stato: senza che vi fosse alcun obbligo in tal senso, i governi giordani degli anni '90 hanno annoverato tra le loro file ministri cristiani, ai quali sono stati affidati anche posti di grande responsabilità, come il Ministero delle Fi-nanze o quello degli Esteri. L'esercito giordano, pilastro del regime, conta più di un cristiano tra gli ufficiali di alto ran-go. La situazione «idilliaca» in cui vivono i cristiani giordani merita di essere sottolineata, dato il suo carattere di eccezio-ne nel panorama dei paesi mediorientali.

Ma questa ostentata tolleranza è soggetta a limitazioni. Una tacita convenzione vuole che un cristiano non possa es-sere nominato capo di Stato Maggiore; nella pubblica ammi-nistrazione i cristiani occupano posti di responsabilità, ma sono spesso vittime di un certo numero di discriminazioni: per esempio, a parità di titoli si preferisce un musulmano a un cristiano; si tratta in ogni caso di una situazione che non costituisce un grosso handicap: al contrario, questa invisibi-

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le barriera spinge i cristiani giordani a rivolgere la propria attenzione al settore privato e in particolar modo agli am-bienti delle banche e dei cambiavalute, dove la loro influen-za è determinante. I cristiani di Giordania sono largamente rappresentati nelle professioni liberali (molti di loro sono medici, avvocati, ingegneri, giornalisti); hanno ampiamente approfittato della crescita economica del paese verificatasi a partire degli anni '80 e costituiscono nel complesso una mi-noranza agiata che esercita un'influenza reale nella vita eco-nomica, sociale e intellettuale del paese.

La loro prosperità tutto sommato tranquilla non è peral-tro scontata: spesso essi si rifugiano nella vaghezza del lin-guaggio politicamente corretto o in una volontaria amnesia. Di ciò ho potuto rendermi conto discutendo con un gioiel-liere armeno di Amman i cui nonni, emigrati all'inizio del XX secolo dalla Cilicia, regione situata nella Turchia sudo-rientale, si erano stabiliti nella capitale giordana, all'epoca un semplice borgo. Egli era cresciuto quindi ad Amman, tra-scorrendo le proprie giornate tra il suo negozio e la parroc-chia, di cui era uno degli amministratori. Quando gli ho chiesto dei suoi rapporti con i vicini musulmani, ha sorriso: «Forse non sanno che devo a loro il mio successo». Nel 1953 era stato costretto a lasciare il quartiere periferico in cui vi-veva, in seguito all'incendio della casa e della bottega da parte dei Fratelli musulmani: «Ho dovuto cercare una nuova sistemazione - ha spiegato - e mi sono avvicinato al centro cittadino. È stata la mia grande fortuna: là, infatti, non ave-vo più a che fare con gente povera, ma solo con notabili, per cui in breve tempo sono diventato ricco».

Dimostrava una sconfinata ammirazione nei confronti di re Husayn, il quale, appena era stato avvertito dei disordini, aveva inviato un distaccamento della guardia reale. In ciò

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non v'era nulla di straordinario: sua madre era stata allieva delle suore di Nostra Signora di Sion; inoltre, il nuovo so-vrano doveva consolidare la propria autorità. In una lettera ai capi delle Chiese cristiane di Giordania aveva definito le violenze anticristiane «uno dei più gravi atti di tradimento che possano colpire la nazione», e aveva segnalato di aver «ordinato alle autorità competenti di prendere misure seve-rissime contro i responsabili dei disordini». La protezione accordata da re Husayn ai cristiani è tanto più notevole se si pensa che alcuni di loro figuravano tra i suoi più irriducibili oppositori.

Nel giugno del 1967 l'occupazione della Cisgiordania da parte di Israele privò la Giordania di ima parte dei suoi abi-tanti cristiani; soprattutto, essa provocò l'afflusso sulla riva orientale del Giordano di militanti dell'OLP, tra i quali vi era George Habash, per citare soltanto il più conosciuto. L'esca-lation di violenza tra i palestinesi e re Husayn provocò una grave crisi nel settembre del 1970, il famoso «settembre ne-ro» durante il quale la Legione araba, composta da beduini fedeli alla dinastia hashemita, stroncò nel sangue il tentativo dell'OLP di Yasir 'Arafàt di assumere il controllo del paese.

In seguito a tali avvenimenti la situazione dei cristiani si fece difficile. Alcuni di loro sostenevano l'OLP, che almeno ufficialmente era laica e perseguiva l'instaurazione di un «re-gime democratico e nazionale»; altri (la maggior parte), era-no schierati con il sovrano, il quale, pur fondando la propria legittimità su una pretesa discendenza dal profeta Maometto attraverso 44 generazioni, si era sempre mostrato rispettoso dei diritti e della sicurezza dei suoi sudditi cristiani.

L'incidente ha prodotto evidenti strascichi in seno al cri-stianesimo giordano o, più esattamente, alle varie denomi-nazioni cristiane. Infatti, esse formano un conglomerato ete-

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rogeneo di Chiese separate da antiche controversie teologi-che ma anche da differenze etniche.

I greci-ortodossi palestinesi e giordani pregano in chiese separate; i melchiti giordani, pur enfatizzando la propria fe-deltà a Roma, mal sopportano di essere stati superati in nu-mero dai latini palestinesi... Se vuole ottenere informazioni, il visitatore cristiano proveniente dall'estero deve mostrarsi prudente, facendo attenzione a non urtare la suscettibilità delle diverse comunità. Basti dire che il racconto dei fatti del settembre 1970 cambia completamente a seconda dell'origi-ne del testimone. Per alcuni i palestinesi hanno tentato di ro-vesciare il regime attraverso un colpo di stato che un buon cristiano non può fare a meno di condannare; per altri i sol-dati della Legione araba avrebbero causato un'escalation di violenza attaccando i campi palestinesi abitati in prevalenza da cristiani.

Un diplomatico francese, riparandosi dietro un prudente anonimato, mi ha confidato un giorno: « I cristiani locali non amano che glielo si ricordi, ma la stragrande maggioranza di loro ha approvato l'espulsione dei palestinesi».

Un altro osservatore straniero notava che i cristiani di Giordania hanno scommesso sulla solidità della dinastia ha-shemita, più forte del previsto. La lealtà dimostrata ha per-messo loro, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli armi '80, di vivere una vera e propria età dell'oro. Hanno altresì bene-ficiato dell'effimera crescita economica del paese e di un cli-ma politico particolarmente sereno, mentre durante lo stesso periodo i cristiani residenti in altri paesi della regione sono stati esposti alle persecuzioni e agli orrori di una guerra ci-vile fratricida.

Le sole tracce di violenze anticristiane documentate e su-bito represse dal regime risalgono al 1981: in occasione delle

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elezioni comunali in programma a Madaba, città a popola-zione mista musulmana e cristiana, numerosi esercizi com-merciali di proprietà di cristiani sono stati attaccati.

Sentendo i discorsi dei miei interlocutori cristiani, ancora una volta constato che le loro simpatie politiche sono orien-tate verso i regimi autoritari, purché questi garantiscano la libertà di culto e di insegnamento. La democratizzazione del regime, intrapresa nel 1988, è lungi dall'essere considerata una benedizione: infatti essa ha reso, paradossalmente, più fragile la situazione politica dei cristiani giordani, che di ciò sono perfettamente consci.

Nel 1991 il processo di democratizzazione, imposto in maniera autoritaria da re Husayn, ha avuto tra i suoi effetti la legalizzazione della branca locale dei Fratelli musulmani: infatti, nel Vicino Oriente, le opposizioni ai regimi al potere appartengono quasi sempre alla galassia islamica e costrui-scono il proprio consenso sulla denuncia via via più violen-ta dell'orientamento filo-occidentale di numerosi governi dell'area.

La Giordania non rappresenta un'eccezione alla regola. Dopo tutto, uno dei principali luogotenenti di Bin Laden, Abu Mus'ab al-Zarqawi, era originario di Zarqa', ima roc-caforte dei Fratelli musulmani. Non deve pertanto stupire il fatto che le prime elezioni relativamente libere, organizzate nel novembre 1989, abbiano visto l'elezione alla Camera bas-sa del Parlamento di 34 integralisti, di cui 22 appartenenti ai Fratelli musulmani.

In occasione della prima guerra del Golfo, la Giordania ha manifestato, ai massimi livelli, una certa simpatia per l'Iraq di Saddam Husayn. Re Husayn si è rifiutato di partecipare alla coalizione militare internazionale formatasi sotto l'egida dell'ONU e nella quale hanno militato parecchi contingenti

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arabi. La Giordania è stata teatro di numerose manifestazio-ni di sostegno a Saddam, tollerate e a volte persino incorag-giate dal regime. I cristiani di Giordania sono stati tra i pri-mi a scendere in piazza per affermare il loro sostegno incon-dizionato al dittatore iracheno. Per esempio, nel febbraio del 1991, nei pressi di Amman, un migliaio di cristiani ha parte-cipato a un raduno a favore dell'Iraq scandendo il seguente slogan: «Con i nostri cuori e con il nostro sangue ci battere-mo per te, Saddam!».

Una delle personalità cristiane più conosciute della Gior-dania, il vescovo anglicano Elia Khoury, membro del Comi-tato centrale dell'OLP, ha fatto scandalo per aver invitato «tutte le nazioni arabe e islamiche ad assumersi la propria responsabilità e a unirsi all'eroica resistenza dell'Iraq». Le Chiese latina e melchita hanno assunto la stessa posizione, in questo incoraggiate da Giovanni Paolo II. L'atteggiamento del papa ha permesso ai cattolici giordani di conciliare la fe-de cristiana con un attaccamento viscerale al nazionalismo arabo.

Sostenendo Saddam Husayn, i cristiani giordani si sono comportati esattamente come i loro compatrioti musulmani, fortemente ostili agli americani. Le loro attività economiche li hanno spinti a essere particolarmente zelanti in questo senso. Infatti, hanno assunto posizioni largamente maggio-ritarie presso le società di import-export e hanno ampia-mente approfittato del rifiuto giordano di imporre un em-bargo economico all'Iraq. Molti dei camion che circolavano tra il porto di 'Aqaba e Baghdad erano di proprietà di gran-di famiglie cristiane che nella circostanza hanno realizzato profitti colossali.

Tuttavia, per tentare di tenere sotto controllo la febbre an-tiamericana e antioccidentale che attraversava il suo paese,

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Husayn di Giordania è stato costretto a includere nel gover-no i Fratelli musulmani. Essi non hanno ereditato posti im-portanti come la Difesa, l'Interno o gli Esteri, ma dicasteri tecnici che hanno loro permesso di favorire l'islamizzazione della società. Si trattava di una scelta rischiosa; infatti, nel lo-ro manifesto, reso pubblico nel marzo del 1990, i Fratelli mu-sulmani giordani avevano chiaramente indicato quali fosse-ro le loro intenzioni: coloro che sottovalutano il ruolo fonda-mentale dell'islam ispirano solo disprezzo e disgusto e de-vono essere esclusi dalla comunità nazionale alla quale han-no cessato di appartenere.

Il periodo in cui i Fratelli musulmani hanno detenuto il Mi-nistero dell'Educazione è stato contrassegnato dall'abolizione delle classi miste nelle scuole pubbliche, un provvedimento che ha provocato un afflusso di studenti, anche musulmani, alle scuole confessionali cristiane. Inoltre, pareva che il Mini-stero si divertisse maliziosamente a far coincidere le date de-gli esami con le principali feste cristiane. Queste piccole pro-vocazioni, in apparenza insignificanti, hanno spinto un gran numero di studenti cristiani a emigrare, e a proseguire i pro-pri studi universitari in Europa o negli Stati Uniti.

Perciò, alla fine del 1992, i cristiani giordani hanno accol-to con un certo sollievo il ritorno all'opposizione dei Fratelli musulmani. La nomina a capo della diplomazia giordana di Kamal Abu Jaber, discendente di un'antica famiglia greco-ortodossa, è stata vista come un segnale di re Husayn all'in-dirizzo dell'Occidente: in quel particolare momento, le sue origini cristiane, lungi dal nuocergli, gli sono anzi state d'aiuto. La sua nomina indicava che la Giordania non inten-deva abbandonare la tradizionale politica tollerante nei con-fronti delle minoranze non musulmane e favorevole al dia-logo con l'Occidente.

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Tuttavia, ogni medaglia ha un suo rovescio: gli ambienti vicini ai Fratelli musulmani non hanno esitato a ironizzare pesantemente sulla nomina di un cristiano, alla quale attri-buiscono in gran parte l'orientamento nuovamente filo-occi-dentale e modernista del regime hashemita, confermato dal-la firma di un trattato di pace con Israele.

Ne è seguita una campagna (soprattutto basata sulla dif-fusione di volantini e brochure) contro i cristiani e in partico-lare contro le loro scuole confessionali. Nel 1992 due profes-sori musulmani hanno pubblicato, senza incorrere in alcun tipo di censura, un pamphlet nel quale i cristiani erano defi-niti un pericolo mortale per i valori tradizionali della società giordana. Per gli autori del libro, le scuole cristiane sono uno strumento «nelle mani dei crociati»: si tratta di un tema che riscuote un certo successo presso gli strati più disagiati della popolazione. La recessione economica che ha colpito la Gior-dania all'indomani della prima guerra del Golfo rappresen-ta peraltro un ideale argomento di propaganda per i Fratelli musulmani, i quali denunciano la situazione sociale «privi-legiata» dei cristiani.

I cristiani di Giordania hanno molte ragioni per essere contenti dell'ascesa al trono di re 'Abdallah II, che, come suo padre, si mostra desideroso di garantire ai sudditi non mu-sulmani l'uguaglianza di fronte alla legge. Il nuovo sovrano non perde occasione di ricordare che il fondamentalismo musulmano, incarnato ai suoi occhi dagli Hezbollah libane-si e dall'Iran sciita, costituisce la minaccia più grave per la si-curezza della regione. Ha inoltre ricevuto in più occasioni i rappresentanti delle diverse confessioni cristiane, alle quali le televisioni di Stato hanno dato ampio spazio.

Tuttavia, il futuro del cristianesimo giordano è tutt'altro che certo. La percentuale di cristiani è in continuo e signifi-

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cativo declino. All'inizio del XX secolo essi costituivano ap-prossimativamente il 10% della popolazione; nel 1960 i 160.000 cristiani registrati ufficialmente rappresentavano an-cora il 9% dei giordani. Oggi sono 128.000, pari a non più del 3% dell'intera popolazione della Giordania.

La diminuzione del numero dei cristiani non è soltanto una conseguenza della perdita della Cisgiordania in seguito alla guerra dei Sei Giorni; piuttosto, è il risultato della mas-siccia immigrazione, avvenuta negli anni '70, di moltissimi giovani giordani attratti dagli Stati Uniti o dalla Gran Breta-gna, l'antica potenza mandataria. Tale diminuzione è anche dovuta al calo di nascite prodottosi nelle comunità cristiane, mentre il tasso di natalità presso i musulmani si mantiene stabile o aumenta.

Le perdite causate dalla continua emigrazione in direzio-ne degli Stati Uniti e della Gran Bretagna sono appena com-pensate dall'afflusso di parecchie centinaia di rifugiati cri-stiani iracheni; ma prestare loro aiuto è particolarmente one-roso per le Chiese locali. Le autorità giordane, in ogni caso, hanno tentato di arginare il flusso di profughi iracheni che giungono sul loro territorio, ma non hanno ottenuto risulta-ti apprezzabili.

La seconda guerra irachena ha prodotto soprattutto il ri-torno di un antiamericanismo virulento e di forti sentimenti anticristiani. Tali reazioni si spiegano con il sostegno dato al-l'intervento angloamericano in Iraq dai circoli neoconserva-tori americani, assai vicini alle Chiese evangeliche, nonché con la solita confusione, volontaria o involontaria, tra cri-stiani e occidentali o tra cristiani e americani.

A quanto pare, in Giordania gli ambienti evangelici si stan-no dedicando ad attività simili a quelle che svolgono nel Ma-

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ghreb. Alcuni missionari protestanti si sono stabiliti nel paese con il pretesto di offrire assistenza spirituale ai cristiani stra-nieri di passaggio nella regione. Altri si sono inseriti nelle va-rie ONG, particolarmente attive nei campi palestinesi che cir-condano Amman. La loro azione supera di gran lunga i confi-ni della semplice assistenza umanitaria e numerosi osservato-ri hanno espresso il sospetto che, in realtà, essi facciano opera di proselitismo presso la popolazione musulmana.

Secondo la stima fornita il 12 gennaio 2005 sul «Washing-ton Post» da Nabih Abassi, che si presenta come il presiden-te della Convenzione battista giordana, i gruppi evangelici in Giordania conterebbero 50 tra chiese e luoghi di culto e quasi 10.000 fedeli, in massima parte ex musulmani. La que-stione ha mandato in subbuglio la piccola comunità prote-stante giordana «storica», i cui membri non superano le 5000 unità.

Peraltro, la conversione di un musulmano a un'altra reli-gione è formalmente proibita dalla legge giordana; bisogna quindi essere molto prudenti riguardo ai casi di proselitismo segnalati dalla stampa internazionale e, più raramente, da quella giordana. Tuttavia, se dobbiamo credere al rapporto pubblicato nel gennaio 2008 dall'agenzia di stampa cristiana americana «Compass News», nel 2007 27 missionari prote-stanti sono stati espulsi dalla Giordania e 10 studenti del Se-minario giordano per l'evangelizzazione e la teologia, con sede negli Stati Uniti, si sono visti negare il permesso di far ritorno nel regno.

Il proselitismo evangelico è fonte di grave preoccupazio-ne per le altre Chiese cristiane. La loro dipendenza dal regi-me al potere, la pesante interferenza degli strati più ricchi della società sulla loro direzione e l'assenza di un inquadra-

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mento spirituale degno di questo nome hanno provocato nu-merose reazioni tra i giovani cristiani giordani, i quali, pur senza tagliare i ponti con la propria fede, prendono le di-stanze dalle strutture ecclesiastiche tradizionali. Questi gio-vani credenti, molto aperti nei confronti del mondo esterno, preferiscono definirsi «cristiani», senza riferimenti a una specifica denominazione. Da questo punto di vista sono as-sai sensibili alla predicazione consensuale degli evangelici.

Alla luce di ciò, si comprende la preoccupazione delle Chiese, che devono affrontare la drastica diminuzione del numero dei fedeli e i dubbi che l'ascesa ineluttabile del fon-damentalismo musulmano fa nascere a proposito della loro sopravvivenza futura.

L'inquietudine sotto la calma

Il ricordo di uno dei miei viaggi in Siria è legato all'in-contro con numerosi prelati, del quale ometto deliberata-mente data e luogo al fine di rispettare il desiderio di anoni-mato dei miei ospiti. Nell'aria si sentiva il fruscio degli abiti talari, il tintinnio delle croci di pietre preziose portate a ca-schimpetto e il parlottare sommesso dei miei interlocutori, estasiati all'idea di potersi rivolgere a un visitatore straniero e a un fratello nella fede.

In un francese impeccabile, appena colorato da una pun-ta di pittoresco accento orientale, i miei anfitrioni rivolsero molti elogi ai filosofi e ai teologi cristiani francesi e si infor-marono sulla situazione religiosa della Francia.

Osservavo quegli uomini, alcuni dei quali non avevano conosciuto la Siria al tempo del mandato francese, e mi sen-tivo commosso per il loro attaccamento alla francofonia.

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Continuammo a conversare e i miei ospiti contribuirono a chiarire vari argomenti. Essi, tra l'altro, mi spiegarono la ra-gione della loro perfetta padronanza della lingua di Moliè-re. La maggior parte dei religiosi cristiani d'Oriente, soprat-tutto i più anziani, è stata educata dai gesuiti francesi del Li-bano e molti di loro hanno frequentato a suo tempo l'uni-versità, gesuita e francese, Saint-Joseph di Beirut. Qualche bicchiere di raki bastò a sciogliere il riserbo su altre questio-ni, come l'assenza a quell'incontro di padre Paolo Dall'O-glio, rimasto nel suo monastero di Deir Mar Musa, a nord di Damasco.

Lo conoscevo bene, avendo soggiornato più volte in quel-l'edificio, da lui coraggiosamente ristrutturato con l'aiuto di pochi confratelli italiani e situato in un anfratto montagnoso nelle vicinanze di Homs, l'antica Emesa. Uno dei religiosi mi disse: «Si potrebbe credere che quei luoghi siano posti sotto la protezione della Vergine; infatti la chiesa di Umm al-Zun-nar, nella vicina Homs, ne custodisce la cintura. La santa re-liquia è stata scoperta nel 1953, nascosta sotto l'altare. Il ri-trovamento ha avuto l'effetto dello scoppio di una bomba nella piccola comunità siriaca. Secondo la tradizione, la cin-tura era stata portata in India da san Tommaso, per poi esse-re ricondotta in Siria nel 394 insieme ai resti dell'apostolo; fu quindi nascosta per proteggerla dall'avidità dei predatori di tombe e di reliquie».

Secondo fonti ufficiali, serie analisi scientifiche condotte da una missione archeologica confermano che si tratta effet-tivamente di una striscia di lino e seta, lunga 74 centimetri e larga 5, di epoca romana. La scienza, prudentemente, non aggiunge altro.

La presenza della santa reliquia non sembra aver creato una barriera protettiva intorno al monastero di Deir Mar

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Musa. Mi chiesero se fossi al corrente delle noie di padre Paolo con il vescovo locale, per nulla entusiasta delle inizia-tive liturgiche del gesuita italiano. Ma qualunque cosa aves-si detto avrebbe avuto poca importanza, costituendo tutt'al più un pretesto per continuare a dialogare su questioni filo-sofiche e teologiche sulle quali i miei ospiti parevano ferra-tissimi. Peraltro, questi scambi di vedute non sono immuni dai «pettegolezzi da sacrestia». Gli uni e gli altri si comple-tano a vicenda, dando un tocco di umanità ai certami dello spirito.

I miei vicini condividevano palesemente la collera del ve-scovo di Homs. Essi preferivano il fasto orientale delle loro celebrazioni tradizionali alla liturgia praticata da padre Pao-lo nel suo monastero appollaiato su una rupe montagnosa e arida. Ritenevano che Dio preferisse i cori altisonanti, le vo-lute di fumo che si levano dagli incensieri o le pianete ricca-mente decorate a una semplice invocazione pronunciata da un officiante che lo chiama Allah e che prima di pregare il suo nome si toglie le scarpe come i fedeli musulmani quan-do entrano in una moschea. Non vedevano con favore que-sta contaminazione di generi. Eppure, essa non nasceva for-se dalla volontà di arricchire il cristianesimo con l'apporto delle tradizioni culturali locali?

Benché si mostrassero diffidenti nei confronti delle prati-che di padre Paolo, i miei interlocutori non potevano fare a meno di provare segreta simpatia verso un uomo che per an-ni aveva dovuto affrontare l'ostilità della Curia e vari proce-dimenti disciplinari.

Costoro avrebbero avuto molto da dire a proposito della sorda diffidenza di cui sono spesso vittime, da parte di una Chiesa che considera i cristiani d'Oriente una specie a sé stante. Il loro scherzoso chiacchierio conviviale dimostrava

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che erano tutt'altro che preoccupati o angosciati. In loro non c'era traccia della tristezza che caratterizza i cristiani dell'E-gitto o del Libano, le cui feste sembrano costantemente mi-nacciate da un'imminente catastrofe.

Quella volta avevo a che fare con cristiani orientali felici e rilassati. La conversazione proseguì, toccando i grandi scrit-tori viaggiatori, francesi e cristiani, del XIX secolo e i loro scritti che tutti i presenti conoscevano perfettamente; par-lammo inoltre della rivoluzione dei costumi in Occidente; della vita oltre la vita... Argomenti che col passare dei mi-nuti mi parvero sospetti, come se fossero un pretesto per evi-tare che la conversazione sfiorasse determinati temi. In effet-ti, i miei ospiti davano l'impressione di desiderare a ogni co-sto che l'incontro confermasse certi luoghi comuni legati al-la Siria.

Il paese non gode di buona reputazione, anzi. È uno dei pilastri dell'«asse del male», secondo la definizione di G. W. Bush, ed è ritenuto una dittatura che mira a imporre il pro-prio controllo sul Libano, dove ha eliminato senza pietà tut-ti coloro che si opponevano ai suoi piani. I viaggi del presi-dente francese Sarkozy a Damasco nel settembre 2008 e nel gennaio 2009 non hanno prodotto alcun cambiamento nella politica di «protezione» perseguita dal regime nei confronti del paese vicino. Tutt'al più, sono state modificate le appa-renze, con l'istituzione di regolari rapporti diplomatici; il che è, se non altro, un primo passo verso la speranza.

La Siria, bisogna pur dirlo, non assomiglia in nulla a una democrazia parlamentare. I suoi temibili servizi segreti eser-citano uno stretto controllo sulla popolazione e i pochi intel-lettuali che hanno reclamato una liberalizzazione del regime a partito unico sono stati velocemente ridotti al silenzio. Il presidente è stato eletto con il 97% dei voti, una cifra che par-

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la da sola. L'autoritarismo del regime è simile a quello che si può osservare in molti altri paesi della regione.

In compenso, la società siriana è aperta alla modernità e al mondo esterno. Damasco è una metropoli dinamica; nel-le sue vie le ragazze sono vestite decisamente all'occiden-tale, il che darebbe scandalo in alcuni quartieri del Cairo (va però detto che anche nella capitale siriana il velo è sem-pre più diffuso).

Per molti cristiani siriani l'autoritarismo del regime è van-taggiosamente compensato dal fatto che l'indipendenza del paese, ottenuta nel 1946, non ha messo in discussione la lai-cità dello Stato, ereditata dal sistema mandatario francese. Il fondamento del regime è rappresentato dall'identità araba, non dall'islam: già nel 1947 il manifesto del Ba'ath, il partito fondato dal cristiano Michel Aflaq, proclamava a gran voce: «Il legame nazionale è l'unico legame in vigore nello Stato arabo. Esso garantisce l'armonia tra tutti i cittadini e li amal-gama nel crogiolo di un'unica nazione; esso combatte tutte le fazioni religiose, comunitarie, tribali, razziali o regionali».

La minoranza cristiana si è dimostrata particolarmente intransigente su questo punto, forte del peso politico che ha esercitato nei primi anni dell'indipendenza. Tuttavia, al mo-mento dell'elaborazione della prima Costituzione siriana (1950), i Fratelli musulmani hanno preteso che l'islam fosse dichiarato religione di Stato, suscitando vivaci proteste da parte della minoranza cristiana. Si è quindi giunti a un com-promesso, secondo il quale l'islam non sarebbe divenuto la religione dello Stato ma quella del presidente, il che equiva-leva a impedire implicitamente a qualunque cristiano di aspirare alla più alta carica.

«Siamo sicuri che sia un grave problema?» mi chiede sor-ridendo un facoltoso antiquario damasceno, colto, anti-

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conformista e bibliofilo a tempo perso. «Noi cristiani d'O-riente abbiamo spesso preferito un padrone musulmano a uno cristiano.» Detto questo, mi legge un testo scritto nel XII secolo dal patriarca giacobita Michele il Siro: «Il Dio della vendetta, l'Unico e Onnipotente, ha fatto venire dal sud i fi-gli di Ismaele per liberarci dai Romani».

«Tale liberazione ha rappresentato per noi un incommen-surabile vantaggio», ha chiosato l'antiquario.

Il mio interlocutore mi legge un'altra cronaca, questa vol-ta anonima: «Il cuore dei cristiani è pieno di gioia grazie alla dominazione araba. Possa Dio rafforzarla e farla prosperare».

Anche lui gioisce, perché questi testi sono noti a pochi, e se si pensa all'uso che oggi qualcuno potrebbe farne...

I cristiani di Siria sono fortemente attaccati alla laicità, sempre riconosciuta dai governi che si sono succeduti, sia ci-vili sia militari. Nel 1971, con la presa del potere da parte del colonnello Hafiz al-Asad, la questione è stata sollevata. L'o-missione, nel progetto di Costituzione, dei riferimenti all'i-slam come «religione di Stato» e all'appartenenza religiosa del presidente ha suscitato manifestazioni violente a Hama, roccaforte dei sunniti «duri e puri». Migliaia di persone, mo-bilitate dai Fratelli musulmani, sono scese in piazza per de-nunciare il «testo ateo». La repressione è stata feroce, ma il regime ha confermato l'appartenenza obbligatoria all'islam per il capo dello Stato.

II riconoscimento della libertà di culto e dell'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge è qui simboleggiata dal-l'assenza di ogni riferimento alla religione nelle carte di identità, un fatto decisamente degno di nota. Per i cristiani siriani si è trattato di un'importante conquista, accompagna-ta dalla scomparsa dai censimenti ufficiali di tutte le doman-

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de relative all'appartenenza religiosa. Soltanto i documenti dello stato civile ne fanno menzione, il che ha il vantaggio di mettere i cristiani al riparo dalle disposizioni della shari'a e costituisce una delle ragioni per le quali si trovano abba-stanza a loro agio sotto quel regime.

In teoria, nulla impedisce ai cristiani di partecipare alla vi-ta politica siriana, i cui margini sono peraltro piuttosto ristret-ti a causa del sistema a partito unico, che limita considerevol-mente la libertà di espressione e di stampa. Uno dei miei ospi-ti, originario di Aleppo, apre ridendo un album di famiglia. Alcune fotografie mostrano notabili dalle divise impeccabili nell'atto di sorridere all'obiettivo del fotografo: «Questo era un deputato, quello era un ministro...». Le foto hanno una co-sa in comune: sono tutte color seppia e sono state scattate alla fine degli anni '20 o negli anni '30, in pieno mandato francese. Fu l'epoca d'oro dei cristiani di Siria, anche se essi non erano per nulla soddisfatti della tutela francese, come dimostra il lo-ro sostegno al movimento nazionalista. In ogni caso ciò spie-ga in parte il fatto che un cristiano, Faris al-Khoury, sia stato per due volte presidente del Consiglio della giovane nazione indipendente, una situazione impensabile negli stati vicini.

Dalla fine degli anni '50 i cristiani hanno raramente occu-pato ruoli di primo piano. Tuttavia, ogni governo conta un numero variabile di ministri cristiani, due o tre, scelti prima di tutto per la loro fedeltà al regime; solitamente occupano ministeri tecnici.

Gli organi del partito unico, il Ba'ath, e quelli dell'eserci-to, altro pilastro del regime, non annoverano alcun cristiano tra i propri dirigenti. L'ultimo capo di Stato Maggiore cri-stiano fu il generale Youssef Chakkour nel 1973. Oggi una nomina di questo tipo sarebbe problematica.

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Il regime è strettamente legato alla minoranza alauita, di cui faceva parte il presidente Hàfiz al-Asad. Gli alauiti sono una setta dissidente dell'islam, della quale si conosce poco, a causa del segreto che vela i loro dogmi religiosi. Per i sunni-ti si tratta di una branca marginale dello sciismo, i cui digni-tari si prendono parecchie libertà con i dogmi musulmani. I dottori della Legge sunnita rivolgono agli alauiti critiche du-rissime: un odore di zolfo aleggia su questa minoranza, un tempo arroccata nel suo feudo di Djebel Ansaryé, tra Antio-chia e Tripoli.

In quella regione scoscesa si era stabilito, nell'XI secolo, il famoso «Veglio della montagna». Dal suo ripido rifugio se-minava il terrore nelle corti musulmane inviando presso i suoi nemici i suoi discepoli esaltati dall'hashish, che egli somministrava loro per renderli più coraggiosi. Gli Hashishiyyun (termine arabo da cui deriva la parola italiana «assassino») erano giustamente temuti.

La creazione del mandato francese in Medio Oriente ha permesso a questa minoranza di uscire dall'isolamento e di ottenere il riconoscimento dei propri diritti nazionali e poli-tici. Infatti, la Francia ha creato dal nulla un'effimera «Re-gione autonoma degli alauiti», divenuta per breve tempo Stato degli alauiti, prima di essere ridotta a semplice provin-cia, che fa capo a Laodicea, porto e finestra della Siria sul-l'Occidente.

Gli alauiti, il 98% dei quali era ancora analfabeta all'ini-zio degli anni '30, hanno costituito l'ossatura dell'esercito siriano, snobbato dai sunniti e dai cristiani, per i quali il me-stiere delle armi aveva qualcosa di degradante. Questa scel-ta ha fatto sì che gli appartenenti alla setta alauita fossero i maggiori beneficiari dell'esclusione dei civili dalle leve del potere.

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I più stretti collaboratori di Hafiz al-Asad, che ha pianifica-to il colpo di stato nel 1970, erano esclusivamente alauiti: tra lo-ro non c'erano sunniti o cristiani ma, in virtù del timido ap-poggio di una parte della classe media sunnita, la Siria appari-va come un regime controllato da un gruppo minoritario pari al 10% della popolazione, ima percentuale non più alta di quel-la dei cristiani (contando tutte le confessioni in cui sono divisi).

II predominio degli alauiti negli alti gradi della pubblica amministrazione e del partito unico ha contribuito ad allon-tanare i cristiani dalla sfera politica. Il regime è costretto be-ne o male a scendere a patti con la maggioranza sunnita e tende naturalmente a favorirla in larga misura nella distri-buzione dei posti di responsabilità. Nel contesto di tale deli-cato equilibrio politico-religioso i cristiani sono sempre più svantaggiati; a ciò si aggiunge il ricordo delle umiliazioni su-bite dagli alauiti, a lungo disprezzati come zotici dai cristia-ni, i quali, fieri del loro successo economico e sociale, li trat-tavano in modo assai poco conforme alla morale evangelica.

Ancora oggi è diffusa l'opinione che gli alauiti siano vol-gari villani rifatti, nuovi ricchi privi della saggezza e dell'u-miltà che la loro condizione minoritaria richiederebbe. All'i-nizio degli anni '70 alcune grandi famiglie cristiane, allonta-nate dai circoli del potere dagli alauiti, hanno preferito emi-grare piuttosto che adattarsi alla nuova realtà.

Non tutti i gruppi cristiani reagiscono allo stesso modo. Alcune denominazioni esaltano apertamente i meriti dell'at-tuale regime, come già avevano lodato quelli dei governi precedenti. Si tratta quasi di un obbligo, al quale si sotto-mettono senza particolare imbarazzo. Il patriarca melchita Máximos V Hakim non ha esitato a dichiarare al presidente francese François Mitterrand in visita in Siria (1984) quanto segue: «Grazie, signor presidente, per aver accettato l'invito del nostro presidente Hâfiz al-Asad che da quindici anni go-

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verna la Siria con instancabile dedizione, garantendoci, gra-zie alla sua ammirevole saggezza, una stabilità mai cono-sciuta prima e ottenendo risultati talmente buoni da fare del-la Siria e del suo presidente il centro della diplomazia me-diorientale».

Il sorriso di Mitterrand dimostrò in quell'occasione che egli, se non altro, apprezzava il francese forbito in cui erano pronunciate quelle parole3!

Per molti cristiani una certa prudenza è indispensabile. Bisogna pensare al futuro, poiché non è affatto detto che il partito Ba'ath riesca a conservare a lungo il potere sotto il controllo del clan Asad. Un sostegno troppo evidente al re-gime potrebbe nuocere agli interessi della comunità cristia-na, minacciando la sua posizione nella società siriana.

Non si tratta di una minaccia campata in aria: i moti scop-piati a Hama nel 1973 hanno mostrato il grado d'influenza esercitato dall'integralismo musulmano e i vantaggi che es-so poteva trarre da quelle che erano considerate concessioni eccessive ai non musulmani.

I Fratelli musulmani, braccati dalla polizia segreta, costi-tuiscono il nerbo dell'opposizione al regime e hanno cercato senza successo di rovesciarlo nel 1982, quando si sono impa-droniti della città di Hama, roccaforte sunnita. La risposta delle autorità non si è fatta attendere: la città ribelle è stata cir-condata dall'esercito e ha subito un sistematico bombarda-mento da parte dell'aviazione, dell'artiglieria e dei blindati. L'episodio ha provocato migliaia di vittime tra la popolazio-ne civile, alla quale è stato impedito di fuggire. La ferocia del-la repressione ha messo alle corde la contestazione integrali-sta e ha seminato il terrore nelle altre regioni del paese.

Com'era prevedibile, l'insurrezione e la conseguente rea-zione del governo centrale hanno gravemente danneggiato i cristiani: a Hama le chiese sono state distrutte dalla dinami-

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te così come le moschee, e alcuni cristiani hanno preso le ar-mi a fianco degli insorti sunniti.

Per tutti i cristiani di Siria, non soltanto per quelli di Hamà, gli avvenimenti del 1982 hanno un valore simbolico: si sono infatti trovati tra l'incudine e il martello. Un sostegno troppo plateale al regime avrebbe inevitabilmente aggravato i loro rapporti con la maggioranza sunnita, il cui trionfo, d'altro canto, avrebbe rischiato di mettere in discussione la libertà di culto e i loro diritti fondamentali; pertanto, hanno optato per una vigile neutralità, che può essere interpretata sia come una completa sottomissione al regime che come un segnale rivol-to alla maggioranza sunnita. In entrambi i casi i cristiani han-no dovuto operare una scelta, che si è tradotta in un indeboli-mento della loro importanza nella società e in una rinuncia al-l'influenza che fino ad allora avevano esercitato.

Il loro disimpegno dalla vita comunitaria è stato accele-rato dalla diffidenza di una parte della popolazione cri-stiana nei confronti della politica perseguita dalla Siria in Libano, in particolare verso i cristiani locali. Damasco non ha accettato l'indipendenza libanese; i suoi dirigenti han-no sempre accarezzato il sogno di una Grande Siria com-prendente i due paesi un tempo sottoposti al mandato francese. I cristiani siriani sono in generale favorevoli a questa visione, con l'eccezione dei maroniti; tuttavia, han-no dovuto constatare, non senza amarezza, che l'assetto re-ligioso impresso da Damasco al Libano si è tradotto nei fatti in un tentativo di procedere alla cancellazione dell'in-fluenza cristiana.

Ciò ha costretto i cristiani a ripensare le proprie posizioni e ad astenersi da qualunque azione che potesse essere inter-pretata come un intervento in favore dei loro correligionari libanesi.

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I cristiani siriani (circa un milione) sono dunque inclini a ritenersi soddisfatti della propria situazione, che non può migliorare, ma corre invece il rischio di peggiorare. Si sono quindi appropriati del vecchio adagio secondo il quale è me-glio un uovo oggi che una gallina domani. Sanno che il loro numero costituisce una sorta di protezione: infatti, i cristiani sono il 6% della popolazione e la loro presenza è particolar-mente importante in parecchie grandi città come Damasco e Aleppo. In più, devono prendere atto dei profondi cambia-menti che hanno mutato la loro suddivisione geografica nel corso degli ultimi quarant'anni.

Nel 1960, data dell'ultimo censimento confessionale, il 24% dei cristiani siriani viveva ad Aleppo e soltanto il 19% risiedeva a Damasco o nei villaggi cristiani limitrofi. L'esodo dalle zone rurali ha determinato la scomparsa di parecchie comunità cristiane, i cui membri hanno in gran parte rag-giunto la capitale o i porti di Tortosa (Tartus) e Laodicea alla ricerca di un lavoro fuori dall'ambito agricolo. Questa emi-grazione ha provocato un «effetto valanga»: infatti, la par-tenza di molte famiglie cristiane da un villaggio causa gene-ralmente la scomparsa delle strutture comunitarie, chiese e associazioni, la cui assenza provoca invariabilmente la fuga verso la città delle ultime famiglie, incapaci di sopportare il proprio isolamento.

Aleppo, un tempo fiore all'occhiello del cristianesimo si-riano, ha perduto molta della sua antica magnificenza. I due terzi dei suoi abitanti cristiani se ne sono andati, nella mag-gior parte dei casi per trasferirsi negli Stati Uniti o in Euro-pa. Soltanto poche grandi famiglie tentano di mantenere vi-va l'illusione di abitare in una città filo-occidentale i cui abi-tanti, un tempo, si vantavano di parlare più spesso in fran-cese o in inglese che in arabo.

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Ormai quasi un cristiano su due vive a Damasco o nei suoi dintorni; di conseguenza, la città si è trasformata e ha assunto un carattere multiconfessionale. I seguaci di Cristo si incontrano ogni domenica per celebrare l'eucaristia in una delle chiese che punteggiano il quartiere cristiano. Gesù stes-so, se calpestasse nuovamente il suolo siriano, non avrebbe difficoltà a orientarsi.

Come avviene presso tutte le comunità siriache del mon-do, la liturgia è celebrata in aramaico, la lingua parlata in Pa-lestina nel I secolo della nostra era. Assistere a un rito offi-ciato in questo idioma è un'esperienza straordinaria per i cri-stiani d'Occidente, almeno fintanto che ancora si può: infat-ti, la comunità cristiana di rito siriaco, ortodosso o cattolico è la più minacciata dalla massiccia emigrazione dei suoi membri in direzione degli Stati Uniti o dell'Europa occiden-tale. In Francia, la comunità caldea siriana e soprattutto ira-chena risiede principalmente a Parigi e a Sarcelles, ed è do-tata di proprie chiese nelle quali i riti continuano a essere ce-lebrati in aramaico. L'edificio di culto situato in Rue Pujol, nel 18° Arrondissement, è poco visibile dall'esterno. In quel luogo, in occasione della funzione domenicale, ho talvolta il piacere di incontrare monsignor Youssif Petrus, vescovo cal-deo iracheno, che si occupa anche della chiesa caldea di Sar-celles, costruita usando mattoni d'argilla e sormontata da cu-pole, nello stile delle chiese irachene e siriane.

L'emigrazione, come in altri paesi della regione, è il pun-to debole dei cristiani di Siria. Oggi, nelle case di numerose famiglie cristiane, le pareti e i tavolini sono pieni di foto di fratelli, sorelle, zii e cugini partiti nella speranza di fare for-tuna all'estero. Hanno conservato legami profondi con il paese d'origine, ma non aspirano a ritornarvi.

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Se si ha l'occasione di trascorrere una serata in questi am-bienti assai ospitali, non è raro assistere a una gioiosa con-versazione telefonica con un parente residente a New York, Città del Messico, Panama o Parigi. I cristiani di Siria sono fieri, molto fieri di una tale apertura verso l'esterno, segno del loro successo sociale. «Da noi lo "zio d'America" è un concetto ben vivo», mi spiegava con una punta di amarezza il mio ospite di una sera: «I nostri cari cristiani non riescono a capire che si danno la zappa sui piedi. Dicono che voglio-no restare qui, ma i più ricchi hanno già tutti, fin dalla culla, un piede all'estero».

Il tono del mio interlocutore era volutamente grave e sen-tenzioso. Ho appreso in seguito che due suoi figli, dopo aver concluso gli studi, su consiglio del padre sono rimasti in Eu-ropa. Contraddizione, schizofrenia o gusto del paradosso? Nessuno è in grado di dirlo. La presenza di parenti all'este-ro è come un'assicurazione sulla vita per i cristiani locali, rincuorati all'idea di disporre di un appoggio nel caso che la situazione politica precipitasse. È fondamentale tener pre-sente un aspetto sconosciuto agli europei: in Siria, come nel-la maggior parte dei paesi del Medio Oriente o del Maghreb, i cittadini vivono continuamente nella paura che «succeda qualcosa». La Siria è al centro di un circolo vizioso: un ritor-no al potere della maggioranza sunnita, con conseguente ro-vesciamento dell'attuale regime, provocherebbe senza dub-bio un'emorragia demografica nel cristianesimo locale, che vive nel timore di cambiamenti in peggio.

Comunque, la Sira è senza dubbio l'unico paese arabo nel quale i cristiani possono manifestare la propria identità reli-giosa apertamente e tranquillamente. Le chiese sorgono ac-canto alle moschee e fanno naturalmente parte del paesaggio

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urbano. Alcune, anzi, ostentano un lusso sbalorditivo, come la bellissima cattedrale melchita di Damasco dall'iconostasi di marmo bianco.

Nei giorni di festa non è raro assistere a processioni orga-nizzate dalle comunità cristiane, riunite dietro agli stendardi delle loro parrocchie e pronte a intonare a squarciagola can-ti di gioia. In quel paese il riserbo non è una virtù propria dei seguaci di Gesù e la popolazione musulmana può vivere in buona armonia con i cortei cristiani vistosi e chiassosi, il che sarebbe impensabile negli altri paesi del Medio Oriente, del-l'Estremo Oriente o del Maghreb.

La pubblica ostentazione dell'identità cristiana, però, è solo la facciata: in realtà la situazione è ben più complessa. La libertà di culto è limitata dallo stretto controllo che il re-gime esercita sulle varie gerarchie cristiane. Un prelato che non sia «in odore di santità» presso le autorità politiche ha poche speranze di mantenere il proprio posto. Un vescovo siriano, greco-ortodosso, il quale, durante un viaggio a Pari-gi (nel 1983), si era permesso di accennare alla rigida sorve-glianza di cui lui e i suoi omologhi erano fatti oggetto fu co-stretto a una pubblica smentita. L'ambasciatore di Siria in Francia organizzò una conferenza stampa nella quale il «col-pevole» dichiarò che le sue parole erano state travisate: egli, al contrario, si era rallegrato per l'attenzione straordinaria-mente benevola che le autorità dimostravano nei riguardi della sua Chiesa!

Tuttavia, le manifestazioni di amicizia possono variare a seconda delle circostanze.

Credendomi un visitatore solitario, l'alto dignitario cri-stiano con cui stavo parlando al telefono mi invitò volentie-ri ad andare da lui per una chiacchierata davanti a una taz-

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za di caffè. Anzi, estese l'invito anche al pranzo, insistendo calorosamente. Azzardai allora un rifiuto, spiegandogli che ero in compagnia di quattro amici. Il prelato citò la vecchia formula: «Gli amici dei miei amici sono miei amici: porti an-che loro». Tuttavia, conoscendo i costumi locali e le buone maniere, mi sentii obbligato a dare qualche informazione supplementare al mio ospite.

Con i miei colleghi avevo formato il gruppo multiconfes-sionale Abraham Path Initiative. Stavamo appena muoven-do i primi passi, prendendo contatto con le università loca-li e le autorità religiose. Immediatamente, per l'ecclesiastico divenni persona non grata. In seguito, durante un suo viag-gio in Europa, egli mi confessò che tutti i dirigenti cristiani o musulmani di Siria avevano subito forti pressioni affinché nessuno di loro ci accogliesse o parlasse con noi. Per un re-ligioso siriano, dunque, essere visto insieme a uno di noi senza l'autorizzazione dei servizi di sicurezza era un fatto impensabile.

Il nostro gruppo aveva ottenuto il caloroso sostegno del-la Turchia, e numerosi ministri turchi avevano partecipato all'inaugurazione del nostro periplo, intrapreso nella città di biblica di Harran, nell'est del paese. Inoltre, avevamo l'ap-poggio della regina Rania di Giordania, dell'israeliano Shi-mon Peres e del governatore di Hebron, in Palestina. Ma in Siria bisogna prendere molto sul serio l'accettazione o il ri-fiuto di un incontro, perché sono un'efficace cartina di tor-nasole per comprendere la situazione delle varie denomina-zioni cristiane e misurare il loro margine di autonomia.

La sorveglianza a cui sono sottoposte le gerarchie si ac-compagna a un controllo capillare delle attività svolte dalle associazioni cristiane, sociali e caritatevoli. Organizzare riu-nioni di fedeli al di fuori dei luoghi di culto è tutt'altro che

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facile e può diventare il pretesto per sciogliere d'ufficio un'associazione, accusandola di aver esulato dalle proprie prerogative.

L'ostentata laicità del regime è spesso usata per frenare la costruzione di nuove chiese, con il risultato che nella capita-le Damasco, a causa del forte aumento del numero dei cri-stiani, la situazione sta diventando preoccupante. Non c'è un'aperta discriminazione: tutt'al più si può osservare che la Direzione dei culti applica alla lettera il regolamento quando si tratta di costruire una nuova chiesa e si mostra infinita-mente più tollerante nella concessione di permessi per edifi-care moschee, specialmente se direttamente finanziate dal-l'Arabia Saudita o dall'Iran.

Tuttavia, è soprattutto nel campo dell'educazione e della vita culturale che le comunità cristiane hanno subito una considerevole riduzione della loro indipendenza, in nome della supposta laicità del regime.

La censura esiste e si applica ai testi religiosi come a qua-lunque altra opera. Spesso i cristiani hanno difficoltà a pro-curarsi libri pubblicati all'estero che non siano stati preven-tivamente letti e scrupolosamente annotati, o dai quali siano stati espunti i passaggi considerati sconvenienti o malevoli. Più difficile ancora per i cristiani è stampare sul posto certi libri, dal momento che le stamperie e le case editrici sono strettamente sorvegliate; è difficilissimo, infine, pubblicare scritti diversi dagli insegnamenti religiosi autorizzati dal re-gime, che vigila attentamente sul contenuto dei manuali re-ligiosi e decide ciò che è lecito e ciò che non lo è. Le gerarchie religiose lasciano fare, premunendosi in tal modo contro lo spirito riformatore di molti giovani fedeli che sognano di modernizzare le istituzioni (una locuzione, questa, difficil-mente traducibile in arabo siriano).

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Una stampa cristiana esiste, ma non spicca per originalità; al contrario, è per lo più limitata a bollettini parrocchiali nel vero senso della parola, zeppi di articoli inneggianti al regi-me. L'irreggimentazione degli spiriti ha colpito soprattutto la comunità armena, che un tempo contava 175.000 membri ed è oggi ridotta a meno della metà. A partire dagli anni '60 i partiti armeni sono stati proibiti come tutti gli altri partiti politici e i loro dirigenti sono stati imprigionati o costretti al-l'esilio. Nulla doveva turbare le relazioni della Siria ba'athi-sta con la Turchia sua vicina o con l'Unione Sovietica sua protettrice.

Anche l'insegnamento confessionale è stato normalizza-to. Nel 1967 un decreto-legge ha regolamentato strettamente l'esistenza delle scuole religiose, spesso fondate da congre-gazioni straniere, istituzioni che erano il fiore all'occhiello delle varie comunità cristiane e che godevano di straordina-rio prestigio.

Quelle che volevano continuare a esistere dovettero im-pegnarsi ad accettare le nomine di presidi non sempre cri-stiani: la laicità non proibisce forse qualunque discrimina-zione nelle assunzioni? Sarebbe comunque ingenuo illuder-si che la direzione di un istituto coranico possa essere affida-ta a un non musulmano. Inoltre, le scuole hanno dovuto pie-garsi all'obbligo di adottare i manuali in uso nel sistema educativo pubblico e di fare esclusivo ricorso alla lingua ara-ba, mentre l'insegnamento in inglese o in francese costituiva la principale attrattiva degli istituti confessionali.

Le scuole cattoliche, melchite e armene hanno chiuso qua-si tutte i battenti, provocando un'ondata migratoria tra i fe-deli desiderosi di garantire strumenti didattici moderni ai propri figli. All'inizio degli anni '80 qualche scuola ha ria-perto, senza tuttavia riuscire a ottenere un pieno riconosci-

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mento giuridico. L'arabizzazione dell'insegnamento si è ri-velata particolarmente dannosa per gli armeni e i cristiani di rito siriaco, che si sono visti colpiti nelle loro peculiarità lin-guistiche e culturali.

Tuttavia, i problemi legati alle scuole passano in secondo piano di fronte agli interrogativi che gravano sul futuro del-l'intero cristianesimo siriano, legato inevitabilmente al nuo-vo assetto geopolitico regionale. Da un lato, il massiccio af-flusso di profughi cristiani dall'Iraq costituisce un problema di non poco conto, in quanto le Chiese locali non sempre hanno i mezzi per affrontare i costi che i nuovi arrivi com-portano. Dall'altro, il rafforzamento dei legami tra la Siria e l'Iran, accentuato dalla tendenza degli ambienti alauiti a pre-sentarsi ormai come una branca del movimento sciita, inco-raggia un'islamizzazione su larga scala della società siriana, come mostrano numerosi segnali, quali una più larga parte-cipazione al ramadan, la maggior diffusione del velo islami-co, l'aumento del numero delle moschee ecc.

Si tratta di fatti troppo recenti perché le Chiese di Siria, pur preoccupate, abbiano potuto formulare risposte ade-guate.

Nel paradiso dei Cedri perduti

Il Libano è stato a lungo una meta obbligata per i corri-spondenti di guerra. In quel paese massacri e atrocità erano all'ordine del giorno e capitava spesso che l'insolito si intro-mettesse nella cupa attualità. Per esempio, nell'infuriare del-la prima guerra civile, che ebbe inizio nel 1975, in un quar-tiere di Beirut Ovest galleggiava un frammento di armonia interconfessionale.

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Un'anziana donna cristiana era rimasta a vivere con i suoi concittadini musulmani. Era la sola a non essere fuggita a Beirut Est, enclave strenuamente difesa dalle Falangi cristia-ne. La signora si aggrappava alla propria casa e alla propria missione: dar da mangiare a tutti i gatti affamati del circon-dario. Ogni mattina e ogni sera i mici pelle e ossa si recava-no a miagolare sotto le sue finestre per esigere il pasto. For-tunati quei gatti libanesi, che non erano né sunniti, né drusi, né sciiti, né maroniti, né greci-ortodossi e che si facevano un baffo dell'appartenenza religiosa della loro benefattrice! I piccoli felini trovavano sempre il cibo di cui avevano biso-gno, che vi fossero o no bombardamenti in corso. La follia degli uomini non aveva potuto impedire a quell'anima sem-plice di dedicarsi ai gatti randagi. Nulla le avrebbe fatto cambiare idea, nemmeno le suppliche di suo figlio, che esor-tava la madre a trasferirsi nel settore cristiano della città.

L'anziana donna era diventata la mascotte del quartiere. I feroci miliziani sunniti o sciiti, che non esitavano a sgozzare bambini cristiani, la lasciavano in pace e talvolta si fermava-no addirittura a scherzare con lei. Quando usciva per nutri-re i gatti non aveva niente da temere nemmeno dai falangi-sti nascosti tra le rovine della no man's land. I miliziani cri-stiani con i petti ornati di immagini sacre e le mani incollate alle mitragliatrici la conoscevano e non aprivano il fuoco.

Il miracolo si ripeteva ogni giorno: quando i gatti usciva-no per chiedere il cibo e la loro madre adottiva andava loro incontro aveva luogo un cessate il fuoco locale, rispettato da entrambe le parti in guerra. I giornalisti speculavano su casi come questo, inventando complicate spiegazioni per far luce su un mistero del tutto banale: vi erano per caso contrasti tra i radicali e i pragmatici dei rispettivi campi? Niente affatto! L'affare riguardava soltanto qualche scodella di latte.

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L'episodio ebbe un epilogo. Venne infatti il giorno in cui la signora morì di morte naturale, nel suo letto: si trattava di un raro privilegio nel Libano degli anni '70. Bisognava quin-di seppellirla. Suo figlio, profugo nel settore cristiano, non aveva la possibilità di raggiungere la casa materna senza ri-schi per la propria vita.

Eppure non si poteva lasciare il cadavere nella casa. Gli abitanti del quartiere desideravano rendere un ultimo saluto alla dignitosa anziana e uno di loro, un musulmano, propo-se una soluzione basata sul buon senso. Non si doveva far al-tro che convertire all'islam la donna, in maniera postuma. Questo accomodamento con il cielo avrebbe permesso alla benefattrice di avere una sepoltura, alla quale l'avrebbero ac-compagnata coloro che le volevano bene. Per quanto inac-cettabile ciò possa sembrare ad alcuni, la conversione fu rea-lizzata a tempo di record. Bisognava fare in fretta, perché i bombardamenti non potevano attendere. Dopodiché, la de-funta fu condotta nel luogo dove avrebbe riposato.

Questo racconto autentico dai contorni fiabeschi dimostra che in Libano la morte non mette fine agli odi che in tre se-coli hanno modificato profondamente la società libanese e che sono alla base degli eventi drammatici succedutisi fino a

oggi-

Senza voler ripercorrere la complessa storia del paese dei Cedri, è necessario tornare indietro nel tempo, sia pure per sommi capi, onde districare la matassa libanese e spiegare le ragioni particolari che legano i cristiani del Libano alla Fran-cia, con la quale esiste una tradizione di amicizia e di coope-razione che risale alle Crociate: i feroci montanari maroniti avevano infatti riservato ai cristiani un'accoglienza relativa-mente buona.

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Essendo riusciti a salvaguardare la propria autonomia grazie a una saggia alleanza con i drusi, i maroniti non han-no tralasciato alcuna precauzione per garantire la propria si-curezza; si sono dunque avvicinati alla Santa Sede e alla Francia. Nel 1649, Parigi ha concesso ai maroniti Lettere Pa-tenti, rinnovate nel 1737 da Luigi XV, nelle quali veniva loro garantita una protezione speciale. Da allora la Francia ha ri-vendicato il ruolo di protettrice dei cristiani del Libano, ed è a lei che si rivolgono i maroniti quando si sentono minacciati, come avvenne nel 1680, allorché i drusi (ex alleati dei cri-stiani) li massacrarono.

Quelle violenze, in origine, non avevano affatto motiva-zioni religiose, e in ogni caso nemmeno i nostri bravi cristia-ni d'Oriente erano stinchi di santi. La società maronita, di ti-po feudale, si fondava sul dominio di poche grandi famiglie sui contadini musulmani, drusi o cristiani, ridotti quasi allo stato di servi e gravati da pesanti gabelle.

Nel 1858 una «Grande Paura» percorse i monti del Liba-no: i contadini si sollevarono, bruciando i castelli e le dimo-re dei ricchi proprietari e provocando l'intervento del pa-triarca maronita, il quale riuscì a convincere i grandi feuda-tari a rinunciare ai loro privilegi e a un certo numero di tas-se considerate ingiuste. La vittoria ottenuta dai contadini cri-stiani fu di esempio a drusi e musulmani, che a loro volta si ribellarono: la loro rivolta assunse presto una connotazione religiosa, tale da minacciare non soltanto i feudatari, ma tut-ti i cristiani. In meno di due mesi ne vennero trucidati 22.000, mentre 75.000 fuggirono; 560 chiese furono distrutte.

La vicenda ebbe una larga eco internazionale. Per l'Euro-pa, imbevuta di idee progressiste, quelle violenze erano il simbolo di passioni religiose appartenenti al passato, l'e-spressione di un fanatismo che colpiva una minoranza al

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tempo stesso religiosa e nazionale. Alcuni gesti simbolici fa-vorirono la copertura mediatica del dramma. L'Alleanza Israelitica Universale, fondata nel 1869, lanciò un appello al-la solidarietà nei confronti dei maroniti, aprendo una sotto-scrizione che ebbe notevole successo.

Contemporaneamente, l'opinione pubblica francese stava scoprendo il generoso gesto dell'emiro 'Abd al-Qadir, ex ca-po della rivolta algerina. Dopo la sua cattura da parte del maresciallo Thomas-Robert Bugeaud e il periodo di deten-zione trascorso in Francia, fu infine autorizzato da Napoleo-ne III a partire per la Siria, dove approdò con parecchie cen-tinaia di fedelissimi, stabilendosi a Damasco. Nel 1860 soc-corse i cristiani del Libano, dando loro rifugio nella propria residenza o ponendo le loro case sotto la sua protezione o sotto quella della bandiera francese.

Tali azioni contribuirono a creare un clima emotivamente favorevole ai cristiani libanesi, che permise a Napoleone III di inviare sul posto, nonostante le reticenze di inglesi e otto-mani, un contingente di soldati con il compito di ristabilire l'ordine nei Monti del Libano: contemporaneamente, le can-cellerie si consultarono ed escogitarono una soluzione giuri-dica che garantisse al paese dei cedri una larghissima auto-nomia, di cui approfittarono soprattutto i cristiani.

I fatti del 1860 rappresentarono una svolta nella storia dei cristiani libanesi. L'improvvisa violenza che dovettero sop-portare da parte di drusi e musulmani confermò loro che quelle due comunità intendevano cancellarli, e l'invio di un corpo di spedizione francese li convinse che l'Occidente sa-rebbe stato il miglior garante della loro sicurezza. Per i cri-stiani libanesi l'instaurazione del mandato francese sul Liba-

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no e sulla Siria (nel 1920, dopo la caduta dell'Impero otto-mano) fu una benedizione.

Staccando il Libano dalla Siria, la Francia creò una Re-pubblica libanese ritagliata su misura per i cristiani. La pro-tezione accordata loro dalla potenza coloniale è alla base de-gli «eccezionali vincoli d'amicizia» tra il Libano e la Francia dei quali si sente tanto parlare.

Al momento del conseguimento dell'indipendenza del paese, nel 1943, i cristiani fecero in modo che il sistema poli-tico, particolarmente complesso, garantisse loro la premi-nenza, in virtù del maggior peso demografico; peso che, nel corso degli anni, è costantemente diminuito. Riservarono dunque per sé la presidenza della Repubblica, lasciando ai sunniti la presidenza del Consiglio e agli sciiti quella del Par-lamento, nel quale i deputati cristiani erano più numerosi di tutti i deputati musulmani messi insieme.

Poiché serbano memoria degli interventi francesi, i cri-stiani libanesi pensano di aver sottoscritto una sorta di po-lizza di assicurazione presso la comunità internazionale: qualunque cosa succeda, si ritiene che essa, e in particolare la Francia, interverrà per proteggere la loro sicurezza. Que-sta convinzione spiega l'immensa rabbia dei cristiani libane-si nei confronti dei loro correligionari europei e francesi per l'abbandono del quale sostengono di essere stati vittime nel corso delle loro guerre, tra il 1970 e il 1990.

Bisogna ammettere che i cristiani libanesi, in particolare i maroniti, non hanno goduto di buona fama presso la stampa occidentale: è sufficiente sfogliare i giornali pubblicati negli anni dei conflitti per imbattersi in formule stereotipate che condizionavano i giudizi del pubblico ma non corrisponde-vano del tutto alla realtà. Per alcuni c'erano i buoni, ovvero i musulmani, definiti «progressisti», e i cattivi, cioè i cristia-

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ni delle Falangi. Tuttavia, si trattava di una visione alquanto semplicistica e manichea della situazione.

Le pagine del presente libro non basterebbero a scrivere la storia del progressivo strazio del Libano, cominciato nel 1970. Dobbiamo quindi sintetizzare al massimo, ricordando alcuni tragici fatti che hanno visto protagonisti i cristiani, co-me il massacro di Damour e naturalmente la strage di Sabra e Shatlla compiuta ai danni dei Palestinesi: quei nomi sono diventati sinonimo di efferatezza.

L'Occidente ha dato prova di grande tolleranza nei con-fronti dei palestinesi dell'OLP i quali, cacciati dalla Giorda-nia nel settembre del 1970, si erano stabiliti con armi (so-prattutto) e bagagli in Libano. Costoro avevano trasformato i numerosi campi profughi disseminati nel paese dei cedri fin dalla creazione dello stato di Israele (1948) in bastioni for-tificati e in una sorta di Stato nello Stato. La vita politica pa-lestinese non era fondata sulla democrazia.

Quanto alle numerose offese ai diritti umani, alle violen-ze cieche commesse da alcuni che si proclamavano «pro-gressisti islamici», esse formano un elenco assai lungo. I mu-sulmani avevano il vantaggio di rappresentare i poveri, i di-seredati, sciiti o palestinesi; i cristiani, invece, erano visti co-me privilegiati che avevano accumulato fortune colossali ap-profittando dello straordinario sviluppo economico del Li-bano, «la piccola Svizzera del Medio Oriente», le cui banche attiravano capitali dai paesi arabi.

Le Falangi cristiane non facevano nulla per ispirare sim-patia. Erano presentate dalla stampa come bande di mafiosi che regolavano i propri conti col sangue. I loro principali ri-vali cristiani non ispiravano più rispetto: si trattava di gran-di feudatari alla testa di clan potenti e ben armati, disposti a usare qualunque mezzo per far rispettare i propri privilegi e

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la propria autorità. I metodi poco evangelici ai quali faceva-no ricorso non contribuivano certo a migliorare la loro im-magine. I cristiani libanesi sono sì stati massacrati in gran numero dai loro compatrioti seguaci di altre religioni, ma nemmeno i regolamenti di conti interni alla loro comunità possono essere additati come grandi esempi di fratellanza: figli, mogli e bambini di capi cristiani sono stati vittime di terribili vendette da parte dei loro correligionari.

In Occidente i cristiani libanesi erano soprattutto conside-rati i grandi beneficiari della prosperità economica del pae-se. Erano lavoratori infaticabili, aperti al mondo occidentale, poliglotti, attenti a ogni innovazione; effettivamente, il loro ruolo nell'economia del Libano era di primo piano. Molti di loro si erano trasferiti nell'Africa nera, in America centrale o in America latina, dando vita a prospere colonie commercia-li. Per una ragione o per l'altra l'emigrazione è sempre stata una specie di seconda natura per i cristiani orientali e in par-ticolare per i libanesi: ciò spiega perché i maroniti che vivo-no all'estero sono più numerosi di quelli che risiedono nel paese dei cedri.

Innegabilmente, i cristiani erano una comunità agiata, en-tro la quale esistevano anche sacche di povertà, ma che per la maggior parte era formata da appartenenti alla classe me-dia: nei loro quartieri preferiti, specialmente nella zona occi-dentale di Beirut, si respirava un certo lusso, ben lontano dalla nera miseria dei campi palestinesi di al-Karantlna o di Sabra e Shatrla, e dalla povertà della terza comunità del pae-se, gli sciiti (assai numerosi nel sud del paese e zimbello dei sunniti). Questa situazione ha nociuto grandemente all'im-magine dei cristiani d'Oriente, attirando su di loro una forte antipatia, soprattutto da parte degli ambienti cristiani pro-gressisti occidentali.

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Quante volte mi è capitato, a Beirut, di sentire i miei ospi-ti cristiani lamentare l'abbandono della loro comunità da parte dei correligionari occidentali e la nostra ostinazione nel rimanere sordi alle loro richieste di aiuto! «Non è possi-bile che voi, cristiani e francesi, abbiate la memoria tanto cor-ta», mi rimproverò una giornalista libanese: «Avete dimenti-cato che noi abbiamo partecipato alle sofferenze della Fran-cia. I nostri genitori hanno pianto all'annuncio della caduta di Parigi nel giugno 1940. Il 25 agosto 1944 le campane di Beirut hanno suonato a festa per salutare l'entrata delle trup-pe alleate nella capitale francese. Fu una gioia meravigliosa. Perché in Francia non è suonato l'allarme quando le nostre chiese sono state bruciate e i nostri anziani sono stati assas-sinati? Perché non avete reagito quando, a Damour, nel gen-naio del 1976, abbiamo avuto il nostro Oradour-sur-Glane4? Perché i vostri preti scelgono di piangere i palestinesi e non parlano mai delle suore e dei sacerdoti libanesi ammazzati come bestie? Cosa abbiamo fatto per farvi dimenticare fino a questo punto il bene che ci volevate?».

Anche se questo appassionato atto d'accusa era eccessivo, anche se lo respingevo, mi riusciva difficile rispondere. Co-sa avrei potuto dire, se non le solite banalità buone per qua-lunque occasione? No, non è vero che ci siamo dimenticati dei cristiani libanesi. No, non è vero che ignoriamo le loro sofferenze e i loro martiri. Abbiamo semplicemente la ten-denza a non parlarne, come tacciamo riguardo a tutti i cri-stiani perseguitati.

I cristiani libanesi, è vero, si sono fatti troppe illusioni, ma soprattutto sono finiti nella tagliola della storia, vittime del-la strumentalizzazione delle grandi potenze o di alcuni tra i paesi vicini. Le tragedie che li hanno colpiti sono in parte im-

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putabili ai loro dirigenti politici, ma anche a calcoli fatti sul-la loro pelle da tutti i piccoli Machiavelli del Vicino Oriente.

Bisogna riconoscere che i cristiani libanesi e il Libano in generale hanno sofferto gravi sconvolgimenti geopolitici in seguito alla creazione dello Stato di Israele e al manifestarsi della questione palestinese che ne è una diretta conseguen-za. Si tratta di eventi che hanno influenzato in modo decisi-vo il fragile futuro del Libano, con la creazione dei campi per i profughi palestinesi nei quartieri periferici di Beirut e, so-prattutto, nel sud del paese.

Successivamente, allorché sono stati espulsi dalla Giorda-nia a causa dei massacri del settembre nero e in seguito alla Guerra dei sei giorni, i dirigenti palestinesi sono tornati in Libano con al seguito migliaia di nuovi profughi. È stato fat-to loro posto, a condizione che si mantenessero tranquilli, in-vece hanno trasformato i propri campi in vere fortezze, sul-le quali il governo del Libano non ha più avuto alcun con-trollo. I soldati e i poliziotti libanesi sono diventati persone non grate nei campi dei palestinesi che, in men che non si di-ca, hanno costruito uno Stato nello Stato. Tra il 1971 e il 1975 la situazione è ulteriormente peggiorata.

Eppure, si pretendeva che il Libano fosse un'isola felice. Ogni estate i villeggianti si ritrovavano sulle alture che so-vrastano Beirut. Il festival di Baalbek attirava una gran fol-la desiderosa di ascoltare le migliori voci della canzone araba o di assistere a rappresentazioni teatrali. Ricordo molto bene la gioia di vivere che animava il paese. Nessu-no aveva l'impressione di essere seduto su un vulcano; nessuno dava retta al sordo brusio che proveniva dal ven-tre delle montagne.

Due Stati vicini osservavano attentamente la situazione: Israele e la Siria.

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Agli israeliani interessava una sola cosa: ottenere che il go-verno libanese esercitasse il proprio controllo sui palestinesi residenti in Libano e che espellesse i loro capi politici e mili-tari. Israele era altresì pronto ad appoggiare tutte le forze osti-li ai palestinesi presenti nel paese dei cedri, a cominciare dai cristiani, attirandosi le loro simpatie per poi servirsene come alleati. Troppo tardi i cristiani si sono resi conto dell'imbro-glio in cui erano cascati e che li ha condotti alla catastrofe.

L'altro paese vicino, la Siria, non ha mai accettato l'indi-pendenza del Libano, che secondo Damasco fa parte della Grande Siria. Non è un caso se fino al 2008 non esisteva un'ambasciata siriana a Beirut. Negli anni '60 e '70 la Siria, economicamente assai arretrata, mal sopportava l'ostentata e insolente prosperità del Libano. Intervenire nel paese dei cedri con il pretesto del presunto appello di una delle comu-nità religiose, che si sentiva minacciata, significava essere fi-sicamente presenti in quello Stato, onde prepararne lo sman-tellamento e la progressiva annessione alla madrepatria.

Élias, un intellettuale maronita, mi ha fatto un riassunto, non privo di umorismo, della situazione: «I siriani sono en-trati in Libano nel 1976 per sapere chi li aveva chiamati». In-fatti, nessun leader cristiano ha mai rivendicato l'iniziativa. Tuttavia, non si possono dimenticare i fiori lanciati dalla buona borghesia cristiana all'indirizzo dei carri armati siria-ni che hanno salvato i falangisti di Beirut Ovest dall'annien-tamento a opera delle milizie «progressiste» islamiche.

Si è dunque innescato l'ineluttabile processo di guerra ci-vile la cui miccia aveva preso fuoco pochi mesi prima, il 13 aprile 1975, ad Ain el-Remmaneh, un sobborgo cristiano di Beirut.

La messa si era appena conclusa e i fedeli indugiavano sul sagrato della chiesa, chiacchierando, scherzando, parlando

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dei propri progetti... Era una domenica come le altre. A un certo punto un'automobile guidata da alcuni palestinesi si lanciò a rotta di collo in una via che sbucava nella piazzetta dove i cristiani stavano discorrendo. Non si saprà mai cosa sia davvero accaduto. I palestinesi a bordo, armati fino ai denti, temevano di fare una brutta fine? Aprirono il fuoco preventivamente o avevano intenzione di compiere un at-tentato ai danni dei cristiani? Entrambe le ipotesi sono plau-sibili, ma ve ne sono anche altre. In ogni caso, quattro cri-stiani trovarono la morte: le prime vittime della giornata.

Poco dopo, un autobus che trasportava numerosi palesti-nesi di ritorno da una cerimonia familiare transitò per quel-la piazza. I cristiani locali erano ancora sconvolti a causa del-la tragedia che li aveva colpiti e si vendicarono massacrando tutti i passeggeri dell'autobus.

Il giorno dopo l'intera Beirut era divenuta teatro di una vera e propria caccia all'uomo, i cui bersagli variavano a se-conda dei quartieri. Nella zona ovest della città alcuni pale-stinesi cominciarono a fermare i passanti pretendendo di controllare i loro documenti di identità, sui quali era indica-ta l'appartenenza religiosa. I cristiani furono separati; alcuni furono uccisi immediatamente mentre altri furono condotti nei campi profughi, da dove i più fortunati di loro uscirono mesi dopo grazie al pagamento di un riscatto.

A Beirut Est i membri delle diverse milizie cristiane arre-starono tutti i passanti musulmani, senza fare distinzioni tra sciiti e sunniti; se si imbattevano in un palestinese il control-lo dell'identità era troncato da una raffica di mitra ghetta.

L'escalation degli eventi, delle uccisioni e delle esecuzio-ni sommarie subì un'accelerazione. Vi era notevole disparità di forze tra i contendenti, e poco alla volta i cristiani perdet-tero terreno. In alcuni villaggi furono vittime di palestinesi

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desiderosi di vendicarsi, come avvenne nel gennaio del 1976 a Damour, dove circa 500 civili cristiani, uomini, donne, bambini, furono sorpresi nel sonno e massacrati. Il prete del paese ammise di aver sepolto i suoi parrocchiani con ancora indosso pigiami e camice da notte. Per rappresaglia i falan-gisti cristiani trucidarono un centinaio di palestinesi cattura-ti nel campo di al-Karantlna.

Per i cristiani libanesi Damour rappresentò un punto di svolta, perché si resero conto che i fatti avvenuti in quel pic-colo borgo prefiguravano ciò a cui sarebbero andati incontro se non fossero riusciti a riprendere il controllo della situa-zione; tuttavia non disponevano né delle forze né dell'equi-paggiamento necessari per farcela. In Francia l'opinione pubblica era ben poco interessata alla loro sorte. La salvezza, alla fine, arrivò, anche se doveva rivelarsi un imbroglio: in effetti la Siria intervenne, adducendo a pretesto la presunta richiesta d'aiuto ricevuta dai cristiani libanesi, che avrebbe-ro domandato ai vicini di invadere il Libano. Eppure la Siria ha in seguito permesso che i palestinesi agissero indisturba-ti nel sud del Libano attaccando i villaggi cristiani e condu-cessero operazioni contro i cristiani di Tiro e Sidone.

Beirut Est fu pesantemente bombardata; numerosi cristia-ni libanesi fuggirono in Europa, soprattutto in Francia; altri trovarono scampo in Africa o in America latina. Le persone più ricche e occidentalizzate, spesso proprietarie di immobi-li in Europa, partirono per non tornare.

Nel campo dei cristiani era giunta l'ora della radicalizza-zione: durante il mese di settembre del 1980 le loro milizie confluirono nell'esercito regolare libanese.

La situazione si complicò ulteriormente allorché Israele diede il via all'operazione «Pace in Galilea», in risposta al-

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l'attentato del giugno 1982 contro l'ambasciatore israeliano in Gran Bretagna. L'esercito israeliano, fermamente deciso a cacciare l'OLP dal Libano meridionale (e possibilmente da tutto paese), attraversò la frontiera. I soldati di Tsahal ven-nero accolti come liberatori dalle popolazioni cristiane e sciite, ingenuamente convinte che gli israeliani fossero ve-nuti a salvarli dall'occupazione straniera (palestinese) libe-randoli altresì dall'obbligo di pagare l'imposta rivoluziona-ria. In effetti Menachem Begin spiegò (specialmente ai gior-nalisti americani) che Israele accorreva in aiuto della mino-ranza cristiana del Libano, la quale rischiava di essere ster-minata come già era accaduto agli ebrei in Europa. Sotto l'e-gida degli Stati Uniti e della Francia fu rapidamente conclu-so un cessate il fuoco, e l'OLP dovette suo malgrado abban-donare Beirut, dove fu dispiegata una forza multinazionale di interposizione.

Appena un mese dopo, il 14 settembre, Bashir Gemayel, capo delle milizie cristiane, fu ucciso nell'esplosione di un'autobomba. L'attentato venne attribuito ai palestinesi e per vendicarlo, dopo appena un giorno dal fatto, le milizie cristiane invasero i campi palestinesi di Sabra e Shatlla, si-tuati sulla strada che conduceva all'aeroporto, massacrando 460 civili sotto gli occhi dell'esercito israeliano, i cui soldati avevano ricevuto l'ordine di non intromettersi negli affari in-terni libanesi.

La tragedia di Sabra e Shatlla ha avuto grande risonanza presso la stampa internazionale e ha suscitato enorme indi-gnazione, anche e soprattutto in Israele. In Libano, invece, fi-gurò come una tragedia tra le tante, né più né meno. Da par-te cristiana si disse che gli uccisori avevano compiuto la stra-ge perché sconvolti dal massacro di Damour e dall'assassi-nio di Gemayel. In ogni caso, si è parlato molto - e giusta-

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mente - dei morti di Sabra e Shatila, ma si è appena accen-nato a quelli di Damour. Alcune vittime sono più vittime di altre.

In seguito, nella primavera del 1983, con altri pretesti, i si-riani e una coalizione di loro alleati libanesi lanciarono un'offensiva contro i cristiani, che nella circostanza subirono clamorosi rovesci. Nel settembre del 1983 gli israeliani si ri-tirarono dai monti del Libano, dove vivevano 120.000 cri-stiani. In pochi giorni 17.000 loro case furono distrutte; lo stesso destino toccò a 120 tra chiese, conventi e scuole. Poco meno di 1500 cristiani furono massacrati con modalità parti-colarmente atroci.

Alcuni di loro vennero sgozzati, altri furono posti su gri-glie arroventate, o smembrati vivi, o decapitati. Mentre gli uni uccidevano, gli altri distruggevano sistematicamente le case, i giardini e gli orti, allo scopo di impedire che chi era riuscito a fuggire potesse un giorno tornare.

La quasi totalità dei villaggi cristiani presenti nella regio-ne scomparve nell'arco di pochi giorni. I drusi realizzarono in tal modo un'operazione di «pulizia etnica», non certo l'u-nica che abbia colpito i cristiani in quel periodo. Baalbek è divenuta un feudo sciita. A pochi metri dalle imponenti ro-vine greco-romane si sono stabiliti gli uffici di Amai e poi quelli di Hezbollah.

Nel 1980 vivevano, nella Beqa', circa 500.000 cristiani. Nel 1985 ne rimanevano non più di 200.000 e il loro numero ha continuato a diminuire. Per mandarli via tutti i mezzi sono leciti: alcuni sono stati rapiti e successivamente rilasciati in cambio dell'impegno ad abbandonare la regione con le loro famiglie; dei sacerdoti che continuavano a esercitare il pro-prio ministero sono stati lapidati; ai contadini è stato impe-

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dito di lavorare nei campi attraverso il sabotaggio sistemati-co dei loro attrezzi e macchinari...

Dopo la Beqa', anche il Libano meridionale ha progressi-vamente perduto i propri abitanti cristiani, sempre meno nu-merosi man mano che l'esercito israeliano si ritirava.

Nel giugno 1985, dopo l'evacuazione del Libano meridio-nale da parte degli israeliani, i palestinesi e i drusi hanno at-taccato le popolazioni cristiane della regione: almeno 75.000 cristiani sono stati cacciati dalle loro dimore, 18.000 case so-no state date alle fiamme e 57 villaggi sono stati rasi al suo-lo. Il leader druso Walid Jumblatt era allora ministro dei La-vori Pubblici e svolgeva coscienziosamente il proprio incari-co: per evitare il ritorno dei cristiani fece distruggere dai bul-ldozer 20 loro villaggi. Era il suo modo di dimostrare il pro-prio attaccamento alla causa progressista.

Anche Beirut è stata vittima di una pulizia religiosa. Pri-ma del 1975, nella parte occidentale della città vivevano po-co meno di 250.000 cristiani; nel 1982 ne restavano soltanto 50.000. Se si eccettua qualche maronita o greco-ortodosso ri-masto nel nord del paese, dal biennio 1985-86 la stragrande maggioranza dei cristiani libanesi (circa un milione) vive in un'area ristretta limitata a Beirut Est. Altrove la presenza cri-stiana è ormai un lontano ricordo.

Per un'istituzione seria come l'Ordine di Malta non si trat-ta di un caso. Nel suo rapporto del 1985 l'Ordine ha descritto con precisione il fenomeno, delineando un quadro particolar-mente fosco. È stato messo in atto un accurato piano per in-gannare le popolazioni cristiane e costringerle a partire. Sono stati usati tutti i metodi possibili, anche i più barbari, come la diffusione di voci allarmiste per scatenare il panico tra i cri-stiani; i negoziati fittizi per ottenere la fiducia e il disarmo dei

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nemici e poterli eliminare più facilmente; le uccisioni di cri-stiani di ogni età compiute con una ferocia inaudita, voluta, esemplare; le distruzioni; la volontà di sradicare completa-mente ogni traccia della presenza cristiana attraverso maca-bre esecuzioni a base di sventramenti, crocifissioni, roghi di persone vive, mutilazioni, decapitazioni a colpi di accetta, per non parlare dei saccheggi ai danni delle chiese, degli in-cendi, delle razzie, delle appropriazioni di beni o dei riscatti camuffati da vendite che i rari sopravvissuti devono pagare per rientrare in possesso dei propri beni mobili e immobili5.

Il ripiegamento della quasi totalità dei cristiani sulla stret-ta fascia costiera non ha certo contribuito a rendere meno amara la perdita delle montagne, di quel monte Libano che per secoli era stato il cuore del cristianesimo maronita e un rifugio sicuro per i suoi fedeli.

A livello nazionale la ritirata si è tradotta nella perdita della preminenza cristiana nella vita politica del paese. Or-mai, anche dimenticando le rivalità tra le varie denomina-zioni, i cristiani erano ridotti al rango di forza marginale, co-stretta a venire a patti con i suoi antichi nemici. Essi, mag-gioritari sul piano demografico, avevano fatto la parte del leone nella suddivisione delle responsabilità politiche. Il ca-po dello Stato doveva essere uno di loro e la presidenza del-la Repubblica era stata dotata di larghi poteri che limitavano le funzioni del primo ministro eletto dai sunniti, facendone un semplice esecutore. In Parlamento i cristiani avevano la maggioranza dei seggi e sapevano di poter contare sui sun-niti. L'intero edificio è andato in frantumi a causa della guer-ra civile, ma anche perché la preminenza cristiana è stata vi-sta sempre più come un'ingiustizia.

La popolazione cristiana del Libano ha continuato a sce-mare, non soltanto a motivo della partenza di decine di mi-

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gliaia di suoi membri emigrati all'estero. Il tasso di natalità dei cristiani era assai inferiore a quello riscontrato presso i musulmani; contemporaneamente, anche la fisionomia della popolazione musulmana ha subito una radicale modifica-zione a causa della costante crescita demografica degli sciiti, i quali, essendo sottorappresentati presso le istituzioni poli-tiche, l'amministrazione e l'esercito, hanno preteso di conta-re in proporzione al loro peso numerico.

Nel 1989 alcune decine di deputati libanesi, riuniti a Ta'if, in Arabia Saudita, hanno firmato l'atto di decesso del vec-chio Libano, in cui i cristiani erano avvantaggiati e svolge-vano un ruolo determinante nella vita della nazione.

Per conservare l'indipendenza del loro paese i cristiani li-banesi hanno dovuto accettare di rinunciare a gran parte dei propri privilegi politici. Gli accordi prevedevano che il pre-sidente della Repubblica avrebbe continuato a essere un cri-stiano, ma i suoi poteri sarebbero stati considerevolmente ri-dimensionati: egli non sarebbe più stato il vero detentore del potere, ormai posto nelle mani del primo ministro sunnita il cui ruolo sarebbe stato notevolmente rafforzato, in particola-re nel campo della politica estera. La Camera dei deputati avrebbe contato 108 seggi, da dividere in parti uguali tra cri-stiani e musulmani.

L'unica consolazione per i cristiani è il pensiero della lo-ro eventuale partecipazione alla ricostruzione materiale ed economica del paese. Va detto che uno degli aspetti più af-fascinanti di questa comunità è l'indomita voglia di vivere che i suoi membri dimostrano. Tuttavia, quelli tra loro che scegliessero di tornare nei loro villaggi del Chouf o della Beqa', troverebbero le proprie terre sfruttate da contadini drusi, sciiti o sunniti per nulla disposti a tollerare il ritorno

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dei vecchi residenti o a discutere di possibili compensazio-ni finanziarie.

Gli israeliani, invischiati nel pantano libanese fin dal 1982, desideravano soltanto uscirne il più presto possibile.

La loro ritirata definitiva dal Libano meridionale, intra-presa nel 2000, ha avuto conseguenze nefaste per i circa 5000 cristiani locali. Pochi di loro sono riusciti a raggiungere le fa-miglie a Beirut, mentre gli altri, inermi di fronte a Hezbollah, hanno scelto di fuggire in Israele, dove risiedono tuttora in condizioni estremamente precarie. La loro partenza ha se-gnato la fine della presenza cristiana nel sud del Libano, di-venuto una regione quasi esclusivamente sciita, dove Hez-bollah esercita il potere al posto del governo centrale.

Nel 2006 la Siria ha dovuto evacuare i propri soldati dal Libano; la ritirata ha coinvolto decine di migliaia di cittadini siriani, che erano stati impiegati nel paese dei cedri come operai e muratori a basso costo, ricevendo salari assai infe-riori rispetto a quelli pretesi dalla manodopera locale. Me ne resi conto di persona in più occasioni, percorrendo al matti-no le principali vie di Beirut, dove si potevano vedere file di uomini in attesa che un datore di lavoro si presentare per sceglierne qualcuno a buon mercato. Anche gli imprenditori cristiani approfittavano della situazione: anzi, assaporavano un'amara vendetta sui siriani e non esitavano a far visitare ai loro amici stranieri quel curioso «mercato degli schiavi».

Tuttavia, la manodopera siriana ha provocato un forte au-mento della disoccupazione presso i libanesi, il 30% dei qua-li si è trovato senza lavoro: in massima parte si trattava di cristiani, già inclini a emigrare.

Nel 2004 la Chiesa maronita, riunita in sinodo, ha molto insistito sulla disastrosa situazione economica e sociale del

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paese, vera fonte di disperazione. Tra i mali individuati, il si-nodo maronita citava

l'enorme debito che grava sui cittadini... Il racket, onnipresen-te in tutti i settori della pubblica amministrazione... La corru-zione diffusa tra i funzionari, anche di alto rango. Essi si spar-tiscono le risorse dello Stato e si arricchiscono dall'oggi al do-mani.. . Una giustizia politicizzata che sfianca i cittadini, li umi-lia e fa strame dei loro diritti corrompe il sistema democratico, impedisce agli emigrati e agli stranieri di investire in Libano creando posti di lavoro... Lo sperpero illimitato dei fondi stata-li, soprattutto nei casi in cui un funzionario si accorda sotto-banco con un imprenditore per dividere con lui i soldi pubblici destinati all'apertura di un cantiere; la povertà, che si sta facen-do strada presso le categorie che percepiscono entrate modeste e vacillano sotto il peso delle tasse.

Certamente questi problemi hanno riguardato e riguarda-no tutti i libanesi, ma la disperazione si è abbattuta in special modo sui cristiani, che, come i loro compatrioti drusi e sciiti, hanno subito anche le conseguenze del conflitto dell'estate 2006, scatenato da Israele dopo il rapimento di due suoi sol-dati da parte di Hezbollah.

Alleanze innaturali o completamente sbagliate, voltafac-cia e tradimenti, lotte politiche e interessi personali, uccisio-ni e attentati, offensive e controffensive, periodi di crisi e ac-cordi subito infranti, piani siriani di «riunificazione», guerre di liberazione e riconquiste, speranze e disperazione... Lo strazio del Libano si è consumato per decenni sulla pelle del-la popolazione locale, in particolare su quella dei cristiani. Oggi non si può fare a meno di constatare che è finito il Li-bano dei cristiani, per i quali non si tratta più soltanto di con-

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tare i morti, ma di confrontarsi con un dato oggettivo: negli anni '40, '50, '60 e ancora negli anni '70 i cristiani libanesi erano all'apogeo della sicurezza e la loro situazione rappre-sentava un modello invidiato da tutti i loro correligionari del Medio Oriente. Essa era il simbolo delle aspirazioni dei cri-stiani egiziani, siriani, giordani e iracheni.

Negli anni '70 i cristiani costituivano la metà della popo-lazione libanese; oggi sono soltanto poco più del 35%.

Bisogna arrendersi all'evidenza: i cristiani libanesi non rappresentano più un modello. Al contrario, sono loro a te-mere, ora, di trovarsi tra meno di una generazione nella si-tuazione in cui versano i loro correligionari egiziani e irache-ni, il che dà la misura del regresso compiuto dai cristiani del paese dei cedri, che per loro è ormai un paradiso perduto.

Bosforo laico alla turca

«Lei vede qui l'ennesima dimostrazione della nostra apertura al dialogo fra le tre grandi religioni monoteistiche. Il "Giardino della Fede" comprenderà una sinagoga, una chiesa e una moschea, tutte e tre costruite all'interno dello stesso parco.» Quella mattina d'ottobre del 2006 il preside della facoltà di teologia e filosofia di §anliurfa, città della Turchia sudorientale, mi stava facendo visitare i siti ufficiali della grande fratellanza monoteista turca. La «storia sacra» è qui scritta in una pubblicazione a cura del Ministero del Tu-rismo, unica guida affidabile sulla storia delle religioni.

Il libro prende in esame le grandi figure che «incontesta-bilmente» hanno vissuto nella città. Leggiamo dunque che Abramo, il profeta comune all'ebraismo, al cristianesimo e all'islam, è nato qui. L'episodio della Ur Kasdìm, la Fornace

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ardente cara agli ebrei, si è svolto ai piedi delle scogliere che formano la muraglia naturale dalla quale il tiranno Nimrod gettò nelle fiamme il patriarca. Qui si produsse il miracolo che trasformò le fiamme in un immenso lago e ogni fram-mento di legno in un pesce sacro. È sufficiente avvicinarsi al-la distesa d'acqua per constatare che da due millenni nessun pesce è mai stato pescato dall'uomo. Sempre secondo la pub-blicazione ufficiale, in questa città Giobbe offrì il proprio ba-stone a Mosè e qui è sepolto. Ed è a §anliurfa che Gesù fece sì che il suo Sacro Sudario fosse portato a un re malato, il quale toccandolo guarì immediatamente e si convertì al cri-stianesimo...

Questi avvenimenti hanno convinto le autorità a cambia-re, qualche decennio fa, il nome dell'antichissima città di Ur-ia in §anliurfa (dal turco § arili «glorioso, -a»). In quel luogo tutto sembrava dovermi convincere del fatto che mi trovavo in una città che, oltre a possedere una storia eccezionalmen-te lunga, è legata a un destino particolare. Dio ha dunque vo-luto offrire alla Turchia il più straordinario santuario del dia-logo: prova ne sia l'incessante flusso di pullman pieni di pel-legrini sciiti che si recano in terra sunnita per prostrarsi da-vanti alla benevolenza di Allah. E anch'io ero certamente sta-to guidato in quel luogo per testimoniare al mondo occiden-tale, cioè cristiano, la santità di Urfa.

Ogni mattina, in Francia, possiamo misurare la comples-sità dei rapporti che intercorrono tra la Turchia e il mondo cristiano, anche se forse tralasciamo l'aspetto più importan-te: a colazione mangiamo un croissant6.

Ebbene, molti ignorano che questa brioche fu inventata da un panettiere di Vienna nel 1683, all'indomani della libe-razione della capitale austriaca dall'assedio in cui l'avevano stretta le truppe turche, sbaragliate da re Giovanni III di Po-

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Ionia. Un ingegnoso artigiano viennese ebbe allora l'idea di confezionare un dolce simile nella forma all'emblema che or-nava i vessilli dei giannizzeri, affinché servisse come accom-pagnamento di una strana bevanda, il caffè, di cui erano sta-ti trovati alcuni sacchi tra i resti del campo ottomano.

La Turchia è l'erede dell'Impero ottomano, che un tempo incarnò la lotta senza quartiere tra l'islam e l'Occidente. Ogni fase del suo smembramento fu salutata come una ri-conquista dell'indipendenza dalle popolazioni cristiane, da secoli sottomesse alla Sublime Porta.

Oggi i turisti hanno sostituito i guerrieri e ogni anno de-cine di migliaia di europei si recano in Turchia per approfit-tare della bellezza delle sue spiagge. La visita dei siti legati alla nascita e allo sviluppo del cristianesimo è quasi un ob-bligo. In particolare, non si può trascurare Tarso, la città na-tale dell'apostolo Paolo, persecutore dei primi giudeo-cri-stiani e il cui destino cambiò completamente sulla via che conduceva da Gerusalemme a Damasco. A Tarso, nel giugno 2008, nel corso di una cerimonia presieduta dal cardinale Walter Kasper, è stato inaugurato l'Anno Paolino. Dal 28 giugno 2008 al 28 giugno 2009 è stato dunque ricordato l'a-postolo dei Gentili, nel secondo millenario della sua nascita. Tarso recupera dunque il suo passato cristiano, poco visibile oggigiorno in quei luoghi: la città è infatti priva di una co-munità cristiana fin dai tempi della massiccia espulsione dei greci dall'Asia Minore, avvenuta negli anni '20. Soltanto tre suore italiane vivono tutto l'anno nei pressi della chiesa di San Paolo, trasformata in museo.

L'Asia minore, culla dell'espansione del cristianesimo, è oggi una terra dove la presenza cristiana continua a restrin-gersi come una pelle di zigrino: lo dimostra, per esempio, il caso dell'antico Sangiaccato di Alessandretta, offerto sotto-

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banco (nel 1939) dalla Francia alla Turchia per distoglierla dalle simpatie che mostrava nei confronti del Terzo Reich. Quell'atto di liberalità ha pesato sulle successive relazioni franco-siriane e ha provocato, tra l'altro, una drastica dimi-nuzione del numero dei cristiani locali. Prima dell'annessio-ne di Alessandretta alla Turchia, nella regione risiedevano 14.000 armeni, che in seguito fuggirono precipitosamente per raggiungere Beirut, Amman, Damasco e Gerusalemme. Ai giorni nostri i cristiani che vivono ad Alessandretta e ad Antiochia, sede di un venerando patriarcato, non sono più di 2000.

I cristiani del Sangiaccato sono partiti, alcuni per Istanbul, l'antica Bisanzio, gli altri alla volta degli Stati Uniti o del-l'Europa, sottraendosi alle pesanti discriminazioni che dove-vano subire da parte delle autorità turche. Percorrendo le vie di Antiochia e di Alessandretta sono stato colpito dal para-dosso turco, dalla contraddizione esistente tra la laicità pro-clamata a gran voce dal regime e il trattamento discrimina-torio che esso riserva alle minoranze cristiane, le quali si tro-vano in una condizione di sempre maggior emarginazione e rischiano di sparire nel prossimo futuro. Ufficialmente la Turchia è l'unico stato laico del Medio Oriente. La laicità è uno dei fondamenti ideologici dello Stato moderno modella-to da Kemal Atatùrk, che abolì il sultanato e il califfato per istituire una Repubblica basata sulla stretta separazione tra lo Stato e la moschea: l'islam cessò infatti di essere religione ufficiale.

Atatùrk, ispirato dall'anticlericalismo dei Lumi, soppres-se i tribunali coranici e impose un'europeizzazione da lui considerata sinonimo di progresso. Furono proibiti il fez, il velo islamico e l'uso dell'alfabeto arabo, sostituito nel giro di pochi anni da quello latino. La Turchia ha dunque regolato il

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proprio passo su quello dell'Europa e il clero musulmano, i cui membri sono stati trasformati in funzionari, è stato invi-tato a farsi zelante promotore dell'ideologia kemalista, che ha trovato nell'esercito il proprio vigile custode. In effetti la Costituzione garantisce alle forze armate il diritto di inge-renza nelle questioni politiche qualora la laicità dello Stato sia minacciata. Recentemente, i militari sono stati fortemen-te tentati di riprendere in mano le redini del potere, che ave-vano lasciato nel 2007 a un partito islamico-conservatore, l'AKP, vicino ai movimenti islamisti.

Nonostante la profonda reislamizzazione della società turca a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, in Turchia la laicità rappresenta un vero e proprio credo. La Costitu-zione del 1982 proclama che essa non può essere in alcun modo alterata e vieta la formazione di partiti e associazioni i cui programmi prevedano la reintroduzione di discriminazio-ni tra i cittadini basate sull'etnia o sulla religione; sancisce inol-tre l'uguaglianza di tutti davanti alla legge e dichiara che a ognuno è garantita la libertà di coscienza, di fede e di convinzio-ne religiosa.

Tuttavia, anche qui alcuni sono più uguali di altri. La lai-cità non impedisce che sulle carte di identità si faccia men-zione dell'appartenenza religiosa dei cittadini.

In Turchia questa consuetudine si rivela, ahimè, un inci-tamento a riservare al cittadino un trattamento diverso a se-conda della sua appartenenza o meno alla religione maggio-ritaria, l'islam. In effetti, nel paese esiste una tacita discrimi-nazione nei confronti dei non musulmani, che sono esclusi dai posti di responsabilità nella pubblica amministrazione sia a livello nazionale che locale. I pochi funzionari cristiani sono relegati ai livelli più bassi della gerarchia e non posso-no sperare di ottenere promozioni importanti.

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Nell'esercito, il corpo degli ufficiali è precluso ai cristiani e agli ebrei. I non musulmani sono sì soggetti alla coscrizio-ne, ma effettuano il servizio militare obbligatorio presso unità non combattenti e pertanto non possono, in seguito, la-vorare per società private o pubbliche facenti capo al Mini-stero della Difesa.

Per molti turchi queste discriminazioni non hanno nulla di scandaloso e non riguardano in alcun modo l'appartenen-za religiosa. «Ogni Stato ha il diritto di privilegiare i suoi cit-tadini», mi spiegava ingenuamente un professore di france-se dell'università di Istanbul, peraltro un laico convinto. Questa frase contraddittoria, nella quale «nazionale» è sino-nimo di musulmano, mi è stata spesso ripetuta. Essere turco significa essere musulmano! Il nazionalismo oltranzista vede nei non musulmani, ebrei e cristiani, elementi stranieri.

I massacri degli armeni, che hanno rappresentato il primo genocidio del XX secolo, e la massiccia espulsione dei greci dell'Asia Minore in seguito alla guerra greco-turca hanno spinto la comunità internazionale a condizionare la norma-lizzazione dei rapporti con la Repubblica turca alla ratifica, da parte del giovane Stato, del trattato di Losanna, conte-nente norme che garantivano agli armeni, ai greci-cristiani e, per estensione, agli ebrei una serie di diritti specifici, tra cui quello di disporre di luoghi di culto e di proprie istituzioni sociali e scolastiche. Al di là delle buone intenzioni, il tratta-to ha contribuito a istituzionalizzare una disuguaglianza di fatto, sottolineando il carattere «straniero» delle comunità non musulmane, la cui presenza in Turchia è però di mol-to anteriore all'arrivo degli ottomani e, naturalmente, dei musulmani.

II nazionalismo turco, a forte connotazione etnica, mal sopporta l'esistenza di comunità non turche e non turcofone

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e persegue apertamente e con decisione la loro assimilazio-ne. Nonostante il lancio, avvenuto all'inizio del 2009, di un canale televisivo in lingua curda, la questione del Kurdistan turco è un simbolo della fatica con cui la Turchia accetta il di-ritto delle minoranze a conservare le proprie specificità cul-turali. Benché musulmani, i curdi continuano a essere consi-derati come una potenziale quinta colonna.

Le minacce e le azioni ostili nei confronti delle comunità cristiane o non musulmane della Turchia si traducono solita-mente in intoppi e seccature burocratiche; il sentimento an-ticristiano, specialmente nelle regioni interne del paese, si fonda soprattutto sul nazionalismo e sul tradizionale rifiuto degli «infedeli».

Il regime turco dimostra una certa abilità nel servirsi del-la laicità e del nazionalismo per aggirare il trattato di Losan-na. Per esempio, recentemente il governo ha tentato di limi-tare i poteri spirituali del patriarca ortodosso di Costantino-poli, la cui autorità si estende da secoli su gran parte dei fe-deli ortodossi nel mondo. Per il governo turco la natura di quel patriarcato è contraria alle leggi della Repubblica, che non riconosce alcuno status ufficiale ai gruppi minoritari e proibisce ai loro membri di intrattenere qualsivoglia legame con l'estero.

La formazione del clero ortodosso turco è stata grave-mente compromessa dalla chiusura del seminario di Halki (1972), avvenuta con il pretesto che l'insegnamento era im-partito in greco invece che in turco. Da allora i seminaristi, privati del loro istituto, sono obbligati a recarsi a studiare al-l'estero, il che significa incorrere in difficoltà non da poco al momento del ritorno in Turchia. Può capitare, infatti, che il governo rinfacci loro presunti legami con paesi stranieri per

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impedire che siano assegnati a questa o a o quella parroc-chia. Si tratta di un comodo sistema per assicurarsi la doci-lità dei prelati: la loro candidatura alla testa del patriarcato ortodosso di Costantinopoli, in occasione di una successio-ne, potrebbe essere scartata semplicemente perché hanno studiato all'estero.

E una questione che pesa sulle relazioni tra la Turchia e la Grecia; inoltre, la stampa turca dà ampio risalto alle opinio-ni di coloro che avanzano dubbi sul patriottismo degli orto-dossi turchi, sospettati di collusione con la Grecia. Ormai da decenni i cristiani greco-ortodossi di Turchia scontano i rap-porti conflittuali che intercorrono tra Ankara e Atene. Nel 1923 erano poco meno di un milione e mezzo; oggi sono ap-pena 5000, quasi tutti concentrati a Istanbul, a eccezione di poche centinaia di persone che vivono nelle isole.

Percorrendo le vie di Istanbul è ormai inutile portarsi dietro i testi di Pierre Loti sul vecchio quartiere ortodosso. Di quel luogo resta soltanto l'ombra: i cristiani che vi abi-tavano un tempo sono partiti, per la maggior parte in se-guito ai sanguinosi disordini del 1955. Furibondi per l'esi-to della conferenza di Londra sul futuro di Cipro, che ospi-ta una cospicua minoranza turca, gli ultranazionalisti tur-chi attaccarono il quartiere cristiano di tzmir (l'antica Smirne) e quello di Ankara, provocando l'emigrazione verso la Grecia di quasi 100.000 turchi di confessione orto-dossa, ai quali è stata immediatamente garantita la nazio-nalità greca.

I greci di Turchia sono considerati così poco turchi che il governo non ha mai esitato a servirsene come ostaggi. In più occasioni le tensioni relative all'isola di Cipro sono sfociate in attacchi contro di loro: alcuni sono stati privati della na-zionalità mentre soggiornavano all'estero.

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Nel vecchio quartiere di Fener, a Istanbul, risiedono sol-tanto più poche persone anziane, la cui presenza non può giustificare il gran numero di religiosi di cui dispone il pa-triarcato greco di Costantinopoli. Dire che a Istanbul vi sono più sacerdoti e vescovi che parrocchie cristiane non è una battuta, ma è la constatazione di una triste realtà che conti-nua ad alimentare le tensioni.

Nel 1989, i lavori di rinnovamento e di ricostruzione dei locali del patriarcato ortodosso, da anni in stato di abbando-no, hanno suscitato ima violenta campagna di stampa. I giornali popolari, strettamente controllati dal regime, hanno insinuato dubbi su una possibile «ricolonizzazione» di Istan-bul da parte dei greci. Va detto che in quella città ogni centi-metro quadrato di terreno disponibile è oggetto di una fre-netica speculazione e le liti immobiliari non si contano: l'esi-stenza di numerosi beni inutilizzati dai proprietari greci crea un diffuso malessere che può tradursi in rabbia nei confron-ti dei cristiani.

Per quanto riguarda i rapporti tra Ankara e Atene, il regi-me turco, pur dichiarando di voler difendere la laicità, tende a strumentalizzare alcune questioni di politica estera per de-legittimare la presenza dei greci nel paese.

Lo Stato ha deliberatamente usato l'obbligo imposto alle scuole di impartire l'insegnamento in turco per limitare il ri-corso alle lingue comunemente usate dai gruppi non musul-mani; ciò allo scopo di distruggere le loro specificità cultura-li, linguistiche e sociali. La «turchizzazione» dell'insegna-mento ha provocato, per esempio, la chiusura delle scuole ebraiche e ha colpito in maniera particolarmente dura le scuole armene e greche, presso le quali l'uso rispettivamen-te dell'armeno e del greco è stato considerevolmente ridi-mensionato: non deve infatti superare le quattro ore settima-

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nali, mentre il turco è obbligatorio per tutte le materie, com-preso il catechismo.

Gli armeni d'Anatolia, i più isolati, hanno subito un pro-cesso di assimilazione pressoché completo: quasi tutti, or-mai, sono esclusivamente turcofoni, e solo pochissimi conti-nuano a parlare armeno in ambito familiare.

Lo stesso sistema è stato usato con successo contro le scuole della piccola comunità greco-ortodossa e contro quel-le della minoranza di lingua aramaica stanziata nella Turchia orientale. Di conseguenza i cristiani assiri sono emigrati in massa in Europa, stabilendosi principalmente in Francia e in Belgio.

Nel caso degli armeni la questione è resa più complessa dal fatto che è loro impedito di evocare una delle pagine più nere della loro storia, il genocidio del quale sono stati vitti-me nel corso della prima guerra mondiale. Le autorità turche si sforzano in tutti i modi di negare la realtà, attribuendo i massacri a eccessi isolati commessi da bande di irregolari curdi. Alcuni ideologi arrivano persino a giustificarli con la necessità di neutralizzare una «quinta colonna», essendosi gli armeni resi colpevoli di azioni di spionaggio a favore dei russi.

Il patriarcato armeno di Turchia si attiene al criterio della massima prudenza, al punto da rilasciare dichiarazioni che suscitano profondi interrogativi. Per esempio, nel 1982 ha af-fermato: «Tutti gli armeni residenti nella Repubblica laica di Turchia vivono in tranquillità e prosperità, godono di una to-tale libertà religiosa e non subiscono alcun tipo di repressione.

Si tratta di un'affermazione difficilmente credibile, cono-scendo l'occhiuta sorveglianza di cui è fatta oggetto la stam-pa turca di lingua armena, la diffusione della quale è ostaco-

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lata da numerosi intoppi burocratici. Nel gennaio del 2007, il direttore del settimanale armeno «Agos», Hrant Dink, è sta-to assassinato da un individuo vicino ad ambienti ultrana-zionalisti che gli rimproverava di aver messo in dubbio la versione ufficiale relativa ai fatti del 1915.

La campagna condotta all'estero dalle organizzazioni ar-mene per ottenere il riconoscimento del genocidio ha avuto profonde ripercussioni sulla situazione degli armeni di Tur-chia. Negli anni '70 sono stati accusati di simpatie per il mo-vimento terrorista ASALA (Armenian Secret Army for the Liberation of Armenia); oggi si rimprovera loro di essere al-l'origine delle manovre tese a impedire l'adesione della Tur-chia all'Unione Europea.

La situazione è diventata ancor più tesa dopo la procla-mazione dell'indipendenza dell'ex Armenia sovietica e lo scoppio del conflitto tra armeni e azeri nel Nagorno-Kara-bakh. Gli azeri sono un'etnia turcofona e i massacri di cui so-no stati vittime hanno suscitato violente campagne di stam-pa in Turchia.

Negli anni '90, il presidente turco Turgut Ózal ha addi-rittura ventilato la possibilità di un intervento militare con-tro l'Armenia indipendente, con conseguenze drammati-che per gli armeni di Turchia, che, lo ricordiamo, sono cri-stiani ortodossi. Ne restano 50.000, concentrati essenzial-mente nei grandi centri urbani; in Anatolia sopravvivono alcune piccole comunità rurali, ineluttabilmente votate al-l'estinzione.

La questione armena, in ogni caso, pesa gravemente sui rapporti tra le autorità turche e i vari gruppi non musulma-ni, sia a livello nazionale che internazionale; ecco perché il regime turco ha fatto pressione su Israele - Stato con il qua-le intrattiene rapporti diplomatici e militari assai stretti - , af-

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finché la lobby filo-israeliana al Congresso si mobiliti per boicottare il riconoscimento del genocidio armeno da parte degli Stati Uniti.

Peraltro, la questione armena è passata in secondo piano di fronte al problema curdo, senza dubbio il più grave che la Turchia moderna si sia trovata ad affrontare. Il ruolo svolto dai curdi nei massacri del 1915 spiega perché i cristiani di Turchia subiscano due volte le conseguenze della strisciante guerra civile che oppone le autorità di Ankara ai membri del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), organizzazione armata curda considerata terrorista. Nella Turchia orientale, a maggioranza curda, le piccole comunità cristiane sono strette tra l'incudine e il martello: l'esercito turco impegnato nelle operazioni di repressione non fa differenza tra i curdi e i cristiani locali; d'altro canto, i militanti del PKK non esita-no a prendersela con i cristiani da loro sospettati di collusio-ne con il governo centrale.

Le violenze legate al separatismo curdo hanno dunque provocato una considerevole riduzione del numero dei cri-stiani siriaci di Diyarbakir, Mardin e Midyat: erano 100.000 all'inizio del XX secolo; nei primi anni '70 ne rimanevano 50.000; oggi sono soltanto 20.000. Stufi delle continue vessa-zioni, hanno preferito partire per Istanbul o emigrare, se pos-sibile, in Europa.

La lotta contro il separatismo curdo è uno dei temi prefe-riti dall'estrema destra nazionalista turca, i cui membri non nascondono la propria ostilità nei confronti dei cristiani. Non c'è bisogno di ricordare che l'autore dell'attentato con-tro papa Giovanni Paolo II, Ali Agca, proveniva da ambienti vicini ai «Lupi grigi», la principale formazione estremista. I gruppi ultranazionalisti hanno ispirato, direttamente o indi-

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rettamente, numerosi attacchi ai danni di sacerdoti di origi-ne straniera, alcuni dei quali residenti in Turchia da decenni. Per esempio, l'italiano don Andrea Santoro è stato assassi-nato nella sua chiesa di Trebisonda il 5 febbraio 2006 da Oguzhan Akdil, condannato a 18 anni e 10 mesi dalla sezio-ne minori della Corte di cassazione turca. Durante il proces-so l'imputato si è fatto fotografare in posa davanti alla ban-diera turca e ha ricevuto l'appoggio di ambienti nazionalisti.

Alcuni mesi dopo, il 2 luglio 2007, padre Pierre Brunissen, sacerdote francese giunto per riaprire la chiesa di don San-toro, è stato accoltellato in una via di Samsun, vicino a Tre-bisonda, da un membro di una organizzazione fondamenta-lista musulmana. L'aggressione sembra indicare un riavvici-namento tra l'estrema destra laica e gli ambienti dell'inte-gralismo, risultato delle campagne lanciate da alcuni giorna-li e canali televisivi contro i gruppi evangelici americani che si dedicano al proselitismo nei confronti delle popolazioni più povere dell'Anatolia.

Nella Turchia contemporanea il proselitismo è proibito, poiché rappresenta un attentato alla laicità. Va da sé che la proibizione riguarda soltanto il proselitismo cristiano e non quello musulmano. A nessun magistrato turco passerebbe per la testa di incriminare i militanti estremisti che assilla-no i cristiani isolati nella speranza di guidarli verso la «ve-ra fede».

La conversione di un musulmano al cristianesimo non è considerata un crimine dalla legge, a patto che sia spontanea e non dovuta a pressioni di qualunque tipo. Tuttavia, i grup-pi evangelici che osano agire alla luce del sole si espongono agli attacchi dei nazionalisti, come è successo il 18 aprile 2007 a Malatya, città del sud-est del paese che ha dato i na-

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tali ad Ali Agca e in cui tre impiegati della casa editrice cri-stiana Zirve sono stati torturati e assassinati.

Il direttore di Zirve ha dichiarato che la sua attività, spe-cializzata nella pubblicazione in turco del Nuovo Testamen-to, era stata fatta oggetto di numerose minacce, di cui egli aveva informato la polizia.

La vicenda ha fatto scalpore e il primo ministro Erdogan, un islamico moderato, ha espresso la propria condanna, an-che perché una delle vittime era di nazionalità tedesca. L'in-chiesta non è approdata a nulla; tuttavia la polizia ha preso alcune misure, sventando, tra l'altro, un attentato ai danni di un sacerdote turco (maggio 2007).

Il 17 dicembre 2007 un nuovo attacco ha colpito un cap-puccino italiano, padre Adriano Franchini, superiore della Custodia di Turchia, pugnalato all'uscita da messa a Bay-rakli. L'aggressore, arrestato, è stato dichiarato incapace di intendere e volere.

Il moltiplicarsi di attacchi contro i sacerdoti stranieri non lascia presagire un futuro roseo per le comunità cristiane di Turchia, che non possono sperare di godere di una vera pa-rità con i musulmani, nonostante le affermazioni del regime. Rischiano anzi di sparire, poiché la laicità ufficiale va di pa-ri passo con la progressiva islamizzazione della società tur-ca, appoggiata dallo Stato. Il fenomeno, in ogni caso, non ri-sale all'avvento dei vari partiti islamici moderati (fine anni '80), il più importante dei quali, l'AKP (Partito per la giusti-zia e lo sviluppo), è stato il grande vincitore delle elezioni le-gislative del 2007.

Il regime kemalista ha effettivamente laicizzato lo Stato, introducendo un Codice civile distinto dalla sharia, conside-rata troppo arretrata, ma ha altresì mantenuto un occhio di

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riguardo nei confronti del clero musulmano, che faceva e continua a far parte della pubblica amministrazione. Diver-sa è la situazione del clero greco, armeno e cattolico, il cui mantenimento grava esclusivamente sulle rispettive Chiese, benché lo Stato esiga che tutti i ministri del culto siano di na-zionalità turca.

L'insegnamento del Corano nelle scuole primarie è stato reintrodotto nel 1949, e nel 1982 è stato esteso all'insegna-mento secondario. Gli studenti cristiani di scuole, licei e uni-versità pubbliche hanno l'obbligo di assistere ai corsi di islam. In compenso, gli istituti pubblici non dispensano al-cun insegnamento religioso ebraico o cristiano, nemmeno fa-coltativo.

Recentemente, presso gli ambienti laici hanno destato preoccupazione la cancellazione del divieto di indossare il velo nelle università e l'elezione a presidente della Repub-blica dell'ex ministro degli Esteri Abdullah Giil, la cui mo-glie indossa il velo islamico in ogni circostanza.

Questi eventi hanno fatto passare in secondo piano altre questioni importanti, come la disparità di trattamento ai danni delle comunità cristiane (e a favore del clero musul-mano) in materia di gestione dei beni immobili. Tra il 1965 e il 1988 il regime giuridico dei beni appartenenti ai culti non musulmani è stato notevolmente complicato dall'imposizio-ne di una serie di misure restrittive. Ai comitati di laici inca-ricati di gestire quei luoghi di culto (il cui valore è spesso molto elevato e i cui titoli di proprietà sono oggetto di mi-nuziosissime verifiche) è stato proibito di alienarli o di ac-quistarli; di conseguenza, ne è stato confiscato un gran nu-mero per presunte irregolarità riscontrate nei titoli di pro-prietà delle associazioni religiose.

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La proibizione di ricevere sovvenzioni dall'estero ha avu-to l'effetto di ridurre considerevolmente le risorse a disposi-zione dei culti non musulmani, che, a differenza del culto musulmano, non beneficiano di sovvenzioni statali. Dall'en-trata in vigore del divieto le Chiese si sono trovate nell'im-possibilità di mantenere numerosi edifici religiosi, la cui con-dizione di abbandono è divenuta un pretesto per giustificar-ne la confisca da parte dello Stato, come è successo, per esempio, nel 1985 alla chiesa armena di Alessandretta o a pa-recchi monasteri anatolici ormai vuoti.

Per quanto riguarda la costruzione di nuovi edifici di cul-to, le lungaggini amministrative sono tali da scoraggiare le Chiese, che non hanno la sicurezza di ottenere le necessarie autorizzazioni, mentre il clero musulmano può edificare senza problemi centinaia di nuove moschee.

Mi sono reso personalmente conto di questa situazione ad Ankara, dove vivono oltre 2000 cristiani. Avendo notato l'assenza di luoghi di culto cristiani, mi è stato spiegato in via confidenziale da alcuni diplomatici stranieri che, nella capitale turca, i credenti devono accontentarsi di assistere agli uffici religiosi in quattro cappelle installate nelle am-basciate straniere; esse, in quanto tali, godono di extraterri-torialità.

Il regime turco, molto criticato per il suo atteggiamento discriminatorio in materia di gestione dei beni immobili dei culti non musulmani, ha adottato il 28 febbraio 2008 una nuova legge di ispirazione più liberale, allo scopo di soddi-sfare le richieste dell'Unione Europea.

Oggi, le fondazioni che gestiscono i beni dei culti non mu-sulmani possono ricevere donazioni e procedere all'acquisto di nuove proprietà; hanno altresì il diritto di affittare edifici scolastici o cultuali ormai vuoti a causa della partenza dei fe-

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deli, una misura che peraltro non equivale alla restituzione automatica delle proprietà confiscate nel 1974.

Il Vaticano si è rallegrato dell'adozione di questa nuova legge, confermando il clamoroso ravvicinamento verificato-si tra la Santa Sede e il governo di Ankara dopo la visita pa-storale di Benedetto XVI (novembre 2006). Come dimostra-no numerosissime dichiarazioni in questo senso, il Vaticano è favorevole all'entrata della Turchia nell'Unione Europea. Questa linea è stata incoraggiata dal cardinale Sergio Seba-stiani, presidente della Prefettura degli Affari Economici del-la Santa Sede7 ed ex nunzio apostolico ad Ankara. Egli si è felicitato per la vittoria dell'AKP alle elezioni legislative e ha chiesto alla Commissione di Bruxelles di «prestare particola-re attenzione ai progressi della Turchia sulla via di una pie-na democratizzazione, in particolare per quanto attiene ai diritti umani, compresa la libertà religiosa». Per il prelato «sbattere l'uscio in faccia alla Turchia sarebbe un'impruden-za, perché quel grande paese potrebbe allora essere tentato di uscire dalla NATO, avvicinandosi al fondamentalismo».

Le vie della diplomazia vaticana sono impenetrabili; pos-siamo però individuare alcuni dei suoi obiettivi: la Santa Se-de spera di usare la propria posizione per contribuire a mi-gliorare la situazione dei cristiani di Turchia, ma tale pro-spettiva è una pia illusione. Nulla induce a credere che l'a-dozione di qualche misura legislativa possa contribuire a ri-vitalizzare gruppi pesantemente colpiti dalla massiccia emi-grazione dei loro membri, dalla perdita della propria iden-tità a causa della politica assimilazionista del regime e dal trionfo dell'islamismo radicale che si sta espandendo a mac-chia d'olio nella regione e nel resto del mondo.

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Silenzio, si uccide

Adamo ed Eva, Noè, il Diluvio, Babilonia, la torre di Ba-bele, Abramo, Nimrod, Ur dei Caldei, Ezechiele, Nahum, Daniele... In Iraq il passato biblico è presente praticamente ovunque. Per approfondire lo studio del Libro decisi di re-carmi in quelle terre e di conoscere i loro abitanti all'epoca in cui vivevano ancora sotto il pugno di ferro di Saddam Husayn.

Alcuni amici cristiani di Baghdad mi condussero sul sito dell'antica Ninive, a brevissima distanza da dove oggi sor-ge Mossul. In quel luogo ebbi la fortuna di essere ospitato nel presbiterio della chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso da padre Louis Sako, attuale arcivescovo caldeo di Kirkuk. Fui sorpreso di vedere giovani, soprattutto ragazze velate, entrare nel cortile della chiesa, e monsignor Sako mi spiegò che aveva aperto un centro di formazione informati-ca le cui sale confinavano con la cappella. I corsi erano se-guiti da adolescenti musulmane, ma anche da alcune giova-ni cristiane che si velavano prudentemente il capo per non urtare la temibile suscettibilità della popolazione di fede islamica. Padre Sako sacrificò il proprio tempo per farmi scoprire il nord del paese, una regione in cui il radicamento del cristianesimo risale al II secolo. Al volante della sua pic-cola automobile mi condusse ad Alqush, un centro distante 35 chilometri da Mossul, dove ci fermammo per mangiare un boccone: con grande sorpresa vidi il mio compagno diri-gersi verso la tomba di Giona, o Yonan, come è chiamato in aramaico, la lingua di Gesù ancora usata dai cristiani assiro-caldei.

Mi accadde dunque di fare uno spuntino a pochi passi dall'ultima dimora di Giona, uno dei dodici profeti minori

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ebrei; mentre mangiavo ripensavo alle incisioni di Gustave Dorè che ornavano la Bibbia della mia infanzia. Per secoli la minuscola comunità ebraica di Alqush ha vegliato su quel luogo sacro della storia. Quando gli ebrei iracheni sono par-titi, all'indomani della creazione dello Stato di Israele, i cri-stiani locali hanno dato loro il cambio. Ogni anno essi cele-bravano le Rogazioni di Ninive, un digiuno della durata di tre giorni oggi caduto in desuetudine ma profondamente le-gato al rito caldeo e destinato a ricordare il pentimento degli abitanti dell'antica città assira.

L'improvvisato picnic si svolse all'insegna dell'allegria: i miei nuovi amici mi diedero da mangiare nonostante stesse-ro osservando un digiuno. Sembravano estasiati sentendomi parlare dell'Occidente cristiano dove ognuno può vivere la propria fede in assoluta tranquillità. Le risposte alle loro do-mande li aiutarono a dimenticare per qualche istante una si-tuazione assai tetra. Nell'estate del 2002, l'Iraq era sottopo-sto al severo embargo istituito dalla comunità internaziona-le in seguito alla prima guerra del golfo.

Dopo l'intervento angloamericano sono tornato a Mossul, dove ho ritrovato alcune delle persone che mi avevano ac-compagnato ad Alqush. Abbiamo mangiato in un ristorante sulla riva del Tigri, dove abbiamo potuto assaggiare uno di quei gustosi pesci che rappresentano il non plus ultra della cucina irachena. L'animale, farcito di erbe aromatiche, è fis-sato verticalmente sul trancio dove cuoce al calore di una pietra che lo separa dalle fiamme.

Yakub, il mio autista, ha insistito per offrirmi un tratta-mento principesco in un'osteria popolare gestita da un suo amico, il quale aveva un'espressione di scoramento dipinta sul volto. In effetti, nel sud del paese gli avvenimenti stava-no precipitando e a Mossul gli estremisti musulmani terrò-

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rizzavano i cristiani. Lui e i suoi avevano deciso di lasciare definitivamente l'Iraq per raggiungere i membri della loro famiglia che si erano stabiliti ormai da anni nel Michigan. In più occasioni i miliziani musulmani avevano minacciato di far saltare in aria il suo modesto esercizio. «Ho deciso di par-tire perché qui non resta altro da perdere se non la vita. I po-chi clienti vengono soltanto nel fine settimana e soltanto a mezzogiorno, perché alla sera per sicurezza tengo chiuso. Ognuno si barrica in casa sperando che la notte trascorra tranquilla. Nessuno sarebbe così pazzo da avventurarsi per le strade dopo l'imbrunire.»

Quando gli ho detto che ero stato in Iraq diverse volte prima della guerra ha emesso un profondo sospiro: «Allora sì che stavamo bene! Nessuno avrebbe osato attaccare le no-stre proprietà o le nostre chiese. Si può dire tutto ciò che si vuole di Saddam Husayn e dei suoi crimini, ma ci proteg-geva, e finché c'è stato lui potevamo vivere sicuri in questo paese. Ben presto in Iraq non ci saranno più cristiani e la col-pa di tutto questo è in gran parte di George W. Bush, che pretende di essere un buon cristiano. A causa sua il cristia-nesimo sarà sradicato da questo paese: Bush riuscirà laddo-ve per secoli i musulmani hanno fallito. Presto la nostra co-munità, che contava più di un milione di persone, sarà solo un ricordo sbiadito».

Agli occhi di molti cristiani il regno di Saddam Husayn è una specie di mitica età dell'oro di cui rimpiangono la scom-parsa. Sentendoli lamentare la fine dell'«epoca benedetta» mi viene naturalmente in mente il canto biblico dell'esule: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo» (Sai 136,1). Questa volta, invece del pianto degli ebrei esiliati nella lon-tana Mesopotamia sul loro Tempio distrutto, si ode il lamen-to dei cristiani sulla propria amara esistenza.

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L'Iraq di Saddam, peraltro, non era in nulla e per nulla un paradiso, nemmeno per i cristiani. La laicità era considerata da molti dirigenti europei una delle pochissime caratteristi-che positive del regime, il quale però ne dava un'interpreta-zione del tutto particolare.

La Costituzione del 1970 definiva l'Iraq una Repubblica laica, pur dichiarando, all'articolo 4, l'islam religione di Stato. Da un certo punto di vista essa era più avanzata del-la Costituzione della vicina Siria. Per Damasco, lo ricor-diamo, il capo dello Stato deve essere un musulmano. In Iraq, invece, questa disposizione non esisteva e i cristiani erano protetti dall'articolo 19: «Tutti i cittadini sono ugua-li davanti alla legge senza distinzioni di sesso, sangue, lin-gua, appartenenza sociale o religione», ma anche dal com-ma c dell'articolo 5: «La Costituzione riconosce [...] i dirit-ti legittimi di tutte le minoranze nell'ambito dell'unità ira-chena».

Di conseguenza, le Chiese cristiane ufficialmente ricono-sciute avevano ricevuto un'importante legittimazione giuri-dica, oltre al diritto di gestire i propri beni, seppur sotto l'oc-chiuta sorveglianza del ministero degli awqaf8.

Il solo campo in cui i cristiani godevano di una vera ugua-glianza nei confronti dei loro concittadini musulmani sunni-ti, sciiti o zoroastriani era quello del servizio di leva, obbli-gatorio per tutti, compresi i sacerdoti, i quali non beneficia-vano di alcuna esenzione. Nel 1981, durante la guerra contro l'Iran, i capi spirituali cristiani espressero il loro «attacca-mento allo spirito vittorioso dell'Iraq nella lotta guidata dal presidente Saddam Husayn e dal popolo iracheno per difen-dere i propri diritti contro l'Iran». Essi sottolinearono altresì la partecipazione delle loro comunità alla lotta per far valere i diritti territoriali dell'Iraq.

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Per quanto riguarda il posto occupato dai cristiani nella società irachena, è il caso di dire che l'albero nascondeva la foresta. E l'albero aveva il nome di Tariq 'Azlz. Questo per-sonaggio scaltro, che parla perfettamente l'arabo, l'inglese e il francese ed è stato un interlocutore privilegiato dei grandi del pianeta, è cristiano, e amava usare tale sua caratteristica per dare a intendere che l'Iraq trattava allo stesso modo tut-ti i suoi figli. Mi ricordo di averlo visto a Baghdad in com-pagnia della sorella, seduto in prima fila tra i fedeli in occa-sione di una messa domenicale celebrata dal vescovo caldeo monsignor Jacques Isaac, direttore del Babel College.

Tàriq 'Azlz era l'eccezione che confermava la regola, es-sendo il solo cristiano tra i membri del chiusissimo Consiglio del Comando Rivoluzionario. Doveva la sua ascesa alla straordinaria duttilità di cui aveva sempre dato prova. Nes-suno poteva rivaleggiare con lui quanto alla capacità di in-goiare rospi: per esempio, aveva rinunciato al suo nome cri-stiano, Mlha'll Yuhanna (Michele Giovanni) adottando Ta-riq, che in Iraq dà meno nell'occhio.

Può sembrare ima concessione minima, ma in realtà ave-va un suo preciso significato. Per sedere nei consessi arabi internazionali c'era bisogno di un personaggio la cui «ara-bità» non facesse nascere dubbi negli altri partecipanti; da questo punto di vista il nome Tariq era più adatto di Miche-le, che odorava troppo di cristianesimo. Accettando quel cambiamento egli riuscì a diventare un potentissimo mini-stro degli Esteri.

Vi erano ideologi iracheni i quali non si stancavano di ri-petere che il regime di Saddam Husayn era fondato sul ba'athismo, un'ideologia creata all'indomani della seconda guerra mondiale da un siriano cristiano, Michel Aflaq. Tut-tavia, costoro non amavano che si rammentasse loro un par-

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ticolare: Michel Aflaq, cacciato dalla Siria all'avvento di Ha-fiz al-Asad e rifugiatosi in Iraq, aveva dovuto pagar pegno al regime di Baghdad e si era convertito all'islam per meglio sancire la sua appartenenza alla nazione araba.

Tariq 'Azlz costituiva, come si vede, un'eccezione: era l'u-nico cristiano della cerchia interna del regime. A parte lui, ra-ramente i cristiani hanno occupato posti di primo piano nel-l'apparato statale. Al Parlamento la loro rappresentanza era puramente formale; disponevano infatti di 4 deputati su 250, ben poco rispetto al loro peso demografico.

L'esercito, la diplomazia e l'amministrazione non anno-veravano alcun rappresentante cristiano importante tra le lo-ro file: nessun ambasciatore, generale, governatore, governa-tore di provincia o ministro era di religione cristiana. L'uni-ca consolazione per le tre comunità cristiane che si rifanno alla tradizione siriaca (gli assiri, i caldei e i siriaci) fu l'otte-nimento dello status di «nazionalità», che fu loro accordato nel 1972 e che in teoria gli permette di preservare la propria cultura e di impartire l'insegnamento scolastico in lingua aramaica.

I cristiani non furono affatto risparmiati dal peggiora-mento della situazione nel nord del paese causato dalla ri-presa dell'insurrezione curda. Le relazioni tra i cristiani e i curdi (in gran parte musulmani sunniti) sono sempre state pessime o, nel migliore dei casi, poco tranquille. La rivolta curda del 1963 fu contrassegnata da una serie di violenze di-rette contro i cristiani, come il saccheggio del vescovado di Amadiya o i numerosi massacri di assiro-caldei.

Tra il 1977 e il 1978 molti villaggi cristiani dell'Iraq set-tentrionale furono distrutti dai pè§merge, i combattenti curdi. Parecchi edifici religiosi, alcuni molto antichi, furono rasi al suolo: tra questi ricordiamo il monastero di Mar Khnana, ri-

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salente al VII secolo, e il monastero di San Giorgio, costruito verso l'anno 800.

A partire dal 1980 la situazione dei cristiani residenti nel-l'Iraq settentrionale si è pesantemente aggravata. Poiché gli estremisti curdi li consideravano collusi con il regime, i cri-stiani delle montagne sono stati oggetto di molteplici attac-chi, che hanno provocato il loro massiccio esodo verso Ba-ghdad e una nettissima diminuzione dell'influenza cristiana nel nord del paese.

Nel 1985, parecchie centinaia di cristiani turchi che si era-no rifugiati in Iraq per paura del PKK sono stati bruscamen-te privati dell'autorizzazione - che fino ad allora avevano avuto - a risiedere nel paese, e sono stati espulsi in direzio-ne della Giordania.

Nel 1988, l'esercito iracheno ha deciso di creare una vasta no man's land allo scopo di privare i ribelli curdi della possi-bilità di ottenere rifornimenti dalle popolazioni locali, proce-dendo così alla distruzione di centinaia di villaggi musul-mani, cristiani o misti, nella provincia di Dahuk. Nel corso dell'operazione la popolazione fu sterminata dai gas tossici usati dall'esercito contro «i ribelli e i loro complici»: si tratta di uno dei crimini sulla base dei quali la giustizia irachena ha giustificato la condanna a morte e l'esecuzione di Saddam Husayn.

L'intensificarsi dei combattimenti accentuò l'emigrazione verso Baghdad delle popolazioni cristiane del nord, trapian-tate improvvisamente in una città nella quale non esisteva una tradizione plurisecolare di convivenza tra cristiani e musulmani. Al disorientamento e al dolore per aver dovuto abbandonare le tombe dei propri cari si aggiunse la dura lot-ta per costruire una nuova vita in un ambiente urbano quasi completamente musulmano.

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Già in quel periodo alcune voci misero in guardia l'opi-nione pubblica internazionale contro la possibile scompar-sa del cristianesimo iracheno; le partenze verso gli Stati Uniti o l'Europa (la meta preferita era Sarcelles, località del-la cintura di Parigi) consigliavano di non sottovalutare il ri-schio. Il fenomeno dell'emigrazione è cresciuto in concomi-tanza con lo scoppio della prima guerra del Golfo, conse-guenza dell'occupazione del Kuwait (2 agosto 1990). L'in-vasione era motivata da vecchie rivendicazioni territoriali: infatti l'Iraq non aveva mai accettato l'indipendenza dell'e-mirato. Il regime di Baghdad voleva far scontare ai regni petroliferi del Golfo la decisione di esigere il pagamento del monumentale debito contratto dall'Iraq per finanziare la guerra contro l'Iran.

I cristiani iracheni, da parte loro, mostrarono di condivi-dere la posizione del regime, dando prova di un iper-pa-triottismo che sorprese più di un osservatore straniero. L'annessione del Kuwait era l'inizio della «Madre di tutte le battaglie», che avrebbe portato alla riconquista di Geru-salemme e alla liberazione della Palestina dal nemico sioni-sta. L'abile ricorso a tali argomenti propagandistici permi-se a Saddam di conquistare i cuori dei palestinesi e di nu-merosi arabi, soprattutto quando il rais lanciò decine di missili Scud su Israele, facendo alcune vittime fra i civili e causando notevoli danni materiali. La retorica anti-israelia-na del regime si mescolò alle invettive contro la coalizione internazionale, della quale facevano parte, oltre alle grandi potenze occidentali, molti paesi arabi, tra cui l'Arabia sau-dita e la Siria.

La presenza di truppe francesi, britanniche e americane nella penisola arabica, sede dei luoghi santi dell'isiàm, fu in-terpretata come un'intrusione «crociata» nello spazio del

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Dar ai-Islam; Saddam Husayn stesso si presentò come il nuovo Saladino, pronto a brandire la spada della vera reli-gione contro gli infedeli.

L'ideologia in voga all'epoca stigmatizzava gli occidenta-li, che dovevano essere cacciati dal Medio Oriente essenzial-mente per due ragioni: erano imperialisti ma anche cristiani, e aspiravano a impadronirsi dei luoghi santi dell'islam, per profanarli con la loro sacrilega presenza. Nonostante il teno-re anticristiano di questa propaganda, i cristiani iracheni so-stennero senza esitazioni il regime, in ciò facilitati dalle for-tissime riserve espresse dal Vaticano riguardo al progettato intervento militare contro Saddam; le perplessità della Santa Sede nascevano dal desiderio di proteggere il futuro delle varie comunità cristiane presenti in Medio Oriente.

Nel dicembre 1990 i capi delle principali Chiese irachene effettuarono un tour in Europa e negli Stati Uniti allo scopo di ribadire il proprio sostegno al regime e di mettere in guar-dia i loro correligionari occidentali contro i rischi dell'esplo-sione di una nuova guerra di religione. L'iniziativa fu un fia-sco: nella maggior parte dei paesi da loro visitati, i vescovi iracheni ricevettero un'accoglienza assai tiepida, talvolta persino ostile. Registrarono un solo successo, ovvero l'u-dienza accordata da papa Giovanni Paolo II il 15 gennaio 1991, poche ore prima che prendesse il via l'operazione De-sert Storm. Per i cristiani iracheni quell'incontro ebbe un va-lore simbolico enorme, perché permise di dimostrare ai loro compatrioti musulmani di essersi impegnati attivamente per difendere le posizioni di Baghdad. Il fatto che Tariq 'AzTz, la cui origine cristiana nessuno poteva ignorare, occupasse al-lora il centro della scena mediatica contribuì a metterli al ri-paro da eventuali rappresaglie ai loro danni.

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Le operazioni militari causarono ai cristiani sofferenze non dissimili da quelle patite dai loro concittadini musul-mani. Molti di loro, che servivano nell'esercito, morirono du-rante i combattimenti; né furono risparmiati dai bombarda-menti aerei che colpirono le grandi città dell'Iraq, in partico-lar modo Baghdad.

Dopo aver stroncato un'insurrezione nel sud, il regime si sforzò di riprendere il controllo del nord del paese. L'eserci-to scatenò una vasta offensiva terrestre e aerea, mobilitando molte decine di migliaia di uomini. Nell'arco di qualche set-timana le forze lealiste riuscirono a respingere i pé§merge ver-so i confini turco e iraniano. Il ritorno delle truppe irachene provocò la fuga disordinata della popolazione civile, che te-meva rappresaglie e massacri. Oltre un milione e mezzo di curdi partì nella neve in direzione della Turchia e dell'Iran, in un esodo confuso. Tra loro vi erano molte migliaia di pro-fughi cristiani, anche se la maggior parte degli assiro-caldei decise di rimanere nelle proprie case o di raggiungere la ca-pitale: temevano infatti le atrocità dei pè§merge nei loro con-fronti assai più del regime (potevano contare infatti sulla protezione di Tariq 'Azlz). La fuga disorganizzata delle po-polazioni civili verso la frontiera turca provocò un dramma umano senza precedenti, che convinse gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia a uscire dal loro immobilismo. In un primo tempo la comunità internazionale si accontentò di pa-racadutare sulle colonne di fuggiaschi casse piene di viveri.

Durante uno dei miei viaggi nel nord dell'Iraq mi era ca-pitato di incontrare un cristiano di Irbil il quale conservava un ricordo orribile del suo soggiorno in Turchia, dove era giunto nel 1991 in seguito a un'incredibile peregrinazione lungo strade dissestate. Al loro arrivo al campo, lui e i suoi

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correligionari erano stati posti in isolamento dai responsa-bili curdi, che si dimostrarono assai poco propensi a divide-re con loro gli aiuti internazionali. «Si sfogavano su di noi per la cattiva accoglienza ricevuta da parte dei turchi. In più, ci dicevano che dovevamo rivolgerci ai cristiani turchi, i quali, però, non erano disposti ad aiutarci, perché non ne avevano i mezzi e temevano di essere accusati di nutrire simpatie nei confronti della causa curda. Era un vero e pro-prio circolo vizioso.»

La tragedia assunse proporzioni tali da spingere la comu-nità internazionale a lanciare un avvertimento a Saddam Husayn. Fu dunque deciso di trasformare l'Iraq del Nord, non ancora rioccupato dalle truppe irachene, in una regione autonoma nella quale il governo di Baghdad non avrebbe potuto dispiegare il proprio esercito. Negli ultimi giorni di marzo del 1991, fu definita una zona di sicurezza la cui in-violabilità doveva essere garantita dall'aviazione americana, che aveva la propria base operativa in Turchia. Questa solu-zione, per quanto abborracciata, favorì lo stabilizzarsi della situazione e permise ai rifugiati curdi di tornare alle proprie case senza il timore di rappresaglie da parte delle autorità.

Parecchie migliaia di cristiani preferirono rimanere nei campi profughi in territorio turco. Molti di loro non rag-giunsero mai i propri villaggi nella zona di sicurezza. Fin dall'inizio dei combattimenti erano fuggiti nelle grandi città del nord, aiutati dall'attiva solidarietà delle Chiese locali; salvo rare eccezioni, non erano interessati a far ritorno nei lo-ro luoghi d'origine, sapendo che i curdi si erano impossessa-ti dei loro beni.

La difficile situazione nella quale si è trovato l'Iraq all'in-domani della prima guerra del Golfo ha spinto molti cristia-

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ni a prendere la via dell'esilio. Secondo il Consiglio ecume-nico delle Chiese, nei mesi successivi alla cessazione delle ostilità 12.000 cristiani, dopo essersi disfatti dei propri beni a prezzi quanto mai svantaggiosi, raggiunsero la Turchia, la Siria e la Giordania, ove speravano di riuscire a ottenere un visto per gli Stati Uniti o per l'Europa. La maggior parte di quelli che si erano rifugiati ad Amman fu rifiutata e dovette tornare in Iraq: le autorità giordane, infatti, avevano deciso di non concedere più l'autorizzazione al soggiorno entro i propri confini agli iracheni, nel timore di una destabilizza-zione del regime. Inoltre, la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti non erano disposti a gesti di apertura nei con-fronti del regno hashemita, il cui comportamento durante la prima guerra del Golfo era stato giudicato sleale.

I profughi cristiani che transitarono per la Siria e la Tur-chia furono più fortunati. Il loro esiguo numero permise di trovare una soluzione soddisfacente grazie a partenze sca-glionate e finanziate dalla comunità assiro-caldea degli Stati Uniti.

Tra il 1992 e il 2003, i cristiani dell'Iraq hanno cercato di adattarsi in qualche modo alla nuova situazione. La Chiesa cattolica caldea si è rivelata di gran lunga la più efficiente, riuscendo a sviluppare nella capitale una vasta rete associa-tiva per far fronte ai problemi posti dall'afflusso di profughi cristiani giunti dal Kurdistan.

Durante questo periodo, la situazione legale delle comu-nità cristiane è rimasta sostanzialmente immutata. Tariq 'Aziz continuava a recitare la parte della spalla cristiana del regime ed è sembrato adattarsi senza problemi alla costante islamizzazione delle istituzioni. Nel 2002, come i sunniti e gli sciiti, i cristiani hanno votato in massa a favore della riele-zione di Saddam Husayn. Tenendo conto del grado di irreg-

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gimentazione della popolazione, è difficile immaginare che eventuali dissidenti potessero sottrarsi all'adempimento di un dovere civico peraltro pilotato.

La caduta di Saddam ha avuto come conseguenza un ag-gravamento senza precedenti della situazione dei cristiani in Iraq. A migliaia erano già fuggiti dal paese prima dell'inter-vento americano (marzo 2003); in seguito, nel giro di pochi anni, il loro numero è sceso della metà, passando da 800.000 a 400.000, e tutto lascia presagire che questo massiccio esodo sia appena agli inizi.

Eppure i cristiani avevano qualche motivo per rallegrarsi, così come i loro compatrioti musulmani, della fine di una dittatura sanguinaria: potevano infatti sperare, per lo meno, che la revoca dell'embargo decretato dalla comunità interna-zionale avrebbe loro permesso di migliorare le proprie con-dizioni di vita. Infatti, anch'essi erano stati duramente colpi-ti dal blocco economico imposto al paese. Le organizzazioni umanitarie cristiane hanno dovuto provvedere ai bisogni di una parte della comunità che viveva ormai sotto la soglia della povertà.

La folla che ha salutato l'arrivo degli americani a Baghdad era composta sia da musulmani sia da cristiani, che condivi-devano un entusiasmo tanto sincero quanto illusorio. I cristia-ni non avevano nulla da perdere eccetto Tariq 'Azlz, l'unico loro correligionario che occupasse ima posizione di rilievo nella lunga lista dei dignitari del regime ricercati dalle nuove autorità: d'altra parte, erano disposti ad accettare senza diffi-coltà la scomparsa dalla scena politica di un personaggio da loro considerato un fantoccio manovrato secondo le circostan-ze da Saddam Husayn. Non immaginavano, però, che la loro situazione nel nuovo Iraq sarebbe stata così precaria.

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Nell'Assemblea espressa dal governo provvisorio fretto-losamente formato nel marzo 2003 non figurava nessuna personalità cristiana di un certo rilievo. La nuova Costitu-zione, approvata il 24 ottobre 2005 dal 78% degli elettori, non ha istituito un Iraq laico, contrariamente alle speranze dei cristiani. L'islam è ancora la religione di Stato. La sola vera novità è che ora il paese si è dato un assetto federale e ha adottato tre lingue ufficiali, l'arabo, il curdo e il siriaco.

La Costituzione contiene disposizioni relative alla li-bertà di culto e di coscienza, all'uguaglianza di tutti i citta-dini davanti alla legge e alla protezione dei diritti delle mi-noranze, ma l'articolo 2, al comma A, dichiara: «Nessuna legge in contrasto con le indiscusse regole dell'islam può essere approvata».

Agli occhi dei cristiani ciò equivale ad adottare ufficial-mente la shan'a quale fondamento della legislazione irache-na, e configura una grave lesione dei loro diritti. Monsignor Louis Sako ha dichiarato: «Questo testo ufficializza la shan'a, sancisce l'inferiorità giuridica della donna, rende impossibi-le la conversione dall'isiàm a un'altra religione e relega i cri-stiani al rango di minoranza etnica».

Tra i 275 membri dell'Assemblea nazionale figura qual-che raro cristiano, ma si tratta di una presenza puramente simbolica. Il sottile equilibrio etnico-religioso non tollera la presenza di minoranze non inquadrabili con precisione in un determinato schema.

Agli occhi dei curdi i cristiani sono arabi; gli sciiti e i sun-niti li considerano infedeli di cui sanno poco (ciò vale in par-ticolare per gli sciiti, presenti ovunque nel sud del paese, do-ve l'esiguità del numero dei cristiani ha impedito qualunque forma di coesistenza).

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I cristiani, emarginati nel nuovo Iraq, hanno dovuto su-bire le azioni dei movimenti di resistenza sciiti o sunniti contro le autorità irachene o le forze di occupazione e si so-no per lo più ritirati nelle zone dove le loro istituzioni sono protette da miliziani cristiani armati la cui presenza, peral-tro, non ha rallentato la massiccia fuga dei loro correligio-nari da Baghdad verso il nord del paese (e la regione di Mossul in particolare).

Dopo il 2004 le violenze dirette contro i cristiani in quan-to tali sono state innumerevoli. Già nell'agosto 2004 nume-rosi attentati compiuti simultaneamente hanno preso di mi-ra le chiese di Mossul, Kirkuk e Baghdad. La comunità cri-stiana della capitale è fatta oggetto di insistenti minacce: per esempio, alle donne cristiane è intimato di non uscire di ca-sa senza velo, se non vogliono essere cosparse di vetriolo.

Non esiste un elenco completo di tutti gli attentati subiti dai cristiani iracheni. Basti ricordare qui a titolo d'esempio il rapimento di monsignor Georges Casmoussa, arcivescovo siro-cattolico di Mossul, tenuto brevemente in ostaggio nel gennaio del 2005. Il prelato ha rievocato l'episodio in questi termini: «Dopo la caduta di Saddam Husayn siamo vissuti in pace per un anno. Poi alcuni jihadisti stranieri hanno provo-cato lo scontro tra le comunità, causando il rapido deteriora-mento della situazione dei cristiani: la nostra vita è diventa-ta impossibile». Nel novembre 2005 è stato rapito un pacifi-sta cristiano americano, Tom Fox, il cui cadavere è stato rin-venuto quattro mesi dopo.

Nello stesso anno, nel quartiere di ai-Dura, a Baghdad, qualcuno ha rubato numerose croci dalle chiese, provocando la forte reazione dei cristiani della capitale, che alla fine sono riusciti a recuperare il maltolto. Minacce e attentati non sono estranei al trasferimento in altro luogo di molte istituzioni

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cristiane di primo piano, come il Babel College e il grande Seminario maggiore di San Pietro, che ha cambiato sede in seguito al rapimento, nel settembre 2006, del superiore del-l'istituto, padre Salem Basel Yaldo, il cui corpo non è mai sta-to trovato. I gesti intimidatori nei confronti dei cristiani sono continuati durante tutto il 2007. Il 28 gennaio di quell'anno due chiese di Kirkuk sono state colpite da attentati che han-no causato quattro morti, tra cui un ragazzino tredicenne membro del coro, Raad Elias. All'origine di quegli attacchi vi era la pubblicazione delle caricature del profeta Maometto da parte del quotidiano danese «Jyllands-Posten», peraltro duramente condannata da tutte le Chiese irachene e da mol-te altre nel mondo.

Il 3 giugno 2007 Mossul è stata teatro di crimini partico-larmente odiosi. Padre Raghid 'Azlz Ganni e tre sottodiaco-ni sono stati rapiti all'uscita da messa, nei pressi della chiesa dello Spirito Santo. L'automobile in cui viaggiavano è stata bloccata da un gruppo di miliziani, che hanno freddato i quattro uomini. Dettaglio macabro: i corpi sono rimasti esposti per lunghe ore, perché gli assassini avevano fatto cre-dere di aver piazzato sotto i cadaveri cariche di esplosivo pronte a esplodere al minimo movimento.

Nell'ottobre del 2007 altri due sacerdoti sono stati rapiti e tenuti prigionieri per nove giorni da individui armati. «Sia-mo diventati merce», mi ha confidato in un messaggio di po-sta elettronica uno dei miei corrispondenti iracheni rifugia-tosi in Siria. «In Iraq le nostre quotazioni stanno salendo! De-linquenti comuni che si spacciano per zelanti fondamentali-sti rapiscono i cristiani, ben sapendo che i parenti faranno di tutto per pagare il riscatto!» L'amarezza di quest'uomo è comprensibile. Egli non accetta di essere una potenziale mo-neta di scambio i cui movimenti sono spiati da strani specu-

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latori che attendono il momento propizio per impadronirse-ne. Le autorità ecclesiastiche moltiplicano gli avvisi e avver-tono che non cederanno a questo tipo di ricatto, ma nono-stante tutto i rapitori continuano a prendere ostaggi e a con-siderare i cristiani come conti in banca ambulanti.

Nel corso del 2008 le violenze anticristiane hanno mostra-to una tendenza a intensificarsi, in special modo nel nord del paese. Il 6 gennaio numerosi attentati hanno colpito chiese e istituzioni cristiane a Mossul e a Baghdad. Il carattere simul-taneo degli attacchi induce a pensare a un piano premedita-to per costringere i cristiani a partire. A Mossul hanno subi-to attentati dinamitardi la chiesa della Vergine, la chiesa di San Paolo, il convento delle suore domenicane e l'orfanotro-fio Al-Nour, gestito da alcune suore caldee.

A Baghdad, la chiesa caldea di San Giorgio non è stata colpita per caso: il patriarca Emmanuel III Delly vi aveva ce-lebrato una cerimonia nel corso della quale aveva denuncia-to le violenze anticristiane: «Quelle azioni sono state certa-mente compiute per attirare l'attenzione dell'Occidente, per dare l'impressione che la situazione non si è normalizzata».

Tre giorni dopo, il 9 gennaio 2008, a Kirkuk, la cattedrale caldea del Sacro Cuore, la chiesa cattolica di Sant'Efrem e al-tri edifici religiosi sono stati fatti oggetto di attentati.

Il peggio, tuttavia, doveva ancora venire: il 13 marzo l'ar-civescovo caldeo di Mossul, il sessantacinquenne monsignor Paulos Faraj Rahho, è stato assassinato. Era un prelato dai to-ni schietti e dal sorriso luminoso; il 29 febbraio 2008 è stato rapito da sconosciuti. Pochi giorni prima aveva parlato del-le minacce che pesavano sul suo capo con una delegazione francese di Pax Christi. Aveva ricevuto la visita di strani per-sonaggi, i quali pretendevano che la Chiesa versasse loro

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500.000 dollari per scongiurare attacchi ai fedeli. Monsignor Rahho li aveva gentilmente messi alla porta, dicendo loro che aveva fatto voto di povertà.

Tutto fa pensare che sia stato vittima di bande mafiose che millantavano un'affiliazione ad al-Qa'ida. I suoi rapitori pre-tendevano il pagamento di un milione di dollari, ma la Chie-sa, fedele alla linea di condotta del prelato, ha respinto la lo-ro richiesta.

Monsignor Rahho ha pagato con la vita il rifiuto di ce-dere al ricatto. Un mese dopo la sua morte un altro religio-so, padre Youssef Abdel Aboudi, di 49 anni, è stato assassi-nato davanti alla moglie e ai figli. Padre Aboudi, ingegne-re, dirigeva una scuola frequentata sia da cristiani sia da musulmani.

Gli omicidi, le persecuzioni, le conversioni forzate all'i-slam sotto minaccia di sgozzamento non si contano. Inoltre, quante persone sono costrette a riscattare la propria vita con-cedendo in sposa a un musulmano una figlia o una sorella?

L'Iraq di oggi è il regno del si salvi chi può, della fuga, della ricerca disperata di un passaggio per l'Europa o gli Sta-ti Uniti. Ogni giorno centinaia di veicoli attendono l'autoriz-zazione a oltrepassare la frontiera tra l'Iraq e la Siria. Sono automobili simili a quelle che si vedono sulle strade di ogni esodo. I loro tetti sono carichi di valigie e materassi; intere fa-miglie sono stipate all'interno degli abitacoli; alcuni passeg-geri stringono a sé un sacco in cui hanno ammassato docu-menti d'identità, diplomi, titoli di proprietà, gioielli e soldi. La varietà dei veicoli dimostra che la fuga riguarda tutti gli strati sociali della popolazione. I lussuosi 4x4 sono mescola-ti a catorci degni di figurare in un museo dell'automobile. Ciò che unisce tutti i candidati alla partenza è la voglia di

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scappare; la polizia di frontiera controlla minuziosamente i documenti, pronta a intascare una bustarella in cambio di un timbro su un passaporto bisunto.

Secondo Pax Christi, circa 180.000 cristiani iracheni sono già in Siria, Giordania e Turchia, dove sopravvivono per lo più in condizioni precarie. La sola Siria ospita 10.000 fami-glie cristiane irachene.

Queste cifre danno l'idea dell'ampiezza di un fenomeno che suscita imbarazzo ogni volta che si tenta di parlarne apertamente con i cristiani iracheni, i quali mantengono ge-neralmente uno stretto riserbo sulle proprie intenzioni: un'elementare prudenza consiglia a tutti i candidati all'e-migrazione di tener nascosti i propri piani fino all'ultimo momento, per evitare di attirare l'attenzione dei vicini o di esporsi al possibile ricatto di qualche piccolo capo milizia di quartiere.

Far domande ai cristiani su quest'argomento equivale a rigirare il coltello in una piaga sanguinante; per loro è peno-so ammettere di non avere più un futuro nella terra dei loro antenati, dove le loro famiglie vivevano molto prima che giungesse l'islam.

Per il momento, gli unici paesi ad aver spalancato le por-te ai profughi cristiani sono la Svezia, l'Australia e il Cana-da. La Germania e il Belgio hanno concesso alcune migliaia di visti in virtù delle pressioni esercitate dai partiti di ispira-zione cristiano-democratica.

La Francia, da parte sua, ha offerto 500 visti per bocca del ministro degli Esteri Bernard Kouchner; il gesto ha suscitato la collera dei rappresentanti dei cristiani iracheni e di nume-rosi responsabili di organizzazioni non governative cristiane in tutto il mondo: il numero esiguo di permessi accordati

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sembrava loro ridicolo, senza dimenticare che il capo della diplomazia francese, in altre occasioni più coraggioso, ha usato toni improntati a un'inconsueta cautela.

Gli ambienti cristiani stranieri, favorevoli all'emigrazione dei loro correligionari iracheni, si sono comunque rallegrati per l'atteggiamento positivo del ministro, che non escludeva la concessione di altri visti in futuro.

Il responsabile dell'CEuvre d'Orient (Opera d'Oriente), monsignor Philippe Brizard, ha dichiarato: «La Francia ha delle responsabilità nella regione. I cristiani sono quelli che stanno peggio, perché non hanno alcun punto d'appoggio. Attualmente molti di loro sono accampati nel deserto siriano e c'è da sperare che non facciano la fine degli armeni»9.

Monsignor Stenger, vescovo di Troyes e presidente di Pax Christi, si è espresso con toni simili: «Non hanno nessuno che li difenda, si sentono abbandonati e sono davvero in perico-lo. Intervenire è un atto di umanità che non ha nulla a che ve-dere con la fede delle vittime. Salvare i cristiani d'Oriente si-gnifica salvare la cultura, la pace e il futuro della regione»10.

La reazione più appassionata è giunta da monsignor Louis Sako, una delle figure maggiormente rispettate della Chiesa irachena. Il prelato, furibondo, ha sottolineato un aspetto particolarmente delicato della questione: «La pubbli-cità data al piano di accoglienza danneggia i cristiani che hanno deciso di rimanere in Iraq»11.

Questa affermazione è condivisa da padre Pios Kasha, re-sponsabile della parrocchia cattolica di San Giuseppe a Ba-ghdad: «Non è così che devono aiutarci. Se gli ultimi di noi lasciano l'Iraq allora la presenza cristiana in questa terra scomparirà dopo duemila anni» n.

Monsignor Georges Casmoussa, già citato a proposito del breve rapimento da lui subito nel 2005, si mostra indulgente

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nei confronti di coloro che hanno deciso di andarsene: «I cri-stiani non ne possono più. Da troppo tempo vivono nella paura, subendo attentati, rapimenti, uccisioni. È assoluta-mente necessario che tutte le potenze straniere prendano co-scienza del fatto che stiamo scomparendo». Monsignor Ca-smoussa, che ha compiuto una visita in Francia nel giugno del 2008, ha aggiunto: «L'unica cosa che posso dire è: aiuta-teci a difendere i nostri diritti, aiutateci a vivere in pace e li-beri nel nostro paese»13.

L'arcivescovo siro-cattolico di Mossul, monsignor Ca-smoussa, occupa ormai una posizione chiave, essendo alla testa di una diocesi in corso di recristianizzazione. Dopo es-sere stato a lungo un inferno per i cristiani, il Kurdistan ira-cheno ha ormai la fama di una specie di paradiso. Negli ul-timi anni vi si sono stabiliti circa 90.000 cristiani del Sud, fuggiti dalla guerra civile o dall'insicurezza che regna nella capitale.

Molti di questi profughi sono ingegneri o tecnici che rie-scono a trovare un impiego nella fiorente industria petroli-fera nei dintorni di Mossul. Grazie alle pressioni americane, i curdi hanno messo la sordina all'atteggiamento anticristia-no che li ha caratterizzati in passato: hanno anzi predispo-sto ricoveri, sia pure di fortuna, per i rifugiati, il cui princi-pale problema è rappresentato dalla scolarizzazione dei lo-ro figli. Nelle scuole pubbliche l'insegnamento è impartito in curdo, lingua che i cristiani arabofoni non capiscono: questa situazione spiega l'accresciuta importanza degli isti-tuti confessionali.

Per monsignor Louis Sako ciò che conta è radicare sul ter-ritorio una popolazione cristiana. Egli spera che l'Occidente e le Chiese collaborino alla creazione di posti di lavoro, in

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modo da permettere ai cristiani di rimanere nella regione senza timori per il futuro.

L'afflusso di rifugiati cristiani nel Kurdistan ha spinto al-cuni esperti a considerare la creazione, nella zona, di una sorta di territorio autonomo cristiano. Si tratta di un proget-to nei confronti del quale i responsabili delle Chiese cristia-ne manifestano seri dubbi. Essi, infatti, restano attaccati a al-l'idea di un Iraq unito e laico e respingono qualunque tenta-tivo separatista che potrebbe ritorcersi contro di loro (pur se in alcuni risveglia qualche barlume di speranza).

Malgrado la volontà dichiarata del governo iracheno di garantire la sicurezza dei cristiani di Mossul (dove sono schierate centinaia di poliziotti) le violenze proseguono.

Le atrocità anticristiane commesse nella regione nel corso del 2008 non autorizzano in alcun modo a essere ottimisti. I cristiani temono che la loro comunità subisca una sorte ana-loga a quella toccata alla comunità ebraica irachena, la qua-le contava circa 120.000 membri nel 1948. L'Iraq ha già cono-sciuto una prima pulizia etnico-religiosa con la partenza di quasi tutti i suoi ebrei, ed è sul punto di sperimentarne un'al-tra, questa volta soltanto religiosa, ai danni dei cristiani.

Di fronte all'infuriare della violenta persecuzione che stanno subendo ormai da anni i cristiani iracheni continua-no a fuggire. Cercano di abbandonare la loro terra: temono infatti che dopo il ritiro delle forze straniere la situazione precipiti, sfociando in un bagno di sangue.

Ogni giorno migliaia di persone candidate all'esodo, in un flusso ininterrotto, imitano l'esempio di un famoso «ira-cheno», Abramo. Anch'egli lasciò con la sua famiglia la città di Ur, in Caldea, per raggiungere un paese dove poter vive-re in pace e osservare i Comandamenti di Dio.

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La Bibbia è anche una sorta di guida per gli esuli, nella quale ognuno può trovare la prefigurazione di situazioni di bruciante attualità.

All'ombra degli ayatollah

La Rivoluzione iraniana del 1979 ha rappresentato un evento di primaria importanza per il mondo intero. Il regime filo-occidentale dello scià ha ceduto il posto a una rivoluzio-ne popolare guidata dal clero sciita e sfociata nell'instaura-zione, sotto l'egida dell'ayatollah Khomeynl, di un regime teocratico con forti mire espansionistiche.

È passato del tempo prima che l'Occidente si accorgesse di cosa effettivamente era accaduto a Teheran. In Francia una parte dell'intelligencija ha entusiasticamente parteggiato per Khomeynl. Il regime dello scià aveva pessima fama: la sua temibile polizia politica, la Savak, era tristemente famosa per le ripetute violazioni dei diritti umani e per la feroce repres-sione di ogni voce dissidente, religiosa o comunista. Si rite-neva che gli ayatollah e la shari'a fossero preferibili alla ti-rannide dello scià di Persia.

Sappiamo cosa ne è stato di quelle illusioni, presentate al-l'epoca come infallibili responsi oracolari. Ripensavo a tutto ciò qualche decennio dopo, durante un viaggio in Iran, men-tre mi trovavo sotto i ritratti giganteschi dell'ayatollah Kho-meynT. Ero in Iran perché desideravo rendermi conto di per-sona dell'idea falsamente ingenua che quella civiltà lontana poteva farsi dell'Occidente, un po' come nel romanzo Lettere persiane di Montesquieu.

Quella sera, a Esfahàn, mentre tornavo verso il mio alber-go, fui interpellato da un gruppo di iraniani che viaggiava-

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no a bordo di un'elegante 4x4, segno di un'innegabile be-nessere materiale. Pensavano che mi fossi perduto: quando seppero che ero francese divennero ancora più affabili. Pas-sarono immediatamente da un buon inglese alla lingua di Molière, di cui avevano un'ammirevole padronanza: non per nulla l'avevano imparata presso la scuola dell'Alleanza Israelitica Universale.

I miei nuovi conoscenti erano dunque ebrei iraniani, il che non mancò di stupirmi. Ai tempi dello scià, l'Iran, insie-me alla Turchia, era stato il solo paese musulmano impor-tante a intrattenere stretti legami diplomatici, militari ed economici con Israele. Con l'instaurazione della Repubblica islamica la situazione era radicalmente mutata. Il nuovo re-gime insisteva sulla liberazione di al-Quds (Gerusalemme), da ottenere grazie all'aiuto dei palestinesi più radicali. Già prima della caduta dello scià molti ebrei iraniani avevano preferito emigrare in Israele, a New York o in California. Tuttavia, i 30.000 che erano rimasti nel paese non parevano aver fretta di partire.

I miei interlocutori mi spiegarono che nell'Iran degli aya-tollah vivevano abbastanza bene. Certamente, in quel paese l'islam è la religione di Stato, la conversione di un musul-mano a un'altra religione è punita con la pena di morte e qualsiasi legame con Israele è formalmente proibito; in com-penso, gli ebrei hanno piena libertà di culto e dispongono di sinagoghe, scuole e centri comunitari propri.

II 13° principio della Costituzione islamica del 1979, in ef-fetti, dichiara: «Gli iraniani zoroastriani, ebrei e cristiani so-no le sole minoranze religiose riconosciute, le quali, entro i limiti di legge, sono libere di celebrare i propri riti e di agire secondo il proprio canone in materia di affari personali e di istruzione religiosa». Il testo precisa che «il governo della Re-

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pubblica islamica e i musulmani devono comportarsi nei confronti dei non musulmani con spirito di sana moralità, di giustizia, di equità islamica e rispetto dei diritti umani».

Tali disposizioni si applicano alle Chiese e alle istituzioni religiose riconosciute dalla legge, a condizione che non vio-lino i principi islamici su cui è basata la Repubblica. Gli ebrei hanno diritto, come le altre minoranze, a una rappresentan-za politica, sotto forma di un seggio nel Majlis (il Parlamen-to), dove siede anche un deputato zoroastriano.

I parlamentari cristiani, invece, sono tre: due armeni (la comunità più numerosa), e un assiro-caldeo. Si tratta di una rappresentanza parlamentare superiore al reale peso demo-grafico dei cristiani e attesta l'intenzione, da parte delle au-torità, di rispettare i diritti politici delle minoranze.

II più anziano dei miei ospiti, un ricco commerciante, mi spiegò che per nulla al mondo avrebbe accettato l'incarico di rappresentante della comunità ebraica: uno dei titolari di quel seggio era stato condannato a morte e giustiziato per spionaggio a favore di Israele, a riprova del fatto che la Ru-pe Tarpea è ancora vicina al monte Capitolino!

Nel caso del «prezzo del sangue» il rispetto dell'ugua-glianza sconfina nell'assurdo. La dieh è l'indennità finanzia-ria che una famiglia può pretendere dall'assassino di un pro-prio congiunto in alternativa all'esecuzione. Dal 2002, mu-sulmani, ebrei, cristiani e zoroastriani ricevono uguale trat-tamento in proposito: per tutti il riscatto è di 16 milioni di riyal (corrispondenti a circa 20.000 dollari). Esiste però una forma di discriminazione applicata senza distinzione di reli-gione: la vita di una donna vale la metà di quella di un uo-mo. L'indennità per riscattare un'assassina è dunque fissata a 10.000 dollari.

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Esistono anche discriminazioni non regolamentate per legge. Il lavoro nella pubblica amministrazione non è for-malmente interdetto ai non musulmani, ma nessuno di loro viene assunto come funzionario, neppure al livello più bas-so della gerarchia, perché gli infedeli non devono esercitare nemmeno una parvenza di autorità sui musulmani. Nel pae-se tutti si adattano a tale principio, a volte in modo assai cu-rioso. A questo proposito ebbi l'occasione di tempestare di domande numerosi ayatollah nella quasi inaccessibile scuo-la di Qom.

Era l'epoca in cui in Francia infuriava il dibattito sul di-vieto di ostentare simboli religiosi nelle scuole pubbliche. Nei paesi musulmani alcuni giornali disinformati pretende-vano che l'islam francese fosse oggetto di un'odiosa perse-cuzione che lo costringeva a cercare riparo nelle catacombe.

Stufo di queste esagerazioni, avevo deciso di spiegare a quei gravi religiosi come stessero davvero le cose, sottoli-neando, tra l'altro, che la pubblica amministrazione francese annovera nelle sue file numerosi musulmani, tra cui vi sono anche prefetti e sottoprefetti. Domandai ai miei ayatollah: «Accettereste che un funzionario iraniano indossasse in vo-stra presenza la kippàh o facesse sfoggio di una croce?». Mi rispose un coro di sdegnati «no!», e io ne approfittai per scoccare la freccia che avevo tenuta in serbo: «Allora potete capire la nostra reticenza di fronte al velo islamico e a qua-lunque altro simbolo religioso!». I miei interlocutori appro-varono in tutto le mie parole, dando prova dell'ampiezza di vedute che caratterizza il clero sciita.

Se si esclude l'impossibilità di lavorare nella pubblica am-ministrazione, i miei conoscenti ebrei non si lamentavano della loro sorte in Iran. All'interno delle associazioni o in ca-sa propria potevano consumare alcol e dichiaravano di esse-

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re liberi di viaggiare all'estero. Mi confidarono ridendo che le autorità sapevano benissimo la vera ragione delle loro tap-pe a Istanbul, città in cui si recavano allo scopo di prendere un aereo per Israele. Ma per farla franca è sufficiente non avere il visto dello Stato ebraico sul passaporto, e le autorità israeliane accettano senza difficoltà la richiesta di non ap-porto. Tuttavia, recarsi in Israele non significa volerci resta-re: dal momento che i loro affari a Esfahan andavano a gon-fie vele, i miei ospiti non avevano ragioni per lasciare l'Iran, paese in cui le loro famiglie vivono da secoli.

Naturalmente parlammo anche dei cristiani iraniani. I miei interlocutori ne conoscevano alcuni e mi proposero di condurmi fino al quartiere armeno della città, dove nel seco-lo XVII fu installata la prima stamperia armena d'Oriente.

A Teheran avevo già avuto modo di intrattenermi con nu-merosi membri della comunità armena ortodossa, di gran lunga la più numerosa, con i suoi 123.000 membri. La mag-gior parte di essi vive nella capitale, mentre altri risiedono a Esfahan e in numerose località dell'Azerbaigian iraniano, dove non è raro scorgere un campanile accanto a un minare-to. I fedeli sono più loquaci della loro gerarchia, che fa uso di un linguaggio politicamente corretto e non perde occasione di mettere in risalto gli ottimi rapporti che intrattiene con il regime.

Ebbene, gli armeni dell'Iran, cittadini iraniani, costitui-scono una minoranza il cui peso demografico è in costante diminuzione. Più di 200.000 membri di quella comunità han-no lasciato il paese a partire dal 1979, e le partenze prose-guono al ritmo di molte migliaia all'anno.

Ciononostante, i cristiani armeni hanno tratto vantaggio dalle buone relazioni esistenti tra l'Armenia indipendente e l'Iran. I due paesi sono impegnati in vari progetti di coope-

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razione economica, e i frequenti incontri tra i rispettivi diri-genti politici e religiosi contribuiscono a creare un clima de-cisamente disteso, i cui benefici effetti, tuttavia, non si mani-festano nei villaggi più remoti, dove i rapporti tra le due co-munità sono spesso tesi.

La partenza dei fedeli armeni è stata incoraggiata da una serie di misure volte a restringere la libertà d'insegnamento nelle loro scuole. Il regime ha infatti notevolmente limitato l'uso della lingua armena nell'insegnamento primario e l'ha totalmente cancellato da quello secondario, giungendo per-fino a imporre che i corsi di catechismo si svolgano in per-siano, la lingua ufficiale del paese. La protesta degli inse-gnanti è stata messa a tacere; nel 1984 parecchi presidi sono stati silurati e sette scuole sono state chiuse, nonostante l'in-tervento dei vescovi presso l'allora presidente del Parlamen-to Rafsanjanl.

Gli scontri tra cristiani e musulmani nel Caucaso, e in par-ticolare nel Nagorno Karabakh, hanno contribuito a deterio-rare i rapporti tra le due comunità in Iran, senza che si pos-sa tuttavia parlare di una vera e propria persecuzione.

L'altro gruppo cristiano è costituito dagli assiro-caldei, dagli ortodossi, dai cattolici e dai protestanti. In tutto si trat-ta di 30.000 persone, residenti per lo più a Teheran e nell'A-zerbaigian iraniano. Sono in massima parte ortodossi e han-no mostrato la tendenza a concentrarsi nella capitale, dove dispongono di numerosi luoghi di culto.

I più a rischio sono indubbiamente gli iraniani protestan-ti, in gran parte discendenti di musulmani convertiti al cri-stianesimo durante l'occupazione britannica della Persia. Nell'Iran di oggi il proselitismo è punito con la morte, e an-che la conversione a una fede diversa dall'islam comporta la pena capitale. D'altra parte, la Società di studi biblici ha do-

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vuto chiudere i battenti nel 1990 e numerosi pastori iraniani sono stati arrestati e condannati a morte per attività legate al proselitismo.

La denominazione più colpita dalla Rivoluzione del 1979 è stata la Chiesa latina dell'Iran, che contava appena qualche centinaio di fedeli, quasi tutti stranieri, diplomatici o uomini d'affari. Nel nome della lotta contro le influenze «occidenta-li e imperialiste», fin dall'agosto del 1979 le nuove autorità hanno proceduto all'espulsione di tutti i sacerdoti e i religio-si cattolici stranieri, che in alcuni casi erano in Iran da de-cenni. Tali provvedimenti hanno colpito 144 dei 150 preti, provocando una vera e propria emorragia nella Chiesa lati-na, le cui principali istituzioni scolastiche, cioè la scuola San-ta Giovanna d'Arco delle Figlie della Carità e la Chiesa di San Luigi dei Lazzaristi, sono state nazionalizzate e hanno subito la confisca dei beni senza indennizzo.

Alla fine soltanto una decina di religiosi stranieri, tra sa-cerdoti e suore, ha potuto rimanere nel paese in condizioni particolarmente difficili e limitandosi all'esercizio di attività sociali strettamente sorvegliate dalle autorità, le quali conce-dono soltanto in via eccezionale permessi di soggiorno a re-ligiosi cattolici, senza contare che a ogni nuovo arrivo deve corrispondere una partenza definitiva.

In Iran, come altrove, la Chiesa latina sta scomparendo, e anche il numero dei fedeli delle altre denominazioni sta pro-gressivamente diminuendo a causa dell'emigrazione, accele-rata dal fatto che i cristiani hanno perduto ogni speranza in una caduta del regime dei mulla e temono di fare indiretta-mente le spese della lotta attualmente in corso tra i modera-ti e i radicali di Mahmud Ahmadlnezhad.

La situazione dei cristiani in Iran, pur non essendo dram-matica, non dà alcun segno di miglioramento, tutt'altro. Si

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nota una crescita della tendenza a disturbare le Chiese con intralci burocratici, il cui unico scopo è impedire il normale esercizio del culto.

Contemporaneamente, le autorità moltiplicano gli incon-tri confessionali e gli appelli al dialogo tra le religioni mono-teiste. A volte si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un re-gime schizofrenico. Lo stesso Ahmadmezhad, che vomita minacce di distruzione contro Israele, in occasione di una conferenza a Teheran si mostra deliberatamente in compa-gnia di rabbini ultraortodossi che lo abbracciano come se fosse un loro caro amico. Il presidente iraniano tuona contro il Grande Satana americano e il suo alleato britannico o con-tro la Francia, eppure si mostra ansioso di ricevere a Teheran, «nel centro del mondo», nel paese del petrolio, una delega-zione della Santa Sede per allacciare un dialogo politico con la curia romana.

«L'Iran è il cuore e l'universo è il corpo», dice il poeta per-siano Nezami. Questo aforisma è diventato il credo di Mahmud Ahmadmezhad.

1 Insieme delle norme giuridiche che nei paesi islamici regolano la situa-zione dei dhimmi (protetti), gli appartenenti ai «Popoli del Libro», ebrei, cristiani, sabei e zoroastriani; essi sono autorizzati a praticare i rispettivi culti a condizione di pagare il testatico e una tassa sui beni immobili. 2La reazione di Jama'a al-Islamiyya è stata diffusa dal sito di informazio-ne www.topchretien.com

'Jean-Pierre Valognes, Vie et mort des Chrétiens d'Orient, Fayard, Paris 1994. 4 Comune del Limosino distrutto il 10 giugno 1944 dalla SS-Panzer-Divi-sion «Das Reich»; i civili trucidati dai tedeschi furono 642 [N.d.T.]. 5Vedi «Appendici». 6 In francese il termine croissant si usa anche per indicare il simbolo mu-sulmano che in Italia è noto come «mezzaluna» [N.d.T.].

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7Fino al 12 aprile 2008 [N.d.T.]. "Gli aivqaf (singolare: waqf) sono beni inalienabili (istituti caritatevoli e re-ligiosi, luoghi di culto ecc.), la cui gestione è spesso regolata da appositi ministeri negli Stati musulmani [N.d.T.]. ''Comunicazione dell'CEuvre d'Orient. 10Ivi. "Ivi. 12 Ivi. "Ivi.

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Astenersi cristiani

Quegli asini, non contenti di essersi grattati Andavano da una città all'altra Lodandosi l'un l'altro.

Il leone, la scimmia e i due asini, dalle Favole di La Fontaine, X, V

Questi versi tratti dalla favola di La Fontaine riecheggia-no il motto latino asinus asinum fricat (un asino ne gratta un altro, ovvero un asino par bello a un altro asino) e potrebbe-ro adattarsi perfettamente all'India e al Pakistan. I due pae-si, un tempo membri del Raj, il subcontinente indiano sotto il dominio britannico, si sono separati in circostanze dram-matiche al momento dell'indipendenza (1947); da allora so-no costantemente sul piede di guerra, soprattutto in ragione della disputa sul Kashmir.

La separazione si è accompagnata a un vasto esodo di po-polazioni in fuga dalle violenze omicide perpetrate contro gli indù in Pakistan e contro i musulmani in India. Da una parte e dall'altra gli ambienti nazionalisti ed estremisti sono stati largamente responsabili dell'aggravarsi della situazio-ne, che ha portato alla fine della convivenza plurisecolare tra le due comunità religiose.

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I rispettivi estremismi, tuttavia, sono accomunati dall'o-dio nei confronti dei cristiani, considerati elementi stranieri e sovversivi. La situazione in India è tutt'altro che rosea, ep-pure in materia di anticristianesimo il Pakistan avrebbe pa-recchio da insegnare al suo grande vicino.

In quella zona di transito della valle dell'Indo, uno Stato islamico coltiva con cura l'identità musulmana. Natural-mente, anche in Pakistan la Costituzione garantisce la li-bertà di coscienza e di culto nonché il diritto, per le confes-sioni non musulmane, di disporre di strutture proprie e uf-ficialmente riconosciute dal regime. Essa contiene però an-che articoli che limitano notevolmente le disposizioni libe-rali e ricordano che l'islam è il fondamento della legislazio-ne pachistana; tutti i cittadini sono quindi tenuti ad ade-guarsi ai suoi principi, compresi i cristiani, che costituisco-no il 2,5% della popolazione, e gli indù, che sono l'I,5%. I membri di queste minoranze religiose sono trattati come cit-tadini di second'ordine, costretti a sottostare a principi con-trari alle loro convinzioni. Tale situazione è ufficializzata dalla menzione sui documenti d'identità dell'appartenenza religiosa. In origine il provvedimento riguardava soltanto una setta dissidente dell'islam, gli Ahmedi, alla quale il go-verno, di comune accordo con le autorità saudite, intendeva proibire il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca. Per que-sta ragione si era deciso che su ogni passaporto sarebbe sta-ta indicata la religione del possessore. Questa faccenda strettamente interna all'islam ha avuto gravi conseguenze per i cristiani.

Nel 1999, su pressione delle Chiese locali e allo scopo di dare un contentino all'opinione pubblica internazionale (e specialmente al potente alleato americano), il presidente Per-vez Musharraf aveva abolito, di sua iniziativa, l'obbligato-

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rietà di dichiarare la propria religione sui documenti di iden-tità, ma i suoi ministri, che non ne condividevano il punto di vista, hanno sabotato qualunque tentativo di modifica della procedura vigente. L'indicazione dell'appartenenza religiosa è stata dunque mantenuta, grazie anche al vasto favore po-polare che riscuote: per rendere irreversibile la decisione i partiti dell'opposizione hanno organizzato massicce manife-stazioni di piazza il cui successo ha convinto tutte le forze politiche a non sopprimere la norma.

Quella che abbiamo appena descritto non è l'unica forma di discriminazione ufficiale: vi è anche la legge contro la bla-sfemia, che punisce le offese contro l'islam e rappresenta una vera e propria arma bellica da usare contro i cristiani.

Tale provvedimento, risalente al 1988, stabilisce che chiunque sia sospettato di aver offeso la religione musulma-na può essere imprigionato sulla base della semplice testi-monianza di un cittadino. Il testo è debitamente vago e ga-rantisce piena libertà di azione ai magistrati, i quali possono rinviare a giudizio «chiunque, con parole o scritti, gesti o at-ti visibili, insinuazioni dirette o indirette, insulti il sacro no-me del Profeta».

In caso di bestemmia contro il Profeta, la legge in que-stione prevede la pena capitale.

Il testo si applica indiscriminatamente a tutti i cittadini pachistani, quale che sia la loro religione; ma i cristiani e gli indù sono particolarmente esposti alle denunce più fantasio-se e possono essere processati anche sulla base di pretesti fa-sulli. Una semplice lite tra vicini, o una controversia finan-ziaria, può trasformarsi in un incubo, qualora il protagonista musulmano affermi che il suo interlocutore ha attaccato l'i-slam usando termini ingiuriosi.

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I tribunali pachistani sono conosciuti per la sistematicità con cui avvallano le accuse più bizzarre. Nel 1996, per esempio, un contadino cristiano è stato arrestato con l'ac-cusa di aver commentato il romanzo Versetti satanici dello scrittore anglo-indiano Salman Rushdie. In primo grado è stato condannato alla pena capitale; fortunatamente per lui, nel 2002 la Corte suprema, alla quale si era appellato, lo ha assolto.

Nel marzo 2001 un cristiano è stato accusato di blasfemia per avere tirato la barba a un musulmano. Nello stesso anno due cristiani sono stati interrogati nel quadro di un'inchiesta su un banale traffico di stupefacenti; poiché hanno rifiutato di versare una mazzetta ai poliziotti si sono visti affibbiare l'accusa di aver bruciato alcune pagine del Corano, riceven-do di conseguenza una condanna al carcere perpetuo. Eppu-re, al processo il loro avvocato era riuscito a far ammettere ai poliziotti chiamati a confermare le accuse che gli imputati non avevano indosso né fiammiferi né accendini, e dunque non erano in condizione di bruciare il Corano. Nonostante ciò i due sono stati condannati, a causa delle forti pressioni esercitate dai militanti integralisti locali sul giudice. C'è sta-to ancora una volta bisogno del giudizio della Corte supre-ma per assolvere gli sventurati.

Nell'aprile 2001 il preside cristiano di un liceo privato è stato arrestato con l'accusa di aver pronunciato dichiarazio-ni blasfeme nei confronti del Profeta. In realtà, uno degli ac-cusatori era un preside suo concorrente, furibondo a causa del successo riscosso dall'istituto gestito dall'accusato.

Nel 2004 un cristiano è deceduto all'ospedale di Lahore, in cui era stato trasferito dalla prigione cittadina, dove era ri-masto a marcire per un mese. Il suo crimine? Il bibliotecario di una moschea vicina a casa sua affermava di averlo vedu-

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to mentre versava immondizia su una lastra di marmo deco-rata con versetti del Corano.

I casi simili a quelli che abbiamo citato a titolo di esempio sono una vera legione.

Nel 2005 un cristiano è stato arrestato a causa di una di-sputa finanziaria con un vicino musulmano. Contro ogni previsione ha vinto il processo, ma non ha potuto assapora-re la sua pur modesta vittoria: infatti, nel vicinato si è sparsa la voce che avesse bruciato pagine del Corano. Parecchie centinaia di estremisti musulmani hanno invaso le strade del villaggio in cui risiedeva l'uomo, aggredendo i cristiani e dando alle fiamme le loro case. Lo sfortunato protagonista della vicenda è riuscito a darsi alla fuga mentre due suoi fra-telli venivano arrestati e sottoposti a tortura; alla fine è stato catturato e a sua volta torturato perché confessasse. Gli sfor-zi della commissione «Giustizia e Pace» della Conferenza episcopale pachistana, in ogni caso, sono stati fruttuosi: l'au-tore della denuncia ha infatti ammesso di non aver mai visto il cristiano commettere l'atto di cui lo accusava.

La legge contro la blasfemia è stata causa di numerose tra-gedie. Nel 1998 monsignor Joseph Coutts, vescovo di Faisa-labad, disperato per l'iniquità dei processi condotti contro i cristiani, si è sparato un colpo di pistola alla testa di fronte al tribunale che un mese prima aveva condannato a morte per blasfemia un suo correligionario.

Dopo la pubblicazione, nel 2003, di un rapporto della Commissione per i Diritti Umani dell'ONU che chiedeva al Pakistan di abolire le misure discriminatorie nei confronti dei cristiani, le Chiese locali hanno ricominciato la loro bat-taglia in favore dell'abrogazione della legge contro la blasfe-mia. In un primo tempo il presidente Musharraf ha fatto sa-pere di essere favorevole all'ipotesi di modificare o addirit-

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tura di abolire la legge. Ben presto, però, il segretario di Sta-to alle Minoranze, Habib Ur Rehman, ha dissipato le illusio-ni. Durante un incontro con i rappresentanti cristiani e in-duisti ha spiegato che non vi erano le condizioni per l'abro-gazione pura e semplice del testo: l'opinione pubblica pachi-stana non avrebbe capito. Al massimo si poteva sperare, in un futuro non troppo lontano, di modificarla leggermente, attraverso un dibattito che coinvolgesse tutte le parti in cau-sa. La questione è tuttora al vaglio delle autorità... Nel frat-tempo nulla è cambiato e la legge contro la blasfemia conti-nua a essere usata contro i cristiani.

Le discriminazioni e le persecuzioni nei confronti dei cri-stiani pachistani sono diventate più frequenti e più dure do-po gli attentati dell'll settembre 2001, ai quali ha fatto se-guito l'intervento della coalizione internazionale in Afghani-stan. Questo paese, com'è noto, ha svolto un ruolo impor-tante nella formazione dei movimenti fondamentalisti mu-sulmani durante il periodo dell'occupazione sovietica. Mi-gliaia di mujahidin, giunti dai quattro angoli del Dar ai-Islam, hanno mosso i primi passi accanto ai resistenti afgani.

La guerra in Afghanistan ha modificato la situazione politica del vicino Pakistan. Alcune regioni, situate alla frontiera tra i due paesi, da sempre sfuggono al controllo del governo centrale pachistano, servendo da rifugio per i miliziani afgani e i talebani. In seguito agli eventi che ab-biamo brevemente ricordato, il mondo musulmano pachi-stano si è radicalizzato: alcuni movimenti che predicano una stretta applicazione della legge islamica hanno fatto pressione sui vari governi, militari e civili, affinché proce-dessero a una profonda islamizzazione della società e del-lo Stato.

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Le operazioni condotte contro i talebani afgani e al-Qa'i-da, come d'altronde l'intervento angloamericano in Iraq, hanno notevolmente aumentato l'ostilità verso i «crociati» occidentali, accusati di condurre una guerra santa contro l'i-slam; di ciò fanno le spese i cristiani locali, ai quali è rinfac-ciata una presunta complicità con l'Occidente. Gli attentati dell'll settembre 2001 hanno avuto l'effetto di spingere un gran numero di persone nelle braccia dei gruppi fondamen-talisti musulmani, che si sono scatenati contro i cristiani, spesso con il beneplacito dei servizi segreti pachistani.

Una drammatica svolta nella storia del cristianesimo pa-chistano si è verificata domenica 28 ottobre 2001, con l'atten-tato mortale ai danni della chiesa di San Domenico a Bahawalpur, nell'est del paese. Si tratta di un edificio di cul-to usato a turno dalla locale comunità cattolica e da quella protestante, come spesso accade nelle grandi città. Al termi-ne di un servizio protestante tre assassini giunti in moto han-no cominciato a sparare sui fedeli al grido di «il Pakistan e l'Afghanistan sono il cimitero dei cristiani!», uccidendone 16 e ferendone parecchie decine.

L'attentato ha suscitato profonda emozione, sia in Pakistan che all'estero. Le Chiese locali, a prescindere dalla confessio-ne, hanno pubblicato un documento comune nel quale face-vano appello all'unità e alla solidarietà dell'intera nazione.

Nonostante ciò, le violenze anticristiane sono raddoppia-te. Nel marzo 2002, un attentato ha colpito il tempio prote-stante di Islamabad, frequentato da fedeli pachistani e stra-nieri: 5 persone sono morte e 46 sono rimaste ferite. Nell'a-gosto del 2002 è stata attaccata una scuola cristiana situata a 50 chilometri da Islamabad; nello stesso mese qualcuno ha lanciato una bomba all'interno della cappella dell'ospedale

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presbiteriano di Taxila, dove erano riuniti 200 fedeli. Il 25 settembre 2002 i locali della Commissione Giustizia e Pace della Caritas, a Karachi, hanno subito un attacco costato la vita a 7 persone: 6 cattolici e 1 protestante.

Per il vescovo di Islamabad e Rawalpindi, monsignor Lo-bo, non c'era alcun dubbio sul fatto che le attività di quel-l'organizzazione cristiana dessero fastidio a qualcuno: «Le nostre ONG sono i profeti di oggi», ha dichiarato.

«Profeti di oggi» è una bella espressione, rispondente al vero. Secondo il prelato i volontari avevano pagato per il lo-ro impegno ed erano stati scelti come capri espiatori.

Monsignor Lobo, noto per il suo coraggio e per la sua franchezza, ha destato scandalo denunciando nella sua Let-tera pastorale ciò che egli chiama la mentalità pachistana, ov-vero un attaccamento al mito della potenza, della forza e del-la violenza, che rifiuta categoricamente qualunque esame di coscienza, preferendo accanirsi contro capri espiatori. Il go-verno ha ribattuto in modo invero bizzarro, sostenendo che il suo impegno per garantire la protezione degli occidentali residenti in Pakistan gli impediva di vigilare sulla sicurezza dei cristiani locali!

Le violenze sono riprese con particolare intensità dopo la pubblicazione da parte della stampa danese di caricature del profeta Maometto. Sebbene il Vaticano e le Chiese pachista-ne abbiano condannato le vignette, in numerose città si sono svolte manifestazioni anticristiane: alcune chiese sono state attaccate e bruciate e si sono verificati episodi di tortura ai danni di cristiani. Da allora atrocità e violenze sono all'ordi-ne del giorno.

Bisogna probabilmente essere «pazzi» per essere cristiani in Pakistan! L'ipotesi di una «pazzia cristiana», peraltro, è

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stata avanzata nel vicino Afghanistan a proposito della sin-golare vicenda di un afgano convertito al cristianesimo. Ab-dul Raham viveva in un campo profughi in Pakistan; dopo essersi convertito alla religione cristiana aveva trascorso no-ve anni in Germania. Tornato in Afghanistan nel 2002, è sta-to arrestato quattro anni più tardi in seguito alla denuncia della moglie e delle due figlie, le quali hanno testimoniato che aveva rinnegato l'islam. Condannato a morte, è stato graziato dal presidente Hamid Karzai su richiesta di papa Benedetto XVI.

Karzai, tuttavia, preoccupato di non irritare le autorità re-ligiose musulmane, ha ritenuto opportuno giustificare il pro-prio gesto dichiarando: «Quell'uomo soffre di gravi turbe, che spiegano la sua conversione al cristianesimo» \ Il «paz-zo» è stato liberato, e da allora vive in Italia.

Al lume delle chiese incendiate

Per molti l'India si confonde con la figura carismatica del-la «grande anima», il mahatma Gandhi, principale teorico della nonviolenza e padre della nazione indiana. Gandhi fu l'uomo che rifiutò il razzismo e la discriminazione in Suda-frica, colui che combatté con mezzi pacifici il colonialismo britannico in India e che nel 1947 digiunò fino a mettere a re-pentaglio la propria vita per far cessare le sanguinose vio-lenze tra indù e musulmani. Gandhi lottò anche per miglio-rare la sorte dei dalit, gli intoccabili, vittime del sistema del-le caste. La sua politica gli costò la vita: venne infatti assassi-nato da un fanatico legato agli ambienti dell'estrema destra.

«La Guida» proclamava di essere contemporaneamente indù, giainista, musulmano, sikh, ebreo, parsi, cristiano...

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Né smise mai di predicare la coesistenza pacifica tra tutte le comunità religiose presenti nel subcontinente indiano. Il suo messaggio ha influenzato intere generazioni, cambiando la nostra percezione dell'India. Per molti occidentali essa è una sorta di contrada esotica fondata su pace e amore - peace and love - dove i guru vivono felici nei loro ashrama (luoghi di meditazione e romitaggio), guidando sulla via della verità le persone che chiedono il loro aiuto. Tuttavia, le recenti vio-lenze del 2008 contro le minoranze cristiane e gli attentati particolarmente sanguinosi compiuti dagli integralisti isla-mici contro tutte le componenti della popolazione indiana mostrano una realtà ben più complessa e diversa dall'imma-gine da cartolina trasmessa dal retaggio di Gandhi.

Per tentare di superare i luoghi comuni sull'India occorre penetrare nel mondo chiuso che caratterizza la società di quel paese, fondata sul sistema delle caste. Con il suo mi-liardo di abitanti, l'India è diventata la prima democrazia del pianeta, protagonista di un formidabile balzo in avanti eco-nomico, simboleggiato dal successo del gigante dell'acciaio Mittal o dalla straordinaria fioritura di start-up informatiche a Pondicherry, Mumbai e Nuova Delhi. L'India è un colosso economico come la Cina, fa ormai parte dei grandi, e la sua importanza è destinata a crescere in un prossimo futuro.

Tuttavia, sebbene sia un paese democratico, la Repubbli-ca indiana non è al riparo da violenti sussulti; anzi, è tuttora scossa da tensioni religiose piuttosto marcate. La figlia del pandit Nehru, Indirà Gandhi (che non aveva alcun legame di parentela con il mahatma), è caduta, come suo figlio Rajiv, sotto i colpi degli estremisti sikh.

Tra indù e musulmani i vecchi odi non si sono mai spen-ti: hanno contribuito a tenerli in vita le tensioni tra India e Pakistan per il Kashmir, un territorio che genera forti pas-

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sioni. Esso è rivendicato da entrambi i paesi e ospita una mi-noranza cristiana che sopravvive tra mille difficoltà.

Le ondate di attentati mortali sono state spesso rivendica-te dai gruppi islamici come risposte alle persecuzioni subite dai musulmani in India. Tuttavia, quei fatti rivoltanti non devono far dimenticare le sofferenze dei cristiani indiani, i quali non sfuggono alle conseguenze drammatiche dell'e-scalation nelle tensioni religiose.

I cristiani costituiscono il 2,3% della popolazione indiana: si tratta di una percentuale non trascurabile, che corrispon-de a circa 24 milioni di fedeli. La loro presenza in India risa-lirebbe ai primordi del cristianesimo. Secondo la leggenda, l'apostolo Tommaso si recò a evangelizzare il paese: ecco spiegato il soprannome di «cristiani di san Tommaso» con cui da secoli sono noti i cristiani nel subcontinente.

Furono i loro fratelli in Cristo a infliggere le prime perse-cuzioni. Infatti, agli occhi dei missionari giunti al seguito dei viaggiatori portoghesi nei secoli XV e XVI, essi praticavano riti strani e i loro dogmi erano eterodossi. Per riportarli sul-la «retta via» cattolica gli inquisitori portoghesi bruciarono i loro empi libri liturgici (talvolta insieme alle persone che li custodivano).

Questa situazione è in larga misura alla base del nuovo volto del cristianesimo indiano, costituito in massima par-te da cattolici di rito latino (12,5 milioni), nettamente più numerosi dei 3,5 milioni di cristiani di rito siro-malabarese e dei 285.000 fedeli di rito siro-malankarese. A costoro van-no aggiunti gli anglicani, i luterani e i seguaci di numerose piccole denominazioni protestanti: si tratta di un cristiane-simo in gran parte autoctono, anche se si nota una signifi-cativa presenza di missionari stranieri, tra cui la celebre madre Teresa.

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Ufficialmente l'India è uno Stato laico. La Costituzione del 1950 proibisce qualunque discriminazione basata sulla razza, la religione, la casta o il sesso; tuttavia, la sua applica-zione è notevolmente frenata dalla natura federale dell'U-nione indiana, che si compone di 28 Stati, ognuno dotato di ampi poteri politici e legislativi. Molti di loro possono dun-que perseguire una politica discriminatoria verso questa o quella minoranza e limitare i diritti dei non indù. Si tratta di una prassi correntemente adottata dai partiti della destra più radicale negli Stati dove esistono forti minoranze cristiane, la cui situazione è decisamente peggiorata dopo la fondazione, avvenuta nel 1980, del BJP (Bharatiya Janata Party - Partito della nazione indiana), una formazione ultranazionalista che coltiva l'ideologia della hindutva (induità).

Secondo il BJP, l'induismo è il fondamento dell'identità nazionale indiana. Le altre religioni, in particolare il cristia-nesimo e l'isiàm, sono considerate «straniere», incompatibili con l'appartenenza alla nazione indiana. I cristiani, come i musulmani, sono cittadini di seconda categoria e dovrebbero essere sorvegliati e limitati nella loro libertà di culto, in quan-to - dice il BJP - essa è in conflitto con l'induismo. Guai alle moschee o alle chiese costruite su siti storici indù, veri o pre-sunti: il fuoco purificatore renderà immacolati quei luoghi.

Nello Stato del Tamil Nadu si trova il santuario di San Tommaso. Secondo gli apocrifi Atti di san Tommaso, l'apo-stolo giunse in India verso l'arino 52 dell'era volgare; ivi tentò di evangelizzare gli ebrei, ma ebbe maggior successo con la popolazione autoctona: battezzò numerosi membri dell'alta casta della famiglia reale, che formarono il nucleo della prima comunità cristiana in India.

Oggi il sito presso il quale fu sepolto prima che le sue spoglie fossero traslate a Roma è rivendicato dagli ultrana-

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zionalisti indù come uno dei loro luoghi santi. Il 26 novem-bre 2006, il gestore della libreria San Tommaso è stato assas-sinato da un fanatico che pretendeva l'allontanamento dei cristiani.

Per condurre la propria lotta contro i non indù, il BJP pro-clama di contrastare il proselitismo cristiano e musulmano allo scopo di «proteggere i più poveri dai procacciatori di conversioni»: infatti, alcuni indigenti potrebbero essere ten-tati di cambiare la propria appartenenza religiosa per otte-nere vantaggi economici. Proteggere i deboli e gli emargina-ti contro gli intrighi dei missionari che usano mazzette di banconote come argomento teologico sembrerebbe una buo-na idea: tuttavia, con il pretesto della difesa della laicità co-stituzionale, le leggi sulla libertà religiosa colpiscono soltan-to cristiani e musulmani.

La prima legge contro le conversioni è stata approvata nel 1978 nello Stato dell'Aruchanal Pradesh, dove il battesimo dei convertiti è strettamente proibito ed è considerato un cri-mine. Provvedimenti simili sono in vigore in altri Stati.

Per il BJP, che ha ispirato quelle misure, le leggi anticon-versioni rappresentano una sorta di «legittima difesa» degli indù contro le macchinazioni dei «missionari stranieri». Su questo argomento i giornalisti del BJP scrivono articoli che non sfigurerebbero affatto in qualche giornale marocchino o algerino. Vi si leggono le stesse denunce del proselitismo cri-stiano, gli stessi attacchi contro presunte denominazioni pro-testanti e gli stessi proclami deliranti riguardo a un vasto complotto planetario ordito dai cristiani per assicurarsi il do-minio del mondo.

In Africa settentrionale e in Medio Oriente il proselitismo musulmano non è condannato, al contrario del proselitismo cristiano. La stessa cosa accade in India, dove le leggi contro

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le conversioni non sono applicate nei casi in cui si verifichi-no tentativi, anche violenti, di far passare all'induismo mi-noranze cristiane.

Nel 2004, nello Stato di Orissa, un gruppo di militanti ra-dicali ha tentato di obbligare sette famiglie cristiane a rinne-gare pubblicamente la propria religione e ad abbracciare l'in-duismo. Alle donne che rifiutavano sono state rasate le teste. Sempre nel 2004, e sempre nello Stato di Orissa, il BJP ha po-tuto celebrare una cerimonia, svoltasi con tutti i crismi del-l'ufficialità, per sancire la «riconversione» all'induismo di 200 cristiani appartenenti a varie tribù aborigene della regio-ne. I «riconvertiti» sono stati sottoposti a un rituale di «puri-ficazione» in un tempio indù. L'aspetto più sconcertante è che prima della conversione al cristianesimo quelle persone non erano affatto induiste, ma praticavano l'animismo, il che non disturbava affatto il BJP, per il quale le «purificazioni» sono parte di un programma preciso, che prevede la ricon-versione all'induismo di decine di migliaia di cristiani resi-denti nello Stato.

Le varie Chiese indiane sono profondamente impegnate nel campo dell'educazione e della solidarietà sociale, e fan-no ricorso a sovvenzioni straniere per finanziare le proprie attività, che si rivolgono indistintamente agli indiani di qua-lunque confessione. Quando è stato al governo, tra il 1998 e il 2004, il BJP ha tentato di tagliare considerevolmente i fon-di destinati alle Chiese cristiane. La legge sul finanziamento delle associazioni religiose è stata resa più rigida con l'aiuto di tutti i possibili intralci burocratici, allo scopo di complica-re l'iter amministrativo delle istituzioni confessionali e di ri-tardare lo svolgimento dei programmi educativi e sociali.

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Il BJP sorveglia attentamente l'azione delle Chiese in cam-po sociale, con particolare riguardo al loro impegno nei con-fronti delle categorie più svantaggiate, come gli intoccabili e i fuori casta, la cui situazione rappresenta uno dei problemi più importanti della società indiana. Ebbene, il 65% dei cri-stiani indiani appartiene alla categoria degli intoccabili: que-ste caratteristiche contribuiscono a fare di loro dei cittadini di seconda categoria agli occhi della più stretta ortodossia indù.

Il pandit Nehru, discepolo di Gandhi e padre dell'India moderna, si è sforzato di migliorare considerevolmente la sorte degli intoccabili. La Costituzione del 1950 contiene mi-sure in loro favore: hanno diritto a una percentuale di seggi nelle assemblee locali o nazionali e a una quota di posti nel-la pubblica amministrazione. Beneficiano inoltre dell'inse-gnamento gratuito (e questo è certamente un vantaggio) e possono contrarre debiti senza sottostare a interessi.

«Siamo stati i primi a praticare la discriminazione positi-va» mi spiega un diplomatico indiano e indù, stupito del mio sconcerto di fronte al sistema delle caste. Egli sospetta che io nutra pensieri alquanto strani. Infatti, non è forse quantomeno curioso il mio interesse per gli intoccabili? Prenderne le difese e chiedere più giustizia nei loro confron-ti non equivale forse a minare le fondamenta dell'induismo e della società indiana? Ciò che per me è un'offesa alla mo-rale è per lui uno dei principi su cui si regge il mondo. In al-tre parole, il fossato che ci divide è insuperabile.

Gli intoccabili, cristiani o musulmani, subiscono discrimi-nazioni, persecuzioni e uccisioni, spesso pianificate. E dalla metà degli anni '50 che le Chiese cristiane lottano in tutte le sedi appropriate affinché sia abrogata la discriminazione le-

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gale di cui sono vittime gli intoccabili di religione cristiana o islamica. Per i responsabili delle Chiese cristiane è necessa-rio porre fine a un'ingiustizia, che ha permesso al BJP di usa-re la legge in favore degli intoccabili per tentare di converti-re numerosi cristiani svantaggiati.

In molti Stati, in effetti, il Partito nazionalista ha fatto sa-pere agli intoccabili cristiani che era sufficiente che si conver-tissero all'induismo per ottenere l'insegnamento gratuito nel-le scuole e i posti a loro riservati nell'amministrazione. I diri-genti del BJP aggiungevano: «Se la Corte suprema desse ra-gione ai cristiani, mettendoli sullo stesso piano degli intocca-bili indù, si configurerebbe una grave ingiustizia nei confron-ti degli indù, perché una sentenza in tal senso potrebbe inco-raggiare le conversioni al cristianesimo». Su questo punto i radicali non hanno tutti i torti. Se gli intoccabili indù sanno che non perderanno alcun diritto convertendosi al cristiane-simo potranno essere tentati di abbracciare quella religione per accedere ai programmi sociali delle Chiese, che spesso sopperiscono alle carenze delle amministrazioni ufficiali.

Nel timore di reazioni violente da parte degli ambienti nazionalisti indù e dopo molto tergiversare l'Alto Consiglio all'integrazione, incaricato della delicata pratica, nel 2007 ha deciso... di non cambiare alcunché.

Alle discriminazioni legali si aggiungono le violenze al-l'indirizzo dei cristiani locali: le aggressioni nei loro con-fronti sono in continuo aumento fin dai primi anni '90. Tali attacchi non sono ripartiti in modo omogeneo su tutto il ter-ritorio nazionale, ma riguardano soltanto 7 o 8 Stati, che ospitano minoranze cristiane di un certo peso. Si tratta cer-tamente di azioni perpetrate dai movimenti nazionalisti, ma le autorità locali non fanno nulla per reprimerle: l'atteggia-

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mento di poliziotti e magistrati è quanto meno passivo, se non compiacente verso gli estremisti indù.

Gli incidenti possono avere cause e risvolti di vario tipo. Per esempio, nell'agosto 1991, nello Stato di Andhra Prade-sh, sembra che un intoccabile cristiano avesse accidental-mente urtato un proprietario terriero appartenente a una ca-sta elevata. Il fatto che l'«aggressore» fosse cristiano passava in secondo piano: l'«offesa» non sarebbe stata meno grave se l'avesse commessa un intoccabile indù. Tuttavia, l'incidente degenerò rapidamente in una disputa, e la disputa sfociò in una spedizione punitiva. Gli amici della «vittima» organiz-zarono un raid tra gli intoccabili cristiani, 21 dei quali furo-no bruciati vivi o comunque assassinati.

Quando le forze dell'ordine decidono di intervenire (e an-zi, spesso proprio in seguito al loro intervento) si scatenano rappresaglie nei confronti delle comunità cristiane. Si è visto nel 1995, quando tre luoghi di culto cattolici e protestanti e una libreria cristiana sono stati distrutti nello Stato di Madhya Pradesh in seguito all'interrogatorio, da parte della polizia, di una militante nazionalista, che sarebbe stata vista sulla scena dell'omicidio di una religiosa cattolica, suor Rani Maria. Il semplice fatto che la polizia avesse voluto interro-garla ha provocato un'ondata di violenza vendicatrice.

In alcuni Stati, come il Manipur, sono presenti movimen-ti di guerriglia di ispirazione autonomista o indipendentista, che non esitano ad accanirsi contro i cristiani, sospettati di nutrire simpatie nei confronti del governo federale o di in-fluenzare le popolazioni locali dal punto di vista religioso e culturale.

In più occasioni tali bande hanno ricattato le Chiese loca-li, pretendendo la consegna di ingenti somme di denaro. Di

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fronte al rifiuto opposto dalle autorità ecclesiastiche, nume-rosi religiosi cristiani sono stati uccisi per rappresaglia nel 1990, nel 1992, nel 1997 e nel 2001, mentre altri sono stati ra-piti e successivamente rilasciati nel 1994 e nel 2000.

D'altra parte, il sospetto che i cristiani siano vicini al Par-tito del Congresso (avversario del BJP) è sufficiente per to-glier loro i diritti politici, come è successo nel 2001 in occa-sione delle locali elezioni nello Stato di Kerala, governato dal Partito comunista e nel cui distretto di Kannur i cristiani co-stituiscono l ' l l% della popolazione: in un gran numero di città, villaggi e borgate le autorità locali si sono rifiutate di distribuire i certificati elettorali ai religiosi cristiani o ai re-sponsabili laici di associazioni religiose.

Nel 2001 il numero degli incidenti anticristiani è cresciu-to. Un attentato ha colpito la cattedrale di San Francesco d'Assisi nello Stato del Bihar; alcuni religiosi sono stati as-sassinati nel Tamil Nadu e nell'Uttar Pradesh; tre sacerdoti sono stati uccisi nel Manipur.

Di fronte alla proliferazione delle violenze, l'arcivescovo di Mumbai, monsignor Ivan Dias, ha scritto una lettera mol-to dura al presidente e al primo ministro, denunciando gli attacchi ai cristiani e sottolineando come la situazione fosse nettamente peggiorata dopo l'avvento del BJP al governo. In effetti, le comunità cristiane hanno accolto con un certo sol-lievo la vittoria del Partito del Congresso alle elezioni legi-slative del 18 aprile 2004.

Il Partito del Congresso ha ottenuto una significativa vit-toria anche alle elezioni locali nell'Andhra Pradesh, dove era guidato da un medico cristiano. In uno Stato in cui i cristia-ni rappresentano soltanto il 4% della popolazione, il succes-so di quel dottore, che non nasconde il proprio retroterra re-

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ligioso, ha suscitato enorme entusiasmo. Viceversa, nel Madhya Pradesh il periodo elettorale è coinciso con lo scate-narsi di violenze contro i cristiani, istigate da numerosi mo-vimenti nazionalisti indù: secondo il cardinale Toppo, presi-dente della Conferenza episcopale indiana, esse sono state pianificate da ambienti integralisti che hanno interesse a mantenere vive le tensioni tra le comunità.

È pressoché impossibile stilare un elenco completo delle numerosissime aggressioni mortali subite dai cristiani nel 2006 e nel 2007. Secondo i dati ufficiali comunicati dalla Chiesa cattolica, in quel periodo si sono verificati oltre cento attacchi a istituzioni cristiane. A Natale del 2007 si è regi-strata un'escalation di violenza: numerosi luoghi di culto e abitazioni appartenenti a cristiani sono stati dati alle fiam-me. Il bilancio è stato particolarmente pesante: 9 persone hanno perso la vita; 600 case e 90 chiese sono state distrutte e molte migliaia di cristiani sono rimasti senza un posto do-ve dormire.

Gli attacchi hanno avuto inizio in un villaggio del distret-to di Kandhamal, dove i cristiani locali si apprestavano a ce-lebrare la Natività. Parecchie centinaia di militanti indù radi-cali si sono lanciati in una caccia all'uomo, ben presto estesa anche ai villaggi vicini, al grido di «Uccidete i cristiani!». Ban-de di aggressori armati di fucili e spade hanno assaltato, de-vastato e incendiato chiese, conventi, presbiteri, ambulatori e altri beni di proprietà dei cristiani. I fanatici indù hanno sfo-gato la propria furia distruttrice sulla locale congregazione dei Missionari della Carità di Madre Teresa, i cui membri so-no riusciti a stento a salvarsi rifugiandosi nella giungla. Il sa-natorio e la cappella sono stati devastati; le statue della Ver-gine, le croci e alcune copie della Bibbia sono state distrutte.

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Le forze dell'ordine non hanno ritenuto di intervenire immediatamente. La polizia si è mossa due settimane dopo i fatti, instaurando un coprifuoco, ma si è trattato di una mi-sura troppo tardiva per risultare in qualche modo efficace. In tre giorni e mezzo di violenze la Chiesa cattolica locale ha perso tutto ciò che aveva costruito nell'arco di un secolo.

La Conferenza episcopale indiana, riunitasi in assemblea plenaria nel febbraio seguente, ha deciso di contattare i prin-cipali partiti politici per costituire un fronte comune contro l'intolleranza e il fanatismo: l'iniziativa non ha in alcun mo-do contribuito a calmare gli estremisti indù.

Alla fine di agosto e all'inizio di settembre del 2008 nuove violenze anticristiane, esplose dopo l'assassinio di un leader indù, hanno messo a ferro e fuoco lo Stato dell'Orissa per set-timane: i morti sono stati 100. Gli estremisti non hanno ri-sparmiato nulla: 41 chiese sono state saccheggiate e date (qua-si tutte) alle fiamme; 457 case, scuole, ospizi e centri medici di proprietà di cristiani sono stati incendiati: ne sono rimasti so-lo rovine e calcinacci. Le popolazioni cristiane sono fuggite nelle foreste, dove hanno nascosto le donne e i bambini. 10.000 profughi sono stati accolti in campi allestiti dal governo per far fronte alle violenze, che la Conferenza episcopale d'India ha giudicato «senza precedenti». Si è notato che gli attacchi so-no il più delle volte pianificati da gruppi di estremisti, i quali piombano con i camion sulle loro vittime cristiane. La parola d'ordine è: «Convertitevi all'induismo, se no sarete uccisi!».

Nel suo lazzaretto di Calcutta, madre Teresa non si preoc-cupava dell'appartenenza religiosa di coloro che vi erano ospitati.

In quanto a me, ripenso alle parole pronunciate da Gandhi negli anni della mia gioventù: «Occhio per occhio, e il mondo diventa cieco».

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In occasione della visita di papa Benedetto XVI in Francia, nel settembre 2008, alcuni campioni di una malintesa laicità si sono mobilitati per protestare contro l'accoglienza trionfa-le riservata da Nicolas Sarkozy al Sommo Pontefice. Ritene-vano di dover esprimere il proprio sdegno nei confronti dei tappeti rossi che hanno accolto il papa all'aeroporto di Orly; a sentir loro sembrava quasi che la Legge del 1905 fosse sul punto di essere abrogata! L'incontro con Benedetto XVI è sta-to rinfacciato al presidente francese dalle stesse persone che qualche settimana prima avevano preteso a gran voce che ri-cevesse seduta stante il Dalai Lama, dimenticando che que-sti è un'autorità religiosa, non un capo di Stato.

Il buddhismo tibetano è una religione molto di moda og-gi in Occidente, come attestano numerose conversioni, tal-volta abbondantemente reclamizzate dai media. Tuttavia, spesso ci si dimentica che il buddhismo occidentale non coincide con quello praticato altrove e che non sempre si tratta di una religione di pace.

Alcuni paesi, nei quali è religione di Stato, discriminano pesantemente le minoranze. Lo si constata, per esempio, nel-lo Sri Lanka, devastato da una lunga guerra civile tra i tamil e i cingalesi. Fin dal XVI secolo i missionari portoghesi, per non far torto a nessuno, convertirono al cristianesimo molti membri di entrambe le etnie.

Nell'isola i cristiani sono oggi 1,3 milioni su un totale di 19 milioni di abitanti. La Costituzione approvata nel 1978 accorda al buddhismo un posto di preminenza nel paese, pur riconoscendo i diritti delle altre comunità religiose. Tuttavia, si susseguono progetti di legge che tendono a li-mitare la libertà religiosa e nella guerra civile che oppone i ribelli tamil al regime i cristiani si trovano intrappolati tra due fuochi.

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Entrambi i gruppi, tamil e cingalesi, sono diffidenti nei confronti dei cristiani, o perché appartengono all'etnia riva-le o perché sono sospettati di prendere ordini da sacerdoti stranieri. La loro situazione è particolarmente critica nel nord dello Sri Lanka, dove l'instaurazione di un rigido co-prifuoco limita considerevolmente le possibilità di sposta-mento dei preti cattolici.

I combattimenti tra le forze dell'ordine e i ribelli non ri-sparmiano i cristiani. I militari, per quanto buddhisti, non fanno distinzioni. Citerò un solo caso fra tanti: nel gennaio 2007, a Padahuthurai, l'esercito ha attaccato un campo di profughi cattolici, provocando la morte di 13 persone, tra cui 8 bambini. Si è trattato di un attacco del tutto ingiustificato, poiché in quella zona non era presente alcun ribelle.

Sia ch'egli «viaggi» nel Piccolo Veicolo o nel Grande Vei-colo, il Dalai Lama rappresenta soltanto una corrente mino-ritaria del buddhismo, né pare che i suoi discorsi su come raggiungere la totale e beatifica assenza di illusioni, sulle virtù della pace e sull'accettazione dell'altro interessino in modo particolare coloro che nello Sri Lanka hanno eretto a religione di Stato un buddhismo di tipo ben diverso.

Per gli occidentali il Bangladesh è uno dei paesi più po-veri del mondo, spesso vittima di catastrofiche inondazioni. La sua Costituzione stabilisce che l'islam è la religione di Sta-to, pur garantendo la libertà di culto alle altre comunità reli-giose, tra cui le varie denominazioni cristiane, che costitui-scono una sparuta minoranza (corrispondente allo 0,3% del-la popolazione).

Nell'ottobre del 2001 il Partito nazionalista, alleatosi con due formazioni fondamentaliste musulmane, ha vinto le ele-zioni legislative. Immediatamente, come è successo nei pae-

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si vicini, ha avuto inizio una lunga successione di violenze nei confronti dei cristiani. Le discriminazioni sociali, le mi-nacce e le aggressioni allo scopo di convincerli a convertirsi sono il pane quotidiano della piccola minoranza cristiana. Essa deve subire frequenti ondate di razzie, stupri, attentati dinamitardi contro i luoghi di culto o saccheggi di templi, chiese e conventi.

Eppure, forse, il peggio deve ancora venire. Infatti, sebbe-ne la maggioranza della popolazione del paese sia incline al-la tolleranza, nelle scuole del Bangladesh viene impartito un insegnamento conforme ai principi dell'islam più radicale; in altre parole, a medio termine si prevede che si manifesti una nuova generazione di fondamentalisti, educati ad accet-tare soltanto il proprio dogma e a rifiutare qualunque altra religione.

Oltre la cortina di bambù

In Corea del Nord, ultimo dinosauro comunista chiuso al mondo, il solo culto autorizzato è quello di Kim Il-sung, di suo figlio Kim Jong-il e del figlio di questi, Kim Jong-un, de-signato alla successione nel gennaio del 2009. Recentemente il regime di Pyongyang ha condotto un esperimento nuclea-re, dopodiché ha cominciato a contrattare con la comunità internazionale lo smantellamento del proprio arsenale ato-mico in cambio della concessione di prestiti e aiuti alimenta-ri e finanziari. Questa mossa è un sintomo della gravissima situazione economica in cui versa il paese.

La Corea del Nord è uno degli Stati più misteriosi del pia-neta, riguardo al quale nulla o quasi traspare, specialmente in materia di religione. Periodicamente, spinti dalla penuria

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e dalle persecuzioni, alcuni disperati riescono a fuggire, su-perando la «cortina di bambù» per rifugiarsi in Cina o in Co-rea del Sud. Da loro si ottengono frammenti di informazioni sulla carestia che imperversa al Nord. Si tratta di testimo-nianze in netto contrasto con le immagini diffuse dalla tele-visione del regime, che preferisce trasmettere sfilate patriot-tiche, con folle entusiaste che proclamano la propria devo-zione al «Caro Leader», com'è soprannominato il dittatore, le cui Opere Complete, summa di tutto lo scibile umano, so-no ritenute degne di sostituire qualunque libro sacro.

Per dar prova della sua tolleranza il governo dichiara che nel paese sono presenti migliaia di buddhisti e circa 15.000 cristiani. Di questi si sa poco, anche se non si igno-ra che, dall'avvento del regime comunista, nel 1953, sono spariti 300.000 cattolici. Prima dello scoppio della guerra di Corea (1950) gli ecclesiastici stranieri presenti nel Nord erano in gran parte sacerdoti inviati dalle Missioni Stra-niere di Parigi; costoro sono stati arrestati allorché sono co-minciate le ostilità. Alcuni tra essi, accusati di essere al sol-do dell'imperialismo occidentale, sono stati giustiziati; al-tri sono periti nelle carceri del Nord, e i rari sopravvissuti sono serviti agli scambi di prigionieri effettuati al termine del conflitto.

Esiste una Chiesa sudcoreana che tenta di organizzare azioni umanitarie in favore della popolazione del Nord. Da poco tempo il regime di Pyongyang ha accettato di allaccia-re questo nuovo tipo di relazioni amichevoli. L'aiuto fornito sotto forma di denaro e viveri dalle ONG, dalla Caritas e dai cattolici della Corea del Sud contribuisce alla costruzione o all'ammodernamento di ospedali nel Nord. Nonostante que-sti segni, peraltro obbligati, di apertura, nessuna istituzione

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ecclesiastica e nessun prete sono stati autorizzati a stabilirsi in Corea del Nord.

L'apertura di qualche raro luogo di culto parrebbe esse-re un sintomo di cambiamento: nel 2006, a Pyongyang è stata autorizzata la consacrazione di una chiesa ortodossa, un gesto per la verità dettato più che altro dalla volontà di rafforzare i legami con la Russia in un momento di estremo bisogno.

A quanto pare, la fame sta costringendo il lupo a uscire dal bosco di bambù.

Alla ricerca del tempo perduto

Quando ero adolescente, frugando nella biblioteca di fa-miglia avevo scoperto alcuni gioielli letterari sull'impero coloniale francese in Indocina. A bordo della nave La Jean-ne mio padre aveva fatto scalo a Cap Saint-Jacques e a Sai-gon; in seguito, aveva collezionato ogni sorta di cronache sul regno thai dell'alto Mékong e sul Tonchino. Era ritorna-to in quei luoghi negli anni '50 per combattere e aveva scrit-to i propri ricordi in un diario di bordo gelosamente conser-vato. Quell'affascinante lettura esasperò il mio desiderio di esotismo.

Molti decenni dopo, i documenti audiovisivi presentati dal grande reporter François Chalais per le trasmissioni del-l'ORTF (Office de Radiodiffusion Télévision Française) Cinq colonnes à la une2 e Panorama hanno acuito il mio interesse per l'Estremo Oriente. Ho quindi compiuto numerosi viaggi che mi hanno permesso di rendermi conto della sorte dei cristia-ni vietnamiti.

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Quelli del Nord vivevano fin dal 1954 sotto il regime co-munista; la situazione di quelli residenti nel Sud era com-pletamente cambiata dopo la riunificazione avvenuta nel 1975 e la caduta di Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh.

Durante il Secondo Impero francese, per soccorrere i mis-sionari stranieri e i cristiani locali, un corpo di spedizione franco-spagnolo risalì la foce del Mekong e costruì una piaz-zaforte a Saigon: era il preludio all'annessione della Cocincina e, successivamente, dell'Annam e del Tonchino. Immediata-mente i missionari, fino ad allora attivi nel Sud, si misero al-l'opera nel delta del Tonchino, convertendo in massa le popo-lazioni locali. Durante la guerra d'Indocina (1946-1954), le diocesi cattoliche del Tonchino hanno fornito all'esercito fran-cese e a quello vietnamita importanti contingenti di ausiliari.

Dalle trincee delle loro chiese i vescovi condussero una «guerra santa» contro Ho Chi Minh e i suoi partigiani. Nel 1954, dopo la caduta di Dien Bien Phu e la firma degli accor-di di Ginevra, con la divisione in due del paese fu chiaro che la locale Chiesa cattolica era da ritenersi la grande sconfitta. A sud del 17° parallelo Ngo Dinh Diem, il cui fratello era un cardinale in rapporti molto stretti con il Vaticano, ha gover-nato per anni ima repubblica filo-occidentale, mentre al Nord si è costituita la Repubblica democratica del Vietnam.

Dopo la partenza delle truppe francesi, decine di migliaia di cattolici del Nord si sono diretti verso sud, formando lun-ghe carovane con alla testa i loro parroci: tra la gente in fuga erano ben visibili gli stendardi delle parrocchie e le statue dei santi protettori. In Francia tutti hanno potuto vedere quelle immagini nelle «Actualités cinématographiques», il notiziario che, nei cinema, precedeva la proiezione dei film.

Durante la seconda guerra del Vietnam, che ha opposto gli americani e i loro alleati locali ai Viet Cong e al Vietnam

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del Nord, numerosi cattolici hanno servito nell'esercito sud-vietnamita: nel Sud la Chiesa cattolica ha pagato un pesante tributo all'interminabile guerra civile. Molti missionari stra-nieri e notabili cattolici sono stati uccisi. Quelli che risiede-vano ancora nel Vietnam del Sud dopo il 1975 sono stati espulsi nel giro di pochi mesi dalle autorità, che intendeva-no in tal modo indebolire la Chiesa locale e farle scontare il suo tacito sostegno al vecchio regime.

Molti ufficiali e funzionari cattolici, così come parecchi sa-cerdoti, sono stati arrestati e imprigionati senza processo in campi di rieducazione dai quali sono stati liberati soltanto verso la metà degli anni '80. Ciò spiega l'abbondanza di cat-tolici tra i boat people che hanno affrontato il Mar della Cina su fragili imbarcazioni.

Durante il mio primo soggiorno nel paese, nel 1994, i viet-namiti da me incontrati mi ripetevano continuamente un ri-tornello già sentito sotto altri cieli per nulla democratici: «Tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili». Se-condo loro il Vietnam riunificato era un paradiso per i fede-li di qualunque culto, dal buddhismo alle varie confessioni cristiane. Le prove erano lampanti: a Hanoi la cattedrale di mattoni rossi, fiore all'occhiello dell'arte coloniale, continua-va a ergersi fiera, e vi celebravano messa sacerdoti che non perdevano occasione di profondersi in elogi politicamente corretti nei confronti del regime.

Una situazione simile si notava a Ho Chi Minh, la cui cat-tedrale troneggiava in piazza della Comune di Parigi. Le mie guide insistevano molto sul fatto che la Costituzione vietna-mita assicura la libertà di culto e di coscienza.

In effetti essa è garantita, a condizione che gli interessati non ne facciano troppo uso. Nel 1998 i cattolici vietnamiti han-no potuto commemorare il bicentenario della fondazione del

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santuario mariano di La Vang. Centinaia di religiosi, ai quali erano state procurate vesti sacerdotali nuove, hanno concele-brato una messa con il legato del papa, il cardinale Paul Joseph Pham Dinh Tung. Tuttavia, nell'occasione il governo vietnami-ta ha rifiutato di concedere il visto a monsignor Roger Etche-garay. Inoltre, agli operatori turistici è stato sconsigliato di re-clamizzare il viaggio, per «motivi di sicurezza». Come se non bastasse, ai vietnamiti non appartenenti alla diocesi interessa-ta dall'evento è stato proibito di recarsi a La Vang.

La Chiesa ha fatto i propri conti e ha chinato la testa. In cambio della sua comprensione ha ottenuto importanti con-cessioni: il governo ha finalmente deciso di firmare con il Va-ticano un accordo sulle sedi episcopali vacanti, tra cui Sai-gon, Hué e Langson.

Contemporaneamente è stata autorizzata l'ordinazione di numerose decine di sacerdoti. Nel giro di qualche anno il nu-mero di religiosi maschi è cresciuto del 77% e quello delle re-ligiose è aumentato del 51%, per rispondere ai bisogni di una comunità cattolica stimata in 7 milioni di persone, pari al 10% della popolazione.

Le cifre parlano da sé: nel 2005 sono stati recensiti 3404 sa-cerdoti, 1277 seminaristi, 1573 aspiranti al seminario e 12.223 religiose per 1768 parrocchie.

Questi dati, a prima vista impressionanti, non ci dicono però che il reclutamento del clero è strettamente sorvegliato. L'esercizio del culto è regolato da norme molto severe; le au-torizzazioni a costruire nuove chiese o a rinnovare quelle esi-stenti sono concesse con il contagocce e per averle occorrono anni di attesa. Inoltre, si verificano ancora casi di confisca di beni ecclesiali.

In generale, alla Chiesa mancano gli strumenti per espri-mersi. Essa dispone soltanto di una rivista non periodica il

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cui spessore non deve oltrepassare le 50 pagine e la cui tira-tura non deve superare le 100 copie.

I sacerdoti sorvegliati speciali sono numerosi. Uno di lo-ro, padre Taddeo Nguyen Van Ly, di Hué, ha trascorso anni in prigione, dopo essere stato ripetutamente condannato per «attività antivietnamite e contatti con l'estero». Nel 2007 è stato nuovamente arrestato con l'accusa di aver condotto una campagna per la libertà religiosa.

Le confessioni protestanti di ispirazione evangelica sono le più colpite dalle numerose restrizioni alle attività religiose.

Negli anni '90, il governo ha ufficialmente riconosciuto una Chiesa evangelica vietnamita i cui membri rappresenta-no appena lo 0,6% della popolazione. Tuttavia, molti gruppi protestanti sono sorti spontaneamente nel paese, dimostran-dosi particolarmente attivi nella regione degli altipiani, dove vivono varie minoranze etniche di montagna gelose dei pro-pri sistemi di vita e da sempre in cattivi rapporti con il pote-re centrale.

La situazione si è aggravata a partire dal 2004: le autorità locali hanno tentato di impedire ai gruppi protestanti delle minoranze di montagna di farsi registrare a norma di legge. In migliaia hanno manifestato per reclamare la libertà reli-giosa e il rispetto dei loro usi: tali manifestazioni hanno pro-vocato centinaia di arresti.

I rapporti con la Chiesa cattolica hanno preso una piega nuova dopo l'incontro, avvenuto a Roma nel gennaio 2007, tra papa Benedetto XVI e il primo ministro vietnamita Nguyen Tan Dung. Per iniziativa del governo vietnamita è stato recentemente pubblicato un Libro Bianco sulla religio-ne e la politica religiosa del Vietnam, nel quale è tratteggiato

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un quadro piuttosto lusinghiero dei progressi compiuti in quel campo. L'avvicinamento tra la Santa Sede e il Vietnam rappresenta un avvenimento la cui importanza merita di es-sere sottolineata.

Tra la Chiesa cattolica e il regime comunista si registra ancora qualche frizione, specialmente sulla questione della proprietà dei terreni e degli edifici che lo Stato si rifiuta di restituire alla delegazione apostolica. Tuttavia, gli eredi di zio Hó il Luminoso sembrano oggi tranquilli e animati da buone intenzioni, come se fossero alla ricerca del tempo perduto.

Sotto il segno del Drago

Nella tradizione cristiana il drago simboleggia il serpente antico, il demonio, il male, colui che ha provocato la caduta di Adamo ed Eva. Nell'inconscio collettivo questa creatura mitica è anche associata alla Cina, che comunica un senso di potenza, timore, rifiuto... Per il regime cinese i giochi olim-pici del 2008 sono stati l'occasione di ostentare l'alto grado di sviluppo raggiunto dal paese in tutti i campi salvo quello, pudicamente ignorato, della libertà di pensiero.

Il paese della Grande Muraglia è uno degli ultimi al mon-do in cui il Partito comunista dirige la società con pugno di ferro. Il regime non tollera l'espressione di alcuna opinione divergente, sia da parte dei credenti che dei non credenti.

Ufficialmente, la Costituzione riconosce la libertà di culto e di coscienza e proibisce qualunque tipo di discriminazione basata sull'etnia o sulla religione. Ognuno è dunque libero di scegliere? La Costituzione è piena di buone intenzioni. Pec-cato, però, che il Partito comunista cinese proibisca categori-

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camente ai membri di qualsiasi Chiesa di far parte dei suoi ranghi. Questa clausola frena dunque considerevolmente l'accesso dei credenti a posti di responsabilità nei settori pubblico e privato.

Nell'estate del 2008 la maggior parte dei media interna-zionali ha affrontato il problema della libertà religiosa sol-tanto in margine alla crisi tibetana. Pochi giornali hanno sol-levato la questione delle persecuzioni di cui sono stati e con-tinuano a essere vittime i cristiani cinesi, il cui numero esat-to non è noto con precisione. Si calcola che la Cina popolare conti tra i 10 e i 12 milioni di cattolici e circa 30 milioni di protestanti, discendenti dei cinesi convertiti al cristianesimo nel XIX secolo e nella prima metà del XX. Cosa saranno mai pochi milioni di persone in un paese che ospita un miliardo e mezzo di abitanti? Ebbene, sono assai meno irrilevanti di quanto si potrebbe credere.

In Cina il cristianesimo è molto più antico dell'espansio-ne europea; all'epoca della dinastia Tàng (618-907) è già at-testata la presenza di missionari nestoriani. La più antica traccia di cristianesimo è costituita dalla famosa stele di Xf an, prova della presenza di cristiani (probabilmente giun-ti dalla Persia sulla via della seta) già nel VII secolo. Il docu-mento contiene un riassunto dei principi fondamentali del cristianesimo.

Tuttavia, per il regime al potere, la diffusione della reli-gione cristiana è semplicemente la conseguenza della pene-trazione europea nel paese a partire dal XVI secolo. Le auto-rità denunciano l'afflusso massiccio, dalla seconda metà del XIX secolo in poi, di missionari cattolici e protestanti, i quali hanno convertito migliaia di cinesi, servendosene successi-vamente come «agenti» per estendere la propria influenza. Per questi motivi il Partito comunista cinese ha sempre avu-

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to la tendenza a sospettare i cristiani locali di essere gli alleati naturali dell'imperialismo straniero.

Non stupisce dunque il fatto che la nascita della Cina po-polare sia stata accompagnata dall'arresto e dalla successiva espulsione della quasi totalità dei sacerdoti stranieri, nonché dei missionari protestanti americani.

Ai cristiani (e in particolare ai cattolici) cinesi che deside-ravano continuare a praticare la propria religione non resta-va altra scelta che allinearsi al nuovo regime, accettando che le Chiese fossero inquadrate in «Associazioni Patriottiche» che perseguivano una politica di rottura con l'estero e in par-ticolare con il Vaticano, considerato la principale forza ostile al comunismo.

Per i cattolici cinesi il momento della prova di forza è giunto nel 1951. Zhou Énlài ha annunciato la creazione di una Direzione per gli Affari Religiosi incaricata di sorvegliare le Chiese e di garantire la stretta osservanza del principio delle tre autonomie: l'autonomia finanziaria, l'autonomia politica e l'autonomia spirituale. Il movimento delle tre autonomie è scaturito dagli ambienti protestanti di Shànghài. Zhou Enlài ha dunque invitato la Chiesa cattolica a prendere esempio dai protestanti, rifiutando in primo luogo l'autorità del papa, che, in quanto rappresentante di una potenza straniera, non poteva dettare regole di comportamento ai cattolici cinesi.

Per la locale gerarchia cattolica una rottura con Roma era fuori discussione. L'irrigidimento del regime da una parte e della Chiesa dall'altra ha avuto la conseguenza di perpetua-re fino ai giorni nostri la complicata singolarità della situa-zione cinese.

All'inizio degli anni '50 il regime si è accanito quasi esclu-sivamente nei confronti dei pochi sacerdoti stranieri rimasti

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in Cina; ma nel settembre del 1955, a Shànghài, centinaia di cattolici, tra cui il vescovo cittadino, sono stati arrestati: mol-ti di loro hanno trascorso lunghi anni in carcere, in alcuni ca-si senza processo.

Di fronte al rifiuto dei cattolici cinesi di sottomettersi, nel 1957 è stato compiuto un ulteriore passo, con l'istitu-zionalizzazione dell'Associazione Cattolica Patriottica di Cina, i cui preti sono gli unici autorizzati a esercitare il sa-cerdozio. Il regime ha così creato una Chiesa «ufficiale», non riconosciuta da Roma, mentre nell'ombra si è costitui-ta una Chiesa clandestina parallela, legata alla Santa Sede e i cui vescovi sono perseguitati, arrestati e inviati nei cam-pi di rieducazione, dove spesso soccombono di fronte ai maltrattamenti.

Nel 1966 la Rivoluzione culturale ha comportato la chiu-sura dei luoghi di culto e la proibizione di celebrare qualun-que cerimonia religiosa. Fino al 1977 nessuna chiesa ha po-tuto aprire i battenti per accogliere i fedeli eccetto una, si-tuata a Pechino e destinata ai cristiani stranieri.

Nel 1978, con l'arrivo al potere di Dèng Xiàoping, lui stes-so una vittima della Rivoluzione culturale, la situazione è nettamente migliorata. Le chiese hanno ottenuto il diritto di celebrare nuovamente i propri riti e numerosi sacerdoti e ve-scovi sono stati liberati. Tuttavia, molti di loro, desiderando rimanere in comunione con Roma, hanno rifiutato di con-fluire nella Chiesa «ufficiale». Questo atteggiamento ha pro-vocato una nuova ondata di arresti (1980-82), che non ha ri-sparmiato nemmeno gli ambienti protestanti, sospettati di contatti con diplomatici americani.

Di fatto, lo scisma tra le due Chiese cattoliche si è aggra-vato e i responsabili della Chiesa ufficiale hanno ripetuta-mente rilasciato dichiarazioni durissime nei confronti dei

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correligionari clandestini, accusati persino di voler rovescia-re il governo e il regime comunista.

Il caso di monsignor Fàn Xuéyuán, vescovo della diocesi di Bàodìng, a sud di Pechino, è esemplare. Il prelato, uscito di prigione nel 1979, ha constatato che i vescovi rimasti in co-munione con Roma erano ormai per la maggior parte molto anziani; pertanto, ha preso l'iniziativa di consacrare clande-stinamente tre vescovi, incaricati di consacrarne a loro volta altri. Alla fine si è giunti alla cifra di quasi 120 vescovi clan-destini, ovvero il doppio di quelli ufficiali. Monsignor Fàn Xuéyuán ha agito in conformità agli ampi poteri concessigli da Giovanni Paolo II, il quale, tra l'altro, nel 1994 gli ha scrit-to: «Ha agito in completo accordo con la mia volontà. Le in-vio la benedizione della Santa Sede e Le concedo poteri spe-ciali che Le permetteranno di proseguire nella Sua azione».

Allo scopo di indebolire l'autorità della Chiesa ufficiale, i vescovi clandestini tendono a moltiplicare le ordinazioni di giovani sacerdoti che, impossibilitati a studiare in seminario, ricevono una formazione limitata allo stretto necessario.

A partire dall'inizio degli anni '90 il Vaticano ha conside-revolmente modificato il proprio atteggiamento nei confron-ti della Chiesa ufficiale cinese, lanciando segnali d'apertura. Numerosi seminaristi di quell'organizzazione sono stati au-torizzati a proseguire i propri studi presso seminari francesi, canadesi e americani. Inoltre, nello stesso periodo Roma ha cominciato a perseguire una politica assai abile, riconoscen-do segretamente i vescovi ufficiali che ne facevano richiesta: ha beneficiato di questa misura il 90% dei vescovi cosiddetti «patriottici».

Per lunghi anni Giovanni Paolo II ha accarezzato l'idea di compiere un viaggio in Cina e di proclamare pubblicamente

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la reintegrazione della Chiesa cattolica cinese nella comu-nione con Roma. A questo proposito, negli anni '90 si sono svolti negoziati, che però non hanno avuto successo, a causa dell'irrigidimento delle autorità cinesi, poco inclini a tollera-re le pretese di indipendenza della Santa Sede.

Una delle cause della rottura è stata la nomina, da parte del regime, di sei vescovi «ufficiali» (2000), un gesto consi-derato «non amichevole» dal Vaticano. Quest'ultimo, per parte sua, ha scontentato Pechino beatificando (il 1° ottobre 2000, giorno della festa nazionale cinese) 120 martiri cinesi e stranieri morti per la loro fede in Cina.

La disputa si è riaccesa in occasione delle manifestazioni organizzate a Roma per celebrare il 400° anniversario del-l'arrivo del gesuita Matteo Ricci a Pechino. Giovanni Paolo II aveva fatto molta attenzione a non urtare la suscettibilità delle autorità cinesi, lanciando un appello al dialogo con Pe-chino. Aveva infatti dichiarato: «La normalizzazione delle relazioni tra la Repubblica popolare di Cina e la Santa Sede avrebbe senza dubbio ripercussioni benefiche sul cammino dell'umanità».

Il Sommo Pontefice ha addirittura chiesto pubblicamente perdono per gli errori commessi dalla Chiesa cattolica nei suoi rapporti con la Cina.

Le parole di Giovanni Paolo II hanno suscitato sorpresa persino nella Chiesa ufficiale, che è stata «autorizzata» ad approvare il coraggioso gesto del papa. In compenso, il go-verno cinese si è mostrato piuttosto tiepido, indicando nella rottura delle relazioni tra il Vaticano e Taiwan la conditio sine qua non per l'instaurazione di un vero dialogo.

L'elezione di Benedetto XVI ha innegabilmente cambiato la situazione, alla luce della strategia originale che il nuovo

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pontefice ha scelto di porre in atto e che ha preso del tutto al-la sprovvista le autorità cinesi, abituate a un confronto diret-to con il Vaticano.

Benedetto XVI ha infatti privilegiato la politica dell'«ag-giramento dell'ostacolo», partendo da una semplice consta-tazione: in Cina non esistono una Chiesa ufficiale e una Chiesa clandestina; esiste invece una sola Chiesa cattolica ci-nese. Il papa ha, insomma, abbandonato le distinzioni tra prelati clandestini e ufficiali. Ciò spiega la sua decisione di invitare al Sinodo, riunito a Roma nell'ottobre del 2005, quat-tro vescovi cinesi: due rappresentanti della Chiesa ufficiale e due della Chiesa clandestina.

Ai prelati in questione non è stato rilasciato il passaporto per recarsi a Roma, ma tutti si sono detti contenti per essere stati invitati e hanno confermato, tra l'altro, di essere in pie-na comunione con Roma. I due vescovi ufficiali avevano in precedenza sollecitato segretamente il proprio riconosci-mento da parte del Vaticano. Ormai la politica della Santa Sede consiste nel dare la propria benedizione ai vescovi elet-ti dai membri della Chiesa ufficiale, che, a sua volta, designa candidati dei quali è nota l'intenzione di essere riconosciuti dal Vaticano.

Non stupisce quindi l'enorme risonanza ottenuta dalla Lettera ai cattolici cinesi resa pubblica da Benedetto XVI il 30 giugno 2007; nel documento, il pontefice fa appello ai fedeli affinché «superino le barriere» (Prima parte, par. 6) e operi-no in favore dell'evangelizzazione della Cina; il papa li invi-ta altresì «a essere buoni cittadini, collaboratori rispettosi e attivi del bene comune nel loro paese» (Prima parte, par. 5).

Le autorità cinesi hanno notato che il testo non contiene parole di condanna nei confronti del regime ed evita di defi-nire scismatica la Chiesa ufficiale. Questo significativo cam-

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bio di rotta si è tradotto in una netta diminuzione, se non ad-dirittura nella cessazione, degli arresti di membri della Chie-sa clandestina.

La Chiesa di Cina, dunque, non è più costretta a nascon-dersi nelle catacombe, come dimostra ampiamente l'aumen-to della frequentazione dei luoghi di culto nelle diocesi il cui vescovo ha sollecitato il riconoscimento della Santa Sede. La situazione odierna è la prova di quanta strada sia stata per-corsa dalle terribili prove sopportate prima e durante la Ri-voluzione culturale.

Nel paese della convivenza armoniosa

Il movimento dei paesi non allineati, il copricapo del pan-dit Nehru, il sorriso enigmatico di Zhou Enlài, il sogghigno di Nasser... La Conferenza di Bandung del 1955 sembra ap-partenere alla preistoria dell'Indonesia. Eppure, in occasione di quell'incontro il Terzo Mondo si è costituito in vera po-tenza politica, contestando la supremazia in declino dell'Oc-cidente.

Nel 2008 mi sono recato a Bandung per partecipare a un colloquio interreligioso al quale ero stato invitato, e mi sono reso conto di quanto poco gli indonesiani serbassero memo-ria di quella speranza che un tempo aveva agitato il mondo. Oggi ci si attacca soltanto a valori sicuri come la religione, un argomento sul quale non si scherza.

L'Indonesia, terra lontana e misteriosa, poco nota in Eu-ropa (salvo nei Paesi Bassi, di cui fu colonia fino alla se-conda guerra mondiale), è un paese di 221 milioni di abi-tanti, in gran parte musulmani. Secondo la Costituzione, lo Stato si fonda sulla fede in Dio, nel Dio di una delle reli-

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gioni o dottrine ufficialmente riconosciute: l'islam, il catto-licesimo, il protestantesimo, l'induismo, il buddhismo e il confucianesimo.

Ogni cittadino indonesiano deve obbligatoriamente di-chiarare la sua appartenenza a una di queste confessioni, che è indicata sulla carta di identità. Definirsi atei o agnostici non si può: si tratta di categorie non previste nei documenti am-ministrativi. Nella compilazione dei moduli i cittadini sono invitati a tirare una riga sulle categorie a cui non apparten-gono, non a inventarne di nuove. L'unica eccezione riguarda alcune tribù animiste stanziate nelle foreste della Nuova Gui-nea occidentale, le quali hanno conservato i propri culti an-cestrali. Tuttavia sono talmente poco numerose, e il governo centrale è così lontano da loro, che l'animismo ha diritto di sopravvivere, a patto, beninteso, di non uscire dalla giungla!

La Costituzione indonesiana si fonda sul pancasila, che riunisce cinque principi: la fede in Dio, il nazionalismo, la giustizia sociale, un governo rappresentativo della maggio-ranza della popolazione e l'umanesimo.

In un primo momento le Chiese hanno accolto favore-volmente il pancasila e la Costituzione, che riconosce la li-bertà di culto e, almeno in teoria, il diritto per ogni cittadi-no di cambiare religione. In pratica, in realtà, tale diritto è garantito a senso unico e concerne esclusivamente le con-versioni all'islam. Nulla proibisce formalmente di uscire dalla fede musulmana per abbracciare un'altra religione, ma soltanto un temerario lo farebbe apertamente; inoltre, ciò è abbastanza contrario alla mentalità degli indonesiani, soprattutto se musulmani.

L'islam praticato in Indonesia è curioso, ricco, complesso e diverso da quello del Medio Oriente o del Maghreb. Si può

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a buon diritto parlare di un islam indonesiano: è vero che i fedeli recitano le preghiere e i versetti del Corano in arabo, ma si tratta di una lingua che capiscono poco, un po' come accadeva ai cattolici praticanti europei del XX secolo con il latino. Il Vicino Oriente è lontano, molto lontano, sia dal punto di vista filosofico che geografico. A volte è difficile di-stinguere una moschea da una pagoda, tale è la somiglianza degli stili architettonici. La Mecca è molto più vicina a Pari-gi che a Giacarta. Quanto a me, portai un tocco di esotismo occidentale all'incontro al quale ero stato invitato su iniziati-va di ambienti (assai minoritari in Indonesia) aperti al dialo-go interreligioso e nel quale parlai di Abramo, padre simbo-lico dei tre monoteismi.

In materia di tolleranza religiosa l'Indonesia ha ancora molta strada da percorrere, malgrado le dichiarazioni uffi-ciali che esaltano l'armoniosa convivenza tra le diverse fedi presenti nel paese. Ho avuto la possibilità di allargare l'oriz-zonte delle mie ricerche e di parlare con un certo numero di cristiani locali, tra cui alcuni anziani sacerdoti portoghesi, re-liquie di un lontano passato coloniale; ho incontrato membri di ONG internazionali e anche musulmani indonesiani sen-za peli sulla lingua.

Il quadro della situazione mi è apparso in tutte le sue sfu-mature: può accadere che la tolleranza religiosa sia svuotata del proprio significato. Un decreto risalente al 1969 stabilisce che la costruzione di un edificio di culto destinato ai membri di una religione minoritaria debba ottenere la previa auto-rizzazione della comunità religiosa localmente maggiorita-ria. Se in un villaggio i cattolici sono una minoranza ma vo-gliono costruire una chiesa devono chiedere il permesso agli ulema locali, dai quali in molti casi ricevono un netto rifiuto.

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Vi sono comunità che tentano di aggirare l'ostacolo cele-brando messa negli edifici scolastici, che non sono sottoposti alle stesse regole, ma si tratta di un'iniziativa che può com-portare pesanti conseguenze.

Per esempio, a Sang Hmur, a 40 chilometri da Giacarta, gli ingressi alla locale scuola cattolica sono stati improvvisamente bloccati da un muro alto 2 metri e lungo 7, innalzato dagli in-tegralisti islamici per impedire ai cattolici di penetrare nell'e-dificio e di celebrarvi la messa. In questa località vivono 9000 cattolici, che non hanno mai potuto costruire una cappella.

I cristiani non dispongono di chiese a causa dell'opposi-zione degli ulema? Poco importa! Nella sua infinita bontà la Muhammadiyah, la principale organizzazione musulmana del paese, è disposta a mettere a loro disposizione luoghi di culto nei propri edifici, dove i cristiani possono, in via ecce-zionale, celebrare il Natale, sotto la sorveglianza di militanti poco aperti al dialogo. Naturalmente, non mancano le anime candide pronte ad andare in brodo di giuggiole di fronte a un così bel gesto di tolleranza.

In materia di legge, i fondamentalisti ritengono che l'uni-ca strada percorribile sia l'applicazione della sharia in tutto il paese. Già ora, in decine di città, per i musulmani essa è di fatto l'unica legge riconosciuta, ma la sua applicazione con-diziona anche la vita quotidiana di alcuni cristiani, come possono testimoniare le donne della provincia di Aceh, co-strette a girare in pubblico con una croce al collo per poter dimostrare di essere dispensate dall'obbligo di indossare il velo islamico. Anche così rischiano comunque di essere mo-lestate verbalmente o aggredite.

L'Indonesia attraversa un periodo di forte turbolenza po-litica, resa più grave dalla presenza di numerosi movimenti

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autonomisti o indipendentisti, alcuni dei quali associano al-le proprie rivendicazioni nazionali il fondamentalismo mu-sulmano, insistendo sull'esigenza di instaurare ufficialmen-te la shari'a nel paese.

In alcune isole le tensioni sfociano in scontri più o meno violenti tra cristiani e musulmani. È questo il caso delle Mo-lucche, dove la storia ha una parte di responsabilità. Infatti, tra il 1945 e il 1949, per combattere il nazionalismo indone-siano, gli olandesi si erano appoggiati alla popolazione mo-lucchese cristiana, i cui giovani vennero arruolati nell'eserci-to dei Paesi Bassi come ausiliari (un caso simile a quello de-gli harki, i musulmani algerini che servirono nell'esercito francese).

Sotto il regime di Sukarno (1950-1967) è stata attuata una politica di massiccio stanziamento nelle Molucche di immi-grati musulmani, allo scopo di ribaltare la bilancia demogra-fica. Nell'arcipelago i cristiani sono ormai ampiamente mi-noritari. Alla caduta di Sukarno le Molucche sono precipita-te in un periodo di anarchia, facilitando l'azione dei movi-menti fondamentalisti, che si sono scagliati contro i cristiani, specialmente nella regione di Ambòina, dove parecchi vil-laggi sono stati attaccati con mitragliatrici pesanti. Oltre a numerose vittime, si è altresì registrato l'incendio di abita-zioni e chiese; episodi simili sono avvenuti anche nell'isola di Sulawesi e nella regione di Poso.

Nelle Molucche tre anni di furiosi combattimenti hanno provocato 13.000 morti e 500.000 profughi. I cristiani hanno infine creato una propria milizia, i Laskar Kristus, i combat-tenti di Cristo, in opposizione ai Laskar Jihad.

In Indonesia, come in molti altri paesi, gli interventi occi-dentali in Afghanistan e in Iraq hanno esacerbato i senti-

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menti antiamericani e antioccidentali. I primi a farne le spe-se sono stati i turisti, anche quelli di passaggio a Bali, meta turistica per eccellenza, dove il 12 ottobre 2002 un attentato mortale ha causato 192 vittime, in gran parte australiane. L'Indonesia, ancora in lutto per il terribile tsunami che l'ha colpita nel dicembre del 2004, ha tentato di ricomporre la propria immagine e di affrontare i molteplici problemi so-ciali ed economici che l'affliggono. Il paese, in effetti, ha un tasso di disoccupazione pari al 40% e conta 30 milioni di in-digenti. I cristiani sono tutt'altro che risparmiati dalla man-canza di lavoro: molti di coloro che operavano nel campo del turismo hanno perso il proprio impiego dopo l'attentato a Bali.

Dopo quel fatto le Chiese si sono mobilitate soprattutto per tentare di porre un freno all'adozione di leggi che rico-noscono nella sharT'a l'unica fonte del diritto: in venticinque distretti e comuni, in ogni caso, essa era già in vigore.

I provvedimenti locali hanno spesso avuto conseguenze gravi per i cristiani. A Padang, nell'ovest di Sumatra, il sin-daco ha reso obbligatorio il velo per tutte le ragazze non mu-sulmane che frequentano le superiori. L'ordinanza riguarda gli istituti pubblici e non quelli confessionali. Tuttavia, le gio-vani cristiane che frequentano scuole pubbliche hanno do-vuto adottare la stessa tenuta delle loro compagne musul-mane. Nonostante l'abbigliamento, però, le studentesse cri-stiane corrono comunque il rischio di essere aggredite per non aver rispettato l'islam.

Attentati con bombe o attacchi in piena regola, assalti e saccheggi dei luoghi di culto, chiese o templi, omicidi di pastori... I Cristiani indonesiani sono sottoposti a continue aggressioni, represse in modo del tutto inadeguato dalle autorità.

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La comunità cristiana ha sofferto anche a causa del mo-do in cui sono stati applicati gli accordi di pace siglati per porre fine ai conflitti nelle Molucche e a Sulawesi. Sono sta-te commesse violenze da entrambe le parti; ogni fazione aveva i suoi estremisti, che si sono macchiati di gravi crimi-ni. Nell'ottobre del 2005, a Poso, tre liceali cristiane sono sta-te decapitate a colpi d'accetta «per vendicare i musulmani uccisi a Sulawesi», come hanno dichiarato i responsabili del massacro.

La differenza di trattamento tra cristiani e musulmani si misura altresì dallo zelo di cui dà prova la giustizia indone-siana quando si tratta di punire i cristiani accusati di omici-dio. Nel 2007 tre cattolici di Sulawesi sono stati giustiziati per crimini che avrebbero commesso nel periodo in cui face-vano parte di una milizia. Secondo Amnesty International il processo a cui sono stati sottoposti non ha permesso di sta-bilire con chiarezza il loro grado di responsabilità nelle azio-ni delle quali erano accusati. Nonostante gli appelli alla cle-menza lanciati da papa Benedetto XVI, da un ex presidente indonesiano e da numerose personalità musulmane, i tre so-spetti sono stati condannati e giustiziati. Il governo centrale non ha ritenuto di sospendere le esecuzioni, reclamate dai musulmani di Sulawesi, che minacciavano di riprendere la lotta armata.

I condannati sono stati sacrificati per preservare la pace civile.

' Cfr. «Le Devoir», Montreal, 24 marzo 2008. 2 «Prima pagina a cinque colonne», celebre programma di reportage e ap-profondimenti trasmesso dal mese gennaio del 1959 al mese di dicembre del 1968 [N.d.T.].

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I dimenticati

Non si può affrontare la questione delle guerre di religio-ne in Africa senza parlare delle tragedie, degli esodi, dei ge-nocidi che hanno funestato e funestano quel continente. Il conflitto in corso in Darfur è di matrice tutt'altro che religio-sa: si tratta di una guerra civile, con i suoi 3 milioni di pro-fughi che tentano di trovare scampo in Ciad, le sue 300.000 vittime (uomini e donne) e i suoi bambini costretti fin dalla nascita a convivere con la violenza.

In questo caso vittime e carnefici sono tutti musulmani. Le vittime hanno il torto di avere la pelle nera, i macellai

si dichiarano arabi, che per loro significa fondamentalisti. Al di là dei pregiudizi razziali, in origine il conflitto opponeva allevatori nomadi a contadini sedentari. In seguito, si sono attivati alcuni complicati meccanismi che hanno prodotto massacri di grandi proporzioni. Negli Stati Uniti e in Europa c'è stata una certa mobilitazione a favore delle vittime: essa rappresenta un fatto particolarmente notevole, dal momento che contrasta con il pluridecertnale silenzio della comunità internazionale a proposito di altri drammi.

Chi si preoccupa delle campagne di sterminio subite dal-le popolazioni cristiane e animiste del Sudan meridionale fin dall'indipendenza del paese, proclamata nel 1956?

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Eppure, la guerra condotta dal regime di Khartum contro il Sud è stata infinitamente più sanguinosa delle operazioni nel Darfur e ha causato centinaia di migliaia di morti, senza contare la massa di mendicanti e indigenti onnipresenti nel-la regione: molti di loro sono stati destinati in campi o nelle sovraffollate baraccopoli situate alla periferia di Khartum, dove vivono sotto lo stretto controllo della polizia; altri sono invece riusciti a fuggire a piedi oltre frontiera, per trovare scampo nei paesi vicini, come la Repubblica Centrafricana, che a sua volta è precipitata in una guerra civile.

Alcuni gruppi hanno trovato asilo nel nord del Kenya, dove le autorità erano soltanto preoccupate di non rovinare il divertimento agli amanti dei safari. Insomma, la realtà non aveva nulla a che vedere con le immagini del film di Sydney Pollack La mia Africa, che mette in scena un'Africa opulenta e attraente.

La tragedia degli animisti e dei cristiani del Sudan meri-dionale non era alla moda. L'Occidente non voleva sentir parlare di quei paria, sforzandosi di espiare il proprio passa-to coloniale. Gli amministratori britannici, nella prima metà del XX secolo, tentarono di separare il Nord dal Sud. Fin dal-l'inizio degli anni '20 i missionari cristiani ricevettero tutto l'aiuto possibile per evangelizzare le regioni meridionali del paese, e la loro impresa fu coronata da un notevole successo.

Per quelle popolazioni la presenza britannica rappresen-tava una protezione contro i raid degli schiavisti del Nord; ma nel 1956 la Gran Bretagna si ritirò, abbandonando al loro destino gli abitanti del Sud.

Dopo la presa del potere da parte dei militari (1958) il re-gime di Khartum cominciò a espellere le missioni cristiane delle regioni meridionali, provocando, nel 1964, una ripresa della ribellione del Sud.

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L'adozione della sharT'a (1983) e i successivi golpe non hanno modificato lo stato di guerra civile permanente. Gli abitanti del Sud hanno dovuto scegliere tra il massacro e l'esilio.

Dopo ben quarant'anni di conflitti armati costellati di atrocità si è constatato un miglioramento della situazione. Curiosamente, la salvezza per i cristiani sudanesi è arrivata dai cinesi, i quali avevano un gran bisogno di petrolio per poter alimentare la propria vertiginosa crescita economica. Nel Sudan meridionale sono stati scoperti nuovi e ricchi gia-cimenti, il cui sfruttamento non sarebbe stato possibile sen-za aver prima stabilizzato la situazione nella regione. Perciò, la Cina, che fino a quel momento era stata il principale for-nitore di armi del regime di Khartum, è stata spinta dai pro-pri interessi a far pressione su quest'ultimo, incitandolo a in-tavolare trattative con i ribelli del Sud per trovare una solu-zione amichevole.

Si è così giunti alla firma degli accordi di Nairobi (gennaio 2005), che hanno messo fine a una guerra civile costata 1,5 milioni di morti e 4 milioni di profughi. Il trattato stabilisce che la sharT'a dovrà restare in vigore soltanto nelle regioni set-tentrionali del paese, e che entro il 2010 avrà luogo un refe-rendum sull'autodeterminazione del Sudan meridionale.

Ci sono voluti dodici anni perché le parole pronunciate da Giovanni Paolo II il 3 febbraio 1993, in occasione della sua visita a Khartum, fossero messe in pratica: «Nessun gruppo dovrebbe considerarsi superiore a un altro».

La pace in Sudan non deve far dimenticare la situazione degli altri cristiani dell'area.

L'Etiopia è un paese simbolo della presenza cristiana in Africa. Dal 2006, la regione al confine con il Sudan è teatro

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di numerose violenze all'indirizzo dei cristiani locali. Nel mese di gennaio del 2008, nel sud del paese, un convertito dall'islam al cristianesimo è stato crocifisso dai suoi ex cor-religionari.

In Eritrea (stato indipendente dal 1993), il regime ha in-trapreso la sistematica persecuzione delle Chiese evangeli-che non autorizzate e ha tentato di assumere il controllo del-la Chiesa copta.

In Nigeria, nel 2006, gruppi di integralisti musulmani hanno sfogato le proprie frustrazioni e il proprio odio contro le popolazioni cristiane. Essi intendevano vendicare la «be-stemmia» delle vignette sul profeta Maometto. In seguito, nel 2008, sono scoppiate nuove sommosse anticristiane. De-lusi dall'esito delle elezioni regionali, che li aveva visti per-denti, alcuni membri di un partito ispirato al fondamentali-smo musulmano hanno attaccato i rappresentanti del parti-to a maggioranza cristiana, uccidendone centinaia.

Nel caso del Ruanda, più che di violenze anticristiane si deve parlare di aggressioni etniche. In quel paese si sono manifestati ancora una volta gli effetti perversi del coloniali-smo, causa prima del genocidio scatenato dagli hutu nel 1994. Negli anni '70 e '80 Kigali, la capitale, era soprannomi-nata «la Città Santa». In effetti aveva la fama di essere un modello di cristiana austerità, specialmente per quanto ri-guardava la vita notturna. Quando in città è stata aperta la prima discoteca, verso la metà degli anni '80, il capo dello Stato, Juvénal Habyarimana, ha sentito l'obbligo di trascor-rervi una serata, saggiamente in compagnia della famiglia. Così facendo voleva dimostrare ai suoi concittadini che av-venturandosi sulla pista da ballo non avrebbero rischiato le fiamme dell'inferno.

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Il Ruanda, all'epoca, era una sorta di gigantesca parroc-chia nella quale la Chiesa regolava la vita quotidiana. Fin dai primi anni '20, i Padri Bianchi e i missionari avevano evan-gelizzato il paese sotto lo sguardo attento degli amministra-tori belgi, i quali erano animati da una visione etnica della vita politica: furono loro a introdurre nel paese il veleno del-l'etnismo.

In un primo tempo i religiosi belgi si convinsero che i tut-si, in virtù dell'alta statura e delle loro origini mediorientali, fossero «superiori da un punto di vista razziale» alle popo-lazioni bantu (gli hutu) o pigmee (i batwa). La Chiesa co-minciò dunque a evangelizzare l'aristocrazia tutsi, mentre i responsabili belgi, praticando la cosiddetta «discriminazione positiva», assegnavano a quell'etnia i posti migliori nella pubblica amministrazione.

Tale favoritismo si dimostrò un boomerang per i coloniz-zatori: appena furono emancipati i tutsi pretesero l'indipen-denza per il paese.

I belgi capovolsero allora le alleanze, questa volta a favo-re degli hutu, superiori in numero e ormai anch'essi cristia-ni, i quali hanno finito col prendere il potere; ne è seguito un conflitto etnico destinato a sfociare in veri e propri pogrom.

Nel 1994 l'uomo forte del paese, il generale hutu Habya-rimana, ha trovato la morte in un attentato che ha distrutto l'aereo su cui viaggiava. A quel punto è esploso il massacro generalizzato dei tutsi, 800.000 dei quali sono stati trucidati, per lo più all'interno delle chiese dove si erano rifugiati.

In questo caso, boia e vittime erano cristiani.

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Barlumi di speranza

Malgrado il tetro bilancio che emerge da questo libro, ne-gli ultimi anni sono apparsi alcuni timidi segnali d'incorag-giamento.

In America latina l'impegno del clero cattolico in favore della giustizia sociale e della democrazia occupa le cronache più sovente delle persecuzioni subite da suoi membri.

A Cuba i vecchi rancori risalenti agli anni '60 sono oggi dimenticati. I rapporti tra il regime e la Chiesa sono notevol-mente migliorati, come dimostrano la visita effettuata da Giovanni Paolo II nel gennaio 1998 e le parole d'amicizia in-dirizzate da Fidel Castro a Benedetto XVI in occasione della sua elezione a papa.

In Bolivia e in Venezuela la situazione è tranquilla, anche se i rapporti tra le Chiese e i regimi al potere sono a volte te-si, e si assiste a qualche braccio di ferro in nome della laicità o del socialismo.

Sebbene in passato la Chiesa cattolica si sia dimostrata piuttosto compiacente con le giunte militari, specialmente in Cile e in Argentina, molti suoi sacerdoti si sono impegnati nella lotta rivoluzionaria «per promuovere la giustizia». Pro-prio a causa di questa militanza, tra il 1973 e il 1996, 39 ge-

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suiti sono morti in America centrale, dove numerosi preti so-no stati colpiti dagli «squadroni della morte» organizzati dai locali ambienti di estrema destra. I casi più noti sono l'assas-sinio, avvenuto nel 1980, di Óscar Arnulfo Romero, arcive-scovo di San Salvador, e quello di un certo numero di gesui-ti dell'università interamericana nel 1989.

In America latina la Chiesa cattolica sta sperimentando uno straordinario sviluppo, anche se deve affrontare la forte concorrenza delle sette evangeliche americane in rapida cre-scita, specialmente in Brasile e in America centrale.

In Medio Oriente, in particolare in Giordania e nella pe-nisola arabica sono nate, in questi ultimi anni, iniziative che possono essere definite storiche, ma che non hanno attirato l'interesse dei grandi media occidentali.

All'indomani delle frasi sull'islam pronunciate da papa Benedetto XVI durante il discorso di Ratisbona (12 settembre 2006), alcuni intellettuali musulmani hanno preso l'iniziati-va di pubblicare un testo dal titolo Una parola comune, per confutare coloro che denigrano l'islam dipingendolo come una religione violenta e irrazionale e per invitare altresì al ri-spetto dei cristiani che vivono nei paesi musulmani.

Questo gruppo di dotti, che all'inizio si occupava del dia-logo tra l'islam e il cattolicesimo, ha allargato la sfera delle sue attività ai rapporti con il mondo protestante e ha parte-cipato, nel novembre 2008, a un incontro di dialogo tra cri-stiani e musulmani svoltosi in Vaticano.

Anche l'Arabia Saudita, che finora si era attenuta ai prin-cipi dell'isiàm più rigido, si mostra ormai sensibile alla ne-cessità della discussione interreligiosa. A questo riguardo as-

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sume un'importanza notevole la conferenza, tenutasi sotto l'egida dell'ONU a New York nei primi giorni di novembre del 2008, alla quale hanno partecipato rappresentanti delle tre grandi religioni monoteiste.

La situazione dei cristiani nella penisola arabica è sensi-bilmente migliorata, eccetto in Yemen. In Arabia Saudita l'u-nica religione ammessa è l'islam. In quel paese, per il mo-mento, la celebrazione di qualunque altro culto rimane proi-bita. Tuttavia, altrove è tutto un fiorire di colloqui interreli-giosi, di riflessioni sulla costruzione di chiese e di edifici cul-tuali destinati alle minoranze cristiane composte per la qua-si totalità da immigrati giunti dall'India e dalle Filippine. Una chiesa dedicata alla Vergine Maria, Nostra Signora del Rosario, è stata inaugurata nel marzo 2008 in Qatar. La co-stituzione dell'emirato proibisce l'edificazione di qualunque luogo di culto non musulmano; tuttavia, l'ex preside della facoltà di diritto islamico dell'Università del Qatar, 'Abd al-Hamld al-Ansarl, ha dichiarato che «il possesso di un luogo di culto è un diritto fondamentale, riconosciuto come tale dall'islam». È stata posta un'unica condizione, puntualmen-te rispettata: all'esterno dell'edificio non dovevano essere vi-sibili campane o croci.

L'emiro del Qatar, Hamad Bin Khalifa al-Tanl organizza ormai da parecchi anni nella capitale Doha incontri annuali tra studiosi ebrei, cristiani e musulmani; nel 2007, ho avuto l'onore di essere invitato a uno di questi meeting, insieme a vescovi, pastori protestanti, rabbini e imam giunti da tutto il mondo, compreso Israele.

Anche in Bahrein il sultano Hamad Ben 'Isa al-Khalrfa si è mostrato assai ben disposto nei confronti dei cristiani. Nel 1939, il suo bisnonno era stato il primo ad autorizzare la co-struzione di una chiesa nei paesi del Golfo. Essa era diven-

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tata troppo angusta per la popolazione cristiana; pertanto, si è deciso di costruire un nuovo edificio.

Il sultano dell'Oman, Qabus Ibn Sa'ld al-Sa'ld, da parte sua, ha offerto terreni per la costruzione di chiese destinate ai cattolici che vivono nel suo paese e ha dichiarato: «Hanno contribuito allo sviluppo dell'Oman e dobbiamo essere loro riconoscenti».

Questi segnali di apertura vanno ad aggiungersi ai nu-merosi colloqui interreligiosi ai massimi livelli che hanno avuto luogo nell'ultimo decennio.

Nel 1999 l'attuale sovrano saudita, 'Abdallah, si è recato in visita in Vaticano. All'epoca era ancora l'erede del suo fra-tellastro, re Fahd. Poi, nel 2000, papa Giovanni Paolo II ha compiuto il proprio pellegrinaggio giubilare in Terra Santa (facendo tappa in Giordania), sulle tracce di Mosè.

Nel settembre del 2005 re 'Abdallah II di Giordania è sta-to ricevuto in udienza privata in Vaticano insieme alla regi-na Rania, sua giovane sposa.

Successivamente, il 6 novembre 2007, il monarca saudita, l'emiro 'Abdallah, si è recato in Vaticano su invito di Bene-detto XVI. L'Arabia Saudita e la Santa Sede non hanno anco-ra stabilito relazioni diplomatiche con relativo scambio di ambasciatori; tuttavia, le voci più accreditate lasciano inten-dere che esisterebbe un progetto per costruire una chiesa a Riyad.

Tali incontri dimostrano che le guerre di religione non so-no inevitabili e che, sebbene sia spesso calpestato, il princi-pio della libertà religiosa comincia a farsi strada. È necessa-rio, a questo proposito, rinunciare al silenzio e sensibilizzare i governanti di tutti i paesi.

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I dirigenti di numerosi Stati cominciano a prendere co-scienza del fatto che, a prescindere dalla diversità etnica e culturale, la scelta della religione è uno dei diritti più intimi ed elementari di ogni essere umano.

Rispettare questa scelta significa operare per il futuro del-la civiltà e per la pace.

Questi incontri con la storia sono portatori di speranza. L'iniziativa organizzata nel febbraio 2008, «Pasqua con i cri-stiani dell'Iraq» e le sue appendici, vanno nella stessa dire-zione. Il comitato che patrocina l'evento e i membri della de-legazione guidata da monsignor Marc Stenger, vescovo di Troyes e presidente di Pax Christi France, si sono uniti per formare un comitato (Reseau pour le Pluralisme des Cultures et des Religions - Rete per il pluralismo delle culture e delle religioni), allo scopo di allargare il proprio raggio d'azione, impegnandosi in Medio ed Estremo Oriente per il pluralismo delle culture e delle religioni, anche se al centro delle loro preoccupazioni rimane la situazione dei cristiani iracheni.

II comitato ha lanciato un Appello ai cristiani, ai musulma-ni, agli ebrei e agli agnostici desiderosi di fare della libertà di coscienza e di religione il fondamento di un mondo pacifico e solidale. Si tratta di un appello al quale io aderisco piena-mente e che dà un senso al presente volume.

APPELLO

alla solidarietà con le minoranze religiose perseguitate

Nel mondo di oggi e in particolare nel Vicino e Medio Oriente le religioni minoritarie rischiano l'estinzione. In Li-

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bano i cristiani di tutte le confessioni stanno fuggendo in massa da un paese martoriato dagli attentati e da una per-manente insicurezza. In Egitto i copti subiscono discrimina-zioni, minacce e aggressioni collettive. In Iran i seguaci della fede bahà'i sono perseguitati, imprigionati e assassinati. In Palestina gli arabi cristiani, che pure costituiscono parte in-tegrante del popolo palestinese, sono oggi vittime dell'ostra-cismo e delle minacce dei fondamentalisti. Più vicino a noi, in Algeria, i cristiani sono costretti a subire discriminazioni inaccettabili. La situazione più drammatica è quella dell'I-raq, dove i cristiani sono vittime di estorsioni, rapimenti, tor-ture e omicidi. Le chiese sono incendiate; molti sacerdoti, e recentemente persino il vescovo caldeo di Mossul, monsi-gnor Paulos Faraj Rahho, sono stati assassinati. La comunità cristiana, che prima della guerra era costituita da oltre un milione di persone, è ridotta a meno della metà.

Queste minoranze religiose non sono delle intruse né nel Vicino né nel Medio Oriente. La maggior parte di loro è pre-sente in quei luoghi da 2000 anni. Sono a casa propria, ep-pure viene loro contestato il diritto di rimanerci.

Cristiani, musulmani, ebrei o agnostici, non possiamo re-stare insensibili alle sofferenze di intere popolazioni perse-guitate per le loro credenze religiose. Non possiamo più ac-cettare l'idea di un'uniformizzazione forzata della regione culla di alcune tra le più grandi religioni dell'umanità. E nemmeno possiamo osservare senza preoccupazione il fos-sato che si sta creando tra un Occidente in cui il pluralismo religioso è un fatto acquisito e un Oriente in cui regna un'u-nica religione.

Per queste ragioni chiediamo ai governi europei, a co-minciare da quello francese, d'intervenire presso le autorità dei paesi coinvolti affinché rispettino e facciano rispettare

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sul proprio territorio la libertà di fede e di culto; chiediamo altresì che i governi europei, se necessario, subordinino gli aiuti materiali, finanziari ed economici a quei paesi al rispet-to della libertà religiosa.

Infine, ci rivolgiamo agli uomini e alle donne di ogni pae-se e di ogni religione affinché la libertà di coscienza e di reli-gione delle persone sia posta a fondamento di un mondo pa-cifico e solidale.

http://paxchristi.cef.fr

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APPENDICE

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I - Ordinanza relativa all'esercizio dei culti non musulma-ni, n. 06/03, pubblicata il 1° marzo 2006 sulla Gazzetta uffi-ciale della Repubblica algerina.

Presentazione commentata - L'Articolo 1 Afferma l'attaccamento dell'Algeria ai valori della tolleranza e del pluralismo religioso. - L'Articolo 2 ricorda che la religione di Stato dell'Algeria è l'islam e dichiara che «lo Stato garantisce il libero esercizio del culto nel quadro del rispetto delle disposizioni della Co-stituzione» [...], nonché «la tolleranza e il rispetto delle di-verse religioni». - L'Articolo 3 stabilisce che «le associazioni religiose dei cul-ti non musulmani beneficiano della protezione dello Stato». - L'Articolo 4 sancisce «il divieto di usare l'appartenenza re-ligiosa come pretesto per discriminare qualunque persona o gruppo di persone» e garantisce a tutti, in conformità all'ar-ticolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell'Uo-mo, «[...] la libertà di manifestare la propria religione o le proprie convinzioni, da soli o insieme ad altre persone, in pubblico o in privato, attraverso l'insegnamento, la pratica, il culto e la celebrazione dei riti».

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Fin qui ci troviamo di fronte a nobilissimi propositi. Tuttavia, il tono cambia negli articoli seguenti, che regola-mentano in modo assai rigido l'esercizio dei culti non mu-sulmani. - L'Articolo 5 prevede la destinazione di un edificio specifi-co all'esercizio del culto, che «deve essere prima approvato dalla Commissione nazionale dell'esercizio dei culti». Que-sto articolo proibisce altresì qualunque attività diversa dal culto negli ambienti destinati all'esercizio dello stesso e sta-bilisce che «lo Stato garantisce la protezione» di quei luoghi. - L'Articolo 6 precisa che l'organizzazione del culto è riser-vata alle «associazioni a carattere religioso; la loro costitu-zione, la loro approvazione e il loro funzionamento sono soggetti alle disposizioni dell'ordinanza e della legislazione in vigore». L'esercizio del culto è dunque riservato ad asso-ciazioni le quali, secondo la legge algerina, per essere appro-vate devono riunire un minimo di 15 persone. Secondo gli osservatori questo è un sistema per limitare l'attività di al-cune Chiese che, in determinate località, contano meno dei 15 membri richiesti. Dietro il pretesto del raggiungimento del quorum si può scorgere un modo indiretto di proibire a certi cittadini di «manifestare la propria religione o le loro convinzioni, da soli o insieme ad altre persone, in pubblico e in privato», contravvenendo all'articolo 18 della Dichiara-zione universale dei diritti dell'Uomo.

Non era certamente questa l'intenzione del legislatore, ma qui il testo è deliberatamente vago, così da autorizzare qualunque interpretazione e da poter essere usato per limi-tare assai seriamente la libertà di coscienza. - Gli articoli 7 e 8 precisano che «l'esercizio collettivo del cul-to ha luogo esclusivamente negli edifici destinati a questo scopo, aperti al pubblico e identificabili dall'esterno», e che

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«le manifestazioni religiose hanno luogo in appositi edifici, sono pubbliche e si svolgono previa dichiarazione». - L'espressione «esercizio collettivo del culto» è ambigua. Bi-sogna forse pensare che una riunione alla quale prendono parte meno di 15 persone è proibita o che ogni altra attività di natura religiosa (culto, feste religiose, insegnamento teo-logico, riunioni di preghiera, incontri di fraternità e condivi-sione ecc.) dev'essere dichiarata alle autorità algerine e per-tanto è legata alla loro autorizzazione o al loro controllo? - L'Articolo 9 concerne la Commissione nazionale dei culti, istituita presso il Ministero degli affari religiosi e degli awqaf. La sua composizione e il suo funzionamento sono fissati «da un apposito regolamento». Detta commissione ha il compito di «vigilare sul rispetto del libero esercizio del culto, di oc-cuparsi delle questioni e dei problemi relativi all'esercizio del culto e di dare il proprio previo consenso alle autorizza-zioni rilasciate alle associazioni a carattere religioso».

Riguardo alla composizione di tale commissione nazio-nale regna la massima confusione; infatti, niente indica che la partecipazione effettiva di rappresentanti delle comunità non musulmane sia obbligatoria. La commissione potrebbe benissimo essere composta unicamente di rappresentanti dell'islam: sarebbe quindi lecito sospettare che alcuni di lo-ro siano tentati di ostacolare con ogni mezzo l'esercizio dei culti non musulmani. Non viene detto nulla di preciso nemmeno sui criteri che serviranno per l'attribuzione del previo consenso. Questa situazione potrebbe riflettersi in un'accresciuta dipendenza delle Chiese nei confronti del regime, che potrebbe essere tentato di sfavorire quelle che non condividono le sue idee in campo economico, cultura-le o sociale.

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Gli articoli successivi sono di gran lunga i più inquietan-ti, perché trattano delle misure penali nelle quali incorrono coloro che non rispettano le disposizioni di cui sopra. Vi so-no dunque numerose sanzioni, come numerosi sono i fatti considerati reati in materia di religione. - L'articolo 10 prevede la reclusione da 1 a 3 anni e una mul-ta di 250.000 dinari per le persone che tentano di incitare i cittadini «a sabotare l'applicazione delle leggi, a opporsi alle decisioni dell'autorità pubblica o a ribellarsi; è punito ogni tentativo in questo senso, compiuto a voce o mediante un di-scorso scritto, appeso o distribuito negli edifici dove si svol-ge il culto, o attraverso qualunque altro supporto audiovisi-vo». La pena detentiva è aumentata (da 3 a 5 anni), così co-me la multa (da 500.000 a 1 milione di dinari), se il colpevo-le è un ministro di culto. - L'Articolo 11 prevede una pena carceraria da 2 a 5 anni e una multa da 500.000 a 1 milione di dinari per chiunque «in-citi, minacci o usi strumenti di seduzione allo scopo di con-vertire un musulmano a un'altra religione, anche attraverso l'utilizzo di istituzioni scolastiche, educative, sanitarie, a ca-rattere sociale o culturale, o istituti di formazione, o qualun-que altro di tipo di istituzioni o mezzi finanziari. Fabbrichi, lasci in vista o distribuisca documenti stampati o audiovisivi o prodotti con l'aiuto di qualsivoglia altro supporto il cui con-tenuto si proponga di incrinare la fede di un musulmano».

Questi articoli limitano gravemente la libertà di culto e, come abbiamo visto, negli ultimi tempi sono stati usati per giustificare il rinvio a giudizio di sacerdoti o fedeli sospetta-ti di dedicarsi al proselitismo. Alla luce dell'articolo 11.1 non si può, per esempio, affermare che per un cristiano sia lega-le invitare a casa propria o incontrare in un luogo pubblico

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amici musulmani e discutere con loro di questioni attinenti la fede cristiana.

L'articolo 11.1 lascia intendere che ogni azione educativa, sociale, culturale, medica ecc., condotta da credenti di con-fessioni diverse dalla musulmana, potrebbe essere sospetta-to di costituire un mezzo per sedurre i musulmani e dunque rischia di essere repressa.

Le disposizioni previste dall'articolo 11.1 hanno lo scopo di impedire che un musulmano cambi opinione o si rivolga a un'altra religione, anche qualora sia spinto da un'intima convinzione. Tale disposizione è contraria alla Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo, che all'articolo 18 precisa che «ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione» e che «tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo».

Il testo dell'ordinanza, d'altra parte, si mostra assai vago per quanto concerne la definizione dei materiali suscettibili di incrinare la fede di un musulmano. Un'interpretazione piuttosto rigorista del testo potrebbe lasciar intendere che il semplice trasporto di una Bibbia tradisca la volontà di scuo-tere la fede dei musulmani. Abbiamo visto che in molte oc-casioni è stato interpretato proprio in questo senso. - L'Articolo 12 stabilisce che ogni individuo che «raccolga fondi o accetti doni senza il permesso delle autorità compe-tenti» è punito con il carcere da 1 a 3 anni e con una multa dai 100.000 ai 300.000 dinari. Può nascere il sospetto che la Commissione nazionale stabilisca persino l'ammontare dei fondi necessari alla vita di una comunità in base alla preci-sa volontà di controllarne strettamente i membri e le atti-vità. Questo articolo sta forse a significare che, in caso di aiuto umanitario cristiano, algerino o straniero, per esempio in seguito a una catastrofe umanitaria, le famiglie o le asso-

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ciazioni algerine dovrebbero rifiutare qualunque dono a meno di non aver ricevuto l'autorizzazione esplicita dalle autorità? - L'Articolo 13 prevede una pena carceraria da 1 a 3 anni e una multa da 100.000 a 300.000 dinari per chiunque «pratichi un culto contrario alle disposizioni di cui agli articoli 5 e 7, organizzi una manifestazione religiosa in contravvenzione alle disposizioni contenute nell'articolo 8» o, ancora, «predi-chi all'interno di edifici destinati all'esercizio del culto senza aver ricevuto la nomina, l'approvazione e il permesso da un'autorità religiosa della sua confessione, la cui competen-za in materia sul territorio nazionale sia stata debitamente certificata dalle autorità algerine a ciò preposte». - L'Articolo 14 stabilisce che a uno straniero condannato per aver commesso una delle infrazioni sopraelencate possa es-sere interdetto il soggiorno sul territorio nazionale, definiti-vamente o per un periodo minimo di 10 anni dopo aver scontato la pena. - L'articolo 15 riguarda il caso in cui l'infrazione sia com-messa da una persona giuridica, nei confronti della quale è prevista una multa di almeno «4 volte superiore al massimo della multa prevista [...] dall'ordinanza per la persona fisica che ha commesso la stessa infrazione, oltre alla confisca dei mezzi e dei materiali usati per commettere l'infrazione, al di-vieto di esercitare [...] qualunque attività religiosa, e alla dis-soluzione della persona giuridica». - L'Articolo 16 dell'ordinanza precisa infine che «le persone che praticano in gruppo un culto diverso da quello musul-mano sono tenute a uniformarsi alle disposizioni della pri-ma ordinanza entro sei (6) mesi a partire dalla sua pubblica-zione sulla Gazzetta ufficiale».

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Dunque, a partire dal 1° marzo 2006, data della pubbli-cazione dell'ordinanza sulla Gazzetta ufficiale della Repub-blica algerina, nel paese è cominciato il conto alla rovescia per i fedeli non musulmani. Il testo, lungi dall'essere inter-pretato in modo liberale, è di fatto servito come base legale per giustificare numerosi provvedimenti arbitrari, come si è visto.

II - Rapporto sul Libano redatto nel 1985 dall'Ordine di Malta

Estratti: A una fase di scaramucce e incidenti che coin-volgono rappresentanti o istituzioni specifiche della comu-nità cristiana fa seguito una fase di agitazione e di «riscal-damento» della comunità musulmana, con contorno di vo-ci incontrollate e tensioni alimentate volutamente da sedi-centi «comitati islamici»... Segue una fase di negoziati e promesse solenni fatte ai capi cristiani, ai quali è garantito che le loro persone e i loro beni saranno salvaguardati in cambio del disarmo di ogni resistente e della rinuncia par-ziale o totale alle loro competenze e ai loro poteri... Quan-do il «disarmo» dei cristiani è stato ottenuto, sopravviene, senza alcun segno premonitore e senza che sia cercato al-cun pretesto, una nuova fase di violenze, eliminazioni fisi-che, distruzioni materiali, profanazioni e irriducibile vo-lontà di cancellare del tutto ogni traccia di presenza cristia-na... A questa fase, caratterizzata da uccisioni, fanno segui-to iniziative «di natura non militare» (e tuttavia legate in modo inquietante ai massacri), volte a espropriare comple-tamente i pochi cristiani sopravvissuti. In questa fase si as-siste a un sistematico accaparramento di beni mobili e im-

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mobili di cristiani, cui i responsabili cercano di dare un par-venza di legalità.

In questo metodo di sradicamento notiamo: - L'uso sistematico di voci allarmiste, contraddittorie, fram-mezzate da fulminee smentite di fronte alla verità dei fatti, allo scopo di demoralizzare la popolazione cristiana, con-vincendola che la fuga sia l'unica via di scampo. - Lo stillicidio di crimini di sangue, suddivisi geografica-mente secondo una progressione metodica; il fatto che essi abbiano funzione esemplare spiega i livelli di inaudita fero-cia cui si è arriavati. - Inoltre, vi è premeditazione nella scelta delle vittime, nel-le circostanze in cui vengono uccise e nell'esibizionismo con cui sono allestite macabre messe in scena a base di sventramenti, crocifissioni, cremazioni di persone vive, im-molazione di animali su altari, incendi, saccheggi, rinnega-menti della fede cristiana ottenuti con la forza, mutilazioni, decapitazioni a colpi d'ascia, rapimenti, processioni blasfe-me dopo i saccheggi delle chiese, umiliazioni, esposizioni di cadaveri... - Il susseguirsi di offerte insistenti (accompagnate da velate minacce) da parte di emissari islamici progressisti e drusi di «riscattare» a prezzi stracciati beni immobili di proprietà del-la comunità cristiana... - L'uso di «trucchetti» assai remunerativi per gli islamici progressisti, sia a livello di «relazioni pubbliche» che per quanto riguarda lo scopo ultimo, ovvero l'eliminazione tota-le dei cristiani. Esempio: si fa un solenne appello ai cristiani affinché ritornino nelle proprie case. Si dà loro assistenza, si convocano giornalisti dal mondo arabo e dall'Occidente in modo che accreditino l'immagine di «tolleranza» che si vuo-le propagandare e assicurino all'operazione la necessaria

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pubblicità. Incoraggiati da questi segni di apertura, numero-si altri cristiani si uniscono ai loro correligionari nel tentati-vo di recuperare almeno in parte i propri beni. Ricominciano allora le uccisioni e viene raggiunto l'effetto desiderato: i cri-stiani delle zone vicine perdono ogni illusione e optano per una rinuncia definitiva.

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Rigraziamenti e nota bibliografica

Nel corso dei viaggi da me compiuti per conoscere la situazio-ne dei cristiani ho avuto la fortuna di fare incontri spesso piacevo-li, talvolta eccezionali. Sono stati intessuti legami di collaborazione e amicizia. Religiosi e laici di tutte le confessioni, giornalisti, di-plomatici ecc. spesso hanno potuto esprimersi soltanto grazie alla protezione dell'anonimato. La loro disponibilità, il loro aiuto e i ri-schi che hanno corso ne fanno in qualche modo i coautori del pre-sente libro: è il minimo che possa dire per esprimere la mia rico-noscenza nei loro confronti. Quale frustrazione per il lettore e per me non potere render loro omaggio come meritano!

Nel Maghreb sono come a casa mia e ho molti amici che prefe-risco non citare: essi sanno quanto io sia loro riconoscente.

Alcuni personaggi corrono il rischio di esprimersi pubblica-mente in termini tali da permettermi di ringraziarli in questa sede: monsignor Louis Sako, vescovo dei caldei di Kirkuk, che mi ha gentilmente fatto da guida nell'Iraq cristiano; monsignor Jacques Isaac, vescovo dei caldei di Baghdad, che mi ha aperto le porte del-la sua facoltà e del Babel College da lui diretto, e mi ha fatto in-contrare vari responsabili religiosi cristiani o musulmani.

Sotto un altro cielo, devo molto a Shimon Peres, presidente del-lo Stato di Israele, per le conversazioni amichevoli che mi ha volu-to concedere e per le sue confidenze, che mi hanno permesso di ca-pire meglio la complessità della società israeliana. Vorrei anche rin-graziare il rabbino David Lazar di Tel Aviv, l'ambasciatore Yoram Shani dell'Istituto di ricerca Harry S. Truman per la pace, i frati

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della Scuola Biblica e Archeologica Francese di Gerusalemme (Éco-le Biblique et Archéologique Française de Jérusalem) e lo sceicco Abdulaziz Bukhari, capo della comunità uzbeca di Gerusalemme.

Per i Territori controllati dall'Autorità Palestinese, desidero rin-graziare lo sceicco Taislr Rajab Tamlmì, giudice supremo della cor-te della sharï'a islamica e governatore di Hebron, e Michel Awad del Siraj Center di Beit Sahur.

In Egitto sono stato ampiamente aiutato dai frati domenicani del Cairo e dagli amici dell'Istituto Francese di Studi Orientali (In-stitut Français d'Études Orientales), nonché da Ali Elsamann, uo-mo gentile e aperto, ex consigliere del presidente Anwar al-Sâdât, e da monsignor Michel Chafik, vescovo copto di Parigi.

Per la parte relativa alla Giordania ringrazio Zena Nasreddin, ufficiale di sua maestà la regina Rania di Giordania, Omar H. Hayek del Ministero del Turismo, Elsuh Yako e Ali Maher.

Per le vicende della Turchia Suna Vidinli, vice ministro della Cultura, il professor Dogu Ergil dell'Università di Ankara, Eroi User, militante del dialogo interreligioso e Cemal Uflak, presiden-te dell'Unione dei giornalisti e degli scrittori turchi, hanno fatto tutto il possibile per arricchire la mia riflessione.

Nella Penisola arabica Muhammad 'Abd Allah M. al-Rumaihl, vice ministro degli Esteri dell'Emirato del Qatar, il mio amico Abu Bakr Bakader, vice ministro della Cultura dell'Arabia Saudita e 'Abd al-'Azïz Bin Salàmah, direttore del «Risalat al-Jamia», non hanno idea di quanto sia stato prezioso il loro aiuto.

Per quanto riguarda il Libano, saluto i gesuiti dell'Università Saint-Joseph di Beirut, e tra loro padre Louis Boisset, già rettore dell'ateneo e il vescovo monsignor Saïd Elias Saïd, vicario patriar-cale della Chiesa maronita in Francia.

In Siria, anche per le persone che non posso nominare, ringra-zio padre Paolo Dall'Oglio del monastero di Deir Mar Musa e Osa-ma al-Nouri, di Damasco.

In Estremo Oriente la mia riconoscenza va tra gli altri a Ramon Molina, direttore generale dell'Asia-Europe Foundation e al reve-

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rendo Reuben Kanagalingam della Chiesa metodista tamil di Tanjung Malim, in Malesia.

Agli altri amici rimasti nell'ombra, ma ugualmente insostituibi-li, esprimo tutta la mia gratitudine.

È mio desiderio ringraziare altresì le associazioni, le organiz-zazioni non governative (ONG), i movimenti e gli altri gruppi i cui rapporti mi hanno direttamente o indirettamente aiutato a controllare e a confermare alcune delle informazioni raccolte sul campo: il Consiglio Ecumenico delle Chiese, movimento ecume-nico fondato a Ginevra nel 1948, il quale riunisce 349 Chiese di ol-tre cento paesi e territori di tutto il mondo; l'Œuvre d'Orient, or-ganizzazione nata in Francia più di 150 anni or sono su iniziativa di un gruppo di laici per soccorrere le Chiese e i cristiani d'O-riente, specialmente in materia di educazione; e Pax Christi, mo-vimento internazionale fondato nel 1945 e presente in oltre 60 paesi.

Tra le opere da me consultate citerò innanzitutto la ricca tratta-zione d'insieme di Jean-Pierre Valognes, Vie et mort des Chrétiens d'Orient, des origines à nos jours, Fayard, Paris 1994.

E inoltre: BENDELAC Jacques, Les arabes d'Israël, entre intégration et rupture, Éditions Autrement, Paris 2008. BOZARSLAN Hamit, Une historié de la violence au Moyen-Orient, de la fin de l'Empire ottoman à Al-Qaïda, Éditions de La Découverte, Paris 2008. DUPEYRON Catherine, Chrétiens en Terre sainte, disparition ou muta-tion? Albin Michel, Paris 2007. GARNIER-AZAÏS L . M., Lavigerie, le cardinal missionnaire, Maison de la Bonne Presse, Paris 1938. MALOVIC Dirian, fin Luxian, soldat de Dieu en Chine comuniste, Per-rin, Paris 2006. PÉRONCEL-HUGOZ Jean-Pierre, Le radeau de Mahomet, Lieu Com-mun, Paris 1983.

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PÉRONCEL-HUGOZ Jean-Pierre, Une croix sur le Liban, Lieu Commun, Paris 1984. POLIAKOV Léon, Historie de l'antisémitisme, tomo III (De Voltaire à Wagner), Calmann-Lévy, Paris 1973. VAN GRASDORFF Gilles, La belle histoire des missions étrangères 1658-2008, Perrin, Paris 2007. VEUILLOT Louis, Les français en Algérie, Robert Laffont, Paris 1 9 7 8 .

L'aide à l'Église en détresse. La liberté religieuse dans le monde, rappor-to 2008.

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Indice dei nomi

'Aziz, Tariq, 209-210, 213-214, 216-217 'Abd al-Qàdir, emiro, 172 'AbdallSh II, re di Giordania, 290 'Abdallah, re dell'Arabia Saudita, 290 Abassi, Nabih, 149 Abbas, Ferhat, 33 Aboudi, Youssef Abdel, 222 Abramo, 90 ,101,188, 205, 226, 275 Abu Jaber, Kamal, 146 Aflaq, Michel, 154, 209-210 Agca, Ali 199, 201 Agostino, santo, 31, 34, 58 Ahmadlnezhad, Mahmud, 233-234 Akdil, Oguzhan, 200 al-Asad, Hafiz, 155,157-158, 210 Alexander, Michael Solomon, 100 al-Hamid al-Ansarl, 'Abd, 289 al-Khalifa, Hamad Ben 'Isa, 289 al-Khoury, Faris, 156 Allam, Magdi Cristiano, 52 al-Sa'ld, Qabùs Ibn Sa'Id, 290 al-Sadat, Anwar, 120,123,126,129-132

al-Tanl, Hamad Bin Khalifa, 289 al-Zarqàwr, Abu Mus'ab, 144

Amédée, frate, 40 Amilcare, 32 Annibale, 32 Arafat, Yäsir, 102,104-105,111,142 Atatürk, Kemal, 191 Atenogene, vescovo, 138 Aubry, Cécile, 51 Aziz Ghali, Fouad, 123

Barak, Ehud, 91 Barthou, Alice-Louis, 50 Baty, Claude, 68 Begin, Menachem, 181 Bégonia, suora, 45 Benedetto XVI, 52, 204, 245, 257, 265, 271-272, 279, 287-288, 290 Benzine, Rachid, 52 Berriau, Simone, 51 Bin Läden, Osama, 144 Blanc, Jean-Luc, 51-52 Boudiaf, Mohamed, 57 Bourguiba, Habib, 32, 74 Bouteflika, Abdelaziz, 34, 56, 59, 61, 68, 72 Boutros-Ghali, Boutros, 126 Boutros-Ghali, Merit, 124 Bouziri, Said, 63

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Brizard, Philippe, 224 Brunissen, Pierre, 200 Bugeaud, Thomas-Robert, 70,172 Burckhardt, Jean-Louis, 138 Bush, George W., 41,153, 207

Capucci, Hilarion, 95 Casmoussa, Georges, 219, 224-225 Castro, Fidel, 287 Céline, suora, 44 Chakkour, Youssef, 156 Chalais, François, 261 Chateaubriand, François-René de, 81-82

Chergé, Christian de, 40 Choureau, Etchika, 51 Claverie, Pierre, 57 Courou, Christophe, 67 Coutts, Joseph, 241

Dalai Lama, 257-258 Dall'Oglio, Paolo, 151-152 Daniele, profeta, 205 De Gaulle, Charles, 86 Delors, Jacques, 56 Delumeau, Jean, 56 Dèng Xiâoping, 269 Dias, Ivan, 254 Dink, Hrant, 198 Doré, Gustave, 206 Duquesne, Jacques, 56

Ebeid, Fikri Makram, 130 Edelstein, Yuli-Yoel, 85 El-Abidine Ben Ali, Zine, 74 El-Glaoui, Mehdi, 51 El-Glaoui, T'hami, 39, 50-51 Elias, Raad, 220 el-Nasser, Gamal Abd, 129, 273

Emmanuel III Delly, 221 Erdogan, Recep Tayyip, 201 Etchegaray, Roger, 264 Ezechiele, profeta, 205

Fahd, re dell'Arabia Saudita, 290 Fan Xuéyuan, 270 Felicita, santa, 33 Flaubert, Gustave, 81 Foucauld, Charles de, 33, 37, 77 Fox, Tom, 219 Franchini, Adriano, 201 Frappat, Bruno, 56

Gandhi, Indira, 246 Gandhi, Mohandas Karamchand, 245-246, 251, 256 Gandhi, Rajiv, 246 Ganni, Raghid 'Azlz, 220 Gautier, Théophile, 81 Gemayel, Bashir, 181 Gesù, 77, 83, 91, 94, 105, 116, 162, 164,189 Gheddafi, Mu'ammar, 78-79 Giobbe, 189 Giona, profeta, 205 Giovanni III, re di Polonia, 189 Giovanni Paolo II, 39, 90-91, 103-104,145,199,213,270-271,283,287, 290 Gounelle, Yves, 56 Gourion, Jean-Baptiste, 95 Guillebaud, Jean-Claude, 56 Gül, Abdullah, 202

Habash, George, 142 Habyarimana, Juvénal, 284-285 Hadj, Messali, 33 Händel, Georg Friedrich, 98

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Haniyeh, Ismail, 111 Hannah, Milad, 127 Hassan II, 39-40, 51 Hegazy, Mohamed, 136 Heine, Heinrich, 50 Herzl, Theodor, 94 Ho Chi Minh, 262 Huntzinger, Jacques, 56 Husayn, re di Giordania, 138, 141-142,144,146 Husayn, Saddam, 90, 144-145, 205, 207-209, 211, 213, 215-217, 219

Ibn Khaldün, 75 Ibrahim Pascià, 121 Ireneo 1,115 Isaac, Jacques, 209

Jean-Pierre, frate, 40 Johnson, Hugh, 56, 64, 67 Julliard, Jacques, 56 Jumblatt, Walid, 183

Karzai, Hamid, 245 Kasha, Pios, 224 Kasper, Walter, 190 Kennedy, John Fitzgerald, 58 Khomeynl, Ruholläh, 40, 227 Khoury, Elia, 145 Kim Il-sung, 259 Kim Jong-il, 259 Kim Jong-un, 259 Kouchner, Bernard, 223 Kouider, Habiba, 56, 65

Laälam, Hakim, 36 Lamartine, Alphonse de, 81 Landel, Vincent, 51 Lavigerie, Charles-Allemand, 71, 75

Lawrence, Thomas Edward, 138 Lefebvre, Marcel François, 60 Lobo, Anthony, 244 Loti, Pierre, 195 Ludivine, suora, 45 Ludwig, Barbara, 98 Luigi XV, 171

Mac Mahon, Patrice de, 71 Maometto, 118,142, 220, 244, 284 Marcuzzo, Giacinto-Boulos, 93 Mardocheo, rabbino, 37 Maria Maddalena, 108 Maria, santa, o Vergine Maria, 51, 73, 83,137, 289 Máximos V Hakim, 158 Merkel, Angela, 56 Mitterrand, François, 158-159 Monica, santa, 31 Montesquieu, 227 Morel, Jean-Pierre, 57 Mosè, 117, 189, 290 Moussalam, Jean, 112 Mubârak, Husnï, 121,127,132,134-135 Musharraf, Pervez, 238, 241

Nahum, profeta, 205 Napoleone III, 172 Nehru, Jawaharlal, 246, 251, 273 Nerone, 72 Nerval, Gérard de, 81 Netanyahu, Binyamin, 91 Nezâmi, poeta, 234 Ngo Dinh Diem, 262 Nimrod, re, 189, 205 Noè, 205

Òzal, Turgut, 198

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Paolo VI, 90 ,94 Paolo, apostolo, 190 Peres, Shimon, 39, 91,165 Perpetua, santa, 33 Petrus, Youssif, 162 Pham Dinh Tung, Paul Joseph, 264 Pinte, Etienne, 57 Pizzaballa, Pierbattista, 93 Pollack, Sydney, 282

Rachele, 103 Raham, Abdul, 245 Rahho, Paulos Faraj, 221-222, 292 Rani Maria, suora, 253 Rania, regina di Giordania, 165,290 Rehman, Habib Ur, 242 Ricci, Matteo, 271 Rocard, Michel, 57 Romero, Óscar Arnulfo, 288 Rouart, Jean-Marie, 57 Rushdie, Salman, 240

Sabbah, Michel, 93 ,107 ,113 Sako, Louis, 205, 218, 224-225 Salah, Raed, 90, 93,107, 111 Sambi, Pietro, 91 Santoro, Andrea, 200 Sarkozy, Nicolas, 63,153, 257

Sebastiani, Sergio, 204 Seddiki, Djelloul, 66 Shahln, Yùsuf, 130 Sharon, Ariel, 91 Shenuda III, 129,131-132,134 Sidhom, Yussef, 134 Stenger, Marc, 224, 291 Sukarno, 277

Tan Dung, Nguyen, 265 Tawil, Ray monda, 102 Tawil, Suha, 102 Teissier, Henri, 60, 63, 67-68 Teofilo III, 115 Teresa di Calcutta, madre, 247, 256 Tommaso, apostolo, 151, 247 Twal, Fouad, 73,113,139

Valognes, Jean-Pierre, 87 Van Ly, Taddeo Nguyen, 265 Veuillot, Louis, 70

Wallez, Pierre, 56, 62, 64

Yaldo, Salem Basel, 220

Zhou Enlài, 268, 273

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Indice

9 Introduzione. Il mondo del silenzio 17 Sant'Agostino destati, sono impazziti!

CRISTIANOFOBIA

31 Fatawà alle nostre porte (Maghreb) La sordina dell'Atlante (Marocco), 37 Il «bon usage» della menzogna (Algeria), 54 A passi felpati sulla sabbia (Tunisia, Libia, Mauritania), 72

81 Dove tutto ha avuto inizio e tutto potrebbe finire (Terra Santa) Se ti dimentico, Gesù... (Israele), 82 Cercasi cristiani disperatamente (Cisgiordania, Palestina), 101 La morte o l'esilio (Gaza), 110

117 Miseria sul Nilo (Egitto) Un'esistenza prospera e abbastanza tranquilla (Giordania), 137 L'inquietudine sotto la calma (Siria), 150 Nel paradiso dei Cedri perduti (Libano), 168 Bosforo laico alla turca (Turchia), 188 Silenzio, si uccide (Iraq), 205 All'ombra degli ayatollah (Iran), 227

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237 Astenersi cristiani (Pakistan) Al lume delle chiese incendiate (India, Sri Lanka), 245 Oltre la cortina di bambù (Corea del Nord), 259 Alla ricerca del tempo perduto (Vietnam), 262 Sotto il segno del Drago (Cina), 266 Nel paese della convivenza armoniosa (Indonesia), 273

281 I dimenticati (Africa)

287 Barlumi di speranza

2 9 7 APPENDICE

307 Rigraziamenti e nota bibliografica 311 Indice dei nomi

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