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Religione e Diritto Romano La cogenza del rito a cura di Salvo Randazzo

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Religione e Diritto Romano La cogenza del rito

a cura di Salvo Randazzo

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Titolo | Religione e Diritto Romano Sottotitolo | La cogenza del rito Autore | Autori Vari a cura di Salvo Randazzo ISBN | 978-88-67352-33-3 © Tutti i diritti riservati al Curatore. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso del Curatore. Libellula Edizioni Via Roma, 73 - 73039 Tricase (LE} - Italy www.libellulaedizioni.com [email protected]

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INDICE S. Randazzo Premessa 1 SEZIONE PRIMA ORIENTAMENTI S. Amato Merito quis sacerdos appellet 5 F. Arcaria Religio e ius privatum in Roma antica 21 A. Bettetini Appunti sul fondamento giuridico delle persecuzioni contro i cristiani e sulla libertà religiosa 35 J. Rüpke Historians of religions and the space of Law. 43 SEZIONE SECONDA CONTRIBUTI F. Alicino L’editto di Costantino e l’Initium libertatis della Chiesa cattolica. “Segni” e “riti” di una mutazione 53 A. Arnese La religione degli altri: tolleranza o repressione? 93 S. Castagnetti Ancora sui suspendiosi nelle leges libitinariae: aspetti religiosi e giuridici 105

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F. Chini Idee vecchie e nuove intorno ai concetti di ius e fas 115 S. A. Cristaldi Confarreatio e svolgimento delle nozze 153 M. Falcon ‘Praetor impius': ‘ius dicere’ nei ‘dies nefasti’ 187 L. Franchini Principii di ius pontificium 265 A. Milazzo Causa funeris e causa religionis: spunti ricostruttivi sui sacra praticati dai collegia funeraticia 305 V. M. Minale Costantino, Strategio Musoniano e i Manichei: ancora su Amm. Marc. Res Gestae 15.3.2 333 E. Quadrato Urbem condere: la città «nuova» tra fas e ius 357 A. Spina Il diritto oltre la vita. Aspetti ideologico-religiosi del diritto successorio romano. 373 G. Turelli Fetialis religio. Una riflessione su religione e diritto nell’esperienza romana 449 INDICE DELLE FONTI 495 INDICE DEGLI AUTORI 507

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Premessa

Questo volume raccoglie gli Atti del Seminario di studi su “Religione e diritto romano. La cogenza del rito”, svoltosi presso la Facoltà di Giuri-sprudenza dell’Università LUM Jean Monnet nei giorni 10 e 11 gennaio 2014, in collaborazione con il Network ELR - European Legal Roots (http://europeanlegalroots.weebly.com).

L’iniziativa si muove sulla scia di analoghe attività seminariali, parti-colarmente destinate a giovani studiosi, e volte, meritoriamente, a solle-citare momenti di riflessione e di crescita scientifica.

Tuttavia il Seminario i cui Atti pubblichiamo presenta alcune speci-ficità. I temi sono stati direttamente affidati da chi scrive ai partecipanti cercando di connettere interessi pregressi di ciascuno ad un quadro d’insieme che fosse rappresentativo di alcuni profili significativi e diffe-renziati del complesso rapporto fra religione e diritto, sul piano dei pro-blemi affrontati e sul piano cronologico.

Altra peculiarità è stata l’articolazione interna fra le relazioni vere e proprie e un distinto ― e propedeutico ― gruppo di contributi, indicati come “Orientamenti”, in cui alcuni autorevoli studiosi hanno offerto una lettura introduttiva del tema in chiave interdisciplinare. E proprio in questo spirito uno soltanto degli studiosi coinvolti è un romanista, men-tre gli altri sono cultori di filosofia del diritto, diritto ecclesiastico e storia delle religioni.

Scopo di questi “orientamenti” è stato, in avvio del nostro Semina-rio, quello di offrire ai giovani partecipanti (ed in dialogo diretto con lo-ro) letture incrociate del rapporto fra religione e diritto che potessero contribuire a sviluppare una sensibilità aperta all’arricchimento culturale attraverso una visione ampia e multidisciplinare dei problemi.

E i risultati non si sono infatti attendere, risultando evidenti già nel corso delle relazioni, in cui le prospettive di ricerca originarie hanno fini-to per essere riviste dai partecipanti, e talvolta rimeditate, proprio alla lu-ce degli stimoli offerti dalle comunicazioni introduttive sul rapporto fra religione e diritto, con specifico riguardo alla complessa ma indicativa

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chiave di lettura che mi è sembrato di cogliere nel “rito” e della sua “co-genza”.

Dirà il lettore se questo esperimento scientifico e formativo ha pro-dotto risultati meritevoli di attenzione. Per quanto mi riguarda ho colto nei giovani partecipanti interesse, spirito dialettico, indipendenza di giu-dizio e capacità di riflessione che fanno ben sperare sul futuro dei nostri studi.

E questo è, esattamente, quanto mi aspettavo da questo seminario. Ringrazio l’Università LUM che ha sostenuto l’iniziativa – con am-

mirevole sensibilità per la ricerca e la sperimentazione scientifica – nelle persone del Magnifico Rettore, prof. Emanuele De Gennaro, del Preside della Facoltà di Giurisprudenza, prof. Roberto Martino e del Direttore amministrativo dott. Felice Gnagnarella.

Per l’organizzazione delle giornate di studio si sono prodigati Aure-lio Arnese, Elvira Quadrato, Alessia Spina e Antonino Milazzo, quest’ultimo che mi anche affiancato nelle cure editoriali del volume, coordinando altresì la redazione dell’indice delle fonti.

Infine esprimo la mia gratitudine alle dott.sse Mariateresa Santaloja e Valentina Chieppa per il prezioso supporto logistico e organizzativo che spero abbia reso gradevole, oltreché proficuo, il soggiorno presso la no-stra giovane Università.

Bari-Catania, ottobre 2014 Salvo Randazzo

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Orientamenti

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Merito quis sacerdos appellet

Salvatore Amato

Abstract. The link between rites and religion evokes the sense of limit and in-dicates that every human being is not the master of his own existence and that he must explain and justify his own actions. The violence that founds and justifies the power remains present in the background, but the threat of human power to the individuals is overlooked by the God’s will. Many institutes of Roman law (for example Vindicatio and Ius fetiale) reveal that there is a “beyond”. God is beyond the individu-als and beyond the power. The deification of power is also a downsizing of its effects. The rites stage what differs from power: the human weakness. If the man is weak, if the man is impotent, then a human product, like the power, cannot be omnipotent. The rite reveals how the claims of the power, of whatever power, are unfounded.

Keywords: Theatrem – Violence – Power – Weakness – Market

Nessun giurista può negare che il diritto sia una messa in scena, sia anche una messa in scena… di passioni, desideri, interessi, violenze, a-spettative, sottratti all’immediatezza degli eventi, al decorso del tempo, alla soggettività degli impulsi, per divenire uno strumento di coesione sociale. Il diritto formalizza e tipizza. In questo modo trasfigura i fatti, riproducendoli in maniera che siano tendenzialmente accettati e condivi-si. Come un attore sulla scena riduce la realtà alla “parte” che sta reci-tando. La realtà è molto più complessa, e anzi probabilmente diversa da quanto avviene sulla scena, eppure la scena è un aspetto della realtà e anzi, in quel momento e a quelle condizioni, è l’unico aspetto della realtà che abbia un senso e possa essere percepito: “più concretamente: com’è

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possibile che alcuni segni su una tavoletta di argilla, alcuni tratti vergati con penna e matita spesso a malapena leggibili su un frammento di car-ta, costituiscano una persona – una Beatrice, un Falstaff, un’Anna Kare-nina – la cui sostanza per innumerevoli lettori o spettatori oltrepassa la vita stessa, nella sua realtà, nella sua presenza fenomenica, nella sua lon-gevità incarnata e sociale? ”1. Come farebbe, altrimenti, la gelosia a di-ventare Otello? E come farebbe la violenza a diventare pena, l’appropriazione proprietà, un enunciato linguistico legge, un insieme di parole sentenza, un insieme di soggetti famiglia o associazione o società, un pezzo di carta denaro o forse meglio titolo di credito, un insieme di cose azienda, un insieme di nulla “derivato”?

Dal teatro il diritto mutua uno dei suoi concetti più significativi, quello di persona: la maschera con cui ciascuno entra nella scena dell’esistenza. Col teatro il diritto condivide l’espressione parte: Jhering nota come attore e convenuto, accusatore e accusato siano nulla più che due maschere2, ciascuno col proprio brano da recitare; più suggestiva-mente Balzac dipinge l’attività della “difesa” come il dovere “di opporre un romanzo probabile al romanzo improbabile dell'accusa”3. Nel teatro e nel diritto è centrale l’interprete, qualcuno che media tra parole e cose, tra testo e contesto. Il diritto e il teatro hanno il medesimo carattere al-lusivo: quello che mettono in scena qui e ora, nell’enunciato di una nor-ma o nella performance di un attore, è solo un tassello di qualcosa di più complesso, è solo la ripetizione di qualcosa di più grande. Ronald Dworkin evoca la “catena narrativa”4 per descrivere la qualità della coe-renza, quasi le “puntate di una soap opera”, con cui ogni decisione giudi-ziale garantisce l’integrità del diritto, collegandosi ai precedenti e rice-vendo da questi plausibilità. Theatrum veritatis et iustitiae si intitola una del-le più grandi summae giuridiche dell’epoca barocca: i quindici libri con cui Giovanni Battista De Luca spazia dalle regalie alle servitù prediali, dai legati ai benefici ecclesiastici, dall’usura al divorzio, nella consapevolezza

1 G. STEINER, I libri hanno bisogno di noi, trad. it. Milano-Garzanti 2013, 10. 2 Lo ricorda F. CORDERO, Riti e sapienza del diritto, Roma/Bari-Laterza 1985, 329. 3 H. BALZAC, Un caso tenebroso, trad. it., Palermo-Sellerio 1996, 204. 4 R. DWORKIN, L’impero del diritto, trad, it., Milano-Il Saggiatore 1989, 215.

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che si tratti solo dei vari frammenti di una rappresentazione sempre ap-prossimativa delle aspirazioni umane.

Teatro e diritto sono caratterizzati da una forte componente rituale. Fanno, cioè, parte di quelle particolari pratiche presenti in tutte le culture con lo scopo di orientare, modificare, alterare, annullare e, in ogni caso, incidere sulle azioni umane attraverso un procedimento o un’ attività che si svolge secondo regole formalizzate. Gli eventi che il rito evoca assu-mono non solo un significato diverso e particolare rispetto a quanto av-viene effettivamente, ma anche una specifica autorevolezza e dignità che garantisce il consenso e l’armonia sociale. Questi effetti dipendono dal luogo in cui sono compiuti, dalla persona che li compie, dalle procedure che si osservano, dalle formule che si pronunciano. Nessuno di questi elementi ha isolatamente un valore proprio. Neppure nel loro insieme avrebbero un senso e un valore, se non si inserissero all’interno di qual-cosa di più ampio che li trascende e se non evocassero qualcosa di sfug-gente, tanto indecifrabile quanto fondamentale per l’esistenza umana. Nella sua allusività il rito conferma che c’è un oltre. C’è un tempio oltre lo spazio, una maschera oltre il corpo, una formula oltre le parole, un per-ficere, un portare a compimento, oltre il pro-ficere5, il portare avanti. Gli eventi non si perdono nel caos o si annullano nel caso, ma procedono: hanno un inizio e una fine. E quindi hanno un fine. Se non fosse così, osserva Kant, la creazione apparirebbe “come un‘opera teatrale [Schau-spiel] che non avesse un epilogo”6. La cogenza del rito garantisce la si-stematica conferma dell’esistenza di questo ordine, imperscrutabile ep-pure evocabile, in cui le vicende umane si inseriscono e definiscono.

E’ la religione a esprimere il rapporto con questo ordine superiore: il divino, il numinoso, l’irrappresentabile, l’innominabile… Quale che sia il termine presente nelle diverse tradizioni culturali, domina l’idea che l’uomo, come insegna Kerényi7, entra in contatto (Umgang) con “qualco-sa” da cui è dominato ma non riesce a dominare, da cui è pervaso ma non riesce ad afferrare. Umgang indica tutte le infinite sfumature di

5 U. CURI, Endiadi. Figure della duplicità, Milano-Feltrinelli 1995, 169 6 E. KANT, La fine di tutte le cose, trad. it. Torino-Bollati Boringhieri 2006, 245 7 K. KERÉNYI, Rapporto con il divino e altri scritti, trad. it., Milano-Bompiani 2014, 36-

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un’inesauribile andare (gehen) intorno (um): porre al centro, intrattenere, coltivare… O meglio, secondo la raffinata terminologia dell’analisi si-stemica, dinanzi al problema della contemporaneità tra determinatezza e indeterminabilità, la religione ha la funzione di trasformare la complessi-tà indeterminata in complessità determinabile: “per chi va in cerca del senso, interroga, soffre, dubita, il fatto che sia così soddisfa la funzione della religione”8. Al suo interno i riti sono i processi di comunicazione che regolano questa determinazione riduttiva, evitando il rischio dei fraintendimenti o delle devianze che potrebbero riaprire la voragine dell’indeterminazione. Infatti, più un rito è efficace nei risultati, più è ter-ribile nel fallimento. Nella religione e nel rito troviamo un aspetto cogni-tivo, perché consentono di rappresentare l’irrappresentabile, soddisfa-cendo la ricerca di senso con il “che sia così”. Troviamo anche un aspet-to morale, perché individuano, definiscono e consolidano il rapporto con l’altro in quanto altro: Dio, ma con Dio anche qualsiasi essere uma-no. “Andare verso di lui … vuol dire andare verso gli altri che sono nella traccia della trascendenza”9.

Questa duplice connotazione teoretica ed etica si rinviene nella di-versa etimologia che Cicerone e Agostino attribuiscono al termine reli-gio10. Sottolinea l’aspetto teoretico Cicerone (Nat. deor, 2, 27, 72) che risa-le al verbo religere relativo a “coloro che compivano con accuratezza tut-ti gli atti del culto divino e per così dire li rileggevano attentamente, fu-rono detti religiosi da «rileggere» …”. Agostino (Vera relig., 111-113) si rifà, invece, a religare, per sottolineare il legame con il quale “cerchiamo di raggiungere l’unico Dio e a Lui solo leghiamo le nostre anime (da do-ve si crede che provenga il termine religione?)”. Leggere o legare. Com-piere o cercare. Ripetere con accuratezza o guardare con attenzione. In ogni caso, l’individuo deve andare oltre se stesso, osservare il mondo con occhi diversi, con gli occhi dell’altro. Il segno di un limite e intanto il conforto della presenza di qualcuno accanto a sé. La perdita dell’illusione dell’onnipotenza e in cambio la potenza, oltre la paura della

8 N. LUHMANN, Funzione della religione, trad. it. Brescia-Morcelliana, 1991, 46. 9 E. LEVINAS, L’umanesimo dell’altro uomo, trad. it., Genova-Il melangolo, 1985, 91-2. 10 M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, trad. it. Milano-Bompiani

2005, 959.

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solitudine, dell’esistenza di legami: religiosi prima e sociali poi. O meglio sociali, perché religiosi. La religione è il cemento della coesione sociale, perché rivela i limiti della natura umana. “Questo pensare a partire dall’altro (Vom-andern-her-denken)… potrebbe essere simbolizzato con l’«amore», e si potrebbe tentare di comprendere l’amore in modo tale da fonderlo quasi con la religione”11.

Anche la definizione del diritto con cui si aprono le Institutiones ri-chiama la religione in una duplice valenza: intellettuale e spirituale. Ul-piano, commentando la nota definizione di Celso del diritto come ars bo-ni et aequi, osserva “giustamente siamo detti sacerdoti (merito quis sacerdos appellet), coltiviamo infatti la giustizia e dichiariamo la nozione del buono e dell’equo, separando ciò che è equo da ciò che è iniquo e il lecito dall’illecito, desiderando rendere buoni non solo per paura delle pene, ma anche con l’esortazione dei premi, raggiugendo, se non erro, una fi-losofia vera e non simulata (veram …philosophiam, non simulatam affectan-tes)” (D. 1, 1, 1, 1). L’espressione sacerdos è un mero espediente retori-co12? Oppure indica come la dimensione sapienziale, insita nella pretesa di separare l’equo dall’iniquo e il lecito dall’illecito, abbia necessariamen-te qualcosa di sacro? L’uomo, se vuole trovare se stesso, se vuole trovare il giusto equilibrio della propria esistenza, deve cercare Dio, perché la verità sta oltre le singole cose: quello che avviene qui e ora, è solo la rappresentazione di qualcosa che non si può dominare, ma solo evocare. Una vera philosophia è quindi inseparabile dal divenire sacerdos, custodi del rito. Colpisce, nelle parole di Ulpiano, il riferimento alla simulazione (si-mulatam) e all’apparenza (affectantes). Anche il rito è simulazione e appa-renza, in una parola rappresentazione, ma questa rappresentazione è “vera”, perché non dipende dall’uomo, ma deriva dal rapporto con Dio: è religio, la prova dell’esistenza di un legame che va continuamente rilet-to, rievocato e riconfermato.

La cultura romana si caratterizza rispetto a tutte le altre culture, an-che a quella greca a cui deve tanto, proprio per il fatto che la dimensione

11 N. LUHMANN, op. cit., 60. 12 G. FALCONE, La ‘vera philosophia’ dei ‘sacerdotes iuris’. Sulla raffigurazione ulpianea dei

giuristi (D. 1.1.1.1) in M. MARRONE, G. FALCONE (a cura di), Scritti giuridici/ Bernardo Al-banese, Torino-Giappichelli 2006.

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religioso-rituale e la dimensione laico-razionale non sono mai nettamen-te separabili. Non lo sono negli oscuri ricordi delle origini, ma neppure nei compiuti sviluppi dell’organizzazione burocratica dell’impero. Pur tendendo sempre più a differenziarsi, res divinae e res humanae “manten-gono tra loro una rete fittissima di rapporti e di scambi”13. Sin dalle ori-gini i pontefici hanno il monopolio del diritto, ne amministrano le for-mule, ne custodiscono gli atti, ne regolano gli sviluppi, ma “non agisco-no come uomini dotati di una potenza carismatica, come maghi, indovi-ni o profeti, sono piuttosto degli esperti e dei tecnici. Sono essi i primi giuristi nella sfera umana e sacrale”14.

Una delle manifestazioni più evidenti e significative della intersezio-ne e della persistenza del rapporto tra umano e divino è costituita dal ius fetiale: il collegio sacerdotale preposto al compimento dei riti necessari a rendere legittima la guerra “ut omne bellum quod denuntiatum indic-tumque non esset, id iniustum esse atque impium iudicaretur” (Cic. De Rep. 2, 17, 31). I vari studi15 hanno messo in luce come il compito dei sa-cerdoti non fosse soltanto mistico, teso a ottenere il favore degli dei, ma anche politico- strategico. Abbiamo un ius sanzionato da una religio, ma anche una religio che convoglia la più cruenta delle attività umane entro schemi di qualificazione giuridica: “un legame complesso che si instaura non direttamente con gli altri popoli, bensì tra il popolo romano e gli dei, e fra questi ultimi e gli altri popoli”16. Siamo lontani dalla mera, ed esclusivamente religiosa, invocazione del sostegno di Dio che troviamo, ad esempio, nei Salmi dell’Antico Testamento: “condannali, o Dio, soc-combano alle loro trame” (5, 11); “colpiscili con lo spavento, o Signore” (9, 21).

Il rito dei feziali chiama a raccolta gli dei, ma attraverso tutta una se-rie di condizioni giuridiche: è più una giuridicizzazione che una diviniz-zazione del conflitto. Il “che sia così” di Luhmann non ha, qui, solo il

13 A. SCHIAVONE, I saperi della città, in Storia di Roma, vol. I Roma in Italia, Torino-

Einaudi 1988, 564. 14 M. BRETONE, Storia del diritto romano, Roma/Bari-Laterza 1987, 109. 15 G. TURELLI, «Audi Iuppiter». Il collegio dei feziali nell’esperienza giuridica romana, Mila-

no-Giuffrè, 2011. 16 V. ILARI, L’interpretazione storica del diritto di guerra romano tra tradizione romanistica e

giusnaturalismo, Milano- Giuffrè 1981, 9.

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ruolo acquietante di garantire la vittoria ed eliminare gli scrupoli dell’imminente massacro, ma anche inquietante, perché ricorda che c’è sempre da rispettare un ius che sta al di sopra di ogni vicenda umana, anche la più crudele ed orrenda. Solo attraverso questo ius, evocato e tracciato dal rito, è possibile mantenere il rapporto con gli dei e quindi il legame sociale. Come è possibile? La guerra è strutturalmente la nega-zione di qualsiasi legame e rapporto, ha davanti a sé solo il nulla della di-struzione e della morte. E’ possibile, perché il rito ammonisce sul fatto che la guerra non è tutto. Non è un fine. Lo ribadisce il ius fetiale, evo-cando nei sui riti, il fine per cui si combatte: la giustizia. Vi è probabil-mente molta ipocrisia in tutto questo. I romani sono, forse, gli inventori di quelle guerre umanitarie, di quelle guerre civilizzanti che caratterizza-no tragicamente il nostro tempo. Tuttavia l’insegnamento che ci deriva dalla pervicace pratica del ius fetiale è che esiste un valore ulteriore da preservare, oltre e al di là della vittoria: il legame sociale. E il legame so-ciale non dipende dalla potenza del vincitore, ma dal rispetto degli dei. La potenza militare è paradossalmente legata (religio) al riconoscimento dell’impotenza umana. Ecco perché “omne bellum quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque impium iudicaretur”.

Le prime parole delle Institutiones alludono a questa continuità tra i sacerdoti che sono divenuti anche sapienti e i sapienti che non possono non sentirsi anche sacerdoti? Si deve tener presente che, come mostra il ius fetiale, nella dimensione rituale e religiosa del diritto emerge anche uno degli aspetti più inquietanti dell’identità umana: la presenza della violenza, di una violenza originaria e sempre latente che la religione non nasconde, ma anzi mette in luce in tutta la sua brutale ottusità. “Ho uc-ciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido” (Genesi 4-23,24).

Girard ha scritto opere fondamentali sull’assassinio originario e ritu-ale, presente in tutti i miti e in tutte le religioni, che fonda la comunità politica, perché segna il passaggio dal tutti contro tutti al tutti contro uno. Il sacro si costituisce, quindi, sulla ritualizzazione istituzionalizzata dell’uccisione (ad esempio la lapidazione), indispensabile a dislocare pau-ra e violenza verso qualcosa di definito (è lì, è quello che abbiamo ucci-so) e insieme indefinito, perché è la causa di tutti i mali, l’origine di tutte

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le disgrazie. “Sono i disordini caratteristici dei gruppi umani che con un processo paradossale, ossia aggravandosi sempre più, permettono agli uomini di darsi delle forme di organizzazione: le quali, sorgendo in un modo o nell’altro dalla violenza al suo parossismo, riescono a mettervi fine”17.

Il diritto, attraverso il rito, traspone questa carica di violenza su un altro piano. Tende a farne, da motivo di crisi e conflitto, un momento di aggregazione sociale. Pensiamo alla legis actio sacramento in rem, descritta da Gaio (4.16). Qui tutto reca ancora l’impronta della violenza: dalle parole (vindicatio, contravindicatio, manus iniectio) alle azioni (il tocco della festuca) fino all’epilogo (quando tu iniuria provocasti, sacramento te provoco). Il rito, nel mettere in scena la violenza (vim dicere, vim dicare), la trasfigura, perché sposta l’andare contro del vim dicare nel rendere conto del vim dicere, nella ri-cerca di ragioni per giustificare la propria azione. La nascita del rito se-gna il passaggio, fondamentale per l’esistenza del diritto, dal vim dicare, immediato, istintivo, incontrollabile, al vim dicere mediato, razionale, isti-tuzionale.

E’ interessante il modo in cui Legendre18 collega l’origine del lega-me sociale e della stessa identità umana (instituere vitam) con il rendere con-to delle proprie azioni che implica la “invenzione di referenti”, la ricerca di un’entità “in nome della quale” (au nom de) è legittimo agire. La società sussiste solo quando si rompe la pretesa onnipotenza del soggetto, chiu-so nell’assolutezza dei propri desideri, delle proprie passioni, della pro-pria forza. Interdetto, il primo divieto, la prima regola (Legendre pensa tanto al divieto dell’incesto di Freud quanto alla Grudnorm kelseniana) è anche un inter dire, un dire insieme (vim dicere?) che, segnando la frattura tra sé e il mondo, pone di fronte al limite e intanto impone la ricerca di un sistema di referenti con cui stabilire relazioni e rapporti. E’ Dio il re-ferente per eccellenza che fonda e condiziona tutti i successivi giochi dell'esistenza, perché significa tutto e nulla, decifra la realtà restando in-decifrabile: un “che sia così” che appaga, ma non esaudisce la domanda di senso, si limita differire la risposta all’imperscrutabile fine dei tempi. La Grundnorm di Kelsen è, in fondo, solo un “che sia così” che regge un

17 R. GIRARD, Vedo Satana cadere come la folgore, trad. it. Milano-Adelphi, 2001, 96. 18 Le désir politique de Dieu. Étude sur les montages de l'état e du droit, Paris-Fayard 1988.

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sistema di “che sia così” a cui diamo il nome di ordinamento giuridico? La tecnicizzazione del diritto, che mette assieme ritualità e concettualiz-zazione, consente il riciclaggio periodico e costante dei modelli di refe-renza, offrendo la possibilità dell'interpretazione e, allo stesso tempo, della sovversione di ogni interpretazione nel continuo vai e vieni della dogmatica che, come Dio, crea e distrugge, conferma, completa, con-traddice, eppure è sempre uguale a se stessa. La dogmatica starebbe a indicare ciò che è legale in quanto tale, rievocando, o meglio mettendo in scena, lo spazio originario e proprio di ogni società: l’interdetto come ine-stricabile connessione di regole e parole, un referente che racchiude l’essenza dell’umano. Da Dio al diritto, dal diritto allo Stato, abbiamo un sistematico lavoro di réglage della rappresentazione, di continua invenzio-ne di nuovi referenti. Tutte le procedure rituali sono, dunque, destinate a “far vedere il principio, ossia a fissare il postulato unificatore della socie-tà”19.

Cosa ce ne facciamo oggi, ammesso che siano plausibili, di tutti que-sti discorsi? All’interno di un compiuto processo di secolarizzazione, l’origine religiosa della ritualità giuridica appare solo un vago ricordo. Persino nel giuramento, uno dei più evidenti residui rituali, è divenuto superfluo il richiamo a Dio. Già nei primi decenni del novecento Axel Hägerström, uno studioso che ha diviso la propria attenzione tra Gaio e Pavlov, suggeriva di considerare i concetti giuridici come forme simboli-che ritualizzate che hanno svolto il ruolo, quasi magico, di condizionare psicologicamente le condotte umane, dando una consistenza apparente a entità prive di qualsiasi realtà. Cosa vi è di più vago e vuoto di nozioni come obbligazione, dovere, diritto, proprietà? “The reason is that in point of fact, they have their roots in traditional ideas of mystical forces and bonds”20. Questo inavvertito e sistematico condizionamento deriva proprio dal fatto che all’origine della nostra civiltà giuridica troviamo il diritto romano in cui “there was no separation between fas, the divine law, and ius, the human. Nearly all transactions seem to have taken a re-

19 P. LEGENDRE, Della società come testo. Lineamenti di un’Antropologia dogmatica, trad. it.,

Torino-Giappichelli 2005, 63. 20 A. HÄGERSTRÖM, Inquiries into the Nature of Law and Morals, Stockholm-Almqvist

& Wiksell 1953, 16.

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ligious form. The administration of law was a religious concern”21. Il di-ritto è l’ultima delle grandi autorità prerazionali? Quello che suggerisce Hägerström viene, poi, sostenuto senza mezzi termini da Rudolf Wie-thölter in un libro che risente di tutta la tensione degli anni in cui è stato scritto, il 1968, ma che vuole presentarsi puramente e semplicemente come una Rechtswissenschaft. E’ stato l’editore italiano che ne ha accentua-to la carica polemica, preferendo il titolo: Le formule magiche della scienza giuridica. In effetti la tesi centrale del libro è che rituali e formule hanno determinato una sorta di “incantesimo”, che ha finito per ottundere, per secoli, le valutazioni razionali e la consapevolezza critica. Ottundimento di cui non riusciamo a liberarci neppure adesso. “Esso (il diritto) conti-nua ad esistere come un campo dove la ragione è fuggita e vi alligna in-disturbata la tradizione con le sue litanie formali e l’autorità con le sue arroganze”22. Anche senza giungere a conclusioni così radicali, è sempre più diffusa la visione del diritto come una pratica sociale da cui, se scatu-risce qualcosa di implicitamente morale come lo stare assieme senza vio-lenza o l’accettare di risarcire un danno, si tratta solo dell’esito di abitu-dini assunte inconsapevolmente 23.

Le letture “decostruzioniste”, ispirate da Derrida, insistono su que-sto aspetto mistificante, ma per allargare il discorso all’identità umana e al rapporto tra linguaggio e potere: i riti e le procedure che da secoli ammantano il diritto sono solo una maschera per nascondere l’uso della forza e l’origine infondata del potere. In uno dei pochi scritti che dedica al diritto24, Derrida riflette sull’espressione inglese enforce the law, che non prova neppure a nascondere la presenza della forza nell’applicazione del-la legge, e la collega a Zur Kritik der Gewalt25: uno dei saggi più crudi di Benjamin dove tutte le forme di potere, con il loro correlato monopolio sulla morte, appaiono solo violenza (fondatrice) della violenza (escluden-

21 Ivi, 57. 22 R. WIETHÖLTER, Le formule magiche della scienza giuridica, trad. it., Bari-Laterza 1975,

27. 23 Ad esempio, J. WALDROM, Principio di maggioranza e dignità della legislazione, trad. it.

Milano-Giuffrè, 2001, 28. 24 J. DERRIDA, Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità, trad. it. Torino-Bollati

Boringhieri 2003. 25 W. BENJAMIN, Per la critica della violenza trad. it. in Angelus novus. Saggi e frammenti,

Torino-Einaudi, 1962.

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te) della violenza (conservatrice). Già a livello semantico il tedesco pre-senta un’inestricabile combinazione: gewalt è traducibile con potere, ma anche con forza e violenza. Tra le pieghe del linguaggio continuiamo a scorgere (e a decostruire?) quella carica di violenza intrinseca all’assun-zione e all’esercizio del potere che il diritto si sforza di occultare. “Ora l’operazione consistente nel fondare, inaugurare, giustificare il diritto, nel fare la legge, consisterebbe in un colpo di forza, in una violenza performa-tiva che in sé non è né giusta né ingiusta e che nessuna giustizia, nessun diritto preliminarmente e anteriormente fondatore, nessuna fondazione preesistente, per definizione, potrebbe garantire né contraddire o invali-dare”26. Derrida pensa anche a Pascal, quando afferma che “la giustizia senza la forza è contraddetta, perché ci sono sempre malvagi; la forza senza la giustizia viene riprovata. Occorre, dunque, congiungere la giu-stizia e la forza, facendo in modo che quel che è giusto sia forte e quel che è forte sia giusto… E così, non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fos-se giusto”27. Il diritto, suggerisce Derrida, è “costruito” su tutti gli strati (il rito, aggiungo io, è uno di questi) che storicamente hanno fatto in modo che restassero nell’ombra la presenza della violenza e l’origine infondata del potere. Un’opera filosofica di decostruzione è possibile proprio per-ché c’è qualcosa, all’interno del diritto, che non è decostruibile: la giusti-zia. La giustizia, “se esiste qualcosa che possa chiamarsi giustizia”, è infi-nita, incalcolabile, “eterogenea ed eterotropica” e quindi porta altrove, rivela altre forze, differenzia, decostruisce: “la decostruzione ha luogo nell’intervallo che separa l’indecostruibilità della giustizia e la decostrui-bilità del diritto”28.

Come sottolinea Garritano29, introducendo questo saggio di Derri-da, la giustizia che ha luogo attraverso la legge non è una mera decisione, ma formulazione del diritto e quindi linguaggio. La decisione va “firma-ta”, “sottoscritta”, riconosce così “l’anteriorità” di un percorso, di “un avvenire giungente al presente, che non è mai tale”. E qui ritorna il tema

26 Ivi, 62-63. 27 B. PASCAL, Pensieri, Torino-Einaudi 1962, § 310, 145. 28 J. DERRIDA, op. cit., 64. 29 Ivi, 43.

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tipico delle teorie decostruzioniste del differimento, della differenza come tensione tra forza e forma. E’ mai possibile eliminare questa tensione? Rivolgersi all’altro nella lingua dell’altro? Il linguaggio, come il rito e co-me il diritto, è la forma e insieme il custode del potere. Potranno mai l’accusatore e l’accusato parlare la stessa lingua? E il giudice e il condan-nato? Non possono. Lo dice chiaramente uno dei pensatori americani più vicini a Derrida: Stanley Fish. “Force is simply a (pejorative) name for the thrust or assertion of some point of view” 30. La “forza” della legge è indistinguibile dalle forze che le si oppongono. La retorica è solo uno dei tanti nomi che diamo alla forza. Ci sarà sempre un conflitto nel-le nostre teste. Già Wiethölther aveva scritto che “l’autorità divide dun-que gli uomini in capi e sottoposti (anche traviati), giudici e giudicati (anche condannati), dominati e dominanti (anche schiavizzati), ricchi e poveri (anche derubati)”31.

Siamo tornati al punto di partenza? Il diritto, con le sue strutture ri-tuali, ha un carattere performativo perché, come insegna la teoria del linguaggio, non produce effetti semplicemente comunicativi, ma modifi-ca la realtà, ha una forza (sempre la “forza”) illocutiva. La forza illocuti-va è un’illusione ci dice Hägerström, è una mistificazione o un effetto retorico ci dicono le teorie decostruzioniste. Anche se fosse meramente illusorio o mistificante, affidarsi al linguaggio piuttosto che alla violenza è, in ogni caso, una svolta antropologica radicale. Come ha evidenziato Legendre, presuppone infatti l’invenzione di referenti, di un elemento terzo (Dio, le parole, le regole, il sacerdote, il giudice) che costituisce il legame tra due soggetti, altrimenti contrapposti, altrimenti pronti ad u-sarsi vicendevolmente violenza. E’, però, sempre possibile obiettare che in un processo c’è chi vince e chi perde. “Force is already inside the gate, because it is the gate”32, direbbe Fish. E’ innegabile che nella presenza dei riti si avverta l’ossessione della violenza di cui ogni comunità umana, dalla più primitiva alla più evoluta, non solo non riesce, ma non può li-berarsi. C’è, però una profonda differenza nel preferire la parola alla

30 S. FISH, Force in Doing What Comes Naturally. Change, Rhetorik and the Practice of

Theory in Literary and Legal Studies, Oxford-Clarendon Press,1989, 521. 31 R. WIETHÖLTER, op. cit., 32. 32 Op. cit., 519.

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guerra, la cerimonia allo scontro, la forma al caos. I riti hanno il pregio di segnare questo passaggio, di renderlo stabile nel tempo. Hanno il di-fetto di non riuscire a nasconderlo, di portare ancora con sé, tra vindicatio e enforce law, le tracce dell’uso della forza. Ma è un difetto o un significa-tivo ammonimento antropologico?

Credo che il processo di secolarizzazione abbia solo apparentemen-te cancellato i riti ed eliminato la violenza. Ha piuttosto cambiato la na-tura degli uni e dell’altra, rimuovendo ogni elemento allusivo a un ulte-riore ammaestramento antropologico. L’economia e la tecnica hanno preso il posto della religione come elemento fondamentale di organizza-zione della società. Galimberti afferma acutamente che, a differenza del medioevo, se dal mondo contemporaneo levassimo la parola Dio, riusci-remmo ancora a comprenderlo, ma non sarebbe così se togliessimo la parola denaro o tecnica33. Anche l’economia e la tecnica sviluppano una sorta di ritualità mistica che produce effetti vincolanti per gli assetti mondiali. Ad esempio il WTO (World Trade Organisation). Sono riti in-cruenti, con vittime “pulite”. Sono dislocati ancora nell’intangibilità del “che sia così”, ma senza tracce di sangue, senza guerre o lapidazioni e nemmeno tocchi di festuca sullo sfondo. Nessuno meglio di Legendre descrive il carattere mistico-rituale di queste liturgie sociali dominate dal denaro. “Il denaro appartiene alla teatralità sociale. Al livello della pratica corrente rileviamone ciò che è più evidente. La moneta manuale non esi-ste che riferita al garante del suo valore nominale, garante materializzato per così dire da delle raffigurazioni tangibili fissate in una grafia o un in-tarsio (biglietto o moneta). In tal modo, nella sua manifestazione tradi-zionale, si può dire che attraverso il gesto simbolico ripetuto del paga-mento, la circolazione del segno monetario è sottintesa dalla circolazione della messa in scena del garante raccolta sotto un nome”34.

Pensiamo ai “derivati”, questi prodotti con cui la finanza interna-zionale, con la stessa forza illocutiva di una formula sacerdotale, ha ge-nerato dal nulla “cose” o meglio 356 trilioni di dollari35, secondo le stime

33 U. GALIMBERTI, Cristianesimo. La religione da cielo vuoto, Milano-Feltrinelli 2012, 412. 34 P. LEGENDRE, Della società come testo, op. cit., 109. 35 N. DUNBAR, Quei diavoli di derivati. Bugie e segreti dello strumento finanziario più

controverso, trad. it. Milano-Egea, 2011, 27 (versione eBook).

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del 2008. Il nulla è diventato svariati trilioni di dollari, innanzitutto, at-traverso le “formule magiche” della dogmatica giuridica. Non più vindica-tio o ius fetiale, ma forward contract (contratti per consegna differita o a ter-mine), options (contratti a premio), interest rate swap (scambio di interessi a termine). Formule magiche unite a misteriosi e indiscutibili calcoli ma-tematici di misurazione del rischio (value at risk) e a altrettanto imper-scrutabili valutazioni della borsa. Il tutto è avvenuto con la benedizione dei nuovi sacerdoti (le agenzie di rating e le market making firms) in un rito officiato in nome del nuovo dio, il pil. “…l’attività borsistica, giunta alla stadio di casa da gioco mondiale, illustra il fanatismo che sottende la mi-schia umana per gettare la perdita sull’altro…”36. C’è tanta differenza tra questi riti mondiali di accaparramento della ricchezza, di sfruttamento brutale di milioni di esseri umani, e le guerre coperte dalle formule del ius fetiale?

C’è una profonda differenza. Il legame tra rito e religione evocava continuamente il senso del limite, indicava che l’uomo non è il padrone della propria esistenza e che deve rendere sempre conto del proprio o-perato. La violenza, la violenza che fondava e giustificava il potere, re-stava sempre presente sullo sfondo, ma la minaccia del potere sull’individuo era sovrastata da quella di Dio sul potere. Vindicatio, ius fe-tiale e i tanti istituti escogitati dai sacerdoti-giuristi di tanti secoli fa met-tevano in luce che c’è un oltre: oltre l’individuo e oltre il potere: c’è Dio. Se il potere non può render conto (vim dicare) di se stesso altrimenti non sarebbe tale, deve rendere conto a Dio (vim dicere). La divinizzazione del potere era anche un suo ridimensionamento. Il potere dipende da un rito, da una formula, da un sacerdote. Potremmo dire, rubando qualcosa a Derrida, che il rito mette in scena la “differenza”, quello che differisce dal potere: la debolezza umana. Se l’uomo è debole, se l’uomo è impo-tente, come può essere onnipotente un suo prodotto, il potere? Il rito non nasconde, ma svela quanto siano infondate le pretese del potere, di ogni potere.

I nuovi riti, dall’economia alla tecnica, si fondano, invece, sull’onnipotenza. L’onnipotenza del fare. Si diviene ciò che si fa.

36 P. LEGENDRE, Della società come testo op. cit., 216.

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L’allusività di un assoluto, sovrastante e irraggiungibile, che l’esperienza religiosa affida al rito diventa l’asso-lutezza dell’effettualità della prassi. L’effettualità, ma anche l’incontrollabilità. La prassi non si può control-lare, perché non ha un fine, non ha fine. E’ veramente assoluta, cioè sciolta da qualsiasi vincolo e legame. La “innocenza del fare”, esaltata da Nietzsche in Morgenröthe, mostra come la prassi sia strutturalmente amo-rale, stia al di là del bene e del male. Per questo non deve rendere conto delle vittime che produce. Non esistono neppure. Non sono vittime. Sono scarti di produzione, fallimenti, rifiuti speciali. Il problema è come smaltirli, non come evitarli. Il diritto collabora a quest’opera di smalti-mento, avallando l’intangibilità dei meccanismi del mercato. Sembra di sentire, il giudice Azdak di Brecht, “…ho ficcato il naso nelle tasche dei ricchi, e è falsa testimonianza”37.

Penso che dovremmo incominciare a riflettere su quanto i novi riti e i nuovi sacerdoti di un’economia e di una tecnologia che si autogoverna-no senza limiti su scala globale incidano sui presupposti della democra-zia e dello Stato di diritto. La democrazia e lo Stato di diritto esprimono il primato dell’impotenza: la democrazia è l’unica teoria delle forme di governo che si fonda sulla necessità di mettere sempre in discussione il potere (riserva fallibilistica); lo Stato di diritto è inconcepibile senza la limitazione e divisione del potere. Possiamo escludere che questo prima-to dell’impotenza derivi anche dal senso del limite espresso dalla religio-sità rituale del diritto romano? Cos’era il ius fetiale se non l’ammonimento di un’ineliminabile impotenza rispetto a Dio dinanzi alla prepotenza del-la guerra? L’impotenza non può, invece, essere un valore per l’economia di mercato e per la tecnica che l’alimenta. Non vi è nulla di più lontano dall’impotenza del primato del fare. Ci siamo liberati dalla “magica” im-potenza dei riti del nostro passato per affidarci all’ “innocente” onnipo-tenza dei riti del nostro futuro?

37 B. BRECHT, Il cerchio di gesso del Caucaso, trad. it. in Teatro, vol. III, Torino-Einaudi,

1974, 597.

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Religio e ius privatum in Roma antica

Francesco Arcaria

Abstract. – The basic importance of religion in every sensitive side of the life of Roman cives had great reflections on the Latin legal system. A survey of the relation-ship between sacrum and ius in civil law allows the interpreter to understand, on one side, the role played by religion in the first steps of Roman legal experience and, on the other side, the inner characters of archaic institutions such as matrimonium, adoptio, institutio heredis and sponsio.

Keywords: Religio – Ius privatum – Matrimonium – Adoptio – Institutio heredis.

1. Nella Roma arcaica ogni momento dell’esistenza umana era a tal

punto permeato dalla religione che cercare di tracciare una netta linea di demarcazione tra la sfera religiosa e l’ambito giuridico costituisce non solo uno sforzo inutile ed arbitrario, ma anche, e soprattutto, una peri-colosa incomprensione della realtà storica e giuridica di Roma antica, appalesandosi pertanto come un tentativo destinato al fallimento in quanto assolutamente inidoneo a coglierne uno degli aspetti più salienti e peculiari.

Tuttavia, l’assoluta centralità della religio in ogni fase sensibile della vita dei cives romani può consentire all’interprete moderno di sfruttare le molteplici suggestioni di ordine religioso derivanti dalla primitiva espe-rienza romana al fine di percepirne anche le implicazioni giuridiche, con la conseguenza che un’indagine sulle relazioni esistenti, in ambito priva-tistico, tra il sacrum ed il ius, aiuta non poco a comprendere meglio, da un lato, il ruolo giocato dalla religione nelle fasi evolutive più risalenti dell’esperienza giuridica romana e, dall’altro, l’essenza ed il funziona-

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mento di istituti fondamentali del diritto romano arcaico, quali il matri-monium, l’adoptio e l’institutio heredis.

Istituti, questi, che, a ben vedere, erano accomunati dall’idea dell’esistenza e della perpetuità della discendenza e, quindi, strettamente legati alla figura del pater familias, al quale, nel più ampio contesto del ruolo centrale da questi svolto, all’interno della domus (quale tempio del culto domestico e luogo sacro per eccellenza della religione privata) e sotto il diretto controllo dell’organo sovrano del collegio dei pontefici, nell’attività di organizzazione, gestione ed attuazione delle celebrazioni cultuali (rispetto alle quali si configurava come un vero e proprio som-mo pontefice), spettava anche il fondamentale compito di garantire la sopravvivenza della propria familia provvedendo ad indicare il suo suc-cessore, mediante l’istituzione di un erede testamentario, tra la prole legi-tima generata da iustae nuptiae o, in sua assenza, facendo ricorso all’adoptio od all’adrogatio.

2. Ciò premesso, e dopo avere anche constatato e debitamente sot-

tolineato come gli studi sui rapporti tra religio e ius civile Romanorum, per quanto ponderosi e articolati, siano rimasti spesso ancorati ad un taglio a tal punto fondato sui rigidi schemi della giusromanistica da non mostra-re l’aggancio tra il momento sacrale e quello giuridico, risolvendosi nella sterile indicazione di un’improduttiva serie di nozioni giuridiche elemen-tari avulse dal quel contesto religioso nel quale ciascun istituto sarebbe dovuto essere adeguatamente calato, e, quindi, da rendere auspicabile un approccio più sensibile alle necessità storiche sottostanti alla fenomeno-logia giuridica ed aperto ad altre prospettive (letteraria, filologica, ar-cheologica ed antropologica) utili a decodificarne il momento religioso, l’indagine può prendere le mosse dal matrimonium.

Come è noto, il matrimonio romano era fondato su una complessa rete di valori di ordine sociale, giuridico e religioso e gran parte delle so-lennità di questo istituto era legata ai sacra, dal momento che assicurare la perpetuità della discendenza voleva dire anche conservarne il peculiare culto privato, e viceversa. Pertanto, scopo ultimo del matrimonio non era solo la salvaguardia della specie, ciò che induceva a ritenere il celiba-to un’empietà, ma anche l’adempimento di un obbligo religioso. Alla ba-

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I

INDICE S. Randazzo Premessa 1 SEZIONE PRIMA ORIENTAMENTI S. Amato Merito quis sacerdos appellet 5 F. Arcaria Religio e ius privatum in Roma antica 21 A. Bettetini Appunti sul fondamento giuridico delle persecuzioni contro i cristiani e sulla libertà religiosa 35 J. Rüpke Historians of religions and the space of Law. 43 SEZIONE SECONDA CONTRIBUTI F. Alicino L’editto di Costantino e l’Initium libertatis della Chiesa cattolica. “Segni” e “riti” di una mutazione 53 A. Arnese La religione degli altri: tolleranza o repressione? 93 S. Castagnetti Ancora sui suspendiosi nelle leges libitinariae: aspetti religiosi e giuridici 105

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II

F. Chini Idee vecchie e nuove intorno ai concetti di ius e fas 115 S. A. Cristaldi Confarreatio e svolgimento delle nozze 153 M. Falcon ‘Praetor impius': ‘ius dicere’ nei ‘dies nefasti’ 187 L. Franchini Principii di ius pontificium 265 A. Milazzo Causa funeris e causa religionis: spunti ricostruttivi sui sacra praticati dai collegia funeraticia 305 V. M. Minale Costantino, Strategio Musoniano e i Manichei: ancora su Amm. Marc. Res Gestae 15.3.2 333 E. Quadrato Urbem condere: la città «nuova» tra fas e ius 357 A. Spina Il diritto oltre la vita. Aspetti ideologico-religiosi del diritto successorio romano. 373 G. Turelli Fetialis religio. Una riflessione su religione e diritto nell’esperienza romana 449 INDICE DELLE FONTI 495 INDICE DEGLI AUTORI 507