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LE RELAZIONI INDUSTRIALI TRA MACRO E MICRO di Davide Magnani La letteratura prevalente appare concorde nel definire le Relazioni industriali (industrial Relations) come l’insieme delle relazioni collettive tra lavoratori e datori di lavoro. Il requisito della collettività, che porta ad escludere le relazioni che l’impresa instaura o mantiene con i propri collaboratori a livello individuale, costituisce un elemento essenziale della definizione oggi consolidata (Cella e Treu 2009) ma non rientra nel paradigma originale di stampo anglosassone (Kaufmann, 2006), che ricomprende "qualunque avvenimento legato al lavoro dipendente"[1] e che meglio potrebbe essere compendiato con l'espressione "Relazioni di lavoro" (Employment Relations). Appare invece definitivamente assodato che l'ambito di indagine non presenti restrizioni relativamente all'attività economica svolta: il termine “industrial” si riferisce a tutti i settori (industry) di attività economica, sia del comparto industriale che di quello del terziario, sia del comparto pubblico che di quello privato. Tale termine è stato tradotto in italiano con l’aggettivo “industriali” poiché tradizionalmente le relazioni in questione hanno riguardato in misura largamente prevalente i settori manifatturieri. Al fine di evitare fraintendimenti appare pertanto preferibile ricorrere all'espressione "Relazioni collettive di lavoro", che presuppone l’esistenza di un soggetto intermedio cui i lavoratori affidano il compito di gestire per proprio conto i rapporti con l’impresa (Giudici 2004). Nel presente documento le locuzioni "Relazioni collettive di lavoro" e "Relazioni industriali" saranno utilizzati come sinonimi. Dalla premessa di cui sopra ne deriva che solo alcuni dei metodi di regolazione del lavoro afferiscono al campo oggetto del presente contributo. Ciascuno degli attori (individuali, collettivi, istituzionali) può fare ricorso a differenti “stili” di regolazione, che vanno dall’esercizio unilaterale del proprio potere ad uno stile negoziale per la ricerca di compromessi che tengano conto dei diversi interessi e dei rapporti di forza, fino a un approccio cooperativo, nel quale l’attenzione agli obiettivi condivisi prevale sulla massimizzazione degli interessi di parte (Regini, 2003).

Azione unilaterale

Azione negoziale

Azione cooperativa

Attori individuali

Regolazione manageriale

Contrattazione individuale Coinvolgimento diretto del

dipendente

Attori collettivi

Regolazione corporativa

Contrattazione collettiva Gestione

congiunta/partecipazione

Attori istituzionali

Regolazione legislativa

Patti sociali Concertazione diffusa

Secondo quanto illustrato, il management aziendale ha la possibilità di orientarsi su una regolazione fondata sul proprio potere organizzativo unilaterale oppure cercare almeno un

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minimo di consenso della forza lavoro, in via diretta, ossia senza la necessità di organismi intermedi di rappresentanza, oppure in via indiretta, mediante l’azione del sindacato. Come è stato opportunamente sottolineato (Regini 2000), il consenso è una variabile multidimensionale, che deve considerare aspetti quali l’estensione (su specifiche questioni o generale) e la tipologia (identificazione simbolica o coinvolgimento operativo). In altre parole, l’obiettivo del management è quello di ottenere dai lavoratori un livello di collaborazione funzionale al processo di produzione, e il ruolo svolto dal sindacato può essere quello di strumento per garantire tale collaborazione oppure di ostacolo al suo raggiungimento. Il livello di fiducia tra le parti assume un valore decisivo nell’influenzare l’atteggiamento del management, il quale si trova davanti ad un dilemma: perseguire una partecipazione attiva della forza lavoro che contribuisca alle performance dell’impresa ovvero, all’opposto, riservare al sindacato la possibilità di un eventuale e semplice avvallo di decisioni unilateralmente assunte.

Regolazione diretta

Regolazione indiretta

Gestione unilaterale Coinvolgimento dei lavoratori Gestione negoziata Coinvolgimento dei

rappresentanti

Consenso generale Persuasione (consenso come accettazione)

Partecipazione attiva diretta (condivisione degli obiettivi)

Riconoscimento dei diritti e potere (consenso come scambio)

Partecipazione strategica (gestione congiunta)

Consenso su aspetti specifici

Coinvolgimento sostantivo (consenso come compensazione)

Coinvolgimento regolativo (consenso come cooperazione pragmatica e ad hoc)

Per quanto riguarda i metodi di regolazione diretta, l’impresa può ricorrere a tecniche di coinvolgimento di stampo tradizionale e paternalistico finalizzate all’accettazione delle proprie decisioni oppure a forme di partecipazione di carattere innovativo (quale, in particolare, la comunicazione interna) attraverso la condivisione degli obiettivi da parte dei lavoratori. Per quanto riguarda invece i metodi di regolazione indiretta o mediata, l’impresa può ricercare il consenso dei rappresentanti dei lavoratori concedendo loro poteri e risorse, materiali o simboliche, oppure richiedendo un contributo degli stessi in alcune o nella maggioranza delle decisioni strategiche. Qualora il contesto esterno richieda trasformazioni profonde e rapide nell’organizzazione del lavoro, assume una rilevanza particolare la capacità dell’impresa di riuscire ad intervenire con rapidità su aspetti specifici e determinanti per mantenere la competitività. Le opzioni che si presentano sono quindi quella di ricercare il consenso mediante la distribuzione di benefici che assumono un carattere compensativo oppure attraverso un’offerta di cooperazione pragmatica finalizzata alla soluzione condivisa dei problemi e ad una nuova regolazione dei rapporti di lavoro (Regini 2000). Tradizionalmente, l’architrave su cui si fondano i sistemi di relazioni industriali è costituita dalla contrattazione collettiva, che rappresenta un metodo efficace e flessibile di regolazione dei rapporti di lavoro perché non si limita, come la denominazione sembra indicare, alla semplice attività negoziale, ma ricomprende anche l’attività di gestione degli accordi formali ed informali sottoscritti dalle parti (Flanders 1980), ove non è possibile prevedere l’intero ventaglio di

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possibili situazioni. Il concetto può essere esteso anche ad un’ampia serie di interazioni tra gli attori, che ricomprende anche riunioni informali, discussioni e comitati di studio (Royot 2004). In un contesto economico in rapido cambiamento e con pressioni competitive sempre maggiori è proprio la naturale evoluzione dell’esercizio di contrattazione collettiva nell’accezione sopra indicata ad aprire la strada al coinvolgimento delle rappresentanze dei lavoratori alle decisioni aziendali. Già negli anni Ottanta, in un periodo ancora segnato dal modello fordista di produzione e dall’assoluta predominanza del metodo della contrattazione collettiva, alcune ricerche condotte in Italia avevano evidenziato l’esistenza di rapporti diretti ed informali tra azienda e lavoratori nonché la tendenza, da parte di sindacati e di imprese, a definire congiuntamente i problemi e ad adattarsi pragmaticamente alle esigenze della controparte (Regalia 1995). Come è stato sottolineato (Regini 1989), se a livello nazionale le relazioni industriali sono state caricate di un notevole valore simbolico che ha enfatizzato una netta distinzione dei ruoli delle parti, a livello periferico ha potuto prevalere un certo pragmatismo volto alla soluzione dei problemi concreti e alla promozione di una necessaria flessibilità del lavoro. In presenza di un mercato instabile, la ristrutturazione cessa di essere una fase straordinaria e transitoria, e la necessità di riaggiustamento diviene ordinaria e costante. Tali trasformazioni sui sistemi di relazioni industriali escono dal cono d’ombra e assumono una evidenza sempre più marcata durante gli anni Novanta, quando gli sviluppi dell’integrazione economica europea e l’istituzione di organizzazioni finalizzate a garantire la libera circolazione delle merci a livello macro­regionale (NAFTA, ecc.) se non mondiale (WTO) accompagnano la progressiva internazionalizzazione dei mercati e, in ultima istanza, la diffusione di una concorrenza che va a permeare ogni ambito della società e dell’economia confliggendo necessariamente con il principio di solidarietà proprio dell'azione collettiva. Anche in questo caso, come già nel decennio precedente, si verifica una sorta di ‘divaricazione’ nei comportamenti delle organizzazioni dei lavoratori ai diversi livelli: se a livello comunitario l’azione sindacale è coerente con gli ideali solidaristici e di restrizione della concorrenza fra lavoratori, a livello nazionale il sindacato pragmaticamente non si sottrae ad una logica competitiva (Schulten 2004). E’ così che finiscono con il coesistere l’istituzione di organizzazioni sindacali sovranazionali che si propongono di limitare il pericolo di dumping sociale (ETUI) e la promozione di timide esperienze transnazionali di contrattazione collettiva (per prima fu la c.d. “Doorn initiative”), da una parte, e la sottoscrizione di Patti sociali volti al miglioramento della competitività del territorio interessato rispetto quelli circostanti, dall’altra. Quando gli attori fronteggiano un'elevata interdipendenza dei propri obiettivi, l'azione coordinata garantisce risultati migliori di un comportamento individualistico ed opportunistico, ed in questo senso sia le iniziative di livello sovranazionale che quelle nazionali spingerebbero, secondo un autore (Traxler 2005), ad un rafforzamento del sindacato (così come delle associazioni datoriali). Contestualmente alla menzionata evoluzione dei comportamenti del sindacato, negli ultimi anni si è verificata una tendenza alla decentralizzazione della struttura contrattuale, ossia di “quella rete relativamente stabile di rapporti di interdipendenza che intercorrono, in senso orizzontale, tra i diversi soggetti negoziali (occupanti diversi ruoli socioeconomici) e, in senso verticale, all’interno degli stessi soggetti collettivi (cioè fra i livelli delle organizzazioni di rappresentanza)”. Come è stato opportunamente sottolineato (Cella e Treu 2009), la struttura della contrattazione non è quasi mai manipolabile a piacimento dalle parti sociali secondo un approccio volontaristico, ma deriva dalla struttura sociale ed economica della produzione e dei mercati. La recente e progressiva intensificazione della competizione internazionale derivante

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dalla globalizzazione del mercato del lavoro e di quello dei beni e servizi, esercita una notevole pressione su una istituzione finalizzata alla definizione di standard normativi e retributivi o, in altre parole, alla protezione dei lavoratori dalla concorrenza[2]. Allo stesso tempo, negli ultimi anni si sono verificate notevoli trasformazioni sia nella struttura economica, con il declino dei settori tradizionali e maggiormente sindacalizzati, la crescita del terziario e lo sviluppo di nuovi settori da una parte, sia nella struttura occupazionale, con l'incremento dei lavori non standard (a tempo parziale, determinato, interinale, autonomo o pseudo­autonomo) a scapito di quello standard (Traxler 2005). Non devono infine essere sottovalutati l’importanza delle politiche comunitarie in materia di concorrenza e di quelle in materia di bilancio nonché il ruolo svolto dalle imprese multinazionali nelle azioni di lobbying sui governi nazionali e sovranazionali al fine di ottenere contesti favorevoli nonché nelle scelte di investimento di ingenti capitali, che fanno parlare di “beauty contest” tra le possibili sedi degli impianti produttivi (Meardi 2015). Il risultato di tutti i fattori menzionati è quello di estendere le logiche competitive anche alla regolazione del lavoro, spingendo il sistema verso una maggior flessibilità e la struttura contrattuale verso un maggior decentramento a livello di singola impresa. I contraccolpi sul sindacato sembrano presagire un indebolimento del suo ruolo di controparte negoziale multi­employer, mentre lasciano intatto quello di controparte single­employer: la presenza di un interlocutore stabile, capace di coordinare e di dare coerenza a una pluralità di spinte rivendicative, è interesse condiviso sia da parte dei lavoratori che delle imprese (Perkmann e al. 2001). Un’ulteriore conseguenza della pressione competitiva sulle relazioni industriali è rappresentata dal moltiplicarsi delle istanze circa una maggior partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese. L’instabilità dei mercati richiede strumenti di regolazione del lavoro flessibili e orientati ad un approccio più collaborativo e meno antagonistico rispetto alla contrattazione collettiva tradizionale, figlia di relazioni industriali conflittuali. La condivisione di obiettivi a medio termine permette infatti di bilanciare con la coesione interna all’impresa gli elementi di turbolenza e incertezza presenti nel contesto esterno. Per quanto riguarda il contesto europeo, negli anni Ottanta l'adattamento alle sfide della globalizzazione aveva registrato i maggiori successi proprio nei paesi che disponevano di un quadro normativo ed istituzionale fortemente partecipativo e collaborativo; negli anni Novanta, anche sotto la spinta di direttive comunitarie, tale modello regolativo è andato estendendosi (Biagi 2002). Se il sindacato riesce in questo modo a guadagnarsi nuovi spazi d’azione per sostenere gli interessi dei lavoratori, anche la parte datoriale può guadagnare in coinvolgimento e fidelizzazione dei dipendenti, requisito indispensabile per competere su terreni (quale quello qualitativo) che presuppongono la valorizzazione delle risorse umane. E’ proprio l’iniziativa manageriale in tal senso che avrebbe provocato in diversi Paesi europei il paradosso dell’inversione dei ruoli (Regalia 1998), suscitando il sospetto delle organizzazioni sindacali e quindi la loro scarsa propensione a sostenere le istanze partecipative dei lavoratori, che hanno rappresentato in passato una delle rivendicazioni fondamentali del movimento operaio nella prospettiva di un percorso di umanizzazione delle condizioni di lavoro. Gli ostacoli all’adozione di forme di partecipazione indiretta attraverso la rappresentanza sindacale avrebbero però l’effetto di spingere il management verso prassi di partecipazione diretta, con il rischio di una chiusura degli spazi di negoziazione e quindi di una marginalizzazione se non addirittura irrilevanza del sindacato all’interno delle imprese (Perkmann e al. 2001)[3]. Non va peraltro dimenticato che una delle principali ragioni che giustificano la presenza del sindacato all’interno delle aziende consiste

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nella situazione di asimmetria informativa tra le parti sull’andamento effettivo dell’impresa: l’imprenditore, detenendo le leve per la gestione dell’azienda, è informato a tal proposito molto meglio del singolo lavoratore ed è grazie a ciò in grado meglio di ogni altro di appropriarsi, nel corso della negoziazione individuale, del sovrappiù prodotto dall’impresa (Ichino 2004). Il sindacato si comporta in questo modo da ‘intelligenza collettiva’ in grado di ridurre lo squilibrio nella disponibilità delle informazioni rilevanti. In Italia, una appena percettibile evoluzione dei processi di decentralizzazione della struttura contrattuale e di apertura alle istanze partecipative dei lavoratori nell’impresa può essere osservata attraverso il percorso che ha portato alla stipula dell’accordo tripartito[4] del luglio 1993 e dei successivi accordi consolidati nel testo unico del gennaio 2014. Il primo documento istituzionalizzò le competenze dei diversi livelli contrattuali prevedendo tra loro un coordinamento funzionale e introducendo durate differenti (quadriennale e biennale rispettivamente per la parte normativa e per quella economica del contratto nazionale di categoria, e ancora quadriennale per quanto riguarda il contratto aziendale o territoriale). L’accordo, che ebbe notevoli meriti in materia di politica economica, non riuscì però a rispettare le aspettative di promozione della contrattazione decentrata e della sua funzione innovativa laddove si stabiliva una stretta correlazione con “i risultati conseguiti (…) nella realizzazione di programmi (…) aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità e di altri elementi di competitività (…)” e con “l’andamento economico dell’impresa”. I poco esaustivi dati disponibili evidenziano come la diffusione della contrattazione aziendale sia rimasta contenuta, sia a causa della classe dimensionale media delle imprese italiane ove il sindacato non è presente, sia dei ritardi nel rinnovo dei contratti nazionali, che finivano con l’accavallarsi con le successive tornate (Casadio 2008). Il testo unico del 2014, che ha ripreso i contenuti di accordi raggiunti tra il 2009 ed il 2011, ribadisce il ritorno a scadenze triennali per il contratto nazionale di categoria e per quelli aziendali, nonché la possibilità di “specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro” nel rispetto di limiti e procedure posti da questi, prevedendo comunque che tali intese siano sempre possibili al fine di “gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa (...) con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”. La cautela verso il decentramento è accompagnata da una assenza di riferimenti a qualsivoglia forma di partecipazione dei lavoratori nell’impresa. In effetti, il concetto a cui le parti stipulanti hanno fatto ricorso ribadisce la centralità del metodo della contrattazione collettiva e sembra considerare la partecipazione indiretta come uno strumento finalizzato più alla riduzione dei costi e ad un aumento non inflazionistico dei salari piuttosto che ad un maggior coinvolgimento dei lavoratori. Il carattere moderato di simili previsioni è ancora più evidente se si prende a riferimento il concetto di partecipazione contenuta nella Carta Costituzionale (art. 46), che prevede esplicitamente l’obiettivo della partecipazione dei lavoratori alla “gestione” delle imprese. A tale indirizzo non è mai stato dato un seguito legislativo, anche per la storica contrapposizione tra il sindacalismo cattolico rappresentato dalla Cisl, aperto ad una prospettiva di collaborazione ‘corporativa’, e quello di classe, rappresentato dalla Cgil, contrario alla commistione degli interessi tra capitale e lavoro. Le direttive comunitarie sulla Società europea hanno contribuito recentemente a risvegliare il dibattito sulla questione tra economisti, sociologi e giuristi (Caruso 2009) e nelle ultime legislature sono stati presentati alcuni disegni di legge per regolare e favorire la partecipazione dei lavoratori, secondo un’accezione prevalentemente finanziaria. Nella legislatura in corso un progetto bipartisan è al vaglio del parlamento[6]. A livello di singola azienda, gli obiettivi strategici aziendali sono realizzati anche mediante una politica del capitale umano che si propone di attrarre, motivare e gestire i lavoratori mediante prassi più o meno realizzate e diffuse: in questo senso, le relazioni collettive di lavoro non sono altro che uno strumento per la migliore realizzazione di tale politica.

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Priorità delle relazioni industriali

Bassa Alta

Priorità delle prassi di gestione delle risorse umane

Bassa

Black hole Collettivismo tradizionale

Alta

Politiche individualizzate Nuovo realismo

Utilizzando lo schema sopra riportato, ripreso in un articolo di qualche anno fa (Bordogna e Pedersini 2001), è possibile utilizzare una tipologia basata sull’associazione tra le priorità accordate dall’impresa alle relazioni industriali e alle prassi delle risorse umane. Qualora una elevata attenzione verso le relazioni industriali si associa ad una limitata priorità alle pratiche di gestione delle risorse umane, si rientra nella situazione tipica degli anni settanta e del modello fordista, caratterizzato da un forte radicamento del sindacato e denominato dagli autori ‘collettivismo tradizionale’. Se, viceversa, ad una limitata attenzione alle relazioni industriali si associa una elevata priorità alle prassi di gestione delle risorse umane, si individua una situazione che comporta l’estensione all’insieme dei dipendenti delle pratiche raffinate rivolte alle fasce più professionalizzate del personale miranti a promuovere atteggiamenti individuali di dedizione all’organizzazione, e riducendo lo spazio per il sindacato. La situazione individuata da una scarsa attenzione alle relazioni industriali come alle prassi di gestione delle risorse umane corrisponde al tipo denominato black hole e caratterizzato dall’assenza del sindacato e dalla definizione unilaterale da parte del datore di lavoro delle prassi attuate in azienda. Infine, nei contesti in cui si verifica una elevata priorità rivolta sia alle relazioni industriali che alle prassi di gestione delle risorse umane si dà luogo ad una situazione denominata come ‘nuovo realismo’. Come è stato opportunamente sottolineato (Bordogna e Pedersini 2001), resta da valutare se tale associazione rappresenti una integrazione coerente tra le due dimensioni, una semplice sommatoria tra esse oppure una situazione in cui le politiche di gestione sono in conflitto e alternative con quelle collettive. Alcuni studi, ripresi in un recente saggio (Labory ed al. 2008), analizzano la relazione tra strategia dell’impresa e sistemi di relazioni industriali. Sistema di relazioni

industriali

Riduzione del costo Massimo coinvolgimento

Pratiche di gestione delle risorse umane Organizzazione del lavoro Compiti definiti in modo ristretto Definizione ampia del ruolo

Relazioni con i dipendenti

Scarsa influenza dei dipendenti sulle decisioni dei dirigenti Poca comunicazione Nessun meccanismo

Alta influenza dei dipendenti sulle decisioni dei dirigenti Comunicazione ricca e regolare

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formale di suggerimento per i dipendenti

Meccanismi di incoraggiamento dei dipendenti

Supervisione Qualificazioni basse Controllo stretto

Qualificazioni alte Squadre autogestite

Formazione Limitata Estesa

Remunerazione

Nessun premio individuale Stipendi relativamente bassi

Premi individuali Stipendi più alti Stock options

La prima strategia consiste nella riduzione dei costi, e si associa a un sistema di relazioni industriali tipico del modello fordista e della produzione di massa; la seconda strategia persegue il massimo coinvolgimento del personale, e si associa ad un sistema di relazioni industriali tipico del modello di produzione flessibile e orientato alla qualità del prodotto. La tipologia che deriva dalla combinazione tra ciascun sistema di relazioni industriali e le pratiche di gestione delle risorse umane considerate descrive le situazioni che si rinvengono nella maggior parte delle imprese, come appare dallo schema sopra riportato. Altri studi giungono a considerare i vantaggi e gli svantaggi dei diversi modelli di regolazione della forza lavoro. Operando una distinzione sulla base dell’approccio adottato, è possibile identificare tre modelli di regolazione, e rispettivamente: autoritario, negoziale e partecipativo. I vantaggi maggiori sembrano essere associati al terzo modello, ove vi è la possibilità, grazie al coinvolgimento del personale operativo, di implementare le soluzioni innovative più efficaci e di aumentare per la stessa via le ricompense intrinseche e, di conseguenza, la motivazione e l’impegno. Per quanto riguarda invece la remunerazione dei lavoratori, non vi sono evidenze univoche: il maggior coinvolgimento, la motivazione e l’apprendimento generano verosimilmente aumenti di produttività ma non è detto che i lavoratori siano in grado di imporre una crescita del salario. D’altra parte, potrebbero essere proprio il valore delle competenze acquisite e i costi connessi al turnover nelle imprese che adottano l’approccio partecipativo a spingere il management ad incrementi delle retribuzioni per fidelizzare i lavoratori e disincentivare le fuoriuscite[7] (Labory e al. 2008). Per quanto riguarda in particolare l’ambito manifatturiero, la letteratura scientifica recente ha posto particolare attenzione alle cosiddette HPWP, le “high performance work practices”, cioè a quelle pratiche innovative di organizzazione del lavoro che costituiscono il cuore dei sistemi performanti e coinvolgono differenti prassi della gestione delle risorse umane. Ricerche empiriche che hanno indagato il rapporto tra relazioni industriali, innovazione organizzativa e qualità del lavoro sono state svolte in diversi paesi. In Italia la carenza di informazioni relativamente all’adozione delle pratiche di relazioni industriali e di gestione delle risorse umane avanzate contribuisce a rallentarne l’affermazione e costituisce un gap notevole rispetto ai competitor, dove sono state svolte ricerche su campioni statisticamente rappresentativi dell’intero territorio nazionale (Leoni 2009)[8]. Considerando i risultati di alcuni studi empirici svolti negli anni più recenti su imprese industriali manifatturiere di alcune province del Nord Italia[9], è possibile mettere in rilievo alcuni aspetti interessanti. Per quanto riguarda il rapporto tra Rappresentanze Sindacali Unitarie e direzione aziendale, i manager delle imprese bergamasche sembrano averne una percezione piuttosto soddisfacente, con l’importante eccezione del settore metalmeccanico, ed evidenziano l’attenzione di non ‘scavalcare’ il sindacato; i rappresentanti dei lavoratori giudicano invece le relazioni aziendali in maniera meno ottimistica, prevalendo la definizione di ‘discrete’. La maggioranza dei dirigenti delle imprese del Bresciano sembrano invece percepire le RSU come una forza frenante

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rispetto al miglioramento delle performance e preferiscono ricorrere alla consultazione diretta dei lavoratori senza l’intermediazione dei rappresentanti sindacali, sebbene via sia comunque un numero considerevole di responsabili aziendali che ritengono i rappresentanti come interlocutori positivi, evidenziandosi così una situazione ‘duale’ (Albertini e Paiola 2009). Come è stato sottolineato (Albertini, Cotti Cottini e Paiola 2009), “l’esistenza di relazioni industriali avanzate, riconducibili alla efficacia del processi di negoziazione con le rappresentanze sindacali, rappresenta una precondizione e il contenitore istituzionale delle pratiche” che mirano al miglioramento delle performance aziendali. Ciononostante nelle imprese più innovative del Bresciano le relazioni industriali non sembrano particolarmente collaborative. Per quanto riguarda gli argomenti della comunicazione interna e del coinvolgimento dei lavoratori, che possono contribuire alla riduzione dei costi di transazione e di governance nonché al rafforzamento della motivazione e quindi dell’impegno, l’attivazione di tali pratiche sembra spettare in via esclusiva al management. Occorre sottolineare che la condivisione delle informazioni è di fondamentale importanza poiché riduce le asimmetrie informative, favorisce le situazioni cooperative e limita i comportamenti opportunistici da parte dei manager: se condotti con coerenza e con continuità, essi danno luogo ad elevati incrementi di produttività (Leoni ed al. 2009a). Ciò sembra indicare un limitato commitment del sindacato sul tema della performance nonostante questo rappresenti un terreno strategico per lo sviluppo di nuove relazioni industriali, e la conclusione appare confermata dal disaccoppiamento indicato dagli stessi rappresentanti dei lavoratori tra frequenza nel trattare il tema del miglioramento della performance e importanza riconosciuta all’argomento, significativamente inferiore. Il tema, agli occhi delle RSU, sembra rappresentare “più un vincolo che emerge dalla realtà e di cui si è chiamati ad occuparsi” che non un importante questione da aggredire per migliorare le prospettive occupazionali e reddituali (Leoni ed al. 2009b). L’adozione di tecniche di comunicazione e coinvolgimento significativamente e direttamente correlata alla classe dimensionale dell’impresa: nelle imprese con maggior numero di dipendenti la circolazione formale delle informazioni avviene con più frequenza e attraverso un maggior numero di metodi. I contenuti di tali informazioni riguardano prevalentemente le materie dell’orario di lavoro, della sicurezza e della formazione, e ciò in modo sostanzialmente uniforme indipendentemente dal fattore dimensionale e da quello settoriale. Per quanto riguarda i contenuti delle relazioni tra management e R.S.U., è necessario distinguere preliminarmente le differenti modalità di relazione, e cioè: negoziazione (le decisioni derivano dall’accordo tra impresa e sindacato), consultazione (le decisioni spettano all’impresa previa discussione con il sindacato) e informazione (l’impresa si limita ad illustrare fatti o decisioni al sindacato). Se la frequenza delle relazioni si intensifica al crescere della dimensione dell’impresa, i temi di maggior rilievo sono la salute e la sicurezza sul lavoro (prevalentemente relegata alla semplice informazione[10]), quelli salariali ed occupazionali quali la previdenza integrativa, i licenziamenti, i livelli retributivi e la pianificazione della manodopera (prevalentemente negoziati[11]), i risultati aziendali, i processi di ristrutturazione e riorganizzazione, la disciplina aziendale, la formazione, le mansioni e le qualifiche (prevalentemente oggetto di consultazione[12]). La determinazione dei criteri di determinazione degli incentivi nella metà delle imprese viene stabilita unilateralmente dal management, e questo sembra indicare come il sindacato si preoccupi dell’ammontare e non delle modalità di calcolo, con ripercussioni negative sull’efficacia degli incentivi stessi. Dai risultati relativi alle relazioni tra RSU e dirigenza emerge come i contenuti trattati riguardino prevalentemente problemi di introduzione dei cambiamenti piuttosto che di monitoraggio degli stessi già introdotti: ciò probabilmente è anche determinato dal fatto che alcuni strumenti normativi richiedono necessariamente il coinvolgimento del sindacato, mentre esso viene in seguito escluso dalle fasi di implementazione e di valutazione, non esistendo nel nostro paese un adeguato supporto legislativo allo sviluppo di relazioni industriali partecipate, né una sufficiente attenzione ad un’implementazione condivisa delle misure adottate. Il rischio, opportunamente segnalato (Leoni ed al. 2009b), è quello di un potenziale “scollamento tra pratiche di gestione delle risorse umane e il sistema di relazioni industriali”. Secondo il management, per quanto riguarda l’introduzione dei cambiamenti, le iniziative tentate e non riuscite riguardano in primo luogo l’introduzione di strumenti di coinvolgimento dei dipendenti (13,7%), e la responsabilità del fallimento va ricercata soprattutto nella resistenza da parte dei rappresentanti dei lavoratori, conclusione confermata anche dalla ricerca svolta nelle imprese del Bresciano. Il sindacato può agire opponendo barriere all’introduzione di iniziative innovative così come esercitando una pressione volta a ridurre la propensione all’innovazione da parte del management. La voce collettiva del sindacato può peraltro anche migliorare l’ambiente di lavoro e contribuire a ridurre il turn­over, favorendo così il ritorno degli investimenti in innovazione: l’intensità dell’attività innovativa, cui sono associate performance economiche superiori, è influenzata positivamente da un sistema di relazioni industriali cooperativo e negativamente dalla flessibilità dei rapporti di lavoro (Antonioli ed al. 2009). Le RSU individuano proprio nello scarso coinvolgimento dei lavoratori e dei rappresentanti, nella limitata capacità da parte del management nell’evidenziare i vantaggi dei cambiamenti e nell’impreparazione della dirigenza le ragioni che impediscono la realizzazione dei

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cambiamenti desiderati. Ciò che emerge dai risultati dei questionari e dalla platea delle imprese manifatturiere industriali, è la persistenza di modelli di relazioni industriali ancora tradizionali sui quali si cerca di innestare pratiche di coinvolgimento parziale e su un numero limitato di materie. Una simile situazione denota una scarsa cultura dell’innovazione e del cambiamento sia nel management che nelle rappresentanze dei lavoratori e che rischia di condurre a un contrasto latente potenzialmente corrosivo delle relazioni industriali da una parte e delle possibilità di sviluppo avanzato delle imprese italiane dall’altro. BIBLIOGRAFIA Albertini S., Paiola M. (2009), Strategie competitive e gestione delle risorse umane nelle medie imprese bresciane, in Albertini S., Leoni R. (a cura di), Innovazioni organizzative e pratiche di lavoro nelle imprese industriali del Nord, FrancoAngeli, Milano Albertini S., Cotti Cottini M., Paiola M. (2009), Coinvolgimento dei lavoratori e performance innovativa d’impresa, in Albertini S., Leoni R. (a cura di), Innovazioni organizzative e pratiche di lavoro nelle imprese industriali del Nord, FrancoAngeli, Milano Antonioli D., Delsoldato L., Mazzanti M., Pini P. (2009),Politiche di innovazione e performance economiche: il sistema industriale di Reggio Emilia, in Albertini S., Leoni R. (a cura di), Innovazioni organizzative e pratiche di lavoro nelle imprese industriali del Nord, FrancoAngeli, Milano Biagi M. (2002), Cultura e istituti partecipativi delle relazioni industriali in Europa, in Senatori I. (2008, a cura di), Teoria e prassi delle relazioni industriali, Giuffrè, Milano Booth A. (1995), The Economics of Trade Unions, Cambridge University Press, Cambridge Bordogna L., Pedersini R. (2001), Relazioni industriali e gestione delle risorse umane nelle piccole imprese, in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”, n. 2 Carinci F. (2009), Una dichiarazione di intenti: l’Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali, in “Rivista Italiana di Diritto del Lavoro”, n. 2 Caruso, B. (2009), Partecipazione finanziaria dei lavoratori all’impresa: modelli a confronto, in “Bollettino Speciale Adapt”. Casadio P. (2008), Ruolo e prospettive della contrattazione aziendale integrativa: informazioni dall’indagine Banca d’Italia, relazione presentata al XXIII convegno AIEL di Economia del Lavoro, Brescia, 11­12 settembre Cella G., Treu T. (2009), Relazioni industriali e contrattazione collettiva, Il Mulino, Bologna Giudici M. (2004), Relazioni industriali, Ipsoa, Milano Ichino P. (2004), Lezioni di diritto del lavoro. Un approccio di labour law and economics, Giuffrè, Milano Kaufmann B. (2006), Il principio essenziale e il teorema fondamentale delle relazioni industriali, in “Diritto delle relazioni industriali”, n. 4 Labory S., Leoni R., Cristini A. (2008), Cambiamenti tecnologici e organizzativi, sistemi di gestione delle risorse umane e performance di impresa. Una rassegna critica della letteratura, in Leoni R. (a cura di), Economia dell’innovazione, Franco Angeli, Milano Leoni R. (2009),Adozione dei nuovi disegni dei luoghi di lavoro. Pratiche innovative di lavoro e produttività di impresa, in Albertini S., Leoni R. (a cura di),Innovazioni organizzative e pratiche di lavoro nelle imprese industriali del Nord, Franco Angeli, Milano Leoni R., Cristini A., Mazzoni N., Bazzana E., Gaj A. (2009a), Disegni organizzativi, cambiamenti tecnologici e gestione delle risorse umane, in Albertini S., Leoni R. (a cura di),

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[1] Si veda, a tal proposito il documento: National Industrial Conference Board (1931), Industrial Relations: Administration of Policies and Programs, New York [2] Sul problematico rapporto tra disciplina comunitaria della concorrenza e ragion d’essere della contrattazione collettiva si veda Ichino 2004. [3] Un discorso a parte va fatto per quanto riguarda la recente esperienza statunitense, dove la profondissima crisi del settore automobilistico e delle maggiori case produttrici ha spinto il sindacato ad esplorare nuove frontiere e, grazie anche al riconoscimento da parte del governo, a giocare il ruolo di player fondamentale condividendo una prospettiva di sviluppo e perseguendo un miglioramento della competitività. Il sindacato è così entrato nel capitale delle grandi aziende salvate grazie all’intervento governativo trasformando gli ingente crediti vantati in importanti pacchetti azionari. [4] L’accordo del 1993 (c.d. ‘Protocollo Ciampi’) fu sottoscritto, oltre che dalle organizzazioni sindacali e dalle associazioni datoriali, anche dal governo. [6] D.d.L. presentato il 20 maggio 2009 dal relatore della Commissione Lavoro del Senato Pietro Ichino. [7] In questo senso la teoria c.d. dei salari di efficienza. [8] Nel Regno Unito dal 1980 si svolge l’indagine WIRS (Workplace Industrial Relations Survey), che dal 1998 ha cambiato denominazione in WERS (Workplace Employee Relations Survey) e impiega tre distinti questionari somministrati rispettivamente a management, rappresentanti del personale (appartenenti alle organizzazioni sindacali e non) e campione di dipendenti. In Francia si svolge l’indagine REPONSE (Relations Professionnelles e Negociations d’Enteprise), che prevede l’intervista di rappresentanti del management e dei sindacati. Negli Stati Uniti una ricerca condotta mediante la tecnica dell’intervista telefonica, denominata NES (National Employers

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Survey), è stata ripetuta a distanza di tre anni dando origine ad un campione panel di dirigenti nel settore manifatturiero. Altre indagini a valenza più limitata sono state svolte in Canada (WES), Germania (ISI) e Danimarca (DISKO). [9] Indagine svolta nel 1999 e nel 2003 sul management di 380 imprese industriali con oltre 50 addetti della Provincia di Bergamo (tasso di risposta: 24,2%) e nel 2003 sulle RSU di 130 stabilimenti della Provincia di Bergamo (tasso di risposta: 67,7%); indagine svolta nel 2003 sul management di 290 imprese industriali con oltre 50 dipendenti della Provincia di Bergamo (tasso di risposta del 28%); indagine svolta nel 2003 sul management delle maggiori 200 imprese per fatturato della Provincia di Udine (tasso di risposta: 37,5%); indagine svolta nel 2004 sulle RSU di 192 imprese rappresentative della Provincia di Reggio Emilia. [10] Va tenuto presente che le prerogative sindacali in materia erano contenute nel D.Lgs. 626/1994 e sono ora disciplinate dal D.Lgs. 81/2008, oltre che nei diversi CCNL. [11] Il dato relativo a livelli retributivi e pianificazione della manodopera supporterebbe la teoria economica secondo la quale il sindacato ricorrerebbe al modello economico della ‘contrattazione efficiente’ (efficient bargaining), incorporando nelle sue rivendicazioni sia il livello salariale che quello occupazionale e ricercando soluzioni ‘Pareto­efficienti’, piuttosto che a quello del ‘diritto a gestire’ (right to manage), secondo il quale il sindacato contratta il solo livello salariale lasciando all’impresa il diritto di definire la quota di manodopera necessaria (Booth 1995). Le risposte delle RSU sembrerebbero però andare nella direzione opposta, avvicinandosi al modello del ‘diritto a gestire’. Il dato sui licenziamenti potrebbe essere determinato dalla L. 223/1991 relativa alla disciplina dei licenziamenti collettivi, che prevede la stipula di un accordo tra datore di lavoro e organizzazione sindacale. [12] Anche in questo caso alcuni dati potrebbero essere esogenamente determinati: nei processi di riorganizzazione potrebbe essere stata considerata anche la cassa integrazione guadagni e le operazioni societarie quali trasferimento di azienda e fusione, per le quale le previsioni legislative (L. 428/1990) prescrivono una specifica procedura sindacale. Opposto è il caso della formazione: nonostante i fondi interprofessionali siano stati istituiti da tempo (L. 388/2000), solo dal 2006 è possibile usufruire delle risorse accantonate dal fondo paritetico nazionale per il comparto industriale, e di norma solo in presenza di un accordo sindacale di condivisione del piano formativo predisposto.