Relazione Maurilio su Santarelli Felice - Benvenuto nel ... Maurilio su... · ... scritto che ogni...

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1 Relazione Da qualche tempo sto facendo alcune ricerche riguardanti Secinaro, su incarico del Sindaco ing. Giuseppe Colantoni, con la speranza di portare a termine il lavoro e di pubblicarlo il prossimo anno. È quindi mia intenzione dedicare al filologo Felice Santarelli un capitolo, considerata la sua statura di uomo di cultura e di insigne studioso di latino e greco. Dettagliati e puntuali interventi fatti da chi mi ha preceduto hanno fatto luce sul personaggio su vari aspetti. Io non avendolo conosciuto personalmente, e non essendo stato suo allievo, poco posso aggiungere a quanto è stato detto. Ho voluto leggere un articolo per me molto significativo, pubblicato da: Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, n. 543 Roma 30 agosto 1925 dal titolo: Studenti d’Abruzzo Il nostro amico Felice Santarelli, che in età ancor tenera ha dato prova d’intelletto sano e vigoroso, pubblicando, nel 1928, un volumetto di versi scritti tra i 14 e i 17 anni, del cui successo si è parlato su questo giornale, che ha riportato i giudizi lusinghieri di persone eminenti nel campo letterario e scientifico, ha conseguito nel Regio liceo Ennio Quirino Visconti di Roma, che egli frequentava dalla 2 a liceale il Diploma di Maturità Classica. È riuscito il migliore tra i quattro promossi della sua Sezione, mantenendo così quel primato che aveva sempre avuto durante l’anno; primato che nello scrutinio finale fu assoluto in tutto il Liceo; poiché quando egli si recò a vedere i quadri dello scrutinio, vide il suo nome seguito da una barriera di nove. Tutti i suoi Professori, nell’accomiatarsi da lui alla fine dell’anno gli avevano espresso la ferma fiducia nella sua riuscita, ed avevano significato la loro compiacenza e ammirazione. Anzi, il Prof. Antonio Neviani, di Scienze Naturali, che insegna nel Liceo Visconti dal 1886, nel giudizio finale, scritto che ogni Professore deve dare dei singoli alunni conformemente alla legge Gentile, e che rimarrà negli archivi del Liceo, disse del Santarelli: «Ottimo sotto tutti i rispetti, farà onore al Visconti»; e Il Prof. Ugo Antonelli, di Storta dell’Arte, Direttore del Museo Kirkeriano, gli donò la sua fotografia con la dedica: «Al caro Santarelli, per buon ricordo». Felice Santarelli entra così coi più lieti auspici nelle aule universitarie, che gli riserbano indubbiamente nuove soddisfazioni e maggiori trionfi. Egli si iscriverà all’Università di Roma nelle facoltà di Lettere e Filosofia. Spigoliamo un pò nel suo passato. Nel 1917 e 1918, entro lo spazio di tredici mesi circa, ebbe, la sventura di perdere il padre e tre fratelli, dei quali due in guerra. Si vide così gettato d’un tratto, undicenne, solo con la vecchia madre, nella più penosa angoscia e nel dolore più acerbo, privo di ogni sostegno materiale e morale. Nonostante tutto, affrontò con animo risoluto e con fede sicura la vita, e, compiuti gli studi fino alla 4 a ginnasiale a Sulmona, passò nel Regio Ginnasio «Terenzio Mamiani» di Roma, dove compì anche il 1° anno di Liceo. Il Preside del Liceo, Prof. Italo Raulic, spirito superiore, sereno ed equanime, prese, a ben volerlo, e a proteggerlo per le sue qualità di giovane ottimo e di studente esemplare, sì da degnarlo di una confidenza e di una famigliarità che non ha riscontro. La sua ammirazione si manifestava ad ogni occasione; nè passava trimestre che, alla consegna delle pagelle non esprimesse innanzi ai Professori ed agli alunni, ora in una maniera, ora nell’altra, la sua confidenza e la sua lode aperta per Felice Santarelli. In 1 a liceale, alla prova scritta d’italiano in classe del 1° bimestre, fu dato il tema: «Alla stazione, in attesa di persona cara, lungamente aspettata». Felice Santarelli rinfacciò subito alla mente una serie di episodi vissuti, di angosce provate, di giubilo intenso che gli colmavano l’anima di amaro rimpianto. E scrisse sotto la foga di affetti e di ricordi, che lo assalivano vivamente e potentemente.

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Relazione Da qualche tempo sto facendo alcune ricerche riguardanti Secinaro, su incarico del

Sindaco ing. Giuseppe Colantoni, con la speranza di portare a termine il lavoro e di pubblicarlo il prossimo anno. È quindi mia intenzione dedicare al filologo Felice Santarelli un capitolo, considerata la sua statura di uomo di cultura e di insigne studioso di latino e greco.

Dettagliati e puntuali interventi fatti da chi mi ha preceduto hanno fatto luce sul personaggio su vari aspetti.

Io non avendolo conosciuto personalmente, e non essendo stato suo allievo, poco posso aggiungere a quanto è stato detto.

Ho voluto leggere un articolo per me molto significativo, pubblicato da: Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, n. 543 Roma 30 agosto 1925

dal titolo: Studenti d’Abruzzo

Il nostro amico Felice Santarelli, che in età ancor tenera ha dato prova d’intelletto sano e vigoroso, pubblicando, nel 1928, un volumetto di versi scritti tra i 14 e i 17 anni, del cui successo si è parlato su questo giornale, che ha riportato i giudizi lusinghieri di persone eminenti nel campo letterario e scientifico, ha conseguito nel Regio liceo Ennio Quirino Visconti di Roma, che egli frequentava dalla 2a liceale il Diploma di Maturità Classica.

È riuscito il migliore tra i quattro promossi della sua Sezione, mantenendo così quel primato che aveva sempre avuto durante l’anno; primato che nello scrutinio finale fu assoluto in tutto il Liceo; poiché quando egli si recò a vedere i quadri dello scrutinio, vide il suo nome seguito da una barriera di nove.

Tutti i suoi Professori, nell’accomiatarsi da lui alla fine dell’anno gli avevano espresso la ferma fiducia nella sua riuscita, ed avevano significato la loro compiacenza e ammirazione. Anzi, il Prof. Antonio Neviani, di Scienze Naturali, che insegna nel Liceo Visconti dal 1886, nel giudizio finale, scritto che ogni Professore deve dare dei singoli alunni conformemente alla legge Gentile, e che rimarrà negli archivi del Liceo, disse del Santarelli: «Ottimo sotto tutti i rispetti, farà onore al Visconti»; e Il Prof. Ugo Antonelli, di Storta dell’Arte, Direttore del Museo Kirkeriano, gli donò la sua fotografia con la dedica: «Al caro Santarelli, per buon ricordo».

Felice Santarelli entra così coi più lieti auspici nelle aule universitarie, che gli riserbano indubbiamente nuove soddisfazioni e maggiori trionfi.

Egli si iscriverà all’Università di Roma nelle facoltà di Lettere e Filosofia. Spigoliamo un pò nel suo passato. Nel 1917 e 1918, entro lo spazio di tredici mesi circa, ebbe, la sventura di perdere il padre e

tre fratelli, dei quali due in guerra. Si vide così gettato d’un tratto, undicenne, solo con la vecchia madre, nella più penosa angoscia e nel dolore più acerbo, privo di ogni sostegno materiale e morale.

Nonostante tutto, affrontò con animo risoluto e con fede sicura la vita, e, compiuti gli studi fino alla 4a ginnasiale a Sulmona, passò nel Regio Ginnasio «Terenzio Mamiani» di Roma, dove compì anche il 1° anno di Liceo.

Il Preside del Liceo, Prof. Italo Raulic, spirito superiore, sereno ed equanime, prese, a ben volerlo, e a proteggerlo per le sue qualità di giovane ottimo e di studente esemplare, sì da degnarlo di una confidenza e di una famigliarità che non ha riscontro. La sua ammirazione si manifestava ad ogni occasione; nè passava trimestre che, alla consegna delle pagelle non esprimesse innanzi ai Professori ed agli alunni, ora in una maniera, ora nell’altra, la sua confidenza e la sua lode aperta per Felice Santarelli.

In 1a liceale, alla prova scritta d’italiano in classe del 1° bimestre, fu dato il tema: «Alla stazione, in attesa di persona cara, lungamente aspettata». Felice Santarelli rinfacciò subito alla mente una serie di episodi vissuti, di angosce provate, di giubilo intenso che gli colmavano l’anima di amaro rimpianto. E scrisse sotto la foga di affetti e di ricordi, che lo assalivano vivamente e potentemente.

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Il Professore che era solito chiamare alla pubblica lettura dei temi coloro che meglio l’avevano svolto, chiamò alla cattedra il Santarelli che, con voce velata, lesse il suo tema. Eccone la chiusa:

« Mio fratello mi prese tra le braccia e mi domandò commosso: Perché piangi? Ma la mia risposta fu uno sguardo lacrimoso. Caro fratello mio, che lo attesi con tanta ansia, non potrò mai più rivedere il tuo volto amoroso, non potrò mai più sentire la tua voce. Tu dormi ora lassù ai confini, ai confini d’Italia, in un cimitero piccolo e montano, Martire Santo della Fede è della Patria». La voce gli si fece grossa dalla commozione; abbondanti lacrime scesero per le gote, alterando le linee severe e composte del suo volto ieratico.

I grandi occhi buoni del Prof. Giuseppe Rua brillarono di viva commozione e di affetto per il suo alunno migliore; nella scuola vi fu un attimo di silenzio glaciale, quasi religioso.

Il ricordo dei cari fratelli informa tutta la sua vita e da ai suoi versi quel carattere di malinconia appassionata che li distinguono; il dolore della loro morte gli ha dettato le sue cose più belle.

Qualche tempo fa ho avuto modo di consultare il fascicolo personale del prof.

Santarelli, custodito presso il Provveditorato agli Studi dell’Aquila, dove ho tratto molte notizie anche inedite, riguardanti il professor Santarelli, che riproduco fedelmente.

Santarelli Felice Antonio, nato a Secinaro il 24 gennaio 1906, vedovo di Palombella Evelina nata a Gagliano Aterno. Morto all’Aquila il 20 settembre 1976 (nell’erma che si trova nella sala lettura della biblioteca Salvatore Tommasi dell’Aquila, c’è scritto "Filologo classico - Paleografo greco"). Abitazione Corso Vittorio Emanuele, 158. L’Aquila Servizio in ruolo: 25 anni mesi 1; dal 16.9.1933 al 30.9.1941. - Riscatto anni universitari, anni di frequenza diploma di perfezionamento Filologia classica, anno 1930-32; - Università di Roma, anno accademico 1925-26, quadriennio, fino al 1928-29; conseguì la laurea in Lettere il 23 novembre 1929. - Insegnamento delle Lettere greche e latine; - Servizio di ruolo dal 15.9.1933 al 31.10.1966 anni 33 mesi 1 giorni 16; - Riscatto anni università dal 1.11.1925 al 30.10.1029 anni 4 Totale anni 37 mesi 1 giorni 16. Preside dell’Istituto Magistrale dell’Aquila.

Stato di servizio - Vincitore del concorso straordinario in lettere greche e latine, 16.4.1934; inviato a Enna il 16.4.1934. - dal 16.9.1934 al 16.9.1935 a Chieti; - dal 16.9.1935 all’Aquila. Nominato Preside di 1a categoria il 1.10.1941; Collocato a riposo per dimissioni volontarie il 1.11.1966. Il dott. Parravano Nello, medico provinciale, il 14.7.1966 certificava: Felice Santarelli è affetto da bronchite cronica riacutizzata con deperimento organico. Pertanto il prof. Santarelli aveva bisogno di "costose cure mediche, per la sua salute cagionevole".

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Il 13 novembre 1944, Felice dichiarò al medico: mio padre è morto nel 1917 a 65 anni; mia madre è morta nel 1943 a 83 anni. Mia moglie ha 33 anni (nata il 1911 a Galiano Aterno). Iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 26.1.1928 e all’A. F. S. dall’anno 1933. Riportò la qualifica di Ottimo per 3 anni consecutivi, dal 27 giugno 1959.

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Certificato di laurea

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Felice Santarelli, con questo giuramento alla formula sottoscritta in calce non giurò di essere fedele al fascismo, ma solo al Re. Infatti la formula introdotta col Decreto del 28 agosto 1931, diramata alle autorità scolastiche universitarie, dal Ministro Pietro Fedele era:

«Giuro che sarò fedele al RE, e ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante ed adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti la cui attività non si concili con i doveri del mio ufficio».

Di 1250 docenti universitari, non giurarono solo 12.

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Così circa 400 firmatari del manifesto Croce, soltanto undici fecero onore alla loro firma. Tutti gli altri professori firmatari o non firmatari di quel manifesto, tra cui solo una piccola minoranza di fascisti o di simpatizzanti, si coprirono di vergogna giurando.

Galante Garrone, nel libro I miei maggiori, i dodici li elenca così1: Francesco Ruffini, diritto ecclesiastico, Torino; Mario Carrara, medicina legale,

Torino; Lionello Venturi, storia dell’arte, Torino; Gaetano De Sanctis, storia antica, Roma.

Piero Martinetti, il filosofo di kantiano rigore morale che abbandonò la cattedra di Milano, e visse i suoi ultimi anni in solitudine, in una casa di contadini; Bartolo Nigrisoli, il grande clinico bolognese; Ernesto Buonaiuti, professore di cristianesimo all’università di Roma: era già stato allontanato dall’insegnamento prima del Concordato, in seguito alla scomunica del 1926, fu richiesto il giuramento. Nel rifiutare si richiamò, con la sua adamantina fierezza, al rifiuto evangelico.

Giorgio Errera, professore di Chimica a Pavia, notissimo per le sue ricerche in vari campi della chimica organica; Vito Volterra, matematico a Roma; Giorgio Levi Della Vida, orientalista.

Infine Edoardo Ruffini Avondo, figlio di Francesco Ruffini, è il più giovane della dozzina.

1 Giorgio Boatti, Preferirei di no. Storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini. Einaudi Torino, 2001.

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Articoli scritti dal prof. Felice Santarelli Da questi articoli si evince il suo attaccamento a Secinaro, quasi morboso.

Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, n. 668, Roma 25 dicembre 1926

Natale (Rievocazioni e ricordi) Natale, la festa del cuore, raccoglie la famiglia e gli amici, nella notte quieta e cara, in

una comunione di affetti cordiali, intima, serena, attorno al focolare domestico, ove divampa, guizza, s’inarca, lambisce, si attorciglia sbadigliando, crollando si ammozza la fiamma ampia e calda della legna secca. La sera della vigilia si pone al fuoco un grosso ceppo che arde tutta la notte, e si lascia un posto vuoto in un canto del focolare, perché il Bambino Gesù venga a scaldarsi durante la messa di mezzanotte.

È questo un omaggio a cui nessuna famiglia vien meno, una delle tradizioni che conservano tenacemente e che assurge all’altezza di un rito. Il ceppo raduna introno a se e vincola il nonno che declina certamente, inesorabilmente, verso la tenebra della morte, gravido di anni e di ricordi, e il fanciullo vispo e gaio, sul cui capo si addensano, sogni e speranze. La notte di Natale è uno dei ricordi più vivi e cari dell’infanzia. Quante volte, nelle vicende tumultuose della vita, ho anelato a rivivere la gioia semplice, quieta, di quella notte arcana, densa di giubilo, che ha riunito in un sol cuore e in un palpito, solo i palpiti e i cuori dei parenti; ed era un tempio di santi affetti la vecchia casa paterna, altare di amore sano l’ampia cappa maestosa del camino affumicato e nero, testimone delle vicende liete e tristi della vita domestica; dove ora siedo pensoso, seguendo distratto un mio sogno indistinto, dileguato al pari della vampa che su spezza; dove io, nel miglior vigore della mia fiorente giovinezza, rimpiango, triste, abbattuto, solitario, lacrimoso, la felicità dei miei primi anni frantumata fatalmente e per sempre dalle sciagure che mi hanno nell’anima dilacerata in mille modi atrocemente; con la vecchia madre sospirosa e veemente.

Al lato, simbolo vivente della stessa sventura, dinanzi alla quale io mi scopro riverente il capo e piego il ginocchio come alla divinità; nella casa deserta, muta e buia, priva del sorriso dei miei giovani fratelli che pare un tempio raccolto di dolore solenne, religioso, infinito, di desolazione profonda, senza conforto e senza speranza. Rivedo con dolcezza nella commossa fantasia, le letterine di auguri, fredate di fiori e di trine, disegnate con amore, la cura, che volevano essere un simbolo, una mia immaginazione infantile, lette al babbo e alla mamma, in attesa del regalo sospirato, che mi avrebbe permesso, nel gran giorno di Natale, di far bella figura in mezzo ai coetanei, ostentando la mia povera ricchezza.

La cena della vigilia, lucullianamente speciale, dovrebbe consistere, secondo la condizione, in sette piatti diversi; ma anche se questo non avviene, non è permesso in nessun caso di uscire da una determinata quantità di cibi, comuni a tutte le famiglie. Divertimento tradizionale è il gioco della tombola, trascorso tra un bicchiere di vino nuovo e un’infornata di patate e di castagne arrosto dalla fragranza calda. Si riuniscono gli amici a cricchi, a compagnie, attorno al tavolo nella cucina, scaldata dal ceppo, e ascoltano intenti e trepidanti la voce secca e recisa che annunzia l’estrazione dei numeri. Danno una curiosa, non definibile sensazione tutti quei visi chini, quelle espressioni rudi, pronunciate, severe, raccolte, calme, accigliate, diverse e contrastanti, assorte in un unico pensiero e in una stessa attesa. E luminarie originali e suggestive nella loro semplicità sono quelle di Natale, consistenti in cortecce di alberi accuratamente avvolte e intrecciate, che danno una vampa massiccia, ampia e luminosissima. Le ombre indistinte e veloci che corrono nell’oscurità fredda della notte alta, agitando le lucelle, danno l’illusione di

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strano fantasmi errabondi, e fanno pensare agli spiriti danzanti le tregende, rincorrentisi e purganti, di cui sono piene le novelle e le fiabe paesane.

Intanto si spandono nell’aria quieta, silenziosa e raccolta in una tranquillità frigida, in una compostezza di gelo, le notte di un canto popolare, lente, cadenzate, ritmiche, prolungate; sulle quali il cantore si sofferma, si adagia con mollezza, si compiace, inebriandosi della sua canzone notturna, al chiaro delle stelle che socchiudono gli occhi voluttuosamente, cullate dalla rozza armonia delle cennamelle; e, stanche della veglia, si assopiscono, tremule come trepide gocce di perle; indefinite e languide, velate come l’ombra di un sorriso di amore.

Suonan le campane, ed hanno un tono ed un’armonia particolare: i tocchi scendono al cuore dolcemente, lentamente, come voci amiche di consolazione, come promessa ineffabile d’ignota amante, con un linguaggio mistico che quieta tutte le voglie, e lo stringe di tenerezza, di rimpianto, di dolcezza amara. La fine brezza di notte li porta lontano, prolungando, modificando, ampliando, alternando, attenuando, sfumando; qualcuno, smozzando, ne perde.

Cala nell’animo un sapore languido, che perde in un mormorio confuso, fino a dileguare nella quiete assoluta. La voce dell’organo si abbassa gradatamente e muore in un gemito che si spande per l’aria tacita e pesante.

La figura del sacerdote officiante spicca in quel fondo un po’ scompigliato, in quel vortice confuso di luci tremolanti e rincorrentisi, cha appaiono come un delirio di febbricitante, ed è avvolto quali in una luminosità mistica. La sua voce si leva lenta, si alza a poco a poco, invigorisce, ascende, ed ha troni definiti e compressi, note tremanti e decise, alternanze di preghiera fiduciosa e di sommesso salmo penitenziale; vibrazioni, sfumature tenui e temperate.

Tutto, nelle mistica notte, assume un aspetto nuovo, come di un mando sconosciuto. Sulle montagne, la neve adagiata mollemente, spiovente a fiocchi dalle rupi brune e

ferrigne, sparsa in disegni frastagliati e bizzarri, su per le radure, sospesa pei rami spogli e intrecciatisi in una rete inestricabile, spicca in un candore immacolato che, mescendosi e contemperandosi con la luce incerta e crepuscolare dell’orizzonte, si confonde e si perde nella serena opacità del cielo.

Felice Santarelli

Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, n. 668, Roma 25 dicembre 1926 Un curioso documento di lingua secinarese del secolo XVI. Sul fronte di una casa privata di Secinaro, all’incrocio di Via del Municipio, è murata

una pietra, che porta scritto in caratteri irregolari: «Frapaturi iateve ad affare or non videte con la casa fu pisita no pisitare»

(Invidiatori, andatevene per i fatti vostri, ecc.). mo dispenso dal dare la traduzione dell’ultima parte, per ragioni di delicatezza

morale, essendo impiegati termini alquanto volgari, se non assolutamente sconci e fuori d’uso.

Si tratta di un metaforico ammonimento del casato ai propri nemici e rivali, ed è indice delle lotte che vigevano tra le famiglie più eminenti del paese. ricorda, mi si passi il raccostamento, sia pur da lontano il monito della casa teramana: «A lo parlare agi mesura».

Sopra lo scritto è incisa la data 1523. Felice Santarelli

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Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, Roma 15 settembre 1926

Canti popolari Secinaresi Sono i residui di un mondo che va lentamente, ma progressivamente scomparendo; e,

sotto certi aspetti, del tutto scomparso: che la modernità ha sostituito e va sostituendo alle canzoni, sbocciate come fiori silvestri, sotto il nostro bel cielo vivido e sereno, tra i massi e le rupi ferrigne delle nostre montagne aspre e forti; e tramandate di madre in figlia come per una tradizione religiosa, le nuove canzoni, più auliche, ma sicuramente meno spontanee e adatte per il popolo che le ha raccolte; mentre le prime rappresentano l’espressione più viva e vera della buona e sana anima popolare nei suoi aspetti vari, nelle sue tendenze, nelle sue passioni ed aspirazioni.

La Musa è quanto mai ricca e svariata; dagli ardenti canti d’amore che dipingono all’evidenza la passione dell’anima popolare, agli stornelli dispettosi che si cantano ancora, durante la mietitura afosa, sotto la sferza del solleone; o alla vendemmia gaia, nelle giornate brumose d’ottobre; o nei tepori graditi d’aprile, allorché l’anima è ringagliardita. Sono offese talvolta allegre ed ironiche, talaltra benigne e bonarie; più spesso maliziose, insinuanti, atroci e sarcastiche; che rivelano tutto il veleno e la ferocia dell’anima plebea sdegnata e offesa nel suo orgoglio.

Hanno parte preponderante le nutrite, malinconiche, appassionate canzoni di amore; d’un amore che oggi non è più, per la maggioranza, una realtà, ma un mero ricordo; ma che è, fortunatamente, una cosa di fatto nel popolo, perché, nonostante la corruzione dilagante nel mondo cosiddetto moderno, trova ancora posto nei cuori buoni e semplici dei campagnoli, nei quali è tuttora vivo il sentimento della famiglia intesa cristianamente.

Anonimi verseggiatori hanno svolto e rilavorato la poesia pullulata spontanea nel cuore del popolo, tentando di dare adatto e conveniente organamento alle fuggevoli, spesso inconsce, espressioni dei sentimenti individuali della massa, che, riconoscendo e ritrovando nella loro opera tutta se stessa, se l’appropria, la ripete, l’adatta, la rimugina, la trasforma, la perfeziona, in vario modo,a suo talento. E nella farragine selvosa dei canti, è agevole riconoscere, accanto ad argomenti prettamente indigeni e personali, composizioni predilette all’anima del popolo in ogni luogo e in ogni tempo.

A tener conto dei canoni artistici, per ciò che riguarda la forma numerosa. Ma siffatta genialità d’intuizione, tanta soavità di affetti semplici e candidi, tanto profumo di sentimenti spontanei, di impeti selvaggi, di note aspre, crude, tenui, delicate, gentili emana da questi rozzi ed incomodi carmi, che non è possibile negare ad essi l’onore e il pregio di poesia vera e sanamente intesa. Il canto del popolo è, come l’anima del fanciullo, un labirinto inestricabile, attraverso il quale la fantasia si smarrisce e si perde; un ammasso informe, scompigliato di impressioni, di affetti, di passioni.

Ancora, nelle lunghe serate invernali, le nonne, accanto alle fole invernali meravigliose dei magi, dei reucci e delle reginette, che percuotono l’anima infante dei bimbi, raccontano le belle storie d’amore nella forma dialettale ereditata e tramandata, come la conservazione e la perpetuazione di un rito.

Spigoliamo qua e là. Riferisco semplicemente, senza commentare; perché, a mio giudizio, ogni commento finirebbe per guastare e mutilare l’effetto.

(Avverto che l’apostrofo va letto sempre come l’e muta). Sentite quanta semplicità di affetti emana dai versi seguenti: Piagn’ la mamma ca la fij è sposa; Mo s’ n’ va la rosa d’ lla casa. E che malizia cruda, che brutale realismo informa questi altri:

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R’ sponn’ ju fratij’: ch’ sci ccisa, Mo s’ n’ va latra d’lla casa. La suocera saluta cosi la sposa del figlio, accogliendola sulla soglia della nuova

dimora: Nora mè, ch’ sci la bemm’nuta Comma ‘ll’ fest’ d’ Pasqua rusata; T’ deng’ ch’ stu fiur’ p’ ‘mmarit’, Guder’t’ j’ puzz’ ch’ ssalut’. CANTI D’AMORE PARTENZA I. I’ part’, bella mia, i mm’ n’ penz: Penz ca lass’ l’afflitta sp’ranza, Sp’ranza ch’ d’ ti n’n po’ stà senza; Senza avanza ch’ d’ ti n’n po’ stà senza; Senza la vita tè, puc’ m’avanza: M’ avanza la fiamm’ i ttal partenza, Partenz’ i ccuscì ddura lontananza. Partenza, ch’ nn’ evince mai m’ nuta. P’ jju mar’ t’evisce sprufunnata! Alla v’duta m’ r’vot’i ppenza: Anda t’lass’, mi’ afflitta sp’ranza? II. Duman’ è lla partenza, gioia cara: Chi s’ n’ pò scurdà, bella, d’ voi? Partenza duluros’ i vvit amàra! Chi sa dumanassèr anda m’ mar’, Senza ragazz’ i ssenza fa l’amor’. RITORNO Ecc’ m’, bella mè, so rr’ m’ nut’, L’ tu’ bb’ llezz’ m’ hann’ r’chiamat’. Cumma nu fiur’ t’ l’hai mant’nut’, Dentr’ a nnu vas’ t’ l’hai r’s’rvat’. *** Amor, ch’ mm’ vu bben, j’ m’ scann’; I dd’ stu sang’ facce na catena, Pu t’ l’appicc’ a ssa gentil’ canna. Quand’ ce vè alla Messa la mattina, Chiunca ch’ tt’ ‘ncontra t’ dumanna: - Dand’ è discesa sta gentil catena? - È mm’nuta dai purt’ d’ l’ vant’; Anda sponta ju sol’ la mmatina. Quand’ sponta ju sol’, sponta bbass’, Quant’ cchiu ss’alza, cchiu sbiandor’ porta. Cuscì è lla donna bella quand’ nasce:

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Quant’ cchiu cresce, cchiu all’amor penza. *** Quest’è lla strada ch’ffecitt? Sera, Quest’è la finestrina dov’entrai. Quant’era stretta, j’ n’n ci capeva, Tutt’ l’ spall’ m’ l’ r’munnai. Acciapp’ na pallett’ i sbel’ ju fuc’, L’appicce na cannela traf’lat. Vai alla cambra d’alla bella mia: Essa dormiva tutta r’pusata. I ss’ r’svejja tutta sb’guttita: - Danda sci ‘ntrat’, fals’ ‘nnamurat’? - So ‘ntrat’ p’lla porta, bella mia; L’ai trov’ apert’ i jj l’ai r’nz’rrata. Seguono alcuni versi anfibologici, che ometto. Quand’ t’ vidd’ i qquand’ t’ mirai, La luna tra l’ stell’ m’ pèriv. *** Ora n’n pozz’ sta n’n t’ mir’: P’rchè t’ sci rrubbat’ ju mio cor’? Dimm’l’, bella mè, cumme fecist’, Quand’ tu dajju pitt’ m’j’ l’vast. *** Vaujj’ amar’ la donna p’cculina: Campana p’cculina fa bon zun’. *** Sèteci bbella, n’n z’ po’ n’gar’, Bella d’ qua, d’ là, bbella p’ tutti’. Ciò ch’ vvu v’m’ttet v’ sta bben. *** I quattr’ giorn’ d’lla mit’tura T’ deng’ libertà, parla n’chi vuoi. *** Tu vè alla font’ i jj’ alla font’ ving’: Tu purt’ ju manir’ i jj’ la conca. *** S’n’nt pijj’ a mmè, bella m’ dann’: Buttar m’ vojj’ a nnu mar’ profond’. *** Giuv’n’ttella ch’ ll’ verdi fronn’, Dimm’ d’ ch’ culor tu l’ cummann. M’ r’vot’ a jju cil, ved’ na tazza: Dentr’ ce steva na ‘durata treccia; Era la treccia d’lla mia ragazza. *** M’ r’vot’ a ju cil i vved voi: Subitamant? M’ n’ ‘nnamurai. ***

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M’affacc’ alla f’nestr’ i vved’ ju mar’ Tutt’ l’barch’ l’ ved’ v’nir’: Quella d’ jju mi’ amor n’n passa mai. *** Mmiss’ a mmar’ ce sta nu tavulin’, Ce steva sopra penn’ o ccalamar’ P’ scriv’ l’ b’lezz’ d’ll’ amor’. *** O rund’nella ch’ vve’ p’ jju mar’, Ferma, ca tt’ai da dice na parola. Prèstamm’la na penna d’ ch’ ss’ ala, Vujj’ scriv’ na lettr’ a jju mi’ amor’. Dopp’ ch’ ll’aj’ scritt’ i fatta bbella, Portal’ a jju mi’ amor’ o rund’nella. Dopp’ ch’ ll’aj’ scritt’ j ss’ggellata, Portal’ ajju mi’ amor’, ca sci ppagata. I ss’ jj’ truv’ mintra stà a mmangiar’ Pijjat’ nu buccun p’ pparte mia. S’ jj’ truv’ a jju litt’ a rr’pusar’, O rund’nella mè, n’ jj’ sturbar’. S’ jj’ truv’ ch’ n’antr’ a ffà l’amor’, Dajj’ nu cilp’ ‘mpitt’ i ffajj’ mpr’. CANTI DISPETTOSI N’n t’aj’ vista ma’ n’ cantina ire, Manc’ alla vigna tè j’ zeppetur’, N’n t’aj’ vista ma’ ch’ jju canistr’, Manc’ ajju camp’ ti j’ mit’tur’. *** Bella, lu vin’ ti s’è ffatta ‘acit’ Mo n’n t’ l’ fè cchiu l’ scialacquat’; T’ p’nziv’ d’ bbev’ a jju b’cchir’, Nginocchia ‘n terr’ i bbiv’ alla fundana. *** Quant’ sci brutta, ch’ sci tenta nera, Sci ffarra’ a llotta ch’ jju callarar’. *** Ju ggiuv’nitt’ ch’ vva p’ lla piazza, La ppippa ‘mmocch’ i ‘la fam’ ‘nzaccoccia, Ju capp’llitt’ ‘ncantat’ a nnu quat’, I pp’ lla fam’ n’n z’ regge ritt’. *** Rapp’nnacciat’ mi, rapp’nnacchiat’, Dumen’ca pèriv’ nu signor’. Lun’ddi t’è mm’nut’ ju mannat’: R’porta ju v’stit’ a jju mannat: R’porta ju v’stit’ a jju patron’. *** Affcciat’ a jju guad’ d’lla porta,

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p’chè alla casa tè n’n c’è f’nestra. *** Ting’ nu fazzulit’ d’ v’llut’, N’ m’ è chi j’ mett’ a lla bbucata: Mitt’m cij’ tu, faccia ‘ngiallita, Tu, r’masujja d’ jj’ ‘nnamurat’. *** Quant’ sci brutta, quant’ sci sgrabata, Chi t’ r’mira perd’ j’ app’tit’, Faccia d’ na carpetta scurt’cata, Mo t’ j’legge j’ tu’ segret’. Nella lenta, ma inesorabile ed irremissibile perdita di questa poesia sana e vigorosa, è

ancora possibile sentire qualche canzone tutta nostra tra i lavoratori e le donne che tornano dalla campagna, stanchi della fatica che dovrà procurare il duro pane quotidiano; nelle notti serene, durante la trebbia, sulle aie, larghe e luminose; tra le giovani e le giovanette che vanno di sera, ad attinger acqua alla fontana.

Nel coro dei mietitori che tornano dal lavoro, spiccano voci maschie, di timbro saldo; delicate note femminili: gioia pacata e consapevole di persone mature, rassegnate ed esperte; aneliti e spasimi di cuori giovani; formando un tutto che commuove, scuote, esalta.

I vecchi contadini che, un po’ brilli per il caldo eccessivo, per il lavoro estenuante e per il vino generoso, si coronano di fiori e di ranuncoli verdi, gesticolando, cianciando e alternando al passo una danza alquanto primitiva che non conosce regole degna un po dei fauni, danno l’illusione di un mondo fantasticamente strano, e fanno pensare alle gaie parole medievali.

Il canto si allontana a poco a poco, e sfuma leggermente, assumendo un tono mistico e sovrumano, mentre lentamente il sole tramonta, e cadono sul mondo le prime temperate ombre crepuscolari. Sul cuore grava una malinconia pacata, ma pur dolorosa. Sembrano voci di esseri misteriosi, di ninfe e dolci sirene, che vengono da un mondo sconosciuto: salde, precise, definite, fini, sottili, delicate, sfumate.

A sera, quando le giovani vanno o tornano dalla fontana, si leva man mano, lentamente ascende, si distende, si allarga il coro delle canzoni, che salgono oscure, celante ne l’ombra fremiti di vita, aneliti di anime vergini, palpiti di cuori innamorati.

La pia luna proietta i raggi candidi e diafani attraverso gli alberi folti, negli spazi che intercorrono tra le foglie, come occhio vigile e benigno, che scruti e vegli ne la notte nera e piena di misteri e di paure. Disegna su la terra morbida di erbe e di rugiada, strane figure che si avvincono, si stringono, si abbracciano, s’intrecciano in un groviglio fantastico a attorto.

Felice Santarelli

Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, Roma 14 ottobre 1926 Le memorie di un sacerdote d’Abruzzo caduto sul campo: Francesco Santarelli Sono uscite, coi tipi dello Stabilimento tipografico Romano, le Memorie di guerra del

Sacerdote Francesco Santarelli, Tenente Cappellano del 215° Fanteria, caduto sul campo il 30 agosto 1917, da me raccolte e con affettuosa cura ordinate.

Mi sento in diritto di ricordare, a quanti alimentano nell’animo l’amore disinteressato di Patria, che non sia vana ostentazione e accademica affettazione, ma carità sentita e vissuta, l’opera di questo autentico Eroe di nostra terra, tenace, oscuro e silenzioso, che

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non ha mai aspirato ad onori e a decorazioni, ma è stato guidato, nell’adempimento della sua sacra missione d’amore, dallo spirito ardente della fede di Cristo e dal patriottismo più puro. Nelle sue memorie ha lasciato la dipintura netta del suo carattere di Diamante, della sua tempra di lottatore, della sua fibra instancabile di lavoratore, della sdegnosa fierezza della sua anima solitaria, inflessibile e schiva di tutto ciò che sa di adattamento, di contingenza e di opportunità. Vive e vibra, in quel libro, la passione cocente di un’anima di apostolo, giovane di età, ma profondo e compiuto, dritto ed intero, per maturità di senno, per altezza d’ingegno, per dottrina e per cultura; temprato alla lotta della vita e al sacrificio che sa i giorni del lavoro incessante e la solitudine dell’abbandono. È esso una magnifica rivendicazione contro i monopolizzatori della guerra e della vittoria, mettendo nella sua vera luce la parte che in esse ha avuto il popolo «questo popolo molto ingannato nel passato, troppo a torto bistrattato e dimenticato, e degno di un migliore avvenire, che esso ha guadagnato a prezzo di lacrime e di sangue» ed eternando, con parole che rivelano un’alta mente sociale e politica, gli eroi umili, i valorosi dimentichi e sconosciuti, «che più di tutti risentono le sofferenze della guerra, mentre ne usurpano gli allori». È, anche, il testamento spirituale del Martire integerrimo del suo dovere e dei suoi ideali di umanità, di libertà, di indipendenza, per seguire i quali passò, dalla quiete luminosa, e feconda dei suoi studi all’immortalità della gloria: … Il contrasto altrui ha spesso rinsaldato il fermo proposito di giungere ad ogni costo al conseguimento di determinati fini, e posso affermare con una certa soddisfazione che nessuno dei fini che mi son proposto di conseguire veramente m’è sfuggito, e di ciò ringrazio cordialmente il Signore. L’esperienza passata e più la presente mi gioveranno molto, spero, per l’avvenire, e fin da ora mi propongo, e sarò fermo e saldo nel proposito, di continuare a volere e fortemente volere, di fare sempre, dovunque e ad ogni costo quel che debba la propria coscienza e il proprio dovere di cristiani, di cittadini e di uomini, di non curare i giudizi, le critiche altrui, di sfidare l’altrui malevolenza, senza muover collo né piegar costa; di riguardare tutti a testa alta, ma senza spavalderia; di prediligere gli umili, i poveri, i sofferenti, in una parola, il popolo di conservare la libertà di cuore, di spirito e di azione, di affrontare impavido le situazioni difficili, di essere umile senza viltà e senza transazioni, fiero senza superbia, di essere "vir"»

E il sacerdote di Gesù che sente l’amor di Patria come un sacro obbligo, senza conoscere i diritti, al quale immola volontariamente le soddisfazioni e la quiete di una vita comoda e tranquilla. Volontariamente, perché quando Egli ebbe comunicazione della sua nomina a tenente cappellano del 215° fanteria, nomina da lui stesso provocata, aveva in sua facoltà l’andare in frontiera o rimanere a Roma, dove era stato dieci mesi addetto al Ministero della Guerra.

Nella sua anima si accese un contrasto tagliente, lottano in lui l’amore di figlio e di fratello e quello d’Italiano. Tale dilacerante tragedia è descritta a tocchi rapidi e incisivi in quella che è, senza controversia, una delle pagine più belle e più alte delle Memorie. Don Francesco Santarelli è dunque due volte Eroe.

La sua anima candida, vigorosa e fiera, dotata di quella dirittura che fu nota precipua e norma indefettibile di tutta la sua vita, ha parole contenute di tacita protesta, di sdegno superbo, di malinconia rassegnata, per un barbaro procedimento di burocrazia inumana, adottato il 22 agosto 1916; dolce e sensibilissima, piange addolorata davanti agli spettacoli raccapriccianti di atrocità e di sangue, in vista delle giovani vite stroncate nella loro rigogliosa primavera; insorge contro gli atti di barbarie nemica, perché anche la guerra ha una sua vittoria. E della Vittoria finale Egli può dirsi vero Profeta, perché in ben sette luoghi nel 1916, vaticina in modo esplicito e deciso il successo completo delle nostre armi, toccando ad un tempo profondità bibliche e altezze apocalittiche.

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Sicché tra le memorie che della loro vita di trincea pubblicarono altri, di Lui più fortunati, quelle di Don Francesco Santarelli, che fu uno dei più giovani Cappellani dell’esercito italiano, forse il più giovane, hanno un carattere tutto proprio ed una spiccata originalità che le pongono in luce chiarissima; e restano, monumento vivo e palpitante, sotto tutti gli aspetti, della immane e sanguinosa tragedia, che apparirà ai posteri leggenda.

Perché meglio sia definita la sua figura di studioso, di Sacerdote, di apostolo, riferisco le notizie che intorno a lui ha desunte e trascritte, con paterna benignità, Sua Eccellenza Mons. Nicola Jezzoni, Vescovo di Valva e Sulmona: «Il Sacerdote Francesco Santarelli era un giovane di animo nobilissimo e d’ingegno non comune; perciò fu carissimo ai suoi compagni di Seminario, ai suoi concittadini, a quanti lo conobbero ed ai suoi superiori. L’anno che si recò nel Seminario Regionale di Chieti per sostenervi gli esami di scienze sacre, dalla Santa Sede era stato mandato a presiedere la Commissione Esaminatrice un dotto Prelato di Roma. Il Santarelli negli stessi giorni (luglio), diede di sé tale saggio che meritò il diploma della Regia Scuola Normale colla più splendida votazione possibile ad ottenersi e con ammirazione e lodi dei professori esaminanti. Nello stesso tempo, in ore diverse, destò tanta ammirazione negli esami del Seminario, che il Prelato mandato a presiedere tornato a Roma, fece una singolare ed encomiastica relazione del giovane Santarelli. Per queste ragioni la Sacra Congregazione Concistoriale raccomandò caldamente al Vescovo di Sulmona il Santarelli, prete di belle speranze per le doti non comuni.

Venne la guerra, ed egli, che era addetto al Ministero, volle andare al fronte come Cappellano, mosso dalla speranza di rendersi utile ai nostri soldati che erano in continuo pericolo alle frontiere della Patria diletta. Gli furono fatte molte difficoltà: gli fu detto che di Cappellani non vi era scarsezza: ma il pio Sacerdote caritativo, pregò, insistette tanto, che non si stimò prudente di regalargli l’assenso.

E fu Cappellano esemplare, edificante, instancabile, come attestarono coloro che lo videro all’opera.

Parve che presagisse la sua prossima fine. Pochi giorni avanti il fatto d’armi in cui fu mortalmente ferito, colla matita scrisse l’ultima lettera al suo Vescovo Monsignor Jezzoni, ringraziando il Prelato della benevolenza che sempre gli aveva portato, e pregandolo di raccomandarlo alla Misericordia Divina. Secinaro, patria del Santarelli, non dimenticherà certo questo suo figlio, veramente dotato di virtù e ingegno non comuni».

Conforme alla parola dell’augusto Presa passione quando, nella pace dei focolari per sempre la memoria nel marmo, che ne tramanda ai posteri le virtù e il nome intemerato, segnacolo di sacrificio, di amore. di gloria:

«Perché di tanto onore ed esempio non paresse sconoscente

il natio luogo». Ma un monumento ha innalzato più imperituro del marmo ogni cittadino a Don

Francesco Santarelli: il monumento del cuore. La sua figura e le sue sofferenze, trasfigurate nei miti dell’eternità, saranno rievocate

con commossa fantasia e con penosa passione quando, nella pace dei focolari, le nonne favoleggeranno agli attoniti nipoti delle lotta epica, che sembrerà fola incredibile, meravigliosa e superba.

Felice Santarelli

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Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, Roma 3 marzo 1927 Attraverso il Monte Sirente (da Secinaro a Rocca di Mezzo) Coi bianchi raggi della bell’aurora, «che per etade divenivan ranci», partiamo da

Secinaro in comitiva allegra, diretti a Rocca di Mezzo, dove presterà servizio il nostro concerto nascente, col quale abbiamo il piacere di compiere il viaggio, cavalcando, all’uso ….. medievale, magnifici muli e allegri somarelli bardati, che di tratto in tratto ci deliziano dei loro incontenibili e gioiosi concerti vocali.

Eccoci gioviali, espansivi, resi loquaci dalla frescura dell’ora mattinale, che attraverso le leggere vestimenta ci penetra nelle midolla, dando un senso di sollievo e di benessere, motteggianti, «… l’un dinanzi e l’altro dopo, come frati minor vanno per via», sur per la strada piena di emozioni, infinitamente nostalgica, erta, malagevole e sassosa. Al passo della Portella rallentiamo per gustare alla nostra destra uno spettacolo spaventoso, che riduce a tremar per ogni vena: ci si para dinanzi un baratro profondo e ripido, una magnifica scena di bello orrido: in fondo la valle brecciosa, segnata da un sentiero serpeggiante, che da l’illusione di un letto di antico fiume prosciugato; dirimpetto una risoluta parete boschiva; color terragno, ferrigno, livido di pietraia, roccia viva scheggiata e tagliata nettamente, civettuoli picchi prominenti ed arditi, massi sospesi alla nostra testa e pendolanti a mo di gigantesche stalattiti, in atto stranamente minaccioso e tracotante, augurano buona rampogna a noi e alle nostre animose, pronte e circospette cavalcature, che d’un balzo escono dal labirinto aereo per portarci a respirare su, nel sentiero erto ed incassato tra due linee nette di colline parallele e di dossi boscosi. Risolutamente lo inforchiamo, proseguendo senza novità la marcia fino all’"Acqua", in prossimità della quale si presenta di botto ai nostri vaghi e bramosi di altre e più superbe bellezze, di nuovi e più suggestivi panorami, il masso granitico del Sirente, come una enorme parete compatta, ripida e gelida, dentata al modo delle sierre spagnole, intramezzata da sporgenze brune, scaglie ferrigne di leoni immani. Dopo una breve sosta presso la fontana, entriamo nelle distesa concava dei prati rasi, rugiadosi, e molli di Macrele, ove, mentre improvvisiamo una simulata corsa al galoppo, ci si affaccia alla sfuggita un attendamento pastorale; le pecore, entro il recinto, dormono ancora, custodite dai cani, vigili e fedeli scolte, che ci salutano con lunghi e insistenti latrati; i buoni pastori, appena ci scorgono, c’invitano cortesemente a sorbire un pò di latte caldo; invito al quale più d’uno risponde con commozione ed animoso entusiasmo. Ancora un ripido petto, disseminato di ginepri come una dolorosa selva malaticcia, da superare, e saremo sull’altipiano del Sirente. Si dischiude al nostro sguardo, punto di nostalgica vaghezza, un vasto orizzonte, una solitaria pianura verde, cinta da colli rivestiti di boschi lussureggianti, con nel centro un minuscolo lago, la cui visione ci accompagna lungo tutto il percorso della strada, che, costeggiando il bosco e la pianura, ci ristora e ci allieta coll’ombra delle sue verdi rame frondose, fin dentro, nel cuore del bosco, di dove si vede baluginare lo specchio tremulo dell’acqua, velato d’azzurro. Dolce piano, pieno di solitudine e di quiete mistica e profonda, che da sensazione dell’infinito e dell’eterno, ove si aggirano, nelle ore calde, in una torpidezza velata di languore, le pecore, le vacche e le giovenche, anelanti al pascolo, e si leva dimesso il belato delle agnelle, e prolungato e insistente il muggito dei tori che l’eco ripete; e risuonano alla falciatura, nei tepori di maggio, i canti e gl’inni del lavoro, tra l’odore acuto del fieno fresco che inebria e solleva.

Or ecco uno spettacolo che non capita davvero troppo di frequente. Nel fitto del bosco, attraverso i rami intrecciatisi e le foglie garrenti, di tanto in tanto si sprigionano i vivi baleni dorati delle trombe luccicanti dei nostri compagni di viaggio e di … avventure; e note sparse passano per l’aria, ripetute dalle eco delle valli e delle forre.

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A sinistra le vette dentate e scintillanti del Sirente ci proteggono; a destra ci delizia la visione magnifica del Gran Sasso d’Italia, candido, avvolto ancora in un velo sottile di vapori azzurrognoli e nella quiete e nel sonno torpido della notte, che incombe gelido, gigante tardo e disdegnoso, quasi accigliato, e qui si discopre nell’interezza della sua linea severamente elegante, indomita e superba, nella forza formidabile e spaventosa del massiccio Corno Grande che da un senso di terrore e di gelo.

Alla fonte della Anatella, in possedimento di Rocca di Mezzo, la brigata allegra si raduna e sosta per la colazione, alla quale tutti indistintamente facciamo onore con la più aperta giovialità ed espansione. Quindi ci si accampa e si posa per due magnifici gruppi, dietro cortese invito del fotografo Leucio Maddalena di Aquila. Nostro gradito ospite e compagno di viaggio. Riconfortati nel corpo e nello spirito, d’un balzo sui muli e sui somarelli, e la comitiva s’incammina scemando, distaccandosi, come una disordinata e chiassosa carovana di pellegrini che tentino arditamente la ricostruzione geniale di un carosello storico; tutti portati dal desio e dalla forza domatrice del più bel sole di mezzo agosto, che c’infuoca, dardeggiandoci implacabilmente la schiena arroventata, e ci cuoce la cuticagna, e pinge ai muli il levar faticoso delle lerze; avanti, attraverso i campi rigogliosi di verzure e di messi floride.

In vista del campanile di Rovere, piramidale coma la collina dal dorso nudo sul cui versante occidentale il paese si nasconde, si adagia e si arrampica, che ci da l’illusione di un minuscolo e grazioso paesaggio da presepe, il desiderio e la lena aumenta, e i muli, punti ai fianchi, scalpitano baldanzosi e irrequieti su per i prati morbidi di erbe e di acqua fredda e chiara. Il paesaggio, sfiorato ai piedi della provinciale Aquila-Avezzano, che percorre bianca i prati ricchi di pascoli, di vacche e di cavalli aggiratisi senza posa e senza meta, presenta al nostro occhio curioso e vago visioni di vita primitiva, caratteristiche usanze e processioni, dandoci nell’insieme l’impressione di un villaggio orientale.

Dopo due giorni di gradevole sosta, in automobile, e via Rocca di Mezzo, la civile, cortese e ospitale cittadina, centro di villeggiatura eletta, adagiata alle falde della collina e sulla pianura verde e rigogliosa, ove passiamo piacevolmente una giornata buona, sorbendo a piene canne l’aure balsamiche delle fortunata terra, e beandoci senz’avarizia e senza ritegno della vista dei monti superbi, delle eleganti e ammalianti signorine in villeggiatura, delle floride e languide giovanette montanine … autoctone, dopo aver costeggiato, in una magnifica e gradevole marcia … a cavallo, che speriamo

Di rinnovare al più presto, il Monte Sirente in tutta l’interezza del suo versante nord-est.

Al mattino seguente, su in motocicletta per il ritorno; e, in corsa vertiginosa nei rettifili, e al passo di tartaruga nelle curve chiuse e spaventevoli, che danno un senso di timore gelido, giù giù, come in una danza incomposta, e poi su, a ristorarci all’ombra protettrice dell’Aquila Madre.

Felice Santarelli

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Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, Roma 17 luglio 1927 Corriere di Secinaro: Per l’apposizione di una targa Lettera aperta all’Onorevole Comitato per la Lampada votiva ai Caduti in

Guerra Venuto a conoscenza della risposta che l’ex Commissario Prefettizio del Comune di

Secinaro, Cav. Piscopo dava a codesto Onorevole Comitato in merito alla collocazione della targa portante il nome di mio fratello, Tenente Cappellano Francesco Santarelli, in Piazza delle Chiesa Madre, esprimo a codesto Comitato il mio vivo rammarico, non tanto per il provvedimento in se che non mi sorprende neppure, posto che "del mondo espero, e dei vizi umani e del valore", lo prevedevo già da tempo, ma per la giustificazione che di esso si è tentata di dare. Si è detto, cioè, che l’apposizione della targa avrebbe suscitato il malcontento del paese.

A parte la considerazione che è stato commesso un atto di grave indelicatezza, poiché il solo fatto che codesto Comitato l’aveva proposto, doveva essere per il Commissario Prefettizio ragione sufficiente per l’apposizione della targa stessa, è mirabilmente falso che il popolo di Secinaro si sia,, o si sarebbe, comunque risentito o ribellato. Poiché la memoria di mio fratello è sacra ai Secinaresi, e ai non Secinaresi soltanto, quanto non lo è la memoria di alcun altro, come è stato dimostrato "una e altra fiata".

Né vale l’atto di un amministratore a oscurarla o comunque a menomarla. Se qualcuno poteva essere malcontento, so ben io di chi può trattarsi. Senza dire che a Secinaro vi sono antri e più gravi malcontenti, dei quali si dorme

tranquillamente. Valeva dunque la pena di aggiungerne uno ancora ai molti che già esistono.

A queste schiette dichiarazioni, nelle quali ho sillogizzato "invidiosi veri" non maltalento mi ha spinto, ma amor di giustizia che mi fa parlare.

Credo in tal modo di aver adempiuto, per quanto era in me, a un obbligo di riconoscenza verso mio fratello, valendomi di un mio diritto che è anche un mio incontestato ed incontestabile dovere; come, se avessi taciuto, avrei dato prova di nessuna sensibilità morale e avrei commesso atto di grave viltà civile.

Mi permetta, Onorevole Comitato, di esprimerLe i sensi della mia riconoscenza e della mia profonda stima.

Felice Santarelli Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, Roma 17 luglio 1927 Corriere di Secinaro: Per l’apposizione di una targa Lettera aperta all’Onorevole Comitato per la Lampada votiva ai Caduti in

Guerra Venuto a conoscenza della risposta che l’ex Commissario Prefettizio del Comune di

Secinaro, Cav. Piscopo dava a codesto Onorevole Comitato in merito alla collocazione della targa portante il nome di mio fratello, Tenente Cappellano Francesco Santarelli, in Piazza delle Chiesa Madre, esprimo a codesto Comitato il mio vivo rammarico, non tanto per il provvedimento in se che non mi sorprende neppure, posto che "del mondo espero, e dei vizi umani e del valore", lo prevedevo già da tempo, ma per la giustificazione che di esso si è tentata di dare. Si è detto, cioè, che l’apposizione della targa avrebbe suscitato il malcontento del paese.

A parte la considerazione che è stato commesso un atto di grave indelicatezza, poiché il solo fatto che codesto Comitato l’aveva proposto, doveva essere per il Commissario

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Prefettizio ragione sufficiente per l’apposizione della targa stessa, è mirabilmente falso che il popolo di Secinaro si sia,, o si sarebbe, comunque risentito o ribellato. Poiché la memoria di mio fratello è sacra ai Secinaresi, e ai non Secinaresi soltanto, quanto non lo è la memoria di alcun altro, come è stato dimostrato "una e altra fiata".

Né vale l’atto di un amministratore a oscurarla o comunque a menomarla. Se qualcuno poteva essere malcontento, so ben io di chi può trattarsi. Senza dire che a Secinaro vi sono antri e più gravi malcontenti, dei quali si dorme

tranquillamente. Valeva dunque la pena di aggiungerne uno ancora ai molti che già esistono.

A queste schiette dichiarazioni, nelle quali ho sillogizzato "invidiosi veri" non maltalento mi ha spinto, ma amor di giustizia che mi fa parlare.

Credo in tal modo di aver adempiuto, per quanto era in me, a un obbligo di riconoscenza verso mio fratello, valendomi di un mio diritto che è anche un mio incontestato ed incontestabile dovere; come, se avessi taciuto, avrei dato prova di nessuna sensibilità morale e avrei commesso atto di grave viltà civile.

Mi permetta, Onorevole Comitato, di esprimerLe i sensi della mia riconoscenza e della mia profonda stima.

Felice Santarelli Maurilio Di Giangregorio