REGINA SENZA CORONA

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LA BELLA ROSIN REGINA SENZA CORONA

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LA BELLA ROSIN REGINA SENZA CORONA

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Serie «Personaggi storici del Monferrato»

Prima parte

La Bella Rosi n Regina senza corona

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In copertina. Rosa Vercellana, Contessa di Mirafiori e Fontanafredda (dipinto eseguito dal pittore Massanì).

PREFAZIONE

Questa breve pubblicazione edita in occasione del Centenario del matrimonio di Vittorio Emanue­le Il e di Rosa Vercellana, Contessa di Mirafiori e Fontanafredda, detta la " Bella Rosin "• altro non vuole essere che un modesto contributo alla co­noscenza degli avvenimenti, dei personaggi e delle località nelle quali, come bene ha scritto Alfredo Panicucci " rivivono ancora i tempi del Conte di Cavour, dei primi anni dell'Unità d'Italia e delle avventure galanti di Vittorio Emanuele Il"·

Si tratta di un viaggio ideale nel tempo, un ro­mantico avventurarsi in due dei paesaggi più sugge­stivi ed incantevoli del vecchio Piemonte, nel cuore delle Langhe e del Monferrato.

Il Cenacolo

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ABELE TRUFFA

LA BELLA ROSIN CONTESSA DI MIRAFIORI

E FONTANAFREDDA

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PRESENTAZIONE

Gli amici del " Cenacolo d'Arte" di Moncalvo mi hanno commesso l'incarico di abbozzare un qua­dro, dai limitati contorni, di Rosa Vercellana, la giovane moncalvese salita per merito della fiorente sua bellezza. dall'ombra di una rustica casa della Pieve agli splendori di una delle più illustri dina­stie d'Europa.

Altri scriveranno più diffusamente dell'avventu­rata creatura mentre io mi sono imposto di presen­tar/a nel periodo della sua fanciullezza, cullata da sogni fiabeschi, vissuta in un angolo di questo Mon­ferrato così suggestivo, così elegiaco per i suoi colli ammantati di vigneti, di frutteti e di boschi, per le sue valli ora verdi e costellate di fiori agre­sti, ora biondo dorate di innumeri spighe, ora vi­branti di musiche di acque e di orchestre di alati.

Non aveva che tredici anni quando, dopo l'ino­pinato incontro con il principe Vittorio Emanuele, ella lasciò la casa paterna.

Madre natura le era stata largamente liberale e l'aveva dotata di un fascino che destava lo stu­pore e l'ammirazione in chi la guardava.

La misteriosa luce dei suoi occhi aveva pro­fondamente colpito il cuore del futuro Re d'Italia.

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Ho raccolto dalla viva voce di anziani moncal­vesi episodi e aneddoti che la storia non riporta ma che meritano di essere ricordati e che conferi­scono un carattere di originalità al breve mio studio.

Infine non ho inteso esaltare una figura di don­na che alcuni vorrebbero ignorare per ovvie ragioni, ma fuggevolmente soffermarmi sulla costante sua fedeltà a Vittorio Emanuele e sulla sua missione di madre e di benefattrice.

Abele Truffa

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IL LUOGO DI NASCITA

ANEDDOTI E TRADIZIONI

Moncalvo, 3 giugno 1833

Pisa, 1885

La storia di Rosa Vercellana ebbe inizio in un clima di fiaba poiché si può definire un sogno la sua vita di fanciulla nata in una casa di campagna e

quindi vissuta nei floridi vigneti verdi e azzurri, nei

campi biondo dorati. nei prati costellati di salvie azzurre, nei boschi vibranti di orchestre di alati del­l'ubertoso Monferrato.

In quell'angolo di terre di Moncalvo, denominato •• La Pieve, in cui la poesia delle visioni divinamente

belle, cantava l'inno suo più puro, non turbato da tumulti di guerra ma accarezzato dalle voci di un'aria

sorprendentemente tersa, la giovanissima creatura in cui la Bellezza aveva impresso un'orma duratura, con­feriva al paesaggio che la circondava una nota di vita limpidamente serena propria dell'età adolescente,

ignara delle foschie dei cuori contaminati. Poco lon­tana dalla rustica sua casa, ferveva il lavoro dei coloni, curvi sulla terra che avrebbe loro donato

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Nota
Rosa Vercellana (Bela Rosin) in realtà è nata a Nizza Marittima l'11 giugno 1883 ed è morta a Pisa il 26 dicembre 1885
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dovizia di vini generosi dall'intenso aroma di certi fiori e copia di frumento dal sano profumo delle cose caste.

La piccola Rosa respirava con ampio ritmo del cuore l'onda del vento saturo di essenze agresti, e il suo volto dai lineamenti perfetti di statua greca si accendeva di luce come i fiori delle siepi che verdeggiavano presso la sua casa.

Nella semplicità che caratterizza le fanciulle della campagna, semplicità ammantata d'innocenza, avrà intravisto la giovanetta l'ideale figura del principe azzurro nei sognanti merìggi quando l'occidente ap­pare come un immateriale giardino in cui splende una flora non terrena?

L'avrà sognato nei racconti della mamma, nelle interminabili veglie invernali quando il paesaggio, asterso da macchia, vestito di bianco, riceve il bacio della luna e il sorriso delle stelle?

Nella raccolta borgata della Pieve non passavano cavalieri fiorenti di giovinezza, e Rosa non vedeva che bifolchi segnati dalla fatica, buoi nei campi, giovenche intente al pascolo e branchi di pecore.

Ella eri:! come la rosa nel rovo. dai petali dì viso d'angelo e dall'olezzo distillato da misteriose fate. ma occultata da spesse e spinose foglie.

E chi la conosceva se non gli abitanti della pic­cola frazione?

l suoi giochi? Quotidiani contatti con i fiori dei campi, di cui si compiaceva comporre mazzetti per

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Casa della " Bella Rosin "• in Moncalvo. borgo Rinchiuso. via C. Ferraris. 63. Sulla parete dì fondo è visibile lo stemma dei Vercellana.

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adornare la chiesetta della sua borgata e la mensa paterna nelle stagioni del sole ardente, e lavori di cucito e di ricamo nella stagione del sole pallido, delle nevi e del soffio della tramontana.

Dalla mamma ascoltava parole di saggezza c riceveva esempi di laboriosità e di disciplina, virtù della donna antica che non cercava le gioie oltre il focolare domestico.

Intanto ella cresceva e in lei si faceva sempre più intenso il fascino e più smagliante il fiore della bellezza che rivelava i magici riflessi del sole e dei colori della sua terra.

E come potevano passare inosservati il fulgore dei suoi occhi, l'ovale perfetto del suo volto, la sua fronte simile ad un bianco petalo di magnolia e la folta chioma d'ebano? Il naturale suo regale porta­mento richiamava alla mente l'incedere maestoso delle donne greche, segnatamente delle canefore nella Festa delle Grandi Dee.

La sorte l'avrebbe condotta sulle orme d'un cava­liere ideale, senza macchia e senza paura? O per un accorgimento del destino stessa ella avrebbe varcato le soglie della corte reale o del castello di un principe di sangue?

Coteste seducenti prospettive non sfioravano il pensiero ancora primitivo della fanciulla, e forse, remissiva al consiglio dei familiari, ella avrebbe al­lietato la casa di un bravo e facoltoso colono della sua Pieve.

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Ma il facoltoso agricoltore che accarezzava il pensiero della sua famiglia, contro ogni previsione della famiglia stessa, sarebbe stato un personaggio di ben più nobile stirpe e nientemeno che un membro

della Famiglia Reale. Con gli anni la sua bellezza era divenuta pro­

verbiale e sul labbro dei compaesani ella non era altro che la " bela Rusin " la bella Rosina, che, dovunque passasse, destava stupore e ammirazione. come chi reca in sé i doni più preziosi e più affascinanti della vita, ed è considerato un capolavoro della natura.

Quando ella, ancora ignara delle vicende della Patria, smembrata e oppressa, godeva nella gioia della fanciullezza, giorni di serena pace, l'Italia, pur sangui­nante, avvertiva il grande presagio del Risorgimento; Risorgimento in tono minore perché limitato a gruppi isolati di animosi sparsi per la penisola che, galva­nizzati da un sentimento di amor patrio, lungamente rattenuto, noncuranti delle feroci e sanguinose re­pressioni affrontavano il martirio con la fede e la

serenità dei martiri cristiani. Più tardi, l'Italia si sarebbe eretta come regina

nei vividi bagliori della riscossa. Gli Italiani, come destatisi da un deprimente letargo avrebbero ovunque

spiegato il tricolore, compatti e frementi ... sarebber~ stati come l'immagine d'una foresta sotto l1mpeto de1

venti primaverili. Ma pur nel fermento di un popolo che moveva

alla conquista della libertà, non taceva la poesia del

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l l

lavoro, non taceva il canto dei cuori e, continuava a irraggiarsi da vasti cieli un perenne sorriso sulle verdi distese della campagna, un mare di opimi pascoli e di rigoglioso frumento, un'armonia di colli dai morbidi versanti ammantati di vigneti, un'ascesa di folte conifere verso le altezze dominate dal volo dell'aquila.

Qui in questo Monferato, dove i castelli custodi­scono storie di contese e di amabili ozi e vicende ora cupe ora solari, dove la Pace, cantata da Virgilio, scrive ancora poemi che celebrano i fasti dell'agricola nel continuo suo contatto con la terra, sempre giovane che mira il sole con la raggiante tavolozza dei suoi colori e dei suoi copiosi frutti, sarebbe fiorita la fiaba di Rosa Vercellana.

Ed ecco entrare ne! suo mondo di giovane nel fulgore della bellezza colui che, colpito dall'incanto di quel volto. l 'avrebbe incoronata regina del suo cuore.

Ecco Vittorio Emanuele Il, principe sabaudo, nel costume di appassionato cacciatore, percorrere que­

ste campagne, allora ricche di selvaggina. grazie alle

vaste distese boschive, e confondersi con questa gente operosa, intrattenersi in amabili conversari, accettare l'ospitalità, interessarsi all'andamento delle

annate agricole a assicurare a quanti ricorrevano a

lui, il paterno suo interessamento.

Figura inconfondibile, dall'aspetto fiero di persona

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apparentemente rude ma dal cuore d'una sensibilità proverbiale.

La sua parola dall'accento torinese, destava sim­patia, i l suo tratto, lontano dali 'essere aristocratico, avvicinava, per una particolare attrazione, chi con lui s'incontrava e iniziava una briosa conversazione, e per tutti egli aveva una parola buona.

Fu appunto nel corso di una battuta di caccia che egli, vide per la prima volta, Rosina intenta a raccogli ere fiori.

Forse, non osò rivolgerle la parola, tanto fu lo stupore che egli provò, limitandosi ad un cortese saluto, ma secondo testimonianze degne di fede, egli ritornò più frequentemente alla Pieve come spinto da una forza irresistibile e ebbe così modo di con­versare con la famiglia Vercellana, con la stessa Rosina, e sedersi anche alla rustica mensa.

Inconsciamente sbocciava nei due cuori un senti­mento, che col tempo li avrebbe uniti in un solo cuore. Era dunque giunto in quella oscura borgata, pur sempre accogliente per le musiche dei boschi, l'olezzo agreste dei campi e l'aroma dei vigneti, il leggendario personaggio di. cui sono pieni i racconti fiabeschi?

Sì, era giunto, ed era un cavaliere che nello splendente clima del Risorgimento si sarebbe com­portato senza paura, e avrebbe dimostrato di non essere da meno dei grandi eroi della storia.

Vittorio era ospite assiduo della famiglia di Ro­sina, spezzava il pane di quella mensa, assaporava

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i frutti dell'orto attiguo ma, soprattutto, si commo­veva al calore di quel focolare e alla presenza della fanciulla dalla parola armoniosa, dal riserbo proprio di chi non ha nel cuore torbide passioni e spande intorno a sé come una luce che rischiara la mente introducendovi pensieri di bontà.

Ma i genitori e i fratelli di Rosina, avevano forse intuito il vero sentimento dell'illustre ospite?

Essi ben sapevano ch'egli aveva una famiglia, che apparteneva al più illustre casato d'Italia, che vantava un passato glorioso, che nelle sue vene scorreva sangue di luminose figure di antenati: Santi, guerrieri di fama, uomini versati nella politica, nelle scienze e nelle arti e dame in cui fiorivano le virtù che rendono sovrana la compagna dell'uomo.

Come mai tanta degnazione di un così illustre personaggio verso gente di campagna?

Erano così lontani i Vercellana dal pensare che un principe vagheggiasse l'ingresso nella sua corte di Rosina, fanciulla senza cultura, unicamente per l'incomparabile bellezza.

Quante dame potevano gareggiare con lei per le singolari doti fisiche, superandola di gran lunga nel­l'arte di vivere in una reggia ed esperte nei segreti di conservare intatto il fascino della propria persona.

Ma la sorte avrebbe riservato alla giovane dei campi l'onore di sedere su di un trono regale.

Erano troppo frequenti le visite di Vittorio nella casa dei Vercellana per non intuire che egli stava

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per compiere un gesto che avrebbe suscitato un grande scalpore nella sua corte.

Oramai era evidente che nel suo cuore era ger­minato un nuovo profondo affetto; Rosa Vercellana era diventata l'ideale immagine dei suoi sogni.

Con il maturare degli eventi politici e alla vigilia di grandi avvenimenti, la famiglia di Rosina aveva deciso di lasciare la rustica abitazione di campagna per stabilirsi a Moncalvo, in una decorosa casa nel rione denominato " Rinchiuso "• casa che ancora oggi reca i segni di nobiltà nello stemma dei Vercellana e nello stile d'un soffitto conservato intatto pure a distanza di oltre un secolo.

Oui la vita della famiglia di Rosa, nella prospettiv8 d'un avvenire felice, mutò tenore. Dalle condizioni di umile lavoratrice della terra, essa si elevava al grado di un ragguardevole casato.

Il padre, uomo di eccezionali doti fisiche, dal corpo e dai lineamenti statuari, imponente nella sta­tura, raggiante nel volto, costituiva il vigoroso ceppo da cui era germogliato quel fiorente virgulto che rispondeva al nome di Rosa.

Lasciata la·campagna, egli, in seguito, dopo varie vicende belliche, ottenne l'appalto di una linea di diligenze sulla provinciale che da Asti conduceva a Moncalvo e a Casale; esercitava quindi la mansione di postiglione che consentiva alla famiglia una certa agiatezza.

Cotesto suo nuovo impiego era una gradita op-

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Il " Caffè dei ricordi "· dove Vittorio Emanuele Il si incontrava con Rosa Vercellana (Moncalvo, via XX Settembre).

portunità per Rosa amante delle passeggiate, e delle lunghe soste in campagna, per recarsi da Moncalvo

capoluogo al periferico rione Borgo dove la diligenza aveva una lunga sosta. In attesa del padre, ella si

compiaceva contemplare il vasto panorama vario di prati, di campi, di boschi e di vigneti.

Nel corso di uno di quei suoi diporti Vittorio la incontrò per la seconda volta. Ella, raccolti molti fiori

lungo le siepi, com'era suo svago, seduta sul margine della strada stava componendo con un senso d'arte

graziosi mazzetti quando le apparve la figura del principe in tenuta da cacciatore; subitamente non riconoscendolo per il cappello a larghe tese e per

l'incolta barba, fu presa dalla paura, ma poi, rinfran­

catasi per le cortesi parole che l'uomo le rivolgeva, rispose al suo saluto. In quel giorno di maggio, sotto

un sole sfolgorante in un cielo di terso cobalto, nel vasto scenario d'una delle più belle campagne d'Italia, fiorì il leggendario idillio.

L'umile campagnola, senza beni di fortuna, senza il nome di un casato illustre, dalla cittadina di Mon­

calvo stava per entrare nella reggia dorata di Torino.

Ma la cittadina di Moncalvo e le fiorenti terre di cui era circondata, da tempo erano i luoghi partico­larmente cari a Vittorio e frequentemente lo si vedeva nelle battute di caccia e in quel ritrovo cittadino che

risponde al nome di " Caffè Faggiani », nella via

XX Settembre. Là egli sedeva con gli amici ad un tavolo di marmo che tuttora si conserva; alle pareti

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si leggono ancora diplomi che portano la sua illustre firma e si ammirano due ritratti di Rosina e Vittorio.

È un locale che presenta intatte le caratteristiche del tempo e vanta una storia di cui può andare orgoglioso.

Con il principe là sostava anche Rosina e là si accendevano discussioni mondane e politiche e là negli ozi estivi, si svolgevano amabile conversari e si gustavano raffinati liquori e dolci di una squisitezza dovuta al talento del proprietario, esperto nell'arte dolciaria.

C'era un altro locale pubblico, meno noto del « Caffè Faggiani "• ma assai frequentato, che si apriva nelle adiacenze della casa di Rosina: '' La Taverna del Buon Umore"·

Sebbene i cl i enti fossero in maggioranza nego­zianti, mercanti, rivenduglioli e sensali, Vittorio non disdegnava di sostarvi per gustare certi piatti di lumache e di tartufi e certi intingoli che la cuoca, abilissima, sapeva preparare. Chi passava nell'ora del mezzodì dinnanzi a quella taverna, entrava come in una nuvola di aromi che inducevano a fermarsi e a rendere onorp alla invitante tavola.

Oramai Vittorio poteva considerarsi un cittadino onorario di Moncalvo e dei paesi circonvicini, tal­mente era visto con simpatia per la semplicità del vestire e la bonarietà del conversare, per l 'accorgi­mento di sapersi inserire nella vita laboriosa e umile dei contadini.

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È notissimo in questa zona l'episodio del batte­simo del dodicesimo nato di una modesta famiglia di Ottiglio.

In paese tutti disdegnavano di tenere a battesimo il bambino per un malcelato senso di vergogna se non di rispetto umano.

Il padre, imbattutosi nel principe, piangendo gli confidò la sua pena e la pena della consorte.

Vittorio, come sempre, sensibile ai dolori altrui, si offrì di fungere da padrino e il giorno fissato, giunse in paese cingendo la fascia tricolore e accompagnò il neonato al fonte battesimale e volle che il bambino si chiamasse Vittorio.

Da quel giorno la numerosa famiglia godette di un'esistenza agiata, grazie alle copiose elargizioni del principe galantuomo.

l contatti di Vittorio con la famiglia Vercellana, se da un lato destavano un certo orgoglio nei fami­liari di Rosina, non mancavano di alimentare gl'invi­diosi e le male lingue che avrebbero voluto frustrato il ventilato progetto della partenza della fanciulla per Torino, ma erano in maggioranza coloro che intravve­devano un notevole benessere per Moncalvo dal for­tunoso incontro di Rosa con il Principe Sabaudo.

Ed era umano che le conversazioni sulle piazze, nei ritrovi e in ogni casa, nonché nei paesi vicini avessero per argomento le relazioni fra Vittorio e i Vercellana.

Ciò nonostante la giovanissima futura contessa

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dì Mirafìori conservava un'imperturbabile calma nel tumulto delle voci paesane, dominata com'era dal pensiero di varcare un giorno le soglie di una reggia favolosa in cui ella sarebbe apparsa come una fata dalla presenza quasi sovrumana.

E viveva, nella fantasia, il trionfale suo ingresso a corte, immaginava le accoglienze, vedeva come in sogno le dame e i cortigiani che le si inchinavano e provava un intimo piacere.

Se la singolare fanciulla di Moncalvo aveva avuto da natura il dono d'una venustà che aveva ferito il cuore di un principe, del non comune privilegio d'una presenza regale, ella non s'era mai insuper­bita, né aveva mai allentato i legami che fin dall'in­fanzia l'avevano avvinta alle fanciulle sue coetanee, che con lei avevano diviso i giuochi, le passeggia­te. i ritrovi in cui i cuori femminili si confidavano i sogni, le speranze e le rosee prospettive.

Quando esse seppero del suo incontro col prin­cipe e della sua decisione di lasciare la casa patern<eì per fare il suo ingresso nell'incantato castello va­gheggiato non senza trepidazione, non le furono avare di compiacimen.to e di augurali voti, nella segreta cer­tezza che ella non le avrebbe mai dimenticate segna­tumc:lte quando fossero andate spose.

E quella cert&zza che tanta felicità donava alle povere contadine della Pieve e di Moncalvo non andò delusa poiché Rosa, dalla Corte le ricordò tutte in modo tangibile dimostrando così che, anche con il

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titolo di principessa, si poteva conservare l'originale semplicità. virtù che accresceva notevolmente l'in­canto della sua persona. e quella sensibilità verso i diseredati della fortuna che doveva renderla popolare nel periodo del maggior suo splendore e nel tramonto della sua vita. Così le giovani moncalvesi ebbero da Rosa cospicui doni e aiuti finanziari non solo nel giorno delle loro nozze ma anche dopo ogni volta che esse si rivolgevano a lei.

Se poi teneramente filiale era l'affetto che ella nutriva per la mamma e i fratelli, verso il babbo quel sentimento d'amore era commovente.

La sua figura recava evidenti somiglianze con il babbo, uomo dalle forme atletiche, definito bellissimo, e di proverbiale bontà.

Egli era stato capo tamburo nell'esercito di Na· poleone e da questi decorato sul campo di medaglie, al valore.

Testimonianze di generali confermano che Gio­vanni Battista Vercellana era un uomo eccezionale per la forza fisica, per la presenza affascinante e per la semplicità e la mitezza d'animo per cui si attirava l'ammirazione e la simpatia di quanti lo incontravano e lo avvicinavano specialmente dei bambini con i quali egli non disdegnava di unirsi ai loro giuochi.

In un clima di concordia e di benevolenza i giorni di Rosa trascorrevano come limpidi cieli mentre il suo grande sogno stava per mutarsi in splendida realtà.

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Addio dunque al verde quiete della Pieve, a Mon­calvo ricca di storia e di arte, alla mamma, al babbo, ai due fratelli e alle affezionate amiche?

No, perché ella vi sarebbe tornata un dì non lontano incoronata come una regina per salutare la terra che l'aveva vista nascere e la città che l'aveva

ospitata e in cui aveva vissuto a contatto di cuori che le avevano voluto bene che la ricordavano con il desiderio di rivederla per testimoniarle l'immutato loro affetto.

Quando ella giunse a corte e ne conobbe il fasto e la ricchezza le parve di vivere in un mondo irreale

in cui non si avvertiva il peso della vita con le infinite sue miserie.

Scale marmoree, che davano l'impressione di sa­lire verso il cielo, vasti saloni in cui splendevano

opere dovute al talento di celebri artisti, decorazioni create da fervide fantasie, statue uscite da scarpelli prestigiosi, tele in cui creature umane e sovrumane sembravano palpitassero, mobili in cui il bulino mosso da mani sapienti avevano ricamato flora che invano

si cercherebbe sulla terra e candelabri ammantati di sole. Rosa con. sempre crescente stupore dilatava lo sguardo in quel regno della bellezza e non sospettava che la prodigiosa opulenza della corte riceveva dalla

sua persona in più sorprendente decoro poiché in Lei la bellezza stessa aveva adunato quanto di più affascinante possa adornare una figura di donna.

E così divenne parte di quel mondo in cui l'oro,

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se decorava pareti e soffitti e alimentava il fasto regale, era in cospicua parte destinato ad opere di beneficenza.

Ripensò l'avventurata fanciulla alla pace ineffabile del suo Monferrato variegato di vigneti, di frutteti,

di campi di frumento, di prati ammantati di fiori, ai boschi in cui vibravano le musiche di alati?

Ma oramai il suo cuore che un dì aveva palpitato al pensiero di varcare le soglie d'una reggia, si sen­tiva legato a colui che le aveva dimostrato di volerle sinceramente bene.

Nella nuova vita, a contatto con dame e cavalieri di alto lignaggio, menti colte e assai esperte nella diplomazia di corte, ella si trovò all'inizio a disagio,

ma alla scuola d'una gentildonna versata in varie di­scipline, e, grazie all'intelligenza, di cui era copiosa­mente dotata, acquistò in breve tempo quella dispo­sizione psicologica richiesta per il comportamento nella casa di un Re.

Il principe Vittorio la circondava di ogni atten­zione, con lei compiva viaggi nelle varie residenze del Piemonte, soprattutto le dimostrava un affetto profondamente sentito.

Al suo occhio Rosa appariva nell'immagine della regina dei fiori come già si era espresso con qualche intimo della Casa dopo il primo incontro con la fan­ciulla nei pressi di Moncalvo. Allora egli aveva detto: " Maggio splendeva in tutto il suo policromo fulgore quando in un campo di grano, in cui fiammeggiavano

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papaveri e sorridevano fiordalisi, mi apparve una vera rosa fresca e profumata "·

Quella visione si era impressa nel suo cuore, e anche a distanza di anni, riviveva in lui ammantata di perenne giovinezza.

La vita di corte in cui le luci si alternano alle ombre, aveva allenato la futura contessa di Mirafiori ad un comportamento dì inopinato equilibrio. Acquisita una buona cultura sotto la guida di provetti insegnanti, grazie all'innato suo buon senso non disgiunto da accortezza, ella. pur negli inevitabili contrasti dalle mille sfumature. proprii delle case regnanti in cui le gelosie, i commenti mordaci, le piccole vendette e non ultima l'invidia, creano sovente un clima di diffidenza. seppe dimostrarsi come un provetto noc­chiero su un mare infido.

Lontano dai problemi politici, il suo pensiero do­minante era il principe, il cui amore ella sapeva ricambiare in eguale misura.

Quando poi le sorrise la maternità e due splen­dide creature. Vittoria e Emanuele, nate dall'unione con Vittorio, le schiusero la via della più alta missione della donna, in. quella tanto attesa felicità, si sentì veramente regina.

Vittorio, nonostante il volubile suo carattere e il clamore suscitato a corte dai suoi rapporti con la giovane moncalvese e la lotta ch'egli dovette soste­nere con i familiari, e con qualche ministro non avvezzo alle sconfitte. non permise mai che Rosa

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subisse umiliazioni. Anzi si accrebbe il suo attacca­mento a lei fino a conferirle il titolo di Contessa di Mirafiori l'undici aprile 1859.

L'amore che li univa divenne in seguito leggen­dario per la partecipazione della contessa a gloriosi fatti d'armi.

Nel corso della guerra 1859-1860, ella cavalcava al fianco del Re, fu presente all'assedio di Ancona, e con lui entrò trionfalmente a Napoli.

Alla scuola di equitazione aveva dato prove di coraggio e di perizia non comuni e si disse che ella cavalcava come i cavalieri della steppa russa tanta era la sua abilità nell'incitare il focoso destriero e nel trattenerne l'impeto nelle cariche sui campi di bat­taglia.

Dopo che la capitale d'Italia da Torino era stata trasportata a Firenze, una nuova vita si apriva per lei. lontana dagli intrighi della corte e, quindi più calma, resa tale dalla quasi costante presenza del Re. Anche nella città del giglio ella non passò inosservata e l'intramontabile suo fascino. fu oggetto di immutata ammirazione.

In un'atmosfera di grandezza, di fasto, a contatto di alte personalità della cultura. dell'arte e della diplomazia, che vantavano origini illustri e un blasone circonfuso di gloria, Rosina non dimenticò mai il mo­desto suo casato perché in lei non aveva trovato posto il funesto orgoglio. In anni non imprecisati ella tornò nella vecchia sua terra per rivedere i luoghi

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d'infanzia e salutare i suoi concittadini. ma Moncalvo non seppe ricambiare con uguale calore i nobili senti­menti di cotesta sua figlia passata alla storia.

Nel corso della breve sua permanenza nella cit­tadina Monferrina, i signori del luogo avevano orga­nizzato un ballo in un lussuoso salone di una casa gentilizia. Tutta la cittadinanza non dubitò che Rosina non figurasse fra le aristocratiche dame. ma quale non fu lo stupore generale quando si seppe che la consorte morganatica del Re era stata esclusa dalla festosa serata perché l'elegantissimo trattenimento danzante doveva considerarsi un ballo « pulito "·

Ma i l maggiore affronto Rosa lo ricevette quando a fianco del Re, su una lussuosa carrozza, ella attra­versò il corso principale di Moncalvo fra due fitte ali di popolo.

Una nutrita acclamazione l'accompagnò lungo tutto il percorso, ed ella, a tutti sorridente, lanciava a piene mani monete d'oro e d'argento.

Ma quando dalla folla, una bocca malvagia lanciò un insulto irripetibile ed ella lo udì, la sera stessa ripartì per Torino e non fece pitJ ritorno nella terra dei suoi padri pur conservandone il ricordo.

Ma quell'insulto privò la città di Moncalvo di cospicui benefici che il Re era nella determinazione di concedere. per suggerimento della contessa.

Egli aveva promesso la costruzione di una caser­ma che ospitasse permanentemente un reggimento di soldati, uno splendido edificio scolastico nonché la

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sede di un corso di studi superiori e il risanamento del bilancio comunale con generose elargizioni

Così, per colpa di un dissennato anonimo, Mon­calvo venne privata di istituzioni che indubbiamente le avrebbero conferito maggiore decoro e notevoli vantaggi economici.

Ma Rosina, dimentica quell'offesa, grazie all'in­nata sua bontà, continuò ad essere generosa verso i parenti e gli amici fedeli che avevano salutato la sua ascesa verso l'ideale sfera della regalità.

Moncalvo continuava ad essere pur sempre la sua culla, la serena oasi della sua puerizia e della sua fanciullezza; in essa aveva vissuto gli anni di una giovinezza ricca di sogni, il più affascinante dei quali doveva tradursi in una inopinata realtà.

Ma altri luoghi non meno cari rivivevano nel suo cuore; là ella aveva vissuto lunghi giorni di intima felicità, resa tale dalla costante devozione del Re e dall'amore dei due figli, floridi virgulti in cui era intensamente riflessa la bellezza materna: Vittoria, nata nel castello di Pollenza d'Alba nel 1848 e Ema­nuele nato nel 1851 a Castelceriolo in provincia di Alessandria.

Poiché la maternità esalta la donna fino a cir­confonderla di una luce sovrumana. Rosa tutta si dedicò ai suoi figli con lo stesso amore che la mamma sua aveva profuso verso di lei e i due suoi fratelli nella quiete della casa. all'ombra della Pieve di Mon­calvo. Lo stesso Re nutri un profondo affetto verso

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Vittoria ed Emanuele e sempre li considerò come un dono non meno prezioso dei figi i avuti dalla regina Maria Adelaide, donna di alto sentire, di un raro equi­librio e dì una comprensione più unica che rara nella delicata vicenda che portò la giovane popolana a fianco del Re.

E Vittoria ed Emanuele, crebbero in un clima di concordia e di serenità, crebbero colti, vigorosi e alle­nati alle lotte che, nel loro avvenire avrebbero com­battuto.

Quando tuonò il cannone nella guerra che avrebbe portato l'Italia fra le nazioni libere, Emanuele, appenél quindicenne, entrò a far parte del corpo dei Caval­leggeri di Aosta e nella battaglia di Custoza tenne un comportamento da autentico soldato di valore.

La sorella Vittoria nel 1868 andò sposa al primo aiutante di campo del Re, marchese Gi·acomo Filippo Spinola, appartenente alla nobiltà genovese, rampollo di una stirpe che si prolungò nel tempo e ancora vive in numerosi discendenti.

Ma se Rosa Vercellana poteva considerarsi una donna arrìsa dalla fortuna, la sua felicità era turbata dal rifiuto del Re di legalmente sposarla anche se l'amore per le·i non si fosse mai affievolito.

Ci voleva una circostanza inopinata per indurre Re Vittorio a mutare consiglio.

Nel 1869, colpito nella tenuta di San Rossore da un grave malore, sentì nel travaglio del dolore fisico, la responsabilità che gravava sulla sua coscienza nei

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Riproduzione dell'atto di matrimonio, celebrato con rito religioso a San Rossore di Pisa nel 1869 tra il Re Vittorio Emanuele Il e la Contessa di Miratiori.

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confronti di Rosa e, prima che gli fossero amministrati gli ultimi Sacramenti, in obbedienza alle condizioni postegli dal sacerdote delegato dall'Arcivescovo dì Pisa, accondiscese a dare valore legale alla sua unione con la Contessa, sposandola il 18 dicembre dello stesso anno.

Liberata Roma, dopo la presa di Porta Pia, Rosa Vercellana, Contessa di Mirafiori andò ad abitare in una villa sulla via Nomentana. Era volontà del Re ch'ella vivesse appartata, lontana dal Ouirinale.

Le mancava però il matrimonio civile che il Re era riluttante a concederle, ma in ultimo cedette e il rito si svolse nel novembre del 1877, due mesi prima della morte del Sovrano.

La sua fine avvenne il 9 gennaio, presenti i due figli avuti dalla Mirafìori.

La bella Rosina, da Roma passò a Pisa nella casa della figlia Vittoria per dedicarsi a opere di pietà e di carità, e là si spense a soli 52 anni di età.

La sua salma da Pisa venne trasportata a Torino e sepolta con solenni onori nel cimitero di Mirafiori in un sepolcreto costruito sullo stile del Pantheon di Roma.

Dei discendenti della famiglia di Rosina, fino ad alcuni anni fa, vivevano a Moncalvo le sorelle Ver­cellana che vantavano una sartoria famosa nel Mon­ferrato.

Con la loro scomparsa. molte preziose memorie si sono perdute. Fra i ricchi arredi di cui si adornava

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la loro casa, erano conservati doni della Contessa di Mirafiori, ma quasi tutti finirono nelle mani degli eredi.

Alcuni sono ancora conservati in case private: il libro di devozioni rilegato in pelle, con impressioni in oro, che Vittorio Emanuele aveva regalato a Rosa

e donato dalle sorelle Vercellana ad una giovane di modesta famiglia nel giorno delle sue nozze, un om­brello di seta e un medaglione che racchiude una finissima miniatura.

Il ricordo delle vicende che accompagnarono la vita quasi fiabesca di codesta donna, sopravvive frammentario, almeno nella città di Moncalvo, poiché i testimoni oculari, da tempo sono passati ali 'eternità; ma bastano le poche testimonianze raccolte nella zona di Moncalvo stessa, tramandate di padre in figlio, per avere un quadro assai suggestivo della storia della bellissima fanciulla che conobbe i fasti d'una delle più famose dinastie d'Europa.

Abele Truffa

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GIULIO PREZIOSO

VITTORIO EMANUELE Il E LE DONNE

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Da " HISTORIA" dì Cino Del Duca Editore Per gentile concessione

La Contessa di Mirafiori è la figura di donna che ebbe maggior rilievo nella vita del Re. Lo conobbe giovanissima e gli rimase vicina come mogi i e morganatica fino alla morte di lui.

Benché la relazione di Vittorio Emanuele Il con Rosa Vercellana sia notissima. le origini della futura contessa di Mìrafiori rimangono ancora avvolte nel mistero, comprensibile ove si pensi che durante la vita del Gran Re (od almeno in quel lungo periodo che precedette il matrimonio morganatico) chi ne era direttamente a conoscenza aveva un certo e naturale ritegno a toccare il delicato argomento mentre l'opinione pubblica. mancando di notizie per così dire ufficiali, era tratta ad accogliere le più disparate versioni che circolavano in materia

La più diffusa tra le chiacchiere d'allora. faceva della bella Rosina una vivandiera del reggimento conosciuta da Vittorio Emanuele sui campo di battaglia.

Il generale La Rocca nelle sue Memorie così accenna. per la prima volta, alla Vercellana:

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"Negli anni 1814 e 1815, allorché mi recavo. accompagnato dal servitore ed assieme a qualcuno de miei fratelli, a passeggiare lungo i viali, assi­stevo pure talvolta sui bastioni alle esercitazioni militari.

l soldati. usciti dalle caserme, arrivavano con la loro banda ed apriva la marcia alla musica un colossale tamburo maggiore, bellissimo uomo, che attirava tutti gli sguardi.

Mentre i soldati erano occupati e la musica ed i tamburi tacevano, egli passeggiava in su ed in giù, fermandosi talvolta presso i bambini che, come me, lo guardavano con occhi pieni di curiosità e di ammirazione. . . Il Vercellana, così si chiamava il tamburo maggiore, attirava tutti i nostri sguardi e tutta la nostra simpatia.

Trent'anni più tardi, ritornando un giorno a Rac­conigi col duca. . . riconobbi sul terrazzo di una modesta casa il Vercellana, con a fianco una bel­lissima ragazza di circa 16 anni: era sua figlia, la bella Rosina, la futura contessa di Mirafiori "·

Durante l'occupazione francese del Piemonte, Giovanni Battis~a Vercellana era stato capo tamburo nelle armate napoleoniche e l'Imperatore lo aveva decorato sul campo. Dopo la restaurazione fu tra i primi a passare all'esercito piemontese, partecipò alla spedizione di Grenoble durante i cento giorni e si meritò una medaglia al valore.

Oltre alla bella Rosina. nata a Moncalvo il 3

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giugno 1833, il bravo capo tamburo ebbe altri due figli uno dei quali Domenico - fu poi impiegato alla Real Casa.

Anche circa il primo incontro di Vittorio Ema­nuele con la sua futura compagna, le opm1oni sono discordi, ed in mancanza di altre fonti, viene gene­ralmente accettata la versione data dalla Bon nelle sue memorie di cui abbiamo parlato. Allorché, in una delle ricorrenti scene di gelosia, ella gli chiese conto della nuova relazione, Vittorio avrebbe rispo­sto: "Aveva conosciuto quella ragazza al campo di San Maurizio nel 1847. Aveva un fratello soldato che era caduto in un tranello, gli presentò una sup­plica per ottenere la grazia e la grazia fu concessa: così la vide. Suo padre era tamburo maggiore, una perla d'uomo, un bravo soldato. Essa non stava a Torino ma a Pinerolo coi suoi"·

Nulla ci vieta di credere alla sincerità della Bon ma di quella del Re è lecito dubitare; quando si trattava della Rosìna, Vittorio era piuttosto in­cline ad alterare la verità.

È perciò più credibile quanto afferma in pro­posito una discendente diretta della Mirafiori la contessa Nice da Camino - che, in un suo volu­metto, asserisce d'aver appreso la vera storia del primo incontro da vecchie carte di famiglia

Il gigantesco capo tamburo era andato in pen­sione verso il 1840 ed aveva in seguito ottenuto l'appalto d'una linea di diligenze; Vittorio capitò

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presso la sua casetta durante una partita di caccia, vide la bellissima fanciulla e se ne invaghì.

Ritornato qualche giorno dopo a rivederla, le parlò e, senza rivelarle l'esser suo, fece balenare alla fantasia della giovane la possibilità d'una vita fiabesca: vestiti, gioielli, brillanti, equipaggi ... in­somma la solita storia, forse un po' aggravata dal fatto che Rosa non era ancor quindicenne.

Dopo aver tutto predisposto con lei, mandò più tardi una carrozza a prenderla e la grande avventura

ebbe inizio.

Divertente l'episodio riferito dalla da Camino secondo cui, papà Vercellana, constatata la spari­zione della figlia, ne fece denuncia alle autorità alle

quali fornì i connotati del cacciatore ch'era stato visto intrattenersi con la fuggitiva: comprensibile fu l'imbarazzo dei funzionari che - al solo sentir parlare di quei baffoni - avevano capito di chi si

trattasse.

Rosina ebbe da Vittorio Emanuele una prima e decorosa sistemazione; le fu data una cameriera - Madama Michela - che doveva poi rimanere a

lungo con lei, e che nominò pettinatrice quando, divenuta favorita ufficiale, poté disporre d'una vera

e propria sua casa. Allorché conobbe Vittorio, era ancora una pic­

cola selvaggia che camminava a piedi scalzi ed egli provvide ad una el8mentare istruzione ed educa­zione che continuò e perfezionò in seguito. lnten-

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diamoci, una vera cultura Rosina non ebbe mai;

ma, donna intelligentissima, seppe sempre masche­rare tale lacuna non lasciandosi indurre a parlare di cose che non comprendeva. Malgrado tutto quanto si disse sul suo conto, non commise che raramente qualcuna di quelle malaccortezze caratteristiche di chi troppo presto è salito ed il suo eloquio, seppure molto semplice, non fu mai volgare.

Tutti coloro che rimasero stupiti non della tanto rapida fortuna della Vercellana ma del suo perdurare, almanaccarono a lungo sui mezzi da lei usati per

avvincere un uomo così volubile nei suoi amori; ma, a parer nostro, non v'era da pensare a segrete, raffinate arti di seduzione od a magici filtri d'amore, ché la verità è più semplice.

Anzitutto la bellezza. Rosina, la bella per anto­nomasia, era veramente una splendida creatura cui madre natura aveva largito tutte quelle doti fisiche atte a far impazzire gli uomini; ma non bastava,

perché di belle donne la vita di Vittorio Emanuele abbondò sempre. Ciò che avvinse per trent'anni il

sovrano fu il ritrovare in lei molte caratteristiche ch'erano pure sue: la naturalezza, la sincerità, il disprezzo per i formalismi, il non aver ella alcuna soggezione di lui e soprattutto la certezza d'esser amato per se stesso ed il sentirla forgiata come lui l'aveva voluta.

Si aggiunga a tutto ciò che Rosina, col suo buon senso popolano, aveva compreso Vittorio Emanuele

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come solamente un'altra donna: la regina Maria

Adelaide. Pur essendo piuttosto gelosa, non tormentò mai

il compagno con quelle scene che lo stancarono di Laura Bon; qualche scenata invero la fece ma non a lui bensì direttamente alle rivali senza dargli per­

sonalmente fastidio.

Molte cose comprese di dover tollerare e tol­lerò; aveva inoltre saputo crearsi una cerchia di fedeli, a lei legati da parentela od interesse, che faceva muovere al momento opportuno nei casi giu­dicati pericolosi, sicché spesso il Re si vide sfumare qualche conquista già avviata senza comprendere bene chi aveva predisposto la manovra.

Non bisogna inoltre dimenticare i due figli, di cui parleremo più innanzi. che lo legarono a lei non con l'illusione ma con la realtà della famiglia.

Sino a quando Vittorio Emanuele fu principe ereditario il suo legame con la bella monferrina, benché conosciuto da molti. non sollevò troppo ru­more ché Carlo Alberto non era uomo da tollerare scandali e fu quindi necessaria una certa prudenza. ma dopo l 'avv~nto al trono, che orgia dì pettegolezzi nella vecchia Torino!

Per la verità Rosina faceva ben poco per evitare tanto clamore. Vestiva in modo eccentrico, adorava tutto ciò che era vistoso e sgargiante. sì copriva sfacciatamente di gioielli ed usciva per la città in fastosi equipaggi.

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Tra tutti i congiunti vicini e lontani che fecero fortuna. ricordiamo il fratello Domenico, divenuto

intendente della reale tenuta della Mandria, presso Venaria, il cugino Domenico Cappa (padre del gior­

nalista repubblicano lnnocenzo) da lei fatto entrare nella polizia e nominato più tardi capo delle guardie

di P.S. a Milano. e, soprattutto, Natale Aghemo che merita un cenno particolare.

Fu costui uomo d'un certo valore che -- come

di rado avviene - le fu sempre grato e devoto.

A lei dette sempre buoni consigli, guidandola per il mare infido della sua precaria posizione sino al

porto sognato del matrimono e fu lui a darle un valido aiuto nella lotta con le rivali più pericolose

quali la Bon e la lvon Ebbe, naturalmente, molti nemici ma riuscì sempre a difendersene senza far male ad alcuno. Il Re doveva crearlo conte di Perno

e, quando ì1 conte Verasis dì Castiglione (il marito della celebre Nicchia) morì fulminato da un colpo

apoplettico mentre cavalcava a fianco della carrozza

dei duchi d'Aosta nel giorno del matrimonio, egli lo sostituì nella carica di capo gabinetto del Re

che conservò fino alla morte dì lui.

La fortuna dì tanti parenti indusse naturalmente taluno a spacciarsi tale; nella capitale pedemontana

sollevò, ad esempio, un certo rumore il caso d'una

vecchietta male in arnese - certa Forno che

vendeva fiammiferi sotto i portici di via Po procla-

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mando ad alta voce d'essere zia della Vercellana e

che, parlando del Re, diceva: "Mio nipote Vittorio"· Nei primordi della grande avventura Rosina ebbe

residenza in una villa di Moncalieri posta quasi di fronte al Castello reale, ma, per seguire il sovrano che non trascorreva mai due settimane nello stesso luogo, soggiornò pure a varie riprese in un apparta­mento a Torino, alla tenuta reale di Pollenza ed a quella della Mandria che divenne infine la sua

vera casa.

Naturalmente dove si gridava maggiormente allo scandalo era nell'ambiente di Corte: i vecchi rea­zionari alla Solaro della Margherita vedevano nella tresca una conseguenza del dissidio tra la Chiesa

ed il sovrano progressista, traendone cupi auspici. La gioventù aristocratica avrebbe compresa una re­

lazione con una dama di magnanimi lombi, non con

la figlia d'un tamburo maggiore!

Le più accanite erano sempre le donne ed a strillare più forte quelle che avrebbero dato qua­lunque cosa per essere al posto della monferrina.

A capo dell'opposizione di Palazzo l'unico prin­

cipe del sa11gue, Eugenio di Carignano, che non per­deva occasione per dimostrare la sua alta disappro­vazione: diremo subito che il principe - tanto severo nel giudicare il cugino - doveva poi inna­morarsi d'una ballerinetta del Regio, certa Felicita Crosio, convivere a lungo con lei e finire con lo

sposarla morganaticamente nel 1863.

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Di fronte a tanto clamore il contegno di Vittorio fu sempre quello d'un uomo che cerca di evitare fastidi pur continuando a fare il comodo suo: con­sigli di maggior moderazione alla giovane ed inviti ad occuparsi dei fatti proprii agli altri. Talvolta però la sorda ostilità da cui si sentiva circondato, provo­cava la violenta reazione del suo temperamento; un giorno - ad esempio - la favorita aveva chiesto ad un alto funzionario della Real Casa, il generale Cigala, una berlina di Corte per recarsi dal Re ed il generale - pur mettendo a disposizione un ricco equipaggio - le ricordò che le carrozze con lo stemma reale erano riservate alle persone di Corte. Evidentemente la questioncella capitò in un mo­

mento di malumore: il Cigala si vide destituito dalla sua carica ed il principe Eugenio di Carignano lo chiamò, dimostrativamente, alla sua casa militare.

Conviene aggiungere che il sovrano si vergognò sempre di quel suo scatto, e, qualche anno più tardi, ne fece ammenda.

Ed i l Governo?

Sinché visse la Regina, il conte di Cavour -intento a tessere la mirabile sua trama - si limitò a far presente varie volte al Re la necessità d'una

più severa vita privata. Egli lavorava a far apparire Vittorio Emanuele quale futuro liberatore della Pe­nisola, l'unica speranza della Patria e nulla avrebbe dovuto intaccare la figura.

A queste considerazioni un'altra - veramente

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grave se ne aggiunge alla morte di Maria Ade­laide, e trasformò il conte nel più accanito nemico di Rosa Vercellana; egli temeva che Vittorio potesse un giorno sposare la favorita mandando all'aria ogni possibilità di un matrimonio vantaggioso ai fini della sua politica. L'inclinazione del Re per il bel sesso era, però. ben nota anche all'estero, e, del resto. egli non la nascondeva.

Narra il Thouvenel che - presentato all'impe­ratrice Eugenia - le rivolse una di quelle occhiate che riservava alle belle donne e le disse che " gli faceva subire il supplizio di Tanta/o"·

Un gustoso episodio è riferito dallo storico del secondo Impero, I'Aubry:

Una sera all'Opera s'entusiasmò per una gio­vane ballerina. "Quanto costerà quella piccina? "• chiese all'Imperatore. "Non lo so, chiedetelo a Ba­ciocchi" Il Re s'informa dal primo ciambellano. " Sire, per Vostra Maestà, saranno cinquemila fran­chi"· "Ah diavolo! È ben caro!"· L'Imperatore disse ridendo a Baciocchi: "Mettete tale spesa sul mio conto"·

Tanto la _regina Vittoria d'Inghilterra quanto Na­poleone 111 avevano suggerito al Re di passare a nuove nozze.

Candidata della regina Vittoria era la princi­pessa Mary di Cambridge (il Cavour pensava ad una granduchessa russa che assicurasse la neutra­lità moscovita nella desiderata guerra agli austria-

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ci] e Napoleone aveva proposto una principessa germanica.

Vittorio Emanuele - esclusivamente per com­piacere l'Imperatore - aveva acconsentito ad in­viare il fido La Rocca a vedere quest'ultima ma quantunque le impressioni del generale al suo ri-torno fossero positive non se ne fece nulla.

Gli storici sono concordi nell'attribuire la ri­luttanza del Re al matrimonio al suo legame con la bella Rosina ma in realtà a quell'epoca Vittorio Emanuele non pensava affatto a sposare la favorita e nulla gli avrebbe impedito di continuare a tenerla presso di sé relegando a Palazzo reale la moglie di convenienza.

Maria Adelaide era mancata solamente da poco e noi pensiamo che, sopra ogni altra considera­zione, repugnasse al sovrano di vedere un'altra donna aggirarsi nelle stanze che avevano apparte­nuto alla moglie tanto amata.

A prova del peso determinante che ebbe nella decisione negativa del Re l 'amore per la bella Ro­sina, viene citata una lettera al genero, Gerolamo Bonaparte, in cui scrive tra l'altro:

"A questa donna mi lega una parola d'onore: che non sposerò nessuna altra donna e che sposerò lei quando sarà possibile, ma senza dir quando, che - in tutti i casi - il matrimonio resterebbe segreto. come la Chiesa permette e che non sa­rebbe regina. Non ci tengo affatto ad accontentarla

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né per ora né per lungo tempo, ma vorrei essere tranquillo su questo punto. Tu sai che è una parola

d'onore"·

In un altro passo della medesima lettera si leg­ge: "È figlia di un cavaliere dell'Impero che ha ora ottant'anni, Cavaliere di S. Maurizio e di più ordini guadagnati sui campi di battaglia di tuo zio. lo gli ho giurato di non abbandonare mai sua figlia, che forma la felicità di questo vecchio capitano"·

Non si può non sorridere agli sforzi di Vittorio per rendere presentabile il colossale capo tamburo promuovendolo a capitano e ponendolo fra i leggen­dari eroi del primo Impero. Tutta la lettera è scritta ad opportunità di causa e non crediamo di poterla considerare definitiva: del suo culto per la memoria di Maria Adelaide, Vittorio Emanuele - con un estraneo - non avrebbe parlato mai.

Abbiamo visto i motivi che ponevano contro la Vercellana il conte di Cavour. Questi non era un avversario da poco e tutto quanto era umanamente possibile fare fu da lui tentato per staccare il Re dalla bella donna: la fece pedinare dai suoi agenti, nella speranza. di scoprire qualche sua infedeltà; mobilitò tutti coloro che avevano influenza sul Re,

pensò perfino di lanciarlo in qualche altra avventura (abbiamo parlato delle sue proposte alla Bon) ma tutto fu inutile. l tentativi del ministro continuarono

anche quando il matrimonio del Re non fu più da lui giudicato necessario ed è probabile che, a questo

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La Contessa Rosa, in un dipinto della Tenuta Fontanafredda.

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punto, alla ragion di Stato si aggiungesse un pizzico di puntiglio: la bella Rosina costituì infatti l'unica sconfitta diplomatica di lui.

Un acuto biografo del conte. il Cappa, racconta il seguente episodio: un giorno, dopo un'ennesima discussione sull'argomento, il Re parve arrendersi alle ragioni del ministro e promise che avrebbe rotto ogni rapporto con la donna. Qualche tempo dopo Cavour venne chiamato a Palazzo reale da un bi­

glietto del sovrano. Entrando nel salone dove il Re di solito lo riceveva, lo trovò seduto con l'amante sulle ginocchia e si racconta gli abbia detto: ,, Vi abbiamo fatto venire per dirvi che io e la Rosina

ci ameremo eternamente "·

Vi furono altri vivaci scontri fra i due (tavolta i l Re passava a l contrattacco rimproverando a Ca­vour la sua relazione con la Ronzani) ed è probabile che tutto ciò rappresentasse un po' la valvola di sfogo di due temperamenti non fatti per intendersi.

Quando, prima dei trattati di Zurigo, il Cavour (che aveva lasciato il ministero in seguito all'armi­stizio di Villafranca ed al drammatico colloquio di Monzambano) fu richiamato da Vittorio Emanuele,

questi pose per il ritorno al potere del conte alcune condizioni politiche e vi aggiunse l'impegno di que­st'ultimo a non interferire più nella sua vita privata.

Rosina, ormai contessa di Mirafiori, aveva vinto. Il titolo comitale le era stato dato con reale

decreto 1'11 aprile 1859. Precedentemente a quello

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di '' Mirafiori e Fontanafredda ., che fu effettiva­mente concesso, il Re aveva pensato ad una contea di Pollenza, dal nome di una tenuta reale dove i due innamorati avevano trascorso giorni felici ma l'inevitabile principe di Carignano aveva fatto osser­vare che conte di Pollenza s'era fatto chiamare tal­volta Carlo Alberto quando viaggiava incognito ed il progetto fu abbandonato.

Nelle campagne del '59 e del '60 la contessa seguì l'amato in guerra. Durante l'assedio di Ancona prese dimora in una villa vicino alla città dove il tuono delle artiglierie faceva tremare i vetri delle finestre ed anche nella spedizione meridionale fu al suo fianco giungendo a Napoli subito dopo l'in­gresso delle truppe.

Cavalcava come un cosacco e l'amore per i cavalli fu un'altra dì quelle affinità che li unirono.

È nota la passione di Vittorio Emanuele per i nobili animali: possedeva una delle più belle scu­derie d'Europa ed i cavalli che lo avevano portato in battaglia non dovevano mai essere venduti ma finire i loro giorni esenti da ogni lavoro. liberi di trottare pei prati senza mancare di nulla. Kalif, l'arabo che egÌi aveva spronato all'assalto sul colle di San Martino, ebbe poi un trattamento del tutto eccezionale ed il Re non mancava mai d'andarlo a trovare e d'intrattenersi a lungo con lui.

Con il trasporto della capitale a Firenze Rosina doveva essergli ancor più vicina. A Torino la vene-

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razione con cui da secoli sì guardava a Casa Savoia era un po' imbarazzante mentre nella città toscana Vittorio e la contessa trovavano un'affettuosa cor­dialità che li metteva a loro agio.

Molte descrizioni della Mirafiorì, allora nel pieno fulgore della sua bellezza, ci sono pervenute. Ugo Pesci, nel suo Firenze capitale, così la descrive: " Nel 1865 la contessa aveva poco più di trentadue anni ed era molto bella, come si conservò ancora per lungo tempo, con occhi vivacissimi, capelli neri lucenti, incarnato perfetto. Dicono che fosse anche buona.. . Non aveva molto gusto nel vestire: le piacevano i colori chiassosi ed i gioielli appariscenti dei quali faceva sfoggio. A Firenze si vedeva di rado e molti vedendo/a non sapevano chi essa

fosse"·

Del suo gusto per il vistoso abbiamo già par­lato ed è pure di quell'epoca uno schizzo a forti tinte tracciato dal gen. La Rocca, nelle sue Memorie: "Dimostrava - scrisse il vecchio aristocratico di essere molto più giovane e conservava la sua bellezza. Rammento che una mattina, non avendo io terminato il mio lavoro col Re. mi trattenne a cola­zione per continuarlo dopo. La Rosina venne a tavola con una vestaglia larga e lunga oltre misura; in capo aveva un diadema di brillanti; una collana di perle le scendeva sulla vita ed i polsi e le dita erano sopraccarichi di gemme"·

Tale inclinazione conservò fino a tarda età, e

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solamente poco tempo prima di morire, essendole stata mostrata una stoffa a vivaci colori, la respinse con un gran sospiro mormorando tristemente: "Di­cono che sono vecchia . .. "·

Dalla Vercellana nacquero due figli: Vittoria, nel Castello di Pollenza il 2 dicembre 1848 ed Err>a­nuele il 16 marzo 1851 a Castelceriolo. Ambedue fu­rono legalmente riconosciuti dal Re che li amò en­trambi e li colmò di benefici. Durante la guerra del 1866 il sovrano volle che Emanuele, appena quindi­cenne. si arruolasse volontario nel Cavalleggeri d'Aosta. l due figli legittimi erano entrambi al campo ed egli non poteva tollerare che un altro suo figliolo rimanesse a casa quando tuonava il cannone.

La contessa, non altrettanto spartana, fece ar­ruolare I'Aghemo nello stesso reggimento e lo pose a fianco del giovane. Questi, del resto, dimostrò che buon sangue non mente e si comportò da prode nella infausta giornata di Custoza; divenne più tardi ufficiale di cavalleria e sposò la contessina Bianca di Larderel. Il casato si estinse con la morte del conte Gastone di Mirafiori avvenuta nel 1943 nel suo castello di Sommariva Perno.

Vittoria sposò nel 1868 il primo aiutante di campo del Re, marchese Giacomo Filippo Spinola di storica nobiltà genovese e di questo ramo esistono ancora numerosi discendenti.

Dopo la prematura morte di Cavour i rapporti tra i ministri successivamente in carica e la contessa

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furono alterni. Alcuni cercarono di averla amica per influire sul Re ed altri le si opposero. È noto che il sovrano aveva molti debiti ed i ministri dell'epoca pensarono un giorno d'indurlo ad abbandonare la favorita offrendogli una forte somma quale rimborso delle spese da lui sostenute per la causa nazionale. Il trovare la forma per proporre il singolare do ut des non era facile ed il ministro Ponza di San Martino, che si recò da Vittorio Emanuele con altri ministri, cercò di cavarsela alla meglio con una forbita ed un po' involuta allocuzione. Il Re lo ascoltò con attenzione e benevolenza, intascò col più vivo pia­

cere i quattrini ed accompagnò cortesemente alla porta la delegazione dicendo: "Ringrazio Lor Signori dell'assegno ... e tengo la Rosina che è una gran bella ragazza! "

Decisamente non c'era niente da fare.

In ottimi rapporti fu la Mirafiori con Urbano Rattazzi che le fece involontariamente un grosso fa­

vore liberandola - con il suo matrimonio - da una pericolosa rivale, la principessa Maria de Solms, figlia di Luciano Bonaparte, molto nota a Firenze.

Sino a questo momento il sovrano aveva resi­

stito a tutte le pressioni della contessa che aveva messo in moto mezzo mondo per farsi sposare. Nel 1869 però Vittorio Emanuele fu colpito a San Ros­sore da una grave malattia che lo portò. quasi, alla tomba. Gli furono somministrati i Sacramenti ed il sacerdote don Renai, inviatogli dal cardinale Corsi -

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Arcivescovo di Pisa - pose, come condizione alla assoluzione. il matrimonio con la Mirafiori. Vinto dagli scrupoli religiosi e credendosi in punto di morte, Vittorio Emanuele accondiscese e, nella notte

del 18 dicembre. le nozze che si pensavano in extremis furono celebrate alla presenza della duchessa di Genova e del principe di Carignano. È noto il tentativo che fu fatto in quella occasione, per strappare al sovrano una ritrattazione circa la approvazione data alla politica laica dei suoi go­verni; tanto il La Rocca quanto la contessa si attri­buirono il merito d'averlo sventato.

Dopo la liberazione di Roma, la Mirafiori abitò una grande villa sulla via Nomentana che costituì il rifugio del Re nella sua vita non priva di contrarietà - nell'Urbe tanto agognata. Veramente egli avrebbe voluto installarla in una palazzina atti­

gua al Ouirinale ma il ministro Lanza che era della scuola di Cavour gli pose il dilemma: "O via lei o via io " ed il sovrano, sempre leale nei suoi rap­porti coi ministri costituzionali, cedette.

Ormai il rispetto generale circondava la moglie del Re: solo _qualche frecciata le giungeva dalla principessa ereditaria, la futura regina Margherita.

Col matrimonio non erano però cessate le preoccu­pazioni per le infedeltà di Vittorio Emanuele che occorre dirlo? - continuavano. Citeremo la balle­rina Claudina Cucchi, per compiacere la quale il Re finanziò l'impresa che l'aveva scritturata al Teatro

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Principe Umberto e che sposò poi il barone Zemo. addetto alla Real Casa. Altra rivale la romagnola Caterina Sirtori, sposata al conte Hercolani, che la Mirafiori affrontò in una memorabile scenata giun-gendo pare --- a minacciarla con un revolver.

Malgrado le ìnsistenze di lei, di matrimonio ci­vile non si parlava ancora. "Regina d'Italia, no!" esclamava Vittorio Emanuele alle sue richieste e. quando le presentava qualcuno. usava la frase: "la

contessa mia moglie ».

Solamente dopo essersi assicurato che un ma­trimonio morganatico non avrebbe mutato la posi­zione della Mirafiori, acconsentì al rito civile che si svolse il 7 novembre 1877, due mesi prima della sua dipartita e solamente allora l'aulico almanacco di Gotha riportò la notizia del matrimonio del Re

d'Italia.

Al termine del ricevimento di capo d'anno del 1878, il sovrano si sentì male; si riprese ed il 5 gennaio andò al teatro Apollo ad assistere al ballo. Mostrava fretta dì partire per il Piemonte avendo avuto notizia che la moglie era ammalata alla Man­dria e voleva accorrere a lei. Troppo tardi. Tra il commosso cordoglio della Nazione doveva morire alle 14,30 del 9 gennaio accanto ai due figli avuti dalla Mirafìori che il principe ereditario aveva voluti

presenti al trapasso. Ogni anno, nell'anniversario della sua morte, tra

le molte corone che la riconoscente pietà degli

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Italiani portava alla sua tomba, ve n'era sempre una anonima di colei che era stata la bella Rosina.

Questa visse ritirata sino al 1885, anno in cui morì a Pisa, presso la figlia Vittoria. La salma fu trasportata a Torino dove venne accolta con onori principeschi e riposa nel cimitero di Mirafiori in un sepolcro che riproduce. in minuscole proporzioni, il Pantheon di Roma.

Giulio Prezioso

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ALFREDO PANICUCCI

DAL MONFERRATO ALLE LANGHE

LUNGO LA STRADA DEL BAROLO

L'IDILLIO DELLA BELLA ROSIN

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Da " ARIANNA " di Arnoldo Mondadori Editore Per gentile concessione

l trattati di enologia dicono che il Barolo è uno dei migliori vini rossi che si producono in Italia. Da giovane non dà grande affidamento. Anzi: è un po' rude, aspro, di colore rosso rubino brillante. Nes­suno, con quel carattere e quel colore, direbbe che è destinato a far carriera nelle " pubbliche rela­zioni "· Invece basta non stuzzicarlo e !asciarlo vi­vere in pace per sei o sette anni, chiuso nel buio delle grandi botti di rovere. magari di Slavonia, che cambia completamente. A poco a poco sì spoglia del rosso rubino per indossare un abito in cui il rosso tende al granato. con riflessi giallognoli aran­ciati; il profumo da aspro si fa delicato e intenso, un misto di catrame - i francesi con maggior ele­ganza dicono goudron- di viola e di rosa appassita; il sapore da rude si trasforma in asciutto, austero, vellutato. generoso. Il Barolo, insomma. come molti rampolli di nobile famiglia, dopo una breve giovi­nezza scapestrata e inconcludente, si avvia a una maturità dignitosa e onorata. E, naturalmente. con-

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scio della sua regalità e delle gloriose tradizioni che ha alle spalle, pretende, detta legge.

Innanzi tutto vuole che la sua età sia rispettata: quindi niente soggiorni scomodi e rigidi nella cella del frigorifero a contatto con i triangoli del latte e le fettine di carne, ma una lunga sosta, comoda­mente distesa, al caldo perché la sua temperatura sia intonata a quella dell'ambiente in cui il "sacri­ficio , dovrà essere celebrato. Poi desidera che il tappo gli sia tolto con molte ore d'anticipo, e senza scuotimenti, perché il suo profumo, a contatto del­l'aria, raggiunga 1' .. optimum "· Infine impone, una volta raggiunta la mensa, una compagnia selezionata:

niente cibi frivoli. ma arrosti e cacciaqione, con la

sola deroga, come fanno i sovrani democratici, per

il gorgonzola grasso e piagnucoloso. E guai a non

rispettare il protocollo: il Barolo vuole apparire per ultimo sulla mensa, dopo i bianchi e i rosati, e non bisogna contraddirlo.

Non bisogna contraddirlo perché è il figlio pri­mogenito di una grande famiglia, quella nata dal vitigno Nebbiolo (da .. nebbia , perché gli acini di color turchino .si ricoprono di copiosa pruina), pianta delicata, sensibile, a maturazione tardiva. Forse non è vero, ma si ha l'impressione che il Barolo snobbi un pachino i suoi fratelli - anch'essi illustri - che si chiamano Barbaresco, Gattinara, Carema, Sassella. Grumello, Inferno, Valgella e Nebbiolo, che citiamo per ultimo perché ha l'aria del fratello povero, meno

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dotato, che si lascia bere come comune vino da pasto, senza protestare. anche dopo un solo anno d'invecchiamento. Pare - ma i documenti sono incerti e forse apocrifi - che figlio del Nebbiolo sia anche il vino Bordeaux, perché sembra che Giulio Cesare, passando dalle Langhe diretto verso la Gallia per conquistarla e scrivere quei Commentari croce è delizia di intere generazioni di studenti ginnasiali, abbia preso con sé qualche vitigno e lo abbia poi

trapiantato sulle rive della Garonna. Ma non espa­

triamo, restiamo in Piemonte nelle Langhe, sulle dolci colline di Barolo, La Morra, Serralunga, Mon­forte, Castiglione Falletto. Verduno, Grinzane Cavour.

Novello. Diano, Roddi. Perché è soltanto su queste

colline delimitate dal Tanaro, dal torrente Talloria e

da una linea ideale tra Monforte e Novello, che si

producono ogni anno 56.353 quintali di uva che, pi­giata. può dare soltanto 5 milioni e 478 mila bottiglie di vero, autentico Barolo, né una di più né una di meno. La nuova legge ha troncato la speculazione per cui con qualsiasi uva, e dappertutto, si poteva fare Barolo.

Il topo di biblioteca che frugasse i vecchi archivi piemontesi per scrivere la storia di questo vino. convinto di poter legare il nome del Barolo ai tu­

multuosi avvenimenti storici delle Langhe - che

vanno dall'insediamento dei Liguri alla .. regio Cispa­dana "· dai Visigoti a Carlo Magno, dalle incursioni saracene alle imprese di Aleramo del Carretto. dai

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Visconti ai Savoia - rimarrebbe deluso. Nel cata­

logo della " Esposizione degli Stati Sardi ", tenuta a Torino nel 1858, il vino Barolo non figura. l cam­

pioni presenti alla rassegna si chiamano ancora Neb­biolo di Grinzane, Nebbiolu di Barolo e così via.

Il vino prendeva ancora il nome del castello nella cui giurisdizione era stato prodotto. Del resto fino a vent'anni prima il Nebbiolo di Barolo o di Grin­

zane o di Serralunga era consumato soltanto local­mente. Alla reggia piemontese i vini italiani erano del tutto, o quasi, sconosciuti. Re Carlo Alberto

beveva solo vini francesi. Avrebbe continuato a berne se, proprio nel 1838, il marchese Falletti di Barolo non gli avesse inviato un omaggio, piuttosto consi­stente, di 1500 ettolitri del suo vino. Carlo Alberto si degnò di assaggiarlo e, subito pentito della pas­sata francofilia, o forse spinto da emulazione verso il suddito più ricco dello Stato, fece acquistare dal­

l'Ospedale della Carità di Torino il castello di Ver­

duno con i vicini vigneti coltivati a nebbiolo. Poi, deciso a non essere secondo a nessuno, affidò la

direzione della nuova impresa al generale Staglieno - più enologo che militare - il quale organizzò un

gigantesco stabilimento vinicolo a Santa Vittoria d'Alba, il " Moscatello , (lo stabilimento appartiene

oggi alla " Cinzano , e la vecchia villetta del " Mu­scatel , ospita un elegante albergo e un ristorante).

Se la storia attribuisce a Carlo Alberto molte incertezze e alcuni difetti, i buoni bevitori d'oggi

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devono almeno riconoscergli il merito d'aver miglio­rato il Barolo. Lo stesso merito spetterebbe anche a Cavour, se il conte non avesse avuto l'intenzione di ottenere ben altri risultati. Cavour, infatti, sindaco di Grinzane e proprietario del castello omonimo, sperava non di ottenere un buon Barolo, ma addi­rittura - trapiantando sulle sue colline dei vitigni importati dalla Còte-de-Baume - un eccellente Bor­

gogna da fare invidia a quello di Francia. E per questo si era affidato all'enologo francese Oudart. Infine Carlo Alberto deve dividere il merito con il marchese Tancredi Falletti di Barolo, proprietario dei bellissimi vigneti del suo paese e di Serra­

lunga d'Alba (passati poi all'azienda "Opera Pia, per volontà della moglie, pronipote del ministro Col­bert caro a Luigi XIV) e con il conte Emanuele

di Mirafiori, figlio morganatico di Vittorio Emanuele Il e della " Bella Rosina, e creatore dell'azienda di Fontanafredda, appartenente oggi al Monte dei Pa­

schi di Siena.

Ottobre è il mese della vendemmia ed è il mese in cui, dalle cantine delle Langhe - s'intende dalle migliori, che ognuno però deve scoprire da solo

perché il gioco vale la candela ed è più divertente

di qualsiasi autoradioraduno - sbucano le preziose bottiglie di Barolo del '64, una tra le migliori annate

che si ricordino.

Ottobre è dunque il mese che invita alle Langhe, uno degli angoli più incantevoli del vecchio

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Piemonte. Può darsi che il viaggiatore frettoloso non si accorga subito, a prima vista, che le Langhe sono

belle. Anche la natura, in Piemonte non fa sfoggio

di sé; è riservata, pudica, non butta le braccia al collo all'estraneo che vede per la prima volta; non è aggressiva come in altre regioni italiane. Ma con­

quista a poco a poco. diremmo quasi in maniera familiare e domestica. Non è una " vamp "· ma una ragazza di buona famiglia educata all'antica, senza

civetterie inutili. Il viaggiatore abituato ai tramonti coloratissimi. alle foreste lussureggianti. alle spiag­ge tumultuose potrebbe rimanerne deluso. Torni una seconda volta, una terza magari, con la scusa di

scoprire una cantina nuova, di portare a casa un paio di bottiglie preziose, come quelle, ad esempio, che escono dalle cantine de li 'Opera Pia Barolo o

dell'Abbazia dell'Annunciata, di assaggiare un'insa­

lata di ovoli e tartufi, una '' bagna cauda "• una fonduta, una " pianta cotta " e scoprirà lui stesso, sorpreso. che lo spettacolo del mare di colline che si vede da La Morra o l'immagine dei castelli che dominano le cime o il tramonto dietro il triangolo

del Monviso dal belvedere di Monforte hanno la­sciato il segno.

Andiamo alla scoperta delle Langhe, allora, al­meno di quella parte delle Langhe più legata alla storia del Barolo. Le città che si possono scegliere come base di partenza sono due: Alba e Bra. La seconda offre il conforto di un albergo accogliente,

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Facciata della villa della Tenuta Fontanafredda, un tempo proprietà della Contessa Rosa Vercellana.

il Cavalieri, mentre ad Alba, nonostante lo sviluppo economico e le industrie che vanta soprattutto nei periodi di punta, come in ottobre, si sacrifica tal­volta la raffinatezza della cucina all'esigenza di

soddisfare migliaia di turisti. Ai golosi segnaliamo subito una specialità della pasticceria locale: sono certi impasti di crema e rum ricoperti di cioccolata che ad Alba si chiamano " albesini ,. o " golosetti ,.

e a Bra " braidesi "· Ad Alba se ne trovano di ec­cellenti nella pasticceria " Rigoni "· oltrepassata la piazza Savona, e da " Berta ,. in corso Vittorio; a Bra li fa in modo squisito il fratello dello scrittore Giovanni Arpino. Soddisfatta la gola, non si deve

dimenticare lo spirito. Alba è fiera del suo antico Duomo; della bella chiesa di San Domenico e del

Civico Museo Archeologico che conserva i preziosi cimeli di quando la città era municipio romano (le vecchie mura d'allora attraversano le cantine della " Pio Cesare ,. ) .

Visitata la cittadina si può finalmente partire verso le prime ondulazioni. Un rettilineo conduce subito a Gallo e al castello di Grinzane, legato alla memoria di Cavour. Il castello basta vederlo dal­

l'esterno perché è vuoto e dovrebbe ospitare, col tempo, una enoteca dei vini piemontesi. Così si può proseguire senza indugio verso Serralunga fer­

mandosi, però, un paio di chilometri dopo il bivio, alle cantine di Fontanafredda.

Nel recinto della grande e gloriosa azienda vi-

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nicola è conservata la villa della " Bella Rosina , che vide gli amori regali di Vittorio Emanuele Il.

La cortesia del direttore della " Fontanafredda "· dottor Ferro (gli si può tenefonare al n. 6200), consente di visitare lo storico edificio rimasto in­tatto con i suoi saloni, le camere da letto, i salottini, i ritratti di famiglia. Nel 1845 era "mastro di posta ••

sull'itinerario da Torino ad Alba, un sottufficiale in pensione, G. B. Vercellana, veterano delle guerre napoleoniche e dell'assedio di Grenoble, tamburo maggiore nel corpo dei Cacciatori e preoccupato

per l'avvenire dei suoi tre figli: Domenico, Rosa e Adelaide. l dispiaceri - nonostante tutto - dove­

vano venirgli proprio dalla secondogenita, la quat­tordicenne Rosina, bella e sviluppata per l'età che aveva. Una sera del 1847, infatti Rosina salì su una berlina da viaggio che aveva lo stemma sabaudo

sulle portiere, e sparì nella notte con un giovane cacciatore di passaggio nel quale parecchi avevano

riconosciuto l'intraprendente principe ereditario Vit­torio Emanuele, duca di Savoia.

L'affronto non piacque al vecchio ex-tamburo maggiore il q~ale non perdonò la figlia d'averlo

abbandonato quando questa gli scrisse una lettera

per chiedergli comprensione. E sembra che il vecchio Vercellana abbia respinto anche una notevole somma

di denaro giuntagli dal vicino castello di Pollenza

dove Rosina si era rifugiata con il bel cacciatore. Vercellana non aveva tutti i torti. Vittorio E ma-

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Il salone dei ricev1menti, nella vìlla della Tenuta Fontanafredda (Alba).

nuele, ventisettenne, sposato da cinque anni con

la cugina Maria Adelaide di Lorena, aveva già cinque figli. Il sesto lo ebbe dalla quindicenne Rosina a Pollenza, nel dicembre del 1848; il settimo, sempre dalla Rosina, nel 1851. La ex signorina Vercellana divenne poi contessa di Mirafiori e Fontanafredda nel 1859, e moglie morganatica del re con due matri­moni, quello religioso nel 1869 e quello civile nel 1877. Una visita al villino di caccia di Fontanafredda è anche una buona occasione per vedere le im­mense cantine in cui invecchia e si nobilita il Barolo

della grande azienda.

Lasciata Fontanafredda, la strada corre sulla cresta delle colline. Serralunga non è lontana, ma il suo castello appare già da lontano altissimo e impo­nente. È forse il più bel castello delle Langhe, fatto restaurare da Einaudi e in cerca, ancora, di una destinazione decorosa. Intanto lo si può visitare da cima a fondo, accompagnati dai simpatici e corte­sissimi custodi. Dalle finestre dei piani superiori il paesaggio è imponente, immenso, dalle colline sot­tostanti alla cerchia lontana delle Alpi.

Alfredo Panicucci

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PIA DE SIMONE

LA ROMANTICA FAVOLA

DELLA BELLA ROSIN

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Da " OGGI " di Rizzoli Editore Per gentile concessione

l

Molto, forse troppo è stato scritto della con­tessa di Mirafiori, ma le notizie sono state prese

qua e là e nessuna da fonte sicura come quelle che abbiamo ricevute dalla nostra povera mamma Ro­

setta, nipote diretta della Mirafiori. Se è vero che molti hanno messo in rilievo la figura di questa donna eccezionale, è anche vero che le notizie avevano qualche volta un sottinteso politico. Oggi io vorrei che si sapesse la vera storia della Mira­fiori così come mi è stata raccontata.

Sembra una favola, tanto è fuori tempo ai nostri giorni, ma occorre rifarsi ai tempi in cui gli usi e costumi erano assai diversi dai nostri. Rosa Ver­cellana era nata in un paesino del Piemonte nei pressi di Asti; in quel paesi no conduceva una vita modestissima con il padre, proprietario della dili­genza, unica comunicazione esistente allora. Il Ver­cellana, che era stato tamburo maggiore nelle mi­lizie napoleoniche, era un uomo molto alla buona,

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un modesto lavoratore che amava la famiglia e so­prattutto sua figlia Rosina, quella che in seguito diventò la moglie del re.

L'INCONTRO COL PRINCIPE

La favola inizia nel 1846 quando Rosina aveva appena tredici anni. Fu in un pomeriggio di maggio, mentre Vercellana guidava la sua diligenza e la mamma era occupata in casa, che Rosina si allon­tanò, forse per la prima volta, dirigendosi verso

la strada provinciale. All'interno i prati erano fioriti di margherite invitanti, la bambina le raccoglieva nel grembiulino rialzato. Era la prima vera giornata di primavera dopo una serie di giornate piovigginose. Quando il grembiulino fu colmo, Rosina si accucciò sul ciglio della strada: aveva pensato di attendere il babbo, salire a cassetta e tornare a casa con lui.

Così, per passare il tempo, prese a formare ghir­lande come fanno tutti i bambini di ogni epoca.

D'un tratto, lontanissima, apparve la carrozza circondata da un nuvolo di polvere. La bimba si alzò e le andò incontro, ma quando fu a poche decine

di metri s'accorse che non era la diligenza del babbo e rimase impressionata, al centro della via, incerta

se scappare o guardare chi fosse lo strano visitatore; non era molto battuta da carrozze padronali, la strada che conduceva al suo paesino. Quando fu

82- Una rara immagine della Contessa Rosa di Mirafiori al brnccio del Re.

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davanti a lei, la carrozza si fermò, una mano dal­l'interno aveva afferrato il braccio del cocchiere af­finché questi fermasse i cavalli. Rosina era là, rossa in viso; con una mano stringeva il grembiulino e con l'altra due ghirlandine di margherite.

L'uomo che discese dalla carrozza aveva una folta barba mal curata e un vestito da cacciatore; la bimba lo definì o un bandito o un orco, tuttavia aveva la voce dolce e le maniere gentili. Le carezzò una guancia, poi le chiese come si chiamasse e che cosa facesse, così tutta sola in mezzo alla strada. La piccola disse il proprio nome e spiegò che atten­

deva il babbo con la diligenza. Fra tanti fiori nei campi, la bambina apparve all'uomo come " una vera rosa fresca e profumata ", questa almeno fu la frase che ripeté in seguito e che Rosina, divenuta ormai grande, ricordava alla figlia e questa a mia madre: " Mi sembrò che per un miracolo dalla terra fosse emersa una rosa di carne fresca, vera e odo­rosa "· Queste parole furono da Vittorio Emanuele scritte su un diario che in seguito venne distrutto

" Vuoi venire con me? "· disse il re. '' No "• rispose la bambina, e poi: "Ma tu chi sei? Sembri l'orco"· "Sono forse l'orco, ma un orco buono che non fa del male; domani manderò a prenderti con una bella carrozza, foderata di seta e con cavalli

bianchi "·

Quando Vercellana giunse con la diligenza, la sua bambina era seduta sul ciglio della strada, ma

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del racconto confuso di carrozze, uomini vestiti da

cacciatori e orchi buoni, Vercellana non comprese

gran che e rientrando a casa stanco dal lavoro disse

alla moglie: "Quella Rosina ha la testa piena di

fantasie, bisogna sorvegliarla e non !asciarla in giro

sola"· Ma l'indomani all'ora stabilita Rosina non

attese invano, la carrozza giunse e la piccola vi salì

convinta di vivere una favola. Seduta sui cuscini di

raso rosa era sicura di andare al castello delle fate,

guardava la campagna senza riconoscerla e non si

sarebbe meravigliata se la carrozza avesse spiccato

il volo per raggiungere la sommità del cielo. Invece

giunsero dinanzi a un bellissimo palazzo che alla

bimba apparve immenso; due uomini vestiti di vel­

luto e di raso aprirono lo sportello e aiutarono Rosina

a discendere, poi l'accompagnarono lungo la scali­

nata terminante in vasto salone. Una damigella le

andò incontro e con lei salì altri scaloni illuminati,

traversò sale con specchiere dorate; fu condotta in

una bella camera da letto, fu spogliata e rivestita

con un abito di raso bianco, profumata e pettinata

con cura. Si guardava allo specchio e stentava a

riconoscersi, p·oi, sempre accompagnata dalla sua

dama, fu guidata nel salone da pranzo sfavillante di

luci e argenterie. Fu lì che il sogno si tramutò in

realtà: ad attenderla c'era lo stesso uomo del giorno

precedente, ma questa volta era ben pettinato e

sull'abito nero nel petto portava uno stemma che

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la bimba riconobbe. " Ma tu sei il principe, il figlio

del re ", esclamò Rosina.

Durante la cena la bimba si sentiva impacciata davanti al principe, alla servitù, alle grandi luci,

all'argenteria e agli specchi immensi, ma ritrovò il suo spirito quando Vittorio Emanuele l'accompagnò

a visitare il parco, le fontane, i viali, roseti e la

serra.

La sera dormì nel gran letto messo a sua dispo­sizione, e i sogni erano rose sotto il baldacchino di

tulle e il raso azzurro. Così passò il primo periodo di tempo, poi la piccola passò definitivamente in

un palazzo adiacente al castello. Una dama anziana

divenne la sua compagnia e le insegnò le buone

maniere, le lingue, il pianoforte, il canto e ne fece

una vera dama.

IL GRANDE AMORE

Pur nella sua modesta nascita Rosina aveva, fra

le altre qualità, delle mani meravigliose, magre e

lunghe, di una finezza straordinaria. La sua bellezza

sbocciava suscitando rancori, gelosie e cattiverie;

più che bella fu una donna che aveva una perso­

nalità spiccata, e accanto a lei molte altre bellezze

scomparivano. Per Rosina Vittorio Emanuele era un

idolo, il grande ed unico amore della sua vita, un

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amore che rasentava l'idolatria. Prima che io dovessi subire le disgrazie della guerra, nelle mani di mia madre ho visto una scatoletta di legno di rosa intar­siata, nella quale la contessa di Mirafiori conservava i pezzetti di unghie del re: infatti ogni qualvolta gli

facevano le " manicure " essa le conservava. Il suo fanatismo giungeva al punto di conservare i capelli tagliati, coi quali, anzi, formò un quadretto che rap­presentava lo stemma reale e le cifre di Vittorio

Emanuele; queste scatolette e oggetti sono passati per tre generazioni, alla figlia Vittoria e da questa alla povera mamma. Ora non le abbiamo più perché ci vennero rubate.

Vittorio Emanuele Il le aveva dato il titolo di contessa di Mirafiori perché in quel tempo il re non poteva concederle un titolo maggiore. La contessa

di Mirafiori ebbe dal re due figli: Vittoria ed Ema­nuele, ai quali fu dato il cognome di Guarnieri.

La nonna Vittoria sposò il marchese Spinola, ufficiale di cavalleria nel reggimento Guide e aiu­

tante di campo di sua maestà. Una sera il re invitò la figlia al teatro della Pergola a Firenze, le presentò il suo aiutante. e poi egli stesso combinò questo

matrimonio. La nonna ebbe quattro figli: Rosa, Vit­torio, Oberto e Diana. Noi siamo le figlie di Rosa, sposata a Roberto De Simone, anch'egli ufficiale di cavalleria. Eravamo otto figli, Nice, Diana, Ada, Pia, Vitta, Luisa, Elena e Nicolino; ora siamo rimasti in tre, Vitta, Ada e io. Di noi tre, Ada ed io ci siamo

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sposate, Vitta è rimasta signorina e si è sacrificata sempre per assistere la mamma. Ada non ha avuto figli, io una sola di nome Adabella che somiglia stranamente, sia nel carattere sia nel fisico, alla mia bisnonna, la contessa di Mirafiori.

Morta la regina Maria Adelaide, consorte di Vit­torio Emanuele Il, il " re galantuomo" sposò mor­ganaticamente la contessa di Mirafiori.

Gli anni passarono e per tutto il Piemonte e in tutta Italia la contessa Mirafiori era conosciuta come '' la bella Rosina "· Visse accanto al suo re una esistenza felice: anche i figli discendenti diretti di casa Savoia vollero molto bene alla Mirafiori.

È stato alle volte scritto che la contessa Mira­fiori era molto ambiziosa: non è vero, essa, pur essendo colta e fine, aveva conservato in sé la mo­destia e l'animo dolce della popolana. Finché non fu sposata dal re condusse una vita ritiratissima, occu­pandosi solo dei figli Vittoria ed Emanuele; la si vedeva raramente in giro e solo ogni venerdì usciva dalla porta segreta del palazzo con il capo coperto

di un velo scuro, vestita modestamente e si recava a far beneficenza nei rioni poveri della città. Perciò,

specialmente a Torino, la contessa era molto amata e rispettata. Il re - sempre a quanto raccontavano la mia nonna Vittoria e mia madre - stimava mol­tissimo la Mirafiori della quale ammirava il coraggio, il pratico realismo e la chiarezza di vedute, e so­prattutto il cuore gentile.

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Dopo le nozze, che ebbero luogo in forma uffi­ciale nel 1869, la contessa aveva a palazzo gli onori reali; non essendo però principessa di sangue, ma solo moglie morganatica, non le era consentito di prender parte a pranzi ufficiali e sedere sul trono. Ella non si crucciava di questo stato di cose perché in fondo era rimasta una donna semplice.

UNA CROCE DI CAVALIERE

Voglio anzi ricordare qui un episodio signifi­cativo, sempre sentito dalla viva voce di mia madre. Un giorno, si era nella primavera del 1876, la Mira­fiori era in carrozza con mia madre bambina, che

aveva allora sette anni, quando una popolana attra­versò la strada e si fermò salutando con molta umiltà. La contessa ordinò al cocchiere di fermare, scese,

abbracciò la donna che confusa arrossiva; quando risalì in carrozza, mia madre esclamò: " Ma nonna, quella era una contadina! "· "Tu non puoi capire, Rosettina, perché sei troppo piccola: ma anche la tua nonna, prima di essere come è oggi, era una

figlia del popolo; quando sarai più grande saprai anche tu come sono diventata quella che sono, per ora ricordati che il popolo è buono e semplice e

che potendo bisogna sempre aiutarlo "· Un altro episodio che sta a dimostrare la sua devozione al re e la sua modestia è il seguente. Rosa Vercellana

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aveva un fratello che, giovanotto, divenne tamburino

nel reggimento di Vittorio Emanuele. Un giorno il

ragazzo si fece annunziare alla sorella e le chiese

di farle avere la croce di cavaliere. " A te non costa

nulla ed io sarei felice: una tua parola può farmi

veramente contento "· Rosa Vercellana si alzò dalla

poltrona, prese per un braccio il fratello e lo appog­

giò con le spalle al muro, gli fece alzare le braccia

in croce e disse: "Ecco, se ti metti così la croce

ce l'hai "· Poi ridendo aggiunse: " Non voglio di­

sturbare il nostro principe per sciocchezze del ge­

nere; se un giorno la meriterai la croce l'avrai

anche tu "·

Si è detto che la contessa di Mirafiori avesse un tipo di bellezza ordinaria; invece era di carna­

gione pallida con grandi occhi neri frangiati di ciglia

scurissime. Aveva capelli neri corvini, statura supe­

riore alla media; vestiva con un'eleganza semplice

e quasi sempre di bianco.

A Napoli conobbi nel 1926 il conte Faldella.

proprietario del palazzo al vico Tre Re a Toledo,

il quale mi raccontava di ricordare perfettamente la

contessa. "Ogni giorno, quando era a Napoli, faceva

la sua passeggiata in carrozza per via Caracciolo:

la rammento ancora sotto l'ombrellino da sole, am­

mantata di bianco; più che una bella donna, era una

donna affascinante "· Anche d'inverno la contessa

indossava grandi mantelli di lana bianca guarniti di

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ermellino o di volpi dello stesso colore. La sua cultura e le sue belle maniere erano frutto di lezioni accurate ricevute da una grande dama messa a sua disposizione. Era di natura docile e si faceva voler bene, ma seppur romantica e sentimentale era decisa e coraggiosa.

UNA PERLA BUCATA

Alla morte del re si isolò nella villa di via No­mentana che il re aveva fatto costruire per lei e che portava il suo nome. La villa poi, dopo la grande guerra, fu adibita a ricovero per i mutilati e in seguito venne acquistata dalle suore del Sacro Cuore che l'abitano tuttora. Ha magnifiche vetrate nelle quali ancora oggi si vede lo stemma e le cifre della Mirafiori. La dependance della villa e metà del parco appartengono ora all'ambasciata sovietica che l'ha adibita come abitazione dei suoi funzionari.

Fra i tanti figli (tre maschi e due femmine avuti dalla regina Maria Adelaide e i due dalla Mirafiori), Vittorio Emanu~le aveva una spiccata predilezione per la primogenita della contessa: Vittoria (mia nonna), la quale aveva ereditato in parte il carattere paterno. Era un misto di bontà e di generosità e di autorità, era bellissima donna, alta, formosa, elegante anche lei, con grandi occhi scuri come la mamma e l 'espressione decisa dei Savoia. Vittorio Emanuele

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la v1z1ava e non sapeva mai dirle di no. La nonna

Vittoria non andò mai troppo d'accordo con la regina Margherita perché Margherita era molto gelosa del­

l'affetto che il sovrano portava alla figlia. Giova­nissima, il re la sposò al suo aiutante di campo marchese Giacomo Spinola, ufficiale di cavalleria di 46 anni. Rimase vedova quasi subito, con tre figli

piccoli; prima di morire il marchese Spinola le disse: "Sei troppo giovane per rimanere sola nella vita:

quando morirò sposerai mio fratello Luigi " (di dieci anni più vecchio di lui). Dal secondo matrimonio nacque una bambina, Diana, ma anche il nuovo ma­rito morì presto.

Oltre alla fortuna !asciatale dagli Spinola, la nonna riceveva dal padre una notevole somma che le veniva recapitata al castello di Salci dall'ammi­nistratore dei beni privati del re, commendator Fer­dinando De Simone. Egli si recava a Salci accompa­

gnato sempre da qualcuno dei figli e fu così che il babbo s'innamorò di mia madre fin da bambino.

Parecchi anni dopo il fratello, molto più anziano di mio padre, sposava mia nonna Vittoria.

Vittorio Emanuele, come tutti i sovrani, riceveva omaggi di ogni specie, e gioielli, opere d'arte, pietre rare; molti di questi regali passavano alla figlia Vit­toria. Anzi mi diceva mia madre che durante i primi tempi del suo matrimonio con il principe Umberto, Margherita di Savoia si lamentasse con il re per tutti gli oggetti di valore che egli regalava alla figlia.

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" Tu avrai i gioielli della corona. e tutto quanto di spetta "· aveva risposto il re, " ma se non penso io,

in vita, a mia figlia. chi ci penserà?"· E l'episodio

sembrava chiuso. Ma un giorno fu regalata al re una

splendida perla orientale, perfettamente rotonda e grandissima. !l re la regalò alla figlia. Sembra che

Margherita, a proposito del regalo, dicesse alle dame

di corte: " Peccato, a quella magnifica perla Vittoria è capace di far fare un buco per montarla su una

catena "· Alla nonna, allora giovanissima. fu ripetuta la frase di Margherita. Qualche giorno dopo ella si

recò dal famoso gioielliere Settepassì dì Firenze e, noncurante della meraviglia che si dipingeva sul viso di lui, ordinò che fossero fatti due buchi alla perla, per poterla mettere -- disse poi come saliscendi

ad una catena d'oro che tratteneva il ventaglio.

Quando morì il re, erano tutti presenti: Marghe­rita e Umberto. la contessa Mirafiori e Vittoria. Que­st'ultima, con l'impulsività del suo carattere, si gettò

sul letto disperata. Piangeva e abbracciava il re e fu molto difficile staccarla. Raccontò poiché nel mo­mento di disperazione aveva gridato: " Papà mio,

sei morto e aèlesso io non ho più nessuno! "· Um­berto la prese, la sollevò, l'abbracciò e le disse:

" Se hai perduto un re che era tuo padre. ti rimane

un re che è tuo fratello "·

E nonostante il carattere difficile, Umberto le volle sempre bene.

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UNA PIETOSA BUGIA

Vittorio Emanuele morì a Roma il 9 gennaio 1878. La Mirafiori morì nel 1885 a cinquantadue anni: era nata a Moncalvo, nei pressi di Asti, nel 1833. Era ancora molto bella, e con tutti i capelli neri. Morì a Roma nella sua villa, assistita da Vitto­ria, che le era assai affezionata. Vent'anni dopo, nel 1905, moriva di polmonite. a soli cinquantasei anni, mia nonna Vittoria. Evidentemente le donne della nostra casa hanno bruciato le tappe e. forse per la vita intensa che hanno vissuto, sono giunte al traguardo finale troppo presto.

Nonostante fossi molto piccola ricordo perfetta­mente la nonna De li 'antico splendore rimangono solo purtroppo poche cose di biancheria, qualche aggettino che ha esclusivo valore morale, il ventaglio dipinto a mano e gli occhiali originali, borsette. bomboniere, qualche quadro e molte fotografie.

Ma la cosa piC1 strana di tutta questa storia è che mia figlia Adabella, appartenente alla quarta gene­razione delle contesse di Mirafiori, abbia ereditato dalla trisnonna una straordinaria somiglianza. soprat­tutto nelle mani e negli occhi, oltre alla semplicità e al carattere.

Anche mia madre, fin quas1 al termine della sua vita, ebbe da casa Savoia uno "spillatico" e viveva benino. Cerchiamo di vivere lavorando e con­serviamo i nostri cari ricordi. La mamma. prima di

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morire, ci ha lasciato un testamento spirituale al quale teniamo fede. È morta nel 1948, dopo il disa­stro che colpì l'Italia, quando eravamo stati abban­donati da tutti. Umberto Il era in esilio e questo pensiero tormentava tanto mia madre che deci­demmo di dirle una pietosa bugia per farle chiudere gli occhi serenamente.

Infatti, in punto di morte, le dicemmo che Umberto era tornato; la mamma si scosse, negli occhi ebbe un lampo di gioia, strinse le mie mani e disse con un filo di voce: " Umbertino ... "· Furono le ultime sue parole.

Pia De Simone

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l N D l C E

Prefazione .

A. TRUFFA

La Bella Rosin, Contessa di Mirafiori e Fontanafredda

G. PREZIOSO

Vittorio Emanuele Il e le donne

A. PANICUCCI

Lungo la strada del Barolo - L'idillio della Bella Rosin (Dal Monferrato alle Langhe)

PIA DE SIMONE

La romantica favola della Bella Rosin

pag. 5

pag. 7

pag. 39

pag. 63

pag. 79

Page 50: REGINA SENZA CORONA

Hicerche, impaginazione e realizzazione d1 Francesco Broda

Fotografie: Agnelli, Alba - Parva Lux, Moncalvo - Alineri, Firenze

Edito a cura del Cenacolo d'Arte di Moncalvo 1969

PHOPRIETÀ LETTERARIA E ARTISTICA RISERVATA SCUOLA TlP. GIU~EPPE ASTJ