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Erwin W. Straus Il vivente umano e la follia. Studio sui fondamenti della psichiatria
a cura di Alberto Gualandi, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 112, € 22
L’intero progetto filosofico che sostiene l’opera di
Erwin W. Straus Il vivente umano e la follia risulta
evidente dalle ultime frasi del testo, laddove l’autore
afferma: «mi è parso necessario delineare
innanzitutto la “situazione primaria”, comune
all’uomo e all’animale, su cui si costruisce il mondo
umano» in maniera tale da mostrare che «la
medicina antropologica necessita di una
propedeutica antropologica» (p. 106).
Il testo, il cui titolo originale è Philosophische
Grundfragen der Psychiatrie II. Psychiatrie und
Philosophie, ha come proprio scopo quello di
connettere la filosofia alla psichiatria in maniera tale da rendere conto dell’una
attraverso l’altra. Questo è forse uno degli aspetti più interessanti: Straus è convinto che
per comprendere come sia possibile che il vivente umano possa “ammalarsi” nello
“spirito” (la possibilità della follia come possibilità tutta umana) è necessario sottoporre
a critica proprio il modo attraverso il quale noi poniamo il nostro sguardo interpretativo
sul fenomeno umano. L’analisi dei “fondamenti della psichiatria” non è altro che
un’analisi filosofica dei fondamenti della filosofia stessa, la possibilità della psichiatria si
dà soltanto nel momento in cui l’analisi filosofica del fenomeno umano si libera di tutta
una serie di scorie che le provengono dal passato lontano e vicino.
In primo luogo Straus liquida rapidamente ogni concezione medica che cerca la radice
della “malattia dello spirito” in un organo (il cervello) ma non tanto per portare una
critica a ogni forma di riduzionismo quanto piuttosto per definire la “difficoltà di
definizione” della psichiatria stessa, per comprendere il luogo da cui la psichiatria parla
(e deve parlare). Si può affermare, allora, che «mentre la pratica medica in generale è
diretta verso l’uomo in quanto essere vivente, verso l’organismo e i suoi organi, lo
psichiatra ha a che fare con l’uomo in quanto cittadino del mondo o dei mondi storici e
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sociali» (p. 4). Straus viene solitamente accomunato a Binswanger, von Gebstall e
Minkowski all’interno della “scuola” fenomenologico‐psichiatrica, la quale si interroga
sull’umano confrontandosi con la nozione heideggeriana di esistenza e con la nozione
husserliana di mondo della vita.
Però (e questo è il primo colpo di scena) Straus si confronta proprio con Heidegger (la cui
analitica dell’Esserci per Binswanger è fondamentale per definire le basi della psichiatria)
in maniera fortemente critica: da un lato l’analitica dell’Esserci non fa altro che creare
una frattura insanabile nell’insieme dell’esistente riproponendo una centralità del
fenomeno umano (in quanto Esserci) e non rendendo conto di quell’insieme di
caratteristiche che manifestano l’uomo in quanto animale, dall’altro la stessa definizione
di Esserci risulta essere un’astrazione: «la parola Esserci è un neutro, senza sesso; non ha
plurale, è un termine astratto, impersonale, obbiettivante» (pp. 14‐15) per cui se ci si
vuole avvicinare alla possibilità di comprensione del fenomeno umano bisogna
analizzarlo in maniera radicale, non cercandone il fondamento «nell’assolutizzazione
dell’esistenza in opposizione alla vita» (p. 12). Ed è proprio questo un altro limite
dell’analisi di Heidegger, quello di non aver trattato a sufficienza la questione della vita,
riducendola a «ciò che soltanto‐ancora‐vive» (p. 17), e la questione della natura
riducendola a “semplice‐presenza”. In più quando Heidegger afferma che l’Esserci
incontra il mondo originariamente come “utilizzabile” compie un vero e proprio
capovolgimento tra mondo artificiale e mondo naturale: per Straus originariamente
l’uomo incontra il mondo come natura e poi attraverso un meccanismo di
specializzazione e di distanziamento produce il mondo artificiale degli enti utilizzabili e
traduce in termini di utilizzabilità la stessa natura. Ma ciò che per Straus è indicativo
dell’appartenenza di Heidegger alla tradizione di pensiero occidentale – quella della
frattura insanabile tra “anima” e “corpo”, “interno” ed “esterno” – è il fatto che il corpo
vivente dell’uomo (che effettivamente agisce nella realtà) non rientra nell’analitica
dell’Esserci anzi «già l’espressione “gettatezza” rinvia al fatto che il corpo viene esperito
come peso, limite, destino, appunto come quel “ci” [Da], in cui l’Esserci si trova gettato»
(p. 20).
In poche parole per Straus l’analitica dell’Esserci e l’analisi esistenziale che da essa deriva
hanno avuto un compito fondamentale nel momento in cui hanno strappato la
psichiatria al dominio della scienza naturale e medica e alla sua fisiologia riduzionista, ma
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ora «resta ancora il compito di assegnare all’essere‐nel‐mondo un luogo
gravitazionalmente ancorato al tutto della natura» (p. 21).
Il tentativo complesso di Straus consiste nel cercare il punto in cui è possibile illuminare
quella relazione primaria che lega (ma in maniera oppositiva) l’uomo alla natura, per
determinare la relazione tra la parte naturale e la parte culturale dell’uomo, tra vita ed
esistenza. Questo progetto (che è pienamente filosofico) dovrebbe condurre alla
definizione di ciò che l’uomo nella sua struttura originaria è e quindi permettere di
comprendere il senso delle definizioni mediche di normale e patologico: soltanto la
precisa definizione della norma permette di definire l’ab‐norme. In questo senso Straus è
pienamente convinto che attraverso un’utilizzazione radicale del metodo
fenomenologico si possa raggiungere la definizione della struttura dell’umano, di quella
struttura elementare «che sta alla base di tutte le varianti storiche e sociali» (p. 26).
La questione a questo punto è di cogliere questa struttura elementare e, per farlo,
bisogna preliminarmente staccarsi da ogni concezione coscienzialistica del fenomeno
umano che si inscrive nella sequenza Cartesio‐Kant‐Husserl. Insomma è ancora una volta
“l’errore di Cartesio” a essere sottoposto a critica, è ancora una volta necessario
sottolineare che la distinzione tra le res (ma anche la riduzione dei viventi a pure
macchine estese), rappresenta da un lato la costruzione di un modello e metafisico e
scientifico e dall’altro rappresenta il sintomo del male antropologico della modernità.
Straus è radicale e critica nello stesso tempo la tradizione empiristica che parcellizza i
vissuti in atomi psichici e i razionalisti che non rendono conto del fatto che l’uomo è
“incarnato”. La dicotomia coscienza‐mondo (ovvero la storia della modernità filosofica) è
un falso problema.
Dunque: per uscire dall’impasse del moderno bisogna partire dalla motilità (questo il
secondo colpo di scena); e bisogna partire da essa in quanto «l’uomo e l’animale sono
così creati o, perlomeno, così costituiti da potersi ergere al di sopra di un suolo che li
sostiene in quanto esseri sé‐moventi, e potersi ad esso opporre in quanto individui auto‐
affermantisi» (p. 44); in questa affermazione che sembra avvicinare le riflessioni di Straus
a quelle proprie dell’antropologia filosofica tedesca, è già contenuta la possibilità della
coscienza: «col sollevarsi dal suolo giunge a compimento quella contrapposizione con il
mondo che domina la struttura d’insieme di tutta l’esperienza» (p. 51).
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Il vivente umano e animale (questo è un altro aspetto interessante: Straus partendo dalla
motilità non opera una cesura ontologica tra umano e animale) nel suo atto di sollevarsi
si rapporta al mondo in maniera da non sentirsi più pienamente parte di esso ma non
sentirsi completamente indipendente da esso: questa relazione Straus la definisce
attraverso l’espressione Allon.
Per Allon bisogna intendersi quella “situazione animale originaria” attraverso la quale si
costituisce la possibilità di un’azione nel mondo, di produzione di quella “distanza” che
attraverso il movimento e l’ergersi caratterizzano l’uomo e l’animale nei riguardi del
mondo: un’appartenenza che non è più completamente tale, ma una separatezza che
non è mai assoluta. Attraverso la nozione di Allon Straus tenta di rendere conto della
relazione individuo‐ambiente, definendo la possibilità stessa di una coscienza e di un
mondo come un qualcosa che accade già all’interno del mondo; l’uomo‐animale –
ergendosi – costituisce se stesso come coscienza e soggetto e costituisce il mondo come
ambiente e oggetto. Ma l’uomo non è mai un soggetto assoluto così come l’ambiente
non è mai un oggetto assoluto: questa la questione antropologica primaria, questo
l’Allon.
Lo studio della relazione Io‐Allon può avvenire solamente attraverso un’estesiologia la
quale – come nota Gualandi nell’ottimo saggio introduttivo – «dovrebbe […] ispirare un
approccio al mondo dei sensi e del sentire che metta in luce tutta la ricchezza delle sue
strutture e del suo senso pre‐linguistici e pre‐categoriali» per cui essa è una «descrizione
delle strutture a priori incarnate nei sensi e nel corpo umano e animale» (p. XIII). Dunque:
i sensi come vero e proprio a priori materiale.
E la follia? Essa sorge da una distonia di questa relazione originaria Io‐Allon; si presenta
nel momento in cui l’ergersi umano nei confronti dell’Allon non permette la costruzione
dell’a priori materiale necessario per il dialogo con il mondo e con gli altri uomini; ma
come si dà una tale possibilità? come sopraggiunge a un certo punto tale distonia? è un
problema di sguardo? ma soprattutto: è culturale o naturale?
La follia non è un tema realmente trattato in questo testo se non nelle ultimissime
pagine e in maniera rapida e rapsodica; se la psichiatria e la filosofia possono trovare i
propri fondamenti nella rappresentazione della follia come limite, è chiaro che la follia
stessa si pone ben al di là di questo confine; se l’osservazione della follia da un lato
permette (per contrasto) di costruire il senso della ragione umana e i suoi fondamenti in
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vista di un funzionamento normale, dall’altro non può che fallire nel tentativo di definire
i contorni della follia in quanto essa è ciò che sfugge a ogni definizione e ciò che non si
“contorna”. L’ab‐norme permette la comprensione della norma, ma non dell’ab che
rimane ineffabile: è la definizione di una distanza, di un allontanamento “senza
definizione”.
DELIO SALOTTOLO