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RASSEGNA STAMPA di lunedì 7 marzo 2016 SOMMARIO Sabato scorso, sulla prima pagina di Avvenire, l’editoriale firmato da Marina Corradi ricorda così le 4 suore martiri, uccise nello Yemen: “Una banda di uomini armati all’assalto di una casa di riposo per vecchi e disabili condotta dalle Missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa. Ieri ad Aden, nello Yemen, quattro di loro sono morte, assieme ad altre dodici persone, mentre un sacerdote salesiano risulta scomparso, forse rapito. Uomini e religiose massacrati, forse, da al-Qaeda, dentro lo scenario di una guerra civile che da un anno e mezzo attanaglia il Paese, e ha già fatto 6mila morti. Nello Yemen, il Paese più povero del Medio Oriente, si scontrano indirettamente le forze poderose e nemiche di Iran e Arabia Saudita. La città di Aden è in mano al governo che si oppone ai ribelli houthi. Un attentato terrorista dunque. Un manipolo di assassini contro la casa degli inermi: anziani, malati, handicappati accolti dalle figlie di Madre Teresa. Il lupo e l’agnello: non deve essere certo stato difficile attaccare, armi in pugno, un rifugio di indifesi. Tra gli attentati che insanguinano il mondo ogni giorno, uno dei più ripugnanti. Uccidere delle donne consacrate che si prendono cura, come di figli, degli ultimi, e il sacerdote che ne condivide l’opera. Quei vecchi e quei malati, dice un lancio della Agenzia Fides, sono salvi. La furia omicida si è scatenata proprio sulle quattro sorelle riconoscibili dal velo bianco e blu: loro l’obiettivo dell’odio, in quanto cristiane. Erano due ruandesi, una kenyota e una indiana. Figlie dei Sud del mondo che, anziché fuggirne, avevano scelto di radicarsi nel luogo della massima povertà, casa per chi non ha alcuna casa. La strage dello Yemen, in un contesto internazionale in cui il fiato dei jihadisti del Daesh e di al-Qaeda incalza tutti, in Occidente come nel Terzo mondo, sembra icona di una ferocia che sconfina nel male allo stato puro. Non potevano in alcun modo costituire una minaccia, quelle piccole suore e quel prete. Non rappresentavano multinazionali straniere, o potenze nemiche, non rappresentavano niente altro che il volto e le mani di Cristo, portato, attraverso il loro volto e le loro mani, nel cuore della miseria. Misericordia e compassione portate non per vaga filantropia, ma – come ricordava sempre Madre Teresa – riconoscendo Cristo in persona, in ciascuno degli 'scartati' dal mondo. Di modo che ciò che è accaduto ieri in Yemen è un vertice di male gratuito, dietro a cui si avverte un’ombra oscura innominabile, che tracima e trabocca nelle violenze del terrorismo islamico. Il lupo e l’agnello, la ferocia sull’innocente inerme, una volta ancora. Sapevano certo, quelle suore, quel prete, quali rischi comportava rimanere in un Paese dilaniato da una guerra civile. Sapevano quanto odio stava come sbucando dal sottosuolo, fra le strade dello Yemen. Non hanno pensato ad andarsene. Non sarebbero state capaci di abbandonare quei loro vecchi, quei fratelli malati, di chiudere l’ospizio lasciandoli dentro una guerra, e senza nessuno. Hanno continuato, probabilmente tra i bombardamenti e cento pericoli, a cercare di condurre la loro casa, dando da mangiare agli ospiti, curandoli, confortandoli. In una mite e tenace resistenza al male; in silenzio, con gesti quotidiani – imboccare, lavare, pregare – mentre fuori deflagrava la ferocia. Così, quelle suore ne erano certe, avrebbe fatto la beata Madre Teresa, che sarà proclamata santa a settembre. Madre Teresa che diceva: «Il più grande dono che Dio ti può fare è darti la forza di accettare qualsiasi cosa Egli ti mandi, e la volontà di restituirgli qualsiasi cosa Egli ti chieda». Dentro a questo sguardo le quattro sorelle di Aden e il salesiano sono rimaste; e ieri mattina, come agnelli, sono andati incontro alla morte – «con la forza di accettare qualsiasi cosa Egli ti mandi». Docilmente hanno restituito a Dio la loro vita – «restituirgli qualunque cosa Egli ti chieda». E forse, attorno, in quella città, qualcuno si fermerà un momento a considerare la strana scelta di quegli stranieri venuti lì a morire per curare creature che 'non valgono' niente. Perché, in cambio di cosa? In cambio di niente. Nella assoluta gratuità di Cristo. E rimarrà, solo in alcuni magari, tra chi ha visto ieri ad Aden il massacro, una domanda. Tanto straniero appare agli uomini l’amore illimitato

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 7 marzo 2016

SOMMARIO

Sabato scorso, sulla prima pagina di Avvenire, l’editoriale firmato da Marina Corradi ricorda così le 4 suore martiri, uccise nello Yemen: “Una banda di uomini armati

all’assalto di una casa di riposo per vecchi e disabili condotta dalle Missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa. Ieri ad Aden, nello Yemen, quattro di loro sono morte, assieme ad altre dodici persone, mentre un sacerdote salesiano risulta

scomparso, forse rapito. Uomini e religiose massacrati, forse, da al-Qaeda, dentro lo scenario di una guerra civile che da un anno e mezzo attanaglia il Paese, e ha già fatto

6mila morti. Nello Yemen, il Paese più povero del Medio Oriente, si scontrano indirettamente le forze poderose e nemiche di Iran e Arabia Saudita. La città di Aden è in mano al governo che si oppone ai ribelli houthi. Un attentato terrorista dunque. Un manipolo di assassini contro la casa degli inermi: anziani, malati, handicappati accolti dalle figlie di Madre Teresa. Il lupo e l’agnello: non deve essere certo stato

difficile attaccare, armi in pugno, un rifugio di indifesi. Tra gli attentati che insanguinano il mondo ogni giorno, uno dei più ripugnanti. Uccidere delle donne consacrate che si prendono cura, come di figli, degli ultimi, e il sacerdote che ne

condivide l’opera. Quei vecchi e quei malati, dice un lancio della Agenzia Fides, sono salvi. La furia omicida si è scatenata proprio sulle quattro sorelle riconoscibili dal velo bianco e blu: loro l’obiettivo dell’odio, in quanto cristiane. Erano due ruandesi, una kenyota e una indiana. Figlie dei Sud del mondo che, anziché fuggirne, avevano scelto

di radicarsi nel luogo della massima povertà, casa per chi non ha alcuna casa. La strage dello Yemen, in un contesto internazionale in cui il fiato dei jihadisti del Daesh e di al-Qaeda incalza tutti, in Occidente come nel Terzo mondo, sembra icona di una ferocia che sconfina nel male allo stato puro. Non potevano in alcun modo costituire una minaccia, quelle piccole suore e quel prete. Non rappresentavano multinazionali straniere, o potenze nemiche, non rappresentavano niente altro che il volto e le mani

di Cristo, portato, attraverso il loro volto e le loro mani, nel cuore della miseria. Misericordia e compassione portate non per vaga filantropia, ma – come ricordava

sempre Madre Teresa – riconoscendo Cristo in persona, in ciascuno degli 'scartati' dal mondo. Di modo che ciò che è accaduto ieri in Yemen è un vertice di male gratuito, dietro a cui si avverte un’ombra oscura innominabile, che tracima e trabocca nelle violenze del terrorismo islamico. Il lupo e l’agnello, la ferocia sull’innocente inerme, una volta ancora. Sapevano certo, quelle suore, quel prete, quali rischi comportava rimanere in un Paese dilaniato da una guerra civile. Sapevano quanto odio stava come sbucando dal sottosuolo, fra le strade dello Yemen. Non hanno pensato ad andarsene. Non sarebbero state capaci di abbandonare quei loro vecchi, quei fratelli malati, di chiudere l’ospizio lasciandoli dentro una guerra, e senza nessuno. Hanno continuato, probabilmente tra i bombardamenti e cento pericoli, a cercare di condurre la loro casa, dando da mangiare agli ospiti, curandoli, confortandoli. In una mite e tenace resistenza al male; in silenzio, con gesti quotidiani – imboccare, lavare, pregare –

mentre fuori deflagrava la ferocia. Così, quelle suore ne erano certe, avrebbe fatto la beata Madre Teresa, che sarà proclamata santa a settembre. Madre Teresa che diceva: «Il più grande dono che Dio ti può fare è darti la forza di accettare qualsiasi cosa Egli ti mandi, e la volontà di restituirgli qualsiasi cosa Egli ti chieda». Dentro a questo sguardo le quattro sorelle di Aden e il salesiano sono rimaste; e ieri mattina, come

agnelli, sono andati incontro alla morte – «con la forza di accettare qualsiasi cosa Egli ti mandi». Docilmente hanno restituito a Dio la loro vita – «restituirgli qualunque cosa Egli ti chieda». E forse, attorno, in quella città, qualcuno si fermerà un momento a considerare la strana scelta di quegli stranieri venuti lì a morire per curare creature

che 'non valgono' niente. Perché, in cambio di cosa? In cambio di niente. Nella assoluta gratuità di Cristo. E rimarrà, solo in alcuni magari, tra chi ha visto ieri ad

Aden il massacro, una domanda. Tanto straniero appare agli uomini l’amore illimitato

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e gratuito, che chi lo incontra non può non chiedersi come mai, e perché. È la fascinazione di Cristo che rimane, misteriosa e viva, sopra a qualsiasi orgia di morte. Sopra a qualsiasi ferocia che gli uomini, come schiavi, scelgano di servire” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 10 In 300 alla festa dei fidanzati. Moraglia: “Tenetevi per mano” di Nadia De Lazzari Basilica di San Marco 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Mestre, Duomo gremito per il libro di Francesco di a.spe. Folla al dibattito con il vaticanista Tornielli, Claudia Koll e Olivero. Il patriarca Moraglia: “Una bussola per i credenti” AVVENIRE di domenica 6 marzo 2016 Pag 21 Mestre. La misericordia, balsamo per i mali del mondo di Francesco Dal Mas In Duomo presentato il libro-intervista di Bergoglio LA NUOVA di domenica 6 marzo 2016 Pag 22 Sfidano il freddo 900 pellegrini di Nadia De Lazzari I fedeli delle parrocchie di san Polo – Santa Croce – Dorsoduro 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Tre anni di pontificato: custodire, ecumenismo della sofferenza e misericordia di Luis Badilla Un’analisi di Badilla, basata sulle parole-chiave, per il terzo anniversario dell’elezione di papa Francesco CORRIERE DELLA SERA Pag 14 La laica Hillary o Trump l’estremo? “Francesco è per il male minore” di Massimo Franco Casa Bianca 2016. Visto dal Vaticano Pag 26 Philippe Barbarin, il cardinale inflessibile che proteggeva i sacerdoti pedofili di Stefano Montefiori LA REPUBBLICA Pag 32 Così si svela il volto segreto della divina Misericordia di Tomaso Montanari La personificazione della virtù nell’arte sacra è rara e spesso affidata a Maria. Per evitare la “femminilizzazione” di Dio AVVENIRE di domenica 6 marzo 2016 Pag 14 Suore trucidate, “sono martiri” di Lucia Capuzzi Parolin sulla strage in Yemen. Il dolore del Papa: violenza diabolica Pag 18 Crescono i cattolici in Africa e in Asia, ma l’Europa “cala” di Gianni Cardinale Nel mondo 1,272 miliardi di battezzati. In aumento il numero di vescovi e preti

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Pag 21 “Domande per la vita. La Parola ci interpella” di Enrico Lenzi Padre Ronchi predica da oggi ad Ariccia gli Esercizi alla Curia Romana col Papa LA STAMPA di domenica 6 marzo 2016 Le aperture della Chiesa hanno dei limiti di Enzo Bianchi Papa Francesco non trascuri la dimensione laica di Gian Enrico Rusconi LA NUOVA di domenica 6 marzo 2016 Pag 13 Scandalo pedofilia, il Vaticano pronto a dimissionare Pell di Orazio La Rocca Oltretevere cresce il partito contro il cardinale-imputato. La sua deposizione al processo ha deluso. Troppe omissioni AVVENIRE di sabato 5 marzo 2016 Pag 2 Il prete e il dolore di Maurizio Patriciello I funerali di due ragazzi morti in un incidente Pag 23 “Siate strumenti della misericordia” L’invito del Pontefice ai partecipanti al Corso della Penitenzieria Apostolica LA REPUBBLICA di sabato 5 marzo 2016 Pag 20 Pell, l’imbarazzo del Vaticano: “Indifendibile” di Orazio La Rocca Il cardinale australiano avrebbe coperto gli abusi della sua diocesi. Accuse a un prelato francese IL FOGLIO di sabato 5 marzo 2016 Pag 1 Francesco l’europeo di mat. mat. Come il Papa vede il futuro dell’Europa, tra difesa delle radici e identità mutabile 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA di domenica 6 marzo 2016 Pag 25 La spinta (e la fatica) delle over 55. Negli uffici sono sempre di più di Rita Querzè Le donne e il lavoro AVVENIRE di domenica 6 marzo 2016 Pag 6 Tempo di riflessioni serie sulla crisi della maternità di Maurizio Calipari 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 20 “Ecco il porto fuori dalla Laguna per le Grandi Navi a Venezia” di Elvira Serra Il progetto dell’ex viceministro De Piccoli: turisti in città con barconi elettrici CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 marzo 2016 Pag 8 Quelle voci di Ca’ Farsetti su metà giunta già in bilico di f.b. Dietro le quinte Pag 15 Amy e Nicole spose, il primo “sì” in gondola di Elisa Lorenzini Crescono le nozze gay in laguna: agenzie e hotel si specializzano LA NUOVA di domenica 6 marzo 2016

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Pag 2 Brugnaro taglia il corso sulla diversità sessuale di Enrico Tantucci Gender e polemiche 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DELLA SERA di domenica 6 marzo 2016 Pag 13 Nel tendone va in scena il dramma dei veneti ingannati dai veneti di Gian Antonio Stella La collera contro gli ex vertici: “Ecco cos’è la nostra classe dirigente” CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 La vera partita inizia adesso di Claudio Trabona Il nodo aumento di capitale IL GAZZETTINO di domenica 6 marzo 2016 Pagg 2 – 3 Popolare Vicenza evita il baratro: sì a spa e Borsa di Maurizio Crema A Pasqua nuova assemblea. Zaia: “Così in Veneto si è chiusa l’era delle Popolari”. Variati: “I soci si mettano insieme” LA NUOVA di domenica 6 marzo 2016 Pag 5 Educazione sessuale, diktat della Regione Treviso, l’assessore Donazzan avverte gli insegnanti delle scuole: “Gli indirizzi dell’Oms non vanno presi a modello” CORRIERE DELLA SERA di sabato 5 marzo 2016 Pag 20 Maso ricoverato in clinica psichiatrica di Laura Tedesco Verona, problemi di droga e debiti per l’assassino dei genitori. Don Mazzi: “Pronto ad aiutarlo” LA NUOVA di sabato 5 marzo 2016 Pag 33 “Spiegare le leggi in chiesa, Renzi sbaglia” di Nadia De Lazzari Chioggia: il vescovo Tessarollo interviene contro il premier, malintesa laicità e insana dottrina … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Usa al voto, la crisi che non c’è di Alberto Alesina Economia e elezioni Pag 1 La resistenza di un rito di Aldo Cazzullo Le consultazioni di partito Pag 15 Nancy Reagan, un’icona dell’unità repubblicana (ormai perduta) di Massimo Gaggi Pag 21 Napoli, nobiltà contro la Curia. La disfida sul tesoro del patrono di Goffredo Buccini Roma interviene sulla Deputazione a cui è affidata la Cappella e scoppia il caso LA REPUBBLICA Pag 1 Primarie centrosinistra, i numeri dell'apparato di Stefano Folli Pag 1 Migranti gli italiani hanno paura. Via Schengen, sì alle frontiere di Ilvo Diamanti

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IL GAZZETTINO Pag 1 La Ue si salva se fa scelte chiare sui profughi di Francesco Grillo LA NUOVA Pag 1 L’intervento militare è una follia di Ferdinando Camon Pag 1 Oggi si decide la sorte dell’Europa di Vincenzo Milanesi CORRIERE DELLA SERA di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 La missione e i suoi pericoli di Paolo Mieli Noi e la guerra LA REPUBBLICA di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corriere di Eugenio Scalfari LA STAMPA di domenica 6 marzo 2016 Perché serve una dottrina sulla sicurezza di Maurizio Molinari AVVENIRE di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 Mai avventure senza ritorno di Giulio Albanese La possibile escalation in Libia / 1 Pag 1 Lasciar fare è insensato di Riccardo Redaelli La possibile escalation in Libia / 2 Pag 6 “Utero in affitto e femminicidio, due facce della stessa medaglia” di Lucia Bellaspiga Ricci Sindoni: “il nostro corpo è fatto a pezzi. Diciamo basta” Pag 7 Controllata, sfruttata, sola. Ecco la madre per contratto di Viviana Daloiso I “Genitori” padroni di orari, pasti. Persino dell’aborto IL GAZZETTINO di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 I grandi rischi di una missione a guida italiana di Romano Prodi LA NUOVA di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 Migranti, il naufragio dell’Europa di Francesco Jori Pag 6 Attenzione a non farci del male di Andrea Sarubbi CORRIERE DELLA SERA di sabato 5 marzo 2016 Pag 1 I cittadini e il fossato da riempire di Ferruccio de Bortoli Con le istituzioni Pag 1 Quante pressioni: il dilemma del governo Renzi di Francesco Verderami Pag 6 Perché i teorici dell’attacco sono dovuti arretrare di Massimo Franco Pag 8 Così Isis avanza in Nord Africa di Francesco Battistini Pag 22 Il direttore della Reggia contestato dai sindacati perché lavora fino a tardi di Sergio Rizzo A Caserta dopo l’incarico a Bologna LA STAMPA di sabato 5 marzo 2016 La strettoia e il conto alla rovescia di Marcello Sorgi AVVENIRE di sabato 5 marzo 2016

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Pag 1 La domanda e il segno di Marina Corradi Quell’amore totale in cambio di niente IL GAZZETTINO di sabato 5 marzo 2016 Pag 1 La strategia per fermare il Califfo di Carlo Jean Pag 19 Nessuna contrapposizione tra Chiesa e Massoneria, ma ricerca di nuovo dialogo di Luigi Danesin LA NUOVA di sabato 5 marzo 2016 Pag 1 In guerra ma un po’ alla volta di Bruno Manfellotto Pag 1 I “gufi” irrisi e il partito della nazione di Giovanni Palombarini

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 10 In 300 alla festa dei fidanzati. Moraglia: “Tenetevi per mano” di Nadia De Lazzari Basilica di San Marco «Per i morosi è facile prendersi per mano. Potrebbe diventare anche un gesto di abitudine. Vi chiedo mentre passate la Porta Santa del Giubileo di compiere proprio quel gesto pensando di mettere le vostre due mani nelle mani del Signore perché il matrimonio alla fine è proprio questo: fare alleanza con Lui portando i nostri volti, libertà, risorse, le fragilità e la voglia di ricominciare sempre». Ieri in Basilica il Patriarca Moraglia davanti a 300 fidanzati ha pronunciato queste parole invitandoli a varcare insieme a lui la Porta Santa dove si è inginocchiato. I “morosi” tenendosi per mano hanno ripetuto il suo gesto. Il Patriarca ha posto alcune riflessioni sul dono del matrimonio: «La chiave che apre la porta della quotidianità è la cortesia, il rispetto, la pazienza, il condividere, la fedeltà». Seduti in prima fila Andrea Colla, cattolico, e Nadejda Vicol, ortodossa, di Jesolo. I due si sono conosciuti in aereo a gennaio 2015, a luglio del 2016 saranno marito e moglie: «Andavamo a Londra. Ci siamo rivisti nel volo di ritorno. Conviviamo, ci sposeremo in questa Basilica il giorno del Redentore. Tra i tanti fuochi ci sarà anche il nostro, quello dell’amore cristiano». Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Mestre, Duomo gremito per il libro di Francesco di a.spe. Folla al dibattito con il vaticanista Tornielli, Claudia Koll e Olivero. Il patriarca Moraglia: “Una bussola per i credenti” Mestre - Duomo gremito, l'altra sera, per la presentazione del libro di Papa Francesco "Il nome di Dio è misericordia". Con l'autore dell'intervista realizzata in occasione del Giubileo, il vaticanista de "La Stampa" Andrea Tornielli e il direttore del quotidiano della Cei Avvenire Marco Tarquinio, sono intervenuti l'attrice Claudia Koll, il fondatore del Sermig Ernesto Olivero e il patriarca Francesco Moraglia. «La Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l'incontro con quell'amore viscerale che è la misericordia di Dio. Perché ciò accada, è necessario uscire. Uscire dalle chiese e dalle parrocchie, uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono, dove sperano», dichiara il Pontefice in uno dei passaggi più significativi. La serata, a cui hanno

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partecipato persone di ogni età provenienti da tutta la diocesi, si è snodata attraverso le testimonianze sulla propria esperienza di fede di Koll e Olivero, il dialogo tra Tarquinio e Tornielli e le conclusioni di monsignor Moraglia, che ha detto: «La misericordia di Dio cammina con gli uomini sulle loro strade. Questo libro è una bussola per tutti i credenti, da leggere prima tutto d'un fiato e poi domanda per domanda». «Anche in questa conversazione emerge con forza come Francesco si senta prima che vescovo e cardinale, soprattutto prete e veda nella misericordia l'architrave che sorregge la Chiesa», ha sottolineato Tornielli. Il libro (ed. Piemme, 113 pagg.) è una piccola ma densissima guida per l'Anno santo indetto da Francesco nel secondo anniversario dell'elezione al soglio pontificio, aperto lo scorso 8 dicembre e che si concluderà il 20 novembre. AVVENIRE di domenica 6 marzo 2016 Pag 21 Mestre. La misericordia, balsamo per i mali del mondo di Francesco Dal Mas In Duomo presentato il libro-intervista di Bergoglio Ma è proprio vero che c’è troppa misericordia? Assolutamente no, risponde Andrea Tornielli, il vaticanista autore del libro-intervista a papa Francesco Il nome di Dio è misericordia. Anzi, «di misericordia ce n’è fin troppo poca», aggiunge Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, che lo intervista; basta considerare l’ultima tragedia, le suore uccise in Yemen. Uccise perché praticavano le opere di misericordia corporali e spirituali. Il Duomo di San Lorenzo a Mestre è strapieno per l’attualizzazione dell’intervista di Tornielli con il Papa. Ci sono anche due testimonial della misericordia: il fondatore del Sermig, Ernesto Olivero, e l’attrice Claudia Koll. C’è, naturalmente, anche il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia. «Noi consideriamo, troppo spesso, la misericordia di Dio come una stazione, ma Dio – fa presente il patriarca – cammina con noi, quindi la misericordia deve camminare con noi, nelle nostre strade ». Dio, insomma, «non è una stazione, ma cammina col passo delle persone che ciascuno di noi incontra ». E il libro di Tornielli si presenta, in questo senso, come una bussola: per orientarci in un «mondo buio», come lo definisce Tarquinio; «liquido e gassoso» come lo sintetizza Moraglia, attraversato dalla ripetitività. Ecco la minaccia di un’altra guerra, come nulla avessero insegnato – chiosa amaramente il patriarca – quella in Iraq. Per cui – insiste sempre Moraglia – l’unica novità, in questo mondo così come si presenta, «sono la misericordia e il perdono che interrogano anche coloro che non li hanno mai praticati». Tornielli non ha dubbi: la misericordia è, come dice Bergoglio, l’architrave che sorregge la Chiesa. «Gesù fa veramente festa in cielo per un peccatore che fa un piccolo passo verso di lui e questo è un forte invito alla conversione, a cambiare il punto di osservazione da cui si guardano le cose». Quella della sfera spirituale e religiosa, ma anche la stessa politica. Per cui – ribadisce il vaticanista de La Stampa – «noi abbiamo bisogno soltanto di riconoscerci bisognosi di misericordia». Oggi più di ieri, sottolinea dal canto suo Tarquinio, serve riappropriarci, fra gli altri sentimenti, di quello della vergogna, di riconoscere cioè l’errore. La corruzione, ad esempio, come dice Bergoglio nell’intervista, è un peccato non riconosciuto e per questo elevato a sistema. Tornielli conferma e aggiunge che il Papa evidenzia una differenza tra il peccatore e il corrotto. Il peccatore rimane umile e chiede perdono, per risollevarsi. Il corrotto, invece, ha fatto diventare il proprio peccato un perno della vita. «È per questo che il Papa dice: peccatori sì, corrotti mai». La misericordia, dunque, come esperienza di vita. L’attrice Claudia Koll ha portato il suo vissuto, con la riscoperta del volto di Dio misericordioso, fino a istituire, ancora più di dieci anni fa, l’associazione “Le opere del Padre” che porta la solidarietà in tutto il mondo. Ernesto Olivero ha dedicato la sua vita all’Arsenale della pace, dove da 50 anni sta dando dignità agli “scarti” della società. Sotto un unico segno: quello appunto della misericordia. LA NUOVA di domenica 6 marzo 2016 Pag 22 Sfidano il freddo 900 pellegrini di Nadia De Lazzari I fedeli delle parrocchie di san Polo – Santa Croce – Dorsoduro Venezia. Ieri pomeriggio una folla infreddolita di novecento pellegrini delle parrocchie del Vicariato di San Polo - Santa Croce - Dorsoduro (San Silvestro, San Cassiano, Frari, San

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Giacomo Dall’Orio, San Simeon, Tolentini, San Pantalon, Gesuati, San Trovaso, Carmini, San Raffaele, San Nicolò dei Mendicoli, Redentore, S. Eufemia, San Gerardo Sagredo) ha oltrepassato la Porta Santa di San Clemente della Basilica guidati dal Patriarca Moraglia con i canonici e i parroci. Un primo incontro di preghiera è avvenuto nella chiesa di San Moisè dove don Silvano Brusamento ha ricordato il Giubileo straordinario della misericordia quale momento di grazia. «Siamo qui con il cuore aperto per i fratelli», ha pronunciato il sacerdote. Poi il corteo si è diretto in processione verso la cattedrale marciana. Nell’omelia il Patriarca si è soffermato a parlare del Giubileo quale «gesto vero che deve essere autentico, sincero» e della figura del Padre misericordioso. Varie le riflessioni dei fedeli veneziani. Tra questi Angela Bucchini e Luigina Romor della Giudecca: «Da mesi aspettavamo questo momento forte di fede. Ora ci troviamo in prima fila perché abbiamo seguito il parroco e siamo emozionate. Nella nostra vita per varie ragioni non siamo mai riuscite a varcare una Porta Santa. Ringraziamo il Papa e il Patriarca». Gabriella Locatello di San Silvestro ha spiegato che abita a Venezia da circa un anno: «Arrivo dalla montagna. In parrocchia sono stata tra le prime ad iscrivermi. Oggi in me ci sono due sentimenti, la fede e la curiosità». «Abbiamo bisogno di speranza e di non cadere in peccato quale la gola e il giudizio», ha detto Gabriela Cavallerin di Sacca Fisola. Oggi in Basilica alle 15 il Patriarca interviene all’Assemblea diocesana dei fidanzati. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Tre anni di pontificato: custodire, ecumenismo della sofferenza e misericordia di Luis Badilla Un’analisi di Badilla, basata sulle parole-chiave, per il terzo anniversario dell’elezione di papa Francesco Il pontificato di Francesco nella storia della Chiesa resterà associato in modo particolare alla «parola»: al linguaggio, al suo modo di parlare, ai termini ricorrenti nel suo magistero, a quelli da lui inventati, all’enfasi fonetica che attribuisce ad alcuni concetti; insomma, al suo evidente desiderio di farsi ascoltare e farsi capire. Ogni cosa che dice papa Francesco, in pubblico o in privato, ha sempre come stella polare un proposito al quale non rinuncia mai: essere capito. Ed è, inoltre, uno scopo preciso che si propone anche quando deve revisionare testi scritti che poi leggerà o saranno pubblicati. Perciò ci è sembrato almeno opportuno guardare questi tre anni di pontificato (13 marzo 2013 - 13marzo 2016) proprio alla luce di alcune parole ormai inscindibili dal ministero e dal magistero di Francesco; sono parole e concetti che hanno una tale potenza comunicativa che ormai si potrebbero annoverare tra i messaggi di Francesco che più si sono radicati profondamente tanto nei cristiani quanto tra i non credenti. Le parole vere sono sempre dirompenti - Le parole che abbiamo scelto – custodire, ecumenismo della sofferenza e misericordia - in un qualche modo ci sembrano fra le più dirompenti di questi tre anni: sono parole che non si sono consumate ed esaurite sul momento ma hanno innescato processi e movimenti di grande portata e consistenza nel tempo. Certo, non sono le uniche. Ce ne sono tante altre. Sono, come ci ha insegnato Francesco, parole concrete, semplici e cristalline: parole incarnate che si capiscono e che soprattutto si sentono. Custodire - Siate custodi dei doni di Dio! (2013/2014) - Il giorno dell’inizio del suo ministero, solennità di San Giuseppe, nell’omelia dell’Eucaristia in piazza Santo Pietro, papa Francesco usò per la prima volta la parola «custodire» che poi, in questi anni, è diventata concetto portante del suo magistero nonché dei suoi gesti e della sua fisicità pastorale. Si può dire che sia divenuto il concetto chiave della sua seconda enciclica Laudato si’ (custodire la casa comune). Per Papa Bergoglio custodire è amare e quindi donare speranza, perciò lo spirito e la condotta del samaritano riassumono l’essere cristiano vero, coerente, autentico: il samaritano custodisce, ama e amando dona speranza. Null’altro. In così poco, seppure immensamente impegnativo, c’è la legge perfetta, la dottrina: Gesù, su cui il Papa ha incentrato il suo magistero a più riprese in

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questi anni. «Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio», disse tre anni fa papa Francesco, e poi aggiunse: lui «si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!». Già tre anni fa Francesco ammoniva: «la vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti» e poi precisava che per custodire «dobbiamo anche avere cura di noi stessi! (…) vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono!». Infine, papa Francesco, come abbiamo ascoltato in questi anni, ha riportato e applicato queste riflessioni direttamene al suo ministero, sottolineando «che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce»; anche il Papa «deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli (…) poiché “solo chi serve con amore sa custodire!”». Ecumenismo della sofferenza e del sangue (2014/2015) - Il 25 maggio 2014, papa Francesco, nella Celebrazione ecumenica in occasione del 50.mo dell’incontro tra Paolo VI e Atenagora, presente il fratello Bartolomeo patriarca ecumenico, nella basilica del Santo Sepolcro (Gerusalemme), ricordò: «Quando cristiani di diverse confessioni si trovano a soffrire insieme, gli uni accanto agli altri, e a prestarsi gli uni gli altri aiuto con carità fraterna, si realizza un ecumenismo della sofferenza, si realizza l’ecumenismo del sangue, che possiede una particolare efficacia non solo per i contesti in cui esso ha luogo, ma, in virtù della comunione dei santi, anche per tutta la Chiesa». «E non dimentichiamo, nella nostra preghiera - ha poi aggiunto - tanti altri uomini e donne che, in diverse parti del pianeta, soffrono a motivo della guerra, della povertà, della fame; così come i molti cristiani perseguitati per la loro fede nel Signore Risorto. Quelli che per odio alla fede uccidono, perseguitano i cristiani, non domandano loro se sono ortodossi o se sono cattolici: sono cristiani. Il sangue cristiano è lo stesso». A questo punto si deve ricordare che è proprio la consapevolezza dell’ecumenismo della sofferenza e del sangue ciò che renderà possibile 21 mesi dopo, contro ogni aspettativa, lo storico abbraccio a La Habana tra papa Francesco e il patriarca Kirill (12 febbraio 2016). In questo documento il Papa e il Patriarca scrivono: «Ci inchiniamo davanti al martirio di coloro che, a costo della propria vita, testimoniano la verità del Vangelo, preferendo la morte all’apostasia di Cristo. Crediamo che questi martiri del nostro tempo, appartenenti a varie Chiese, ma uniti da una comune sofferenza, sono un pegno dell’unità dei cristiani. È a voi, che soffrite per Cristo, che si rivolge la parola dell’apostolo: “Carissimi, … nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della Sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare” (1 Pt 4, 12-13)». Misericordia – Gesù: la misericordia di Dio fatta uomo (2015/2016) - Con l’indizione del Giubileo straordinario della Misericordia (11 aprile 2015) papa Francesco ha rimesso al centro dell’agire pastorale della Chiesa quanto aveva detto quattro giorni dopo la sua elezione, nel primo Angelus (17 marzo 2013: «In questi giorni, ho potuto leggere un libro di un Cardinale – il Cardinale Kasper, un teologo in gamba, un buon teologo – sulla misericordia. E mi ha fatto tanto bene, quel libro, ma non crediate che faccia pubblicità ai libri dei miei cardinali! Non è così! Ma mi ha fatto tanto bene, tanto bene… Il Cardinale Kasper diceva che sentire misericordia, questa parola cambia tutto. È il meglio che noi possiamo sentire: cambia il mondo. Un po’ di misericordia rende il mondo meno freddo e più giusto. Abbiamo bisogno di capire bene questa misericordia di Dio, questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza … Ricordiamo il profeta Isaia, che afferma che anche se i nostri peccati fossero rossi scarlatti, l’amore di Dio li renderà bianchi come la neve. (…) Non dimentichiamo questa parola: Dio mai si stanca di perdonarci, mai! “Eh, padre, qual è il problema?”. Eh, il problema è che noi ci stanchiamo, noi non vogliamo, ci stanchiamo di chiedere perdono. Lui mai si stanca di perdonare, ma noi, a volte, ci stanchiamo di chiedere perdono. Non ci stanchiamo mai, non ci stanchiamo mai! Lui è il

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Padre amoroso che sempre perdona, che ha quel cuore di misericordia per tutti noi. E anche noi impariamo ad essere misericordiosi con tutti. Invochiamo l’intercessione della Madonna che ha avuto tra le sue braccia la Misericordia di Dio fatta uomo»). Il nostro è il ministero dell’accompagnamento - In queste tre parole, ciascuna delle quali ha caratterizzato, per così dire, ogni anno dal 2013 a oggi, c’è gran parte dell’essenza del pontificato. Questi concetti, che Francesco spesso ha proposto come moniti e come esortazioni, si possono percepire nel corpo magisteriale del papato come costellazioni utili per la navigazione, seguendo la quali sono state riavviate o aperte delle sensibilità assopite o nuove; discussioni, dibattiti e confronti che hanno dato sostanza e forma a una vera opinione pubblica all’interno della Chiesa. Spronare e rendere più responsabili gli uomini di governo e dell’elite scientifico-culturali, dare alla Chiesa un’immagine e uno slancio di autentico dialogo con il mondo, mettere in movimento con decisione e coraggio la dinamica ecclesiale che sembrava paralizzata da molteplici assedi e timori: questi sono gli ambiti e i contesti in cui le parole di Bergoglio hanno finora dato una scossa inedita, un’opinione controcorrente. Certamente non tutto è fatto, anzi. Ci sono ancora all’orizzonte le riforme del governo centrale della Chiesa e una probabile nuova costituzione apostolica. Molte riforme in corso - dai media agli enti che si occupano di finanza ed economia passando per quella del Sinodo, per citare quelle più focalizzate dalla stampa - sono appena agli inizi. È probabile che papa Francesco sorprenda nel futuro con altre nuove proposte alla luce del Concilio Vaticano II, che lui stesso percepisce come «un aggiornamento, una rilettura del Vangelo nella prospettiva della cultura contemporanea» e che «ha prodotto un irreversibile movimento di rinnovamento che viene dal Vangelo», ragion per cui «adesso, bisogna andare avanti» (3 marzo 2015, «Lettera» alla Pontificia Università Cattolica di Argentina). Ci sembra che un chiaro e promettente sigillo di questi tre anni si possa leggere nelle parole di papa Francesco nel corso della Liturgia penitenziale dello scorso 4 marzo: «Il nostro è il ministero dell’accompagnamento, perché l’incontro con il Signore sia personale, intimo, e il cuore si possa aprire sinceramente e senza timore al Salvatore. Noi siamo stati scelti - noi pastori - per suscitare il desiderio della conversione, per essere strumenti che facilitano l’incontro, per tendere la mano e assolvere, rendendo visibile e operante la sua misericordia». CORRIERE DELLA SERA Pag 14 La laica Hillary o Trump l’estremo? “Francesco è per il male minore” di Massimo Franco Casa Bianca 2016. Visto dal Vaticano «E adesso, per paradosso il Vaticano deve sperare che alla Casa Bianca vada Hillary Clinton. Rispetto a Donald Trump, sarebbe il male minore…». Il diplomatico statunitense sorride. Sa bene quanto Oltretevere la campagna presidenziale sia stata seguita finora con un filo di scetticismo; e quanta diffidenza esista verso la candidata dei democratici , considerata, nelle parole di un amico sudamericano del Papa, «una campionessa dell’ideologia laicista», guardata dai vescovi americani come un’avversaria storica sul piano dei valori. D’altronde, nell’unico viaggio in Usa di Francesco, la Clinton non si è vista neppure per un saluto fugace. E la mancata ricerca di un contatto è stata notata dall’entourage del Pontefice. Qualcuno ricava una conferma indiretta della freddezza anche nel rifiuto cortese ma fermo opposto alla richiesta di Bill Clinton di incontrare in udienza privata Jorge Mario Bergoglio. Per due volte, l’ultima nel novembre scorso, l’ex presidente Usa ha fatto sapere che avrebbe avuto piacere di vedere Francesco a quattr’occhi, a Casa Santa Marta. E per due volte gli è stato detto che era impossibile, perché il protocollo vaticano non prevede incontri con ex capi di Stato e di governo. L’unica possibilità era di ammetterlo alla cerimonia del baciamano, e di scambiare qualche battuta durante un’udienza pubblica del mercoledì in piazza San Pietro. D’altronde, l’ex presidente apparve come un alleato freddo dai tempi di Giovanni Paolo II. Perfino ai funerali di Karol Wojtyla, nel 2005, Bill Clinton disse poco diplomaticamente che il papa polacco lasciava «a mixed legacy», un’eredità in chiaroscuro. E Hillary è la femminista che nell’aprile del 2015, davanti alla National Association for Women a New York, affermò che «le convinzioni religiose» su aborto, unioni omosessuali, adozioni «debbono essere cambiate» con leggi ad hoc. Insomma, la piattaforma del Partito

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democratico Usa, attenta alle minoranze, nella narrativa dell’episcopato cattolico è assimilata spesso a quella della sinistra europea. Quando Francesco è andato in America a fine settembre del 2015, l’unico punto di contatto che Hillary Clinton ha individuato è stato sui cambiamenti climatici. Il problema è che la candidata, consolidata dal Super Martedì del 1° marzo in undici Stati, si avvicina alla designazione da parte dei democratici avendo come alternativa Trump: un costruttore miliardario e arrogante che sta piegando al suo verbo xenofobo il Partito repubblicano; umiliando gli altri candidati, compresi alcuni cattolici. Per il Vaticano, però, il problema non è legato alla fede protestante della Clinton, metodista, e del presbiteriano Trump: anche se attaccare Francesco «significa fare un fischio ai cristiani evangelici che temono i complotti papali», ha scritto James Keane su America , la rivista dei gesuiti Usa. I fantasmi di uno scontro religioso, simile a quello che covava ancora ai tempi del cattolico John Kennedy negli Anni Sessanta del secolo scorso, sono datati. Per la Roma papale, il punto interrogativo sarà come trattare con un’inquilina o un inquilino della Casa Bianca i quali perseguono un’agenda in parte conflittuale con quella dei vescovi americani e del cattolicesimo mondiale. Nella campagna presidenziale in corso, «il livello della maggior parte dei candidati porterebbe a dire che gli Usa riflettono il declino dell’Occidente», ripetono da tempo i collaboratori di Francesco. Tra il laicismo della Clinton e la xenofobia e l’islamofobia di Trump, il male minore sembrerebbe il primo: tanto più dopo che il Pontefice, parola che significa «costruttore di ponti», ha definito Trump «non cristiano» per la sua mania di alzare muri contro i migranti. È probabile che le parole di Bergoglio abbiano favorito e non danneggiato il candidato repubblicano agli occhi di una base radicalizzata: convinta, a detta di Trump, che il Papa «non capisca i problemi posti all’America dall’immigrazione»; e che «quando l’Isis attaccherà il Vaticano, Francesco ci chiederà aiuto». È un’America che teorizza un persistente pregiudizio anti yankee del Pontefice, in quanto argentino. D’altronde, sono stati i circoli repubblicani più conservatori a definirlo «un Papa politicizzato»; a tacciarlo di posizioni «criptocomuniste»; e a tentare di perpetuare il vecchio schema della contrapposizione tra l’America latina cattolica e gli Usa protestanti, trascurando il ruolo crescente dei latinos, importanti per un’eventuale vittoria della Clinton. Ma si profilano contrasti più globali, sulla politica estera. L’esperienza e la competenza della Clinton potrebbero diventare una sfida alla «geopolitica della misericordia» di Bergoglio. Uno dei punti di attrito, emerso durante la presidenza di Barack Obama, sono i rapporti con la Russia. Da quando era segretario di Stato Usa, Hillary invocava più durezza con Mosca. Seguendo le trasmissioni di Russia Today , la tv russa in lingua inglese, già nel 2011 avvertiva, allarmata: «C’è una guerra sull’informazione e la stiamo perdendo. La Russia ha lanciato un canale in inglese, l’ho visto in diversi Paesi, è stato molto istruttivo…». E quando due anni fa si è celebrato il referendum per la riunificazione della Crimea alla Russia dopo l’aggressione di Mosca, la Clinton arrivò a fare paragoni tra Vladimir Putin e il dittatore nazista Adolf Hitler. Si tratta di un approccio agli antipodi rispetto a quello di Francesco, che non ha mai definito Putin «aggressore»; e che ha appena compiuto una riconciliazione epocale con il Patriarca ortodosso russo Kirill, benedetta dal Cremlino e celebrata nella Cuba dei fratelli Castro. Il Vaticano di Bergoglio segue una strategia tesa a togliere di mezzo tutte le incrostazioni della Guerra fredda. «La Santa Sede - ha osservato il direttore padre Antonio Spadaro sulla rivista dei gesuiti italiani La Civiltà cattolica - ha stabilito o vuole stabilire rapporti diretti e fluidi con le superpotenze, senza entrare in reti precostituite di alleanze e influenze». E a proposito della lotta contro il terrorismo dell’Isis, Spadaro ha aggiunto: «Servirebbe che sunniti, sciiti, Russia e Occidente facessero causa comune». Questo spiega la politica della «porta aperta con la Russia di Putin… Come pure il desiderio di un ponte diplomatico con la Cina di Xi Jinping», secondo il direttore della rivista. Negli ultimi contatti tra emissari di Washington e persone vicine a Bergoglio, la discussione si è concentrata sul ruolo svolto dal governo di Mosca nella ricucitura con gli ortodossi; e su quale effetto avrà nelle relazioni tra Vaticano e Cremlino. «Certamente quell’incontro è stato voluto sia dal Patriarca Kirill che da Putin», si fa notare. Gli Usa ne sono certi. Ma Bergoglio e il successore di Obama, chiunque sia, troveranno un modus vivendi. «D’altronde - osserva un diplomatico americano con un filo di ironia - se ha dialogato con Putin che è arrivato con 45 minuti di ritardo all’ultima udienza papale, siamo certi che Francesco sarà più che

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capace di dialogare con la Clinton. Il vero problema sarà, semmai, per l’episcopato cattolico statunitense». Pag 26 Philippe Barbarin, il cardinale inflessibile che proteggeva i sacerdoti pedofili di Stefano Montefiori Molto severo con i comportamenti a lui sgraditi, molto indulgente con atti oggettivamente ignobili. Inflessibile contro i matrimoni gay, comprensivo con un prete reo confesso di pedofilia. Il cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, tempo fa ha usato toni durissimi per denunciare la minaccia alla civiltà rappresentata a suo dire dal mariage pour tous: disse che i bambini andavano protetti, che presto avremmo conosciuto «unioni formate da tre o quattro persone» e che «un giorno anche il divieto di incesto» sarebbe caduto. Tre anni sono passati da quelle frasi, e in Francia poligamia e incesto restano reati. Come la pedofilia, del resto, che sembra però allarmare Barbarin in misura molto minore. La procura di Lione ha aperto una inchiesta preliminare per «mancata denuncia di un crimine» e «messa in pericolo della vita altrui» dopo che alcuni ex boy scout hanno denunciato l’arcivescovo, due responsabili diocesani, il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Gerhard Müller e un suo collaboratore, che non avrebbero fatto quanto in loro potere per fermare il sacerdote Bernard Preynat, autore di molestie e violenze su una quarantina di bambini (tra il 1972 e il 1991). In una intervista rilasciata al quotidiano cattolico La Croix, Barbarin spiega di avere convocato il prete pedofilo verso il 2007-2008, di avere raccolto la sua ammissione di colpevolezza, ma di non avere preso provvedimenti perché - «secondo uno specialista» - quella confessione era segno di ravvedimento. Inoltre, i fatti erano «canonicamente prescritti». Così padre Preynat è restato al suo posto. Anzi, qualche anno dopo, nel 2011, il cardinale Barbarin lo ha promosso a responsabile non di una, ma di sei parrocchie, ancora a contatto con i bambini. Lo stesso Barbarin che l’anno successivo, in occasione del mariage pour tous, si sarebbe autoproclamato difensore dell’infanzia. LA REPUBBLICA Pag 32 Così si svela il volto segreto della divina Misericordia di Tomaso Montanari La personificazione della virtù nell’arte sacra è rara e spesso affidata a Maria. Per evitare la “femminilizzazione” di Dio Misericordiae vultus è il titolo della bolla con cui papa Francesco ha indetto il giubileo straordinario. Ma dove possiamo vederlo, il volto della misericordia? In quale immagine, in quale opera d'arte, in quale iconografia? La risposta è sorprendente: nell'arte sacra la personificazione della Misericordia non ha quasi avuto diritto di cittadinanza. Tutta la scena è stata occupata dalle virtù teologali (Fede, Speranza, Carità), e dalle consorelle cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza): perché la Misericordia non è una virtù, ma, come scriveva già Dante, «è passione», cioè un moto profondissimo dell'anima. E questo ha sempre insospettito la macchina del potere ecclesiastico, che ha preferito doti meno eversive. Esiste, certo, la tradizione iconografica delle opere di misericordia, che ha prediletto le sette corporali, raffigurandole per esempio negli ospedali (si pensi al fregio di quello del Ceppo, a Pistoia, eseguito intorno al 1525 da Santi Buglioni). In un suo recente libro (La mia idea di arte, a cura di Tiziana Lupi) papa Francesco ha incluso una di queste serie tra gli esempi che fanno capire il suo rapporto con il figurativo: le Opere di misericordia di Olivuccio di Ciccarello, che oggi sono nella Pinacoteca Vaticana, ma che furono dipinte, nei primi anni del Quattrocento, per la Chiesa della Misericordia di Ancona. Il papa ama questo ciclo perché qua «gli "scartati" della società si sono affermati come attori principali della rappresentazione »: un punto di vista radicalmente evangelico, che probabilmente i contemporanei di Olivuccio non avrebbero condiviso, concentrati com' erano sul ruolo non dei bisognosi, ma dei benefattori, cioè di se stessi. Il papa potrebbe trovare, sempre nei Sacri Palazzi, un esempio monumentale di questo "protagonismo degli scartati": l'affresco in cui Beato Angelico (pittore santo e frate mendicante) esalta san Lorenzo che distribuisce ai poveri i beni della Chiesa. È somma la dignità con cui i mendicanti, gli straccioni, i bambini scalzi dell'Angelico occupano la prospettiva della basilica aulica in cui avviene il gesto eversivo: la gerarchia ecclesiastica che si spoglia delle sue ricchezze, e sul muro della cappella

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privata di un papa! Questo filone iconografico tocca l'apice nella pala d'altare in cui Caravaggio concentra le Sette Opere di Misericordia, ambientandole - scrive Roberto Longhi - «all'imbrunire, in un quadrivio napoletano», con gli angeli che volano «all'altezza dei primi piani, nello sgocciolìo delle lenzuola lavate alla peggio, e sventolanti a festone sotto la finestra cui ora si affaccia una "nostra donna col Bambino"». Grazie alla presenza di Maria - salutata fin dal X secolo come «mater misericordiae» - Caravaggio fonde l'iconografia delle Sette opere con quella della Madonna della Misericordia, colei che riunisce sotto il suo manto tutti i fedeli: un'immagine diffusissima nel Medioevo italiano, che Piero della Francesca (nel polittico di Borgo San Sepolcro, dipinto intorno al 1460) trasforma in uno spazio abitabile, una vera architettura di misericordia. Il volto della misericordia è dunque il volto di Maria? Nell'arte italiana certamente sì: una scelta rassicurante, che pone tuttavia due problemi. Il primo è la divaricazione tra la misericordia della Madre e la verità del Figlio: quando invece il fulcro dell'annuncio messianico è che «misericordia e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Salmo 84). Il secondo è che il monopolio di Maria serve a non attribuire a Gesù o a Dio Padre la visceralità della misericordia: ad evitare, insomma, una femminilizzazione di Dio che avrebbe stravolto gli stereotipi di genere. Dopo il Concilio di Trento la Chiesa cercherà di eliminare perfino le immagini in cui è la stessa Maria ad apparire troppo umana (lo svenimento sotto la Croce, per esempio): figuriamoci rappresentare Gesù, o Dio Padre, commossi! E il punto, invece, era proprio quello: Dio è il Misericordioso perché di fronte ai figli le sue viscere di padre si muovono, e nemmeno Lui può fermarle. Ed è questa meravigliosa tenerezza di un Padre travolto dalla misericordia che sta oggi al centro della teologia di papa Francesco. Quando apprende che il suo amico Lazzaro è morto, Gesù piange: ma inutilmente si cercherebbe il Signore in lacrime nella nostra storia dell'arte. E la traduzione italiana dei vangeli ha edulcorato, fino a travisarlo, il vasto repertorio in cui Gesù sente, letteralmente, il movimento delle proprie viscere («splancna», in greco). Nella città di Nain vede una vedova che porta alla sepoltura il suo figlio unico: senza che nessuno gli chieda nulla, Gesù si avvicina e lo resuscita, perché «le sue viscere lo avevano portato verso di lei» (Luca 7). Lo stesso avviene per i due ciechi di Gerico (Matteo 20). E quando il lebbroso gli grida: «se vuoi, puoi guarirmi», è il movimento delle viscere che trascina Gesù a rispondergli «Lo voglio, guarisci!» (Marco, 1). Ma questo Gesù visceralmente misericordioso non ha alcun diritto di cittadinanza nell'iconografia, controllata per secoli dalla Chiesa. Eppure è Gesù stesso a suggerire alcune immagini: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina la sua covata sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Luca 13). Ma se abbiamo, in secoli d'arte cristiana, infinite rappresentazioni di un Gesù-pellicano che si squarcia il petto per nutrire i piccoli (trasparente allegoria della Passione), non abbiamo nemmeno un Gesù-chioccia: perché un Cristo femminile, uterino, era impensabile per il potere maschile del clero. E, allora, dove cercare? Nella bolla, Francesco cita un'immagine evangelica che gli è particolarmente cara: quella della vocazione di Matteo. Gesù sceglie come apostolo ed evangelista l'esattore delle tasse, collaborazionista dei romani: il peggio in assoluto. Il Venerabile Beda ha commentato che qui Gesù agisce «miserando atque eligendo», cioè scegliendo attraverso la misericordia: ed è questa la frase che Bergoglio ha voluto come motto papale. In un'altra occasione il papa ha parlato del suo amore per il quadro più celebre che rappresenta quella scena: la Vocazione di Matteo di Caravaggio in San Luigi dei Francesi, vero manifesto della misericordia come metodo di governo. Ma forse l'opera che più di ogni altra può diventare l'icona di questo Giubileo (e che infatti è già stampata sulle copertine di alcune traduzioni della bolla di indizione) è il Figliol prodigo (o meglio, appunto, il Padre misericordioso) di Rembrandt (1666-69 circa). Anche perché la parabola, su cui papa Francesco si è soffermato ieri all'Angelus, potrebbe essere il vero fulcro tematico di questo Giubileo. Sotto lo sguardo ostile del fratello virtuoso, il figlio corrotto e ingrato è tornato, lacero e miserabile. Il padre si china verso di lui, lo accoglie: lo abbraccia e insieme lo benedice, con due mani immense. Non chiede, non processa, non rimprovera: chiude gli occhi per la commozione, e nessuno osa rompere il silenzio. È stato un artista protestante, lontano da ogni clero, a fare il più bel ritratto delle viscere misericordiose di un Dio padre che è anche madre.

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AVVENIRE di domenica 6 marzo 2016 Pag 14 Suore trucidate, “sono martiri” di Lucia Capuzzi Parolin sulla strage in Yemen. Il dolore del Papa: violenza diabolica Un «atto di violenza insensata e diabolica». È profondamente addolorato il Papa per la strage di quattro Missionarie della Carità e di altre 12 persone avvenuta ad Aden, in Yemen, due giorni fa. In un telegramma, a firma del segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, Francesco ha espresso vicinanza ai familiari delle vittime. E, a tutti, con coraggio evangelico, ha voluto rivolgere un messaggio di speranza: che tale massacro «svegli le coscienze, guidi ad un cambiamento dei cuori ed ispiri tutte le parti a deporre le armi e intraprenda un cammino di dialogo». Con forza il Pontefice ha chiesto, in nome di Dio di «rinunciare alle violenze, rinnovare il proprio impegno per la gente dello Yemen, in particolare i più bisognosi». Proprio coloro che le religiose «hanno cercato di servire» fino alla fine. «Sono delle martiri – ha detto il cardinale Parolin in una breve intervista al sito di Avvenire –. Mi hanno raccontato che avevano già ricevuto delle minacce eppure hanno preferito restare, a costo della vita». Non si capisce – ha aggiunto il segretario di Stato –, come persone che hanno dedicato la vita al bene del prossimo possano essere uccise e in modo così barbaro ». Al di là di ogni matrice ideologica e terroristica, l’eccidio è un gesto inqualificabile, «non c’è un disegno, solo l’odio nella sua forma più pura», ha sottolineato il cardinale Parolin. «Che male potevano fare quelle suore? Anche quella povera gente che assistevano, in mano di chi resterà?», si è domandato con preoccupazione il segretario di Stato. Le suore della Congregazione fondata da Madre Teresa avevano creato ad Aden una casa di accoglienza per anziani e disabili, la sola presenza – insieme a quella di due salesiani – della Chiesa cattolica nel Paese. La stessa residenza dove sono entrati i terroristi e, dopo aver assassinato gli impiegati che hanno cercato di fermarli, sono andati dritti dalle religiose. Quando se le sono trovate di fronte, gli uomini hanno aperto il fuoco, uccidendo l’indiana suor Anselm, le ruandesi suor Marguerite e suor Reginette, la kenyana suor Judit. Finora, l’ipotesi più probabile è che si sia trattato di miliziani legati al Daesh. Al-Qaeda nella Penisola Araba (Aqap) – da parte sua –, invece, ha negato ogni coinvolgimento nel massacro. Il gruppo jihadista, del resto, ha ormai perso influenza nella zona, tornata sotto il controllo del governo, sostenuto dall’Arabia Saudita. Il vescovo Camillo Ballin, vicario apostolico per l’Arabia settentrionale, ha esortato a evitare strumentalizzazioni dell’inaudito crimine, criminalizzando in modo indistinto tutto l’islam. «Uccidere in nome di Dio è una cosa tremenda che nessun musulmano autentico può accettare», ha sottolineato in un messaggio diffuso dall’agenzia Fides. Monsignor Ballin ha ricordato il drammatico precedente del 1998 quando altre tre Missionarie della Carità furono assassinate a colpi di bastone mentre si recavano all’ospedale di Hodeida. «Ho potuto vedere i loro volti sfigurati. Vuol dire che davvero questa Congregazione segue Gesù da vicino», ha sottolineato il vescovo, perché «chi si avvicina a Cristo si avvicina anche alla sua Croce. Nessun cristiano che resta lontano da Cristo sarà mai sfiorato dalla persecuzione». Mentre la polizia cerca i responsabili, intanto, non si hanno notizie del sacerdote salesiano, Tom Uzhunnanil. Quest’ultimo risiedeva nella residenza e, secondo alcuni testimoni, si trovava nella cappella al momento dell’attacco. Poi, è scomparso. Vi è l’ipotesi di un sequestro ma non ci sono conferme. La strage di due giorni fa di inquadra in una situazione di caos generalizzato, alimentato dalla lotta per l’egemonia regionale tra Arabia Saudita e Iran. Il Paese e è dilaniato da una sorta di “conflitto per procura” che va avanti ormai da un anno e mezzo. Riad guida la missione militare di Stati arabi sunniti intervenuti in aiuto delle autorità di Sanaa, ovvero il presidente Abed Rabbo Mansour Hadi e il suo esecutivo. Entrambi sono in esilio proprio ad Aden dal febbraio 2015. A cacciarli dalla capitale la minoranza sciita Houdi, in rivolta dal settembre 2014, con l’appoggio di Teheran. Il gruppo accusa la maggioranza sunnita e i suoi rappresentanti di averlo emarginato. Scontri e instabilità hanno causato due milioni di sfollati, le vittime sono oltre seimila di cui la metà civili e 5mila feriti. Solo nel mese di febbraio, in base a dati Onu, ci sono stati 168 morti. Pag 18 Crescono i cattolici in Africa e in Asia, ma l’Europa “cala” di Gianni Cardinale Nel mondo 1,272 miliardi di battezzati. In aumento il numero di vescovi e preti

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Roma. Crescono i cattolici nel mondo, soprattutto in Africa e Asia. Negli stessi continenti aumentano, seppur a ritmi più lenti, i sacerdoti diocesani, che invece diminuiscono in Europa e Oceania. Piuttosto stabili i numeri delle Americhe. Sono questi alcune dei trend segnalati nell’ultima edizione dell’Annuarium Statisticum 2014 curato dall’Ufficio centrale di statistica della Chiesa e pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, che in questi giorni ha messo in vendita anche l’Annuario Pontificio 2016. In una nota dell’Ufficio diffusa ieri dalla Sala Stampa vaticana si sottolinea appunto come tra il 2005 e il 2014 i cattolici nel mondo siano cresciuti di circa 160 milioni di unità, arrivando a sfiorare il miliardo e 300 milioni, con un ritmo (14,1%) superiore a quella della popolazione mondiale dello stesso periodo (10,8%). Questo trend globalmente positivo però nasconde profonde differenze tra le varie zone geografiche del mondo. Nei nove anni presi in considerazione, infatti, i battezzati in Africa sono cresciuti di quasi il 41%, ovvero il doppio esatto dell’Asia (20%) e tre volte e mezzo dell’intero continente americano, che ha registrato l’11,7% di aumento. Mentre l’Europa, nonostante ne ospiti quasi il 23% su scala mondiale, ha visto il numero dei cattolici crescere di poco più del 2%. Inoltre, anche se si segnala il verificarsi di una «lievissima flessione» nel 2014, l’America rimane sempre il continente cui appartiene quasi la metà dei cattolici battezzati. Dal 2005 al 2014, i vescovi sono cresciuti globalmente dell’8,2%, arrivando a oltre 5.237 unità. Anche qui, Asia (+14,3%) e Africa (+12,9%) hanno visto aumentare il numero dei pastori in misura praticamente doppia rispetto all’America (6,9%) e tripla rispetto a Europa (5,4%) e Oceania (4%). L’Ufficio statistico vaticano registra poi che la consistenza totale dei sacerdoti – in aumento tra il 2005 e il 2014 di 9.381 unità (da 406.411 a 415.792) – sembra essersi stabilizzata negli ultimi anni. Ciò a livello planetario, anche se anche in questo caso per i singoli continenti le dinamiche sono assai differenziate. Così a fronte di notevoli incrementi per l’Africa (+32,6%) e per l’Asia (+27,1%), si pongono l’Europa, con una diminuzione di oltre l’8% e l’Oceania con un 1,7%. Inoltre l’aumento a livello mondiale dei sacerdoti è stato «più sostenuto» nei primi sei anni del periodo sotto esame, ma «praticamente nullo negli ultimi tre anni». In particolare le ordinazioni sacerdotali, dopo una progressiva crescita fino al 2011, hanno registrato negli ultimi anni «una lenta decrescita, tuttora in corso». Simile a quello dei sacerdoti è il trend che si osserva nel mondo tra il 2005 e il 2014 per il numero dei seminaristi maggiori. Con una iniziale crescita che si protrae sino al 2011, anno in cui si registra un ammontare pari al 105,4% di quello del 2005. E con una successiva lenta ma continua discesa, che riporta il dato del 2014 ad un valore pari al 102,2% di quello di inizio periodo. A livello di consistenza, i candidati al sacerdozio nel pianeta sono passati da 114.439 nel 2005 a 120.616 nel 2011 e a 116.939 nel 2014. La diminuzione dei seminaristi maggiori del triennio 2011-2014 ha interessato tutti i continenti, con l’eccezione del-l’Africa, dove i seminaristi sono aumentati del 3,8% (da 27.483 a 28.528 unità). Interessante comunque leggere il dato della «sostituibilità generazionale». Su 100 sacerdoti, l’Africa e l’Asia con 66 e 54 nuovi candidati mostrano una grande capacità di ricambio, mentre l’Europa registra solo 10 candidati su 100 sacerdoti, l’America 28 e l’Oceania 22. I diaconi permanenti costituiscono poi il gruppo in più forte evoluzione nel corso del tempo: da circa 33mila nel 2005 hanno raggiunto quasi le 45mila unità nel 2014, con una variazione relativa del +33,5%. Mentre una lieve diminuzione numerica è quella subita dai religiosi professi non sacerdoti. Nel 2005 essi erano nel mondo 54.708, riducendosi poi a 54.559 nel 2014. È da notare che il calo si è concentrato in America (-5%), in Europa (-14,2%) e in Oceania (-6,8%). Al contrario vi è stato un incremento in Africa (+10,2%) e in Asia (+30,1%). Infine le religiose. I numeri dicono che le suore professe al 2014 erano circa 683mila, per circa il 38% presenti in Europa, seguita dall’America che conta oltre 177mila consacrate e dall’Asia che raggiunge le 170mila unità. Rispetto al 2005 il gruppo subisce una flessione del 10,2%. Anche in questo caso il declino ha riguardato tre continenti (America, Europa e Oceania), con variazioni negative anche di rilievo (intorno al 18-20%). In Africa e in Asia, invece, l’incremento è stato decisamente sostenuto, intorno al 20% per il primo e all’11% per il secondo. Pag 21 “Domande per la vita. La Parola ci interpella” di Enrico Lenzi Padre Ronchi predica da oggi ad Ariccia gli Esercizi alla Curia Romana col Papa

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Milano. L’emozione c’è – «è da alcune notti che dormo poco» –. Ma c’è anche la certezza di aver preparato questo appuntamento di Ariccia «cercando di andare alle radici profonde» della fede e del rapporto con Dio. Un percorso che padre Ermes Ronchi, il sacerdote servita scelto da papa Francesco per predicare gli Esercizi spirituali di Quaresima all’intera Curia Romana, ha voluto iniziare «tornando anche fisicamente alle mie radici personali, ritirandomi per alcuni giorni nella mia casa natale in Friuli». Un «ritiro» per trovare il tema da proporre e anche per svilupparne la riflessione. «Cercando il tema mi sono domando che cosa sarebbe stato utile per le persone che saranno presenti agli Esercizi – racconta padre Ronchi – e ho sentito forte l’esigenza più che di dare risposte di offrire domande per farle lavorare dentro di noi. Nel Vangelo si contano 220 domande fatte da Gesù. Ebbene, ho pensato di farne una cernita e alla fine ne sono rimaste dieci che offrirò alla riflessione del Papa e della Curia Romana». Gli Esercizi spirituali cominceranno nel tardo pomeriggio di oggi ad Ariccia. Che cosa l’ha spinta a scegliere queste dieci domande? Ho cercato di individuare quelle domande davanti alle quali resto disarmato, nudo. Per questo le ho definite «nude domande del Vangelo». E in questo itinerario di discernimento ho anche chiesto l’aiuto della preghiera ad amici, ai confratelli Servi di Maria, ai monasteri di clausura, proprio per poter donare un servizio utile alla Chiesa in questa occasione. C’è un filo rosso che lega queste domande? Non ho cercato di creare un percorso didascalico. È una sinfonia di domande. Sono quelle che più mi incidevano dentro. Quelle capaci di mettere nel profondo un seme che possa germogliare. Ho pensato a domande che aiutino la Chiesa a uscire dai propri ruoli e porsi davanti alla Parola di Dio come credenti, come persone. Insomma, come evidenziava lo scrittore e poeta Rainer Maria Rilke in Lettere a un giovane poeta, di vivere bene le domande. Ho detto «vivere», non «farsi» domande. La differenza? Vivere le domande significa farsi catturare da esse. Pensi al carattere del punto interrogativo: messo al contrario è come un amo da pesca. Ecco, quelle domande vissute sono capaci di scendere dentro di noi e tirare fuori di noi riflessioni, scelte e pensieri, significative per la nostra vita. Sono domande che si rivolgono alla tua umanità. Domande a cui tutti possono rispondere, al di là di ruolo, ceto, e livello culturale. Lei accompagnerà le dieci domande ad altrettante riflessioni. C’è qualche autore o personaggio a cui si è ispirato nel prepararle? Ci sono autori a cui faccio spesso riferimento e sono due miei confratelli, padre David Maria Turoldo e padre Giovanni Vannucchi, un mistico. Per me sono come dei piccoli profeti. E poi ho attinto anche da Dietrich Bonhoeffer (teologo luterano tedesco, ndr) e Simone Weil (filosofa, mistica e scrittrice francese, ndr). Quali sono le regole del «buon predicatore»? Personalmente ho sempre presente quello che mi disse mio padre quando tornai al paese per la mia Prima Messa e omelia: «Poche parole e che si tocchino, cioè siano concrete». Un insegnamento che continuo a seguire. Non parole tirate fuori dal taschino, ma usare parole concrete, che sono state capaci di ferirci o farci gioire. Ma vere. Un verso bellissimo di padre Turoldo dice: «Cristo, mia dolce rovina, gioia e tormento insieme tu sei. Impossibile amarti impunemente. Dolce rovina, Cristo, che rovini in me tutto ciò che non è amore, impossibile amarti senza pagarne il prezzo in moneta di vita! Impossibile amarti e non cambiare vita e non gettare dalle braccia il vuoto e non accrescere gli orizzonti che respiriamo». Ecco le parole che si dovrebbe essere capaci di utilizzare. Propone dieci domande, svolge una riflessione, ma lei personalmente da questo cammino che svolgerà negli Esercizi spirituali come esce? Rimesso a nuovo. Queste domande su cui ho riflettuto e meditato mi hanno costretto a mettermi a nudo davanti a Dio. Ma alla fine sono un invito a ripartire. L’infinita pazienza del ricominciare, ma questa volta senza le antiche incrostazioni. In perfetta sintonia con l’Anno Santo straordinario della misericordia. Direi di sì. Anche la riconciliazione, lo sperimentare la misericordia di Dio è un ricominciare. E le domande vissute sono il futuro che si fa presente. Sono quegli ami da pesca in grado di tirare fuori qualcosa da noi.

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È prevista alle 16 di oggi la partenza del Papa e della Curia Romana per la Casa del Divin Maestro ad Ariccia, dove dalle 18 inizieranno gli Esercizi spirituali di Quaresima. Questa mattina, invece, il Papa reciterà l’Angelus dal suo studio privato nel Palazzo Apostolico con i fedeli riuniti in piazza San Pietro. Lo spostamento ad Ariccia, come già avvenuto in passato, verrà fatto in pullman su cui prenderà posto anche il Pontefice. Gli Esercizi, che si concluderanno venerdì con l’ultima meditazione al mattino prima del pranzo conclusivo, saranno predicati da padre Ermes Ronchi, sacerdote dell’Ordine dei Servi di Maria. La prima giornata inizierà dunque alle 18 con l’adorazione eucaristica e la prima meditazione basata sulla domanda di Gesù a coloro che lo stavano seguendo «Che cosa cercate?» narrata nel Vangelo di Giovanni. Seguirà la recita dei Vespri e si concluderà con la cena. Le giornate successive saranno scandite da un programma che prevede al mattino la recita delle Lodi, la meditazione, la celebrazione della Messa. Quindi dopo il pranzo si proseguirà nel pomeriggio con una nuova meditazione, i Vespri e la cena. Ovviamente nei prossimi giorni non vi saranno impegni ufficiali per il Papa e saranno sospese tutte le udienze pubbliche (compresa quella generale del mercoledì) e private. La conclusione è prevista nella mattinata di venerdì con l’ultima meditazione proposta da padre Ronchi. Dieci domande per mettersi a nudo davanti al Signore. Ecco quelle scelte da padre Ermes Ronchi che saranno proposte durante gli Esercizi spirituali alla Curia Romana, alla presenza di papa Francesco. Gli Esercizi di Quaresima inizieranno oggi ad Ariccia. 1. «Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: Che cosa cercate?» (Gv 1,38) 2. «Perché avete paura, non avete ancora fede?» (Mc 4,40) 3. «Voi siete il sale della terra. Ma se il sale perde sapore, con che cosa lo si renderà salato?» (Mt 5,13) 4. «Ma voi, chi dite che io sia?» (Lc 9,20) 5. «E volgendosi verso la donna, disse a Simone: vedi questa donna?» (Lc 7,44) 6. «Gesù domandò ai discepoli: Quanti pani avete?» (Mc 6,38; Mt 15,34) 7. «Allora Gesù si alzò e le disse: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?» (Gv 8,10) 8 «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (Gv 20,15) 9. «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?» (Gv 21,16) 10. «Maria disse all’angelo: Come avverrà questo?» (Lc 1,34). Torna al sommario LA STAMPA di domenica 6 marzo 2016 Le aperture della Chiesa hanno dei limiti di Enzo Bianchi Nella Chiesa del tempo post-conciliare, da quando papa Giovanni con il suo discernimento profetico individuò tra i «segni dei tempi» l'ingresso della donna nella vita pubblica, più volte si sentono voci. A cominciare da quelle dei papi che si levano per chiedere una più grande valorizzazione della donna nella Chiesa, una sua maggior partecipazione alle diverse istituzioni che la reggono e la organizzano, un riconoscimento a lei di tutte le facoltà che in quanto battezzata - e ciò vale anche per i laici battezzati - possiede di diritto. Come negare che dopo il Vaticano II ci sia una forte presenza femminile nella maggior parte dei servizi e delle diaconie ecclesiali? Nella catechesi, nella formazione cristiana, nell'animazione liturgica sovente oggi sono le donne a supplire alla mancanza di presbiteri. Qua e là esistono ancora posizioni indurite che negano la possibilità alle donne, e di conseguenza alle ragazze, di essere ammesse attorno all'altare, ma all'ambone ormai salgono più donne che uomini a proclamare le sante Scritture. Va effettivamente riconosciuto che la presenza e il servizio delle donne è ritenuto necessario, ma quanto all'ammetterle negli spazi di partecipazione alle responsabilità e alle decisioni per la vita ecclesiale, l'esitazione è ancora grande sicché l'icona che la Chiesa presenta alla società è quasi totalmente maschile e appare, lo si voglia o no, un corpo mutilato. Giustamente le teologhe chiedono di evitare la ricerca di una teologia speciale della donna, ma di far partecipare le donne alla vita della Chiesa: basterebbe che là dove ci sono uomini non ordinati - cioè non preti o vescovi - si

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potessero vedere anche delle donne, battezzate come loro. Nessun attentato alla dottrina, ma una semplice adesione alla realtà della Chiesa, composta come l' umanità da uomini e donne. Molte sono le possibilità rispettose dell' attuale dottrina cattolica sul ministero ordinato: basterebbe un po' di audacia e di volontà di non limitarsi a fare come si è sempre fatto, un po' di coraggio nell'intraprendere vie che conferirebbero alla donna non «immagini stereotipate romantiche e poetiche» ma un riconoscimento di ciò che è una cristiana: una battezzata con la possibilità di prendere la parola in ecclesia, di essere ascoltata collaborando ai processi decisionali nella Chiesa. Se sinodalità come la intende papa Francesco è un camminare insieme non solo di vescovi, ma di tutto il popolo di Dio, allora si devono immettere anche le donne cristiane in questo cammino fattosi così urgente anche se tanto difficile e faticoso. Papa Francesco nella Evangelii gaudium stigmatizza le guerre presenti nello stesso popolo di Dio ed è proprio in questo contesto che non dimentica come il maschilismo e il clericalismo non riconoscano con sufficienza «il bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa» (EG 103): perciò si augura questa presenza anche dove vengono prese decisioni importanti e chiede a pastori e teologi di cercare e di impegnarsi per dare alla donna un ruolo conforme alla sua dignità di membro del corpo di Cristo nella storia che è la Chiesa. Certo, anche papa Francesco non può far altro che ribadire la dottrina tradizionale circa il ministero presbiterale riservato sin dall'età apostolica solo agli uomini e ancor oggi così normato nella Chiesa cattolica e in tutte le Chiese ortodosse. Ma questo non significa che la Chiesa debba appiattirsi su posizioni che poco hanno a che fare con questa preclusione limitata al ministero ordinato e che pur hanno caratterizzato il modo in cui la Chiesa ha considerato le donne nel corso della sua storia bimillenaria. A ragione alcune teologhe sapienti esprimono il timore che oggi «nel momento di passaggio tra il secondo e il terzo millennio cristiano, abbia luogo un riflusso involutivo analogo a quello che ha segnato il passaggio tra il primo e il secondo secolo cristiano e che ha portato alla marginalizzazione delle donne dall'ecclesia cristiana». E se le mutate condizioni socio-culturali rendono meno concreta questa possibilità, resta la nostra grave responsabilità di operare affinché ciò non avvenga. Oggi, infatti, nella nuova situazione segnata da una rivoluzione antropologica e culturale inedita in gran parte avviata dalle donne, non possiamo più dilazionare una serie di possibilità di presenza della donna nella vita della Chiesa e nell'assemblea liturgica. Quello che si dovrebbe chiedere, almeno in obbedienza al messaggio di Gesù, è che sia consentito alle donne ciò che è consentito agli uomini laici, come da sempre è avvenuto nel monachesimo, che riconosce anche alla donna possibilità di governo, di predicazione, di insegnamento dottrinale, di guida spirituale. Non c'è mai stata nessuna differenza nel servizio dell' autorità tra un abate e un'abbadessa, tra un priore e una priora, né si vede perché, se ci sono «padri spirituali», non ci possano essere «madri spirituali». La valorizzazione della presenza, dei carismi e dei ministeri delle donne nella Chiesa cattolica non può dipendere da semplici «auguri» mai attuati, né da ostinate rivendicazioni: passa attraverso l'ormai ineludibile riscoperta della pienezza della vocazione battesimale e del conseguente apprezzamento della chiamata che ogni cristiano ha ricevuto per annunciare e testimoniare il vangelo di Gesù Cristo agli uomini e alle donne del proprio tempo. Il teologo Armando Matteo ha scritto «La fuga delle quarantenni» per indicare la disaffezione e l'abbandono della Chiesa da parte delle donne, ma presto se le cose non mutano, registreremo il venir meno anche delle donne più giovani: chi accetta di abitare una casa senza aver possibilità di viverla, governarla, rinnovarla ogni giorno assieme agli altri? Papa Francesco non trascuri la dimensione laica di Gian Enrico Rusconi Non è facile essere laici al tempo di Bergoglio, soprattutto in questo Paese dove tutti si dichiarano laici. La confusione non proviene soltanto dal mondo confessionale, ma anche da non credenti dichiarati che godono di grande impatto mediatico. Qualche laico poi ha frainteso l'appassionata insistenza di Papa Francesco sul tema della «misericordia» come una forma di relativizzazione del concetto di peccato. Come una sorta di sua implicita laicizzazione. È un grande equivoco, anche se l'ermeneutica anzi la semantica del Papa sono tutt'altro che innocue rispetto alle formule dogmatiche tradizionali. Certo: la discriminante della laicità non passa più semplicemente tra credenti e non credenti. Ma

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decisivi rimangono pur sempre i contenuti del credere, del non credere o del credere con modalità diverse e divergenti dalla dottrina tradizionale. Lasciano quindi perplessi alcune dichiarazioni di fede religiosa di intellettuali e politici di sinistra, sedotti da Papa Francesco. Con tutto il rispetto e la discrezione per la loro posizione, è rilevante che siano espliciti i contenuti religiosi o teologici che ora intendono accettare. Non basta l'entusiasmo per un Pontefice che parla contro lo sfruttamento, l'emarginazione, l'ingiustizia, la violenza delle guerre e affronti positivamente la questione delle migrazioni. Papa Bergoglio parla anche - sistematicamente e insistentemente - di Cristo nel senso fondativo del termine. Non è un accessorio culturale: è il centro del suo discorso, è l'essenza della visione del mondo del credente. Da qui discende tutto il resto. Questo non vuol dire che su «tutto il resto» - che è vastissimo - non ci possano essere convergenze con i non credenti e/o laici. Ma ad un certo punto interviene come qualificante la dimensione politica e pratica della laicità. Oggi non ci si divide più politicamente sulla figura di Cristo o sulla ricostruzione storico-critica delle origini del cristianesimo, ma già l'idea della creazione solleva seri problemi quando si entra nell'ambito dell'insegnamento scolastico (come vediamo in America nello scontro tra creazionisti ed evoluzionisti). Più divisivi ancora sono gli argomenti che riguardano la famiglia e i problemi bioetici. Su questi temi la laicità dello Stato richiede che - in vista della deliberazione politica - non debbano essere messi in gioco argomenti religiosi. A questo proposito è bene ribadire che la laicità nella democrazia non è semplicemente una opzione privata (una visione del mondo omologabile alla fede religiosa) ma è lo statuto stesso della cittadinanza. Laicità è la disponibilità a far funzionare le regole della convivenza democratica partendo dalla pluralità e persino dal contrasto delle «visioni della vita» e della «natura umana» che hanno i diversi cittadini. Questo punto rischia di diventare un grosso problema proprio perché quella di «natura umana» è il concetto forse più divisivo nella cultura contemporanea e per molti ha forti implicazioni religiose. Prendiamo ad esempio l'idea di matrimonio e di «famiglia naturale» che è diventato un cavallo di battaglia nelle recenti polemiche parlamentari di casa nostra. È nota la dottrina della Chiesa che lega esplicitamente il concetto di famiglia naturale «all'ordine della creazione che evolve verso l'evento della redenzione». Così ha ribadito l'ultimo Sinodo dei vescovi sulla famiglia, parlando appunto di «matrimonio naturale delle origini». È comprensibile che i parlamentari cattolici non introducono esplicitamente nel discorso pubblico-politico l'argomento religioso che fa riferimento diretto alla creazione-redenzione secondo la tradizione cristiana. Ma rimangono assolutamente impermeabili ad ogni argomentazione storica, scientifica e antropologica che mostra quanto varia e complessa è stata ed è l'unione tra uomo e donna (e la famiglia in generale) in tutte le culture compresa quella cui apparteniamo. La straordinaria sensibilità di Papa Bergoglio nel comprendere e nell' aprire alla «misericordia» le tante famiglie ferite, disastrate e in difficoltà non avalla alcuna novità di principio nella concezione della «famiglia naturale» detta sopra. La sua recente dichiarazione di non volersi «mischiare» nella politica italiana a proposito di «unioni civili» non modifica in nulla l'equivoca situazione in cui permane la politica nostrana. È interessante invece come il Pontefice si sia espresso sulla laicità in un altro contesto, incontrando una qualificata delegazione di cattolici francesi. Ha ripreso il noto e collaudato concetto di «sana laicità» combinando, secondo il suo stile, tesi tradizionali con accenti personali. «Una laicità sana include un'apertura a tutte le forme di trascendenza, secondo le differenti tradizioni religiose e filosofiche. D'altro canto anche un laico può avere un'interiorità» aggiunge accompagnando la parola con un gesto della mano che parte dal cuore (così osserva il commentatore dell' Osservatore romano, da cui prendo le citazioni). Ma poi aggiunge: «Una critica che faccio alla Francia è che la laicità risulta talvolta troppo legata alla filosofia dell'Illuminismo, per il quale le religioni erano una sottocultura. La Francia non è ancora riuscita a superare questo retaggio». Questa affermazione critica coglie di sorpresa un autorevole partecipante all'incontro che si permette di far osservare al Pontefice che «la sua analisi è un po' dura». «Tanto meglio!», esclama Francesco, con aria sinceramente allegra. Non è in caso di soppesare più del necessario queste e altre osservazioni che il Papa fa nel corso della sua instancabile attività comunicativa. Il suo approccio ermeneutico e semantico è per definizione flessibile e aperto agli incontri, ai contatti, alle frustrazioni, ai successi. Un aspetto tuttavia mi sembra carente. Manca una più meditata considerazione degli argomenti laici. Non basta la simpatia per le persone.

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Occorre quello che Jürgen Habermas chiama «reciprocità cognitiva tra fede e ragione». Occorre andare più a fondo nello scambio reciproco di ragioni e di argomenti. LA NUOVA di domenica 6 marzo 2016 Pag 13 Scandalo pedofilia, il Vaticano pronto a dimissionare Pell di Orazio La Rocca Oltretevere cresce il partito contro il cardinale-imputato. La sua deposizione al processo ha deluso. Troppe omissioni Città del Vaticano. Via al conto alla rovescia in Vaticano sulle possibili dimissioni del cardinale George Pell dalla prestigiosa carica di Prefetto della Segreteria dell’Economia. A far crescere Oltretevere il “partito” delle dimissioni è stata la controversa testimonianza, in tele conferenza da Roma, fatta dal porporato alla Commissione australiana che indaga sui casi di pedofilia nel clero avvenuti una quindicina di anni fa nella ex diocesi retta da Pell quando era arcivescovo. È vero che il cardinale ha chiesto scusa alle vittime, che si è rammaricato per non essere stato capace a bloccare i preti pedofili, che ha pure ammesso di aver sottovalutato le denunce e che ha giurato di essere pronto a battersi affinchè si arrivi alla verità e che non si ripetano altre tragedie simili. Ma è altrettanto vero che in Vaticano - specialmente nei dicasteri preposti alla amministrazione della giustizia canonica e non - l’atteggiamento di Pell è stato giudicato «omissivo», «insufficiente», «privo di senso del controllo preventivo», «indifendibile», un modo di fare di fronte al cancro della pedofilia nel clero giudicato, in sostanza, come la causa che, sebbene indirettamente, è stata alla base delle violenze sessuali dei preti pedofili che lui avrebbe dovuto controllare meglio. Orchi in abito talare che stando alle accuse hanno violentato 54 bambini e bambine nella diocesi dell’archivescovo Pell che si limitava a trasferire solo qualche prete chiacchierato. Da qui l’unica via d’uscita profetizzata per il porporato negli ambienti della Penitenzieria Apostolica (lo storico organismo pontificio che sovrintende ai peccati gravissimi commessi dagli ecclesiastici, comprese le violenze dei preti pedofili) è la “strada delle dimissioni”. Ma quando? E per iniziativa di chi? Attraverso un suo passo indietro o con un diretto intervento papale? Interrogativi legittimi che stanno circolando da qualche giorno nei Sacri Palazzi dando vita a due scuole di pensiero. La prima - la più agguerrita - è quella che propende per l’immediata cacciata del cardinale, suffragata da quanto detto, solo qualche settimana fa, da papa Francesco di ritorno dal viaggio in Messico: «I vescovi che sui casi di pedofilia dei preti sono colpevoli di mancato controllo devono dimettersi subito». La seconda scuola di pensiero del “partito” delle dimissioni si mostra più prudente e si accontenterebbe di aspettare l’8 giugno prossimo, il giorno in cui Pell compirà 75 anni, l’età in cui in Vaticano i cardinali devono lasciare gli incarichi nelle mani del Papa a norma di Codice di Diritto Canonico. Si tratterebbe di aspettare, quindi, “solo” 94 giorni e lo spinoso caso in Vaticano praticamente si risolverebbe da solo. Un’attesa, 94 giorni, giudicata sostenibile da qualcuno Oltretevere, ma che non tutti sono disposti ad accettare perché - dicono i più duri - «è bene che sulla vicenda le massime autorità vaticane (leggi papa Francesco) intervengano subito ordinando al porporato di farsi da parte immediatamente e di mettersi al servizio della giustizia australiana». Non sarebbe la prima volta che un alto prelato - un vescovo, un cardinale - sarebbe costretto a farsi da parte perché ritenuto colpevole di omesso controllo sui preti pedofili. Il caso più clamoroso è stato quello del cardinale statunitense Bernard Francis Law, costretto a dimettersi da arcivescovo di Boston per non essere intervenuto tempestivamente a bloccare i preti pedofili della sua diocesi, limitandosi a spostarli, ma senza denunziarli né al Vaticano, né alla giustizia civile. Law, poi, come si sa è stato - inopportunamente, secondo le comunità cattoliche bostoniane - trasferito a Roma come arciprete della Basilica di S.Maria Maggiore. Ora è in pensione, ma papa Francesco non lo ha voluto ricevere finora. Come Law, altre decine di prelati hanno dovuto lasciare i loro incarichi per gli stessi motivi, in applicazione delle nuove norme restrittive varate da Benedetto XVI e poi confermate da papa Francesco. Per Pell, il potente ministro dell’Economia vaticana, l’epilogo sarà lo stesso? Difficile prevederlo, anche perché il cardinale australiano venderà certamente cara la pelle. Come ex giocatore di rugby è abituato a combattere duramente.

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AVVENIRE di sabato 5 marzo 2016 Pag 2 Il prete e il dolore di Maurizio Patriciello I funerali di due ragazzi morti in un incidente Caro direttore, nella notte tra domenica e lunedì, in un terribile incidente stradale sono morti due ragazzi della mia parrocchia. Un altro è in fin di vita, altri due sono meno gravi. Fino a qualche anno facevano i chierichetti. Domenica ho celebrato la Messa dei fanciulli, ma mi sono accorto di non farcela. I bambini erano tutti in lacrime. Serissimi. Silenziosi. Ho portato a termine la celebrazione con fatica, senza avere la forza di pronunciare l’omelia. Ho chiesto poi a un mio confratello la cortesia di fare il cambio per la Messa delle 12.00. Sono andato a celebrare in un altro paese. Su Avvenire leggo la lettera che ti ha indirizzato un lettore di Torre del Greco. Il signor Gentile si lamenta delle omelie domenicali che sovente sono un tantino noiose. Afferma poi che «spesso loro stessi (i sacerdoti) arrivano scarichi alla Messa domenicale: è come se io mi presentassi a una festa con la faccia smorta». Mi fermo. Rifletto. Penso alla mia faccia. Oggi è più che smorta. Fosse per me andrei a rinchiudermi in casa, ma non posso, debbo celebrare. Chiedo perdono a Dio. Certo, se un sacerdote celebrasse una sola Messa, potrebbe esercitare un controllo migliore sul suo umore, sui suoi stati d’animo. Potrebbe prepararsi meglio. Purtroppo non sono pochi i parroci che fanno appena in tempo a scendere dall’altare che vi debbono risalire. E a volte tra una Messa e l’altra si mettono a confessare. Non solo. Accade spesso che debbono passare da una situazione di gioia e di festa come la celebrazione di un battesimo, di un matrimonio o di Prime comunioni a un’altra di dolore e di sconforto come il funerale di un bambino, di una giovane mamma, di un papà. Certo, sanno di dover piangere con chi piange e ridere con chi ride. Non sempre è facile. La severa legge dell’incarnazione, direttore, vale anche per noi. Siamo uomini. Può capitare, allora, che la morte di Genny e Enzo mi addolori così tanto da togliermi il sorriso. Da impedirmi di dire parole di gioia e di conforto. Chiedo aiuto. A chi se non ai miei fratelli? A chi se non a coloro che, con me e come me, vengono a dissetarsi alla fonte della vita? Siamo credenti come gli altri. Siamo uomini che lottano per mantenersi fedeli. Come tutti abbiamo bisogno di una stretta di mano, di una parola di conforto, di amicizia, di comprensione. Ai fedeli laici vorrei chiedere: aiutateci a essere migliori. Pregate per noi. Stateci accanto. Consigliateci. Evitiamo di schierarci su opposti campi di battaglia. Siamo un solo popolo. Abbiamo un solo Signore. So bene che da un prete oggi si pretende molto. Deve sapere di filosofia e di teologia. Di letteratura e di politica. Deve essere aggiornato su tutto. Deve avere un carattere dolce e fermo. Deve essere pronto a dare la vita. Deve pregare molto. Avere il tempo per tutti. Deve saper parlare ai bambini e agli anziani. Agli intellettuali e agli ignoranti. Stare con chi soffre e con chi lo vuole a cena a casa sua. Tutti hanno ragione. A tutti siamo debitori. Ma per favore: aiutateci. La vostra santità ci inciterà a essere più santi. La vostra carità ci invoglierà a essere più buoni e caritatevoli. Le vostre critiche, se aspre e senza affetto, potrebbero farci rinchiudere in noi stessi. Siamo tutti chiamati a lavorare nel campo del Signore. Se qualcuno arranca, diamogli una mano. Se uno stoppino sta per spegnersi, soffiamoci dolcemente sopra. Per favore pregate per i miei ragazzi. Ho unito in matrimonio i loro genitori, li ho battezzati, ho dato loro la Prima comunione. Non avrei mai pensato di dover celebrare il loro funerale. Anche un prete ha il diritto di commuoversi, piangere e non riuscire a balbettare una parola. Pag 23 “Siate strumenti della misericordia” L’invito del Pontefice ai partecipanti al Corso della Penitenzieria Apostolica Pubblichiamo il testo del discorso pronunciato dal Papa durante l’udienza ai partecipanti l

Corso annuale sul “foro interno” promosso dalla Penitenzieria Apostolica

Cari fratelli, buongiorno! Sono lieto di incontrarvi, durante la Quaresima dell’Anno Giubilare della misericordia, in occasione dell’annuale Corso sul foro interno. Saluto cordialmente il cardinale Piacenza, penitenziere maggiore, e lo ringrazio per le sue cortesi espressioni. Saluto il reggente – che ha una faccia tanto buona, deve essere un buon confessore! - i prelati, gli officiali e il personale della Penitenzieria, i collegi dei penitenzieri ordinari e straordinari delle Basiliche papali – le cui presenze sono state

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allargate proprio in occasione del Giubileo – e tutti voi partecipanti al Corso, che si propone di aiutare i novelli sacerdoti e i seminaristi prossimi all’ordinazione a formarsi per amministrare bene il Sacramento della Riconciliazione. La celebrazione di questo Sacramento richiede infatti un’adeguata e aggiornata preparazione, affinché quanti vi si accostano possano «toccare con mano la grandezza della misericordia, fonte di vera pace interiore» (cfr Bolla Misericordiae Vultus, 17). «Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola – “misericordia” – la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth» (ibid., 1). In tal senso, la misericordia, prima di essere un atteggiamento o una virtù umana, è la scelta definitiva di Dio a favore di ogni essere umano per la sua eterna salvezza; scelta sigillata con il sangue del Figlio di Dio. Questa divina misericordia può gratuitamente raggiungere tutti quelli che la invocano. Infatti la possibilità del perdono è davvero aperta a tutti, anzi è spalancata, come la più grande delle “Porte Sante”, perché coincide con il cuore stesso del Padre, che ama e attende tutti i suoi figli, in modo particolare quelli che hanno sbagliato di più e che sono lontani. La misericordia del Padre può raggiungere ogni persona in molti modi: attraverso l’apertura di una coscienza sincera; per mezzo della lettura della Parola di Dio che converte il cuore; mediante un incontro con una sorella o un fratello misericordiosi; nelle esperienze della vita che ci parlano di ferite, di peccato, di perdono e di misericordia. C’è tuttavia la “via certa” della misericordia, percorrendo la quale si passa dalla possibilità alla realtà, dalla speranza alla certezza. Questa via è Gesù, il quale ha «il potere sulla terra di perdonare i peccati» (Lc 5,24) e ha trasmesso questa missione alla Chiesa (cfr Gv 20,21-23). Il Sacramento della Riconciliazione è dunque il luogo privilegiato per fare esperienza della misericordia di Dio e celebrare la festa dell’incontro con il Padre. Noi dimentichiamo quest’ultimo aspetto, con tanta facilità: io vado, chiedo perdono, sento l’abbraccio del perdono e mi dimentico di fare festa. Questa non è dottrina teologica, ma io direi, forzando un po’, che la festa è parte del Sacramento: è come se della penitenza fosse parte anche la festa che devo fare con il Padre che mi ha perdonato. Quando, come confessori, ci rechiamo al confessionale per accogliere i fratelli e le sorelle, dobbiamo sempre ricordarci che siamo strumenti della misericordia di Dio per loro; dunque stiamo attenti a non porre ostacolo a questo dono di salvezza! Il confessore è, egli stesso, un peccatore, un uomo sempre bisognoso di perdono; egli per primo non può fare a meno della misericordia di Dio, che lo ha “scelto” e lo ha “costituito” (cfr Gv 15,16) per questo grande compito. Ad esso deve dunque disporsi sempre in atteggiamento di fede umile e generosa, avendo come unico desiderio che ogni fedele possa fare esperienza dell’amore del Padre. In questo non ci mancano confratelli santi ai quali guardare: pensiamo a Leopoldo Mandic e Pio da Pietrelcina, le cui spoglie abbiamo venerato un mese fa in Vaticano. E anche - mi permetto - uno della mia famiglia: il padre Cappello. Ogni fedele pentito, dopo l’assoluzione del sacerdote, ha la certezza, per fede, che i suoi peccati non esistono più. Non esistono più! Dio è onnipotente. A me piace pensare che ha una debolezza: una cattiva memoria. Una volta che Lui ti perdona, si dimentica. E questo è grande! I peccati non esistono più, sono stati cancellati dalla divina misericordia. Ogni assoluzione è, in un certo modo, un giubileo del cuore, che rallegra non solo il fedele e la Chiesa, ma soprattutto Dio stesso. Gesù lo ha detto: «Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7). È importante, dunque, che il confessore sia anche un “canale di gioia” e che il fedele, dopo aver ricevuto il perdono, non si senta più oppresso dalle colpe, ma possa gustare l’opera di Dio che lo ha liberato, vivere in rendimento di grazie, pronto a riparare il male commesso e ad andare incontro ai fratelli con cuore buono e disponibile. Cari fratelli, in questo nostro tempo, segnato dall’individualismo, da tante ferite e dalla tentazione di chiudersi, è un vero e proprio dono vedere e accompagnare persone che si accostano alla misericordia. Ciò comporta anche, per noi tutti, un obbligo ancora maggiore di coerenza evangelica e di benevolenza paterna; siamo custodi, e mai padroni, sia delle pecore, sia della grazia. Rimettiamo al centro – e non solo in questo Anno Giubilare! – il Sacramento della Riconciliazione, vero spazio dello Spirito nel quale tutti, confessori e penitenti, possiamo fare esperienza dell’unico amore definitivo e fedele, quello di Dio per ciascuno dei suoi figli, un amore che non delude mai. San Leopoldo Mandic ripeteva che «la misericordia di Dio è superiore ad ogni nostra aspettativa». Era anche solito dire a chi soffriva: «Abbiamo in Cielo il cuore di una madre. La Vergine, nostra Madre, che ai

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piedi della Croce ha provato tutta la sofferenza possibile per una creatura umana, comprende i nostri guai e ci consola». Sia sempre Maria, Rifugio dei peccatori e Madre di Misericordia, a guidare e sostenere il fondamentale ministero della Riconciliazione. E cosa faccio se mi trovo in difficoltà e non posso dare l’assoluzione? Cosa si deve fare? Prima di tutto, cercare se c’è una strada, tante volte la si trova. Secondo: non legarsi soltanto al linguaggio parlato, ma anche al linguaggio dei gesti. C’è gente che non può parlare, e con il gesto dice il pentimento, il dolore. E terzo: se non si può dare l’assoluzione, parlare come un padre: «Senti, per questo io non posso [assolverti], ma posso assicurarti che Dio ti ama, che Dio ti aspetta! Preghiamo insieme la Madonna, perché ti custodisca; e vieni, torna, perché io ti aspetterò come ti aspetta Dio»; e dare la benedizione. Così questa persona esce dal confessionale e pensa: «Ho trovato un padre e non mi ha bastonato». Quante volte avete sentito gente che dice: «Io non mi confesso mai, perché una volta sono andato e mi ha sgridato». Anche nel caso limite in cui io non posso assolvere, che senta il calore di un padre! Che lo benedica, e gli dica di tornare. E anche che preghi un po’ con lui o con lei. Sempre questo è il punto: lì c’è un padre. E anche questa è festa, e Dio sa come perdonare le cose meglio di noi. Ma che almeno possiamo essere immagine del Padre. Ringrazio la Penitenzieria Apostolica per il suo prezioso servizio, e benedico di cuore tutti voi e il ministero che svolgete come canali di misericordia, specialmente in questo tempo giubilare. Ricordatevi, per favore, di pregare anche per me. E oggi anch’io andrò lì, con i vostri penitenzieri, a confessare a San Pietro. LA REPUBBLICA di sabato 5 marzo 2016 Pag 20 Pell, l’imbarazzo del Vaticano: “Indifendibile” di Orazio La Rocca Il cardinale australiano avrebbe coperto gli abusi della sua diocesi. Accuse a un prelato francese Città del Vaticano. Il cardinale australiano George Pell, super prefetto del dicastero dell'Economia vaticana, per la Santa Sede è un "caso". E in Vaticano cresce il silenzioso esercito pronto a brindare per vederlo sollevato d'autorità dal suo prestigioso incarico. «Ormai non è più difendibile» dicono Oltretevere quanti (anche tra vescovi e cardinali) sono rimasti «delusi e sconcertati» per le risposte date dal porporato in teleconferenza alla Commissione australiana che indaga sui preti pedofili nella ex diocesi retta da Pell. Malumori che, però, non emergono nelle parole del portavoce papale, padre Federico Lombardi, che - parlando ieri alla Radio Vaticana - ha dato atto al cardinale di «aver contribuito a purificare la memoria della Chiesa» nella lunga deposizione rilasciata alla Commissione d'inchiesta quando, tra l'altro, ha chiesto scusa per non essere stato capace in passato di difendere le vittime dai preti pedofili. «Per un atteggiamento simile c'è solo una strada da intraprendere, quella delle dimissioni», filtra tra i prelati dei Sacri Palazzi, in particolare negli ambienti della Penitenzeria Apostolica, il dicastero preposto al giudizio sui grandi peccati (i Delicta Graviora), tra i quali le violenze sessuali di prelati sui minori. E c'è anche chi - per sostenere le tesi del "partito" delle dimissioni "immediate" di Pell - ricorda che «è stato proprio papa Francesco a dire, di ritorno dal Messico, che i vescovi colpevoli di omesso controllo sui casi di pedofilia tra il clero devono dimettersi». Di tutt'altro tono l'analisi di padre Lombardi, secondo il quale Pell ha dato «una testimonianza personale dignitosa e coerente» ricordando che «in molti Paesi i risultati dell'impegno di rinnovamento sono confortanti, i casi di abuso sono diventati molto rari e quindi la maggior parte di quelli di cui oggi si tratta appartengono a un passato relativamente lontano di diversi decenni». Un risultato «né piccolo, né indifferente» che per il portavoce pontificio si deve «all'impegno coraggiosamente dedicato dai Papi ad affrontare le crisi manifestatesi successivamente in diversi paesi e situazioni, come Stati Uniti, Irlanda, Germania, Belgio e Olanda, Legionari di Cristo, con norme e ordinamenti di controllo più restrittivi». «Le ammissioni di colpa del cardinale Pell lasciano abbastanza indifferenti, in quanto oramai sono passati 15 anni e ben tre Papi, siamo oramai abituati alle scuse, oramai non più credibili per noi vittime», risponde invece Francesco Zanardi, portavoce della rete L'Abuso, organismo di tutela e di denuncia di casi di pedofilia tra il clero. Ma proprio ieri da Lione è arrivata un' altra pesantissima denuncia per un cardinale, il francese Philippe Barbarin, accusato di aver

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coperto alcuni sacerdoti colpevoli di violenze sessuali nei confronti di scout nel periodo compreso fra il 1986 e il 1991. IL FOGLIO di sabato 5 marzo 2016 Pag 1 Francesco l’europeo di mat. mat. Come il Papa vede il futuro dell’Europa, tra difesa delle radici e identità mutabile Roma. E' vero che Francesco, nel suo primo triennio di pontificato, di Europa ha parlato poco, preferendo focalizzarsi su altre aree del pianeta, quelle periferie esistenziali che attendono l'apertura degli ospedali da campo chiamati a sanare le ferite dei più lontani. Ma il Papa "una chiara percezione europea ce l'ha, e l'ha fatto chiaramente intendere quando ha spiegato di essere favorevole al processo d'integrazione politica", dice al Foglio Stefano Ceccanti. Il costituzionalista di area cattolico democratica qualche giorno fa ha partecipato all'udienza concessa da Francesco al movimento dei Poissons Roses, che si rifà all'esperienza del cristianesimo sociale francese. Un incontro dove s'è parlato di tutto, "una sorta di ping-pong in cui ci si interrogava a vicenda. Lo stile era diretto, i temi toccati sono stati tanti", aggiunge: dalla laïcité à la francese - "direi che la sua raccomandazione è stata quella di laicizzare la laicità, cioè di farla finita con l'ideologizzazione ma puntando su una chiara distinzione tra stato e chiesa" - fino alla capacità degli italiani "buoni mediatori" ma poi sempre pronti a darsi calci sotto il tavolo del negoziato. Su tutto, il riferimento costante alla periferia, "il primo termine chiave, in senso sia geografico sia esistenziale", dice Ceccanti. Quel che rileva - anche perché rappresenta un filone assai poco indagato nel mare magnum di riflessioni sul Pontefice culturalmente figlio del cattolicesimo sudamericano è la visione che ha Francesco circa il destino dell' Europa, da lui considerata "l'unico continente capace di apportare una certa unità al mondo". Non la Cina, che non ha "una vocazione di universalità e di servizio". "Francesco - ricorda il nostro interlocutore - è partito dal discorso pronunciato a Strasburgo nel novembre del 2014, quindi ha ricordato il padre fondatore Robert Schuman e quanto da lui fatto per l'integrazione". Quel che forse ha stupito, semmai, è l'approccio del Papa, che "si colloca un po' tra l'apparato concettuale di Paolo VI e la classica spontaneità latinoamericana", osserva Ceccanti. C'è un passaggio in particolare delle parole di Bergoglio che aiuta a decrittarne (per quanto possibile) gli ideali di riferimento, ed è quello in cui ha spiegato il senso della sua preferenza alla scuola gesuita di stampo francese, anziché spagnolo: "La corrente francese comincia molto presto, fin dalle origini, con Pierre Favre. Ho seguito questa corrente, quella di padre Louis Lallemant. La mia spiritualità è francese. Il mio sangue è piemontese, è forse questa la ragione di una certa vicinanza. Nella mia riflessione teologica mi sono sempre nutrito di Henri de Lubac e di Michel de Certeau. Per me, De Certeau resta a tutt'oggi il più grande teologo". Che qualcosa sia cambiato, nella posizione della chiesa riguardo l'Europa lo dimostra anche il riferimento che Francesco ha fatto alle radici cristiane dell'occidente, tema che per anni ha dilaniato coscienze e governi, fino al naufragio del progetto di Costituzione europea: "L'attuale Pontefice declina la questione in modo diverso, l'identità di cui si parla non è fissa", dice Ceccanti: "Non è che gli altri arrivano e si devono adeguare. Bergoglio propone di rinnovare e di riproporre in modo moderno queste radici, rifacendosi a Mounier, Ricoeur, Lévinas. E questo è possibile perché l'Europa è in grado di assorbire le spinte esterne, di resistere alla mescolanza di identità diverse". Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA di domenica 6 marzo 2016 Pag 25 La spinta (e la fatica) delle over 55. Negli uffici sono sempre di più di Rita Querzè Le donne e il lavoro C’è la generazione del rimpianto. È quella delle trentenni che rinunciano ai figli perché tenere insieme tutto è troppo difficile. Nel 2015 sono nati 488 mila bambini, mai così

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pochi dall’Unità d’Italia. Ma c’è anche la generazione della rabbia rassegnata. Quella delle cinquanta-sessantenni. Donne che, anche volendo, non si possono dimettere da nonne. Tantomeno da figlie. E nemmeno da madri. È questa la categoria delle invisibili. Stanche, sotto pressione. Spesso pronte alla resa. Perché da una parte il mondo del lavoro ti chiede di esserci, e con regole d’ingaggio sempre più pressanti. Dall’altra la voglia di tenere le posizioni ci sarebbe. Ma le energie mancano. La riforma Fornero ha fatto salire nell’arco di sei anni (dal 2011 al 2017) l’età della pensione di vecchiaia da 60 anni a 66 e 7 mesi. A casa però ci sono i nipoti: le famiglie stanno tagliando le spese per asilo nido, colf e babysitter e l’aiuto dei nonni (più spesso delle nonne) diventa sempre più indispensabile. Inoltre ci sono i genitori anziani. Anche loro bisognosi di cure. Le statistiche sul lavoro lo ribadiscono di trimestre in trimestre: la classe di occupati in aumento costante è quella dei 55-64enni. È appunto l’effetto Fornero. Che pesa, però, in maniera diversa tra donne e uomini. Le over 55 al lavoro erano 522 mila nel terzo trimestre ’95 e sono diventate 1,498 milioni nel terzo trimestre dell’anno scorso. Più 287% in venti anni. Un milione in più di cinquanta-sessantenni ancora negli uffici e nelle fabbriche. Nello stesso periodo i coetanei al lavoro sono aumentati, ma di meno: più 159% (da 1,39 a 2,21 milioni). Se nel terzo trimestre ‘95 erano donne il 27,3% degli over 65 al lavoro, oggi la quota è salita al 40,4%. In tutto questo l’Italia non è sola. Il fenomeno, seppure in un contesto molto diverso, ha preso forma anche negli Stati Uniti. Come ha rilevato nei giorni scorsi un’inchiesta del Wall Street Journal , nel 1992 le americane over 65 al lavoro erano una ogni dodici. Oggi sono diventate una su sette. Qui poi le donne restano al lavoro oltre la pensione. Ma torniamo in Italia. In un Paese ancora lontano dal poter considerare vinta la sfida del lavoro femminile, l’aumento delle impiegate potrebbe essere considerato una buona notizia. In realtà, le nuove regole della previdenza mettono le ultracinquantenni al lavoro davanti a un doloroso dilemma. Tenere duro davanti al triplo ingaggio ufficio-nipoti-genitori anziani - in nome dello stipendio e anche di un’equità dei ruoli all’interno della famiglia. Oppure mollare. E tornare a casa. Niente busta paga (per chi se lo può permettere). Ma anche meno stress. È così che ragionano le supporter del modello «Opzione donna». Introdotto come sperimentazione nel 2011, questo sistema ha consentito a 28 mila donne tra 2009 e 2014 di andare in pensione in anticipo (57 anni per le dipendenti e 58 per le autonome) ma con il sistema contributivo, cioè accontentandosi di una pensione più bassa del 30%. Nel 2015 la sperimentazione si è chiusa ma c’è chi la vorrebbe riaprire. «Secondo l’Inps siamo in 36 mila interessate a questa exit strategy - racconta Maria Antonietta Ferro, tra le animatrici del gruppo Facebook che chiede la proroga di opzione donna al 2018 -. Non stiamo pretendendo nulla che non ci spetti, vogliamo solo riprenderci i soldi versati con i nostri contributi. Non un euro in più. Ma restare nella prigione del doppio o triplo ruolo sta diventando insostenibile». «A monte di tutto resta il problema della non equa divisione dei compiti di cura - fa presente Claudio Lucifora, docente di Economia alla Cattolica di Milano -. Fino agli anni 80 e ai primi 90 si è avuta un’accelerazione nel riequilibrio dei compiti. Ora questo processo è inspiegabilmente rallentato. In economia c’è chi teorizza che sia più efficiente una forma di specializzazione che affidi alle donne i compiti di cura. Insomma, c’è tanta strada da fare. E le cinquanta-sessantenni sono sotto pressione se non altro perché in casa si trovano ancora prigioniere di vecchi modelli di divisione dei compiti». «Non contestiamo l’idea di una età della pensione uguale per tutti - sottolinea Marisa Montegiove, a capo del gruppo donne di ManagerItalia, sindacato dei dirigenti -. Il problema è che si è arrivati a questo senza darci i servizi e i supporti necessari. E senza aver lavorato abbastanza sul tema della condivisione». Intanto il governo sta pensando a forme di flessibilità per chi vuole uscire prima dal lavoro. Avrebbe senso declinarle solo al femminile? «No - risponde la dirigente -. Il modello Opzione donna non può essere la soluzione». Certo le dirigenti hanno dal lavoro soddisfazioni superiori alla media. Molte altre donne potrebbero pensarla diversamente. AVVENIRE di domenica 6 marzo 2016 Pag 6 Tempo di riflessioni serie sulla crisi della maternità di Maurizio Calipari Il prossimo convegno nazionale (27-28 maggio) dell’associazione Scienza & Vita, dedicato al tema «Nati da donna. Femminilità e bellezza», sarà occasione per

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approfondire e valorizzare la preziosità dell’essere donna, senza mancare di coniugare questa prospettiva nel contesto culturale della società occidentale. Tra le direttrici di riflessione che il convegno svilupperà, grande attenzione alla dimensione della fertilità – per l’occasione declinata al femminile – che le più recenti statistiche mostrano in marcata diminuzione, tanto in Italia (in misura maggiore) quanto in Europa. Sarà Felice Petraglia, ordinario di Ginecologia e ostetricia e direttore della Clinica ostetrica e ginecologica dell’Università di Siena, a introdurre ed approfondire il tema. Negli ultimi 60 anni, profonde variazioni demografiche hanno modificato comportamenti e strutture della popolazione italiana e del mondo occidentale. Tra queste, una forte riduzione della natalità nel nostro Paese che, negli ultimi anni, si è attestato come dato costante: «Questa dinamica vede due fronti opposti – osserva Petraglia –: lo straordinario aumento della sopravvivenza da un lato e la fortissima riduzione della fecondità dall’altro. Ma l’aumento dell’infertilità è legato in gran parte all’età avanzata in cui si cerca il primo figlio». In effetti, l’età media delle madri italiane al parto è salita a 31,5 anni. In Europa va un po’ meglio, visto che la metà delle donne partorisce il primo figlio a un’età compresa tra i 20 e i 29 anni. Da noi, invece, il 54,1% delle donne arriva al primo parto addirittura tra i 30 e i 39 anni. «In più – precisa Petraglia – assistiamo a una vera e propria esplosione di 'mamme tardive' (over 40) che raggiungono il 6,1% delle primipare, mentre la media europea è del 2,8». Dunque, sembra che la denatalità non abbia alla sua base altro aumento dell’infertilità che quello naturale, dovuto alla ricerca tardiva della maternità. A questa, poi, consegue un incremento del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, con ulteriori effetti sulle dinamiche mediche, socio-economiche e bioetiche. È la scienza a insegnare che la fertilità femminile, dopo la fase di piena maturità, diminuisce sensibilmente col trascorrere degli anni. «Fisiologicamente con l’aumento dell’età della donna si osserva una riduzione del numero di follicoli ovarici e un peggioramento della qualità ovocitaria. A partire dai 30 anni si stima una riduzione della fertilità del 3% ogni anno. E poi si osserva un progressivo aumento dell’incidenza di patologie ginecologiche spesso causa d’infertilità». Un cane che si morde la coda: la posticipazione dell’età al primo figlio contribuisce alla diminuzione della fertilità e aumenta il rischio d’insorgenza di patologie che impattano negativamente sulla fertilità. E anche quando si ricorre alle tecniche di fecondazione artificiale (con gli attuali scarsi tassi di successo), comunque ci si espone a un’aumentata percentuale di problemi medici connessi alla gravidanza tardiva. Anche dal punto di vista socio-economico c’è stato un indubbio mutamento di prospettiva. Le donne spesso preferiscono realizzarsi in ambito professionale e di coppia, risolvendo i problemi pratici, organizzativi ed economici prima di diventare madri. Oltretutto, in Italia continua a lasciare il segno anche la crisi economica, spingendo in molti casi le coppie a posticipare ulteriormente la decisione di avere figli in attesa di una condizione lavorativa meno precaria, con un’evidente correlazione tra bassa fecondità e bassa occupazione femminile. Perciò, aggiunge Petraglia, «l’impegno dovrebbe essere il sostegno della maternità tramite lavori flessibili, la promozione del reingresso nel mercato del lavoro per le donne che lo abbiano abbandonato dopo la nascita del figlio, di una rete di servizi per la prima infanzia e di misure di conciliazione tra vita familiare e lavorativa». L’aumento dell’età materna e dell’infertilità, poi, ha inevitabilmente portato le coppie interessate a intraprendere percorsi che si allontanano dalla fisiologia della riproduzione umana, aperti dal travolgente progresso tecnologico, e che pongono importanti problematiche bioetiche. «La sfida dei progressi medici e delle biotecnologie pone alla bioetica numerosi e spinosi dilemmi e innesca paradossi di difficile soluzione – è la riflessione di Petraglia –. Di fronte a essi, dal momento del concepimento alla morte, e in ogni situazione di sofferenza o salute, è la persona umana l’irrinunciabile punto di riferimento e la misura tra lecito e non lecito». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 20 “Ecco il porto fuori dalla Laguna per le Grandi Navi a Venezia” di Elvira Serra

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Il progetto dell’ex viceministro De Piccoli: turisti in città con barconi elettrici Il luogo prescelto è la Bocca di Lido di Venezia, tra le dighe di Punta Sabbioni e di San Niccolò, all’esterno delle paratoie del Mose verso il mare e, quindi, fuori rispetto alla Laguna. Segni particolari: la struttura poggia su cassoni autoaffondanti, è formata da moduli prefabbricati (dunque completamente reversibili), consente l’ormeggio di cinque grandi navi da crociera. È il Nuovo Terminal Crociere di Venezia. O meglio, così potrebbe essere. Per adesso è soltanto un progetto, al vaglio della Commissione nazionale di Valutazione ambientale. «Il gigantismo navale è una modalità del nostro tempo, è impensabile rinunciare al turismo crocieristico. Con questa proposta viene salvaguardata la città antica, ma anche la Laguna», spiega Cesare De Piccoli, già vicesindaco di Venezia e viceministro dei Trasporti durante il governo Prodi. È lui il promotore, con Dp Consulting srl e con Duferco Italia Holding spa, del progetto «Venis Cruise 2.0» che ha l’ambizione di abbattere le controindicazioni collegate al passaggio delle grandi navi. «Punto di arrivo dei passeggeri resta la Stazione Marittima. I turisti saranno imbarcati su una motonave di nuova generazione che richiama nella sagoma le vecchie motonavi del 1934, ma che è a propulsione elettrica e grazie al doppio scafo non crea moto ondoso. Ognuna potrà caricare 1.000 passeggeri. Abbiamo fatto una simulazione su una giornata picco e abbiamo calcolato che servirebbero sei motonavi per diecimila passeggeri, mentre i bagagli saranno trasferiti sulle motochiatte che, a differenza delle altre, non passeranno nel Canal Grande». Per le infrastrutture (motonavi escluse) serviranno 148 milioni di euro e ventisei mesi di lavoro. «Una volta che il ministero dell’Ambiente darà il parere positivo, il progetto passerà a quello delle Infrastrutture, al quale spetta darci l’autorizzazione d’intesa con l’autorità portuale. Dopo, ci sarà un bando europeo. Chi paga? Potrebbe esserci un partenariato pubblico e privato». L’Autorità portuale, però, su tutto il «pacchetto» è tranchant. Il presidente Paolo Costa dice: «Un privato ha pieno diritto di promuovere una sua proposta intelligente, ma sta a noi accoglierla e nessuno ci ha presentato niente, dunque il progetto non esiste. Naturalmente non posso far finta di non saperne nulla e, per quel che possiamo valutare, questo Nuovo Terminal ha troppe criticità per poter essere realizzato. Riguardano tutte la sicurezza, anzitutto della navigazione. Ma ci sono fragilità anche rispetto a una ipotetica minaccia terrorismo: è già difficile controllare il flusso dei bagagli in un unico posto, figuriamoci con questa soluzione, che inoltre ha il difetto di incoraggiare troppo il turismo crocieristico: non si era detto di non aumentare il flusso?». A Luciano Mazzolin, di Ambiente Venezia e del Comitato No Grandi Navi, il progetto invece piace: «Noi lo abbiamo seguito fin dall’inizio, la scelta della Bocca di Lido va bene. Ci sembra la soluzione migliore tra quelle presentate finora e inoltre salvaguarda i posti di lavoro dei nostri portuali». Per Giuseppe Cristanelli, già docente universitario di restauro architettonico che ha seguito il progetto di inserimento paesaggistico, «il risultato è estremamente semplice e sommesso. Si trattava di fare qualcosa che non fosse da archistar e in armonia con l’ambiente della Laguna». CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 marzo 2016 Pag 8 Quelle voci di Ca’ Farsetti su metà giunta già in bilico di f.b. Dietro le quinte Venezia. Un cambio l’ha già fatto a tempo di record, sostituendo Rossana Pavan al Commercio (ufficialmente ha lasciato lei per motivi personali). Altri potrebbero arrivare non troppo lontano nel tempo. I malumori sono tanti, così come le indiscrezioni di palazzo che nelle ultime settimane si stanno moltiplicando. Sarà la luna di miele tra sindaco, cittadini e associazioni che scricchiola, con le pacche sulle spalle sostituite dalle prime critiche, saranno le difficoltà che comporta essere assessore di Venezia, fatto sta che almeno un terzo della squadra del sindaco è già in bilico. Da una parte l’insofferenza di Luigi Brugnaro, dall’altra quella degli stessi assessori che si sentono imbrigliati nella «rete» che il sindaco ha costruito, anche attraverso i più stretti collaboratori. Tutti i provvedimenti devono passare sulla sua scrivania, interventi e interviste ridotte all’osso, autonomia non pervenuta. Nel mirino sarebbero finiti l’assessore alla Sicurezza Giorgio D’Este, su cui il sindaco pare nutrire diverse perplessità, l’assessore ai Lavori pubblici Francesca Zaccariotto che con l’imprenditore non ha mai avuto feeling. I due avrebbero

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potuto collaborare fin dalla campagna elettorale ma l’ex presidente della Provincia aveva preferito andare da sola lanciando la sfida (poi persa). Alla fine è arrivato l’appoggio al ballottaggio e il posto in giunta è stato quasi automatico, ma al sindaco pare non piacere il modo con cui Zaccariotto sta affrontando il suo lavoro a Ca’ Farsetti. Nell’occhio del ciclone anche l’assessore ai Trasporti Renato Boraso, reo di avere troppa visibilità e di intervenire spesso nelle discussioni. E il collega all’Urbanistica Massimiliano De Martin che non riuscirebbe a gestire al meglio il settore con l’accusa da parte di associazioni e ordini di immobilismo. Pag 15 Amy e Nicole spose, il primo “sì” in gondola di Elisa Lorenzini Crescono le nozze gay in laguna: agenzie e hotel si specializzano Venezia. Hanno aspettato che smettesse di piovere per promettersi amore eterno in gondola. Nei rii dietro il Teatro la Fenice le due donne Amy, in abito bianco e Nicole, in grigio, si sono scambiate le promesse e gli anelli davanti alla wedding planner di origini californiane Emanuela «Ema» Giangreco, specializzata in nozze gay e prestata per l’occasione nel ruolo di «minister of cerimony». Amy e Nicole hanno 30 e 33 anni, vengono da Denver nel Colorado e hanno scelto Venezia per realizzare il loro sogno d’amore iniziato due anni fa in una clinica dove Amy era entrata per un tumore e Nicole era l’infermiera. Ora che è guarita hanno scelto di fare il grande passo. Come loro sono tantissime le coppie gay straniere che scelgono Venezia per il «sì» e la luna di miele, tanto che sempre più agenzie, servizi e hotel si stanno specializzando in questa accoglienza. Amy e Nicole hanno fatto tutte le pratiche negli States, per la legge americana il loro è un matrimonio valido a tutti gli effetti, cosa che in Italia non sarebbe stato possibile. A quel punto sono volate per la prima volta nella città più romantica del mondo per la cerimonia. «Mi hanno contattata su Internet – racconta la wedding planner – e alla fine abbiamo scelto una cerimonia in gondola. Ho scritto per loro il discorso come si usa fare negli Stati Uniti, un testo che parla dell’amore e della coppia e ho sperato fino all’ultimo nel meteo. Il format americano è ricco di sentimenti, lontano da quanto si fa in Italia in cui ci si limita a leggere degli articoli del Codice civile o dei passi del Vangelo». L’amore è stato più forte del brutto tempo: alle 11.30 ha smesso di piovere e il bancale del Giglio Maurizio Galli ha organizzato in velocità il romantico tour. «In gondola hanno trovato a sorpresa una violinista, ho voluto far loro questo dono, sono due ragazze dolcissime», spiega Ema Giangreco. Da Venezia partiranno in luna di miele per Firenze e Roma prima di tornare a casa. Per Giangreco è il quarto matrimonio omosessuale che organizza in città. «Con queste cerimonie vogliamo anche sostenere i diritti gay – dice – spero che l’Italia abbia presto una legge che aiuti gli italiani omosessuali che vogliono sposarsi». A luglio la prossima cerimonia: un’australiana sposerà un’italiana. LA NUOVA di domenica 6 marzo 2016 Pag 2 Brugnaro taglia il corso sulla diversità sessuale di Enrico Tantucci Gender e polemiche Venezia. Zappalorto l’aveva avviata e Brugnaro l’ha fermata. Parliamo dell’attuazione del protocollo d’intesa che il Comune di Venezia aveva sottoscritto con il Comune di Torino per i corsi legati alla strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Si trattava, in pratica, di corsi rivolti soprattutto a dirigenti di istituzioni statali con psicologi, sociologi e altri esperti per “insegnare” loro ad affrontare nel lavoro situazioni legate ad esempio alla presenza ad esempio di dipendenti dichiaratamente gay o di dipendenti lesbiche, senza che appunto siano soggetti a discriminazioni da parte di colleghi. L’iniziativa vedeva appunto il Comune di Torino come capogruppo e questi aveva a sua volta proposto un protocollo d’intesa - sottoscritto nel febbraio 2015, durante la gestione commissariale di Vittorio Zappalorto - con quello di Venezia affidandogli sul suo territorio l’organizzazione dei corsi anti-discriminazione sessuale per tutto il Nordest, coinvolgendo gli enti statali di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. L’accordo prevedeva appunto che il Comune di Venezia organizzasse due giornate di formazione rivolte ai dirigenti di Pubbliche amministrazioni e parti sociali del Triveneto e che realizzasse

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quindi un evento finale che facesse un bilancio dell’iniziativa e ne traesse le conclusioni, indicando gli obiettivi raggiunti in base a quanto previsto dal protocollo d’intesa. A questo scopo il Comune di Torino aveva “girato” al Comune di Venezia un contributo di circa 22 mila euro per la realizzazione di tutto il programma contro la discriminazione sessuale sul suo territorio. Il 20 e 21 maggio dello scorso anno - ancora sotto la gestione Zappalorto - si sono regolarmente svolte le due giornate di formazione con i dirigenti statali. Ma dell’evento finale che avrebbe dovuto tirare le conclusioni della strategia di prevenzione per contrastare la discriminazione in base all’orientamento sessuale non c’è traccia. Semplicemente, il Comune e la nuova amministrazione hanno deciso di non organizzarlo più, nonostante il protocollo d’intesa sottoscritto. Al punto che il Comune, con una determina, ha restituito al Comune di Torino circa 15 mila euro dei 22 mila euro stanziati. Quelli che appunto sarebbero serviti per l’organizzazione della giornata conclusiva del corso. Un fatto decisamente inatteso - anche perché non si trattava di risparmi di spesa, visto che i soldi erano stati stanziati da altri - di cui il Comune di Torino ha preso atto. L’episodio si inserisce, però in una serie di prese di posizioni molto decise del nuovo sindaco rispetto al tema dell’orientamento e della diversità sessuale: dal ritiro dalle scuole comunali dell’infanzia di alcuni libri che introducevano il tema dell’orientamento sessuale, alla polemica con la popstar Elton John - dichiaratamente gay - per il ricorso all’utero in affitto per la possibilità di avere figli anche per le coppie omosessuali, fino alla partecipazione alla manifestazione di Roma contro la legge sulle unioni civili. Argomenti per Brugnaro tutti decisamente indigesti. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DELLA SERA di domenica 6 marzo 2016 Pag 13 Nel tendone va in scena il dramma dei veneti ingannati dai veneti di Gian Antonio Stella La collera contro gli ex vertici: “Ecco cos’è la nostra classe dirigente” Lepanto! Cosa c’entri la battaglia di Lepanto con lo sfascio della «Popolare» di Vicenza non lo sapremo mai. Il socio che l’ha tirata in ballo voleva paragonare i vertici della banca o quelli della Bce ai feroci saraceni? Non lo sapremo mai. Al nuovo scoppio di cagnara gli hanno spento il microfono. Bip! Certo l’irruento azionista voleva ammonire sulla svolta epocale. Lì per l’Occidente, qui per il Nordest. La terra del mito ora tramortita: ma come, non era forse la Popolare solo tre anni fa la terza banca del Paese, capace di capitalizzare quanto Carige, Monte dei Paschi e Popolare di Milano messi insieme? Macché. Tutto finto. «Te ga da morir tute le visele!». Ti devono morire tutte le vigne!, dice il cartello di un azionista. E se su Lepanto c’erano dei dubbi, qui no: il moccolo è tutto per Gianni Zonin, «il vignaiolo». L’ex presidente della Banca che per anni, tra i cori e gli osanna dei soci più entusiasti aveva ripetuto il mantra: tutto benissimo, qualche difficoltà passeggera ma «la Popolare non ha seguito gli alti e bassi del mercato, non è stata preda delle montagne russe e dei mercati borsistici, ed è rimasta sempre coerente con il suo valore». «Se anche tutto il vino di Zonin dovesse andare in aceto lui può rifarsi alla vendemmia successiva», urla un azionista, «Ma noi non abbiamo altre vendemmie. Quello che abbiamo perso l’abbiamo perso per sempre. Non possiamo rifarci!» E dietro il crollo del 90% delle azioni di quello che per i vicentini era il salvadanaio, riconosci una paura di tanti veneti. Di tornare poveri. Ma certo, dal boom degli anni Sessanta la regione, l’unica a perdere abitanti tra i censimenti del ‘51 e del ‘61 si è lasciato alle spalle la miseria. Le canzoni come «Mamma papà non piangere / non sono più mondina / sono tornata a casa / a far la contadina». L’esodo: «Andemo in Transilvania a menar la carioleta che l’Italia povareta no’ ga bezzi da pagar». I casoni col tetto di paglia. E tutti i capannoni che circondano questo della «Perlini Equipment» a Gambellara che ospita l’assemblea sono lì a ricordare quanto sia forte il profilo industriale di questa provincia che già vent’anni fa esportava da sola come la Grecia e insieme con Treviso come l’Argentina. Sotto sotto, però, il ricordo della povertà e delle vacche morte di malattia disseppellite e sbranate dai nonni pazzi di fame («Una scena che ricordava i negri dell’Africa e i cannibali dell’Oceania», scrisse Adolfo Rossi) era

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rimasto come una sottile inquietudine. Che la crisi e lo smottamento della «Popolare» hanno fatto riemergere. «Sono un pensionato di Padova», dice con voce incerta, sul palco, un vecchio coi capelli bianchi, «Nel 2012 mi han fatto comprare azioni ma gli avevo detto che non compravo se non mi assicuravano che in caso di difficoltà potevo ritirare i miei soldi. «Nessun problema, può farlo in cinque giorni», mi hanno detto. Nel 2013 hanno fatto l’aumento di capitale e di nuovo ho tirato fuori soldi. Mi han rubato tutto. Erano i piccoli risparmi di tutta la mia famiglia…», e se ne va per non scoppiare in lacrime davanti a tutti. Ed ecco che, nel gelo di questo capannone surriscaldato dalla rabbia, dall’esasperazione, dal rancore, va in scena lo psicodramma di una terra che si sente tradita. Un inganno doloroso. Inatteso. Ma come: veneti traditi da veneti! Basta sentire il vecchio avvocato Gianfranco Rigon ma più ancora certe reazioni al suo sfogo. «Iorio è andato in America per parlare con nuovi soci, la mafia siculo-americana, per esempio. Noi non vogliamo questa gente qua. Noi siamo veneti!», dice con fierezza campanilistica, «Vogliamo che la banca sopravviva ma non imbastardendosi con gente che non ha a che fare con la nostra cultura». E in platea: «E i “nostri” allora?». Un’anziana ma pugnace signora viene intercettata dalla Rai: «Come va?» «Sono avvelenatissima. Anche perché alternative zero» «Se avesse davanti Zonin che cosa gli direbbe?» «Ah, dirgli niente: strozzarlo di certo». Un signore col berrettino blu: «Io sono un attivista per il no. Questi sono ladri e farabutti. È giusto che non la vincano». «Ecco cos’è la classe dirigente veneta!», attacca un socio dal palco, «Questi qui vanno a far compagnia ai Galan, ai Chisso, a quelli del Mose…». Tra i più battaglieri, le donne. «So che non accadrà perché siamo in uno Stato fondato sulla corruzione», dice una signora coi capelli a caschetto e una cordicella blu agli occhiali, «Ma auguro a chi ha fatto tutto questo di ridursi in miseria!» «Abbiamo dato i nostri soldi a un branco di scimmie!», urla furibonda un’altra, «Devono andare in galera!» «Mi chiamo Barbara Venuti, sono di Udine», si presenta una giovane, «Finché avrò fiato mi batterò per mio papà e mia mamma ai quali hanno rifilato 28.000 azioni che oggi sono carta straccia. Voglio i nomi dei colpevoli e che passino notti insonni. Insonni come le abbiamo passate noi». La signora Munaretto: «E noi dovremmo dare fiducia a un cda che nel 2015, mentre la banca crollava, si è aumentato gli stipendi del 9%? No, no, no!». Una donna di mezza età con una cascata di capelli rossi e un foulard a fiori: «Votiamo no a questo ladrocinio!». Quasi in duecento, si erano iscritti a parlare. Per ridursi via via che qualcuno sentiva la collera propria già espressa da altri, a un centinaio e passa. Soci pirandelliani: «Mi chiamo Lucio Ferronato, sono un imprenditore tradito. Uno dei tanti, diciamo uno, nessuno e 117.000…» Soci omerici: « Io mi chiamo Nessuno perché con questa banca mi sento nessuno». Soci speranzosi come Giuliano Xausa: «Per i vecchi scafisti nessuna pietà. Ai nuovi dico: portate questo barcone fuori da queste acque tempestose, ma nel rispetto e salvaguardando i soci, i dipendenti e i clienti». Soci schifati come Gregorio Piva: «L’unica certezza che ho è che ai pesci grossi è stato permesso di portarsi a casa i loro soldi guadagnandoci e invece a noi piccoli hanno svuotato le tasche e siamo qui a soffrire per scelte scellerate». Soci avvelenati come Alberto Artoni, che non può accettare che dodici dei consiglieri siano quelli di prima e prende di petto l’ad: «Quando va in consiglio di amministrazione non le viene da vomitare, dottor Iorio?» Soci apocalittici come Pasquale Tecchia: «Abbiamo comprato azioni a 62 euro e abbiamo un pugno di mosche. E allora, macché borsa e Spa: muoia Sansone con tutti i Filistei!». Finché arriva il momento di votare. E lì, come previsto, passa il sì. Perché certo, la collera è tanta, ma ormai va contenuto il danno. I schei xè schei… CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 La vera partita inizia adesso di Claudio Trabona Il nodo aumento di capitale Ora che il grande passo della trasformazione in società per azioni è stato compiuto anche per la Banca Popolare di Vicenza, è tanto scontato quanto tremendamente vero affermare che la vera partita per il futuro si gioca adesso. Una partita che si chiama aumento di capitale e si traduce in una domanda assai complicata: adesso chi ci metterà i soldi? Il grande popolo dei soci stremato dalla distruzione di valore? Gli hedge funds? Le Fondazioni bancarie? Noccioli o nocciolini duri di industriali locali? Il momento è

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delicato, lo scenario per niente favorevole. La fuga dalle Borse europee - e in particolare da quella italiana - dei grandi investitori internazionali fa ancora malissimo ai prezzi delle società quotate. Ma quella che serve, sopra ogni cosa in questo frangente, è la fiducia, ovvero il pilastro di cemento su cui tutto si regge. L’amministratore delegato Francesco Iorio ha parlato di buoni riscontri e di interesse della comunità finanziaria nel corso del suo roadshow internazionale per spiegare la quotazione in Borsa prossima ventura. Non c’è motivo di non credergli. Ma che questo si traduca in una risposta concreta al momento della sottoscrizione è ancora da vedere. Chi fa business ora tende a stare alla larga dalle banche, specie da quelle come Popolare di Vicenza che sono gravate da cinque di miliardi di crediti anomali. Si dirà: vabbè, c’è Unicredit che ha garantito l’intero importo della ricapitalizzazione, alla peggio i soldi arriveranno da lì. Ma il grande gruppo milanese non sembra fremere davanti a questa ipotesi. Ha i suoi bei grattacapi, e sborsare un miliardo e mezzo per l’aumento avrebbe un effetto imprevedibile sul suo titolo. E poi, che Bpvi che possa diventare una controllata di Unicredit è una cosa che in questo momento nessuno prende in considerazione. Le conseguenze finanziarie ma anche industriali non sembrano affatto suggerire che questa sia la strada positiva da percorrere. Alla fine molti degli attuali piccoli soci - decine di migliaia - metteranno mano al portafoglio e sottoscriveranno, nella convinzione che non farlo sarà anche peggio per i loro risparmi già quasi liquefatti. Lo faranno, anche se sanno che la nuova banca spa potrebbe valere, come capitalizzazione di Borsa, anche meno dell’aumento che scatterà in aprile. La loro adesione non sarà totale e non basterà, comunque. C’è tutto un mondo della finanza - istituzionale o professionale che sia - da convincere a fare la sua parte. E non bisogna averne paura se è vero, come ha ricordato in assemblea Iorio, che i fondi internazionali di investimento sono grandi soci da tempo di Ubi, Banco Popolare, Bpm, insomma di quegli istituti cooperativi che hanno potuto continuare a recitare il proprio ruolo nel territorio. Ecco, la parola magica che ricorre, e che talvolta è stata usata proprio male, perché si è tradotta nella tutela di interessi e potentati locali. Nel nome del territorio - è bene ricordarlo - sono stati perpetrati veri e propri reati di cui si stanno occupando le procure. Non è a questo uso che Iorio si riferisce. È al territorio inteso come luogo privilegiato in cui le banche rendono servizio, erogano credito, sostengono le imprese. Fanno, insomma, il loro mestiere e il loro dovere. E se tutto questo avviene con un proprietario diverso, o con tanti azionisti che vengono anche da lontano, poco importa. Purché i nuovi assetti siano governati da sistemi di controllo e trasparenza più efficaci di quanto si sia visto finora. Se tante sono le incognite sull’aumento della Popolare di Vicenza, e di Veneto Banca che è un caso-fotocopia, va anche spesa una parola di speranza. Non dimentichiamolo: chi si compra questi due istituti compra soprattutto Nordest d’Italia, che è sì tanto ammaccato da una crisi quasi decennale, ma tuttora scrigno di multinazionali tascabili, di innovatori industriali, di risparmiatori formidabili. Di questo, forse, si ricorderà qualcuno. Magari quel mondo stesso dell’industria o delle Fondazioni bancarie che adesso, per forza di cose, sta alla finestra. IL GAZZETTINO di domenica 6 marzo 2016 Pagg 2 – 3 Popolare Vicenza evita il baratro: sì a spa e Borsa di Maurizio Crema A Pasqua nuova assemblea. Zaia: “Così in Veneto si è chiusa l’era delle Popolari”. Variati: “I soci si mettano insieme” Gambellara (Vicenza) - «È andata meglio del previsto, anche un 68% a favore della spa per me sarebbe andata bene. Davanti avevamo un’opposizione organizzata». Il consigliere delegato di Popolare Vicenza Francesco Iorio dopo otto ore di assemblea dribbla le domande, qualche abbraccio, strette di mano, un sorriso tirato ma niente conferenza stampa. Il via libera con l’81,95% di sì e quasi duemila voti contrari su 11353 votanti (17%) alla trasformazione in spa della Popolare che proprio quest’anno compie 150 anni è stato sofferto più per la sfilza di dichiarazioni di voto negative ed aspramente critiche nei confronti della gestione degli ex Gianni Zonin e Samuele Sorato che per i numeri veri e propri. Anche se il paragone con Veneto Banca - votazione bulgara col 97% di sì - un po’ brucia. Ma il 19 dicembre del 2015 erano altri tempi: in Borsa come sul mercato. L’impressione è che l’opposizione organizzata dai vari comitati locali che avevano nel prete coraggio mestrino don Enrico Torta uno dei simboli e nel movimento dei "forconi" forse degli antesignani abbia cavalcato lo scontento per la

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perdita secca dei 119mila soci - prezzo di recesso (virtuale, non ci sono fondi) a 6,3 euro quando l’azione quotava ancora 48 euro - e un cda che per i due terzi era ancora composto da consiglieri vicini a Zonin o eletti insieme a lui. Che hanno pensato bene di non presentarsi davanti ai quasi seimila soci venuti di persona nei capannoni della Perlini di Gambellara, a un tiro di schioppo dalle cantine di Zonin: in assemblea c’erano solo cinque consiglieri, inclusi il ceo Francesco Iorio e il presidente Stefano Dolcetta. Un fatto inedito che la dice lunga sui timori della vigilia: «Sarebbe stato bello vedere il consiglio schierato per un minuto ma servirebbe il coraggio che non ha, vergogna» grida il socio ed ex leader degli artigiani Claudio Miotto. Non è bastato il cambio di presidente - Dolcetta al debutto in assemblea è stato severo, ha "oscurato" gli interventi più lunghi dei due minuti previsti (contro i tre soliti, anche a Montebelluna) e alla fine ha ringraziato tutti per l’esito "storico" di un’assemblea "lunga e faticosa" - e di consigliere delegato per convincere riottosi e perplessi anche se nel suo intervento di replica dopo il minuto di silenzio chiesto in memoria del tecnico morto in mattinata per allestire l’assemblea Iorio ha tenuto a precisare che dei "13 manager di vertice, 11 sono nuovi e li ho scelti io", per poi attaccare deciso sul terreno delle azioni di rispettabilità e delle inchieste della magistratura. «I colpevoli vanno puniti - scandisce davanti ai quasi seimila soci presenti e spesso anche fischianti il top manager che arriva da Ubi -. Da quando ho preso io le responsabilità di questa banca non è mai cessata la collaborazione con le procure, che stanno facendo il loro lavoro bene. Non bisogna però avere fretta di fare le cose, serve pazienza». Prima però ci saranno da affrontare altri due passaggi fondamentali decisi ieri in assemblea con l’87% di sì: la quotazione in Borsa e l’aumento di capitale da 1,5 miliardi (gli altri 250 milioni sono al servizio della stabilizzazione delle azioni sul mercato e serviranno da premio ai soci fedeli). «Questa banca ha l’assoluto bisogno di nuovo capitale per poter lavorare - avverte Iorio dopo aver letto la lettera ultimatum della Bce di cui il Gazzettino ha parlato nei giorni scorsi - e di tre sì per poter accedere alla garanzia di Unicredit sull’aumento di capitale. L’interesse dei mercati internazionali c’è». In ogni caso la ferita con i soci è ancora aperta. Chi ha perso i risparmi di una vita, tutti investiti in azioni di BpVi (e si parla anche di cifre consistenti, centinaia di migliaia di euro per pensionati e piccoli imprenditori, l’assicurazione sulla vita) è arrabbiatissimo ed è pronto a imbracciare il forcone. Iorio lo sa e assicura: «Coloro che sono stati scavalcati nei rimborsi saranno risarciti adeguatamente». Barbara Puschiasis, avvocato e presidente di Federconsumatori Friuli Venezia Giulia: «Abbiamo già inviato a Popolare Vicenza 1100 reclami e ci attendiamo che presto vengano aperti tavoli di conciliazione sui risarcimenti, la banca ha accantonato oltre 150 milioni». Iorio abbozza e assicura: «In poche settimane apriremo tavoli di confronto con i clienti», ma ricorda: «Senza la spa lunedì questa banca è persa». Anche l’avvocato Renato Bertelle chiede a gran voce la trasformazione in spa: «Se non passa ci sarà il commissariamento e il bail in per azionisti, obbligazionisti e correntisti. Solo se la banca rimane in piedi potremo affrontare le cause risarcitorie». Logica ferrea e per nulla accomodante. Alla fine spa e Borsa sono passati e i soci se ne vanno mesti lo stesso sotto la pioggia. C'è poco spazio per il folclore, tutti sanno che la Borsa sarà un massacro per il valore dell’azione. Un anziano socio espone un cartello: «Zonin & C. avete rubato il futuro ai miei nipoti. Disonesti». Già, quello che brucia di più forse è proprio questo: che dei veneti abbiano rubato fiducia ad altri veneti. Un vero tradimento. Gambellara (Vicenza) - Con l'approvazione del passaggio a spa della Popolare di Vicenza e con la stessa vicenda vissuta da Veneto Banca «si chiude nella nostra Regione l'esperienza delle popolari», ricorda Luca Zaia, presidente del Veneto, al termine dell'assemblea dei soci della Popolare di Vicenza. Per Zaia, piccolo azionista dell’ex coop Vicenza, «dispiace che abbiamo dovuto registrare l'assenza del membri del cda, ma ribadisco che resta la necessità di fare chiarezza sulla responsabilità degli amministratori, non certo gli attuali, e degli organismi di controllo come Banca d'Italia e la Bce. Resto fiducioso sull'azione della magistratura soprattutto nell'investigare sull'eventuale acquisto sospetto di quote della Popolare». Sulla vicenda, ricorda Zaia, «la Regione ha stanziato 300mila euro per fare chiarezza così come ha avviata una propria commissione d'indagine». I soldi servono per le tutele legali, ma la cifra per molti avvocati che già sono attivi a fianco degli azionisti sono pochi e l’iniziativa sembra più un pannicello caldo. Il consigliere regionale dei 5Stelle Jacopo Berti prima dell’assemblea

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arringa i soci: «No a questo cda, no alla spa, in Popolare Vicenza c’era una B2, bisogna smembrare l’istituto». Il sindaco di Vicenza Achille Variati parla di scelta responsabile: «Oggi migliaia di azionisti, fra cui tanti piccoli soci che avevano investito i loro risparmi nelle azioni della Popolare e la cui fiducia è stata tradita, hanno votato a larga maggioranza per l'unica strada percorribile: la quotazione in Borsa. L'alternativa sarebbe stata la rovina, la perdita definitiva del residuo valore delle azioni e il collasso di una banca fondamentale per il nostro territorio con la conseguente perdita di tanti posti di lavoro - rileva Variati -. Esprimo quindi comprensione e solidarietà ai tanti azionisti che hanno rappresentato la propria sofferenza e rivolgo loro l'invito ad associarsi per affrontare il nuovo corso della Popolare. Da oggi c'è una nuova banca che è una società per azioni - sottolinea Variati -; per avere voce in capitolo sul futuro della banca bisogna rappresentare pacchetti importanti di azionariato. I piccoli azionisti devono quindi associarsi se vogliono contare, perché detengono una parte importate del capitale sociale. Auspico inoltre che possano esserci forme di sostegno, anche da parte della banca, nei confronti degli azionisti che hanno perso gran parte dei propri risparmi e che rappresentano casi sociali gravi». I dipendenti soci della Popolare di Vicenza, circa duemila, hanno votato tre sì in assemblea. «Sia perché si tratta di norma di legge, sia perché non intravediamo altre soluzioni per uscire da questa difficile situazione», dice Giuliano Xausa, segretario nazionale della Fabi e dipendente di BpVi. «Portate questo barcone fuori da queste acque tempestose, portatelo in acque tranquille», la sua esortazione in assemblea: «Ma portatelo nel rispetto e salvaguardando i soci, i dipendenti ed i clienti, perché in questo barcone non esistono clandestini. Per quanto riguarda gli scafisti, nessuna pietà», aggiunge prendendosela con gli ex vertici. «Tutti i dipendenti del Gruppo sono vittime, non complici né tanto meno artefici» avendo «sempre operato all'interno delle disposizioni ricevute e delle informazioni avute - sottolinea Xausa -. Siamo vittime primo in quanto soci, poi perché costretti ad una drastica riduzione dei posti di lavoro - il Piano Industriale prevede 575 colleghi in esubero - e terzo perché da quasi cinque anni, e praticamente unica banca in Italia, non percepiamo la parte della retribuzione legata alla produttività». Gambellara (Vicenza) - La Borsa e l’aumento di capitale da 1,5 miliardi sono fondamentali per la Popolare di Vicenza spa. Un passaggio obbligato dalla Bce, che nella lettera di fine febbraio ha specificato come i requisiti patrimoniali della banca berica siano sotto i minimi da giugno dell’anno scorso. Entro fine aprile deve partire l’offerta sul mercato. Prima però ci sarà da celebrare l’assemblea per l’approvazione del bilancio 2015, chiusosi con una perdita di 1,4 miliardi, la peggiore dell’istituto, il doppio del 2014. La data è già stata fissata: 26 marzo. Il sabato prima di Pasqua. Per qualche osservatore malizioso il giorno giusto per evitare un afflusso oceanico di soci e le contestazioni incorporate che già ieri sono state nutrite. Ma i tecnici della banca spiegano che con la nuova regola della spa non ci sarà più un limite alle deleghe (ieri a 10 per socio, zero per i dipendenti) e quindi potranno presentarsi tranquillamente i classici avvocati d’affari con in Borsa pacchetti d’azioni tali da far indirizzare le votazioni decisamente per un verso o per l’altro. Ed è difficile che il peso dei piccoli soci arrabbiati equivalga quello dei grandi soci, che anche in Popolare Vicenza esistono e si stanno organizzando nell’associazione Futuro 150. Con i big come la famiglia d’acciaio Amenduni ancora alla finestra. Il problema di quest’assemblea da "resurrezione" è il luogo dove svolgerla. Pare che la fiera sia occupata come ieri e che non esistano altre location capienti in provincia. Insomma, si sta ripresentando lo stesso contesto che ha portato l’assemblea storica di ieri a svolgersi alla Perlini di Gambellara, a due passi dalla provincia di Verona. E potrebbe essere proprio la Perlini a essere scelta come sede dell’assemblea di fine mese. Il 26 marzo è solo un passaggio e un’esercitazione verso il vero appuntamento che dovrebbe tenersi prima della fine di giugno, quando si dovranno scegliere i nuovi consiglieri d’amministrazione. E saranno i nuovi soci post Borsa a doverlo fare. Lì si capirà chi comanda veramente e chi si è imbarcato in questa nuova decisiva avventura che avrà come garante Unicredit e il consorzio collocamento che deve convincere i mercati internazionali a investire nella decima banca d’Italia. Curiosità: pare che Unicredit per questo "disturbo" prenderà una decina di milioni. Banca Imi per garantire l’aumento da 1 miliardo di Veneto Banca verrà retribuita ben di più: 50 milioni. «Ci troveremo ad affrontare la Borsa in un momento molto difficile dei mercati, il tempo

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è brutto ma bisogna andare. Io sono sicuro che sarà un successo», ha detto ieri il consigliere delegato della Banca Popolare di Vicenza, Francesco Iorio, rispondendo alle domande dei soci in assemblea e spiegando che l'aumento e lo sbarco in Borsa avverranno «probabilmente nella seconda metà di aprile». La forchetta, cioè l’intervallo per il prezzo dell’azione in sede di Ipo dovrebbe essere comunicata tra fine marzo e inizio aprile. Sempre che si ottengano tutte le autorizzazioni da Consob e dagli altri regolatori. Ma senza questo via libera per Vicenza spa ci sarebbe poco da fare: il miliardo e mezzo è l’ossigeno necessario per superare gli attuali scogli e poter navigare in acque più calme nel prossimo futuro, affrontando con calma quella che è sempre stata delineata come l’opzione strategica naturale: un accordo con un altro istituto bancario, "possibilmente alla pari". Non sarà semplice trovarne uno che vada bene alla Bce e al mercato. LA NUOVA di domenica 6 marzo 2016 Pag 5 Educazione sessuale, diktat della Regione Treviso, l’assessore Donazzan avverte gli insegnanti delle scuole: “Gli indirizzi dell’Oms non vanno presi a modello” Treviso. «In tema di educazione sessuale nelle scuole la Regione prende le distanza dai contenuti degli standard dell’OMS, organizzazione mondiale della sanità, e auspica non siano presi a modello nella scuola del territorio». Cosi parlò, anzi scrisse, l’assessore regionale alla scuole e alla Formazione, Elena Donazzan. – lettera a 4635/C, 8 gennaio 2016 – in risposta a tre associazioni cattoliche trevigiane: Famiglia Domani, Circolo Voglio la Mamma e Generazione Famiglia. Manif pour Tous . L’assessore Donazzan, oggi Pdl, ieri An - cita due delibere del consiglio regionale (92/2014 e 51/2015) e la delibera di giunta 268/2014 che fissano la linea politico-amministrativa, cui devono attenersi psicologi dell’Usl, scuole, professori. «Indirizzi e linee incontrovertibili», aggiunge l’assessore, «Consiglio e giunta del Veneto si impegnano a rispettare il ruolo primario della famiglia per quanto attiene alla sfera morale e spirituale della formazione dei figli, in vista della loro maturazione complessiva, così come previsto dagli articoli 30 e 26 della dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo». E Donazzan ricorda come la giunta Zaia voglia chiedere al Governo di «non applicare il documento standards per l’educazione sessuale in Europa», ribadisce «la volontà di celebrare la festa della famiglia naturale fondata sull’unione fra uomo e donna, promuovendone la valorizzazione dei principi culturali, educativi e sociali». Il centrodestra va alla crociata, contro qualsiasi aperture dell’educazione sessuale ai temi della diversità, delle coppie dello stesso sesso. E non a caso la missiva dell’assessore risponde a une lettera che le tre associazioni cattoliche avevano inviato dopo il clamore suscitato dal convegno al teatro Eden di Treviso del 15 novembre scorso, per la giornata della gentilezza e per il manifesto per la tutela dei diritti di ogni persona. Relatori don Ernesto Gianoli, la storica Maria Teresa Sega, l'avvocato Fabio Busnardo e appunto la dottoressa Rando, Organizzavano i comuni di Treviso, Casier, Preganziol, Casale, Zero Branco, Quinto e Mogliano, con il coordinamento delle Commissioni pari opportunità intercomunale e del capoluogo. In sala Rando era stata contestata da esponenti di Forza Nuova, poi erano insorte le associazioni cattoliche. Ma era stata la Lega a contestarne duramente la presenza al convegno. E l’allora direttore generale dell’Usl 9, Giorgio Roberti - aveva subito precisato come «la presenza della dottoressa» andasse intesa «a titolo pers nale». Anche Donazzan, nella missiva, ricorda il convegno. «La posizione assunta dalla dottoressa Rando in occasione del convegno è in palese contrasto con le linee guida degli organi politici Regionali», scrive Donazzan, «e per completezza è opportuno chiarire che le posizioni assunte dalla dottoressa sono da considerarsi di carattere personale, in virtù della presa di distanza dell’allora direttore Generale dell’Usl 9, Giorgio Roberti, che ha disconosciuto l’ufficialità dell’intervento della psicologa». Anche qui Donazzan è esplicita. Giunta Zaia e consiglio regionale non vogliono che in alcun modo si parli ai ragazzi, in attività scolastica, o in iniziative scolastiche, di coppie che non siano quella etero. «La Regione Veneto è impegnata a difendere la Famiglia Naturale e il diritto dei genitori di crescere e di educare i propri figli», precisa infatti l’assessore «e ho espresso queste direttive, coerenti con quanto deliberato da Consiglio e Giunta, ai dirigenti scolastici ». Insomma, un vero diktat dell’assessore Donazzan.

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CORRIERE DELLA SERA di sabato 5 marzo 2016 Pag 20 Maso ricoverato in clinica psichiatrica di Laura Tedesco Verona, problemi di droga e debiti per l’assassino dei genitori. Don Mazzi: “Pronto ad aiutarlo” Verona. Voleva «ricominciare altrove». Viveva a Milano, sognava la Spagna. Invece, venticinque anni dopo, Pietro Maso è tornato nella sua terra. Da giovedì sera, infatti, il veronese che nel ‘91 ammazzò i genitori per l’eredità si trova ricoverato nella clinica psichiatrica Santa Giuliana, sulle colline della città. «Pietro ha finalmente accettato di farsi curare, si è reso conto di aver bisogno di una mano. È la cosa migliore per tutti, per le sorelle che ha minacciato così pesantemente e che ho sentito al telefono terrorizzate, ma soprattutto è la situazione più adatta per lui - dichiara don Antonio Mazzi -. Adesso la priorità è curarlo, so che già domenica verrà visitato da uno psichiatra. Quando Pietro verrà dimesso sono disposto a farmene carico e, se lui sarà d’accordo, a ospitarlo nella nostra comunità Exodus. L’importante è che non venga più lasciato solo, perché i fatti hanno dimostrato che non è in grado di andare avanti con le proprie gambe». Da sempre in prima linea per il recupero dei tossicodipendenti, il sacerdote conosce Maso da quando, il 15 aprile 2013, ha lasciato definitivamente il carcere dopo aver scontato 22 dei 30 anni di reclusione a cui fu condannato in primo grado. Tornato in libertà, Pietro sembrava pronto alla sua seconda vita. «Una persona nuova, diversa». Il rapporto riallacciato con le sorelle Nadia e Laura, il matrimonio con Stefania Occhipinti, il lavoro negli studi di Telepace sotto la supervisione della sua guida spirituale, don Guido Todeschini. A 44 anni (ne compirà 45 a luglio), Maso pareva «rinato». Ma qualcosa, nella seconda metà del 2015, si spezza. E quell’equilibrio che pareva ristabilito improvvisamente va in frantumi. Prima la separazione dalla donna che aveva conosciuto ai tempi della semilibertà, poi il licenziamento dall’emittente tv. A dicembre la sorella Nadia lo incontra fuori dagli studi di Telepace e lo trova «alterato, irriconoscibile, in preda a uno stato euforico». Nei suoi occhi rivede «quelli del ragazzo che 25 anni fa uccise i nostri genitori». Si allarma subito, chiama l’ex moglie e don Todeschini. Gli avvenimenti precipitano quando Nadia riceve per errore dal telefonino del fratello un sms indirizzato a un amico di Pietro: «Adesso fai quello che ti dico, altrimenti ti taglio quella testa di c... che hai». Maso pretendeva soldi, altri soldi. È l’8 gennaio 2016 quando le sorelle lo denunciano ai carabinieri: «Bisogna fare qualcosa, va aiutato», è l’appello che lanciano con il loro avvocato Agostino Rigoli. E mentre su Maso la procura apre un’inchiesta per tentata estorsione ai danni dell’amico, Nadia e Laura vengono poste sotto sorveglianza dai carabinieri perché Maso le ha minacciate di morte perché lo avevano denunciato. «Su di loro devo finire quel lavoro di 25 anni fa...», ha detto al telefono all’ex moglie e a don Guido. E proprio don Todeschini, ieri mattina, ha chiamato don Mazzi: «Mi ha spiegato che finalmente Pietro è disposto a farsi curare, non si poteva andare avanti così - racconta don Antonio -. Ora lasciamo che di lui si occupino i medici, ma l’importante è non lasciarlo di nuovo solo quando verrà dimesso. Non possiamo lasciare in mezzo a una strada una persona che dipende dalla droga e che per questo è piena di debiti. Altrimenti precipiterà nel baratro». Ancora una volta. LA NUOVA di sabato 5 marzo 2016 Pag 33 “Spiegare le leggi in chiesa, Renzi sbaglia” di Nadia De Lazzari Chioggia: il vescovo Tessarollo interviene contro il premier, malintesa laicità e insana dottrina Chioggia. Il vescovo di Chioggia, Tessarollo, bolla la proposta di Renzi di passare per le parrocchie come «malintesa laicità e insana dottrina». Il pastore di anime continua a commentare “ad alta voce” i fatti attuali nell’editoriale Nuova Scintilla. Dopo la riflessione contro il giudice sul caso del tabaccaio Birolo condannato per aver ucciso il ladro entrato nel suo locale e quella sul disegno di legge Cirinnà, ora il vescovo critica il capo del governo italiano. «Si era proposto», dice monsignor Tessarollo, «di passare per le parrocchie a spiegare le “sacrosante leggi” che il governo propone e sulle quali mette “la fiducia” per farle passare». Il vescovo non cita mai il nome del «Capo del Governo italiano», Matteo Renzi, che di recente ha lanciato la sfida al mondo cattolico, in

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particolare al popolo del Family Day che si era opposto alla proposta di legge sulle unioni civili. Il portavoce Massimo Gandolfini aveva precisato di impegnarsi per il no al referendum del prossimo ottobre. L’immediata risposta di Matteo Renzi era stata quella di annunciare la sua visita nelle parrocchie per fare campagna elettorale. Sulla questione Tessarollo è chiaro: «Le porte delle chiese o dei centri parrocchiali sono aperte sulle strade perché quelli di fuori possano entrare, ma per reciprocità ci auguriamo che anche chi è dentro possa uscire a dire i propri pensieri e le proprie valutazioni su quel che accade fuori, senza che ciò sia da qualcuno tacciato come ingerenza». Nell’editoriale il vescovo continua parafrasando un vecchio detto: «Suonate pure le trombe ma non mettete a tacere le campane», come invece molti pretenderebbero, in nome di una malintesa “laicità”. Le “campane” infatti fanno risuonare un pensiero popolare, una sapienza popolare, che ha una sua stabilità consolidata dall’esperienza, che non corre dietro ad ogni vento di «insana dottrina». Il presule che esprime perplessità su tante sentenze motivate risveglia coscienze e pone l’accento sull’impegno educativo: «Quanti privilegi, o azioni, o permessi legalmente ottenuti o riconosciuti, poco hanno a che fare con il bene! Non stiamo perdendo la nostra identità culturale, di pensiero, di sagge tradizioni di ogni genere, nate da esperienze, osservazioni della realtà, comportamenti quotidiani? Più lo Stato esclude l’espressione e la collaborazione di ogni sua realtà, tanto più diventa Stato Assoluto». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Usa al voto, la crisi che non c’è di Alberto Alesina Economia e elezioni Se un marziano atterrasse negli Stati Uniti e si informasse sullo stato dell’economia americana ascoltando i dibattiti delle primarie, trarrebbe la conclusione di trovarsi sull’orlo del baratro. A sentire Bernie Sanders la disoccupazione «vera» sarebbe del 15 per cento, le classi medie starebbero perdendo reddito ogni anno e Wall Street sarebbe popolata solo da malfattori. Hillary Clinton lo segue solo con un tocco in più di moderazione. I disastrosi candidati repubblicani (soprattutto Trump) parlano di un Paese in decadenza, bancarotta, economicamente umiliato da Cina e Messico e con un debito disastroso. In realtà la situazione è assai meno drammatica, come notava recentemente anche Martin Feldstein sul Wall Street Journal . La crescita del Pil è prevista quest’anno tra il 2,5 ed il 3 per cento, mentre quella del reddito disponibile delle famiglie è ancora più alta. La disoccupazione (cioè il tasso di persone che cerca lavoro senza successo) è al 4,9 per cento e quella dei laureati al 2,9 per cento. La disoccupazione così bassa sovrastima la salute del mercato del lavoro, ma i dati di febbraio sull’occupazione sono estremamente positivi. È vero anche che l’uscita dalla recessione derivata dalla crisi finanziaria è stata relativamente lenta rispetto al passato, ma ricordiamoci che si temeva un «double dip» cioè una doppia recessione che non c’è stata. L’inflazione è tra l’uno e il 2 per cento, senza rischio di deflazione. Certo, la disuguaglianza è aumentata. Ma secondo il bipartisan Congressional Budget Office (Cbo) dal 1979 al 2010 il reddito disponibile della parte più povera della popolazione è salito del 49 per cento se si tiene conto non solo dei salari ma anche di trasferimenti pubblici e delle riduzioni di imposte. Il reddito delle classi medie è aumentato del 40 per cento usando gli stessi calcoli. Il crollo del prezzo del petrolio ha causato problemi per l’industria petrolifera ma nel complesso l’economia ne trae beneficio. Le politiche della Fed durante e dopo la crisi finanziaria hanno funzionato ed ora un graduale aumento dei tassi dovrà proseguire. Insomma un bicchiere più che mezzo pieno, anche se non completamente pieno. Il debito pubblico americano è troppo alto e senza risolvere il problema della spesa pubblica sanitaria per gli anziani (Medicare) continuerà a salire. Questo lo sanno tutti, primo tra tutti il Cbo. Ci vorrà un presidente con il coraggio di affrontare il problema e non rimandarlo come si e fatto finora a Washington, perché gli anziani sono una riserva di voti importante in alcuni Stati critici come la Florida. Sarà capace di farlo Hillary Clinton, la probabile vincitrice? Speriamo! Arriverà un’altra recessione? Certo, prima o

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poi, ma questo è nella norma. Si vuole ridurre la disuguaglianza? Lo si può fare tagliando ancor di più le imposte per le classi meno abbienti risparmiando su programmi di spesa che non avvantaggiano solo i poveri, come Medicare. Ci vuole anche una vasta riforma del farraginoso sistema fiscale che lo renda più progressivo e meno distorsivo. Una decina di anni fa la commissione bipartisan presieduta dall’ economista James Poterba del Mit aveva fatto ottime proposte in questo campo. Furono ignorate ma bisognerebbe rispolverarle. Ma allora se l’economia poi non è sull’orlo del baratro perché Sanders e soprattutto Trump hanno così successo tra gli elettori? La risposta credo vada cercata più che nei dati dell’economia, in una rivolta più generale contro l’establishment di Washington e di Wall Street. Inoltre, a forza di sentirsi ripetere messaggi apocalittici sull’economia derivanti dai complotti di Cina, Messico e Germania da un lato (Trump) e sui disastri causati del «demonio» Wall Street e dal libero mercato dall’altro lato (Sanders), il cittadino si suggestiona e si preoccupa ancor più del necessario. I pessimisti non sono solo i candidati alla presidenza di entrambi i partiti. Lawrence Summers (possibile Ministro del Tesoro se vincerà Hillary Clinton) parla e scrive da tempo di «stagnazione secolare» per l’economia americana, cioè di un declino permanente e irreversibile iniziato con la crisi finanziaria. I nostri figli ci diranno se ha ragione. Intanto, se questa è la stagnazione secolare, speriamo che arrivi presto anche in Europa. Pag 1 La resistenza di un rito di Aldo Cazzullo Le consultazioni di partito Il discredito del Pd romano non potrebbe essere maggiore, così come il degrado della politica nella capitale. Eppure fin dal mattino presto i sostenitori del centrosinistra sono andati a votare, a Roma e più ancora a Napoli. D’accordo: età media alta, come a teatro (ma gli anziani non sono mica cittadini di serie B); affluenza decisamente in flessione. Ma il confronto con il 2013 è improbo: in mezzo ci sono stati Mafia capitale e il disastro Marino. E ieri si confrontavano personaggi di seconda fila: in una domenica fredda e piovosa, poteva andare molto peggio. Al di là del calo, le primarie si confermano uno strumento utile ad attenuare la distanza tra elettori ed eletti, a rispondere alla domanda di partecipazione che nonostante gli scandali anima ancora le grandi città del Paese, come si era visto già a Milano e come si è visto a Napoli. Hanno vinto i candidati di Renzi. Roberto Giachetti prevale a Roma, davanti a Roberto Morassut, che non si è schierato contro il premier ma aveva in teoria l’appoggio dei suoi nemici interni. A Napoli è prima per un pugno di voti Valeria Valente, scelta dalla segreteria del partito. Non sono però candidati forti. Giachetti era il capo di gabinetto di Rutelli, e non ha neppure il sostegno di Rutelli. Valente era la pupilla di Bassolino, e si è messa in gioco contro Bassolino, il Totti della Campania, la conferma di quanto sia duro, almeno in Italia, lasciare la ribalta o vincere la tentazione dell’eterno ritorno. Resta da vedere se Giachetti e la Valente saranno in grado di diventare sindaci alle amministrative di giugno. Nei sondaggi sono messi male. Secondo quello pubblicato dal Mattino, a Napoli oggi andrebbero al ballottaggio il sindaco De Magistris, benché non abbia alle spalle alcun partito - o forse proprio per questo -, e il candidato dei Cinque Stelle, che ancora non si sa neppure chi sia. Dati imbarazzanti per un Pd che Renzi vorrebbe ben ancorato al centro del campo; anche se il premier considera le comunali una sorta di inevitabile scocciatura, un po’ come le regionali dell’anno scorso. E per l’uomo della rottamazione perdere a Napoli con la Valente sarebbe meno peggio che vincere con Bassolino (proprio come Totti, l’ex sindaco e presidente della Regione ha dimostrato di avere ancora un’ampia schiera di fan, ma pure di aver inevitabilmente perso la gara con il tempo). La vera partita di Renzi sarà il referendum di ottobre sulla riforma istituzionale. Arrivarci dopo aver perso qualche metropoli può persino aiutarlo a drammatizzare lo scontro e quindi a vincerlo; ma una serie di débâcle darebbero forza alla sinistra interna - che anche ieri non ha battuto colpo -, e indebolirebbero il governo pure all’estero: due grillini sindaci a Roma e a Napoli sarebbero l’apertura dei siti di tutto il mondo. Nell’attesa del responso, la domenica un po’ troppo enfaticamente ribattezzata SuperSunday consegna un’altra indicazione. Le primarie, con i loro limiti, funzionano, se non altro perché semplificano. Non si capisce perché debbano essere soltanto una «cosa di sinistra»; come se non ci fosse un popolo di liberali e moderati altrettanto disponibile a

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partecipare. Anzi, la destra ne avrebbe bisogno più ancora della sinistra: storicamente maggioritaria nella società italiana, ha oggi un grave problema di ricambio e selezione della classe dirigente. Anziché gazebo improvvisati e consultazioni confermative, occorre riconoscere a militanti e opinione pubblica il diritto di scegliere il proprio candidato; a cominciare da Roma. Si decida liberamente e democraticamente tra Bertolaso, Meloni, Marchini; e si chiuda questa commedia. Pag 15 Nancy Reagan, un’icona dell’unità repubblicana (ormai perduta) di Massimo Gaggi Ancora qualche giorno fa i dirigenti di un Partito repubblicano mai così frastornato e diviso invocavano un intervento di figure rappresentative come Mitt Romney e Nancy Reagan per cercare di arrestare l’avanzata del «barbaro» Donald Trump. L’ex candidato alla Casa Bianca l’ha fatto, ma senza risultati apprezzabili. Nancy no o forse non ne ha avuto il tempo o la possibilità. Cosa avrebbe potuto dire? «Non date a uno che è l’opposto dell’ottimismo solare di Ronald, uno che va a scovare ovunque il peggio degli Stati Uniti, le chiavi della “città splendente” sulla collina»: la celebre espressione («shining city on a hill») usata da Reagan per definire l’America nel suo discorso di commiato al momento di lasciare la Casa Bianca dopo otto anni di presidenza. La saggia e combattiva Nancy a 94 anni avrebbe scelto di far sentire ancora una volta la sua voce, se il suo cuore non avesse ceduto? Forse no. Consigliere assennato e inflessibile del marito durante tutta la sua carriera politica, sempre pronta a tirare fuori la frusta e a invocare coerenza anche quando un Reagan molto più bonario e meno risoluto di quanto rimasto impresso nella sua immagine pubblica tendeva a lasciare le cose a metà, Nancy non avrebbe messo a repentaglio l’eredità politica del grande presidente conservatore. Ronald e Nancy erano stati i sovrani di un partito unito in un’America scintillante, divenuta unica potenza globale col declino dell’Unione Sovietica. Non era la fine della storia promessa da Francis Fukuyama, ma l’inizio di una nuova storia molto più complessa e tormentata. Ma questa dolorosa realtà non ha scalfito il mito. La donna che ha passato gli ultimi anni della sua vita a coltivare l’immagine del marito come «grande unificatore», difficilmente l’avrebbe messa a repentaglio schierando il suo Ronald in una fazione, oltretutto minoritaria e quasi sicuramente perdente: quella degli oppositori di Trump e anche di Cruz, paradossalmente gli unici che oggi riescono a fare il pieno di voti del popolo repubblicano. Così la scomparsa di Nancy Reagan in un momento così turbolento del movimento conservatore acquista un valore simbolico: l’ultima icona dell’epoca d’oro della destra americana che se ne va proprio mentre un partito diviso come mai prima rischia di subire una trasformazione genetica o addirittura di dissolversi per dar vita, magari, a una nuova formazione politica. Pag 21 Napoli, nobiltà contro la Curia. La disfida sul tesoro del patrono di Goffredo Buccini Roma interviene sulla Deputazione a cui è affidata la Cappella e scoppia il caso Nel cuore dei napoletani si scrive tutto attaccato, Sangennaro : nome proprio di persona, non un santo impennacchiato ma uno di loro, impastato della loro carne; il vicino del basso accanto, che pigli pure a maleparole ma con cui un piatto di pane e speranza lo spartisci sempre. Sicché le lingue si sono imbrogliate, gli animi scaldati e perfino la paludata Bbc s’è interrogata sull’intrigo politico-religioso di questi giorni a Napoli, « hands off San Gennaro», giù le mani dal santo: a migliaia hanno sventolato fazzoletti bianchi di protesta davanti al Duomo. L’abate Vincenzo De Gregorio, che serbando le chiavi della cassaforte del sangue è anche il custode ultimo della tradizione, sospira sconfortato. Lo hanno appena fermato due o tre vecchiette semplici e ferventi, di quelle che sotto l’altare del miracolo fanno le «parenti di Faccia ‘Ngialluta» (in ricordo della pia Eusebia che raccolse nelle ampolle il sangue del martire appena decapitato). E gli hanno chiesto: « Monsigno’ , ma è vero che ci vogliono portare via San Gennaro? E dove ce lo portano?». «No, che non è vero! Nessuno mette le mani su nulla! Tutto questo polverone copre il vero problema», sbotta infine l’abate, uomo mite e organista così raffinato da essere assai apprezzato dai Papi. Serve un passo indietro: la questione ha una premessa burocratica noiosa ma insidiosissima. Angelino Alfano ha firmato (a

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fine gennaio) un decreto che modificherebbe (in senso «clericale», dicono) i criteri di nomina della Deputazione, istituto civico antico quanto l’amore per questo santo così laico che, ha sostenuto Roberto Saviano, «protegge la città e i suoi abitanti non in quanto buoni cristiani o fedeli meritevoli ma in quanto napoletani e basta». Insomma, la Deputazione, composta da due rappresentanti per ciascuno dei sei «sedili» cittadini (cinque dei nobili e uno del popolo) esiste dal 1601: da quando, cioè, eseguendo un voto popolare di settant’anni addietro, eresse una cappella in onore del patrono per lo scampato pericolo di un’eruzione del Vesuvio. Al giorno d’oggi, è un unicum giuridico. Il Viminale - dopo anni di trattative, sollecitazioni e persino dopo un abbozzo di nuovo statuto finito nel nulla - ha deciso di equiparare la Deputazione, che gestisce in assoluta autonomia culto e tesoro del patrono, alle Fabbricerie: enti che - a Firenze, Milano, Siena e Orvieto - s’occupano sotto la vigilanza dello Stato dei beni di luoghi sacri e sono composti anche da rappresentanti ecclesiastici. Il punto sta proprio qui: rompendo un delicato e antico equilibrio, la Curia nominerebbe un terzo dei rappresentanti della Deputazione, potendo esprimere il gradimento per gli altri. Quelli della Deputazione non l’hanno presa bene: annunciato un ricorso al Tar, hanno messo nel mirino il cardinale Crescenzio Sepe, imputandogli «ingerenze» su Alfano in questa singolare guerriglia tra cittadinanza e clero attorno al tesoro (uno dei più preziosi al mondo) e al culto del santo. Alfano ha ricordato che il suo decreto è forte d’un parere del Consiglio di Stato e che comunque lo Statuto andava proprio aggiornato: «Risale al 1894». E tuttavia l’impressione che il Viminale abbia un po’ forzato una situazione di stallo che magari durava da troppo tempo, rimane. Certi malumori da queste parti sono fuochi di Piedigrotta. Riccardo principe di Carafa, attuale vicepresidente della Deputazione (presidente per statuto è il sindaco di Napoli) discende direttamente da quell’Alessandro Carafa che andò nel 1497 dai monaci di Montevergine a riprendersi con le armi le reliquie del santo per riportarle in città. Alessandro Dumas racconta che persino il generale napoleonico Championnet teneva così tanto al consenso dei napoletani ottenuto tramite il miracolo del sangue da «sollecitarlo» con la minaccia di fucilare i poveri canonici: il fatto che il sangue si sciolse davvero può essere, a seconda delle opinioni, prova di un imbroglio secolare o della secolare misericordia di San Gennaro, chissà. Contro il decreto e il presunto intrigo si sono levati in pochi giorni dai Cinque Stelle a de Magistris e a Bassolino (sua moglie Anna Maria Carloni ha anche presentato un’interrogazione parlamentare) e persino i salviniani di Napoli, in una gara forse non sempre disinteressata: perché la prospettiva che il santo venga in qualche misura sottratto al popolo e consegnato al clero è tale da suggerire a qualsiasi politico un prudente allineamento all’umore del popolo medesimo. All’agrigentino Alfano, che imprudente non è, potrebbe essere sfuggito un aneddoto che la dice lunga su questo risvolto della napoletanità: quando nel 1947 ci fu da riportare di nuovo a Napoli il tesoro custodito durante la guerra in Vaticano, la scelta cadde su un camorrista, Giuseppe Navarra, «il re di Poggioreale», che assieme al principe allora a capo della Deputazione si mise in macchina su quelle strade infestate da banditi e disperati, tornò senza perdere nemmeno un grammo d’oro e donò in beneficienza il doppio del compenso che i canonici d’allora provarono a offrigli. Sepe, da vero popolano partenopeo sa bene che ventaccio spiri quando la vulgata tira in ballo il tesoro del santo, e se ne sta chiuso nel palazzo arcivescovile come in un fortino, citando l’Ecclesiaste («c’è un tempo per tacere...») e facendo sapere che non è questo il tempo «di alimentare polemiche inutili». Riccardo Imperiali, l’avvocato che gestisce il ricorso al Tar e discende da una famiglia che siede in Deputazione dall’inizio, ha sostenuto che in ballo, oltre al tesoro, c’è proprio il santo, «un fortissimo strumento di comunicazione che il cardinale vuole usare». Imperiali ha fatto parte della commissione che ha tentato invano di riformare lo Statuto. C’era anche l’abate De Gregorio, che infine ci svela quale sarebbe, secondo lui, il «vero problema» in questa guerriglia di religione: «I nobili! Noi della Curia non c’entriamo nulla, la questione è tra loro e il Viminale. Lo ricorda o no che la nobiltà è stata abolita? Beh, come poteva il nuovo Statuto contenere ancora norme sulla nobiltà? Per questo è saltato tutto e il Viminale ha dato l’ultimatum». L’ipotesi di introdurre in statuto la nobiltà d’animo non è ancora sul tavolo: magari piacerebbe a Totò che, modestamente, nobile lo era due volte. LA REPUBBLICA Pag 1 Primarie centrosinistra, i numeri dell'apparato di Stefano Folli

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A questo punto l'errore più grave sarebbe gonfiare le cifre per abbellire la verità. Un po' come il conto dei manifestanti a piazza San Giovanni o al Circo Massimo. Il rispetto verso i romani e anche verso se stessi impone invece ai dirigenti del Pd di accettare i dati reali delle primarie per quello che sono: l'evidenza di un sostanziale fallimento. Ha vinto Giachetti con una percentuale netta, ma non c'è granché da esultare. Calcoli non definitivi descrivono un'affluenza di circa il 50-60 per cento inferiore a quella di tre anni, quando il vincitore fu Ignazio Marino. Oggi siamo fra i 40 e i 50mila voti contro i 100mila ufficiali di allora (poi scesi a circa 94mila). In mezzo ci sono le spiegazioni del disastro: l'inchiesta sulla criminalità mafiosa, gli arresti, la rete del malaffare, la progressiva delegittimazione della giunta fino alla caduta del sindaco, il ricorso obbligato al commissario. Una città snervata e da troppo tempo priva di un'amministrazione efficiente, sullo sfondo di un centrosinistra che sulla carta rivendica la maggioranza relativa ma è roso dai suoi errori e dalla crisi come un albero aggredito dalle termiti. Con tali premesse sarebbe davvero paradossale se i cittadini si fossero affrettati alle urne per scegliere un nome e un volto peraltro abbastanza sconosciuti. Qui è un'altra bizzarria del caso romano. Le primarie sono per eccellenza lo strumento che "personalizza" il messaggio politico e stabilisce un rapporto diretto, nel bene e nel male, fra l'elettore e il candidato. Occorrono personaggi solidi, capaci di comunicare in modo moderno e di conquistare l'attenzione dell'opinione pubblica. Viceversa a Roma non abbiamo avuto né i grandi comunicatori né i brillanti candidati e tanto meno l'opinione pubblica. Quei 40-50mila voti - che potrebbero essere anche meno dopo le verifiche - hanno il sapore dell'apparato, di un mondo comunque legato al partito e pronto a rispondere alle sue esigenze. Il voto di opinione, in grado di testimoniare della vitalità di una proposta politica, a Roma è rimasto in larga misura a casa. Un segnale che è negativo in assoluto, ma lo è in modo particolare perché il test del Campidoglio coinvolge Renzi in prima persona. Vale a dire il premier-segretario che deve tutto alle primarie e che ha costruito le sue fortune sul rapporto diretto con gli elettori, al di là e al di sopra degli apparati. A Roma invece per cavarsi d'impaccio egli e i suoi hanno avuto bisogno proprio di quel poco di struttura partitica che ancora esiste, mentre l'opinione "renziana" è rimasta abbastanza indifferente al rito ormai logoro dei gazebo. S'intende che non hanno torto Orfini e lo stesso Giachetti quando rivendicano i dati dell'affluenza, per quanto deludenti siano, contrapponendoli alle poche migliaia di "clic" elettronici con cui i Cinque Stelle scelgono i loro candidati. Eppure l'argomento, che pure ha una sua forza polemica da spendere in campagna elettorale, non basta a mascherare l'insuccesso. È meglio riconoscerlo con umiltà, senza pasticciare con le cifre, ammettendo che forse non si poteva fare di più dopo i peggiori tre anni nella storia della sinistra romana. Ciò non toglie che la mediocrità dello spettacolo offerto è stata al di sotto delle attese. Nel momento in cui si trattava di recuperare la credibilità perduta ed era urgente trasmettere un messaggio chiaro, in grado di suggestionare e coinvolgere il sentimento collettivo intorno a un'idea della Capitale e della sua resurrezione, si è scelto di andare alle primarie nel segno del basso, anzi bassissimo profilo. Candidati che la gente conosceva poco e male, privi di vero fascino. Uomini di qualche esperienza amministrativa, anche positiva, e tuttavia incapaci di trasmettere una visione della città, privi di un programma che non si esaurisse in un elenco abbastanza ovvio di buone intenzioni. Come se non fosse in ballo il destino di una delle metropoli più importanti del pianeta. La pochezza del dibattito emerso in queste settimane è l'anticipo, si può temere, di una contesa per il Campidoglio che rischia di essere altrettanto monotona, grigia e retorica. Giocata tra forze talmente poco convinte di sé - compresa l'alternativa grillina - da autorizzare i sospetti che in realtà nessuno o quasi voglia veramente vincere la disfida. Ma, se così fosse, la politica avrebbe abdicato ancora una volta e in modo clamoroso, diciamo senza precedenti, alle sue responsabilità. Sotto gli occhi del mondo. Perché quello che accade a Roma sembra interessare a tutti tranne che ai romani. Pag 1 Migranti gli italiani hanno paura. Via Schengen, sì alle frontiere di Ilvo Diamanti Non tira una buona aria in Europa. Sul progetto e sul soggetto europeo. Sulla moneta unica cui vengono attribuiti, da ampi settori di cittadini, tutti i mali dell'economia. La

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precarietà del lavoro e la disoccupazione, i consumi e l'aumento dei prezzi. Ma il clima d'opinione appare scuro anche e ancor più sul trattato di Schengen, che ha favorito la libertà di movimento fra un Paese e l'altro. Senza fermarsi alle dogane. Senza dover qualificare – e giustificare – la nostra provenienza. Senza doversi dichiarare – e sentire – stranieri. Le frontiere, i confini, infatti, più di ogni altro riferimento, marcano la differenza e l'appartenenza nazionale. Ci "de-finiscono". Cioè, ci de-limitano. Perché il finis è il confine ultimo. Invalicabile. Distingue e distanzia noi dagli altri. Per questo il trattato di Schengen, più di altri patti e di altre convenzioni "comunitarie", ha rafforzato al progetto unitario. Anche se non tutti i paesi della Ue fanno parte dell'area di Schengen. E, d'altra parte, non tutti i paesi dell'area di Schengen sono membri della Ue. Tuttavia, il trattato de-limita il territorio sul quale l'istituzione europea può esercitare la propria autorità. Mentre, parallelamente, presso i cittadini, il trattato di Schengen ha rafforzato la percezione comunitaria. Cioè: di comunità. In quanto ha reso possibile muoversi, all'interno dei confini, con un buon grado di libertà. Ha permesso ai cittadini di sentirsi, dovunque, "a casa propria". Europei. Almeno: "più" europei. Per questo le rivendicazioni dei soggetti politici neo-populisti hanno, come primo bersaglio, l'Europa unita, in nome della difesa degli Stati nazionali. E dei loro confini. Nazionali. Per la stessa ragione, la "grande migrazione" che ha investito l'Europa - dall'Africa e dal Medio-Oriente - ha messo in discussione l'Unione Europea. Perché ha suscitato paure. Paura. In particolare: la paura del mondo che ci invade ed entra a casa nostra. La "grande migrazione": ha amplificato la domanda di frontiere. Di confini. Di muri. Per difenderci dagli altri. In questo modo, però, si sono acuite anche le tensioni interne. Ad esempio, nei confronti della Regno Unito. Che non fa parte dell'area di Schengen. Né d'altronde, dell'Euro. E ha marcato, in questa fase, la propria distanza. Il proprio isolamento. Dall'Europa dell'Euro. E dall'Europa di Schengen. Cioè: dalle migrazioni. Queste tendenze emergono, con particolare evidenza, nel IX Rapporto sulla Sicurezza in Europa (curato da Demos e dall'Osservatorio di Pavia insieme alla Fondazione Unipolis), che verrà presentato a Roma martedì 15 marzo. I sondaggi condotti su campioni rappresentativi di 5 Paesi europei (complessivamente: 5000 interviste) rendono evidente il disagio sollevato dall'Europa senza frontiere. Solo una quota minoritaria della popolazione, in tutti i Paesi "sondati", infatti, continua a credere nel Trattato di Schengen. E si dice convinta a mantenere la libera circolazione delle persone fra gli Stati che vi aderiscono. Senza controlli. Il consenso all'Europa "senza frontiere" viene espresso, comprensibilmente, da una frazione di francesi, di poco inferiore al 10%. D'altronde, l'impatto dei sanguinosi attentati avvenuti nel 2015 ha alimentato il senso di insicurezza. E la domanda di controlli. Anche se la minaccia, spesso, viene "dall'interno". Dell'Europa e della stessa Francia. In Italia, tuttavia, il sostegno al trattato di Schengen appare solo di qualche punto più ampio (13%). Mentre in Germania e in Spagna si allarga, ma non supera il 25%. La maggioranza dei cittadini intervistati, nel corso dell'indagine, la pensa, dunque, in modo molto diverso. Chiede il ritorno della sorveglianza alle frontiere, se non dei muri. In Italia, in particolare, quasi 6 cittadini su 10 approvano l'idea che occorra ripristinare i controlli. Sempre. In Germania, Spagna e, in misura più ridotta, in Francia: solo in determinate occasioni. Nell'insieme, quindi, all'Europa "senza confini" crede solo una minoranza di cittadini. Coerentemente, il consenso per l'Unione Europea si riduce tanto più dove più cresce la domanda di marcare i confini tra gli Stati. Infatti, fra coloro che vorrebbero ripristinare i controlli alle frontiere "nazionali", la fiducia nella UE scende ai minimi livelli. In tutti i Paesi. In particolare in Germania: dal 53 al 44%. Mentre in Italia e in Francia la domanda di tornare ai confini nazionali abbassa la confidenza nella UE di 5-6 punti. Solo in Spagna, il disincanto europeo dei delusi di Schengen aumenta in misura meno elevata (3 punti). D'altronde, rispetto al passato, la Spagna risulta esterna ai principali flussi migratori. Quindi la preoccupazione delle frontiere aperte è meno diffusa, fra i suoi cittadini. Per questi motivi, non sorprende che il trattato di Schengen susciti reazioni particolarmente ostili negli ambienti sociali più vicini ai soggetti politici neo-populisti o, comunque, anti-politici. Che hanno fatto dell'Unione Europea un bersaglio polemico, talora un "nemico". Contro cui "lottare". La richiesta di ripristinare i controlli alle frontiere risulta, dunque, molto estesa fra gli elettori che vedono con favore la Lega di Salvini (ma anche il M5s) in Italia; il Front National di Marine Le Pen in Francia, i Ciudadanos in Spagna. L'AfD in Germania. Ma il ritorno delle frontiere e dei confini riscuote favore anche fra i sostenitori

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dei partiti di Destra e di Centro-Destra. Perché risponde alla "paura degli altri", degli immigrati. E suscita domanda d'ordine. Questo sentimento è particolarmente esteso nella base di Forza Italia, dell'UMP, del PP, del CDU-CSU. Per la stessa ragione, nel Regno Unito la fiducia nell' UE risulta molto bassa fra gli elettori dell'Ukip e fra i Conservatori. Tuttavia, alla fine, si ripropone, in modo piuttosto clamoroso, l'eccezionalità – non l'eccezione – italiana. Il Paese d'Europa dove la fiducia nell'Europa – unita – è più bassa. Dove non solo i populisti e la destra, ma perfino il 40% degli elettori vicini al PD vorrebbero ripristinare i controlli alle frontiere. Chiudersi. Quasi il doppio rispetto alla base del PSOE. Comunque, molto più rispetto ai simpatizzanti degli altri partiti socialisti europei. Il "laboratorio politico italiano" (come l'ha definito Marc Lazar) non smette mai di sorprendere. Di sollevare inquietudini. Perché se la costruzione europea, se il futuro dell'Unione si appoggiano sul trattato di Schengen, sulla libertà di circolazione "oltre" i confini nazionali e dentro i confini comuni(tari), allora c'è fondato motivo di temere. Per la costruzione europea. Per il futuro dell'Unione. Ma questa, per quel che mi riguarda, è una buona ragione. Per difendere le buone ragioni del trattato di Schengen. In Italia, più che altrove. IL GAZZETTINO Pag 1 La Ue si salva se fa scelte chiare sui profughi di Francesco Grillo Il vertice di oggi del Consiglio Europeo sui migranti, allargato eccezionalmente alla Turchia, potrebbe essere l’ultima occasione per salvare l’Unione. Purtroppo, i precedenti sono scoraggianti, sembra infatti accrescersi la paralisi. E i vertici sembrano, ormai, tutti destinati a «comprare, tutt’al più, tempo» in attesa che i problemi si sgonfino da soli o che venga a qualcuno un’idea. E, tuttavia, stavolta una proposta, in teoria, ci sarebbe: considerando che la Grecia è l’epicentro di tutte e due le questioni - rifugiati ed euro - che in questi ultimi dodici mesi hanno rischiato di uccidere l’Unione e che la Germania è in entrambi i casi il Paese che rischia di più, potremmo provare a unirle. A risolverle entrambi con la stessa mossa. Basterebbe, del resto, applicare uno sconto di qualche punto sul debito che la Grecia ha, principalmente, nei confronti della Germania, per finanziare un’operazione che porrebbe l’Europa alla guida della più grande iniziativa umanitaria dalla fine della seconda Guerra mondiale. E che arresterebbe quei flussi senza controllo che stanno facendo spuntare, dappertutto, i muri contro i quali rischia di infrangersi un progetto nato per abbatterli. Anche perché sarebbe destinata a disintegrarsi un’Unione Europea che dimostrasse - come sta tragicamente facendo - di poter rinunciare a uno dei propri tratti fondanti (la libera circolazione delle persone) per non saper accogliere un’ondata di migranti dolorosa ma il cui numero è, comunque, pari allo 0,2% della sua popolazione complessiva. Così come è destinata, prima a poi, al fallimento un’unione monetaria non in grado di risolvere definitivamente la crisi di uno Stato Membro importante come la Grecia, ma il cui peso è pari a circa l’1,5% sulla ricchezza complessivamente prodotta nella zona Euro. Perché non proviamo a colpire due uccelli con la stessa pietra? L’ipotesi potrebbe essere quella di concedere alla Grecia una riduzione di un debito che, prima o poi, tornerà a dimostrarsi impagabile; in cambio della creazione – al confine con la Turchia - di una grande infrastruttura di accoglienza per tutti i rifugiati che ne avessero davvero bisogno. I due problemi sono diversi e hanno scale non comparabili e, però, collegare i due problemi, ne aumenterebbe, di molto, la fattibilità e il ritorno politico. La struttura avrebbe l’obiettivo di dare accoglienza ai rifugiati provenienti esclusivamente dagli Stati dai quali vengono gran parte delle persone che hanno diritto ad asilo, andando a prendersi i rifugiati in Turchia se necessario. Contemporaneamente, però, andrebbe stabilita la natura temporanea dell’accoglienza perché ciò sarebbe assolutamente fondamentale per garantire il capitale umano che sarà, prima o poi, necessario per la ricostruzione dei Paesi di provenienza per i quali il conflitto non deve assolutamente diventare permanente: la necessità di finanziare l’operazione umanitaria diventerebbe, anzi, il più potente incentivo per l’Europa a cercare con i propri partner una soluzione dei conflitti. Andrebbe, inoltre, chiarito che ulteriori viaggi attraverso le frontiere sono un’assoluta eccezione aperta solo a chi ha familiari in altri Stati dell’Unione: in questa maniera, i migranti che attraversano il mare per ragioni economiche, verrebbero scoraggiati. Molto più mirato e meno invasivo diventerebbe, a quel punto, l’accordo con la Turchia che è, comunque, un

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partner più problematico di quanto non lo sia uno Stato membro come la Grecia: non ci sarebbe più da costruire città ai confini con la Siria, come qualche giorno fa suggeriva Erdogan, ma più semplicemente chiedere la collaborazione per identificare i rifugiati e smantellare il traffico di esseri umani. I protagonisti del vertice di oggi ne avrebbero tutti un beneficio. Alexis Tsipras trasformerebbe in una risorsa, il fatto di essere l’epicentro di entrambe le crisi che stanno affondando l’Europa. La cancelliera Merkel uscirebbe dall’angolo con un risultato politicamente molto più spendibile sul fronte interno, di quanto possa pesare uno sconto sul debito della Grecia. I nazionalisti si ritroverebbero senza l’ossigeno politico che ne ha alimento l’ascesa. Lo stesso governo italiano avrebbe l’occasione di portare su un piano strategico diverso, la richiesta di una flessibilità sul deficit per far fronte al costo di essere frontiera dell’Europa. E, tuttavia, l’Europa ha un problema con soluzioni che appaiono razionali. Esse richiedono che l’Europa stessa passi sul cadavere del suo peggior nemico: l’inerzia. Che riesca a trovare in modo per sfuggire alla sindrome della negoziazione permanente che la fa – sempre – arrivare in ritardo. Avere la Grecia come prima sperimentazione di una vera frontiera e, persino, di un’esperienza di politica estera comune comporta qualche investimento e alcune modifiche regolamentari – a partire da una revisione degli accordi di Dublino – che però sono indispensabili per salvare Schengen. Cambiamenti assolutamente fattibili e che, tuttavia, diventano automaticamente difficilissimi per quest’Europa. Lacerata dalla contraddizione di dover, da una parte, fronteggiare problemi drammatici che vengono dilatati a dismisura dalla televisione; e dall’altra, da una paralisi che non può che continuare a produrre topolini. Servirebbe pragmatismo per trovare soluzioni in tempi brevi. E una visione che abbiamo perso per l’incapacità di prenderci dei rischi. È questo il vero fantasma che dovrebbe agitare i sonni di una generazione cresciuta abbattendo muri. LA NUOVA Pag 1 L’intervento militare è una follia di Ferdinando Camon Testo non disponibile

Pag 1 Oggi si decide la sorte dell’Europa di Vincenzo Milanesi C’è molta attesa per il vertice di oggi a Bruxelles che vede riuniti i capi di Stato e di governo dell’UE con il primo ministro turco. Il tema è la drammatica situazione dei migranti che dalla Turchia passano in Grecia per avviarsi sulla rotta balcanica verso l’Europa centrale. Sono in gran parte rifugiati in fuga dall’inferno siriano, così come da quello iracheno, oltre che dal martoriato (e mai pacificato) Afghanistan. Sono più d’uno i nodi che verranno al pettine, e sono tutti da sciogliersi all’interno dell’Unione. La Turchia gioca la sua parte in commedia, anzi in tragedia. E cerca di ottenere il massimo, non solo i tre miliardi di euro promessi, offrendo in cambio l’impegno a trattenere e gestire sul suo territorio il maggior numero di profughi in transito verso l’Europa. Sappiamo bene però che, al di là di quanto la Turchia realmente farà, poche speranze di avviare almeno a soluzione, se non risolvere, la tragedia dei profughi è lecito coltivare finché non cesserà per davvero il massacro siriano. E su questo scenario l’Unione ben poco, in realtà, può fare, essendo la partita tutta in mano ad Usa e Russia, oltre che delle potenze regionali Iran, Arabia Saudita e Turchia. Al massimo, può giocare di sponda. Ma non è granché. E’ l’unità di intenti all’interno dell’Unione quello che manca, e che ha creato una situazione potenzialmente più esplosiva della stessa crisi finanziaria dell’euro. Che potrebbe portare all’abbandono, di fatto, dell’accordo di Schengen, e aprire così la strada alla dissoluzione dell’Unione. Perché questa è la posta in gioco. Due sembrano essere, tra gli altri, i nodi più difficili da sciogliere. Il primo è quello della distribuzione dei rifugiati tra i Paesi dell’Unione. L’accordo che sembrava essere stato raggiunto all’inizio dell’estate scorsa è miseramente fallito. Per l’irrompere prepotentemente sulla scena di quegli egoismi nazionali che hanno portato alcuni Paesi a compiere quei gesti non solo di valore simbolico ma anche di valenza pratica devastante che sappiamo. La costruzione di quei muri rischia di seppellire l’Idea stessa di Unione. E non è sensato imporre a Grecia e Italia la costruzione di hotspot se non si supera il regolamento di Dublino, se fallisce l’operazione di redistribuzione, e di rimpatrio forzoso con azione

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concertata e finanziata dall’Unione di quanti non sono riconosciuti come richiedenti asilo. Le dichiarazioni di uno dei promotori del gruppo di Visegrad, il presidente slovacco Fico, che propone di “sacrificare la Grecia” (sic!), lascia davvero interdetti quanti ancora operano per, ma si dovrebbe forse dire si illudono di, salvare l’idea stessa di Unione europea. Per non dire degli atti unilaterali, decisi dall’austriaco Faymann, di contingentare senza un previo accordo con gli altri Paesi gli ingressi attraverso le proprie frontiere. Che pensa forse di riuscire a far risorgere l’Impero asburgico allargato alla Polonia… Ma alla faccia dell’Europa. L’altro nodo è quello dei controlli alle frontiere dell’Unione da parte di una forza europea che vada al di là delle polizie e degli eserciti dei singoli Paesi membri. Una operazione in questo senso sarebbe probabilmente di una qualche efficacia pratica, e di alto valore simbolico. Perché segnerebbe un punto importante in favore di una logica di azione comune. Ma anche a favore del principio di superamento delle sovranità nazionali. E qui scatta la reazione di rigetto, dura e non scalfita da alcuna considerazione razionale, perché si toccherebbe un tabù fortissimamente difeso da molti, troppi membri dell’Unione. Forse si potranno creare alleanze per certi versi inattese oggi a Bruxelles, come quella (probabile ed anticipata della lunga telefonata pre-vertice) tra Matteo Renzi e Angela Merkel, dopo le scintille di dicembre scorso e la freddezza degli ultimi mesi. E qualche risultato di contenimento del processo di dissoluzione, o di un suo provvisorio rallentamento, lo si potrà ottenere. Ma senza una strategia di azione di lungo periodo condivisa da un ampio fronte in grado di isolare le tendenze diffuse (e probabilmente destinate a crescere) di una chiusura all’interno del più miope interesse nazionalistico, c’è poco da attendersi dal prossimo futuro per l’Unione. E sarà una catastrofe per tutti. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 La missione e i suoi pericoli di Paolo Mieli Noi e la guerra Per una sola azione, nei suoi due anni di governo, Matteo Renzi ha ricevuto consensi pressoché unanimi, anche dai suoi più aspri oppositori: l’indugio prima dell’intervento militare in Libia. La preparazione di questo passo è stata paziente, circospetta, prudente, addirittura flemmatica. E adesso si dovrà, nel caso, procedere passando per un dibattito con annesso voto in Parlamento. Brucia ancora il ricordo di come fummo trascinati nella campagna - imposta da Francia e Gran Bretagna - iniziata il 19 marzo del 2011 per l’abbattimento del regime di Gheddafi. Un’azione condotta sotto le insegne delle Nazioni Unite e Tzvetan Todorov fu il primo a mettere in guardia sul fatto che da quelle parti la legittimità onusiana non sarebbe stata «sinonimo di legalità». Aveva ragione. Il vicario apostolico di Tripoli, Giovanni Martinelli, denunciò immediatamente che i bombardamenti Nato sulla capitale libica provocavano dozzine di morti tra i civili e una quantità impressionante di aborti da traumi per le esplosioni. Poi fummo costretti a registrare che il consenso al tiranno era più forte di quel che avevamo pensato talché le sue milizie combattevano con una imprevista determinazione. Nei sette mesi che intercorsero tra l’inizio dell’intervento armato (marzo 2011) e l’uccisione di Gheddafi (ottobre di quello stesso anno) abbiamo dovuto prendere atto del fatto che, come aveva avvertito lo studioso dell’Atlantic Council Karim Mezran, in Libia non ci sono angeli ma «differenti tipi di diavoli». I miliziani di Gheddafi erano spietati. Ma anche i «buoni» non scherzavano. In estate l’Onu dovette emettere un comunicato ufficiale in cui si affermava che i rivoltosi di Bengasi avevano commesso crimini di guerra e violato ripetutamente i diritti umani. Amnesty International stilò un rapporto di ventuno pagine sugli «abusi dei ribelli». I quali ribelli, sconvolti dalle faide intestine, giunsero a uccidere il loro generale Abdel Fattah Younes, peraltro ex ministro di Gheddafi. Poi quando i «nostri» in agosto finalmente entrarono a Tripoli si scatenò un’imbarazzante «caccia ai neri» che i «liberatori» sostenevano essere mercenari al soldo del despota. Fu quindi una lunga serie di linciaggi e uccisioni a freddo. Talvolta stragi. Tutto questo, ripetiamo, prima che Gheddafi fosse scovato e venisse ucciso in un modo barbaro e mai del tutto chiarito. In seguito le cose andarono anche peggio. Attacchi di brigate salafite a chiese di Bengasi, persecuzione di copti, attentati contro chiunque cercasse di riportare il Paese alla

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normalità, persino all’indirizzo di Hossam El-Badry, l’allenatore della più importante squadra di calcio. Nel settembre del 2012 a Bengasi venne ucciso da ultras islamici l’ambasciatore statunitense Chris Stevens nel clima surriscaldato da manifestazioni contro il film Innocence of Muslim . Iniziò poi la stagione dei rapimenti che, come abbiamo avuto occasione di constatare con amarezza, non si è ancora conclusa. Il Paese implose. Una fazione affiliata ai Fratelli musulmani si impossessò di Tripoli. Ma c’erano islamisti che scavalcavano questi «fratelli» in radicalità. Un commando di jihadisti attaccò l’hotel Corinthia dove risiedeva il primo ministro musulmano Omar al-Hasi provocando morti e feriti. Il governo legittimato dalle elezioni del 2014 fu costretto a riparare a Tobruk. Islamisti che si richiamano al califfo al Baghdadi si insediarono a Sirte e successivamente sono giunti a Sabratha ai confini con la Tunisia dove nei giorni scorsi sono stati uccisi i due nostri connazionali Piano e Failla. L’uomo forte del governo di Tobruk, il generale ex gheddafiano Khalifa Haftar, assai benvoluto dall’Egitto di al Sisi, tentò dapprima di resistere prendendo in ostaggio il Parlamento di Tripoli e sequestrando venti deputati; poi fece bombardare una nave turca sospettata di trasportare razzi per le milizie del califfato. Altre tribù (centoquaranta!) presero possesso della parte del Paese, soprattutto il Fezzan, che sfuggiva al controllo delle fazioni di maggior rilievo. «La Libia ci esploderà in faccia», fu la previsione del presidente del Ciad, Idriss Déby. Per evitare che si realizzasse la profezia di Déby, noi occidentali abbiamo faticosamente elaborato un piano che prevede la formazione di un governo di unità nazionale (escluso Haftar) che dia una patente di legittimità a un nostro intervento contro l’Isis. Un piano che - come ci ha rinfacciato Ali Ramadan Abuzaakouk ministro dei Fratelli musulmani a Tripoli in una minacciosa intervista concessa al Corriere - è stato messo a punto dall’inviato dell’Onu Bernardino León il quale non ha dato prova di imparzialità accettando un’offerta di lavoro degli Emirati Arabi con un compenso per cui non patirà la fame: cinquantamila dollari al mese. Tale progetto è stato successivamente ridefinito dal nuovo delegato delle Nazioni Unite, Martin Kobler, ispirato, secondo Abuzaakouk, da una visione non dissimile - nella sua perniciosità - da quella del predecessore. Sotto la guida di Kobler, le compagini di Tobruk e di Tripoli sono adesso impegnate a dar vita ad un unico governo che nella sua prima versione ha provocato ironie per il suo essere pletorico. Governo che non si sa dove avrà sede (in una fase iniziale a Tripoli) e che al termine di una laboriosissima gestazione dovrebbe limitarsi a schiacciare il pulsante della luce verde al nostro intervento. Un intervento che, peraltro, in forme appena dissimulate e in proporzioni modeste, è già in atto. Già questo è un modo di procedere che desta perplessità… In ogni caso, prima di imbarcarci in questa impresa, è bene fermarci a riflettere ancora su due o tre punti. Primo: dalla caduta del muro di Berlino (1989) sono trascorsi ventisette anni nel corso dei quali l’Occidente ha combattuto numerose guerre che, eccezion fatta per quella balcanica, non hanno dato i risultati sperati. Nella maggior parte dei casi, anzi, hanno provocato autentiche catastrofi. E la Libia, come abbiamo provato a tratteggiare in estrema sintesi, è il peggior rovaio tra quelli in cui potremmo andarci ad infilare. Si può fare qualcosa di diverso perché la storia non si ripeta? Secondo: andiamo nella nostra ex colonia in rottura con Haftar nemico esplicito degli islamisti (cioè di coloro contro i quali dovremmo combattere) e protetto dall’Egitto; il che non farà che peggiorare i nostri rapporti con il Cairo già resi molto difficili dopo l’uccisione di Giulio Regeni. Un obiettivo intralcio alla nostra politica delle alleanze. Terzo: nessuno di noi ha fin qui reso pubblica un’idea condivisa di quale debba essere la meta di questo tragitto da compiere in armi. La divisione della Libia in tre o quattro Stati? Perfetto, ma allora perché non coinvolgere il nascituro governo libico in questo in modo che se ne possano conoscere da subito eventuali obiezioni? Da ultimo: all’Italia, a quanto si apprende, sarà assegnato il comando dell’operazione. È un grande onore. Anche se non guasterebbe un certo understatement nell’accogliere questo prestigioso incarico. E una coraggiosa valutazione delle conseguenze che esso porta con sé. Auspicheremmo infine che la missione di guerra venisse definita come tale. Rinunciamo per una volta a quei neologismi eufemistici con i quali noi e non solo noi abbiamo sempre battezzato le imprese militari. Chiamare le cose con il loro nome è una forma di assunzione di responsabilità. La prima. Forse la più importante. LA REPUBBLICA di domenica 6 marzo 2016

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Pag 1 Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corriere di Eugenio Scalfari Ricordo ancora quando nell'autunno del 1975 feci una sorta di tour nelle sale teatrali delle principali città italiane per presentare pubblicamente il futuro giornale quotidiano "la Repubblica" che sarebbe uscito nelle edicole il 14 gennaio del 1976. "Dall'alpi alle Piramidi", scrisse il poeta. Più modestamente io andai da Torino a Palermo, da Milano a Bari, da Reggio Calabria a Bologna, a Firenze, a Verona, a Padova, a Catania, a Genova, insomma dappertutto, concludendo al teatro Eliseo di Roma. Dopo aver esposto le caratteristiche più interessanti del futuro giornale, a cominciare dal formato che era per l'Italia un'assoluta novità e il cosiddetto palinsesto, cioè la collocazione dei diversi argomenti, l'abolizione della classica terza pagina, il trasferimento delle pagine culturali al centro e una sezione economica che chiudeva il giornale, la parola passava al pubblico e le domande fioccavano. Quante pagine? Trentadue. Quali sono i temi esclusi? Le cronache locali, la meteorologia, lo sport. Anche lo sport? Sì, anche lo sport. Ed infine: qual è l'obiettivo editoriale? Superare tutti gli altri giornali. Anche il "Corriere della Sera"? Sì, anche il Corriere, anzi l'obiettivo è proprio quello. Il pubblico accoglieva quest'ultima risposta da un lato ridendo e dall'altro applaudendo. E poi, giù il sipario. L'inseguimento durò esattamente dieci anni: nel 1986 raggiungemmo e superammo il Corriere nonostante che, sotto la direzione di Piero Ottone, avesse raggiunto il massimo delle sue vendite. E nonostante avesse adottato una politica di neutralità nei confronti del partito comunista che fin lì era stato la bestia nera del giornale di via Solferino, da custodire ideologicamente in una gabbia del giardino zoologico o in un ghetto dal quale non si può né entrare né soprattutto uscire. Dieci anni sono appena un baleno per superare un giornale che esisteva esattamente da cent'anni quando Repubblica vide la luce. L'altro ieri il Corriere della Sera ha giustamente celebrato i suoi 140 anni pubblicando un supplemento molto interessante che contiene l'elenco di tutti i direttori. Innumerevoli, a cominciare dal fondatore che si chiamava Eugenio Torelli Viollier e soffermandosi soprattutto su Luigi Albertini che di fatto lo rifondò nel 1900 e lo diresse fino al 1921 quando, nominato senatore del Regno, ne lasciò la guida al fratello continuando però a scriverci articoli di un coraggioso antifascismo, ancorché lui, Luigi Albertini, fosse un liberal-conservatore di un antisocialismo a prova di bomba e quindi, dal '19 al '22, sostanzialmente non ostile alle squadre che incutevano timore alle "Case del popolo", così come era stato un fiero interventista nella guerra del '15, appoggiando D'Annunzio che ne era la bandiera. Centoquarant'anni da un lato e quaranta dall'altro; una miriade di direttori da un lato e tre (il terzo dei quali è però arrivato da poche settimane) dall'altro. Che cosa è accaduto nel periodo di convivenza e di concorrenza tra le due testate? Come è cambiato il paese, l'opinione pubblica, il costume e quale è stata la funzione dei due giornali nell'influenzare quell'opinione ed esserne al tempo stesso influenzati? Il Corriere della Sera è sempre stato il giornale del capitalismo lombardo: produttività, profitto da reinvestire, "fordismo" come allora si diceva, salari soddisfacenti e aggrappati alla produttività della manodopera che alimentava la domanda, dialettica severa con i sindacati, antisocialismo e soprattutto anticomunismo, atteggiamento filogovernativo sempreché i governi in carica aiutassero gli investimenti privati con appositi e tangibili incentivi che facessero funzionare a dovere i servizi pubblici; fiscalità proporzionale e non progressiva, commercio con l'estero libero nei settori nei quali la nostra economia era in grado di competere ma protezionismo e dazi dove eravamo ancora in fase immatura. Laicismo ma con misura perché la religione e la famiglia rappresentavano i pilastri della società. In politica estera Francia, Inghilterra e America erano i punti di riferimento. Governi, sia in Italia sia all'estero, preferibilmente liberal-conservatori. Questo il quadro generale, che aveva il vantaggio d'esser condiviso dalle classi dirigenti non solo lombarde ma italiane. Infatti il Corriere vendeva metà della tiratura in Lombardia e soprattutto a Milano e provincia dove la sua cronaca locale ne aumentava la diffusione; l'altra metà nel resto d'Italia e soprattutto nelle città dove una parte della classe dirigente si sentiva adeguatamente rappresentata da quel giornale. Questa struttura al tempo stesso economica, politica e culturale era stata creata da Luigi Albertini che non era soltanto un giornalista ma anche organizzatore, uomo di vasta cultura e di vaste conoscenze sociali, comproprietario di maggioranza nella società che editava il Corriere, avendo con sé come soci di minoranza alcuni famiglie industriali,

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proprietarie di imprese soprattutto tessili. Proprio per queste caratteristiche Albertini era molto più che un direttore nominato da una proprietà, era direttore e proprietario, quindi assolutamente indipendente. Condivideva pienamente gli ideali e gli interessi del capitalismo lombardo, ma gli dava una vivacità ed una modernità sua propria con il risultato di influenzare la pubblica opinione di stampo liberal-conservatore senza peraltro che lui e il Corriere che era casa sua ne fossero condizionati. Era molto patriottico Luigi Albertini. Non amava la guerra ma le imprese coloniali sì, anche per mettere l'Italia a livello delle altre potenze europee. Giudicava il governo italiano dal colore politico che aveva, ma anche dall'efficienza. E metteva gli interessi del Corriere ed i valori di il giornale era portare al centro della sua attenzione. Di fatto il Corriere era un partito di cui il suo direttore era il capo. Infatti parlava con i presidenti del Consiglio direttamente. Al prefetto di Milano parlava quasi come un suo superiore e lo stesso faceva con il direttore della Banca d'Italia, specie quello che dirigeva la sede milanese dell'Istituto. Queste notizie sono in gran parte rese esplicite dalle sue memorie, fonti di grande ricchezza per ricostruire il passato. Questa situazione proseguì quando Albertini dovette cedere la proprietà del giornale perché Mussolini non sopportava che i grandi quotidiani italiani fossero posseduti da giornalisti-direttori. Così accadde al proprietario-direttore de La Stampa, Alfredo Frassati, così accadde anche alla Serao che dirigeva e possedeva Il Mattino di Napoli ed ad altri quotidiani importati e così accadde anche a lui, che dovette cedere la proprietà alla famiglia Crespi, fortemente impegnati nell'industria tessile e già azionisti di minoranza nella società del Corsera. I direttori nominati dai Crespi dovevano naturalmente essere graditi a Mussolini, che come primo mestiere era stato direttore prima dell'Avanti e poi del Popolo d'Italia da lui fondato. Al Corriere, come negli altri giornali che erano ormai ossequienti al regime fascista, voleva giornalisti bravi che però adottassero la linea del governo, sia pure adattandola al tipo di lettori ai quali quel giornali si dirigeva. Dunque propaganda capillare attraverso testate di prestigio che quel prestigio dovevano conservarlo e addirittura accrescerlo. Il Corriere della Sera si conformò a quelle direttive come tutti gli altri. Con un minimo di fronda? Direi di no. Del resto la fronda non era possibile. Le cose naturalmente cambiarono quando il fascismo cadde e il Corriere diventò come tutti gli altri un giornale antifascista, famiglia Crespi consenziente. Il primo direttore della nuova situazione fu Mario Borsa che non era soltanto antifascista ma anche repubblicano. Su questo punto i Crespi non erano d'accordo, tant'è che Borsa, a Repubblica già proclamata, si ritirò. Ma poi la qualità professionale dei direttori che si avvicendarono a via Solferino fu sempre notevole e culminò con Missiroli, con Spadolini e infine con Piero Ottone del quale ho già fatto cenno. Quando nacque Repubblica c'era appunto lui alla direzione del Corriere; ma vent'anni prima era già nato l'Espresso, il settimanale "genitore" del quotidiano. E l'Espresso aveva già messo sotto tiro la stampa quotidiana, la sua formula, i suoi valori, tutti sotto l'influenza del Corsera. Sicché la polemica tra il nostro gruppo e il Corriere e il resto dei quotidiani fatti a sua somiglianza, non è cominciata quarant'anni fa ma sessanta. Solo La Stampa di Torino era del tutto diversa dal Corriere, e Il Giorno di Milano, che però aveva già perso una parte della sua iniziale brillantezza. Questo fu il teatro nel quale i due gruppi si scontrarono. Come avvenne e di quali valori diversi il gruppo Espresso-Repubblica fosse portatore l'ho già accennato all'inizio di quest'articolo, ma ora mi soffermerò su qualche punto che merita d'essere approfondito. La parola liberale anzitutto. Nella lingua inglese si chiama "liberal" che serve a designare chiunque non sia asservito ad una ideologia. Non riflettono abbastanza, secondo me, sull'uso ed il senso della parola "ideologia" che lessicalmente significa adesione ad un'idea e perciò anche sostenere che "liberal" è colui che non si sente asservito ad una qualsiasi ideologia configura in questo modo proprio un'ideologia. Comunque il significato reale della parola "liberal" consiste nel rifiuto del totalitarismo. I liberal cioè possono cambiare idea secondo l'andamento dei fatti che modificano il luogo in cui essi vivono. Basta lessicalmente aggiungere una aggettivo a quella parola: c'è il liberal conservatore, il liberal moderato, il liberal progressista. Al di là non si va, il liberal radicale non è concepibile. Il liberal vive in uno spazio che politicamente è definibile di destra o di centro, ma non di sinistra. Aggiungo che dal punto di vista economico è liberista. Da noi, nel linguaggio politico italiano, questi aggettivi sono applicabili ma esistono anche altre e più approfondite spiegazioni. Anzitutto quegli aggettivi possono diventare sostantivi: reazionari, conservatori, moderati, progressisti. Inoltre c'è la parola liberale ma c'è

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anche liberista, libertario, libertino. A mio parere il Corriere della Sera, sia pure con i mutamenti portati dai vari direttori nelle varie stagioni della loro direzione, ha sempre avuto un sottofondo liberale-liberista e conservatore o moderato. Noi, di Espresso-Repubblica, siamo sempre stati liberal-democratici. E se volete altre ma equivalenti definizioni, siamo stati innovatori con l'ancoraggio del bene comune, della giustizia sociale, dell'eguaglianza dei punti di partenze, cioè dare a tutti i cittadini e soprattutto ai giovani le stesse possibilità di misurarsi con la vita. Questo significa liberal-democratico che è la definizione politica dei due grandi valori di libertà ed eguaglianza, mettendone secondo le circostanze l'accento a volte più sulla libertà e a volte sull'eguaglianza, purché l'altro valore sia sempre presente e mai dimenticato. Questo diversifica i due gruppi editoriali e le due opinioni pubbliche che sentono l'appartenenza all'uno o all'altro. Noi non siamo mai stati un partito, ma sempre abbiamo avuto noi stessi, cioè i valori che noi sosteniamo, come punto esclusivo di riferimento. Sono stati di volta in volta alcuni partiti o alcune correnti di quei partiti, ad avvicinarsi a noi, ma non è mai avvenuto il contrario. Spesso è capitato che fossero con noi Guido Carli quando era governatore della Banca d'Italia e Antonio Giolitti, comunista prima e socialista dopo la crisi di Ungheria repressa nel sangue dalle truppe sovietiche. Oppure Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, oppure Beniamino Andreatta, oppure Ciriaco De Mita. Noi siamo sempre stati laici, fautori della libera Chiesa in libero Stato, ma molti democristiani sono stati vicini a noi e si sono battuti di conseguenza ed alcuni comunisti hanno modificato la loro ideologia non certo per merito nostro, ma con noi si sono trovati a loro agio. Questo è stato ed è il nostro patrimonio ideale e civile. E questo ho ragione di credere che resterà in un futuro che non deve dimenticare il passato e che deve operare attivamente nel presente garantendo libertà e giustizia sociale. LA STAMPA di domenica 6 marzo 2016 Perché serve una dottrina sulla sicurezza di Maurizio Molinari Il dramma attraversato dai quattro tecnici di «Bonatti» evidenzia la dissoluzione della Libia, suggerisce l’entità dei pericoli che ne conseguono per l’Italia e impone la necessità di una nuova dottrina sulla sicurezza nazionale. L’uccisione di Fausto Piano e Salvatore Failla, così come l’odissea di Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, nasce dalla decomposizione della Libia. Lo Stato post-coloniale, creato nel 1951 e dominato per oltre 40 anni da Muammar Gheddafi non esiste più. Non ha governo, Parlamento, forze di sicurezza né controllo sui confini. Nelle tre regioni che ne erano parte - Tripolitania, Cirenaica e Fezzan - a prevalere è la polverizzazione dell’autorità del territorio da parte di una miriade di milizie armate che si contendono centri urbani, poteri locali, basi militari, vie di comunicazione, risorse naturali e traffici illegali. Gli esecutivi rivali di Tripoli e Tobruk sono segnati da lacerazioni intestine, firmano accordi destinati a cadere e devono fare i conti, da Sabratha a Misurata, con una sorta di città-stato gestite in proprio da leader corrotti, più o meno sanguinari. Ciò spiega la difficoltà della diplomazia internazionale - a cominciare da Stati Uniti e Italia - nel tentare di favorire la creazione di un governo di unità nazionale. E l’intenzione dell’inviato Onu Martin Kobler di dialogare con le tribù, unica forma di rappresentanza alternativa alle milizie fra le quali spicca lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi padrone di almeno 200 km di costa attorno a Sirte. A descrivere la precarietà dell’opzione diplomatica è lo scenario a cui si sta lavorando: l’insediamento a Tripoli di un governo di unità incompatibile con quello locale islamico, con la città divisa di conseguenza in aree rivali colme di armi. Ovvero, una sorta di Berlino 1945 in versione maghrebina. Tutto ciò pone tre tipi di minacce agli interessi nazionali italiani. Primo: la possibilità che gruppi terroristi, come Isis e Al Qaeda, estendano le enclave già occupate e le usino come piattaforma per lanciare attacchi contro il nostro territorio, e l’Europa, come anche azioni di pirateria contro il traffico marittimo nel Mediterraneo. Secondo: il sabotaggio di fonti di energia di importanza strategica per il fabbisogno nazionale, dall’impianto di Mellitah da dove parte il «South Stream» che arriva in Sicilia fino a raffinerie e pozzi off shore. Terzo: la cattura di cittadini o proprietà italiane al fine di ottenere riscatti politici o economici per consolidare il potere di clan e milizie locali. Poiché si tratta di minacce contro la sicurezza collettiva, l’Italia è chiamata a difendersi. Ma la dottrina militare deve adattarsi a tale scenario. Dalla fine della Seconda guerra mondiale la sicurezza italiana ha avuto come

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pilastri l’adesione alla Nato e all’Unione Europea ma entrambe tali organizzazioni multilaterali sono state create per fronteggiare pericoli provenienti da Stati con confini, eserciti e governi. La campagna in Afghanistan contro i taleban ed Al Qaeda ha già evidenziato le difficoltà tattiche nella sfida a gruppi terroristi ed ora in Libia, dove i nemici sono ancor più disarticolati, tali problemi tattici aumentano. Perché abbiamo a che fare con una galassia di jihadisti, milizie, clan e trafficanti di ogni tipo. Da qui la necessità per l’Italia di procedere in una duplice direzione. Da un lato spingere la Nato ad operare con maggiore agilità contro i nuovi pericoli e l’Ue a dotarsi di unità di intervento rapido capaci di entrare in azione con breve preavviso. Dall’altro stabilire dei principi per operare direttamente e in fretta, se necessario. Sono tali principi che dovranno formare il nucleo di una nuova dottrina di sicurezza. Le scelte compiute dai nostri maggiori alleati - Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia - suggeriscono una possibile strada da seguire: l’uso della forza viene deciso per eliminare minacce dirette ed immediate alla collettività così come per portare in salvo cittadini in pericolo di vita. Lo strumento per eseguire tali missioni sono le truppe speciali impegnate in operazioni guidate dall’intelligence: come altri Paesi Nato già fanno e come anche l’Italia può adesso fare dopo l’approvazione delle relative norme dal Parlamento, con i conseguenti decreti di attivazione da parte della presidenza del Consiglio. Ma avere lo strumento non basta: per adoperarlo con efficacia, e nel lungo termine, deve essere accompagnato da una dottrina di sicurezza. AVVENIRE di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 Mai avventure senza ritorno di Giulio Albanese La possibile escalation in Libia / 1 «Nei tempi antichi è stato scritto che è dolce e decoroso morire per la propria patria. Ma nella guerra moderna non c’è niente di dolce e opportuno nella morte. Si muore come cani senza alcun valido motivo ». Queste parole di Ernest Hemingway sono quelle che forse, più di altre, descrivono efficacemente le ragioni e soprattutto gli effetti devastanti del conflitto che dal 2011 insanguina la Libia. La ridicola, formale pretesa anglo- francese di portarvi, allora, «la democrazia » non solo è stata decisamente smentita dai fatti, ma addirittura ha determinato, dopo la caduta di Gheddafi, l’implosione dell’intero Paese, lasciandolo sprofondare nell’anarchia, con una galassia di formazioni armate che si contendono il controllo del territorio. La pluralità di attori sul campo libico aumenta a dismisura, naturalmente, il rischio che si creino roccheforti o califfati, cioè luoghi alla mercé di formazioni criminali prive di qualunque legittimazione. Se da una parte è vero che non è lecito restare indifferenti rispetto a quanto sta avvenendo; dall’altra è ancora più vero che occorre evitare di ripetere gli errori già commessi in Somalia e in Iraq. Anche perché, dal dissolvimento del regime di Gheddafi in poi, le cancellerie – quelle che oggi “contano” sul palcoscenico della Storia – non hanno fatto bella figura: infatti si è perso tempo, molto tempo prezioso. Col risultato che ancora una volta sono scattati meccanismi e dispositivi estranei all’arte della diplomazia, che tuttora inibiscono una seria azione di politica estera. Ecco che allora si rinuncia al principio dell’apertura di un dialogo a tutti i costi – nel caso della Libia – tra le diverse componenti, quelle a base regionale e quelle a base tribale, il governo/ i governi, i gruppi armati... Sarebbe pertanto un grave errore intervenire militarmente, come occidentali, nel caos libico in quanto sortirebbe l’effetto devastante di coagulare sotto il vessillo jihadista le innumerevoli forze eversive attualmente dispiegate sul campo. Insomma, l’ennesima guerra santa contro l’invasore, poco importa che si tratti di contingenti tradizionali o di forze speciali pilotate dall’intelligence. Il buon senso, piuttosto, suggerisce che con tutta la necessaria prudenza occorre coinvolgere maggiormente nella soluzione della crisi libica anche le due potenze laiche regionali: Egitto e Algeria. Senza dimenticare che alla fine, dovranno essere comunque le varie fazioni libiche a decidere il futuro del proprio Paese. Da questo punto di vista, la diplomazia internazionale dovrebbero mettercela tutta nel preparare il terreno affinché siano i moderati ad affermarsi, soprattutto nei confronti delle formazioni jihadiste radicali legate al Daesh. Quest’ultimo ha certamente un ruolo destabilizzante e come gli altri gruppi radicali libici deve parte del proprio arsenale al saccheggio dei depositi di armi e munizioni del disciolto esercito di Gheddafi. Al contempo, però, riceve sostegno anche dai salafiti di matrice saudita. Sarebbe

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illusorio pensare che le Petromonarchie del Golfo siano del tutto estranee a quanto sta avvenendo in Libia, per non parlare del Sudan. Proprio da questo Paese, secondo fonti indipendenti della società civile sudanese, partirebbero convogli destinati al Daesh e ad altre formazioni jihadiste. Una cosa è certa: nessuna regola del diritto internazionale autorizza uno o più Stati (incluso il nostro) a ricorrere unilateralmente all’uso della forza per cambiare un regime o la forma di governo di un altro Stato. Solo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu potrebbe, a motivo di circostanze particolari, decidere, nel rispetto del dibattito parlamentare dei singoli Stati coinvolti, che certi fatti o accadimenti costituiscano effettivamente una minaccia contro la pace. Questo non significava, comunque, che il ricorso alla forza sia, per lo stesso Consiglio di Sicurezza, la sola risposta adeguata. Non resta che sperare, e sperare fortemente, nella consapevolezza, come diceva san Giovanni Paolo II, che la guerra è sempre e comunque «un’avventura senza ritorno». Pag 1 Lasciar fare è insensato di Riccardo Redaelli La possibile escalation in Libia / 2 Nel pantano insanguinato in cui minaccia di affondare ogni barlume di autorità statuale libica, qualsiasi prospettiva di azione – politica, diplomatica o di sicurezza che sia – sembra quanto mai improvvida e avventata. È facile ora, per esempio, deridere il tentativo delle Nazioni Unite di ridare al Paese un governo legittimo di unità nazionale. L’Italia ha dato con grande lealtà tutto il proprio appoggio a questo sforzo, ben sapendo che i rischi di un fallimento erano e sono fortissimi. Ma era, e rimane, la strada giusta da percorrere, dato che restituire alla Libia un governo che sia in qualche modo rappresentativo dell’intero popolo, e non solo la proiezione di milizie, tribù, fazioni, ambizioni personali è la base da cui ripartire. Purtroppo questo obiettivo appare ancora lontanissimo da raggiungere, impantanati come siamo fra i veti incrociati, le ripicche, la mancanza di responsabilità di troppi attori libici (e anche di molti regionali e internazionali). Da questo punto di vista, l’Italia è stata fra le poche potenze a guardare alla Libia come a uno Stato da preservare nella sua unitarietà. Altri attori hanno pericolosamente flirtato con le forze centrifughe che stanno lacerando il Paese. Perché la verità amara è che a tanti l’idea di uno 'spacchettamento' delle regioni libiche non sembra dispiacere poi molto. Lo stesso avviene a livello militare. Da tempo in Libia operano gruppi speciali e forze militari di una pluralità di Paesi, senza un vero coordinamento e senza un progetto politico comune. Dai bombardamenti egiziani ed emiratini, all’azione delle forze speciali francesi e inglesi si assiste a un proliferare di azioni sotto la bandiera della lotta al Daesh e alle milizie jihadiste. Il governo italiano ha recentemente deciso di autorizzare azioni simili, mentre è oggetto di pressioni fortissime da parte statunitense perché guidi una possibile coalizioni internazionale in Libia. È evidente come non sia questa l’opzione preferita dall’Italia, che avrebbe voluto fosse un governo di unità nazionale a chiedere un aiuto sul versante della sicurezza. Ma con la costante e rapida ascesa del terrorismo islamista, e con il pericolo di un suo radicamento, lo scenario strategico e di sicurezza sta peggiorando in modo troppo repentino per consentire di rimanere inattivi. Aggiungiamo poi che, davanti alla niente affatto nuova evidenza di iniziative già in corso da parte di Francia e Gran Bretagna e assunte senza bisogno di tante approvazioni internazionali, Roma non può fare la 'vergine vestale', custode tetragona del multilateralismo. Certo, occorre riflettere bene su cosa si intenda per azione militare. Questi ultimi vent’anni, fra Somalia, Kossovo, Iraq e Afghanistan ci hanno insegnato quanto sia umanamente, finanziariamente e politicamente costoso avventurarsi in 'missioni di stabilizzazione'. E come, ben che vada, il successo sia solo molto marginale. Ma è altrettanto vero che l’idea 'light', che invocano molti, ossia azioni aeree e con i droni, uso di forze speciali e di tanta tecnologia, permette 'uccisioni' eccellenti di capi terroristici, ma non stabilizza veramente la situazione sul terreno e non aiuta la nascita di un governo unitario. Di fatto, però si tratta di fiancheggiare e proteggere questa o quella milizia, questa o quella regione, con l’effetto di rafforzare l’idea della fine della Libia come entità unitaria. I nostri 'alleati' europei da tempo sembrano mostrare molto poco interesse nella sua difesa. L’Italia, al contrario, ha sempre cercato di preservarne l’unitarietà. Alla luce di tutto questo, bisogna valutare con onestà quale forma di azione militare risponda meglio a un tale

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progetto politico e agli interessi dei popoli libici oltre che degli italiani e – sebbene suoni retorico – della causa della pace. E quali siano le nostre capacità reali di intervento. Ma per certo, il non fare nulla, baloccandosi nell’idea che alla diffusione della cancrena terroristica e dello sfacelo statuale si possa rispondere esclusivamente con le parole, sarebbe la peggiore delle decisioni possibili. Pag 6 “Utero in affitto e femminicidio, due facce della stessa medaglia” di Lucia Bellaspiga Ricci Sindoni: “il nostro corpo è fatto a pezzi. Diciamo basta” Se le donne ci sono – e ci sono – battano un colpo. Riprendano i loro discorsi rimasti interrotti, sia in ambito femminista, sia nel pensiero femminile cristiano. «Di fronte a due piaghe sempre più violente, che fanno a pezzi il nostro corpo, non c’è più tempo per stare zitte». Paola Ricci Sindoni, docente di Filosofia morale all’università di Messina e presidente di Scienza& Vita, guarda all’8 marzo non come a una festa ma a un’occasione da non perdere, e annuncia per maggio un convegno nazionale che l’associazione di scienziati dedicherà al grande tema del 'Nati da donna - Femminilità e bellezza'. Due piaghe che fanno a pezzi il corpo della donna, diceva. E non solo metaforicamente... In modo molto concreto. Mi riferisco al femminicidio da una parte, all’utero in affitto dall’altra. È arrivato il momento per noi donne di reagire: il pensiero femminile cristiano è fermo al 1988 e alla 'Mulieris dignitatem', mentre quello femminista ha rinunciato a se stesso scegliendo di omologarsi nel sistema gender. Lo hanno fatto le femministe inglesi e statunitensi, dichiarando ufficialmente l’inutilità di parlare di femminismo visto che 'siamo tutti uguali', discorso che ha una sua coerenza nel mondo del lavoro – se sei uomo o donna è la stessa cosa, essenziale è essere all’altezza del compito –, ma non può essere radicalizzato fino ad annullare il maschile e il femminile tout court. Noi diciamo sì alla parità, no all’uguaglianza. Femminicidio e 'maternità surrogata' partono dalla stessa bassa considerazione della donna, dunque? E del suo corpo. Bisogna ridire il linguaggio del corpo, che è l’espressione della nostra identità, veicolo esterno di ciò che la donna è interiormente. Si proclamano princìpi astratti e disincarnati, e così si è arrivati a farlo a pezzi persino nelle parole di certi luminari. Prendiamo Veronesi: sostiene che sfruttare l’utero di una donna per produrre figli è come utilizzare i muscoli dell’uomo nei lavori fisici. Ma la persona non è un insieme di organi, non può essere sezionata in pezzi. Lo stesso per il femminicidio: l’uomo che non sopporta la separazione, non accetta la scelta della donna e quindi ne ammazza il corpo, perché in esso vede la sua impotenza. Il problema è di comunicazione, se non trovi le parole prendi il coltello. Dobbiamo riuscire a ricreare la relazione con l’altro, il che non significa che siamo costretti a essere sempre d’accordo, anzi, ma che si può ragionare. Si dice che il sesso davvero debole è il maschio e per questo va al massacro, ed è vero, ma la donna sappia intercettare questa debolezza dell’uomo e ricostruire una relazione tra i sue sessi. Con ciò non dico che dobbiamo soggiacere, ma ripenso alle parole che ho ascoltato da una femminista convinta: il silenzio delle nonne aveva una forza rivoluzionaria, sembravano remissive... erano le padrone! Così neutralizzavano con astuzia la violenza maschile. Se facciamo muro contro muro ci rimettiamo, a volte anche la vita. Il convegno di maggio parlerà proprio di riabitare la relazione con l’altro sesso. Perché il no al femminicidio è, almeno a parole, unanime, mentre per l’utero in affitto resistono ancora voci retrograde? Per ignoranza dei fatti: alcuni realmente non sanno cosa accade con questa pratica ignobile. Poi arrivano i Vendola e dicono «terremo la madre del bambino accanto » e qualcuno ci crede pure, peccato che la madre che ha dato l’ovulo sia californiana, quella che ha partorito sia indonesiana, certamente in Puglia ci sarà una tata, poi i due 'cosiddetti' padri... Ma nella gravidanza il bambino non è ospite, tra madre e feto c’è una dipendenza strettissima e bidirezionale e questa è realtà scientifica, non un principio astratto. Se passa l’idea che il desiderio individuale ha il primato, allora quanto ci vorrà perché anche la pedofilia diventi un diritto? Altro grande vulnus è la fertilità. Mai siamo stati così pochi dal 1861, ha annunciato la Lorenzin, parlando di un piano maternità. Intanto la politica continua a non seguire gli

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esempi virtuosi della Francia e di tanti altri Paesi, 'scorda' il quoziente familiare e l’aiuto alla famiglia... Il ministro Lorenzin sarà al nostro convegno e noi speriamo porti buone notizie. Sta affrontando l’infertilità come patologia con un piano di prevenzione e di cura e vuole implementare giustamente i centri di ricerca, perché oggi i ginecologi ricorrono troppo facilmente alla procreazione assistita, quando la maggior parte dei casi di infertilità si risolverebbero con cure farmacologiche. Ma c’è un’infertilità legata invece all’assenza di politiche pro famiglia, da cui discende la scelta di posticipare troppo l’attesa del primo figlio. Il ritardo dell’entrata delle donne nel mondo del lavoro, quindi anche l’età avanzata in cui mettono su famiglia, insieme alla mancanza di asili nido nelle strutture pubbliche e di risorse per le coppie che hanno più figli, sono le vere drammatiche urgenze di milioni di italiani lasciati alla deriva. Ma questo Paese per mesi è rimasto nel caos della legge Cirinnà per poche centinaia di persone e i loro presunti 'diritti'. Come hanno detto Benedetto XVI e poi Francesco, viviamo nella dittatura del pensiero unico e se dici qualcosa di diverso ti assalgono: è facile stordire la società civile con pochi slogan, ma la donna non si omologa, sa che nel suo corpo è incisa la differenza. Noi rivendichiamo la relazione eterosessuale come salvaguardia del femminile diverso dal maschile. Una diversità per cui in passato si è tanto combattuto. Pag 7 Controllata, sfruttata, sola. Ecco la madre per contratto di Viviana Daloiso I “Genitori” padroni di orari, pasti. Persino dell’aborto I due cittadini X e Y – entrambi italiani –, «sono denominati “Genitori”». La cittadina Z – di altra nazionalità, specificata – «è denominata “Madre”». Ecco le “Parti”, ma è l’oggetto dell’accordo il punto decisivo del contratto di surrogazione: il “Figlio”. Il documento di cui è entrata in possesso la redazione di Avvenire è stato firmato in una clinica dell’Est Europa e ha portato effettivamente alla nascita di un bambino. Retribuzione e regole di accesso a parte (in alcuni Paesi, per esempio, è consentita solo a coppie eterosessuali, in altri anche a quelle omosessuali) è il contratto standard, con poche variazioni, che viene necessariamente sottoscritto, dall’Europa agli Stati Uniti, quando qualcuno decide di far partorire una donna al posto suo. Servono regole precise, serve metterle nero su bianco per evitare contenziosi. Non può sfuggire alcun particolare. Oggetto di accordo. «La Madre si impegna: punto 1) a sottoporsi alla procedura d’impianto di embrione (embrioni); punto 2) a gestare l’embrione specificato; punto 3) a partorire il figlio (figli) sviluppato dall’embrione; punto 4) a dare il proprio consenso alla trascrizione dei Genitori in qualità di genitori nell’atto e nel certificato di nascita del figlio entro 3 giorni dalla gestazione». Il cuore del contratto è questo, non c’è bisogno di aggiungere o spiegare nulla. L’oggetto del contratto è il “Figlio”. E se non ci fosse chiarezza sul punto 4, in cui viene evidenziata la necessità che i “Genitori” siano trascritti «in qualità di genitori», il cortocircuito è presto risolto: da una mera denominazione bisogna passare alla formalizzazione del ruolo, spiegano dalla clinica. La sostanza (o la Natura, chiamatela come volete) è ciò che in un contratto di surrogazione non conta nulla: la madre? Non è “Genitore”. Facoltà e obblighi delle parti. Per adempiere agli obblighi del contratto le Parti devono prendere degli impegni. Soprattutto la Madre. Il contratto vi dedica tre paginate fitte, a fronte di una mezza riservata ai Genitori. Innanzitutto la Madre deve consegnare ai Genitori tutta l’informazione medica che la riguarda e che «può influire sul figlio in gestazione»: si va dagli esami del sangue e delle urine all’elettrocardiogramma fino «al referto dello psichiatra» e a quello «del dentista ». Particolari che evidentemente contano, quando si acquista un figlio. La vita della Madre, poi, deve adeguarsi al ruolo importante che ora riveste per i Genitori: dovrà «tenere il cellulare sempre acceso e caricato», «rimanere nel luogo di residenza specificato dai Genitori», «essere sempre disponibile all’incontro con i Genitori» (che hanno la facoltà di recarsi «nel luogo suddetto anche senza avvisarla in anticipo»), «seguire rigorosamente il regime di alimentazione prescritto dal medico curante in accordo coi Genitori » (tra cui rientra il divieto di alcol, fumo, medicinali, integratori e rapporti sessuali). Malesseri? Dovrà «avvertire immediatamente Genitori e medico curante» perché potrà assumere soltanto medicinali concordati con loro. È poi proibito alla Madre «interrompere la gravidanza o

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abortire ad eccezione dei casi in cui ci sia tale necessità per salvarle la vita. Nel caso in cui si evidenzino patologie o malformazioni fetali – qui i particolari diventano agghiaccianti – i Genitori hanno la facoltà di consentire a far abortire la Madre». Obbligo finale e più importante: «Consegnare il Figlio (senza allattarlo) ai Genitori immediatamente alla nascita di esso». Nemmeno il tempo di guardarlo, o stringerlo a sé. Responsabilità delle parti. I Genitori si impegnano a pagare. Gli articoli che specificano le forme di pagamento e cosa vada pagato sono interminabi-li: quasi due pagine di contratto, abbigliamento della Madre compreso. Che succede, invece, in caso di «inadempimenti»? Si infliggono penali, è ovvio. Ma gli «inadempimenti» in un contratto in cui l’oggetto è un figlio rasentano il disumano: «Nel caso in cui il bambino nasca con malformazioni fisiche o mentali causate da un comportamento colpevole della Madre, quest’ultima decade dal proprio diritto di compensazione», recita il contratto. Il denaro è ciò che conta, nell’accordo. Poi si specifica come «le sorti del Figlio sono esclusivamente a discrezione dei Genitori». Potranno decidere qualsiasi cosa, di quel Figlio. Hanno persino «la facoltà di rifiutare i doveri genitoriali nel caso abbia congenite malformazioni fische e aberrazioni mentali», il concetto viene ribadito almeno in tre articoli diversi. Cosa accadrà del Figlio, strappato alla Madre e non riconosciuto dai Genitori, non è dato sapere. IL GAZZETTINO di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 I grandi rischi di una missione a guida italiana di Romano Prodi Dopo giorni di dichiarazioni contraddittorie e dopo i non chiari e luttuosi episodi che hanno coinvolto i nostri quattro tecnici rapiti, il dibattito sulla posizione italiana riguardo alla Libia è ripreso su basi fortunatamente meno conflittuali. Sembra cioè consolidarsi una volontà comune volta a non prendere decisioni affrettate e ad analizzare, con la dovuta cura e la dovuta diffidenza, l'invito che da più parti ci giunge ad intervenire in modo massiccio in Libia. Vi è quindi un certo tempo per approfondire tutte le variabili di questo tema così complesso e per noi così importante. Si deve in questo caso partire da un punto fermo, che cioè nessun intervento militare è possibile se non è richiesto in modo specifico da un governo libico unitario e autorevole. Già da oltre un mese il governo unitario doveva essere pronto ma la sua composizione è stata sempre rinviata da tensioni che fino ad ora nessuno è stato in grado di comporre, soprattutto per il permanere delle divergenze fra il primo ministro designato, Fayer al Serrai e il suo avversario politico, il potente generale Khalifa Haftar. È tuttavia doveroso aggiungere che questo governo unitario deve essere anche autorevole, obiettivo che può essere raggiunto solo se gli attuali frammentati e quasi inconsistenti parlamenti avranno sufficiente autorità e se non permarrà l'opposizione di alcune delle principali tribù che controllano parti fondamentali del paese. Chiunque si presenti con un esercito in terra libica senza che si verifichino queste condizioni otterrà solo il risultato di riunire contro di sé tutte le fazioni, anche quelle che si combattono ferocemente tra di loro. Nei giorni scorsi è stato deciso, in conseguenza di un decreto governativo del recente febbraio, di inviare un piccolo nucleo di corpi speciali non sotto il comando dell'esercito ma dei servizi di intelligence (servizi segreti). Immagino che questa decisione sia stata presa quanto meno per sorvegliare quanto già da qualche tempo stanno facendo francesi, inglesi e americani in terra libica, dato che coloro che hanno preso l'iniziativa di una guerra nella quale ci siamo incoscientemente ed imprudentemente infilati, mantengono nel paese una rete informativa capillare e accuratamente protetta da piccoli corpi militari specializzati. Il problema è ora quello di non essere progressivamente spinti ad aumentare in modo sotterraneo questa presenza fino a trasformarla in una forza militare sempre più corposa, anche per rispondere al continuo invito dei nostri alleati (a partire dagli Stati Uniti) perché l'Italia assuma un ruolo di guida di una missione che si sa dove comincia ma non si sa dove finisce. Tanto è vero che si parla già del numero dei soldati italiani da impegnare, anche se le cifre di questo impegno ballano continuamente fra le tre e le cinquemila unità. Attenzione quindi di non essere progressivamente trascinati in un ruolo di guida, che pure è stato incautamente richiesto da parte nostra. Quest'ipotesi è comprensibilmente spinta dall'amministrazione americana, data l'oggettiva preoccupazione per l'estensione del terrorismo in un'area delicata come la Libia e data l'impossibilità politica di assumere la guida di una guerra di terra in qualsiasi parte del

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mondo. L'opinione pubblica americana non è infatti disposta, dopo l'Iraq e l'Afghanistan, ad assistere al ritorno di morti o di feriti da qualsivoglia conflitto e il presidente Obama non può certo sfidare questo sentimento durante una campagna elettorale che è già in corso. Quanto alla Francia e alla Gran Bretagna la coscienza dell'errore compiuto attaccando la Libia nel 2011, anche se mai ufficialmente riconosciuto, è troppo presente nelle loro opinioni pubbliche perché questi due paesi possano assumersi il ruolo di guida. Resta quindi l'Italia come possibile responsabile di un compito che risulta impossibile se esso non viene limitato all'aiuto per la ricostruzione di un paese che richieda il nostro intervento in modo condiviso e unitario. Benvenuta quindi l'attuale prudenza del governo italiano, con la certezza di evitare il rischio di scivolare a poco a poco in una guerra di fatto, estendendo oltre misura gli interventi speciali. Queste mie riflessioni non possono concludersi senza un ricordo storico del colloquio avvenuto oltre cent'anni fa, proprio alla vigilia della guerra di Libia, quando il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale Alberto Pollio, chiese a Giolitti l'autorizzazione ad inviare centomila soldati per invadere quel paese. Giolitti guardò l'interlocutore e rispose in dialetto piemontese: "fuma dugent e stuma tranquill"! Il che, tradotto in italiano, vuol dire "facciamo duecentomila e siamo sicuri". Aggiungo che, ai tempi di Giolitti, la Libia aveva meno di un milione di abitanti. LA NUOVA di domenica 6 marzo 2016 Pag 1 Migranti, il naufragio dell’Europa di Francesco Jori Un Vajont umano incombe sull’Europa. E proprio come per quello del 1963, a farne una catastrofe annunciata, con una devastante onda d’urto di profughi, concorre una serie di tragici errori: sottovalutare allarmi che vengono da lontano; far prevalere miopi interessi di parte; sottrarsi al necessario coordinamento tra le parti in causa; illudersi di poter tenere sotto controllo processi potenzialmente esplosivi per le loro ricadute; anche semplicemente rimanere inerti, confidando nella buona stella. Annunciato dieci giorni fa come il punto di svolta decisivo per evitare il collasso, il vertice europeo di domani rischia in realtà di ridursi all’ennesimo fragile compromesso e al solito sterile rinvio. Mentre intorno alla traballante fortezza Europa tutto si muove: gli immigrati che premono a decine di migliaia, i trafficanti di uomini che approfittano dell’inerzia altrui per impinguare il proprio business, i santuari della criminalità organizzata che ricorrono a sempre nuovi espedienti per aggirare i controlli: come le navi-cargo fantasma che disattivano i sistemi di localizzazione e cambiano inspiegabilmente rotta, 540 nel solo mese di gennaio, un’autentica flotta. Dalle risposte dell’Unione emerge una sorta di ammissione di impotenza; ultima della serie, la sollecitazione rivolta ai potenziali immigrati da Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo: «Non venite qui». Ma ci sono state e ci sono anche misure decisamente inique: come la scelta della Danimarca o della Baviera di confiscare ai profughi i beni superiori a una certa cifra, con l’obiettivo di finanziare la loro accoglienza. Un perfido balzello d’ingresso, per persone scappate da casa loro per colpa di guerre feroci con poche centinaia di euro in tasca (in Siria, per fare un esempio, il reddito medio pro capite non arriva a 2mila euro). In tal modo si applica di fatto a chi arriva quella che il sociologo algerino Abdelmalek Sayad ha definito con efficace immagine «la doppia pena del migrante»: non sei come noi, e se vuoi vivere tra noi devi pagare dazio. Eppure le cifre continuano a restare modeste, se raffrontate con quel che accade altrove: nel 2015 i 28 Paesi Ue, per un totale di 500 milioni di abitanti, hanno accolto un milione di profughi, più o meno la stessa cifra del Libano che ha una popolazione di 5 milioni di persone. Nessuno Stato può risolvere il problema da solo, avverte l’autorevole settimanale inglese “Economist”. Ma nessuno o quasi sembra rendersene conto, e preferisce rispondere chiudendo unilateralmente le frontiere, erigendo muri, imponendo restrizioni al diritto d’asilo. C’è chi annuncia o direttamente innalza barriere, dalla Bulgaria all’Estonia, dalla Macedonia all’Ungheria; e c’è chi introduce controlli, dalla Francia all’Austria, dalla Norvegia alla Svezia. Banali quanto inutili tappi destinati a saltare ben presto: momentaneamente tamponata nell’est del Mediterraneo lungo la rotta balcanica, l’onda lunga delle migrazioni si sposta a ovest. Ci sono già segnali che la criminalità albanese si sta attrezzando per riaprire il vecchio corridoio verso le coste pugliesi. Lo stesso dibattito su Schengen sì-Schengen no ruota attorno a legittimi e sacrosanti calcoli economici, ma non affronta la vera sostanza: come gestire un fenomeno planetario, che non è un’emergenza ma un problema con cui

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dovremo fare i conti a lungo. Oggi, nel mondo, ci sono 60 milioni di profughi messi in fuga dalle guerre, un Paese virtuale grande quanto l’intera Italia. E metà di essi sono bambini. A fronte di questo, in Europa non esiste uno straccio di politica comune delle migrazioni, né di autorità capace di realizzarla, segnala il sociologo italiano Alessandro Dal Lago; e non esiste perché l’Europa è e rimane solo un’espressione finanziaria. Che da un vertice all’altro naviga alla cieca verso il naufragio. Pag 6 Attenzione a non farci del male di Andrea Sarubbi Probabilmente Eni ed Enel non sarebbero d’accordo, perché da quelle parti hanno fatto buoni affari, ma dal punto di vista politico c’è una costante nell’atteggiamento dell’Italia verso la Libia: la nostra linea ondivaga e spesso fuori tempo. A cominciare dall’esperienza coloniale, che meriterebbe una trattazione a parte, non ne abbiamo azzeccata una: grandi profitti dell’industria militare senza chiederci che fine avrebbero fatto quegli armamenti, accordo di ferro con Gheddafi (a caro prezzo) perché fermasse i migranti anche a costo di violare i diritti umani, poi improvviso voltafaccia e partecipazione alla campagna del 2011, purtroppo non decisiva per la stabilità del Paese, ma certamente utile alla Francia per rientrare bene nel giro delle concessioni energetiche. Non avevamo fatto i conti con l’Is, che con gas e petrolio si finanzia, e che oggi diviene il nuovo nemico da annientare. Le condizioni poste dall’Italia in queste settimane sembravano onestamente di buonsenso: saremmo intervenuti solo sotto il cappello dell’Onu, a sua volta legato alla presenza di una richiesta ufficiale da parte del governo libico. Il problema è che, al momento, i governi in Libia sono due (quello di Tripoli e quello di Tobruk), così come i Parlamenti, e l’intesa promossa dalle Nazioni Unite - che fece stappare champagne a tutti, un po’ troppo presto - non è stata ancora ratificata perché c’è ancora chi sta cercando di modificare gli equilibri interni prima della formazione di un esecutivo di unità nazionale, per poter poi pesare di più. Ci si ritrova quindi in una situazione piuttosto scomoda, con le idee molto chiare dal punto di vista teorico ma, contemporaneamente, con un panorama assai diverso dai nostri piani. Il tempo passa, senza che le condizioni sognate si realizzino, e sul nostro collo non sentiamo un fiato, ma due: quello dei nostri alleati, che nel frattempo hanno cominciato senza di noi (o al limite con un nostro appoggio a distanza, come testimonia la concessione delle basi agli Usa), e quello dell’Is, che ci colpisce per metterci pressione proprio nel momento in cui chiediamo di essere noi a condurre le operazioni militari. Certamente la guida italiana conviene agli Stati Uniti, soprattutto in tempi di campagna elettorale per la Casa Bianca: il criterio di prossimità («Noi combattiamo l’Is, ma visto che la partita si gioca nel cortile dell’Italia è bene che siano loro a prendersi le responsabilità») è abbastanza digeribile sia dai repubblicani che dai democratici, e lascia al cittadino comune l’impressione che i rischi per eventuali attentati in territorio americano siano minori di quanto non sarebbero se fossero gli Usa ad assumere il comando delle operazioni. Proprio per questo motivo, però, convincere l’opinione pubblica italiana - che oggi i sondaggi indicano pesantemente contraria all’intervento militare - sarà piuttosto complicato: i primi avvertimenti sono già arrivati, con l’uccisione dei due ostaggi, non appena l’ipotesi di un nostro coinvolgimento attivo è cominciata a balenare. Se si concretizzerà, dunque, ci saranno da mettere in conto nuove ripercussioni sulla sicurezza nazionale e in generale sul clima politico: il che, soprattutto alla vigilia delle amministrative, potrebbe rappresentare un’incognita per Renzi stesso, chiamato oggi a una delle scelte più difficili da quando è a Palazzo Chigi. Ci si può infatti destreggiare tra le preoccupazioni dell’opinione pubblica, gli interessi economici in gioco e le richieste dei partner internazionali senza uscire un po’ ammaccati dalla manovra? Probabilmente no, e forse per questo il governo sta cercando di tenere il tema un po’ sotto traccia: neppure una timida risoluzione è stata votata finora dal Parlamento, nemmeno una di quelle all’acqua di rose che le maggioranze tirano fuori nei momenti di difficoltà, e in generale si ha l’impressione che la partita si stia giocando altrove. Il che potrebbe essere un bene, se fosse davvero l’Onu a prendere in mano la situazione, ma più passa il tempo e più i nostri desideri si scontrano con la realtà. Torna al sommario

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CORRIERE DELLA SERA di sabato 5 marzo 2016 Pag 1 I cittadini e il fossato da riempire di Ferruccio de Bortoli Con le istituzioni Dopo esserci occupati a lungo degli eletti, ora dovremmo pensare un po’ alla salute democratica degli elettori. E interrogarci sulle ragioni di una certa disaffezione al voto. La sensazione di irrilevanza non si traduce soltanto nell’astensione dalle urne, di qualsiasi tipo, ma anche nell’uso della scheda per sfogare disagio se non rabbia. Non per scegliere, ma per contrastare. Non a favore ma contro. Non è il caso di tornare su alcuni aspetti della riforma costituzionale che si avvia a essere completata con l’ultimo voto alla Camera e il referendum autunnale. Il quadro istituzionale, con un Senato delle Regioni non più direttamente elettivo, si semplifica e diventa più efficiente, ma non si avvicina al cittadino, non lo rende protagonista. La distanza aumenta. L’Italicum darà stabilità ai governi - e ce n’era bisogno - ma con il premio di maggioranza, i capilista bloccati e le candidature plurime non si può dire che sia un caposaldo della democrazia rappresentativa, peraltro in crisi un po’ ovunque. Gustavo Zagrebelsky definisce le riforme del governo Renzi, con efficacia caustica, il «carapace, la corazza della tartaruga, del potere». Stefano Petrucciani nel suo libro (Democrazia, Einaudi) parla più in generale di una «regressione oligarchica» e intravede «uno spossessamento dei cittadini rispetto agli eletti, della base del partito rispetto ai leader, dei parlamentari rispetto all’esecutivo, dell’esecutivo stesso rispetto al premier». Forse, c’è un po’ di esagerazione. Ma, al di là delle posizioni che le parti avranno sul prossimo referendum, una discussione aperta sul disagio degli elettori appare opportuna. Un rafforzamento del governo, nell’Italia dei troppi poteri contrapposti, dei veti e degli interessi corporativi, era ed è assolutamente necessario per attuare politiche di riforme a vantaggio di tutti. Ma se il cittadino matura la convinzione che il proprio voto serva a poco e la sua opinione sia indifferente, la conseguenza sarà solo un senso crescente di estraneità delle istituzioni. «Uno spostamento verso l’alto del centro delle decisioni», per usare le parole di Petrucciani, ancora più pronunciato nei confronti dell’Europa, che genera frustrazioni e alimenta sfiducia. Ovvero, riempie il bacino di coltura del populismo. La riforma Boschi prevede alcuni necessari contrappesi nelle norme sui referendum (più firme ma quorum abbassato) e sulle leggi di iniziativa popolare (più firme). Ma troppi sono stati i referendum il cui esito è rimasto lettera morta. Le leggi di iniziativa popolare poi sono sempre state ostacolate, soprattutto dai partiti. Non ne è passata mai una. Vedremo se, rianimandosi, questo strumento darà più voce ai cittadini. La Rete è una straordinaria piazza democratica. Ma non è la risposta. Ridurre gli eletti a portavoce di movimenti erratici e indefiniti sul Web ha aspetti caricaturali. Si scambiano le posizioni di minoranze attive - e generalmente agli estremi - per quelle mediane dell’elettorato. In realtà, come dimostrano le consultazioni dei Cinquestelle, si tratta al massimo di poche migliaia di persone. Vedremo se le primarie per i candidati sindaci, a Roma, a Napoli e a Trieste coinvolgeranno porzioni significative di cittadinanza. Se sono vere (come a Milano) appassionano. Se sono finte contribuiscono solo a svalutare il voto e a irritare i partecipanti (i gazebo di Salvini a Roma). L’affievolirsi di una democrazia rappresentativa accentua anche il fenomeno del trasformismo. I cambi di casacca nell’attuale legislatura sono già 342. Si allenta così, fino a spezzarsi del tutto, il legame con gli elettori. In un sistema a collegi uninominali, i transfughi potrebbero essere puniti con il cosiddetto recall, il richiamo, che da noi è improponibile. La semplice misura di impedire la costituzione di gruppi parlamentari quando le formazioni non siano state elette in precedenza, avrebbe quantomeno una funzione deterrente. Tralasciamo le considerazioni morali. Il trasformismo, con il populismo, è la malattia contemporanea. Il seggio lo si deve al capo che decide la lista, non ai votanti che vanno ai seggi. Aggrapparsi all’articolo 67 della Costituzione sul divieto di mandato imperativo è ridicolo. Non si può dire che i Fregoli del Parlamento inseguano in questo modo l’interesse generale. Discutere, senza pregiudiziali, di proposte dirette a irrobustire l’elettorato attivo non è una perdita di tempo. Il voto ai sedicenni appare a molti costituzionalisti un azzardo. Secondo Valerio Onida sarebbe necessario dibattere, senza venature ideologiche, l’opportunità di concedere il voto alle Amministrative agli immigrati regolari e stabili che già vanno ai gazebo delle primarie. Lo prevede una convenzione del Consiglio d’Europa in vigore dal ’97. Efficaci leggi sulla rappresentanza sindacale e sulla

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vita democratica interna dei partiti (articolo 49 della Costituzione, mai regolamentato) possono contribuire a dare senso e prospettiva all’impegno dei cittadini, avvicinandoli alle istituzioni. «È necessario - dice Carlo Galli (autore de Il disagio della democrazia, Einaudi) - che si colmi il fossato ormai aperto fra cittadini e istituzioni e tra cittadini e partiti». La formula francese del débat public , prevista dalla nostra legge delega sugli appalti, consulta i cittadini prima delle decisioni di costruire grandi opere e li responsabilizza su utilità e costi. Un’idea che potrebbe essere estesa - nel giudizio della costituzionalista Ida Nicotra - ad altri processi legislativi. «Un modo per uscire dall’attuale deriva di una democrazia per contrasto e negazione». Pierre Rosanvallon (Le Bon Gouvernement, Seuil) sostiene che un governo, per dirsi democratico, debba accettare momenti di valutazione del suo operato anche diversi dal giorno delle urne. Le nuove tecnologie lo consentono. Ma occorrono cittadini informati, responsabili e convinti che la loro opinione conti davvero. Pag 1 Quante pressioni: il dilemma del governo Renzi di Francesco Verderami Se andrà o non andrà in Libia, comunque pagherà un prezzo. Il rischio è che lo paghi doppio, se all’italiana ci andasse solo un po’. Di certo c’è che Renzi rivendica il dovere di prendere la decisione. E siccome il premier non è tipo che si faccia condizionare dagli organi di informazione, non è alla stampa che si è ribellato. È stata una finzione quella di prendersela con i media, un modo diplomatico per liberarsi dalle pressioni diplomatiche esercitate dai partner internazionali, che cercano indirizzare la sua scelta. E di affrettarla. Ecco cosa il premier vive come un’interferenza ai limiti dell’ingerenza, sono state certe esternazioni a provocare la sua reazione: «Se pensano che mi faccia mettere davanti al fatto compiuto, si sbagliano». Le parole pronunciate dall’ambasciatore americano in Italia nell’intervista al Corriere , per esempio, avevano suscitato ieri mattina una certa meraviglia alla Farnesina, dove si attendeva da un momento all’altro l’eco di un boato da Palazzo Chigi. Infatti. «Con me non funziona così»: per quanto avvolti dai complimenti al suo piglio riformatore, Renzi non ha gradito i riferimenti del legato statunitense sui «compiti italiani» nella soluzione della crisi libica, il linguaggio esplicito sulla necessità di assumere il comando e persino sul numero di uomini da schierare sul campo. Come se tutto fosse già deciso. Sebbene le relazioni personali con John R. Phillips siano ottime e radicate da una precedente conoscenza in terra di Toscana, il premier non accetta di mischiare i rapporti di vicinato con i rapporti politici. E dato che ci teneva a far sapere che il dovere della decisione spetta solo a lui, ha infierito sulla stampa. Come se le «irresponsabili accelerazioni» formato tabloid avessero davvero un peso rispetto alle pressioni che è costretto a sopportare. E che non provengono solo dalle cancellerie ma anche dalle strutture degli Esteri e della Difesa: la reprimenda ai media era infatti un avvertimento a quanti offrono piani d’attacco à la carte. Come se tutto fosse già deciso. Andarci non andarci o andarci solo un po’, è prerogativa che Renzi non intende condividere con le feluche o con i graduati. E nemmeno con i partner d’Occidente. Le tensioni con Londra e con Parigi sul dossier libico sono all’ordine del giorno: perché le notizie su operazioni dei commando inglesi e francesi nel Paese africano sono (anche) un modo per evidenziare che l’Italia è assente dal teatro della crisi. Tanto dovrebbe bastare. Se poi ai segnali in codice si aggiungono anche i messaggi pubblici, diventa evidente l’accerchiamento che il premier vuole (e deve) mostrare di saper spezzare. Per una volta, nell’atmosfera da «solidarietà nazionale» che regna nel Palazzo, dove quasi tutti i partiti sono contrari alla guerra, il premier ha ricevuto una solidarietà bipartisan. Non solo Bersani ha ammesso di esser rimasto colpito dalle affermazioni «veramente irrituali» dell’ambasciatore statunitense: «Siamo a questo punto...». Anche a Berlusconi non è piaciuta «l’intromissione». Cosa pensi dell’attuale amministrazione americana, il capo forzista lo ha ripetuto ieri a un convegno: «Putin è l’unico leader al mondo». Cosa pensi dell’intervento militare in Libia, l’ex premier lo aveva confidato settimane fa a un ministro, con preghiera di dirlo a Renzi: «Deve operare di intelligence e basta. Lì sono tutti mercenari. Un conflitto aprirebbe nuovi corridoi all’immigrazione clandestina. Ma dove ci infiliamo...». È chiaro che questi suggerimenti sono altrettante cambiali che il capo del governo rischia di pagare dopo, quando dovrà decidere se andarci non andarci o andarci solo un po’ in Libia. Ed è altrettanto chiaro che in ogni caso Renzi pagherà un prezzo per la scelta. Ma

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se oggi passasse l’idea che si muove come se tutto fosse già deciso, il prezzo sarebbe maggiorato. Perciò Renzi vuole (e deve) liberarsi dall’assedio, offrendo l’immagine di un capo di governo che sceglie da solo. E che però da solo in Libia non ci vuole andare: «Non esiste un nostro coinvolgimento sul terreno senza la presenza di tutti gli alleati. Americani compresi». Proprio quello che l’ambasciatore Phillips ha escluso. Pag 6 Perché i teorici dell’attacco sono dovuti arretrare di Massimo Franco I teorici italiani di un attacco in tempi brevi sono costretti a battere in ritirata. Sta prendendo corpo un’unità nazionale inedita, che per paura e per lucidità si rende conto delle incognite di un’azione militare affrettata in Libia. Sono i fantasmi del passato e quelli di oggi a suggerire cautela. Nel marzo del 2011 i bombardamenti di francesi e inglesi, e poi i missili statunitensi, archiviarono l’era del dittatore Muhammar Gheddafi. Senza programmare il «dopo», però. Il contraccolpo di quell’intervento è il caos libico odierno: un vuoto che rischia di essere riempito dall’Isis, Daesh, come si preferisce dire in Occidente usando la dizione araba che significa «seminatori di discordia». E lo spettro che adesso sconsiglia qualunque accelerazione è duplice. «Con atti di guerra cresce il pericolo del terrorismo», spiega il procuratore nazionale Franco Roberti. E si prevedono nuove ondate di migranti in fuga da una Libia sconvolta da un conflitto del quale saranno accusati l’Europa e l’Occidente. Per questo, dopo le prime parole bellicose affiorate qui e là dopo la morte di due ostaggi (altri due sono stati liberati ieri), il «no» alla guerra è trasversale. Dal M5S alla Lega, passando per i partiti di governo, la consapevolezza di infilarsi in un gioco pericoloso è diffusa. Non basta l’idea di guidare una spedizione armata in una situazione di totale caos. Quello che in apparenza è un omaggio al prestigio nazionale, in realtà potrebbe rivelarsi presto una trappola. Per paradosso, la pressione degli alleati suggerisce a Matteo Renzi un supplemento di cautela. La via maestra risulta dunque ancora di più un passaggio in Parlamento. L’obiettivo è di prendere il tempo necessario per capire che cosa sta realmente accadendo sul territorio libico; e solo dopo avere analizzato con freddezza le forze in campo, concordare una reazione. L’idea di bruciare i tempi senza aspettare quelli del governo di Tripoli è già tramontata. Fino a che non nascerà un esecutivo in grado di chiedere aiuto, l’Italia aspetterà. L’ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, ieri è stato di una chiarezza brutale. «La guerra in Libia l’hanno iniziata i francesi con gli inglesi», ha ricordato. «Ed è stata un disastro». C’è più del sospetto che quei Paesi invochino una massiccia presenza militare italiana, perfino una leadership delle operazioni, per scaricare le proprie responsabilità. Ma per motivi diversi, i partiti sono uniti nel «no». No a un «nuovo Vietnam», secondo Alessandro Di Battista del M5S. No a un conflitto che porta «un’immigrazione selvaggia», per il leghista Roberto Maroni. Meglio una «santa alleanza» anche con russi e arabi, secondo Pier Ferdinando Casini, capo dell’Udc. Forse conta anche il fatto che, nei sondaggi, l’81 per cento degli italiani non vuole un intervento in Libia. Pag 8 Così Isis avanza in Nord Africa di Francesco Battistini Ma quante divisioni ha il Califfo? In Libia, le cifre sono come le pallottole: tutti a spararne, pochi a mirare. Qualche settimana fa i capi dell’antiterrorismo di trenta Paesi africani si sono trovati sotto un gigantesco baobab di Dakar, quasi una citazione dell’Albero di Maometto dove ogni adepto dell’Isis giura la sua fedeltà ad al-Baghdadi, e hanno confrontato i loro dati. Nessuno tornava. L’Onu dice che combattono non più di 2-3 mila uomini. Gli Usa ne calcolano cinquemila. I francesi parlano d’almeno 10 mila volontari. E in mezzo ci sono i servizi inglesi che ne registrano 6.500, le milizie di Misurata che ne hanno visti tremila solo a Sirte (il 70 per cento stranieri, al primo posto i tunisini e poi i marocchini), l’intelligence algerina che segnala un flusso costante (mille al mese) dal Niger, dal Ciad, dal Mali, dalla Mauritania, perfino trenta dal (finora immune) Senegal. Di certo c’è che «la Libia - ha avvertito John O. Brennan, direttore della Cia - è diventata una calamita per ogni lupo solitario non solo libico, ma di tutta l’Africa e oltre». E che «affrontare questa minaccia globale ragionando solo nei confini libici non basta più», ha aggiunto il capo degli 007 senegalesi, il colonnello Guirane Ndiaye: «Altrimenti l’espansione dell’Isis sarà inarrestabile». Sarebbe già tanto ripulire la Libia.

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Più il Califfato si comprime in Siria e in Iraq, fiaccato dai combattimenti, più si rafforza nella sua roccaforte di Sirte, nella sua rete di cellule a Bengasi e a ovest, nella sua presenza per ora simbolica a Tripoli, fra i suoi 200 elementi sparsi nel sud del Fezzan. Si ripete spesso che l’Islam libico è sempre stato moderato, fatto al 98 per cento di sunniti malikiti che rifuggono lo scontro globale con gli sciiti. E da dove arriva tutto questo radicalismo? A Derna, dove l’Isis comparve la prima volta nel 2014, qualche embrione di jihadismo era spuntato già negli anni 90. All’epoca provvide Gheddafi, con una repressione durissima: chi scampò, riparò sotto il mantello di Bin Laden. All’estero, lontano. Molto tempo dopo, i primi a tornare in circolazione furono gl’islamisti radicali che proprio il figlio del Colonnello, Saif, cercò d’avvicinare quando sognava d’ereditare il potere del padre. La rivoluzione 2011 ne fermò le strategie e fece il resto: molti estremisti della diaspora sono rientrati, spesso coi soldi dei servizi occidentali, altri hanno formato brigate che han generato Al Qaeda prima, l’Isis dopo. Una domanda resta: se nel settembre 2014 c’erano al massimo mille combattenti dell’Isis, in Libia, come hanno fatto in un anno e mezzo a moltiplicarsi per tre o addirittura per dieci? Sfruttando i depositi d’armi ancora disponibili, rispondono gli esperti. E poi propagandando le conquiste di Raqqa e di Mosul, simbolico successo che ha attratto i delusi di movimenti jihadisti come Ansar al-Sharia. E poi accogliendo 5-6 mila combattenti e nuovi capi militari in ritirata dal Medio Oriente, come lo yemenita Abul Baraa al-Azad che si proclamò primo emiro di Derna. E soprattutto vedendo che il Maghreb, coi suoi confini porosi, offre margini d’espansione ormai impossibili nello Sham, il Levante che circonda Siria e Iraq. Un alleato però ha aiutato più di tutti l’espansione d’Isis: la presunzione del nemico. La marcia su Sirte, facilitata da ex uomini di Gheddafi, non ha avuto resistenza: le milizie temevano troppo d’indebolirsi, impegnandosi in uno scontro coi neocaliffi, ed è stato facile per lo Stato Islamico sfruttare l’odio di molti abitanti verso i miliziani di Misurata, considerati occupanti. Anche la presa delle città vicine, gli attacchi al gas di Ras Lanuf e alla mezzaluna petrolifera, le «decapitazioni esemplari» dei cristiani, il reclutamento dei foreign fighter, tutto questo è stato possibile con poche centinaia di jihadisti e grazie a troppi occhi chiusi. Espansionista e opportunista, l’Isis in Libia ha capito che la negletta Sirte - la città natale del deposto Gheddafi, abbandonata dalle milizie: quel che la Tikrit irachena fu nel dopo Saddam - poteva diventare il trampolino di lancio verso il Mediterraneo e il Nord Africa. Meglio del Sinai, troppo controllato da egiziani e israeliani. Meglio della Tunisia o dell’Algeria, troppo evolute. «Sfinite i vostri nemici e svuotateli», fu la raccomandazione d’un predicatore bahreinita mandato dal Califfo, in una moschea di Sirte. Il lavoro è appena cominciato. Pag 22 Il direttore della Reggia contestato dai sindacati perché lavora fino a tardi di Sergio Rizzo A Caserta dopo l’incarico a Bologna Davvero uno sfrontato, quel Mauro Felicori. Restare in ufficio ben oltre l’orario di chiusura. A lavorare, poi, e non a girarsi i pollici o bighellonare su internet. Decisamente troppo, per i corretti rapporti sindacali, un direttore che si impegna così: una lettera di protesta era il minimo che gli potesse capitare. Una lettera ufficiale spedita direttamente al capo supremo, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Lui, Felicori, un bolognese che da cinque mesi è stato messo alla guida di uno dei nostri tesori più inestimabili, la Reggia di Caserta, l’ha ricevuta «per conoscenza» giusto prima che la pubblicasse il Mattino di Napoli. «Il direttore permane nella struttura fino a tarda ora senza che nessuno abbia comunicato e predisposto il servizio per tale permanenza. Tale comportamento mette a rischio l’intera struttura», hanno scritto i rappresentanti di sindacati quali Cgil, Uil e Ugl. «A rischio l’intera struttura!» Ma come non comprenderli? Arriva uno da Bologna, che nessuno ha mai visto né sentito, e vuole mettere tutti in riga. Decide che i custodi non possono più girare per la Reggia in borghese, senza divisa e senza nemmeno un cartellino di riconoscimento, com’è sempre stato. Si sveglia al mattino, e la prima cosa a cui pensa, confessa lui stesso, è la Reggia. E per far vedere che non è a Caserta per passare la villeggiatura non leva le tende neppure per il weekend. Stabilisce che i 150 (centocinquanta) addetti alla vigilanza non possono più circolare all’interno del parco con l’auto propria (!), ma dovranno servirsi di appositi

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veicoli con lo stemma della Reggia. Si permette addirittura di spostare qualcuno dei 230 dipendenti. Gli salta in mente perfino di abolire il tradizionale e sacro giorno di riposo del martedì, tenendo aperta la Reggia ben sette giorni su sette. Non bastasse, cova il progetto di riorganizzare il servizio (il servizio!) al solo vile scopo di attirare più visitatori e magari incassare qualche euro di più, meschino... Insomma, un vero rompiscatole. Uno che prende sul serio il proprio incarico. Uno che appena mette piede a Caserta rimane imbambolato davanti alla maestosa bellezza della Reggia, (quella di cui certi sindacalisti che sarebbero pagati proprio per difendere quella bellezza non si sono evidentemente mai accorti), e decide che la passione può fare la differenza. Oggi Felicori dice che i visitatori sono aumentati del 70% rispetto al febbraio del 2015 e gli incassi sono saliti del 105%. Fosse vero anche per la metà, sarebbe un fatto straordinario, la prova che quel tesoro non è destinato al mesto declino che le cronache purtroppo ci raccontano. Nel 2001 i visitatori paganti erano 371.311, nel 2014 il loro numero era sceso a 217.547. Un calo mortificante, condito da un degrado crescente, con i venditori abusivi padroni che spadroneggiavano, la magnifica area antistante perennemente disseminata di rifiuti, le transenne dappertutto. Per non parlare delle occupazioni abusive rese celebri dai servizi televisivi, e l’assurda presenza dell’aeronautica militare fin dentro la stessa Reggia. A chi ha scritto quella lettera demenziale che comincia «cinque mesi dall’insediamento del nuovo direttore della Reggia di Caserta spiace rilevare che...» possiamo solo dire che il dispiacere è tutto nostro. È a noi cittadini che spiace rilevare come quel tesoro inestimabile sia da tempo immemore in condizioni pietose, e la colpa certo non è di chi lavora troppo. Semmai, anche di chi fra quanti lavorano lì dentro, e speriamo siano una minoranza, hanno dato un fattivo contributo a questo stato di cose per meschini (quelli si, proprio meschini) interessi privati. Quanto agli autori della surreale protesta, sappiano che se volevano rendere un servizio al sindacato, oltre che a se stessi, hanno ottenuto esattamente il risultato opposto, anche se poi Camusso ha definito la loro lettera un errore. Basta ascoltare quello che ha detto Matteo Renzi. LA STAMPA di sabato 5 marzo 2016 La strettoia e il conto alla rovescia di Marcello Sorgi Almeno una cosa è chiara, nel confuso scenario dell’intervento in Libia: Renzi non ha alcuna intenzione di entrare in guerra, né di accelerare la realizzazione degli impegni presi fin qui sul piano internazionale, in particolare con gli Usa, che premono perché l’Italia assuma effettivamente la guida della missione sulla sponda che guarda la costa siciliana. L’ondata emotiva sollevata giovedì dall’uccisione dei due operai italiani sequestrati, fortunatamente seguita ieri dalla liberazione degli altri due ostaggi, non ha fatto cambiare idea al presidente del Consiglio, sempre più convinto che in questo momento la Libia sia un vespaio, con in corso una guerra per bande, in cui sarebbe rischioso e sbagliato andarsi a cacciare. Interventi «chirurgici», azioni di intelligence contro obiettivi mirati, sì. Ma niente fughe in avanti. Renzi si è rafforzato nelle sue convinzioni ragionando proprio sugli opposti destini toccati ai quattro emigrati italiani: i primi due sarebbero stati vittime di una banda affiliata all’Isis. Gli altri due sarebbero stati liberati dai loro avversari, che ovviamente, nel restituirli alle autorità italiane, si sarebbero presentati come nostri alleati. In un quadro del genere, è difficile stabilire a chi credere e ancor di più capire che margini avrebbe un governo di unità nazionale imposto dalla comunità internazionale. Sta di fatto che quel governo che avrebbe dovuto insediarsi già uno o due mesi fa, ancora non c’è. Questo è l’esile gancio a cui è appesa la resistenza di Renzi. Una posizione razionale, ma giorno dopo giorno sempre più difficile da sostenere, mentre gli Usa bombardano con i droni partiti da Sigonella e francesi e inglesi sono già in Libia. Ma così come gli attentati di Parigi del 2015 a Charlie Hebdo e al Bataclan sono considerati legati alla decisione di Hollande di scegliere la linea dura contro il terrorismo islamico e puntare sulla Libia, anche la sorte dei due operai italiani uccisi e degli altri due liberati prima di essere condannati a morte è il primo effetto del ruolo più visibile assunto dall’Italia. Basta solo ricostruire la sequenza delle ultime settimane: le lodi del segretario alla Difesa americana Carter all’Italia dopo l’incontro a Palazzo Chigi con Renzi e l’annuncio della disponibilità italiana a coordinare la missione in Libia. L’incontro a Washington tra Obama e il presidente Mattarella, seguito dalla

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convocazione, da parte del Capo dello Stato, del Consiglio supremo di difesa, e dal decreto del governo che apre alla collaborazione, in Libia, tra i servizi e i corpi speciali delle Forze armate italiane. L’Italia è entrata così nel mirino dell’Isis, prima ancora di aver mosso un dito in territorio libico. E per Renzi, dopo quel che è accaduto agli italiani sequestrati, ora c’è una ragione in più per tenere subordinati gli impegni presi con gli alleati all’effettivo insediamento del governo libico e alla creazione di una coalizione internazionale in cui Usa, Francia e Inghilterra collaborino realmente, e non si muovano in ordine sparso come hanno fatto finora. Una logica del genere, è inutile nasconderlo, in prospettiva è difficile da accettare per gli Usa, che avevano salutato la disponibilità italiana come garanzia di affidabilità di un vecchio alleato. Renzi insomma è entrato in una strettoia, perché in questo momento, in Europa, ha bisogno dell’appoggio di Hollande e Moscovici per ottenere flessibilità e aiuti per l’immigrazione, evitare la procedura d’infrazione e portare a casa l’approvazione della legge di stabilità a Bruxelles. Ma allo stesso tempo sa di non poter reggere a lungo le pressioni americane. Pur razionale, di fronte alla confusione libica, la linea attendista che prevedeva un primo e un secondo tempo tra il dire e il fare - subito gli impegni diplomatici e solo dopo le iniziative strategiche e militari - è messa a dura prova. La sensazione è che anche per l’Italia il conto alla rovescia si stia avvicinando. AVVENIRE di sabato 5 marzo 2016 Pag 1 La domanda e il segno di Marina Corradi Quell’amore totale in cambio di niente Una banda di uomini armati all’assalto di una casa di riposo per vecchi e disabili condotta dalle Missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa. Ieri ad Aden, nello Yemen, quattro di loro sono morte, assieme ad altre dodici persone, mentre un sacerdote salesiano risulta scomparso, forse rapito. Uomini e religiose massacrati, forse, da al-Qaeda, dentro lo scenario di una guerra civile che da un anno e mezzo attanaglia il Paese, e ha già fatto 6mila morti. Nello Yemen, il Paese più povero del Medio Oriente, si scontrano indirettamente le forze poderose e nemiche di Iran e Arabia Saudita. La città di Aden è in mano al governo che si oppone ai ribelli houthi. Un attentato terrorista dunque. Un manipolo di assassini contro la casa degli inermi: anziani, malati, handicappati accolti dalle figlie di Madre Teresa. Il lupo e l’agnello: non deve essere certo stato difficile attaccare, armi in pugno, un rifugio di indifesi. Tra gli attentati che insanguinano il mondo ogni giorno, uno dei più ripugnanti. Uccidere delle donne consacrate che si prendono cura, come di figli, degli ultimi, e il sacerdote che ne condivide l’opera. Quei vecchi e quei malati, dice un lancio della Agenzia Fides, sono salvi. La furia omicida si è scatenata proprio sulle quattro sorelle riconoscibili dal velo bianco e blu: loro l’obiettivo dell’odio, in quanto cristiane. Erano due ruandesi, una kenyota e una indiana. Figlie dei Sud del mondo che, anziché fuggirne, avevano scelto di radicarsi nel luogo della massima povertà, casa per chi non ha alcuna casa. La strage dello Yemen, in un contesto internazionale in cui il fiato dei jihadisti del Daesh e di al-Qaeda incalza tutti, in Occidente come nel Terzo mondo, sembra icona di una ferocia che sconfina nel male allo stato puro. Non potevano in alcun modo costituire una minaccia, quelle piccole suore e quel prete. Non rappresentavano multinazionali straniere, o potenze nemiche, non rappresentavano niente altro che il volto e le mani di Cristo, portato, attraverso il loro volto e le loro mani, nel cuore della miseria. Misericordia e compassione portate non per vaga filantropia, ma – come ricordava sempre Madre Teresa – riconoscendo Cristo in persona, in ciascuno degli 'scartati' dal mondo. Di modo che ciò che è accaduto ieri in Yemen è un vertice di male gratuito, dietro a cui si avverte un’ombra oscura innominabile, che tracima e trabocca nelle violenze del terrorismo islamico. Il lupo e l’agnello, la ferocia sull’innocente inerme, una volta ancora. Sapevano certo, quelle suore, quel prete, quali rischi comportava rimanere in un Paese dilaniato da una guerra civile. Sapevano quanto odio stava come sbucando dal sottosuolo, fra le strade dello Yemen. Non hanno pensato ad andarsene. Non sarebbero state capaci di abbandonare quei loro vecchi, quei fratelli malati, di chiudere l’ospizio lasciandoli dentro una guerra, e senza nessuno. Hanno continuato, probabilmente tra i bombardamenti e cento pericoli, a cercare di condurre la loro casa, dando da mangiare agli ospiti, curandoli, confortandoli. In una mite e tenace resistenza al male; in silenzio, con gesti

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quotidiani – imboccare, lavare, pregare – mentre fuori deflagrava la ferocia. Così, quelle suore ne erano certe, avrebbe fatto la beata Madre Teresa, che sarà proclamata santa a settembre. Madre Teresa che diceva: «Il più grande dono che Dio ti può fare è darti la forza di accettare qualsiasi cosa Egli ti mandi, e la volontà di restituirgli qualsiasi cosa Egli ti chieda». Dentro a questo sguardo le quattro sorelle di Aden e il salesiano sono rimaste; e ieri mattina, come agnelli, sono andati incontro alla morte – «con la forza di accettare qualsiasi cosa Egli ti mandi». Docilmente hanno restituito a Dio la loro vita – «restituirgli qualunque cosa Egli ti chieda». E forse, attorno, in quella città, qualcuno si fermerà un momento a considerare la strana scelta di quegli stranieri venuti lì a morire per curare creature che 'non valgono' niente. Perché, in cambio di cosa? In cambio di niente. Nella assoluta gratuità di Cristo. E rimarrà, solo in alcuni magari, tra chi ha visto ieri ad Aden il massacro, una domanda. Tanto straniero appare agli uomini l’amore illimitato e gratuito, che chi lo incontra non può non chiedersi come mai, e perché. È la fascinazione di Cristo che rimane, misteriosa e viva, sopra a qualsiasi orgia di morte. Sopra a qualsiasi ferocia che gli uomini, come schiavi, scelgano di servire. IL GAZZETTINO di sabato 5 marzo 2016 Pag 1 La strategia per fermare il Califfo di Carlo Jean La possibilità di costituire in Libia un “governo di accordo nazionale” sembra stia per sfumare. L’inviato dell’Onu Martin Kobler sta per gettare la spugna. Nulla cambia sostanzialmente. Un governo unico avrebbe avuto la legittimità di chiedere un intervento internazionale. Non è comunque detto che avrebbe avuto la forza di farlo: molti libici l’avrebbero infatti accusato di tradimento della patria. Comunque, non avrebbe avuto alcuna effettività. Non avrebbe potuto cioè sostenere l’azione internazionale contro l’Isis in Libia, né superare la frammentazione del Paese e disarmare la miriade di milizie esistenti. Quasi tutte sarebbero rimaste fedeli ai “governi” di Tobruk e di Tripoli e, soprattutto, alle rispettive tribù, città, etnie e sette confessionali. È così caduta la “foglia di fico” che permetteva alla comunità internazionale di dilazionare le sue decisioni. Intanto l’Isis avanza. Tutti sono persuasi che si debba fare qualcosa e rapidamente. Ma che cosa, con quali obiettivi e con chi? Prima di partire con un’azione militare risolutiva, vari interrogativi devono trovare risposta. Quali devono essere le finalità ultime dell’intervento? Deve semplicemente contenere e neutralizzare l’Isis per evitare che contagi il resto dell’Africa settentrionale e il Sahel o che effettui attacchi diretti in Europa? È l’Isis la causa o l’effetto del caos esistente in Libia? E ancora. Quali sono le forze locali con cui cooperare? Come persuaderle a combattere l’Isis anziché lottare tra di loro? Occorre sostenere il governo di Tobruk, come fa la Francia, oppure quello di Tripoli? Oppure entrambi? Quest’ultima soluzione non comporterebbe inevitabilmente la divisione della Libia tra la Tripolitania e la Cirenaica, e forse il Fezzan? Quali problemi sorgerebbero in tal caso? Come stabilizzare la Libia e controllarne le coste per contenere l’ondata di immigrati sulla rotta mediterranea, che diventerà prioritaria una volta che sarà risolta la crisi mediorientale che sta destabilizzando l’Europa? Insomma, si è tuttora in alto mare, anche se è stata presa la decisione di intensificare le attività di intelligence con il supporto di Forze Speciali. Anche l’Italia lo farà. Estenderà i compiti dell’intelligence dal recupero di ostaggi, forse alla designazione degli obiettivi che gli aerei devono colpire e, in futuro, a raid mirati destinati ad eliminare i capi dell’Isis. A parer mio, se si riuscisse a formare una “coalizione di volenterosi”, l’interesse nazionale italiano sarebbe di perseguire obiettivi che diano una sufficiente stabilità a quella che è divenuta la “quarta sponda” europea. All’obiettivo di distruggere l’Isis, si dovrebbe aggiungere quello ben più impegnativo di stabilizzare la Libia, possibilmente con le buone. Le difficoltà però aumenterebbero. Non sarebbero solo materiali. Diventerebbe più difficile trovare un accordo sia tra i “volenterosi” – occidentali e arabi - partecipanti alla coalizione, sia soprattutto fra le milizie locali, che lottano per il potere e la ricchezza e che sono sempre più in simbiosi con la criminalità organizzata, che sono portate a combattersi tra di loro anziché ad opporsi all’Isis anche se posseggono la potenza necessaria per distruggerlo. Occorre cercare alleati fra tutti i libici disponibili a sostenere l’intervento occidentale. Ci si riferisce, in particolare, alle milizie di Misurata che contano 40.000 combattenti e circa 800 mezzi corazzati. Solo dopo aver concordato gli obiettivi con Washington, Parigi e Londra e individuato gli alleati libici, si potranno ipotizzare le

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forze necessarie. Oggi è prematuro farlo. La pacificazione della Libia sarà molto impegnativa. Non si può escludere che si debba accettare la divisione del paese per acquisire il sostegno del maggior numero di potenze regionali e di milizie locali. Le difficoltà di una divisione sono accresciute da due fatti. Primo, l’urbanizzazione ha indebolito l’autorità dei capi e degli anziani delle tribù. Non si può quindi contare molto su di essi, per tracciare i confini tra le regioni in cui verrebbe divisa la Libia. Inoltre, l’80% degli giacimenti di petrolio libici, è situato nel Bacino della Sirte. Sarebbe difficile dividerli tra Tripoli e Bengasi. Certamente, tale ipotesi presenterebbe il vantaggio di accordi separati con Tripoli e con Tobruk e i rispettivi sponsor regionali: l’Egitto e gli Emirati per il secondo. La Turchia e il Qatar per il primo. Ma l’ipotesi di una divisione del paese potrebbe provocare la reazione patriottica del popolo libico. I “giochi” sono quindi aperti. Una decisione relativa all’intervento richiede certamente ancora un difficile negoziato tra tutti i componenti della coalizione che, come si è detto, hanno interessi e percezioni diverse. Il governo italiano che, giustamente, vuole mantenere la leadership dell’intervento internazionale, dovrà usare, al riguardo, la grande abilità diplomatica di cui sta dando prova, unita alla notevole cautela che giustamente ha finora mantenuto nei riguardi della variegata realtà libica. Pag 19 Nessuna contrapposizione tra Chiesa e Massoneria, ma ricerca di nuovo dialogo di Luigi Danesin L’intervento del Cardinale Gianfranco Ravasi, pubblicato sul “Sole 24 ore” intitolato “Cari fratelli massoni”, mi dà occasione propizia per affrontare un tema che, da cristiano cattolico praticante, che ogni domenica si accosta alla Comunione mi è assai caro: il rapporto tra Chiesa e Massoneria. La Massoneria è un istituzione iniziatica a cui mi onoro di appartenere da circa cinquant’anni, essendo anche il decano del Supremo Consiglio. Il Cardinale Ravasi, come noto, punta di diamante della cultura ecclesiastica, spiega con chiarezza, parole sagge ed “illuminate” come, al di là della diversa identità tra Chiesa e Massoneria, non manchino valori comuni come comunitarismo, beneficenza e lotta al materialismo. Come abbiamo più volte ribadito la Massoneria non è una religione, e nemmeno un suo surrogato, operando su un piano assolutamente diverso; la Massoneria, per me, è una vera “Scuola di Vita”, è un cammino di crescita che perfeziona l’uomo, in un mondo di simboli, e con una certa ritualità. Vorrei anche smentire un errato luogo comune: non è affatto vero che il massone è ateo. Anzi è l’esatto contrario: la Massoneria postula l’esistenza di un Ente supremo che chiama Grande Architetto dell’Universo ed ogni massone in ossequio alla Sua Credenza riconosce il proprio Dio. In questo momento di crisi di valori la Massoneria, anche veneziana, ha avuto un fiorente impulso. Anche tra i giovani perché, in momenti di difficoltà aumenta la ricerca anche di “spiritualità” e dei veri valori. L’esempio più emblematico lo viviamo in una loggia della Gran Loggia d’Italia a Beirut in Libano. Qui nella loggia “Cavalieri d’Oriente” vi sono, assieme, allo stesso tavolo, “fratelli” di dodici credenze religiose diverse: Cristiano Cattolici, Cristiano Ortodossi, Cristiano Siriaca, Musulmani Shiiti, Musulmani Sunniti, Cristiano Protestanti, Musulmani Alawiti, Cristiano Maroniti, Cristiano Armeni Ortodossi, Cristiano Armeni Cattolici, Druzi, Cristiano Latini. Alla nostra Gran Loggia aderiscono uomini e donne, diversamente da quanto accade nelle obbedienze di schema dogmatico. Il nostro obiettivo è quello di conoscere l’Uomo – questo grande sconosciuto - – ed a condurlo al perfezionamento attraverso l’educazione, quindi alla sua vittoria sul vizio e sulle passioni mediante la conoscenza e l’esercizio delle virtù. Si cerca di raggiungere la conquista della Verità, il culto della Giustizia ed il rispetto della Gerarchia. Infine il ruolo Sociale, anche esso molto rilevante. La Massoneria Universale, non concepisce come fine a se stessa l’acquisizione delle virtù fondamentali che sono i pilastri del suo Ordine. Ma si comporta in modo da far lievitare il mondo in cui vive: quello della famiglia, della società e del Paese di origine e dell’umanità. Vi è, quindi, un preciso e chiaro ruolo sociale in tutto ciò. Tutto ciò sapendo che fin dalle remote età, lo sforzo dei nostri Maestri tese a fare del mondo intero una “Famiglia Ideale” in cui deve regnare lo spirito di Eguaglianza, di Libertà e di Fraternità. In questo senso va ricordato, con riconoscenza, il ruolo avuto da tanti nostri fratelli eminenti e valorosi. Massoni famosi se ne contano a migliaia; dalla cultura alla politica, dallo spettacolo all’imprenditoria. Numerosi i premi Nobel: Carducci, Quasimodo,

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Flaming. Inventori ed esploratori: Antonio Meucci, Giuseppe Garibaldi che fu anche Gran Maestro della Massoneria Italiana, il mio amico Hugo Pratt, veneziano come me, Kipling, Mozart, Napoleone Bonaparte, Pascoli, Goethe, Voltaire Amstrong. Non vanno dimenticati George Washington e quasi tutti i Presidenti americani. Nessuna contrapposizione con la Chiesa e la religione. L’auspicio è che ora il brillante intervento del Cardinale Gianfranco Ravasi possa contribuire, e dare nuovo slancio, al dialogo, nel rispetto delle reciproche appartenenze e prerogative, tra Chiesa e Massoneria; dialogo, ad oggi, un po’ sopito che potrà ricevere nuovo slancio. LA NUOVA di sabato 5 marzo 2016 Pag 1 In guerra ma un po’ alla volta di Bruno Manfellotto Siamo in guerra, anzi non ancora, o meglio un po’ sì e un po’ no, come del resto è sempre stato per l’Italia d’assalto. Stavolta, però, ci siamo dentro di più. E dall’altro ieri, da quando s’è avuta la tragica notizia dell’uccisione in Libia di due tecnici italiani, scudi umani dell’Is o caduti sotto il fuoco amico, è tutto più vicino e possibile. È il prezzo da pagare per aver ottenuto il coordinamento delle operazioni militari per la lotta all’Is lì dove regnava il colonnello Gheddafi, incarico che nelle intenzioni di Matteo Renzi dovrebbe aiutare l’Italia a rafforzare un posto di primo piano al tavolo delle grandi decisioni europee. Senza contare che la Libia è a 180 miglia da Lampedusa, più o meno quanto dista la Sardegna dalla costa laziale; che è stata italiana dal 1934 al ’43 nella velleitaria parentesi coloniale; che dalle sue coste partono, verso la Sicilia e l’Europa, migliaia di profughi in fuga da guerra e fame; che dalle acque dinanzi a Tripoli e dalle sabbie del deserto l’Eni, presente lì da quasi sessant’anni, estrae ogni giorno 520mila barili tra greggio e gas. In Libia, insomma, siamo un po’ a casa e sarebbe davvero sorprendente subìre per la seconda volta decisioni altrui le cui conseguenze ricadono innanzitutto su di noi: nel 2011 Silvio Berlusconi, allora premier, non riuscì a fermare il blitz francese che portò alla caduta e alla morte di Gheddafi. Con tutto quello che ne è derivato. Adesso in quell’area, spinti dal caos e dall’assenza di un governo forte e unito, si sono insediati i miliziani dell’Is che hanno approfittato di questa lunga fase di interregno anche per stringere alleanze con jihadisti e qaedisti che allignano in mezza Africa: dall’Algeria alla Somalia, dalla Nigeria al Mali. La situazione sul campo è molto delicata e il prezzo del coinvolgimento italiano rischia di essere molto alto. Inutile dire poi che secondo i sondaggi la stragrande maggioranza degli italiani condanna l’intervento. Ma anche l’inerzia, l’immobilismo, il rinvio di ogni decisione sono da evitare. E per questo sono comprensibili le prudenze che fanno oggi da contrappeso all’insistenza con la quale Renzi ha chiesto di guidare la missione internazionale. La strategia adottata, concordata anche con il capo dello Stato, è di attendere che in Libia si formi un governo rappresentativo e di unità nazionale, frutto di un accordo tra il governo e il Parlamento di Tripoli e il governo e il Parlamento in esilio a Tobruk. Se così non fosse, si ripeterebbe l’errore fatale del 2011 e l’azione dei militari europei apparirebbe ai locali né più né meno che un atto ostile e neocolonialista, magari capace di spingere altri ancora sotto le nere bandiere sunnite. I paesi che con la Libia confinano hanno infatti già lanciato il loro altolà: Algeria e Tunisia sono contrari a un intervento militare unilaterale non concordato con il governo locale; l’Egitto insiste in particolare perché sia l’esercito libico a battersi contro l’Is e c’è addirittura chi ha letto nella tragica fine di Giulio Regeni e nell’inquietante balletto di depistaggi che sta accompagnando le indagini sulla morte del ricercatore italiano prima torturato poi ucciso, una sorta di sinistro avvertimento ai servizi segreti e ai governi d’oltremare. D’altronde, c’è anche chi si chiede che cosa potrebbe succedere se gli stivali della Divisione Acqui calcassero le sabbie libiche andando a rinforzare quell’esercito di tremila e più soldati pronti a intervenire, e per quanto tempo dovrebbero poi restare laggiù. Domande più che legittime. Nel frattempo, però, sul campo di battaglia già si combatte. Da tempo si muove ciò che resta dell’esercito di Tripoli impegnato da tempo contro l’Is, ma con il supporto determinante della Francia che anche stavolta cerca di ritagliarsi il ruolo di primattore. Altro rischio, dunque, cui si aggiunge quello di perdere la calma e di entrare in guerra troppo presto e da soli, magari per paura di restare schiacciati da scelte altrui. Dunque attenzione, prudenza, sangue freddo. Per non restare stritolati nella tenaglia di una decisione avventata, o di un nulla di fatto poco chiaro e inconcludente.

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Pag 1 I “gufi” irrisi e il partito della nazione di Giovanni Palombarini Se qualcuno aveva ancora dei dubbi sulla direzione che Matteo Renzi sta dando al partito di cui è segretario, la vicenda della legge sulle unioni civili li ha di sicuro cancellati. Di fronte alla scelta fra un percorso da percorrere con il Movimento 5 Stelle che avrebbe portato all’approvazione del testo Cirinnà nella sua interezza, compreso il famoso articolo 5 sulle adozioni del figlio naturale del partner, e la conferma dell’alleanza di governo con il partito di Angelino Alfano, anche a costo di rinunciare alla norma sull’adozione, ha scelto la seconda strada, prendendosi, oltre all’approvazione dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, anche il voto di fiducia di Ala, il nuovo gruppo di Denis Verdini. La sinistra del Pd ha contestato tutto questo, ma è stata messa rapidamente a tacere. Non ha incertezze Matteo Renzi nei riguardi di quella che viene considerata la sinistra del suo partito. Se, contrari a qualcuna delle scelte di un segretario che non li ascolta, gli esponenti di quell’area accennano alla possibilità di andarsene, si sentono rispondere con tono deciso che lui li saluterebbe con una parola di sole quattro lettere: “ciao”. Il leader non si impressiona, come non si era impressionato in vicende passate. «Certo, ho fatto una forzatura e ho perso qualcosa sulla sinistra», aveva detto commentando il risultato delle varie fiducie sull’Italcum e della votazione conclusiva, senza una minimo accenno a una speranza di ricupero di quel dissenso. Non a caso. Perdere non qualcosa, ma molte cose a sinistra rientra infatti nel suo piano di costruzione del partito “della nazione”. Un partito che deve avere radici forti in un’aggregazione di strati sociali diversi, legati da interessi del tutto indipendenti dal mondo del lavoro salariato. Infatti un grande partito di centro, da costruire raccogliendo convinzioni e sentimenti diffusi, deve inevitabilmente avere alcune chiare caratteristiche “moderate” per ottenere un largo consenso elettorale. Per questo, anche la storia delle adozioni di una coppia omosessuale può essere messa da parte. È una storia che infastidisce tanti, lo dicono inequivocabili sondaggi. L’amico di Renzi, in definitiva, è Sergio Marchionne, Camusso e Landini sono nemici da emarginare. Anche sulla strada delle alleanze il presidente del consiglio si muove deciso. Ormai non c’è solo quella con il nuovo centro-destra di Angelino Alfano, ex segretario del Pdl portato in Parlamento da Silvio Berlusconi già nel 2001. Anche Ala, altro gruppo di eletti da Forza Italia e che in Senato ha 19 parlamentari, ormai decisivi per mettere insieme una maggioranza assoluta in quel ramo del parlamento, è un soggetto da tenere in gran conto. Che il suo leader, Denis Verdini, gravato da alcune pendenze giudiziarie, sia stato per lunghi anni un protagonista di primo piano del berlusconismo non è un ostacolo, anzi. Il partito della nazione vuole assorbire anche questo mondo. In Sicilia, poi, se Totò Cuffaro invita i suoi simpatizzanti ancora numerosi in quella regione a iscriversi al Pd, Renzi non batte ciglio, limitandosi a lasciare la gestione della singolare vicenda di “entrismo” al segretario regionale, il quale ha fatto sapere che controllerà uno a uno (come?) gli aspiranti aderenti. Questa è la linea da seguire con decisione. Sergio Cofferati, Pippo Civati, Corradino Mineo e Stefano Fassina si sono dimessi dal partito? Va bene così, nessun rimpianto, la speranza è che altri “gufi” li imitino. Già, i “gufi”: quelli che anche in questi giorni vengono irrisi in virtù di qualche zero virgola in più di qualche voce dell’economia, dimenticando lo zero virgola in meno nei consumi. Dimenticando soprattutto la divaricazione crescente fra i ristretti ceti dei più ricchi e le grandi masse di poveri, e i record europei negativi in tema di evasione fiscale, di disoccupazione giovanile, di corruzione, di investimenti in ricerca, di cervelli che emigrano. Il filo va tagliato con nettezza, senza inutili ipocrisie. Per rendere chiare le cose la ministra degli affari istituzionali Maria Elena Boschi in un’occasione ha detto: «Fra Fanfani e Berlinguer, io scelgo Fanfani». L’immagine di Enrico Berlinguer, un uomo di sinistra che parlava di un mondo diverso, che qualcuno ancora ricorda, deve essere cancellata. Non sarebbe mai stato amico di Marchionne, avrebbe invece dialogato con Camusso e Landini. Torna al sommario