Rassegna stampa 27 luglio 2015 - WebDiocesi · soggette alle imposte locali come un qualsiasi...

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 27 luglio 2015 SOMMARIO “Caro direttore – scrive un lettore, don Carlo Comi, ad Avvenire - ci risiamo! Una sentenza della Corte di Cassazione obbliga le scuole paritarie a pagare l’Ici e l’Imu anche se svolgono la loro attività educativa senza trarne alcun lucro. Evidentemente per quei giudici della Cassazione non svolgono alcun servizio pubblico. La mia proposta sarà drastica, ma forse è l’unica che potrebbe portare chi di dovere a più sagge valutazioni: proviamo a chiuderle tutte queste “scuole inutili” e accusate di evasione fiscale, ma proprio tutte, contemporaneamente, e lasciamo allo Stato il compito di arrangiarsi a trovare una soluzione per il milione e passa di scolari e studenti che le frequentano. Vorrei vedere come i partiti e i parlamentari che ragionano solo con (e per) ideologia riusciranno a trovare una soluzione che salvi i conti dello Stato, ma soprattutto la libertà di cui spesso (e solo a senso unico) si riempiono la bocca. Per certi signori la libertà è giusto quella che coincide con il loro modo di pensare!”. Risponde così il direttore Marco Tarquinio: “Il servizio pubblico svolto dalle scuole paritarie non statali è stato finalmente riconosciuto con la legge Berlinguer, quindici anni fa. Sembra però destinata a restare una chimera la concreta riconoscenza per ciò che esse fanno per centinaia di migliaia di scolari e studenti con enorme vantaggio anche per le casse dello Stato (che risparmia circa 6 miliardi di euro all’anno, grazie a questa “gamba” del sistema di istruzione nazionale) e per garantire la libertà di scelta educativa delle famiglie che nel resto d’Europa è regola largamente e pacificamente riconosciuta. E quando sembra maturare una consapevolezza seria e diversa di questa ingiustizia, caro don Comi, ecco che un qualche evento – ancora una volta una sentenza... – riprecipita il dibattito nella voragine dei luoghi comuni più triti, tristi e deformanti: educazione confessionale, ricche rette, privilegi fiscali, inutilità pubblica della funzione svolta... Capisco, dunque, la sua amarezza. E provo a risponderle con una citazione, anzi un’autocitazione. Più o meno quattro anni fa, era il settembre del 2011, l’allora direttore dell’'Espresso' Bruno Manfellotto mi invitò a scrivere un breve articolo per quel settimanale sulla questione delle tasse da imporre sulle attività educative e socio-assistenziali promosse dalla Chiesa cattolica nelle sue diverse articolazioni. Conclusi quell’articolo, ricordando che “tassare la solidarietà” generata dall’umanesimo concreto e dalla passione civile dei cattolici (come di tutte le altre organizzazioni senza fini di lucro comunque ispirate) era una pretesa insensata e autolesionista. Lo penso più che mai, oggi che la regolazione della materia si è fatta ancora più accurata e le attività “profittevoli”, da chiunque siano promosse, sono senza dubbio alcuno sottoposte a giusto regime fiscale. Ma, ecco il punto, l’ultima considerazione che feci, quattro anni fa, fu appunto sull’idea che lei torna a evocare. La chiusura secca di tutte le scuole paritarie cattoliche. «Chiunque altro – scrissi – risponderebbe con una serrata dimostrativa di almeno sette giorni delle proprie attività». E annotai che una simile botta «l’Italia non se la merita e non se la potrebbe permettere» e che «i cattolici, poi, non sanno neanche come si fa una serrata». Anche di questo sono ancora convinto, caro don Carlo. Ma mi rendo conto altrettanto bene che forti gruppi di interesse (ideologico, certo, ma pure commerciale) non vedono l’ora che le scuole paritarie cattoliche (e non profit) siano “serrate”. Credo che si sogni il momento in cui la libertà scolastica diventerà soprattutto e solo un business, un affare, e non il servizio alla comunità che noi concepiamo. E allora, magari, assisteremo al laico ritorno dei “liberisti” e scopriremo che la scuola paritaria non statale è “progressista”. Già, strangolare l’attuale scuola libera (e per tanta parte, grazie soprattutto ai cattolici, senza fini di lucro) a colpi di indifferenza e di tasse è possibile, purtroppo. E forse ci stanno riuscendo. Ma sono sicuro che, sino all’ultimo, i cattolici impegnati su questo fronte continueranno a fare il bene dei “loro” e nostri ragazzi e del nostro Paese. Anche qui, finché avremo idee, energie e voce, ci saremo. Anche a scuola, soprattutto a scuola, non c’è solo Stato o

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 27 luglio 2015

SOMMARIO

“Caro direttore – scrive un lettore, don Carlo Comi, ad Avvenire - ci risiamo! Una sentenza della Corte di Cassazione obbliga le scuole paritarie a pagare l’Ici e l’Imu

anche se svolgono la loro attività educativa senza trarne alcun lucro. Evidentemente per quei giudici della Cassazione non svolgono alcun servizio pubblico. La mia

proposta sarà drastica, ma forse è l’unica che potrebbe portare chi di dovere a più sagge valutazioni: proviamo a chiuderle tutte queste “scuole inutili” e accusate di evasione fiscale, ma proprio tutte, contemporaneamente, e lasciamo allo Stato il compito di arrangiarsi a trovare una soluzione per il milione e passa di scolari e studenti che le frequentano. Vorrei vedere come i partiti e i parlamentari che

ragionano solo con (e per) ideologia riusciranno a trovare una soluzione che salvi i conti dello Stato, ma soprattutto la libertà di cui spesso (e solo a senso unico) si

riempiono la bocca. Per certi signori la libertà è giusto quella che coincide con il loro modo di pensare!”. Risponde così il direttore Marco Tarquinio: “Il servizio pubblico svolto dalle scuole paritarie non statali è stato finalmente riconosciuto con la legge

Berlinguer, quindici anni fa. Sembra però destinata a restare una chimera la concreta riconoscenza per ciò che esse fanno per centinaia di migliaia di scolari e studenti con enorme vantaggio anche per le casse dello Stato (che risparmia circa 6 miliardi di euro all’anno, grazie a questa “gamba” del sistema di istruzione nazionale) e per garantire la libertà di scelta educativa delle famiglie che nel resto d’Europa è regola largamente e pacificamente riconosciuta. E quando sembra maturare una consapevolezza seria e diversa di questa ingiustizia, caro don Comi, ecco che un qualche evento – ancora una

volta una sentenza... – riprecipita il dibattito nella voragine dei luoghi comuni più triti, tristi e deformanti: educazione confessionale, ricche rette, privilegi fiscali,

inutilità pubblica della funzione svolta... Capisco, dunque, la sua amarezza. E provo a risponderle con una citazione, anzi un’autocitazione. Più o meno quattro anni fa, era il settembre del 2011, l’allora direttore dell’'Espresso' Bruno Manfellotto mi invitò a

scrivere un breve articolo per quel settimanale sulla questione delle tasse da imporre sulle attività educative e socio-assistenziali promosse dalla Chiesa cattolica nelle sue diverse articolazioni. Conclusi quell’articolo, ricordando che “tassare la solidarietà” generata dall’umanesimo concreto e dalla passione civile dei cattolici (come di tutte

le altre organizzazioni senza fini di lucro comunque ispirate) era una pretesa insensata e autolesionista. Lo penso più che mai, oggi che la regolazione della materia si è fatta ancora più accurata e le attività “profittevoli”, da chiunque siano promosse,

sono senza dubbio alcuno sottoposte a giusto regime fiscale. Ma, ecco il punto, l’ultima considerazione che feci, quattro anni fa, fu appunto sull’idea che lei torna a evocare. La chiusura secca di tutte le scuole paritarie cattoliche. «Chiunque altro –

scrissi – risponderebbe con una serrata dimostrativa di almeno sette giorni delle proprie attività». E annotai che una simile botta «l’Italia non se la merita e non se la

potrebbe permettere» e che «i cattolici, poi, non sanno neanche come si fa una serrata». Anche di questo sono ancora convinto, caro don Carlo. Ma mi rendo conto

altrettanto bene che forti gruppi di interesse (ideologico, certo, ma pure commerciale) non vedono l’ora che le scuole paritarie cattoliche (e non profit) siano

“serrate”. Credo che si sogni il momento in cui la libertà scolastica diventerà soprattutto e solo un business, un affare, e non il servizio alla comunità che noi

concepiamo. E allora, magari, assisteremo al laico ritorno dei “liberisti” e scopriremo che la scuola paritaria non statale è “progressista”. Già, strangolare l’attuale scuola libera (e per tanta parte, grazie soprattutto ai cattolici, senza fini di lucro) a colpi di indifferenza e di tasse è possibile, purtroppo. E forse ci stanno riuscendo. Ma sono

sicuro che, sino all’ultimo, i cattolici impegnati su questo fronte continueranno a fare il bene dei “loro” e nostri ragazzi e del nostro Paese. Anche qui, finché avremo idee, energie e voce, ci saremo. Anche a scuola, soprattutto a scuola, non c’è solo Stato o

mercato”. Sullo stesso argomento è da segnalare, tra gli altri, il particolare intervento di Alberto Melloni sul Corriere di oggi: “La sentenza della Cassazione che chiede alle suore di Livorno di dimostrare di non lucrare sulla loro scuola paritaria, pena essere

soggette alle imposte locali come un qualsiasi «negozio», è stata a suo modo provvidenziale... La sentenza può essere l’occasione per dirsi cosa rende la scuola (statale o paritaria che sia) «pubblica». Cioè scrupolosamente aderente al dettato

costituzionale che la dice «aperta a tutti». Non ai cittadini, non agli abbienti, non ai praticanti d’un credo o di nessuno, ma a tutti. Come la scuola di Don Milani, scuola fatta in canonica da un prete in talare, ma che ha insegnato che è pubblico chi sa mettersi all’altezza del più piccolo per «rimuovere gli ostacoli» di cui all’articolo 3

della Costituzione. La scuola che non è così, non solo non è pubblica, ma non è nemmeno scuola. Abbia le insegne dello Stato o un altro simbolo, essa è solo un pletorico arnese che certifica la ricchezza economico-culturale della famiglia di provenienza degli scolari. La «buona scuola», per usare l’espressione coniata da

Stefania Giannini, è pubblica se e quando rovescia l’adagio classista per cui a scuola si va e a casa si impara: ed è quella che va costruita con tecnicalità e prudenze sempre più rare in un Paese di cialtroni irascibili. Se si fa così si potrà prendere atto che una

«questione scolastica» oggi c’è. Ma non è quella di fine Ottocento, quando era un campo di battaglia sul quale si affrontavano l’illusione dello Stato e l’illusione della chiesa cattolica di poter fabbricare a scuola agenti della secolarizzazione o della

confessionalizzazione dello spazio pubblico. Non è quella del primo cinquantennio repubblicano, quando il monopolio democristiano sul Ministero di viale Trastevere si

combinava con il pluralismo d’un corpo docente che cresceva ope legis trasformando i più pazienti dei precari nei più tutelati dei dipendenti pubblici. E non è quella

dell’era ruiniana della Cei, quando la questione serviva per chiedere concessioni, tra le quali la qualificazione privilegiaria era molto più importante del contenuto, incluso l’aspetto economico. Oggi la Cei pone invece il problema di considerare la scuola fra i

beni comuni: dunque per ciò che essa è e deve essere, e non in base alla natura giuridica di chi la fa o all’impegno economico che essa chiede a chi la frequenta. Prima se ne prende atto, meglio è: anche sul piano fiscale. Perché è evidente che

l’equiparazione degli spazi della istruzione (e dello studio in senso lato) alle attività commerciali o alle dimore costituirebbe un incentivo all’egoismo di cui non si sente il bisogno. Su questo il governo, le chiese, le comunità e i titolari di servizi scolastici

dovrebbero parlarsi in modo chiaro, competente, diretto e sincero…” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 19 Il patriarca Moraglia a Jesolo per “via don Castorina” di Giovanni Cagnassi LA NUOVA di domenica 26 luglio 2015 Pag 37 Il patriarca oggi a Jesolo per ricordare don Castorina di g.ca. Via intitolata al parroco 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 2 Prima il selfie, adesso il tablet. Il debutto di Francesco di Luigi Accattoli IL GAZZETTINO Pag 9 Appello del Papa per la liberazione di padre Dall’Oglio Il gesuita rapito a Raqqa due anni fa è uno dei sette sacerdoti e vescovi tenuti in ostaggio dai gruppi jihadisti WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Il New York Times: «Sta per finire il cristianesimo in Medio Oriente?» di Maria Teresa Pontara Pederiva

Un lungo speciale nel Magazine domenicale affronta la drammatica questione. Nell’arco di un secolo (1910-2010) il numero dei cristiani in paesi come l'Egitto, Israele, Palestina e Giordania è passato dal 14 al 4 per cento della popolazione AVVENIRE di domenica 26 luglio 2015 Pag 3 Laici nella Chiesa, un esame di coscienza di Giorgio Campanini Dal Papa una forte esortazione all’impegno Pag 13 Matrimonio, coppie in crisi. La Chiesa non si tiri indietro di Pierangelo Sequeri Esistono le risorse per una teologia coerente con le verità della fede, ma sono inutilizzate IL FOGLIO di sabato 25 luglio 2015 Pag V Francesco e il mistero dell’enciclica icona degli anti capitalisti di Giuliano Ferrara Pag V Quei rimandi della Laudato si’ alla “conversione ecologica” di Langer di Adriano Sofri Pag VI Istruzioni per il corretto uso di una lettera circolare e di una enciclica non ordinaria di Maurizio Crippa Pag VI L’idolo della sinistra ingenua di Antonio Gurrado Chiacchierata con Massimo Cacciari Pag VII El pueblo primero di Matteo Matzuzzi La terza via argentina tra marxismo e liberalismo e la poca simpatia (ricambiata) per gli yankee Pag VII Un’enciclica cosmica e sociale di Antonio Fazio Moneta e finanza sono “strumenti” utili per il benessere. Francesco ci ricorda di non trasformali in “fini” 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 23 L’era dei papà sapiens di Massimo Sideri Più esperti e disponibili con i figli. Il risultato è che tu sei l’amicone ma la vera autorità è la Mamma Pag 27 La scuola paritaria è un bene comune, non un semplice negozio di Alberto Melloni IL GAZZETTINO Pag 2 Ici alle scuole paritarie, il governo al lavoro per una soluzione “politica” LA NUOVA Pag 8 Zaia: l’Ici alle scuole paritarie è scandalosa No alla tassazione anche da Rubinato e Santini del Pd. Il tosiano Caon: il governatore sconfessa Salvini CORRIERE DELLA SERA di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 Paritarie o statali. Il costo degli studenti di Valentina Santarpia Pag 3 Mons. Galantino: “Vogliono umiliare la Chiesa. Così molti istituti chiuderanno” di Melania Di Giacomo Salvatore Settis: “Ma la Costituzione è chiara. Non devono pesare sullo Stato”

AVVENIRE di domenica 26 luglio 2015 Pag 2 “Forse dovremmo chiuderle tutte ora le paritarie…”. Non ne siamo capaci, Non c’è solo Stato o mercato (lettere al direttore) Pag 7 “Paritarie, sentenza ideologica e pericolosa” di Gianni Santamaria e Angelo Picariello Galantino: se chiudono libertà limitata. Interviene il governo: chiariremo presto. Le reazioni della politica Pag 7 Veneto, senza materne cattoliche lo Stato non ce la fa di Francesco Dal Mas IL GAZZETTINO di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 I diritti e i doveri della Chiesa di Alessandro Campi Pag 2 I vescovi: no all’Ici sulle scuole cattoliche di Antonio Calitri e Marco Conti La sentenza della Cassazione suscita un mare di polemiche. Il governo prepara un tavolo. Esclusa l’ipotesi di un decreto Pag 3 “Famiglie già in difficoltà, non aumenteremo le rette” di Federica Cappellato La responsabile veneta della Fidae Virginia Kaladich: il governatore Zaia e i nostri parlamentari intervengano a difesa di un patrimonio secolare per la formazione LA NUOVA di domenica 26 luglio 2015 Pag 7 L’Ici per le paritarie fa infuriare i vescovi. Subito il confronto La protesta della Cei dopo la sentenza della Cassazione. Giannini: “Serve riflessione”. L’esecutivo avvia chiarimento CORRIERE DELLA SERA di sabato 25 luglio 2015 Pag 20 La Cassazione sulle scuole religiose: “No all’esenzione, paghino l’Ici” di Marco Gasperetti Accolto il ricorso di Livorno. La replica degli istituti: un errore, così chiuderemo tutti Pag 21 Meno architetti, più ingegneri. L’università si sceglie per il lavoro di Valentina Santarpia Iscrizioni per il nuovo anno LA REPUBBLICA di sabato 25 luglio 2015 Pag 4 “Le scuole cattoliche paghino l’Ici” di Roberto Petrini e Paolo Rodari La Cassazione dà ragione al comune di Livorno. Primo pronunciamento della Corte sulla materia. Don Francesco Macrì, presidente Fidae: “Sentenza illogica e ingiusta, spinti a chiudere dall’ideologia” AVVENIRE di sabato 25 luglio 2015 Pag 11 Ici sulle paritarie, si apre un caso di Chiara Domenici e Umberto Folena Cassazione: a Livorno paghino gli arretrati. La replica: chiudiamo. Giuseppe Cipolla: “Principio sconvolgente, sentenza rivolta al passato e non vincolante” IL GAZZETTINO di sabato 25 luglio 2015 Pag 6 “Anche le scuole religiose dovranno pagare l’Imu” Per i giudici non si tratta di attività che possono godere dell’esenzione. Sconcerto nel mondo cattolico: “Saremo costretti ad aumentare le rette. Insensato, rischiamo di dover chiudere”. Un milione di ragazzi in 13mila paritarie 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 13 Da mercoledì riapre la “mensa d’agosto” di m.a. Casa dell’Ospitalità in via S. Maria dei Battuti: previsti due turni e 150 persone bisognose al giorno. Appello per avere alimentari e soldi

LA NUOVA di domenica 26 luglio 2015 Pag 20 “Basta bivacchi sui sagrati delle chiese” di Alessandro Abbadir Degrado urbano, proteste a Marghera. Davanti a Sant’Antonio e San Michele sistemazioni di fortuna di sbandati, spesso ubriachi, e odori insopportabili 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 10 Veneto, droga nelle mani degli stranieri di Giuseppe Pietrobelli Sei persone su dieci denunciate per traffico provengono dall’estero, il 63% in più della media nazionale CORRIERE DEL VENETO di sabato 25 luglio 2015 Pag 1 Sviluppo senza regia di Sandro Mangiaterra Innovazione veneta Pag 8 Padova e il nuovo vescovo, la mitezza per cambiare il vento del Nordest di Giandomenico Cortese LA NUOVA di sabato 25 luglio 2015 Pag 12 “Vogliamo il crocifisso in Consiglio regionale” di Filippo Tosatto … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Non siamo solo questo di Aldo Cazzullo IL GIORNALE Aiutare chi ha ucciso tua figlia. Se un gesto spegne la violenza di Luca Doninelli I genitori della tabaccaia uccisa si offrono di pagare le cure alla figlia malata del killer. Una generosità che apre a un mondo diverso. Dai valori cristiani IL GAZZETTINO Pag 1 L’Europa messa in crisi dalle sue regole di Marco Fortis LA NUOVA Pag 1 Rapiti in Libia, la rabbia e il dolore di Gianluca Salviato Pag 1 Non tutta la Lega guarda a Sud di Giovanni Palombarini CORRIERE DELLA SERA di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 La via giusta per tagliare le tasse di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Pensiamoci bene Pag 1 Da Nord a Sud ci scopriamo esposti su due fronti di Franco Venturini Politica estera LA REPUBBLICA di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 L’autunno del premier tra sogni fiscali e papà Blair di Eugenio Scalfari AVVENIRE di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 Chiamiamoli per nome di Eraldo Affinati Noi e quelli delle “quote” CORRIERE DEL VENETO di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 La seduzione del califfato di Stefano Allievi LA NUOVA di domenica 26 luglio 2015

Pag 1 I migranti e l’ipocrisia che uccide di Francesco Jori Pag 1 Ora Matteo tenta l’impresa di Fabio Bordignon CORRIERE DELLA SERA di sabato 25 luglio 2015 Pag 1 Il treno giudiziario dei diritti di Michele Ainis La politica assente Pag 1 Le quarte nozze del leader pd di Francesco Verderami Pagg 1 – 3 Roma si è fermata al capolinea del bus di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella AVVENIRE di sabato 25 luglio 2015 Pag 1 Anti-califfo per forza di Giorgio Ferrari La scelta obbligata di Erdogan Pag 3 L’Ucraina assetata di pace fa i conti col conflitto infinito di Mauro Mondello “Ci avete dimenticati”: voci dalla guerra “a bassa intensità” IL GAZZETTINO di sabato 25 luglio 2015 Pag 1 Basta con i diktat dei sindacati, il governo si muova di Giovanni Sabbatucci Pag 1 Così Berlusconi punta ai 23 milioni di “non elettori” di Bruno Vespa LA NUOVA di sabato 25 luglio 2015 Pag 1 Imu, il fisco di destra e di sinistra di Bruno Manfellotto Pag 1 Il caso Grecia e lo strabismo della politica di Vincenzo Milanesi

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 19 Il patriarca Moraglia a Jesolo per “via don Castorina” di Giovanni Cagnassi Jesolo. Il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, è tornato ieri mattina a Jesolo dove alle 9 ha celebrato la Santa Messa nella chiesa di piazza Nember per ricordare don Castorina. Un momento di forte spiritualità per la comunità jesolana che ha partecipato come sempre numerosa alla liturgia. Dopo la celebrazione eucaristica, il Patriarca ha benedetto la nuova strada realizzata, partita da un tratto di via Cavalieri di Vittorio Veneto, e intitolata dal Comune di Jesolo a don Francesco Castorina. Un omaggio per lo storico parroco della chiesa del Sacro Cuore di piazza Trento a Jesolo, originario di Maserada di Piave e mancato 10 anni fa. Alla cerimonia ha partecipato anche il sindaco Valerio Zoggia con la giunta comunale, i consiglieri, i presidenti delle associazioni di categoria, comitati e i rappresentanti delle forze dell’ordine. Il patriarca ha celebrato un'omelia che ha affrontato il tema della vacanza e dell'importanza di trovare comunque, anche nel periodo di relax e divertimento, un momento importante per la preghiera e la riflessione. Il parroco del Sacro Cuore, don Italo, ha ricordato assieme al patriarca la figura di don Castorina e il suo insegnamento seguito da tanti fedeli. Un parroco molto amato, e tuttora ricordato dai parrocchiani con grande piacere. A testimoniarlo i numerosi presenti, che ieri hanno voluto assistere all’intitolazione della strada. LA NUOVA di domenica 26 luglio 2015 Pag 37 Il patriarca oggi a Jesolo per ricordare don Castorina di g.ca.

Via intitolata al parroco Jesolo. Oggi il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, sarà a Jesolo alle 9 e celebrerà la Santa Messa nella chiesa di piazza Nember nel ricordo di don Castorina. Dopo la celebrazione eucaristica, infatti, il patriarca benedirà la nuova strada ricavata da un tratto di via Cavalieri di Vittorio Veneto, intitolata dal Comune di Jesolo a don Francesco Castorina, lo storico parroco della chiesa del Sacro Cuore di piazza Trento. Originario di Maserada di Piave (TV) e mancato 10 anni fa. Alla cerimonia parteciperanno il sindaco Valerio Zoggia con la giunta, i consiglieri, i presidenti delle associazioni di categoria, e i rappresentanti delle forze dell’ordine. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 2 Prima il selfie, adesso il tablet. Il debutto di Francesco di Luigi Accattoli Il tablet è entrato ieri nell’iconografia dei Papi e l’ha fatto solennemente, come chiedono il luogo e la storia: a mezzogiorno, affacciato alla finestra, Francesco ha digitato qualcosa sulla «tavoletta», forse il proprio nome, per iscriversi coram populo alla Giornata Mondiale della Gioventù che si farà tra un anno a Cracovia. Bergoglio non usa il computer e neanche il telefonino, ma la storia dei Papi è piena di gestualità in avanscoperta e da gesuita creativo anch’egli ha voluto dare una mano alla conciliazione della Chiesa con la modernità. «Oggi - ha detto Francesco dopo l’Angelus - si aprono le iscrizioni per la trentunesima Giornata Mondiale della Gioventù, che si svolgerà l’anno prossimo in Polonia. Ho voluto aprire io stesso le iscrizioni e per questo ho fatto venire accanto a me un ragazzo e una ragazza, perché siano con me nel momento di aprire le iscrizioni, qui davanti a voi». A questo punto Francesco clicca sullo schermo di un tablet che un collaboratore gli mette davanti e commenta: «Ecco, mi sono iscritto alla Giornata come pellegrino mediante questo dispositivo elettronico. Celebrato durante l’Anno della Misericordia, questa Giornata sarà, in certo senso, un giubileo della gioventù». Il debutto di Francesco con il tablet ricorda il suo primo selfie con un gruppo di scout di Piacenza, a fine agosto 2013. Ricorda anche il primo tweet di Benedetto il 12 dicembre 2012, anche lui assistito - nell’Aula Nervi - da due giovanissimi: i Papi quando devono andare su Internet chiamano i ragazzi come fanno gli anziani in famiglia. E pare che funzioni: in due anni e mezzo l’account Twitter @Pontifex - che Francesco ha ereditato da Benedetto - ha superato i 22 milioni di follower. Un altro precedente digitale c’era stato con Giovanni Paolo II, il Papa che ha promosso l’ingresso del Vaticano nel Web: il 19 novembre 2001 con un clic aveva inviato ai vescovi dell’Australia e dell’Oceania il documento «Ecclesia in Oceania». IL GAZZETTINO Pag 9 Appello del Papa per la liberazione di padre Dall’Oglio Il gesuita rapito a Raqqa due anni fa è uno dei sette sacerdoti e vescovi tenuti in ostaggio dai gruppi jihadisti Città del Vaticano - Il Papa ha lanciato ieri all’Angelus un appello per la liberazione di padre Paolo Dall'Oglio, il gesuita rapito due anni fa in Siria, come pure dei vescovi ortodossi, dei sacerdoti e di tutti gli ostaggi nelle zone di conflitto. Francesco ha auspicato «il rinnovato impegno delle autorità locali e internazionali». «Tra qualche giorno ricorrerà il secondo anniversario da quando in Siria è stato rapito padre Paolo Dall'Oglio», ha detto il Pontefice in un'assolata domenica in Piazza San Pietro rivolgendo «un accorato e pressante appello per la liberazione di questo stimato religioso. Non posso dimenticare - ha proseguito - anche i vescovi ortodossi rapiti in Siria e tutte le altre persone che, nelle zone di conflitto, sono state sequestrate. Preghiamo tutti insieme la Madonna», ha concluso, recitando con i fedeli l'Ave Maria. Dopo averlo ricordato più volte in particolare durante messe e incontri con i confratelli gesuiti, Bergoglio ha lanciato ieri il suo primo appello pubblico per la liberazione del sacerdote

romano 60enne, promotore per trent'anni in Siria della convivenza tra cristiani e musulmani e scomparso il 29 luglio 2013 - mentre tentava una mediazione per far liberare altri rapiti - nella zona di Raqqa. Rapito, sembra, da un gruppo jihadista, da allora di Dall’Oglio non si è più saputo niente di certo. «Tutti ricordiamo con grande amore, simpatia, stima questo religioso che ha amato la Siria dove ha fatto molto per il dialogo interreligioso», ha commentato alla Radio Vaticana il nunzio a Damasco, mons. Mario Zenari. Oltre al gesuita romano, altri sei sacerdoti - l’ultimo dei quali rapiti solo due settimane fa - tra cui due vescovi, fanno parte delle migliaia le persone scomparse in Siria senza lasciare traccia. «Per quanto siamo poveri, tutti possiamo donare qualcosa» ha poi affermato papa Francesco che ha voluto accanto a sé alla finestra dello studio pontificio un ragazzo e una ragazza che l’hanno affiancato mentre, digitando su un tablet, si iscriveva «come pellegrino» alla Giornata Mondiale della Gioventù prevista nel luglio 2016 a Cracovia: il Papa così ha personalmente inaugurato le adesioni possibili da ieri su internet. Francesco l’ha definito «un Giubileo della gioventù» dedicato alla misericordia. Il Papa ieri ha anche voluto «salutare tutte le nonne e i nonni, ringraziandoli per la loro preziosa presenza nelle famiglie e per le nuove generazioni». WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Il New York Times: «Sta per finire il cristianesimo in Medio Oriente?» di Maria Teresa Pontara Pederiva Un lungo speciale nel Magazine domenicale affronta la drammatica questione. Nell’arco di un secolo (1910-2010) il numero dei cristiani in paesi come l'Egitto, Israele, Palestina e Giordania è passato dal 14 al 4 per cento della popolazione I cristiani in Medio Oriente stanno «male» o «meno male», dichiarava nei giorni scorsi il Patriarca latino Fouad Twal di Gerusalemme, aggiungendo però che la condizione dei palestinesi in Cisgiordania sia senza dubbio ancora migliore rispetto alle sfide affrontate dai cristiani in Siria e in Iraq, soprattutto quelli costretti ad abbandonare le loro case di fronte all’avanzata dei militanti dello Stato Islamico. «Assisteremo alla fine del cristianesimo in Medio Oriente?» si chiede allora il New York Times nel suo speciale nel Magazine di domenica 26 luglio dal titolo «L’ombra della morte». A partire dalla storia di Diyaa e Rana, due coniugi di Qaraqosh, la più grande cittadina cristiana nella piana di Ninive in Iraq - 1.500 miglia quadrate incuneate fra il territorio curdo e quello arabo, fino all’estate scorsa quasi il granaio dell’Iraq per le sue ampie coltivazioni di cereali, ma anche fiorenti allevamenti di bestiame e pollame, il centro vivace per numerosi bar e attività commerciali– il racconto affonda le radici agli inizi della fede cristiana in quella terra: sullo sfondo delle testimonianze il terrore che accompagna il dilagare delle milizie dell’ISIS, il prosciugamento dei pozzi (in zone dove le temperature raggiungono i 110°F, più di 43°C), le decapitazioni di massa, la fuga delle popolazioni verso Erbil, la capitale della zona curda, 50 miglia più a nord. La maggior parte dei cristiani d'Iraq si definiscono assiri, caldei o siriaci, nomi diversi per indicare una comune radice etnica che si è sviluppata nei regni mesopotamici fra il Tigri e l'Eufrate migliaia di anni prima di Cristo. Secondo lo storico Eusebio il cristianesimo sarebbe arrivato là durante il I secolo, ma la tradizione vuole che Tommaso, uno degli Apostoli, avrebbe inviato Taddeo, uno dei primi convertiti dall’ebraismo, a predicare il Vangelo in Mesopotamia. Il cristianesimo è cresciuto in pacifica coabitazione con altre tradizioni religiose, quali Giudaismo, Zoroastrismo e il monoteismo di drusi, yazidi e mandei: comunità in conflitto fra loro divise da differenze dottrinali che persistono ancora oggi. Quando le prime truppe islamiche arrivarono dalla penisola arabica nel corso del VII secolo, il passaggio al dominio islamico è avvenuto senza traumi: i cristiani d'Oriente godevano di protezione, è vero che dovevano pagare la jizya (la tassa per i non islamici), ma a loro era comunque permesso ciò che altrimenti era vietato, come mangiare carne di maiale o bere alcolici e i governanti musulmani tendevano pure ad essere più tolleranti nei confronti delle minoranze rispetto ai loro omologhi cristiani e per circa 1500 anni le diverse religioni hanno prosperato l’una a fianco dell’altra. Cento anni fa, due fatti hanno dato avvio al più grande periodo di violenze contro i cristiani: la caduta dell'Impero ottomano e la Prima Guerra Mondiale. Il genocidio attuato dai Giovani Turchi in nome del nazionalismo (non della religione!) ha lasciato sul campo almeno due milioni di armeni, assiri e greci, perlopiù cristiani. Tra i sopravvissuti, i più istruiti sono andati verso Occidente, altri si

sono stabiliti in Iraq o in Siria, protetti dai dittatori militari. Nell’arco di un secolo (1910-2010) il numero dei cristiani in Medio Oriente, in paesi come l'Egitto, Israele, Palestina e Giordania, ha continuato a diminuire: se all’inizio i cristiani rappresentavano il 14% della popolazione, ora sono al 4%. Anche in Libano, l'unico paese della regione in cui i cristiani detengono un significativo potere, il loro numero si è ridotto nel corso dell'ultimo secolo, dal 78 al 34%. Le ragioni di un declino sono da annoverarsi nella bassa natalità, clima politicamente ostile e crisi economica, ma anche la paura fa il suo gioco e la contemporanea ascesa di gruppi estremisti o la percezione che le loro comunità stiano ormai sparendo, inducono le persone ad abbandonare la loro terra. E’ da più di un decennio che gli estremisti hanno preso di mira cristiani e altre minoranze, spesso visti come emblema del mondo occidentale: in Iraq l'invasione americana ha spinto centinaia di migliaia di persone a fuggire. «Dal 2003, abbiamo perso preti, vescovi e più di 60 chiese sono state bombardate in Iraq», dichiara Bashar Warda, arcivescovo cattolico caldeo di Erbil. Con la caduta di Saddam Hussein i cristiani si sono ridotti a meno di 500 mila unità (nel 2003 erano più di un milione e mezzo). La primavera araba non ha fatto che peggiorare le cose. Caduti dittatori come Mubarak in Egitto e Gheddafi in Libia, l’atavica protezione delle minoranze si è conclusa e oggi ISIS sta cercando di sradicare i cristiani e le altre minoranze capovolgendo con la forza delle armi l’antica storia della regione per legittimare la sua impresa millenaria, utilizzando i media per avvertire la popolazione. Per la prima volta il futuro del cristianesimo nella regione è quanto mai incerto. «Per quanto tempo potremo fuggire prima che noi e altre minoranze diventeremo solo un capitolo all’interno di un libro di storia?», dice Nuri Kino, giornalista e fondatore di un gruppo di pressione per la richiesta di azione da parte dell’Occidente. Secondo uno studio Pew, i cristiani sono ora di fronte alla persecuzione religiosa più che in qualsiasi altro momento della storia. «L’ISIS ha solo acceso i riflettori su un problema di sopravvivenza», dice Anna Eshoo, parlamentare democratica della California, i cui genitori provenivano da quella regione e attivamente impegnata per la difesa dei cristiani d'Oriente. Dall’inizio della guerra civile scoppiata in Siria nel 2011, Assad ha permesso ai cristiani di lasciare il paese: quasi un terzo dei cristiani, circa 600 mila, non hanno avuto altra scelta se non quella di fuggire. Emblematica la vicenda di Bassam: suo fratello Yussef si è trasferito a Chicago due anni fa, non ha ancora un lavoro, ma la moglie è impiegata da Walmart e potrebbero aiutarlo. «Cosa potrei fare qui? Ho quattro figli, non posso lasciarli a morire». Questa primavera il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito per affrontare la situazione delle minoranze religiose in Iraq. «Se prestiamo attenzione ai diritti delle minoranze solo dopo che è iniziato il drammatico genocidio, abbiamo fallito in partenza» dichiarava Zeid Ra'ad al-Hussein, alto commissario per i diritti umani. E’ stato quasi impossibile, afferma il NYT, per due presidenti degli Stati Uniti - Bush, evangelico conservatore, e Obama, liberale progressista - affrontare esplicitamente la difficile situazione dei cristiani per timore dello scontro di civiltà. «Una delle ombre dell’amministrazione Bush è stata l'incapacità di cimentarsi con questo problema, diretta conseguenza dell'invasione», dice Timothy Shah, direttore del Freedom Project della Georgetown University. Più di recente, la Casa Bianca è stata criticata per rifuggire quasi lo stesso termine «cristiano»: quando quest’inverno l’ISIS ha massacrato i copti egiziani in Libia, il Dipartimento di Stato ha fatto riferimento alle vittime semplicemente come «cittadini egiziani». Daniel Philpott, docente di scienze politiche all'Università di Notre Dame: «Quando si tace sul fatto che l’ISIS abbia motivazioni religiose né che prenda di mira minoranze religiose, la prudenza dell' attuale amministrazione sembra eccessiva». Anche se l’ISIS fosse sconfitto, il destino delle minoranze religiose in Siria e in Iraq rimarrebbe desolante: «Abitiamo qui come gruppo etnico da 6000 anni e come cristiani da 1700 anni - dice Srood Maqdasy, membro del Parlamento curdo - abbiamo la nostra cultura, la lingua e la tradizione. Se vivessimo all'interno di altre comunità, tutto questo scomparirebbe nel giro di due generazioni». La soluzione pratica, secondo alcuni, sarebbe quella di costituire un rifugio sicuro sulla piana di Ninive, magari gestito dall’UNHCR come soluzione permanente, ipotizza Nuri Kino o una soluzione tipo no-fly zone, anche se è tutto da verificare il sostegno internazionale. Per altri la convivenza tra fedi diverse è finita: «Non c’è più il tempo di aspettare le soluzioni», afferma padre Emanuel Youkhana, alla guida di Christian Aid Program a nord dell'Iraq. L'Iraq è un matrimonio forzato tra sunniti, sciiti, curdi e cristiani, e non è riuscito e io, come sacerdote, preferisco il divorzio».

AVVENIRE di domenica 26 luglio 2015 Pag 3 Laici nella Chiesa, un esame di coscienza di Giorgio Campanini Dal Papa una forte esortazione all’impegno Le forti parole di papa Francesco in occasione dell’annuale assemblea primaverile della Conferenza episcopale – e in particolare il suo accorato appello all’impegno dei laici – hanno suscitato, come era prevedibile, numerosi commenti e, in generale, ampi consensi (documentati anche dagli interventi apparsi via via su 'Avvenire'). Sia lecito inserire tra questi schietti consensi anche quello di uno dei non molti testimoni della prima generazione conciliare ancora 'sulla breccia'. A me pare che nel rivolgere il suo appello ai laici, il Papa abbia voluto prestare una particolare attenzione ai laici italiani che ha fortemente sollecitato all’impegno. Il Pontefice, tuttavia, non si è sottratto al dovere di ricercare anche le cause di un certo disimpegno e, all’interno della più ampia riflessione rivolta ai vescovi, le ha identificate da una parte nel «diffuso indebolimento della collegialità» e dall’altra nella scarsa abitudine di «verificare la ricezione dei programmi e l’attuazione dei progetti». Vale la pena di riflettere, da un punto di vista laicale, su questi due limiti che Francesco ha indicato esercitando uno sguardo dichiaratamente planetario. Vi è una dimensione della «collegialità» di precisa pertinenza dei laici, ed è quella che fa riferimento ai Consigli pastorali. Condizionati da una non felice scelta dello stesso Vaticano II che, come è noto, ha reso 'obbligatori' i Consigli presbiterali e 'facoltativi' i Consigli pastorali (di fatto collocando questi un gradino più sotto…). Così, molti pastori hanno scarsamente valorizzato l’unico luogo nel quale i laici potessero avere autorevolmente voce a livello diocesano. Si è eccessivamente temuto l’insorgere della conflittualità, senza domandarsi se non vi fosse il rischio che essa – esclusa dai luoghi istituzionali – si trasformasse, alle periferie, in mugugno o in disimpegno. Come dunque 'rigenerare' i consigli pastorali e accordare a laici preparati e responsabili (e non soltanto 'obbedienti') quello spazio che l’ecclesiologia del Concilio loro riconosce? Quanto ai convegni ecclesiali – dai decennali appuntamenti avviati a Roma a partire dal 1975 alle Settimane sociali e alle numerose iniziative, nazionali e diocesane – si è veramente dato posto ai laici, anche a quelli critici e problematici, capaci di dire – come raramente avviene in ambito ecclesiale – pane al pane e vino al vino? Sono, quelli citati, soltanto due esempi. Ma ci si potrebbe domandare se il disimpegno ecclesiale e civile spesso denunziato dai vescovi non debba essere ricondotto anche ad alcuni limiti dell’azione pastorale. Faccio altri due esempi. Si lamenta frequentemente, oggi, il disimpegno dei cattolici dalla vita pubblica; ma per diversi decenni la Chiesa italiana aveva puntato, in una fittissima serie di documenti, sull’unità politica dei cattolici ed essa stessa, così come i cristiani, si è trovata spiazzata dopo la fine della Dc. Sarebbe stato necessario attrezzarsi per tempo per affrontare la nuova situazione, ma ciò è avvenuto solo marginalmente e senza grandi risultati, come emerge dall’incidenza in generale non fortissima delle scuole di formazione socio-politica. Non meno indicativa la linea seguita dall’istituzione ecclesiale nel fronteggiare la seria crisi numerica del clero (per fortuna soltanto tale, e largamente compensata dalla generosità e dalla passione dei nostri presbiteri). Solo in alcune realtà e da parte di pochi pastori ci si è domandati se figure come quelle dei biblisti laici, degli esperti di catechesi laici, degli animatori di comunità laici (uomini e donne) non potessero degnamente entrare in campo, non a titolo di obbligata 'supplenza' ma in nome della comune chiamata dei fedeli a servizio della comunità. In conclusione, siano generosi i laici a raccogliere l’appello del Papa e siano lucidi e coerenti i pastori nel porre le condizioni di questo impegno. Pag 13 Matrimonio, coppie in crisi. La Chiesa non si tiri indietro di Pierangelo Sequeri Esistono le risorse per una teologia coerente con le verità della fede, ma sono inutilizzate Il progetto di ricerca che sta all’origine del volume 'Famiglia e Chiesa. Un legame indissolubile', è stato ispirato dall’intento di offrire un contributo interdisciplinare all’elaborazione del tema posto all’attenzione del Sinodo dei vescovi. Il contributo si propone entro i limiti di competenza che sono propri del servizio teologico (e delle discipline attinenti), che qui viene messo formalmente a disposizione del magistero

ecclesiale. Nello stesso tempo, vorrebbe anche incoraggiare tutti i lettori interessati a riprende fiducia nel fatto che la tradizione del pensiero della fede, interrogata dalle domande che la Chiesa stessa si pone, restituisce ricchezze per una nuova semina evangelica. Legare e sciogliere, poi, tocca a coloro ai quali il Signore ne affida l’autorità e il ministero. L’esperienza in ogni caso mostra che davvero, secondo la parola di Gesù, «lo scriba che si fa discepolo » non cessa di trarre dal tesoro della tradizione l’armonia di «cose nuove e cose antiche», che la rendono viva e vitale (cfr. Mt 13, 52). Questo atteggiamento costruttivo, insieme con l’onesta distinzione dei ruoli, consente di passare attraverso la necessaria dialettica degli argomenti senza compromettere la comunione fraterna dei ricercatori e la pace fiduciosa della comunità. Risultato per nulla secondario, se mi è consentita l’annotazione, a fronte della pressione esercitata dagli spiriti mondani della divisione e della contesa, che non riposano mai. Poiché di alcuni spunti di maggior interesse il nostro giornale ha già dato opportunamente conto, nell’accurata e acuta recensione di Luciano Moia, desidero mettere sinteticamente in evidenza la risultanza complessiva del seminario, in ordine alla riapertura dell’orizzonte di una vera e propria teologia della condizione famigliare che istituisce l’essere umano. L’apprezzamento dei suoi contenuti, naturalmente, è affidato alla lettura degli atti del seminario di ricerca che l’ospitale iniziativa del Pontificio Consiglio per la Famiglia ha reso possibile. È d’altra parte auspicabile che questo originale metodo di lavoro, attivato dal Pontificio Consiglio, che ha registrato unanime apprezzamento fra i partecipanti, possa svilupparsi, allargando il suo orizzonte a tutte le dimensioni dell’alleanza dell’uomo e della donna, che la fede illumina e sostiene, in vista di una nuova fraternità dei popoli. La triplice articolazione che ha fatto da contenitore alle sessioni - in breve: fede e vincolo coniugale, sessualità e progetto generativo, separazioni e nuove unioni - si è rivelata ben più che uno schema di comodo. La scansione ha messo in evidenza la stretta circolarità dei tre momenti, la cui intima correlazione definisce l’ampiezza della teologia pastorale - organica e propositiva - della quale abbiamo bisogno. L’accurata e aderente istruzione dello status quaestionis presentato in apertura di ciascuna sessione, unitamente con la generosità dei contributi di tutti gli esperti delle discipline attinenti, ha messo chiaramente in evidenza due cose: (a) la credibilità della visione cristiana del matrimonio e della famiglia è oggi tema ancora più cruciale e strategico dell’emergenza rappresentata dalle sue congiunture traumatiche; (b) le risorse e lo spazio per una profonda teologia del mistero creaturale dell’alleanza fra uomo e donna, coerente con la verità della fede, sarebbero già disponibili, ancorché largamente inutilizzate. Fino a ieri, l’affinità della forma cristiana e della forma civile, garantiva una certa spontanea e implicita sovrapposizione dell’universale umano e della singolarità cristiana. Ora, nella società moderna, l’integrazione della qualità umana e della specificità cristiana deve essere esplicitamente voluta ed eseguita. In quali termini questa volontà può essere oggi realmente compresa e realizzata? E come può essere formalmente iscritta nella costituzione sacramentale del vincolo? Una delle sorprese più felici del seminario è stata proprio questa: se i teologi e i canonisti si parlano seriamente, scoprono di poter fare moltissimo per approntare le condizioni idonee a riconfigurare ecclesialmente il nesso fra decisione matrimoniale e scelta di fede. L’istanza fondamentale del Vangelo della famiglia, dal punto di vista della pastorale ordinaria, è innanzitutto questa. Di fatto, il buon risultato di questa elaborazione - cioè la riabilitazione dell’oggettiva qualità ecclesiale della condizione famigliare - offrirà elementi preziosi anche per ripensare l’atteggiamento nei confronti del fallimento individuale del progetto e delle sue conseguenze. La Chiesa chiede di essere considerata come un bene per la famiglia, alla quale porta la benedizione originaria di Dio. È giusto che la Chiesa non si tiri indietro, nelle difficoltà - anche drammatiche - del vincolo coniugale e dei legami famigliari. Incominciando da quelli che si sono affidati alla Chiesa, per la loro benedizione. Non dobbiamo certo arrenderci al costume dei pagani. Ma la nostra giustizia deve pur sempre essere migliore di quella dei farisei. «Famiglia e Chiesa, un legame indissolubile. Contributo interdisciplinare per l’approfondimento sinodale». È il titolo del volume (Libreria Editrice Vaticana, pagine 552, euro 24) che raccoglie gli interventi pronunciati nel corso di tre seminari promossi dal Pontificio Consiglio per la famiglia e dedicati ai temi “Matrimonio: fede, sacramento, disciplina” (17 gennaio 2015), “Famiglia, amore sponsale e generazione” (21 febbraio) e

“Famiglia ferita e unioni irregolari: quale atteggiamento pastorale” (14 marzo). Al termine delle tre sessioni, ciascuno degli estensori della relazione introduttiva, ha preparato una ripresa sintetica che, facendo tesoro delle questioni emerse nel corso del dibattito, fornisce orientamenti e prospettive intorno al tema proposto. Questi interventi finali – riassuntivi di tutto il lavoro – sono rispettivamente intitolati “Matrimonio e sacramento”, “Matrimonio e generazione”, “Matrimonio e divorzio”. IL FOGLIO di sabato 25 luglio 2015 Pag V Francesco e il mistero dell’enciclica icona degli anti capitalisti di Giuliano Ferrara Il Papa comunista è concetto ambiguo, impreciso, rovesciato. Ma non insignificante. Il Papa, questo, è gesuita. Il comunismo è una variante del gesuitismo. Lo stampo ebraico, profetico, è analisi della società civile in Marx, declamazione di valori intesi come fatti e di speranza messianica. Ma il comunismo è Lenin, i Soviet, l'elettrificazione, più Stalin che consolida la funzione papale, vicaria, del partito. Un gesuita non è comunista più di quanto i comunisti non siano gesuiti. Gli ignaziani hanno un'idea: il vangelo deve reggere il mondo, a partire dai segreti dell'Io mistico e da una sofisticata critica morale del peccato, ma la reggenza deve manifestarsi in una egemonia culturale e morale che fonda la diversità della compagnia e del suo insegnamento, il partito unico che agisce nel popolo e forma la sua coscienza. L'antropologia dei bolscevichi salva la negatività dell'umano attraverso la sua divinizzazione nell'avanguardia: è il mito politico, spirituale e militare dell'élite sicura di sé, dominatrice, disposta a tutto e legata disciplinarmente al progetto perinde ac cadaver. Francesco si presenta come un anticristo politicamente corretto, ecologista, pauperista, spoglio di orpelli tradizionali, umanissimo e peccatore, un uomo che non giudica in tutto quello che spetta a Dio, cioè tutto. In realtà è autoritario, oltre che naturalmente autorevole, spinge con veemenza e artigli d'acciaio la sua chiesa verso la meta. Il gaudio evangelico, la laudatio perenne del francescano d'elezione, è un rallegrarsi nella salvezza comune attraverso la chiesa domestica, la chiesa del sentimento e della misericordia che non conosce altra legge. La sua chiesa non usa la ragione, strumento ideologico e formalistico della cultura illuminista, la chiesa usa l'animo umano, il cuore, lo spirito che va e viene come vuole lui, e la letteratura biblica delle omelie del mattino è uno splendido aggiornamento del mito scritturale, la prefigurazione in pillole del nuovo Adamo, dell'uomo nuovo, che nasce dall'incontro con il soggetto regale del messianesimo, il Cristo. Nel comunismo, variante tarda e scientifica, materialista, il messianesimo nasce nel proletariato, nello sviluppo delle forze produttive, nel rapporto sociale di produzione che porta al programma minimo della libertà e della salvezza umane, emancipando tutto e tutti, tutti e ciascuno, dalle catene della miseria e della dipendenza. Lo sfruttamento è una relazione sociale misurabile, non un atto di avidità, di grettezza. Agli americani del nord il Papa saprà piacere, sebbene per adesso li imbarazzi e li disturbi. Loro chiedono rispetto per l'individualismo economico e il moralismo sociale, due assenze del progetto francescano. Il Papa chiede l'opposto: la critica dell'individuo che promuove da sé la salvezza, questo vuole, e una moralità fondata sulla fede, e solo sulla fede, in cui la legge, pur non abolita, è superata, perfezionata, compiuta nel messianesimo reale che abolisce lo stato di cose presente, formula che in parafrasi vigoreggia nel marxismo (comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente). Il Papa sa bene che il capitalismo è l'unico mezzo attraverso il quale si sia riusciti a ridurre la povertà globale, e a raccorciare il tratto lungo dell'ingiustizia nella storia. Se ignora questo dato è perché la povertà di cui parla non è un rapporto sociale di produzione, non è lo sfruttamento come relazione tra salario e profitto, non è prezzo della merce lavoro, ma è chiusura dell'umano nel suo Sé, assenza di carità, di amore, è freddezza del cuore. Gli americani del nord, che alla fine non si permetteranno di giudicare il Papa, a parte qualche talk-show host in carriera, non amano queste sottigliezze europee. Vorrebbero un Papa politicamente anticomunista, legato alla libertà come la concepiscono loro, libertà liberale dai ceppi dello statalismo, e invece hanno un Papa di Roma, un ignaziano, che tutto ritiene plasmabile, perfino il clima, come in una reducción universale, per effetto dello spirito missionario. Tra Seicento e Settecento, fino alla loro espulsione dall'America latina, in Paraguay, Argentina, Brasile, Bolivia i gesuiti promossero stati sociali basati sul rispetto

della cultura indigena, sulla conversione delle anime a Cristo, resistenti alle pretese coloniali del Re di Spagna e ad altre minacce, fondate sulla messa in comune dei beni e su un tratto di evangelizzazione che ha fatto parlare di teocrazia, di utopia, e che è stato variamente giudicato dagli storici. Il Papa è venuto dalla fine del mondo, ma non perché figlio dell'Argentina con il suo complesso abbandonico. La fine del mondo cristiano occidentale come l'Europa, i suoi vescovi, i suoi successori apostolici insigniti del papato, lo avevano sempre concepito, questa è la fine da cui prende inizio il suo pontificato. L'occidente è romano o grecoromano. Una chiesa che rinunci alla sua romanità, alla sua potenza canonica, e paradossalmente proprio mentre il Pontefice si presenta come semplice vescovo dell'Urbe, interrompe la continuità, il Papa direbbe ideologica, del cristianesimo e della Cattolica. Ma il testimone dell'occidente, da molti e molti anni, è passato al costituzionalismo americano, alla ricerca della felicità individuale, alla filosofia dei diritti, all'ecologia, al gender, alla privacy, all'idea consolatoria del Dio personale, del Cristo di casa, del cuore, dell'animo: c'è posto per la chiesa, per il recupero della modernità che ossessiona i gesuiti alla Martini, se tutela queste virtù familiari, comunitarie ma sopra tutto individuali. Da questo punto di vista il gesuita è attrezzatissimo. E' assai più capitalista di quanto non pensi. Sospetto che nel viaggio più difficile, il Papa comunista si troverà a suo agio. Forse c'era bisogno, invece che di recuperare il tempo di duecento anni, il ritardo martiniano della chiesa sul mondo, di un papato post contemporaneo capace di mettersi cento anni davanti alle derive e alle rovine del mondo moderno. Sarà per un'altra volta. Pag V Quei rimandi della Laudato si’ alla “conversione ecologica” di Langer di Adriano Sofri Il Foglio ospitò un mese fa le cose che avevo detto al Parlamento europeo, dove si commemorava Alexander Langer, a vent'anni dalla morte. Ora, curata da Edi Rabini e da me, è uscita una nuova edizione della più ricca raccolta di scritti di Langer (Sellerio), "Il viaggiatore leggero". Avreste molte sorprese se leggeste sinotticamente la Laudato si' con quegli scritti. L'enciclica è musica anche per le mie orecchie. A partire, nel mio caso, dall'autocritica, e meglio dal pentimento, dell'"uomo cacciatore", di altri animali e di donne, che sta anche al suo inizio: "Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi / della terra / proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla". E, citando il patriarca Bartolomeo, "ognuno si penta del proprio modo di maltrattare il pianeta". In questo passo indietro rispetto all'oltranza antropocentrica il testo loda le riserve integrali, quelle che, per ripararle, o per preservarle, sono interdette agli umani: come un ripassare dal paradiso terrestre prima dell' avvento dei progenitori. Suggerisco anche la lettura dell' articolo che Guido Viale ha dedicato all'enciclica sul Manifesto del 26 giugno: "Colpisce l'ampiezza dei temi affrontati e la competenza con cui vengono trattati, che fanno di Papa Francesco un gigante del pensiero...". Quando, nella seconda metà degli anni Settanta, passammo ciascuno a suo modo attraverso una vera e propria "conversione ecologica" (il nome di conversione voleva opporsi a quello di "riconversione") Viale non si contentò di un mutamento di orizzonte filosofico, per così dire, e di un più o meno riuscito mutamento del modo di vita, ma si impegnò in una ricerca competente, illustrando, e spesso anticipando, questioni essenziali come il trattamento dei rifiuti e la cultura dello scarto, o la vita e la morte delle automobili private, o le "virtù che cambiano la vita". Leggendo l'enciclica ho riconosciuto innumerevoli rimandi alle cose che Viale ha predicato e praticato (e molti altri con lui, certo) ormai da tanti anni. Voglio dire che per strade diverse, lunghe e non di rado tortuose, molte persone di buona volontà hanno finito per accostarsi a un appuntamento comune, e che la Laudato si' segna un provvisorio punto d'arrivo. Non mi interessa sottolineare le divergenze fra il Papa e i suoi coredattori e persone che, come me, non sono credenti - sono ovvie, e soprattutto non sono, a differenza di quanto i responsabili delle chiese credono di dover dire, più incidenti di quelle fra credenti. Il modo in cui l'enciclica fa appello alla fede in Dio per rafforzare la sua perorazione in favore delle creature non può offendere se non chi ceda al fanatismo e al pregiudizio. Per chi non crede, è la scelta di un linguaggio, una questione poetica e civile, quando non pretenda di escludere. Langer, quanto a lui, era un credente. Aveva capovolto il motto olimpico "Citius, altius, fortius" - più veloce, più alto, più forte, in "Lentius, profundius, suavius" - più lento, più profondo, più dolce. Non

aveva esitato ad additare la necessità di "un vero 'regresso', rispetto al 'più veloce, più alto, più forte'. Difficile da accettare, difficile da fare, difficile persino a dirsi". Non era la formula, di là da venire, della de crescita felice. Di quei suoi avverbi capovolti, voglio ritenerne qui uno, perché mi sembra decisivo per la lettura della Laudato si': lentius, rallentando. Mi piacerebbe naturalmente fermarmi sull'onnipresenza dei poveri nell' enciclica: dei poveri, non della povertà. Osservo solo che la parola "poveri" è la più evangelica: lo pseudocomunismo latino-americano di Francesco è un ritorno ai ricchi e ai poveri, sul quale divario il vangelo è più brutale di qualunque tassa sul patrimonio, che i fedeli tiepidi e gli economisti indignati chiamano bestemmia. Nello spazio che ho qui, preferisco additare il motivo conduttore della velocità, e dei suoi rimedi. "La velocità che le azioni umane impongono oggi / al cambiamento / contrasta con la naturale lentezza dell'evoluzione biologica... In molti luoghi del pianeta, gli anziani ricordano con nostalgia i paesaggi d'altri tempi". Ecco un punto decisivo. Io sono un anziano. Gran parte dei cambiamenti più forti e spesso imprevisti del mondo - parlo ora di quelli che ci sembrano dei passi in avanti, perché la superstizione del progresso tramonta, ma i progressi restano - hanno avuto incubazioni di secoli e a volte di millenni, e hanno conosciuto avanzate e retrocessioni, e però si sono compiuti nell'arco della mia vita di anziano. Io c'ero quando le donne hanno votato per la prima volta, quando le disabilità hanno cessato di essere uno stigma, quando la differenza delle predilezioni sessuali è stata riconosciuta e rispettata, quando il delitto d' onore è stato abolito (ieri) e la tortura bandita (non ancora, eh?), e quando un tribunale internazionale permanente è stato insediato (ancora poco, e da pochi). L'elenco potrebbe continuare a lungo, ed è lui a spiegare la reazione furibonda, scandalizzata e offesa che una gran parte del mondo oppone a questi progressi, alla velocità che hanno preso e che dà le vertigini. Io c'ero anche quando sono avvenuti cambiamenti nei modi materiali e tecnici di vita che hanno eclissato l'intero passato del genere umano, e che promettono di farlo sempre più. Essi sono come una colossale macchina sfuggita al controllo degli umani, anche dei più dotti e intelligenti, che restano antichi: l'evoluzione biologica va piano, l'avanzata tecnologica (e biotecnologica) va all'impazzata. Noi sappiamo chi ha inventato il telefono: Meucci, e tutt'al più litighiamo sulla rivalità con Bell. Ma chi di noi sa chi ha inventato il telefonino? Io no, e tendo a pensare che il telefonino si sia inventato da solo. Eppure mai un attrezzo si è diffuso così vastamente e rapidamente come il telefonino. Tuttavia, penso anche che se noi ci siamo assuefatti, a volte per semplice gregarismo - per consumismo - altre volte per successive conquiste rivelatrici, a cambiamenti così sconvolgenti nell' arco di una sola generazione, la stessa cosa può succedere ad altri e anche a quelli che sono in prima fila e più accanitamente e disperatamente resistono a questi cambiamenti. E che la condizione perché avvenga è che non ci trinceriamo dietro un falso rispetto della loro diversità, fino a ritenere che ciò che per noi è decisivo - la libertà delle bambine e delle donne, per esempio - a loro non sia possibile. La critica di una velocità delle cose che sorpassa il tempo degli umani (e del resto della natura) coinvolge nell'enciclica la politica e l'economia: "Le risorse della terra vengono depredate a causa di modi di intendere l'economia e l'attività commerciale e produttiva troppo legati al risultato immediato". Anche la politica, tanto più quella "democratica", è ostaggio del risultato immediato. Mi spingerei a dire che l'anticapitalismo dell'enciclica (se c'è, e se c'è fuori un capitalismo, e non il dissistema impazzito e ingovernato che guardiamo sbattere di qua e di là) è essenzialmente l'identificazione del capitalismo con la velocità che rinuncia alla lungimiranza - alle generazioni future. La velocità infatti brucia il futuro, e si brucia nel presente, paradossalmente. L'ecologia, la cura per il pianeta, si accorge che la terra è mortale, esattamente come gli esseri umani e gli altri animali e tutte le cose, e si affatica a riportarne la fine inevitabile al termine più o meno naturale - nel senso in cui si diceva, e non si dice più, "di morte naturale". A farla morire di vecchiaia, e non per un'aggressione a un angolo di strada. L'ecologia è un pensiero responsabile e lungo. "La cura degli ecosistemi richiede uno sguardo che vada aldilà dell'immediato, perché quando si cerca solo un profitto economico rapido e facile, a nessuno interessa veramente la loro preservazione". Aggiungo che anche dilazionare un debito greco, dopo averlo ridotto, è come piantare degli alberi a crescita lenta. La velocità, e la vita interposta, stanno anche alla base della precauzione verso i media. "Le dinamiche dei media e del mondo digitale, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con

generosità. I grandi sapienti del passato, in questo contesto, correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell' informazione". Questo era già denunciato dai filosofi, il cui avvento, spiegava Giorgio Colli (gran mangiapreti) succede alla scomparsa dei sapienti. L'amore della sapienza viene dopo la sapienza, e la rimpiange e la chiosa. Ma anche qui la velocità! Rileggete la frase dell' enciclica, "vivere con sapienza, pensare in profondità, amare con generosità", e dite se non è una parafrasi del "Lentius, profundius, suavius" di Alexander: e non una coincidenza, ma una citazione testuale, appena aggiustata. Bene, lo spazio che mi era assegnato è finito da un pezzo, e sono ancora all' inizio. Aggiungo questo: "L'alleanza tra economia e tecnologia finisce per lasciare fuori tutto ciò che non fa parte dei loro interessi immediati". Il Regno dell'enciclica riletto da me non è né in cielo né il sole dell'avvenire, è affare delle generazioni future. Sono loro l' avvento. E voi, che del Papa trovate stucchevole che conquisti le folle dicendo "Buonasera", datemi retta, ogni cosa vale per il suo tempo. Questo era il tempo in cui infilare nella più solenne delle encicliche sul mondo da salvare, la raccomandazione: "E quando uscite, ricordatevi di spegnere la luce". Pag VI Istruzioni per il corretto uso di una lettera circolare e di una enciclica non ordinaria di Maurizio Crippa La Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II è una corposa summa filosofica che intende mettere a punto il rapporto tra la morale umana e la Verità; l'Humanae vitae di Paolo VI non dà definizioni dogmatiche (è mezzo secolo che si discute di una sua eventuale "dogmaticità") ma è un testo dottrinale alto, che ha inciso sul farsi storico della dottrina. La Vigilanti cura (1936) di Pio XI è dedicata al cinema (non a caso è indirizzata all'episcopato degli Stati Uniti qualche anno dopo l'adozione del Codice Hays); la Miranda prorsus del suo successore Pio XII (1957) parla dei mass media in generale. Neanche male, a rileggerle oggi, senza stare ad aspettare McLuhan, ma inevitabilmente datate e storicizzabili in una parte consistente del loro senso e del loro scopo. La Populorum progressio, sempre di Paolo VI (Pontefice che, per le sue encicliche, ha avuto la strana ventura di essere considerato o il più retrivo dei conservatori o il più pericoloso dei comunisti), è un'enciclica che per contenuto molto s'avvicina alla Laudato si' - seppure Bergoglio citi già dalle prime battute la Pacem in terris di Giovanni XXIII - in quanto Montini l'ha costruita attorno a una frase di sant'Ambrogio: "Non è del tuo avere, afferma sant' Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l'uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi". Ma anche quando Paolo VI dice che "la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali" non fa, a ben guardare, nient'altro che un commento attualizzato della tradizionale dottrina della chiesa. E la Laudato si' di Francesco che enciclica è? Senz'altro è molto lunga, anzi da record. Senz'altro non ha specifici intenti dottrinali, senza dubbio allinea molti obiettivi pastorali. Senz'altro non avanza pretese dogmatiche. E come tale, per quel che è, come tutte le altre va maneggiata. L'enciclica è una "circolare", uno strumento operativo, non un testo dogmatico, solo in alcuni casi dottrinale. Esprime il pensiero e le preoccupazioni del tempo presente che un Pontefice ritiene di dover mettere a tema per la chiesa universale. Una può piacere a una parte ecclesiale e un'altra invece no, può rispecchiare una certa teologia piuttosto che un'altra. Ci sono ovviamente delle prerogative importanti in un testo papale. Anche se non implicano l'infallibilità dei pronunciamenti ex cathedra, sono testi del magistero, costituiscono fonti di diritto ecclesiastico e hanno una destinazione universale alla chiesa e sovente "a tutti gli uomini di buona volontà", secondo l'uso giovanneo. Ma le cose davvero importanti per un'enciclica sono poche e chiare: che non si collochi fuori, o addirittura sia contraria, ai dogmi e alla dottrina della chiesa. E che non sia contraddittoria rispetto alla sua tradizione, anche se non è vietato che apporti sviluppi del precedente magistero (è anzi frequente il caso di una nuova "circolare" che si rifà apertamente alle precedenti di simile contenuto tematico, come le varie encicliche che celebrano -attualizzano la Rerum Novarum, capostipite delle encicliche "sociali"). Per il resto, ci sono anche valutazioni e preoccupazioni pastorali che possono mutare nel tempo. La Laudato si' di Francesco è sotto molti profili un'enciclica abnorme, perché è lunga e dettagliata mentre di solito

questi testi papali sono più sintetici. E' particolare, di certo, il contenuto - seppure non inedito: non è la prima volta che i pontefici si esprimono sul tema della custodia del creato e sulla destinazione dei beni. Ma nei punti essenziali - volendo rispettosamente considerare non proprio dirimenti le riflessioni sulla "perdita di biodiversità" o sul biossido di carbonio - rispetta i dogmi e la dottrina. E' inoltre notevole, nel caso della presente "circolare", l'abbondante riferimento a testi e dichiarazioni provenienti dalle Conferenze episcopali di tutto il pianeta: una sottolineatura dell'indirizzo pastorale, e sinodale, di un documento che ambisce a non essere soltanto "il pensiero del Papa". Trattasi insomma di una "circolare" ma anche di un documento "di lavoro" che lascia parlare le chiese locali. Come maneggiare dunque questa corposa, in larga parte inusuale, "circolare" di Jorge Mario Bergoglio, primo Papa latinoamericano? Innanzitutto considerandola tale, in secondo luogo mettendone a fuoco gli intenti pastorali (considerando tali la "cura della casa comune" e la cura dei suoi abitatori). C'è infine un aspetto che desta interesse. Molti cattolici di ogni ordine, grado e latitudine più che interrogarsi sul senso pastorale del documento, o sulle sue eventuali implicazioni ecclesiali e persino teologiche, lo hanno approcciato - per criticarlo o per farne bandiera - come un documento "politico". Un tradimento della dottrina tradizionale, addirittura sul tema cruciale del "principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni" che Bergoglio si premura di riferire alla Laborem exercens di Giovanni Paolo II ("primo principio di tutto l'ordinamento etico-sociale"). Oppure la definitiva assunzione di posizioni politiche anticapitaliste e catastrofiste in materia ambientale. Paradossalmente, invece, ci sono stati molti laici che hanno guardato con più interesse gli aspetti religiosi e culturali del testo. Anche se spesso, facendo un passo al di là della natura della "circolare", la domanda ruota sul contenuto di dottrina economica, a dir poco "pikettista" della Laudato si'. Destini incrociati della "ricezione", che a volte travalicano il rispetto intellettuale dovuto a quello strano genere di testo scritto che è un' enciclica. La quale, come Francesco, è senz' altro molto "benecomunista". Ma essendo una circolare, che problema c'è? Pag VI L’idolo della sinistra ingenua di Antonio Gurrado Chiacchierata con Massimo Cacciari Che sia una coincidenza o un'implicita citazione per lettori avveduti, nei suoi ultimi articoli sull'Espresso e su Repubblica Massimo Cacciari insiste sul crollo dell'auctoritas della leadership europea, "incapace di indicare comuni destinazioni", allo stesso modo in cui Papa Francesco nella Laudato si' denuncia a chiare lettere l'assenza di leadership politiche che "indichino strade" (paragrafo 53). Magari è proprio per questo che la sinistra italiana - non solo quella afferente alla tradizione ecologista ma anche quella che si definisce laica nel senso improprio di non credente - risulta particolarmente affascinata dall'enciclica, che con mossa editoriale impensabile fino a pochi anni fa sta venendo pubblicata a puntate quotidiane sull' Unità. Il Foglio ha chiesto a Cacciari se questa che lui stesso definisce "un' enciclica francescana" ci ponga di fronte a un Papa di sinistra o meglio, cercando di uscire da semplificazioni giornalistiche, se ci sia un'oggettiva consonanza sui temi o non si tratti piuttosto di appropriazione indebita. "Non necessariamente in senso negativo", illustra Cacciari, "la politica cerca di appropriarsi di sensi spirituali generici; è cosa vecchia come il mondo. E' naturale che una sinistra ecologista trovi assonanze con un discorso di ascendenza lato sensu francescana, però sono mere assonanze". Cacciari avanza dei distinguo riguardo all' atteggiamento della politica di Francesco verso la politica e della politica verso Francesco. "Certamente l'appropriazione dell'enciclica da parte della sinistra è indebita perché manca di presupposti teologici, ma va riconosciuto che è il Papa stesso a non renderli sempre evidenti: in questo modo è più facile che vengano trovate assonanze. Il Papa tende sempre all'accordo, se non al compromesso; si mostra sempre indulgente nei confronti di chi gli si rivolge da una posizione distante (si veda il caso di Eugenio Scalfari); con chiunque il discorso del Papa tende a cercare assonanze foss'anche generiche. E' un retaggio della tradizione gesuitica". Nondimeno un motivo di fascino agli occhi della sinistra potrebbe essere la portata decisamente sociale del concetto di ambiente, che nell'enciclica viene espressamente definito nella doppia declinazione di "natura e società che l'uomo abita" (par. 139). D' altro canto però Francesco riprende

testualmente la definizione di bene comune dalla Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II e cita sovente suoi predecessori perfettamente in linea col suo atteggiamento riguardo alla cura della casa comune. Cosa lo rende così diverso agli occhi della sinistra? Per Cacciari "Francesco riprende i temi delle encicliche sociali senza alcuna novità teologica. La Chiesa al tempo del capitalismo ha sempre ricordato aspetti secondo cui la natura non è nostro possesso e si è sempre schierata contro le diseguaglianze". Nell'enciclica non leggiamo novità, spiega al Foglio, perché si tratta di deduzioni germinate su "una base dogmatica, che come tale è immutabile. Piuttosto, sempre per via della tradizione gesuitica, sono l'atteggiamento e lo stile di Francesco a essere più prossimi agli stili e agli atteggiamenti politici". Ciò lo rende più vicino, e senz'altro più gradito alla sinistra, rispetto a Benedetto XVI. Eppure nell' enciclica appaiono parole nette sul fatto che i costi economici e sociali dell' uso delle risorse ambientali comuni non debbano gravare sulle generazioni future (par. 195), che sono una citazione di peso dalla Caritas in veritate di Ratzinger. La discrepanza nel gradimento secondo Cacciari è dovuta al fatto che "al contrario di Francesco, Ratzinger è stato l'ultimo grande principe della Chiesa ma era ancora tutto immerso nei conflitti del XX secolo. Ratzinger e Francesco sono personalità incomparabili. Il Papa è una figura più simpatica (in tutti i sensi del termine) a chi proviene da una tradizione di sinistra mentre Benedetto XVI proseguiva nel solco della tradizione di Giovanni Paolo II volta a mettere in evidenza questioni di carattere etico cui Francesco non dà lo stesso risalto". Francesco però riprende anche l'idea di "ecologia dell' uomo" (par. 155) così come era stata patrocinata da Ratzinger; un principio cioè secondo cui bisogna anzitutto salvaguardare la natura umana che non può essere manipolata a piacere - con l'aborto, tanto per fare un esempio macroscopico - e poi, solo da questo presupposto, può scaturire il rispetto dell'ambiente circostante. "Infatti si tratta di un colossale equivoco", spiega Cacciari: "Le basi teologiche di Francesco non hanno niente a che vedere con la sinistra laica, me compreso. Ci separa una differenza incolmabile perché la laudatio di Francesco loda le creature in quanto immagine del creatore". Autore fra molti altri libri di "Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto" (Adelphi), Cacciari può autorevolmente rifarsi alla lettera del santo di Assisi per asserire che "chi legge il Cantico delle Creature in modo diverso da quello che implica la lode di Dio è pateticamente fuori strada". D'altronde, riconosce Cacciari, "la politica non si fa né col rigore teologico né con quello filosofico". Un pizzico in più magari non guasterebbe. Basta leggere con attenzione per avvedersi che nell' interpretazione benecomunista mancano molti concetti cardine dell' enciclica: la dimensione del peccato, su cui si apre la disamina del Papa (par. 2), la contestualizzazione della rovina dell'ambiente nelle varie forme di degrado della vita umana (par. 5), l'accusa al relativismo di avere gettato le fondamenta per lo sfruttamento dell'ecosistema (par. 123) - giusto per citare le più evidenti, senza addentrarsi nella conclusione sulla trasfigurazione eucaristica del creato dovuta al presupposto che tutte le creature tendono verso Dio (par. 237 e 240). Cacciari ha ben presente queste differenze e insiste sull'idea che "un pensiero di sinistra non può seguire il pensiero del Papa nei suoi fondamenti. Però Francesco stesso è reticente nel mettere in evidenza tali fondamenti". Perché? "Lo fa consapevolmente, per giungere a un fraintendimento che Ratzinger e Giovanni Paolo II escludevano; la sua strategia è di passare dall'aut-aut all'et-et". L'entusiasmo forse ingenuo della sinistra è dovuto anche a scelte lessicali poiché il Papa scrive ricorrendo sovente al vocabolario di difensori dei beni comuni del tutto estranei al cristianesimo - il par. 134 sugli ogm potrebbe essere opera di una Vandana Shiva prudente e vaga. Ciò che non collima è però soprattutto l'idea di "speciale dignità" dell'uomo (par. 58), cui l'ecologismo attribuisce invece valore incidentale in un sistema che comprende anche l' uomo ma può farne a meno. "La tradizione cristiana", argomenta Cacciari, "pur in tutte le sue varianti si distingue nettamente nel non intendere la natura come qualcosa di divino. Le polemiche anticristiane dei filosofi antichi - come i neoplatonici Plotino e Proclo - si fondavano anche su questa distinzione. Se non concepisci la natura come ciò che Dio produce per amore e ti consegna e ti dona per amore, è evidente che hai una posizione che equipara la natura all'uomo. E' palese: se la pensi così, viene meno la straordinarietà dell' uomo come miracolo. Non è certo nell' interesse della sinistra (sempre ammesso che ci sia una sinistra che pensa, oggi) porre questa condizione come prioritaria; e forse non è nemmeno nell' interesse di Francesco evidenziarla". L'inconciliabilità fra benecomunismo e cristianesimo risiede dunque nel fatto che alla centralità dell' uomo il Papa associ la

"tremenda responsabilità" (par. 90) che deriva dall'avere ricevuto il mandato di prendersi cura del creato? "Il miracolo grande dell'uomo" per Cacciari "porta inevitabilmente alla responsabilità ed essa, in una prospettiva contraria e non cristiana, diventa puramente responsabilità etica ed economica. Diventa un ragionamento secondo cui non mi conviene far del male alla natura; e non è un caso se i più rigorosi discorsi sull' ecologia sono quelli economici, dove c'è un calcolemus. Altrimenti, diventano chiacchiere insostenibili". Una visione cristiana dell' ecologia non può ritenere che l'uomo sia un indifferenziato elemento di disturbo e deterioramento all'interno dell'ecosistema, come fanno i profeti del riscaldamento globale. "Ma se in quanto uomo sono interno alla natura", conclude Cacciari, "come posso distruggerla o farle del male? Di fronte a certe pretese un filosofo antico, un pagano, domanderebbe a un ecologista: ridicolo verme, come pensi di poter danneggiare l' ambiente che ti comprende? Ravviso un supero mismo inconsapevole di certo ecologismo, che fa solamente ridere chi ragiona; sempre ammesso che ci sia ancora qualcuno che ragiona, a questo mondo". Pag VII El pueblo primero di Matteo Matzuzzi La terza via argentina tra marxismo e liberalismo e la poca simpatia (ricambiata) per gli yankee Al popolare speaker radiofonico d'America, Rush Limbaugh, era bastato buttare l'occhio sulle breaking news che annunciavano per sommi capi i temi clou della Evangelii Gaudium, l'enciclopedica esortazione apostolica post sinodale del 2013 che in realtà tradiva nella mole e nei contenuti le fattezze d'un vero programma di pontificato. Sconsolato, si sfogò microfono alla mano: E' incredibile, il Papa ha scritto sui mali intrinseci del capitalismo. E' triste perché fa capire che non sa di cosa parla, quando si tratta di capitalismo e socialismo. Con la sentenza di Limbaugh, a cascata, arrivò la ridda delle dichiarazioni che mettevano Francesco e il suo documento nel mirino. Iniziarono gli arcigni gladiatori del Tea Party, poco avvezzi al diplomaticamente corretto e ancor meno al timore reverenziale nei confronti del Vicario di Cristo in terra: Gesù sta piangendo per le parole del Papa. Cristo era un capitalista, predicava la responsabilità personale e si rivolgeva all'individuo, non ai governi, disse dal North Virginia l'attivista Jonathan Moseley, mentre il milionario Ken Langone minacciava l'incolpevole Timothy Dolan, cardinale arcivescovo di New York non proprio in odore di maoismo, di non sganciare neppure un penny per il promesso (e già garantito) restauro della cattedrale di San Patrizio. Papa comunista, insomma. Seguace di Marx. Ma prima di tutto, decisamente anti yankee e ostile alla narrazione della mitica frontiera e al leggendario proposito americano di evangelizzare più o meno laicamente il globo. Bergoglio e l'eccezionalismo statunitense non vanno troppo d'accordo. I suoi rapporti con il mondo anglosassone sono molto limitati. E' un problema culturale, ha avuto pochissimi rapporti con quella realtà. E poi è un latinoamericano, il che comporta una certa quantità di antiamericanismo, diceva tempo fa al Foglio lo storico Massimo Faggioli, italiano trapiantato oltreoceano, a Minneapolis. Negli Stati Uniti questo si sa bene, solo che non si può accusare esplicitamente il Pontefice di essere anti yankee. E' una questione latente, aggiungeva. Una tesi apparentemente provocatoria, ma che è confermata da una delle persone che più conosce Jorge Mario Bergoglio, e cioè il suo mentore: Juan Carlos Scannone, gesuita, professore un po' ovunque (Gregoriana compresa) e soprattutto docente di greco e letteratura dell'attuale Papa sul finire degli anni Cinquanta. I due si conoscono bene, Scannone che è considerato il massimo teologo argentino vivente gli dà ancora del tu, anche se il Papa Francisco ha sostituito il più confidenziale Jorge. A Scannone bastano poche righe per chiarire cosa pensi davvero Francesco degli Stati Uniti. Lo fa ne Il Papa del popolo, un agile libro da poco pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana: Non si tratta di avere riserve sugli Stati Uniti in quanto tali, ma sugli Stati Uniti in quanto potenza egemonica. Il Papa non appoggia l'egemonia, da qualunque parte essa venga. Preferisce un mondo multipolare. C'è, a giudizio, del teologo argentino, un fraintendimento alla base della poca empatia che s'è venuta a creare: Negli Stati Uniti certi ambienti cattolici hanno male interpretato i propositi di Papa Francesco. Lo considerano come un socialista, un comunista marxista. Ma Bergoglio critica soprattutto la mancanza di equità nella distribuzione dei beni della terra. L'errore, spiega Scannone, è di traduzione: equidad non è uguaglianza. Una cosa

è la diseguaglianza, altra è la mancanza di equità, che implica sempre un'ingiustizia nella distribuzione dei beni. Anti americanismo di fondo e parole forti sulla mancanza d'equità: tanto basta per far diventare il Papa l'idolo di tutta la variegata galassia anticapitalista e no global, come dimostra l'arrivo a Roma in pompa magna di una Naomi Klein senza più la tuta bianca di Seattle ma con la nomea di profetessa itinerante che si batte per denunciare i danni inflitti dal capitalismo ai popoli africani e agli orsi polari. E tanto basta, magari, perché il capo dello stato boliviano consegni in dono al vescovo di Roma un Cristo appeso su falce e martello, dopo averlo agghindato (quasi fosse una madonna votiva) con catenine fatte dello stesso simbolo ideologico. A ogni modo, è chiaro che il Papa critica l'autonomia assoluta di mercato e finanza, aggiunge Scannone. Non si oppone alla libertà di mercato, ma chiede che vi sia una regolamentazione. Accusarlo di essere marxista è un giudizio ideologico. E comunque, come ha riconosciuto lo stesso Francesco durante la conferenza stampa a bordo dell'aereo che lo riportava a Roma dopo il viaggio in America meridionale, l'economia non è la sua materia preferita, come avrebbero poco dopo dimostrato le lodi alle politiche più giuste del governo greco di Alexis Tsipras, in quelle ore nuovamente sottoposto a commissariamento internazionale con lo spettro di dover vendere Partenone e Pireo: Io ho una grande allergia all'economia, perché papà era ragioniere e quando non finiva il lavoro in fabbrica lo portava a casa, il sabato e la domenica, con quei libri, di quei tempi, dove i titoli si facevano in gotico. E lavorava, e io vedevo papà e ho un'allergia. Io non capisco bene com'è la cosa. Criticare l'assoluta autonomia del mercato, chiariva Scannone, non è altro che dottrina sociale della Chiesa. Le stesse cose le dicevano, con stili e impeti diversi, i predecessori di Francesco. Si pensi a quanto affermò cinque anni fa Benedetto XVI intervenendo nella splendida cornice della Westminster Hall, in Inghilterra: commentando la massima di moda secondo cui le banche sono ritenute troppo grandi per fallire, Ratzinger osservò che anche lo sviluppo integrale dei popoli della terra non è meno importante. E' un'impresa degna dell'attenzione del mondo, veramente troppo grande per fallire. Per capire Bergoglio, le fondamenta del suo pensiero e la sua visione geopolitica del mondo che lo porta a essere convinto che la globalizzazione potrà arricchirsi solo nelle differenze, è necessario puntare l'attenzione sul ribollire teologico che si ebbe in America latina nell'immediato dopo Vaticano II. E' lì che la teologia diventa più dinamica e anche per dirla con Scannone più creativa. Tutto iniziò con la conferenza dell'episcopato latinoamericano di Medellín. Era il 1968. Nella semplificazione mediatica è passata alla storia come la grande svolta post conciliare, l'evento che aprì la Chiesa ai poveri. Ci sarebbe poi stata Puebla, nel 1979, e Santo Domingo, e Aparecida. Bergoglio, teologicamente parlando, va posto in linea con tutte queste tappe, con l'opzione preferenziale per i poveri, indiscutibilmente, spiega Scannone. Ma è della teologia del popolo che il suo pensiero è fortemente impregnato. Capire i connotati di questa branca, parte della più nota teologia della liberazione, fondata dal padre peruviano Gustavo Gutiérrez, significa entrare in possesso della chiave di volta per contestualizzare gran parte dei discorsi di Francesco, a cominciare da quelli tenuti nel recente viaggio in America del sud, tra i caudillos locali. In Argentina, alla vigilia dell'incontro di Puebla, si era irrobustita una linea teologica che prediligeva l'esistenziale, la religiosità e la cultura popolare. Più sulla storia e il popolo, cioè, che sulla sociologia e le classi sociali, avrebbe efficacamente sintetizzato il giornalista e scrittore Alver Metalli. Rafael Tello e soprattutto Lucio Gera, considerato il capostipite della teologia del popolo, non volevano più utilizzare più né le categorie della sociologia liberale né quelle della sociologia marxista, nota padre Scannone. Si cercava, insomma, una terza via, un modo nuovo per parlare e categorizzare la storia e la cultura latinoamericana. E questa categoria fu quella del popolo; categoria che però non ha differenze con la teologia della liberazione nel suo senso più ampio: non bisogna contrapporre le due forme teologiche, anche perché la teologia del popolo è una appendice della teologia della liberazione. Per il filone seguito da Bergoglio, ciò che conta è comprendere la Chiesa come popolo di Dio in dialogo con i popoli della terra e le loro culture peculiari, e in America latina scrive ancora Scannone sono i settori più poveri e oppressi della società ad aver mantenuto la cultura comune. Ecco perché il teologo Gera, partendo da questo assunto, riteneva che l'evangalizzazione non si rivolgesse più ai singoli individui, ma anche ai popoli e soprattutto alla cultura di quei popoli, attraverso l'evangelizzazione della cultura e l'inculturazione del Vangelo. Lo stesso Jorge Mario Bergoglio, intervenendo qualche anno

fa alla presentazione di un libro del teologo suo connazionale Ciro Enrique Bianchi, osservava che il nostro continente latinoamericano è marcato da due realtà: la povertà e il cristianesimo. Un continente con molti poveri e con molti cristiani. In cinque secoli di storia, nel nostro continente è andato sviluppandosi un nuovo modo culturale di vivere il cristianesimo, il cristianesimo ha trovato un nuovo volto. Ed è proprio questo che manca all'Europa, la religione dei poveri, sostiene padre Scannone: L'Europa opulenta non tiene conto dei poveri! Quello che manca all'Europa è l'opzione preferenziale per i poveri, per le vittime della storia. E' questo il Vangelo. Gera, però, scomparso qualche anno fa, non accettava l'impostazione sociologica di Gutiérrez e Leonardo Boff, l'ex frate messo in riga da Ratzinger prefetto del Sant'Uffizio che non a caso, oggi, fa sapere al mondo a giorni alterni di essere una sorta di gran consigliere del Papa argentino, al quale avrebbe anche ispirato i temi forti dice lui contenuti nell'enciclica Laudato si'. Lo scopo di Gera, ha scritto Metalli, era di rendere compatibile il tema della liberazione con la tradizione sociale della Chiesa. Un grande amico dell'attuale Pontefice, il filosofo uruguagio Methol Ferré, spiegava bene il punto di dissidio: Molti di noi, e in anni non sospetti, hanno rimproverato alla teologia della liberazione la sua dipendenza di fondo dalla logica marxista. In tanti esponenti di questa corrente non in tutti, si badi bene il cristianesimo si assoggettava a una concezione totalizzante di origine diversa e contraddittoria con il cristianesimo, e non l'inverso. I fatti successivi hanno verificato la bontà di questa critica. La teologia del popolo, chiariva Ferré, ha prestato un inestimabile servizio ripensando la politica in funzione del bene comune, e quindi in relazione stretta con l'opzione preferenziale per i poveri e la giustizia. Tutti elementi che ritornano nella Evangelii Gaudium, il primo grande testo uscito dalla penna di Francesco dopo essere asceso al Soglio di Pietro. Quel documento è fortemente ispirato alla teologia del popolo, sottolinea Scannone: Da cinquant'anni, ieri come arcivescovo oggi come Papa, essa ha nutrito il pensiero e l'azione di Bergoglio. Riprendendo i temi fondamentali della teologia del popolo, Francesco volge la sua riflessione in particolare alle nozioni centrali di popolo e spiritualità popolare, cui è molto legato. E' un Papa che parla a tutti grazie a una teologia che si incarna nei gesti forti. Come si è ben visto, da ultimo, nel tour tra Ecuador, Bolivia e Paraguay. L'attesa, ora, è per vedere come i gesti forti saranno declinati dinanzi a un contesto, quello nordamericano, che appare così estraneo al panorama culturale del Papa preso quasi alla fine del mondo. Pag VII Un’enciclica cosmica e sociale di Antonio Fazio Moneta e finanza sono “strumenti” utili per il benessere. Francesco ci ricorda di non trasformali in “fini” Sapientis est causas altissimas considerare. Così Tommaso d'Aquino nel proemio alla Summa contra Gentiles. E' il criterio analitico ed espositivo che presiede allo svolgersi della Laudato si' di Francesco. I cambiamenti climatici sono la più diffusamente percepita minaccia all'equilibrio del nostro pianeta e a coloro che vi vivono, secondo un sondaggio di opinioni condotto dal Pew Research Center, su un campione di 45 mila persone a livello mondiale. Nell'America latina è il 61 per cento della popolazione che così si esprime. Nei paesi economicamente più avanzati, Europa e America del nord, con più alta priorità sono presenti la preoccupazione per la minaccia islamica e quella per la crisi economica. In Asia, nel miliardo e quasi 300 milioni di abitanti dell'India è più del 70 per cento a essere preoccupato dai cambiamenti climatici; elevatissima è pure la percentuale, in Africa, di nigeriani preoccupati per il clima. Questi dati li apprendo dall'usuale nota sui più rilevanti indicatori socio-economici pubblicati ogni settimana dall'Economist (numero 24 del 2015, del 18 luglio). Va sottolineato che le percentuali rilevate dal sondaggio indicano la diffusione delle sensazioni di pericolo, non la loro intensità. Ciò limita la comparabilità nello spazio dei dati. Il Santo Padre, come dice anche un passo della Scrittura con riferimento al Signore, degli uomini si prende cura. Il cambiamento climatico è comunque uno degli aspetti, quello più immediatamente percepito per il suo impatto sul tenore di vita specialmente dalle popolazioni che dipendono principalmente dall'agricoltura, dei mutamenti nell'equilibrio del pianeta. Il nostro cosmo e qui si rivela esplicitamente l'approccio filosofico è fatto di mondo inanimato, di piante e animali, di uomini al vertice; ogni sezione del cosmo è dotata di notevole autonomia; ma le varie parti sono tra di loro collegate e tra di loro

interagiscono. Appunto l'idea del cosmo ereditato dalla filosofia antica. La parte più nobile, più dinamica, più imprevedibile, più difficile da inquadrare in schemi teorici, è la società degli uomini. E nella società l'economia sta rispetto al tutto come la corporeità fisica sta rispetto alla persona. L'andamento e l'organizzazione dell'economia, di sistemi che nei vari tempi e nei diversi luoghi la sostanziano, dipendono dalle esigenze degli uomini, che sono gli unici e ultimi protagonisti e fruitori dell'economia, dai condizionamenti fisici e ambientali, ma anche molto e soprattutto, mutuando un concetto che san Giovanni Paolo II applicava alla storia, dalle idee. A partire dal XVII secolo della nostra èra e in maniera sempre più evidente, vigorosa, sconvolgente, si afferma un fenomeno nuovo per la sua dimensione e intensità: la crescita della popolazione mondiale. Nel XX secolo la popolazione del mondo si quadruplica, da un miliardo e seicento milioni a oltre sei miliardi (en passant il fenomeno è in deciso rallentamento nel XXI secolo). Ne sono seguiti trasformazioni e tensioni sociali, scontri e guerre planetarie, ma anche uno sviluppo economico, misurato dalla quantità di beni e servizi prodotti straordinario, anche questo senza precedenti nella storia. Le necessità e la vivacità, le interazioni degli uomini sviluppano i viaggi, i commerci, le scoperte geografiche, in una parola la globalizzazione. E questo progresso si fonda sulla tecnologia, scoperte scientifiche utilizzate a fini produttivi. L'uomo pensa di dominare attraverso la tecnologia le sorti del mondo. Sulle devastazioni delle grandi guerre e di quelle che ancora continuano per il predominio politico ed economico si stende, come il canto delle Parche sui campi di battaglia, l'ideologia economica. Attenzione: come diceva Keynes ai suoi contemporanei negli anni Trenta dello scorso secolo quando cercava di spiegare loro l'origine della grande crisi e il modo di porvi rimedio: L'economia politica è diventata una scienza. E la scienza economica, l'economia politica come diciamo in italiano, è un oggetto, un sapere più vasto dell'ideologia cosiddetta capitalista. Quest'ultima si basa su ben precisi concetti dell'analisi a loro volta fondati saldamente su costatazioni reali; ma può condurre a esiti non stabilizzanti per la società degli uomini nel suo complesso; più esplicitamente, anche se non esaustivamente, una forte concentrazione della ricchezza prodotta nelle mani di pochi. L'ottimo teorizzato da Pareto, sotto peraltro ben precise condizioni che gli economisti (veri) conoscono bene, ma che spesso nei dibattiti correnti sono dimenticate, detto ottimo, affidato per sua essenza al mercato e alla concorrenza, conduce al massimo risultato in termini di produzione dalle risorse disponibili. Ma concentra i risultati nelle mani di pochi, dando luogo a forti distorsioni e tensioni nei rapporti sociali. In tal modo corrodendo e distruggendo le basi sulle quali si fonda il buon funzionamento di una economia moderna; questa è appunto basata sul mercato, a sua volta fondato sulla divisione del lavoro (Adam Smith). La forma in qualche misura più primitiva e rozza di questa idea del modo in cui vorrebbe e spesso si riesce a far funzionare l'economia è il laissez faire. Keynes lo cito ancora in un suo pamphlet del 1926 intitolato proprio The End of Laissez-faire infligge un colpo grave, quasi mortale, a questo modo di intendere lo svolgersi di un sistema economico per il bene di una comunità politica. Ma l'ideologia non muore. Si ripresenta sotto varie forme dopo il secondo conflitto mondiale con la grande espansione del commercio internazionale e della finanza. La finanza non è cosa cattiva. Come tante realtà della natura create da Dio e dagli uomini, è cosa di per sé buona, ma che può essere usata per fini particolari che possono condurre ad esiti non buoni. Lo dice qui uno che ha studiato per almeno cinquant'anni la moneta e la finanza e che qualche volta le ha regolate tentando di guidarle verso esiti positivi. L'ideologia del laissez faire et similia, del liberismo assoluto, applicate alla moneta e alla finanza conducono quasi sempre a esiti non positivi, inflazione, speculazione, crisi. Vanno regolate come anche vigorosamente sostenuto in un documento del pontificio Consiglio Giustizia e pace (Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un'autorità pubblica a competenza universale, 2011). Nessuno dubita ora che moneta e finanza vadano regolate a livello dei singoli sistemi nazionali, ma il grado di attenzione, per non parlare di regolazione, a livello internazionale, è debole, pressoché inesistente. La ricerca del profitto, tutt'altro che illecita e socialmente dannosa quando è misurata e contenuta entro parametri etici, e la finanza forniscono il sangue e l'ossigeno per lo sviluppo della tecnologia. La finanza si avvale da alcuni decenni soprattutto dell'ultima forma di sviluppo tecnologico, la più avanzata, l'informatica. Va ricordato comunque fermamente dovrebbe essere tenuto presente dai molti che spesso riempiono di random

noise i media che la moneta e la finanza e la loro anche rigorosa regolazione chi parla non è stato esente da tali atteggiamenti quando era giudicato necessario sono utili per la comunità. La moneta e la finanza sono uno strumento, un mezzo per accrescere il benessere, non un fine. Sembra, nella politica nazionale ed europea, ci sia ora questa inversione tra strumenti e fini: si incide pesantemente sull'occupazione e sul benessere economico per stabilizzare la moneta. Se il capitalismo, l'organizzazione politica ed economica dei nostri sistemi, sotto forme più o meno esplicite o implicite, si presenta come una reincarnazione del vecchio laissez faire, non mi pare che ci sia molto da scandalizzarsi per una critica anche pesante. La critica del Santo Padre è basata sugli esiti dei nostri sistemi economico-sociali e politici, in termini di povertà, di esclusi, di scartati dalla società. E' un punto sul quale le azioni, i gesti, i discorsi del Santo Padre, continuando quanto già rilevato dai suoi predecessori a partire dalla Rerum Novarum di Leone XIII, non mancano di richiamare le responsabilità della cultura, dei media, dei politici. La parte dell'enciclica che tratta questi argomenti ha una sua unità e in un certo senso una autonomia che la qualifica a pieno titolo come una enciclica sociale. Viene usato il termine ecologia umana estendendolo appunto a coprire non solo la natura animata e inanimata, ma anche la società degli uomini. Il termine è dunque più ampio, si estende fuori dell'economia. Abbraccia in primo luogo il rispetto della vita umana dal suo primo insorgere (in-sorgere) nel grembo materno fino alla naturale estinzione. Se non si rispetta la vita degli uomini come si può rispettare quella degli animali, delle piante, l'ordinato volgersi delle stagioni e delle piogge che tanto preoccupano le genti di ogni parte del mondo? Animali, piante, aria, terra, sono inferiori all'uomo, che negli ordinamenti civili è fonte primaria del diritto, di ogni diritto. Qui non si sta dicendo che se non si rispettano le cose non si rispetteranno come di conseguenza anche gli uomini; al contrario, se non si rispettano gli uomini non si rispetteranno le cose animate e inanimate che ci circondano, con riflessi di ritorno ancora negativi sugli uomini. Esiste una correlazione tra povertà e danni alla natura; come risulta anche dall'indagine menzionata all'inizio. Il problema ecologico strettamente definito sembra meno percepito nelle società più ricche, che pure contribuiscono, pesantemente, a generare tali effetti. Questo legame, questo collegamento logico nell'enciclica, la trasformano da sociale in cosmica . Le povertà e le discriminazioni, le violenze non sono un portato della natura, passano e originano dalla volontà degli uomini, talora da vere e proprie strutture di peccato. La visione alta di Francesco, che poi nel corso del testo si frammenta in una serie di problematiche concrete, si trova all'inizio, nel riferimento alla Genesi, che all'uomo, maschio e femmina, impone di crescere e moltiplicarsi e coltivare il giardino, la terra. Si ritrova lo spirito alto e unificatore nell'ultima parte dell'enciclica, intensamente nelle due preghiere finali. Ma sono un uomo anche con i piedi per terra (cerco di esserlo sempre). In un convegno tenuto ad Assisi nell'Ottobre del 2000 organizzato dalla benemerita fondazione Sorella Natura, elaborai una riflessione su investimenti, tutela dell'ambiente e sviluppo economico. Concludevo con il Cantico delle Creature. Sono andato a scuola al MIT cinquant'anni or sono per (studiare e) approfondire la moneta, la congiuntura economica, l'econometria. Insegnava anche Solow. Chi non ne avrebbe approfittato? L'importanza degli investimenti per risollevare il ciclo economico erano gli anni della New Economic Policy di Kennedy , ma anche per lo sviluppo economico. In un suo scritto Solow afferma chiaramente che il rendimento sociale, spesso sotto forma di economie esterne per le imprese, degli investimenti pubblici, è superiore al costo del debito in termini di interessi. Europa svegliati! Anche Mario Monti da sempre ti tira le orecchie su questo punto; sul punto da sempre concordo con lui. Keynes lo cito per la terza e ultima volta ci ha fatto capire che in un sistema in cui c'è disoccupazione il risparmio non è dato: si forma proprio a seguito degli investimenti. (Fine per ora dei piedi per terra e del commento alla grande enciclica di Francesco). Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 23 L’era dei papà sapiens di Massimo Sideri

Più esperti e disponibili con i figli. Il risultato è che tu sei l’amicone ma la vera autorità è la Mamma Tutto è accaduto per caso. Parto cesareo, l’infermiera che esce con un fagotto non ben identificato gridando: «Chi è il padre?». Io che inciampo goffamente in stile Homer Simpson gridando «Io, io!», come se me lo potessero rubare... Così mi sono trovato a cambiare i pannolini a Riccardo per primo. Quando, qualche giorno dopo, ho scoperto che la mamma non sapeva farlo ho avuto un’illuminazione: per la prima volta riuscivo a fare qualcosa meglio di mia moglie Tiziana. Wow. È così che sono diventato un papà sapiens , forma evoluta che ha atteso migliaia di anni prima di distaccarsi dall’albero genealogico del papà neanderthalensis. Mio figlio che ora ha 8 anni dice che come papà sono ormai al livello «velociraptor» (si partiva dal livello gallina). Il papà per lui è un videogioco. Per fortuna mi preferisce all’iPad. Ancora. Di noi papà sapiens dicono un sacco di cose. Nonostante cresciamo in numero, dal punto di vista sociologico siamo come degli extraterrestri finiti nella famosa base militare segreta Area 51: manca poco che ci vivisezionino. Forse rappresentiamo solo un fenomeno mediatico. Di noi papà sapiens, per esempio, dicono che a differenza dei neanderthalensis prendiamo 2,5 kg nei primi tempi - il peso extra lo ha calcolato una ricerca dell’ American Journal of Men’s Health riportata dall’ Atlantic -. Per quanto possa valere anche io avevo preso circa lo stesso quantitativo di pancetta. Azzerato il tempo per fare sport, meno sonno (uguale più fame). Secondo la ricerca i 2,5 kg sarebbero il segnale di un maggiore benessere. Meno stress, più attenzione per il buon cibo. E si sa cosa può fare una buona dieta mediterranea. Solo che penso: se l’ American Journal ha studiato gli americani loro dovrebbero solo dimagrire con meno hot dog o panini del fast food. C’è qualcosa che non torna. La verità è che noi uomini non siamo capaci di fare tante cose e organizzarci. All’inizio è dura doversi alzare e pensare agli altri invece che a se stessi. Ma col tempo la situazione migliora: ci devi pensare anche alla sera e portare tuo figlio a letto. Dicono anche che con un po’ di pancetta siamo un filino più sexy. Questo mi farebbe piacere. Se ti chiami Leonardo Di Caprio, forse. Un comune mortale con la pancetta è un papà comune mortale con la pancetta. Comunque grazie a tutti quelli che hanno contribuito a fare circolare una menzogna a fin di bene. Tra le cose che dicono sempre di noi papà sapiens c’è che siamo disponibili, pronti ad andare a prendere il figlio a scuola, distaccarci dal lavoro per passare del tempo con i nostri figli, fare i mestieri casalinghi (a casa mia per uno strano equilibrio millenario che non ho approfondito devo solo stare lontano dalla lavatrice). Insomma, in una parola, siamo pronti a fare i «mammi», versione politicamente scorretta di papà sapiens . La verità è che le statistiche dimostrano il contrario: anche tra uomini è sempre un po’ curioso raccontare di voler passare del tempo vero con i propri figli. Ricordo che quando presi per la prima volta la paternità un amico mi telefonò per chiedermi: «Ma va proprio così male al lavoro?». Dicono anche che il papà sapiens avrebbe imparato addirittura a fare le valigie senza dimenticarsi nulla e mettendo dentro anche l’intero corredino del bambino. Ma questa è fantascienza. Ci sono limiti genetici che non possono essere superati nemmeno dal migliore degli uomini. Dicono infine che siamo meno autorevoli. E questo è vero, profondamente vero: per mio figlio sono un compagno di giochi. Volete la prova? A 8 anni lei è «la mamma». Anzi: la «Mamma». Io vengo da sempre chiamato con un soprannome supertenero che nulla ha a che vedere con i barbari di Clash of Clans. Alla fine anche questo toccherà un po’ alle mamme: il ruolo del vecchio papà . Pag 27 La scuola paritaria è un bene comune, non un semplice negozio di Alberto Melloni La sentenza della Cassazione che chiede alle suore di Livorno di dimostrare di non lucrare sulla loro scuola paritaria, pena essere soggette alle imposte locali come un qualsiasi «negozio», è stata a suo modo provvidenziale. Le scuole religiose, presumo, non ci metteranno molto a fornire le prove richieste dalla suprema corte. Chi ha sventolato il «senza oneri per lo Stato» della Costituzione con calcistico entusiasmo, ha confermato che ancora pochi hanno capito che quella clausola costituzionale piaceva a quei lungimiranti prelati vaticani che non volevano la spartizione dei giovani fra scuole comuniste, cattoliche, o pubbliche. La Chiesa italiana ha reagito per bocca di monsignor

Galantino e ha fatto appello alle scuole valdesi ed ebraiche, al servizio reso, al costo sociale: e dunque a tutto, tranne che alla retorica di Comunione e liberazione su «emergenze educative» o «diritti della famiglia» che le garantivano il monopolio di una polemica spendibile a destra. La sentenza, dunque, può essere l’occasione per dirsi cosa rende la scuola (statale o paritaria che sia) «pubblica». Cioè scrupolosamente aderente al dettato costituzionale che la dice «aperta a tutti». Non ai cittadini, non agli abbienti, non ai praticanti d’un credo o di nessuno, ma a tutti. Come la scuola di Don Milani, scuola fatta in canonica da un prete in talare, ma che ha insegnato che è pubblico chi sa mettersi all’altezza del più piccolo per «rimuovere gli ostacoli» di cui all’articolo 3 della Costituzione. La scuola che non è così, non solo non è pubblica, ma non è nemmeno scuola. Abbia le insegne dello Stato o un altro simbolo, essa è solo un pletorico arnese che certifica la ricchezza economico-culturale della famiglia di provenienza degli scolari. La «buona scuola», per usare l’espressione coniata da Stefania Giannini, è pubblica se e quando rovescia l’adagio classista per cui a scuola si va e a casa si impara: ed è quella che va costruita con tecnicalità e prudenze sempre più rare in un Paese di cialtroni irascibili. Se si fa così si potrà prendere atto che una «questione scolastica» oggi c’è. Ma non è quella di fine Ottocento, quando era un campo di battaglia sul quale si affrontavano l’illusione dello Stato e l’illusione della chiesa cattolica di poter fabbricare a scuola agenti della secolarizzazione o della confessionalizzazione dello spazio pubblico. Non è quella del primo cinquantennio repubblicano, quando il monopolio democristiano sul Ministero di viale Trastevere si combinava con il pluralismo d’un corpo docente che cresceva ope legis trasformando i più pazienti dei precari nei più tutelati dei dipendenti pubblici. E non è quella dell’era ruiniana della Cei, quando la questione serviva per chiedere concessioni, tra le quali la qualificazione privilegiaria era molto più importante del contenuto, incluso l’aspetto economico. Oggi la Cei pone invece il problema di considerare la scuola fra i beni comuni: dunque per ciò che essa è e deve essere, e non in base alla natura giuridica di chi la fa o all’impegno economico che essa chiede a chi la frequenta. Prima se ne prende atto, meglio è: anche sul piano fiscale. Perché è evidente che l’equiparazione degli spazi della istruzione (e dello studio in senso lato) alle attività commerciali o alle dimore costituirebbe un incentivo all’egoismo di cui non si sente il bisogno. Su questo il governo, le chiese, le comunità e i titolari di servizi scolastici dovrebbero parlarsi in modo chiaro, competente, diretto e sincero. Per evitare il pericolo di una scuola classista e segregazionista, che si può annidare sia in rinomati istituti apparentemente pubblici che vengono assediati da raccomandazioni del vippume in cerca di nidi sicuri per i propri pargoli, sia in istituzioni religiose dimentiche che il capitolo 25 del Vangelo di Matteo vale anche per le scuole (avevo fame, mi avete dato da mangiare...). Si tratta di una urgenza che è anche politica: per motivi (politici) opposti a quelli di chi crede ancora che la chiesa di Francesco sia ancora quella che chiude un occhio in cambio di favori o che chiede il favore di essere trattata come un potere fra i poteri. Galantino e il Papa hanno infatti il diritto di chiedersi se la controversia tutta ideologica che ha visto soccombere le suore in giudizio non abbia un altro scopo: e cioè dimostrare all’episcopato italiano che la antica logica privilegiaria rendeva di più, per poi tornare all’antico sui temi etici o sul sottogoverno. La rinuncia radicale allo «stile antico» di cui molto beneficiarono i governi Berlusconi e molto soffrirono i governi Prodi ha degli avversari: che sono disposti anche ad «umiliare la chiesa» per modificarne la rotta. IL GAZZETTINO Pag 2 Ici alle scuole paritarie, il governo al lavoro per una soluzione “politica” Roma - Trovare una soluzione normativa al problema dell'Ici sulle scuole paritarie, che si è aperto dopo la sentenza della Cassazione su due scuole religiose livornesi: è a questo che il Governo lavorerà nei prossimi giorni. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti avvierà già oggi i contatti con tutte le associazioni no profit interessate alla questione, in vista della convocazione di un tavolo che affronterà questa problematica. Una soluzione normativa è anche quello che chiede il legale delle due scuole coinvolte: «Si formuli una norma chiara e si espliciti cosa si intende per funzione pubblica svolta da enti privati, perché è questo il cuore del discorso» chiarisce l'avvocato Alessandro Giovannini, precisando che il processo sulla vicenda del pagamento dell'Ici al

Comune di Livorno da parte delle due scuole «non è finito», visto che la Cassazione ha annullato la sentenza della Commissione tributaria della Toscana rinviando ad altra sezione della commissione. E la 'battaglia' processuale sarà soprattutto sulle caratteristiche «commerciali» delle scuole. Al Governo si rivolge anche il segretario della Cei, mons. Nunzio Galantino. L'alto prelato chiede all'esecutivo di dire «con chiarezza se vuole favorire e promuovere la libertà di educazione, se ci tiene a dare alle famiglie la possibilità di scegliere la formazione per i propri figli». Un'esortazione giunge anche da Famiglia Cristiana, che parla di «un precedente davvero pericoloso» in quanto viene «stravolto il principio dell'esenzione degli istituti non a fini di lucro». De Vincenti ieri ha ammesso che la sentenza della Suprema Corte «segnala una difficoltà interpretativa» di una norma introdotta dal Governo Monti: da qui la promessa di aprire «un tavolo di confronto con le organizzazioni no profit, comprese quelle religiose, per arrivare a un definitivo chiarimento normativo a questo riguardo». Si schiera decisamente a favore degli istituti religiosi il governatore del Veneto Luca Zaia «L’ipotesi di far pagare l’Ici (ora si chiama Imu) alle scuole religiose è una vergogna». «In Veneto - spiega Zaia - le scuole paritarie valgono 90 mila bambini, che non troverebbero una scuola pubblica. Seguendo questa filosofia si andrà a tassare ogni elemento di formazione, ciò che penso sia anche lesivo della libertà di scelta». Quindi, aggiunge il leghista «pensare di far cassa tassando le scuole private, in questo caso scuole gestite da religiosi, penso sia disdicevole. Anche alla luce del fatto che contemporaneamente assistiamo a continui stanziamenti a favore di Regioni che sono in default finanziario e sui quali non si fa mai una riflessione». Ergo, «siamo contrari su tutta la linea». Chi invita la politica «a smettere di guardare al dito per evitare di vedere la Luna» è la deputata del Pd Simonetta Rubinato. «Il punto - è il ragionamento della trevigiana - non è tanto l'esenzione a fini Ici per queste scuole, se sia o meno aiuto di Stato secondo la normativa Ue (peraltro con l'Imu la normativa è stata chiarita dal 2012 in poi a forza anche delle battaglie ed interrogazioni che ho fatto io stessa)». Il nodo centrale, aggiunge, «e che va finalmente affrontato è piuttosto se l'ordinamento italiano sia conforme o meno a ben due risoluzioni europee che impongono agli Stati membri di riconoscere la libertà di scelta educativa e di insegnamento, anche con le sovvenzioni pubbliche necessarie a non discriminare organizzatori, genitori, alunni e personale di queste scuole, e ciò in armonia con l'articolo 33 della Costituzione». LA NUOVA Pag 8 Zaia: l’Ici alle scuole paritarie è scandalosa No alla tassazione anche da Rubinato e Santini del Pd. Il tosiano Caon: il governatore sconfessa Salvini Per il governatore Luca Zaia, far pagare l'Ici alle scuole cattoliche «è un’autentica vergogna». «In Veneto», ha affermato parlando al raduno dei Trevisani nel mondo, in Cansiglio «le scuole paritarie valgono circa 90 mila bambini, che non troverebbero comunque una scuola pubblica. Seguendo questa filosofia si andrà a tassare ogni elemento di formazione, ciò che penso sia anche lesivo della libertà di scelta»; la polemica si è accesa dopo la sentenza della Cassazione che ha giudicato ammissibile l’applicazione dell’Icid a due scuole paritarie di Livorno: «Pensare di far cassa tassando le scuole private, in questo caso scuole gestite da religiosi, credo sia disdicevole. Anche alla luce del fatto che contemporaneamente assistiamo a continui stanziamenti a favore di Regioni che sono ormai in default finanziario e sui quali non si fa mai una riflessione», ha concluso ««Zaia quindi siamo contrari su tutta la linea». Analoga la posizione espressa dalla deputata del Pd Simonetta Rubinato: «Il nodo centrale che va finalmente affrontato è se l'ordinamento italiano sia conforme o meno a ben due risoluzioni europee che impongono agli Stati membri di riconoscere la libertà di scelta educativa e di insegnamento, anche con le sovvenzioni pubbliche necessarie a non discriminare organizzatori, genitori, alunni e personale di queste scuole, e ciò in perfetta armonia con l'articolo 33 della Costituzione che qualche ideologo laicista continua a leggere come gli fa comodo»; secondo la parlamentare trevigiana, la risposta è no: «In Italia genitori e alunni che accedono al servizio pubblico erogato dalle scuole paritarie, spesso senza avere neppure l'alternativa di una scuola statale, come accade ad esempio per l'infanzia.subiscono una violazione alla libertà d'istruzione». «Il Governo ha aperto un

tavolo di confronto con le scuole paritarie e c’è l’impegno ad intervenire tramite un’apposita misura», fa sapere il senatore del Pd Giorgio Santini «è un segnale di apertura e di attenzione nei confronti di istituti che svolgono, soprattutto in Veneto, un prezioso servizio pubblico. Auspico che già la prossima legge di stabilità possa contenere una norma ad hoc. Mi impegnerò per questo risultato». Polemico il parlamentare tosiano Roberto Caon: «Prendiamo atto che Zaia ha apertamente sconfessato la linea del suo segretario Matteo Salvini sull’ci alle scuole cattoliche ma le sue parole non basteranno a fermare la deriva populista e demagogica della Lega salviniana». CORRIERE DELLA SERA di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 Paritarie o statali. Il costo degli studenti di Valentina Santarpia Privilegiate, d’élite, coccolate dai privati e dallo Stato: delle scuole paritarie si dice anche questo, magari evocando le ricche rette da pagare a fine mese. Ma cosa c’è di vero? Quanto pesano sul bilancio collettivo le circa 13 mila scuole paritarie italiane? «Svolgono un servizio di pubblica utilità: bisogna uscire dai pregiudizi ideologici», dice il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi, che nella riforma della scuola appena approvata è riuscito ad ottenere l’introduzione di uno sgravio fiscale per le famiglie che mandano i propri figli alle paritarie: fino a 400 euro all’anno, per rette fino ai 2.500 euro, che significa un risparmio in busta paga di 75 euro all’anno. «Una battaglia di civiltà», si difende Toccafondi. «Un’ingiustizia per i più ricchi», sostiene invece il fronte laico, e assai combattivo, della scuola. Veniamo ai numeri. Le scuole paritarie sono frequentate, per ogni ordine e grado, da circa un milione di studenti, ovvero circa il 10% della popolazione scolastica, considerando che le scuole sono attualmente frequentate da circa 9 milioni di studenti. Nella maggior parte dei casi si tratta di scuole dell’infanzia: sono 4-4.500 le scuole comunali e gli asili compresi nell’elenco. Non si tratta solo di istituti religiosi, anche se il nome spesso inganna: in centinaia di casi la scuola, fondata da un ordine religioso, viene nel tempo rilevata da cooperative e fondazioni laiche, spesso formate da genitori o professori che non hanno voluto disperdere il patrimonio culturale della scuola, e che si sono impegnati personalmente per la continuità della struttura e della didattica. Sono tra i 70 mila e i 100 mila i dipendenti diretti, tra professori e altro tipo di personale: sono tutti assunti con contratti regolari, senza agevolazioni. Quindi le paritarie pagano contributi, l’Inps al 33% e l’Irap al 4,25% sul costo del lavoro. L’unica differenza con le statali è che non ci sono vincoli concorsuali per l’assorbimento degli insegnanti. Tra parentesi, tra i 25 mila e i 35 mila professori delle paritarie sono insegnanti inseriti nelle graduatorie, che con il maxipiano di assunzioni previsto per il prossimo settembre svuoteranno le aule delle paritarie per affollare quelle delle statali. Per quanto riguarda le altre tasse, le paritarie pagano regolarmente Tares, Tasi, addizionali regionali, Iva, che varia dal 4 al 20%, su tutti gli acquisti, mentre l’Irpef viene pagata a scaglioni. E naturalmente sono sottoposte ai controlli degli Uffici scolastici regionali. Il contributo che le paritarie ricevono dallo Stato ammonta a 471 milioni all’anno: una cifra che era di 538 milioni ai tempi del ministro Beppe Fioroni, ma che negli anni è stato sempre più ridotto. Significa che attualmente, per ogni studente delle paritarie, lo Stato spende dai 600 euro (per i bambini delle scuole dell’infanzia) ai 50 (per gli studenti delle superiori). Alcune Regioni, come la Lombardia e il Veneto, hanno previsto anche contributi extra negli scorsi anni, stipulando delle convenzioni con le paritarie. Spiega l’assessore all’Istruzione della Lombardia, Valentina Aprea: «La Regione ha sempre sostenuto il sistema delle scuole paritarie attraverso il buono-scuola e, nonostante ciò, non sono pochi gli istituti che hanno chiuso l’attività a causa dell’aggravio di spese di funzionamento e di tasse». Ma è proprio vero, come sostiene il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, che le scuole paritarie fanno risparmiare allo Stato sei miliardi e mezzo? Il conto è questo: il costo di uno studente medio per lo Stato è di 6.800 euro all’anno, secondo dati 2013-2014 del ministero dell’Economia e dell’Ocse. Contribuire all’istruzione di uno studente di una paritaria invece costa allo Stato circa 500 euro all’anno. Cifra che i privati integrano pagando una retta di tasca propria, che ammonta a circa 2-3.000 euro all’anno, gravata da Irpef. Dunque anche considerando la spesa sostenuta dai privati, non si arriva al costo di uno studente pubblico. Se quel 30% circa di paritarie che sono oggi le scuole materne, dovessero

chiudere, i Comuni che oggi se ne avvalgono tramite convenzione dovrebbero sborsare subito 150 milioni. Pag 3 Mons. Galantino: “Vogliono umiliare la Chiesa. Così molti istituti chiuderanno” di Melania Di Giacomo Salvatore Settis: “Ma la Costituzione è chiara. Non devono pesare sullo Stato” Roma. «Ora è il governo che deve parlare e dire come intende garantire la libertà di educazione». Monsignor Nunzio Galantino, segretario della Cei, si distingue per il suo approccio pragmatico. Dopo la vittoria in Cassazione del Comune di Livorno sulle suore degli Istituti Immacolata e Santo Spirito parla di sentenza «pericolosa», perché mette a rischio la «sopravvivenza» degli istituti. «L’ideologia di qualsiasi parte o colore acceca. La ragione non può rinunciare a prendere atto di alcuni dati precisi», afferma, «queste scuole vengono scelte da un milione e trecentomila studenti, ciò vuol dire almeno un milione di famiglie. E ad alcuni questo non va giù». Monsignor Galantino, l’hanno sorpresa le motivazioni della sentenza della Cassazione? I giudici dicono che per non pagare l’Ici le scuole paritarie devono dimostrare di svolgere attività con «modalità non commerciali». «Penso che la sentenza non abbia sorpreso solo me. La scuola paritaria non può essere valutata solo per la natura commerciale per il fatto che vengono pagate delle rette, ignorando la valenza formativa e sociale e lo scopo no profit . E non deve essere solo la componente cattolica a sorprendersi. Le scuole paritarie non sono solo quelle cattoliche e mi piacerebbe che altre realtà si facessero sentire. Parlo della chiesa valdese o della confessione ebraica, e del mondo del no profit, che si sono giovate della presenza attiva e ragionata delle scuole cattoliche per garantirsi dei benefici». Ha detto che le scuole paritarie sono a rischio, quali saranno le conseguenze? «Se questa sentenza si allarga, con buona pace di chi a Livorno canta vittoria, molti istituti saranno costretti a chiudere e, per come è messa la scuola, non so se potrà assorbire studenti e docenti. Mi piacerebbe sentire il governo che, lo riconosco, si è particolarmente attivato, ha colto il valore non confessionale delle scuole paritarie. Ma dovrebbe farsi sentire di più, non siano solo i cattolici a parlare. Dica con chiarezza se vuole favorire e promuovere la libertà di educazione, se ci tiene a dare alle famiglie la possibilità di scegliere la formazione per i propri figli. E agisca di conseguenza». Il ministro Giannini ha detto che serve una riflessione. «Il problema è che dobbiamo far fronte ad un deficit di investimenti in formazione e ricerca. E se si va a vedere il costo-studente per lo Stato il rapporto è di uno a dieci. Se la scuola statale offre un servizio 10 volte superiore onestamente non lo so. Sono gli ideologi di turno che vogliono mettere all’angolo la libertà di scelta. Ma spero che anche le famiglie si facciano sentire e mettano in minoranza i lobbisti che non vedono l’ora di far trionfare il pensiero unico». A chi si riferisce quando parla di lobbisti? «A chi non vede l’ora di umiliare la Chiesa Cattolica. A chi con questo o quell’emendamento mette in discussione il lavoro di chi sta per strada, la fatica dei parroci, delle congregazioni e dei volontari. Ma poi manda i figli alla scuola paritaria. Visto che si va a caccia di soldi dovunque, si devono chiedere dove trovare sei miliardi e mezzo per mandare a scuola un milione e trecentomila studenti delle scuole paritarie. Lo stesso discorso ideologico si sta facendo sull’otto per mille. Chi sa come stanno le cose, sa anche ciò che la Chiesa fa in termini di servizio». Qual è il valore della scuole di ispirazione cattolica nel sistema dell’istruzione? «La libertà educativa è garantita più che in altre. Le persone che le guidano hanno a cuore l’educazione e non la trasmissione di slogan. E pensare che le scuole paritarie siano ridotte a diplomificio è una falsità che serve ad alimentare il pensiero di retroguardia». Roma. È la vittoria della Costituzione sull’«interpretazione» che ne hanno dato i governi. Salvatore Settis, archeologo ed ex direttore della Scuola Normale di Pisa, ora presidente del consiglio scientifico del museo parigino del Louvre, è tra coloro che aspettavano da quindici anni che un giudice affermasse la natura commerciale delle scuole paritarie che abbiano l’obiettivo di perseguire con i propri ricavi il pareggio di bilancio. E anche se la

riforma Berlinguer del 2000 diede pari dignità alle scuole gestite da privati, è alla Carta fondamentale che si richiama per affermare la priorità dell’istruzione statale. Professor Settis, lei è stato tra i firmatari nel 2013 di un appello contro i finanziamenti alla scuola privata ispirato alla Costituzione. Ora la Cassazione dice che le paritarie chiedono una retta, quindi utilizzano modalità commerciali, e per questo non possono essere esenti dall’Ici. Se l’aspettava? «La sentenza fa scalpore perché è in controtendenza con quello che fanno i governi, compresi quelli di centrosinistra. La Costituzione all’articolo 33 parla di scuola pubblica e aggiunge che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione ma “senza oneri per lo Stato”. Invece, negli ultimi anni non è stato così. A partire dalla legge Berlinguer, con un governo di centrosinistra, e poi negli anni c’è stato uno smottamento verso la scuola privata». Lei dice “prima la scuola statale”. Ma la legge riconosce anche le scuole paritarie come pubbliche. «Ma “senza oneri” per lo Stato non può avere un’interpretazione diversa. Purtroppo i contributi di cui le scuole paritarie già godono e i privilegi di natura fiscale si accompagnano a una contestuale riduzione dei finanziamenti per la scuola pubblica. E sarebbero molto più tollerabili se la scuola pubblica venisse salvaguardata, invece non è così. Non dubito che la scuola privata vada difesa, ma la scuola pubblica dovrebbe avere il primato». La Cei dice che gli istituti paritari ricevono contributi per 520 milioni di euro, ma lo Stato risparmia sei miliardi e mezzo. Chi chiede il sostegno alla scuola paritaria lo motiva anche col fatto che con un milione e trecentomila studenti in più le scuole statali avrebbero un costo molto più alto. «La Costituzione dice che l’istruzione è obbligatoria e gratuita. Visto che stanno facendo delle modifiche alla Costituzione, cambino anche questo articolo... Potrei capire di più la posizione di chi difende la scuola privata se desse la giusta priorità alla scuola pubblica che invece viene mortificata da continui tagli. Data la scarsità dei finanziamenti, se si rinuncia a pescare dalla tasse, si taglia da altre parti e non vorrei che ci stessero trascinando verso un sistema di tipo americano». Dove però i costi di un’istruzione di qualità sono molto alti. «Ci sono Paesi come gli Stati Uniti dove le scuole private sono più importanti e la pubblica è un disastro. Quindi, alla scuola privata vanno i ricchi, e non vorrei che l’Italia andasse in questa direzione. Specie in un momento in cui stanno crescendo le disuguaglianze e le nuove povertà di cui parla anche papa Francesco. In una situazione di questo tipo rafforzare la scuola pubblica dovrebbe essere la prima cosa. Poi se la scuola di carattere commerciale può essere aiutata, è lecito». Quindi cosa risponde a chi dice che senza finanziamenti le scuola paritarie chiuderebbero? «Che non stanno facendo i conti con la Costituzione, la difesa dei privilegi in quanto acquisiti è piuttosto debole». AVVENIRE di domenica 26 luglio 2015 Pag 2 “Forse dovremmo chiuderle tutte ora le paritarie…”. Non ne siamo capaci, Non c’è solo Stato o mercato (lettere al direttore) Caro direttore, ci risiamo! Una sentenza della Corte di Cassazione obbliga le scuole paritarie a pagare l’Ici e l’Imu anche se svolgono la loro attività educativa senza trarne alcun lucro. Evidentemente per quei giudici della Cassazione non svolgono alcun servizio pubblico. La mia proposta sarà drastica, ma forse è l’unica che potrebbe portare chi di dovere a più sagge valutazioni: proviamo a chiuderle tutte queste “scuole inutili” e accusate di evasione fiscale, ma proprio tutte, contemporaneamente, e lasciamo allo Stato il compito di arrangiarsi a trovare una soluzione per il milione e passa di scolari e studenti che le frequentano. Vorrei vedere come i partiti e i parlamentari che ragionano solo con (e per) ideologia riusciranno a trovare una soluzione che salvi i conti dello Stato, ma soprattutto la libertà di cui spesso (e solo a senso unico) si riempiono la bocca. Per certi signori la libertà è giusto quella che coincide con il loro modo di pensare! (don Carlo Comi)

Risponde il direttore Marco Tarquinio: Il servizio pubblico svolto dalle scuole paritarie non statali è stato finalmente riconosciuto con la legge Berlinguer, quindici anni fa. Sembra però destinata a restare una chimera la concreta riconoscenza per ciò che esse fanno per centinaia di migliaia di scolari e studenti con enorme vantaggio anche per le casse dello Stato (che risparmia circa 6 miliardi di euro all’anno, grazie a questa “gamba” del sistema di istruzione nazionale) e per garantire la libertà di scelta educativa delle famiglie che nel resto d’Europa è regola largamente e pacificamente riconosciuta. E quando sembra maturare una consapevolezza seria e diversa di questa ingiustizia, caro don Comi, ecco che un qualche evento – ancora una volta una sentenza... – riprecipita il dibattito nella voragine dei luoghi comuni più triti, tristi e deformanti: educazione confessionale, ricche rette, privilegi fiscali, inutilità pubblica della funzione svolta... Capisco, dunque, la sua amarezza. E provo a risponderle con una citazione, anzi un’autocitazione. Più o meno quattro anni fa, era il settembre del 2011, l’allora direttore dell’'Espresso' Bruno Manfellotto mi invitò a scrivere un breve articolo per quel settimanale sulla questione delle tasse da imporre sulle attività educative e socio-assistenziali promosse dalla Chiesa cattolica nelle sue diverse articolazioni. Conclusi quell’articolo, ricordando che “tassare la solidarietà” generata dall’umanesimo concreto e dalla passione civile dei cattolici (come di tutte le altre organizzazioni senza fini di lucro comunque ispirate) era una pretesa insensata e autolesionista. Lo penso più che mai, oggi che la regolazione della materia si è fatta ancora più accurata e le attività “profittevoli”, da chiunque siano promosse, sono senza dubbio alcuno sottoposte a giusto regime fiscale. Ma, ecco il punto, l’ultima considerazione che feci, quattro anni fa, fu appunto sull’idea che lei torna a evocare. La chiusura secca di tutte le scuole paritarie cattoliche. «Chiunque altro – scrissi – risponderebbe con una serrata dimostrativa di almeno sette giorni delle proprie attività». E annotai che una simile botta «l’Italia non se la merita e non se la potrebbe permettere» e che «i cattolici, poi, non sanno neanche come si fa una serrata». Anche di questo sono ancora convinto, caro don Carlo. Ma mi rendo conto altrettanto bene che forti gruppi di interesse (ideologico, certo, ma pure commerciale) non vedono l’ora che le scuole paritarie cattoliche (e non profit) siano “serrate”. Credo che si sogni il momento in cui la libertà scolastica diventerà soprattutto e solo un business, un affare, e non il servizio alla comunità che noi concepiamo. E allora, magari, assisteremo al laico ritorno dei “liberisti” e scopriremo che la scuola paritaria non statale è “progressista”. Già, strangolare l’attuale scuola libera (e per tanta parte, grazie soprattutto ai cattolici, senza fini di lucro) a colpi di indifferenza e di tasse è possibile, purtroppo. E forse ci stanno riuscendo. Ma sono sicuro che, sino all’ultimo, i cattolici impegnati su questo fronte continueranno a fare il bene dei “loro” e nostri ragazzi e del nostro Paese. Anche qui, finché avremo idee, energie e voce, ci saremo. Anche a scuola, soprattutto a scuola, non c’è solo Stato o mercato. Pag 7 “Paritarie, sentenza ideologica e pericolosa” di Gianni Santamaria e Angelo Picariello Galantino: se chiudono libertà limitata. Interviene il governo: chiariremo presto. Le reazioni della politica Roma. «Pericolosa», «ideologica» e «incongrua». Sono gli aggettivi con cui il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino definisce la sentenza della Corte di Cassazione, la quale venerdì ha stabilito che due scuole paritarie livornesi, gestite da ordini religiosi, dovranno pagare gli arretrati Ici/Imu dal 2004 al 2009. Una posizione che trova ampio consenso trasversale in Parlamento, dal quale si alzano parecchie voci per criticare i contenuti del pronunciamento giudiziario (in primo luogo la considerazione di questi istituti come 'a fine di lucro'). In serata dal governo arriva la promessa di un «tavolo di confronto» con tutto il mondo il non profit per arrivare a «un definitivo chiarimento normativo» sul tema, come annuncia il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti. Dichiarazione che segue quella del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, per la quale – pur non intervenendo nel merito della sentenza – c’è «una riflessione da fare». Giannini ricorda come in zone come il Veneto lo Stato avrebbe «enormi difficoltà economiche e strutturali» nel far fronte da solo al servizio. Il vescovo Galantino sottolinea come il rischio concreto è che queste realtà chiudano i battenti, come ha denunciato a caldo il presidente della Fidae, don Francesco Macrì (al quale ieri

si è aggiunto padre Francesco Ciccimarra, presidente dell’Agidae, associazione dei gestori degli istituti dipendenti dall’autorità ecclesiastica). Verrebbe così limitata la libertà educativa, sulla quale «è la stessa Europa che ci chiede garanzie». Un impoverimento per la collettività di cui forse non si calcola la portata. «Chi prende decisioni lo faccia con meno ideologia. Perché ho la netta sensazione – insiste Galantino – che con questo modo di pensare si aspetti l’applauso di qualche parte ideologizzata». C’è, infatti, chi non perde occasione per sollevare la questione Ici/Imu, allo scopo di far passare il concetto che la Chiesa non paghi il dovuto e goda di una sorta di zona franca fiscale. Di un privilegio, insomma. «È venuto il momento di smetterla con i tiri allargati», reagisce il segretario generale della Cei. E di smetterla anche di pensare che sia la Chiesa cattolica ad «affamare l’Italia». Il presule si rivolge alla magistratura e a «chi conosce realtà della Chiesa cattolica che non pagano», invitando a denunciarle subito. Ma il fatto è che non si possono mettere sullo stesso piano una mensa caritatevole e un ristorante di lusso. Il copyright del paragone, ricordato dal vescovo, è del costituzionalista Emanuele Rossi, esperto del governo per il Terzo settore. «Non ci si sta rendendo conto del servizio che svolgono le scuole paritarie», commenta Galantino. È una questione di numeri e parole. I primi - ampiamente noti da tempo, ma che il presule ricorda a beneficio di chi si ostina a non considerarli - parlano di un milione e 300mila studenti e di un risparmio per lo Stato di 6 miliardi e mezzo a fronte di un finanziamento di 520 milioni. Sulle seconde invece si gioca spesso, rubricando il capitolo paritarie alla sola Chiesa: «Non stiamo parlando solo di scuole cattoliche. Impariamo a chiamare le cose con il loro nome, parliamo di scuole pubbliche paritarie». Cosa che «lo stesso ministro Giannini, in maniera illuminata, sta cercando di far percepire». Nel dibattito intervengono anche Simone Giusti, vescovo di Livorno, diocesi dove si trovano le due scuole coinvolte dalla sentenza, il quale ricorda che il servizio svolto dalle paritarie (soprattutto gestite da religiose) è «apprezzato da tutti e ricercato da tutti, senza alcuna distinzione di fede religiosa o di credo politico». E l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, che sottolinea l’«anomalia» e l’«ingiusta penalizzazione» per paritarie e famiglie nel dover chiedere e pagare una retta, rispetto a chi sceglie la scuola statale. Retta che - data la copertura minima dei costi di gestione da parte di Stato ed enti locali - non produce profitti. Roma. «Renzi ci metta la faccia, perché così si mette a rischio la libertà di scelta educativa delle famiglie». Per Beppe Fioroni la sentenza della Cassazione che ha imposto a due scuole cattoliche di Livorno di pagare gli arretrati di Ici/Imu costituisce un precedente molto rischioso. Il deputato del Pd, da ex ministro dell’Istruzione nel secondo governo Prodi, chiede al premier, e segretario del suo partito, di intervenire. Qual è il rischio che lei intravede? Nel corso degli anni i già insufficienti stanziamenti previsti ai tempi in cui ero ministro nel governo Prodi, sono stati ulteriormente tagliati. E questo ha messo in grave difficoltà le scuole cattoliche e non profit che hanno dovuto sopperire con un ulteriore contributo chiesto alle famiglie e spesso con la contribuzione di- retta da parte delle Congregazioni (o comunque degli enti gestori) per coprire le spese. Ora, una sentenza che parifica queste scuole a delle attività commerciali mal si concilia con la scelta dello Stato di riconoscere gli istituti scolastici paritari come elemento fondante del sistema educativo pubblico, e mette a serio rischio la libertà di scelta delle famiglie. Con quali conseguenze? Queste scuole - e parliamo del 40 per cento delle materne, solo per fare un esempio - non sarebbero in grado di fare fronte a un improvviso incremento dei costi o in alternativa graverebbero eccessivamente sulle famiglie. Resisterebbero solo delle scuole per ricchi o i cosiddetti 'diplomifici'. Che fare, allora? Serve un intervento urgente del legislatore a chiarire i dubbi e prevenire la possibilità che i Comuni, nell’esigenza di chiudere i propri bilanci, possano far leva su questa sentenza per tentare di incamerare tali somme. Il ministro Giannini ha detto che si farà una riflessione. Il ministro rifletta, ma il governo non può assistere impassibile alla chiusura di tutte le scuole paritarie. Nel Pd c’è la percezione della gravità della situazione?

Il presidente del Consiglio deve farsi carico di un intervento ampio e risolutivo. Il mio appello va direttamente a lui, perché ci metta la faccia, intraprendendo quella che è innanzitutto una battaglia di democrazia e libertà. Le scuole paritarie non sottraggono risorse alla scuole statali, ma potenziano l’offerta e la libertà di scelta dell’intero sistema scolastico, e ne riducono i costi. Roma. La sentenza della Cassazione «mette a rischio uno dei principi cardine della nostra Costituzione e della nostra convivenza. Se ci sarà la volontà di porvi rimedio i nostri voti non mancheranno», assicura Mariastella Gelmini, vice-capogruppo vicario alla Camera di Forza Italia ed ex ministro dell’Istruzione. Come commenta questa sentenza? La trovo paradossale. Viene inserito l’operato di queste scuole nell’ambito delle attività commerciali per il solo fatto che gli alunni pagano una retta. Il vescovo Galantino ha parlato di sentenza ideologica, e lo condivido. Ma mi permetto di aggiungere che ci vedo dentro anche un pregiudizio e l’ignoranza dei principi fondanti della Costituzione. Quali conseguenze paventa? Oltre a negare in questo modo, in linea di principio, la libertà di scelta educativa delle famiglie, il pagamento dell’Imu comporterebbe un aggravio di costi insostenibile per istituti che già faticano a mantenersi. La Cassazione, fra l’altro, ha anche trascurato il principio che era stato sancito dal ministero dell’Istruzione, d’intesa con quello dell’Economia, in base al quale se la retta non supera il costo medio per studente delle scuole statali, le scuole paritarie sarebbero state escluse dal pagamento di questa imposta. Si ignora, insomma, la funzione svolta da queste scuole e al tempo stesso il risparmio economico che il loro servizio comporta. Come si potrà far fronte a queste accresciute difficoltà? È importante quanto deciso dalla Lombardia, su proposta dell’Assessore Aprea, di mettere in campo misure in grado di fronteggiare con il sistema del buono-scuola aggravi che si dovessero manifestare per gli istituti paritari per effetto di questa sentenza. Ma è soprattutto a livello centrale che bisogna intervenire. Anche perché la sentenza, pur creando un precedente, decide solo sul caso specifico. Se il governo interverrà avrà il vostro sostegno? Quando sono in ballo principi fondamentali in cui abbiamo sempre creduto il nostro sostegno non può mancare e non mancherà. Come è già accaduto, d’altronde, sull’approvazione della 'buona scuola', provvedimento che non abbiamo votato nel suo insieme, ma ciò nonostante abbiamo dato convintamente il nostro voto alla previsione normativa che, al suo interno, istituisce la possibilità di detrazioni a favore della scuola paritaria. Pag 7 Veneto, senza materne cattoliche lo Stato non ce la fa di Francesco Dal Mas Treviso. «Caro sindaco, se mi metti l’Imu ti offro la zuppa di funghi», ha scritto ieri un parroco trevigiano al suo sindaco. La zuppa come una minaccia, ovviamente. «È il clima di queste ore», ammette Stefano Grando, presidente provinciale della Fism, rilevando la preoccupazione delle paritarie dell’infanzia di Treviso e del Veneto. «L’Imu ci ammazzerebbe – mette le mani avanti –perché stiamo uscendo da un’annata in cui il personale delle nostre scuole si è ridotto l’orario ed il 10 per cento degli istituti è dovuto ricorrere alla cassa integrazione». Inimmaginabile lo scenario se, a seguito dell’Imu le paritarie dovessero chiudere in Veneto: per sostituire le 1.141 scuole materne, che accolgono poco meno di 90mila bambini, lo Stato dovrebbe scucire più di mille milioni di euro solo per costruirne altrettante e farsi carico di una spesa gestionale l’anno di circa 500 milioni. «Sono i calcoli, approssimativi per difetto, che abbiamo fatto come Fism», anticipa Stefano Cecchin, del presidente regionale della Federazione, che ieri è stata bombardata di telefonate e mail dopo la sentenza della Cassazione. Non ha difficoltà a riconoscerlo il presidente stesso della Regione Veneto, Luca Zaia, la cui giunta, solo pochi giorni fa, ha deciso di inserire la scuola paritaria d’infanzia nella programmazione per il sistema regionale dell’istruzione, quindi togliendola dall’assistenza, e di erogare velocemente i contributi statali e regionali (25,6 milioni di euro i primi, oltre 28 milioni di eur0 quelli regionali). «In Veneto nidi e materne paritarie accolgono due terzi dei bambini in età compresa tra i 2 e i 6 anni e svolgono pertanto un indispensabile servizio

educativo che integra, e spesso sostituisce, quello reso dallo Stato, a costi decisamente inferiori. Una peculiarità tutta veneta – annota Zaia - che meriterebbe più attenzione ». Ciascuno degli 89.400 bambini accolti nelle paritarie dell’infanzia costa una media di 3mila euro l’anno, ciascun loro coetaneo alle materne statali 5.739 euro, un po’ di meno (5.100) alle comunali. Con una sottrazione e una moltiplica si trova quanto lo Stato pagherebbe in più. Altri due dati da considerare. Più di 9mila sono i dipendenti di questi istituti e nel 51% dei comuni veneti esiste solo la scuola paritaria. Il contributo statale? Quest’anno sarà di 472 milioni di euro. Ne deriva, in sostanza, che per ciascun bambino, in Veneto, lo Stato risparmia 5.240 euro l’anno. È pur vero che la Regione interviene con un contributo di 234 euro a bambino e i comuni con circa 400 euro di media. A fronte di questi costi, le recenti prove Invalsi – ricorda Cecchin con giustificato orgoglio - hanno confermato ancora una volta l’eccellenza del sistema di educazione e scolarizzazione 0-6 anni di questa Regione. La materna di Follina, con santuario mariano caro a molti veneti e friulani, si è trovata, l’anno scorso, nell’urgenza di cambiare la cisterna del gasolio: 50mila euro di spesa. Piuttosto di chiudere il servizio (perché era questa la prospettiva), la fantasia della parrocchia e del Comune ha inventato ogni forma di contribuzione, a partire dal vescovo Corrado Pizziolo per finire con la pizza con 'supplemento' in solidarietà. La materna si è rimessa in sicurezza, ma – racconta Grando – se adesso dovesse pagare l’Imu, quella comunità, ormai stremata, sarebbe costretta a rinunciare. IL GAZZETTINO di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 I diritti e i doveri della Chiesa di Alessandro Campi Se monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, ha definito quella della Cassazione sui due istituti scolastici religiosi di Livorno che dovranno pagare l’imposta sugli immobili, una “sentenza pericolosa”, il tributarista Giuseppe Cipolla in una sua intervista all'Avvenire si è spinto oltre parlando di una “sentenza sconvolgente”. La pericolosità della sentenza, secondo Galantino, oltre che dal merito – non aver tenuto conto del servizio pubblico che svolgono le scuole paritarie, aver considerato attività commerciale e con fini di lucro un servizio che, come mostrano i bilanci, viene erogato strutturalmente in perdita – sembrerebbe dipendere dalla visione ideologica che l'ha ispirata. Quasi che si sia voluto infliggere un ennesimo colpo alla Chiesa, accusata dall'ala laicista della politica e dell'opinione pubblica italiane di godere di troppi privilegi (a partire da quelli fiscali). Il segretario generale della Cei ha anche voluto polemicamente ricordare che le scuole pubbliche paritarie non sono necessariamente scuole cattoliche o religiosamente ispirate. Ma se questo è vero viene anche da chiedersi perché la prima ad alzare il tiro contro il pronunciamento della Suprema Corte sia stata proprio la Cei. E viene anche da chiedersi quanto le battaglie secolari e mondane spesso ingaggiate dai vertici della Chiesa italiana, su questioni che toccano i suoi diretti interessi economici, siano tra le cause, forse addirittura la principale, dei pregiudizi sociali sempre più diffusi nei suoi confronti. Spesso è difficile convincere il prossimo che si battaglia per la difesa di un nobile principio (in questo caso la libertà d'insegnamento) e non per il mantenimento di un trattamento fiscale privilegiato. Se le esenzioni per i luoghi di culto si comprendono, quelle riservate alle attività della Chiesa che implicano movimenti di denaro e potenziali guadagni – si tratti di scuole, di cliniche o strutture ricettive – si giustificano solo con la capacità d'influenza che essa ha avuto sul mondo politico. Un principio elementare di equità impone dunque che si osservino gli obblighi contributivi che tutti i cittadini italiani sono tenuti a rispettare, senza che questo venga denunciati come un attentato al pluralismo. Insomma, anche su questa delicatissima materia il rischio dell'ideologizzazione e della strumentalizzazione non è a senso unico, dalla parte dei laici mossi da rancore e astio verso il mondo cattolico, ma tende a riguardare tutti gli attori in campo. Per evitarlo, l'unica è provare a ragionare sul tema in modo prosaico e pragmatico. La verità è che il riconoscimento del ruolo pubblico delle scuole private (cattoliche o laiche che siano) è un dato ormai acquisito per legge e politicamente è stato condiviso, negli ultimi vent'anni, dai governi di sinistra (Prodi, D'Alema bis) come da quelli di destra (Berlusconi). Tali scuole, anche se l'articolo 33 della Costituzione impone che la loro attività non dovrebbe comportare “oneri per lo Stato”, per il fatto di essere aperte a tutti e di assolvere una finalità sociale oggettiva ricevono da anni sussidi diretti e indiretti, godono di stanziamenti e contributi (magari indirizzati direttamente

alle famiglie degli alunni che le frequentano). E tutto ciò con una spesa per lo Stato nel campo dell'istruzione inferiore di almeno sei miliardi rispetto a quella che quest'ultimo dovrebbe sostenere se il sistema delle paritarie dovesse entrare in crisi. La sussidiarietà, almeno in questo campo, si è rivelata non solo un buon principio, ma un vantaggio economico per il settore pubblico, apprezzabile soprattutto in tempi di tagli ai bilanci. Ma quest'argomento può giustificare il mancato pagamento di imposte e tributi? Non si tratta dunque di mettere in discussione un sistema pubblico dell'istruzione basato sulla sinergia e l'integrazione tra statale e privato che sinora ha dimostrato di funzionare abbastanza bene. I problemi semmai sono altri, quando si parla di scuole paritarie. Ci sarebbe da monitorare con più rigore la qualità degli insegnamenti impartiti in questo tipo di scuole e i livelli di apprendimento conseguiti da chi le frequenta (che molte ricerche, a partire da quelle condotte periodicamente dall'Ocse, ci dicono non essere mediamente altissimi, in ogni caso inferiori a quelli della scuola pubblico-statale), così come andrebbe tenuto maggiorente sotto controllo, e pesantemente sancito, il fenomeno del lavoro sommerso e irregolare, che nel mondo dell'istruzione privata è piuttosto diffuso. Tutto il resto – diamo ragione in chiusura a monsignor Galantino – è ideologia o pregiudizio. Pag 2 I vescovi: no all’Ici sulle scuole cattoliche di Antonio Calitri e Marco Conti La sentenza della Cassazione suscita un mare di polemiche. Il governo prepara un tavolo. Esclusa l’ipotesi di un decreto Il giorno dopo la sentenza della Cassazione che impone a due scuole cattoliche di Livorno di pagare l'Ici (ora Imu), i vescovi alzano la voce contro i giudici di piazza Cavour per il rischio che faccia da apripista a una pioggia di richieste da parte di altre amministrazioni comunali con un danno enorme per le casse delle paritarie. Mentre il ministro dell'istruzione Stefania Giannini ritiene che sia arrivato il momento di riflettere sulla differenza tra scuole pubbliche e paritarie. «Siamo davanti a una sentenza pericolosa» ha attaccato monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, «chi prende decisioni, lo faccia con meno ideologia. Perché ho la netta sensazione che con questo modo di pensare, si aspetti l'applauso di qualche parte ideologizzata. Il fatto è che non ci si sta rendendo conto del servizio che svolgono le scuole pubbliche paritarie». Ci sono 1,3 milioni di studenti nelle scuole paritarie per i quali, secondo Galantino, «a fronte dei 520 milioni che ricevono le scuole paritarie, lo Stato risparmia 6 miliardi e mezzo», sottolineando che «non stiamo parlando solo di scuole cattoliche. Impariamo a chiamare le cose con il loro nome, parliamo di scuole pubbliche paritarie». Per la ministra Giannini c'è «una riflessione da fare». Secondo i giudici, continua, «c'è un trattamento diverso» perché «sono istituzioni diverse». E poi lancia l'allarme portando l'esempio del Veneto, dove «il 67% della educazione infantile e della scuola primaria è coperta dalle scuole paritarie» e senza queste «si troverebbero in enormi difficoltà economiche e strutturali». Intanto la politica si è svegliata sulla vicenda con una pioggia d'interventi, a partire da Beppe Fioroni per il quale «questa storia fa chiudere tutte le scuole che non sono diplomifici, dalle materne alle superiori. Si cancella la libertà di scelta, si trasformano in scuole solo per i ricchi, si genera un danno grave allo Stato». Il deputato Pd chiama in causa l'esecutivo: «Occorre che il governo intervenga subito e sono certo che il presidente del Consiglio Renzi lo farà». Per Ncd, questa sentenza «invece di fare giustizia discrimina pesantemente queste scuole e genera una pericolosa diseguaglianza». Arturo Scotto (Sel) risponde via Twitter dicendo che la sentenza «mette solo fine ad un privilegio dal sapore medievale». In Forza Italia invece mentre Gabriella Giammanco rivendica che la sentenza «dà forza a una battaglia che personalmente porto avanti dalla scorsa legislatura a dispetto di tanta ipocrisia». Mariastella Gelmini, invece, è critica: la sentenza non consente «l'esercizio della libertà di scelta educativa delle famiglie, in ragione di un esagerato egualitarismo che ha anche bloccato l'ascensore sociale». Anche nella Lega Nord mentre il segretario Matteo Salvini su Facebook attacca: «Che la Chiesa si lamenti se fanno pagare l'Imu ai suoi immobili e alle sue scuole, quando ogni giorno qualche vescovo invita ad accogliere immigrati a spese degli italiani, mi pare strano» mentre il governatore Roberto Maroni fa sapere attraverso l'assessore all'istruzione Valentina Aprea che valuterà «l'impatto di questa

sentenza per intervenire eventualmente con misure ad hoc per le scuole religiose paritarie del sistema lombardo e scongiurarne la chiusura». Interventi legislativi urgenti per difendere le scuole paritarie e non statali dall'Ici non sono all'ordine del giorno di palazzo Chigi. E' ovvio, come già sostenuto dal ministro dell'Istruzione Stefania Giannini, che «una riflessione» sia in corso dopo la sentenza della Cassazione. «Faremo un tavolo di confronto per arrivare ad un definitivo chiarimento normativo», annuncia il sottosegretario Claudio De Vincenti. Valutazioni, queste, che Renzi ieri sera ha ispirato pur ritenendo l'allarme della Cei «ingiustificato» e dal sapore preventivo. Per il presidente del Consiglio è infatti eccessivo parlare di «emergenza democratica», come fa Beppe Fioroni, deputato Pd ed ex ministro della Pubblica Istruzione. I casi oggetto della sentenza vanno studiati e per Renzi il rischio di generalizzare, dando per scontato l'arrivo della tassa su tutte le scuole non statali, somiglia molto al tam-tam montato in rete ieri l'altro sulla presunta tassa sui condizionatori. Per Renzi sarà quindi il caldo di questi giorni, o il recente annuncio sulla volontà di alleggerire la pressione fiscale in tre anni, a moltiplicare le ipotesi per possibili nuove accise in grado di vanificare gli sforzi del governo. In attesa di studiare meglio la vicenda livornese, Renzi ricorda ciò che poche settimane fa il suo governo ha fatto per le scuole paritarie: la deducibilità fiscale. La previsione, contenuta nella ”Buona Scuola”, la definisce epocale perché è la prima volta che le scuole non statali possono beneficiare dagli sconti fiscali. E' per questo che ieri a palazzo Chigi si ricordavano le parole che il premier ha pronunciato in tv a fine maggio: «Se c'è la scuola delle suorine, diciamo, che ti fa un servizio pubblico non è che la facciamo chiudere come accaduto negli anni passati. Quella scuola è un risparmio per lo Stato. L'importante è che non ci sia un insegnamento contrario ai valori dello Stato». Al netto della sentenza della Cassazione, la linea del governo non cambia e «la difficoltà interpretativa» sulle «organizzazioni non profit» esenti dal pagamento dell'Ici verranno risolte - promette Renzi - attraverso «il tavolo» promesso dal governo. D'altra parte, come ricorda il sottosegretario Davide Faraone - la presenza delle scuole paritarie è tale che massicce chiusure di istituti - specie nella scuola dell'infanzia - metterebbero in ginocchio la scuola pubblica che non sarebbe in grado di assorbire alunni e costi. L'alzata di scudi della Conferenza episcopale e di una lunga serie di monsignori dimostra ancora una volta che la militanza negli scout non basta a Renzi per ottenere dalle gerarchie il credito ottenuto a scatola chiusa da alcuni suoi predecessori. A differenza di Romano Prodi, Renzi si guarda bene dallo sfidare le gerarchie ecclesiali. Se ne tiene alla larga potendo contare su un cattolicesimo, quello di Papa Francesco, che tiene fermi i principi - compreso quello della libertà educativa - ma non organizza truppe o partiti. A Renzi, che cita frequentemente Giorgio La Pira, suo predecessore a palazzo Vecchio, non interessano le crociate. Ritiene che in questo modo sia più facile inserire nella ”Buona Scuola” la deducibilità delle rette scolastiche così come sia più semplice far passare le unioni civili in Parlamento. E pazienza se sul primo provvedimento ha storto la bocca la sinistra del Pd mentre sul secondo protesteranno «un po'» i monsignori. Pisa - «Le sentenze non si commentano, si applicano. Tuttavia questa riguarda un tema che merita un'ampia e profonda riflessione della politica perché rispetto ai trasferimenti statali le scuole paritarie coprono un'utenza assai maggiore». Un pronunciamento, quello della Cassazione, che però secondo Maria Chiara Carrozza (Pd), ex titolare di Viale Trastevere non risolve fino in fondo il problema: «Da ministro ho potuto constatare l'importanza delle paritarie e la loro funzione in alcune realtà italiane senza la quale lo Stato avrebbe enormi difficoltà a coprire la domanda delle famiglie. Insomma, serve una riflessione vera - dice Carrozza - e non uno scontro ideologico, perché ha ragione la Cei quando afferma che in alcune aree del Paese le scuole cattoliche garantiscono l'accesso all'istruzione laddove lo Stato avrebbe enormi difficoltà a garantirlo». Pag 3 “Famiglie già in difficoltà, non aumenteremo le rette” di Federica Cappellato La responsabile veneta della Fidae Virginia Kaladich: il governatore Zaia e i nostri parlamentari intervengano a difesa di un patrimonio secolare per la formazione

«Mi appello ai politici, in particolare al governatore Luca Zaia, e a tutti i parlamentari del Veneto, affinché non vada perso un prezioso patrimonio di tradizioni secolari nella formazione che hanno dato, e che garantiscono tutt'oggi, un contributo significativo alla formazione integrale di tante generazioni. Il problema è che le scuole cattoliche non vengono considerate risorsa educativa». Anche queste, dovrebbero pagare l’Ici, dopo il pronunciamento della Corte di Cassazione che ha riconosciuto la legittimità della richiesta dell'Ici avanzata nel 2010 dal Comune di Livorno agli istituti scolastici gestiti da enti religiosi. Lo sfogo-appello è di Virginia Kaladich, presidente Fidae Veneto oltre ad essere dirigente dell'Istituto scolastico paritario «Sabinianum» di Monselice e del Seminario minore di Padova e segretaria generale della Fondazione «Girolamo Bortignon» per l'educazione e la scuola. La Federazione istituti di attività educative del Veneto ha una consistente presenza in regione: sono scuole paritarie cattoliche associate Fidae il liceo «Orsoline» di Cortina d'Ampezzo, l'istituto «Agosti» di Belluno, il centro di formazione professionale «Don Bosco» di Padova e, sempre a Padova, il Collegio «Dimesse», l'istituto «Maria Ausiliatrice», il «Vendramini», gli istituti «Barbarigo», «Rogazionisti», «Teresianum», a Rovigo l'istituto «Giacomo Sichirollo», a Mogliano Veneto l'«Astori», a Possagno il «Cavanis - Canova», a Vittorio Veneto l'istituto «Dante Alighieri», a Venezia il «Farina» e il «Berna», il «San Marco» e il «San Francesco di Sales», la scuola «San Domencio Savio» di Oriago, l'istituto «Leone XIII» di Montecchio Maggiore, il «Don Nicola Mazza» di Verona, i «Padri Giuseppini» di Thiene. Insomma alcuni poli scolastici che son di fatto il fior fiore dell'istruzione di casa nostra. Professoressa Kaladich, per sopravvivere, all'orizzonte c'è un aumento delle rette? «Assolutamente no, significherebbe non essere più scuole per tutti e sarebbe una vera ingiustizia. Non è possibile che l'Italia sia fanalino di coda per una scuola libera, e la politica lo deve capire. Le famiglie non vanno penalizzate ulteriormente, questo è certo. Da parte nostra abbiamo fatto tanti appelli a tutti i livelli, locali e nazionali per poter avere la certezza dei finanziamenti. Troppo spesso si dimentica che noi facciamo risparmiare tanti, ma tanti, tanti soldi allo Stato. Ogni studente di scuola secondaria, di primo e secondo grado, costa allo Stato dai 6 agli 8 mila euro all'anno; alla paritaria lo Stato riconosce un contributo, diverso di volta in volta, mai superiore ai 120 euro per ogni ragazzo/anno. Fate voi i calcoli. E non mi si venga a dire che adesso dobbiamo essere ulteriormente penalizzati». Qual è la situazione in Veneto? «Dalla primaria alla secondaria di secondo grado, sono quasi 25mila gli studenti che frequentano le scuole cattoliche. Inoltre ricordo che la scuola cattolica in quanto scuola paritaria è parte del sistema pubblico integrato pertanto scuola pubblica, e sottolineo pubblica. Gli istituti iscritti alla Fidae Veneto sono 144, diffusi capillarmente sul territorio regionale, con una maggiore presenza nelle province di Verona, Treviso e Padova. Tengo a sottolineare che mai un ragazzo da noi viene lasciato a casa per motivi economici: ce ne facciamo carico noi, a trovare aiuti, sostegni, sponsor». Il rischio, all'estremo, potrebbe essere la chiusura? «Speriamo di trovare soluzioni prima di arrivare a scelte drammatiche. Non riesco a pronunciare la parola »chiusura" davanti a scuole presenti sul territorio ancor prima della scuola statale. L'Ici è una spada di Damocle che ci pende sul collo ma pensare ad eventuali chiusure sarebbe una mancanza di rispetto per chi ha fatto la storia del territorio. Ai politici chiedo una presa di coscienza». LA NUOVA di domenica 26 luglio 2015 Pag 7 L’Ici per le paritarie fa infuriare i vescovi. Subito il confronto La protesta della Cei dopo la sentenza della Cassazione. Giannini: “Serve riflessione”. L’esecutivo avvia chiarimento Roma. La pronuncia della Cassazione sulle scuole religiose di Livorno che rischiano di dover pagare l’Ici scatena la durissima protesta della Cei, ma anche la presa di posizione del governo che annuncia, tramite il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti, l’avvio di un «tavolo di confronto» per arrivare «a un definitivo chiarimento normativo». Numerose intanto le reazioni politiche in cui emerge ampiamente, sia nel fronte governativo che nell’area di centrodestra, la preoccupazione

per il futuro degli istituti paritari. La sentenza della Suprema Corte, dice De Vincenti, «sul pagamento dell’Imu da parte delle organizzazioni non profit, previsto da una norma del governo Monti, segnala una difficoltà interpretativa nel caso delle scuole paritarie: apriremo quindi un tavolo di confronto con le organizzazioni non profit, comprese quelle religiose, per arrivare a un definitivo chiarimento normativo a questo riguardo». «La norma del governo Monti, comunque - aggiunge il sottosegretario -, era una norma senza dubbio equilibrata, dal momento che riconduceva il pagamento solo alle componenti di natura commerciale». A nome dei vescovi italiani, è il segretario della Cei, mons. Nunzio Galantino, a parlare di «sentenza pericolosa», «ideologica», che intacca gravemente «la garanzia di libertà di educazione richiesta anche dall’Europa», mettendo fortemente a rischio la «sopravvivenza» delle scuole paritarie. Il numero due della Cei invita chi è chiamato ad adottare decisioni a «essere meno ideologico» e avverte: «non ci si rende conto del servizio che svolgono gli istituti pubblici paritari». Per Galantino si tratta di una sentenza «pericolosa», in quanto ora «si rischia realmente la chiusura di queste scuole». E denuncia «l’ideologizzazione della questione»: «Non è la Chiesa cattolica ad affamare l’Italia. A scegliere le scuole paritarie sono un milione e 300 mila studenti, con grandi risparmi per lo Stato. Mentre gli istituti paritari ricevono contributi per 520 milioni di euro, lo Stato risparmia sei miliardi e mezzo». Sulla questione è intervenuta il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, secondo la quale i giudici dicono che «c’è un trattamento diverso» tra scuole pubbliche e paritarie «perché sono istituzioni diverse». «Penso che forse ci sia una riflessione da fare», dice ricordando che in Regioni come il Veneto, senza paritarie, Stato e Regioni «si troverebbero in enormi difficoltà economiche e strutturali». Della necessità di avviare una riflessione seria su come non mortificare il ruolo che le scuole paritarie svolgono nel nostro sistema d’istruzione, parla anche il sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone, secondo cui «non possiamo fare di tutta l’erba un fascio. Distinguiamo tra le scuole che offrono un servizio pubblico e quelle che hanno scopo di lucro e mettiamo le prime in condizione di operare. Dobbiamo farlo nell’interesse degli studenti». Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 25 luglio 2015 Pag 20 La Cassazione sulle scuole religiose: “No all’esenzione, paghino l’Ici” di Marco Gasperetti Accolto il ricorso di Livorno. La replica degli istituti: un errore, così chiuderemo tutti Livorno. Il conto da pagare al Comune è salato e le suore degli istituti Immacolata e Santo Spirito di Livorno hanno già chiesto una dilazione in «comode rate» per almeno una ventina di anni. Già, perché i 422.178 euro di Ici, dovuti all’amministrazione municipale dal 2004 al 2009, non si possono sborsare tutti in una volta, pena, dicono le religiose, la chiusura delle due scuole paritarie (materne, elementari e medie), ma allo stesso tempo le sentenze della Cassazione devono essere rispettate. E quella appena pubblicata dalla Suprema Corte, la prima su questo argomento, non è soltanto destinata a fare giurisdizione ma anche e soprattutto a rivoluzionare il rapporto tra scuole private, religiose e non, e Terzo settore in generale. La Cassazione ha stabilito che l’eventuale esenzione della tassa è «limitata all’ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione e di culto indicate dalla legge del 1985». Ed in essa «non rientra l’esercizio di attività sanitarie, ricettive o didattiche, salvo non sia dimostrato specificamente che le stesse non siano svolte con modalità non commerciali». Neppure il «non a fine di lucro» può bastare per non pagare «perché anche un imprenditore può operare in perdita». Una sentenza sorprendente? «Certamente incongrua - spiega il professor Emanuele Rossi, ordinario di Diritto costituzionale alla Scuola Superiore di studi universitari Sant’Anna di Pisa e già esperto governativo per il terzo settore - perché analizza soltanto la natura commerciale delle scuole paritarie e non lo scopo educativo, il loro fine no profit, la valenza sociale. È come mettere sullo stesso piano una mensa caritatevole e un ristorante alla moda. Certamente sarà una sentenza che farà giurisdizione e provocherà grossi problemi ad associazioni ed enti no profit, religiosi e laici». Il Comune di Livorno, che ha vinto la causa, è soddisfatto. «Sapevamo sin dall’inizio di essere dalla parte della ragione -

spiega il vice sindaco Stella Sorgente (M5S) - e avevamo chiesto una conciliazione che però è stata rifiutata. I due istituti religiosi avrebbero pagato in tutto 150 mila euro. Le suore si sono rivolte ai loro ordini che non hanno accettato. Peccato». Adesso la sentenza sul caso Livorno potrebbe provocare una reazione a catena. Nel mirino dell’ex Ici, oggi assorbita dall’Imu, ci sono molte delle 13 mila scuole paritarie italiane frequentate ogni anno da un milione di studenti. Preoccupato don Francesco Macrì, presidente della Fidae (Federazione Istituti di attività educative), che parla di una sentenza «che lascia interdetti, perché costringerà le scuole paritarie a chiudere». E altri giudizi negativi arrivano dal mondo politico di estrazione cattolica, ma anche dal volontariato. Giudizi positivi arrivano invece da Mimmo Pantaleo, segretario generale Cgil Scuola: «È una sentenza che finalmente ripristina una condizione di giustizia fiscale - spiega il sindacalista -. Anche una scuola paritaria è infatti un’attività commerciale perché si pagano le rette. Scuole private penalizzate? Assolutamente no, semmai sono state troppo agevolate dall’ultima legge del governo con sgravi e altri benefit». Pag 21 Meno architetti, più ingegneri. L’università si sceglie per il lavoro di Valentina Santarpia Iscrizioni per il nuovo anno Medicina e le professioni sanitarie continuano ad attirare, Ingegneria è in crescita, Chimica industriale e Scienze Biologiche si affermano, Giurisprudenza e Architettura sono in disuso, Scienze sociali e Lettere restano interessanti, ma solo se affiancate da «skills» moderne, come Lingue e Informatica. In un quadro di calo generalizzato delle iscrizioni all’università che sta caratterizzando negli ultimi anni il nostro Paese, fanalino di coda in Europa per laureati (meno del 20% rispetto alla media Ue del 39%), la scelta delle matricole si trasforma: tra test, domande di ammissione e corsi di orientamento, è sempre più finalizzata a trovare la facoltà «giusta» per realizzare le proprie aspirazioni ma costruire anche una carriera solida. Con uno sguardo alla (possibile) futura busta paga. Sì al camice bianco - Per ora i dati ufficiali sono solo quelli relativi ai corsi di laurea a numero chiuso programmato: sono 60.639 gli studenti che tenteranno di entrare a Medicina e Odontoiatria, che offre 9.513 posti. Un dato in calo rispetto ai 64 mila dell’anno scorso e ai 74 mila del 2013, ma pur sempre «enorme», come sottolinea il rettore della Sapienza, Eugenio Gaudio: «Le prospettive delle professioni sanitarie restano comunque superiori a molte altre, con oltre il 90% degli studenti che arriva alla laurea e il 97% che trova lavoro entro 5 anni dalla tesi, come evidenzia il rapporto Almalaurea». Si pensa sempre più al futuro professionale nel decidere dove iscriversi? «Assolutamente sì - insiste Gaudio - lo confermano i nostri incontri di orientamento, dove si registra un calo di Giurisprudenza, un interesse sempre maggiore per Ingegneria informatica e gestionale, Ingegneria dell’informazione, Statistica, Biotecnologie farmaceutiche. Emergono anche curiosità per Scienze storiche e archeologiche, ma perché c’è la sensazione che possano dare sbocchi professionali». Come Psicologia, che resiste: al test della Cattolica di Milano e Brescia, che si è svolto qualche giorno fa, c’erano 801 iscritti per 450 posti. Il fascino di Lettere - Le materie umanistiche perdono terreno definitivamente? «Non è del tutto vero - spiega Barbara Rosina, responsabile dei colloqui di orientamento alla Statale di Milano -. Lettere riveste sempre il suo fascino, ma i ragazzi sono orientati a sceglierla solo se possono affiancare studi ad hoc di informatica, lingue: l’attenzione agli sbocchi professionali è altissima. E infatti da noi emerge l’interesse per i corsi di Management ed Economia». Dando una scorsa veloce ai primissimi dati delle iscrizioni alle prove di selezione alla Bicocca appare lampante: se le Scienze psicosociali della comunicazione hanno finora attirato circa 200 studenti finora per 120 posti, sono già diverse centinaia quelli che hanno prenotato un banco alle prove per entrare nel corso di Marketing, di Economia e amministrazione delle imprese, di Economia delle banche. Sono solo dati provvisori, perché in molti casi i futuri universitari hanno ancora un mese di tempo per iscriversi ai test e almeno tre mesi prima di immatricolarsi. Gli ingegneri di domani - Ma anche laddove il test di accesso non è previsto la direzione emerge: è il caso della Scuola politecnica e delle scienze della Federico II di Napoli, che raccoglie tutti i corsi di laurea nelle materie tecnico-scientifiche. «Il test di

autovalutazione, che gli studenti hanno superato nel 70% dei casi, quest’anno ha avuto un incremento molto molto elevato - sottolinea il direttore Piero Salatino -. C’è sempre più attenzione per Ingegneria e Chimica industriale, mentre Architettura è in calo». E lo dimostrano i dati nazionali, con 10.994 domande rispetto ai 7802 posti a disposizione. Ingegneria invece va forte dappertutto: al Politecnico di Milano le domande al test sono in aumento, ed è in crescita del 40% la quota di studenti stranieri che si iscrive alle lauree magistrali. Le lauree d’élite - Come la Luiss, che infatti ai test di ingresso per le lauree magistrali ha registrato un +27,3% di iscritti, con un aumento record (+40,2%) di domande degli iscritti esterni. «È un boom, è vero, ma è legato al fatto che la Luiss ha manifestato un’identità netta: visione e concretezza, capacità di unire studio di alto livello ed esperienze pratiche tra carceri e aziende agricole - spiega il direttore generale Giovanni Lo Storto -. E poi ci sono i nuovi corsi di laurea, come Marketing e Digital management, per la lettura quantitativa dei fenomeni, di cui le aziende hanno bisogno». Tutta questione di rette profumate da pagare, visto che la Luiss è un’università privata? «No, non credo - dice il rettore della Bocconi, Andrea Sironi -. Anche noi registriamo un +4-5% delle iscrizioni a Ingegneria, un +20% ai corsi di laurea internazionali, ma non è un fatto di élite. Sono in corso due tendenze: una è lo spostamento regionale, con sempre più studenti che decidono di lasciare il Sud, dove gli atenei registrano un calo del 20% delle iscrizioni; e l’altra è lo spostamento disciplinare, che non giudico negativamente: si va verso la qualità, verso corsi che impegnano duramente ma che danno poi risultati concreti, sia da un punto di vista di preparazione che delle possibilità per la collocazione. Così nessuno si iscrive più a Scienze della comunicazione, molti meno a Giurisprudenza, mentre Economia da noi registra il +5%». E chi non può permettersi la retta dai 5.000 euro in su? «Ci sono borse di studio e esenzioni, chi lavora sodo viene premiato. Anche dal mercato». LA REPUBBLICA di sabato 25 luglio 2015 Pag 4 “Le scuole cattoliche paghino l’Ici” di Roberto Petrini e Paolo Rodari La Cassazione dà ragione al comune di Livorno. Primo pronunciamento della Corte sulla materia. Don Francesco Macrì, presidente Fidae: “Sentenza illogica e ingiusta, spinti a chiudere dall’ideologia” Roma. Nessun appello: le scuole religiose devono pagare le tasse sulla casa. La Corte di Cassazione, con due sentenze depositate l'8 luglio, spiega che gli istituti scolastici gestiti da congregazioni e ordini religiosi quando incassano una retta e sono dunque organizzati commercialmente, non possono beneficiare di alcuna esenzione e devono pagare l'Ici. Anche se dimostrano di avere i bilanci in rosso cronico e dunque di non riuscire a realizzare profitti. La sentenza non cita Imu e Tasi, tasse analoghe giunte in un secondo momento, ma potrebbe aprire la strada a nuove richieste dei sindaci a caccia di risorse e a nuovi contenziosi con le scuole religiose. La sentenza della Cassazione, la prima del genere in materia, è stata messa in moto da un contenzioso che va avanti dal 2010 tra il Comune di Livorno e i due istituti «Santo Spirito» e «Immacolata». Il Municipio allora bussò alla porta dei due istituti chiedendo conto del pagamento dell'Ici (ancora non era arrivata l'Imu) per gli anni 2004-2009: furono formulati avvisi di accertamento per «omessa dichiarazione» e «omesso pagamento». Le scuole risposero picche e per due gradi di giudizio hanno avuto ragione: la tesi sostenuta dalla difesa è che l'attività commerciale, condizione che fa scattare il pagamento dell'Ici in base alla legge istitutiva della tassa che risale al 1992, non sussiste perché i due istituti sono in perdita. Si continua dunque ad insegnare agli studenti ma non per lucro. La Cassazione tuttavia non ha accettato questa linea difensiva. Per non pagare l'Ici gli enti religioso, ma anche di altra natura, devono rispettare due condizioni: la prima, che sussisteva, era quella di fare attività didattica (vale anche nei casi di attività di assistenza, sanitaria, previdenziale o sociale); la seconda è che l'attività commerciale, cioè il pagamento di rette, fosse marginale, in altri termini una eventuale esenzione non può essere riconosciuta se l'attività commerciale è esclusiva e dunque si deve sottostare alla tassa sugli immobili. «Si riconosce e si ribadisce che quando c'è il pagamento di una retta e una apposita organizzazione si tratta di attività commerciale», spiega il tributarista Nicola Forte. Per le scuole paritarie e religiose si profila una batosta a cominciare dai due

istituti livornesi che dovranno pagare al Comune 422 mila euro, con le sanzioni. Indignata la reazione del mondo cattolico: «Chiuderemo», si è lamentato don Francesco Macrì, presidente della Fidae (Federazioni istituti attività educative). Il 63 per cento dei 13 mila istituti paritari è infatti gestito dalle congregazioni cattoliche che da oggi entrano a pieno titolo nel mirino degli uffici tributari dei Comuni. La sentenza della Cassazione non riguarda la vecchia questione degli alberghi o delle foresterie spacciate per luoghi di culto per la presenza di una cappella o di una piccola chiesa di pertinenza. Il problema stavolta era limitato alla questione se una attività in perdita poteva essere considera commerciale o meno. Dall'introduzione dell'Imu da parte del governo Monti nel 2012 (regime assunto anche dalla Tasi) infatti, dopo le pressioni di Bruxelles (scaturite da una iniziativa dei radicali Turco e Pontesilli), fu sgombrato ogni dubbio: non si paga la tassa sull'immobile solo se l'attività al quale è destinato non è commerciale e non più se l'attività commerciale è semplicemente marginale. In ogni caso, nelle situazioni miste, viene esentata la parte relativa al culto e si paga su quella commerciale. La sentenza è stata accolta con preoccupazione dalla schieramento cattolico che attraversa tutte le forse politiche. «Le scuole paritarie svolgono un servizio pubblico e ora sono a rischio», ha dichiarato Edoardo Patriarca (Pd). «La sentenza lascia interdetti», per Elena Centemero di Forza Italia. Città del Vaticano. «La legge 62 del 2000 ha riconosciuto senza possibilità di equivoci che le scuole paritarie hanno una funzione pubblica. Riconoscere oggi la legittimità della richiesta del pagamento dell'Ici agli istituti religiosi va contro questa legge e, insieme, contro i diritti dei cittadini italiani che, unici in Europa, pagano più di quanto sarebbe lecito queste scuole per i propri figli. Equiparare, infatti, la scuola paritaria ad una qualsiasi altra attività commerciale è illogico oltre che illecito». Don Francesco Macrì, presidente nazionale della Fidae, Federazione Istituti di attività educative, giudica «profondamente ingiusta» la sentenza della Corte di Cassazione che risponde affermativamente a una richiesta del Comune di Livorno che nel 2010 chiese agli istituti scolastici del territorio gestiti da enti religiosi il pagamento dell'Ici in riferimento agli anni dal 2004 al 2009. E, insieme, si domanda «come sia possibile che soltanto in Italia non si riconosca la funzione pubblica nell' interesse del bene comune, svolta dalle scuole paritarie: avanti di questo passo non potremo fare altro che chiudere». Per quale motivo a suo avviso non è giusto equiparare le scuole paritarie alle attività commerciali? «Le scuole paritarie in quanto non finanziate dallo Stato sono costrette a chiedere alle famiglie un contributo economico per la iscrizione e frequenza dei loro figli; Ma si tratta di un contributo inferiore agli effettivi costi di gestione e larghissimamente inferiore a quelli delle scuole statali, come è possibile verificare attraverso gli stessi documenti pubblicati dal MIUR. C'è in effetti un passaggio di denaro dalle famiglie alle scuole ma con tutta evidenza é un passaggio che non produce affatto utili. Le scuole paritarie cattoliche sono per definizione enti senza finalità di lucro. Si sorreggono anche grazie a tanti volontari, religiosi, che vi lavorano con abnegazione e spirito di sacrificio e a titolo gratuito». In che senso le scuole paritarie svolgono una funzione pubblica? «Le scuole paritarie sono soggetti di diritto civile riconosciuti dal MIUR. Sono tenuti a rispettare le norme generali e gli ordinamenti dello Stato, sono tenuti ad accogliere tutti e rilasciano titoli equipollenti a quelli rilasciati dalle scuole statali. La loro finalità statutaria è quella dell'istruzione ed educazione al pari della scuola statale. La legge n. 62 del 2000 definendole paritarie le ha inserite a pieno titolo come parte costitutiva e integrante dell' unico sistema nazionale di istruzione e formazione. Quindi ha assegnato loro piena legittimità a svolgere la loro funzione pubblica. Funzione i cui costi, ripeto, sono molto inferiori ai costi medi di un alunno statale che si aggira intorno ai 7000 euro annui. Questa sentenza non tiene conto del fatto che assoggettandole a pagare l'Ici, cioè ad avere ulteriori aggravi di gestione, sono colpite non solo le scuole ma le stesse famiglie che si avvalgono del loro servizio lievitato nei costi». Altrove non avviene in questo modo? «Come ho spiegato anche alla Radio vaticana, in Europa le scuole paritarie vengono sostenute in tutti i modi, sotto il profilo legislativo, sotto il profilo economico, sotto il

profilo fiscale. Mentre in Italia, per ragioni prevalentemente di natura ideologica vengono discriminate e spinte a chiudere la loro attività». AVVENIRE di sabato 25 luglio 2015 Pag 11 Ici sulle paritarie, si apre un caso di Chiara Domenici e Umberto Folena Cassazione: a Livorno paghino gli arretrati. La replica: chiudiamo. Giuseppe Cipolla: “Principio sconvolgente, sentenza rivolta al passato e non vincolante” Livorno. Una sentenza della Corte di Cassazione ha stabilito che due scuole cattoliche livornesi, l’Istituto Immacolata (suore Mantellate) e il Santo Spirito (Salesiane) dovranno pagare gli arretrati di Ici/Imu per gli anni dal 2004 al 2009. Un provvedimento destinato a far discutere. La vicenda si apre nel 2010, a seguito della notifica da parte dell’ufficio tributi comunale di avvisi di accertamento per «omessa dichiarazione e omesso pagamento dell’Ici» sugli immobili in cui da anni le suore gestiscono la scuola dell’infanzia e il ciclo delle primarie, per un totale di circa 300 alunni per ciascuna struttura. Il Comune successivamente ricorre al tribunale. Nella prima sentenza i giudici danno ragione al Comune di Livorno, ma le Congregazioni non ci stanno, anche perché pagare quella somma di arretrati significherebbe mettere a rischio l’esistenza della stessa scuola e così decidono di ricorrere in appello. E sembrano aver ragione, perché la commissione regionale tributaria, in secondo grado considera irrilevante lo 'scopo di lucro', in quanto le scuole paritarie operano in regime di perdita e la conduzione dell’attività è tale da «non produrre reddito». Ieri la Cassazione ha ribaltato questa sentenza, facendo valere il cosiddetto principio presuntivo: c’è una retta mensile che entra nelle casse dell’Istituto e per tanto la scuola ha «attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi». Tradotto con la nota diffusa dal Comune di Livorno, «poiché gli utenti della scuola paritaria pagano un corrispettivo per la frequenza, tale attività è di carattere com- merciale, senza che a ciò osti la gestione in perdita». A seguito di questa sentenza, fanno sapere dal Comune, saranno notificati alle scuole anche gli importi dovuti per le annualità 2010 e 2011, imponibili a fine Ici. Il pronunciamento da parte della Corte di Cassazione è il primo in Italia su questo tema specifico. Immediate le reazioni del mondo politico e istituzionale, ma anche dell’associazionismo. «Sono sentenze che lasciano interdetti, perché costringeranno le scuole paritarie a chiudere» dichiara senza mezzi termini don Francesco Macrì, presidente della Fidae (Federazione Istituti di attività educative), a Radio Vaticana. Dello stesso avviso Edoardo Patriarca. «La sentenza della Cassazione – sottolinea il deputato Pd – rischia di mandare all’aria non pochi istituti. Questi istituti vengono assimilati a realtà commerciali, ma in realtà svolgono un servizio pienamente pubblico, spesso laddove lo Stato non riesce ad arrivare». Patriarca poi continua: «Rispettiamo la legge, ma evitiamo che chiudano istituti, che migliaia di persone rimangano senza lavoro e che si perda un patrimonio culturale». «Se le scuole paritarie devono pagare l’Imu – paventa Gabriele Toccafondi, sottosegretario al Miur – molte aumenteranno le rette o chiuderanno. Lo Stato, di conseguenza, dovrà trovare nuove risorse per costruire nuove scuole e gestirle e la parità scolastica non solo sarà minima nel nostro Paese, ma proprio scomparirà. Rispetto le sentenze, ma questo non vuol dire che, conoscendo la situazione dei conti di queste scuole, non si arrivi a delle conclusioni che mi paiono logiche ». «Una sentenza sconvolgente, che guarda al passato». Non usa i mezzi termini Giuseppe Cipolla, ordinario di Diritto tributario all’Università di Cassino e Lazio Meridionale. Ma subito avverte: «Nel nostro sistema giudiziario, una sentenza non costituisce un precedente vincolante». Perché 'sconvolgente'? È davvero così assurda la sentenza della Cassazione che ha dato ragione al Comune di Livorno? La Corte ha deliberato su due questioni: se l’imposta dal 2004 al 2009 fosse dovuta, e in caso affermativo se fosse dovuta la sanzione. Direi che è due volte sconvolgente. In effetti eravamo convinti che un istituto scolastico, per la sua finalità educativa, e in presenza di perdita o pareggio di bilancio che escludessero il fine di lucro, non dovesse pagare... Il principio sconvolgente della Cassazione è proprio questo. Il bilancio in perdita è irrilevante, la finalità educativa e sociale pure. Basta che ci sia un qualsiasi corrispettivo,

insomma un pagamento, un passaggio di denaro, e quella va considerata attività commerciale. Anche se a mala pena copro le spese? Anche se svolgo un servizio pubblico, pur non statale? Anche. Per la Cassazione c’è lucro oggettivo. Non le interessa se la scuola riesce a coprire i costi di produzione e l’eventuale chiusura in perdita è elemento irrilevante. Un’attività didattica, in presenza di corrispettivo economico (le rette pagate dalle famiglie per i loro figli), è attività imponibile. A prescindere da ogni altra considerazione. Ci faccia capire. Se ci fossero altri ricorsi e altre sentenze analoghe, finirebbero per dover pagare non solo le attività didattiche, ma anche quelle sanitarie, sportive, culturali... Cattoliche e laiche. Un massacro. Appunto. La sentenza ha una portata dirompente ed è assai pericolosa. Se l’unico elemento dirimente per applicare l’imposta è il corrispettivo, a prescindere dalla finalità, secondo questa logica assurda dovrebbero pagare tutti. Anche chi oggettivamente non è in grado di pagare. Si profila la chiusura a tappeto di scuole, circoli culturali e ricreativi, cliniche, sedi di sindacati di ogni orientamento e colore. Anche se a pagare sono i soci... Se tutti si dovessero adeguare a questa doppia sentenza sconvolgente, sì. Lei ha detto che la sentenza è due volte sconvolgente. Qual è il secondo motivo? Ammesso che l’imposta sia dovuta, e per me non lo è, perché far pagare la sanzione? Saremmo comunque in condizioni di incertezza della norma. Ci aiuti a ricordare: la norma è l’articolo 7, comma 1, del decreto legislativo 504 del 1992... Che ha subito vari interventi, soprattutto per precisare il criterio di ciò che va considerato 'commerciale'. Tra il 2012 e il 2014 ha subito una modifica all’anno. E allora: intanto la questione affonda nella 'preistoria', gli anni dal 2004 al 2009, poi la norma è sempre stata applicata in altro modo. Perché poi le sanzioni? E adesso? Non siamo negli Usa. Nel nostro sistema giuridico, un precedente non vincola il giudice. Non è però un precedente pericoloso? Non ce lo auguriamo, ma se ad altri istituti fosse chiesto di pagare, io suggerirei di resistere fino al giudizio. In altri casi la stessa Corte di Cassazione ha rinnegato giudizi emessi in precedenza. Credo che il buon senso alla fine non possa non prevalere. IL GAZZETTINO di sabato 25 luglio 2015 Pag 6 “Anche le scuole religiose dovranno pagare l’Imu” Per i giudici non si tratta di attività che possono godere dell’esenzione. Sconcerto nel mondo cattolico: “Saremo costretti ad aumentare le rette. Insensato, rischiamo di dover chiudere”. Un milione di ragazzi in 13mila paritarie Livorno - La legge, secondo la Cassazione, è chiara: anche le scuole religiose devono pagare l'Imu poiché non sono attività che possono godere dell'esenzione. Quella della quinta sezione civile della Cassazione, che ha accolto un ricorso del Comune di Livorno, è la prima sentenza del genere in Italia su una questione controversa. Una decisione che ha provocato allarme nel mondo cattolico, fino a prospettare la chiusura delle scuole paritarie. L'esenzione, spiega la Cassazione, è infatti «limitata all'ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione e di culto» indicate dalla legge del 1985. Ed in esse «non rientra l'esercizio di attività sanitarie, ricettive o didattiche, salvo non sia dimostrato specificamente che le stesse non siano svolte con modalità non commerciali». La linea tenuta dalle scuole paritarie è quella di provvedere ad un servizio, ma ciò alla Cassazione non basta. Come non basta il fatto che tali strutture possano operare in perdita: «Questione priva di fondamento, perché anche un imprenditore può operare in perdita». Ed il giudice di primo grado, cioé la commissione tributaria Toscana, sbaglia - secondo i giudici della Cassazione - a ritenere irrilevante ai fini Imu il corrispettivo pagato dagli utenti delle scuole paritarie, poiché esso «è un fatto rivelatore dell'esercizio dell'attività con modalità commerciali». C'è stata una sola 'finestra', aperta dal decreto legge della fine del 2005, che 'salvava' dall'Imu le attività eventualmente commerciali. Ma, ricorda la Cassazione, ha avuto vita breve, fino al luglio 2006, poiché il provvedimento era «sospettato, non senza

fondamento, di essere in conflitto con la normativa comunitaria sugli aiuti di Stato e con le regole della concorrenza». Il ricorso del Comune di Livorno, che secondo la federazione toscana delle scuole materne sarebbe stato animato da «pervicacia persecutoria», riguarda due istituti, uno gestito dalle Suore Mantellate Serve di Maria e l'altro dalle Salesiane di Don Bosco, e risale al 2010. Ma è tutto è l'intero sistema delle paritarie che si sente in pericolo e la preoccupazione è bipartisan. Così se il sottosegretario Gabriele Toccafondi (Ncd) prevede che tra le scuole gestite da religiosi «molte aumenteranno le rette o chiuderanno» e sottolinea che «le scuole pubbliche statali non pagano questa tassa ed è giusto che lo stesso valga anche per le scuole pubbliche non statali», è il Pd Edoardo Patriarca a segnalare che «questi istituti vengono assimilati a realtà commerciali, ma in realtà svolgono un servizio pienamente pubblico, laddove lo Stato non riesce ad arrivare». Per entrambi, però, la sentenza sarà comunque da rispettare. Roma - «Sono sentenze che lasciano interdetti, perché costringeranno le scuole paritarie a chiudere». Così don Francesco Macrì, presidente Fidae (Federazione Istituti di attività educative), reagisce su Radio Vaticana alla sentenza della Cassazione. «Sono scuole che hanno già dei bilanci profondamente in rosso - sottolinea don Macrì - scuole che allo Stato costano quasi nulla, pur garantendo un servizio equiparabile a quello statale. Di fronte a queste sentenze insensate, si rimane senza parole». In Italia, «le istituzioni non riconoscono il servizio nella direzione del bene comune, svolto da queste scuole. A differenza di quanto capita in Europa, dove le scuole paritarie vengono sostenute in tutti i modi, in Italia vengono continuamente penalizzate, quindi costrette a sparire. E sparendo, sparisce una dimensione importante della struttura organizzativa, educativa dell’Italia». Roma - Circa un milione di studenti in oltre 13 mila scuole in tutta Italia; tra queste sono cattoliche il 63%. Sono soprattutto i più piccoli a frequentare una scuola non statale: sono infatti quasi 10 mila gli asili, il 71% della complessiva galassia delle paritarie. Se fino alla scuola media gli istituti cattolici sono la maggioranza, alle superiori la percentuale si ribalta e prevalgono le scuole di matrice laica. Sono questi i numeri di quella fetta del panorama scolastico italiano che si regge su contributi pubblici ma in gran parte sulle rette pagate dalle stesse famiglie degli studenti. E sono questi istituti che potrebbero essere toccati dalla sentenza della Cassazione. Oltre alle scuole paritarie, in Italia ci sono anche gli istituti privati che non hanno questo riconoscimento e che dunque non possono rilasciare attestati o diplomi validi. L'unica via per gli alunni che frequentano queste scuole è quella di presentarsi agli esami pubblici da 'privatisti'. La scuola paritaria invece è inserita a tutti gli effetti nel sistema nazionale di istruzione e garantisce l'equiparazione dei diritti e dei doveri degli studenti, le medesime modalità di svolgimento degli esami di Stato, l'assolvimento dell'obbligo di istruzione, l'abilitazione a rilasciare titoli di studio aventi valore legale. In altri termini le scuole paritarie svolgono un servizio pubblico. Le scuole paritarie attive nell'anno scolastico 2013/2014 erano 13.625, il 71,8% dell'infanzia, l'11% della primaria, il 5% della secondaria di primo grado, il 12,3% della secondaria di secondo grado. Mentre per i primi cicli di istruzione (asili, elementari e medie) c'è una netta prevalenza di istituti che fanno riferimento a ordini religiosi cattolici, dai Gesuiti alle Orsoline, per la scuola secondaria di secondo grado, quelle che comunemente si chiamano le 'superiori', il rapporto si ribalta. Su 1.710 istituti, 656 sono cattolici e 1.054 rispondono genericamente alla classificazione 'altre scuole'. E dunque gli istituti laici in questa fascia di istruzione superano il 60% del totale. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 13 Da mercoledì riapre la “mensa d’agosto” di m.a. Casa dell’Ospitalità in via S. Maria dei Battuti: previsti due turni e 150 persone bisognose al giorno. Appello per avere alimentari e soldi

Ritorna la mensa ai Battuti. Anche quest’anno, a partire da mercoledì e fino a domenica 6 settembre, grazie ad un consolidata collaborazione con la Caritas diocesana e un sostegno di 10.000 euro dell’amministrazione comunale, nella Casa dell’ospitalità di via Santa Maria dei Battuti funzionerà la mensa per le persone bisognose. La Fondazione di partecipazione Casa dell’ospitalità si è impegnata a preparare un pasto completo e a servirlo ai tavoli in due turni (alle 11.30 e alle 12.30) potendo contare su un congruo numero di ospiti che, con gli operatori, si turnano in cucina e in sala. Per poter realizzare questo servizio nel modo più adeguato la Casa dell’ospitalità lancia un appello a quanti vogliano dare una mano, nella previsione di avere 150 utenti al giorno. «In particolare abbiamo bisogno di generi alimentari: riso, scatole di tonno, uova, carne e pesce, qualche salame, formaggio, patate e verdure, meloni e angurie, tovaglioli piatti e bicchieri di plastica o carta», spiegano. Le consegne sono possibili nella sede di via Santa Maria dei Battuti 1/d, dalle 8.30 alle 11 e a partire dalle 13. È possibile effettuare versamenti in denaro direttamente o con bonifico bancario al conto Iban IT 14 X 03069 02117 100000007207 con la specifica “sostegno mensa d’agosto”. «La disponibilità a condividere un posto a tavola e regalare un po’ di tempo per dar vita a relazioni», spiegano dalla Casa dell’ospitalità, «sono l’apporto più prezioso perché rende meno pesanti le crescenti forme di solitudine. In questo caso si può segnalare la propria disponibilità parlando con gli operatori». LA NUOVA di domenica 26 luglio 2015 Pag 20 “Basta bivacchi sui sagrati delle chiese” di Alessandro Abbadir Degrado urbano, proteste a Marghera. Davanti a Sant’Antonio e San Michele sistemazioni di fortuna di sbandati, spesso ubriachi, e odori insopportabili Le chiese di Marghera diventano il bivacco abituale dei senzatetto. Questa la situazione di pesante degrado che si registra davanti all’edificio sacro intitolato a San Michele Arcangelo a ridosso di via Fratelli Bandiera e soprattutto davanti a quello di Sant’Antonio, a pochi passi dal municipio. Qui, sul porticato della chiesa, i senzatetto sono 4-5 e bivaccano giorno e notte: di giorno per stare all’ombra in questi giorni di afa insopportabile e per mangiare, di notte per dormire. Giacigli di barboni ci sono anche davanti all’entrata della chiesa. «È una situazione insostenibile», dicono tanti residenti e commercianti del centro, «con questo caldo la puzza è insopportabile. Queste persone, spesso ubriache, fanno i loro bisogni nel porticato. C’è immondizia dappertutto. Si tratta di scene di assoluto degrado a cui speriamo qualcuno voglia porre rimedio. Abbiamo segnalato la situazione alla Municipalità di Marghera e alle forze dell’ordine, ma finora nessuno è intervenuto. Sarebbe opportuno che anche l’ufficio igiene del Comune facesse un’ispezione perché la situazione è a rischio». Dalla parrocchia non arrivano commenti ufficiali e neanche spiegazioni sul fatto che le grate promesse non sono state collocate, si fa capire però che la paura non è solo per il degrado ma per quello che può succedere ai senzatetto. Lo scorso febbraio, infatti, una coppia di senzatetto che viveva sotto i porticati della chiesa di Sant’ Antonio, fu malmenata da una gang di ragazzini, poi fermati e denunciati dalle forze dell’ordine. Anche nell’area di San Michele Arcangelo la situazione è pesante. «Ogni sera», spiega Gianluca Agostini dell’ex delegazione di zona di Marghera centro, «ci sono decine di sbandati che fanno bagordi davanti al sagrato della chiesa, dove dormono: si ubriacano e gettano bottiglie dappertutto. Ci sono poi tanti tossicodipendenti e anche prostitute con i camper e sulla strada in via Fratelli Bandiera, che consumano le loro prestazioni nelle aree residenziali. Quando finirà tutto questo degrado? Non sarebbe ora che il sindaco Luigi Brugnaro venisse a fare un giro anche in queste zone della città lasciate a se stesse?». Sulla questione degrado interviene la Municipalità di Marghera con il vicepresidente Bruno Polesel: «Sono a conoscenza», dice, «del grande degrado che c’è a ridosso delle chiese di Marghera. Un degrado che da tempo denunciamo e che non può continuare, visto che potrebbero crearsi con la presenza costante dei senzatetto problemi di ordine pubblico e di igiene pubblica. Ho discusso con la parrocchia la questione dell’apposizione della grata anti intrusione, ma pare che ci siano sia problemi di costi che di convinzione, cioè forse un ripensamento da parte del sacerdote che pare non ritenere più l’intervento urgente così come sembrava a febbraio».

Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 10 Veneto, droga nelle mani degli stranieri di Giuseppe Pietrobelli Sei persone su dieci denunciate per traffico provengono dall’estero, il 63% in più della media nazionale Stranieri e spacciatori. Il binomio, più che il frutto di pregiudizi a sfondo razziale, è il risultato statistico che emerge dalla relazione annuale 2014 preparata dalla Direzione Centrale dei Servizi Antidroga, diretta dal generale dei carabinieri Sabino Cavaliere. Ciò vale per il Veneto, dove gli stranieri solo il 59,31% dei denunciati, a fronte del 35,91% della media nazionale. Uno scarto di 23 punti, equivalente al 63 per cento in più rispetto al resto dell’Italia che dimostra come, almeno nel tessuto criminale regionale, sei spacciatori su dieci siano provenienti dall’estero. La relazione disegna un quadro a tinte fosche. OPERAZIONI ANTIDROGA. In Veneto sono state 1.345 nel 2014, con una diminuzione del 7.62% rispetto al 2013. Durante l’ultimo decennio il valore più alto si è avuto nel 2012 con 1526 operazioni. E il 2014 si colloca soltanto al sesto posto nel decennio. PIÙ SEQUESTRI. Ma aumentano le quantità di stupefacenti sequestrate dalle forze di polizia. Soltanto la cocaina (61 chilogrammi) è in calo del 21% rispetto all’anno precedente. In crescita tutte le altre droghe intercettate: 141 chili di eroina (aumento del 58%), 388 chili di hashish (crescita del 64,8%) e più di una tonnellata di marijuana (crescita del 53.8%). DENUNCIATI E ARRESTATI. In totale nel 2014 sono state segnalate all’autorità giudiziaria, in Veneto, 1.686 persone per motivi di droga (1.658 per traffico illecito, 28 per associazione finalizzata allo spaccio). La flessione rispetto al 2013 è del 17,7%. Entrando nel dettaglio, gli italiani sono stati 686, gli stranieri 1.000. I maggiorenni 1.610, i minorenni 76. Gli uomini sono stati 1.566, le femmine 120. STRANIERI IN PRIMA LINEA. La relazione sottolinea il dato che riguarda i cittadini stranieri. «I mille stranieri coinvolti nel narcotraffico corrispondono al 9,45% dei segnalati a livello nazionale; dato significativo è che in questa regione gli stranieri sono il 59,3% dei denunciati, a fronte del 35,9% della media nazionale». In Veneto, quindi, il mercato dello spaccio è controllato più che in altre realtà italiane dagli stranieri. AFRICANI E ALBANESI. «Le nazionalità prevalenti sono quella tunisina, nigeriana e marocchina» è scritto nella relazione della direzione antidroga. I dati indicano, infatti, che i tunisini denunciati o arrestati sono stati 272, i nigeriani 208, i marocchini 197. Le nazionalità europee più rappresentate sono quella albanese (119 persone) e romena (26). Le altre nazionalità in totale raggiungono le 178 unità. Il numero percentuale degli stranieri rispetto agli italiani è molto alto, ma il valore assoluto, nell’arco del decennio, è stato più alto in passato. Gli stranieri denunciati nel 2009 furono 1.340, nel 2011 sono stati 1.229 e nel 2013 hanno raggiunto le 1.141 unità. SI MUORE ANCORA. Di droga si muore ancora. Nel 2014, in Veneto, i decessi riconducibili all’uso di sostanze stupefacenti sono stati 26, pari all’8,25% del totale nazionale. La triste classifica è condotta dalla provincia di Vicenza dove i morti sono stati 10, mentre a Rovigo non ve n’è stato alcuno. Negli ultimi anni il picco delle morti per droga risale al 2005 e al 2007 quando raggiunsero rispettivamente le 53 e le 49 unità. VENEZIA E PADOVA CAPOFILA. Ma c’è anche una classifica delle provincie a maggior tasso di spaccio. Per quanto riguarda la quantità di stupefacenti sequestrati, nel 2014 troviamo al primo posto Treviso con 520 chili, ma grazie a 500 chili di marijuana. Seguono Venezia con 452 chili (di cui 30 di cocaina), Verona con 345 chili (54 di eroina) e Padova con 296 chili (63 chili di eroina). Il numero delle segnalazioni all’autorità giudiziaria colloca decisamente in testa Padova, con 616 persone, di cui 440 stranieri. Segue Venezia con 321 denunce, 170 riguardanti stranieri. In terza posizione Verona con 284 persone, al quarto vicenza con 213. A Treviso soltanto - si fa per dire - 168 denunce. CORRIERE DEL VENETO di sabato 25 luglio 2015

Pag 1 Sviluppo senza regia di Sandro Mangiaterra Innovazione veneta Il Vega che sfratta Veneto Nanotech. Un atto simbolico quanto nessun altro. Pessimo epilogo di una bruttissima storia. La Caporetto dell’innovazione. È vero che all’ultimo momento è stato trovato un accordo per rinviare a ottobre il trasloco (dove?) dei macchinari, ma la questione di fondo non cambia. Il Vega, Parco scientifico tecnologico di Venezia, in concordato dall’agosto 2014, vanta due anni e mezzo di affitti arretrati (1,5 milioni, non uno scherzo) nei confronti di Veneto Nanotech, a sua volta in concordato preventivo dallo scorso giugno. Visto che le lettere di sollecito non hanno sortito effetto, si è passati alle vie legali. Una guerra tra poveri come tante altre in questi tempi di crisi, se non fosse per un particolare: di mezzo c’è la tanto decantata innovazione, il motore del nuovo modello di sviluppo del Nordest, la carta vincente nella competizione globale e, perché no, l’asset intorno al quale fare ripartire l’occupazione, specie quella giovanile. Purtroppo, si sa, un conto sono i bei discorsi da convegno, un altro la realtà. Fatta di mancanza di visione strategica e di risorse finanziarie sempre più scarse. Il Vega di Porto Marghera, con una compagine societaria lunga un chilometro che va dal Comune e dalla Provincia di Venezia, a istituti di credito, associazioni, imprese pubbliche e private, era sprofondato, anche per il sovrappeso di improprie partite immobiliari, sotto un passivo di 13 milioni accumulati in sei anni. Ora sta tentando la risalita sul piano economico. Da qui la decisione di fare qualsiasi mossa per riscuotere gli affitti e la scelta di mettere in vendita gli stessi edifici che ospitano Veneto Nanotech. Quanto a Veneto Nanotech, controllata dalla Regione per il 76,6 per cento (il resto delle quote è diviso tra un nutrito numero di enti pubblici, associazioni di categoria, università), si tratta di un istituto di assoluta eccellenza. Di sicuro nel 2003, anno di fondazione, ben pochi sapevano che cosa fossero le nanotecnologie. Peccato che le perdite siano arrivate a 3,5 milioni, fino alla messa in liquidazione. Per il salvataggio in extremis pare interessata Ca’ Foscari. C’è comunque il rischio concreto di disperdere un know-how di prim’ordine. È evidente che Luca Zaia e Roberto Marcato, neoassessore allo Sviluppo economico, hanno un’urgenza: ripensare completamente il sistema di sostegno all’innovazione. Non è solo questione di evitare ulteriori vittime. Il punto è mettere in campo un’idea di politica dello sviluppo. Perché se l’obiettivo è costruire (finalmente) un rapporto virtuoso tra industria e università, se si vuole davvero alzare il valore aggiunto del made in Veneto e aumentare il livello di competitività-attrattività del territorio, sono necessari programmi di largo respiro. In sostanza, occorre un salto di qualità. Sia chiaro, tutti sono chiamati a fare la propria parte. T2i, società nata dalla fusione fra Treviso Tecnologia e Polesine Innovazione, nella quale di recente è confluita pure Verona Innovazione, ex azienda speciale della Camera di commercio scaligera, si candida a giocare un ruolo di primo piano? Ben venga. Anche e soprattutto sul terreno dell’innovazione, tuttavia, occorre una cabina di regia regionale. In particolare per imboccare l’unica strada in grado di dare efficienza ed efficacia al sistema: la strada delle aggregazioni. Nessuno pretende che a Nordest nasca un Fraunhofer, propulsore della locomotiva tedesca. Il Veneto, però, merita qualcosa di meglio della frammentazione attuale: il Corriere Innovazione ha contato in regione cinquanta fra centri di ricerca, parchi scientifici, acceleratori d’impresa ed enti di varia natura. Sovrapposizioni e sprechi sono sotto gli occhi di tutti. L’innovazione non sopporta le logiche di spartizione e di campanile. Pag 8 Padova e il nuovo vescovo, la mitezza per cambiare il vento del Nordest di Giandomenico Cortese Lo stupore come pastorale dell’avvenimento. Sembra di riascoltare Albino Luciani, quando era Patriarca a Venezia, e dialogava con gli «Illustrissimi». Papa Bergoglio continua a fare altrettanto. La nomina di Claudio Cipolla a nuovo vescovo di Padova, ne è esempio lampante. Le scelte del Papa sconcertano, sono fuori dagli schemi, non badano ai rumors delle retrovie. Scombinano i piani, sgambettano le cordate. Lui sceglie i Pastori. Le cronache da Mantova descrivono il nuovo presule dei padovani come «uomo mite», dotato dei carismi della normalità, a partire dalla sua biografia. L’unica annotazione che lo mette in relazione con la città del Santo, è l’essere, oggi, parroco di

Sant’Antonio, la comunità di Porto Mantovano e vicario episcopale per la Pastorale. Nato a Goito, località nota per le evidenze risorgimentali, non ha altri grandi titoli, né diplomatici, né accademici, per avvicinarsi alla grande città della cultura e della prestigiosa Università, della Facoltà Teologica del Triveneto, delle importanti opere di carità e solidarietà, delle capacità ed eccellenze imprenditoriali e della innovazione. Scelte che sorprendono, quelle del Papa, che stupiscono, e inducono alla meraviglia. È il colore della naturalità che alimenta le passioni della vita, che dà energia alle relazioni. La leadership viene dopo, si conquista giorno per giorno, sul campo, sembra dire Papa Francesco. Il sapore della libertà, che sgorga dalla verità, basta a rendere grandi. Certo, i santi patavini, sui quali il nuovo vescovo farà meditazione, hanno il carisma di Antonio, di Gregorio Barbarigo, ma pure dell’umore frate Leopoldo che nella mitezza e nel rigore dell’ascolto aiutò, nella misericordia, tanti uomini e donne a liberarsi dalla colpa. La pazienza e la scadenza del tempo lungo (Claudio Cipolla ha solo 60 anni) giocheranno a suo favore quando provvederà a dare slancio alla sua nuova, vasta, complessa, generosa ed inquieta comunità. Non solo a Padova si aprirà una stagione diversa. Lo sarà in un Nordest sul punto di...cambiar pelle, senza avventurarsi in una radicale discontinuità col presente. Non solo il Veneto è alla ricerca del senso di sicurezza di fronte alle nuove paure esistenti. C’è bisogno di recuperare fiducia, di parole (e testimonianze) di futuro, di riappropriarsi delle emozioni in quella corsa verso il nulla che comprime specialmente le nuove generazioni. Quando il Papa, dopo aver sostituito Antonio Mattiazzo a Padova, procederà ad indicare i vescovi che si alterneranno con Lucio Soravito de Franceschini in Adria-Rovigo, Luigi Bressanone nell’archidiocesi di Trento, Giuseppe Andrich a Feltre-Belluno, hanno tutti compiuto i 75 anni rituali per lasciare l’incarico, le terre di San Marco, con nuove guide spirituali, percorreranno con altro spirito quel cammino di dialogo, ascolto e azione che nella primavera di tre anni fa i cattolici del Triveneto hanno definito ad Aquileia. Pochi giorni fa, in Vaticano, Papa Francesco aveva esortato i nuovi vescovi ad essere testimoni, non manager, presenti, vicini al proprio popolo, capaci di essere spazio interiore per le loro comunità, sentinelle in grado di di ridestare la fede, con tenerezza e fermezza. Doti che in Claudio Cipolla convivono, evidentemente, con la sua mitezza. LA NUOVA di sabato 25 luglio 2015 Pag 12 “Vogliamo il crocifisso in Consiglio regionale” di Filippo Tosatto Venezia. Palazzo Ferro-Fini, la sede dell’assemblea del Veneto, non è quel che si dice una roccaforte di bolscevichi o di integralisti islamici. Né il suo presidente uscente, il cattolico Clodovaldo Ruffato, è sospettabile di anticlericalismo. Eppure... «Ho notato con imbarazzata sorpresa che in tutto il Consiglio regionale non esiste un solo crocifisso ed è un assenza grave: non sapevo che il segno di duemila anni di storia fosse stato espulso dalla nostra più prestigiosa sede istituzionale», esterna Stefano Casali, il capogruppo della Lista Tosi; che rincara: «Per chi, come me, è credente e praticante, il crocifisso è un simbolo e un riferimento di fede e di vita nuova. Per chi non lo è, e ovviamente io rispetto ogni personale convinzione, il crocifisso è il segno indiscutibile di una civiltà bimillenaria che ci ha dato civiltà, valori, tradizioni a cui tutti indistintamente si rifanno. Per cui trovo abbastanza strano che nei luoghi dell'attività istituzionale sia assente questo segno che contraddistingue la nostra cultura». Conclusione? «So che questo mio stupore è condiviso da molti altri consiglieri e quindi ci faremo portatori, presso il presidente Ciambetti e l'Ufficio di presidenza, di una richiesta precisa affinché il crocifisso possa rientrare a Palazzo, collocato almeno in aula consiliare e nelle sedi delle Commissioni, in quanto segno non discutibile di quella tradizione di storia e cultura che ha fatto grande il Veneto nei secoli». Un sasso - zelante - nello stagno estivo, quello di Casali, accolto con una certa sorpresa dalle forze politiche. «Prendo atto dell’appello del consigliere, c’è disponibilità a valutare la sua richiesta con spirito di apertura», commenta Ciambetti. «Non conosco nei dettagli la proposta di Casali», fa eco il vicepresidente Bruno Pigozzo, esponente del Pd «la questione non mi pare di particolare urgenza, tuttavia non ho alcuna preclusione a discuterla quando approderà all’ufficio di presidenza». Netta invece la presa di posizione dei M5S: «Credo che i problemi dei veneti siano ben altri», le parole del capogruppo Jacopo Berti «pieno rispetto verso il crocifisso e i cristiani ma il Consiglio regionale è un’istituzione laica ed è bene che resti

tale. La collocazione più adeguata dei simboli religiosi è nei luoghi di culto». Ma come si spiega l’assenza di un simbolo che (forte di una sentenza favorevole della Corte Costituzionale) compare in scuole e tribunali, con polemiche ricorrenti sull’offesa laicità? «Non saprei proprio», confessa Ruffato «ma escludo che qualcuno l’abbia mai rimosso dal Ferro-Fini. Da credente e praticante, non mi sono mai posto il problema». Amen. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Non siamo solo questo di Aldo Cazzullo Occorre dire con forza che questa non è l’Italia. O, almeno, che non tutta l’Italia è così. Purtroppo il massacro mediatico che da 48 ore il giornale più famoso del mondo sta conducendo ai danni della capitale e del Paese non è fondato solo su pregiudizi; è alimentato dalle immagini che i lettori mandano al New York Times per avvalorare l’idea della sporcizia, dell’inefficienza, del degrado estetico e morale. E il fatto che molti commenti alle foto della vergogna siano nonostante tutto di simpatia per le nostre bellezze e le nostre sventure non ci consola, anzi ci amareggia ancora di più. Forse i conducenti della metropolitana peggiore d’Europa che si fermano a singhiozzo, i piloti che bloccano gli aerei Alitalia, i custodi che chiudono il Colosseo e Pompei per assemblea non hanno compreso che simili atteggiamenti sono incompatibili con il ruolo dell’Italia nel mondo globale. Per rivendicare diritti e salari si deve cercare la comprensione dei concittadini, non esasperarli. E l’immagine di Roma e dell’Italia all’estero non è solo questione di orgoglio nazionale. È il crinale su cui si gioca il rilancio e il declino del Paese, l’opportunità di far funzionare l’accoglienza, le infrastrutture, l’industria culturale - con i posti di lavoro qualificati che ne derivano - e il rischio di sprofondare il più grande patrimonio artistico del mondo in una Disneyland di serie B, dove non c’è neanche da divertirsi. Purtroppo questo non l’ha capito neppure Ignazio Marino. Anche l’incapacità di risolvere un’impasse politica che si trascina da mesi è il metro della crisi del Paese. Il sindaco appare in fase confusionale. In realtà ha davanti a sé solo due strade: o costruisce una nuova giunta di alto livello, senza cedere agli interessi dei gruppi di pressione e dei comitati d’affari; oppure si dimette. Ma la partita che si decide in questi mesi va oltre il destino di una giunta e di una città. Sono la funzione e il futuro del Paese a essere in discussione. E non soltanto perché chance come l’Expo e il Giubileo non torneranno. I tesori italiani non sono stati certo scoperti adesso. Ma oggi più che mai sono preziosi. Perché nel mondo globale non è mai stata tanto forte la domanda di bellezza, di cultura, di arte, di storia, e anche del genio, dei saperi, della creatività con cui la bellezza è stata prodotta. L’Italia che percepisce il turismo come rendita anziché come servizio, che non investe sul recupero e la valorizzazione dei suoi beni, che chiude Fiumicino prima per un banale incendio divenuto devastante rogo e poi per scioperi - a fine luglio -: è un’Italia non all’altezza di se stessa. Per fortuna c’è un’Italia diversa. Che ha tenuto duro negli anni neri della crisi, investendo sulla qualità e sulla formazione, lavorando ai restauri e alla costruzione di reti museali ed espositive, affinando attraverso la ricerca e la tecnologia l’arte di fare le cose buone e le cose belle, conquistando nuovi mercati. È un’Italia che finisce di rado sulle pagine dei giornali internazionali, ma che va raccontata e rappresentata. Per una volta dovrà pur essere la moneta buona a cacciare quella cattiva. Non possiamo rassegnarci a vedere migliaia di giovani architetti, archeologi, ingegneri, artisti emigrare all’estero, e ad essere - a volte giustamente - sbeffeggiati da stranieri che si fermano per il tempo di scattare qualche umiliante fotografia. IL GIORNALE Aiutare chi ha ucciso tua figlia. Se un gesto spegne la violenza di Luca Doninelli I genitori della tabaccaia uccisa si offrono di pagare le cure alla figlia malata del killer. Una generosità che apre a un mondo diverso. Dai valori cristiani

«Aiuteremo la figlia malata dell'uomo che ha ucciso la nostra». Piero e Pina Fassi, genitori di Maria Luisa, la tabaccaia di Asti ammazzata con 45 coltellate durante una rapina sabato 4 luglio, hanno deciso di rispondere al male tremendo con il bene. La loro storia, raccolta dal quotidiano «la Stampa», la loro importante decisione fa sicuramente riflettere e discutere. Rispondere alla tragedia con un gesto di solidarietà. «Noi siamo qui - dicono -. Se la figlia dell'uomo che ha ucciso nostra figlia avrà bisogno, noi ci saremo». L'uomo che ha ucciso e che ha poi confessato è Pasqualino Folletto, 46 anni, magazziniere: aveva dilapidato ai videopoker 11mila euro destinati alla figlia malata. E ora davanti al disastro di avere ammazzato e aver distrutto se stesso e due famiglie, la sua e quella della vittima, si trova davanti a due persone duramente colpite che lo vogliono aiutare. Una incredibile lezione di misericordia e altruismo: «Abbiamo saputo che ha una figlia malata - dice papà Piero -. Purtroppo. Nel nostro piccolo, se vorrà, faremo ciò che è nelle nostre possibilità per rendere meno dolorosa e solitaria la sua sofferenza». E ancora: «La sua famiglia, uccisa anch' essa da un gesto folle non ha colpa per quando è successo». I Fassi, descritti come riservati e discreti ma sempre pronti a tendere la mano, ad Asti sono il punto di riferimento di molti enti di beneficenza. Qui non hanno più posto le chiacchiere sul diritto/dovere al perdono degli assassini. Qui il fascismo mediatico sospenderà la sua brama irosa di giudicare, commentare, soprattutto parlare. Qui siamo in un'altra storia, in un altro modo di guardare l'uomo, il mondo, la vita, la cronaca e perfino la cronaca nera. Gli anziani familiari di Migia Fassi, la tabaccaia di Asti uccisa per 800 euro da un cliente dal nome che già da solo suggerisce un romanzo - Pasqualino Folletto - dopo aver saputo che l' uomo ha una figlia affetta da una malattia genetica, hanno deciso di pagare di tasca propria le cure della ragazza. Vorrei lasciar perdere gli accenti di ammirazione e domandarmi se un gesto come questo si può semplicemente rubricare tra gli esempi di generosità, sia pure di immensa generosità. Vorrei domandarmi se sia sufficiente pensare quanto sono buone queste persone e quanto poco lo sono io, che con ogni probabilità non avrei pagato le cure della ragazza. Non basta, infatti, pagare il prezzo di una notizia come questa paragonando la grandezza altrui con la nostra piccolezza. Di fronte a un fatto così è forse più utile cominciare a capire di quanta ipocrisia siamo fatti, anche nell' intimo dei nostri sentimenti. Le cronache ci hanno descritto la vittima come una donna felice, che tutti i giorni andava a pregare nel Santuario degli Oblati, dove c'è «un profumo meraviglioso di fiori e una pace che disseta l'anima», come diceva lei. Nessuna ombra della Chiesa oppressiva e tiranna, dunque; nessuna costrizione morale, ma profumo di fiori e una pace che disseta l'anima. Un'anima - verrebbe da dire - pronta. Uno scrittore d'altri tempi avrebbe visto in Pasqualino Folletto una specie di angelo, forse un po' bizzarro, un folletto nato però nel giorno della Resurrezione. Uno scrittore d'altri tempi avrebbe letto, negli eventi di questa terra, l'ombra di altri eventi, nei quali nomi propri, date, coincidenze, azioni diventano leggibili dentro una storia che cominciò con la Creazione e terminerà con il Giudizio Universale. Io non farò questo, però sarei un mentitore se negassi il contraccolpo di questa notizia. Che non è nemmeno la notizia più grande, perché ce n'è una più sorprendente, che ancor più del gesto dei coniugi Fassi ci mette in comunicazione con l'altro mondo, ce lo impone nella sua inesorabile realtà. È una frase della famiglia Fassi, che riproduco così come l'ho letta sulla Stampa: «Di questo argomento non parleremo più. D'ora in avanti, quello che accadrà tra la nostra famiglia e la moglie e le figlie del signore arrestato, resterà solo una questione nostra, e della nostra coscienza». È quell'espressione, «signore arrestato», a riempire di sgomento. Più che la decisione di pagare le cure della figlia malata, ci sconcerta questo abisso di rispetto, questo abisso di stima. Ripensando al crimine di Asti, dopo aver saputo che l'uccisore era un disperato incensurato, mi è stato facile comprendere l'eccesso di follia che ha portato a uccidere la donna con 45 coltellate. Potrebbe succedere a me, al posto di quell'uomo potevo esserci io. Nel crimine non c'è mai nulla di nuovo: siamo tutti così, follia compresa. Ma il «signore arrestato» no. Come si fa a chiamare così l'uccisore della propria figlia? Pensateci bene, cari lettori: l'ha chiamato signore, proprio come Gesù Cristo. Tutto questo non lascia tempo alla facile ammirazione, ma solo a una domanda: chi sono queste persone? Cosa le muove? E viene in mente Gesù, di cui tutti si chiedevano, ad ogni miracolo: chi è costui? Alla fine di luglio del 2015 ecco: lo stesso stupore, lo stesso sconcerto, lo stesso timore. Qui non

si parla più di cristianesimo o di valori cristiani, qui non c'è più una fede da ammirare con il finto rammarico di chi non ce l'ha. Qui c'è un'immedesimazione con il destino personale di Cristo, con la sua croce, col legno e con i chiodi. Cari signori, potrete bandire finché vorrete il cristianesimo dalla nuova società che sta nascendo, ma dovrete fare bene i vostri conti. Dovrete cancellare la possibilità che all'improvviso si aprano spiragli come questo su un mondo diverso, e per fare questo dovrete esercitare un controllo spietato su ogni istante della vita di ogni persona. Ma non ce la farete. Ci sarà sempre un istante dimenticato, un particolare trascurato. E lì ci sarà Dio ad aspettarci. IL GAZZETTINO Pag 1 L’Europa messa in crisi dalle sue regole di Marco Fortis Le indiscrezioni secondo cui il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble sarebbe il padre di un possibile progetto di eurotassa per rafforzare finanziariamente l’Unione, condiviso dal Presidente della Commissione Juncker, ha già suscitato molte reazioni di segno opposto. In attesa di conoscere meglio la natura della proposta sospendiamo il giudizio, ma non possiamo non nutrire perplessità sul modo di procedere a strappi di una Europa che dovrebbe invece riesaminare in modo organico e coordinato tutto l'insieme delle sue regole di finanza pubblica. L’Eurozona, infatti, da tempo si è messa addosso una camicia di forza che a poco a poco l’ha letteralmente paralizzata e alla fine l’ha privata anche della crescita, senza la quale, in economia, è come morire dissanguati. Risultato: quando nel 2008, dopo il fallimento di Lehman Brothers, la crisi mondiale ha azzoppato un po’ dappertutto il cavallo della crescita, l’Eurozona si è trovata prima appiedata e poi viepiù impedita dalla sua stessa corazza che, in tempi normali, sulla carta avrebbe dovuto proteggerla, ma in realtà in tempi eccezionali l’ha esposta ai pericoli del fallimento dello stesso progetto della moneta unica. E, va anche detto, senza gli sforzi di Draghi a un certo punto sarebbe stato sufficiente un semplice soffio per far cadere rovinosamente a terra l’irrigidita brigata dell’euro imbrigliata nella sua stessa armatura. Che senso ha, nel 2015, fissare per i Paesi della moneta unica un tetto insindacabile del debito/PIL al 60% quando Gran Bretagna, Stati Uniti e Giappone, se ne disinteressano totalmente, e nel 2014 si trovano, rispettivamente, al 90%, al 105% e al 246% del debito pubblico/PIL? Che senso ha pretendere dai Paesi membri dell’Eurozona una riduzione a tappe forzate di un ventesimo all’anno della parte eccedente il loro debito pubblico/PIL rispetto al livello (ottimale?) del 60%? Cosa che a nessun altro Paese al mondo verrebbe in mente di fare? E che senso ha, poi, consentire invece alla Germania di sforare per molti anni il limite di avanzo corrente con l’estero senza sanzionare Berlino? La montagna di contraddizioni dell’Eurozona è esemplificata dal fatto che nel 2007 l’Italia, con un debito pubblico/PIL al 99%, era considerata un Paese “critico”, mentre oggi allo stesso livello, cioè al 99%, si trovano Francia e Spagna (e nessuno dice loro nulla) mentre gli USA sono addirittura ben oltre il 100%. Ma questo è niente rispetto ad altre miopie dei parametri dell’Euro-burocrazia. L’Eurozona, nella stesura delle proprie “regole ferree”, prima ha clamorosamente ignorato la pericolosità del debito privato (che ha azzoppato Irlanda e Spagna e ha messo in difficoltà anche Olanda, Belgio nonché la stessa Germania), poi dilettantisticamente non ha fatto distinzione alcuna tra debito pubblico estero e interno. Un errore, questo, molto grave del Trattato di Maastricht e poi anche del “Fiscal Compact”. La crisi della Grecia, ma precedentemente anche di Portogallo e Irlanda, dimostra infatti chiaramente che questi Paesi sono “saltati” non per un debito pubblico totale troppo elevato rispetto al PIL, bensì per un eccessivo debito pubblico finanziato da stranieri. A Bruxelles, il Presidente Juncker e i Commissari che seguono minuto per minuto i conti pubblici dovrebbero dunque distinguere il grano dal loglio. Cioè tra Paesi, come l’Italia, che da tempo rispettano il 3% del deficit/PIL ed altri, come Francia e Spagna, che disattendono regolarmente questo obiettivo. Tra Paesi, come l’Italia, il cui aumento del debito pubblico negli ultimi 8 anni è stato finanziato quasi totalmente da investitori interni (che evidentemente ne avevano la capacità, diversamente da greci, portoghesi, spagnoli e irlandesi) ed altri Paesi che invece si sono fatti finanziare (in modo più o meno opportunistico, come Germania e Francia) la propria spesa pubblica prevalentemente dall’estero. Se aggiungiamo a tutto ciò il fatto che l’Italia, tra i grandi Paesi del mondo, è l’unico assieme alla Germania che, grazie al proprio avanzo statale primario positivo, è in grado di pagare virtualmente “cash” tutti

gli interessi sul debito pubblico ai propri investitori esteri, mentre Obama, Cameron, Hollande e Rajoy li ripagano regolarmente da anni solo con l’emissione di nuovo debito pubblico (e ciò accadrà anche per molto tempo in futuro), si capisce perché è tempo che l’Eurozona cambi le proprie assurde regole sul debito. Fondandole sulla riduzione del debito pubblico estero anziché semplicisticamente di quello totale e sulla capacità virtuosa di ripagare in denaro contante gli interessi agli investitori stranieri, mediante un continuativo avanzo primario dello Stato. Si capisce altresì, alla luce di questi dati ignorati dalla maggior parte degli analisti e degli osservatori, perché il Governo Renzi ha molte frecce nella sua faretra, oltre alla spending review che va perseguita con determinazione, per poter chiedere in Europa più margini di flessibilità allo scopo di ridurre le tasse in Italia e spingere la crescita. Nessun altro Paese in Europa, per riforme attuate o in cantiere e virtuosità dei conti, può oggi pretendere più flessibilità dell’Italia. D’altra parte, un’Italia che possa rilanciare la propria crescita economica con più flessibilità di bilancio in cambio di riforme serve terribilmente all’Eurozona stessa, di cui il nostro Paese è la terza economia. Tenere imbrigliata l’Italia nella rete del Fiscal Compact per ragioni e parametri sbagliati è per l’area della moneta unica come possedere una Ferrari ma essere costretta a tenerla in garage e non poterla usare. LA NUOVA Pag 1 Rapiti in Libia, la rabbia e il dolore di Gianluca Salviato Ho pensato molto prima di mettermi a scrivere, ci ho messo molto perché ho dovuto scegliere le parole giuste e ho dovuto riordinare i pensieri buttati all’aria dalla rabbia e dal dolore che provavo e ora vi spiego il perché. Qualche giorno fa di mattina stavo ascoltando una radio di Padova, i due commentatori stavano parlando dei quattro Italiani rapiti in Libia (i quattro Italiani hanno un nome, sono Gino, Filippo,Salvo e Fausto) e come accade ogni volta che un Connazionale viene rapito hanno lanciato il “solito” sondaggio idiota. La domanda era la seguente “Lo Stato deve pagare per portare a casa gli italiani?”. Ci fu una chiamata fatta da una ragazza che diceva: “Lo Stato non deve pagare, tanto sapevano a cosa andavano incontro e poi guadagnano 10-11.000 euro al mese”. Mi è scoppiata dentro una rabbia grandiosa e un dolore fortissimo, volevo chiamare la radio e dirne quattro a quella ragazzina ma mi sono trattenuto, ho riordinato i pensieri, calmato la rabbia e ho pensato che la migliore risposta all'ignoranza è il silenzio. Ma sono curioso e sono andato a leggere i commenti sui blog delle varie testate giornalistiche, ne ho trovati dello stesso tenore di quello della ragazzina della telefonata e ancora più feroci, di una cattiveria assoluta, senza alcuna pietà nei riguardi dei nostri quattro fratelli in difficoltà, fatti da persone che si nascondono dietro un nickname, che non hanno il coraggio di metterci la faccia. Mi sono chiesto dove è finita l'umanità del nostro popolo, la solidarietà che ha sempre dimostrato verso chi è in difficoltà. Siamo italiani, quelli che corrono ad aiutare, senza chiedere niente, quando ci sono i terremoti e le alluvioni, e ho deciso che era ora di parlare e di tuffarmi dentro all'ignoranza di quelli che spargono cattiveria a destra e a manca nascosti dietro uno pseudonimo, ricordando loro che Gino, Filippo,Salvo e Fausto sono nostri fratelli, che le loro famiglie sono le nostre, che dobbiamo fare quadrato e sostenerli, dare coraggio ai loro cari, essere solidali. Mi sale la rabbia quando sento dire che non bisogna pagare, che questa gente viene salvata con i soldi delle tasse degli italiani. Vergognatevi, misurate la vita di esseri umani con i soldi delle tasse che forse avete pagato. Voglio ricordarvi che questi quattro uomini erano in Libia a lavorare per potere dare una vita dignitosa alle loro famiglie, che senza uomini come Gino, Filippo, Salvo e Fausto forse il gas che vi permette di cucinare, riscaldarvi e di produrre l'elettricità per i vostri climatizzatori non ci sarebbe. Voglio ricordarvi che oggi gli stipendi di chi va in quei paesi a lavorare non sono così alti come pensate, anzi per i rischi che si corrono, per la distanza dai propri familiari e per lo stress psicologico e fisico che si sopporta forse sono anche bassi. Voglio ricordarvi che Gino, Filippo, Salvo e Fausto vivono in zone della nostra Italia in cui il lavoro non c'è. Da persone oneste e coraggiose si sono tirati su le maniche e non si sono pianti addosso ed il lavoro se lo sono cercato anche lontano da casa e dagli affetti come fanno tanti italiani. Quindi, signori dello pseudonimo, abbiate il buon gusto di tacere: “Un buon silenzio non è mai scritto”. E se vi venisse il prurito di scrivere e di dare una vostra opinione, prima informatevi, pensate che potrebbero essere i vostri padri, fratelli

o figli, provate a immaginare il dolore, l'angoscia, la paura e il senso di impotenza dei loro familiari, provate a pensare cosa fareste se foste al loro posto e dopo forse potrete dare un giudizio. Non si lascia indietro nessuno. Io e mia moglie mandiamo un abbraccio alle famiglie di Gino, Filippo, Salvo e Fausto. Siate coraggiosi e fiduciosi, affidatevi a chi ora vi sta vicino e alle persone che vi vogliono bene, siete in ogni momento della nostra giornata nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere. Voglio anche mandare un abbraccio alla famiglia di Giovanni Lo Porto e un pensiero anche per Padre Dall'Oglio. Pag 1 Non tutta la Lega guarda a Sud di Giovanni Palombarini Non ce l’ha fatta il sindaco di Padova Massimo Bitonci a trattenersi. Nel corso di una “animata discussione” in consiglio comunale si è rivolto a un consigliere gridandogli “terrone”. Dimenticando per un momento che la Lega di oggi vuole “sfondare” al sud. L’episodio, nel tempo della guerriglia nei confronti dei prefetti che tentano di realizzare un minimo di accoglienza ai profughi, induce a chiedersi se e in che misura è cambiata la Lega Nord negli ultimi tempi. E’ una domanda ormai di attualità. È una domanda di attualità vissto che alle prossime elezioni politiche del 2018 sarà probabilmente il suo leader a proporsi come guida delle destre italiane e come capo del futuro governo. L’evoluzione della Lega sotto la guida del nuovo segretario Matteo Salvini è stata davvero rapida, come rapido è stato il ricupero dei consensi dopo il crollo che si era verificato al momento della crisi del “cerchio magico” di Umberto Bossi e C.. Balza agli occhi un dato, quello dell’abbandono di alcuni slogan del passato, anche se periodicamente richiamati in modo rituale. Fino allo scorso decennio la linea politica complessiva della Lega si articolava su tre momenti forti. Il primo era certamente la prospettiva del distacco della Padania da “Roma ladrona”. Di ciò vi è ancora un segno nello statuto del partito che, pur modificato di recente, recita: «Il Movimento politico denominato Lega Nord per l’Indipendenza della Padania … ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica federale indipendente e sovrana». E però il giuramento di Pontida sembra relegato nei ricordi e di indipendenza, nei comizi o nella propaganda televisiva, non si parla più. Come si parla poco di tasse, fermo ovviamente l’auspicio, ormai comune a tutti, che vengano presto abbassate. Anche perché nei lunghi anni alla guida del paese con Silvio Berlusconi, oltre ad impegnarsi nel votare tutte le leggi ad personam necessarie al salvataggio del capo del governo la Lega di certo non si è sforzata per abbassare il carico fiscale. Oggi è in particolare lo straniero l’argomento su cui puntare, senza però riuscire a liberarsi del tutto - anche se è opportuno nasconderlo - dal disprezzo nutrito nei confronti di quei cittadini che Umberto Bossi chiamava «quelli della Bassa Italia». Nel momento in cui sembra che la Lega possa assumere la guida delle destre è il terzo punto forte della sua tradizionale politica, quello del binomio sicurezza da un lato e dura ostilità al fenomeno immigrazione e all’idea di integrazione degli stranieri nella nostra società dall’altro, che viene utilizzato in modo sempre più aspro per mantenere e accrescere il consenso. Ciò, anche a costo di fomentare ulteriormente sentimenti e atteggiamenti razzisti già troppo diffusi. Come è noto, la presenza degli immigrati nel nostro paese si è andata progressivamente rafforzando: dai 600.000 circa del 1991 si è passati a milione e mezzo del 2000 fino ai 5 milioni di oggi, ovviamente con una serie di problemi, di carattere sociale ma anche di ordine pubblico. Negli ultimi tempi si è aggiunta la questione dei rifugiati. Il tutto richiederebbe una capacità politica di governo di grande consistenza, che purtroppo, anche a livello europeo dove imperano egoismi fortissimi, non è dato di vedere. La risposta perentoria proposta dalla Lega Nord è facilmente sintetizzabile con la parola esclusione, declinata poi in vari modi. Una volta l’opposizione all’assegnazione di case popolari agli stranieri e l’ostilità alla costruzione di moschee si saldava agli interventi penali; oggi vengono fomentate sollevazioni popolari, una volta con l’appoggio di Forza Nuova, un’altra con quella di Casa Pound (dunque con la tendenziale aggregazione di forze neofasciste), contro l’assegnazione di alloggi ai profughi, anche se offerti da privati. È l’immigrato il bersaglio. Quella del sindaco Bitonci è stata politicamente una gaffe, della quale è necessario scusarsi. Arrivati a questo punto appare apprezzabile come momento di contrasto al razzismo crescente la scelta di un parroco dell’Umbria, che ha apposto alla porta della sua chiesa un cartello che dice «vietato l’accesso ai

razzisti – i razzisti se ne vadano lontano da qui». Una scritta polemica, sorprendente su una chiesa, che peraltro segnala la necessità, per le forze democratiche e per le istituzioni, di opporsi con forza a un pericolo sempre più grave. CORRIERE DELLA SERA di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 La via giusta per tagliare le tasse di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Pensiamoci bene In un decennio la pressione fiscale (imposte dirette e indirette, contributi sociali e imposte sui redditi da capitale) è salita di quattro punti e mezzo, dal 39 per cento del reddito nazionale nel 2005 al 43,5 l’anno scorso. Un aumento che tuttavia non è riuscito a fermare la crescita del debito, perché nello stesso periodo la spesa pubblica al netto degli interessi è aumentata di altrettanto. Quest’anno, per la prima volta, la pressione fiscale è un po’ scesa (di circa mezzo punto) grazie alla parziale detassazione del lavoro, cioè agli 80 euro (tutti i dati provengono dalle audizioni della Banca d’Italia in Parlamento). Quanto accaduto con gli 80 euro e il recente annuncio del presidente del Consiglio di un’ulteriore significativa riduzione delle tasse sono fatti certamente positivi: la pressione fiscale va abbassata e finalmente si è cominciato. Ma il modo in cui si intende farlo solleva qualche dubbio. Sembra infatti dettato dal calendario elettorale e dal dibattito politico più che da un preciso disegno di riforma del nostro sistema fiscale. Pare cioè che il governo si muova in base alle esigenze politiche del momento: elezioni e baratti con l’opposizione. Le elezioni europee lo scorso anno per gli 80 euro. Oggi, nel caso della proposta di abolire la tassa sulla prima casa, l’ostinata opposizione della destra a questa imposta. Ciò di cui abbiamo bisogno è un fisco semplificato che, oltre a ridurne il più possibile il peso, sostenga la crescita, sia equo (nel senso che entro certi limiti i ricchi paghino più tasse dei poveri) e renda il più difficile possibile l’evasione e l’elusione. Consideriamo per esempio l’imposta sulla casa: dal punto di vista della crescita tassare le abitazioni ha numerosi vantaggi rispetto a imposte sul lavoro. Non scoraggia la partecipazione al mercato del lavoro (per esempio quello femminile), non aumenta direttamente o indirettamente i costi delle imprese, quindi non riduce la domanda di impiego, non si traduce in inflazione come invece farebbe un aumento del-l’Iva. Certo, riduce il reddito dei cittadini. Ma questo lo fanno anche le altre tasse. Dal punto di vista dell’equità, però, sia l’Imu che la Tasi, così come sono state disegnate, hanno pessime caratteristiche. A pagina 102-103 della Relazione della Banca d’Italia per il 2014 viene riassunta un’interessante analisi (di non facile lettura) degli effetti redistributivi delle due imposte. Il risultato è scoraggiante: entrambe, e soprattutto la Tasi, sono costruite in modo tale che i meno abbienti paghino proporzionalmente più dei ricchi - per effetto dell’interazione fra aliquote applicate ai valori catastali e minimi detraibili. Nelle stesse pagine gli economisti della Banca d’Italia propongono combinazioni alternative di aliquote e minimi detraibili che avrebbero effetti meno indesiderabili sulla distribuzione dell’onere delle imposte sulle abitazioni. La conclusione quindi è che la tassa sulla casa è una «buona» tassa (parliamoci chiaro, nessuna tassa può essere disegnata in modo perfetto) nel senso che ostacola la crescita meno di altre. Ma va costruita bene per evitare effetti redistributivi perversi. Introdurla, poi cancellarla e cambiarle nome come è stato fatto negli ultimi anni, crea confusione ed incertezza per i cittadini. È un gioco politico assurdo. Ma quello di Imu e Tasi è solo uno dei casi. Si era parlato, ad esempio, ma è rimasto un progetto, di agevolazioni fiscali per incentivare l’occupazione femminile, che è molto bassa in Italia, introducendo aliquote minori per donne con figli che lavorano, un esempio di sostegno alla crescita e all’equità. Rimane poi il problema endemico dell’evasione. Alcune imposte sono più facilmente eludibili di altre. Più complicato è un sistema fiscale, più facile sarà nascondere reddito nelle sue pieghe oscure: ecco perché la semplificazione può aiutare l’equità. La tassa sulla casa, per esempio, è difficilmente eludibile: è complicato nascondere le case ed altrettanto spostarle all’estero (a meno di emigrare). Insomma, riformare un sistema fiscale (riducendone il peso) non è cosa da poco. Varrebbe la pena pensarci bene. Un modo per farlo potrebbe essere incaricare una commissione di esperti indipendenti, come accadde nel 1972 con la commissione ministeriale Cosciani-Visentini. Propose il Testo Unico delle Imposte dirette poi adottato con la legge del 1973, che introdusse l’Irpef e il sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente, misure che resero più difficile evadere la

tassazione dei redditi da lavoro. Seguendo quell’esempio si dovrebbe assegnare ad una nuova commissione il compito di ridurre il peso fiscale ridisegnandolo con tre obiettivi: semplicità, crescita, equità. La commissione potrebbe proporre vari scenari alternativi internamente coerenti. La scelta di quale adottare sarebbe poi della politica, possibilmente senza rovinarne la coerenza con pasticci ad hoc. Ridurre (e di molto) il peso delle imposte va fatto, ma nel quadro di un progetto ben congegnato, non a colpi di legislazione dettati dalle vicende politiche del momento e dal calendario elettorale. Pag 1 Da Nord a Sud ci scopriamo esposti su due fronti di Franco Venturini Politica estera Quando un Paese si trova esposto a pericoli gravi e concomitanti, la cosa peggiore che possa fare è non identificare la reale portata delle minacce e trascurare di conseguenza l’elaborazione di politiche adeguate. L’Italia di oggi si trova in questa situazione, e appare titubante (come spesso negli anni è stata la nostra politica estera) davanti alla tenaglia di insidie provenienti da Nord e da Sud. A Nord, il rischio che i contrasti con la Russia sulla crisi ucraina possano degenerare in una nuova guerra fredda sono troppo noti, e troppo contrari ai nostri interessi politici ed economici, per richiedere qui ulteriori spiegazioni. E tuttavia è inquietante che il processo di Minsk non avanzi nemmeno quando Putin si scioglie in ringraziamenti reciproci con Obama dopo l’accordo con l’Iran oppure che il generale americano Joseph Dunford, designato a guidare lo stato maggiore dell’esercito Usa, utilizzi un linguaggio talmente duro verso Mosca da meritare le prese di distanza del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca. L’Italia tace, sentendosi già «sospettata» di simpatie per la Russia. Invece dovrebbe parlare, e dovrebbe parlare quella mezza Europa (mezza, purtroppo) che una nuova guerra fredda non la vuole pur in piena lealtà verso l’alleanza occidentale. Tutto finanziario e politico è invece il fronte dell’eurozona. La crisi greca ha portato in piena luce una discussione che da tempo si svolgeva con discrezione: l’eurozona così com’è non durerà a lungo, occorre ripensarla. Il presidente Hollande propone una eurozona più integrata, dotata di un proprio bilancio da dedicare a investimenti per la crescita. Schema che a noi va bene, tanto più che la Francia ci vede membri sicuri dell’eventuale nuovo organismo. Ma in queste materie raramente Parigi prevale su Berlino. E l’idea che circola a Berlino, sostenuta a spada tratta dal ministro Schäuble, è quella di una eurozona più integrata ma anche più piccola, nella quale ognuno dovrebbe assumersi la responsabilità dei peccati presenti o passati. L’Italia è sotto il 3 per cento di deficit (la Francia non lo è), ha un avanzo primario, fa le riforme, ma ha anche il secondo debito pubblico d’Europa dopo quello della Grecia. Saremmo della partita, se vincesse la formula del ministro delle finanze di Berlino che continua ad essere uno stretto collaboratore di Angela Merkel? Anche in questo caso l’indispensabile passo da compiere è prendere l’iniziativa, entrare nel dibattito, non limitarci a tenere un piede da ogni parte come è successo durante l’aspro confronto con Tsipras. A Sud sappiamo tutti dove sono i pericoli. Minaccioso anche per l’impatto che può avere sugli equilibri politici interni è il flusso dei migranti, ora che le povere vittime di guerre e miserie estreme non «transitano» più dall’Italia per andare altrove, ma vi si fermano perché incapaci di superare confini europei divenuti meno permeabili. I flussi migratori ne hanno preso atto e ora dalla Grecia attraversano i Balcani per provare a entrare in Ungheria. Ma l’Italia resterà comunque la rotta preferita, e davanti allo spettacolo indecoroso degli egoismi di altri Paesi europei (escluse la Germania, la Svezia e la Francia) la nostra protesta dovrebbe assumere forme più concrete o almeno ottenere riconoscimenti dovuti. Dietro i migranti c’è la Libia. Che ci minaccia in molti modi: con la presenza dell’Isis terrorista, con la guerra per bande che riduce i nostri rifornimenti energetici, con il gioco di sponda dei due governi e delle tante milizie armate che a turno bloccano, forse ancora per poco, l’inviato dell’Onu Bernardino Leon impegnato a formare un governo di unità nazionale teoricamente destinato a volgersi poi contro l’Isis. Il sequestro dei quattro italiani offre nuove occasioni (per esempio al governo di Tripoli) per avanzare richieste all’Italia. Ma è proprio sulla linea seguita dall’Italia che è lecito avanzare qualche dubbio. Appoggiare Leon va bene, a condizione di essere consapevoli che un accordo cambierebbe pochissimo sul terreno. Ipotizzare pubblicamente vari e confusi livelli di aiuti o azioni militari ci toglie credibilità. Non siamo abbastanza attivi, invece, nel premere sui

finanziatori del caos libico, dall’Egitto alla Turchia e dagli Emirati al Qatar. Eppure la guerriglia permanente libica è in gran parte questione di soldi, o di potere per controllare la distribuzione di soldi di varia origine. E la continua espansione dell’Isis (nel Sinai egiziano, in Tunisia, ora in Algeria oltre alla Libia) può offrire occasioni diplomatiche ghiotte, per esempio quando i tagliagole si scontrano con l’ex «quasi amica» Turchia come avviene in questi giorni. Ankara pensa alla Siria, ma noi dovremmo ricordarle che in Libia i suoi finanziamenti alimentano il caos e così aiutano l’Isis divenuto nemico. E se davvero si arriverà a sanzioni contro esponenti libici, a parte le forti perplessità sull’efficacia di un simile provvedimento, le applicheranno anche i signori dal borsellino facile? Davvero la Banca centrale potrà abbandonare la sua equidistanza senza essere data alle fiamme (si veda l’intervista di Paolo Valentino al ministro Gentiloni sul Corriere di ieri)? Da Nord e da Sud, l’Italia è a rischio come non è mai stata dalla fine della Seconda guerra mondiale. I conflitti balcanici o la guerra in Libia del 2011 ci coinvolgevano, ma non ci minacciavano come accade oggi con questioni che vanno dalla «nuova» eurozona al terrorismo e alla pressione migratoria. Reagire significa individuare politiche efficaci, e darci un profilo riconoscibile e coerente a difesa dei nostri interessi e della nostra sicurezza. LA REPUBBLICA di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 L’autunno del premier tra sogni fiscali e papà Blair di Eugenio Scalfari Il tema di questa settimana ha il nome di Matteo Renzi. Di solito faccio il possibile per evitarlo o ridurlo a poche righe quando sono inevitabili, ma questa volta, per noi italiani, non è così perché il nostro capo del governo ha messo voce dappertutto, come italiano e come europeo, per esporre e se necessario combattere affinché il suo punto di vista sia non solo conosciuto ma eserciti la dovuta influenza sullo scacchiere interno e internazionale. Comincerò con il Renzi statista, nel senso del suo ruolo nella politica estera. La qualifica di statista la si ottiene così, non trafficando nel politichese del giorno per giorno. Qualche mese fa il Nostro aveva già fatto visita al rais dell'Egitto esortandolo ad una politica conciliante verso Israele. È un problema costante di quel Paese dopo la sconfitta nella guerra dei "sei giorni" e al Sisi ha dato in proposito le prevedibili assicurazioni a Renzi il quale però, con un tempismo di cui gli va dato atto, ha ritenuto opportuno andare stavolta in Israele dove ha avuto un'ora di colloquio con Netanyahu e un'altra ora di visita al Knesset, il Parlamento israeliano, dove ha pronunciato un ampio e molto applaudito discorso. "Chi abbandona oggi la causa di Israele tradisce soprattutto se stesso", ha detto come prima frase ottenendo un'ovazione da stadio e così ha continuato fino alla fine, raccomandando tuttavia di instaurare buoni rapporti con i palestinesi e dissociare il bene dal male per quanto riguarda l'accordo Usa-Iran. Su quest'ultimo punto la "standing ovation" non c'è stata, anzi i mormorii non erano incoraggianti. Ma sulla Palestina no, anzi ci sono stati segni palesi di consenso purché, naturalmente, non si discutesse sulle "colonie" costruite in Cisgiordania e tanto meno degli Hezbollah libanesi. Naturalmente poche ore dopo il Nostro ha incontrato Abu Mazen, al quale non ha detto che abbandonare la causa palestinese fosse un tradimento di se stesso, ma qualcosa di simile. Abu Mazen ha apprezzato ribadendo però la sua ferma opposizione a nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania. Insomma bene, il Nostro è andato a vendere il suo prodotto e gli interlocutori lo hanno apprezzato. Che l'Italia nel Medio Oriente si senta amica di Israele e della Palestina, questo è un fatto che rende felici gli interlocutori, ai quali non si chiede nulla in cambio, altro che applausi e strette di mano e perfino qualche bacio (tre volte sulle guance). Che vogliamo di più? In Italia la partita è un po' più difficile e in Europa difficilissima. Ma prima di affrontarla nei suoi giusti termini debbo dar conto d'un recentissimo discorso di Tony Blair, personaggio che non ha certo bisogno di presentazioni: ventuno anni fa diventò leader del Labour party inglese, ne cambiò i connotati e poco dopo fu primo ministro per due legislature di seguito. Da allora gira il mondo e fa ampi discorsi assai ben pagati da chi lo ospita, ottiene di tanto in tanto incarichi dall'Onu e insomma si guadagna assai bene la vita facendo anche in modo che non ci si dimentichi di lui. Auspico per Renzi uno stesso ed egualmente felice futuro (ne ha tutti i numeri) dopo che avrà governato il nostro Paese fino al 2027 a meno che a quel punto non decida di concludere con un settennato al Quirinale. Peccato per me che allora non lo vedrò. Dunque Tony Blair. Cito da un suo

intervento pubblicato giovedì da Repubblica e pronunciato al "Think Tank Progress". L'occasione è stata determinata dal fatto che il Labour party è in questo momento affascinato da Jeremy Corbyn, un esponente della sinistra del partito, cosa che non piace affatto a Blair il quale così commenta: "Potrei parlarvi di come ottenere la vittoria: si vince al centro, si vince quando ci si rivolge ad una fascia d'opinione trasversale, si vince quando si sostengono le imprese quanto i sindacati. Non si vince da una tradizionale posizione di sinistra. La scelta riguarda i principi, riguarda che cosa significa sostenere i nostri valori nel mondo moderno... Oggi viviamo in una società che nel complesso crede al successo determinato dal merito e dal cambiamento. Abbiamo vinto le elezioni quando avevamo riformato i servizi pubblici e non ci siamo limitati a investire in essi, quando abbiamo capito che sono le imprese a creare posti di lavoro e non il governo. Abbiamo vinto quando siamo stati noi gli autori del cambiamento e non piccoli conservatori della sinistra". Così Tony Blair. Non si può dire che abbia torto, ma soltanto che vede le cose dal suo punto di vista. E come potrebbe ragionare diversamente? Ciascuno di noi lo fa. Solo che un conto è parlare ad un "Think Tank Show" e un altro conto è agire da un vertice molto elevato. Mi viene in mente papa Francesco che guida la Chiesa affrontando anche lui il mondo moderno. Francesco ha come parola-chiave quella di "amare il prossimo più di se stessi". Tony Blair non la pensava così neppure quando era al vertice della Gran Bretagna. Vinse, certo. E la Gran Bretagna? Ad appena vent'anni di distanza non pare che sia un Paese cui guardare con invidia, ma Blair sì, ha avuto una vita felice anche se non ha amato il prossimo più di se stesso. Quello di Tony è il programma, il comportamento, il carattere di Matteo? Penso proprio di sì. Va bene per gli italiani? Per alcuni sì, per altri no. E per l'Italia come nazione e Paese europeo? La risposta la daranno i fatti. Per quanto mi riguarda penso di no, ma questa è un'opinione strettamente personale. Il tema dominante di questi giorni è quello delle tasse. Poi c'è Verdini, c'è la dissidenza crescente della sinistra del Pd (quella vecchia ma anche quella giovane), ci sono Regioni, Comuni in vario modo disastrati e prossimi comunque al voto. E ci sono ancora le riforme in discussione: legge elettorale, Senato, Rai, unioni civili, giustizia. E la legge economica di stabilità. Insomma un gran minestrone da trangugiare entro i prossimi tre mesi. Stefano Folli nel suo articolo di ieri ha parlato di Stalingrado, la battaglia che decise l'esito dell'ultima guerra: chi la vincerà avrà vinto la guerra e infatti andò così. La nostra Stalingrado si combatterà entro l'autunno prossimo, ma le tasse sono il rombo del cannone. Tre anni. Nel 2016 l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, nel '17 diminuzione dell'Irap, nel '18 quella dell'Irpef. E attenti a non scaricare tutto sui Comuni e sulle Regioni. Queste imposte, da abolire o tagliare, dovrebbero portare ad un sollievo fiscale di circa 25 miliardi senza calcolare altre possibili evenienze che potrebbero aumentare fino a 40 miliardi complessivi. Ma diciamo 25 per ragionare sul concreto delle coperture e dei riflessi sociali che ne deriveranno. L'abolizione dell'Ici per tutti, ricchi e poveri che siano, dovrebbe essere coperta dalla "spending review" che prevede un taglio di spese di 10 miliardi. Quando? Ovviamente a babbo morto, come si dice, perché la "spending" non è come premere un bottone e vedere i soldi che escono come nelle macchinette del gioco-scommessa. La "spending" deve riorganizzare in modo giusto alcuni servizi, diminuire il numero degli ospedali, dei tribunali, delle prefetture, dei servizi pubblici. Lunga lena, un paio d'anni prima di incassare. Nel frattempo il ministro dell'Economia anticiperà i soldi con una mano mentre con l'altra taglierà le spese dei ministeri dopo lunghe battaglie all'interno del governo. Andrà come andrà, ma certo il debito pubblico aumenterà. Per fortuna c'è Draghi e insieme a lui Ignazio Visco, con vaste operazioni sul mercato secondario dei titoli pubblici e con una svalutazione (già avvenuta da tempo) del cambio euro-dollaro. Va notato a questo proposito che la Federal reserve per la prima volta dopo dieci anni ha aumentato il tasso d'interesse rafforzando il dollaro rispetto all'euro, il che significa che la strada di Draghi non è priva di ostacoli, ma lui è abbastanza abile da ridurli al minimo. Prima conclusione: aumenta il debito pubblico. È vero che ci sono beni pubblici in vendita, ma anche lì ci vuole tempo e pazienza. Perciò keynesismo di sostegno finché l'Europa lo consentirà. L'anno dopo diminuzione dell'Irap. Di quanto? Questo non è chiaro, si vedrà col passar dei mesi, ma diciamo che non dovrebbe essere meno di 10 miliardi. Qui la pressione fiscale diminuisce di colpo e ovviamente le imprese ne sono felici e i salariati anche. Il salario netto resta invariato, il Tfr viene restituito e non gravato d'imposta. Tutto bene, con qualche cosa che somiglia vagamente al famoso bonus (elettoralistico) degli 80 euro mensili, con la

differenza che quelli non servirono ad aumentare i consumi e questo invece (l'Irap) stimola le imprese a investire nei limiti dello sgravio ricevuto. Ripercussioni sui nuovi posti di lavoro: future ma non immediate perché gli impianti sono largamente sottoutilizzati, perciò ci vorrà tempo. Ultimo anno: Irpef. Questa sì è una mezza rivoluzione: viene ridotta l'imposta sul reddito. Quanto non si sa, ma parecchio. Forse addirittura abolita. Sostituita da che cosa? Imposta generale sui consumi. La propose per primo Luigi Einaudi, una settantina di anni fa. Ma qui hai voglia a studiare, ad Elena Boschi verranno i capelli bianchi. Vincenzo Visco ha proposto come copertura il recupero dell'evasione fiscale, valutata in tutto a 110 miliardi, basterebbe recuperarne un terzo, ma non so perché gli hanno riso in faccia. Posso fare anch'io una proposta? Condivido quella di Visco, naturalmente, ma al posto delle (vaghe) proposte renziane direi di abolire totalmente il cuneo fiscale. Quindi tutti i contributi a carico della fiscalità generale, naturalmente progressiva. Questa sì, sarebbe un turbo-motore. Non lontano da 40 miliardi. Il recupero dell'evasione ne potrebbe essere l'intera copertura, ma con almeno tre anni di tempo. Il vantaggio sociale sarebbe duplice: l'evasione colpisce in gran parte i ceti possidenti; il turbo-motore spingerebbe le imprese a creare subito nuovi posti di lavoro con quel che ne segue economicamente e socialmente. E l'Europa? Qui si gioca la Stalingrado. Ne abbiamo parlato domenica scorsa e ne parleremo ancora. Cessioni di sovranità urgono, economiche e politiche. Qui si vince o si perde, qui la sinistra italiana ed europea deve condurre la sua battaglia sapendo che gioca tutto. Tony Blair lasciamolo ai suoi discorsi, fanno sicuramente divertire. AVVENIRE di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 Chiamiamoli per nome di Eraldo Affinati Noi e quelli delle “quote” Mi trovavo nel deserto marocchino, insieme ad alcuni uomini, fra i quali Moustafà, padre di Omar, a cui avevo insegnato a scrivere alla Città dei Ragazzi di Roma. La terra davanti a noi era la stessa che Charles de Foucauld attraversò da solo nella speranza di ritrovare dentro di sé, fra quelle dune sabbiose, lo spirito del falegname di Nazareth. Mi venne da pensare all’umile fratello, alla sua vita nascosta, mentre facevo le abluzioni prima di mettermi a pregare con i miei compagni, io unico bianco in mezzo a loro. Chissà, forse fu proprio il piccolo grande esploratore francese, assassinato da un adolescente che lui avrebbe voluto aiutare quasi cento anni fa nell’eremo di Tamanrasset, che mi spinse a chiedere a Moustafà, a cui avevo appena riconsegnato suo figlio, come considerasse i terroristi capaci di farsi uccidere insieme alle loro vittime. La sua risposta scese su di me alla medesima stregua di una benedizione: «Quelli non sono uomini religiosi». Da allora ho imparato a diffidare delle aride cifre e delle astratte definizioni che ogni giorno ci vengono propinate. Trecento profughi sbarcati qui. Cinquanta trasferiti là. Richiedenti asilo politico. Minorenni non accompagnati. Riscatti da pagare. Accoglienze da finanziare. Dentro queste sigle generiche, titoli di giornali, adesivi linguistici che si staccano subito dalle vite che dovrebbero indicare, non c’è la faccia impaurita di Mohamed chinato sotto le transenne del Centro di pronto intervento della periferia metropolitana quando vede una schiera di facinorosi inveirgli contro. L’espressione «quote da distribuire» non ci mostra l’ustione sul braccio di Mamoudou, costretto a stendersi in fondo alla barca, vicino al motore, quindi senza potersi proteggere dalla fuoriuscita della nafta e nemmeno il modo frettoloso con cui viene curato all’ospedale: gli infermieri si limitano a spargergli una pomata prima di dimetterlo. La dicitura «protocolli da eseguire» non ci fa capire la gerarchia presente all’interno dell’imbarcazione, dove quelli che hanno pagato di più possono respirare meglio degli altri, destinati a soffocare all’interno dello scafo e comunque tutti devono stare immobili durante l’intera traversata, se vogliono evitare il rischio di finire in pasto ai pesci. È questa la ragione per cui, mettendo da parte le procedure ufficiali, dovremmo chiamare per nome le persone che arrivano in Europa: Babucar, Alì, Sofiane, Raduane, Aminata, Fatima… Avanti, diteci chi siete, parlateci delle vostre famiglie, come avete vissuto, cosa vi è successo, dove abitate, quali sono gli obiettivi che vi proponete. Sarà come interpellare il nostro passato perché nessuno può illudersi di fare questo nuovo appello senza mettersi in gioco, sciogliendo i propri nodi spinosi, superando le forti resistenze che ci attanagliano, alcune delle quali sono storiche (pensiamo all’eredità

coloniale che ci portiamo dietro), ma altre riguardano la nostra esistenza e quella dei nostri genitori. Se ascoltassimo le vicende personali dei migranti, se fossimo attenti ai contesti, se guardassimo negli occhi chi abbiamo di fronte, avremmo l’opportunità di capire noi stessi. Egoismo, negligenza e indifferenza sono gli ostacoli che ritardano o impediscono questo difficile compito. Delegare alla classe politica tale incombenza sarebbe una falsa scorciatoia. Non si affronta un’osmosi di popoli come quella che stiamo vivendo con qualche semplice atto amministrativo. C’è un grande lavoro umano da compiere, improcrastinabile. Ognuno di noi è chiamato a svolgerlo. Per un cristiano, certo, si tratta della prova del nove: la verifica suprema, senza cui la fede si trasforma in una squallida assicurazione spirituale. Un ridicolo alibi interiore. Ma, prima di arrivare a tanto, dobbiamo soffiare sulla polvere della Carta costituzionale che i nostri padri ci hanno consegnato a prezzo di sangue e impedire che diventi, se non lettera morta, mero galateo di educazione civica a uso esclusivo di una sola parte. Incredibilmente sarà proprio il piccolo Sharif, arrivato in Italia nella pancia di sua madre e ora già vispo sul lettone col ciuccio in bocca, a farci riscoprire il senso pieno, lacerante e propulsivo, della democrazia. CORRIERE DEL VENETO di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 La seduzione del califfato di Stefano Allievi Il caso di Meriem, la 19enne marocchina di Arzergrande che ha abbandonato la famiglia per andare, forse, a combattere sotto le bandiere dell’IS, si presta ad alcune riflessioni non banali, e forse un po’ controdeduttive. Che valgono anche per altri casi di «foreign fighters» o aspiranti tali già partiti o con la voglia di partire per il sedicente califfato. Intanto, si tratta, se sarà confermato, di un percorso di radicalizzazione e di contrapposizione alla famiglia di una giovane: come ce ne sono tanti, dall’adolescenza in avanti, anche se non sempre prendono la direzione del radicalismo politico e ideologico (o, come in questo caso, politico-religioso – ma non c’è alcuna differenza, trattandosi di religione interpretata e vissuta come ideologia). Più spesso si tratta di una radicalizzazione di opinioni e stili di vita dissonanti che rimane nell’alveo del privato: dall’uso di stupefacenti all’identificazione con gruppi sociali marginali e contrappositivi, dalla frequentazione di gang giovanili all’inseguimento di mode e costumi comportamentali più o meno alternativi. E non di rado durano solo per un breve periodo di tempo, senza fare in tempo a trasformarsi in percorsi senza via d’uscita. A questo si aggiunge un percorso di emancipazione e di liberazione dall’autorità paterna e dall’ambiente familiare: che, avesse preso altre strade, qualificheremmo di moderno, approvandolo. Solo che in questo caso non si tratta della classica «fuga verso occidente» di tanti film di successo: innamorarsi di un occidentale non musulmano, scappare verso una metropoli, lavorare e abbandonare la religione e l’ambiente familiare, e magari, simbolicamente, togliersi il velo – una fuga verso la libertà su cui, se richiesti, esprimeremmo con naturalezza un parere positivo. Ma della scelta di staccarsi dall’ambiente familiare radicalizzandone i riferimenti (in questo caso, religiosi), reinterpretandoli e trasformandoli in comportamento dissonante. Come è accaduto in tante famiglie coinvolte e stravolte dal terrorismo rosso e nero degli anni di piombo: o come nella storia di scelta estremista e terrorista di una giovane proveniente da una famiglia per bene raccontata nel libro «Pastorale americana» di Philip Roth. Il percorso di Meriem ci fa vedere tuttavia alcuni altri aspetti. Il primo è il ruolo marginale o secondario dei cosiddetti reclutatori, cui giornalisticamente si fa spesso riferimento: quasi che attribuire a un qualche cattivo proveniente da un fuori non meglio identificato la responsabilità della scelta ci offrisse il sollievo di una spiegazione accettabile. Ma non è così. In questo come in molti altri casi la domanda precede l’offerta: il che naturalmente è assai peggio, perché mostra una capacità seduttiva e di richiamo forte che l’ideologia del califfato propone. Ed è proprio questo il punto principale. L’islam radicale gioca oggi, per una frangia irrequieta della gioventù islamica, un richiamo non dissimile da quello delle ideologie radicali degli anni ’70 per una frangia irrequieta della gioventù occidentale. Con in più la terribile concretezza dell’esistenza reale di un luogo mitico cui fare riferimento: il califfato, appunto – un po’ socialismo realizzato, un po’ isola di Utopia, un po’ Gerusalemme celeste (con la forza quindi di un richiamo e di una sorta di benedizione divina da non sottovalutare: il martirio

rappresenta questo). Che poi nella realtà somigli più alla Cambogia di Pol Pot o all’attuale Corea del Nord che al paradiso in terra poco importa: il suo richiamo non è nell’ordine della realtà, ma del sogno e dell’utopia. Reale, tuttavia, o in corso di realizzazione: da qui la sua forza seduttrice. Immaginiamo se le Brigate Rosse negli anni ’70 avessero avuto uno stato in divenire, e un terreno di scontro militare cui fare riferimento, quasi una concretizzazione della lotta tra bene e male: quante persone in più avrebbero attratto, o almeno sollecitato? In fondo, in chiave diversa, è lo stesso sogno che richiamava al combattimento giovani provenienti da ogni dove nelle Brigate Internazionali in Spagna, nel ‘36. E in tanti altri casi. Inclusi, per quel che riguarda l’islam, i precedenti del jihad afghano, ceceno o bosniaco. E’ per questo che il controllo e la repressione, pur doverosi e necessari, non basteranno. Come per i precedenti che conosciamo dalla nostra storia, è stata la battaglia culturale interna ai mondi che il terrorismo, senza volerlo, hanno espresso, la carta vincente che ha portato alla sconfitta di questi movimenti. Una battaglia quindi, in questo caso, per molti versi interna all’islam e alla sua meglio gioventù. LA NUOVA di domenica 26 luglio 2015 Pag 1 I migranti e l’ipocrisia che uccide di Francesco Jori Non siamo Stato noi, suggeriva quarant’anni fa il titolo di un micidiale libro di Stefano Benni. Nulla è cambiato, anzi è peggiorato, indica quarant’anni dopo la scandalosa sceneggiata sui profughi. Dove dal centro alla periferia, dal ministro ai prefetti, ai sindaci, in troppi non solo abdicano al proprio ruolo, ma si esibiscono in indegne piazzate in cui, complice una mediocre politica, viene messa a nudo la plateale inadeguatezza delle istituzioni. Di più: sottotraccia si coglie una meschina furbata che tende a scaricare il problema anziché ad affrontarlo di petto e con senso di responsabilità. Con una scelta che fa comodo a tutti, perché ciascuno ne trae un guadagno, tranne che ai diretti interessati: i profughi. Sappiamo tutti, ipocriti compresi, che non esiste una barriera sicura. Gli ipertecnologici Stati Uniti hanno speso miliardi di dollari per blindare il confine a sud con il Messico, senza riuscirci. La questione vera è come gestire un fenomeno che diventerà sempre più dirompente: e qui i Paesi occidentali, Europa in testa, stanno mettendo a nudo tutta la loro pochezza. L’86 per cento dei profughi, dunque quasi nove su dieci, oggi vengono accolti nel cosiddetto Terzo Mondo; noi civilissimi bianchi ci facciamo carico del residuo uno su dieci, ma giocando allo scaricabarile. In questo squallore, l’Italia si distingue per le furbate spicciole: al di là delle frasi di rito, l’obiettivo vero del nostro Paese è indurre sotto sotto chi sbarca da noi a cercare di spostarsi al più presto negli altri Stati europei, specie del nord, dove ci sono un mercato del lavoro più appetibile e un welfare di manica più larga. E per raggiungere questo scopo ne combiniamo di tutte: accoglienza frammentaria, strutture sovraffollate, distribuzione territoriale disomogenea, tempi di permanenza incerti, burocrazia biblica, scaricabarile tra istituzioni. Inclusi gli scandalosi litigi in piazza tra pezzi di Stato: ma quando mai il ministro responsabile e un sindacato dei prefetti si mettono a tirarsi pubblicamente gli stracci addosso, incuranti dell’immagine che questa cialtronata consegna al Paese? Il guaio è che un simile guazzabuglio fa comodo a tutti. A chi governa, perché inducendo i profughi ad andarsene alla chetichella scarica il peso su terzi. Alle istituzioni, perché così se la cavano con lo scaricabarile reciproco, giocando ai buoni e cattivi. Alla politica in toto, perché il non affrontare la questione in modo serio consente a tutti di recitare una parte: a chi si fa paladino dell’accoglienza, senza spiegare come; a chi si erge a difensore della patria, senza indicare alternative vere e praticabili. Così vengono sommerse anche le poche voci competenti e ragionevoli, come quella di Mario Morcone, prefetto capo dell’immigrazione, che inutilmente tenta di distogliere dalla rissa continua indicando la via più praticabile, sperimentata del resto da anni con successo a livello locale: piccoli numeri distribuiti in modo omogeneo sul territorio. Molto più comodo strillarsi addosso a vicenda, a costo di sprofondare nel ridicolo: davvero 80mila persone da sistemare provvisoriamente in un Paese di 60 milioni di abitanti sono un problema? Qualcuno dei non pochi urlatori seriali che gridano all’invasione sa che lo scorso anno, dei 170mila sbarcati in Italia, solo 7mila hanno chiesto asilo? Ci sono documenti dell’Onu e convenzioni internazionali liberamente sottoscritti da tanti Stati, Italia compresa. C’è una Costituzione sulla quale governanti e funzionari prestano giuramento, e che

all’articolo 10 sancisce i diritti dei profughi. Carta straccia. Meglio lucrare sulla propria immagine. A spese di chi paga a durissimo prezzo il proprio disperato tentativo di scampare alla morte. E che troppo spesso si ritrova morto in mare. O ucciso in modo silenzioso dall’ipocrisia. Pag 1 Ora Matteo tenta l’impresa di Fabio Bordignon Poteva sembrare un azzardo, fino a pochi anni fa, per il centro-sinistra, puntare le proprie carte sul voto degli imprenditori. Un segmento della società tradizionalmente sospettoso, per non dire ostile, nei confronti di questa parte politica. Da qualche tempo, tuttavia, anche sul terreno del lavoro autonomo si è aperta la caccia a un elettorato sempre più mobile, sciolto dalle fedeltà del passato. Su questo sembra basarsi la scommessa lanciata, in materia fiscale, dal premier Renzi. Le cui proposte hanno incrociato, nell’ultima settimana, gli appelli di Confindustria e Confcommercio. Un senso di déjà vu ha attraversato l’Italia, quando il segretario-Pd ha annunciato il suo piano di riduzione fiscale. Rewind: 2006, ultimo atto della campagna elettorale di Berlusconi. «Avete capito bene. Taglieremo l’Ici». Ancora più indietro: 2001, il Cavaliere, seduto alla scrivania di Vespa, sigla il contratto con gli italiani. In fondo, la battaglia anti-fiscale è il filo rosso che lega il percorso del centrodestra fin dal 1994. Asse portante di un progetto fortemente orientato al mercato e all’impresa. Capace di sfondare, da subito, presso i ceti produttivi. Non sono mancati - certo - i momenti di tensione con la grande industria e la sua rappresentanza. Ricordiamo le baruffe con Diego Della Valle, durante la campagna 2006. Ma bastò il blitz di Berlusconi a Vicenza, durante il convegno di Confindustria, a chiudere la crisi con il mondo dell’impresa. Quantomeno, con il mondo delle Pmi, ossatura del sistema produttivo. Così, oltre il 60% degli imprenditori e dei liberi professionisti, degli artigiani e dei commercianti votò per la Casa delle Libertà alle successive Politiche (dati Itanes). Uno schema ripetutosi nel 2008. Più volte, nel corso della Seconda Repubblica, il centrosinistra ha tentato di gettare un ponte verso le imprese. Senza riuscire, tuttavia, a scalfire una diffidenza spesso ricambiata. Nessuno, però, tra i suoi leader, si è mai spinto dove osa, oggi, il premier. Prefigurando il taglio delle tanto “odiate” Ires e Irap. E delle imposte sul mattone. Intervento sicuramente gradito, oltre che ai tanti proprietari di casa, agli operatori del settore edilizio e immobiliare. In questo modo, Renzi invade, definitivamente, il territorio del centrodestra. Evoca l’etichetta di “partito delle tasse”: per scrollarsela di dosso, una volta per tutte. Ruba gli slogan agli avversari, per conquistarne l’elettorato. Senza temere di essere descritto come un «Berlusconi di sinistra». Anzi: suggerendo intenzionalmente l’accostamento. Per promuovere il suo Pd come Partito della Nazione. E nuovo partito del lavoro autonomo. Del resto, nella fase recente, l’Italia delle imprese ha modificato i propri orientamenti. Ha eletto il M5S come proprio riferimento, alle Politiche 2013, assegnandogli il 44% (Oss. elettorale LaPolis-Univ. di Urbino). Un risultato garantito dall’afflusso di molti elettori di centrodestra. Frutto di una strategia mirata, che ha avuto nel tema delle tasse uno dei punti centrali. Ospiti degli artigiani di Treviso, Grillo e Casaleggio promisero di cancellare l’Irap. Mentre, sul fronte dell’evasione, fecero rumore le affermazioni giustificazioniste dell’ex-comico. Con l’avvento di Renzi alla guida del Pd, le cose sono cambiate. Alle Europee dello scorso anno, il partito ha sfiorato il 30%, tra gli imprenditori. Senza tuttavia superare il M5S (34%). I dati più recenti confermano il testa a testa, con un leggero allargamento del margine in favore dei 5Stelle. Nel frattempo, le quotazioni complessive dei partiti di centrodestra, sebbene in continua contrazione, rimangono poco sotto il 30%. Insomma, anche il voto del lavoro autonomo è ormai mobile, incerto, contendibile. Tripolare, come l’elettorato nel suo insieme. Per questo, Renzi l’ha messo nel mirino. Insieme a tutti quei settori che, in precedenza, votavano «dall’altra parte». In tanti hanno già manifestato la propria in-fedeltà, scegliendo il M5S. O addirittura il Pd. «Meno tasse, per tutti. Loro lo hanno detto. Noi lo abbiamo fatto», affermava il Renzi-sindaco, nel 2011, rivendicando la riduzione dell’addizionale Irpef a Firenze. Potrà dirlo anche il Renzi-premier? Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 25 luglio 2015

Pag 1 Il treno giudiziario dei diritti di Michele Ainis La politica assente Sul divorzio breve l’ha spuntata: dal maggio scorso è legge. Anche se i primi a usarla sono stati Civati e Fassina, rompendo il matrimonio col Pd. Viceversa sugli altri temi etici Renzi arranca, temporeggia, svicola. Il suo governo corre come un treno, ma sul binario dei diritti la locomotiva è ferma in galleria. Tuttavia i passeggeri non rimangono appiedati, perché montano a bordo di un treno giudiziario. Stazione d’arrivo: Strasburgo, dove ha sede la Corte europea dei diritti dell’uomo. La sentenza che ci impone il riconoscimento delle unioni gay è solo l’ultima d’una lunga filastrocca. In precedenza siamo finiti in castigo o per eccesso di diritto (con le due pronunzie del 2011 e del 2013, contro il reato di clandestinità e contro il sovraffollamento carcerario) o per difetto (da qui la sentenza del 2014 sul diritto d’attribuire ai figli il cognome della madre, nonché la condanna del 2015 perché l’Italia non punisce il reato di tortura). Ma i viaggiatori partono da Roma, dove c’è un doppia stazione ferroviaria. Alla Cassazione, che ha appena sancito il diritto di cambiare sesso senza subire mutilazioni genitali. E alla Consulta, che l’anno scorso demolì la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, mentre dal 2010 denuncia anch’essa la mancanza di ogni disciplina sulle coppie omosessuali. E la politica? Continua a contemplare il vuoto. Quello sul diritto d’asilo, per esempio: la Costituzione evoca una legge, dopo 68 anni stiamo ancora ad aspettarla. Lo ius soli, per fare un altro esempio: ovvero la cittadinanza ai figli degli immigrati regolari, un’altra promessa fin qui disattesa dal governo. Il testamento biologico: regolato negli Usa non meno che in Europa, mentre in Italia l’idea di regolarlo è deceduta insieme a Eluana Englaro. Né più né meno della legge sull’omofobia: approvata dalla Camera nel settembre 2013, desaparecida al Senato. Sarà per questo che la riforma costituzionale, nella sua ultima versione, amputa le competenze legislative del Senato sui temi etici. In queste faccende, la regola parlamentare è l’incompetenza. Tanto c’è sempre la competenza giudiziaria, che in 11 anni ha macinato 33 sentenze sulla fecondazione assistita, riscrivendo l’intera normativa. Domanda: perché? Da cosa dipende il protagonismo della magistratura? Potremmo rispondere che succede dappertutto: così, a giugno la Corte suprema degli Stati Uniti ha decretato il matrimonio gay, mentre in Olanda un giudice ha condannato lo Stato per l’immobilismo nelle attività di mitigazione del clima. Tuttavia sono eccezioni, non la regola. La regola eccezionale funziona solo qui, e funziona puntuale come un orologio. Potremmo osservare allora che la tutela dei diritti costituisce lo specifico mestiere di ogni magistrato; però altro è tutelarli, altro è crearli dal nulla come Giove. No, l’interventismo dei giudici italiani deriva dall’assenteismo dei politici italiani, dall’ horror vacui che regola la vita delle istituzioni. E in Italia il vuoto normativo deriva a sua volta dal potere interdittivo d’un alleato di governo o una corrente del partito di governo che sposa posizioni integraliste. Alle nostre latitudini, trovi sempre qualcuno più papalino del Papa. I giudici, viceversa, non se lo possono permettere. Dinanzi ai loro occhi sfilano uomini e donne in carne e ossa, con le loro sofferenze. Persone, non elettori. E la società italiana soffre d’una mancanza di tutele sui temi della vita e della morte, della sessualità, della protezione dei più deboli. I giudici lo sanno, i politici evidentemente no. Pag 1 Le quarte nozze del leader pd di Francesco Verderami In un anno e mezzo Renzi si è «sposato» tre volte in Parlamento, e ora si prepara al quarto, contrastato matrimonio. Dopo l’accordo di governo con Alfano, il patto del Nazareno con Berlusconi e l’intesa per il Quirinale con Bersani, il premier sembrava aver dato fondo a qualsiasi tipo di legame politico possibile. E invece ecco la liaison dangereuse con Verdini, che lo restituisce al ruolo di «sciupa-maggioranze» e ne mostra l’indole, quella di chi non si fa incastrare in uno schema. Un’alleanza non è per sempre, almeno non per Renzi. E siccome a settembre, sulle riforme costituzionali, il leader del Pd si gioca la sua testa, ha voluto decidere (anche stavolta) di testa sua. È vero che una parte dei renziani lo avrebbe sconsigliato dal compiere «una follia» con l’ex coordinatore di Forza Italia, preferendogli ancora Berlusconi. A questo serviva il rapporto di Zanda con il capogruppo azzurro Romani, che al collega democrat chiedeva un «segno» per ristabilire almeno l’antica armonia del Nazareno: «Basterebbe votare al Senato un ordine

del giorno sull’Italicum...». Sarebbe stato una sorta di accordo post-matrimoniale con cui i due ex coniugi si sarebbero spartiti il patrimonio: a Renzi sarebbe toccata la modifica della Carta costituzionale, a Berlusconi la modifica della legge elettorale con l’assegnazione del premio di maggioranza alla coalizione e non più alla lista. Ma Forza Italia si stava già sbriciolando, non reggeva. Verdini era già fuori prima di Fitto. Eppoi il leader forzista agli occhi del premier era ormai diventato «un tipo inaffidabile», giudizio peraltro ricambiato. La prova del tradimento Renzi sostiene di averla avuta quando alla Camera si votò la legge elettorale e Berlusconi - a suo modo di vedere - si sarebbe messo d’accordo con la sinistra del Pd per farla saltare: «Perciò allora ho messo la fiducia». È da allora che va avanti la storia con Verdini. Un matrimonio per delega, sia chiaro, ma che gli garantirebbe - di questo il premier ne è convinto - i numeri a palazzo Madama. Sarà pure così, e sarà anche vero - come dice Renzi - che sulle riforme «non ci saranno venticinque senatori del Pd a votare contro». Ma risolto il problema dei numeri, rimane il problema politico, e il premier dovrà sciogliere il nodo del suo partito: perché non è il suo governo in sofferenza ma il Pd. «Renzi - per dirla con il capogruppo di Ncd, Lupi - si trova oggi al bivio in questa sfida tra conservazione e innovazione». Dunque non basta l’ennesimo matrimonio di interessi, contro cui si scaglia la minoranza dem, impegnata ad additare «il rottamatore che si fa le riforme con i rottamati del centrodestra». Semmai Verdini è la cartina di tornasole di quanto sia «profondo e irrecuperabile» il rapporto tra il premier e una parte della «ditta», che gli scommette contro. Sottovoce questo tema affiora nelle conversazioni tra i renziani di provata fede, si proietta sugli scenari politici di settembre e anche oltre. Sta dentro una domanda: come potrebbero restare nello stesso partito quanti - dopo essersi divisi nel voto al Senato sulle riforme - si dividessero poi nel voto al referendum? Ecco la faglia che potrebbe dilatarsi fino a inghiottire governo e legislatura. Ecco il «bivio» che impone al segretario del Pd una scelta politica e la conseguente ricerca di interlocutori politici. Perciò i numeri non bastano e rischiano di essere un azzardo. Come in un azzardo potrebbe trasformarsi anche il referendum. «Allo stato attuale - spiega infatti il capo di Ipsos, Pagnoncelli - la maggioranza degli italiani voterebbe a favore delle riforme. Tuttavia quella stessa maggioranza non accetta l’idea di non poter scegliere i futuri senatori, nonostante la fine del bicameralismo perfetto. Se questo tema venisse cavalcato in campagna elettorale e venisse caricato di valenza politica, oggi - numeri alla mano - il risultato potrebbe venire rovesciato». E andrebbe in fumo il matrimonio di Renzi con il Paese. Pagg 1 – 3 Roma si è fermata al capolinea del bus di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella Domanda: in quale grande città europea già povera di linee della metro gli autobus se la prendono comoda «bucando» mediamente una corsa ogni sei? Risposta: Roma. C’era già quasi tutto, sul disastro dell’Atac, e quindi della Capitale di cui l’azienda dei trasporti è uno dei simboli sgangherati, nei dati del polemico carteggio avvenuto in questi mesi tra il direttore operativo dell’azienda Pietro Spirito e Angelo Artale, il direttore generale della Finco, federazione aderente alla Confindustria, che lamentava una serie di disservizi patiti dai propri collaboratori. Numeri agghiaccianti. Inaccettabili per una città con 3 milioni di abitanti e 40 milioni di turisti l’anno. Figuriamoci se poi è anche la capitale d’Italia. E in ogni capitale che si rispetti la qualità dei servizi pubblici è lo specchio del Paese. Dicevano le rilevazioni statistiche relative al mese di gennaio 2015 che in una sola giornata, per la precisione un sabato, si erano perdute 865 corse. Per la linea 60, una delle più centrali, non ne erano state effettuate in una settimana ben 383, vale a dire 12,6 al giorno: quasi una ogni ora, s’intende escludendo la notte. I motivi? Magari l’organizzazione, se è vero che sempre a gennaio sono state fatte 3.388 ispezioni sulle anomalie del cosiddetto «accodamento» di due o più vetture (autobus della stessa linea fermi al capolinea o che procedono uno dietro l’altro). E pensare che i richiami sull’accodamento nel gennaio 2007 erano stati appena 163. Un ventesimo di quelli di otto anni dopo. Dunque delle due l’una: o le verifiche sui disservizi non erano mai state fatte per anni con analogo zelo, oppure gli autobus allora funzionavano benissimo. Il che, ovviamente, è fantascienza. Ma ai ritardi e alle corse saltate contribuisce pure lo stato pietoso dei mezzi. Su 2.300 autobus disponibili ce ne sono 600 letteralmente

inservibili. Per il trasporto, ovviamente: servono come pezzi di ricambio. Ma all’Atac non deve funzionare bene neppure il cannibalismo. Dicono sempre i dati dell’azienda che gli interventi dei meccanici di piazza sulle vetture rotte hanno una percentuale di successo del 55,18 per cento. Quasi metà non si riescono a riparare e devono essere ricoverate nelle officine. Dove, non ci crederete, ma il pomeriggio non si lavora. I cittadini (e, immaginiamo, anche i turisti esterrefatti) l’hanno scoperto grazie ai manifesti con cui il Partito democratico ha tappezzato generosamente la pareti delle strade cittadine. Testuale: «Atac - Officine aperte anche il pomeriggio. Una proposta sostenuta dal Pd per migliorare il servizio di trasporti pubblico ai cittadini». È concepibile che una metropoli frequentata da 40 milioni di turisti con i trasporti che non funzionano e gli autobus che si scassano a ripetizione tenga le officine chiuse il pomeriggio? Ed è possibile che nessuno sia mai intervenuto prima per mettere fine a questo sconcio? Pesantissime sono in questo caso le responsabilità della politica. Di tutti i partiti che si sono alternati al Campidoglio: le maggioranze, perché hanno governato male, e le opposizioni, perché non si sono opposte abbastanza. E se non si può mettere la croce addosso al solo Marino, certo dopo due anni di governo è lecito chiedere che cosa si è fatto, oltre a scoprire che le officine dell’Atac sono sempre rimaste chiuse il pomeriggio. Perché il crac dell’azienda dei trasporti della Capitale, che è stato certificato ieri in modo drammatico con il licenziamento dei responsabili e perfino dell’assessore Guido Improta, non è il semplice fallimento di un’azienda municipalizzata. Anche se una delle più grandi del Paese: il gruppo ha 12 mila dipendenti, più dell’Alitalia. E non è un caso che si stia pensando proprio a una soluzione come quella studiata a suo tempo per la compagnia di bandiera. Con l’Atac è fallito un modello assurdo di relazioni industriali incentrato sul rapporto perverso fra i sindacati e la politica. Ed è anche il fallimento di un sistema clientelare per il quale l’interesse dei partiti, delle correnti e dei comitati d’affari (che spesso coincidono con i partiti) prevale sempre sull’interesse pubblico. Lo stesso sistema con il quale è stata gestita per anni la città, precipitandola in un degrado disastroso. A prezzi astronomici. Così all’Atac, dove i contratti venivano negoziati direttamente fra i sindacati e i politici, scavalcando i vertici aziendali, con il risultato che un autista di tram guidava 700 ore l’anno contro le 850 di un suo collega napoletano e addirittura 1.200 di un tramviere milanese. Ed è bastato mettere in discussione alcuni dei privilegi portati a casa in quel modo negli anni per scatenare un feroce sciopero bianco, con le metropolitane bloccate per ore, ritardi biblici nel servizio e drammatiche tensioni sociali. Un ricatto odioso, che ha dimostrato quanto sia ancora potente il fronte degli irriducibili. E così pure all’Ama, che di dipendenti ne ha quasi 8 mila. Alla municipalizzata dei rifiuti si era arrivati a siglare quattro anni fa un contratto integrativo che riconosceva il premio di produttività a chi si era presentato al lavoro almeno metà delle giornate e non aveva accumulato più di cinque giorni di sospensione per motivi disciplinari. Scoperta di queste ultime ore, grazie a un altro manifesto del Partito democratico con cui sono stati riempiti i muri della città, a Roma nei giorni festivi la spazzatura resta nei cassonetti. Testuale: «Ama - La raccolta dei rifiuti anche la domenica - La proposta sostenuta dal Pd per una città più pulita». Ci si può stupire allora che le strade della Capitale siano in condizioni indecenti dal centro alla periferia? Che i giardini pubblici siano un ricettacolo di sporcizia? Che anche le piazze e le vie più frequentate dai turisti siano piene di immondizia? Nonostante un costo della tariffa per i rifiuti soldi urbani fra le più alte d’Italia? Quel modello di tutela di certi interessi corporativi, si diceva, ha fatto scuola. Superando evidentemente anche i confini delle società comunali. Succede allora che una mattina di luglio migliaia di turisti, magari reduci da una sfacchinata nei carri bestiame dell’Atac, arrivati davanti al Colosseo (che con 6 milioni di ingressi l’anno è fra i monumenti più visitati del mondo) trovino il cancello sbarrato e un cartello che dice: «Chiuso per assemblea. Ci scusiamo per il disagio». Con traduzione pure in inglese, bontà loro. Ma niente tedesco, né francese, e nemmeno spagnolo. Il cinese, poi... Chi lo sa il cinese? E se la stessa cosa capita il giorno dopo, come è capitato, alla Galleria Borghese, ci possiamo meravigliare se mr e mrs Smith, tornati a Los Angeles da un viaggio allucinante a Roma consigliano ai loro amici di non metterci piede? Magari trasferendo il loro giudizio su uno di quei siti internet, tipo Tripadvisor, che sono ormai la bibbia dei viaggiatori? Fatevi un giro, su quei siti, per vedere quali giudizi lusinghieri vengano affibbiati ai servizi pubblici della Capitale. Uno a caso, dal suddetto Tripadvisor: «Autobus affollatissimi agli orari di punta, ancora più rarefatti in altri orari. La sofferenza

è garantita. Pulizia zero, sicurezza zero. Vergognoso». Questa è la vetrina della città più ambita, dicono le rilevazioni, dai turisti di tutto il mondo. Ed ecco perché non basta dire che si volta pagina, come tante volte si è fatto, e si è fatto anche ieri, se poi la pagina non si volta sul serio. Né può essere considerata una vera soluzione un licenziamento in conferenza stampa di un singolo assessore che già un mese fa aveva del resto manifestato l’intenzione di gettare la spugna. Quando due anni fa l’amministrazione attuale si è insediata l’Atac era una società nel cui bilancio figuravano perdite portate a nuovo per 700 milioni: polvere messa sotto il tappeto, ma che qualcuno prima o poi avrebbe dovuto togliere. Tirando fuori, appunto, tutti quei soldi. Era una società decotta da tempo immemore, con una storia funestata da vicende sconcertanti come un’inchiesta giudiziaria su biglietti falsi, si disse per milioni, e tangenti per l’acquisto di filobus mai utilizzati: perché non esisteva nemmeno la corsia attrezzata per farli marciare. Una municipalizzata di trasporto pubblico nella quale gli incassi dei biglietti non coprivano a fine anni Novanta che il 24 per cento dei costi, contro il 35 per cento stabilito come limite minimo da una legge dello stato, e che oggi incassa il 38 per cento degli introiti contabilizzati dalla milanese Atm. Con costi astronomici, i più alti d’Italia: oltre 10 euro a chilometro. Un’azienda con un assenteismo impressionante, arrivato a superare le 1.400 assenze giornaliere: quasi il 12 per cento della forza lavoro dell’intero gruppo. E alla quale non era stato risparmiato, come estremo sfregio, nemmeno l’assalto di Parentopoli. Per non parlare dei megadirettori che durante la precedente giunta avevano retribuzioni superiori ai 350 mila euro, e dell’evasione: il numero dei passeggeri degli autobus che non pagano il biglietto arriva anche al 40 per cento. I controllori erano appena settanta, poi sono diventati 300. Senza tuttavia grandi progressi. La logica del Codice civile avrebbe consentito allora di portare i libri in tribunale. Che però non è accaduto. Sarebbe stata una iniziativa traumatica, certo. Ma come già si era verificato per l’Alitalia, il medico pietoso ha reso il malanno ancora più grave. Dichiarare fallita l’Atac due anni fa avrebbe fatto scoppiare il bubbone avendo poi il tempo per rimediare. Soprattutto, sarebbe arrivato forte e chiaro un messaggio a tutto quel mondo clientelare e affaristico che sui conti della città più grande d’Italia ha speculato ignobilmente per anni, come dimostrano le inchieste di Mafia Capitale. Ma anche a chi semplicemente ci campava con il minore sforzo e impegno possibile. Il messaggio che chi sbaglia deve pagare. E le toppe non si mettono più. Vedremo ora. Qui non è in ballo il salvataggio di un’azienda pubblica, ma il salvataggio di Roma. Da come sarà affrontato questo passaggio dipende tutto. Anche il futuro politico di Marino. AVVENIRE di sabato 25 luglio 2015 Pag 1 Anti-califfo per forza di Giorgio Ferrari La scelta obbligata di Erdogan La guerra al Califfato, quella vera, è cominciata. Dopo lunghi mesi di ambiguità, viziati da molti sospetti, la Turchia si è finalmente mossa in armi contro lo Stato islamico con un’azione militare condotta dall’aviazione di Ankara al confine siriano, «primi passi per combattere l’Is», come ha dichiarato il presidente Erdogan, «che continueranno nel futuro». Il risultato, 35 jihadisti uccisi e oltre 290 arresti in tutta la Turchia in un blitz antiterrorismo, lascia pochi dubbi. Contemporaneamente Erdogan ha annunciato che la base aerea turca di Incirlik (la più grande della regione, la stessa che nel 1991 venne utilizzata dagli americani nella Prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein) potrà essere impiegata dalla coalizione anti-Is – se pure «a certe condizioni» – a conferma dell’impegno assunto dopo una telefonata con Barack Obama per combattere insieme contro la minaccia del califfo nero. Che cosa è cambiato rispetto al passato? La strage di Suruc, il terribile attentato kamikaze contro i volontari curdi che stavano per iniziare un programma di ricostruzione della città di Kobane lungo il confine siro-turco, ha certamente rimescolato le carte e indotto Erdogan a passare, come scrivono i giornali di Ankara, «da una strategia passiva alla difesa attiva». Ma la 'conversione' del presidente turco ha motivazioni più urgenti e molto meno ideali di quanto non potrebbe sembrare. Perché il principale problema di Erdogan, o meglio il suo nemico numero uno, non è l’Is, ma sono proprio i curdi. I curdi siriani che guadagnano terreno nella guerra di posizione contro il Califfato, i curdi che accusano il governo centrale di Ankara di avere troppe volte passato armi e logistica ai jihadisti anti-Assad, gli stessi curdi che tramite la più

radicale delle loro formazioni politiche, il Pkk turco, si sono resi responsabili di atti di insurrezione e di attentati contro le forze dell’ordine turche. Non a caso nell’azione antiterrorismo iniziata nel Paese con un’ondata di arresti in sedici città Erdogan non fa distinzione fra jihadisti e partigiani del Pkk. Ma a togliere il sonno a Erdogan sono anche i curdi sul fronte politico interno: perché è stato il successo dell’Hdp, il Partito democratico del popolo di Selahattin Demirtas – una sorta di versione curda di Syriza – a infliggere nelle recenti elezioni politiche uno schiaffo memorabile alle ambizioni di Erdogan, facendo perdere all’Akp (il partito di ispirazione islamica che si proclama moderato) la maggioranza assoluta che deteneva dal 2002. Tanto che, fino a questo momento, ancora non c’è una maggioranza di governo ad Ankara. In compenso c’è il risveglio di un ingombrante vicino come l’Iran, rimesso prepotentemente in gioco dall’accordo sul nucleare stipulato con la comunità internazionale, un player regionale che insidia da vicino il primato che Erdogan ha a lungo perseguito nel suo sogno neo-ottomano, e che ripresentandosi sul proscenio mediorientale ha l’effetto di ridare fiato all’altro acerrimo nemico della Turchia, quel Bashar al-Assad da sempre vicino a Teheran che invano Ankara ha cercato di annientare arrivando perfino – i sospetti (e certe prove documentali) sono pesanti – a finanziare l’Is. Infragilito dalla perdita di consenso, impossibi-litato a rimanere inerte di fronte agli attacchi sul suolo turco, preoccupato per l’isolamento internazionale che la sua deriva autoritaria aveva finito per suscitare, Recep Tayyp Erdogan, l’uomo che si credeva un sultano intoccabile, il politico che aveva vinto plebiscitariamente tre elezioni confermandosi il leader turco più amato dopo il padre della patria Kemal Atatürk , ora si trova a fare i conti con la realtà, anzi, con il realismo che la politica impone. Sicuramente approfitterà delle operazioni anti-Is per mettere la mordacchia ai curdi di casa sua, né ci si deve illudere su una sua conversione verso una gestione del potere più democratica: se tende la mano a Obama è solo per convenienza e per il timore di scivolare nell’irrilevanza. Ma – come già Niccolò Machiavelli e Giambattista Vico teorizzavano – l’eterogenesi dei fini è più forte delle intenzioni umane. E la guerra contro il califfo dei tagliagole vale bene un sultano in affanno. Pag 3 L’Ucraina assetata di pace fa i conti col conflitto infinito di Mauro Mondello “Ci avete dimenticati”: voci dalla guerra “a bassa intensità” Trecentoventi chilometri. Una linea di fuoco che da Sud a Nord taglia la regione ucraina del Donbass e comprende le città di Mariupol, Donetsk, Debaltseve e Lugansk, sino al confine russo. È questo lo spazio di terra nel quale si continua a combattere la guerra ucraina, un conflitto a bassa intensità che, incurante del cessate il fuoco firmato lo scorso febbraio da separatisti filorussi ed esercito di Kiev, continua a mietere vittime, oltre 8mila dall’inizio di uno scontro ormai in corso da ben più di dodici mesi (gli ultimi giusto ieri: un soldato ucraino ucciso e altri tre feriti nel Donbass). La guerra in Ucraina non è finita. Nella capitale, nelle città occidentali di Odessa, Leopoli, Cernivci, la vita scorre tranquilla. I locali restano aperti sino a tardi, i giovani sciamano in giro per le vie del centro, auto di lusso sfrecciano verso i quartieri alla moda. Intanto, un centinaio di chilometri più a est si continua però a combattere una lotta durissima e silenziosa, combattuta centimetro dopo centimetro, in un territorio cuscinetto fatto di check-point, conflitti a fuoco, barricate e colpi di mortaio. «A me non sembra proprio che questa si possa chiamare pace – racconta Taras Putivcev, 40 anni, volontario nelle formazioni filorusse che difendono la città di Donetsk, roccaforte ribelle e capitale dell’omonima autoproclamata Repubblica popolare, confluita nella Federazione russa –. Si sente sparare tutto il giorno, da una parte e dall’altra. Spesso è persino difficile capire da dove stiano arrivando gli scoppi di artiglieria, qui è il caos, non ci sono regole, ogni gruppo cerca di difendere il pezzo di terreno che si è conquistato, non importa come e a che prezzo». Chi combatte vive da mesi in scantinati abbandonati intorno all’aeroporto di Donetsk, dove si registrano gli scontri più duri. Le immagini di distruzione del villaggio di Pisky, a pochi chilometri dallo scalo, sono la rappresentazione perfetta di un conflitto che non intende fermarsi. Non un solo palazzo è stato risparmiato dai colpi d’artiglieria mentre gli uomini, da una parte e dall’altra, continuano ad assembrarsi, in attesa che il livello del conflitto torni ad alzarsi. La conferma del clima di grande tensione che si respira a Donetsk è il bombardamento che nella notte fra il 18 e il 19 luglio ha colpito diversi edifici nel centro della città, terrorizzando la popolazione civile e causando,

secondo fonti del governo ucraino, la morte di 4 persone. Un segnale tangibile, quello dell’attacco a Donetsk, di un cessate il fuoco che sino a ora ha fallito su tutta la linea. Secondo gli accordi di Minsk, stipulati in febbraio da Russia, Ucraina, Francia e Germania, nel corso di questi mesi le forze in campo avrebbero dovuto ritirare le armi pesanti dal fronte militare, permettere agli osservatori internazionali un monitoraggio completo ed effettivo della zona di guerra e del confine russo-ucraino e organizzare una tornata elettorale in tutta la regione che tenesse conto delle richieste ribelli di indipendenza, ma sotto l’egida politica ucraina. Nessuno di questi punti è stato concretamente implementato e la sensazione è che le schermaglie militari che si sono registrate nel corso delle ultime settimane potrebbero presto riesplodere in un nuovo conflitto su larga scala. «Stiamo combattendo contro Vladimir Putin, una persona che non è mentalmente stabile – ha dichiarato qualche giorno fa alla stampa Andryi Gegert, comandante dell’ottavo battaglione della formazione Settore Destro, la forza politica ultranazionalista che ha organizzato un nutrito gruppo di volontari in appoggio all’esercito regolare di Kiev e che si batte alla porte della città di Mariupol –. Nel resto dell’Ucraina, forse nel resto d’Europa, ci si è dimenticati della nostra guerra. Eppure qui la situazione continua a peggiorare. La scorsa settimana un mio uomo è stato ucciso in una sparatoria contro i ribelli vicino alla città di Shyrokyne (un piccolo villaggio sul Mar d’Azov, a una trentina di chilometri da Mariupol, ndr), quotidianamente rischiamo la vita per il nostro Paese, ma nessuno ne parla. La soluzione non c’è, purtroppo. Tutto quello che possiamo fare è uccidere i nostri nemici e difendere la patria ucraina!». Ufficialmente il governo degli Stati Uniti ha deciso di ritirarsi dalla partita diplomatica, ma appare chiaro il coinvolgimento Usa nella strategia utilizzata dal presidente ucraino Poroshenko nel corso degli ultimi mesi. La decisione dell’esecutivo di Kiev di nominare Mikheil Saakashvili, ex presidente della Georgia e personaggio particolarmente inviso alla Russia, come nuovo governatore della regione di Odessa, e il rigido blocco economico e commerciale imposto a tutta la regione del Donbass dal governo ucraino, sono infatti sembrate scelte di campo coordinate e sostenute dall’amministrazione americana. Il ruolo di Washington è invero divenuto centrale negli ultimi mesi: dopo che Francia e soprattutto Germania hanno inevitabilmente scelto di defilarsi dal confronto per concentrarsi sulla crisi economica greca, il governo americano ha deciso di impegnarsi in prima linea nel timore di lasciare campo libero a Mosca. «Con l’accordo di Minsk la Russia si è ritagliata un ruolo fondamentale nella discussione politica in corso – ha spiegato Alexander Khodakovsky, un ex ufficiale delle forze speciali ucraine, oggi fra i leader militari delle formazioni ribelli a Donetsk –. Durante le trattative è stata chiarita l’influenza russa sull’area del Donbass e adesso è necessario fare i conti con noi». Alla luce dei fatti, lo scenario più credibile appare al momento quello di un conflitto da congelare, con la regione di Donetsk considerata de facto come entità autonoma e sostenuta finanziariamente dal governo russo. Data le disastrose condizioni economiche del governo centrale ucraino, una soluzione di questo genere potrebbe forse trovare diverse sponde favorevoli. Di fatto, garantirebbe all’Ucraina lo status quo diplomatico sulla regione, e ai ribelli l’effettivo controllo dell’area. Sono in molti, d’altronde, a sostenere il disimpegno di Kiev nella battaglia a Est. «Non capisco per quale motivo i nostri uomini debbano andare a morire per riunificare un territorio che non ha intenzione di stare con noi e che non condivide i nostri ideali europeisti – spiega Alissa Novitchkova, legale dell’organizzazione non governativa Euromaidan Sos –. Smettiamola di combattere: se vogliono stare con la Russia, che ci stiano, l’importante è che ci lascino in pace». Intanto nella capitale c’è chi ha ingaggiato una vera battaglia contro le formazioni politiche più a sinistra: ieri il ministro della Giustizia Pavlo Petrenko ha deliberato che i tre partiti comunisti ucraini ancora attivi vengano messi fuori legge. A scontrarsi però con un’ipotesi di disimpegno è il timore che Mosca, una volta ottenuto il via libera nella regione del Donbass, possa insistere cercando di penetrare in altre aree del Paese. In tanti, all’inizio degli scontri fra Russia e Ucraina, partiti nella primavera del 2014, pensavano che Vladimir Putin si sarebbe accontentato della Crimea, ma non è andata così. Dopo Sebastopoli è stato il turno di Donetsk, e in molti credono che l’obiettivo seguente potrebbe collocarsi più a Nord, verso la città di Kharkiv. La guerra in Ucraina, purtroppo, non è ancora finita. IL GAZZETTINO di sabato 25 luglio 2015

Pag 1 Basta con i diktat dei sindacati, il governo si muova di Giovanni Sabbatucci Uno dei principi basilari dell’ordinamento liberale e della stessa convivenza civile è quello che pone limite invalicabile all’esercizio dei propri diritti (si tratti di singoli o di categorie organizzate) il rispetto dei diritti altrui. In questo torrido inizio di estate italiana, il principio è stato violato spesso e sistematicamente da una prassi sindacale poco rispettosa di quel limite, insofferente a qualsiasi codice di autoregolamentazione e pregiudizialmente ostile a ogni intervento legislativo in materia di astensione dal lavoro: il tutto senza che da parte dei cultori della “costituzione più bella del mondo” si siano levate proteste per la mancata attuazione dell’articolo 39 della carta fondamentale, quello che vuole il diritto di sciopero esercitarsi “nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Ieri uno sciopero del sindacato dei piloti e degli assistenti di volo (non stiamo parlando di minatori o di braccianti) ha rischiato di paralizzare il traffico aereo in una giornata chiave per gli spostamenti, penalizzando non solo i vacanzieri (che comunque meritano rispetto), ma anche la compagnia di bandiera impegnata in una difficile operazione di rilancio. Per non dire del danno inflitto all’immagine dell’Italia come meta turistica, dopo la lunga semi-paralisi (ma questa volta i sindacati non c’entravano) dello scalo di Fiumicino. Sempre ieri, per la quarta o quinta volta in pochi mesi, gli aspiranti visitatori degli scavi di Pompei, una delle mete più battute dai flussi turistici, sono stati costretti ad aspettare per ore al sole. A causa di un’assemblea sindacale convocata dal personale senza alcun preavviso. Tornando alla capitale, da settimane ormai una sorta di sciopero bianco degli addetti alla metropolitana sta provocando ritardi, file, proteste, disagi di ogni sorta in una rete già insufficiente e sovraccarica in condizioni normali (normali si fa per dire, visto che gli scioperi sono diventati ormai un’abitudine, per lo più di venerdì), ma pur sempre unica via per assicurare a centinaia di migliaia di romani spostamenti in tempi prevedibili. Facile notare che le agitazioni di cui abbiamo appena parlato, come tutte quelle che riguardano il settore pubblico e i servizi, hanno colpito gli utenti, in gran parte lavoratori, prima che i datori di lavoro; e hanno fatto sentire i loro effetti soprattutto nel Centro-sud, ovvero nelle aree più deboli di un paese che già fatica a ritrovare la strada della crescita. Roma, capitale, città-simbolo nel bene e nel male, oggetto di stupore e di ironia da parte degli osservatori e dei visitatori stranieri come ai tempi del papa-re e del grand Tour, diventa l’epitome di un degrado irredimibile, l’immagine di un organismo che rischia di collassare per le strozzature del suo sistema circolatorio. Ma è evidente che il problema riguarda l’Italia nel suo insieme. E dunque rinvia anche alle responsabilità del governo, oltre che a quella delle amministrazioni locali. Nel programma di Renzi, che ogni giorno si allarga a includere nuovi e ambiziosi traguardi (compresa l’imprescindibile riforma della burocrazia), non starebbe male una specifica attenzione al tema delle vertenze di lavoro nel settore pubblico. Occorre in primo luogo evitare che i rinnovi dei contratti si trascinino per anni, lasciando aperte controversie che costano, in termini di disagi per gli utenti, più di quanto facciano risparmiare alla finanza pubblica. Ma serve anche ristabilire una ragionevole proporzione fra la rappresentatività di una sigla sindacale e la sua capacità di paralizzare un servizio, fra il motivo scatenante di una vertenza e le ricadute che essa può avere sulla generalità dei cittadini. È un’operazione difficile dal punto di vista teorico (chi stabilisce qual è la proporzione ragionevole?) e rischiosa sotto il profilo politico, viste le prevedibili resistenze sindacali. Ma anche da questa strettoia il presidente del Consiglio dovrà passare se vorrà tener fede alla sua immagine di politico “nuovo”, capace di privilegiare, non solo con gli annunci, le esigenze del cittadino comune (l’utente dei servizi, il contribuente, l’elettore d’opinione) rispetto a quelle dei gruppi di pressione e degli interessi organizzati. Pag 1 Così Berlusconi punta ai 23 milioni di “non elettori” di Bruno Vespa Nella penombra del suo studio di palazzo Grazioli, Silvio Berlusconi non appare affatto preoccupato per l’abbandono di Denis Verdini. I tendaggi preziosi oscurano finestre a loro volta oscurate dalle persiane: precauzioni utili ai vecchi proprietari del nobile palazzo per difendersi dall’afa romana. Inutili al Cavaliere, il cui appartamento è dotato di un condizionamento silenzioso e perfetto. Verdini, dunque. Ne parla come di un vecchio amico protagonista di un dissenso senza traumi: lui vuole sostenere Renzi, io

credo che sia un errore. Ognuno per la sua strada e amici come prima. Berlusconi sa che per Renzi Verdini è un alleato che scotta. Che differenza c’è tra lui e i ‘responsabili’ che nel dicembre 2010 aiutarono il Cavaliere a sopravvivere alla scissione di Fini? I ‘responsabili’ che vanno in soccorso di un governo in difficoltà sono (dovrebbero essere) uguali sotto tutte le bandiere. Quanti insulti si prese allora Berlusconi? Renzi ha buona memoria e sa che i D’Alema e i Bersani non aspettano altro. Guai perciò se la riforma del Senato fosse approvata con il voto determinante dei nuovi "responsabili". La guardia pretoriana serve alla salvaguardia del principe, non a vincere una battaglia. Perciò Renzi farà di tutto per trovare i suoi "responsabili" all’interno di quel Pd dove gli "irresponsabili" che votano regolarmente contro il governo o lasciano l’aula al momento giusto sono troppi per stare dentro e fuori troppo a lungo. Il giorno in cui Renzi facesse un vero "partito della Nazione" lasciando l’ancoraggio a sinistra, i D’Alema e i Bersani se ne andrebbero. Ma allora sarebbe la sigla Pd ad essersene già andata. Berlusconi sa benissimo tutto questo. Perciò Verdini non lo preoccupa più di tanto. I suoi pensieri vanno oltre. Perfino oltre Forza Italia. Il suo pensiero va a quel 54 per cento di italiani che secondo gli ultimi sondaggi oggi non voterebbero. 23 milioni di elettori. Gente che non protesta. Chi protesta va con Salvini o con Grillo. Berlusconi vuole recuperare chi sta zitto, chi è troppo schifato per parlare e per votare, chi pensa al giorno delle elezioni come a una giornata persa. A un anno dal compimento degli ottanta, l’uomo diventato ricco facendo vendere con la pubblicità i prodotti più cari agli italiani conosce ancora perfettamente gli umori del suo popolo. Come li conosceva nel ’94, quando fece in tre mesi un partito dal niente, lo imbottì di non politici e diventò all’istante presidente del Consiglio. Certo, i tempi sono molto cambiati. L’unica costante sono rimasti alcuni magistrati che da Milano a Napoli lo vorrebbero in prigione. Ma lui pensa a una eredità che non è il "delfino" di Forza Italia. Anzi, che non è più nemmeno Forza Italia. È Altra Italia, una cosa nuova e diversa che sappia dire a quei 23 milioni di disgustati: provate per l’ultima volta ad avere fiducia. Occorre tempo, certo. Ma occorre anche dare un’occhiata a quel che fa Renzi: le unioni civili in pasto alla sinistra e una politica economica di destra. Come farà il Cavaliere a votare no all’abolizione della tassa sulla prima casa? Già come farà? Magari voterà sì, perché il copyright è suo: 2006, ultima battuta nel confronto televisivo con Prodi; 2008, prima riunione del Consiglio dei ministri. Anche Berlusconi vuole fare il suo Partito della Nazione, come nel ’94 quando mise insieme missini e leghisti, democristiani e socialisti, socialdemocratici e repubblicani e liberali. Chi farà prima svolta? Chi sarà più convincente? LA NUOVA di sabato 25 luglio 2015 Pag 1 Imu, il fisco di destra e di sinistra di Bruno Manfellotto Ahi ahi la casa! Sogno di ogni italiano, incubo di ogni contribuente, volano del risparmio e dell’economia made in Italy e parola chiave sulla quale si vincono o si perdono le elezioni. Alla regola non poteva sfuggire Matteo Renzi che dell’abolizione parziale o totale dell’Imu ha fatto il perno del suo piano di taglio delle tasse (40 miliardi in tre anni). E dunque evviva, bravo, era ora? Manco per niente. Su di lui si è abbattuta una pioggia di critiche espresse con la solita aria di sufficienza. Vediamo perché. Cominciando da una breve storia dell’Ici. Illuminante. La inventò Giuliano Amato, nel 1992, l’anno della maximanovra da 90mila miliardi (c’era ancora la povera liretta). Lui sognava la patrimoniale, alla fine atterrò su qualcosa di simile ma di più digeribile, un’imposta che colpiva il 70-80 per cento degli italiani: il mattone. Il nome Ici si deve però a Carlo Azeglio Ciampi, che venne dopo di lui. Qualche anno dopo, complice Berlusconi, lo slogan «meno tasse per tutti» entra ufficialmente nel linguaggio politico e diventa l’ossessione di ogni campagna elettorale. Nel 2006 il solito B. promette di abolirla; nel 2007 è invece Prodi a ridurre quella sulla prima casa; nel 2008 B. la cancella del tutto, ma nel 2011 la reintroduce dal 2014; Mario Monti, con il paese sull’orlo del default, la anticipa al 2012, prima casa compresa, quasi 5 miliardi di gettito; Enrico Letta la lascia là; Renzi all’inizio dice «pericoloso toglierla», poi cambia idea. Perché? Innanzitutto perché, a differenza di ciò che dicono molti economisti, la tassa sulla casa non è affatto ininfluente sull’andamento dell’economia, almeno in Italia: qui la ripresa è sempre stata accompagnata dal risveglio del mercato edilizio e immobiliare; senza contare, poi, l’effetto psicologico che ha una tassa sulla casa e i riflessi sulla

disposizione ai consumi. Certo, avrà pesato anche la politica, cioè la necessità di tagliare le unghie ai populismi dilaganti e di strizzare l’occhio agli italiani proprietari di casa e alle partite Iva (prevista anche la riduzione di Ires e Irap), ma le perplessità vengono proprio da sinistra, e certo non è un caso che i dubbiosi contino anche sull’ex ministro Vincenzo Visco, protagonista della più seria lotta all’evasione fiscale che l’Italia ricordi. In effetti nel piano Renzi se ne parla poco, e basta guardare alla paralisi dell’Agenzia delle Entrate dopo che la Corte costituzionale ha bocciato come illegittime le promozioni senza concorso a dirigenti di centinaia di funzionari, per mettere alla prova anche i più ottimisti. Però il piano, ispirato dall’economista Gutgeld e affidato al ministro Padoan, si fa notare anche per il superamento di antichi luoghi comuni. Uno di questi vuole che siano i governi di destra a tagliare le tasse, ma al prezzo altissimo di ridurre spesa sociale e welfare. La sinistra invece ha sempre cercato di prendere di più a chi ha di più, con le tasse e con la lotta all’evasione, per finanziare aumenti di spesa pubblica (ma a guardare le statistiche, i record si sono registrati negli anni d’oro del berlusconismo). Adesso il ministro Padoan, che ha cultura di sinistra ed è stato allievo del keynesiano Federico Caffè, ci assicura che riduzione di tasse e lotta all’evasione possono convivere, e poiché è persona seria dobbiamo dargli credito. Che cosa ha contribuito a far saltare il facile schema destra-sinistra? Gli italiani hanno scoperto che fiumi di spesa pubblica finivano per alimentare sprechi, angoli di corruzione, trionfi di evasione. Mentre le tasse aumentavano. È dunque da una rivisitazione profonda della spesa pubblica centrale e locale che bisogna cominciare, da quella “spending review” sulla quale si sono arenati Giarda, Bondi, Cottarelli. E in effetti nel piano si parla anche di riduzioni di spesa di 10 miliardi l’anno, e non con tagli lineari, cioè enti inutili, municipalizzate, partecipate. Si annuncia pure la centralizzazione degli acquisti della pubblica amministrazione. Ma è utile ricordare che questo scoglio fermò perfino Ciampi, vent’anni fa. Se ci riescono Padoan e Renzi, sarà vera rivoluzione. Di sinistra. Pag 1 Il caso Grecia e lo strabismo della politica di Vincenzo Milanesi Ormai è chiaro a tutti come andrà a finire. La trattativa sul debito greco tra governo Tsipras e creditori si concluderà con il riconoscimento della insostenibilità di quel debito e quindi con la necessità di una qualche forma di ristrutturazione, più o meno mascherata, del medesimo. In cambio di quelle riforme che ormai anche Tsipras riconosce necessarie per la Grecia. Dire che quel riconoscimento è tardivo è un eufemismo. E l’accordo che ha concluso le drammatiche giornate di Bruxelles di poco più di una settimana fa è una grave sconfitta per tutti i protagonisti di quelle giornate. La gestione “al rallentatore” della crisi del debito greco è iniziata ormai cinque anni fa, quando bastavano poche decine di miliardi di euro, una quarantina, per un intervento di solidarietà europea che, accompagnato da un programma serio e seriamente attuato in Grecia delle riforme ora ritenute necessarie per la Grecia stessa anche da Tsipras, avrebbe evitato almeno in parte le disgrazie di questi anni ai cittadini ellenici, e l’Europa non ne sarebbe uscita in pezzi. Come invece ora, dopo l’accordo di adesso. Con i se e con i ma, lo sappiamo bene, non si fa la storia. Che è fatta invece dalle scelte degli uomini, e dei governi, nella fattispecie. Che troppo spesso commettono errori che portano dritti a situazioni tragiche, ed irreversibili. Come dimostra bene la storia delle vicende che hanno portato alle due guerre mondiali nel Novecento. La ricostruzione di quelle vicende fatta oggi dagli storici, con la distanza che consente una visione sine ira et studio, per dirla con Tacito, dimostra quanto grande sia stata la miopia dei governi di allora. Che è quella delle classi politiche dei Paesi europei di oggi. Oltre che l’irresponsabilità di quella della Grecia, da decenni a questa parte. Se volessimo restare nell’ambito della metafora visivo-oculistica, le classi politiche dei Paesi dell’Unione soffrono di quella che potremmo definire, con espressione alla buona, ma utile per farci capire, una sorta di strabismo divergente. Che conduce ad una vera e propria schizofrenia a livello di comportamenti. E il discorso vale principalmente per i partiti delle grandi famiglie della tradizione politica europea. Per rendersene conto, basta leggere le dichiarazioni dei membri del Parlamento europeo di uno di quei partiti e guardare poi come agiscono i dirigenti di quel medesimo partito nei Parlamenti nazionali o più ancora nei governi dei rispettivi Paesi, quando ne fanno parte. Che vengono considerati i “luoghi” della politica “vera”. Quella che marca l’azione “sovrana” dei Governi nazionali.

Ma dove sta, per davvero, ormai questa sovranità, che si definisce come superiorem non recognoscens? Questa schizofrenia porta, dunque, i partiti tradizionali a non considerare affatto le implicazioni che sulle politiche che ciascuno di essi è chiamato a fare, o a dichiarare di voler fare se non è al governo, le formidabili interconnessioni che ormai rendono tutti i Paesi dell’Unione interdipendenti gli uni dagli altri. In modi e forme che quei partiti si ostinano a non voler vedere. Ecco allora che il livello di condivisione implicita di sovranità sul piano comunitario dell’Unione dà, per chi la sa osservare, all’Unione quella forza che i trattati ancora non riconoscono al Parlamento di Strasburgo. Ma nella realtà storica e concreta la forza delle cose è maggiore di quella dei trattati. O almeno lo è in molti casi. Come nell’Europa di questi anni. Voler rincorrere i sondaggi e cercare di giocare la partita con i movimenti o i partiti antieuropei mettendosi sul loro stesso terreno, facendosi dettare la linea dal loro populismo “sovranista”, costituisce l’errore più grande che i partiti della tradizione democratica europea possano commettere. E che potrebbe portarli all’estinzione. Come i dinosauri. Ma non per un meteorite caduto, bensì per loro inadeguatezza ed incapacità di visione. Torna al sommario