Rassegna stampa 25 gennaio 2017 · da mulino che, mossa dall’acqua, non può essere fermata. Chi...

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 25 gennaio 2017 SOMMARIO “Già i nostri antichi padri nella fede parlavano della mente umana come di una macina da mulino che, mossa dall’acqua, non può essere fermata. Chi è incaricato del mulino, però, ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di “macinare” ciò che riceve, ma sta a noi decidere quale materiale fornire (cfr Cassiano il Romano, Lettera a Leonzio Igumeno). Vorrei che questo messaggio potesse raggiungere e incoraggiare tutti coloro che, sia nell’ambito professionale sia nelle relazioni personali, ogni giorno “macinano” tante informazioni per offrire un pane fragrante e buono a coloro che si alimentano dei frutti della loro comunicazione. Vorrei esortare tutti ad una comunicazione costruttiva che, nel rifiutare i pregiudizi verso l’altro, favorisca una cultura dell’incontro, grazie alla quale si possa imparare a guardare la realtà con consapevole fiducia”: inizia così il messaggio di Papa Francesco (testo integrale qui in Rassegna), uscito proprio in queste ore, in vista della prossima Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali (28 maggio 2017) e intonata al tema “Comunicare speranza e fiducia nel nostro tempo”. Continua il Santo Padre: “Credo ci sia bisogno di spezzare il circolo vizioso dell’angoscia e arginare la spirale della paura, frutto dell’abitudine a fissare l’attenzione sulle “cattive notizie” (guerre, terrorismo, scandali e ogni tipo di fallimento nelle vicende umane). Certo, non si tratta di promuovere una disinformazione in cui sarebbe ignorato il dramma della sofferenza, né di scadere in un ottimismo ingenuo che non si lascia toccare dallo scandalo del male. Vorrei, al contrario, che tutti cercassimo di oltrepassare quel sentimento di malumore e di rassegnazione che spesso ci afferra, gettandoci nell’apatia, ingenerando paure o l’impressione che al male non si possa porre limite. Del resto, in un sistema comunicativo dove vale la logica che una buona notizia non fa presa e dunque non è una notizia, e dove il dramma del dolore e il mistero del male vengono facilmente spettacolarizzati, si può essere tentati di anestetizzare la coscienza o di scivolare nella disperazione. Vorrei dunque offrire un contributo alla ricerca di uno stile comunicativo aperto e creativo, che non sia mai disposto a concedere al male un ruolo da protagonista, ma cerchi di mettere in luce le possibili soluzioni, ispirando un approccio propositivo e responsabile nelle persone a cui si comunica la notizia. Vorrei invitare tutti a offrire agli uomini e alle donne del nostro tempo narrazioni contrassegnate dalla logica della “buona notizia”. La vita dell’uomo non è solo una cronaca asettica di avvenimenti, ma è storia, una storia che attende di essere raccontata attraverso la scelta di una chiave interpretativa in grado di selezionare e raccogliere i dati più importanti. La realtà, in sé stessa, non ha un significato univoco. Tutto dipende dallo sguardo con cui viene colta, dagli “occhiali” con cui scegliamo di guardarla: cambiando le lenti, anche la realtà appare diversa. Da dove dunque possiamo partire per leggere la realtà con “occhiali” giusti? Per noi cristiani, l’occhiale adeguato per decifrare la realtà non può che essere quello della buona notizia, a partire da la Buona Notizia per eccellenza: il «Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). Con queste parole l’evangelista Marco inizia il suo racconto, con l’annuncio della “buona notizia” che ha a che fare con Gesù, ma più che essere un’informazione su Gesù, è piuttosto la buona notizia che è Gesù stesso (…) In questa luce ogni nuovo dramma che accade nella storia del mondo diventa anche scenario di una possibile buona notizia, dal momento che l’amore riesce sempre a trovare la strada della prossimità e a suscitare cuori capaci di commuoversi, volti capaci di non abbattersi, mani pronte a costruire (…) Il Regno di Dio è già in mezzo a noi, come un seme nascosto allo sguardo superficiale e la cui crescita avviene nel silenzio. Chi ha occhi resi limpidi dallo Spirito Santo riesce a vederlo germogliare e non si lascia rubare la gioia del Regno a causa della zizzania sempre presente (…) La fiducia nel seme del Regno di Dio e nella logica della Pasqua non può che plasmare anche il

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 25 gennaio 2017

SOMMARIO

“Già i nostri antichi padri nella fede parlavano della mente umana come di una macina da mulino che, mossa dall’acqua, non può essere fermata. Chi è incaricato del mulino, però, ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è

sempre in azione e non può cessare di “macinare” ciò che riceve, ma sta a noi decidere quale materiale fornire (cfr Cassiano il Romano, Lettera a Leonzio Igumeno). Vorrei che questo messaggio potesse raggiungere e incoraggiare tutti coloro che, sia nell’ambito professionale sia nelle relazioni personali, ogni giorno “macinano” tante

informazioni per offrire un pane fragrante e buono a coloro che si alimentano dei frutti della loro comunicazione. Vorrei esortare tutti ad una comunicazione costruttiva che, nel rifiutare i pregiudizi verso l’altro, favorisca una cultura

dell’incontro, grazie alla quale si possa imparare a guardare la realtà con consapevole fiducia”: inizia così il messaggio di Papa Francesco (testo integrale qui in Rassegna),

uscito proprio in queste ore, in vista della prossima Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali (28 maggio 2017) e intonata al tema “Comunicare speranza e

fiducia nel nostro tempo”. Continua il Santo Padre: “Credo ci sia bisogno di spezzare il circolo vizioso dell’angoscia e arginare la spirale della paura, frutto dell’abitudine a fissare l’attenzione sulle “cattive notizie” (guerre, terrorismo, scandali e ogni tipo di

fallimento nelle vicende umane). Certo, non si tratta di promuovere una disinformazione in cui sarebbe ignorato il dramma della sofferenza, né di scadere in

un ottimismo ingenuo che non si lascia toccare dallo scandalo del male. Vorrei, al contrario, che tutti cercassimo di oltrepassare quel sentimento di malumore e di rassegnazione che spesso ci afferra, gettandoci nell’apatia, ingenerando paure o

l’impressione che al male non si possa porre limite. Del resto, in un sistema comunicativo dove vale la logica che una buona notizia non fa presa e dunque non è una notizia, e dove il dramma del dolore e il mistero del male vengono facilmente spettacolarizzati, si può essere tentati di anestetizzare la coscienza o di scivolare

nella disperazione. Vorrei dunque offrire un contributo alla ricerca di uno stile comunicativo aperto e creativo, che non sia mai disposto a concedere al male un ruolo

da protagonista, ma cerchi di mettere in luce le possibili soluzioni, ispirando un approccio propositivo e responsabile nelle persone a cui si comunica la notizia. Vorrei

invitare tutti a offrire agli uomini e alle donne del nostro tempo narrazioni contrassegnate dalla logica della “buona notizia”. La vita dell’uomo non è solo una

cronaca asettica di avvenimenti, ma è storia, una storia che attende di essere raccontata attraverso la scelta di una chiave interpretativa in grado di selezionare e

raccogliere i dati più importanti. La realtà, in sé stessa, non ha un significato univoco. Tutto dipende dallo sguardo con cui viene colta, dagli “occhiali” con cui scegliamo di

guardarla: cambiando le lenti, anche la realtà appare diversa. Da dove dunque possiamo partire per leggere la realtà con “occhiali” giusti? Per noi cristiani,

l’occhiale adeguato per decifrare la realtà non può che essere quello della buona notizia, a partire da la Buona Notizia per eccellenza: il «Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio

di Dio» (Mc 1,1). Con queste parole l’evangelista Marco inizia il suo racconto, con l’annuncio della “buona notizia” che ha a che fare con Gesù, ma più che essere

un’informazione su Gesù, è piuttosto la buona notizia che è Gesù stesso (…) In questa luce ogni nuovo dramma che accade nella storia del mondo diventa anche scenario di

una possibile buona notizia, dal momento che l’amore riesce sempre a trovare la strada della prossimità e a suscitare cuori capaci di commuoversi, volti capaci di non abbattersi, mani pronte a costruire (…) Il Regno di Dio è già in mezzo a noi, come un seme nascosto allo sguardo superficiale e la cui crescita avviene nel silenzio. Chi ha

occhi resi limpidi dallo Spirito Santo riesce a vederlo germogliare e non si lascia rubare la gioia del Regno a causa della zizzania sempre presente (…) La fiducia nel seme del Regno di Dio e nella logica della Pasqua non può che plasmare anche il

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nostro modo di comunicare. Tale fiducia che ci rende capaci di operare – nelle molteplici forme in cui la comunicazione oggi avviene – con la persuasione che è

possibile scorgere e illuminare la buona notizia presente nella realtà di ogni storia e nel volto di ogni persona. Chi, con fede, si lascia guidare dallo Spirito Santo diventa

capace di discernere in ogni avvenimento ciò che accade tra Dio e l’umanità, riconoscendo come Egli stesso, nello scenario drammatico di questo mondo, stia

componendo la trama di una storia di salvezza. Il filo con cui si tesse questa storia sacra è la speranza e il suo tessitore non è altri che lo Spirito Consolatore. La

speranza è la più umile delle virtù, perché rimane nascosta nelle pieghe della vita, ma è simile al lievito che fa fermentare tutta la pasta. Noi la alimentiamo leggendo

sempre di nuovo la Buona Notizia, quel Vangelo che è stato “ristampato” in tantissime edizioni nelle vite dei santi, uomini e donne diventati icone dell’amore di Dio. Anche

oggi è lo Spirito a seminare in noi il desiderio del Regno, attraverso tanti “canali” viventi, attraverso le persone che si lasciano condurre dalla Buona Notizia in mezzo al dramma della storia, e sono come dei fari nel buio di questo mondo, che illuminano la

rotta e aprono sentieri nuovi di fiducia e speranza”.

Intanto sarà padre Federico Lombardi, giornalista e sacerdote gesuita dal 2006 al 2016 direttore della Sala stampa vaticana sotto due Papi (Benedetto XVI e

Francesco), l’ospite d’eccezione del prossimo incontro organizzato, come ogni anno, a Venezia dall’Ufficio stampa e comunicazioni sociali della Diocesi insieme al

settimanale Gente Veneta e in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti del Veneto e la sezione veneziana dell’Unione Cattolica Stampa Italiana, nelle vicinanze della

ricorrenza di san Francesco di Sales (che era ieri), patrono dei giornalisti. L’appuntamento è fissato per la mattina di sabato 28 gennaio ed è rivolto ai

giornalisti e a tutti gli operatori della comunicazione (anche impegnati in vario modo a livello parrocchiale, vicariale, associativo) nonché a tutte le persone

interessate; si inizierà nella cripta della basilica cattedrale di S. Marco con la celebrazione della S. Messa che avrà luogo alle ore 11.00 e sarà presieduta dallo

stesso padre Lombardi. A seguire, alle ore 11.45 e presso la vicina Sala Sant’Apollonia, giungerà il Patriarca Francesco Moraglia (che, nella prima parte della mattinata, sarà all’inaugurazione del nuovo anno giudiziario) ed inizierà il

momento di conversazione e dialogo. In particolare con padre Lombardi – che è stato anche per lungo tempo direttore generale della Radio Vaticana e del Centro

Televisivo Vaticano ed attualmente presiede il Consiglio di amministrazione della Fondazione vaticana Joseph Ratzinger / Benedetto XVI – ci sarà l’opportunità di affrontare e raccontare, in termini diretti e con la sua abbondante esperienza in

merito, cosa significhi fare da ufficio stampa e seguire da vicino e “mediaticamente” due differenti papi come Benedetto e Francesco, attraverso le

varie vicende che li hanno visti “protagonisti”. E nello stesso tempo si potrà magari riflettere anche su come le vicende della Chiesa siano abitualmente raccolte,

recepite, rilanciate e a volte travisate dai media.

3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Il Gran Maestro dell'Ordine di Malta si dimette di Andrea Tornielli L'annuncio a sorpresa: Matthew Festing lascia la guida dei Cavalieri dopo le tensioni con la Santa Sede Il Gran Maestro dell'Ordine dei Cavalieri di Malta Matthew Festing ha rassegnato le dimissioni su richiesta di Francesco. Lo ha annunciato alla Reuters un portavoce dell'Ordine: «Il Papa gli ha chiesto di rinunciare e lui ha accettato». Fonti della Santa Sede hanno confermato a Vatican Insider la notizia delle dimissioni su richiesta. È il nuovo, eclatante colpo di scena della contesa iniziata con il defenestramento, avvenuto lo scorso dicembre, del Gran Cancelliere Albrecht Freiherr von Boeselager, accusato di aver permesso alcuni anni fa la distribuzione di preservativi in Africa e in Asia da parte

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di una ONG che collaborava con l'Ordine di Malta. Boeselager si è sempre difeso affermando di non essere stato a conoscenza dell'iniziativa e di averla fermata non appena ne aveva avuto notizia. A chiedere con forza la rimozione di Boeselager era stato il cardinale americano Raymond Leo Burke, patrono dell'Ordine di Malta, che aveva invocato l'avallo del Papa all'operazione durante un'udienza nel novembre 2016 . Francesco aveva preparato una lettera indirizzata a Burke, nella quale si chiedeva di vigilare sul rispetto della morale cattolica ma si chiedeva anche di risolvere il problema con un dialogo all'interno dell'Ordine stesso. Non è chiaro se quella lettera sia stata resa nota ai vertici dei Cavalieri, mentre il Gran Cancelliere, numero due dell'Ordine, veniva comunque rimosso nonostante la richiesta del Pontefice di affrontare diversamente il problema. Boeselager non ha accettato passivamente la sua defenestrazione e si è appellato alla Santa Sede. Dopo due lettere del Segretario di Stato, che ricordavano l'autentico contenuto della lettera papale invitando - invano - a riconsiderare la rimozione del Gran Cancelliere, Francesco ha nominato una commissione guidata dall'arcivescovo Silvano Tomasi, chiamata a far luce sulla vicenda. Il Gran Maestro Festing, 67 anni, solitamente in carica a vita, ha risposto in modo durissimo alla decisione papale, rivendicando la piena autonomia dei Cavalieri di Malta e affermando che la dirigenza dell'Ordine non avrebbe collaborato in alcun modo con la commissione voluta dal Papa. Si era anche cercato di screditare la commissione stessa, affermando che alcuni dei suoi membri erano legati a Boeselager e anche a operazioni finanziarie condotte dallo stesso Cancelliere. Anche questa volta il Vaticano aveva risposto tempestivamente, riaffermando la fiducia nell'Ordine di Malta e nelle sue tante attività caritative nel mondo, ma al tempo stesso garantendo la piena fiducia alla commissione guidata da monsignor Tomasi. La rinuncia di Festing è il segno evidente che ogni equilibrio si è rotto nei vertici dell'Ordine di Malta. Secondo alcuni osservatori sarebbe in atto uno scontro tra l'anima inglese e quella tedesca dei Cavalieri, una parte dei quali, in quanto professi, sono un ordine religioso vero e proprio. Un ruolo da protagonista nella vicenda l'ha avuto il cardinale Burke. AVVENIRE Pag 2 Nessuno è perduto, neanche i mafiosi di Mimmo Muolo Il Papa e la via della conversione e della misericordia Pag 5 “Guardare la realtà con gli occhiali giusti” Il Papa invita i media alla logica della buona notizia, no al male protagonista Pag 19 Opus Dei, il Papa nomina Ocàriz “nuovo prelato” di Andrea Galli Subentra a Echevarrìa. Francesco conferma l’elezione del Congresso generale dell’Opera LA NUOVA Pag 11 Preti scoppiati. La solitudine dei parroci impreparati alla società di Francesco Jori Un mestiere duro che conduce alla deriva. Il “burn-out” colpisce insegnanti, medici, psicologi e anche uomini di Chiesa IL GAZZETTINO Pag 16 I preti, più pastori che politici (lettera di Luigi Barbieri) IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXV Chiesa cattolica e la credibilità (lettera di un Gruppo di Fedeli Tridentini della Terraferma Veneziana – Mirano) 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 Umanissimo diritto di Francesco Ognibene Limite alla genitorialità a ogni costo Pag 3 Lo scandalo degli invalidi? L’assegno fermo a 279 euro di Francesco Riccardi

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Sotto la soglia di povertà, ma nessuno osa proporre aumenti Pag 6 «No» alla maternità surrogata se non c’è legame biologico di Giovanni Maria Del Re La Corte Europea dei diritti umani dà ragione all'Italia: legittimo togliere a una coppia il bambino da utero in affitto LA NUOVA Pag 1 Tramonta l’economia globale di Maurizio Mistri 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 21 Brugnaro e la pace fatta con l’Unesco (che non declasserà più Venezia) di Paolo Conti Il sindaco a Parigi illustra le misure contro il turismo di massa. Carandini: “Si tutelino gli abitanti” CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Venezia, segnali di pace dall’Unesco: “Abbiamo capito il vostro impegno” di Francesco Bottazzo e Elisa Lorenzini Brugnaro in missione a Parigi: “Ecco cosa facciamo per la città”. Case, servizi, grandi navi: “Ma non hanno risposto alle raccomandazioni” Pag 9 “Baby-Mose” in basilica, via libera del Magistrato. “E’ un’opera urgente” Nartece all’asciutto. Linetti: se ne occuperà il Consorzio IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III Navi e sviluppo, Brugnaro convince l’Unesco a Parigi di Michele Fullin e Roberta Brunetti Ora tocca al dossier del Governo, Venezia modello di turismo sostenibile. L’ex sovrintendente Cecchi: “Poco coesione tra enti pubblici, le categorie della città ne approfittano” LA NUOVA Pagg 2 – 3 Vertice Unesco: “Via le navi da S. Marco ma resti la Marittima” di Alberto Vitucci Brugnaro illustra le soluzioni per non finire nella lista nera. Borletti Buitoni: “Molti passi avanti e sulle crociere questione irrisolta” Pag 25 Sermoni in italiano per la sicurezza di Marta Artico Il presidente della comunità islamica: noi lo facciamo già. L’imam Kamel: utile per diminuire il rischio estremismi. “Contributi per corsi agli stranieri” Pag 37 Il Cristo che parlava nelle processioni di Enrico Tantucci Ritrovato a San Francesco della Vigna a Venezia, risale al Quattrocento e ora sarà restaurato Pag 39 Il coraggio della scelta, le storie dei Giusti veneziani Don Vittorio Cavasin e Suor Emilia Taroli, salvatori di bimbi ebrei, ricordati in due libri … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le virtù dell’era globale di Alberto Alesina Pag 6 La battaglia tra avvocati alla Consulta. Ballottaggio e capilista sono in bilico di Giovanni Bianconi La discussione in aula sull’Italicum, oggi il verdetto. Il premio potrebbe salvarsi

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Pag 6 Il mondo politico rassegnato ad aspettare i giudici di Massimo Franco Pag 40 L’Europa e la Shoah di Ernesto Galli della Loggia I crimini del terrorismo islamico contro ebrei e cristiani rafforzano l’idea di radici comuni tra le due fedi bibliche LA REPUBBLICA Pag 1 Quando non cala la ghigliottina di Stefano Folli Pag 12 "Abbiamo visto tutto il male del mondo ma non siamo soli" di Paola e Claudio Regeni LA STAMPA L’America riparte dai motori di Francesco Guerrera AVVENIRE Pag 3 Nella zuffa in città si può vedere il bene di Marco Impagliazzo La realtà urbana e ciò che oggi ci chiede Pag 10 Goran Kuzminac: “Io, l’Abruzzo e il mio inverno rurale da primo ‘800” Stufa a legna, fagioli e candele: sei giorni a Cellino Attanasio CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Gli invisibili dello Stato di Massimiliano Melilli Chi vive e muore per noi IL GAZZETTINO Pag 1 Tragedie, polemiche e il silenzio della politica di Carlo Nordio LA NUOVA Pag 1 La valanga e le nostre colpe di Ferdinando Camon

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Il Gran Maestro dell'Ordine di Malta si dimette di Andrea Tornielli L'annuncio a sorpresa: Matthew Festing lascia la guida dei Cavalieri dopo le tensioni con

la Santa Sede

Il Gran Maestro dell'Ordine dei Cavalieri di Malta Matthew Festing ha rassegnato le dimissioni su richiesta di Francesco. Lo ha annunciato alla Reuters un portavoce dell'Ordine: «Il Papa gli ha chiesto di rinunciare e lui ha accettato». Fonti della Santa Sede hanno confermato a Vatican Insider la notizia delle dimissioni su richiesta. È il nuovo, eclatante colpo di scena della contesa iniziata con il defenestramento, avvenuto lo scorso dicembre, del Gran Cancelliere Albrecht Freiherr von Boeselager, accusato di aver permesso alcuni anni fa la distribuzione di preservativi in Africa e in Asia da parte di una ONG che collaborava con l'Ordine di Malta. Boeselager si è sempre difeso affermando di non essere stato a conoscenza dell'iniziativa e di averla fermata non appena ne aveva avuto notizia. A chiedere con forza la rimozione di Boeselager era stato il cardinale americano Raymond Leo Burke, patrono dell'Ordine di Malta, che aveva invocato l'avallo del Papa all'operazione durante un'udienza nel novembre 2016 . Francesco aveva preparato una lettera indirizzata a Burke, nella quale si chiedeva di vigilare sul rispetto della morale cattolica ma si chiedeva anche di risolvere il problema con un dialogo all'interno dell'Ordine stesso. Non è chiaro se quella lettera sia stata resa nota ai vertici dei Cavalieri, mentre il Gran Cancelliere, numero due dell'Ordine, veniva

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comunque rimosso nonostante la richiesta del Pontefice di affrontare diversamente il problema. Boeselager non ha accettato passivamente la sua defenestrazione e si è appellato alla Santa Sede. Dopo due lettere del Segretario di Stato, che ricordavano l'autentico contenuto della lettera papale invitando - invano - a riconsiderare la rimozione del Gran Cancelliere, Francesco ha nominato una commissione guidata dall'arcivescovo Silvano Tomasi, chiamata a far luce sulla vicenda. Il Gran Maestro Festing, 67 anni, solitamente in carica a vita, ha risposto in modo durissimo alla decisione papale, rivendicando la piena autonomia dei Cavalieri di Malta e affermando che la dirigenza dell'Ordine non avrebbe collaborato in alcun modo con la commissione voluta dal Papa. Si era anche cercato di screditare la commissione stessa, affermando che alcuni dei suoi membri erano legati a Boeselager e anche a operazioni finanziarie condotte dallo stesso Cancelliere. Anche questa volta il Vaticano aveva risposto tempestivamente, riaffermando la fiducia nell'Ordine di Malta e nelle sue tante attività caritative nel mondo, ma al tempo stesso garantendo la piena fiducia alla commissione guidata da monsignor Tomasi. La rinuncia di Festing è il segno evidente che ogni equilibrio si è rotto nei vertici dell'Ordine di Malta. Secondo alcuni osservatori sarebbe in atto uno scontro tra l'anima inglese e quella tedesca dei Cavalieri, una parte dei quali, in quanto professi, sono un ordine religioso vero e proprio. Un ruolo da protagonista nella vicenda l'ha avuto il cardinale Burke. AVVENIRE Pag 2 Nessuno è perduto, neanche i mafiosi di Mimmo Muolo Il Papa e la via della conversione e della misericordia Con il nuovo appello rivolto lunedì ai mafiosi «affinché si fermino, smettano di fare il male, si convertano e cambino vita», il Papa continua a mostrare agli uomini e alle donne del nostro tempo anche gli aspetti più estremi dell’insondabile misericordia di Dio. «Non dimentichiamolo mai: non esiste alcun peccato che Dio non possa perdonare. Nessuno», disse Francesco il 12 marzo 2015, ai partecipanti al Corso sul foro interno promosso a Roma dal Tribunale della Penitenzieria. E il mefitico terreno dei peccati - che sono anche crimini, tutti gravissimi - derivanti dall’appartenenza mafiosa è sicuramente uno dei più indicati per dare un’idea di tale estensione. Poche aberrazioni umane sono infatti così odiose (anche all’opinione pubblica generale) e così alternative al disegno d’amore di Dio come i misfatti compiuti in nome e per conto di mafia, camorra e ’ndrangheta. In tal modo, dunque, sembra che Francesco abbia voluto testare sui confini più esterni dell’universo della misericordia una delle affermazioni centrali del suo magistero. Non è infatti la prima volta che ne parla. Il 20 marzo 2014, incontrando i familiari delle vittime, così si rivolse ai carnefici: «Convertitevi, lo chiedo in ginocchio. È per il vostro bene. Ancora c’è tempo per non finire all’inferno: è quello che vi aspetta se continuate su questa strada». Tre mesi, dopo, in Calabria, un nuovo monito, forse il più severo mai pronunciato da un Papa: «La mafia è adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato. Bisogna dirgli di no. Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati». Infine a Napoli il 21 marzo 2015, nuovamente l’accorato invito a cambiare vita: «Ai criminali e a tutti i loro complici oggi io umilmente, come fratello, ripeto: convertitevi all’amore e alla giustizia. Lasciatevi trovare dalla misericordia di Dio Siate consapevoli che Gesù vi sta cercando per abbracciarvi, per baciarvi, per amarvi di più. Con la grazia di Dio, che perdona tutto e perdona sempre, è possibile ritornare a una vita onesta». Preghiere, appelli, inviti che se da un lato testimoniano la volontà di raggiungere e illuminare con il Vangelo anche le squallide 'periferie' del crimine organizzato, dall’altro dimostrano la miopia di un certo riduzionismo mediatico, che fa corrispondere l’accento posto sul perdono alla derubricazione della gravità del peccato (è avvenuto di recente anche quando Francesco ha concesso a tutti i sacerdoti la facoltà di rimettere il peccato di aborto). In nessun caso, invece, l’invito di Francesco a lasciarsi toccare il cuore da Dio è sganciato dalla denuncia della gravità di certi comportamenti. E il costante riferimento al male, all’inferno, all’opera del diavolo (citato anche nel discorso alla Direzione nazionale antimafia di due giorni fa) sta lì a testimoniarlo. In realtà il Papa della misericordia è anche il Pontefice che sta aiutando la disorientata coscienza contemporanea a ritrovare il senso del peccato, di cui alla luce della Parola non si stanca

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di segnalare i devastanti effetti sulla natura umana e sulla società. E in effetti solo quando il Figliol Prodigo acquisisce la chiara consapevolezza del suo peccato, trova anche la forza per ritornare verso l’abbraccio misericordioso del Padre. Così il messaggio che giunge ancora una volta chiaro e forte dall’appello di lunedì ai mafiosi è al tempo stesso una bella notizia e un monito per tutti. «Non esiste alcun peccato che Dio non possa perdonare», è vero. Ma come ha ricordato sempre lunedì Francesco, nella Messa di Santa Marta, c’è anche «l’imperdonabile bestemmia» costituita dal «non lasciarsi perdonare». Chi si sottrae al sole, infatti, non può essere illuminato, né riscaldato. Vale per i mafiosi, ma – mutatis mutandis – per ogni peccatore. Perché se la misericordia, come l’acqua di una fontana, è offerta a chiunque, la scelta di abbeverarsi spetta solo alla intangibile – anche per Dio – libertà dell’uomo. Pag 5 “Guardare la realtà con gli occhiali giusti” Il Papa invita i media alla logica della buona notizia, no al male protagonista Pubblichiamo il testo integrale del messaggio di papa Francesco per la 51ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebrerà il prossimo 28 maggio 2017 sul tema: «Non temere, perché io sono con te» (Is 43,5). Comunicare speranza e fiducia nel nostro tempo. «NON TEMERE, PERCHÉ IO SONO CON TE» (IS 43,5). COMUNICARE SPERANZA E FIDUCIA NEL NOSTRO TEMPO L’accesso ai mezzi di comunicazione, grazie allo sviluppo tecnologico, è tale che moltissimi soggetti hanno la possibilità di condividere istantaneamente le notizie e diffonderle in modo capillare. Queste notizie possono essere belle o brutte, vere o false. Già i nostri antichi padri nella fede parlavano della mente umana come di una macina da mulino che, mossa dall’acqua, non può essere fermata. Chi è incaricato del mulino, però, ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania. La mente dell’uomo è sempre in azione e non può cessare di “macinare” ciò che riceve, ma sta a noi decidere quale materiale fornire (cfr Cassiano il Romano, Lettera a Leonzio Igumeno). Vorrei che questo messaggio potesse raggiungere e incoraggiare tutti coloro che, sia nell’ambito professionale sia nelle relazioni personali, ogni giorno “macinano” tante informazioni per offrire un pane fragrante e buono a coloro che si alimentano dei frutti della loro comunicazione. Vorrei esortare tutti ad una comunicazione costruttiva che, nel rifiutare i pregiudizi verso l’altro, favorisca una cultura dell’incontro, grazie alla quale si possa imparare a guardare la realtà con consapevole fiducia. Credo ci sia bisogno di spezzare il circolo vizioso dell’angoscia e arginare la spirale della paura, frutto dell’abitudine a fissare l’attenzione sulle “cattive notizie” (guerre, terrorismo, scandali e ogni tipo di fallimento nelle vicende umane). Certo, non si tratta di promuovere una disinformazione in cui sarebbe ignorato il dramma della sofferenza, né di scadere in un ottimismo ingenuo che non si lascia toccare dallo scandalo del male. Vorrei, al contrario, che tutti cercassimo di oltrepassare quel sentimento di malumore e di rassegnazione che spesso ci afferra, gettandoci nell’apatia, ingenerando paure o l’impressione che al male non si possa porre limite. Del resto, in un sistema comunicativo dove vale la logica che una buona notizia non fa presa e dunque non è una notizia, e dove il dramma del dolore e il mistero del male vengono facilmente spettacolarizzati, si può essere tentati di anestetizzare la coscienza o di scivolare nella disperazione. Vorrei dunque offrire un contributo alla ricerca di uno stile comunicativo aperto e creativo, che non sia mai disposto a concedere al male un ruolo da protagonista, ma cerchi di mettere in luce le possibili soluzioni, ispirando un approccio propositivo e responsabile nelle persone a cui si comunica la notizia. Vorrei invitare tutti a offrire agli uomini e alle donne del nostro tempo narrazioni contrassegnate dalla logica della “buona notizia”. LA BUONA NOTIZIA - La vita dell’uomo non è solo una cronaca asettica di avvenimenti, ma è storia, una storia che attende di essere raccontata attraverso la scelta di una chiave interpretativa in grado di selezionare e raccogliere i dati più importanti. La realtà, in sé stessa, non ha un significato univoco. Tutto dipende dallo sguardo con cui viene colta, dagli “occhiali” con cui scegliamo di guardarla: cambiando le lenti, anche la realtà appare diversa. Da dove dunque possiamo partire per leggere la realtà con “occhiali”

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giusti? Per noi cristiani, l’occhiale adeguato per decifrare la realtà non può che essere quello della buona notizia, a partire da la Buona Notizia per eccellenza: il «Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» ( Mc 1,1). Con queste parole l’evangelista Marco inizia il suo racconto, con l’annuncio della “buona notizia” che ha a che fare con Gesù, ma più che essere un’informazione su Gesù, è piuttosto la buona notizia che è Gesù stesso. Leggendo le pagine del Vangelo si scopre, infatti, che il titolo dell’opera corrisponde al suo contenuto e, soprattutto, che questo contenuto è la persona stessa di Gesù. Questa buona notizia che è Gesù stesso non è buona perché priva di sofferenza, ma perché anche la sofferenza è vissuta in un quadro più ampio, parte integrante del suo amore per il Padre e per l’umanità. In Cristo, Dio si è reso solidale con ogni situazione umana, rivelandoci che non siamo soli perché abbiamo un Padre che mai può dimenticare i suoi figli. «Non temere, perché io sono con te» ( Is 43,5): è la parola consolante di un Dio che da sempre si coinvolge nella storia del suo popolo. Nel suo Figlio amato, questa promessa di Dio – “sono con te” – arriva ad assumere tutta la nostra debolezza fino a morire della nostra morte. In Lui anche le tenebre e la morte diventano luogo di comunione con la Luce e la Vita. Nasce così una speranza, accessibile a chiunque, proprio nel luogo in cui la vita conosce l’amarezza del fallimento. Si tratta di una speranza che non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori (cfr Rm 5,5) e fa germogliare la vita nuova come la pianta cresce dal seme caduto. In questa luce ogni nuovo dramma che accade nella storia del mondo diventa anche scenario di una possibile buona notizia, dal momento che l’amore riesce sempre a trovare la della prossimità e a suscitare cuori capaci di commuoversi, volti capaci di non abbattersi, mani pronte a costruire. LA FIDUCIA NEL SEME DEL REGNO - Per iniziare i suoi discepoli e le folle a questa mentalità evangelica e consegnare loro i giusti “occhiali” con cui accostarsi alla logica dell’amore che muore e risorge, Gesù faceva ricorso alle parabole, nelle quali il Regno di Dio è spesso paragonato al seme, che sprigiona la sua forza vitale proprio quando muore nella terra (cfr Mc 4,1-34). Ricorrere a immagini e metafore per comunicare la pore tenza umile del Regno non è un modo per ridurne l’importanza e l’urgenza, ma la forma misericordiosa che lascia all’ascoltatore lo “spazio” di libertà per accoglierla e riferirla anche a sé stesso. Inoltre, è la via privilegiata per esprimere l’immensa dignità del mistero pasquale, lasciando che siano le immagini – più che i concetti – a comunicare la paradossale bellezza della vita nuova in Cristo, dove le ostilità e la croce non vanificano ma realizzano la salvezza di Dio, dove la debolezza è più forte di ogni potenza umana, dove il fallimento può essere il preludio del più grande compimento di ogni cosa nell’amore. Proprio così, infatti, matura e si approfondisce la speranza del Regno di Dio: «Come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce» (Mc 4,26-27). Il Regno di Dio è già in mezzo a noi, come un seme nascosto allo sguardo superficiale e la cui crescita avviene nel silenzio. Chi ha occhi resi limpidi dallo Spirito Santo riesce a vederlo germogliare e non si lascia rubare la gioia del Regno a causa della zizzania sempre presente. GLI ORIZZONTI DELLO SPIRITO - La speranza fondata sulla buona notizia che è Gesù ci fa alzare lo sguardo e ci spinge a contemplarlo nella cornice liturgica della festa dell’Ascensione. Mentre sembra che il Signore si allontani da noi, in realtà si allargano gli orizzonti della speranza. Infatti, ogni uomo e ogni donna, in Cristo, che eleva la nostra umanità fino al Cielo, può avere piena libertà di «entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne» ( Eb 10,19 20). Attraverso «la forza dello Spirito Santo» possiamo essere «testimoni » e comunicatori di un’umanità nuova, redenta, «fino ai confini della terra» (cfr At 1,7-8). La fiducia nel seme del Regno di Dio e nella logica della Pasqua non può che plasmare anche il nostro modo di comunicare. Tale fiducia che ci rende capaci di operare – nelle molteplici forme in cui la comunicazione oggi avviene – con la persuasione che è possibile scorgere e illuminare la buona notizia presente nella realtà di ogni storia e nel volto di ogni persona. Chi, con fede, si lascia guidare dallo Spirito Santo diventa capace di discernere in ogni avvenimento ciò che accade tra Dio e l’umanità, riconoscendo come Egli stesso, nello scenario drammatico di questo mondo, stia componendo la trama di una storia di salvezza. Il filo con cui si tesse questa storia sacra è la speranza e il suo tessitore non è altri che lo Spirito Consolatore. La speranza è la più umile delle virtù, perché rimane nascosta nelle pieghe della vita, ma è simile al lievito

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che fa fermentare tutta la pasta. Noi la alimentiamo leggendo sempre di nuovo la Buona Notizia, quel Vangelo che è stato “ristampato” in tantissime edizioni nelle vite dei santi, uomini e donne diventati icone dell’amore di Dio. Anche oggi è lo Spirito a seminare in noi il desiderio del Regno, attraverso tanti “canali” viventi, attraverso le persone che si lasciano condurre dalla Buona Notizia in mezzo al dramma della storia, e sono come dei fari nel buio di questo mondo, che illuminano la rotta e aprono sentieri nuovi di fiducia e speranza. Dal Vaticano, 24 gennaio 2017 Francesco Pag 19 Opus Dei, il Papa nomina Ocàriz “nuovo prelato” di Andrea Galli Subentra a Echevarrìa. Francesco conferma l’elezione del Congresso generale dell’Opera Eletto dal Congresso generale lunedì scorso, con nomina subito approvata dal Papa e comunicata ufficialmente allo scoccare della mezzanotte, monsignor Fernando Ocáriz Braña, spagnolo, è il nuovo prelato dell’Opus Dei. Con lui l’Opera fa una scelta nel segno della continuità, anche formale in un certo senso: alla morte del fondatore san Josemaría Escrivá, nel 1975, fu il suo più stretto collaboratore a prenderne il posto, il beato Álvaro del Portillo; alla morte di costui, nel 1994, il testimone passò al vicario generale Javier Echevarría; scomparso quest’ultimo lo scorso dicembre, a succedergli sarà quello che era fino a lunedì il vicario ausiliare dell’Opus Dei, nominato tale nel 2014, ovvero una figura che condivide la potestà esecutiva del prelato. Se la continuità è quindi evidente, è stata altrettanto evidenziata nei giorni scorsi la novità della fase che ora si apre: Ocáriz è infatti il primo a guidare l’Opus Dei senza aver fatto parte del circolo stretto di collaboratori di Escrivà, un passo importante nella maturazione di una realtà che nel 2018 compirà 90 anni di storia. Il nuovo prelato è nato a Parigi il 27 ottobre 1944, il più giovane di otto figli, in una famiglia spagnola esiliata in Francia per la guerra civile – il padre era un veterinario militare. Laureato in Fisica all’Università di Barcellona nel 1966, ha ottenuto la licenza in Teologia presso la Pontificia Università Lateranense nel 1969 e il dottorato presso l’Università di Navarra nel 1971, anno in cui è stato ordinato sacerdote. Nei suoi inizi come presbitero si è dedicato specialmente alla pastorale dei giovani e degli universitari. Ocáriz è consultore della Congregazione per la dottrina della fede dal 1986, della Congregazione per il Clero dal 2003 e del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione dal 2011. Negli anni ’80 è stato uno dei professori che hanno avviato il lavoro della Pontificia Università della Santa Croce, in cui è stato a lungo ordinario di Teologia fondamentale. Nominato vicario generale dell’Opus Dei nel 1994, per ventidue anni ha accompagnato il predecessore Echevarría nelle visite pastorali in oltre settanta Paesi. Lunga e variegata è quindi la sua esperienza di servizio alla Santa Sede, nel corso della quale è stato protagonista anche di passaggi delicati. Nel 1988 fece parte dell’équipe che, sotto la direzione dell’allora cardinale Ratzinger, discusse con monsignor Marcel Lefebvre un protocollo d’intesa con la Fraternità sacerdotale San Pio X, respinto in ultimo dallo stesso Lefebvre. Nel 2000, alla presentazione ufficiale della dichiarazione Dominus Iesus sull’«unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa», Ocáriz sedeva vicino a Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e al segretario del dicastero, l’arcivescovo Tarcisio Bertone. Altrettanto lunga e variegata è anche la produzione scritta del nuovo prelato. Dalle opere di taglio filosofico, come Il Marxismo: ideologia della rivoluzione del 1977, ai saggi tomisti come Partecipazione dell’essere e soprannaturale del 1984, agli interventi di teologia morale – importanti i suoi contributi a difesa dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI – ai libri sulla spiritualità dell’Opus Dei e sulla vita ecclesiale, come il libro intervista con con Rafael Serrano La Chiesa, mondo riconciliato, del 2014. Ocáriz prende la redini di quella che Giovanni Paolo II ha eretto nel 1982, con un’innovazione canonistica, come prelatura personale: la prima nella storia della Chiesa e a tutt’oggi l’unica. Il prelato che la presiede non è per statuto un vescovo, l’ordinazione episcopale per Ocáriz arriverà se sarà voluta dal Pontefice. Intanto, nei prossimi giorni, a lui spetterà di completare il processo elettivo proponendo ai congressisti che lo hanno

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scelto i nomi dei suoi vicari e dei membri dei nuovi consigli che lo assisteranno nei prossimi 8 anni di governo. «Dio mi ha chiamato a questo compito e sono sicuro che mi darà un grande aiuto per portarlo avanti». Lo ha detto ieri monsignor Fernando Ocáriz nella sua prima uscita pubblica come nuovo prelato dell’Opus Dei, alla Pontificia Università della Santa Croce (di cui sarà anche Gran Cancelliere). «Avverto un sentimento di inadeguatezza – ha aggiunto – per essere successore di persone di grande statura spirituale come san Josemaría, il beato Álvaro Del Portillo e monsignor Echevarría. Confido nella preghiera di tutti e sono sicuro che Dio mi darà un grande aiuto». Poi ha rivolto uno sguardo al prossimo futuro: «Le sfide sono quelle che i cristiani si trovano ad affrontare oggi » ha detto, citandone tre in particolare, ovvero giovani, famiglia e lotta alla povertà. «Nella prelatura si fa un gran lavoro per aiutare le famiglie – ha chiosato – il Papa ha insistito tanto sulla pastorale familiare con il Sinodo e la lettera apostolica Amoris laetitia. E noi vogliamo seguire le sue esortazioni». Ocáriz ha quindi ricordato che la sua nomina è arrivata nella Settimana per l’unità dei cristiani: «Dobbiamo costruire ponti, come ci dice il Papa. Sono ponti di amicizia che a volte è comunione di idee». Al suo fianco erano presenti ieri il vicario generale monsignor Mariano Fazio, che nella serata di lunedì ha incontrato in Vaticano Francesco per presentargli il nome indicato dal Congresso elettorale. «Il Papa ha firmato subito la nomina – ha raccontato il sacerdote argentino – e ha detto che per l’Opus Dei questo è un momento molto importante perché per la prima volta sarà guidato da una persona che non ha collaborato con san Josemaría. Quindi, ha auspicato fedeltà allo spirito del fondatore e un grande slancio verso il futuro». Al termine dell’incontro tra i due, Bergoglio ha donato a Fazio una medaglia della Madonna. LA NUOVA Pag 11 Preti scoppiati. La solitudine dei parroci impreparati alla società di Francesco Jori Un mestiere duro che conduce alla deriva. Il “burn-out” colpisce insegnanti, medici, psicologi e anche uomini di Chiesa In inglese suona più asettico: burn-out. Tradotto in italiano diventa molto più brutale: fulminato, scoppiato. E’ una sindrome diffusa molto più di quanto si pensi, che colpisce soprattutto le cosiddette professioni di aiuto e supporto: quindi gli insegnanti, i medici, gli psicologi. E anche i preti. Le vicende che investono in questi giorni la Chiesa padovana, alimentate da uno stillicidio pressoché quotidiano di notizie, riflettono un disagio molto più vasto e complesso che va ben oltre la sfera sessuale: chiamano in causa la drastica e micidiale crisi di una categoria che fino a un paio di generazioni fa era diffusa, stimata, seguita; e che oggi si sta prosciugando in modo drammatico nei numeri, mentre viene gravata da un carico di incombenze sempre più gravoso, e si trova assediata da una modernità che sta scuotendo l’intera società, con un devastante terremoto delle coscienze. Tutti processi e dinamiche che in estrema sintesi si possono condensare in un’immagine: la solitudine del prete. Quella del burn-out è una crisi che colpisce soprattutto i sacerdoti tra i 40 e i 50 anni, sottolinea padre Giandomenico Mucci, gesuita, tra i più autorevoli collaboratori di “Civiltà cattolica”, che spiega: «Molti di loro, rispetto ai preti giovani, che possono sperare in un futuro migliore, e ai preti più anziani, che conoscono le difficoltà del ministero e i modi per superarle, soffrono la consapevolezza che le loro difficoltà non sono risolvibili a breve e a medio termine. Anche perché, essendo già stati per anni parroci e viceparroci, sanno distinguere tra le difficoltà contingenti, superabili con un mutamento di sede, e quelle legate alla stessa condizione di sacerdote». Oltretutto, pur sentendo il bisogno di aiuto, stentano a chiederlo. Così un po’ alla volta vanno alla deriva, fino ad approdare a soluzioni estreme: come segnala il caso del parroco di Marega a Bevilacqua, nella Bassa veronese, che si è ucciso nella sua stanza pochi giorni fa. Aveva 43 anni. Preti soli, che si sentono ai margini rispetto al contesto in cui si muovono. Lo sottolinea bene ancora padre Mucci: «Tra le cause non secondarie di burn-out c'è anche la sensazione del disinteresse del presbiterio e dei fedeli, la sofferenza cioè dell’incomprensione e dell’isolamento che non raramente si configura come incoerenza percepita, nel presbiterio e nei fedeli stessi, tra i

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valori proclamati come prioritari e la prassi della vita». Ci sono risposte possibili rispetto a questa situazione, per contrastare il progressivo logoramento silenzioso? «Maggior cura dovrebbe essere riservata al controllo dei sentimenti, nel senso che i preti dovrebbero essere preparati o educati a gestire le faticose relazioni quotidiane con ogni genere di richieste. Ma forse, a questo punto, si dovrebbero studiare anche i probabili effetti negativi che il superlavoro potrebbe generare sulla psicologia del sacerdote o almeno sulla psicologia di alcuni preti con un inevitabile riflesso sulla vita della comunità cristiana». Superlavoro: è un dato oggettivo, legato in larga misura al massiccio calo di vocazioni, testimoniato in modo inequivocabile dai numeri. Nell’arco di appena dieci anni, l’Italia ha registrato una diminuzione di oltre 4.500 sacerdoti e di oltre 21mila suore; quanto alle “new entries”, le nuove ordinazioni sono meno di 400 l’anno. Un’emorragia non solo italiana: per dire, nella cattolicissima Irlanda lo scorso anno sono state una dozzina in tutto. Ma da noi il problema rimane comunque serio, anche perché comporta un progressivo invecchiamento dei preti: l’età media di quelli diocesani arriva ormai ai 60 anni, con punte di 64 in Marche e Piemonte. Oltretutto, diventa sempre più difficile rimpiazzare i sacerdoti che se ne vanno: in quattro casi su dieci, quelli che lasciano le parrocchie (per anzianità, invalidità, decesso, o perché lasciano il sacerdozio) non vengono sostituiti. E si arriva a casi-limite come il Piemonte, dove in tre casi su quattro non è possibile il turn-over. Così cresce a vista d’occhio il fenomeno delle cosiddette unità pastorali, in cui un singolo parroco deve farsi carico di più parrocchie, in tutte le loro necessità. E’ un trauma vero e proprio, anche perché assorbito in un tempo relativamente breve. Agli inizi del Novecento, in Italia c’erano quasi 70mila preti per una popolazione di 33 milioni di abitanti, come dire uno ogni 500 persone; oggi siamo a 32mila per 60 milioni, uno ogni 2mila, come dire quattro volte tanto. Non va meglio per gli ordini religiosi, che pure in passato hanno svolto un ruolo di primissimo piano: tra case religiose, conventi e monasteri, oggi in tutto operano 20mila persone. Anche qui bisogna procedere a ristrutturazioni drastiche: com’è accaduto da poco con i frati minori conventuali, che pochi mesi fa hanno dato vita a un’unica Provincia per il Nord Italia fondendone sei, intitolata a sant’Antonio: comprende 627 religiosi articolati in 66 case. La sola Provincia veneta, che conta su 300 frati, fino a pochi decenni fa ne aveva 800. Dall’alba a notte fonda, gravato di impegni, fondamentalmente solo. E’ un mestiere duro, se tale si può chiamare, quello del parroco: anche per questo esposto alle derive che possono condurre alla condizione di burn-out. Ne tratteggia le dinamiche don Roberto Repole, docente della facoltà teologica di Torino, che si è occupato in modo specifico dell’argomento: «Si tratta, anzitutto, della mancanza di senso di appartenenza comunitario, ovvero una solitudine da non attribuirsi tanto al fatto di non vivere con altre persone, quanto piuttosto al fatto di non avvertire l’appartenenza a un corpo ecclesiale o presbiterale con cui condividere gli stessi valori, ideali e obiettivi. «Si tratta, poi, di un sovraccarico di lavoro, dovuto non tanto all’eccessivo impegno profuso quanto alla percezione di dover essere responsabili di tutto; e si tratta, infine, di una gratificazione insufficiente, nel senso di una fatica a vedere la realizzazione dei progetti pastorali fatti o dei valori per cui si è spesa l’esistenza». Sovraccarico è la parola giusta: il prete, in parrocchia, deve farsi carico dei ragazzi, delle coppie, degli anziani, degli ammalati, della catechesi degli adulti, dei poveri e via elencando. Per non parlare di un rilevante peso di adempimenti burocratici, della gestione economica, del rapporto con le associazioni… Come porre rimedio a tutto questo, a fronte del drastico calo delle vocazioni? Le risposte possibili sono molte e complesse, ma don Roberto chiama in causa anche le chiese diocesane: «E’ urgente ripensare, in un modo paziente ma realmente condiviso da tutti (vescovo, preti e laici), la figura ecclesiale nell’orizzonte della fine della cristianità; e l’importanza che i preti si percepiscano responsabili, per quel che è loro possibile, dei conseguenti cambiamenti ecclesiali oggi richiesti dal nuovo modello culturale». Rimane, oggettivamente, una condizione di pesante difficoltà, su cui gravano sia il sovraccarico pastorale che una vera e propria solitudine istituzionale, come messo in luce da una ricerca dell’Osservatorio socio religioso delle Venezie. Alessandro Castegnaro, sociologo dell’Osservatorio, parla di una vera e propria “solitudine ecclesiale” che il prete percepisce nei confronti degli altri preti, dei superiori e del centro diocesano: «Il prete si sente da solo e in prima linea ad affrontare tante questioni, senza l’aiuto di norme che sono troppo rigide per una realtà sempre più

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complessa; vive relazioni ricche con i laici, ma la responsabilità alla fine rimane sua; egli non sente la vicinanza del vescovo e, invece di trovare un aiuto negli uffici centrali, si ritrova con ulteriori richieste da parte loro. La stessa Cei gli appare lontana, troppo ottimista nel valutare la situazione, poco flessibile e accogliente solitudine ecclesiale». IL GAZZETTINO Pag 16 I preti, più pastori che politici (lettera di Luigi Barbieri) Da cristiano sono molto dispiaciuto per gli scandali che gravano sulla Curia di Padova. Leggo sul Gazzettino di bugie ai vertici della Curia e di più preti hard che sarebbero coinvolti. Non sono certo la persona più adatta a dare consigli in questo frangente così delicato, ma mi piacerebbe che questo nuovo Vescovo riuscisse a stemperare il clima che si è venuto a creare. E' un uomo nuovo e non ricopriva questo ruolo quando altri soggetti ne avevano l'incarico. Non è semplice, ma un tentativo andrebbe fatto. Ritornare alle origini, per quanto possibile. Una Curia più defilata e di basso profilo. Magari cominciando astenendosi dalla politica. Più preti, più pastori di anime meno impegno politico partitico. Vorrei non ricevere più lettere a firma del tal don Bianchi o del rev. Rossi che mi invitano a votare per questo o quel candidato. Un primo passo per tornare ad essere pastori di anime e non più mietitori di voti. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXV Chiesa cattolica e la credibilità (lettera di un Gruppo di Fedeli Tridentini della Terraferma Veneziana – Mirano) Abbiamo letto una locandina in cui vengono presentate le iniziative religiose e liturgiche in programma nella Diocesi di Venezia in occasione della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani che sta per iniziare. Da cattolici ci domandiamo quale possa essere l'opportunità e l'utilità di vere e proprie ammucchiate ecumeniche che i cattolici dovrebbero loro malgrado condividere con protestanti e greco-ortodossi quando sappiamo (lo studiamo nei libri di storia) che la chiesa cristiana originaria è quella cattolica, da cui si sono staccati dapprima gli ortodossi nell'undicesimo secolo e poi i protestanti (oggi chiamati eufemisticamente evangelici) cinque secoli più tardi. Certamente la tolleranza e la convivenza tra diversi sono importanti e necessarie, ma da questo a dover noi cattolici umiliarci pubblicamente ogni volta di fronte al mondo facendo credere che siamo sullo stesso piano di quanti si sono volontariamente staccati dalla Chiesa delle origini tramite scismi ed eresie per fondare confessioni religiose d'ogni sorta, ci sembra veramente inaudito e soprattutto ingiusto anche nei confronti di quanti ci hanno preceduto nella fede e hanno preferito morire piuttosto che tradire la Chiesa. Ne va di mezzo la credibilità stessa della Chiesa Cattolica, che rischia in questo modo di conformarsi al mondo, alle mode e ai capricci umani a discapito della Verità e della Carità e di scandalizzare i semplici. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 Umanissimo diritto di Francesco Ognibene Limite alla genitorialità a ogni costo Mancava solo la sua voce, e ora si è levata, forte e chiara. Dopo il Parlamento di Strasburgo e il Consiglio d’Europa, anche la Corte europea dei diritti umani si è espressa contro il ricorso alla surrogazione di maternità per soddisfare il desiderio di diventare genitori, sottolineando che si diventa mamma e papà non in forza di un progetto e di un desiderio, legittimo e tuttavia non estraneo a ogni possibile limite perché considerato in sé buono, ma solo «nel caso di un legame biologico o di un’adozione legale». Pur divisi, sul primo caso (italiano, e questo lo rende doppiamente significativo) di 'gestazione per altri' di cui sono stati chiamati a occuparsi i giudici di Strasburgo hanno ribaltato la pronuncia di primo grado e deciso in modo definitivo che è giusto sbarrare il passo

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all’ottenimento di un figlio con qualsiasi metodo, e dunque non è lecito farlo attraverso la stipula di un contratto per l’affitto di un grembo disponibile, considerando come un prodotto in conto terzi il bambino concepito. La natura si può tentare di eludere, i diritti umani fondamentali no, non del tutto, non ancora, finché ci sono legislatori e giudici in grado di riconoscere quel che c’è di insuperabile nelle relazioni umane e in particolare all’interno di quelle che parlano della nostra essenza, collocate come sono al suo stesso cuore. Da sempre la legge e i suoi custodi sono chiamati a fermare i tentativi di cambiare connotati alla realtà, di ingannare il senso comune e la più elementare esperienza umana condivisa, spesso dissimulati sotto spoglie ingannevoli ed emotive. A chi legifera e a chi giudica la Corte europea ricorda che non si mercanteggia sulla vita umana, perché c’è in gioco ciò che siamo disposti a diventare come società, persone, progetti di comunità. Assecondare ogni istanza che emerge dalla collettività solo perché nuova e tecnicamente percorribile è ciò che deve rassegnarsi a fare ogni giudice? Strasburgo ha risposto di no, ha detto che ci sono diritti che vengono prima di ogni pur comprensibile sogno. E ha fatto capire col suo verdetto inappellabile che le esigenze di una coppia che desidera un figlio vanno ascoltate, ma non calpestando la dignità umana, il rapporto di filiazione, il diritto di conoscere le proprie origini. Non tutto è 'famiglia'. Nel caso giunto sino all’ultima istanza europea, in particolare, colpisce che alla surrogazione di maternità i due aspiranti genitori fossero arrivati dopo essersi persi per anni nei meandri delle pratiche adottive, imboccando a un certo punto quella che doveva esser sembrata loro una scorciatoia. Vietata dalla legge italiana, ma purtroppo tollerata da troppi tribunali «nell’interesse del minore», e adesso chiamata di nuovo col suo nome dalle toghe massime custodi dei diritti umani. Attorno al diventare madri e padri, al concepire e al nascere è doveroso che la giustizia – e quella sovranazionale a maggior ragione, considerata la fragilità di leggi soggette in molti Paesi all’influsso di diritti presunti e interessi concreti – stenda un recinto protettivo, sensibile ai tentativi di cambiare con pesante pressione politico-mediatica il profilo dell’umano solo perché c’è chi desidera rendere lecito tutto ciò che è tecnicamente ed economicamente possibile. Ecco perché è importante che la Corte europea dicendo la sua con un verdetto destinato a creare un punto fermo e ineludibile abbia voluto aggiungere anche «la protezione dei diritti e delle libertà di altri» – dunque del bambino e della madre surrogata – agli «obiettivi legittimi» delle sentenze italiane che avevano sottratto un bimbo nato in Russia nel 2011 a una coppia molisana che l’aveva ottenuto a pagamento tramite utero in affitto e con materiale genetico (il seme del padre, l’ovulo della madre) estraneo ai due 'genitori committenti'. I contratti di noleggio di un ventre materno per un pugno di dollari in Paesi dove mettere al mondo il figlio di altri può voler dire rifiatare dalla miseria sono autentiche riduzioni in schiavitù, ripugnanti alla coscienza di qualsiasi essere umano che non contempli l’esistenza di un povero pezzo di umanità al servizio dei più 'ricchi'. E anche là dove i contratti di surrogazione passano attraverso gli avvocati delle parti e compensi sostanziosi resta l’incancellabile abbrutimento della filiazione trasformata in prestazione d’opera, del figlio divenuto bene di consumo, con le donne ridotte a 'fattrici' selezionate su appositi cataloghi in base alla loro prestanza fisica e genetica e soprattutto all’impegno di non far troppe storie in sala parto, quando quella creatura che chiede il loro seno deve esser portata via. A tutto questo la giustizia europea poteva dire basta. Ora che l’ha detto, ora che tutte le istanze continentali si sono pronunciate in una stessa e umanissima direzione, saranno legislatori e giudici di casa nostra finalmente all’altezza di tanto lucido coraggio? Pag 3 Lo scandalo degli invalidi? L’assegno fermo a 279 euro di Francesco Riccardi Sotto la soglia di povertà, ma nessuno osa proporre aumenti Forse il tempo dei bonus è ormai passato definitivamente e il vento che spira da Bruxelles cancella le speranze di nuovi interventi sociali, vista la necessità di una manovra aggiuntiva per correggere il deficit. Ma quel che stupisce è che fra i tanti interventi compiuti, finanziati con decine di miliardi o anche solo progettati negli ultimi anni, non si sia mai neppure presa in considerazione l’idea di impegnare risorse per aumentare le tutele all’invalidità. Come se la (composita) categoria di persone che ne usufruisce non fosse in una condizione di 'bisogno' assai più urgente rispetto ad altre

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fasce sociali. E come se per costoro, lo vedremo, non si ponesse una questione di equità sociale. CHE COSA È PREVISTO - Lo scorso anno i trattamenti di invalidità sociale erogati dall’Inps sono stati poco meno di tre milioni, 2.980.799 per la precisione, per una spesa di 18 miliardi di euro. Si tratta di diverse tipologie di sostegno, variabili in base alla gravità della disabilità: l’'assegno di invalidità' (previsto per le invalidità dal 74% al 99%), la 'pensione di inabilità civile' (per le invalidità totali, pari al 100%) e la cosiddetta 'indennità di frequenza' a cui hanno diritto i minori disabili. Per tutte queste categorie l’importo dell’erogazione è pari a 279,47 euro mensili, con un limite di reddito personale fissato a 4.800 euro annui oltre il quale si perde il diritto all’assegno, elevato a 16.532 euro annui solo nel caso della 'pensione di inabilità civile'. Per i ciechi e i sordomuti sono previsti trattamenti particolari che comunque variano dai 206,59 ai 302,23 euro mensili (con limite di reddito a 16.532 euro annui). Per i casi più gravi – laddove l’invalidità al 100% comporti anche l’impossibilità di muoversi in maniera autonoma o l’impossibilità di compiere gli atti quotidiani della vita, con la conseguente necessità di un’assistenza continua – lo Stato eroga pure l’'indennità di accompagnamento' pari a 512,34 euro al mese per dodici mensilità (elevata a 899,38 nel caso dei ciechi assoluti). Per completare il quadro, sono previste poi alcune agevolazioni fiscali e assistenziali su acquisto di protesi, ticket sanitari eccetera (una piccola giungla che andrebbe comunque razionalizzata). È TANTO O È POCO? - La previsione di un sostegno agli invalidi deriva da una precisa disposizione costituzionale. La nostra Carta, infatti, all’articolo 38 prevede che 'Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale'. E dunque gli assegni di invalidità devono rispondere a questa esigenza: assicurare quantomeno il mantenimento degli inabili. Ma se è così, 279,47 euro sono sufficienti? È 'già tanto' quel che si assicura ai disabili, come sostiene qualcuno, o si tratta di una cifra non congrua per poter vivere e di fatto non equa come trattamento assistenziale? Per non ragionare in astratto, meglio prendere alcune altre cifre a riferimento, come quelle di altri trattamenti previdenziali e assistenziali di base. Ad esempio, l’'assegno sociale' che viene erogato dopo l’età pensionabile a chi ha redditi nulli o minimi e che ammonta a 448 euro mensili. Oppure la 'pensione minima', cioè l’integrazione del trattamento che viene riconosciuta al pensionato il cui reddito da pensione, sulla base del calcolo dei contributi versati, risulti inferiore ad un livello stabilito per legge, considerato il «minimo vitale». Quest’anno l’importo resta fissato a 501,89 euro. E qui emerge già una prima palese iniquità: se per un pensionato il «minimo vitale» è fissato a 501 euro, perché a un invalido si eroga solo poco più della metà (279 euro) di quel minimo? PIÙ POVERO DEI POVERI ASSOLUTI - Ma è soprattutto un altro parametro a rendere evidente l’incongruità degli assegni per invalidi ed è il calcolo della soglia di povertà assoluta. Si tratta del valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definito in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza, dato che il costo della vita è assai variabile nel nostro Paese, a seconda appunto che si viva al Nord o al Sud, in un paesino o in una grande città. Se prendiamo a riferimento un singolo, dai 18 ai 59 anni, questa soglia di povertà assoluta varia da un minimo di 552 euro al mese per chi abita in un piccolo comune nel Mezzogiorno a un massimo di 819 euro mensili per coloro che risiedono in una città metropolitana del Settentrione. Valori, come si vede, che sono dal doppio a quasi il triplo della pensione di invalidità che da sola, dunque, non permette neppure di avvicinarsi alla soglia della povertà assoluta. L’ACCOMPAGNAMENTO NON È REDDITO - Se i percettori di pensione di invalidità non sono ancora tutti scomparsi per inedia, ciò si deve a due fattori principalmente. Il primo, fondamentale, è l’aiuto della famiglia che si fa carico del disabile o invalido provvedendo a sostentamento e soprattutto cura. Il secondo è rappresentato dalla 'indennità di accompagnamento' di cui molti invalidi, in particolare quelli più gravi, 'godono'. Sono, come ricordavamo prima, altri 512 euro esentasse, che portano il totale a 791 euro. Ma – notato come in ogni caso si rimanga sotto la soglia di povertà quantomeno nelle città del Nord – questa cifra complessiva incorpora in sé la necessità di retribuire un accompagnatore – l’indennità viene concessa proprio perché il disabile non è in grado di provvedere a se stesso in maniera autonoma – e, ai prezzi correnti, sono sufficienti forse

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per retribuire un badante, ma solo a mezza giornata. Più spesso servono a compensare relativamente la perdita di reddito di un familiare che non lavora e si prende cura di chi è invalido (con tutto ciò che questo comporta, oltre che sul piano personale, in termini di maggiore fragilità economica del nucleo familiare e ridotte prospettive previdenziali). In sostanza, quei 512 euro non rappresentano un reddito spendibile ma il (mezzo) finanziamento di un servizio assolutamente necessario. UNA BATTAGLIA (IM)POPOLARE - Le cifre insomma parlano chiaro: la pensione di invalidità è insufficiente per garantire il minimo vitale ed è notevolmente più bassa di tutti gli altri trattamenti previdenziali e assistenziali. Perché dunque nessuno – né il governo né le opposizioni né le parti sociali – si è mai proposto di porre rimedio con aumenti adeguati? Le risposte sono essenzialmente tre, tra loro connesse: manca una rappresentanza forte degli invalidi; il loro peso elettorale è limitato e l’argomento è (ingiustamente) impopolare. Nonostante vi siano associazioni di invalidi, alcune anche con centinaia di migliaia di iscritti, infatti, la rappresentanza in questo settore sociale è molto frastagliata e manca di coordinamento. A differenza, ad esempio, di quanto accade con i pensionati, i cui interessi sono talmente ben rappresentati e imposti all’attenzione del mondo politico che Cgil, Cisl e Uil sono appena riuscite a ottenere una quattordicesima mensilità anche per chi riceve un assegno dai 750 ai 1.000 euro mensili, cioè il quadruplo di una pensione di invalidità (e a prescindere dal reddito familiare). Sul piano elettorale, poi, tre milioni di percettori di rendita di invalidità non hanno un gran peso, soprattutto se, come detto, non sono così coordinati da svolgere azioni di lobby. Infine, il motivo principale: la cattiva nomea che ha reso questa categoria i 'paria', gli 'intoccabili' dell’intervento politico. È vero: esiste il problema dei 'falsi invalidi', truffatori che fingono una disabilità della quale non soffrono e soprattutto gruppi di persone a cui una certa politica clientelare – non sapendo dare risposte reali in termini di lavoro e opportunità di sviluppo del territorio – ha 'concesso' rendite di invalidità come una sorta di reddito minimo ante litteram. Lo si comprende bene osservando i diversi indici di invalidità rispetto alla popolazione tra Nord (37,2 ogni 1.000 abitanti) e Sud (64,1 ogni 1.000 abitanti). Tutto questo, però, non giustifica il disinteresse politico per un gruppo sociale tra i più fragili e non può far velo a una verità lampante: l’assegno di invalidità così non risponde al dettato costituzionale e non permette a chi è inabile una vita minimamente dignitosa. Pag 6 «No» alla maternità surrogata se non c’è legame biologico di Giovanni

Maria Del Re La Corte Europea dei diritti umani dà ragione all'Italia: legittimo togliere a una coppia il

bambino da utero in affitto Bruxelles. Gli stati hanno il diritto di sottrarre un bambino concepito con maternità surrogata alla coppia che lo ha così ottenuto, ed è loro competenza esclusiva stabilire la relazione parentale di un bambino, rinviando al solo legame biologico o all'adozione legale. Inoltre non esiste diritto a esser genitori a tutti i costi. Resterà come una pietra miliare la sentenza di secondo grado, non più appellabile, pronunciata ieri dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti umani (che dipende dal Consiglio d' Europa e non ha a che fare con l'Ue), che ha dato ragione allo Stato italiano su una vicenda ormai ben nota, che riguarda i coniugi Donatina Paradiso e Giovanni Campanelli. La coppia si era rivolta alla Corte di Strasburgo dopo che nel 2011 il comune di residenza, Colletorto (Campobasso), aveva rifiutato di registrare un bambino portato in Italia dalla Russia. Il piccolo, nato il 27 febbraio del 2011, era frutto di una gravidanza surrogata (vietata in Italia) in base a un contratto (dietro ovviamente compenso) con una società russa. La madre "in affitto" accettò che il bambino ricevesse un certificato di nascita russo come figlio della coppia, ma il consolato d'Italia a Mosca avvisò poi le autorità italiane che il documento conteneva dati falsi. Fu questo a far sì che il comune di Colletorto rifiutasse la trascrizione all'anagrafe del bambino come figlio della coppia. Inoltre, esami del Dna hanno rivelato che non vi è alcun legame biologico tra il piccolo e Campanelli, mentre la Paradiso aveva raccontato di aver portato liquido seminale del marito a Mosca per una fecondazione eterologa (anch'essa allora vietata in Italia). La coppia fu denunciata, il piccolo affidato ai servizi sociali dal Tribunale dei minori di Campobasso, nel 2013 è stato adottato da un'altra coppia. La sentenza di ieri - giunta anche dopo una grande

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mobilitazione di associazioni e una petizione firmata da 100mila persone, e grazie anche alle solide argomentazioni giuridiche del governo italiano - ha ribaltato una prima sentenza della stessa Corte europea del 2015. Sentenza in cui si accusava l'Italia di aver violato l'articolo 8 (diritto al rispetto alla vita privata e familiare), con obbligo di risarcimento da 30mila euro. Peraltro uno dei due giudici "dissidenti" che avevano criticato la sentenza del 2015 era Guido Raimondi, oggi presidente della Corte europea dei diritti umani. Con una sentenza approvata da 11 giudici (sei i contrari), la Grande Camera ieri ha invece stabilito che «non vi è stata violazione dell'articolo 8». «Tenuto conto dell' assenza di qualsiasi legame biologico tra il bambino e i ricorrenti - spiega - e la breve durata della loro relazione con il bambino (sei mesi ndr), e l'incertezza dei legami tra loro dal punto di vista giuridico, e nonostante l'esistenza di un progetto parentale e la qualità dei vincoli emotivi, la Corte ha ritenuto che non esisteva una vita familiare tra i ricorrenti e il bambino». Non basta, la Corte afferma che «le misure contestate hanno perseguito l'obiettivo legittimo di difendere l'ordine e proteggere i diritti e le libertà degli altri. A questo riguardo (la Corte ndr) considera legittimo il desiderio delle autorità italiane di riaffermare la competenza esclusiva dello Stato di riconoscere la relazione parentale legale di un bambino, e questo esclusivamente nel caso di un legame biologico o di un'adozione legale, con l'obiettivo di proteggere i bambini». Infine, «la Corte ha accettato che i tribunali italiani, avendo concluso in particolare che il bambino non avrebbe sofferto di danno grave o irreparabile, come risultato della separazione, hanno trovato un giusto equilibrio tra i vari interessi in gioco». È qui un punto cruciale: «Accettare di lasciare il bambino con i ricorrenti sarebbe equivalso a legalizzare la situazione da loro creata in violazione delle regole del diritto italiano» - uno degli argomenti chiave del governo italiano. La sentenza oltretutto sottolinea che «la Convenzione (europea sui diritti umani ndr) non sancisce alcun diritto a diventare genitori». La battaglia contro la maternità surrogata però continua: la Corte Europea non condanna la pratica di per sé, né, sostengono vari esperti, lo farà a breve. Cruciale, oltretutto, è la questione del «legame biologico»: se questo c'è - è il messaggio della Corte - allora, il discorso cambia, come dimostra una sentenza del 2014, diametralmente opposta a quella di ieri, che condannò la Francia sempre per il rifiuto di trascrivere il bambinol' uomo era padre biologico del bambino ottenuto con maternità surrogata. Rimane, comunque, che ieri la Corte ha segnato una pagina nuova. LA NUOVA Pag 1 Tramonta l’economia globale di Maurizio Mistri Nel mondo va accadendo un fenomeno già analizzato dalla scienza economica. Mi riferisco al fenomeno della inversione delle preferenze, in origine analizzato relativamente ai comportamenti dei consumatori le cui preferenze vengono definite rispetto ai beni che questi avrebbero consumato in dati periodi. Tuttavia, è possibile parlare di preferenze anche nel campo della politica economica dove le preferenze delle persone possono essere individuate attraverso le scelte tra i programmi dei partiti. Nel caso dell’Europa fino a qualche tempo fa si è assistito all’affermarsi di un credo, un po’ fideistico, nella libertà dei commerci e della circolazione dei capitali. Oggi nelle opinioni pubbliche europee emergono atteggiamenti ostili a una globalizzazione che appare capace di spossessare i popoli di una seria capacità di decidere del loro futuro. Si tratta di uno spossessamento che deriva anche dal crescente ruolo della finanza speculativa, che ha messo in posizione subordinata il ruolo della manifattura sulla quale si è plasmata la coscienza di classe del proletariato industriale europeo e americano. Nei circoli liberal statunitensi ed europei si afferma che quanto va accadendo in Europa e negli Usa è ineluttabile e che l’impoverimento dei ceti medi dell’Occidente è una sorta di fenomeno “naturale”, conseguenza di una globalizzazione che nel futuro darà frutti positivi. Ma non ci sono prove che ciò accadrà. La frattura fra ceti popolari e medi dell’Occidente, da un lato, e la sinistra, dall’altro lato, trova una delle sue ragioni nella dichiarazione di impotenza della sinistra davanti a fenomeni che allarmano i ceti socialmente più deboli. Qualunque siano le ragioni politiche della frattura sopraddetta rimane da valutare se l’ostilità delle classi socialmente più deboli verso la globalizzazione e la finanziarizzazione della economia sia frutto, oppure no, di un fraintendimento circa la natura dei fenomeni economici che stiamo vivendo. Molte persone nel recente passato

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hanno percepito che la liberalizzazione dei mercati europei ha avuto un impatto positivo sulla vita dei ceti socialmente più deboli dell’Europa. Oggi, in Europa e negli Usa è la liberalizzazione dei mercati mondiali a essere percepita negativamente. Con la creazione del Mec si è data vita a un’area di libero scambio cha ha portato benefici alle economie e ai popoli dei sei paesi membri, grazie alla divisione del lavoro. Fino a un certo periodo di tempo, la globalizzazione (intesa come liberalizzazione dei mercati) era vista positivamente nei paesi industrialmente avanzati, mentre era vista con ostilità nei paesi in via di sviluppo. In tempi più recenti, con le liberalizzazioni successive sono entrati nel circuito degli scambi economici internazionali importanti paesi del Terzo mondo che hanno intrapreso la via della industrializzazione, specializzandosi nella produzione di beni “maturi”, intensivi in lavoro e a bassa intensità di capitale. Quei prodotti hanno spiazzato le produzioni “mature” dei paesi occidentali. Da qui un aumento della disoccupazione. Le imprese manifatturiere occidentali per far fronte alla concorrenza dei nuovi competitors hanno dato risposte obbligate: a) cessare la produzione nei paesi a vecchia industrializzazione; b) trasferire la produzione nei paesi a nuova industrializzazione; c) aumentare il tasso di meccanizzazione nelle produzioni locali. Queste risposte hanno conseguenze negative sui livelli occupazionali e sulla precarizzazione del lavoro. Dire che i lavoratori disoccupati potranno inserirsi nelle “nuove produzioni” è una presa in giro perché un lavoratore che opera in un settore “maturo” ha un capitale umano inservibile nei nuovi settori e anche perché tali settori sono comunque complessivamente risparmiatori di lavoro umano. Nell’Europa dell’euro si aggiungono le politiche di bilancio restrittive che rendono più difficile la creazione di nuovi posti. Tanto più che l’Europa appare il punto di arrivo di un potenziale immigratorio a numerosità indefinita. Non c’è da stupirsi se in Europa va iniziando un nuovo ciclo politico basato sulla ostilità nei riguardi dell’Unione Europea e dell’immigrazione. E non c’è da stupirsi delle posizioni enunciate da Donald Trump e di quelle enunciate a Davos dalla dirigenza cinese in materia di una globalizzazione nella quale i vincenti di ieri diventano i perdenti di oggi. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 21 Brugnaro e la pace fatta con l’Unesco (che non declasserà più Venezia) di Paolo Conti Il sindaco a Parigi illustra le misure contro il turismo di massa. Carandini: “Si tutelino gli abitanti” Pace fatta ieri sera a Parigi dopo l’incontro tra il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, e il direttore generale dell’Unesco, Irina Bokova. «Ho percepito la forza dell’impegno portato avanti dalla città e dal governo». All’ordine del giorno dell’incontro la decisione «40 COM 7B.52» adottata dal World Heritage Committee dell’Unesco nella quarantesima sessione a Istanbul il 14 luglio 2016 e che avvertiva: se l’amministrazione non adotterà misure concrete per favorire un turismo sostenibile e per salvaguardare il delicato sistema ambientale e culturale della città, l’Unesco inserirà Venezia e la Laguna nella lista del Patrimonio Culturale dell’Umanità considerato in pericolo. Uno smacco all’Italia, che verrebbe trattata come un Paese incapace di tutelare il proprio Patrimonio. In ballo c’è la sconvolgente pressione turistica (siamo vicini al record di 30 milioni di presenze all’anno), il passaggio delle grandi navi, i progetti di scavo di nuovi canali, l’invasione di fast food e di souvenir al posto delle botteghe artigiane, la fuga dei cittadini veneziani dal centro storico cittadino. Brugnaro ha illustrato il «patto per Venezia» del 26 novembre 2016 con 457 milioni di euro messi a disposizione dal governo Renzi per «azioni di salvaguardia» nei prossimi quattro anni anche nell’ambito del nuovo piano strategico di sviluppo del turismo presentato il 16 dicembre scorso. Bokova ieri appariva ottimista: «Venezia è un patrimonio comune dall’eccezionale valore universale. Lavoreremo insieme, Unesco, Governo, Comune e tutti gli stakeholder. È l’unica strada da percorrere». Ma a Venezia molte associazioni di base protestano per l’atteggiamento del sindaco, accusato di sottrarsi al confronto con la città. Il Gruppo 25 aprile/Piattaforma civica per Venezia e la sua Laguna ha scritto a Irina Bokova e ai

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vertici dell’Unesco sottolineando «l’assenza di ogni dibattito in Consiglio comunale» e la mancata «organizzazione di qualsiasi consultazione pubblica». Nel documento si sottolinea come non sia stato «sottoposto ad alcuna valutazione di impatto ambientale il progetto per il dragaggio del Canale delle Tresse per le navi da crociera più grandi». Gli addetti ai lavori continuano a essere preoccupatissimi. Dice Andrea Carandini, presidente del Fai: «Urge per Venezia prima di tutto una scrupolosa politica di conservazione degli abitanti. Gli antichi dicevano che le città “sono” i cittadini che le abitano. I giovani vanno via da Venezia, le botteghe artigiane scompaiono. E Venezia, come Roma, si sta trasformando in una macchina da turismo mordi e fuggi. Sul disastro delle grandi navi la posizione del Fai è ben nota, ci siamo pronunciati molte volte duramente. Urge un “big deal” della manutenzione e se davvero si vuole far comprendere Venezia bisogna finalmente dar vita a quel Museo della Città già progettato sull’Isola del Lazzaretto Vecchio in quel magnifico complesso prima ristrutturato e ora colpevolmente abbandonato. Così si favorirebbe davvero un turismo più consapevole e meno di massa». Concorda Marco Parini, presidente di Italia Nostra: «Cosa fa il Comune contro lo spopolamento? Venezia deve tornare a essere una città con i suoi abitanti. La loro scomparsa è un errore sociale, storico, identitario, ci vuole una strategia non una banale tattica. E ancora: qual è il progetto per un turismo compatibile con la delicata filigrana di una città unica al mondo? La sensazione è che in realtà si favorisca un turismo di massa, basta che arrivi, costi quel che costi. E sulle grandi navi cosa si intende fare? È un immenso danno a quel corpo per fortuna ancora vivo che è Venezia, ora in una condizione disastrosa». CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Venezia, segnali di pace dall’Unesco: “Abbiamo capito il vostro impegno” di Francesco Bottazzo e Elisa Lorenzini Brugnaro in missione a Parigi: “Ecco cosa facciamo per la città”. Case, servizi, grandi navi: “Ma non hanno risposto alle raccomandazioni” Venezia. Si alza, prende la bacchetta e si avvicina alla mappa di Venezia proiettata sullo schermo. «Sullo stop al passaggio delle grandi navi sono d’accordo da più di otto anni, dobbiamo invece mantenere la Marittima: sono stati fatti ingenti investimenti e ci sono più di cinquemila posti di lavoro», dice guardando dritto negli occhi i commissari dell’Unesco. In questo fotogramma c’è tutto Luigi Brugnaro, il sindaco-imprenditore che ieri coadiuvato da una quindicina tra assessori, dirigenti e componenti dello staff, ha parlato della salvaguardia di Venezia e della sua laguna, sito del patrimonio mondiale Unesco dal 1987. Perché proprio l’organizzazione delle Nazione unite aveva lanciato l’ultimatum alla Serenissima: o entro l’1 febbraio Comune e governo danno segnali certi e concreti di voler risolvere i problemi più gravi che stanno mettendo a rischio la sopravvivenza della città - dall’assalto dei turisti al moto ondoso - oppure Venezia sarà cancellata dai siti del patrimonio dell’Umanità e entrerà a far parte della black list dei siti monumentali a rischio. E Ca’ Farsetti ieri il colpo l’ha battuto se alla fine di una giornata cominciata alle 11 e finita dopo le sei della sera la direttrice generale dell’Unesco Irina Bokova ha affermato di aver «compreso la forza dell’impegno portato avanti dalla città e dal governo». A luglio durante la 40esima sessione del World heritage committee (la commissione che si occupa di patrimonio dell’umanità) era stata infatti votata all’unanimità una risoluzione che bacchettava l’Italia per l’assenza di una strategia di tutela della laguna e dava una serie di raccomandazioni in attesa di avere risposte non oltre l’1 febbraio. Le grandi navi che transitano in bacino di San Marco, la monocultura turistica, l’esodo di residenti, i palazzi e i monumenti da restaurare e la laguna da tutelare. Ieri il sindaco ha cercato di svoltare, tendendo la mano all’organizzazione delle Nazioni unite con cui in passato non sono mancati screzi verbali. «A Venezia pensiamo noi, l’Unesco piuttosto ci aiuti a ottenere il rifinanziamento della Legge speciale per avere le risorse necessarie per la città», aveva risposto all’ultimatum. A vedere le dichiarazioni e il clima di collaborazione di ieri pare che un obiettivo il sindaco l’abbia raggiunto: la pace. «La mia presenza è una segnale della fiducia e dell’impegno per la cooperazione a livello internazionale. Ho presentato i progressi fatti negli ultimi 15 mesi (da quando è stato eletto a Ca’ Farsetti, ndr) che dimostrano uno sforzo continuo per la rivitalizzazione della città e un chiaro segnale di discontinuità con il passato». Poi la

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mano tesa: «Spero che questo incontro sia il punto di partenza per una collaborazione che costruisca una nuova visione per Venezia per i prossimi 20 anni, dove tutti sono impegnati per costruire un futuro migliore per le nuove generazioni». Sul tavolo oltre 70 pagine con le risposte alle raccomandazioni, a partire dal «Patto per lo sviluppo» firmato a novembre tra il sindaco e l’allora premier Renzi che riconosce la specificità di Venezia e stanzia 457 milioni per gli interventi. La soluzione al passaggio delle navi davanti a San Marco, interventi sulla sostenibilità ambientale, il recupero architettonico, il turismo. E ancora, l’elenco degli atti approvati e compiuti dall’amministrazione fucsia a voler dimostrare che la città non è ferma, seduta sui problemi, ma è una «città vivente», come prescrive uno dei 10 criteri dell’Unesco. Dal piano di investimenti, alle manutenzioni di rive e canali, dal recupero dell’area di fronte al Casino del Lido con la copertura del «buco della vergogna» al restauro del ponte di Rialto e dell’Accademia, il riordino delle occupazioni di suolo pubblico, la sistemazione delle spiagge, lo stanziamenti di milioni di euro per la manutenzione degli alloggi e contrastare lo spopolamento, la raccolta dei rifiuti porta a porta che aumenta la differenziata e il decoro urbano. E poi gli accessi prioritari per i veneziani sui vaporetti (utilizzati ogni giorno da 16 mila persone) e la volontà affrontare la gestione dei flussi turisti con decine di commissioni fatte per arrivare a un intervento complessivo. «Il percorso è ancora lungo ma si sta lavorando con determinazione al fine di rimettere Venezia e la sua laguna al centro dell’agenda nazionale e internazionale», il messaggio lanciato ieri da Ca’ Farsetti e governo. «Venezia è un patrimonio comune dall’eccezione valore universale - ha detto alla fine la direttrice Irina Bokova -. Lavoreremo assieme, Unesco, governo, Comune e tutti gli stakeholder: è l’unica strada da percorrere. Il sindaco ha presentato tante misure adottate e i progetti concreti che intente realizzare. Continueremo a lavorare con questo spirito». L’ultima parola, dopo l’incontro dell’1 febbraio con il governo, l’unico deputato a relazionarsi con l’Unesco. Venezia. Dice Italia Nostra con il suo vicepresidente Paolo Lanapoppi: «Nella nostra lettera all’Unesco spieghiamo che nessuno dei 10 punti richiesti dalla Convenzione di Istanbul è stato rispettato. Non capisco come possono collaborare quando una delle richieste principali della commissione di Istambul era di portare le grandi navi e le petroliere fuori laguna mentre il sindaco ha ribadito il progetto delle crociere in Marittima». In effetti l’interrogativo resta. E’ stato uno dei temi al centro della discussione di ieri pomeriggio su cui però la nota a margine del Comune dedica solo quattro righe. «Non c’è stata nessuna vittoria, la decisione su Venezia sarà presa a luglio, e sarà il governo a dover dare una risposta, è tutto fumo, il disaccordo resta in primis sullo scavo delle Tresse». Così il portavoce del Gruppo 25 Aprile commenta la stretta di mano di ieri tra la direttrice dell’Unesco Bokova e il sindaco Luigi Brugnaro. «Non si capisce a cosa si riferisca il sindaco dove dice di aver presentato i progressi fatti da Venezia negli ultimi 15 mesi - interviene il capogruppo Pd in consiglio comunale Andrea Ferrazzi - siamo in attesa di progetti concreti». Sulle stesse note il segretario di Confartigianato Venezia Gianni De Checchi: «Mi fa molto piacere che l’Unesco abbia visto proposte concrete nel documento di Brugnaro, speriamo di vederle anche noi veneziani». Sindaco, assessori e dirigenti hanno cercato di spiegarlo nel dossier presentato mescolando idee, sogni e cose fatte. Perché se ad esempio è stato condiviso che uno dei problemi più evidenti sia la proliferazione di strutture ricettive non alberghiere, dall’altro la soluzione è stata individuata nella modifica della legge regionale «per la cui formulazione il Comune ha da sempre fornito il proprio supporto». In attesa resta tutto com’è. Hanno parlato di sicurezza e della riqualificazione delle parti più degradate o isolate della città. Quello che sindaco e assessori hanno cercato di spiegare ieri è che con la riqualificazione urbanistica e ambientale, la rigenerazione di Porto Marghera, la rivitalizzazione del tessuto socio-economico, la valorizzazione delle periferie, si possa far crescere il centro urbano. Ma è stato ribadita l’intenzione di continuare a far vivere il centro storico, mantenendo elevato e il costante il livello di servizi pubblici per contrastare lo spopolamento. Non a caso commentando l’incontro De Checchi ha trovato positivo la collaborazione con l’Unesco: «A Venezia servono alleanze e non rotture soprattutto con la realtà internazionale». Soddisfatto il direttore degli albergatori di Ava Claudio Scarpa: «L’esito positivo era se non scontato almeno evidente, quella dell’Unesco non era una minaccia concreta ma un grido di dolore e

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dall’altro lato è arrivato l’impegno del sindaco e le richieste contenute nel documento dell’organizzazione erano dirette al governo non tanto al Comune». Anche perché, lo ha ricordato il sindaco anche ieri parlando dell’«operazione trasparenza e verità», la città parte da quegli extra costi di 41 milioni all’anno. Nel corso della riunione tecnica la delegazione veneziana è entrata nel dettaglio di alcuni temi sollevati dalle raccomandazioni dell’Unesco: dalle norme di pianificazione urbanistica al miglioramento delle condizioni di acqua, aria e suolo, dagli impegni presi per aumentare la residenzialità alle norme sul traffico acqueo. Pag 9 “Baby-Mose” in basilica, via libera del Magistrato. “E’ un’opera urgente” Nartece all’asciutto. Linetti: se ne occuperà il Consorzio Venezia. Palazzo Dieci Savi promuove il progetto della Procuratoria di San Marco, il piano di messa in sicurezza del nartece, ossia l’ingresso della Basilica, che sarà inserito nella programmazione del Consorzio Venezia Nuova. «I tecnici di palazzo Ducale stanno per trasmettere a questo Provveditorato un progetto per l’eliminazione del problema nella sola area del nartece, ho dato già indicazione al Consorzio di inserirlo nelle prossime programmazioni ed esecuzioni urgenti», dice Roberto Linetti, provveditore interregionale ai lavori pubblici, da due mesi a Venezia. Piazza San Marco, anche quando il Mose sarà in funzione, infatti continuerà ad allagarsi: è la zona più bassa del centro storico e con soli 65 centimetri d’acqua alta servono passerelle e stivali. È un problema noto e proprio nei giorni del 50esimo anniversario dell’acqua «granda» del 1966, la Procuratoria ha presentato un progetto che potrebbe ridurre da 900 a 200 le ore sott’acqua del nartece, con una spesa di un milione. L’intervento prevede l’impermeabilizzazione dei tubi di scarico, l’introduzione di tre valvole di non ritorno per l’acqua e pompe che indirizzano la marea, attraverso un tubo drenante, al collettore che già c’è in piazza. In assenza di finanziamenti pubblici, la Procuratoria aveva deciso di intervenire con fondi propri. «Abbiamo deciso di agire perché non vogliamo più acqua sui bronzi e sui marmi», ha detto in quei giorni Pierpaolo Campostrini del consiglio di Procuratoria. A poco più di due mesi di distanza, la buona notizia: la messa in sicurezza della Basilica di San Marco sarà finanziata ed eseguita con fondi pubblici. Ma non è l’unica novità di questi giorni, Linetti ha organizzato una riunione per parlare di piazza San Marco e di come evitare che sia allagata anche con le paratoie alzate. «Ho chiesto al Consorzio di riesumare il vecchio progetto di sistemazione di tutta la piazza - continua - ne ho chiesto l’aggiornamento con indagini, rilievi e valutazioni propedeutiche alla redazione di un valido progetto esecutivo, questo per valutarne la realizzabilità sotto il profilo economico e dei tempi». Il progetto, approvato a Roma 24 anni fa, vale 50 milioni di euro, è stato stralciato nel 2003 dalla concessione del Consorzio Venezia Nuova e prevedeva l’impermeabilizzazione di tutta la piazza, il rialzo delle parti più basse della Basilica con la posa di calcestruzzo, l’introduzione di pompe di sollevamento e collettori idraulici ma dalle indagini svolte dalla Procuratoria non servono cantieri così invasivi. «Il nartece forma un catino e all’epoca volevamo fare uno strato di calcestruzzo per evacuare lateralmente l’acqua - ha spiegato a novembre Fabio Riva, ex dirigente dell’ufficio Salvaguardia del Provveditorato ai Lavori pubblici (ex Magistrato alle acque) - è un progetto vecchio e andrebbe rivisto». Tutti i progetti saranno concordati con la Sovrintendenza: «Proporrò alla soprintendente Carpani di inserire nel gruppo di direzione lavori un proprio funzionario». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III Navi e sviluppo, Brugnaro convince l’Unesco a Parigi di Michele Fullin e Roberta Brunetti Ora tocca al dossier del Governo, Venezia modello di turismo sostenibile. L’ex sovrintendente Cecchi: “Poco coesione tra enti pubblici, le categorie della città ne approfittano” È stata una giornata lunghissima, nella sede centrale dell'Unesco a Parigi. Ma alle 18, la tensione si è stemperata e i volti si sono fatti sorridenti, sia tra la delegazione italiana e veneziana che tra i tecnici e funzionari dell'organizzazione delle Nazioni Unite. Poi, come è nell'indole del sindaco Luigi Brugnaro, stemperata la tensione iniziale, alla fine i saluti

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sono stati molto calorosi e si è arrivati agli abbracci. Insomma, è andata come era nelle previsioni. Già si sapeva che da parte dell'Unesco non ci sarebbe stato nessun cartellino rosso per Venezia, perché l'ammonizione di Istanbul dello scorso luglio ha almeno avuto l'effetto di riavvicinare il Governo alla città e di porre le basi per un massiccio investimento per il suo rilancio. Queste, almeno, sono le basi, poi bisognerà seguirne gli sviluppi. «La mia presenza - è il commento di Brugnaro - è un segnale della fiducia e dell'impegno di Venezia per la cooperazione a livello internazionale. Al direttore generale non ho portato un libro dei sogni, ma il libro dei progressi fatti negli ultimi 15 mesi dalla Città di Venezia, che dimostrano uno sforzo continuo per la rivitalizzazione della città e un chiaro segnale di discontinuità con il passato. Noi vogliamo che le opere che stiamo facendo siano strutturali e che possano migliorare il futuro dei nostri figli e nipoti». Anche se ha lasciato ad ogni componente della delegazione lo spazio per le tematiche singole, il sindaco ha illustrato personalmente i punti salienti. Ad esempio, ha puntato molto sull'esclusione delle grandi navi dal bacino di San Marco, come chiede l'Unesco («Lo dico e lo scrivo da 8 anni») illustrando il progetto delle Tresse, per salvaguardare i posti di lavoro della Marittima. Poi ha parlato della gestione dei flussi e delle audizioni in commissione di tutti i progetti. Infine ha alzato le braccia di fronte alla liberalizzazione degli affitti turistici («non posso farci niente») e ha mostrato di puntare sulla creazione di nuovi posti di lavoro grazie soprattutto alle nuove tecnologie e agli spazi che si libereranno a Marghera. «Spero - ha concluso - che questo incontro sia il punto di partenza per una collaborazione che costruisca una visione di Venezia per i prossimi 20 anni». Anche la polemica sul numero notevole di delegati portati a Parigi (il sindaco e la moglie, lo staff, due assessori, tre consiglieri comunali con incarico e diversi dirigenti) ha trovato una risposta pacata nei toni: «L'ampiezza della delegazione ha in realtà impressionato lo staff dell'Unesco, perché alla riunione tecnica hanno preso la parola tutti, ciascuno per il settore di competenza». La direttrice generale Irina Bokova, che ha avuto un colloquio in mattinata con Brugnaro (e con il Consigliere speciale Francesco Bandarin) ha parlato in mattinata di un colloquio franco e fruttuoso. Un modo in uso in diplomazia per definire un confronto in cui si parte da un disaccordo per poi arrivare a qualche punto di intesa. «Venezia è un patrimonio comune dall'eccezionale valore universale - ha però detto alla fine Bokova, che ha ricevuto in dono una scultura con il Leone di San Marco - e lavoreremo insieme, è l'unica strada da percorrere. Ho percepito la forza dell'impegno portato avanti dalla città e dal governo. Continueremo a lavorare con questo spirito». Soddisfazione anche per il numero due dell'Unesco, Francesco Bandarin. «Ho visto una buona risposta della città - commenta - e passione civile da parte del sindaco, che sulle grandi navi ci ha spiegato il progetto delle Tresse e poi, in un futuro successivo, di utilizzare la zona di Marghera. Noi abbiamo ribadito che è importante togliere le navi da San Marco e ci piacerebbe conoscere la tempistica dei progetti illustrati. E questo vale per tutte le cose che ci ha detto. Avere un'indicazione sui tempi è fondamentale». Cosa chiede, nel dettaglio, l'Unesco allo Stato italiano a proposito della permanenza della città e della laguna nel prestigioso elenco dei siti Patrimonio dell'Umanità? Il documento, che era stato scritto al vertice internazionale di Istanbul lo scorso luglio, e il sindaco Luigi Brugnaro ebbe parole molto pesanti su questa decisione, presa lontano dalla città dove l'organizzazione ha una sede che copre l'area del Mediterraneo. Tutto è nato dalla visita di una commissione che tra il 13 e il 18 ottobre 2015 aveva visitato Venezia e la laguna, giungendo alla conclusione che il turismo sta causando danni gravissimi sia per il rapporto squilibrato tra residenti e turisti che per le trasformazioni delle abitazioni in settore ricettivo. Nel documento, cui il sindaco ieri ha cercato di rispondere, si chiede in particolare di predisporre una strategia integrata di tutti gli interventi in corso e quelli pianificati per il sito Venezia e la sua laguna, un modello morfologico tridimensionale e una strategia per il turismo sostenibile. Inoltre si chiede un Piano di gestione aggiornato per Venezia e la laguna fondato anche su una visione condivisa da parte delle autorità e dei portatori di interesse. Andando nello specifico, Unesco chiede allo Stato di imporre e far rispettare dei limiti di velocità nella laguna e nei canali e di definire il numero e il tipo delle imbarcazioni. Poi si chiede allo Stato di adottare con urgenza un provvedimento di legge che vieti l'ingresso in laguna per le grandi navi passeggeri e le petroliere. Inoltre si chiede di sospendere fino alla decisione

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finale ogni progetto riguardante Venezia e di sottoporre al Centro per il patrimonio dell'umanità i dettagli dei progetti da realizzare, con tanto di valutazioni di impatto. Infine, si chiede un rapporto dettagliato sullo stato di conservazione del sito Venezia e la sua laguna e sui provvedimenti che sono stati messi in atto per la conservazione e la salvaguardia. Anche il commento del Governo su questo incontro di Parigi è positivo e pone le premesse per una soluzione del problema innescato dopo l'ispezione dell'Unesco di fine 2015. Ad inizio febbraio il Governo porterà la sua risposta ufficiale all'Unesco e il documento si baserà sul testo già presentato a Parigi dal sindaco. «Finalmente il sindaco di Venezia ha cambiato idea ed ha capito che il rapporto con l'Unesco è un rapporto utile alla città - è il commento del Sottosegretario del Mibac con delega all'Unesco, Ilaria Borletti Buitoni - per la sua tutela, lo sviluppo e la salvaguardia e non invece dannoso. Un'altra considerazione riguarda il Patto per Venezia, del quale è stata chiarita e ribadita l'importanza in materia ambientale e sul restauro dei beni culturali». Per Borletti Buitoni, insomma, Roma non lascerà Venezia da sola. «È stata ribadita - risponde - da parte dello Stato la volontà di rifinanziare la Legge Speciale, in particolar modo per il restauro degli immobili, dello scavo dei rii e degli interventi previsti dal testo originario. Da parte mia non posso che confermare la collaborazione del Mibac, che nel Piano strategico per il turismo 2017-2022 ha deciso di puntare su Venezia come progetto pilota per il turismo sostenibile. Sulla questione grandi navi, considero positiva la convinzione manifestata dal Comune sul fatto che esse debbano uscire dal bacino di San Marco. Il Comune - prosegue - spinge il progetto Tresse. Ricordiamoci però che questo non è ancora passato neanche all'inizio di una valutazione. Se il livello politico ha espresso un sostegno alla fase progettuale, non esiste ancora nessuna valutazione tecnico-amministrativa. Questo dovrà emergere come una vera alternativa e non come un modo per rinviare la scelta». Sembra insomma che tra il Ministero e il sindaco, dopo gli scontri sia tornato un po' di sereno. «Il sindaco accetta l'interlocuzione con il nostro ministero e, mi par di capire, con tutti i soggetti della città anche in materia di turismo e questo mi pare positivo. Comunque, per favore, non si parli di guerra e pace. Io mi occupo di paesaggio e per me contano solo la tutela e la salvaguardia. Se queste fossero messe in pericolo, la mia posizione sarà sempre di rigidità». Intanto, il vicepresidente del gruppo Pd alla Camera, Andrea Martella, sta lavorando a una mozione parlamentare per rafforzare questa impostazione. «Venezia - ha concluso Martella - deve essere anche al centro dell'agenda parlamentare e per questo è fondamentale una mozione che impegni il Governo su questi temi forti dell'Unesco, come lo è stato per la salvaguardia e per il vetro di Murano». Vent'anni fa, da soprintendente a Venezia, aveva gestito la riorganizzazione dei banchetti di Piazza San Marco che all'epoca soffocavano la Basilica. Ora Roberto Cecchi, dopo una lunga carriera che lo ha portato ai vertici del ministero, è in pensione, mentre Venezia ha appena assistito all'ennesima battaglia sull'uso del suolo pubblico con contrapposizioni aspre tra categorie, Comune, Soprintendenza. Architetto Cecchi, che opinione si è fatto? «Non sono in grado di entrare nei dettagli di questa vicenda. Ma da quel che ho letto mi pare sia emersa una contrapposizione tra amministrazioni. Nel 1997 facemmo quell'operazione complessa su San Marco, arrivando in tempi relativamente brevi a una soluzione che mi pare accettabile ancora oggi, non perché c'era un soprintendente superstar, ma perché c'era un totale rapporto di collaborazione con l'amministrazione comunale. Certo, ci arrivammo dopo aver discusso, ma ci arrivammo». Un fronte pubblico compatto che oggi manca... «I punti di partenza devono essere essenzialmente due. Lavorare per un turismo sostenibile, compatibile con i cittadini di Venezia ormai ridotti a poca cosa. E poi il nodo tra amministrazioni pubbliche da sciogliere per arrivare ad un rapporto pubblico/pubblico all'altezza della situazione. Il fronte pubblico, nelle sue varie articolazioni, deve raccordarsi per trovare una visione comune». In questa occasione la direttiva Bolkestein è stata vissuta come un'imposizione.

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«Non deve essere così. Ognuno è portatore di visioni e interessi legittimi, ma bisogna arrivare a una posizione unitaria». E se questo non accade? «Si innescano meccanismi perversi. Davanti a una pubblica amministrazione spaccata il privato farà i suoi interessi privati». Come sono le categorie veneziane? «Molto agguerrite, abituate a stare sulle barricate, più difficili da contrastare che da altre parti. Per alcuni versi lavorare a Roma è stato più facile: un'operazione come quella sul Colosseo non credo a Venezia sarebbe riuscita. Categorie così forti, con una pubblica amministrazione divisa, hanno gioco facile». Come è cambiata Venezia in questi vent'anni? «C'è stato un peggioramento. Si è troppo spostata sul fronte commerciale, diventando poco vivibile per i cittadini. Così sta perdendo anche la sua aurea di solennità e storia. E diventando come Disneyland viene percepita come tale». Lei, vent'anni fa, fu tra i primi a sollevare la questione del moltiplicarsi dei cambi d'uso a fini turistici. «Ricordo che fui molto criticato. Fu uno dei pochi temi su cui non si trovò un accordo con l'amministrazione. Quel genere di valorizzazione andava bene per il turismo, non per la città. Ma la valorizzazione deve valere per entrambi. Non so se intervenendo allora sarebbe cambiato qualcosa. Certo la situazione attuale è il frutto di una deregulation eccessiva. Un sistema di regole condiviso è necessario». Molto critici i primi commenti dell'opposizione: «Tutti gli indicatori e le delibere dimostrano che negli ultimi 15 mesi questa città ha soltanto continuato il suo declino - attacca Monica Sambo, Pd - Questa amministrazione ha votato cambi di destinazione d'uso, ha venduto ulteriori immobili, ha perso finanziamenti della Regione, non ha affrontato i problemi di Venezia: moto ondoso, turismo, residenza, artigianato e commercio». «Non si capisce - afferma Andrea Ferrazzi, Pd - invece a cosa si riferisca il sindaco dove dice di aver presentato i progressi fatti dalla Città di Venezia negli ultimi 15 mesi. Al di fuori degli slogan, siamo in attesa di progetti concreti e coerenti con le premesse». LA NUOVA Pagg 2 – 3 Vertice Unesco: “Via le navi da S. Marco ma resti la Marittima” di Alberto Vitucci Brugnaro illustra le soluzioni per non finire nella lista nera. Borletti Buitoni: “Molti passi avanti e sulle crociere questione irrisolta” Venezia. L’esame non è ancora superato. Ma il colloquio di ieri apre buone prospettive. Il vertice parigino tra il Comune e l’Unesco segna per ora un punto a favore del sindaco Luigi Brugnaro. «Mi ha presentato in dettaglio le tante misure adottate e i progetti concreti che lui intende realizzare», il commento della direttrice Unesco Irina Bokova al termine del lungo incontro che si è tenuto nel Quartier generale dell’Unesco a Parigi, «ho percepito la forza dell’impegno portato avanti dalla città e dal governo. Continueremo a lavorare con questo spirito». Parole che segnano la svolta, dopo le tensioni dell’anno scorso e le dure “raccomandazioni” inviate dall’Unesco con la minaccia di cancellare Venezia dall’elenco dei siti Patrimonio dell’Umanità. Soddisfatto il sindaco. Che ha presentato alla commissione Unesco un documento di 70 pagine in risposta alle richieste dell’organismo di tutela. Giornata cominciata prima delle dieci, con un incontro privato tra la direttirce Bokova, il sindaco e la moglie Stefania. Poi il vertice. Da una parte Brugnaro e il suo numeroso staff. Gli assessori Paola Mar (Turismo), Massimiliano De Martin (Urbanistica), Luca Battistella (Smart city), la presidente della commissione Turismo Giorgia Pea, la presidente del consiglio comunale Ermelinda Damiano, dirigenti e staff. Sindaco seduto a fianco dell’ambasciatore italiano all’Unesco Vincenza Lo Monaco. Di fronte i tecnici Unesco, con il vicedirettore Francesco Bandarin, l’ambasciatore e presidente della Viu Umberto Vattani. «Siamo venuti per raccontare cose realizzate per rilanciare la città». l’esordio del sindaco. «Atti strategici» come il Piano degli interventi, l’Anticorruzione e la riorganizzazione del Comune. «Opere strutturali per il futuro dei nostri figli», dice Brugnaro. Dona alla Bokova, che aveva

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incontrato in novembre a Venezia, nel 50° anniversario dell’alluvione, un leone dorato simbolo della città. «Frank and fruitful discussion», twitta la direttrice qualche ora dopo, «un giorno intenso di lavoro per la protezione del patrimonio mondiale». Brugnaro prende la bacchetta bianca e mostra sulla cartina della laguna il nuovo percorso ipotizzato per le grandi navi. «Sullo stop al passaggio delle navi davanti a San Marco io son d’accordo da otto anni», attacca Brugnaro, detto, scritto e ripetuto in tutte le salse. Il tema invece è: dobbiamo mantenere la Marittima. Perché sulla Marittima sono stati fatti ingenti investimenti e ci sono più di 5 mila posti di lavoro». Secondo punto critico, il turismo. Pressione inaccettabile, che si ripresenterà a giorni con l’assalto del Carnevale. Brugnaro spiega alla commissione che la giunta ha scelto di «ascoltare tutti». «Tutto pubblico, dove il singolo cittadino, la singola associazione la singola categoria può chiedere di essere ascoltato». Tra le raccomandazioni anche i «nuovi tipi di imbarcazioni e i limiti di velocità in laguna». Insomma, il moto ondoso, che insieme al turismo di massa «consuma la città». Brugnaro consegna i dati dei controlli dele pattuglie dei vigili. Sulla pianificazione e le grandi opere Brugnaro fa il punto dei lavori in laguna e delle trasformazioni in corso. Sul turismo sostenibile, uno dei punti più delicati sollevati dal’Unesco, Brugnaro ricorda la proposta fatta al governo di considerare Venezia come azione pilota per il monitoraggio e la gestione dei flussi in città. Alla fine il comunicato congiunto firmato da Bokova e Brugnaro ricorda l’importanza del «Patto per Venezia». 457 milioni di investimenti per la salvaguardia nei prossimi quattro anni. «Lavoreremo insieme, mano nella mano, Unesco, Governo, Comune e tutti gli stakeholder», dice Bokova, «è l'unica strada da percorrere». Per la squadra del sindaco «un grande successo». «Ma al di là degli slogan siamo in attesa di progetti concreti e coerenti con le promesse», dice il capogruppo del Pd Andrea Ferrazzi. L’esame si concluderà tra qualche giorno con il «voto» sul documento presentato dal governo. Venezia. Un documento di risposta puntuale alle criticità sollevate dall’Unesco da inviare a Parigi entro il 2 febbraio. È questa la risposta del governo italiano al decalogo di messa in mora inviato dall’organizzazione mondiale per la protezione del Patrimonio artistico e culturale. Dieci “raccomandazioni” inviate al ministero degli Esteri dall’Unesco Europa e firmate dal suo direttore Irina Bokova. Che chiedevano misure urgenti e un’inversione di tendenza per evitare la cancellazione dall’elenco dei siti mondiali Patrimonio dell’Umanità. Gli ispettori Unesco erano venuti a Venezia nell’ottobre del 2015, poco più di tre mesi dopo l’elezione del nuovo sindaco. Polemiche e clima piuttosto freddo. Dopo qualche mese era arrivato l’ultimatum. «O si cambia o Venezia sarà cancellata dai siti». Risposte da inviare entro il 2 febbraio. Per questo il governo ha costituito un gruppo di lavoro coordinato da presidente della commissione Unesco per l’Italia, l’ex presidente della Biennale e ad di Eni e Telecom, Franco Bernabè. Il clima sembra buono. E il governo ha promesso che farà di Venezia un “caso di studio” per attuare serie politiche strategiche di contenimento del turismo. Venezia. «A prescindere da quale sarà la decisione finale dell’Unesco ci sono in questa vicenda molti aspetti positivi». Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretaria ai Beni culturali e già presidente del Fai, il Fondo per l’Ambiente italiano, ha avuto in estate una polemica molto dura con il sindaco Brugnaro proprio sulle questioni del turismo e dello stravolgimento della città oggi all’esame dell’Unesco. Una polemica superata? «Non ho mai cercato polemiche. Molti mi chiedono se mi sono riconciliata con il sindaco. Il discorso è un altro. Tengo molto a Venezia e alla sua salvaguardia. Certo oggi valuto positivamente questo mutato atteggiamento del sindaco». Ad esempio? «Mi pare molto positivo che il sindaco di Venezia non consideri più l’Unesco un nemico, ma un soggetto portatore di valori importanti per il futuro della città». Gli altri aspetti positivi? «Nel corso dell’incontro con il governo a Roma è emersa un nuovo atteggiamento di collaborazione del Comune per affrontare il caso del turismo di massa. Insieme cercheremo di fare del caso di Venezia un caso di studio per affrontare problemi che appartengono anche ad altre città d’arte. L’altro aspetto positivo è quello che il Patto per Venezia, firmato dal governo Renzi in laguna a fine novembre, comprende risorse e attenzione per il patrimonio culturale e monumentale della città». Sintonia un po’ meno perfetta sulle grandi navi e sulle alternative a San Marco. «Il Comune ha un’idea politica di come risolvere la questione, cioè lo scavo del canale Tresse. Ma dal punto di vista

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amministrativo e dell’iter procedurale il discorso non è affatto chiuso. Sarà il ministero dell’Ambiente a dare il parere tecnico su quel progetto con la procedura di Via, la Valutazione di Impatto ambientale. Dovrà essere valutato in sede tecnica l’impatto del nuovo scavo sull’equilibrio complessivo della laguna». L’Unesco si è sempre detta contraria a nuovi scavi in laguna «Si è sempre espressa in senso contrario allo scavo di ulteriori canali, questo è noto». Dunque questo è un punto ancora irrisolto. «Direi di sì. Ma un risultato è che oggi tutti sono concordi sull’allontanamento delle grandi navi da San Marco. Tre anni fa non era così scontato». Come potrà il governo contribuire concretamente alla soluzione del problema grandi navi e turismo? «La firma del Patto per Venezia significa anche una prospettiva di lavoro comune con la città. Sull’aspetto del turismo, ad esempio, siamo intenzionati ad avviare un discorso di ampia prospettiva, che riguardi un sistema complessivo di gestione del turismo nell’Alto Adriatico». Cosa significa in concreto? «Occorre segmentare l’offerta turistica in un territorio più vasto. Spalmare il turismo per farlo diventare una risorsa». Per Venezia cosa cambia? «Che la pressione dovrà diminuire. Il turismo dovrà diventare una risorsa e non un problema. E Venezia potrà offrire il suo contributo prezioso al sistema turistico italiano senza essere travolta». Insomma una svolta positiva nei rapporti con l’Unesco. «Attendiamo di vedere la conclusione. Il governo invierà il suo documento entro il 2 novembre. Poi l’Unesco emetterà il suo verdetto. Ma ripeto, ci sono già degli aspetti a mio parere molto positivi». Pag 25 Sermoni in italiano per la sicurezza di Marta Artico Il presidente della comunità islamica: noi lo facciamo già. L’imam Kamel: utile per diminuire il rischio estremismi. “Contributi per corsi agli stranieri” Uso della lingua italiana nei sermoni del venerdì, formazione degli imam, luoghi di culto. Il ministro Marco Minniti, nei giorni scorsi, ha presieduto al Viminale la riunione del tavolo di confronto con i rappresentanti delle associazioni e delle comunità islamiche, durante il quale si è discusso a tutto tondo dei temi legati all’integrazione, all’esercizio della libertà religiosa, alla convivenza pacifica. Tra le indicazioni, riprese un po’ da tutti, compreso l’imam di Venezia Hamad Mahamed, anche la traduzione del sermone in italiano per motivazioni legate alla sicurezza e alla convivenza civile. «Si tratta», spiega il presidente della comunità islamica di Venezia e provincia, Amin Al Ahdab, «di una indicazione che nella nostra moschea facciamo nostra da anni. Per noi sarebbe impensabile un sermone solo in arabo: abbiamo 30 nazionalità differenti, una rappresentanza dei Paesi orientali, indiani, africani, i bengalesi non capiscono l’arabo, ad esempio. Per forza di cose il sermone dev’essere in italiano, anzi, cerchiamo di recitarlo quasi più in italiano e sicuramente in duplice lingua». Prosegue: «Adesso ho dato disposizioni di utilizzare ancora di più l’italiano e meno l’arabo, perché la maggioranza dei frequentanti, ripeto, non sono “arabofoni”, il sermone dev’essere compreso da tutti proprio per una questione di rispetto. Il nostro è il centro di tutti e di tutte le nazionalità, pertanto l’italiano è la lingua ufficiale del centro, l’arabo è la lingua della preghiera ufficiale, ma non ricordo una volta che non abbiamo fatto la traduzione». Non solo: «È anche un modo, per molti, di migliorare l’italiano, uno strumento per crescere e aiutare la società ad avere cittadini integrati: più si conosce la lingua meno errori si fanno e più comprensione della società si ha, una persona che parla male l’italiano può capirti male e tu puoi capire male lui, invece in questo modo l’inserimento è più facile e i muri cadono». Racconta: «Ai bambini, quando vengono per imparare l’arabo, noi parliamo anche in italiano e a chi non lo sa cerchiamo di insegnarlo, una volta tenevamo corsi per chi era appena arrivato». «Il Governo», commenta Layaki Kamel, imam del Veneto, «penso insista sui sermoni in italiano per tranquillizzare l’opinione pubblica, c’è però da dire che qui da noi, nei centri islamici veneti, non esiste questo problema: siamo chiamati a utilizzare l’arabo per i versetti, i detti del Profeta, ma il sermone viene tradotto in italiano. Gli imam in un primo momento utilizzano l’arabo, poi dopo qualche minuto fanno la traduzione in italiano, alcuni centri dimezzano il tempo, a seconda dell’utilità: si usa il buon senso, perché il sermone dev’essere funzionale ai fedeli». Chiarisce: «Ricordiamoci che ci sono la seconda e la terza generazione, che i ragazzi nati in Italia non conoscono l’arabo: se non diamo noi le corrette indicazioni, accade che i giovani cercano di soddisfare la loro sete di senso utilizzando la rete, il web, il che è

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deleterio. L’utilizzo dell’italiano non serve per compiacenza, ma è un’esigenza interna di formazione autentica, che fa diminuire i rischi di estremismi. Per tutti noi è importante la sicurezza del Paese». La Comunità islamica di Venezia si offre per insegnare la lingua agli stranieri e gli immigrati. «Lo diciamo da tempo», spiega Amin Al Ahdab, «sia il Comune che la Regione potrebbero fare delle convenzioni con noi, in modo tale che queste persone (chi è appena arrivato, chi per altri motivi non conosce la lingua) anziché stare con le mani in mano mentre cercano un lavoro, potrebbero seguire dei corsi di formazione in italiano». Prosegue: «Corsi di legislazione base, di codice civile. Noi siamo disponibili, in questo modo chi arriva da noi potrebbe essere incentivato. Magari ha le capacità, invito veramente il comune e la regione a tenere in considerazione questa proposta». Al Centro culturale islamico di Marghera si parlano tutte le lingue: ci sono architetti, avvocati, persone impegnate e integrate, che hanno un ruolo nel tessuto sociale civile ed economico cittadino e che potrebbero essere dunque molto utili. «Sono molti gli immigrati o le persone che frequentano il centro, che vengono da noi, bussano alla nostra comunità perché ci sentono vicini e che non sanno cosa fare: potremmo tenere anche corsi a livello di sicurezza nei cantieri, si potrebbero in questo modo evitare moltissimi problemi. Il punto è che non c’è però un input». Ragiona: «Le moschee devono essere più centri culturali che moschee, sarebbe un’occasione per dire guardate, abbiamo attivato un corso sulla sicurezza in cantiere, chi vuole può iscriversi con un incentivo di comune e regione: abbiamo docenti, strutture, siamo poliglotti, gli immigrati potrebbero inserirsi in modo migliore, invece spesso sono abbandonati a loro stessi». Sulla stessa lunghezza d’onda l’imam veneto, Layachi Kamel: «Noi stessi imam ci sforziamo nell’interesse di tutti, di parlare l’italiano. Il problema nasce con chi è appena arrivato, con chi non capisce l’importanza di utilizzare la lingua e non riesce ad interagire con il contesto». Come i bengalesi, ad esempio? «A Venezia c’è una grossa presenza di bengalesi, sono parecchi, ecco perché è importante l’impegno della comunità ad affrontare le difficoltà, a superare le criticità». Chiarisce: «Sono fondamentali i corsi di formazione, gli incentivi per frequentarli, sarebbe importante che si tenessero corsi di educazione civica, di regole del vivere comune, proprio perché sono diversi i contesti e i Paesi in cui si vive». E le comunità islamiche stesse potrebbero essere tenute in considerazione. Pag 37 Il Cristo che parlava nelle processioni di Enrico Tantucci Ritrovato a San Francesco della Vigna a Venezia, risale al Quattrocento e ora sarà restaurato Un Cristo quattrocentesco “parlante” in croce riemerge dalla chiesa di San Francesco della Vigna. La magnifica scultura lignea, in precarie condizioni di conservazione, era rimasta appesa da tempo immemore su un muro dell’atrio del secondo piano dove sono le celle dei frati francescani del convento adiacente alla chiesa, accanto alla biblioteca. Fino a quando di recente è stata di fatto riscoperta da alcuni studiosi che ne hanno compreso l’eccezionale importanza, dando anche il via libera alla complessa e delicata operazione di restauro, che sarà finanziata da Save Venice, il Comitato statunitense per la salvaguardia di Venezia. La straordinarietà della scoperta sta appunto anche nel fatto che “Corpus Christi” - questo il nome della scultura, datata al primo Quattrocento - “parlava”. La sua caratteristica sorprendente sta nella presenza di una lingua scolpita e dotata di un meccanismo interno che la rendeva all’occasione semovente. In questo modo, quando il Cristo in croce veniva portato in processione in mezzo ai fedeli, azionando il meccanismo, sembrava ad essi visivamente che stesse parlando, raccogliendo così suppliche o invocazioni. Al di là del meccanismo, si tratta comunque di una scultura di estrema raffinatezza, realizzata da uno scultore anonimo, nella quale l’anatomia del Cristo che risulta perfettamente modellata. Il restauro permetterà anche di chiarire molti dubbi sulla sua attribuzione. Al momento infatti non si è certi se sia opera di un artista veneziano o se la scultura sia stata realizzata in Toscana o in Umbria e poi portata a Venezia dall’ordine mendicante dei Francescani. La scultura soffre attualmente di seri problemi di conservazione, compresa un’infestazione di tarli che la mina profondamente. Presenta inoltre fessurazioni strutturali del legno e incrostazioni

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dovute a successive ridipinture della superficie che hanno nel tempo determinato anche una serie di sfaldamenti. Rimuovendo questi strati di ridipinture più recenti, nella prima fase di lavoro, la restauratrice Milena Dean ha scoperto anche una parte della policromia originale e della doratura della statua. La chiesa di San Francesco della Vigna a Castello, iniziata nel 1534 da Francesco Sansovino, è una delle più belle chiese rinascimentali di Venezia, completata vent’anni più tardi, mentre alla fine del decennio successivo fu realizzata anche la grandiosa facciata, affidata a Andrea Palladio. Contiene al suo interno opere straordinarie come la “Vergine e Bambino in trono” di Antonio Negroponte, un autentico capolavoro - l’unica opera conosciuta di questo artista - come lo è la “Vergine col Punto, Santi e Donatore” di Giovanni Bellini. Fino alla metà del ’300, Chiesa e convento erano dedicati a San Marco; poi assunsero il titolo di San Francesco. Risale a quest’epoca l’originaria chiesa gotica, demolita nella prima metà del Cinquecento per fare posto all’attuale. Al primitivo piccolo convento, un semplice chiostro accanto alla chiesa, si unì poi il grandioso convento quattrocentesco formato da tre grandi chiostri: uno maggiore con archi e colonne tutt’intorno, di cui un lato dava sulla laguna; e due minori dalla parte della Chiesa. Durante il periodo napoleonico fu trasformato in una caserma, e solo nel 1836 i frati vi furono riammessi. Qui è rimasto attraverso i secoli il “Corpus Christi” ora in restauro, al quale si prevede di dare una collocazione più degna e visibile dopo l’intervento all’interno della chiesa. Save Venice è il Comitato privato internazionale di salvaguardia certamente più impegnato sulla scena veneziana. Prosegue incessante in particolare da anni l’intervento del Comitato statunitense sulla chiesa di San Sebastiano - il tempio dedicato alla grande pittura di Paolo Veronese – che ha di fatto “adottato”, con il restauro sistematico dei suoi dipinti. Tra gli ultimi restauri quello che riguarda l’organo della chiesa e i dipinti con cui il grande artista rinascimentale lo decorò. Un’impresa quasi ciclopica quella del comitato statunitense a San Sebastiano, ma che si sta avvicinando ormai alla sua conclusione. Pag 39 Il coraggio della scelta, le storie dei Giusti veneziani Don Vittorio Cavasin e Suor Emilia Taroli, salvatori di bimbi ebrei, ricordati in due libri Tanta emozione lunedì pomeriggio alla biblioteca Nazionale Marciana per la presentazione di due libri dedicati alle storie di “Giusti”, persone non ebree che hanno salvato cittadini ebrei dai campi di concentramento e per questo sono stati premiati con onorificenze dal governo israeliano. Riflettori puntati, in occasione delle celebrazioni del Giorno della Memoria, su due diverse storie. Quella di don Vittorio Cavasin, salesiano mestrino che ha vissuto e lavorato fino alla morte, nel 1992, a Borgomanero in Piemonte e che ha, su spinta di monsignor Vincenzo Barale, nascosto tre bambini ebrei nel 1944, proteggendoli all’interno del collegio salesiano di Cavaglià, nel Biellese. L’altra storia è quella di Emilia Taroli, la madre superiora, conosciuta come suor Paola, del convento veneziano di Canal Al Pianto e che ha protetto nel gennaio 1945 due bambine ebree, le sorelle Tina e Giuseppina Dina, che erano sotto la protezione della famiglia veneziana dei Levorato. Due storie di salvezza dall’orrore dei campi di concentramento che hanno confermato la modernità del messaggio lanciato dai “Giusti” al mondo. Non eroi ma persone che hanno fatto una scelta precisa. Salvare una vita umana era per loro un bisogno interiore, perché «non avrebbero potuto vivere se non avessero fatto quel gesto», ha spiegato il filosofo Andrea Tagliapietra dell’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano. Messaggio attualissimo, ancora oggi; una ribellione in nome della giustizia, ha confermato don Diego Sartorelli, direttore dell’Archivio storico del Patriarcato di Venezia che ha portato alla Marciana anche il messaggio del Patriarca Francesco Moraglia. I saluti della comunità ebraica sono stati portati dal consigliere Paolo Navarro Dina; quelli del Comune di Venezia dalla vicesindaco Luciana Colle. I libri che raccontano le gesta dei Giusti cittadini, sono “Vincenzo Barale e Vittorio Cavasin-Una ricerca rivolese” di Carlo Zorzi e Mario Jona (Edizioni Neos Storia) e “Ti racconto la mia storia-Istituto Canal al Pianto (1942-1951)” di Barbara Gervasuti. Gli autori hanno raccontato il loro lavoro assieme alla moderatrice, la giornalista Mitia Chiarin. Torna al sommario

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… ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le virtù dell’era globale di Alberto Alesina È ormai di moda criticare la «globalizzazione». Lo fanno in tanti, dal nuovo presidente americano Donald Trump ai tradizionali no global di estrema sinistra passando per quei partiti europei definiti «populisti» come la Lega ed il Movimento Cinque Stelle da noi, Le Pen in Francia e tanti altri partiti xenofobi nel Centro e Nord Europa. Ormai la parola «globalizzazione» è quasi un anatema. Ma che cosa vuol dire davvero «globalizzazione»? In realtà c’è molta confusione su questo punto. Chiaramente «globalizzazione» significa libero commercio di beni e servizi tra Paesi. Il commercio internazionale facilita la crescita, come dimostra ampiamente la storia sempre che la si voglia leggere senza paraocchi. È vero che molti Paesi poveri crescono più di quelli ricchi (riducendo quindi le disuguaglianze nel mondo): lo prevedono modelli economici e lo vediamo con il caso di Cina, India e ora anche di alcuni Paesi africani per non parlare della Corea del Sud e delle altre tigri asiatiche, che ormai non sono più povere affatto. Centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà più nera nell’ultimo mezzo secolo grazie proprio al commercio internazionale. Non è un risultato da poco e queste stesse persone cominceranno sempre più a domandare merci prodotte anche nei Paesi ricchi. Un immenso bacino di domanda. È vero che l’apertura al commercio internazionale implica aggiustamenti nei Paesi ricchi, con settori che decadono da sostituire con altri. Ciò talvolta non è facile e richiede uno sforzo anche pubblico per salvaguardare in vari modi i più deboli (le persone più deboli non i settori più deboli, si badi bene). Questo va fatto, ma tornare al protezionismo per proteggere questi settori è un rimedio ben peggiore del male. Ricordiamoci cosa accadde dopo la crisi del 1929 ed il ritorno del protezionismo. I no global odierni non ne parlano mai. Per molti, la globalizzazione significa immigrazione. I flussi migratori hanno due motivazioni. La prima sono guerre, pulizie etniche, dittatori come Assad; la seconda sono le differenze di reddito tra Paesi poveri e ricchi. Il primo tipo di immigrazione, che va ovviamente regolata e non è affatto un problema da poco, non ha nulla a che vedere con la globalizzazione. I flussi migratori derivanti da differenze di reddito diventerebbero anche maggiori con il protezionismo commerciale. Immaginiamoci una Cina che non cresca al 7/8 per cento l’anno grazie al commercio internazionale ma rimanga stagnante in un mondo protezionista. Quante centinaia di milioni di cinesi impoveriti non cercherebbero rifugio nei Paesi più ricchi? Se non si muovono beni e capitali si muovono le persone. A proposito di movimenti di capitali, altri pensano alla globalizzazione come mercati finanziari internazionali fuori controllo. Mercati finanziari interconnessi facilitano i flussi di capitali dai risparmiatori agli investitori in qualunque punto del mondo essi siano, cosicché i risparmi non restino inutilizzati e gli investitori non finanziati. Vi sono stati errori nella regolamentazione di questi mercati? Certo che sì, ma tra questo e dire che quindi bisogna chiudere i flussi della finanza internazionale per cui, che so, un’impresa italiana è obbligata a rivolgersi solo a una banca italiana, c’è una bella differenza. In Europa poi i critici della globalizzazione si scatenano contro l’Unione Europea in generale e l’euro in particolare. È fuori dubbio che molti politici europei siano stati lontani dalla perfezione nel gestire l’Unione Europea. Sappiamo tutti come si siano preoccupati delle dimensioni delle carote invece che di creare un esercito europeo o una finanza pubblica europea. Però il mercato unico europeo dagli anni Ottanta in poi ha favorito la crescita in Europa. Anche qui all’inizio soprattutto, ma non solo, per i Paesi inizialmente meno ricchi come Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia; sì anche la Grecia che ha affossato se stessa con un accumulo di debito inconcepibile prima della crisi. Il mercato unico è stato un successo. E l’euro? È perfettamente ragionevole discutere se la moneta unica abbia funzionato bene, se sia stata introdotta in modo adeguato con le necessarie politiche di accompagnamento e come si debba migliorarne la gestione. Ma tra questo e scegliere di ritornare al protezionismo anche in Europa e alle svalutazioni competitive tra monete europee c’è una bella differenza. Più in generale, quale sarebbe l’alternativa? Un’Europa di Paesi chiusi in se stessi che non conterebbero assolutamente nulla nell’equilibrio politico mondiale, stretti fra Putin e Trump, entrambi ben felici di vedere un ulteriore sgretolamento del progetto europeo? Sarebbe utile che chi critica la globalizzazione ci

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spiegasse cosa vuole esattamente. Solo Donald Trump ce lo ha detto chiaramente: gli interessi americani davanti a tutto. Pag 6 La battaglia tra avvocati alla Consulta. Ballottaggio e capilista sono in bilico di Giovanni Bianconi La discussione in aula sull’Italicum, oggi il verdetto. Il premio potrebbe salvarsi Roma. Racconta l’avvocato Lorenzo Acquarone, mentre illustra le ragioni a sostegno dell’illegittimità dell’Italicum, di aver cercato di spiegare al suo barbiere la questione della sindacabilità costituzionale di una legge che non ha ancora prodotto i suoi effetti. L’Avvocatura dello Stato, per conto del governo, dice che non è possibile, bisogna aspettare che la norma contestata venga applicata almeno una volta e abbia concretamente leso qualche ipotetico diritto. Di fronte a questa obiezione, il barbiere dell’avvocato ha replicato: «Ma allora, se introducono la pena di morte e io vengo condannato, devo aspettare che mi taglino la testa prima di chiedere se è lecito?». L’aneddoto - Vero o inventato che sia, l’aneddoto fa sorridere i giudici costituzionali, e cerca di trasferire un po’ di saggezza popolare nella dotta e accademica discussione che si svolge nel palazzo della Consulta. Le arringhe vanno avanti fino alle 17, poi la Corte si ritira. La decisione sarà comunicata oggi, e il destino della legge elettorale voluta dal governo Renzi passa prima di tutto da questo quesito: è possibile giudicare un sistema elettorale entrato in vigore ma non ancora sperimentato? Il team di legali che vorrebbero cancellare l’Italicum - richiamato più volte dal presidente Paolo Grossi a non debordare: «Evitiamo concioni parapolitiche, restiamo giuristi per favore» - non ritiene che lo sia, e che anzi, è necessario intervenire prima per evitare di eleggere un nuovo Parlamento con una legge viziata, com’è successo per il Porcellum (in aula, a seguire il dibattito tra il pubblico, c’è il «padre» di quella legge, il senatore leghista Roberto Calderoli completo di cravatta verde). Per gli avvocati che rappresentano la presidenza del Consiglio, invece, sarebbe un giudizio preventivo non previsto dall’ordinamento. Difficilmente, stando alle previsioni, la Corte dirà che i ricorsi sono inammissibili scegliendo di non pronunciarsi sul merito della legge elettorale. Dunque passerà ad esaminare le singole contestazioni, che ieri sono state nuovamente argomentate. In un senso e nell’altro. Le tre questioni - Tra le tre questioni più importanti il premio di maggioranza attribuito alla lista che ottiene il 40 per cento dei voti (55 per cento dei seggi) viene considerato incostituzionale perché esagerato e sproporzionato; un partito che arrivasse secondo anche con il 39,5 per cento dei consensi vedrebbe irragionevolmente e drasticamente ridotto il proprio peso. Il principio di rappresentanza verrebbe sacrificato in maniera eccessiva rispetto a quello della governabilità, mentre la sentenza della Corte che bocciò il Porcellum sostiene che ci dev’essere un equilibrio. Ma il premio non è vietato da alcuna norma, ribatte l’avvocato dello Stato Massimo Massella Ducci Teri; anzi nel Porcellum è stato cancellato perché non era prevista una soglia minima per ottenerlo, mentre qui c’è e pure alta. A dimostrazione che il Parlamento ha recepito le indicazioni della Corte, come se ci fosse stato un «dialogo virtuoso» tra le due istituzioni. Nonostante nella Corte ci sia chi vorrebbe abolire anche il premio troppo alto, sembra improbabile che venga cancellato. Rischia invece molto di più il ballottaggio (sebbene qualche giudice vorrebbe salvarlo, ma è quasi certo che non ce la farà). Anche in questo caso, secondo i tribunali che hanno sottoposto le eccezioni alla Consulta, il principio della rappresentatività viene calpestato in nome della governabilità, e stavolta la sproporzione è ancora più evidente: perché non c’è un quorum minimo di voti da raggiungere per accedervi (basta arrivare secondi al primo turno). «Siccome chi arriva secondo rischia di prendere, al ballottaggio, i consensi di chi era arrivato terzo per sconfiggere il primo - denuncia l’avvocato Vincenzo Paolillo -, non si trasforma una maggioranza relativa in maggioranza assoluta, bensì una minoranza in maggioranza». Ma il «difensore» del governo insiste: «Questo sistema vige in Paesi a noi vicini che hanno applicato la democrazia ben prima di noi». Il luogo di elezione - L’altro punto critico che potrebbe essere cancellato dalla Corte è la possibilità dei capilista bloccati eletti in più collegi di scegliere il luogo di elezione determinando così, a loro discrezione, chi far entrare negli altri collegi come secondi eletti, indipendentemente dai voti che hanno raccolto o altri criteri. Violando così il

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principio costituzionale secondo cui ogni voto è «personale, uguale e libero». L’avvocato dello Stato sorvola e rimanda a quanto scritto nelle memorie, ma questo aspetto è uno dei più delicati: perché se la Corte dovesse bocciarlo, com’è possibile, dovrebbe introdurre un altro criterio di scelta, pena un vuoto normativo. Cosa che non può fare, se non con una decisione che indichi al Parlamento la strada da seguire per cambiare la legge. Oggi sapremo se e come questo avverrà. Pag 6 Il mondo politico rassegnato ad aspettare i giudici di Massimo Franco La sentenza della Consulta sull’Italicum arriverà solo oggi. Ma impressiona l’immagine di subalternità che il mondo politico offre. L’idea di un sistema elettorale plasmato più dalla Corte costituzionale che dal Parlamento e dai partiti, e soggetto ai suoi tempi rituali, sconcerta. Eppure, l’esito appare quasi inevitabile: nessuno sembra in grado di proporre un modello politicamente condiviso. È uno degli effetti collaterali del referendum del 4 dicembre. Riconsegna il bicameralismo, dopo un Italicum previsto maldestramente per un Parlamento egemonizzato da una Camera. Le decisioni rimandate a oggi, e che potrebbero dare adito a qualche sospetto sulla compattezza della Corte, possono diventare un alibi: l’appiglio al quale si aggrapperanno sia i teorici delle elezioni anticipate a giugno, sia quelli del prolungamento della legislatura fino al 2018. Il rischio è non di trascurare le indicazioni dei giudici, ma di piegarle a interessi di corto respiro. Chi, come la Lega e il vertice del Pd, e ufficialmente il M5S, insegue lo scioglimento delle Camere, è pronto a far proprio qualunque orientamento, adattandosi in fretta e furia allo schema della Consulta. Al contrario, chi teme altri strappi in un momento di sovraesposizione internazionale dell’Italia e di emergenza nazionale, rivendicherà il primato del Parlamento e una riforma meditata. Si indovinano le incognite simmetriche di una soluzione frettolosa e destinata a provocare altre lacerazioni; e quella di una lunga trattativa nella quale l’esigenza di rendere omogeneo il voto di Camera e Senato, potrebbe diventare un espediente per prendere tempo e impedire elezioni a breve. Sono spinte opposte, ma entrambe presenti. Anche perché la decisione finirà per misurare i rapporti di forza creati dalla sconfitta referendaria. Sulla carta, il fronte del voto anticipato è schiacciante. Può contare su Renzi, Matteo Salvini e Beppe Grillo. Ma le incrinature evidenti tra i Dem, sempre sull’orlo della resa dei conti, il buon inizio del governo di Paolo Gentiloni, e la stanchezza dell’opinione pubblica verso continui strappi, indeboliscono questo fronte. Non solo. L’invito a comparire arrivato ieri dalla magistratura al sindaco di Roma, Virginia Raggi, potrebbe rendere il M5S più cauto. La nuova legge elettorale disegnerà la futura fisionomia di molti partiti. Un’accentuazione in direzione del proporzionale promette di accelerare le spinte centrifughe; e favorire leadership inclini più a mediare che a imporre primati di partito o di coalizione. Si tratta di un cambiamento già in atto. Il problema è capire se segnerà un’evoluzione del sistema, rendendolo più rappresentativo, o certificherà la regressione verso un passato da archiviare. Pag 40 L’Europa e la Shoah di Ernesto Galli della Loggia I crimini del terrorismo islamico contro ebrei e cristiani rafforzano l’idea di radici comuni tra le due fedi bibliche Qual è oggi la presenza della Shoah sulla scena europea? Quali caratteristiche assume l’odio verso gli ebrei e secondo quali modalità si trasforma in gesti di morte? A ogni apparenza, l’antisemitismo conosce oggi in Europa un’impennata. Direi che negli ultimi tempi non è passata forse settimana che non abbia fatto registrare episodi sanguinosi di attacco a cittadini di religione ebraica o a istituzioni ebraiche da parte quasi sempre dell’islamismo radicale o del terrorismo islamico. Negli ultimi anni si contano a decine e decine episodi di sangue, di feriti e di morti. Quando si parla di terrorismo islamico non bisogna peraltro dimenticare che molto più numerose sono le sue vittime islamiche: praticamente non passa giorno o quasi che in qualche luogo del Medio Oriente o dell’Africa non vi siano attentati sanguinosissimi. C’è anche un’altra forma che oggi assume l’islamismo radicale, in questo caso forte di un vasto stuolo di fiancheggiatori. È la forma del boicottaggio nei confronti di Israele che mira a una sua sostanziale delegittimazione. Che cerca - spesso con l’aiuto vergognoso degli ambienti accademici

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che si dicono progressisti e di alcune grandi organizzazioni internazionali - di mettere al bando dal mondo civile lo Stato ebraico. È quanto mai significativo che quest’azione di boicottaggio riscuota grande successo negli ambienti della cultura, negli ambienti universitari - in modo tutto particolare in quelli anglosassoni. Ed è paradossale che una tale azione avvenga proprio in un mondo come quello della cultura, in cui negli ultimi due secoli gli ebrei hanno dato un contributo così decisivo. Ma nulla sembra essere servito, ahimè, a mettere al riparo l’ebraismo e lo Stato di Israele. La cui politica naturalmente si presta ad essere criticata come tutte le politiche di tutti gli Stati. Sicché io stesso sono critico verso la politica israeliana degli insediamenti nei territori occupati, nonché verso la politica condotta nei riguardi delle istituzioni cattoliche: una politica che mi sembra ispirata spesso da uno spirito di rivalsa che non può portare alcun frutto. Ma tali critiche nulla hanno a che fare con il nostro dovere, di fronte al boicottaggio di cui parlavo prima, di alzare una voce alta e forte che gridi: «Anche questo è antisemitismo! Ogni azione che mira a delegittimare lo Stato di Israele è antisemitismo!». Ma se penso a quale presenza ha l’antisemitismo nell’ambito della vita dell’Europa odierna, allora occorre chiarire che ci sono molte differenze rispetto alla Shoah. Oggi, infatti, gli ebrei non sono, in Europa, una minoranza perseguitata. Questo è dovuto anche al fatto che l’islamismo radicale e il terrorismo islamista considerano cristiani ed ebrei indifferentemente come loro nemici, e non si fanno scrupolo di distinguere tra gli uni e gli altri. In questo modo, paradossalmente, l’islamismo radicale ha l’effetto di produrre un amalgama oggettivo, potrebbe dirsi quasi un’alleanza di fatto, tra ebrei e cristiani. Non c’è cosa più forte del sangue versato insieme per cementare dei legami fortissimi. Inutile osservare che si tratta di un’alleanza tra posizioni che storicamente, viceversa, sono state sempre (almeno fino alla Shoah), di antagonismo e di contrasto. In tal modo le azioni omicide compiute dall’islamismo radicale nel nostro continente sortiscono un ulteriore effetto di grande portata. E cioè l’effetto di accreditare del tutto quella categoria di radici ebraico-cristiane che risale soltanto agli ultimi decenni, essendo un frutto proprio della riflessione sulla Shoah e peraltro essendo rimasta confinata finora a un uso colto e anche non poco discusso. Il concetto di radici ebraico-cristiane, di un legame storico (non già solo teologico) inestricabile tra giudaismo e cristianesimo si è trovato straordinariamente rafforzato nel momento in cui dalla dimensione astratta e ideale si è passati alla dimensione molto concreta dell’essere insieme obiettivi di sanguinose azioni di guerra. In questo senso particolare - e ben consapevole del peso delle parole che sto per pronunciare - si potrebbe davvero dire che con quanto sta accadendo in Europa la Shoah è finita. E si potrebbe aggiungere che non è affatto vero che Dio sarebbe morto ad Auschwitz: lo hanno simbolicamente tenuto in vita alcune donne di origine ebraica ma convertite al cristianesimo, con ciò segno potente esse stesse dell’unione dei due monoteismi. Mi riferisco per esempio a Simone Weil e a Etty Hillesum, pensatrici tra le più importanti del Novecento. Se comunque si può dire in qualche modo che la Shoah è finita, allora il ragionamento può fare un passo ulteriore, per avventurarsi su un terreno più squisitamente storico-politico. La sostanziale eclissi storica dell’Europa negli ultimi sessant’anni, l’impossibilità da parte dell’Europa stessa di costituirsi come soggetto politico, tutto ciò è a mio giudizio derivato da una sorta di terribile rimorso collegato alla Shoah. Collegato al terribile problema che l’Europa ha avuto in relazione alla dimensione della violenza, della guerra. Dal 1945 ad oggi, insomma, l’impiego della forza (elemento irrinunciabile di qualunque politica estera) si è trovato ad essere sostanzialmente vietato dal tabù rappresentato dall’effettiva complicità dell’intera Europa nella Shoah. Dalla consapevolezza che i popoli europei hanno avuto di una tale complicità a dispetto di tutte le mitologie circa le alleanze antifasciste; dalla consapevolezza che nel 1940 di fatto tutte le classi dirigenti europee avevano aderito a un progetto antisemita più o meno forte, radicale, sanguinario. Si è in tal modo depositato inconsapevolmente nello spirito pubblico del continente come un terribile fondo di rimorso nei confronti del passato, all’origine della convinzione che con la violenza, con la guerra, non bisognava e non si poteva più avere a che fare, così rinunciando di fatto a una dimensione fondamentale della politica. Forse però - questo «forse» vorrei sottolinearlo dieci volte - la situazione nuova che si sta oggi disegnando, con questo amalgama ebraico-cristiano prodotto dal terrorismo islamista, e quindi con la «fine ideologica» della Shoah, forse tutto ciò è sul punto di produrre un superamento del tabù. Oggi, forse, sotto l’incalzare degli eventi, si sta per aprire la possibilità di un

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ritorno dell’Europa alla storia. Tutto questo sta accadendo per vie che non sappiamo ancora scorgere con chiarezza; vie che sono determinate a volte anche dagli impulsi pericolosi delle opinioni pubbliche, dalla reazione agli eventi in cui siamo immersi e da cui siamo così violentemente colpiti. Prima di terminare vorrei però trovare il modo, di rivolgere un invito: nelle società europee, che si trovano a fronteggiare i formidabili problemi prodotti da un’immigrazione senza precedenti - vuoi per le sue proporzioni quantitative, vuoi soprattutto per la sua natura -, gli uomini della politica la smettano di invitarci ai buoni sentimenti, alla tolleranza, ad essere comprensivi, a non essere xenofobi! Il loro compito non è questo, ma quello di trovare soluzioni politiche ai problemi. In questo campo come forse in nessun altro vale il detto che le chiacchiere stanno a zero. La guerra, l’uso della forza, l’abbandono del tabù: si tratta di macigni morali, che aprono dentro di noi una quantità enorme di problemi. Resta indubitabilmente vero, tuttavia, che in un momento cruciale, in una contingenza estrema, l’unico modo per difendere le buone ragioni può essere l’impiego della forza. È una lezione della storia che può piacere o no, ma è indubitabile: in un modo o nell’altro la realtà finisce per imporsi, specialmente quando si tratta di difendere delle buone ragioni. E le nostre, ne sono convinto, sono buone ragioni. LA REPUBBLICA Pag 1 Quando non cala la ghigliottina di Stefano Folli Nel nostro codice giuridico e prima ancora in quello morale esiste la presunzione di innocenza. È una fortuna che sia così, una fortuna che il Movimento Cinque Stelle dovrebbe apprezzare. Nella società vagheggiata da Beppe Grillo fino a un paio di settimane fa, cioè fino al frettoloso codice etico che riconosce la differenza fra un avviso di garanzia e una condanna penale, non ci sarebbe stata pietà e tanto meno rispetto per la sindaca Virginia Raggi, "invitata a comparire" in procura. Ne sa qualcosa il suo collega di Parma, Pizzarotti, al quale - come è noto - è stata riservata la fucilazione politica sulla pubblica piazza. Per la prima cittadina di Roma è diverso e forse non solo perché ha avuto l'accortezza di avvisare Beppe Grillo dell' incidente giudiziario. C'è dell'altro. Strada facendo, il M5S si è reso conto che la realtà è complessa, soprattutto nella capitale. Spedire gli avversari alla ghigliottina è comodo e fruttuoso, ma si rischia di finire come Saint-Just detto l'Arcangelo, il più puro e intransigente dei giacobini, la cui testa rotolò insieme a quella di altri meno puri di lui. È positivo, in poche parole, che il leader supremo abbia scoperto in tempo utile il garantismo. Ma è chiaro che tutto il riguardo usato a Raggi e non ad altri sindaci nasce da considerazioni di opportunità. Roma non è Parma, non è Livorno e ovviamente non è nemmeno Torino, dove Chiara Appendino ha trovato una città bene amministrata e oggi si trova in testa alle classifiche di gradimento popolare. Roma è un girone dantesco dove hanno fallito negli ultimi anni le giunte di destra e quelle di sinistra. Ma questo argomento non può essere una giustificazione né per la sindaca né per il suo capo Grillo. Se Virginia Raggi è stata candidata con molta leggerezza alle elezioni, in un clima in cui i romani avrebbero eletto chiunque non facesse parte del vecchio detestato establishment, lo si deve all'ambizione del giovane avvocato, ma in particolare ai calcoli sbagliati del vertice dei Cinque Stelle. Si è preferito dare alla capitale d'Italia un sindaco incompetente e inerte, privo delle qualità minime per amministrare la megalopoli, piuttosto che mandare in Campidoglio una personalità autentica, dotata di autonomia di giudizio e quindi non controllabile. Costui avrebbe fatto ombra a tutta la confraternita, a cominciare dal leader per continuare con i vari colonnelli che si controllano a vicenda. E allora ecco Raggi, l'unica che non dava fastidio a nessuno, ma anche la figura su cui Grillo e gli altri oggi rischiano di perdere parecchia credibilità agli occhi dei loro elettori. Roma è peggio che mal governata: sembra abbandonata a se stessa senza un'idea che legittimi la rivoluzione «dell'onestà», senza uno slancio. È il più grave dei recenti scivoloni dei Cinque Stelle, ma nemmeno gli altri sono da minimizzare. Ricordiamoli. Lo scriteriato tentativo di abbracciare i liberali europei per poi tornare subito, una volta respinti, nelle braccia del nemico dell'Ue, Farage. L'adesione un po' infantile alla linea di Trump, anzi al binomio Trump-Putin. Gli attacchi volgari e sguaiati, essi sì ispirati al "trumpismo", nei confronti della stampa. Il giro di vite alquanto soffocante nei confronti di parlamentari e adepti, come se il pericolo maggiore fosse la diaspora del movimento. Quando invece il risultato

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è quello di rendere più evidente la rissosità interna, figlia di dissidi sulla linea politica che a parole il partito della trasparenza vorrebbe negare. Magari insultando i giornalisti che ne riferiscono. Certo, Virginia Raggi ha diritto di essere considerata presuntivamente innocente, quali che siano le spine del caso Marra. Non è opportuno reclamarne le dimissioni, cosa che lei e i suoi fecero con grande fragore nei confronti di Ignazio Marino. Si potrebbe, semmai, immaginare - senza molte speranze - che una vicenda così drammatica spinga Grillo verso un certo grado di maturazione. Il che non ha nulla da spartire con il moderatismo o con l'accettare compromessi sottobanco. Ha invece qualcosa a che vedere con la serietà e la coerenza. Se c'è un futuro per la sindaca di Roma, esso passa attraverso un bagno di realismo seguito da una pratica di governo della città che dovrà essere molto diversa da quella oscura e poco comprensibile dei primi mesi della giunta. Quanto al Pd, è bene che nessuno si faccia illusioni. Un movimento come quello dei Cinque Stelle non esce di scena per via giudiziaria. Crederlo, genera pericolose illusioni, già sperimentate negli anni di Berlusconi. Grillo può essere sconfitto, ma solo con gli strumenti della politica. E il primo di tali strumenti è il buon governo. Non il governo delle promesse e delle riforme mancate, bensì quello che parla agli italiani il linguaggio della verità. Senza indugiare al populismo in cui Grillo e i sui amici sono maestri. Almeno quando sono lontani dal Campidoglio e dai suoi veleni. Pag 12 "Abbiamo visto tutto il male del mondo ma non siamo soli" di Paola e Claudio Regeni È cominciato tutto un anno fa. Un anno da quando il buio è entrato a far parte delle nostre vite. Un anno da quando ci informarono che il nostro Giulio era sparito. Un anno da quando, a casa sua, al Cairo, ricevemmo quella telefonata nella quale ci comunicarono che stavano per raggiungerci l'ambasciatore Maurizio Massari e l'allora ministro Federica Guidi per comunicarci «notizie non buone». In questo anno abbiamo visto e stiamo ancora vivendo tutto il male del mondo. Questo male continua a svelarsi pian piano, come un gomitolo di lana, ma questo oltre ad essere il frutto di un costante lavoro di chi segue le indagini è anche il risultato della vicinanza di tutte le persone che in Italia e nel mondo chiedono con noi "verità per Giulio". In questi 12 mesi intensi, terribili, quello che ci ha dato più calore sono stati i segni dei cittadini, di quelle famiglie come la nostra, semplici, normali, che sono state toccate, sconvolte dalla storia di Giulio e oggi ci scrivono, lasciano un fiore sulla sua tomba, ci fanno sentire che non siamo soli. Quegli scatoloni pieni di lettere e cartoline sono sempre accanto a noi, e non è un particolare: la solidarietà è qualcosa di tangibile, di umano, è tutto il bene del mondo. Giulio non aveva confini ma soltanto curiosità, aveva solide radici e tradizioni ma voleva conoscerne sempre di nuove e diverse. Era un contemporaneo, ma soprattutto un ragazzo del futuro. È a lui, alla sua storia, alla sua vita che dobbiamo la nostra battaglia per la verità. È Giulio, il suo corpo torturato, quello delle altre centinaia di "Giulio d'Egitto", che lo chiedono e lo reclamano. Per il nostro dolore ci sarà tempo. Ora è soltanto il momento della verità: vogliamo sapere chi, come e perché, senza saltare nessun passaggio della catena, ha ucciso e torturato nostro figlio. Sappiamo che non siamo i soli a volerlo. Per questo speriamo che oggi questo fiume in piena d'affetto si riversi nelle piazze con fiaccole accese per Giulio e per la giustizia di coloro che non sono rispettati nei loro diritti umani. "Verità per Giulio" è un grido di dolore. Ma anche di speranza. Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio. LA STAMPA L’America riparte dai motori di Francesco Guerrera «Niente dietro di me, tutto di fronte a me. È sempre così sulla strada». Donald Trump si ispira a Jack Kerouac e comincia la sua sfida economica dalla strada. O, per essere più precisi, dal settore dell’automobile. In questo, il miliardario che si è fatto le ossa nei cantieri di New York e sui set televisivi è simile al professore di legge che ha imparato l’arte della politica nei quartieri poveri di Chicago. Anche Barack Obama iniziò la ricostruzione dell’economia Usa dalle automobili. Ma le differenze sono molte. Obama non aveva molta scelta. Con il settore finanziario in ginocchio, attaccato alla flebo degli aiuti governativi, con una disoccupazione alle stelle e il pericolo che la crisi dilagasse in

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Europa e in Asia, il giovane Presidente si aggrappò all’industria che stava meno peggio e che divenne il volano della ripresa americana. Trump aveva il lusso di scegliere quale settore consacrare come il laboratorio della sua ricetta economica: dalle banche ormai ritornate in salute ai costruttori suoi amici, dalla tecnologia sexy di Silicon Valley (che però ha votato per Hillary…) alle grandi industrie d’estrazione. Ma il nuovo Presidente ha scelto l’automobile forse perché quella di Obama fu una scommessa vincente che contribuì a sollevare l’America dalla Grande Recessione. Trump non ammetterà mai di aver «copiato» le politiche del suo predecessore. Ma anche il Donald, come Barack, promette incentivi alle società automobilistiche che investono negli Usa (pure se hanno impianti all’estero), a chi è serio nel voler creare posti di lavoro in un settore manifatturiero che rimane un motore importante, anche se un po’ ammaccato, della locomotiva Usa. Ci sono motivi prettamente economici per sostenere l’industria dell’automobile. È una delle più grandi d’America. La produzione di Jeep e Cadillac, di Buick ma anche di Honda, Toyota e Kia, supporta circa 7 milioni di posti di lavoro, secondo le organizzazioni di settore. Le aziende d’auto pagano più di 500 miliardi l’anno in salari e contribuiscono con più di 200 miliardi alle autorità fiscali. E non ci dimentichiamo che in un’era in cui il dollaro la fa da padrone sui mercati internazionali, mettendo in difficoltà le esportazioni Usa, l’industria delle macchine ha un vasto mercato interno che sta crescendo e che rimane un punto di forza inalienabile. Ma ci sono anche ragioni più romantiche per rimanere fedeli alle auto made in Usa. Magari Trump non ha mai letto Kerouac ma conosce il Sogno Americano delle grandi migrazioni, le distanze enormi, le highways che trasportano le fortune, paure e desideri di chi vuole fare meglio. Chi, come me, ha avuto la fortuna di attraversare gli Usa da costa a costa in automobile sa che per gli Americani la macchina è più di uno status symbol, più di un mezzo di trasporto, più di un bellissimo giocattolo. Per chi vive e ama l’America, l’automobile (o il camioncino «pick-up») è l’essenza di un Paese che non sta mai fermo, che fa della mobilità, sociale e fisica, la sua raison d’être. Non è un caso che l’inno nazionale ufficioso degli Usa, la canzone «American Pie» di Don McLean, parli molto di una «Chevy», la Chevrolet che era la macchina per eccellenza degli Anni 70. Funzionerà la scommessa di Trump sull’automobile? Vedremo. Ma quanto meno questo Presidente che è spesso rozzo e volgare ha scelto un’industria romantica per iniziare il suo progetto economico. AVVENIRE Pag 3 Nella zuffa in città si può vedere il bene di Marco Impagliazzo La realtà urbana e ciò che oggi ci chiede Zygmunt Bauman ci ha aiutato a leggere la realtà contemporanea, il mondo in cui viviamo, come un grande scenario 'liquido', in cui l’orizzonte è a breve termine, l’obiettivo è viaggiare leggeri, il riferimento è l’individuo, l’incertezza e la paura la fanno da padroni. L’orizzonte dell’uomo contemporaneo è oggi la città. La Conferenza degli episcopati latinoamericani all’assemblea di Aparecida del 2007 affermava: «La fede ci insegna che Dio vive nella città, in mezzo alle sue gioie, ai suoi desideri e alle sue speranze, come anche in mezzo ai suoi dolori e alle sue sofferenze». Luogo degli uomini e di Dio, intreccio di bene e di male, la città è contraddittoria, percorsa da fremiti differenti, abitata da sentimenti a volte contrapposti. Ben lo vediamo in questi giorni di grande freddo, quando l’indifferenza di vaste realtà anonime è sfidata da un moto di solidarietà trasversale, che vede migliaia di cittadini portare coperte, sacchi a pelo, pasti e bevande caldi, accoglienza alle vite 'scartate', ai tanti senza fissa dimora per cui 'non c’è posto' né riparo. In tanti si sono dati da fare in questi giorni per supplire alla scarsità di risposte pubbliche. In tanti hanno sentito di appartenere a una comunità di destino, hanno scelto di vedere gli invisibili e di essere più 'cittadini' e solidali, realizzando quanto l’arcivescovo Jorge Mario Bergoglio aveva scritto qualche anno fa: «Se partiamo dalla constatazione che l’anti-città cresce con lo sguardo e che la più grande esclusione consiste nel non riuscire neanche a 'vedere' l’escluso – quello che dorme per strada non viene visto come persona, ma come parte della sporcizia e dell’abbandono del paesaggio urbano, della cultura dello scarto, del rifiuto – la città umana cresce con lo sguardo che 'vede' l’altro come concittadino. In questo senso, lo sguardo della fede è fermento per uno sguardo civico» (Dio nella città, Ed. San Paolo). La città di oggi è il laboratorio di una nuova società, quella del millennio che avanza, di una globalizzazione che fa perno

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sull’urbanità. È un mondo complesso, quello che si va disegnando. In cui convivenza ed esclusione si affrontano, in cui massificazione e solitudine si sfidano. In cui si tratta di garantire una tenuta sociale originale, non più cementata dalle classi sociali o dalle ideologie. In cui occorre tessere legami di condivisione e di speranza tra soggetti più distanti e diversi che in passato. In cui è necessario gettare ponti verso una 'periferia diffusa' che non è solo la cintura urbana delle grandi metropoli. Nelle tante periferie di Roma, che conosco meglio, sono scomparsi i corpi intermedi, la gente è sola. «Chi orienta più la gente di periferia in un mondo complicato?'», si è chiesto Andrea Riccardi. È un lavoro lungo, non facile. Ma penso a quanto scriveva il giovane David Maria Turoldo nel luglio 1946: «Dio si è incarnato e abita fra noi. È un errore pensare che Dio è lontano, che abita in un’altra città: di città ce n’è una sola; egli dimora fra queste mura. È qui, dentro questa periferia che è come un cerchio di fuoco dove si azzuffano angeli e uomini. La città è il luogo della nostra battaglia, […] è proprio questo contendere il terreno a Satana, qui dove egli aveva piantato la sua roccaforte, il mio piacere di stare in città, di essere la città, di sentirmi una sola cosa con essa». Se è vero che le città sono «un cerchio di fuoco dove si azzuffano angeli e uomini» – e lo vediamo ogni giorno – dobbiamo imparare a sentire la forza di bene che la nostra società sa esprimere, le risorse di idee e di solidarietà che sanno farsi strada, ed emergere, per contrastare il buio e tradursi in vicinanza concreta, in tessuto, in «voglia di comunità» (per citare ancora Bauman). In questo mondo, diventato di città e periferie, il compito che abbiamo davanti a noi è quello di essere un po’ più angeli e un po’ meno banali. Pag 10 Goran Kuzminac: “Io, l’Abruzzo e il mio inverno rurale da primo ‘800” Stufa a legna, fagioli e candele: sei giorni a Cellino Attanasio Ho pensato molto in questi giorni. Perché ho avuto un sacco di tempo per pensare. Sono passato da una società iper-tecnologica a una situazione di inverno rurale contadino d’inizio Ottocento. Tutto in meno di 24 ore. Abito da qualche anno in Abruzzo. Una vecchia casa, sulla cima di una collina. La strada provinciale passa a trecento metri di distanza. Il paese più vicino è Cellino Attanasio, a circa tre chilometri. Il meteo prevede neve. È normale. L’aria fredda dei Balcani, sorvolando l’Adriatico, si carica di umidità e ricopre il centro Italia di neve. Ripeto: «È normale!». Inizia la prima nevicata, abbondante ma soffice, portata da un vento teso, e subito si fa buio. Sono le 6 del pomeriggio e tutta la valle è scura, senza illuminazione. Cerco una candela nel cassetto delle emergenze. Ne è rimasta qualcuna da Natale. Aspetto e guardo un po’ preoccupato il cellulare. L’ho caricato di notte e ora sta al 60%. Ok, ce la posso fare, e ho la linea fissa per eventuali emergenze... Peccato sia caduta anche quella. Sono le otto e mezza di sera. Ho la stufa a legna. Il riscaldamento non funziona. Andrebbe a metano, ma il bruciatore senza corrente non si accende. Aggiungo un altro piumino nel letto. Riaccendo il cellulare, 50% di carica, chiamo il 187. Un’allegra vocina femminile mi informa che ci sono problemi sulla linea, e di collegarmi al loro sito per sapere l’avanzamento dei lavori. Con cosa mi collego??? Vado a dormire. Fa sempre più freddo. Alle sei sono sveglio. Alla luce della candela mi infilo due maglioni e preparo il caffè. Appena fa luce, mi dico, prendo la cesta e mi avvio alla legnaia. Ma la porta di casa non si apre. Il vento ha accumulato un metro di neve. Spingo con tutte le forze e riesco ad aprire un varco di trenta centimetri. Ne cade in casa mezzo metro cubo, accidenti! Ma esco, e mi trovo davanti un paesaggio incredibile. La neve si è accumulata in dune altissime, portate dal vento. Arrivare fino alla legnaia significa sprofondare fino al petto. Ci met- to mezz’ora. Riesco ad aprire la porta della legnaia. Con il cuore in gola per lo sforzo, carico la cesta e rientro in casa. Ma non basta. Faccio cinque o sei viaggi, e accumulo legna vicino alla stufa. Telefono? Muto. Corrente elettrica? Nemmeno l’ombra. Strano. Sono le due cose primarie in ogni emergenza: la comunicazione e l’energia. Invece sono scomparse per prime. Mi piacerebbe avere qualche notizia, ma senza corrente non funziona nulla. Tranquilli, ho la stufa e da mangiare. Pasta e riso. Anche fagioli secchi e qualche chilo di farina. I miei nonni dicevano che, se hai la farina, puoi sopravvivere alla guerra, e perciò io ne ho sempre un po’ di scorta. Sulla strada la neve si è accumulata e non è passato nessun mezzo comunale. Chiamo un mio amico in paese: il nuovo sindaco ha dichiarato che lo spazzaneve è guasto! Normalmente in questi casi un amministratore ne affitta tre, o ne precetta venti, ma il problema lo

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risolve, mentre qualche meccanico aggiusta il mezzo del comune. Continua a nevicare e non si distinguono più i bordi della strada. Il telefonino è quasi senza carica. Sono passate già 24 ore dall’inizio della nevicata, e sono sempre isolato e al buio. Penso a quei poveracci in paese che non hanno una canna fumaria e una stufa a legna. Io almeno sto al caldo. Una stanza sola, al buio ma al caldo. Alle otto di sera sono di nuovo a letto. Sono stanco e stavolta mi addormento subito. Ovviamente mi sveglio alle cinque. Nella stufa ancora braci. Aggiungo legna e faccio il caffè. Arrivare alla provinciale nemmeno parlarne. Alla luce del fuoco, impasto un po’ di farina e preparo il pane arabo. Alle sette, quando il cielo schiarisce, faccio una bella colazione con pane, burro e marmel-lata, ed esco armato di pala. All’improvviso mi arriva una chiamata da un numero sconosciuto. Sarà qualcuno della protezione civile, dell’esercito, della finanza, chissà. Rispondo con l’ultimo gemito della batteria, e una voce femminile con accento rumeno mi propone un abbonamento a Tim vision... Fine della civiltà. Non sarebbe elegante dire come rispondo. Si sono accumulati sei giorni senza corrente elettrica e senza linea telefonica. Sei giorni nella neve, con una stufa a legna e una lampada fatta con olio di oliva e stoppino di cotone. Nessun mezzo antineve sulla strada, nessuna voce, nessun rumore. Sei giorni lavandosi con l’acqua calda del pentolone sulla stufa. E non ho parlato del terremoto... Ma ce la faremo anche stavolta! E quelli che non ce la faranno, avranno la consolazione morale della parola dei politici: stiamo lottando contro il tempo, è una situazione imprevista, non è il momento delle polemiche, dobbiamo restare uniti. Forse la più toccante e sentita è stata pronunciata dal nostro presidente della regione D’Alfonso: l’Abruzzo non è abituato alla «nevosità». L’Abruzzo, questa ridente regione, si trova alla stessa latitudine dei Caraibi. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Gli invisibili dello Stato di Massimiliano Melilli Chi vive e muore per noi Sono gli invisibili dello Stato. Che diventano visibili solo davanti alla cronaca più o meno straordinaria di tutti i giorni (terremoti e catastrofi naturali incluse) e solo quando muoiono «in servizio». E’ un lungo elenco di figure professionali che spesso e colpevolmente dimentichiamo, dai vigili del fuoco ai poliziotti, carabinieri, finanzieri, guardie penitenziarie, infermieri, medici, operatori del 118, guardia costiera, corpo forestale. Ma chi difende i difensori? Dietro le ragioni della sicurezza e del soccorso ci sono uomini e donne che indossano divise di dignità. E spesso per stipendi in Europa definiti «più che inadeguati rispetto agli standard odierni». Nelle piazze, intorno agli stadi o ai centri di accoglienza per migranti, solo negli ultimi tre anni 1.500 uomini delle forze dell’ordine sono rimasti feriti. Peggio. poliziotti, carabinieri, agenti della guardia di finanza, guardie penitenziarie uccisi nel corso degli ultimi anni sono molti di più dei malviventi (o comunque dei civili) deceduti per mano degli agenti. Il rapporto è di 2 a 1. I caduti della Polizia dal gennaio 2000 a oggi sono 121, dei quali 20 uccisi. Gli altri sono morti per incidenti durante un inseguimento o per cause simili. I morti dell’Arma dei carabinieri dal 2006 a oggi sono invece 24, di cui 13 uccisi e nel dato sono compresi anche quelli deceduti nel corso di missioni di pace all’estero, per mano del terrorismo. Ancora. Non (ri)conosciamo abbastanza l’attività dei vigili del fuoco. L’altro giorno l’Italia intera si è commossa davanti ai pompieri che hanno salvato vite all’hotel Rigopiano sommerso dalla slavina. Quegli angeli della neve appartengono al corpo dei Vigili del fuoco. Che 365 giorni su 365 lavorano in nome del Prossimo: prestano soccorso alle persone, intervengono per domare incendi, in caso di fughe di gas, ascensori bloccati, salvataggio di animali. Gli invisibili dello Stato, già. Persone con un cuore grande così, in prima linea 24 ore su 24, tutto l’anno. Ma chiedono aiuto, da tempo. Perché sottoposte ad una vasta gamma di stress. Il male oscuro si chiama «burnout». Per la letteratura scientifica è una «ritirata psicologica dall’impegno lavorativo come risposta a un eccessivo stress o stato di insoddisfazione». Il «burnout» colpisce quelle professioni a cui è richiesto un forte altruismo: poliziotti, carabinieri, finanzieri, guardie penitenziarie, militari, vigili del fuoco, infermieri e medici. Ecco l’Italia con la schiena dritta, gli invisibili dello Stato. Che vivono e muoiono per noi. Oltre il loro (misero) stipendio e il loro dovere.

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IL GAZZETTINO Pag 1 Tragedie, polemiche e il silenzio della politica di Carlo Nordio Le inevitabili polemiche che, come avevamo scritto nei giorni scorsi, avrebbero avvelenato la già tragica vicenda di Rigopiano, non si sono sopite e continueranno a lungo. Ad alimentarle saranno il comprensibile rabbioso dolore dei parenti delle vittime, e la meno edificante spregiudicatezza di chi ne sfrutterà l'impatto emotivo. Tuttavia due voci autorevoli sono intervenute a disinnescarne potenzialità esplosiva. La prima è stata del Magistrato che conduce le indagini, la seconda del presidente Cantone. La responsabile della Procura di Pescara, Cristina Todeschini, ha pronunciato parole di prudente saggezza: ha spiegato che l'inchiesta è un atto dovuto, ma ha evitato toni apocalittici e ammonizioni predicatorie, limitandosi a esporre i termini del problema, che in effetti sono numerosi e complessi: la regolarità della costruzione e della sua collocazione, la prevedibilità dell'immensa valanga , la tempestività dell'allarme e del soccorso, l'idoneità delle comunicazioni ecc. Tutto questo, peraltro, sarà solo un inizio. Poi bisognerà dimostrare, ammesso che colpe vi siano, la loro efficacia causale rispetto all'evento. In altre parole se, la catastrofe sarebbe stata evitata se queste colpe non vi fossero state. Un'impresa, come si vede, quasi titanica. Da parte sua il dottor Cantone, parlando della ricostruzione post terremoto, ha stigmatizzato la superficialità, se non proprio la malafede, di chi ha accusato l'Anac, di eccessive cautele e di rallentamenti burocratici. Anche se non strettamente connessa con l'episodio di Rigopiano, la materia è sempre la medesima: il disinvolto cinismo con il quale taluni scriteriati si gettano a capofitto sulle disgrazie altrui per cavarne vantaggio. Accanto a queste due sortite coraggiose, non si è invece vista una corrispondente e risoluta reazione del governo. Con tutto la comprensione per la collera di chi è accecato dal dolore, avremmo preferito vedere, da parte della politica, un sussulto di orgoglio per il coraggio, l'abilità e la tenacia con cui decine di persone hanno rischiato la vita per salvare il salvabile. L'elicottero caduto ieri, con il suo corteo di morti, dimostra che in ognuna di queste operazioni la tragedia è in agguato, e che se da un lato è lecito deprecare, e se necessario punire, eventuali responsabilità, dall'altro è giusto e doveroso affermare con vigore, e forse anche con altrettanta irritazione, che miracoli non se ne fanno, e che gli unici prodigi sono costituti proprio da quei soccorritori di cui si conoscono i volti soltanto in occasione dei loro funerali. Questa incomprensibile timidezza è aggravata dalla sensazione che, ancora una volta, la politica intenda devolvere la gestione dei problemi più antipatici ad organismi estranei, come la magistratura o la stessa Autorità anticorruzione. L'incontro, di ieri a Palazzo Chigi, con Curcio e Cantone, è certo una buona cosa se serve a coordinarne le rispettive competenze. Esso tuttavia rischia di essere interpretato come l'ennesima manifestazione di esitazione, se non proprio di subalternità, da parte della politica davanti a eventi che implicano decisioni difficili e forse impopolari. L'Anac ha già una serie di compiti gravosi, che partono dalla definizione del rating di legalità, transitano attraverso il codice degli appalti e si concludono in una vigilanza assidua e contro la corruzione. Un compito straordinario, già assolto in parte con buoni risultati, che non merita di essere integrato da altre incombenze che ne diluirebbero la forza e l'efficacia. Anche qui, vale il vecchio detto di un grande politico: ad ogni organismo si diano gli strumenti che servono, e gli si faccia finire il lavoro. LA NUOVA Pag 1 La valanga e le nostre colpe di Ferdinando Camon Ma possibile che tante disgrazie in Italia partano come disgrazie, colpi mortali del destino contro il quale non c’è umana possibilità di difesa, e finiscano come nostre colpe, omissioni, collaborazioni, complicità? Possibile che anche questa tragedia del Gran Sasso (dove adesso non si salva più nessuno, ma si estraggono solo morti) in pochi giorni abbia compiuto questa virata? Ci piangevamo addosso per i morti dell’hotel Rigopiano, adesso ci domandiamo se non dobbiamo vergognarci. Sono morti per volontà del destino, o l’affarismo, l’abusivismo, il menefreghismo della burocrazia li ha uccisi, o lasciati morire? Ieri pomeriggio è circolata una notizia che chi di noi l’ha sentita, vorrebbe non averla sentita. Anch’io. È la telefonata di un testimone della valanga a una funzionaria che poteva-doveva fare qualcosa, rientrava nella sua professione. Magari

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poteva fare poco, ma almeno ascoltare, mobilitarsi, allertare. «È sparito l’albergo», dice la voce spaventata. «Ma no, due ore fa c’era», risponde la funzionaria. «Ho la testimonianza di un amico sul luogo, una persona seria», e lei, stoppando la chiamata: «La madre degli imbecilli è sempre incinta». Ora, questi errori dei funzionari, queste inadempienze, diventano più gravi quando sono preceduti e seguiti da altri errori, allora formano a loro volta una valanga, ed è questa valanga complessiva che provoca la strage finale. In sede di valutazione delle responsabilità, un altro funzionario infatti ha subito dichiarato che questi ritardi nell’ascolto delle chiamate non sono influenti sulla catastrofe, perché al massimo avranno ritardato i soccorsi di un’ora o due. È questa mentalità che è inammissibile. La vigilanza anti-valanghe è un servizio di sentinella di fronte al nemico. Se il nemico si muove e tu dai l’allarme un’ora dopo, la tua destinazione dovrebb’essere la Corte Marziale. Ma qui le domande partono molto prima. E riguardano l‘eterno problema italiano delle costruzioni di sospetto abusivismo che finiscono assolte e bonificate. Qui è sospetto il luogo della costruzione: poteva un albergo essere costruito lì, o non poteva? Non solo costruito, poi è stato anche ampliato. L’ampliamento era lecito o illecito? Anche qui, c’è stato un esame della giustizia, e un’assoluzione. Però adesso c’è la catastrofe, e la catastrofe smentisce con i fatti qualunque valutazione di liceità della costruzione. La catastrofe mostra con i fatti che un’enorme massa nevosa poteva radunarsi in alto, sulla verticale, e precipitando giù per la conca finiva dritta proprio sull’albergo, sfasciandolo o seppellendolo. Il divieto di costruzione si basava su questo ragionamento. Se il permesso di costruzione si basa su un ragionamento diverso, oggi risulta sbagliato. Chi l’ha emesso? Chi ne risponde? Un albergo situato in una posizione del genere dev’essere sempre raggiungibile dai soccorsi con urgenza. Si deve sempre poter arrivare e partire da un albergo del genere. Qui non si poteva. Una turbina era rotta, un’altra era lontana. Perciò si son perse ore su ore. C’eran clienti che avevan già pagato il conto per andarsene, ma non potevano partire, perché la strada era ostruita dalla neve. Eran praticamente “sequestrati”. Adesso raccontano che l’albergatore, per invogliarli a restare, gli offriva degli sconti. Ma sconti in cambio di che? Della vita? Guardando attraverso la finestra la massa di neve incombente, un fidanzato disse alla fidanzata: «Se quella neve si stacca, nessuno ci troverà più». Ma noi italiani siamo specialisti nel pietismo, e man mano che si fanno più gravi le nostre colpe cerchiamo di aggravare le colpe del destino, paragonando la forza d’urto della valanga a quella di non so quanti milioni di tir che si fossero abbattuti sull’albergo. Siamo sempre pronti a piangere e far piangere. Bene, abbiamo pianto tanto. Non abbiamo più lacrime. È da mercoledì che piangiamo. Adesso non avremmo anche il diritto di arrabbiarci? Torna al sommario