Rassegna stampa 22 dicembre 2017 · 2017-12-22 · RASSEGNA STAMPA di venerdì 22 dicembre 2017...

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 22 dicembre 2017 SOMMARIO “Se la Curia si chiude in se stessa non solo tradisce l’obiettivo della sua esistenza, si condanna all’autodistruzione”: comincia così su Avvenire la sintesi che Stefania Falasca scrive del discorso natalizio del Papa alla Curia Romana (testo integrale in Rassegna) “È il quinto anno di lavoro sulle riforme e nel suo quinto discorso per gli auguri natalizi ai collaboratori della Curia Romana - continua - Francesco chiede che si superino le logiche dei complotti e delle cerchie autoreferenziali che oscurano la natura della Curia «progettata ad extra, in quanto legata all’universalità del ministero petrino, al servizio della Parola e dell’annuncio della Buona Novella», e non manca di criticare i «traditori di fiducia » o degli «approfittatori della maternità della Chiesa», cioè quelle «persone selezionate» per dare un maggior vigore al corpo e alla riforma, ma che invece «si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria». Dopo che nei precedenti incontri natalizi aveva rivolto lo sguardo all’interno e avendo a modello i Padri del deserto si era prima soffermato su alcune “malattie” della Curia, poi su una sorta di catalogo delle virtù necessarie a chi vi presta servizio e nel discorso del 2016 su come anche nella Curia il semper reformanda deve trasformarsi in una personale e strutturale conversione permanente, è ora sul sensus Curiae, sulla realtà della Curia ad extra, ossia il rapporto della Curia con il mondo esterno, con le nazioni, con le Chiese particolari, con le Chiese orientali, con il dialogo ecumenico, con l’ebraismo, con l’islam e le altre confessioni che il Papa quest’anno vuole far soffermare l’attenzione, sottolineando che le sue riflessioni si basano certamente sui principi basilari e canonici della Curia, sulla stessa storia della Curia, ma anche sulla «visione personale che ho cercato di condividere con voi nei discorsi degli ultimi anni, nel contesto dell’attuale riforma in corso». Ad bonum totius corporis Francesco spiega che l’universalità del servizio della Curia proviene e scaturisce dalla cattolicità del ministero petrino ed è pensando a questa finalità ministeriale, petrina e curiale, ossia di servizio, ha fatto ricorso all’espressione di un “primato diaconale”, secondo l’immagine di san Gregorio Magno del Servus servorum Dei, espressione della ferma volontà di imitare Cristo, il quale assunse la forma di servo. Per l’operato della Curia ad extra, Francesco parla quindi degli aspetti legati al “primato diaconale”, dei “sensi costituzionali” e delle «fedeli antenne emittenti e riceventi » che la Curia proiettata nella missione operando in maniera conforme alla sua natura e alla sua finalità in comunione con il Papa deve avere. «I sensi ci aiutano a cogliere il reale e ugualmente a collocarci nel reale – afferma il Papa –. Questo è molto importante per superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano - nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni - un cancro che porta all’autoreferenzialità, che si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, e in particolare nelle persone che vi operano». Poi riprende con parole forti il «pericolo» costituito dai «traditori di fiducia» o dagli «approfittatori della maternità della Chiesa» additando quelle «persone che vengono selezionate accuratamente per dare un maggior vigore al corpo e alla riforma, ma - non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità - si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e quando vengono delicatamente allontanate si auto- dichiarano erroneamente martiri del sistema, del “Papa non informato”, della “vecchia guardia” … invece di recitare il mea culpa. «Accanto a queste persone – afferma ancora Francesco – ve ne sono poi altre che ancora vi operano, a cui si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene. Questo certamente senza dimenticare la stragrande parte di persone fedeli che vi lavorano con lodevole impegno, fedeltà, competenza, dedizione e anche tanta santità». La Curia deve funzionare come un’antenna e deve cogliere le istanze, le domande, le richieste, le grida, le gioie e le lacrime delle Chiese e del mondo in modo da

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 22 dicembre 2017

SOMMARIO

“Se la Curia si chiude in se stessa non solo tradisce l’obiettivo della sua esistenza, si condanna all’autodistruzione”: comincia così su Avvenire la sintesi che Stefania

Falasca scrive del discorso natalizio del Papa alla Curia Romana (testo integrale in Rassegna) “È il quinto anno di lavoro sulle riforme e nel suo quinto discorso per gli

auguri natalizi ai collaboratori della Curia Romana - continua - Francesco chiede che si superino le logiche dei complotti e delle cerchie autoreferenziali che oscurano la

natura della Curia «progettata ad extra, in quanto legata all’universalità del ministero petrino, al servizio della Parola e dell’annuncio della Buona Novella», e non manca di criticare i «traditori di fiducia » o degli «approfittatori della maternità della Chiesa», cioè quelle «persone selezionate» per dare un maggior vigore al corpo e alla riforma, ma che invece «si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria». Dopo che

nei precedenti incontri natalizi aveva rivolto lo sguardo all’interno e avendo a modello i Padri del deserto si era prima soffermato su alcune “malattie” della Curia,

poi su una sorta di catalogo delle virtù necessarie a chi vi presta servizio e nel discorso del 2016 su come anche nella Curia il semper reformanda deve trasformarsi in una personale e strutturale conversione permanente, è ora sul sensus Curiae, sulla realtà della Curia ad extra, ossia il rapporto della Curia con il mondo esterno, con le nazioni, con le Chiese particolari, con le Chiese orientali, con il dialogo ecumenico, con l’ebraismo, con l’islam e le altre confessioni che il Papa quest’anno vuole far

soffermare l’attenzione, sottolineando che le sue riflessioni si basano certamente sui principi basilari e canonici della Curia, sulla stessa storia della Curia, ma anche sulla

«visione personale che ho cercato di condividere con voi nei discorsi degli ultimi anni, nel contesto dell’attuale riforma in corso». Ad bonum totius corporis Francesco spiega

che l’universalità del servizio della Curia proviene e scaturisce dalla cattolicità del ministero petrino ed è pensando a questa finalità ministeriale, petrina e curiale, ossia

di servizio, ha fatto ricorso all’espressione di un “primato diaconale”, secondo l’immagine di san Gregorio Magno del Servus servorum Dei, espressione della ferma volontà di imitare Cristo, il quale assunse la forma di servo. Per l’operato della Curia

ad extra, Francesco parla quindi degli aspetti legati al “primato diaconale”, dei “sensi costituzionali” e delle «fedeli antenne emittenti e riceventi » che la Curia proiettata

nella missione operando in maniera conforme alla sua natura e alla sua finalità in comunione con il Papa deve avere. «I sensi ci aiutano a cogliere il reale e ugualmente

a collocarci nel reale – afferma il Papa –. Questo è molto importante per superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano - nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni - un cancro

che porta all’autoreferenzialità, che si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, e in particolare nelle persone che vi operano». Poi riprende con parole

forti il «pericolo» costituito dai «traditori di fiducia» o dagli «approfittatori della maternità della Chiesa» additando quelle «persone che vengono selezionate accuratamente per dare un maggior vigore al corpo e alla riforma, ma - non

comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità - si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e quando vengono delicatamente allontanate si auto-

dichiarano erroneamente martiri del sistema, del “Papa non informato”, della “vecchia guardia” … invece di recitare il mea culpa. «Accanto a queste persone – afferma ancora Francesco – ve ne sono poi altre che ancora vi operano, a cui si dà

tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene. Questo

certamente senza dimenticare la stragrande parte di persone fedeli che vi lavorano con lodevole impegno, fedeltà, competenza, dedizione e anche tanta santità». La Curia deve funzionare come un’antenna e deve cogliere le istanze, le domande, le

richieste, le grida, le gioie e le lacrime delle Chiese e del mondo in modo da

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trasmetterle al vescovo di Roma. Così gli ambiti di lavoro a partire da quello del rapporto con le nazioni dove ribadisce, dopo aver citato la neonata terza sezione

della Segreteria di Stato, che l’unico interesse della diplomazia vaticana è quello di essere libera da qualsiasi interesse mondano o materiale, e che la Santa Sede quindi è

presente sulla scena mondiale per collaborare con tutte le persone e le nazioni di buona volontà e per ribadire sempre l’importanza di custodire la “nostra casa

comune” da ogni egoismo distruttivo; per affermare che le guerre portano solo morte e distruzione; per attingere dal passato i necessari insegnamenti che ci aiutano a

vivere meglio il presente, a costruire solidamente il futuro e a salvaguardarlo per le nuove generazioni». Per il rapporto che lega la Curia romana alle diocesi il Papa ricorda che è basato «sulla collaborazione, sulla fiducia e mai sulla superiorità o sull’avversità ». Si sofferma poi sui rapporti con le Chiese orientali e insiste sul dialogo ecumenico che «è un cammino irreversibile e non in retromarcia». Un

cammino dal basso iniziando a camminare insieme servendo gli ultimi. «La Curia opera in questo campo per favorire l’incontro con il fratello, per sciogliere i nodi delle

incomprensioni e delle ostilità, e per contrastare i pregiudizi e la paura dell’altro». Infine il rapporto della Curia con l’ebraismo, l’islam e le altre confessioni, centrato su

un dialogo costruito su tre orientamenti: «Il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni ». Chi «è differente da me, culturalmente o

religiosamente, non va visto e trattato come un nemico, ma accolto come un compagno di strada». Gli incontri avvenuti con le autorità religiose nei diversi viaggi apostolici e negli incontri in Vaticano, ne sono la concreta prova. Al termine della panoramica sull’operato della Curia ad extrala conclusione è sulla fede affermando «che una fede che non ci interroga è una fede sulla quale dobbiamo interrogarci» e

cita il mistico tedesco del Seicento, Angelo Silesio, che nel suo Il Pellegrino Cherubico scrisse: “Dipende solo da te”. (a.p.)

1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO Pag 7 Il Patriarca sul fine vita: “L’obiezione è legittima” di Giorgia Pradolin Per Francesco Moraglia si deve rispettare la coscienza del medico. Critiche sulla tempistica IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Moraglia: “Il Papa anche a Marghera” di Giorgia Pradolin “I migranti? Rifarei quello che ho fatto, malgrado le critiche. Il turismo? Occorre mediare tra il guadagno e la convivenza” LA NUOVA Pag 19 A Marghera la visita di Papa Francesco di Nadia De Lazzari L’invito del Patriarca Moraglia nel centenario della nascita dell’area industriale. “Santa Fosca non è una scelta di business” Pag 49 Il Patriarca celebra il Pontificale di Natale In Basilica a San Marco CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Il Patriarca e il fine vita: “Libertà di coscienza, medici fate obiezione” di Francesco Bottazzo La legge approvata dal Parlamento? “E’ affrettata” 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Gli appuntamenti di Natale, pranzo coi poveri a Mestre di Al.Spe.

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Pag XII Una messa e un concerto per ricordare don Franco Due anni dopo 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 3 Proprio per tutti nessuno escluso di Julian Carron La luce del Natale di Gesù in questo tempo Pag 4 “La Curia chiusa in se stessa si condanna a distruggersi” di Stefania Falasca Francesco: è per sua natura progettata “ad extra” Pag 5 Il Papa: superare la logica dei complotti Il testo integrale del discorso: “Anche nella Curia ci sono dei traditori della fiducia e degli approfittatori” Pag 25 Paolo VI santo nel 2018? Potrebbe essere a ottobre di Filippo Rizzi Medici e teologi: parere favorevole sul miracolo CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Il Papa: “Basta complotti, sono un cancro” di Gian Guido Vecchi Il discorso natalizio a cardinali e vescovi: “Un pericolo gli approfittatori della maternità della Chiesa” Pag 23 Sferzate ai riformatori e tregua con la Curia. La svolta di Francesco di Massimo Franco LA REPUBBLICA Pag 23 Gli uomini delle finanze che “tradiscono” la Curia di Paolo Rodari Gli auguri al veleno di Bergoglio Pag 23 Maradiaga, il cardinale da 35 mila euro al mese La rivelazione IL FOGLIO Pag 2 Attacco ai “traditori” e richiesta di fedeltà. Il Papa bastona la curia romana di Matteo Matzuzzi “Antenne” e mea culpa al tradizionale scambio di auguri IL GAZZETTINO Pag 7 Il Papa sferza la curia del Vaticano: “Basta complotti e consorterie” Paolo VI presto sarà proclamato santo 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Più disuguaglianza in Italia. Il sorpasso dei super-ricchi di Nicola Pini Divario sociale in aumento, nel mondo meglio l’Europa Pag 8 Tagliato il contributo di 50 milioni. La Fism: “Colpite migliaia di famiglie” di Enrico Lenzi 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III Pronto soccorso “assediato”, ora si progetta il raddoppio di Maurizio Dianese La struttura all’Angelo di Mestre è sotto pressione: in un anno 100mila persone, un terzo in più del 2008

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 2 – 3 Cantiere Venezia. Scuole, palestre, teatri e lavori per 20 milioni di Marta Artico Il Comune ha approvato decine di progetti per le manutenzioni. Attenzione per isole e periferie, ma non mancano le polemiche 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Se cresce anche il Pil sociale di Vittorio Filippi I segni del Veneto … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Così Trump ci sfida sulle tasse di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi La riforma fiscale Pag 6 Senza un piano di pace anche un gesto giusto può diventare l’opposto di Bernard-Henri Lévy Indignazione assurda ma Trump fa un calcolo politico Pag 9 Lo Stato indebitato e il potere delle banche sulla politica di Federico Fubini AVVENIRE Pag 1 Il mostro bicefalo di Fulvio Scaglione La Polonia, due Europe, un vuoto Pag 7 Però la vera vincitrice è la “disunione” di Sergio Soave IL GAZZETTINO Pag 1 La Costituzione compie 70 anni, qualche idea per rinnovarla di Carlo Nordio LA NUOVA Pag 1 Costituzione, il 22 dicembre di 70 anni fa di Mario Bertolissi Pag 1 Liberi dal male, è la pena che rieduca di Fabio Pinelli

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO Pag 7 Il Patriarca sul fine vita: “L’obiezione è legittima” di Giorgia Pradolin Per Francesco Moraglia si deve rispettare la coscienza del medico. Critiche sulla tempistica Venezia. Il patriarca di Venezia Francesco Moraglia difende l'obiezione di coscienza dei medici contro la legge recentemente approvata sul testamento biologico in Senato. «Una legge che ritengo affrettata - ha commentato ieri il patriarca - perché in sede di elaborazione parlamentare si è voluta farla entrare in una tempistica ristretta. Non si sono ascoltate alcune voci che avrebbero potuto porre in evidenza alcuni aspetti». L'occasione, ieri mattina, è stata quella degli auguri di Natale in patriarcato con i giornalisti.

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L'OBIEZIONE DI COSCIENZA - Moraglia pone la differenza tra quelle che una volta venivano raccolte come dichiarazioni di fine vita e quelle che oggi sono le disposizioni. «Credo che qui venga chiamata in causa la dignità del medico e della professione medica. La libertà di coscienza del medico, che può avere un orientamento secondo scienza e coscienza, che va rispettato». La libertà di decidere non solo di morire, ma anche di rifiutarsi a porre fine alla vita di una persona. «È un diritto avere una libertà di decisione e scelta in determinati ambiti - prosegue il patriarca - e questa legge non tiene conto della doverosa obiezione di coscienza che un soggetto può avere». Parole forti che Moraglia accompagna ad un altro messaggio: «Ritengo che l'alimentazione e l'idratazione non possano essere considerate un intervento medico ma primario, debbano proseguire finché svolgono la loro funzione». E ancora: «La proposta di legge si è voluta dipingere come una liberazione dall'accanimento terapeutico ma il confine tra accanimento e abbandono è molto difficile da determinare». Moraglia cita la costituzione italiana: «L'articolo 32 della Costituzione parla del diritto alla salute dell'uomo, non del diritto all'autodeterminazione assoluta della persona. È in gioco una visione antropologica complessiva che non c'entra con la fede». Infine: «La legge poteva pensare anche alle cure palliative, di cui fanno parte ad esempio lo psicologo, l'assistente sociale per mettere al centro il ruolo della persona». L'IMMIGRAZIONE - Anche sul tema dell'immigrazione il patriarca non fa sconti all'Italia. «Il flusso di queste persone - spiega Moraglia - è una realtà che mette in crisi l'Europa che sta dimostrando quello che non riesce ad essere sul tema dell'accoglienza e integrazione, sulla condivisione europea del problema». Un paese che si trova tra l'incudine e il martello, ma non fa sentire con forza la propria voce. «L'Italia si trova per posizione geografica e storia ad avere elaborato una cultura capace di incontro e solidarietà - riprende il patriarca - Il presepio è un po' l'immagine e il simbolo di questa cultura formata da una fede. L'Italia si trova - aggiunge Moraglia - per cultura e tradizione a fare uno sforzo immane riguardo all'immigrazione». Italia che però non esce vincitrice a livello politico internazionale, secondo il patriarca. «Credo che l'Italia dimostri anche di contare poco politicamente a livello mondiale perché non riesce ad esprimere una forza che politicamente obblighi gli altri stati a prendere posizioni di concerto su questa tematica». E il confronto con altri paesi europei «Mi chiedo se al posto dell'Italia, geograficamente, ci fossero altri paesi, se si trovasse la Germania, Francia. Non so se la gestione del flusso migratorio avrebbe lo stesso risultato e ricaduta in Europa. Non si tratta di colpevolizzare nessuno ma è una constatazione che credo debba essere fatta». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Moraglia: “Il Papa anche a Marghera” di Giorgia Pradolin “I migranti? Rifarei quello che ho fatto, malgrado le critiche. Il turismo? Occorre mediare tra il guadagno e la convivenza” Venezia. La conferma è arrivata ieri: il Papa farà visita a Venezia nel 2018. La data non è ancora stabilita ma l'intenzione del Santo padre c'è tutta e dal Vaticano hanno precisato che sarà una visita di un solo giorno, dedicata al Triveneto. La notizia è stata commentata in Patriarcato, durante l'incontro con i giornalisti per gli auguri di fine anno del patriarca Francesco Moraglia. LA VISITA - Ad agosto è stata resa nota la disponibilità del pontefice a recarsi in Serenissima e, alla richiesta di aggiornamenti da parte di Moraglia a metà novembre, la risposta è stata nuovamente positiva. Il sostituto della segreteria di Stato della Santa sede ha infatti riferito al patriarca che la visita non è stata ancora calendarizzata ma che sarà comunicata per tempo. L'ipotesi auspicata è che il pontefice possa fare una tappa anche in terraferma. «Marghera è stata una grande opportunità - ha detto il patriarca - ha segnato le varie rivoluzioni industriali, l'energia elettrica, la chimica, ma è stata anche il luogo in cui le Brigate Rosse hanno agito sul nostro territorio. Può essere un'ipotesi, ma la scelta spetta al Papa». L'EMERGENZA DI CONA - Moraglia ha ricordato i motivi che l'hanno spinto ad aprire chiese e parrocchie per ospitare i migranti un mese fa, quelli che avevano abbandonato il centro di Cona. «L'intervento è stato concertato con le autorità, si è voluto collaborare per dare aiuto alle istituzioni, al territorio e a queste persone in una situazione di emergenza. Ci sono state incomprensioni anche all'interno del mondo cattolico e

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all'esterno. Qualche malumore c'è stato ma se si prospettasse un'altra emergenza in futuro, e mi auguro di no, si rifarebbe la stessa scelta». CHIESE - Ad aprile Moraglia aveva manifestato l'intenzione di destinare alcune chiese di Venezia ad utilizzi profani non indecorosi a causa del calo demografico e dei costi di mantenimento degli edifici. «Non c'è ancora un progetto definito - ha spiegato il patriarca - dobbiamo stare attenti a chi vuole condizionare, entrare, offrirsi. Chi ha progetti con finalità diverse e difficilmente compatibili agli edifici sacri». Solo arte, cultura, catechesi e carità potranno entrare negli ex templi. Le ipotesi: «Le associazioni cooperative - ha accennato Moraglia - Una richiesta è arrivata da quella che aiuta i carcerati. E' un cammino lento che stiamo studiando. Dobbiamo pensare che da circa 180mila abitanti, quelli che aveva Venezia all'inizio degli anni 50, siamo passati a 40mila». IL TURISMO - I veneziani lamentano un turismo sempre più soffocante. «Penso non si possa coniugare il reddito esasperato con una convivenza umana cordiale e attenta - ha detto Moraglia - Bisogna fare delle scelte. Venezia non può non aprirsi al turismo però ci si chiede se l'accoglienza del flusso turistico non possa avvenire in altri modi. La città non deve essere solo distributrice di servizi, perdendo la sua cittadinanza». E riguardo all'ex canonica di Santa Fosca, diventata l'ampliamento dell'hotel Tintoretto: «La chiesa di Venezia fa accoglienza, servizio, integrazione. Abbiamo una ventina di dipendenti che lavorano per la pastorale; la chiesa deve inoltre mantenere delle mense, dormitori, intervenire sulla carità concreta delle comunità parrocchiali. Quindi abbiamo qualche affitto dato per questo scopo. Non un business per il business ma un modo di poter stare in piedi in modo equilibrato, indipendente. Ho sentito delle osservazioni a riguardo con un po' di sofferenza perché non mi ritrovo nell'immagine che è stata data della nostra chiesa, per fortuna in modo circoscritto. A volte si stigmatizza qualcosa senza avere davanti un contesto complessivo». LA NUOVA Pag 19 A Marghera la visita di Papa Francesco di Nadia De Lazzari L’invito del Patriarca Moraglia nel centenario della nascita dell’area industriale. “Santa Fosca non è una scelta di business” «Ho invitato il Papa a Marghera, uno dei luoghi simbolo della città». L'annuncio è stato dato ieri dal patriarca Francesco Moraglia nel Palazzo patriarcale dove ha incontrato i giornalisti per gli auguri di Natale. Rispondendo alle domande dei giornalisti il Patriarca ha spiegato nei dettagli la genesi della visita del Santo Padre partendo dalla visita a Trebaseleghe del segretario di Stato Cardinale Pietro Parolin che a chi gli chiedeva di invitare il Papa in Veneto aveva risposto così: «Spero che accoglierà l'invito perché il Papa non è ancora venuto in Veneto. Una visita la deve pur fare». Ieri mattina il Patriarca ha ricordato che già in agosto Parolin aveva lasciato intendere che la visita del Papa sarebbe stata probabile.«Ho parlato al cardinale Parolin alla fine di settembre, prima tra me e lui c'era già stata una telefonata che risaliva alla fine di agosto. A settembre gli ho chiesto: "Eminenza, allora viene il Papa? Noi vescovi del Triveneto siamo contenti"». Esprimendosi anche con l'espressione del volto e gesti delle mani il Patriarca ha modulato la voce del Segretario di Stato che gli ha risposto: "Guardi, ... ha fatto bene, sì, ... ho un po' parlato con i giornalisti, però, .... Sì, la cosa era un mio auspicio». Poi Moraglia ha ricordato al segretario di Stato che di lì a qualche giorno avrebbe incontrato il Papa, e lo avrebbe invitato a Venezia. Il giorno successivo il telefono di Moraglia ha squillato e dall'altro capo del filo c'era la voce del Cardinale Parolin che confermava la venuta: «Il Papa accoglie volentieri l'invito, verrà nel 2018, un giorno solo, a Venezia con apertura al Triveneto. Ora può scrivere al Papa. La cosa la gestisce il sostituto alla segreteria di Stato».E così il Patriarca - era fine settembre - a nome di tutti i vescovi ha scritto al Papa. Poi più nulla fino allo scorso 15 novembre quando in occasione della Conferenza episcopale il patriarca ha deciso di contattare il sostituto della Segreteria di Stato che gli ha risposto che la visita non era ancora stata messa a calendario ma era all'attenzione. Ieri mattina il patriarca ha concluso: «Dopo le feste di Natale mi farò vivo di nuovo; muovere il Papa non è come muovere il vice parroco di San Giovanni Battista di Jesolo e quello di San Lorenzo a Mestre. Al Cardinale Parolin qualche ipotesi l'ho fatta, ci saranno 4 o 5 eventi in zone e situazioni che hanno

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segnato nel bene e nel male la comunità civile e sociale. Ho proposto Marghera per la sua storia, per l'anniversario dei 100 anni di Porto Marghera, perché ha un significato forte per la città, il lavoro, le ferite inferte alla comunità; Marghera è stata una grande opportunità, ha segnato le varie rivoluzioni industriali, l'energia elettrica, la chimica, anche il luogo dove le brigate rosse hanno agito nel nostro territorio, poi, naturalmente lasciamo libero il Papa che farà come crede, ma io l'ho invitato». Una data ancora non è stata fissata ma il periodo più probabile, compatibile con i viaggi già organizzati, è inizio estate o autunno. In attesa dell'arrivo del Santo Padre Marghera ricorda la presenza di un altro Papa: San Giovanni Paolo II, il 16 e 17 giugno 1985. Il Patriarca era il cardinale Marco Cè, il sindaco Mario Rigo. In quell'incontro non ci fu retorica di circostanza. Il Papa incontrò gli industriali e i lavoratori delle fabbriche ormai in crisi: 13. 000 i posti di lavoro persi. Il Papa ascoltò la litania dei problemi dei tre rappresentanti sindacali. Si spazientì. Aveva un discorso scritto, strinse il foglio e parlò a braccio con calore e coraggio di rilancio legato all'anima etica. Il Patriarca Moraglia, ieri, ha anche consegnato riflessioni su temi d'attualità. Il tema del Natale. «Il presepe non è una fiaba, è una realtà. Il Natale chiede di essere accolto e di saper mettere in questione la propria umanità, il proprio modo di rapportarsi agli altri. Il Natale non è solo un simbolo, è una storia che si realizza e chiede di essere testimoniata». Il caso di Santa Fosca. «La Chiesa veneziana ha tutte le carte in regola per dire che fa accoglienza, servizio, integrazione; deve mantenere lavoratori, mense, dormitori, intervenire sulla carità concreta delle parrocchie. Abbiamo affitti dati a questo scopo. Credo non sia business per il business ma un modo per poter stare in piedi in modo equilibrato, indipendente, giusto. Non mi ritrovo nell'immagine che è stata fatta».Venezia e le chiese vuote. «Le chiese sono tesori bisogna pensare a un progetto che non rinneghi la loro realtà, luoghi dove può essere iniziato un percorso di arte, cultura, catechesi, carità. Stiamo parlando di ipotesi con associazioni e cooperative che aiutano i carcerati. Non c'è un progetto chiaro; vorrei arrivare ad una scelta condivisa con i miei parroci». Migranti e Cona. «La diocesi ha fatto un intervento di concerto con le autorità. Ci sono state incomprensioni all'interno e all'esterno ma rifarei la stessa scelta. Non si può chiudere gli occhi di fronte a una realtà drammatica che ci fa dire che una politica mondiale carente da mezzo secolo a questa parte non è stata gestita dall'Europa, dall'America e dalle potenze che avevano in mano il mondo coloniale. L'Italia si trova per storia e posizione geografica ad avere elaborato una cultura capace di incontro e solidarietà formata da una fede. Lo sforzo è immane ma l'Italia dimostra di contare poco a livello mondiale perché non riesce a esprimere una forza che obblighi politicamente gli altri Stati a prendere posizioni di concerto su questa tematica».Situazione internazionale. «Guardando i telegiornali facciamo finta di non cogliere la gravità. Nell'ambito della politica internazionale abbiamo dei soggetti che portano avanti scelte che lasciano perplessi e che ci fanno domandare: perché fanno così? Cosa c'è dietro? Abbiamo realtà che riguardano il Medioriente, il nucleare».Testamento biologico. «È stata una legge affrettata, non si sono ascoltate alcune voci e non tiene conto della doverosa libertà di coscienza che un soggetto può avere. In questa prospettiva l'alimentazione e l'idratazione non possono essere considerate un intervento medico». Pag 49 Il Patriarca celebra il Pontificale di Natale In Basilica a San Marco Numerose sono le celebrazioni liturgiche solenni e le opportunità di preghiera previste, per tutto il periodo delle festività del Natale, nella basilica cattedrale di San Marco. La sera di domenica 24 dicembre, alle 22.30, inizierà la liturgia vigiliare dell'Ufficio delle letture a cui farà seguito - alle 23 - la Santa Messa della notte di Natale presieduta dal Patriarca. La mattina di lunedì 25 dicembre, alle 10.30, si svolgerà il solenne Pontificale del giorno di Natale presieduto dal Patriarca. Nel pomeriggio dello stesso giorno, alle 17.30, Moraglia guiderà anche la celebrazione dei Vespri solenni di Natale. Si rinnovano, inoltre, due iniziative di solidarietà e vicinanza agli "ultimi".Lunedì 25 dicembre al Centro pastorale cardinal Urbani di Zelarino, si ripeterà l'esperienza del "Pranzo di Natale" offerto alle persone povere, in difficoltà o sole che frequentano le mense del territorio o

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che sono seguite e segnalate dalle parrocchie. Nel corso della mattinata alcuni bus-navetta porteranno le persone invitate e che partiranno dal centro di Mestre fino a Zelarino mentre un apposito pulmino sarà a disposizione per accompagnare quanti saranno segnalati espressamente dalle parrocchie (info 3665868986). Intorno alle 13 comincerà il "pranzo di Natale". Nelle ultime ore dell'anno torna poi il "Capodanno di gratuità", proposto della Pastorale giovanile diocesana insieme alla Caritas Veneziana e che si avvale della partecipazione di piccoli gruppi di giovani volontari disponibili a di trascorrere l'uomo giorno dell'anno e l'inizio di quello nuovo in alcuni luoghi di assistenza e di aiuto a persone in difficoltà. CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Il Patriarca e il fine vita: “Libertà di coscienza, medici fate obiezione” di Francesco Bottazzo La legge approvata dal Parlamento? “E’ affrettata” Venezia. Dio non è una fiaba, il presepe è realtà, esordisce subito il patriarca di Venezia Francesco Moraglia. «E’ necessario saper mettere in questione la propria umanità, siamo ingabbiati dai ruoli, tutta la nostra società e le nostre relazioni sono fatte gerarchicamente», precisa. Lo ripeterà più volte, con sfumature diverse nell’arco dell’ora in cui colloquia con gli organi di informazioni nel tradizionale incontro prenatalizio. Quando parla di profughi («Non si può chiudere gli occhi di fronte a questa realtà»), della situazione internazionale («Ci sono soggetti che portano avanti scelte che lasciano perplessi, e che ci fanno domandare perché fanno queste scelte, penso al Medio Oriente o al nucleare»), quando racconta di avere invitato Papa Francesco a Porto Marghera per il 2018 («Perché ha un significato forte per la città, per il lavoro, per le ferite inferte alla comunità e per la sua storia, anche nell’anniversario dei 100 anni»), ma soprattutto durante la riflessione sull’approvazione della recente legge sul biotestamento. «Inevitabilmente viene chiamato in causa il medico - dice - la dignità della professione medica, la libertà di coscienza del medico, che può aver un suo orientamento che va rispettato». Il patriarca definisce la legge «affrettata, perché in sede di elaborazione è stato deciso di non ascoltare voci che potevano porre in evidenza altri aspetti da considerare», cita la Convenzione di Oviedo del 1997 sui diritti umani e la biomedicina, in cui si affrontava anche il fine vita parlando di «dichiarazioni in cui venivano raccolti i desideri». Ma la legge approvata dal Parlamento parla di disposizioni, non di dichiarazioni, marca la differenza Moraglia. «L’alimentazione e l’idratazione non possono essere considerati un intervento medico. Alimentare e idratare una persona è sostenerla in un momento di patologia, come tenerla pulita - sottolinea -. Il confine tra accanimento e abbandono terapeutico è molto difficile da determinare. Le disposizioni anticipate provengono da soggetti che non si trovano a vivere in determinate situazioni». Riflette: «Una persona può non essere al termine della vita, ma sente il peso della vita, vive momenti forti di depressione, legge sul volto dei famigliari il peso che lui costituisce. L’abbandono terapeutico rischia di diventare una strada in cui un soggetto fragile può essere portato lentamente in modo soffice». Evidenzia l’articolo 32 della Costituzione, che parla del diritto alla salute, «non all’autodeterminazione assoluta della persona», sottolinea l’importanza delle cure palliative che potevano essere pensate, e promuove l’obiezione di coscienza: «Ha fatto crescere la cultura, pensiamo ad esempio all’obiezione del servizio militare - spiega Moraglia -. Certe utopie restano tali fino a che c’è qualcuno che ha il coraggio di incarnare determinate scelte». Come quella che il patriarca di Venezia ha fatto qualche settimana, fa decidendo di accogliere i profughi in marcia dalla base di Cona. ««Ho ricevuto lettere, mail, riflessioni che esprimevano il loro dissenso, ma oggi posso dire che rifarei quella stessa scelta per fare fronte all’emergenze - precisa -. Non abbiamo fatto una fuga in avanti, è stato un intervento concordato con le autorità. Purtroppo l’Europa e l’Occidente non sono stati capaci di gestire come avrebbe potuto fare una questione drammatica che affonda le sua radici all’epoca della caduta del sistema coloniale 50 anni fa». Moraglia affronta anche i problemi di Venezia, dal turismo di massa e l’impatto per la città («Non si può desiderare il massimo reddito e nello stesso tempo una vita serena, tranquilla e conviviale. Venezia non può non aprirsi al mondo dell’accoglienza del turismo ma ci si chiede se non possa avvenire in altri modi, perché la crescita della città non deve essere

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solo distribuire servizi perdendo l’animus della società stessa») e dell’uso delle chiese per scopi diversi dal quello del culto: «Sono scrigni d’arte, dobbiamo pensare un uso che sia un percorso di arte, cultura, educazione, al bello, alla catechesi e alla carità. Molti dei progetti che ci vengono proposti sono però difficilmente compatibili con la storia di questi edifici» . Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Gli appuntamenti di Natale, pranzo coi poveri a Mestre di Al.Spe. Mestre. Anche quest'anno, grazie alla diocesi, i poveri potranno condividere il pranzo di Natale. Rinnovando la tradizione introdotta dal patriarca Francesco Moraglia sin dal suo arrivo cinque anni fa, lunedì chi soffre una situazione di indigenza e frequenta le mense o comunque è seguito dalle parrocchie, è invitato a mangiare in compagnia al centro Card. Urbani di Mestre. Lo stesso Moraglia, di ritorno da San Marco, passerà a salutare i presenti che potranno raggiungere Zelarino accompagnati all'andata e al ritorno da un servizio navetta in partenza dal centro (info al 3665868986). Domenica alle 22.30 il patriarca guiderà in cattedrale la Veglia seguita, mezzora dopo, dalla Messa della notte di Natale. Lunedì, nel giorno della festa, presiederà il solenne pontificale, mentre alle 17.30 guiderà anche la celebrazione dei Vespri. In mezzo, appunto, raggiungerà la residenza diocesana di terraferma, in via Visinoni, per stringere la mano e portare i suoi auguri a quanti parteciperanno al pranzo. La novità di quest'anno è che per chi lo vorrà, alle 11.30 il vicario episcopale don Dino Pistolato celebrerà la Messa di Natale nella chiesa al primo piano del centro. Verso le 13, nella grande sala da pranzo vicina all'ingresso, i volontari serviranno un menù tipico per la festa. Dopo il pasto si terrà un momento di animazione e intrattenimento che si concluderà con la distribuzione di un piccolo dono utile ai presenti (ad es. guanti, berretti e sciarpe per proteggersi dal freddo). Gli scorsi anni all'iniziativa aveva preso parte un centinaio di persone (le prime edizioni si erano tenute nella chiesa di San Girolamo). Nel frattempo, la Caritas diocesana insieme alla Pastorale giovanile rinnova l'invito ai giovani anche per il Capodanno di gratuità, vale a dire l'esperienza di volontariato nella notte di San Silvestro in una dozzina di strutture di accoglienza e aiuto presenti sul territorio. A Mestre è coinvolta la mensa di Ca' Letizia in via Querini, a Marghera la mensa-dormitorio Papa Francesco, a Mira la casa per immigrati San Raffaele (dov'è in programma una cena dei popoli), e poi ci sono ancora Ca' dei Giovani a Marghera e varie altre realtà (comunità Emmaus, Ca' Emiliani, Ca' dei Bimbi, Fatima, Girasoli, Margherite, Casa famiglia mamma-bambino, Casa San Pio X alla Giudecca). A proposito di senza fissa dimora, sabato scorso si è tenuto il pranzo di Natale anche alla Casa dell'ospitalità di via Santa Maria dei Battuti, presenti l'assessore alla Coesione sociale Simone Venturini, la presidente del Consiglio comunale Ermelinda Damiano, Vanessa Vio, Dario Bindoni, Tomas Ress, Mitchell Watt in rappresentanza del Calcio Venezia femminile e della Reyer basket. Pag XII Una messa e un concerto per ricordare don Franco Due anni dopo Mestre. Una messa e un concerto per ricordare don Franco De Pieri, il parroco e presidente del Centro don Lorenzo Milani morto il 23 dicembre di due anni fa. Domani alle 18 nella chiesa del Corpus Domini del rione Pertini, di cui don Franco è stato parroco per 18 anni, sarà celebrata una messa, presieduta da don Giorgio Scatto, superiore del monastero di Marango. A seguire, un rinfresco nel salone parrocchiale, prima di spostarsi nella chiesa dei Santi Gervasio e Protasio di Carpenedo, dove alle 21 è stato organizzato un concerto di Natale in sua memoria. La Polifonica Benedetto Marcello, diretta da Alessandro Toffolo, accompagnata dall'orchestra da camera Giacomo Facco, musico veneto, presenterà il Magnificat a sei voci e organo di C. Monteverdi, la suite n. 3 Bwv 1068 e il Magnificat Bwv243 di Bach. Continuano intanto le iniziative benefiche nel

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nome di don De Pieri. Ad aprile verrà organizzata un'asta per finanziare le opere avviate da don Franco nelle favelas del Brasile. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 3 Proprio per tutti nessuno escluso di Julian Carron La luce del Natale di Gesù in questo tempo «La realtà è superiore all’idea» (Evangelii gaudium, 231). Non c’è niente che sfidi di più la ragione dell’uomo, la logica umana, che un fatto, un avvenimento reale. Pensiamo al popolo ebraico in esilio, di cui parla il profeta Isaia. L’ultima cosa che gli ebrei si sarebbero aspettati, quando tutto sembrava finito, mentre erano in mezzo al nulla, era qualcuno che sfidasse le sconfitte che avevano subito e la misura con cui giudicavano. Tanto è vero che avevano cominciato ad abituarsi alla situazione in cui si erano venuti a trovare. Eppure in mezzo al deserto risuona una voce: «Io sono il Signore» (Is 41,13ss), una voce che pronuncia parole che nessuno avrebbe il coraggio di dire, tanto sono lontane dalla logica umana: «Non temere». Possibile?! Come si può non temere quando si è sperduti in mezzo al nulla, nell’esilio? Si tratta della stessa reazione che abbiamo anche noi davanti alle sfide attuali: ci assale la paura, ci viene da innalzare muri per proteggerci; cerchiamo sicurezza in qualcosa di costruito da noi, ragionando secondo una logica puramente umana, esattamente quella che viene provocata costantemente da Dio: «Io sono il Signore, non temere!». Davanti ai nostri occhi appare tutta la Sua diversità. Infatti quel «non temere!» è la cosa meno creduta oggi, la meno credibile anche per noi; davanti a tutto quello che sta accadendo nel mondo, chi può dire di non avere paura? «Io sono il Signore, non temere». La nostra ragione e la nostra libertà sono provocate da questa promessa, come capitò al popolo in esilio. Anche noi siamo come un «vermiciattolo di Giacobbe, larva d’Israele», ci sentiamo così piccoli davanti all’enormità dei problemi. Siamo disponibili a dare credito all’annuncio della liberazione che risuona per noi oggi? «Non temere, io ti vengo in aiuto». Commentando queste parole, papa Francesco ha detto: «Il Natale ci aiuta a capire questo: in quella mangiatoia […] è Dio grande che ha la forza di tutto, ma si rimpicciolisce per farci vicino e lì ci aiuta, ci promette delle cose» (Omelia Santa Marta, 14 dicembre 2017). C’è qualcosa di più sconvolgente per le nostre misure? Sempre il Signore ci spiazza, perché ha uno sguardo diverso, vero, sul reale, capace di cogliere dati che noi non vediamo. Se accettiamo la sfida, noi che siamo così miseri potremo riconoscere la risposta al nostro grido: «Io, il Signore, risponderò loro, io, Dio d’Israele, non li abbandonerò». Chi confida in Lui, chi si abbandona al disegno di un Altro vede il compiersi della promessa: «Farò scaturire fiumi su brulle colline». Non è forse questo che ci stupisce di certi incontri? Mentre alcuni sono sempre più impauriti, sempre più ripiegati su se stessi, sempre più chiusi, sempre più scoraggiati, altri fioriscono e testimoniano un modo diverso, positivo, di vivere le cose solite. Come è possibile che taluni risplendano di vita e altri trovino in ogni circostanza solo una conferma del loro scetticismo? Perché tutto passa attraverso la sottile lama della libertà. «Cambierò il deserto in un lago d’acqua, la terra arida in zona di sorgenti»: se assecondiamo il richiamo del Signore, potremo vedere fiorire la vita in questa terra arida, in questa nostra situazione storica – non in un’altra, in questa. «Nel deserto pianterò cedri, acacie, mirti e ulivi; nella steppa porrò cipressi, olmi e abeti». Chi si affida a questa promessa comincerà a guadagnare la vita vivendo. Eppure spesso si insinua in noi la domanda: il Signore non potrebbe risparmiarci tante circostanze sfavorevoli con cui dobbiamo confrontarci? Non ci rendiamo conto che certe situazioni sono il frutto di un uso sbagliato della nostra libertà; Israele non si era fidato del Signore, non aveva creduto alla Sua parola e aveva preferito allearsi con le potenze dell’epoca, finendo in esilio. Chi invece si affida comincia a vedere i segni del Signore in azione: Dio opera nella storia «perché vedano e sappiano, considerino e comprendano […] che questo ha fatto la mano del Signore, lo ha creato il Santo d’Israele». Chi non si affida non vedrà, perché il mondo sarà sempre pieno di contraddizioni che spaventano, ma in chi accoglie Gesù la vita comincia a risplendere. Chi Lo riconosce comincia a

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vedere i germogli di una vita che fiorisce. Occorre essere semplici, come dice Gesù che viene nel Natale: «Fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11). Da duemila anni l’annuncio della salvezza, tanto impensabile dall’uomo quanto reale, è per ciascuno. È alla portata di tutti, nessuno escluso. Pag 4 “La Curia chiusa in se stessa si condanna a distruggersi” di Stefania Falasca Francesco: è per sua natura progettata “ad extra” Roma. Se la Curia si chiude in se stessa non solo tradisce l’obiettivo della sua esistenza, si condanna all’autodistruzione. È il quinto anno di lavoro sulle riforme e nel suo quinto discorso per gli auguri natalizi ai collaboratori della Curia Romana Francesco chiede che si superino le logiche dei complotti e delle cerchie autoreferenziali che oscurano la natura della Curia «progettata ad extra, in quanto legata all’universalità del ministero petrino, al servizio della Parola e dell’annuncio della Buona Novella», e non manca di criticare i «traditori di fiducia» o degli «approfittatori della maternità della Chiesa», cioè quelle «persone selezionate» per dare un maggior vigore al corpo e alla riforma, ma che invece «si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria». Dopo che nei precedenti incontri natalizi aveva rivolto lo sguardo all’interno e avendo a modello i Padri del deserto si era prima soffermato su alcune “malattie” della Curia, poi su una sorta di catalogo delle virtù necessarie a chi vi presta servizio e nel discorso del 2016 su come anche nella Curia il semper reformanda deve trasformarsi in una personale e strutturale conversione permanente, è ora sul sensus Curiae, sulla realtà della Curia ad extra, ossia il rapporto della Curia con il mondo esterno, con le nazioni, con le Chiese particolari, con le Chiese orientali, con il dialogo ecumenico, con l’ebraismo, con l’islam e le altre confessioni che il Papa quest’anno vuole far soffermare l’attenzione, sottolineando che le sue riflessioni si basano certamente sui principi basilari e canonici della Curia, sulla stessa storia della Curia, ma anche sulla «visione personale che ho cercato di condividere con voi nei discorsi degli ultimi anni, nel contesto dell’attuale riforma in corso». Ad bonum totius corporis Francesco spiega che l’universalità del servizio della Curia proviene e scaturisce dalla cattolicità del ministero petrino ed è pensando a questa finalità ministeriale, petrina e curiale, ossia di servizio, ha fatto ricorso all’espressione di un “primato diaconale”, secondo l’immagine di san Gregorio Magno del Servus servorum Dei, espressione della ferma volontà di imitare Cristo, il quale assunse la forma di servo. Per l’operato della Curia ad extra, Francesco parla quindi degli aspetti legati al “primato diaconale”, dei “sensi costituzionali” e delle «fedeli antenne emittenti e riceventi » che la Curia proiettata nella missione operando in maniera conforme alla sua natura e alla sua finalità in comunione con il Papa deve avere. «I sensi ci aiutano a cogliere il reale e ugualmente a collocarci nel reale – afferma il Papa –. Questo è molto importante per superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano - nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni - un cancro che porta all’autoreferenzialità, che si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, e in particolare nelle persone che vi operano». Poi riprende con parole forti il «pericolo» costituito dai «traditori di fiducia» o dagli «approfittatori della maternità della Chiesa» additando quelle «persone che vengono selezionate accuratamente per dare un maggior vigore al corpo e alla riforma, ma - non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità - si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e quando vengono delicatamente allontanate si auto-dichiarano erroneamente martiri del sistema, del “Papa non informato”, della “vecchia guardia” … invece di recitare il mea culpa. «Accanto a queste persone – afferma ancora Francesco – ve ne sono poi altre che ancora vi operano, a cui si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene. Questo certamente senza dimenticare la stragrande parte di persone fedeli che vi lavorano con lodevole impegno, fedeltà, competenza, dedizione e anche tanta santità». La Curia deve funzionare come un’antenna e deve cogliere le istanze, le domande, le richieste, le grida, le gioie e le lacrime delle Chiese e del mondo in modo da trasmetterle al vescovo di Roma. Così gli ambiti di lavoro a partire da quello del rapporto con le nazioni dove ribadisce, dopo aver citato la neonata terza sezione della Segreteria di Stato, che l’unico interesse della

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diplomazia vaticana è quello di essere libera da qualsiasi interesse mondano o materiale, e che la Santa Sede quindi è presente sulla scena mondiale per collaborare con tutte le persone e le nazioni di buona volontà e per ribadire sempre l’importanza di custodire la “nostra casa comune” da ogni egoismo distruttivo; per affermare che le guerre portano solo morte e distruzione; per attingere dal passato i necessari insegnamenti che ci aiutano a vivere meglio il presente, a costruire solidamente il futuro e a salvaguardarlo per le nuove generazioni». Per il rapporto che lega la Curia romana alle diocesi il Papa ricorda che è basato «sulla collaborazione, sulla fiducia e mai sulla superiorità o sull’avversità». Si sofferma poi sui rapporti con le Chiese orientali e insiste sul dialogo ecumenico che «è un cammino irreversibile e non in retromarcia». Un cammino dal basso iniziando a camminare insieme servendo gli ultimi. «La Curia opera in questo campo per favorire l’incontro con il fratello, per sciogliere i nodi delle incomprensioni e delle ostilità, e per contrastare i pregiudizi e la paura dell’altro». Infine il rapporto della Curia con l’ebraismo, l’islam e le altre confessioni, centrato su un dialogo costruito su tre orientamenti: «Il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni». Chi «è differente da me, culturalmente o religiosamente, non va visto e trattato come un nemico, ma accolto come un compagno di strada». Gli incontri avvenuti con le autorità religiose nei diversi viaggi apostolici e negli incontri in Vaticano, ne sono la concreta prova. Al termine della panoramica sull’operato della Curia ad extrala conclusione è sulla fede affermando «che una fede che non ci interroga è una fede sulla quale dobbiamo interrogarci» e cita il mistico tedesco del Seicento, Angelo Silesio, che nel suo Il Pellegrino Cherubico scrisse: “Dipende solo da te”. Pag 5 Il Papa: superare la logica dei complotti Il testo integrale del discorso: “Anche nella Curia ci sono dei traditori della fiducia e degli approfittatori” Cari fratelli e sorelle, Il Natale è la festa della fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo per ridonare all’uomo la sua dignità filiale, perduta a causa del peccato e della disobbedienza. Il Natale è la festa della fede nei cuori che si trasformano in mangiatoia per ricevere Lui, nelle anime che permettono a Dio di far germogliare dal tronco della loro povertà il virgulto di speranza, di carità e di fede. Quella di oggi è una nuova occasione per scambiarci gli auguri natalizi e auspicare per tutti voi, per i vostri collaboratori, per i Rappresentanti pontifici, per tutte le persone che prestano servizio nella Curia e per tutti i vostri cari un santo e gioioso Natale e un felice Anno Nuovo. Che questo Natale ci apra gli occhi per abbandonare il superfluo, il falso, il malizioso e il finto, e per vedere l’essenziale, il vero, il buono e l’autentico. Tanti auguri davvero! Cari fratelli, avendo parlato in precedenza della Curia romana ad intra, desidero quest’anno condividere con voi alcune riflessioni sulla realtà della Curia ad extra, ossia il rapporto della Curia con le Nazioni, con le Chiese particolari, con le Chiese Orientali, con il dialogo ecumenico, con l’ebraismo, con l’Islam e le altre religioni, cioè con il mondo esterno. Le mie riflessioni si basano certamente sui principi basilari e canonici della Curia, sulla stessa storia della Curia, ma anche sulla visione personale che ho cercato di condividere con voi nei discorsi degli ultimi anni, nel contesto dell’attuale riforma in corso. E parlando della riforma mi viene in mente l’espressione simpatica e significativa di Mons. Frédéric-François-Xavier De Mérode: «Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti»1. Ciò evidenzia quanta pazienza, dedizione e delicatezza occorrano per raggiungere tale obbiettivo, in quanto la Curia è un’istituzione antica, complessa, venerabile, composta da uomini provenienti da diverse culture, lingue e costruzioni mentali e che, strutturalmente e da sempre, è legata alla funzione primaziale del Vescovo di Roma nella Chiesa, ossia all’ufficio “sacro” voluto dallo stesso Cristo Signore per il bene dell’intero corpo della Chiesa, (ad bonum totius corporis)2. L’universalità del servizio della Curia, dunque, proviene e scaturisce dalla cattolicità del Ministero petrino. Una Curia chiusa in sé stessa tradirebbe l’obbiettivo della sua esistenza e cadrebbe nell’autoreferenzialità, condannandosi all’autodistruzione. La Curia,

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ex natura, è progettata ad extra in quanto e finché legata al Ministero petrino, al servizio della Parola e dell’annuncio della Buona Novella: il Dio Emmanuele, che nasce tra gli uomini, che si fa uomo per mostrare a ogni uomo la sua vicinanza viscerale, il suo amore senza limiti e il suo desiderio divino che tutti gli uomini siano salvi e arrivino a godere della beatitudine celeste (cfr. 1 Tm 2, 4); il Dio che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi (cfr. Mt 5, 45); il Dio che non è venuto per essere servito ma per servire (cfr. Mt 20, 28); il Dio che ha costituito la Chiesa per essere nel mondo, ma non del mondo, e per essere strumento di salvezza e di servizio. Proprio pensando a questa finalità ministeriale, petrina e curiale, ossia di servizio, salutando di recente i Padri e Capi delle Chiese Orientali Cattoliche3, ho fatto ricorso all’espressione di un “primato diaconale”, rimandando subito all’immagine diletta di San Gregorio Magno del Servus servorum Dei. Questa definizione, nella sua dimensione cristologica, è anzitutto espressione della ferma volontà di imitare Cristo, il quale assunse la forma di servo (cfr. Fil 2, 7). Benedetto XVI, quando ne parlò, disse che sulle labbra di Gregorio questa frase non era «una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi»4. Analogo atteggiamento diaconale deve caratterizzare anche quanti, a vario titolo, operano nell’ambito della Curia romana la quale, come ricorda anche il Codice di Diritto Canonico, agendo nel nome e con l’autorità del Sommo Pontefice, «adempie alla propria funzione per il bene e al servizio delle Chiese» (can. 360; cfr. CCEO can. 46). Primato diaconale “relativo al Papa”5; e altrettanto diaconale, di conseguenza, è il lavoro che si svolge all’interno della Curia romana ad intra e all’esterno ad extra. Questo tema della diaconia ministeriale e curiale mi riporta a un antico testo presente nella Didascalia Apostolorum, dove si afferma: il «diacono sia l’orecchio e la bocca del Vescovo, il suo cuore e la sua anima»6, poiché a questa concordia è legata la comunione, l’armonia e la pace nella Chiesa, in quanto il diacono è il custode del servizio nella Chiesa7. Non credo sia per caso che l’orecchio è l’organo dell’udito ma anche dell’equilibrio; e la bocca l’organo dell’assaporare e del parlare. Un altro antico testo aggiunge che i diaconi sono chiamati a essere come gli occhi del Vescovo8. L’occhio guarda per trasmettere le immagini alla mente, aiutandola a prendere le decisioni e a dirigere per il bene di tutto il corpo. La relazione che da queste immagini si può dedurre è quella di comunione di filiale obbedienza per il servizio al popolo santo di Dio. Non c’è dubbio, poi, che tale dev’essere anche quella che esiste tra tutti quanti operano nella Curia romana, dai Capi Dicastero e Superiori agli ufficiali e a tutti. La comunione con Pietro rafforza e rinvigorisce la comunione tra tutti i membri. Da questo punto di vista, il richiamo ai sensi dell’organismo umano aiuta ad avere il senso dell’estroversione, dell’attenzione a quello che c’è fuori. Nell’organismo umano, infatti, i sensi sono il nostro primo legame con il mondo ad extra, sono come un ponte verso di esso; sono la nostra possibilità di relazionarci. I sensi ci aiutano a cogliere il reale e ugualmente a collocarci nel reale. Non a caso Sant’Ignazio di Loyola ha fatto ricorso ai sensi nella contemplazione dei Misteri di Cristo e della verità9. Questo è molto importante per superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano — nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni — un cancro che porta all’autoreferenzialità, che si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, e in particolare nelle persone che vi operano. Quando questo avviene, però, si perde la gioia del Vangelo, la gioia di comunicare il Cristo e di essere in comunione con Lui; si perde la generosità della nostra consacrazione (cfr. At 20, 35 e 2 Cor 9, 7). Permettetemi qui di spendere due parole su un altro pericolo, ossia quello dei traditori di fiducia o degli approfittatori della maternità della Chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma, ma — non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità — si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si auto-dichiarano erroneamente martiri del sistema, del “Papa non informato”, della “vecchia guardia”..., invece di recitare il “mea culpa”. Accanto a queste persone ve ne sono poi altre che ancora operano nella Curia, alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un’opportunità per

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convertirsi e non per approfittarsene. Questo certamente senza dimenticare la stragrande maggioranza di persone fedeli che vi lavorano con lodevole impegno, fedeltà, competenza, dedizione e anche tanta santità. È opportuno, allora, tornando all’immagine del corpo, evidenziare che questi “sensi istituzionali”, cui potremmo in qualche modo paragonare i Dicasteri della Curia romana, devono operare in maniera conforme alla loro natura e alla loro finalità: nel nome e con l’autorità del Sommo Pontefice e sempre per il bene e al servizio delle Chiese10. Essi sono chiamati ad essere nella Chiesa come delle fedeli antenne sensibili: emittenti e riceventi. Antenne emittenti in quanto abilitate a trasmettere fedelmente la volontà del Papa e dei Superiori. La parola “fedeltà”11 per quanti operano presso la Santa Sede «assume un carattere particolare, dal momento che essi pongono al servizio del Successore di Pietro buona parte delle proprie energie, del proprio tempo e del proprio ministero quotidiano. Si tratta di una grave responsabilità, ma anche di un dono speciale, che con il passare del tempo va sviluppando un legame affettivo con il Papa, di interiore confidenza, un naturale idem sentire, che è ben espresso proprio dalla parola “fedeltà”»12. L’immagine dell’antenna rimanda altresì all’altro movimento, quello inverso, ossia del ricevente. Si tratta di cogliere le istanze, le domande, le richieste, le grida, le gioie e le lacrime delle Chiese e del mondo in modo da trasmetterle al Vescovo di Roma al fine di permettergli di svolgere più efficacemente il suo compito e la sua missione di «principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione»13. Con tale recettività, che è più importante dell’aspetto precettivo, i Dicasteri della Curia romana entrano generosamente in quel processo di ascolto e di sinodalità di cui ho già parlato14. Cari fratelli e sorelle, ho fatto ricorso all’espressione “primato diaconale”, all’immagine del corpo, dei sensi e dell’antenna per spiegare che proprio per raggiungere gli spazi dove lo Spirito parla alle Chiese (cioè la storia) e per realizzare lo scopo dell’operare (la salus animarum) risulta necessario, anzi indispensabile, praticare il discernimento dei segni dei tempi15, la comunione nel servizio, la carità nella verità, la docilità allo Spirito e l’obbedienza fiduciosa ai Superiori. Forse è utile qui ricordare che gli stessi nomi dei diversi Dicasteri e degli Uffici della Curia romana lasciano intendere quali siano le realtà a favore delle quali debbono operare. Si tratta, a ben vedere, di azioni fondamentali e importanti per tutta la Chiesa e direi per il mondo intero. Essendo l’operato della Curia davvero molto ampio, mi limiterei questa volta a parlarvi genericamente della Curia ad extra, cioè di alcuni aspetti fondamentali, selezionati, a partire dai quali non sarà difficile, nel prossimo futuro, elencare e approfondire gli altri campi dell’operato della Curia. La Curia e il rapporto con le Nazioni In questo campo gioca un ruolo fondamentale la Diplomazia Vaticana, che è la ricerca sincera e costante di rendere la Santa Sede un costruttore di ponti, di pace e di dialogo tra le Nazioni. Ed essendo una Diplomazia al servizio dell’umanità e dell’uomo, della mano tesa e della porta aperta, essa si impegna nell’ascoltare, nel comprendere, nell’aiutare, nel sollevare e nell’intervenire prontamente e rispettosamente in qualsiasi situazione per avvicinare le distanze e per intessere la fiducia. L’unico interesse della Diplomazia Vaticana è quello di essere libera da qualsiasi interesse mondano o materiale. La Santa Sede quindi è presente sulla scena mondiale per collaborare con tutte le persone e le Nazioni di buona volontà e per ribadire sempre l’importanza di custodire la nostra casa comune da ogni egoismo distruttivo; per affermare che le guerre portano solo morte e distruzione; per attingere dal passato i necessari insegnamenti che ci aiutano a vivere meglio il presente, a costruire solidamente il futuro e a salvaguardarlo per le nuove generazioni. Gli incontri con i Capi delle Nazioni e con le diverse Delegazioni, insieme ai Viaggi Apostolici, ne sono il mezzo e l’obbiettivo. Ecco perché è stata costituita la Terza Sezione della Segreteria di Stato, con la finalità di dimostrare l’attenzione e la vicinanza del Papa e dei Superiori della Segreteria di Stato al personale di ruolo diplomatico e anche ai religiosi e alle religiose, ai laici e alle laiche che

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prestano lavoro nelle Rappresentanze Pontificie. Una Sezione che si occupa delle questioni attinenti alle persone che lavorano nel servizio diplomatico della Santa Sede o che vi si preparano, in stretta collaborazione con la Sezione per gli Affari Generali e con la Sezione per i Rapporti con gli Stati16. Questa particolare attenzione si basa sulla duplice dimensione del servizio del personale diplomatico di ruolo: pastori e diplomatici, al servizio delle Chiese particolari e delle Nazioni ove operano. La Curia e le Chiese particolari Il rapporto che lega la Curia alle Diocesi e alle Eparchie è di primaria importanza. Esse trovano nella Curia Romana il sostegno e il supporto necessario di cui possono avere bisogno. È un rapporto che si basa sulla collaborazione, sulla fiducia e mai sulla superiorità o sull’avversità. La fonte di questo rapporto è nel Decreto conciliare sul ministero pastorale dei Vescovi, dove più ampiamente si spiega che quello della Curia è un lavoro svolto «a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori»17. La Curia romana, dunque, ha come suo punto di riferimento non soltanto il Vescovo di Roma, da cui attinge autorità, ma pure le Chiese particolari e i loro Pastori nel mondo intero, per il cui bene opera e agisce. A questa caratteristica di «servizio al Papa e ai Vescovi, alla Chiesa universale, alle Chiese particolari» e al mondo intero, ho fatto richiamo nel primo di questi nostri annuali incontri, quando sottolineai che «nella Curia romana si apprende, “si respira” in modo speciale questa duplice dimensione della Chiesa, questa compenetrazione tra l’universale e il particolare»; e aggiunsi: «Penso che sia una delle esperienze più belle di chi vive e lavora a Roma»18. Le visite ad limina Apostolorum, in questo senso, rappresentano una grande opportunità di incontro, di dialogo e reciproco arricchimento. Ecco perché ho preferito, incontrando i Vescovi, avere un dialogo di reciproco ascolto, libero, riservato, sincero che va oltre gli schemi protocollari e l’abituale scambio di discorsi e di raccomandazioni. È importante anche il dialogo tra i Vescovi e i diversi Dicasteri. Quest’anno, riprendendo le visite ad limina, dopo l’anno del Giubileo, i Vescovi mi hanno confidato che sono stati ben accolti e ascoltati da tutti i Dicasteri. Questo mi rallegra tanto, e ringrazio i Capi Dicastero qui presenti.. Permettetemi anche qui, in questo particolare momento della vita della Chiesa, di richiamare la nostra attenzione alla prossima XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, convocata sul tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». Chiamare la Curia, i Vescovi e tutta la Chiesa a portare una speciale attenzione alle persone dei giovani, non vuol dire guardare soltanto a loro, ma anche mettere a fuoco un tema nodale per un complesso di relazioni e di urgenze: i rapporti intergenerazionali, la famiglia, gli ambiti della pastorale, la vita sociale... Lo annuncia chiaramente il Documento preparatorio nella sua introduzione: «La Chiesa ha deciso di interrogarsi su come accompagnare i giovani a riconoscere e accogliere la chiamata all’amore e alla vita in pienezza, e anche di chiedere ai giovani stessi di aiutarla a identificare le modalità oggi più efficaci per annunciare la Buona Notizia. Attraverso i giovani, la Chiesa potrà percepire la voce del Signore che risuona anche oggi. Come un tempo Samuele (cfr. 1 Sam 3, 1-21) e Geremia (cfr. Ger 1, 4-10), anche oggi ci sono giovani che sanno scorgere quei segni del nostro tempo che lo Spirito addita. Ascoltando le loro aspirazioni possiamo intravedere il mondo di domani che ci viene incontro e le vie che la Chiesa è chiamata a percorrere»19. La Curia e le Chiese Orientali L’unità e la comunione che dominano il rapporto della Chiesa di Roma e le Chiese Orientali rappresentano un concreto esempio di ricchezza nella diversità per tutta la Chiesa. Esse, nella fedeltà alle proprie Tradizioni bimillenarie e nella ecclesiastica communio, sperimentano e realizzano la preghiera sacerdotale di Cristo (cfr. Gv 17)20. In questo senso, nell’ultimo incontro con i Patriarchi e gli Arcivescovi Maggiori delle Chiese Orientali, parlando del “primato diaconale”, ho evidenziato anche l’importanza di approfondire e di revisionare la delicata questione dell’elezione dei nuovi Vescovi ed Eparchi che deve corrispondere, da una parte, all’autonomia delle Chiese Orientali e, allo stesso tempo, allo spirito di responsabilità evangelica e al desiderio di rafforzare sempre di più l’unità con la Chiesa Cattolica. «Il tutto, nella più convinta applicazione di quella autentica prassi sinodale, che è distintiva delle Chiese d’Oriente»21. L’elezione di ogni

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Vescovo deve rispecchiare e rafforzare l’unità e la comunione tra il Successori di Pietro e tutto il collegio episcopale22. Il rapporto tra Roma e l’Oriente è di reciproco arricchimento spirituale e liturgico. In realtà, la Chiesa di Roma non sarebbe davvero cattolica senza le inestimabili ricchezze delle Chiese Orientali e senza la testimonianza eroica di tanti nostri fratelli e sorelle orientali che purificano la Chiesa accettando il martirio e offrendo la loro vita per non negare Cristo23. La Curia e il dialogo ecumenico Ci sono pure degli spazi nei quali la Chiesa Cattolica, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, è particolarmente impegnata. Fra questi l’unità dei cristiani che «è un’esigenza essenziale della nostra fede, un’esigenza che sgorga dall’intimo del nostro essere credenti in Gesù Cristo»24. Si tratta sì di un “cammino” ma, come più volte è stato ripetuto anche dai miei Predecessori, è un cammino irreversibile e non in retromarcia. «L’unità si fa camminando, per ricordare che quando camminiamo insieme, cioè ci incontriamo come fratelli, preghiamo insieme, collaboriamo insieme nell’annuncio del Vangelo e nel servizio agli ultimi siamo già uniti. Tutte le divergenze teologiche ed ecclesiologiche che ancora dividono i cristiani saranno superate soltanto lungo questa via, senza che noi sappiamo come e quando, ma ciò avverrà secondo quello che lo Spirito Santo vorrà suggerire per il bene della Chiesa»25. La Curia opera in questo campo per favorire l’incontro con il fratello, per sciogliere i nodi delle incomprensioni e delle ostilità, e per contrastare i pregiudizi e la paura dell’altro che hanno impedito di vedere la ricchezza della e nella diversità e la profondità del Mistero di Cristo e della Chiesa che resta sempre più grande di qualsiasi espressione umana. Gli incontri avvenuti con i Papi, i Patriarchi e i Capi delle diverse Chiese e Comunità mi hanno sempre riempito di gioia e di gratitudine. La Curia e l’Ebraismo, l’Islam, le altre religioni Il rapporto della Curia Romana con le altre religioni si basa sull’insegnamento del Concilio Vaticano II e sulla necessità del dialogo. «Perché l’unica alternativa alla civiltà dell’incontro è l’inciviltà dello scontro»26. Il dialogo è costruito su tre orientamenti fondamentali: «il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni. Il dovere dell’identità, perché non si può imbastire un dialogo vero sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l’altro; il coraggio dell’alterità, perché chi è differente da me, culturalmente o religiosamente, non va visto e trattato come un nemico, ma accolto come un compagno di strada, nella genuina convinzione che il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti; la sincerità delle intenzioni, perché il dialogo, in quanto espressione autentica dell’umano, non è una strategia per realizzare secondi fini, ma una via di verità, che merita di essere pazientemente intrapresa per trasformare la competizione in collaborazione»27. Gli incontri avvenuti con le autorità religiose, nei diversi viaggi apostolici e negli incontri in Vaticano, ne sono la concreta prova. Questi sono soltanto alcuni aspetti, importanti ma non esaurienti, dell’operato della Curia ad extra. Oggi ho scelto questi aspetti legati al tema del “primato diaconale”, dei “sensi istituzionali” e delle “fedeli antenne emittenti e riceventi”. Cari fratelli e sorelle, come ho iniziato questo nostro incontro parlando del Natale come festa della fede, vorrei concluderlo evidenziando che il Natale ci ricorda però che una fede che non ci mette in crisi è una fede in crisi; una fede che non ci fa crescere è una fede che deve crescere; una fede che non ci interroga è una fede sulla quale dobbiamo interrogarci; una fede che non ci anima è una fede che deve essere animata; una fede che non ci sconvolge è una fede che deve essere sconvolta. In realtà, una fede soltanto intellettuale o tiepida è solo una proposta di fede, che potrebbe realizzarsi quando arriverà a coinvolgere il cuore, l’anima, lo spirito e tutto il nostro essere, quando si permette a Dio di nascere e rinascere nella mangiatoia del cuore, quando permettiamo alla stella di Betlemme di guidarci verso il luogo dove giace il Figlio di Dio, non tra i re e il lusso, ma tra i poveri e gli umili. Angelo Silesio, nel suo Il Pellegrino cherubico, scrisse: «Dipende solo da te: Ah, potesse il tuo cuore diventare una mangiatoia! Dio nascerebbe bambino di nuovo sulla terra»28. Con queste riflessioni rinnovo i miei più fervidi auguri natalizi a voi e a tutti i vostri cari.

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Grazie! 1 Cfr. Giuseppe Dalla Torre, Sopra una storia della Gendarmeria Pontificia, 19 ottobre 2017. 2 «Per pascere e accrescere sempre più il popolo di Dio ha istituito nella sua Chiesa vari ministeri che tendono al bene di tutto il corpo» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 18). 3 Cfr. Saluto ai Patriarchi e agli Arcivescovi Maggiori, 9 ottobre 2017. 4 Catechesi nell’Udienza generale del 4 giugno 2008. 5 Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso alla riunione plenaria del Sacro Collegio dei Cardinali, 21 novembre 1985, 4. 6 Didascalia Apostolorum 2, 44: Funk, 138-166; cfr. W. Rordorf, Liturgie et eschatologie, in Augustinianum 18 (1978), 153-161; ID., Que savons-nous des lieux de culte chrétiens de l’époque préconstantinienne? in L’Orient Syrien 9 (1964), 39-60. 7 Cfr. Incontro con i sacerdoti e i consacrati, Duomo di Milano, 25 marzo 2017. 8 «Quanto ai diaconi della Chiesa, siano come gli occhi del vescovo, che sanno vedere tutto attorno, investigando le azioni di ciascuno della Chiesa, nel caso che qualcuno stia sul punto di peccare: in questo modo, prevenuto dall’avvertimento di chi presiede, forse non porterà a termine il [suo] peccato» (Lettera di Clemente a Giacomo, 12: Rehm 14-15, in I Ministeri nella Chiesa Antica, Testi patristici dei primi tre secoli a cura di Enrico Cattaneo, Edizioni Paoline, 1997, p. 696). 9 Cfr. Esercizi Spirituali, n. 121: «La quinta contemplazione sarà applicare i cinque sensi sulla prima e la seconda contemplazione». 10 Nel commento al Vangelo secondo Matteo di San Girolamo si registra un curioso paragone tra i cinque sensi dell’organismo umano e le vergini della parabola evangelica, che diventano stolte quando non agiscono più secondo il fine loro assegnato (cfr. Comm. in Mt XXV: PL 26, 184). 11 Il concetto della fedeltà risulta molto impegnativo ed eloquente perché sottolinea anche la durata nel tempo dell’impegno assunto, rimanda ad una virtù che, come disse Benedetto XVI, «esprime il legame tutto particolare che si stabilisce tra il Papa e i suoi diretti collaboratori, tanto nella Curia Romana come nelle Rappresentanze Pontificie». Discorso alla Comunità della Pontificia Accademia Ecclesiastica, 11 giugno 2012. 12 Ibid. 13 Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 18. 14 «Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2, 7)» Discorso nel 50° anniversario del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015. 15 Cfr. Lc 12, 54-59; Mt 16, 1-4; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 11: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane». 16 Cfr. Lettera Pontificia, il 18 ottobre 2017; Comunicato della Segreteria di Stato, il 21 novembre 2017. 17 Christus Dominus, 9. 18 Discorso alla Curia romana, 21 dicembre 2013; cfr. Paolo VI, Omelia per l’80° compleanno, 16 ottobre 1977: «Sì, Roma ho amato, nel continuo assillo di meditarne e di comprenderne il trascendente segreto, incapace certamente di penetrarlo e di viverlo, ma appassionato sempre, come ancora lo sono, di scoprire come e perché “Cristo è Romano” (cfr. Dante, Div. Comm., Purg., XXXII, 102) […] la vostra “coscienza romana” abbia essa all’origine la nativa cittadinanza di questa Urbe fatidica, ovvero la permanenza di domicilio o l’ospitalità ivi goduta; “coscienza romana” che qui essa ha virtù d’infondere a chi sappia respirarne il senso d’universale umanesimo» (Insegnamenti di Paolo VI, XV 1977, 1957).

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19 Sinodo dei Vescovi - Assemblea Generale Ordinaria XV, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, Introduzione. 20 Da una parte, l’unità che risponde al dono dello Spirito, trova naturale e piena espressione nell’«unione indefettibile con il Vescovo di Roma» (Benedetto XVI, Esort. ap. post-sin. Ecclesia in Medio Oriente, 40). E dall’altra parte, l’essere inseriti nella comunione dell’intero Corpo di Cristo ci rende consapevoli di dover rafforzare l’unione e la solidarietà in seno ai vari Sinodi patriarcali, «privilegiando sempre la concertazione su questioni di grande importanza per la Chiesa in vista di un’azione collegiale e unitaria» (ibid.) . 21 Parole ai Patriarchi delle Chiese Orientali e agli Arcivescovi Maggiori, 21 novembre 2013. 22 Insieme ai Capi e Padri, agli Arcivescovi e ai Vescovi orientali, in comunione con il Papa, con la Curia e tra di loro, siamo tutti chiamati «a ricercare sempre “la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza e la mitezza” (cfr. 1 Tm 6, 11); [ad adottare] uno stile di vita sobrio a immagine di Cristo, che si è spogliato per arricchirci con la sua povertà (cfr. 2 Cor 8, 9) […] [alla] trasparenza nella gestione dei beni e sollecitudine verso ogni debolezza e necessità» (Parole ai Patriarchi delle Chiese Orientali cattoliche e agli Arcivescovi Maggiori, 21 novembre 2013). 23 Noi «vediamo tanti nostri fratelli e sorelle cristiani delle Chiese orientali sperimentare persecuzioni drammatiche e una diaspora sempre più inquietante» (Omelia in occasione del centenario della Congregazione per le Chiese Orientali e del Pontificio Istituto Orientale, Basilica di Santa Maria Maggiore, 12 ottobre 2017). «Su queste situazioni nessuno può chiudere gli occhi» (Messaggio nel centenario di fondazione del Pontificio Istituto Orientale, 12 ottobre 2017). 24 Discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, 10 novembre 2016 . 25 Ibid. 26 Discorso ai partecipanti alla Conferenza Internazionale per la Pace, Al-Azhar Conference Centre, Il Cairo, 28 aprile 2017. 27 Ibid. 28 Edizione Paoline 1989, p. 170 [234-235]: «Es mangelt nur an dir: Ach, könnte nur dein Herz zu einer Krippe werden, Gott würde noch einmal ein Kind auf dieser Erden». Pag 25 Paolo VI santo nel 2018? Potrebbe essere a ottobre di Filippo Rizzi Medici e teologi: parere favorevole sul miracolo Il beato Paolo VI fa un altro passo verso la canonizzazione. Sarà probabilmente proclamato santo il prossimo anno. A fine novembre è stato esaminato il miracolo per “intercessione” del Papa originario di Concesio, (beatificato il 19 ottobre di due anni fa proprio da papa Bergoglio) da parte della Congregazione delle cause dei santi. La memoria liturgica di Paolo VI viene celebrata il 26 settembre, il giorno in cui nacque. Sono stati infatti accolti i requisiti di validità per il fine della canonizzazione del Pontefice bresciano da parte delle consulte medica e teologica della Congregazione vaticana. Ad anticipare questa possibilità è stato proprio il settimanale della diocesi di Brescia La Voce del Popolo. «Il miracolo attribuito all’intercessione di Giovanni Battista Montini - scrive il settimanale - circa la guarigione di un feto in età prenatale nel 2014 è stato approvato. La mamma in attesa a rischio di aborto, della provincia di Verona, venne a pochi giorni della beatificazione di Montini a Brescia, presso il Santuario delle Grazie, per pregare il Papa appena beatificato. Nascerà successivamente una bambina a tutt’oggi in buona salute». Il parere favorevole delle consulte medica e teologica - confermata da a questo miracolo rappresenta un ulteriore tappa verso la prossima canonizzazione del Papa del Concilio Vaticano II, vissuto tra il 1897 e il 1978. Stretto collaboratore di Pio XII, poi arcivescovo di Milano (1954-1963), quindi Pontefice (1963- 1978), continuatore dopo Giovanni XXIII del Vaticano II che ebbe il merito di portare a termine, Montini è ricordato spessissimo da Francesco come modello e punto di riferimento. Basterebbe richiamare le tante volte in cui Bergoglio ha indicato l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi come il più importante «documento pastorale del dopo Concilio». Un modello e punto di riferimento che papa Francesco il 19 ottobre 2014, giorno della sua beatificazione, indicò come «grande Papa, coraggioso cristiano, instancabile apostolo».

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Davanti a Dio oggi - proseguì in quel frangente Bergoglio «non possiamo che dire una parola tanto semplice quanto sincera ed importante: grazie! Grazie nostro caro e amato Papa Paolo VI! Grazie per la tua umile e profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa!». Ora la guarigione inspiegabile sarà al vaglio della Sessione ordinaria dei cardinali e dei vescovi. I passaggi successivi saranno il via libera definitivo di papa Francesco e il Concistoro con l’annuncio ufficiale della canonizzazione e la definizione della data. Tra le ipotesi più accreditate vi sono per ora allo studio una domenica di giugno (a 50 anni dalla pubblicazione del Credo del Popolo di Dio da parte di Paolo VI) o con maggiore probabilità ad ottobre durante la celebrazione del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani. Una scelta quest’ultima che simboleggerebbe il forte legame di Montini con i giovani a cui proprio Paolo VI indirizzò una vibrante omelia pronunciata per la Domenica delle Palme del 1975 che concluse con queste parole: «Giovani, sappiate così comprendere l’ora vostra. Il mondo contemporaneo vi apre nuovi sentieri, e vi chiama portatori di fede e di gioia. Portatori delle palme, che oggi avete nelle mani, simbolo d’una primavera nuova, di grazia, di bellezza, di poesia, di bontà e di pace. Non indarno, non indarno: è Cristo per voi; è Cristo con voi! Oggi e domani; Cristo per sempre». E come noto, per volere di Giovanni Paolo II, ogni anno proprio nella Domenica delle Palme si celebra la Gmg (Giornata mondiale della gioventù). Una canonizzazione quella probabilmente prevista nel 2018 che cadrà simbolicamente a 40 anni dalla morte del Papa avvenuta a Castel Gandolfo il 6 agosto del 1978. Ora sulla guarigione di una neonata si deve esprimere la commissione dei cardinali. Poi la decisione finale del Papa. Montini, che guidò la Chiesa dal 1963 al 1978, potrebbe essere canonizzato durante i lavori del Sinodo dei vescovi sui giovani. CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Il Papa: “Basta complotti, sono un cancro” di Gian Guido Vecchi Il discorso natalizio a cardinali e vescovi: “Un pericolo gli approfittatori della maternità della Chiesa” Città del Vaticano. La Curia romana è «un’istituzione antica e complessa» e la sua riforma richiede «pazienza e delicatezza», fa notare Francesco con una battuta ottocentesca di monsignor De Mérode: «Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti». Cardinali e vescovi sorridono, ma è solo l’inizio. Nel tradizionale e ormai temuto discorso natalizio alla Curia, il Papa non la manda a dire a chi gli rema contro. La Curia, spiega, è legata all’universalità e al primato «diaconale» del vescovo di Roma, «servo dei servi di Dio», e per sua stessa natura è rivolta «ad extra», all’esterno - costruire ponti tra le nazioni, dialogare con le altre religioni - perché «una Curia chiusa in se stessa tradirebbe l’obbiettivo della sua esistenza e cadrebbe nell’autoreferenzialità, condannandosi all’autodistruzione». Ed è qui che il tono di Francesco si fa severo: «Questo è molto importante per superare quella logica squilibrata e degenere dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano - nonostante tutte le giustificazioni e buone intenzioni - un cancro che porta all’autoreferenzialità e si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, in particolare nelle persone che vi operano». Ma non basta. Bergoglio alza lo sguardo, «permettetemi due parole su un altro pericolo», e parla «dei traditori di fiducia o degli approfittatori della maternità della Chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma, ma - non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità - si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si autodichiarano erroneamente martiri del sistema, del “Papa non informato”, della “vecchia guardia”, invece di recitare il mea culpa». Vi sono poi altre persone «che ancora operano nella Curia» e «alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene». Tutto questo, peraltro, «senza dimenticare la stragrande parte di persone fedeli che vi lavorano con lodevole impegno, fedeltà, competenza, dedizione e anche tanta santità». Si tratta di «vedere l’essenziale», essere coerenti. Più tardi, rivolgendosi ai dipendenti vaticani, il Papa domanda «perdono e scusa» perché «non sempre noi, fauna clericale, diamo il buon esempio», chiede «non ci siano più lavoratori precari» e scandisce serio: «Non voglio lavoro in nero in Vaticano».

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Pag 23 Sferzate ai riformatori e tregua con la Curia. La svolta di Francesco di Massimo Franco Per la prima volta in quasi cinque anni, i vecchi cardinali vaticani ieri sprizzavano soddisfazione. «Finalmente, il Papa comincia a conoscere e apprezzare la Curia. E a capire quanto fossero impostate male le riforme», ripetevano sotto voce, uscendo dalla sala dove Francesco aveva pronunciato il discorso natalizio al suo «governo». È vero che non ha rinunciato a additare la «squilibrata e degenere logica dei complotti e delle piccole cerchie»: «un cancro che porta all’autoreferenzialità». Ma la vera novità è stata la durezza con la quale ha liquidato le riforme. «Farle a Roma è come pulire la Sfinge con uno spazzolino da denti», ha detto: cioè, impossibile. E ancora di più, sono state sferzanti le parole rivolte a quei riformatori scelti da lui e allontanati. Insomma, il canovaccio seguito dal Papa ha rispecchiato i discorsi precedenti solo in parte. L’aspetto più sorprendente è stato il giudizio indiretto dato da Jorge Mario Bergoglio su quanto è successo in Vaticano nell’ultimo anno: la sostituzione del cardinale Gerhard Muller dalla Congregazione per la dottrina della fede; del supervisore generale Libero Milone; del vicedirettore dello Ior, Giulio Mattietti. Sono state decisioni prese secondo dinamiche apparse poco trasparenti. E hanno creato tensioni e sconcerto per le modalità con le quali sono avvenute. Ma Francesco le fa proprie completamente: nel metodo e nel merito. Anche se la sua presa d’atto lascia intuire un’amarezza profonda. Il Papa sottoscrive e quasi rivendica la cacciata di «persone selezionate accuratamente per dare maggiore vigore alla riforma»; e corrotte, invece, «dall’ambizione e dalla vanagloria. E quando vengono delicatamente allontanate», ha ricordato, «si autodichiarano erroneamente martiri del sistema, del “Papa non informato”, della “vecchia guardia”, invece di recitare il “mea culpa”». Quell’avverbio in particolare, «delicatamente», sembra usato apposta per smentire quanto disse Milone, l’uomo chiamato dal Papa a indagare sulle finanze vaticane: e cioè che non aveva dato dimissioni consensuali come era stato comunicato, ma era stato forzato con la minaccia dell’arresto. Milone chiamò in causa il sostituto alla Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Angelo Becciu, e il capo della Gendarmeria vaticana, Giandomenico Giani. Ebbene, Francesco mostra di voler dare a entrambi una copertura totale. E rivaluta la «vecchia guardia», difesa contro chi a suo avviso la usa come capro espiatorio per spiegare il proprio licenziamento: un altro riferimento impensabile all’inizio del pontificato. Sono giudizi che ufficializzano la saldatura di fatto del «Papa rivoluzionario» con quella Curia da sempre percepita come un’incognita e una minaccia nei suoi confronti; e viceversa. La sensazione è che invece, in qualche misura, Francesco e la Curia abbiano firmato, se non un’alleanza, una tregua. Si tratta di cambiamenti che prefigurano anche nuovi rapporti di forza interni. E possono apparire contraddittori o almeno poco decifrabili. Dopo un quinquennio di pontificato, il bilancio delle riforme è l’uscita progressiva di scena delle persone scelte da Francesco per realizzarle; e l’ammissione che i cambiamenti procedono con grande fatica, soprattutto in Vaticano. Verrebbe da dire che Bergoglio è diventato più «romano». Resta da capire se è una «romanità» che ufficializza un’involuzione del papato, come sostengono gli avversari; oppure una sua evoluzione positiva verso una maggiore unità con le strutture vaticane, e verso un governo meno venato dal pregiudizio anti-italiano del Conclave. Ma una cosa è chiara: la rivoluzione, se davvero questo era il mandato, è archiviata. LA REPUBBLICA Pag 23 Gli uomini delle finanze che “tradiscono” la Curia di Paolo Rodari Gli auguri al veleno di Bergoglio Città del Vaticano. Francesco e i traditori interni alla Curia romana. Pochi ma capaci di fare male. Nomi e cognomi che il Papa non fa, seppure il riferimento sia di precisione chirurgica. A tre anni di distanza dalle quindici malattie enucleate nel divenuto famoso discorso del 22 dicembre del 2014, Jorge Mario Bergoglio muove un secondo durissimo affondo, scritto soppesando parola dopo parola, accuse non generiche ma circostanziate. Negli auguri natalizi di ieri alla Curia, infatti, il Papa parla senza mezzi termini di «traditori di fiducia» interni alla Santa Sede, di «approfittatori della maternità della

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Chiesa», di coloro che «si lasciano corrompere dall' ambizione o dalla vanagloria e che, quando vengono delicatamente allontanati, si auto-dichiarano erroneamente martiri del sistema, del "Papa non informato", della "vecchia guardia"». A chi si riferisce? In molti non hanno dubbi. A scottare sulla scrivania di Santa Marta, come sui tavoli dei suoi principali collaboratori in Segreteria di Stato, sono le recenti uscite, avvenute nel 2017, di uomini sui quali lui e i suoi assistenti hanno riposto una fiducia a conti fatti non ripagata. Il caso più eclatante è quello di Libero Milone, il Revisore Generale del Vaticano che lascia a giugno dopo che la Santa Sede ha parlato di un «comune accordo» raggiunto. Era in carica da soli due anni. Tutto sembra risolto con una uscita di scena inusuale, ma comunque concordata. E, invece, poche settimane dopo l'annuncio, il 24 settembre scorso, ecco che Milone interviene pubblicamente in un' intervista rilasciata a più media internazionali nella quale afferma che sono state costruite prove false contro di lui, in sostanza che abbia assunto una società privata di investigazioni per spiare alti esponenti vaticani. Passano pochi mesi e le finanze vaticane sono scosse da un altro clamoroso licenziamento. Senza apparenti spiegazioni viene licenziato il numero tre dello Ior, Giulio Mattietti, responsabile per decenni della struttura It della banca vaticana. Sul suo siluramento la Santa Sede non fornisce dettagli. Anche su di lui i retroscena si sprecano. Si parla di un Pontefice ignaro e poco informato. Sarà vero? Chi conosce Bergoglio dice di no. E racconta che piuttosto c'era un elevato rischio di una nuova fuga di documenti riservati, azioni divenute intollerabili dopo i Vatileaks. Sulle finanze Bergoglio scommette molto della sua opera di riforma. Ormai sembra aver capito che cambiare alcuni uomini non basta. E, infatti, nel silenzio generalizzato, assesta un altro colpo non da poco. Chiama dall'Argentina un vescovo suo amico, Gustavo Zanchetta. Per lui crea un incarico fino a oggi inesistente, quello di assessore dell' Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa). In sostanza deve controllare i lavori interni: un commissariamento dell'organismo vaticano in grande stile. Il Papa più volte ha tuonato contro la mondanizzazione degli ordini religiosi, travolti ciclicamente da dissesti e scandali finanziari. È, dunque, in generale anche contro un sistema malato, negli organismi e nelle persone che operano al loro interno, che si riferisce quando mette in guardia dal «cancro» presente nella Chiesa. «Le coordinate delle parole del Papa sono su tutti i versanti; un richiamo a una conversione a livello globale», dice il cardinale Giuseppe Versaldi, capo dell'Educazione Cattolica ed ex presidente degli Affari Economici della Santa Sede. Di qui anche la richiesta, ricevendo ieri i dipendenti laici del Vaticano, di prosciugare le sacche di lavoro nero: «È un problema di coscienza per me: non possiamo predicare la dottrina sociale e poi fare queste cose che non stanno bene», dice Francesco. Pag 23 Maradiaga, il cardinale da 35 mila euro al mese La rivelazione Sul conto in banca del cardinale honduregno che coordina il C9, il consiglio voluto da papa Francesco per riformare la Chiesa, è arrivato in un anno mezzo milione di euro. Un fiume di denaro elargito a Oscar Maradiaga dall'Università cattolica di Tegucigalpa. Motivo? Il porporato è il gran cancelliere dell'ateneo. Un ruolo pagato a peso d'oro: 35mila euro al mese più 54mila di tredicesima. A rivelarlo è un'inchiesta dell'Espresso, firmata da Emiliano Fittipaldi, che sarà in edicola sul numero di domenica. Secondo le fonti citate nell'articolo, il Papa ha ricevuto un rapporto dettagliato sul caso da parte del visitatore apostolico Jorge Pedro Casaretto, inviato proprio per chiarire i retroscena della vicenda. E ora Bergoglio ha avocato a sé la decisione finale. Maradiaga il 29 dicembre compirà 75 anni e quindi dovrà consegnare le dimissioni da vescovo della capitale dell'Honduras. Ma in discussione c'è anche il ruolo da consigliere privilegiato che il prelato ha avuto sin dall'inizio del pontificato di Francesco. In Vaticano si sta cercando di capire che fine abbia fatto il denaro intascato da Maradiaga. E dalle indagini di Casaretto risulterebbero anche investimenti misteriosi con i soldi della diocesi: somme ingenti affidate a finanziarie londinesi come la Leman Wealth Management e altre cifre transitate su conti tedeschi e poi scomparsi. Anche la Corte dei conti honduregna ha già acceso i riflettori sulla curia per la mancanza di trasparenza nell'impiego di fondi pubblici. Altre testimonianze riguardano poi il vescovo ausiliare di Tegucigalpa Juan José

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Pineda, uomo fidato del cardinale: avrebbe effettuato misteriose donazioni ad amici. Un groviglio nel quale Bergoglio vuole ora vedere chiaro. LA STAMPA Dal Revisore spione ai corvi. Nel mirino di Bergoglio i sabotatori delle riforme di Andrea Tornielli Dietro il duro discorso gli ex uomini di fiducia È dal dicembre 2014 che l'annuale discorso natalizio del Papa ai cardinali e ai capi dicastero della Curia romana fa notizia per le sferzate, seppur dette con il volto bonario, che Francesco non risparmia ai suoi collaboratori d'Oltretevere. Ma di quello pronunciato ieri nella Sala Clementina è destinato a rimanere nella memoria la menzione pubblica e dichiarata dei «traditori di fiducia», cioè di coloro ai quali era stato affidato un qualche ruolo nella riforma e si sono lasciati «corrompere dall'ambizione o dalla vanagloria». E dopo essere stati «delicatamente» allontanati si presentano «erroneamente martiri del sistema, del "Papa non informato", della "vecchia guardia"». La lettura più semplificata che identifica i «buoni» nei riformatori bergogliani e i «cattivi» in coloro che resistono alle riforme in questo caso non regge, perché nelle parole del Pontefice si legge la delusione per l'essersi sentito «tradito» proprio da chi aveva ricevuto molta fiducia. Due anni sono ormai passati da Vatileaks 2, la massiccia fuga di documenti che ha visto protagonista il monsignore spagnolo Lucio Angel Vallejo Balda, al quale erano state affidate grandi responsabilità e poteri nell'organizzare l'approfondito screening degli enti economici e amministrativi vaticani, ma che non ha retto psicologicamente alla mancata nomina a numero due del cardinale George Pell nella Segreteria per l'Economia e ha quindi deciso di rendere pubblici centinaia di documenti raccolti proprio al fine di attuare le riforme necessarie. Più probabile che le parole di Bergoglio si riferiscano ai casi più recenti, primo fra tutti quello del Revisore generale della Santa Sede, Libero Milone, dimessosi misteriosamente lo scorso giugno. Dopo l'estate, Milone ha dichiarato a un gruppo di giornalisti di non aver spontaneamente rinunciato all'incarico ma di esservi stato costretto, dicendosi vittima del «vecchio potere», parlando di «loschi giochi» e lasciando intendere che il Papa non fosse adeguatamente informato. Una sortita che aveva provocato la replica vaticana: il Revisore era stato allontanato perché «esulando dalle sue competenze», aveva «incaricato illegalmente una società esterna per svolgere attività investigative sulla vita privata di esponenti della Santa Sede». E il Sostituto della Segreteria di Stato Angelo Becciu aveva aggiunto: «Stava spiando le vite private dei suoi superiori e dello staff, incluso me. Se non avesse accettato di dimettersi, lo avremmo perseguito in sede penale». Un altro allontanamento che ha fatto notizia è stato quello di un alto funzionario laico del Governatorato, Eugene Hasler, rimosso dal suo incarico in aprile. Mentre è dei giorni scorsi l'allontanamento del direttore «aggiunto» dello Ior Giulio Mattietti, rimosso improvvisamente dal suo ruolo. Non si può infine dimenticare il più eclatante cambio al vertice della Congregazione per la dottrina della fede, con la mancata riconferma del cardinale Gerhard Ludwig Müller, anche se il prelato certamente non può essere annoverato tra «le persone che vengono selezionate accuratamente per dare un maggior vigore al corpo e alla riforma» citate da Francesco. Infine, proprio nel giorno in cui le parole del Pontefice sono state pronunciate, è stato anticipato un articolo dell'Espresso che racconta di un' inchiesta su investimenti milionari del vescovo hondouregno Juan José Pineda, braccio destro del cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, coordinatore del C9 dei cardinali che collabora alla riforma della Curia. Un' inchiesta voluta da Papa Francesco. IL FOGLIO Pag 2 Attacco ai “traditori” e richiesta di fedeltà. Il Papa bastona la curia romana di Matteo Matzuzzi “Antenne” e mea culpa al tradizionale scambio di auguri Roma. Cardinali e vescovi della curia romana devono ormai essere abituati ad attendere con una leggera angoscia il discorso che il Papa pronuncia ogni anno in occasione dello scambio degli auguri natalizi. Auguri che, come accade dal 2013, sono un invito chiaro e senza troppa cortesia istituzionale a fare un profondo esame di coscienza. L'incipit,

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d'altronde, faceva già intendere quale sarebbe stato il canovaccio del lungo messaggio pronunciato. Citando mons. De Mérode, Francesco ha detto che "fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d'Egitto con uno spazzolino da denti". Quindi, ha biasimato quella "squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano - nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni - un cancro che porta all'autoreferenzialità, che si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, e in particolare nelle persone che vi operano". Ma c'è un altro pericolo denunciato da Bergoglio, "ossia quello dei traditori di fiducia o degli approfittatori della maternità della chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggiore vigore al corpo e alla riforma, ma - non comprendendo l'elevatezza della loro responsabilità - si lasciano corrompere dall'ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si autodichiarano erroneamente martiri del sistema, del 'Papa non informato', della 'vecchia guardia', invece di recitare il mea culpa". Non è finita qui, perché "accanto a queste persone ve ne sono poi altre che ancora operano nella curia, alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della chiesa un'opportunità per convertirsi e non per approfittarsene". Il problema è che i dicasteri della curia romana spesso non lavorano come dovrebbero, e cioè "in maniera conforme alla loro natura e alla loro finalità: nel nome e con l'autorità del Sommo Pontefice e sempre per il bene e al servizio delle chiese. Essi sono chiamati a essere nella chiesa come delle fedeli antenne sensibili: emittenti e riceventi. Antenne emittenti in quanto abilitate a trasmettere fedelmente la volontà del Papa e dei superiori". Sulla parola "fedeltà" Francesco si è fermato, scandendola bene, in modo che tutti i presenti capissero. E però, "l'immagine dell'antenna rimanda altresì all'altro movimento, quello inverso, ossia del ricevente. Si tratta di cogliere le istanze, le domande, le richieste, le grida, le gioie e le lacrime delle chiese e del mondo in modo da trasmetterle al vescovo di Roma al fine di permettergli di svolgere più efficacemente il suo compito e la sua missione di principio e fondamento perpetuo e visibile dell' unità di fede e di comunione". Il Papa ha poi accennato ad "alcuni aspetti fondamentali" che andranno approfonditi. E cioè, la curia e il rapporto con le nazioni - Francesco ha osservato qui che "l'unico interesse della diplomazia vaticana è quello di essere libera da qualsiasi interesse mondano o materiale" -, la curia e le chiese particolari, la curia e le chiese orientali, la curia e il dialogo ecumenico, la curia e l'ebraismo, l'islam e le altre religioni - "il dialogo è costruito su tre orientamenti fondamentali, il dovere dell'identità, il coraggio dell'alterità e la sincerità delle intenzioni". Augurando un sereno Natale, Francesco ha quindi ricordato che "una fede soltanto intellettuale o tiepida è solo una proposta di fede, che potrebbe realizzarsi quando arriverà a coinvolgere il cuore, l'anima, lo spirito e tutto il nostro essere, quando si permette a Dio di nascere e rinascere nella mangiatoia del cuore, quando permettiamo alla stella di Betlemme di guidarci verso il luogo dove giace il Figlio di Dio, non tra i re e il lusso, ma tra i poveri e gli umili". IL GAZZETTINO Pag 7 Il Papa sferza la curia del Vaticano: “Basta complotti e consorterie” Paolo VI presto sarà proclamato santo Città del Vaticano. In Vaticano occorre superare la «squilibrata e degenere logica dei complotti e delle piccole cerchie», «un cancro che porta all'autoreferenzialità». È la forte raccomandazione rivolta da papa Francesco ai cardinali e vescovi della Curia romana nella tradizionale udienza nella Sala Clementina per gli auguri di Natale. Un richiamo cui, subito dopo, nell'incontro in Sala Nervi con i dipendenti vaticani e le famiglie, ne ha aggiunto uno altrettanto forte: «mai più lavoro nero e precari in Vaticano». Nell'articolato discorso alla Curia, come da tradizione uno dei più importanti dell'anno, dopo l'iniziale invito ad «abbandonare il superfluo, il falso, il malizioso e il finto», il Pontefice ha dedicato la sua argomentazione al «rapporto della Curia con le Nazioni, con le Chiese particolari, con le Chiese orientali, con il dialogo ecumenico, con l'ebraismo, con l'Islam e le altre religioni, cioè con il mondo esterno». E scherzando sul fatto che «fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d'Egitto con uno spazzolino da denti» - citazione di mons. De Merode - ha spiegato che «una Curia chiusa in sé stessa tradirebbe l'obiettivo della sua esistenza e cadrebbe nell'autoreferenzialità,

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condannandosi all'autodistruzione». Un dato cui, per il Papa, deve corrispondere la necessità di «superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano - nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni - un cancro che porta all'autoreferenzialità, che si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, e in particolare nelle persone che vi operano». Francesco ha quindi ha voluto «spendere due parole» su «un altro pericolo»: quello «dei traditori di fiducia o degli approfittatori della maternità della Chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma, ma - non comprendendo l'elevatezza della loro responsabilità - si lasciano corrompere dall'ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si auto-dichiarano erroneamente martiri del sistema, del Papa non informato, della vecchia guardia..., invece di recitare il mea culpa». E qui, neanche tanto tra le righe, non è difficile leggere il riferimento del Papa a casi recenti, tra gli altri, come quello nell'ultimo anno dell'allontanamento dell'ex revisore generale dei conti vaticani, Libero Milone. «Accanto a queste persone ve ne sono poi altre che ancora operano nella Curia, alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un'opportunità per convertirsi e non per approfittarsene», ha detto ancora. Ma soprattutto ha dedicato parole molto determinate al lavoro: «Non voglio lavoro in nero in Vaticano. Vi chiedo scusa se questo ancora c'è». Città del Vaticano. Il Vaticano ha esaminato e accolto, in fase di prima valutazione, il miracolo di Paolo VI che, se approvato definitivamente, servirà alla sua canonizzazione. È relativo alla nascita nel 2014 della piccola Amanda, sopravvissuta per alcuni mesi nel grembo materno dopo la rottura della placenta. La madre della bimba, di origini veronesi, su consiglio di un'amica suora aveva pregato al Santuario delle Grazie di Brescia, luogo legato alla devozione di Giovanni Battista Montini, poi Papa Paolo VI. La notizia è stata annunciata dalla Diocesi di Brescia. Al via libera della consulta medica incaricata dalla Congregazione per le Cause dei Santi, dovrà seguire quello teologico dei cardinali e vescovi del dicastero. Dopo di che sarà Papa Francesco a decidere la data della canonizzazione e ad ufficializzarla in un Concistoro. Alla Congregazione il miracolo «per intercessione» di papa Montini è stato esaminato dalla Commissione medica che ne ha accolto i requisiti di validità per il fine della canonizzazione. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Più disuguaglianza in Italia. Il sorpasso dei super-ricchi di Nicola Pini Divario sociale in aumento, nel mondo meglio l’Europa In meno di 20 anni in Italia la quota di ricchezza nazionale detenuta dal 90% meno benestante della popolazione si è ridotta dal 60 al 45% del totale. Mentre il 10% più ricco ha accresciuto la sua parte fino al 55%. In questo grande 'travaso' di patrimonio il top della classe agiata, l’1% degli italiani, ha visto salire la sua quota parte di circa cinque punti percentuali superando il 20% del tesoro privato complessivo. I dati si riferiscono agli anni dal 1995 e il 2013 e confermano come il nostro Paese abbia conosciuto, come gran parte del mondo sviluppato, un’impennata delle diseguaglianze sociali. Se la tendenza generale non è nuova questi dati, che riguardano i patrimoni delle famiglie, mostrano una polarizzazione più accentuata di quello che finora hanno mostrato altre analisi, ad esempio quella di Bankitalia, che indica in circa il 45% le ricchezze del top 10% della popolazione sul totale. A darne conto è una ricerca presentata nei giorni scorsi da tre economisti, Salvatore Morelli, dell’unità di studi sulle diseguaglianze dell’università della Città di New York, Paolo Acciari, del ministero dell’Economia, e Facundo Alvaredo, della Pse di Parigi, nell’ambito della pubblicazione del primo World inequality report (presso appunto la Paris school of economics) da parte di un folto gruppo di studiosi internazionali, il cui esponente più noto è il francese Thomas Piketty. Per la prima volta i tre analisti hanno potuto ricostruire l’andamento e la distribuzione delle ricchezze personali in Italia anche attraverso i dati derivanti dalle

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dichiarazioni di successione, ovvero dalla eredità. La ricerca tiene conto pertanto di tutte le attività reali e finanziarie e delle famiglie, dagli immobili alle partecipazioni, dai risparmi alle aziende possedute. L’analisi è basata ancora su stime preliminari ma se confermata fuga ogni dubbio sui trend della distribuzione dalla ricchezza nel nostro Paese. FONTE: Wid.World L e cifre che ne emergono non si prestano infatti a fraintendimenti: seguendo una sorta di effetto calamita la ricchezza privata è andata ad accumularsi dove già era presente piuttosto che a distribuirsi sull’intero corpo sociale. Come emerge dai dati presentati, tanto il top 1% che il top 10% della popolazione hanno infatti accresciuto la propria quota parte di circa un terzo, rispetto al totale (rispettivamente dal 15 al 20% e dal 40 al 55%) mentre nel contempo scendeva di altrettanto quella del resto degli italiani. Il periodo di osservazione copre tanto un periodo di moderata crescita dell’economia, dal ’95 fino al 2007 (anni durante i quali anche le politiche di privatizzazione potrebbero avere favorito l’acuirsi dei divari patrimoniali) quanto gli anni bui della crisi, dal 2008 al 2013. Guardando ai grafici presentati la 'curva della diseguaglianza' resta quasi sempre in aumento con una certa accelerazione tra il 2004 e il 2006 e un rallentamento negli anni della recessione. I l rapporto sulle diseguaglianze presentato a Parigi evidenzia del resto come l’aumento degli squilibri economici nel mondo sia un fenomeno di lungo corso e non il portato della crisi di questi anni. Oggi che la bassa marea della recessione ha lasciato sul bagnasciuga un esercito di nuovi poveri e messo a rischio le sicurezze del ceto medio, il dato è ovviamente più eclatante. Ma il drastico allargamento della forbice tra top e down della scala sociale è un tratto caratteriale degli ultimi 30 anni della nostra storia. Mentre dall’inizio del secolo scorso fino agli anni Ottanta nei Paesi avanzati il divario di ricchezza si era attenuato. «L’Italia – spiega Morelli – è uno dei Paesi dove il rapporto tra ricchezza aggregata totale e il totale dei redditi prodotti ogni anno è tra i più elevati al mondo, una delle nazioni a più elevata intensità capitalistica, dove la ricchezza vale molto più del reddito». Il dato generale che emerge, commenta l’economista, è che «si accresce sempre di più il peso della ricchezza ereditata, della trasmissione dinastica patrimoniale, rispetto alla generazione di reddito. Una situazione dove, come è stato detto, il passato divora il futuro». Tra il 1980 e il 2016 l’1% più ricco della popolazione mondiale si è assicurato il 27% dell’aumento complessivo di ricchezza. Il 50% più povero del pianeta ha a sua volta migliorato le sue condizioni (grazie al boom delle economie emergenti) ma la sua fetta di torta è stata solo il 12% del totale. In termini relativi, i più sfavoriti sono stati i ceti popolari e le classi medie dei Paesi avanzati, tra i quali l’andamento dei redditi è stato debole e in taluni casi negativo. Dal rapporto emerge però anche come i diversi sistemi economici abbiano reagito diversamente alla spinta del liberismo, della finanziarizzazione dell’economia e della globalizzazione. In Europa e in Italia la ricchezza non è equamente distribuita ma i divari restano comunque meno accentuati. Qui l’eredità del sistema di protezione sociale novecentesco e l’accesso di larghe fasce di popolazione alla proprietà immobiliare hanno parzialmente arginato la crescente polarizzazione. Usa ed Europa occidentale sono andati nella stessa direzione ma a velocità diverse. Parlando ora di redditi e non di patrimoni negli States la quota detenuta dal top 1% è schizzata dall’11 al 20% del totale, mentre il 50% alla base della piramide sociale scendeva dal 21 al 14%. Nel Vecchio continente invece i ricchissimi hanno accresciuto il loro reddito dal 10 al 12% e la metà più povera della popolazione è scesa dal 24 al 22%. Se poi si allarga il focus dai pochi super-ricchi al 10% più benestante, il reddito in Europa occidentale è passato negli ultimi dieci anni dal 35 al 37% del totale. Siamo ancora lontani, per fortuna, dai divari delle altre maggiori economie: in Cina il decile più ricco possiede il 41%, in Russia il 46, negli Usa il 47. Al vertice delle diseguaglianze l’India (55%) e il Medio Oriente (61%). Anche in Brasile le iniquità sono enormi. Ma in controtendenza con gran parte del mondo, dagli anni Novanta si sono ridotte. Se l’accrescersi del divario sociale fosse il carburante di una crescita diffusa e stabile potrebbe comunque essere considerato un prezzo accettabile da pagare. Ma oggi «la ricerca economica converge sul fatto che livelli alti di diseguaglianza non sono una cosa positiva per la stabilità del sistema, che efficienza ed equità vanno perseguiti insieme», aggiunge Morelli. Gli squilibri eccessivi tendono da un alto ad aumentare il debito, dall’altro a comprimere i consumi delle classi popolari verso forme di low cost generalizzato che, a cascata, spingono verso il basso anche le retribuzioni. E anche quando il tenore di vita resta stabile, la perdita relativa di ricchezza dei molti nei

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confronti delle élites può accrescere invidia e risentimento sociale, alimentare il populismo e le 'avventure' politiche. Secondo gli estensori del rapporto, se le tendenze attuali non verranno contrastate le disuguaglianze aumenteranno ancora. Questo esito però non è una fatalità, quanto invece la conseguenza delle scelte politiche e dei diversi modelli economici. Se a prevalere saranno le dinamiche americane i divari si accresceranno ancora. Con il trend osservato in Europa le diseguaglianze tenderebbero a una maggiore stazionarietà. Ma come fronteggiare la polarizzazione sociale? Gli autori del World inequality report insistono su alcune priorità. La lotta ai paradisi fiscali – divenuti resort di lusso degli speculatori finanziari ed evasori fiscali top class – una maggiore progressività dei prelievi fiscali sul reddito (che al contrario è diminuita negli ultimi decenni), forme di tassazione su grandi patrimoni ed eredità invece che sul lavoro. E ancora: mantenimento di una presenza pubblica nell’economia, salario minimo, migliore rappresentanza dei lavoratori negli organi direttivi delle imprese, un accesso concreto all’istruzione superiore per le classi popolari. Pag 8 Tagliato il contributo di 50 milioni. La Fism: “Colpite migliaia di famiglie” di Enrico Lenzi Cancellato in commissione Bilancio della Camera il contributo di 50 milioni di euro per le scuole materne paritarie, introdotto lo scorso anno nella legge di stabilità. Dura la reazione della segreteria nazionale della Federazione che riunisce le scuola materne di ispirazione cattolica (Fism), che esprime «disappunto» e «preoccupazione». E non manca la sorpresa visto che l’introduzione dei 50 milioni per le materne paritarie lo scorso anno «era stata salutata come una novità positiva per il 2017». Eppure non erano mancate «rassicurazioni a vari livelli – ricorda la segreteria nazionale della Fism –, cui sono seguite anche iniziativa concrete di proposte ed emendamenti da parte dei parlamentari, che la Federazione ben conosce e ringrazia», ma «purtroppo si deve constatare, ancora una volta, la sordità e l’insensibilità su questioni che interessano centinaia di migliaia di famiglie, visto che le scuole e le istituzioni educative associate alla Fism accolgono circa 600mila bambini da zero a sei anni». Una cancellazione di fondi - a cui si aggiunge un ulteriore taglio di 10 milioni al capitolo di bilancio destinato alle scuole paritarie - che avviene nello stesso periodo nel quale il medesimo governo annuncia il varo di un decreto attuativo proprio per rafforzare il sistema formativo da zero a sei anni, con uno stanziamento di 209 milioni di euro da erogare agli Enti locali affinché li utilizzino per potenziare la rete delle scuole dell’infanzia presente sul proprio territorio. Un paradosso che la Fism sottolinea con forza, anche perché «le scuole dell’infanzia paritarie sono le uniche che in questo momento assicurano i 'poli educativi' 0-6 anni» previsti dal decreto, il cui testo - a dire il vero - non è ancora stato pubblicato nonostante il varo in Consiglio dei ministri. Insomma da una parte si parla di potenziare questo segmento iniziale del percorso educativo e dall’altro si cancellano fondi stanziati per le realtà scolastiche già presenti sul territorio, e che spesso sono l’unico presidio educativo. «Le provvidenze economiche pubbliche richieste non sono privilegi – ribadisce con forza la nota della Fism –: sono finalizzate a garantire equità all’interno delle politiche scolastiche del nostro Paese per consentire alle famiglie, anche le meno abbienti, di poter scegliere la scuola per i propri figli, e non solo a quelle che più possono sul piano economico ». E fornisce qualche dato sull’attuale investimento dello Stato per i bambini iscritti alle paritarie: nel 2017 il ministero dell’Istruzione «ha speso 1,95 centesimi di euro al giorno per ogni alunno iscritto a una materna paritaria, contro i 26,08 centesimi di euro al giorno per gli iscritti alle materne statali». Cifre che parlano da sole. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III Pronto soccorso “assediato”, ora si progetta il raddoppio di Maurizio Dianese

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La struttura all’Angelo di Mestre è sotto pressione: in un anno 100mila persone, un terzo in più del 2008 Il progetto è ancora segreto, ma ha già un nome: Angelino. E il riferimento non è al ministro degli Esteri, ma al monoblocchino che l'Ulss 3 vuol costruire a fianco dell'ospedale dell'Angelo, sul terreno nel quale doveva sorgere il Centro protonico. L'Angelino dovrebbe diventare un Pronto soccorso numero 2, per le urgenze-urgenze. Del resto il raddoppio degli spazi dell'attuale Pronto soccorso è nell'ordine delle cose. Anno dopo anno gli utenti aumentano di numero e gli spazi sono ridotti all'osso. È vero che per tre volte in dieci anni l'Angelo ha aperto i battenti nel 2008 si è lavorato ad allargare gli spazi delle sale d'attesa, mentre è altrettanto vero che altri spazi, sempre nella zona del Pronto soccorso, sono stati ricavati per ortopedia, ma è un dato di fatto che sia l'area rossa che tutte le stanzette degli ambulatori e dell'Osservazione sono poche e troppo strette. CENTOMILA UTENTI - Ormai infatti si tratta di venire incontro alle esigenze di 100 mila persone all'anno, un terzo in più di quelle che si presentavano al Pronto soccorso nel 2008. Trentamila accessi in più significa avere l'intera area eternamente intasata, giorno e notte. Del resto il Pronto soccorso continua ad offrire un servizio eccellente sia per la parte delle urgenze che per quella dei cosiddetti codici bianchi, relativi a cittadini che vanno in ospedale a fare un'unica coda sicuri di essere visitati, prima o dopo, invece di farne una nell'ambulatorio del medico di base, un'altra per prenotare la visita specialistica e una terza per un esame specialistico. In poche ore il Pronto soccorso risponde a tutte le esigenze. Da qui l'afflusso continuo di pazienti e da qui la necessità, se si vuole cercare di ridurre i tempi di attesa, di potenziare il personale e di aumentare gli spazi. Oggi il personale c'è, mancano gli spazi. Ed ecco l'idea di creare un altro pronto soccorso, leggermente esterno al blocco ospedaliero meno di 200 metri di distanza e di specializzarlo. Già adesso il Pronto soccorso ha due linee privilegiate di accesso, quella pediatrica e quella ortopedica, che vanno per conto loro, si tratterebbe di aggiungerne una terza ed è probabile che si aggiunga quella cardiologica. TRE LINEE DI ACCESSO - E così chi entra in ospedale con una frattura sarebbe dirottato immediatamente al pronto soccorso ortopedico, i bambini al pronto soccorso pediatrico e gli infartuati al pronto soccorso cardiologico. Tutti i pazienti passerebbero per l'attuale pronto soccorso per poi essere smistati nelle varie aree. Questo modulo funziona già in altri ospedali italiani, soprattutto in Lombardia ed Emilia Romagna e nasce dall'idea di far ruotare tutto attorno al paziente, senza spostarlo. Vuol dire che il paziente che entra in ospedale avrebbe a disposizione, senza muoversi, la Tac e la Risonanza magnetica, i cardiologi o gli ortopedici, pronti a prendersi cura di lui prima di trasferirlo in reparto, In questo modo verrebbe azzerato l'unico handicap del nuovo ospedale, che è quello delle distanze. Oggi se un ricoverato deve fare una Tac, dal Pronto soccorso deve percorrere almeno un centinaio di metri, mentre l'idea sarebbe quella di portare la Tac vicino al paziente. Ecco perché il direttore generale dell'Ulss 3, Giuseppe Dal Ben, sta dando il via a questo nuovo progetto, che andrebbe ad occupare i terreni dell'Ulss destinati alla Terapia protonica, definitivamente accantonata dalla Giunta di Luca Zaia, che a torto o a ragione - non ha mai creduto a questo progetto. E al posto della Terapia protonica ecco per l'appunto l'Angelino. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 2 – 3 Cantiere Venezia. Scuole, palestre, teatri e lavori per 20 milioni di Marta Artico Il Comune ha approvato decine di progetti per le manutenzioni. Attenzione per isole e periferie, ma non mancano le polemiche Venezia. Tutto non si può fare, certo, ma la filosofia che ha accompagnato l'approvazione di ben 20 milioni di lavori pubblici destinati alla città, di Mestre e di Venezia, è quella delle "piccole cose" che chiedono le persone. "Piccole" si fa per dire,

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perché non inciampare su una voragine nella strada davanti a casa non è poca cosa per una signora di settant'anni. Così come sistemare i bagni di un campo sportivo. Nonostante ciò c'è già chi polemizza perché nella lunga lista mancano interventi chiesti e richiesti. Brugnaro va diritto per la sua strada e chiarisce l'imperativo contenuto nelle 30 delibere: «Dimostriamo di non essere impegnati a realizzare grandi opere come il ponte di Calatrava, ma di dedicare le nostre risorse alla sistemazione delle piccole cose come l'edilizia sportiva, scolastica, residenziale, le buche, i pontili, le strade, i teatri e tante realtà per decenni abbandonate e dimenticate».Ecco l'elenco dei cantieri. Interventi in centro storico e isole (12.189.741,35 euro). Edilizia sportiva (2,3 milioni di euro)Lido. Club Nautico San Marco a Ca' Bianca. Approvato il progetto per il rifacimento della terrazza piana al primo piano dell'edificio avente una superficie di circa 90 mq. Lavori per un totale di 38 mila euro. Dorsoduro. Bocciodromo di San Sebastiano. Approvato il progetto per lavori di risanamento di una struttura interessata da copiose infiltrazioni di acqua piovana. Il lavori, per un totale di 38 mila euro, prevedono il rifacimento delle linee di gronda e dei pluviali, oltre al risanamento di alcune parti della struttura in legno. Sant'Alvise. Centro sportivo. Approvato il progetto per i lavori di manutenzione della copertura, la realizzazione di una parete di separazione tra l'area dell'arrampicata libera e quella del bocciodromo, la costruzione di un soppalco all'interno. Lavori per un totale di 230 mila euro. Sant'Alvise. Campo da calcio. Approvato il progetto per il rifacimento del campo in erba sintetica, il risanamento degli spogliatoi per un totale di 285 mila euro. Sant'Alvise. Palestra Marsico (ex Umberto I). Approvato il progetto per i lavori di adeguamento degli impianti. Lavori per un totale di 110 mila euro. Castello. Palazzetto dello sport Gianquinto. Approvato il progetto per lavori di rinnovamento dell'impianto idraulico ed elettrico. A margine verrà anche rifatto il pontile d'accesso che sarà utilizzato anche dai mezzi di soccorso. Lavori per un totale di 100 mila euro. Murano. Palestra Leo Perziano. Approvato il progetto per l'ampliamento del campo di gioco per l'ottenimento dell'omologazione Coni. Interventi per un totale di 500 mila euro. Portosecco. Palazzetto. Approvato il progetto per l'ottenimento dell'agibilità. Lavori per un totale di 130mila euro. Mazzorbo. Palazzetto. Approvato il progetto per il rifacimento dell'intera rete idrico sanitaria degli spogliatoi del centro sportivo. Lavori, per un totale di 69mila euro. Aree cimiteriali (1.380.000 euro)San Michele in Isola. Approvato il progetto per il ripristino funzionale degli ossari nel Recinto 7°. Lavori per un totale di 1.350.000 euro. San Michele in Isola. Approvato il progetto di fattibilità per l'installazione di due nuove barriere frangionde ad integrazione di quella esistente e posizionate a ridosso del pontile Actv. Lavori, per un totale di 30mila euro. Teatri comunali (2,7 milioni di euro) San Marco. Teatro Goldoni. Approvato il progetto per interventi straordinari per l'ottenimento del Certificato prevenzione incendi. Un impegno di spesa pari a 1,2 milioni di euro. Cannaregio. Teatro Malibran. Approvato il progetto per tre diversi tipi di intervento da realizzare per un importo complessivo di 1,2 milioni di euro. Ristrutturazione e manutenzione straordinaria della centrale termofrigorifera, manutenzione straordinaria delle parti lignee del piano graticciato dei movimenti scenici sopra al palcoscenico, la risoluzione della problematica di allagamento che si riscontra, a seguito delle acque alte. San Marco. Teatro La Fenice. Approvato il progetto per l'esecuzione di alcuni interventi di manutenzione straordinaria all'interno del teatro. Lavori per un totale di 300mila euro. Ponti (1.050.000 euro)San Marco. Ponte della Guerra. Approvato il progetto per il restauro strutturale del Ponte che presenta nel suo complesso un generale e diffuso degrado. Lavori per un totale di 200 mila euro. Cannaregio. Ponte Bonaventura. Approvato il progetto per la manutenzione delle strutture portanti dei parapetti e della pavimentazione. Lavori per un totale di 300 mila euro. Cannaregio. Ponte del Ghetto. Approvato il progetto per il completo ripristino strutturale e restauro del ponte in ghisa del Ghetto. Lavori per un totale di 350mila euro. Dorsoduro. Ponte dei Guardiani. Approvato il progetto per la manutenzione straordinaria del ponte in ferro. Lavori per 200 mila euro. Edifici scolastici (750 mila euro)Santa Croce. Scuola Primaria Manzoni. Approvato il progetto per interventi volti al conseguimento dell'idoneità statica e adeguamento igienico funzionale dello stabile. Il progetto, per un costo complessivo di 750 mila euro. Ex Piscina Rari Nantes (300mila euro) Cannaregio. Ex Piscina Rari Nantes. Approvato il progetto per la rimozione e probabile demolizione delle palancole in cemento armato e della passerella sovrastante di contorno all'ex piscina dietro il parco ferroviario. Lavori per un totale di 300 mila euro.

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Edilizia abitativa (1.368.921,35 euro)Venezia e isole. Edilizia abitativa, manutenzioni diffuse. Per il mantenimento in buono stato del patrimonio edilizio residenziale del Comune. Giudecca. Opere di urbanizzazione in Campo Marte. È stata approvata una nuova convenzione tra il Comune di Venezia e l'Ater per il completamento delle Opere di urbanizzazione in Campo Marte per il costo complessivo a carico dell'Amministrazione di 568.921,35 euro. Fognature (1.040.820 euro) Pellestrina. Fognature. Approvato il progetto che prende in considerazione tutti gli interventi che si reputano necessari e indispensabili per l'adeguamento e il ripristino degli impianti di trattamento delle acque presenti sull'isola di Pellestrina. Gli interventi, avranno un costo totale di 1.040.820 euro. Interventi in terraferma (8.350.685,65 euro) Edilizia sportiva (3.830.000 euro)Campalto. Palestra ex scuola Gramsci. Approvazione del progetto con un impegno di spesa di 190mila euro per l'adeguamento e messa a norma della Palestra. Campalto. Palestra ex scuola De Nicola, Via Gobbi. Approvato il progetto per un importo di 300mila euro che prevede interventi di ristrutturazione, adeguamento e messa a norma della Palestra. Campalto. Campo calcio Cep. Approvato il progetto d per lavori di realizzazione dei servizi igienici per il pubblico con adeguamenti e messa a norma ed interventi complementari per un totale di 250 mila euro. Favaro. Ex piscina. Approvato il progetto definitivo per un intervento da 230 mila euro che prevede la demolizione dell'ex piscina e la costruzione di una piastra polivalente che comprenderà due aree da gioco ortogonali di 43x23 metri per il calcio e il pattinaggio e di 15X28 per il basket e la pallavolo realizzate in calcestruzzo con finitura al quarzo. Favaro. Centro sportivo calcio. Approvato il progetto per lavori da 300 mila euro di risanamento igienico sanitario degli spogliatoi. Marghera. Palestra ex Stefani. Approvato il progetto per un interventi da 320 mila euro che prevede il rifacimento del pacchetto di copertura della Palestra. Marghera. Palestra ex Edison. Approvato il progetto che prevede, per un totale di 490 mila euro, l'adeguamento e la messa a norma della Palestra con la realizzazione di nuovi spogliatoi. Marghera. Campo da calcio Ca' Emiliani. Approvato il progetto per lavori di adeguamento e messa a norma con il rinnovamento generale degli spogliatoi per un totale di 300 mila euro. Bissuola. Complesso sportivo palestra-piscina. Approvato il progetto per lavori di risanamento. Lavori per un totale di 250 mila euro. Gazzera. Centro sportivo. Approvato il progetto di fattibilità tecnica ed economica per lavori di rifacimento del manto superficiale della piastra di atletica la realizzazione dell'impianto di illuminazione della pista di atletica con nuovi fari a led. Lavori per 400 mila euro. Carpenedo. Palestra Spes, via Cima d'Asta. Approvato il progetto per lavori di adeguamento e messa a norma della struttura per un totale di 680 mila euro. Favaro. Ex palestre scolastiche De Nicola, Gramsci e Marone. Mestre. Ex palestre scolastiche Pellico. Chirignago Zelarino. Ex palestre scolastiche Manin. Marghera. Ex palestre scolastiche Edison e Scarsellini. Approvato il progetto d per lavori di sostituzione dei corpi illuminanti delle palestre con proiettori forniti di lampade led. Lavori per un totale di 120mila euro. Aree cimiteriali (1 milione di euro) Chirignago. Approvato il progetto per il risanamento e per rendere nuovamente funzionali le cappelle di famiglia che presentano infiltrazioni. Verranno poi ripristinati i coronamenti dei loculi perimetrali nei campi del reparto IV che erano stati attrezzati con pensiline in plexiglas a struttura metallica a sbalzo collassate per il carico della neve nel 2013 e nel 2014. Lavori per un totale di 562 mila euro. Mestre e Favaro. Approvato il progetto a per il ripristino funzionale del "fabbricato ala sud" presso la Chiesa storica del recinto 1° del plesso cimiteriale di Mestre e il restauro del fabbricato "portale di ingresso" sito nella parte vecchia del cimitero di Favaro. Per un totale di 239mila euro. Marghera. Approvato il progetto di fattibilità tecnica ed economica per la ristrutturazione della Chiesa, del campanile e dei manufatti di recinzione limitrofi. Per il Campanile si procederà alla demolizione del rivestimento esterno e la sua ricostruzione attraverso la realizzazione di un cappotto. Lavori per una spesa complessiva di 199 mila euro. Riqualificazione del mercato di Mestre (2 milioni di euro) Mestre. Riqualificazione del mercato fisso. Approvato il progetto per la ristrutturazione dell'area adibita a mercato fisso di Mestre (ortofrutticolo, pesce e carne) realizzata nei primi anni Novanta del novecento tra Via Fapanni, piazza Barche e due rami del fiume Marzenego. Gli esercenti hanno manifestato la necessità di un intervento dell'amministrazione comunale per risolvere problemi di manutenzione straordinaria . Lavori per un totale complessivo di 2 milioni di euro. Centro Culturale Candiani (750mila euro) Mestre. Centro Culturale Candiani. Approvato il progetto per il ripristino funzionale del Centro culturale. Lavori per

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un totale di 750 mila euro che prevedono il rifacimento ai diversi piani dei rivestimenti dei soffitti e del sistema d'illuminazione lungo l'asse distributivo principale l'atrio centrale. Forti. Approvato il progetto di fattibilità tecnica ed economica per la messa in sicurezza e conservazione dei cespiti comunali corrispondenti a otto plessi fortilizi: Forte Marghera, Mezzacapo, Carpenedo, Gazzera, Tron, Pepe, Rossarol e Manin. Interventi per un ammontale complessivo di 200mila euro."Vaschette" di Marghera (150mila euro) Marghera. Demolizione "Vaschette". Approvato il progetto per l'intervento di riqualificazione della zona sud di Marghera denominata "Vaschette". L'area era costituita da dieci edifici e nel corso degli anni, con diversi provvedimenti, sono stati abbattuti nove edifici. L'ultimo edifico rimasto (realizzato tra il 1953 ed il 1954) è situato in via Pasini, ai civici 101-103, ed è attualmente occupato da persone senzatetto o senza fissa dimora. Si prevede pertanto un intervento di demolizione dal costo di 150 mila euro per completare il cosiddetto "Programma di Riqualificazione Urbana dell'area Vaschette".Edilizia residenziale pubblica (420.685,65 euro)Marghera. Recupero e razionalizzazione degli immobili Erp. Approvato il progetto definitivo relativo al Programma di recupero e razionalizzazione degli immobili e degli alloggi di edilizia residenziale pubblica con lo stanziamento di 420.685,65 euro per interventi di ripristino e di manutenzione straordinaria di nove alloggi sfitti ubicati su tre palazzine situate in via Oroboni ai civici 1, 9, 13, 15 e in via Beccaria 86. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Se cresce anche il Pil sociale di Vittorio Filippi I segni del Veneto E’ un buon Natale quello che si trova a vivere il Veneto. L’affermazione non è una forzatura augurale un po’ dovuta, ma una realtà per così dire «certificata». Certificata dai numeri che ci dicono che dopo i nove punti di Pil persi con gli anni della crisi, il Veneto sta trovando una sua bella reattività. Non è una reattività solo economica, anche se l’aumento di due punti di Pil previsto per l’anno che si sta chiudendo è ovviamente soddisfacente. Così come è soddisfacente sapere che la locomotiva dell’export ha superato la crescita del 6 per cento solo nel primo semestre dell’anno. Ma, come si diceva, non basta la sola vivacità macroeconomica: infatti uscire «tecnicamente» dalla recessione non è poi molto interessante se le persone non se ne accorgono: nella loro quotidianità, nella loro progettualità, nel loro sperare. Insomma non di solo Pil vive l’uomo (della strada), ma di un benessere che – per essere vero ben-essere – deve connotarsi, come spesso si dice, in modo equo e sostenibile. E infatti si chiama proprio così (Bes, «Benessere equo e sostenibile») il rapporto piuttosto corposo con cui l’Istat ha misurato la qualità della vita in Italia e nelle sue regioni. Ma se a livello nazionale i miglioramenti economici si accompagnano ad un peggioramento sociale – più disuguaglianza, più solitudine, più insoddisfazione relazionale, crollo dello spirito civico – in Veneto ed in pochissime altre regioni non cresce solo il Pil economico ma anche il Pil sociale. Infatti non solo nella nostra regione si registrano significativi aumenti del volontariato, della fiducia negli altri e nella soddisfazione personale, ma dei quindici aspetti di benessere calcolati dall’Istat quasi tutti risultano crescenti o migliorati rispetto all’anno prima. Alcuni indicatori sono delle antenne sensibili sul come si vive il momento attuale: è significativo ad esempio che si sia dimezzata rispetto al 2013 la percezione di insicurezza dell’occupazione, così come è significativo il fatto che cali (lentamente però) il giudizio negativo sul futuro. Crescono anche i cosiddetti lavoratori della conoscenza e gli occupati in imprese creative, segno di una metamorfosi «post-produttiva» della regione. Ed è anche bello constatare come aumenti il numero delle persone «su cui poter contare», importantissime microreti di solidarietà per una società spesso (forse troppo spesso) descritta con grandi pennellate di colore nero come individualistica, frantumata ed egoista. Non è solo un augurio natalizio quindi l’invito ad abbandonare le tinte troppo pessimistiche o le visioni talvolta apocalittiche con cui abbondantemente

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interpretiamo la realtà del tempo presente. Un tempo che, nel caso del Veneto, sembra offrire invece anche concreti elementi di forza e di speranza. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Così Trump ci sfida sulle tasse di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi La riforma fiscale Il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un’ampia riforma fiscale, la più radicale dopo quella varata dal presidente Reagan trentacinque anni fa. Per l’Europa l’aspetto che più conta è la forte riduzione delle imposte sulle imprese, oltre ad alcuni cambiamenti che favoriranno il rientro negli Usa di capitali oggi investiti all’estero grazie alla cancellazione di norme che lo penalizzavano. Il costo per unità di prodotto delle imprese esportatrici americane scenderà. Certo, il deficit federale salirà, e di molto, nonostante Trump lo neghi, anche perché gli Stati Uniti dovranno spendere molto di più per migliorare infrastrutture pubbliche fatiscenti. Ma di questo si occuperà il prossimo presidente. Come deve rispondere l’Europa? Protestare, come hanno fatto giorni fa cinque ministri dell’Economia europei (Germania, Francia, Regno Unito, Italia e Spagna) minacciando di ricorrere all’Organizzazione internazionale del commercio perché la riforma ne violerebbe le regole, non serve a nulla: è solo fumo negli occhi per gli elettori europei. Quell’organizzazione non ha alcuna autorità sulle politiche fiscali di un Paese tranne in presenza di palese protezionismo: questo non è certo il caso. E infatti il presidente degli Stati Uniti e il Congresso non hanno tenuto in alcun conto quella protesta formale. Ciò che l’Europa invece deve fare è ridurre le imposte su lavoro e profitti e aumentare la produttività. La Germania può permettersi di ridurre le imposte: ha un avanzo di bilancio, il suo debito scenderà il prossimo anno al 60% del Pil e il suo tradizionale rigore fiscale le garantirà tassi di interesse bassi ancora a lungo. Nei mesi scorsi Berlino si chiedeva se spendere il proprio avanzo di bilancio (1% del Pil nel 2018) costruendo infrastrutture oppure tagliando le tasse. Questa scelta era stata argomento di discussione fra Parigi e Berlino: Macron spingeva per più infrastrutture, evidentemente preoccupato di non potere seguire la Germania qualora questa avesse deciso di tagliare le tasse sulle imprese rendendole ancor più competitive rispetto a quelle francesi. Ora la scelta della Germania è obbligata. Per non perdere investimenti da oltre oceano e competitività dovrà destinare almeno una parte dell’avanzo di bilancio ad un taglio delle imposte sui profitti. Per Paesi, come Francia e Italia, che non hanno spazio per tagliare le tasse - almeno finché non cominceranno seriamente a tagliare le spese, e le promesse che un po’ tutti i partiti italiani stanno facendo in vista delle lezioni non promettono bene - per non perdere investimenti americani e competitività con le esportazioni Usa rimane solo la strada di un aumento di produttività. Da oltre un decennio la produttività in Italia è stagnante. I perché sono tanti. Ma soprattutto vi è una divergenza sempre maggiore fra settori in cui la produttività cresce, talvolta più che in Germania, e settori in cui è ferma, o scende, come nei servizi professionali e nelle imprese dove l’azionista maggiore è un ente pubblico: il Comune, la Regione o lo Stato. Se nella nostra economia la produttività fosse stagnante dappertutto, ci sarebbero poche speranze. Invece, proprio perché alcune imprese stanno andando a gonfie vele ciò che bisogna fare è spostare risorse dai settori stagnanti a quelli in cui la produttività cresce. Cominciamo ad esempio ad eliminare un po’ di leggi che obbligano le imprese ad acquistare servizi professionali inefficienti, a cancellare norme burocratiche che ostacolano l’ingresso nel mercato di nuove imprese e il trasferimento della proprietà di un’azienda pubblica a privati. Fabiano Schivardi e Francesco Lippi («Corporate Control and Executive Selection», 2013) studiando un campione di 1.200 imprese manifatturiere italiane medio-grandi (costruito partendo dall’indagine della Banca d’Italia sulle imprese manifatturiere a partire dall’inizio degli anno ‘90) trovano che la produttività del lavoro è significativamente più bassa nelle aziende in cui il controllo è esercitato da un ente pubblico. La differenza di produttività è del 10% circa. Se è il 10% nelle aziende pubbliche del manifatturiero immaginiamoci quanto sarà in aziende di servizi municipali! Il motivo che gli autori

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individuano è la qualità inferiore del management di queste, probabilmente effetto di assunzioni decise più in base al clientelismo che al merito. Trasferirne la proprietà dal pubblico a privati aumenterebbe la produttività media di tutta l’economia. Alle privatizzazioni si oppongono lobby potenti, in primis i politici che non vogliono perdere il controllo sulle ex-municipalizzate (e il consenso politico che esse portano). La scossa che arriverà con la grande riforma fiscale di Trump potrebbe essere l’occasione per abbatterne il potere. Pag 6 Senza un piano di pace anche un gesto giusto può diventare l’opposto di Bernard-Henri Lévy Indignazione assurda ma Trump fa un calcolo politico Gerusalemme è chiaramente, e da sempre, la capitale di Israele. Avverto tuttavia qualcosa di assurdo, e anche di scandaloso, nell’indignazione planetaria suscitata dal riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di questa evidenza. Da dove scaturisce allora il mio disagio? E due settimane dopo questo annuncio che aspettavo anch’io, e da parecchi anni, come mai mi sento stringere il cuore da una morsa di inquietudine? Trump, innanzitutto. È troppo facile attribuire la dichiarazione al suo carattere opportunistico, quando, messo alle strette da varie sconfitte consecutive, ecco che decide di calare il suo asso per coronare la fine del primo anno di mandato presidenziale. Un amico degli ebrei, è così che si definisce? Paladino e santo patrono di Israele? Scusate, ma io non ci credo affatto. Non penso assolutamente che Trump abbia voluto riconoscere l’esistenza di un sacro connubio tra l’America e Israele, tra la nuova e l’antica Gerusalemme. Non credo che l’animo di Trump sia propenso, in alcun modo, a esaltare la specificità ebraica, a celebrare i paradossi del pensiero talmudico o il gusto dell’avventura che infervorava le gesta ardenti, liriche ed eroiche dei pionieri laici del sionismo. E non credo neppure che i famosi neo evangelici che compongono, a quanto pare, le schiere dei suoi elettori più fedeli, abbiano la più pallida idea di cosa sia, in realtà, questo Stato cantato dai poeti, costruito dai sognatori e inseguito ancora oggi, con il medesimo afflato o quasi, da un popolo la cui narrativa nazionale è ricca di miracoli razionali, di speranze sotto il cielo stellato e di slanci logici. E allora? La storia ci insegna che un gesto di amicizia astratto, insincero, slegato dall’Idea e dalla Verità, amputato da quella conoscenza e da quel profondo amore che si chiamano, in ebraico, «ahavat Israel», in fin dei conti non vale poi gran che - o, peggio, la storia ci insegna come, proprio a causa dell’origine tossica delle febbri politiche di cui il popolo ebraico ha dovuto sopportare sin troppo spesso le conseguenze funeste, c’è il rischio che questo gesto, un giorno, si trasformi nel suo opposto. Per non parlare, poi, della precarietà di Israele. Io lo amo, questo paese. Conosco (un po’) e amo (infinitamente) la sua avventura così temeraria e bella. Amo il suo universalismo recalcitrante. Amo, nei suoi abitanti, che portino o meno il capo coperto, che siano lettori di Appelfelt, Yehoshua e Amos Oz oppure, al contrario, del luminoso Rav Aaron Steinman, scomparso lo scorso 12 dicembre all’età di 104 anni, in ognuno di essi io ammiro la forte convinzione di lavorare per l’umanità e di contribuire al progresso umano grazie alle loro invenzioni e ai loro studi. E amo, ovviamente, Gerusalemme. Amo questa città plurimillenaria, questa città di Giacobbe e di Melchisedech, re di Salem, questa città di Hillel e Shammai, questa città di Gesù, questa città di rabbini scacciati da Roma che vagabondano tra le sue rovine. Ma conosco anche molto bene la sua precarietà. So benissimo che aleggia su questa città un destino sospeso, fatto di poesia, nobiltà e catastrofe. Non credo che un colpo di dadi né un poker politico, non credo che un riconoscimento diplomatico mal congegnato, non negoziato e avulso da ogni tentativo di pace globale e giusta sia in grado di rafforzare ciò che resta, a mio avviso, l’essenziale: la legittimità di Israele, a fianco del futuro stato palestinese, su una terra alla quale la memoria storica del suo popolo, i suoi sospiri e preghiere lo avevano destinato da secoli ma dove esso dimora, ancora oggi, così tremendamente vulnerabile. Il mio pensiero corre, stamattina, agli uomini che quasi settant’anni fa, appena dopo la fine dell’orrore, hanno saputo reinventare, le armi in pugno, lo «stato degli ebrei». Penso ai fuggiaschi dall’Europa viennese o berlinese che hanno giurato «mai più». Penso a quei rifugiati famelici, sfuggiti ai ghetti e alle yeshivah di Polonia e Lituania, che seppero trasformarsi in costruttori di città. Penso ai nuovi migranti che fuggono, in questo primo scorcio del

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ventunesimo secolo, dai territori ed ex colonie delle repubbliche europee. Penso a questo paese sempre isolato che combatte ogni giorno contro la sua solitudine. Ha forse riflettuto a tutto questo il presidente Trump, quando ha messo mano al dossier «Gerusalemme»? Ha pensato ai figli di Israele, cui è stato concesso appena l’arco di una sola vita umana per riprendere fiato e resistere? È a loro che va il mio pensiero questa mattina. È per questi figli, che io tremo in questi ultimi giorni dell’anno. Sarebbe stato infinitamente meglio calare questa carta vincente - la decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale - all’interno di un vero piano di pace, il solo in grado di garantire l’inalienabile diritto di questo paese all’esistenza e alla sicurezza. Ma il 45° presidente degli Stati Uniti non se n’è curato minimamente: mirava alla spacconata politica, non a scrivere la Storia. Pag 9 Lo Stato indebitato e il potere delle banche sulla politica di Federico Fubini Beato quel Paese nel quale i problemi fra il sistema finanziario e la politica finiscono con una piccola banca di Arezzo. L’Italia non è quel Paese. Nella Prima Repubblica, ai tempi della foresta pietrificata e controllata dallo Stato, la politica dominava gli istituti. Oggi la commissione parlamentare mette a nudo come persino un sistema bancario debole si trovi in posizione di forza di fronte ai politici e alle istituzioni. Basta guardare i dati. Fra i nove principali Paesi dell’euro, l’Italia è quello nel quale la quota di investitori esteri sul debito pubblico oggi è più bassa (34%) e continua a scendere. Anche l’appetito delle famiglie per i bond del loro governo è passato: i risparmiatori detenevano il 22% del debito pubblico cinque anni fa, ma restano con poco più del 5% oggi; mentre il debito italiano cresceva di oltre 500 miliardi in un quinquennio, loro hanno ridotto l’esposizione di 200. Se il governo non è finito in default nel 2012 e oggi paga interessi così bassi, è solo grazie ad altri due soggetti: la Banca centrale europea, che ha già comprato titoli per 318 miliardi; e gli istituti di credito italiani, il cui investimento nel debito nazionale in dieci anni è più che raddoppiato. Di recente le banche hanno iniziato a ridurlo un po’ - da 400 miliardi a 360 - approfittando della disponibilità della Bce per venderle un po’ dei bond che avevano. Ma se solo la commissione parlamentare avesse guardato anche un po’ avanti avrebbe visto che la Bce si prepara a smettere di comprare sempre nuovi titoli. Presto si limiterà a restare con la sua quota, per poi ridurre anche quella. Allora tutto sarà pronto per tornare a una caratteristica dell’Italia del 2011: le banche si ritroveranno, da sole, nel ruolo di prestatore di ultima istanza di uno Stato debole e indebitato. Continueranno a sobbarcarsi quel compito anche per aiutare se stesse, perché una nuova crisi le coinvolgerebbe. Ma fra banchieri e politici, non c’è dubbio su chi sia oggi in condizioni di chiedere o di concedere favori: con le attuali regole europee i governi non possono più salvare le banche, ma le banche possono ancora salvare i governi. E i banchieri locali possono ancora finanziare candidati alle elezioni. Con questi rapporti di forza, i partiti rischiano di finire catturati dall’industria finanziaria e a pagare alla fine sarebbero i risparmiatori. È già successo: proprio perché gli istituti stavano sostenendo il debito dello Stato, le autorità non hanno osato contrastare davvero la vendita alle famiglie di bond subordinati delle banche stesse. L’interesse dei governi sarebbe dunque ridurre il debito. E l’interesse del Paese sarebbe favorire una nuova autorità di controllo europea che affianchi la Consob. Invece in commissione banche è parso che l’Europa (e il futuro) non esistessero neanche. AVVENIRE Pag 1 Il mostro bicefalo di Fulvio Scaglione La Polonia, due Europe, un vuoto Lo scontro tra Bruxelles e Varsavia, l’indice della Ue puntato contro la Polonia, accusata di mettere a rischio lo Stato di diritto, segna forse il momento più drammatico della storia comunitaria. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la riforma della Giustizia varata dal Governo nazionalconservatore della premier Beata Szidlo ma ispirato da Jaroslaw Kaczynski, il gemello superstite (il fratello Lech morì nel 2010 in un incidente aereo quand’era presidente della Repubblica) che è il padre-padrone del partito che paradossalmente porta il nome di Diritto e Giustizia. Tale riforma subordina di fatto la magistratura e la Corte di Cassazione al potere politico. Fa, cioè, l’esatto contrario di

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quanto è stato chiesto in passato a tutti i Paesi che aspiravano a diventare membri della Ue. Da qui, e sulla base dell’articolo 7 dei Trattati comunitari, l’ultimatum: tre mesi di tempo per riformare la riforma, poi la procedura che potrebbe portare alla sospensione del diritto di voto per la Polonia al Consiglio europeo. La pistola di Bruxelles purtroppo è scarica. Per arrivare a togliere il diritto di voto a un qualunque Paese occorre il parere unanime di tutti i membri della Ue, ma Ungheria e Repubblica Ceca, che con Slovacchia e Polonia formano il Gruppo di Visegrad, hanno già detto che bloccheranno qualunque iniziativa di tal genere. Forte di questo loro impegno, la Polonia tira dritto e respinge critiche e accuse. A dispetto di tutto questo, però, la decisione di Bruxelles è destinata a lasciare il segno. Non dal punto di vista pratico, magari. Di certo nella consapevolezza politica. È oggi impossibile non capire che l’allargamento dell’Unione varato nel 2004, quando entrarono in un solo colpo dieci Paesi (Cipro, Malta, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovenia), è uno dei padri delle attuali difficoltà europee. L’inglobamento delle nazioni uscite dall’orbita dell’Urss ha prodotto un mostro bicefalo, perché questi Paesi (più Bulgaria e Romania nel 2007), per dirla in sintesi, prendono i soldi a Bruxelles e gli ordini a Washington. La Polonia è stata trascinata fuori dal sottosviluppo dai fondi strutturali della Ue, che ancora oggi riceve nella bella misura di 14 miliardi di euro l’anno. Ma quando ha deciso di ospitare lo scudo antimissile americano non ha chiesto il parere dei Paesi che versano quei quattrini. E bisogna essere atlantisti molto ottimisti per esser sicuri che un sistema missilistico inviso alla Russia piazzato nel cuore del continente sia anche nei nostri interessi. Di più. L’Europa occidentale si cruccia per il suo 'populismo'. Ma troppo poco si cruccia per il fatto che in Europa si è formato un nocciolo duro di Paesi interamente populisti, anzi, sempre più populisti. Perché questo è il Gruppo di Visegrad: un blocco di Paesi populisti di destra che si sono dati il chiaro intento di sfruttare l’Unione Europea senza concederle nulla. Come si è ben visto con il naufragio del piano europeo di ridistribuzione dei migranti e richiedenti asilo. Ed è di scarsa soddisfazione notare che certi blocchi comparsi in Europa nel recente passato, per esempio quello dei Paesi del Nord 'virtuosi' che si accanivano contro i Paesi del Sud 'sciuponi', sono ora i più in difficoltà con il sabotaggio organizzato dagli alleati di Visegrad. Detto questo, bisogna però accettare il fatto che la 'questione polacca' mette in luce anche una difficoltà della stessa Ue. È clamoroso che si sia arrivati alla messa in mora di Varsavia senza una trattativa interna alla Ue capace di appianare le cose, o almeno renderle più gestibili. Chiediamoci, quindi, se l’Unione Europea sappia ancora parlare a qualcuno, cioè a fare politica. Non ci siamo riusciti con il Regno Unito, ed è stata Brexit. Non con la Turchia, se non per chiederle di tenersi i migranti in cambio di miliardi. Non con la Russia, fino alle sanzioni. Con la Cina è guerra fredda commerciale a colpi di dazi. Angela Merkel qualche tempo fa ci ha informato che dovremo fare senza gli Usa di Donald Trump. E ora l’incomunicabilità tra Paesi membri. Si può continuare così? Il continente che ancor oggi genera il 20% degli scambi commerciali mondiali può mostrarsi al mondo come un nano politico ai limiti dell’autismo? Pag 7 Però la vera vincitrice è la “disunione” di Sergio Soave Sono passati meno di tre mesi dal referendum unilaterale sull’indipendenza della Catalogna, e ora si torna a votare per il consiglio regionale, ora commissariato dal governo spagnolo. Il clima è di attesa ma anche di scetticismo: anche la parte favorevole alla secessione, che nelle scorse elezioni ottenne la maggioranza dei seggi (ma neppure allora dei voti) è disillusa. Ha compreso che il processo indipendentista, che era stato descritto dai governanti catalani come un percorso realizzabile, è di fatto ostruito. L’indipendenza proclamata senza esito ha provocato la sospensione dell’autonomia catalana, che si potrà restaurare solo se si troverà una maggioranza, altrimenti c’è la prospettiva di un nuovo ricorso alle urne in primavera. Durante questi mesi si sono via via attenuate le proteste indipendentista, anche uno sciopero proclamato per reagire alla “repressione” è sostanzialmente fallito, ma il senso di frustrazione resta dominante. Mentre a livello della percezione dei cittadini si registra una delusione e una volontà di rivincita dei separatisti e una ripresa di visibilità delle opzioni unioniste, che sembrano spingere a un livello record di partecipazione al voto, il gioco dei vertici politici si è fatto piuttosto intricato. Le tre formazioni indipenden-tiste

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sono divise non solo dalla competizione per la vittoria elettorale, ma da giudizi contrastanti sulla fibra morale dei leader: l’ex presidente Carles Puigdemont fuggito a Bruxelles si presenta come l’unico continuatore della “repubblica” catalana, il suo vice Oriol Junqueras, dal carcere, si presenta come un uomo che non ha abbandonato i suoi seguaci. Anche gli unionisti, cioè gli esponenti catalani dei partiti nazionali, non sono affatto uniti. I partiti che a Madrid stanno al governo, Ciudadanos che in Catalogna supera di gran lunga il Partido popular, non vengono considerati neppure interlocutori possibili da quelli che in Spagna sono all’opposizione, socialisti e “indignados” di Podemos. Naturalmente sarà l’esito del voto a determinare gli spazi reali di possibili e comunque difficili alleanze. Le previsioni sono complicate anche dalla particolare suddivisione dei collegi elettorali catalani, che privilegiano le province minori a svantaggio di quella di Barcellona, dove è più forte il consenso per i partiti unionisti. Così, com’è già accaduto, il partito più votato potrebbe ottenere meno seggi del secondo arrivato. Di queste alchimie si occupano (com’è peraltro naturale) i dirigenti dei partiti, mentre al livello dell’elettorato pesano di più i fenomeni reali, come l’abbandono da parte di un migliaio di aziende, comprese le maggiori banche, delle sedi catalane, e i segnali di una crescita catalana dimezzata rispetto a quella spagnola, anche per i riflessi negativi sul turismo e sul mercato immobiliare. Naturalmente anche questi dati vengono interpretati in modo opposto: gli unionisti spiegano che i danni economici sono la conseguenza dell’azzardo indipendentista, i loro avversari ne attribuiscono la responsabilità a una specie di congiura anti-catalana del resto della Spagna, guidata dal governo di Madrid. C’è una apparente contraddizione tra la sfiducia diffusa per una soluzione politica prodotta dell’esito elettorale e la tendenza prevista a un forte aumento della partecipazione al voto (registrata per ora in termini reali solo nell’aumento dell’80 per cento delle schede provenienti dall’estero). I catalani voglio decidere del loro futuro, anche se sono divisi e incerti su quale possa essere. Ormai solo una minoranza crede alla prospettiva dell’indipendenza, ma moltissimi confermano la fiducia a chi ha cercato di ottenerla seppure senza esiti concreti. Quello che pare certo è che non sarà l’indipendenza, diventata rapidamente un simulacro nostalgico, il tema della prossima legislatura catalana, ma una diversa dimensione e gestione dell’autonomia. I veleni della contrapposizione, che vengono da lontano, però non si disperdono e renderanno difficile una ripresa di dialogo istituzionale, che resta indispensabile quale che sia il risultato dei voti. IL GAZZETTINO Pag 1 La Costituzione compie 70 anni, qualche idea per rinnovarla di Carlo Nordio La nostra Costituzione compie settant'anni. Al netto della consueta retorica celebrativa, possiamo dire che, quando nacque, fu un geniale compromesso politico, avallato da una rigorosa perfezione formale. I nomi dei padri costituenti, da Croce a Togliatti, incutono una rispettosa nostalgia reverenziale, non foss'altro per la desolante mancanza di eredi. Essi attuarono il miracolo di dare a un Paese sconfitto e diviso l'illusione di una vittoria e la garanzia di un'unità, conciliando, o provando a conciliare, ideologie configgenti: le sue tre anime, cattolica, marxista e liberale, rappresentate dalle firme di De Gasperi, Terracini e De Nicola, sono valse a risuscitare un'Italia paralizzata e umiliata da vent'anni di dittatura e di rovine. Tuttavia al mondo nulla è immutabile. Soltanto la parola del Signore, Veritas Domini, manet in aeternum. Il resto, è soggetto alle ingiurie del tempo e al logorio delle cose. Oggi il marxismo è morto, il cristianesimo si è secolarizzato, e tutti si dicono liberali. Se non nelle idee, certo nell'economia, nella finanza, nell'etica e nei costumi, le ideologie sono irreversibilmente tramontate. Al matrimonio tra omosessuali, che avrebbe fatto inorridire Togliatti,Saragat e Nenni, fa riscontro una Cina sedicente comunista che, con il suo liberismo sfrenato, tiene per la gola il debito pubblico degli Stati Uniti. Se cambia il mondo, forse dovrebbe cambiare anche parte della nostra Costituzione. Le ragioni di questo necessario aggiornamento non sono solo ideologiche, sono drammaticamente pratiche. Perché la Costituzione ha dimostrato non solo la sua insufficienza, ma anche l'incompatibilità con le stesse riforme che tutti auspicano, almeno a parole. Bastano due esempi, e potremmo continuare a lungo. Primo. La giustizia. Coerenza avrebbe voluto che la Costituzione, nata dalla cultura antifascista, ripudiasse il processo inquisitorio e il codice penale, autentici

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biglietti da visita del sistema mussoliniano. Invece è accaduto il contrario. Si è provato a introdurre un processo liberale-accusatorio, firmato dal prof. Vassalli, medaglia della Resistenza, ed esso è stato demolito perché in gran parte configgente con la stessa Costituzione. Mentre il codice penale, firmato dal Duce, è ancora lì, più inossidabile e intoccabile che mai. Secondo. Il sistema elettorale. Dopo vent'anni di proclami sulla bontà del maggioritario, e sulla necessità di individuare, la stessa sera delle elezioni, sconfitti e vincitori, si è capito che, alla fine, si ritorna inevitabilmente al proporzionale, vero o mascherato, con le incertezze che ne conseguono. Perché? Perché è su questo sistema che è stata costruita la Costituzione. E quando si è provato a cambiarlo, l'impresa si è rivelata non solo politicamente, ma giuridicamente impossibile. Potremmo aggiungere altre cose: l'invadenza dei poteri interdittivi, dai Tar alle Procure, che paralizzano iniziative e allontanano investimenti; i bizantinismi formali, che rallentano le procedure e alimentano la corruzione; e infine le stesse aspirazioni etiche, che proclamando pomposamente la tutela della salute, della vita, della libertà, dell'occupazione e di mille altri valori hanno creato, e creano, ambiguità nelle interpretazioni e conflitti nelle scelte. Se un principio elementare come il diritto all'autedeterminazione nelle cure e al testamento biologico è stato oggetto di tanta polemica, è anche perché, alla luce della nostra Costituzione, tutte le opzioni sono possibili, sostenibili e giustificabili. Concludo con l'Articolo Uno. L'affermazione che la Repubblica è fondata sul lavoro, ispirò subito gli animi più burloni a replicare che era fondata sulle cambiali. Non è lecito irridere a chi partecipò a quell'Assemblea con tanto impegno e dopo tante sofferenze personali. Tuttavia è lecito ammettere che oggi quella formula è più adatta alle torride spiagge cubane e alle gelide colline della Nord Corea piuttosto che a una democrazia moderna e compiuta. Forse sarebbe più bello, e più attuale, stabilire che Essa è fondata sulla libertà. LA NUOVA Pag 1 Costituzione, il 22 dicembre di 70 anni fa di Mario Bertolissi Parliamo d'altro. Rispetto a che cosa? A quel che ci sottopone lo scambio, più che di idee, di accuse e di controaccuse, che avrebbero la pretesa di essere un anticipo di una campagna elettorale condita di slogan. Di ipotesi, rettificate, se non sconfessate a breve. Ma non c'è anche dell'altro? Butto lì: non c'è, magari, anche Dio, non tanto come soluzione, ma come problema? Lo evitiamo per paura, per inadeguatezza umana e culturale, per un'ossessione ostinata per le cose. Per quel che empiricamente si tocca e si vede. Ma Dio - lo affermano le Scritture - nessuno l'ha visto. Tuttavia, esiste solo quel che si tocca e si vede? Esse est percipi! O, forse anche no, perché c'è la dimensione del pensiero. E il pensiero vive pure nell'ombra, nella notte, ogni notte. Soprattutto, è nel silenzio. Discorso da teologo? No, da costituzionalista con un po' di memoria. Questa gli ricorda, appunto, che Benedetto Croce - un laico - l'11 marzo 1947, in Assemblea costituente, pronunciò le parole dell' "inno sublime": Veni Creator Spiritus! Mentre - esattamente settant'anni fa, in quella medesima sede, il 22 dicembre 1947, si aprì una discussione, dai toni eccelsi, sull'invocazione di Dio. Quel giorno, l'Assemblea costituente approvò il testo definitivo della Costituzione. Ad introdurre l'argomento fu Giorgio La Pira, il quale propose la seguente formula: "In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione". Il resoconto della seduta nota, a questo proposito: "Commenti a sinistra". Palmiro Togliatti obiettò che l'Assemblea avrebbe dovuto compiere "un atto di unità" e che si doveva avere a cuore ciò "che ci unisce tutti". Non era il caso, dunque, di "staccarsi da questa atmosfera elevata". Ne fu interprete Concetto Marchesi - professore e Rettore, per un tempo limitato e indimenticabile, dell'Università di Padova. Disse, nell'esordio: "... nessuno che mi conosca, potrà accusarmi di irriverenza verso le fedi religiose o di professione di ateismo". E aggiunse, con parole da brivido: "Ho sempre respinto nella mia coscienza l'ipotesi atea, che Dio sia una ideologia di classe. Dio è nel mistero del mondo e delle anime umane. È nella luce della rivelazione per chi crede; nell'inconoscibile e nell'ignoto per chi non è stato toccato da questo lume di grazia...questo mistero, questo supremo mistero dell'universo, non può essere risoluto in un articolo della Costituzione, in un articolo di Costituzione, che riguarda tutti i cittadini, quelli che credono, quelli che non credono, quelli che crederanno...qui nessuno può dire di essere contro Dio, perché non sarebbe un bestemmiatore, sarebbe uno

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stolto". Intervennero nel dibattito, tra gli altri, Piero Calamandrei e Francesco Saverio Nitti. Quest'ultimo si espresse così: "Non credo, comunque, che questa consuetudine profondamente cristiana (di invocare Dio) possa diventare in Parlamento ragione di divergenze politiche: questa è materia su cui vi possono essere ragioni di divergenza spirituale, non politica. Iddio è troppo grande, Iddio è al di sopra di tutte le cose, e tutte le anime credenti debbono impiegarsi a servirlo nel comune desiderio del bene dell'umanità...Perché ci dovremmo dividere sul nome di Dio? Il nome di Dio è troppo grande e le nostre contese sono troppo piccole". Queste parole potrebbero convincerci delle cause di una decadenza che spaventa. Non siamo più abituati ad ascoltare qualcosa che abbia la parvenza di ciò che è nobile ed elevato. Obiezioni se ne possono fare, come è naturale. E si potrà sottolineare che i costituenti erano uomini come gli altri, non indenni da limiti personali e da colpe. Uomini, quindi, non superuomini. È vero! Ma c'è uomo e uomo, ignoranza e sapere, corruttela e onestà. Capacità di comprendere che non ci si può dividere su tutto, per cause che non hanno a che fare con la ragione, ma con sentimenti rancorosi che fanno andare fuori di senno. "Le nostre contese sono troppo piccole", ebbe il coraggio di rilevare - senza essere smentito - Nitti. Oggi, nessuno - tra i politici - se ne accorge. È la genesi di un male profondo, che confonde miseria e nobiltà della vita in un amalgama scomposto, che genera il risentimento dei più. Per il bene di tutti: Veni Creator Spiritus! Pag 1 Liberi dal male, è la pena che rieduca di Fabio Pinelli Di fronte all'esperienza del male, è per certi versi inevitabile riconoscere che il senso della pena non può essere ridotto alla volontà di punizione in sé e per sé, ma deve necessariamente costituire un'occasione preziosa di miglioramento dell'uomo. Non ci sarebbe alcuna differenza, altrimenti, tra le sbarre che confinano un animale feroce e le sbarre che sottraggono la libertà all'uomo. Sarebbe, questo, uno svilimento nichilista della dignità della persona, che nessuna società civile può tollerare. Certo, chi sbaglia deve essere punito; ma se la punizione diventa solo prigionia, e non la si eleva a opportunità per stimolare un percorso interiore di allontanamento dal male e di avvicinamento al bene, la pena finisce per non avere alcun senso, poiché essa diviene, con ogni probabilità, unicamente una temporanea interruzione di un percorso criminale. L'uomo, dunque, nella pena deve trovare la forza di liberarsi dal male, di liberare il proprio animo da quegli istinti che lo hanno portato alla sopraffazione, alla violenza, alla mancanza di rispetto, all'indebito arricchimento. È certamente interessante poter affiancare una riflessione sulla natura e la funzione della pena nella società contemporanea, e la Preghiera per eccellenza dei cattolici, il Padre Nostro. La nostra Costituzione contiene un invito perentorio a che la pena sia momento di rieducazione, e assegna dunque alla pena non la funzione della segregazione, ma quella ben più nobile della liberazione dell'uomo dal male. Così anche la preghiera del Padre Nostro contiene un'invocazione alla liberazione dal male. La parentesi del male, quel male nel quale l'uomo può inciampare, sin dal pensiero di Sant'Agostino sul libero arbitrio, si connette, in fondo, con quello della libertà umana. L'uomo è antropologicamente votato al bene, ma è razionalmente libero di scegliere anche il male. Sarebbe ipocrita, non semplicemente sciocco, accantonare il tema della presenza del male nella vita. Sia il Padre Nostro, la Preghiera fondamentale, che la Costituzione, la Carta fondamentale, più o meno direttamente, se ne occupano: quasi a dire che l'intera umanità non può permettersi di non confrontarsi con questa terribile presenza. Esiste quindi uno spazio, per i laici e per i cattolici, per un percorso condiviso e un impegno comune, per valorizzare la presenza del bene e restringere lo spazio dell'adesione al male. Per il laico la finalità rieducativa della pena esprime in modo cardinale la sua potenzialità liberatrice dal male; essa è al centro dell'esperienza penalistica ed è definita dalla Corte Costituzionale come una qualità essenziale e generale della pena. La rieducazione impone una solidaristica e doverosa offerta di opportunità, affinché all'uomo che si è determinato per il male sia data la possibilità di un progressivo reinserimento sociale, correggendosi e adeguando il proprio comportamento alle regole condivise di una società. Ma non basta. La pena deve "tendere" alla rieducazione; quindi essa può non realizzarsi, perché il reo, il destinatario del percorso di rieducazione può anche decidere di non aderirvi. È un'indicazione essenziale: la liberazione dal male passa attraverso la

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pena, che può anche concretizzarsi in una limitazione della libertà. Tuttavia non può avere la pretesa di colpire l'intimo della dimensione individuale dell'uomo stesso: il processo di rieducazione è tale, solo se è oggetto di adesione libera da parte di chi la pena subisce. Quindi non c'è rieducazione, non c'è spazio per la liberazione dal male, in assenza di un percorso interiore, capace di creare motivazioni che inducano a comportamenti socialmente corretti. La forza laica, rieducativa, liberatrice dell'uomo dai suoi mali, che ciascuno è in grado di mutuare dagli insegnamenti del cristianesimo, origine della cultura e della storia europea, è fortissima. A partire dal Padre Nostro, patrimonio condiviso della culturale occidentale. Preghiera che condensa gli impegni dell'uomo alla testimonianza, alla fedeltà e all'amore; che contempla la richiesta di sostegno, di perdono, di libertà dal male. Principi essenziali della relazione dell'uomo con Dio, per chi crede, ma anche con se stesso e con gli altri uomini, per chi non crede. Torna al sommario