Rassegna stampa 21 giugno 2016€¦ · voto «di cambiamento», di cui anche il Pd di Renzi ha...

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RASSEGNA STAMPA di martedì 21 giugno 2016 SOMMARIO “Contare i voti è sempre più facile che pesarli - spiega il direttore di Avvenire Marco Tarquinio nell’editoriale odierno -. Stavolta non è così. E meno male, perché altrimenti l’analisi delle Amministrative di giugno 2016 risulterebbe complicata e rischierebbe di rivelarsi fuorviante. Infatti, se dovessimo dedicarci a una pura e semplice conta delle bandierine, a partire da quelle piantate sui Comuni capoluogo, sarebbe comunque chiaro che il Pd esce sconfitto: è impressionante il tonfo da 20 a 8 super sindaci, la disfatta è stata evitata solo dalla conquista-bis di Milano grazie a Beppe Sala. Ma sul vincitore finiremmo per prendere un abbaglio. Vincente, numeri alla mano: un balzo da 4 a 10 super sindaci, sembrerebbe il centro-destra (tornato 'col trattino' nell’era faticosamente postberlusconiana delle aspre guerre intestine) che però, nonostante il ritorno alla guida del Comune di Trieste, si rivela incapace di giocare da protagonista sulla grande scena politica. A trionfare è invece il Movimento 5 Stelle, che di super sindaci – anzi di super 'sindache' – ne porta a casa appena 3, ma 2 di enorme valore: Roma, con le clamorose proporzioni finali del successo (annunciato) di Virginia Raggi, e Torino, dove Chiara Appendino ha conquistato a spese di Piero Fassino una vittoria di prima grandezza politica, il risultato che fa davvero la differenza in questo passaggio elettorale. Matteo Renzi, premier e segretario del Pd, ha saputo riconoscere tutto questo con la sua migliore franchezza al cospetto di un partito sotto choc: «Ha vinto chi ha saputo interpretare meglio un’ansia di cambiamento». E colpisce, ma non stupisce, che si tratti degli stessi identici concetti usati, in contemporanea, da Beppe Grillo. Non per caso Pd e M5S si delineano come i grandi duellanti di un tempo politico tripolare in cui il centro-destra c’è, ma ha perso tempo e ruolo, facendosi illudere dal battutismo e dal cinismo politico simil-lepenista di Matteo Salvini (che mentre si concentrava, invano, sulla 'conquista' della capitale d’Italia, ha perso Varese, storica 'capitale' della Lega Nord). È vero, in quest’Italia in cui troppi si consegnano – anche con serie motivazioni e per delusioni forti – al non-voto, ha vinto chi ha saputo interpretare una basilare volontà «di cambiamento» degli elettori e, per sovrappiù non solo tecnico, ha padroneggiato meglio lo spartito offerto dal voto di ballottaggio. Lo studio sui flussi elettorali elaborato a caldo dall’Istituto Cattaneo segnala, proprio a questo proposito, qualcosa di molto interessante. Si è consolidata la tendenza al travaso di voti al secondo turno dal centrodestra al M5S in chiave anti-Pd, ma è emersa una propensione nuova e molto 'politica' di parte dell’elettorato grillino a fare altrettanto nella medesima chiave anti-Pd, anzi decisamente anti-Renzi. Questo potrebbe influire assai, nel prossimo autunno, sull’esito del referendum sulla riforma costituzionale (anche se in quella partita giochi e interessi sono ben più complessi dei dichiarati). Si vedrà. Per intanto, però, la portante del fenomeno è chiara: la contrapposizione frontale destra- sinistra che aveva caratterizzato la cosiddetta Seconda Repubblica, schiacciando o riducendo ai minimi termini ogni tentativo terzopolare, non penalizza affatto il M5S che anzi continua a sfruttarla. Con risultati eloquenti: 19 successi su 20 ballottaggi affrontati fanno pensare e segnalano che i cittadini là dove 'vedono' una proposta alternativa alla 'vecchia politica' autoreferenziale, troppo politicante e poco efficiente rispetto alle loro civiche attese, la scelgono. E non è un mistero che alle prossime politiche, come e più del 2013, l’offerta M5S sarà accurata e omogenea. Certo, questo voto «di cambiamento», di cui anche il Pd di Renzi ha goduto nel 2014, è in buona parte frutto di un mix di disillusione e di speranza più che di profonda convinzione. È dunque un voto potenzialmente volubile, ma soprattutto è un voto che pesa e che si somma all’altrettanto pesante (e, spesso, pensante) non-voto d’attesa. E tanto basta. Basta a dare una potente sveglia all’attuale governo, al suo partito perno e al suo capo inclini a cullarsi soprattutto nell’ultimo anno sull’idea di un’autosufficienza che tutto consente e nulla sconta. Basta a enfatizzare il perdurante ruolo gregario del centro-

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RASSEGNA STAMPA di martedì 21 giugno 2016

SOMMARIO

“Contare i voti è sempre più facile che pesarli - spiega il direttore di Avvenire Marco Tarquinio nell’editoriale odierno -. Stavolta non è così. E meno male, perché

altrimenti l’analisi delle Amministrative di giugno 2016 risulterebbe complicata e rischierebbe di rivelarsi fuorviante. Infatti, se dovessimo dedicarci a una pura e

semplice conta delle bandierine, a partire da quelle piantate sui Comuni capoluogo, sarebbe comunque chiaro che il Pd esce sconfitto: è impressionante il tonfo da 20 a 8

super sindaci, la disfatta è stata evitata solo dalla conquista-bis di Milano grazie a Beppe Sala. Ma sul vincitore finiremmo per prendere un abbaglio. Vincente, numeri

alla mano: un balzo da 4 a 10 super sindaci, sembrerebbe il centro-destra (tornato 'col trattino' nell’era faticosamente postberlusconiana delle aspre guerre intestine) che

però, nonostante il ritorno alla guida del Comune di Trieste, si rivela incapace di giocare da protagonista sulla grande scena politica. A trionfare è invece il Movimento 5 Stelle, che di super sindaci – anzi di super 'sindache' – ne porta a casa appena 3, ma

2 di enorme valore: Roma, con le clamorose proporzioni finali del successo (annunciato) di Virginia Raggi, e Torino, dove Chiara Appendino ha conquistato a spese di Piero Fassino una vittoria di prima grandezza politica, il risultato che fa

davvero la differenza in questo passaggio elettorale. Matteo Renzi, premier e segretario del Pd, ha saputo riconoscere tutto questo con la sua migliore franchezza al

cospetto di un partito sotto choc: «Ha vinto chi ha saputo interpretare meglio un’ansia di cambiamento». E colpisce, ma non stupisce, che si tratti degli stessi

identici concetti usati, in contemporanea, da Beppe Grillo. Non per caso Pd e M5S si delineano come i grandi duellanti di un tempo politico tripolare in cui il centro-destra

c’è, ma ha perso tempo e ruolo, facendosi illudere dal battutismo e dal cinismo politico simil-lepenista di Matteo Salvini (che mentre si concentrava, invano, sulla

'conquista' della capitale d’Italia, ha perso Varese, storica 'capitale' della Lega Nord). È vero, in quest’Italia in cui troppi si consegnano – anche con serie motivazioni e per delusioni forti – al non-voto, ha vinto chi ha saputo interpretare una basilare volontà «di cambiamento» degli elettori e, per sovrappiù non solo tecnico, ha padroneggiato

meglio lo spartito offerto dal voto di ballottaggio. Lo studio sui flussi elettorali elaborato a caldo dall’Istituto Cattaneo segnala, proprio a questo proposito, qualcosa di molto interessante. Si è consolidata la tendenza al travaso di voti al secondo turno

dal centrodestra al M5S in chiave anti-Pd, ma è emersa una propensione nuova e molto 'politica' di parte dell’elettorato grillino a fare altrettanto nella medesima chiave anti-Pd, anzi decisamente anti-Renzi. Questo potrebbe influire assai, nel

prossimo autunno, sull’esito del referendum sulla riforma costituzionale (anche se in quella partita giochi e interessi sono ben più complessi dei dichiarati). Si vedrà. Per

intanto, però, la portante del fenomeno è chiara: la contrapposizione frontale destra-sinistra che aveva caratterizzato la cosiddetta Seconda Repubblica, schiacciando o

riducendo ai minimi termini ogni tentativo terzopolare, non penalizza affatto il M5S che anzi continua a sfruttarla. Con risultati eloquenti: 19 successi su 20 ballottaggi affrontati fanno pensare e segnalano che i cittadini là dove 'vedono' una proposta

alternativa alla 'vecchia politica' autoreferenziale, troppo politicante e poco efficiente rispetto alle loro civiche attese, la scelgono. E non è un mistero che alle prossime

politiche, come e più del 2013, l’offerta M5S sarà accurata e omogenea. Certo, questo voto «di cambiamento», di cui anche il Pd di Renzi ha goduto nel 2014, è in buona

parte frutto di un mix di disillusione e di speranza più che di profonda convinzione. È dunque un voto potenzialmente volubile, ma soprattutto è un voto che pesa e che si somma all’altrettanto pesante (e, spesso, pensante) non-voto d’attesa. E tanto basta. Basta a dare una potente sveglia all’attuale governo, al suo partito perno e al suo capo inclini a cullarsi soprattutto nell’ultimo anno sull’idea di un’autosufficienza che tutto consente e nulla sconta. Basta a enfatizzare il perdurante ruolo gregario del centro-

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destra per insufficienza di leadership e di affidabilità 'moderata'. Basta a mettere sotto stringente esame il M5S che, al grido di «onestà onestà» e con la promessa di una felice efficacia, è approdato di forza al governo di due emblematiche metropoli

italiane”.

Da segnalare poi l’analisi di Ilvo Diamanti su Repubblica: “Queste elezioni amministrative segnano, indubbiamente, una svolta. Annunciata da qualche tempo, ma oggi evidente. E irreversibile. La riassumerei in questo modo: in Italia il voto non ha più una geografia. In altri termini: ha perduto le sue radici. E, quindi, i suoi legami con la storia, la società, le identità che gli garantivano senso e continuità. D'altronde,

fino a pochi anni fa, la geografia elettorale in Italia riproduceva in larga misura il profilo emerso nel dopoguerra. Dove gli orientamenti di voto, in alcune zone, si riproponevano sempre uguali, nel corso del tempo. Nonostante il mutamento del

clima politico e degli stessi partiti. Alcuni dei quali, scomparsi. In fondo, nel 1994, Silvio Berlusconi aveva "fondato" Forza Italia sull'anti-comunismo. Recuperando le fratture sociali e territoriali del passato. Questa geografia era stata ridisegnata,

profondamente, dall'irruzione del M5s, alle elezioni del 2013. Matteo Renzi ne aveva seguito le tracce, alle elezioni europee del 2014. Il suo Pd aveva sfondato il muro del

40%, affermandosi, a sua volta, in tutte - o quasi - le aree del Paese. Così le Italie politiche si erano confuse. Zone rosse, bianche, verdi, azzurre: tutte scolorite. Ebbene, queste elezioni amplificano queste tendenze. Infatti, se osserviamo il

risultato dei 143 Comuni maggiori, risulta chiara l'impossibilità di individuare una chiave di lettura. Se non l'inutilità delle chiavi di lettura che utilizziamo per

analizzare e interpretare il voto. Oltre un terzo delle amministrazioni - cioè, circa 50 - ha, infatti, cambiato colore. Nello specifico, i governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà: 45, mentre prima erano 90. Il centro-destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate. Mentre il M5s è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti. Cioè, 19. Tra questi, Roma e Torino sono quelli che fanno più notizia. Comprensibilmente. Però il M5s si è

affermato in tutte le aree. In particolare nel Mezzogiorno. A Roma e a Torino, peraltro, le sue candidate hanno intercettato il voto dei giovani, dei professionisti, dei tecnici. Ma anche dei disoccupati. In altri termini: la domanda di futuro e la delusione

del presente. Colpisce, soprattutto, il cambiamento che ha coinvolto le regioni dell'Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Tradizionalmente le più stabili. Dove, però, oltre metà dei Comuni di centrosinistra hanno cambiato colore. Ciò conferma la

non-chiave di lettura suggerita in precedenza. Sottolineata dal risultato del non-partito per definizione. Il M5s. Che fra il primo e il secondo turno ha allargato i suoi

consensi da 650 mila a più di 1 milione e 100 mila voti. Cioè, di oltre il 70%. Un segno della sua capacità di intercettare elettori "diversi". Che provengono da partiti e da aree "diverse". Ma soprattutto da "destra", quando si tratta di opporsi ai governi di centrosinistra. Com'è avvenuto, in modo appariscente, a Roma e Torino, dove, nei

ballottaggi, le candidate del M5s hanno allargato in misura molto ampia i loro consensi elettorali. Per questo penso che il significato di questo voto vada oltre i contesti

locali. Riflette una tendenza consolidata, che Matteo Renzi ha contribuito a rafforzare. Non tanto perché abbia personalizzato il voto amministrativo, anche se in

qualche misura ciò è avvenuto. Ma perché ha accentuato il distacco fra politica e territorio. Enfatizzando la personalizzazione e la mediatizzazione. Il Pd, trasformato

in PdR. E la campagna elettorale condizionata dal dibattito sul referendum "costituzionale". Pardon, "personale". Su Renzi medesimo. Così i sindaci e le città hanno perduto significato, importanza. E le elezioni amministrative sono divenute

un'arena dove si giocano altre partite, con altri protagonisti. Dove il M5s, più di altri soggetti politici, è in grado di affermarsi. Nel passato, invece, il suo rendimento

elettorale risultava molto superiore nelle scadenze nazionali, quando poteva riprodurre il disagio e la protesta. Mentre nelle elezioni amministrative non riusciva a ottenere risultati analoghi, in quanto non disponeva di figure credibili, come soggetti

di governo. In ambito locale. Oggi, evidentemente, non è più così. Perché il M5s è

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presente, ormai da anni, sul territorio. E ha raccolto, intorno a sé, militanti e attivisti. Tuttavia, più degli altri attori politici, è in grado di canalizzare la "domanda di

cambiamento". Meglio ancora: i sentimenti e i risentimenti "in tempi di cambiamento". Come quelli che stiamo attraversando. Così questo voto rappresenta, al tempo stesso,

una risposta e un segnale. Una risposta al dis-orientamento che ha investito molte zone del Paese. E, soprattutto, le aree urbane e metropolitane. In particolare: le

periferie. Dove la "politica" ha perduto senso e radici. Ma anche un segnale, a modo suo, fragoroso, quanto il silenzio degli astenuti. Rammenta, infatti, che la "messa è finita". Le fedeltà si sono perdute. Liquefatte. Come i partiti. Non per nulla ne ha

beneficiato un non-partito liquido come il M5s. Così, ogni scadenza elettorale diviene - e diverrà - un passaggio senza destinazioni precise. Senza mappe e senza bussole che permettano ai cittadini e agli elettori di orientarsi. E agli analisti, come me, di

interpretarne - e prevederne - i percorsi. Le ragioni. Le destinazioni” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pagg 4 – 5 Il sermone delle sette parole Testimonianza, martirio, povertà, lavoro, famiglia, economia, migranti al centro del dialogo del Papa con la comunità di Villa Nazareth Pag 6 Inquietudine dell’albergatore La meditazione di Francesco all’inizio della visita a Villa Nazareth Pag 8 Perdere per guadagnare All’Angelus il Papa spiega cosa significa seguire Cristo Pag 8 Davanti allo specchio Messa del Pontefice a Santa Marta AVVENIRE Pag 24 “Il mondo ci guarda”, Bartolomeo I apre il Concilio ortodosso di Andrea Galli Dopo la Divina Liturgia di Pentecoste, al via i lavori all’Accademia di Creta. L’archimandrita Evangelos: “L’assenza di Mosca? Non è decisiva” CORRIERE DELLA SERA Pag 32 La stagione degli oratori di Giampiero Rossi Un popolo di due milioni di ragazzi e 350 mila animatori. Boom al Nord, cresce il Sud. “Ci affidano bambini di 20 confessioni religiose” IL FOGLIO Pag 1 Rivoluzione papale di Matteo Matzuzzi La vera svolta di Francesco è nella scelta dei nuovi vescovi. In Italia ne ha nominati già 85 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 24 Il garante nazionale in carcere, pesanti critiche alla direttrice di Giorgio Cecchetti Santa Maria Maggiore: la relazione, resa nota dopo una visita di due mesi fa, muove una serie di rilievi Pag 27 Zelarino. Braccio di ferro sull’appartamento di Caritas di Simone Bianchi Un disoccupato che ci vive non paga l’affitto e la diocesi vorrebbe usarlo per altri bisognosi

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Pag 27 Le suore vendono il “Gardenia”, 40 associazioni a rischio sfratto di Massimo Tonizzo Appello della Municipalità di Marghera al Comune 8 – VENETO / NORDEST AVVENIRE Pag 17 “Salvato dalla Provvidenza” di Francesco Dal Mas S. Maria di Sala (Venezia), un bimbo ritrovato a due passi da un cassonetto. Il parroco: una madre l’hai sentito e prestato le prime cure CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Dire, fare, rottamare di Alessandro Russello LA NUOVA Pag 27 E’ protesta per i tagli ai disabili sensoriali di Francesco Furlan Operatori ed associazioni dei familiari contro la Regione per la riduzione delle ore a sostegno di studenti ciechi e sordi … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Un bagno di realtà di Gian Antonio Stella Pag 1 L’età del nuovo travolgente (e qualche paura di troppo) di Venanzio Postiglione La politica, le generazioni Pag 3 Così mutano i confini tra i partiti di Massimo Franco Pag 11 Rivoluzione (borghese) dei grillini di Pierluigi Battista Antropologia dei trionfatori. E il “vaffa” buttato alle ortiche LA REPUBBLICA Pag 1 La storia rottamata di Ezio Mauro Pag 1 La strategia degli elogi di Stefano Folli Pag 1 La fede politica che perde le radici di Ilvo Diamanti AVVENIRE Pag 1 Questi voti da pesare di Marco Tarquinio Pag 2 Spari ai profughi siriani, icona della “giornata” di Paolo Lambruschi Otto uccisi, la metà bimbi, al confine con la Turchia Pag 8 Cacciari: Renzi deve fare un discorso verità. La rottamazione? E’ ferma alle porte del Pd di Diego Motta IL GAZZETTINO Pag 1 Le sconfitte e il futuro dei due Mattei di Roberto Papetti Pag 1 Chiara e Virginia, trentenni alla sfida della normalità di Maria Latella LA NUOVA Pag 1 Le elezioni del tutti contro uno di Massimiliano Panarari Pag 1 Due Leghe, Salvini perde e Zaia trionfa di Paolo Possamai

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Pag 5 La speranza che diventa trionfo di Dino Amenduni

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pagg 4 – 5 Il sermone delle sette parole Testimonianza, martirio, povertà, lavoro, famiglia, economia, migranti al centro del dialogo del Papa con la comunità di Villa Nazareth Sabato pomeriggio, 18 giugno, Papa Francesco si è recato in visita a Villa Nazareth. Durante l’incontro con la comunità gli sono state presentate sette domande, di cui pubblichiamo una sintesi. Il Pontefice ha risposto a braccio, dando vita a un dialogo su molti temi. [Valentina Piras]: Santo Padre, prima di maestri, noi giovani abbiamo bisogno di testimoni credibili. A volte siamo “parcheggiati” nella vita, preda dell’illusione del successo e del culto del proprio ego, incapaci di donarci. Come possiamo ridestare la grandezza e il coraggio di scelte di ampio respiro, di slanci del cuore per affrontare sfide educative e affettive? Grazie. Una parola-chiave è: “Noi giovani abbiamo bisogno di testimoni credibili”. E questa è proprio la logica del Vangelo: dare testimonianza. Con la propria vita, il modo di vivere, le scelte fatte... Ma testimonianza di che? Di diverse cose. Testimonianza, noi cristiani, di Gesù Cristo che è vivo, ci ha accompagnato: ci ha accompagnato nel dolore, è morto per noi, ma è vivo. Detto così, sembra troppo clericale. Ma io capisco qual è la testimonianza che i giovani cercano: è la testimonianza dello “schiaffo”. Lo schiaffo è una bella testimonianza quotidiana! Quella che ti sveglia, ti dice: “Guarda, non farti illusioni con le idee, con le promesse...”. Anche illusioni più vicine a noi. L’illusione del successo: “No, io vado per questa strada e avrò successo”. Del culto del proprio ego. Oggi, tutti lo sappiamo, lo specchio è di moda! Guardarsi. Il proprio ego, quel narcisismo che ci offre la cultura di oggi. E quando non abbiamo testimonianze, forse la vita ci va bene, guadagniamo bene, abbiamo una professione, c’è un bel posto di lavoro, una famiglia..., ma tu hai detto una parola molto forte: “Siamo uomini e donne parcheggiati nella vita”, cioè che non camminano, che non vanno. Come i conformisti: tutto è abitudine, un’abitudine che ci lascia tranquilli, abbiamo il necessario, non manca niente, grazie a Dio... “Come possiamo ridestare la grandezza e il coraggio di scelte di ampio respiro, di slanci del cuore per affrontare sfide educative e affettive?”. La parola l’ho detta tante volte: rischia! Rischia. Chi non rischia non cammina. “Ma se sbaglio?”. Benedetto il Signore! Sbaglierai di più se tu rimani fermo, ferma: quello è lo sbaglio, lo sbaglio brutto, la chiusura. Rischia. Rischia su ideali nobili, rischia sporcandoti le mani, rischia come ha rischiato quel samaritano della parabola. Quando noi nella vita siamo più o meno tranquilli, c’è sempre la tentazione della paralisi. Non rischiare: stare tranquilli, quieti... “Come possiamo ridestare la grandezza e il coraggio di scelte di ampio respiro”, hai domandato, “di slanci del cuore per affrontare sfide educative e affettive?”. Avvicinati ai problemi, esci da te stesso e rischia, rischia. Altrimenti la tua vita lentamente diventerà una vita paralitica; felice, contenta, con la famiglia, ma lì, parcheggiata - per usare la tua parola. È molto triste vedere vite parcheggiate; è molto triste vedere persone che sembrano più mummie da museo che esseri viventi. Rischia! Rischia. E se sbagli, benedetto il Signore. Rischia. Avanti! Non so, questo mi viene di dirti. [Gabriele Giuliano]: Sui giornali spesso troviamo notizie sulla tragedia che sta colpendo le comunità cristiane nel mondo: questi eventi ci inducono a una profonda riflessione su quanto possa essere testimoniata e vissuta la fede, addirittura fino alla morte. Questo coraggio della fede autentica ci mette tutti in discussione. Come possiamo essere testimoni credibili del Vangelo, come annunciare il messaggio di Cristo al mondo? Molti

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di noi ci provano ma si scoraggiano facilmente. A Lei succede? Si è mai trovato in crisi con la sua fede? Dove e come ha trovato il modo di riprendersi, non stancarsi, e continuare nel suo mandato, da laico prima, da consacrato poi? Ma, tu hai fatto una domanda troppo personale! E io devo fare la scelta... O rispondo la verità, o faccio una telenovela che sia bella e via... La tragedia delle comunità cristiane sparse nel mondo: questo è vero. Ma è il destino dei cristiani: la testimonianza - riprendo la parola testimonianza - fino a situazioni difficili. A me non piace, e voglio dirlo chiaramente, a me non piace quando si parla di un genocidio dei cristiani, per esempio nel Medio Oriente: questo è un riduzionismo, è un riduzionismo. La verità è una persecuzione che porta i cristiani alla fedeltà, alla coerenza nella propria fede. Non facciamo un riduzionismo sociologico di quello che è un mistero della fede: il martirio. Quei 13 - credo che fossero uomini egiziani cristiani copti, santi oggi, canonizzati dalla Chiesa Copta - sgozzati sulle spiagge della Libia: tutti sono morti dicendo: “Gesù, aiutami!”. Gesù. Ma io sono sicuro che la maggioranza di loro non sapesse nemmeno leggere. Non erano dottori in teologia, no, no. Era gente, come si dice, ignorante, ma erano dottori di coerenza cristiana, cioè erano testimoni di fede. E la fede ci fa testimoniare tante cose difficili nella vita; anche con la vita testimoniamo la fede. Ma non inganniamoci: il martirio cruento non è l’unico modo di testimoniare Gesù Cristo. È il massimo, diciamo, eroico. È anche vero che oggi ci sono più martiri che non nei primi secoli della Chiesa, è vero. Ma c’è il martirio di tutti i giorni: il martirio dell’onestà, il martirio della pazienza, nell’educazione dei figli; il martirio della fedeltà all’amore, quando è più facile prendere un’altra strada, più nascosta: il martirio dell’onestà, in questo mondo che si può chiamare anche “il paradiso delle tangenti”, è tanto facile: “Lei dica questo e avrà questo”, dove manca il coraggio di buttare in faccia i soldi sporchi, in un mondo dove tanti genitori danno da mangiare ai figli il pane sporcato dalle tangenti, quel pane che loro comprano con le tangenti che guadagnano... Lì è la testimonianza cristiana, lì è il martirio: “No, io non voglio questo!” — “Se tu non vuoi, non avrai quel posto, non potrai salire più in alto”. Il martirio del silenzio davanti alla tentazione delle chiacchiere. Per un cristiano - lo dice Gesù - non è lecito chiacchierare. Gesù dice che quello che dice “stupido” al fratello deve andarsene all’inferno. Voi sapete che le chiacchiere sono come la bomba di un terrorista, di un kamikaze - non di un kamikaze, di un terrorista, almeno il kamikaze ha il coraggio di morire anche lui - no, le chiacchiere sono quando io butto la “bomba”, distruggo quello, e io rimango felice. Ma la testimonianza cristiana è il martirio di ogni giorno, il martirio silenzioso, e noi dobbiamo parlare così. “Ma noi siamo uomini e donne martirizzati, dobbiamo avere la faccia triste, una faccia... col muso lungo”. No. C’è la gioia della parola Gesù, come quelli della spiaggia della Libia. E ci vuole coraggio, e il coraggio è un dono dello Spirito Santo. Il martirio, la vita cristiana martiriale, la testimonianza cristiana non si può vivere senza il coraggio della vita cristiana. San Paolo usa due parole, per indicare la vita martiriale cristiana, la vita di ogni giorno: coraggio e pazienza. Due parole. Il coraggio di andare avanti e non vergognarti di essere cristiano e farti vedere come cristiano, e la pazienza di portare sulle spalle il peso di ogni giorno, anche i dolori, anche i propri peccati, le proprie incoerenze. “Ma, si può essere cristiano con i peccati?”. Sì. Tutti siamo peccatori, tutti. Il cristiano non è un uomo o una donna che ha l’asepsi dei laboratori, non è come l’acqua distillata! Il cristiano è un uomo, una donna capace di tradire il proprio ideale con il peccato, è un uomo e una donna debole. Ma noi dobbiamo riconciliarci con la nostra debolezza. E così il naso [l’aspetto] diventa un po’ più umile. Più umile. La verità non è nelle apparenze. “Io non sono peccatore”, come quel fariseo che pregava davanti al Signore: “Ti ringrazio perché non sono come questo, come quello, come quell’altro”; sporcava tutti, ma lui era pulito. Si pavoneggiava. Permettetemi, è un po’... non è troppo corretto, no, non è proprio lecito quello che io dirò adesso, ma l’immagine ci aiuterà. La coerenza cristiana della verità è sentirsi peccatori e bisognosi di perdono; invece quello che si pavoneggia di essere cristiano perfetto, è come il pavone: ma che bello il pavone!, si vede, è una realtà bella... Scusatemi, ma girate di dietro: anche quella è la verità del pavone! E il messaggio di Cristo al mondo è così: siamo peccatori, e Gesù ci ha amato, ci ha guarito, o siamo in via di guarigione, sempre. E ci ama. E questi limiti intrinseci a noi e anche limiti estrinseci che noi vediamo, per esempio, l’ipocrisia nella Chiesa, l’ipocrisia dei cristiani; questi limiti ci scoraggiano, e così la fede entra in crisi. E qui la domanda sfacciata: “Si è mai trovato in crisi con la sua fede?”.

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Questa è una domanda che fate al Papa! Avete coraggio! “Dove e come ha trovato il modo di riprendersi, non stancarsi e continuare nel suo mandato, da laico, prima, da consacrato, poi?”. Tante volte io mi trovo in crisi con la fede e alcune volte anche ho avuto la sfacciataggine di rimproverare Gesù: “Ma perché Tu permetti questo?”, e anche dubitare: “Ma questa sarà la verità, o sarà un sogno?”. E questo da ragazzo, da seminarista, da prete, da religioso, da vescovo e da Papa. “Ma come mai il mondo è così, se Tu hai dato la Tua vita? Ma non sarà, questa, un’illusione, un alibi per consolarci?”. Un cristiano che non abbia sentito questo, qualche volta, la cui fede non sia entrata in crisi, gli manca qualcosa: è un cristiano che si accontenta con un po’ di mondanità e così va avanti nella vita. Mi hanno detto - perché io non conosco il cinese, con le lingue ho tanta difficoltà, vedete... - non conosco il cinese, ma mi hanno detto che la parola crisi, in cinese, si fa con due ideogrammi: uno è l’ideogramma rischio e l’altro l’ideogramma opportunità. È vero. Quando uno entra in crisi - come quando Gesù disse a Pietro che il diavolo lo avrebbe messo in crisi [“vagliato”] come si fa con il grano, e tante volte il diavolo, la vita, il prossimo, tante persone ci fanno “saltare” come il grano, ci mettono in crisi - c’è sempre un pericolo, un rischio, un rischio in senso non buono, e un’opportunità. Il cristiano - questo l’ho imparato - non deve avere paura di entrare in crisi: è un segno che va avanti, che non è ancorato alla riva del fiume o del mare, che ha preso il largo e va avanti. E lì ci sono i problemi, le crisi, le incoerenze, e la crisi del proprio peccato, che ci fa tanto vergognare. E come non stancarsi? È una grazia. Chiedila al Signore: “Signore, che non mi stanchi. Dammi la grazia della pazienza, di andare avanti, di aspettare che venga la pace”. Non so: così mi sembra di rispondere. [Giacomo Guarini]: Oggi tutto si dirige verso l’affermazione dell’individuo e sembra smarrirsi la persona come essere capace di donarsi e ricevere amore. In particolare non nascondiamo le difficoltà che riguardano noi giovani laureati, spesso avviliti dalla mancanza di prospettive concrete per il nostro futuro e impossibilitati a dare compimento alla vocazione professionale e affettiva. Come fare del lavoro un luogo di vocazione in un mondo governato da uno sfrenato individualismo? Come vivere le relazioni quali specchio dell’amore di Dio, anche nel fidanzamento, in un contesto in cui ogni desiderio di gratuità sembra venire meno? Tu hai detto una parola che a me piace tanto: la gratuità. Noi dimentichiamo spesso questo senso della gratuità, e dimentichiamo che la gratuità è il linguaggio di Dio. Lui ci ha creato gratuitamente; Lui ci ha ricreato in Gesù gratuitamente; e lo stesso Gesù ci ammonisce: “Quello che voi avete ricevuto gratuitamente, datelo gratuitamente”. La gratuità. In questa civiltà del “do ut des”, io ti do questo e questo, tutto si negozia, la gratuità corre il pericolo di sparire. E alle volte, o tante volte — credo che sia una delle abitudini più comuni - il cristianesimo diventa pelagiano: tutto si compra. “Io faccio questo e sono più santo”, “io faccio questo e sono più perfetto”, “io faccio questo e sono più cristiano”, “non faccio questo e il mio cristianesimo non...”. Anche con Dio abbiamo questo atteggiamento del “do ut des”. Ma il Signore, già nell’Antico Testamento ci diceva: “Io non ho bisogno dei vostri sacrifici. Guardate vicino a voi, e aiutate gli altri. Siate giusti nello stipendio”. E questo che tu chiami “l’affermazione dell’individuo”, questo individualismo ci porta a gravissime ingiustizie. Ingiustizie umane. Non direi “sociali”, perché qualcuno può dire: “Ma questo prete è socialista”. No, no: umane! È un po’ la gratificazione individuale che non ha niente a che fare con la gratuità che ci propone Gesù Cristo, che ci insegna Dio, che è proprio il linguaggio di Dio: gratuità. Dobbiamo metterci su questa lunghezza d’onda, della gratuità. Le gratificazioni individuali, l’edonismo: questa anche è una cultura dell’edonismo. Si cerca la soddisfazione personale. E oggi dobbiamo fare tanto lavoro anche per distinguere i santi da quelli che si truccano per apparire come santi! Tanti cristiani truccati che non sono cristiani, perché non sanno di gratuità. Vivono altrimenti. “Come fare del lavoro un luogo di vocazione?”. Andare verso la prima chiamata, la chiamata che ognuno di noi riceve e che è la stessa che ha ricevuto l’umanità in Adamo: andate, coltivate la Terra, moltiplicatevi, assoggettatevi la terra, lavorate... “Come fare del lavoro un luogo di vocazione?”. Forse la parola più forte qui è lavoro. Una cosa è lavorare e un’altra è fare cose per profittare e anche per approfittarsi degli altri. La cultura del lavoro. In tanti Paesi sottosviluppati c’è la cultura del sussidio: si aiuta, ma non si insegna a lavorare. A me fa tanto bene pensare a Don Bosco, alla fine dell’Ottocento, in quella Torino

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massonica, mangiapreti, povera, dove i ragazzi erano per la strada... Cosa ha fatto, lui? È andato con l’acqua benedetta? No. Ha fatto educazione di emergenza, ha fatto studiare per imparare mestieri semplici, e così entrare nella cultura del lavoro. Ha visto in quel rischio una opportunità, in quella crisi religiosa una opportunità; e ha aperto un orizzonte umano e religioso, a quelle persone. Lavoro. Che non è la stessa cosa che “fare cose”. La vocazione del lavoro, lavoro creativo. Il lavoro ci rende simili a Dio, che è Creatore, ed è anche un Artigiano. E il lavoro è un luogo di vocazione, non è un luogo di stallo, di parcheggio. La mia vocazione mi porta ad andare avanti nel lavoro, nella creatività. E anche nel fidanzamento. Nel fidanzamento c’è la gratuità, c’è anche un impegno di andare insieme, capirsi, sentirsi, superare le difficoltà, mantenere la fedeltà; è anche un impegno gratuito. La gratuità si impara nel fidanzamento. Ma io, qui, vorrei fare una riflessione. Tante volte il lavoro, nel senso di “fare cose”, fa sì che venga meno la famiglia, venga meno il matrimonio. Io mi entusiasmo, per esempio con la politica, e vado di qua e di là e di là e poi non mi curo della moglie o del marito o dei figli. Io ho l’abitudine, nella Confessione, quando un uomo o una donna sposati mi dicono che hanno dei bambini e che forse perdono la pazienza..., io faccio una domanda: “Ma quanti bambini hai?”. Tante volte loro si spaventano: ma quale sarà la prossima domanda? E la seconda domanda è: “E dimmi: tu giochi con loro? Tu prendi tempo per giocare con i tuoi figli, per ascoltarli, per avere uno spazio di comunicazione con loro?” - “Ma, Padre - una risposta - quando io esco per lavorare la mattina, i bambini dormono, e quando torno, dormono”. Questo lavoro schiavizzante che non permette di vivere la gratuità del dono dell’amore, del dono di Dio, forse non è colpa di quest’uomo o di questa donna: è colpa della situazione, è colpa dell’ingiustizia, dell’ingiustizia morale che noi viviamo in questa società. Ma dico questo: curate la famiglia, curate il marito, curate la moglie, curate i bambini; e mi permetto una cosa che io ho molto a cuore: curate i nonni! Curate i nonni. Loro sono la nostra memoria! In questa cultura dello scarto, è tanto facile scartare i nonni: o a casa loro, o nella casa di riposo, e non andare a trovarli. Adesso è cambiato un po’ perché siccome non c’è tanto lavoro e loro hanno la pensione, allora andiamo dai nonni! Curate i nonni. Mi tocca il cuore quella profezia del profeta Gioele, nel capitolo III: “I nonni sogneranno”, e sarà proprio il sogno, la capacità di sognare cose grandi, quello che farà andare avanti i ragazzi, i giovani. Mi fermo qui, perché non finisco più. [Maria Elena Tagliaboschi]: La crisi economica, i flussi migratori, i cambiamenti demografici, l’incompatibilità dei tempi di lavoro con quelli della cura dei figli, sono fenomeni che stanno incidendo sullo sviluppo della società nei paesi industrializzati. Favorendo la nascita di nuove povertà: anziani soli; disoccupati e precari; giovani coppie soffocate da spese ingenti. Con quale spirito possiamo affrontare queste situazioni? Scusatemi, mi sono allungato troppo. Riguardo a questa domanda, per la maggior parte ho risposto a tante cose. Ma io andrò forse al centro del problema. Quello che dobbiamo rivedere è lo stile dell’economia di oggi. Oggi - e questo lo dico perché l’ho scritto nella Evangelii gaudium - c’è un’economia che uccide. Nel mondo, nell’economia mondiale, al centro non c’è l’uomo, la donna: c’è il dio denaro. E questo ci uccide. Tu puoi trovare una mattina d’inverno un senzatetto morto di freddo in piazza Risorgimento, o tanti bambini che non hanno da mangiare per la strada, o anche drogati... Questo non fa notizia, non fa notizia. Ma se i punti delle borse di Tokyo, Londra, Francoforte, New York calano di due o tre, grande tragedia internazionale! Noi siamo schiavi di questo sistema economico che uccide, schiavi e vittime. Oggi è comune lavorare in nero, perché se tu non lavori in nero, non hai lavoro. È comune. Oggi è comune che ti facciano il contratto di lavoro da settembre a giugno, e poi luglio e agosto? Mangia un po’ d’aria! E poi ti danno un altro contratto da settembre. Senza assistenza sanitaria, senza possibilità di pensione. Questo si chiama “lavoro schiavo”, e la maggioranza di noi vive in questo sistema di lavoro schiavo. I flussi migratori: in parte fuggono per la fame, perché il loro Paese è stato sfruttato e hanno fame. E in parte fuggono dalla guerra, che è proprio l’affare in questo momento che rende più soldi: i trafficanti d’armi. E lo stesso che vende, che traffica le armi a questo Paese che è in guerra con quello, è lo stesso che vende a quello che è in guerra con questo! Anche per fare arrivare gli aiuti umanitari in Paesi di guerra o di guerriglia, è una difficoltà: tante volte la Croce Rossa non è riuscita. Ma le armi arrivano sempre, non c’è dogana che le fermi! Perché? Perché è proprio

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l’affare che rende di più. Il dio denaro. Noi siamo schiavi. Raccontava una ragazza, l’anno scorso, giovane: ha visto sul giornale, è andata, e lì c’era una coda di gente che era andata per questi lavori. E l’impiegato ha visto il suo curriculum e le ha detto: “Sì, sì, questo può andare, sì, lei può andare. Il suo lavoro sarà 10-11 ore al giorno, più o meno, più di 11 no, lo stipendio 650 euro al mese”. E la ragazza ha detto: “Ma, questo non è giusto!” - “Ma, se ti piace, lo prendi; se non ti piace, guarda dietro di te la coda che c’è... Arrivederci!”. E questo è il pane nostro di ogni giorno, e da queste ingiustizie vengono tante nuove povertà, tante nuove povertà. Una volta io sono andato in una baraccopoli di Buenos Aires, e c’era gente nuova. Sono andato a visitarli in quella casetta un po’ di legno, un po’ di latta che loro avevano fatto, ma i mobili erano buoni. E io ho avuto il coraggio di domandare: “Ma come mai, non capisco...”. E lui mi ha detto: “Padre, fino al mese scorso noi potevamo pagare l’affitto; adesso no”. E così crescono le baraccopoli. È la grande ingiustizia. E dobbiamo parlare chiaro: questo è peccato mortale. E a me dà indignazione, mi fa male, quando - per esempio, una cosa che è di attualità - vengono per battezzare un bambino e ti portano uno [come padrino], e gli viene detto: “Ma lei non è sposato in chiesa, no, lei non può essere padrino, perché il matrimonio, sposarsi in chiesa è importante”. Ma poi ti portano un altro che è un truffatore, uno sfruttatore di gente, un trafficante di bambini, ma è un “bravo cattolico”, dà elemosina alla Chiesa... “Ah, sì, tu puoi essere padrino”. Ma noi abbiamo capovolto i valori! Il mondo economico, oggi, come è sistemato nel mondo, è immorale. Sto parlando in genere, ma ci sono eccezioni. C’è gente buona, ci sono Paesi che cercano di cambiare questo, ci sono istituzioni che lavorano contro questo. Ma l’atmosfera mondiale è che l’uomo e la donna sono stati spostati dal centro dell’economia, e lì c’è il dio denaro. Credo che con questo ho risposto alla tua domanda. [Tonino Casamassimi]: Il confronto con i valori fondanti di questa Comunità deve portare a interrogarci sulla serietà del nostro servizio al prossimo. In quali modi e con quale spirito possiamo rafforzare il nostro impegno nel mondo per vivere seriamente quell’incontro con le periferie dell’esistenza al quale Lei esorta? Far fruttificare i talenti. Noi saremo giudicati su questo: cosa ho fatto con i miei talenti, con quello che ho ricevuto, con quello che il Signore gratuitamente mi ha dato? È una domanda che dobbiamo farci. Posso fare di più? Posso dare di più? Posso condividere di più? I talenti, non solo i soldi, i talenti! E qual è uno dei talenti più importanti del cristianesimo, e anche uno dei grandi talenti di Villa Nazareth dal momento della fondazione? Lei ha detto la parola: l’accoglienza. Noi stiamo vivendo una civiltà di porte chiuse, di cuori chiusi. Ci difendiamo, ci difendiamo l’uno dall’altro: “Questo è mio; questo è mio”. Paura di accogliere. Paura di accogliere. E non parlo soltanto dell’accoglienza ai migranti, che questo è un grande problema, è anche un problema politico mondiale. Ma anche l’accoglienza quotidiana, l’accoglienza di quello che mi cerca per annoiarmi con le sue lamentele, con i suoi problemi, e cerca da me una parola di conforto e anche la possibilità di spalancare una “finestrina” per uscirne fuori. A me fa male, fa male quando vedo le chiese con le porte chiuse, fa male. Ci saranno alcuni motivi giustificabili, ma una chiesa a porte chiuse significa che quella comunità cristiana ha il cuore chiuso, è rinchiusa in sé stessa. E noi dobbiamo riprendere il senso dell’accoglienza, essere accolti. E questo è molto semplice, è quotidiano, quello che succede a Roma: credo che è uno dei lavori, o se voi volete chiamarlo in termini di apostolato, ciò di cui noi abbiamo più bisogno è l’apostolato dell’orecchio. Noi non abbiamo tempo per ascoltare, abbiamo perso questa capacità: “Io no, non ho tempo di andare ad ascoltare queste lamentele, no, mi fanno male, meglio se faccio un’altra cosa più utile, non perdere tempo...”. Se non facciamo questo non accogliamo gli altri. E se non accogliamo non siamo cristiani e non saremo accolti nel Regno dei Cieli. È matematico. È così, questa è la logica del Vangelo. È così. E voi che avete avuto l’esperienza dell’accoglienza qui, in questa Casa, avete una grande responsabilità sociale ed ecclesiale: insegnare, far capire che questa è la porta della strada cristiana. Quando noi siamo stati battezzati, siamo stati accolti dalla comunità cristiana. Una bella cerimonia liturgica dove il parroco spiegava bene le cose, tutto... Ma questa accoglienza sacramentale, con il segno della Trinità, io sono capace di portarla avanti nel mio modo di vivere la fede? O preferisco guardare da un’altra parte? Meglio dire: “non ho capito”, “non ho sentito”, “non sapevo”... E invece questo [l’accoglienza] dà frutto, dà frutto.

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Accoglienza che fa fruttificare i talenti. C’è la grande accoglienza di quelli che vengono da terre lontane, e c’è la piccola accoglienza, quando tu - papà o mamma - torni dal lavoro e c’è tuo figlio o tua figlia adolescente che è in difficoltà e ha voglia di dirti qualcosa o ha bisogno almeno che tu ascolti qualcosa... “Sono troppo occupato, facciamo domani...”. Questo è il momento della grazia: accogliere. “Ma, Padre, questa è una tortura!”. No, è una mortificazione, è una mortificazione. È la croce di ogni giorno. Gesù ci ha detto: “Colui che vuol venire dietro di me, prenda la propria croce”, non ha detto “prenda la propria morfina per addormentarsi bene”; “prenda la propria croce e mi segua”. E l’accoglienza è una croce, ma una croce bella, perché ci fa ricordare l’accoglienza che il Buon Dio ha avuto e ha con noi, ogni volta che noi andiamo da Lui per riconciliarci, per chiedere consiglio, per chiedere perdono... Accoglienza. [Massimo Moretti con la moglie Giorgia Lagattola]: La famiglia oggi è sollecitata dalla cultura del provvisorio. La coppia è minata dalla tentazione di ricercare la maggiore felicità possibile in una dimensione che rischia di rimanere individuale. Come possiamo mantenere viva la fiamma del nostro amore e quale valore ha per il mondo di oggi la promessa di eternità che ci siamo scambiati? Ho detto qualche cosa sulle famiglie, oggi, ma prenderò una o due parole tue. Quella sulla cultura del provvisorio: questo io lo ripeto sempre. Una parte della gente che si sposa non sa cosa fa. Si sposa... “Ma tu sai che questo è un sacramento?” - “Sì, sì, e per questo io dovrò confessarmi prima, sì, sì, lo farò, e farò la comunione, pure” - “E tu sai che questo è per tutta la vita?” - “Sì, sì, lo so, lo so”. Ma non lo sanno, perché questa cultura del provvisorio penetra tanto in noi, nei nostri valori, nei nostri giudizi, che poi significa - per parlare così, semplicemente - significa: “Sì, sì, io mi sposo finché l’amore dura, e quando l’amore non dura, è finito il matrimonio”. Non si dice, ma la cultura del provvisorio ti porta a questo. E credo che la Chiesa debba lavorare molto su questo punto con la preparazione al matrimonio. Nella Amoris laetitia c’è un capitolo, un capitolo dedicato a questo. Una signora - questo l’ho detto a San Giovanni in Laterano l’altra sera -, una signora una volta mi ha detto: “Voi preti siete furbi: per diventare prete studiate otto anni, poi andate bene; e se la cosa non va e tu trovi una ragazza che ti piace e non te la senti più, dopo un po’ fai una procedura, vai alla Santa Sede e ti danno la dispensa, ti sposi e formi una famiglia. E noi, che riceviamo un sacramento che è indissolubile e per tutta la vita, è il mistero di Cristo e della Chiesa e dura per tutta la vita, ci preparano con tre o quattro conferenze?”. È vero: la preparazione al matrimonio. È meglio non sposarsi, non ricevere il sacramento se tu non sei sicuro del fatto che lì c’è un mistero sacramentale, c’è lì l’abbraccio proprio di Cristo con la Chiesa; se non sei ben preparato. Poi c’è la dimensione culturale e sociale. È vero, sposarsi è un fatto sociale, è sempre stato un fatto sociale, sempre, perché è bello sposarsi, in tutte le culture: ci sono tanti riti belli, belli, nelle culture... quando il ragazzo va a prendere la ragazza e la porta... tante cose belle, che indicano questa bellezza del matrimonio. Ma questo aspetto sociale, nella cultura del consumismo, della mondanità, alle volte favorisce la provvisorietà e non ti aiuta a prendere sul serio [il matrimonio]. Ho raccontato l’altra sera che avevo chiamato un ragazzo che io conoscevo; gli ho telefonato, perché la mamma mi aveva detto che si sposava, e io l’avevo conosciuto quando andavo a dire la Messa qui a Ciampino. Gli dico: “Mi hanno detto che ti sposi...” - “Sì, sì” - “Lo farai in quella chiesa?” - “Ma, veramente non sappiamo, perché dipende dal vestito della mia ragazza, che sia intonato con la chiesa, per la bellezza...” - “Ah, che bello, che bello... E quando?” - “Entro qualche settimana” - “Ah, va bene, va bene. Vi state preparando bene?” - “Sì, sì, adesso andiamo, stiamo cercando un ristorante che non sia troppo lontano, e anche le bomboniere, e questo e quello, e quell’altro...”. Che senso ha questo matrimonio? È puramente un fatto sociale, un fatto sociale. Io mi domando: questi fidanzati - bravi - sono liberi da questa cultura mondana consumistica edonistica, o il fatto sociale fa sì che cadano in questa mancanza di libertà? Perché il sacramento del matrimonio si può ricevere soltanto con libertà. Se tu non sei libero, non lo ricevi. E poi, c’è una cosa che dobbiamo curare. A me piace incontrare, sia nelle Messe a Santa Marta sia nelle udienze generali, i coniugi che fanno il 50° e il 60°, perché sempre parlo con loro, mi dicono le cose... sono felici. Una volta ho sentito dire da una di queste coppie quello che tutti volevano dire, ma quelli sono riusciti a dirlo. [Io ho chiesto loro:] “60

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anni. Chi ha avuto più pazienza?” - “Eh, tutti e due!” - dicono sempre la stessa cosa - E poi: “Avete litigato?” - “Quasi tutti i giorni. Ma non c’è problema” - “Siete contenti?”, e io mi sono commosso, perché si sono guardati negli occhi: “Padre, siamo innamorati”. Questo è grande! Dopo 60 anni, questo è grande. E questo è uno dei frutti del sacramento del matrimonio: questo lo fa la grazia. Magari tutti potessero capire questo! E c’è un’altra cosa che io vorrei dire. Che nel matrimonio si litiga, tutti lo sappiamo; a volte volano i piatti; sono cose di tutti i giorni. Ma il consiglio che io sempre do è questo: mai finire la giornata senza fare la pace, perché io ho paura della “guerra fredda” del giorno dopo. Sì, è pericolosissima! Quando tu ti arrabbi e finisci arrabbiato e non fai la pace quel giorno, diventa peggio, peggiora, peggiora. “Ma come faccio la pace, Padre? Devo fare un discorso, inginocchiarmi?” - “No, fa’ così [fa il gesto di una carezza] e basta”. È un gesto, è il linguaggio del gesto. E fra i gesti - per favore - non dimenticatevi di accarezzarvi: la carezza è uno dei linguaggi più sacri nel matrimonio. Le carezze: ti amo tanto... Le carezze... Sposi che sono capaci di accarezzarsi, di volersi così, ma anche con il corpo, con tutto, sempre... Le carezze... Credo che con questo si potrà mantenere quella forza del sacramento, perché anche il Signore accarezza con tanta tenerezza la sua sposa, la Chiesa. Andiamo avanti così. [Luca Monteferrante]: Siamo una comunità che vuole restare fedele allo speciale carisma ricevuto dal fondatore e alla missione affidatale dalla Chiesa come associazione di fedeli laici. Le chiediamo di aiutarci a comprendere il senso dell’invito di Gesù rivolto a Nicodemo a «rinascere dall’alto», come comunità che si interroga di fronte alla svalutazione della cultura quale strumento di promozione dell’uomo; alla organizzazione del lavoro che mette in pericolo gli spazi di vita personale e familiare; al mondo delle professioni che chiede di rinunciare a quote di libertà personale per accedere a ruoli di responsabilità; alla crisi della dimensione comunitaria e del valore della fraternità causata da ritmi di vita incompatibili con la partecipazione ad esperienze condivise. Ma, la risposta mi viene da quella parola che ha detto san Paolo quando era in mezzo alla tempesta, prima di arrivare a Malta: “O ci salviamo tutti, o nessuno”. Questo è l’aspetto comunitario, questo siete anche voi, il vostro carisma, la vostra associazione: o si salva tutta o non si salva. O tutti, o nessuno. Non dovete permettervi divisioni tra voi. E se ci sono alcune divisioni, incontratevi, litigate, ditevi la verità, arrabbiatevi, ma da lì uscirà sempre più forte l’unità. Salvate sempre l’unità. Non abbiate paura di litigare, di discutere..., ma per salvare l’unità. Sempre dentro, sempre dentro. E questo è uno strumento importante per salvare l’unità: o ci salviamo tutti, o non si salva nessuno. I particolarismi, qui, sono brutti, brutti. Ci sono [nella domanda] il “discernimento dei segni dei tempi”, “semi di novità”, come “rinunciare a quote di libertà per accedere a ruoli di responsabilità”... Tre cose: la prima l’ho detta, o tutti o nessuno. Seconda: formate figli, formate discepoli con questa “mistica” [atteggiamento interiore], e lasciate a loro la fiaccola, che la portino avanti. Non ci sono dirigenti eterni: l’unico eterno è l’Eterno Padre. Tutti noi dobbiamo passare la fiaccola ai figli perché la portino avanti. Fare discepoli, formare discepoli è una rinuncia, ma è una rinuncia di saggezza. Fare un passo “da parte” perché il figlio possa portare avanti le cose. Aiutarlo, custodirlo, ma non iper-proteggerlo: lasciarlo libero. E Colui che fa tutto questo lavoro di mantenere l’unità, la creatività, le nuove sfide, i nuovi figli è lo Spirito Santo. È la preghiera allo Spirito Santo. Bisogna chiedere a Lui, perché Lui è quello che ci consola nelle difficoltà, è Colui che è la gioia: lo Spirito Santo è la gioia della Chiesa. È Colui che ci aiuta, ci dà la gioia. Lo Spirito Santo è l’armonia, è Colui che delle diversità, che Lui stesso crea, fa l’armonia di tutta la Chiesa. Lo Spirito Santo è la bellezza. Ricordiamo quella volta che Paolo è andato in una comunità cristiana nuova e ha chiesto loro: “Avete ricevuto lo Spirito Santo?” - “Ma noi neppure sappiamo che ci sia uno Spirito Santo” (cfr. At 19, 2). E quante istituzioni finiscono male, o perdono il carisma proprio delle origini, perché hanno dimenticato lo Spirito Santo, che è consolatore nelle difficoltà, è la gioia, è l’armonia, è la bellezza? E così, ringrazio voi per la pazienza che avete avuto nell’ascoltare questo “sermone di Quaresima”, che erano sette: come i “sermoni delle sette parole”, che in Argentina duravano tre ore! Grazie tante. Grazie per quello che fate, grazie della testimonianza. E, per favore, vi chiedo di pregare per me, perché questo lavoro non è facile. Pregate per me. Grazie.

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Pag 6 Inquietudine dell’albergatore La meditazione di Francesco all’inizio della visita a Villa Nazareth Nella cappella di Villa Nazareth il Papa ha incontrato, sabato 18 giugno, la comunità degli studenti. È stato letto il passo evangelico della parabola del buon samaritano. Quindi il Pontefice, parlando a braccio, ha proposto la meditazione che pubblichiamo di seguito. Ci sono tante persone coinvolte in questo brano del Vangelo: quello che fa la domanda “chi è il mio prossimo?”; Gesù; e poi, nella parabola, i briganti, il povero che era mezzo morto sulla strada, poi il sacerdote, poi il dottore della legge, forse avvocato [il “levita”]; poi il locandiere, l’albergatore. Nella parabola, forse né il sacerdote né il dottore della legge né il samaritano né l’albergatore sapevano rispondere alla domanda “chi è il prossimo?”; forse neppure conoscevano com’era “il prossimo”, chi era “il prossimo”. Il sacerdote era di fretta, come tutti i preti, perché ha guardato l’orologio: “Devo dire la Messa”, o, tante volte: “Ho lasciato la chiesa aperta, devo chiuderla, perché l’orario è quello e non posso rimanere qui”. Il dottore della legge, uomo pratico, ha detto: “Se io mi immischio in questo, domani devo andare in tribunale, fare il testimone, dire quello che ho fatto, perdo due, tre giorni di lavoro... No, no, meglio...”. Viva Ponzio Pilato, e se n’è andato. Invece, quell’altro [il samaritano] peccatore, straniero che non era proprio del popolo di Dio, si è commosso: “ebbe compassione”, e si fermò. Tutti e tre - il sacerdote, l’avvocato e il samaritano - sapevano bene, conoscevano bene cosa si doveva fare. E ciascuno di loro ha preso la propria decisione. Ma a me piace pensare all’albergatore: è l’anonimo. Lui ha guardato tutto questo, ha visto e non ha capito nulla. “Ma questo è pazzo! Un samaritano che aiuta un ebreo! È pazzo! E poi, con le sue mani gli guarisce le ferite e lo porta qui all’albergo e mi dice: ‘Tu prenditi cura di lui, io ti pagherò se c’è qualcosa in più...’. Io non ho mai visto una cosa simile, questo è un pazzo!”. E quell’uomo ha ricevuto la Parola di Dio: nella testimonianza. Di chi? Del sacerdote, no, perché neppure lo aveva visto; dell’avvocato, lo stesso. Del peccatore, un peccatore che ha compassione. “Ah, hai sentito quella cosa? Un peccatore, sì, non era fedele al popolo di Dio, ma ha avuto compassione”. E non capiva niente, è rimasto con il dubbio, forse con la curiosità: “Ma che cosa è successo qui, strano...”. Con l’inquietudine dentro; e questo è ciò che fa la testimonianza. La testimonianza di questo peccatore ha seminato inquietudine nel cuore di questo locandiere; e cosa è successo di lui, il Vangelo non lo dice, neppure il nome. Ma sicuramente quest’uomo... - di sicuro, perché lo Spirito Santo quando semina, fa crescere - di sicuro è cresciuta la sua curiosità, la sua inquietudine, l’ha lasciata crescere nel suo cuore e ha ricevuto il messaggio della testimonianza. Poi, giorni dopo, è passato un’altra volta da quelle parti il samaritano; sicuramente ha pagato qualcosa. Oppure [l’albergatore gli ha detto]: “No, lascia, lascia: questo va sul mio conto”. Forse questa è stata la sua prima reazione alla testimonianza. E perché io mi soffermo, oggi, su questo personaggio, su questa persona? Perché la nostra testimonianza non si può contabilizzare - non so come si dice -. La testimonianza è vivere in modo tale che gli altri “vedano le opere vostre e glorifichino il Padre che è nei Cieli” (cfr. Mt 5, 16), cioè che incontrino il Padre, che vadano a Lui... Sono parole di Gesù. Io, su Villa Nazareth ho sentito delle notizie: “C’è questa Opera...”, ma non conoscevo bene. Poi Mons. Celli mi ha detto qualche cosa... È un’Opera, un lavoro dove si favorisce la testimonianza. Qui si viene non per “arrampicarsi”, né per guadagnare soldi, no, ma per seguire le tracce di Gesù e dare testimonianza di Gesù, seminare testimonianza. Nel silenzio, senza spiegazioni, con i gesti... Riprendere il linguaggio dei gesti. E sicuramente questo albergatore è in cielo, di sicuro!, perché quel seme, di sicuro, è cresciuto, è germogliato. Ha visto una cosa che mai, mai avrebbe pensato di vedere. E questa è la testimonianza. La testimonianza passa e se ne va. Tu la lasci lì e vai. Solo il Signore la custodisce, la fa crescere, come fa crescere il seme: mentre il padrone dorme, cresce la pianta. Mi auguro che quest’Opera continui ad essere un’Opera di testimonianza, una casa di testimonianza; di testimonianza a tutti, a tutti. Di testimonianza per la gente che si avvicina, o che ne sente parlare... una testimonianza. Mi auguro questo. E che il Signore ci liberi dai briganti - ce ne sono tanti! -, ci liberi dai sacerdoti di fretta o che vanno in fretta, sempre, non hanno tempo di ascoltare, di vedere, devono fare le loro cose...; ci liberi dai dottori che vogliono presentare la fede di

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Gesù Cristo con una rigidità matematica; e ci insegni a fermarci e ci insegni quella saggezza del Vangelo: “sporcarsi le mani”. Che il Signore ci dia questa grazia. Grazie. Pag 8 Perdere per guadagnare All’Angelus il Papa spiega cosa significa seguire Cristo Seguire Cristo rinnegando se stessi e prendendo la propria croce è sempre «un perdere per guadagnare». Lo ha detto il Papa all’Angelus di domenica 20 giugno, in piazza San Pietro. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Il brano evangelico di questa domenica (Lc 9, 18-24) ci chiama ancora una volta a confrontarci, per così dire, “faccia a faccia” con Gesù. In uno dei rari momenti tranquilli in cui si trova da solo con i suoi discepoli, Egli chiede loro: «Le folle, chi dicono che io sia?» (v. 18). Ed essi rispondono: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto» (v. 19). Dunque la gente aveva stima di Gesù e lo considerava un grande profeta, ma non era ancora consapevole della sua vera identità, cioè che Egli fosse il Messia, il Figlio di Dio inviato dal Padre per la salvezza di tutti. Gesù, allora, si rivolge direttamente agli Apostoli - perché è questo che gli interessa di più - e domanda: «Ma voi, chi dite che io sia?». Subito, a nome di tutti, Pietro risponde: «Il Cristo di Dio» (v. 20), vale a dire: Tu sei il Messia, il Consacrato di Dio, mandato da Lui a salvare il suo popolo secondo l’Alleanza e la promessa. Così Gesù si rende conto che i Dodici, e in particolare Pietro, hanno ricevuto dal Padre il dono della fede; e per questo incomincia a parlare loro apertamente - così dice il Vangelo: “apertamente” - di quello che lo attende a Gerusalemme: «Il Figlio dell’uomo - dice - deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (v. 22). Quelle stesse domande vengono oggi riproposte a ciascuno di noi: “Chi è Gesù per la gente del nostro tempo?”. Ma l’altra è più importante: “Chi è Gesù per ciascuno di noi?”. Per me, per te, per te, per te, per te...? Chi è Gesù per ciascuno di noi? Siamo chiamati a fare della risposta di Pietro la nostra risposta, professando con gioia che Gesù è il Figlio di Dio, la Parola eterna del Padre che si è fatta uomo per redimere l’umanità, riversando su di essa l’abbondanza della misericordia divina. Il mondo ha più che mai bisogno di Cristo, della sua salvezza, del suo amore misericordioso. Molte persone avvertono un vuoto attorno a sé e dentro di sé - forse, alcune volte, anche noi -; altre vivono nell’inquietudine e nell’insicurezza a causa della precarietà e dei conflitti. Tutti abbiamo bisogno di risposte adeguate ai nostri interrogativi, ai nostri interrogativi concreti. In Cristo, solo in Lui, è possibile trovare la pace vera e il compimento di ogni umana aspirazione. Gesù conosce il cuore dell’uomo come nessun’altro. Per questo lo può sanare, donandogli vita e consolazione. Dopo aver concluso il dialogo con gli Apostoli, Gesù si rivolge a tutti dicendo: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (v. 23). Non si tratta di una croce ornamentale, o di una croce ideologica, ma è la croce della vita, è la croce del proprio dovere, la croce del sacrificarsi per gli altri con amore - per i genitori, per i figli, per la famiglia, per gli amici, anche per i nemici -, la croce della disponibilità ad essere solidali con i poveri, a impegnarsi per la giustizia e la pace. Nell’assumere questo atteggiamento, queste croci, sempre si perde qualcosa. Non dobbiamo mai dimenticare che «chi perderà la propria vita [per Cristo], la salverà» (v. 24). È un perdere per guadagnare. E ricordiamo tutti i nostri fratelli che ancora oggi mettono in pratica queste parole di Gesù, offrendo il loro tempo, il loro lavoro, la loro fatica e perfino la loro vita per non rinnegare la loro fede in Cristo. Gesù, mediante il suo Santo Spirito, ci dà la forza di andare avanti nel cammino della fede e della testimonianza: fare quello in cui crediamo; non dire una cosa e farne un’altra. E in questo cammino sempre ci è vicina e ci precede la Madonna: lasciamoci prendere per mano da lei, quando attraversiamo i momenti più bui e difficili. Dopo la preghiera mariana il Pontefice ha ricordato la beatificazione di Maria Celeste Crostarosa a Foggia. Quindi ha invitato a pregare per il concilio panortodosso apertosi a Creta e ha rinnovato l’appello all’accoglienza dei rifugiati.

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Cari fratelli e sorelle, ieri, a Foggia, si è celebrata la beatificazione di Maria Celeste Crostarosa, monaca, fondatrice dell’Ordine del Santissimo Redentore. La nuova Beata, con il suo esempio e la sua intercessione, ci aiuti a conformare tutta la nostra vita a Gesù nostro Salvatore. Oggi, solennità della Pentecoste secondo il calendario giuliano seguito dalla Chiesa Ortodossa, con la celebrazione della Divina Liturgia ha avuto inizio a Creta il Concilio Panortodosso. Uniamoci alla preghiera dei nostri fratelli ortodossi, invocando lo Spirito Santo perché assista con i suoi doni i Patriarchi, gli Arcivescovi e i Vescovi riuniti in Concilio. E tutti assieme preghiamo la Madonna per tutti i nostri fratelli ortodossi. “Ave Maria...”. Domani ricorre la Giornata Mondiale del Rifugiato promossa dall’ONU. Il tema di quest’anno è “Con i rifugiati. Noi stiamo dalla parte di chi è costretto a fuggire”. I rifugiati sono persone come tutti, ma alle quali la guerra ha tolto casa, lavoro, parenti, amici. Le loro storie e i loro volti ci chiamano a rinnovare l’impegno per costruire la pace nella giustizia. Per questo vogliamo stare con loro: incontrarli, accoglierli, ascoltarli, per diventare insieme artigiani di pace secondo la volontà di Dio. Rivolgo il mio saluto a tutti voi, romani e pellegrini; in particolare agli studenti della London Oratory School, ai fedeli di Stoccolma e alle comunità africane francofone d’Italia. Saluto i fedeli di Benevento, Gravina di Puglia, Corbetta e Cardano al Campo, come pure i volontari del carcere di Busto Arsizio e, tramite loro, i detenuti. Saluto anche i gruppi ciclistici “ACRA” di Fermo, “Pedalando” di Roma e quello di Codevigo, che portano in giro per le strade messaggi di solidarietà. Sono bravi questi! Sono bravi! Auguro a tutti una buona domenica; e, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! Pag 8 Davanti allo specchio Messa del Pontefice a Santa Marta Ci sono regole chiare suggerite da Gesù per non cadere nell’ipocrisia: non giudicare gli altri per non essere a nostra volta giudicati con la stessa misura; e quando ci viene la tentazione di farlo, è meglio guardarsi prima allo specchio, non per nasconderci con il trucco ma per vedere bene come siamo realmente. Ricordando che l’unico vero giudizio è quello di Dio con la sua misericordia, Papa Francesco - nella messa celebrata lunedì mattina 20 giugno nella cappella della Casa Santa Marta - ha raccomandato di non cedere alla tentazione di mettersi al posto del Signore, dubitando della sua parola. «Gesù parla alla gente e insegna tante cose sulla preghiera, sulle ricchezze, sulle preoccupazioni vane, tante, su come deve comportarsi un suo discepolo» ha affermato Francesco. E così «arriva a questo passo del Vangelo sul giudizio», proposto dalla liturgia (Matteo, 7, 1-15). È un brano in cui «il Signore è molto concreto». Se infatti «alcune volte il Signore per farci capire ci racconta una parabola, qui è: “ta, ta, ta”: diretto, perché il giudizio è una cosa che può fare solo lui». «Il fatto incomincia» con una parola chiara di Gesù: «Non giudicate, per non essere giudicati». Dunque, «se tu non vuoi essere giudicato non giudicare gli altri: “tac, tac”, chiaro». E il Signore «va un passo avanti», indicando appunto il criterio della misura: «Perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi». «Tutti noi vogliamo, il giorno del giudizio, che il Signore ci guardi con benevolenza, che il Signore si dimentichi di tante cose brutte che abbiamo fatto nella vita» ha detto Francesco. E «questo è giusto, perché siamo figli, e un figlio dal padre si aspetta questo, sempre». Ma «se tu giudichi continuamente gli altri, con la stessa misura tu sarai giudicato: questo è chiaro». «Primo, il comandamento, il fatto: “Non giudicate per non essere giudicati”» ha ribadito il Papa, aggiungendo: «Secondo, la misura sarà la stessa che voi usate per i fratelli». E poi «il terzo passo: guardati allo specchio ma non per truccarti perché non si vedano le rughe; no, no, no, quello non è il consiglio!». Piuttosto, ha suggerito Francesco, «guardati allo specchio per guardare te, come tu sei». Le parole di Gesù sono chiare: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai a tuo fratello: “lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio” mentre nel tuo occhio c’è la trave?”». «Come ci qualifica il Signore - si è chiesto il Pontefice - quando facciamo questo? Una sola parola: “Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”». In realtà, non dovrebbe sorprendere la reazione del Signore che «si arrabbia; è molto forte, e sembra anche che ci insulti: dice “ipocrita” a chi

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giudica gli altri». La ragione è che «chi giudica - ha spiegato il Papa - si mette al posto di Dio, si fa Dio e dubita della parola di Dio». È proprio «quello che il serpente ha convinto a fare ai nostri padri: “No, no, Dio è un bugiardo, se voi mangiate di questo, sarete come lui”. E loro volevano mettersi al posto di Dio». Per questo, ha insistito il Pontefice, «è tanto brutto giudicare: il giudizio solo a Dio, solo a lui!». A noi compete piuttosto «l’amore, la comprensione, il pregare per gli altri quando vediamo cose che non sono buone», se serve «anche parlare loro» per metterli in guardia se qualcosa non sembra andare per il verso giusto. In ogni caso «mai giudicare, mai», perché «se noi giudichiamo è ipocrisia». Del resto, ha affermato Francesco, «quando giudichiamo ci mettiamo al posto di Dio, questo è vero, ma il nostro giudizio è un povero giudizio: mai, mai può essere un vero giudizio». Perché, appunto, «il vero giudizio è quello che dà Dio». E «perché il nostro non può essere come quello di Dio? Perché Dio è onnipotente e noi no? No, perché al nostro giudizio manca la misericordia». E «quando Dio giudica, giudica con misericordia». In conclusione il Papa ha suggerito di pensare «oggi a questo che il Signore ci dice: non giudicare, per non essere giudicato; la misura con la quale giudichiamo sarà la stessa che useranno con noi; e, terzo, guardiamoci allo specchio prima di giudicare». E così quando ci viene da dire: «questa fa quello, questo fa quello», è meglio guardarsi allo specchio prima di parlare. Altrimenti «sarò un ipocrita - ha ripetuto Francesco - perché mi metto al posto di Dio». E comunque «il mio giudizio è un povero giudizio: manca qualcosa di tanto importante che ha il giudizio di Dio, manca la misericordia». Il Signore, ha auspicato il Papa, «ci faccia capire bene queste cose». AVVENIRE Pag 24 “Il mondo ci guarda”, Bartolomeo I apre il Concilio ortodosso di Andrea Galli Dopo la Divina Liturgia di Pentecoste, al via i lavori all’Accademia di Creta. L’archimandrita Evangelos: “L’assenza di Mosca? Non è decisiva” «Oggi è anche un giorno in cui gridiamo al Paraclito e lo imploriamo di venire e rimanere tra noi, di custodirci nella sua verità e santità, secondo la preghiera dolorosa del Signore nel giardino del Getsemani». E la preghiera di Gesù per l’unità è «la domanda primordiale dell’umanità in un mondo diviso». Le parole del patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, sono risuonate domenica scorsa nella Divina Liturgia che si è celebrata nella Cattedrale di San Mena a Candia. Nel giorno della Pentecoste per le Chiese orientali, la liturgia durata ben quattro ore è stata l’inizio ufficiale del Concilio panortodosso. Un’Eucaristia che ha visto attorno a Bartolomeo i primati delle dieci Chiese giunte per l’evento sull’isola di Creta: i patriarchi Teodoro di Alessandria, Theophilos di Gerusalemme, Irinej di Serbia, Daniel di Romania; gli arcivescovi Chrysostomos di Cipro e Ieronymos di Atene e di tutta la Grecia, il metropolita Sawa di Varsavia e di tutta la Polonia e gli arcivescovi Anastasios di Albania e Rastislav di Cechia e Slovacchia. Alla liturgia erano presenti anche il presidente della Repubblica di Grecia, Prokopis Pavlopoulos, membri del governo e autorità politiche locali. Quattro le Chiese che si sono invece “ritirate” dalla convocazione – la prima di tal genere da oltre mille anni – dopo settimane di turbolenze, rivendicazioni e confronti ecclesiali felpati nei toni quanto duri nella sostanza: quelle di Antiochia, Georgia, Bulgaria e soprattutto Domenica, informa AsiaNews, è stato distribuito in tutte le chiese di Creta un opuscolo con cui si ricordava che la sinodalità è la vera essenza della Chiesa ortodosso. E ieri mattina, all’apertura delle sessioni di studio presso l’Accademia ortodossa di Creta, a Kolymbari, Anastasios di Albania ha sottolineato come l’opera dello Spirito Santo non sia relegata al passato, ma debba ispirare anche oggi i cristiani, che devono continuare a invocarlo. Prima di leggere la sua prolusione il patriarca Bartolomeo ha ricordato quanti stanno supportando il Concilio e tra loro ha citato papa Francesco, che a sua volta, al termine dell’Angelus domenicale, aveva invitato tutti a unirsi «alla preghiera dei nostri fratelli ortodossi». Patriarchi e arcivescovi presenti all’Accademia ortodossa lavoreranno in questi giorni a porte chiuse, seduti a semicerchio attorno a dei tavoli ricoperti da una tovaglia bianca. Dietro di loro, seduti sempre attorno a dei tavoli, le rispettive delegazioni e davanti l’intera assemblea. «Il mondo ci sta guardando», ha detto ieri Bartolomeo, e questo richiede «una responsabilità più grande». Ad elevare l’attenzione dei presenti e a richiamare «una responsabilità più grande» è anche il logo scelto per

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l’assise panortodossa: l’icona detta dell’“etimasia”, ossia della “preparazione”: un trono vuoto che simboleggia l’attesa per il ritorno di Cristo alla fine dei tempi, occupato per dal Vangelo e dallo Spirito Santo forma di colonna. Il tutto racchiuso in una cerchio con 14 croci bianche, le 14 Chiese ortodosse autocefale che sono state convocate, anche se non tutte pervenute. L’archimandrita Evangelos Yfantidis, vicario generale dell’arcidiocesi ortodossa di Italia e Malta, guarda con speranza all’evento di Creta e non nasconde il disappunto quando gli ricordiamo quelle “debolezze” del Concilio o Sinodo (sulla corretta definizione ci sono diverse scuole di pensiero) in corso, che secondo diversi osservatori ne ridimensionano di molto la portata. Padre Evangelos, parliamo dell’assenza del patriarcato di Mosca, che rappresenta quasi due terzi degli ortodossi nel mondo: non poco... Nella Chiesa ortodossa i numeri dei fedeli non ha avuto mai e non ha nessuna importanza e tutto questo in base all’insegnamento del Nuovo Testamento, all’ordinamento dei santi Canoni e alla tradizione della Chiesa. Contare il numero di fedeli è la conseguenza inevitabile di uno sviluppo «il cui inizio deve essere cercato nelle prime manifestazioni del pensiero mondano nella Chiesa, dal quale proviene uno spirito diverso dallo spirito della primitiva Chiesa unita», come sottolineava in una sua vecchia intervista il patriarca ecumenico Bartolomeo. Dunque, il peso che ha l’assenza del patriarcato di Mosca è uguale a quello che ha l’assenza della piccola Chiesa che rappresenta il patriarcato di Georgia, o delle due Chiese di Antiochia e Bulgaria. Però in relazione a queste quattro Chiese sorgono altre domande, che ha evidenziato il metropolita Gennadios, arcivescovo ortodosso d’Italia e Malta, in un suo recente testo: «Ma i santi primati delle Chiese ortodosse Locali che non verranno al Sinodo come affronteranno la grave responsabilità delle firme e dell’assenso dei loro unanimi alla convocazione del Santo e Grande Sinodo? Le loro coscienze, i loro cuori avranno pace? Non guardano alla storia? ». Da sottolineare ancora che nel santo e grande Sinodo non è obbligatoria – anche se è preferibile – la partecipazione di tutte le Chiese ortodosse. Non va dimenticato che il patriarcato di Antiochia non ha voluto partecipare al grande Sinodo di Efeso nel 431 (il III Concilio ecumenico), ma che questo è stato convocato lo stesso, testimoniando la fede ortodossa con grande successo. Però, insisto, due terzi o circa degli ortodossi... come si può pensare di “deliberare” senza Mosca? Si dice che il patriarcato di Mosca oggi ha il più alto numero di fedeli nel mondo. Consideriamo però una cosa: l’Ucraina oggi è uno dei quattro Paesi di tradizione ortodossa che dipendono dal patriarcato di Mosca ed è il Paese con il più alto numero di battezzati e di praticanti ortodossi nella giurisdizione moscovita. Bene, lo scorso 16 giugno il Parlamento ucraino, quasi all’unanimità, ha chiesto al patriarca ecumenico di dare l’autocefalia alla Chiesa di Ucraina, che la richiede da molto tempo. Se, per ipotesi, questo dovesse succedere, allora Mosca non sarebbe più la Chiesa più numerosa e verrebbe meno l’argomentazione numerica. Dunque è meglio tacere riguardo ai numeri e non mescolare il pensiero mondano alla vita della Chiesa. Da non pochi osservatori questo santo Sinodo o Concilio panortodosso viene visto come un passaggio vagamente simile, nelle intenzioni, a ciò che è stato il Concilio Vaticano II per la Chiesa cattolica: è un paragone che anche lei farebbe? Faccio mio il pensiero di molti studiosi che il santo e grande Sinodo non è una copia né dei Concili ecumenici del primo millennio, né del Concilio Vaticano II. Il Sinodo, adeguato alle condizioni e alle potenzialità del XXI secolo, ha delle sue particolarità. Però vi trovo due elementi in comune con il Concilio Vaticano II. Il primo è che ambedue sono di carattere pastorale. Non ci sono più le eresie da condannare, non c’è più il bisogno di formulare la fede: gli argomenti di ambedue i Sinodi mirano alla interpretazione delle decisioni dei Concili e dei Sinodi precedenti, e a renderli pastoralmente applicabili alle condizioni della vita contemporanea del clero e del popolo. Il secondo elemento comune è la presenza, in qualità di osservatori, dei rappresentanti delle altre Chiese e confessioni cristiane. Li abbiamo visti in Vaticano e li vediamo a Creta. Ambedue le Chiese sentono il bisogno di promuovere l’unità dei cristiani, promuovere la volontà di Dio «che tutti siano una cosa sola» e dunque la presenza di osservatori delle altre

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Chiese esprime una apertura ecumenica verso tutti coloro che sono coinvolti nel dialogo inter-cristiano. CORRIERE DELLA SERA Pag 32 La stagione degli oratori di Giampiero Rossi Un popolo di due milioni di ragazzi e 350 mila animatori. Boom al Nord, cresce il Sud. “Ci affidano bambini di 20 confessioni religiose” Di solito «il don» si avvicina al calcio balilla poco prima di andare «a dire messa» o di ritorno da un turno di confessioni. Fa qualche battuta (da oratorio) sul livello dei giocatori, dice che lui è «fuori allenamento», ma poi appoggia il breviario, si mette dall’altra parte del biliardino e comincia un lento massacro. Oppure, magari con i più grandicelli, lancia la sfida aperta e promette «una lezione di calcetto». E allora può solo andar peggio. Per questo in un attimo si forma un piccolo pubblico di imberbi con le ginocchia sbucciate pronti a godersi lo show. Il calcio balilla è il simbolo laico dell’oratorio, una sorta di totem non del tutto pagano del territorio parrocchiale. Attorno a quel gioco, pressoché immutato dagli anni Venti, si perpetuano rituali che non stanno scritti in alcuna liturgia ma che hanno accompagnato diverse generazioni. Nel frattempo, però, l’oratorio si rinnova continuamente, mantenendo fermi i suoi capisaldi e abbracciando parecchie novità. Ma soprattutto, non conosce declino. Anzi, è una realtà in crescita costante in tutto il Paese, che in queste settimane coinvolge oltre due milioni di ragazzini, distribuiti in circa 8.000 oratori, insieme ad almeno 350 mila animatori, tra i quali moltissimi adolescenti. I numeri esplodono soprattutto in estate. Tra la chiusura delle scuole e la stagione della villeggiatura, da Nord a Sud, la rete delle parrocchie italiane si sbizzarrisce in un’offerta varia di attività che ricadono sotto il nome (immutabile nei lustri) di «oratorio estivo feriale» e che rappresenta un punto di riferimento per tante famiglie. Secondo il Forum nazionale degli oratori (Foi), quest’offerta cresce tra il 10 e il 20 per cento. E, in effetti, pur mantenendo un baricentro decisamente saldo nelle regioni del Nord, l’oratorio sta conquistando sempre di più il Centro-Sud. «Qui, nella piccola Umbria, nel giro di una dozzina d’anni siamo passati da 10 a 150 - spiega don Riccardo Pascolini, presidente del Foi e coordinatore degli oratori perugini - e la stessa tendenza si sta manifestando anche in altre regioni, dalle Marche alla Sardegna. Ne nascono continuamente di nuovi, facciamo fatica a tenere aggiornato il censimento». Ma perché tanto successo? In fondo, tante cose sono cambiate dai tempi di San Filippo Neri e don Bosco: nuovi sport, nuovi giochi, nuovi metodi educativi, meno tonache e più bermuda. «Perché quello che il ragazzo e la sua famiglia incontrano all’oratorio è un volto umano conosciuto, che non spunta soltanto in estate ma che ti offre prossimità in modo permanente», riassume don Riccardo. E poi racconta di aver conteggiato una ventina di confessioni religiose diverse tra le centinaia di migliaia di bambini che, comunque, vengono affidati agli oratori, «e giocando insieme imparano a conoscersi e a stimarsi». Lo Stato sostiene gli oratori con un contributo pubblico che varia su base regionale, dai centomila euro dell’Umbria ai 700 mila della Lombardia. A loro volta, per l’offerta estiva, gli oratori chiedono alle famiglie una quota che in media si aggira attorno ai 30 euro alla settimana, in qualche caso pasti compresi. Nelle periferie delle grandi città il ruolo di boa sociale è ancora più evidente. A Roma i circa 120 oratori si trovano soprattutto nei quartieri più difficili, mentre a Milano sono praticamente ovunque. La Lombardia ne conta circa 3.000 e la sola diocesi di Milano almeno un migliaio. «L’oratorio è un modello imitato anche da esperienze aggregative laiche - spiega don Samuele Marelli, direttore della Fondazione oratori milanesi (Fom) - perché qui i ragazzi trovano un clima di attenzione, gratuità e continuità, perché i volontari sono “veri”, sono persone». E forse anche per questo, persino in terre ambrosiane, negli ultimi dieci anni il numero degli oratori è cresciuto almeno del 10 per cento. Le attività per i ragazzi? Dai giochi al doposcuola, dalle escursioni agli sport, non esiste uno schema rigido. «Ognuno inventa se stesso - dice don Riccardo - perché l’oratorio è come una pizza: la base è la stessa, ma per tutti gli altri ingredienti da aggiungere, spazio alla creatività». Soltanto una regola non cambia mai: a calcio balilla non vale «rullare». IL FOGLIO

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Pag 1 Rivoluzione papale di Matteo Matzuzzi La vera svolta di Francesco è nella scelta dei nuovi vescovi. In Italia ne ha nominati già 85 Roma. Più che nei controversi documenti post sinodali e nella lenta riforma della governance curiale, la rivoluzione di Francesco consiste nella scelta dei nuovi vescovi mandati a guidare le diocesi sparse nel mondo. In un recente articolo pubblicato dal Sir, il Servizio d'informazione religiosa della Conferenza episcopale italiana, si legge che nel primo triennio di pontificato Bergoglio ha nominato per la sola Italia ottantacinque vescovi: più di un terzo del totale, essendo duecentoventisei le diocesi presenti nel nostro paese. L'età media dei prescelti è di cinquant'anni, il che significa che il mandato è - in teoria - di almeno venticinque anni. Il tempo sufficiente, insomma, per lasciare un'impronta tangibile. In calendario, poi, ci sono altri spostamenti tutt'altro che irrilevanti, a cominciare dalla nomina del successore del cardinale Angelo Scola a Milano, che compirà 75 anni il prossimo novembre e che si avvia - al netto della possibile proroga che il Pontefice potrebbe concedergli - al pensionamento. Il prossimo anno, poi, sarà scelto il nuovo presidente della Cei dopo il decennio a guida di Angelo Bagnasco. Si applicheranno per la prima volta le nuove norme, che prevedono la presentazione al Papa d'una terna votata dall'assemblea dei presuli da cui scegliere il numero uno. Non si tratta solo d'un semplice e routinario ricambio dovuto a pensionamenti e trasferimenti, bensì di un sostanziale mutamento del profilo scelto per il ruolo episcopale. In chiara discontinuità - come è legittimo che sia, potendo il Pontefice nominare chi voglia, senza essere vincolato a suggerimenti, terne e proposte portate sul suo tavolo - con il quarto di secolo precedente. Per cogliere la portata della rivoluzione è sufficiente soffermarsi su qualche caso-campione: Chicago, Madrid, Bruxelles. Tre diocesi di peso, tradizionalmente cardinalizie, i cui pastori incarnano un profilo distante - se non opposto - rispetto agli immediati predecessori. Nella città americana, dopo il protagonista della stagione delle culture war, il cardinale Francis Eugene George - che fu anche presidente della locale conferenza episcopale - Francesco ha mandato mons. Blase Cupich, già vescovo della modesta Spokane, non tra i prediletti di George. Cupich è ritenuto essere il miglior interprete della nuova agenda vaticana, meno attenta allo scontro muscolare e più incline a guardare a ciò che accade nella periferia, che non è un mero concetto geografico, bensì implica - come ha scritto il diplomatico Pasquale Ferrara ne "Il mondo di Francesco" (San Paolo) - un riferimento all'esclusione e all'espulsione di popoli e società da condizioni di vita dignitose e rispettose dei diritti fondamentali. Non si tratta, insomma, solo di sposare i dettami dell'enciclica Laudato si' o di mostrarsi attenti agli ultimi, bensì di rappresentare la linea di profondo rinnovamento illustrata da ultimo da Francesco nel discorso all'episcopato americano tenuto a Washington lo scorso settembre. Lo stesso si può dire per Madrid, dove due anni fa fu mandato mons. Carlos Osoro Sierra, che già in tempi non sospetti era definito "il piccolo Francesco", data la sua sintonia totale con l'agenda del Pontefice argentino. Negli anni in cui il cardinale Antonio María Rouco Varela - arcivescovo di Madrid e presidente della Conferenza episcopale spagnola assai vicino a Giovanni Paolo II - schierava il clero in prima linea nella battaglia contro le politiche dell'allora primo ministro José Rodríguez Zapatero, Osoro Sierra preferiva rimanere in disparte, ritenendo poco utile ingaggiare lotte pubbliche col governo per difendere i cosiddetti valori non negoziabili. Ancor più evidente la discontinuità a Bruxelles, dove il Papa ha scelto come successore del conservatore André Léonard mons. Josef De Kesel, delfino del cardinale Godfried Danneels, portabandiera della corrente progressista nella chiesa che poco aveva gradito - come rivelò in un' intervista di qualche anno fa l'allora nunzio in Belgio, Karl-Josef Reuber - la decisione di Benedetto XVI di nominare Léonard (unico vescovo belga con fama di conservatore) quale suo successore. La premessa è che "non esiste un pastore standard per tutte le chiese", disse Francesco nel febbraio del 2014 intervenendo alla congregazione per i vescovi. Quel che è certo, però, è che "non ci serve un manager, un amministratore delegato di un'azienda, e nemmeno uno che stia al livello delle nostre pochezze o piccole pretese. Ci serve uno che sappia alzarsi all' altezza dello sguardo di Dio su di noi per guidarci verso di lui". Al di là della grezza contabilità, la direzione tracciata è evidente anche osservando come il Papa si è rapportato all'episcopato italiano. Poche volte si è attenuto alle terne che il dicastero vaticano gli sottoponeva, quasi mai ha trasferito un

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pastore da una sede all'altra. Più spesso, ha pescato nella base, tra i parroci. E' il caso - ad esempio - di Padova, Terni, Trento, Belluno e Palermo, dove in una diocesi per tradizione cardinalizia, Francesco ha designato Corrado Lorefice, cinquantatreenne parroco a Modica. Anche per le creazioni cardinalizie, il metodo è lo stesso. Niente porpore di diritto - sono rimasti fuori dal collegio, infatti, sia il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia sia l'arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia - ma scelte sorprendenti che hanno riguardato i vescovi di Perugia, Ancona, Agrigento. Non è una strategia limitata all'Italia, se si considera che Francesco ha voluto cardinali esponenti di chiese piccole e lontane, come i pastori di Tonga, Capo Verde, Yangon, Saint Lucia. Svolta che fece sobbalzare il filosofo tedesco Robert Spaemann: "Sono stati fatti entrare nel governo della chiesa vescovi completamente sconosciuti, che a volte hanno quindicimila cattolici nelle loro diocesi". Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 24 Il garante nazionale in carcere, pesanti critiche alla direttrice di Giorgio Cecchetti Santa Maria Maggiore: la relazione, resa nota dopo una visita di due mesi fa, muove una serie di rilievi Venezia. Il garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma ha reso noto sabato scorso il rapporto sulla visita compiuta due mesi fa a Santa Maria Maggiore. I rilievi critici nei confronti dell’attività della direttrice Immacolata Mannarella sono numerosi e pesanti. Inoltre, nella relazione sono indicate alcune raccomandazioni per il futuro e il «garante chiede che sia data risposta, indicando le azioni intraprese o argomentando quelle non avviate, entro quindici giorni». Il garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale è un organo di garanzia, indipendente, non giurisdizionale che ha la funzione di vigilare su tutte le forme di privazione della libertà, dagli istituti di pena, alla custodia nei luoghi di polizia, alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems), ai trattamenti sanitari obbligatori. Almeno cinque i rilievi che vengono mossi alla direzione del carcere. Il primo riguarda il rapporto con l’esterno, in particolare con le numerose associazioni di volontari che da anni svolgono attività all’interno. «Una tradizione di intervento che sembra invece fortemente diminuito e ostacolato» si legge nel documento, il quale prosegue: «La criticità dei rapporti tra Direzione e soggetti esterni ha raggiunto recentemente anche il livello istituzionale giacché il Comune di Venezia ha informato della crescente difficoltà a cooperare con la Direzione del carcere». Secondo rilievo: al termine di una precedente visita era stata data «la chiara indicazione di rimuovere le schermature delle finestre dei locali detentivi», necessità ribadita anche dagli ispettori dello Spisal dell’Ulss 12, visto che i detenuti a Santa Maria Maggiore vivono «in ambienti scarsamente illuminati - sia di luce naturale che di luce artificiale - poco ventilati e molto problematici nel periodo estivo». Nonostante questo, «non ha fatto seguito nel corso dei due anni (la scorsa visita era stata compiuta nel 2014) alcuna iniziativa». Stando al garante, «l’istituto è praticamente privo di effettivi ambienti per attività comuni e le stanze di socialità si presentano estremamente scarne, prive di tavoli e sedie sufficienti, senza alcun elemento che favorisca la socialità, a esclusione di un mazzo di carte...le attività sportive sono del tutto assenti». Per questo il garante raccomanda che «l’Amministrazione penitenziaria impartisca chiara indicazione alla Direzione dell’istituto di attrezzare le stanze della socialità con elementi atti a favorire e programmare la quotidianità detentiva secondo principi di utilizzo significativo del tempo e di attiva responsabilizzazione dei detenuti. In tale direzione appare urgente la ricostruzione di un rapporto positivo con l’esterno». «La presenza della direttrice», si legge ancora nel rapporto, «è ben poco avvertita. Il registro dei colloqui della direttrice con i detenuti riporta, nel periodo da ottobre 2015 a marzo 2016, soltanto 6 sessioni di ricevimento per un totale di 32 detenuti: in nessun caso è riportata alcuna conseguente decisione». E ancora, «la dislocazione del personale di

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Polizia penitenziaria nelle sezioni suscita una certa perplessità, risultando queste ultime di fatto sguarnite, senza alcuna attuazione della vigilanza dinamica». Infine l’invito «a favorire al massimo l’attività» del garante comunale che «per propria competenza professionale può offrire supporto e consiglio nell’affrontare difficoltà che possano emergere nella complessa gestione della quotidianità detentiva». Pag 27 Zelarino. Braccio di ferro sull’appartamento di Caritas di Simone Bianchi Un disoccupato che ci vive non paga l’affitto e la diocesi vorrebbe usarlo per altri bisognosi Zelarino. Braccio di ferro sull’uso di un appartamento della Caritas diocesana in via Castellana. Da un parte c’è l’attuale inquilino che non vuole andarsene pur non avendo un contratto e non pagando affitti da quasi quattro anni, e dall’altra la stessa Caritas che invece vorrebbe poter liberare e destinare l’alloggio ad altre persone bisognose, magari famiglie in difficoltà. «Tutto nasce nella primavera del 2009», racconta G.T. 47enne originario di Spinea. «Dopo tre anni e mezzo alla comunità Emmaus di Trivignano, don Dino Pistolato mi mise a disposizione questo appartamento. Pagavo 150 euro al mese. Poi nel 2012 mi dissero che dovevo liberarlo. Non avevo firmato alcun contratto, però poi non mi vennero più chiesti soldi e proseguii ad abitarci. In questi anni più volte mi è stato chiesto di andarmene ma non ho un posto alternativo. Sono disoccupato, sopravvivo con piccoli lavori saltuari, ma sarei anche disposto a continuare a pagare quel tipo di affitto pur di non finire in mezzo a una strada. Ho chiesto anche aiuto ai servizi sociali del Comune di Spinea, ma finora non ho ottenuto alcuna risposta per avere alternative». Un caso ingarbugliato in un periodo in cui la crisi economica non ha certo facilitato le cose al signor G.T. come a tante altre famiglia sia italiane che straniere residenti in città. «Da anni la Caritas paga le bollette per i consumi di quell'appartamento, e continuiamo a chiedere a quella persona di lasciarlo libero», replica lo stesso don Dino Pistolato, «non c'è un vero sfratto perché non c'è un contratto in essere, ma parliamo di un appartamento che doveva essere solo di appoggio per chi usciva dalla comunità, per aiutarlo a reinserirsi nel tessuto sociale, magari non pagando un affitto per un certo periodo in modo da risparmiare i soldi e crearsi una indipendenza economica per poi andare ad abitare altrove. Invece in questo caso c'è stata l’incapacità a crearsi questa indipendenza, e l’occupazione ancora di questo alloggio è un atto di ingiustizia. Quello spazio potrebbe tornare invece utile per una famiglia bisognosa». Le parti sono ben distanti al momento, poiché il signor G.T. non intende andare via. Pag 27 Le suore vendono il “Gardenia”, 40 associazioni a rischio sfratto di Massimo Tonizzo Appello della Municipalità di Marghera al Comune Marghera. Dopo la chiusura della Monteverdi, che ha lasciato Marghera senza la principale palestra e le sale per riunioni ed esposizioni, ora un’altra delle principali strutture per le associazioni cultuali e sportive del quartiere, il Centro Gardenia, rischia la chiusura, e la Municipalità e le quasi quaranta associazioni coinvolte protestano a gran voce, chiedendo al Comune uno sforzo per l'acquisto della struttura. Come un fulmine a ciel sereno, pochi giorni fa è arrivata alla Municipalità di Marghera la notizia della messa in vendita dell’ex asilo Sacro Cuore, la struttura in piazza Sant’Antonio che da anni ospita il centro Gardenia, sede di quasi quaranta associazioni culturali, e il cento Internet Marghera. L’edificio, di proprietà delle suore Francescane Missionarie d'Egitto con sede a Arcore, è stato messo in vendita a maggio, con una priorità data al comune di Venezia (che attualmente ha in affitto parte della struttura) per l’acquisto da definirsi entro fine giugno: ma la situazione economica attuale del Comune porta nubi scure sul futuro del Sacro Cuore, tanto che Municipalità e associazioni si sono già mobilitate per la difesa della sede, certamente da rimodernare ma fondamentale per il quartiere. «Sarebbe un colpo durissimo», spiega Bruno Polesel, vicepresidente della Municipalità con delega alla cultura, «sia per le associazioni, che si troverebbero senza sede, sia per il centro di Marghera, con una struttura che rischia di fare la fine della vicina Monteverdi, contribuendo al degrado. Noi abbiamo chiesto già in passato, in una situazione più favorevole, di acquistare l’immobile, ma ora vedo una situazione molto difficile. Spero

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che il Comune capisca e si impegni a fare qualcosa». Preoccupate, ovviamente, anche le associazioni. «Marghera», dice Fabrizio Capigatti di Venezia Comix, «è una delle poche aree del comune che garantiva una sede importante e adatta a molte associazioni. Sarebbe un danno enorme per la cultura di tutta la città». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST AVVENIRE Pag 17 “Salvato dalla Provvidenza” di Francesco Dal Mas S. Maria di Sala (Venezia), un bimbo ritrovato a due passi da un cassonetto. Il parroco: una madre l’hai sentito e prestato le prime cure «Speriamo che Attilio possa avere la stessa fortuna (diciamo pure la divina Provvidenza) di Martina, che adesso ha trovato una famiglia. Una famiglia che le vuole un sacco di bene». Nel volto sereno di don Paolo Cecchetto, la felicità di tutta la sua comunità, Santa Maria di Sala, nel Veneziano, diocesi di Treviso. Il 25 giugno di un anno fa don Paolo aveva trovato, sulla porta della canonica, un sacchetto con dentro una neonata, ben vestita, lavata e con una copertina a proteggerla. Un anno dopo, apparentemente nascosto dentro una borsa della spesa, ma lasciato vicino a dei cassonetti perché qualcuno lo rinvenisse, un maschietto di pochi giorni è stato rinvenuto da una signora del paese. In parrocchia le famiglie stavano festeggiando, in uno dei loro incontri, facendo memoria tra l’altro del primo anniversario della lieta scoperta di Martina. Forse l’intenzione, da parte della mamma, era di ripresentare questo dono in canonica e ha scelto altrove per tutta quella gente? Se lo chiede don Paolo. Che sospira: «L’ha trovato una buona mamma di due bambini, che è corsa a casa col piccolo, gli ha prestato le prime cure, ha chiamato i carabinieri e il pronto soccorso». «Ho visto l’auto dell’Arma e l’ambulanza – racconta la madre di questa signora –, sono accorsa temendo il peggio. Ma quando, entrando, ho saputo di questa grazia di Dio, ci siamo commosse fino alle lacrime». In via Cavanin di Sala, domenica sera, verso le 20.40, la signora, portando la spazzatura, ha sentito dei lamenti. «Sembravano quelli di un gatto». Ma erano troppo insistenti. Tra un cassonetto dell’isola ecologica e la siepe, ecco un sacchetto e dentro, appunto, il neonato. Prima lo smarrimento della donna, poi la corsa verso casa. E dopo una primissima assistenza, la chiamata ai carabinieri e al 118 che l’ha portato in Ostetricia all’ospedale di Mirano. La parrocchiana, guarda caso dedicata alla Natività di Maria, ha tirato un sospiro di sollievo, ieri mattina, quando dai sanitari sono arrivate le assicurazioni tanto attese. Attilio – così l’hanno chiamato – è in buone condizioni. Era vigile e reattivo, respirava spontaneamente, era ipotermico. Dopo le prime cure è stato trasportato in Patologia Neonatale a Mirano dove è stato ricoverato. Il piccolo – così il bollettino dell’azienda sanitaria – è stato posizionato in termoculla con rapido recupero della temperatura corporea e sottoposto alle prime indagini di routine con risultati parziali normali ed altri ancora in corso. Attualmente Attilio è in buone condizioni generali e ha già assunto i primi pasti di latte. «La Divina Provvidenza – ricorda don Paolo – ha voluto, nel ritrovamento della piccola creatura, che la serratura del cassonetto si fosse inceppata, per cui la donna dei rifiuti ha avuto il tempo di notare che a fianco del contenitore c’era quella borsa da cui provenivano i vagiti». Grande emozione in tutto il paese, dove proprio domenica si era pregato perché anche le creature abbandonate possano trovare una famiglia. Ci si chiede, in queste ore, perché proprio in parrocchia sono stati fatti ritrovare i due neonati; si tratta, probabilmente, di due gestanti diverse, forse aiutate dalla stessa persona. «Gettare un neonato nel cassonetto è una sconfitta per l’umanità. Alla gioia per la notizia che il neonato di Venezia è vivo segue lo sgomento per una mamma che ha abbandonato la propria creatura come fosse un rifiuto – afferma Gian Luigi Gigli, presidente del Movimento per la Vita –. Quanto accaduto ci richiama all’urgenza di offrire a ogni gestante in difficoltà concrete alternative all’aborto e all’abbandono e, insieme, quella di promuovere una campagna per diffondere la conoscenza della possibilità di partorire in anonimato nel nostro Paese». Gigli ricorda che anche a Venezia e nelle sue vicinanze esiste una rete di Centri

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di Aiuto alla Vita: strutture in grado di accogliere, assistere, ascoltare ed aiutare gestanti in difficoltà. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Dire, fare, rottamare di Alessandro Russello Si parte sempre dalla notizia. E la notizia è che nel Paese del Renzi-contro-tutti e del tutti-contro-Renzi ha vinto, anzi trionfato, il Movimento Cinque Stelle. Sempre più Cinque Stelle e sempre meno grillino, comunque uscito dal cono d’ombra del padre fondatore e capace di vivere – protesta o proposta che sia – di luce propria. Ma se dobbiamo leggere gli esiti di questa tornata elettorale con gli occhiali veneti, le cose cambiano. Perché in Veneto l’M5S, sempre conti alla mano, alla fine si è preso solo due Comuni. Vigonovo, municipio di 9900 abitanti nelle campagne della Riviera del Brenta, e la «Repubblica di Chioggia», dove le goldoniane baruffe sono piantate anche nel dna politico-amministrativo dell’atipica piccola patria. Chioggia è il Comune più popoloso di quelli che nella nostra regione andavano al voto ed è quindi lecito il cantar vittoria del popolo pentastellato con cotanti accostamenti (Roma e Torino). Ma senza nulla togliere ai meriti del neo sindaco Alessandro Ferro (in bocca al lupo), la presa della piccola Venezia non è ascrivibile – o lo è solo in parte – all’analisi e alla narrazione nazionali. Tradotto: a Chioggia il sindaco uscente Giuseppe Casson, transfuga di un’alleanza con il Pd poi appoggiato dalla Lega (a proposito di anomalie…) è stato battuto soprattutto per la singolarità della sfida. Le maggiori liste sconfitte al primo turno – molti dei cui voti hanno determinato la vittoria grillina – covavano infatti una vendetta da servire sul piatto del ballottaggio. Quella del Pd per essere stata fatta fuori da Casson a un anno dalla conclusione della vecchia giunta; e quella «fucsia» del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, per la prima volta in trasferta con il proprio movimento, per essere stata indicata da Casson come l’avanguardia di un’orda straniera che veniva ad imporre alla libera Repubblica di Chioggia il gonfalone della Dominante. Insomma – e non certo in chiave anti-renziana - il tema delle ripicche ci sta tutto. Detto questo, sarebbe fuorviante non registrare che anche in Veneto il vento pentastellato una spazzolatina l’ha data. I terzi posti dell’M5s al primo turno in diversi Comuni testimoniano una presenza ormai stabile anche nelle amministrazioni locali venete, oltre che in parlamento. Ma una verità, sempre affidandoci ai numeri, va detta e ripetuta. Queste elezioni, qui, le ha vinte la Lega, che si è portata a casa la maggior parte dei municipi nei quali si votava. Nonostante, ormai, sia il più vecchio partito esistente in Italia. Perché? Probabilmente perché – al tempo in cui partiti e movimenti vengono rottamati alla velocità della luce - se non nuova come i Cinque Stelle rappresenta un «usato sicuro». Oscillante fra il radicalismo di centro della Regione iperlavorista che paga i conti degli altri (autonomia) e la moderazione ribellista post-democristiana, (tasse, burocrazia) è un usato sicuro e di ritorno che nonostante le scoppole dei diamanti e i passaggi dolorosi fra i rottamati, sa funzionare meglio che in Lombardia. Dove, per dire, la Lega di Salvini (ma con Maroni capolista) ha perso la roccaforte Varese. La «piccola patria» con la quale la Lega Lombarda è nata e decollata. Per non parlare di Milano, dove Parisi con i voti di Salvini è rimasto al palo. Una Lega-Liga, quella veneta, la cui moderazione ha il volto del presidente Luca Zaia, in una regione antropologicamente di centrodestra, dove il centrodestra della «fu» Forza Italia da tempo non è più «pervenuto». Assieme al Pd, che senza l’effetto Renzi formato prima rottamazione «perviene» sempre meno. Questo anche se a Oderzo il Carroccio è dovuto ricorrere alla «bomba profughi» per andare a riprendersi un Comune dove fino a un mese fa governava il centrosinistra. E con una coda che sa di nemesi: Zaia, che non ha mai voluto occuparsi della «regìa» regionale dei profughi lasciando la patata bollente ai prefetti di Renzi, forse dovrà tornare dalle parti di Treviso per dare qualche risposta alla «sua» neo-sindaca, che ha già detto che così non si può più andare avanti e serve una «regìa territoriale»… Ma torniamo ai grillini, cioè la «notizia» del giorno, con la domanda centrale. Considerato che la vecchia, solida e sempiterna Lega appare un partito più organico al territorio, ce la farà l’M5s «né di destra né di sinistra» a prendersi per davvero il Veneto, come auspica nell’intervista che dà il titolo al nostro giornale l’europarlamentare David Borrelli, braccio destro di Davide Casaleggio nella piattaforma «Rousseau»? Riusciranno i pentastellati, movimento anti-sistemico e finora «oppositivo» simile alla Lega della prima ora seppur spalmato in tutto

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il territorio nazionale, a fare un dumping elettorale con la loro offerta di «novità» sostituendosi agli inventori della politica «di lotta e di governo»? Le difficoltà le ammette Borrelli stesso lanciando l’opa grillina da Sappada al Polesine: «Il Veneto, per noi, è la Regione più difficile». Difficile perché anche nel rottamare, il Veneto è terra più del fare che del dire. Per cui l’M5S «né di destra né di sinistra», il cui compito è più agevole nelle città malridotte dalle mafie, nella latitudine della produzione dove la «democrazia del lavoro» è più percepibile della «democrazia partecipata» di Rousseau, dovrà cominciare ad esempio a spiegare come governerebbe la «democrazia partecipata della produzione». Se per il momento M5S si è intestato il copyright dell’afflato vecchio almeno come il mondo «onesta, onestà, onesta», molto meno conosciamo del progetto e della visione per questa terra dove, in realtà, non arrestano un politico al giorno. Più manifattura? Più turismo? Crescita sostenibile? Decrescita felice? Aiuti alle partite Iva o alle piccole medie imprese? E quali contratti per i lavoratori? Quali diritti nel mondo globalizzato? E l’euro, fuori o dentro? E le tasse vanno «solo» abbassate o anche pagate? E i profughi dove li mettiamo? E le risorse dove e come vanno trovate? Si chiama «governare». Nella consapevolezza che quando si è al governo non si deve certo perdere il senso dell’onestà ma, oltre questa, acquisire una progettualità che dia risposte. Nel Paese che ormai vuole risposte «qui e subito», la pena è diventata la rottamazione istantanea. Vale per Renzi. Vale per la Lega. E vale anche per i grillini. LA NUOVA Pag 27 E’ protesta per i tagli ai disabili sensoriali di Francesco Furlan Operatori ed associazioni dei familiari contro la Regione per la riduzione delle ore a sostegno di studenti ciechi e sordi Mestre. A rischio i fondi regionali per i disabili sensoriali, operatori a associazioni si mobilitano soprattutto nel Veneziano dove l’assistenza agli studenti ciechi e sordi, se pur inferiore rispetto alle reali necessità, era su livelli più alti rispetto al resto del Veneto con una media per studenti, di 12 ore settimanali di sostegno a fronte di una media regionale di 10,2. La protesta nasce dal fatto che oggi durante la giunta regionale a palazzo Balbi è atteso, da parte del vice-presidente Gian Luca Forcolin, l’annuncio di un taglio al fondo per le disabilità sensoriali stimato dalle associazioni e dalle organizzazioni sindacali intorno ai 2 milioni di euro. Una decisione che dovrebbe arrivare nell’ambito delle deleghe alla Città metropolitana e agli enti di area vasta delle funzioni, con i relativi finanziamenti, che erano in capo alle vecchie province. Nel Veneziano sono 190 i bambini seguiti nelle scuole - dall’infanzia alla scuola superiore - e tra questi 109 sono disabili uditivi e 81 sono disabili visivi. Nella maggior parte (63 casi) si tratta di bambini che si trovano alle scuole elementari, e che rischiano, se i tagli saranno confermati, di avere ridotto l’orario di assistenza. Scendendo, è l’ipotesi della Uil - sindacato che guida la protesta - da una media di 12 ore a una media di 7, al massimo 8 ore settimanali. Meno assistenza per i ragazzi, e meno lavoro per gli operatori della cooperativa socio-culturale (sede operativa in via Bembo a Mestre) che si occupa del sostegno ai ragazzi sono disabilità sensoriale anche in altre due province del Veneto, Treviso e Verona. «Sono operatori, per quasi il 90% donne, altamente qualificati con esperienza di lungo corso nel settore che hanno fatto del loro lavoro una ragione di vita e di impegno civile», spiega Pietro Potenza della Uil Funzione pubblica, «un eccellenza in Italia che vede messo in discussione il proprio futuro professionale insieme ai diritti dei propri utenti». E’ forte il timore che nella ripartizione delle risorse tra le varie province per i servizi sociali il testo di delibera determini un livellamento verso il basso dei volumi e della qualità nell'erogazione dei servizi. E soprattutto che lo faccia, teme la Uil, «senza prendere in considerazione le differenze di spesa sostenuta nel passato dalle singole province e che ha permesso la formazione di competenze e professionalità oggi modello di eccellenza, in sostegno di tanti studenti». Ragazzi le cui famiglie, abituate a lottare, insieme alle associazioni che le rappresentano, sono pronte ad affilare le armi. «Stiamo già ricevendo molte telefonate», spiega Alessandro Trovato, dell’Unione italiana ciechi e ipo-vedenti (Uici) di Venezia, «di famiglie che ci chiedono che cosa succederà dopo il 30 giugno, e soprattutto che cosa succederà da settembre, con l’inizio del prossimo anno scolastico e l’avvio delle lezioni. La verità è che al momento noi non sappiamo cosa rispondere». «I tagli sono annunciati ma aspettiamo di capire di quanto saranno per prendere una

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posizione, anche forte», dice il presidente regionale dell’associazione, Angelo Fiocco. «Certo è che anche un taglio di un paio di milioni avrebbe ripercussioni gravi sul numero di ore destinate all’assistenza. Il supporto è fondamentale soprattutto alle scuole elementari, per insegnare ai bambini a studiare, apprendere un metodo. Quando i ragazzi crescono l’operatore fornisce un aiuto più strumentale - penso a uno studente di liceo che deve consultare il vocabolario di latino o greco - ma è comunque fondamentale almeno un paio d’ore al giorno». Ieri c’è stato un fitto scambio di e-mail tra le associazioni delle persone cieche e sorde e oggi, non appena i numeri saranno nero su bianco, si preparano a dire la loro». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Un bagno di realtà di Gian Antonio Stella «Stanotte non si riesce a dormire», ride su Facebook Fiorella, un’elettrice romana, «Hanno appena citofonato per la raccolta porta a porta, stanno colando catrame per coprire le buche sotto casa e trapanando per installare i giochini per i bimbi nel parchetto…». Battute. Amichevoli. Nessuno pretende che Roma e Torino, le capitali prese dalle «Pulzelle 5 Stelle», cambino così, con uno schiocco di dita, in poche ore, pochi giorni, poche settimane. Ma le aspettative sono tali, intorno alla mirabolante svolta, da imporre alle due ragazze-sindache un compito titanico: mostrare in fretta le loro capacità di governo. Molto in fretta. La prima grana per Virginia Raggi e Chiara Appendino è infatti questa. Per quanto abbiano studiato, abbiano le lauree giuste e si siano infarinate negli uffici municipali come consigliere, le due avrebbero bisogno di tempo per impadronirsi dei problemi, dei dossier, delle macchine comunali. Così da incidere poi in profondità nelle cose che non vanno. Non basteranno pochi mesi o pochi anni per sanare, soprattutto in Campidoglio, piaghe finanziarie, amministrative, etiche, urbanistiche finite in cancrena. Una missione da far tremare le vene e i polsi. Davanti alla quale ogni persona con la testa sul collo dovrebbe sentirsi inadeguata. Fosse pure Winston Churchill: come può una persona sensata sentirsi all’altezza di governare Roma? Oggi? Ma «fra Modesto non fu mai priore», dice un vecchio proverbio: l’ambizione è essenziale per accettare certe sfide. E dunque evviva la grinta, sotto questo profilo, d’una classe dirigente giovane e femminile decisa a lasciare il segno. Purché la Raggi (e così la Appendino, anche se eletta alla guida di una realtà storicamente amministrata meglio) abbia chiaro che nulla le sarà perdonato. Certo, per qualche tempo gli avversari stessi saranno costretti ad accettare i legittimi lamenti sulla «pesantissima situazione ereditata». Durerà poco, però. Poi ogni ritardo nella soluzione di problemi annosi sarà addebitato al nuovo sindaco, alla nuova giunta, alla nuova maggioranza. Di più: dopo averla invocata per anni e sperimentata solo in alcune realtà locali minori (per quanto possa esser definita minore Parma dove Federico Pizzarotti è andato subito a scontrarsi contro una realtà molto più difficile da modificare rispetto ai sogni, ricavandone scomuniche), Virginia Raggi e Chiara Appendino hanno in pugno la possibilità di misurare, a dispetto di tutti gli scettici, la capacità del M5S di essere davvero forza di governo. Non basterà loro amministrare bene come viene chiesto a Beppe Sala o Roberto Dipiazza: a loro sarà chiesto di più. Un peso supplementare. Un conto è strillare come Beppe Grillo che «bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia, enormi depositi di letame spazzati via da due fiumi deviati dall’eroe», un altro affrontare quotidianamente, tra una trattativa sindacale, un’epidemia influenzale dei pizzardoni e una improvvisa voragine per strada a Montesacro, i temi degli asili a Torre Spaccata, delle bare in giacenza a Prima Porta, della manutenzione delle Mura Aureliane, dello sfalcio dell’erba a Porta Maggiore, dei finti gladiatori con corazza di finto cuoio che importunano i turisti e via così, di rogna in rogna. Per questo, dopo le esperienze fallimentari delle gestioni di destra e di sinistra in Campidoglio, col loro strascico di inchieste giudiziarie e risse politiche, una massa dei romani che prima avevano votato di qua e di là hanno scelto di investire massicciamente, al di là del curriculum contestato, su Virginia Raggi. E per questo, comunque la si pensi, c’è da

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sperare che non cominci subito un tiro al bersaglio per dimostrare che anche la nuova sindaca è destinata al fallimento e peggio ancora che in fondo «è come gli altri perché so’ tutti uguali». C’è già online («romafaschifo.com») chi scommette: «La mafietta romanella sarà capace di farla fuori in quattro e quattr’otto, sicuro. Sindacati famigliari, palazzinari, imboscati comunali, occupatori di professione, mutandari, cartellonari, antagonisti etc etc, faranno comunella in combutta col governo Nazionale e la Raggi sarà costretta ad abbandonare…». Può darsi, che finisca così. E può darsi che anche a Torino possano rimpiangere di non essersi adagiati nella serena e consueta gestione garantita da Fassino. Dopo decenni di delusioni seminate dai partiti storici che hanno portato a volte nei municipi pratiche e personaggi immondi, però, sarebbe un peccato se questa sfida di due donne alla guida di due grandi comuni venisse segata così, a priori, «a prescindere» direbbe Totò, per la voglia di dimostrare che «non ce la faranno mai». Se eventuali fuoriclasse dimostrassero di esser in grado davvero di governare meglio, ben vengano: ci guadagneremmo tutti. Detto questo, chi esulta oggi per il voto a Roma e Torino deve essere il primo, per decenza, a non fare sconti alle due nuove amministrazioni. E a pretendere davvero una svolta. Qualche dubbio, infatti, c’è. Dice tutto l’autobus dell’Atac fotografato con la scritta luminosa «Welcome Raggi». È vero che la candidata grillina ha fatto di tutto per rassicurare tutti, a partire dagli autisti della sgangherata e clientelare azienda dei trasporti definita «un fiore all’occhiello», ma queste rassicurazioni con le colpe addossate solo ai partiti saranno seguite o no da un repulisti reale, duro e se necessario impietoso? E come può il programma ufficiale dedicare 677 parole alla casa senza mai nominare la parola «abusivi» se i libri dello stesso assessore nuovo Paolo Berdini parlano di almeno 84 borgate fuorilegge con centinaia di migliaia di stanze? E si può promettere trasparenza per 2.096 parole (quasi il doppio della dichiarazione d’indipendenza americana) senza nominare mai la (cattiva) burocrazia? E il «contrasto all’abusivismo turistico/ricettivo in ogni sua forma» sarà seguito sul serio da una guerra agli hotel illegali? E che sarà del patrimonio di 42 mila immobili comunali affittati in moltissimi casi a 7,75 euro al mese? A farla corta: dopo esser stata votata da tutti e avere rassicurato tutti, a partire dai soliti tassisti, sarà bene che Virginia Raggi si ricordi di Anatole France: «Non esistono governi popolari. Governare significa scontentare». Lo farà? C’è da augurarsi di sì. Pag 1 L’età del nuovo travolgente (e qualche paura di troppo) di Venanzio Postiglione La politica, le generazioni Ogni elezione ha la sua immagine, che poi diventa un simbolo. Le lacrime trattenute di Fassino nella notte torinese non sono soltanto la fotografia di un sindaco galantuomo che si sentiva vincitore e si ritrova sconfitto. Sono anche lo specchio di una classe dirigente costretta a lasciare il palcoscenico per l’arrivo di attori che saranno bravi o meno bravi, brillanti o inesperti, ma con un marchio che nel 2016 fa la differenza: sono nuovi. O appaiono nuovi. Nuovi come Raggi e Appendino, capaci di travolgere le cautele della città eterna e gli antichi equilibri sabaudi. Nuovi come Sala, il manager di Expo che negli ultimi giorni si è allontanato da Renzi, ha abbracciato la sinistra arancione e soprattutto (era ora) ha parlato più alla città del futuro che agli alchimisti della politica. Nuovi come il vincitore di Varese Davide Galimberti (sembra un dettaglio, non lo è), che dopo 23 anni conquista la culla della Lega, dove paradossalmente il Carroccio si è rivelato il «sistema» da abbattere più che il modello da esportare. I maghi dei flussi hanno fatto fatica. Ancora. Come era successo con la Lega delle origini, con il ciclone di Berlusconi, con la non vittoria di Bersani. Si sono persi il trionfo di Raggi, che doveva vincere e invece ha stravinto, così come la rimonta di Appendino, che era partita per fare testimonianza, così come la forza di de Magistris, che a Napoli non conosce rivali (aiutato dagli stessi rivali). E i timori di «incompetenza» sono fondati e infondati allo stesso tempo. Fondati perché chi comincia spesso non ha cultura politica, conosce poco la macchina, trascura il valore delle alleanze quando servono per afferrare i risultati. Infondati perché la storia (e la bellezza) delle leadership vivono di strappi e di sorprese, per cui si può anche non nascere dirigenti come nel vecchio Pci o nelle correnti della Dc ma provare a diventarlo. Via via. Nessuno dubita che sia meglio essere competenti sempre e da subito. Ma il nuovismo come salvezza e il nuovismo come barbarie sono

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retoriche speculari e alla fine ingannevoli. I pensatori greci ci hanno ampiamente spiegato (2.500 anni fa, non alla vigilia dei ballottaggi) che il sale della democrazia è la scelta degli elettori prima ancora che il profilo degli eletti. Altrimenti avremmo una oligarchia che si auto-nomina all’infinito: perché sicuramente più esperta, visto che è già in carica. La sconfitta di Piero Fassino, ex ministro, ex leader della sinistra, ex sindaco di una città in salute, è il paradigma del cambio di stagione. Politico e generazionale. Più di Giachetti colpito e travolto. Perché a Roma Raggi vince perché doveva vincere, perché le macerie stesse chiamano (pretendono) una piccola rivoluzione. Ma a Torino, senza la mafia, senza i detriti, Appendino ha la meglio per l’alleanza di fatto nelle urne tra Cinque Stelle e centrodestra ma soprattutto per il clima politico generale, che l’ha sollevata e sospinta come fosse predestinata alla vittoria. A prescindere dal primo turno che la vedeva lontana, dal programma che resta fumoso e dalla squadra che è proprio da inventare. Il messaggio di rottura più il salto anagrafico sono il tracciato dei nostri anni: ma questo Renzi lo sa bene, perché rivede il suo corredo genetico di leader giovane e rottamatore. Dice tante cose, il voto dei sindaci. E non solo che il centrosinistra guidava 20 capoluoghi e ne ha conservati soltanto 8. Dice molto sull’essenza stessa dei tre schieramenti. I Cinque Stelle sono più forti ma anche più borghesi: le prime parole di Raggi e Appendino segnano già il passaggio dalle fiamme della distruzione all’idea di governabilità. Tutta da verificare. Il centrodestra può ripartire dal modello ambrosiano di Parisi, il vero outsider, lo sconfitto di successo che ha riportato l’alleanza sui binari moderati e ha frenato le ambizioni della Lega. Ma anche il centrosinistra, nel luogo simbolo dove ha vinto, a Milano, ha un aspetto molto diverso dalle apparenze. Se al primo turno ha combattuto il Beppe Sala candidato di Renzi e del partito della Nazione, al secondo turno è apparso il Beppe Sala federatore, sostenuto dai Radicali ma anche dalla sinistra-sinistra, amico dei grattacieli ma pure di Gherardo Colombo. Un volto civico e non politico (nuovo, appunto) e uno schieramento largo. Quasi un Ulivo milanese, se il termine non fosse maledettamente fuori moda. Pag 3 Così mutano i confini tra i partiti di Massimo Franco La favola di Matteo Renzi come «re Mida» della sinistra, che trasforma in oro elettorale tutto quello che tocca, ora rischia di essere raccontata alla rovescia. Il suo Pd domenica ha dimezzato i Comuni in cui governa. Il M5S è passato da zero a 19. Il bistrattato centrodestra più o meno tiene. E i leader dimostrano quanto sia difficile analizzare i ballottaggi con freddezza. Lo sfondo è frammentato e mescola fattori locali e nazionali: a conferma che il rapporto con l’opinione pubblica ormai è difficile, volatile.Eppure, qualche linea di tendenza affiora, insieme a molte incognite per l’autunno. Finito «l’effetto re Mida» - Il primo elemento di novità è, appunto, la fine dell’«effetto re Mida». La vittoria renziana alle Europee del 2014 è un ricordo ingiallito. I ballottaggi del 19 giugno hanno mostrato lo strano fenomeno di candidati del premier come Giuseppe Sala a Milano e Roberto Giachetti a Roma, che raccomandavano agli elettori di votare solo per loro, senza pensare a Renzi. Un paradosso. Fino a qualche mese fa, avveniva il contrario: si pensava che il segretario-premier fosse una sorta di carta in più offerta ai candidati per prevalere contro gli avversari. Carta, in realtà, un po’ consunta: tanto che non ha funzionato nemmeno nella «sua» Toscana, dove il Pd ha perso molte delle sue roccaforti. A livello locale, da tempo si percepiva una perplessità diffusa verso il capo del governo. Arrivavano strane richieste di alcuni candidati, tipo quella di non avere Renzi ai comizi finali. I fischi, per quanto uniti agli applausi, collezionati in alcune manifestazioni da ministri e ministre, erano scricchiolii. Risultato: amministravano 90 Comuni di quelli in cui si è votato, e ora solo 45. Ha fatto meglio il bistrattato centrodestra: ne conserva 34. M5S campione di ballottaggi - È una frattura con l’opinione pubblica che i ballottaggi hanno certificato; e della quale si è avvantaggiato un M5S che al secondo turno dà il meglio perché non esprime un’ideologia definita. E si affida a concetti facili come onestà e semplicità, abbinati alla narrativa antisistema. È un’operazione ambigua ma di successo, affidata all’istrionismo di un Beppe Grillo che scompare e riappare a seconda delle convenienze. Così, da zero è passato a controllare 19 città: comprese Roma e Torino. D’altronde, sfrutta un risentimento sociale diffuso. Ma il Movimento comincia a esprimere un voto più politico, e più micidiale nei suoi effetti. Esce dall’isolamento e

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cerca di condizionare i risultati non solo quando presenta propri candidati, ma quando si tratta di danneggiare i nemici: di nuovo, il Pd. E lo fa scegliendo un profilo di radicalismo moderato, «d’ordine»: un asse di fatto col centrodestra. «Perdere qualche Comune è normale» - Il premier sostiene che «dopo due anni di governo è normale perdere qualche Comune». Ha anche ribadito che si è trattato di un voto locale vinto dal M5S nel segno del cambiamento. Ragionamento ineccepibile, ma politicamente un po’ autoassolutorio: soprattutto se tra le città perse ci sono la capitale d’Italia, Torino e Napoli; e se sono cadute in mano a un M5S da sempre schierato contro il Pd, e viceversa. Quando si parla di cambiamento, per quanto ambiguo e da decifrare nella sua portata e nei suoi approdi, è il partito di Grillo a esprimerlo. Renzi lo riconosce. Eppure viene il sospetto che lo faccia anche per poter regolare meglio i conti interni: come se i candidati perdenti fossero stati scelti non da lui ma da altri; e adesso si trattasse solo di compiere l’ultimo passaggio della «rottamazione». Nel cambio di fase che i grillini cavalcano con abilità e spregiudicatezza, il rischio del Pd è di apparire datato a sua volta. Un referendum a ostacoli - Se dovesse radicarsi un sentimento del genere, i contraccolpi sul referendum istituzionale di ottobre si farebbero sentire. Renzi è convinto di stravincerlo, e probabilmente ha buoni motivi per pensarlo. Ma dopo la delusione dei ballottaggi, la strada si presenta in salita. E la tendenza a analizzare quanto è accaduto scaricando sugli altri le responsabilità potrebbe alimentare l’insofferenza verso il premier. Alle perplessità sul merito delle riforme approvate, si sommerebbe il rifiuto della personalizzazione del referendum. Il limbo del centrodestra - In questo scenario, lo schieramento che fa capo a Silvio Berlusconi e a Matteo Salvini sembra condannato al ruolo di comparsa: al massimo di portatore d’acqua. Il vuoto lasciato da FI non viene riempito dalla Lega in chiave xenofoba e estremista. Eppure quel serbatoio di consensi esiste ancora: nonostante l’assenza di una leadership condivisa a livello nazionale. Lo sconfitto, semmai, è Salvini col Carroccio. Mai come ora avrebbe potuto strappare a FI il primato. Invece esce dal voto ridimensionato nelle ambizioni anche personali. Brucia soprattutto l’insuccesso di Varese, conquistata dal centrosinistra nonostante la candidatura del governatore della Lombardia, Roberto Maroni. L’astensionismo, primo partito - Ma sconfitte e vittorie, anche del M5S, sono sovrastate da un aumento dell’astensionismo: a conferma che nessuna forza è capace di riassorbire il distacco crescente dalle urne. Ai ballottaggi ha votato appena il 50,54 per cento: quasi il 10 per cento meno che al primo turno. Si può liquidare il fenomeno come tardo-qualunquismo, o come conferma di un’Italia «anglosassone» per il numero basso di votanti. Ma forse, banalmente, esiste un Paese in attesa di un’offerta politica più seria e qualificata: da parte di tutti. Pag 11 Rivoluzione (borghese) dei grillini di Pierluigi Battista Antropologia dei trionfatori. E il “vaffa” buttato alle ortiche Eccoli tutti insieme i 19 sindaci del Movimento 5 Stelle che hanno vinto i ballottaggi: laureati, un discreto eloquio, senza smanie e spavalderie da neofiti guasconi, l’aria preparata, così diversi da come apparvero i neodeputati grillini del 2013, quelli un po’ sgangherati, con una preparazione molto difettosa, succubi del duo Casaleggio-Grillo. A occhio, nessuno di loro, né di grandi né di piccole città, ha l’aria di credere alle scie chimiche, al microchip che la tenebrosa Cia avrebbe surrettiziamente infilato sotto la pelle di miliardi di vittime ignare, alla tesi negazionista della grande invenzione dell’11 Settembre. Non sembrano eccentrici e un po’ tanto deragliati. Non sembrano gli urlatori del «vaffa», i testimoni del primo grillismo. Usano persino i congiuntivi correttamente e non assomigliano a chi di mestiere ha deciso di fare il guastatore in Parlamento, tutto insulti, striscioni, cartelli e invettive contro chi non la pensa come loro. Sono nuovi, e sembrano antropologicamente diversi. Finora sembrava dotato di un carattere, di uno stile, di una discreta padronanza dei dossier e finanche dell’italiano soltanto il sindaco di Parma Pizzarotti. E infatti, Grillo non l’ha mai amato. Poi è stato Luigi Di Maio a dare al Movimento un’immagine perbene e persino perbenista, sempre il vestito stirato, la cravatta e la camicia con il colletto da bravo ragazzo e la fotografia sulla moderatissima e borghesissima Mini Minor. E infatti quando si è cominciato a parlare di Di Maio come

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possibile candidato premier dei Cinque Stelle, molti hanno obiettato che non si poteva competere con quel troppo bravo ragazzo con il sorriso un po’ piacione, mica come l’aggressivo e rissoso Di Battista, e allora lui si è fatto intervistare confessando di praticare un buon sesso con la sua compagna. Adesso Virginia Raggi e Chiara Appendino distruggono tutti gli standard dell’antropologia grillina così come l’abbiamo conosciuta. A Torino Fassino già si diceva preoccupato dalla «secchiona» Appendino. Aveva ragione. Ma chissà se avrebbe immaginato l’aplomb di chi lo aveva sconfitto, un’uscita pubblica in cui la vincente 5 Stelle, alla prima conferenza stampa, si è mostrata istituzionale, senza il piglio della combattente irriducibile, ma che ora si vuole concentrare sui problemi di Torino senza rancore. E anche sulla Raggi. I suoi avversari in campagna elettorale hanno molto puntato sulla sua presunta inaffidabilità e incompetenza, neanche fosse teleguidata da Grillo in persona o dal direttorio grillino che ne fa le veci. Però bisogna ammettere che la maggioranza plebiscitaria che l’ha gratificata alle urne ha avuto una percezione radicalmente diversa. Una donna che non alza mai la voce, che non strepita, che sa persino sorridere, che non si esprime in vernacolo stretto come la collega Paola Taverna. Non necessariamente simpatica, e anzi nei confronti elettorali non è sembrata particolarmente attenta alle ragioni della simpatia. Ma garbata, con l’italiano non claudicante, un avvocato capace di sostenere le sue tesi. Giovani, donne, laureate. Un identikit tutto diverso dallo stereotipo del militante grillino che ci ha accompagnato nei terreni dell’immaginario politico in questi anni. Grillismo di governo e non solo di lotta, la cui efficacia saremo in grado di valutare nei prossimi mesi. Ma è come se un capitolo della storia grillina, che tanti credevano effimera, volatile, addirittura inconsistente come il rauco «vaffa» lanciato dal fondatore, si fosse concluso a Roma e a Torino e negli altri Municipi in cui i sindaci dei 5 Stelle hanno trionfato al ballottaggio. La fase del «vaffa» è stata definitivamente archiviata. È un fatto che i comizi in cui Beppe Grillo incitava il pubblico a seguirlo nelle uscite più sgangherate non sono più il cardine della propaganda del Movimento, anzi. Grillo ha lasciato completamente sgombro il palcoscenico a favore di Raggi e Appendino. E adesso, constatato che al ballottaggio si può vincere con un volto più rassicurante e meno virulento, stanno crescendo anche le azioni del compitissimo Di Maio. Una rivoluzione nel lessico e nei comportamenti inaspettato fino a qualche mese fa. Nuovi volti e nuova antropologia. Chissà se è da questa porta stretta che le battaglie dei grillini dovranno passare nel presente e nel futuro. LA REPUBBLICA Pag 1 La storia rottamata di Ezio Mauro Con tutto il vento seminato in questi ultimi anni, il Pd non può certo stupirsi della tempesta che ha raccolto domenica sera nelle urne. Quando la sorte e le circostanze trasformano un partito da forza di maggioranza relativa in perno del sistema politico-istituzionale e questa occasione storica viene dissipata, la politica si vendica, l'opinione pubblica si ribella e il voto lo certifica. Da ieri il perno non c'è più, il sistema gira su se stesso, imballato, e l'energia politica residua prende l'unica via di fuga rimasta dopo il fallimento parallelo di destra e sinistra, trasformando il voto comunale in un certificato nazionale di protesta, e chiedendo alla protesta di governare, cambiando. Nei municipi delle città che si aprono alla vittoria dei Cinque Stelle, nasce così davvero la Terza Repubblica tanto spesso annunciata e ogni volta incapace di realizzare una vera svolta nel meccanismo politico-istituzionale. In realtà dopo Tangentopoli, la morte dei grandi partiti storici e l'era berlusconiana durata vent'anni, abbiamo vissuto fino ad oggi nella palude finale della Seconda Repubblica, segnata da un confronto-scontro tra destra e sinistra che ha prodotto l'alternanza anche se non è riuscito in due decenni a riformare il sistema e a cambiare il Paese. Tutto questo è finito domenica. La destra non ha più un'identità riconoscibile, è divisa tra lepenismo d'accatto e moderatismo improvvisato, non ha un leader capace di incassare l'eredità di Berlusconi, che come erede concepisce peraltro soltanto se stesso. La sinistra ha un leader, e nient'altro: l'eredità storico-politica, che fa parte della storia migliore del Paese, è stata derisa e svenduta a saldo, come se le idee e gli uomini si potessero rottamare al pari delle macchine. Ma dopo il salto nel cerchio di fuoco, spenti gli applausi, rimane solo la cenere. Quando si destrutturano i valori e i fondamenti culturali di storie politiche che hanno attraversato il secolo, rimane un deserto politico da presunto Anno Zero: teatro solo di performance,

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come se la politica fosse pura rappresentazione e interpretazione di pièce improvvisate ed estemporanee, senza un ancoraggio nella carne della società, nei suoi interessi legittimi, nelle sue forze vive. La destra, come il talento di Berlusconi ha dimostrato troppo a lungo, può vivere di questo teatro dilatato ed estremo, nella ricerca titanica di una fisionomia culturale che il populismo camuffa secondo il bisogno. La sinistra no. Sganciata dal sociale e dalla storia, si perde nel gesto politico fine a se stesso, dove tutto è istintivo e istantaneo, fino a diventare isterico. Desertificato di riferimenti culturali (che certo sono ingombranti, perché obbligano terribilmente) il campo della contesa disegnato dalla sinistra al potere diventa basico e nudo, con parole d'ordine elementari e radicali. Una su tutte: il cambiamento ma senza progetto, senza alleanze sociali, senza uno schema di trasformazione, cambiamento per il cambiamento, dunque soprattutto anagrafico, spesso con una donna al posto di un uomo. La rottamazione della storia si è portata via anche il deposito di significato, la traccia di senso che la storia lascia dietro di sé, comprese le competenze e naturalmente le esperienze, quel legame tra le generazioni che forma il divenire di una comunità e si chiama trasmissione della conoscenza, del sapere, delle emozioni condivise. Tutte cose che altrove fanno muovere le bandiere di un partito, consapevole di avere un popolo che in quelle insegne si riconosce. Solo da noi la bandiera della sinistra, ammesso che ci sia ancora, è floscia come se vivessimo sulla luna, dove non c'è vento. È evidente che una forza nata dal nulla dunque geneticamente "nuova" come i Cinque Stelle, si è trovata il campo politico spalancato. Anzi di più: irrigato con la sua acqua, concimato col suo stesso fertilizzante. Prima Berlusconi ha preso a pugni le istituzioni, dal Capo dello Stato alla magistratura, alla Corte costituzionale, rifiutando ogni loro controllo. Poi la sinistra ha predicato per tre anni che nulla della sua storia civica e politica valeva la pena d'essere salvato e indicato come riferimento, solo la germinazione spontanea del nuovo meritava attenzione, mentre la classe dirigente non andava rinnovata ma sostituita, come si fa con una gomma bucata. Ed ecco i nuovi gommisti all'opera. Non hanno storia, solo una feroce gioia per la crisi delle istituzioni, da combattere in attesa di comandarle. Soltanto un rifiuto senza distinzioni di tutto il sistema politico del Paese, come dice quella "V" incastonata nel simbolo per ricordare il "vaffa", supremo riassunto di un movimento e del suo programma. Infine, com'è ovvio, non scelgono tra destra e sinistra: sono la creatura perfetta del nuovo mondo. Una promessa facile e basica, che semplifica la politica riducendola appunto a un "vaffa". E alla prima resa dei conti, molti cittadini tra il "cambiamento di governo" di Renzi e il "cambiamento contro tutti" di Grillo hanno preferito la spallata. Perché governare e rottamare insieme è difficile, quasi impossibile. E soprattutto, governare senza una storia politica a far da cornice e dei valori di riferimento, diventa un'interpretazione autistica, staccata dal corpo sociale. Si irrideva alla competenza e all'esperienza, promuovendo ministro la famosa cuoca di Lenin? Bene, ecco gli apprendisti cuochi di Grillo, più nuovi del nuovo, digiuni delle cucine del potere, totalmente inesperti da sembrare ignoranti, così politicamente "ignoranti" da apparire innocenti, talmente innocenti da funzionare come garanzia non solo di novità ma molto di più: di alterità, come se venissero da un altrove ingenuo e incontaminato, per molti cittadini il mondo ideale residuo, dopo che della politica si è voluto coscientemente fare un deserto, chiamandolo partito della nazione. Roma viene conquistata facilmente dai grillini, sia per la debolezza del candidato di sinistra (simbolo capitale della debolezza del Pd di pensare in grande su una platea internazionale come quella del Campidoglio) sia per la sciagurata gestione del surreale caso Marino. Milano viene vinta d'un soffio dal centrosinistra, bloccando per il momento l'emorragia sui due fianchi, destro e sinistro. Torino riserva la sorpresa più significativa, perché qui con Fassino battuto dalla rimonta grillina s'infrange una storia ventennale di guida della città da parte della sinistra, storia di competenza e di buongoverno, che improvvisamente non conta più nulla. Il Pd e il suo segretario dovrebbero riflettere su questa spinta "contro", che nel ballottaggio coaliziona chiunque comunque contro il candidato che rappresenta la sinistra al potere e il governo nazionale: oltre ad alcune lobby cittadine che si autogarantiscono sulle poltrone del potere da qualche decennio, come se a Torino ci fosse un "fordismo" politico superstite anche dopo che il fordismo di fabbrica non c'è più, come anche la fabbrica. E qui, c'è l'ultima questione. Perché l'irruzione delle forze antisistema nel campo vuoto della politica è sicuramente una sirena d'allarme per Renzi, che forse ha esaurito il capitale politico della sua avventura, e oggi dopo aver svuotato il Pd fa i conti con la sua

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assenza. Ma è una campana a morto per il cosiddetto establishment , incapace di proiettare un'immagine civica di sé e di costruire una vera classe dirigente del Paese in grado di coniugare gli interessi particolari legittimi con l'interesse generale: più facile da domattina - scommettiamo? - lusingare il nuovo potere nascente, per mantenere una rendita di posizione, come sempre. Questa è la verità: gli antisistema vincono perché non c'è più il sistema. Ecco perché oggi la campana suona per tutti, suona per noi. Pag 1 La strategia degli elogi di Stefano Folli Non è solo fair play, l'inchino all'avversario da cui è stato battuto. Quando Renzi ammette la sconfitta e promuove l'istanza di «cambiamento» dei Cinque Stelle («non è un voto di protesta») in realtà mette sul tavolo una carta politica e si prepara al confronto interno al Pd. Riconoscere che i Cinque Stelle hanno raccolto un voto positivo, di gente che vuole cambiare e non solo protestare, significa due cose nel linguaggio del premier. La prima è che Renzi non si considera realmente dalla parte dei vinti. È come se dicesse ai "grillini": voi avete espresso con maggiore efficacia un punto di vista che anch'io sostengo; in fondo ci troviamo sullo stesso versante della barricata; e se voi questa volta siete stati più bravi di me, è solo perché io sono appesantito e frenato dal mio Pd, oltre che dalle cure del governo. Il secondo aspetto riguarda appunto il partito, dove la minoranza si prepara a un confronto in Direzione senza troppi convenevoli (del resto, se non ora, quando?). C'è da dubitare che il segretario voglia concedere qualcosa a Bersani e ai suoi amici. Il gioco è tutt'altro: dimostrare che l'opposizione è poca cosa, solo ceto politico rinchiuso nel recinto romano. Meri conservatori destinati a esser travolti, loro sì, dal vento del cambiamento. Il premier-segretario si prepara ad attaccarli, questi avversari interni, per la perdita di Roma e anche di Torino. Riservando a se stesso, si può immaginare, solo una minima porzione di autocritica. In altri termini, gli elogi ai Cinque Stelle indicano la volontà di prendere ispirazione dagli anti-sistema per rivolgersi al Paese con ritrovato slancio. Chiudersi negli uffici di un partito tradizionale e riflettere sugli sbagli commessi: ecco un esercizio che a Renzi è sempre piaciuto poco. Gli piace ancora meno oggi, quando in quelle stanze rischia di subire un vero processo politico a opera di una fazione che egli disistima. Invece il suo sogno è di giocare la partita con le regole dei Cinque Stelle: ritrovando il filo del contatto diretto con l'opinione pubblica, mettendo in campo candidati giovani e simpatici, assaporando il gusto di un successo elettorale in apparenza facile. Sembra che tutto si risolva individuando una Chiara Appendino o una Virginia Raggi renziana (e in fondo il retro pensiero è che entrambe sarebbero renziane se solo le circostanze temporali avessero incrociato diversamente i destini personali). Ma la realtà è un po' più complicata. Dietro il voto non solo delle grandi città, ma anche dei numerosi centri medi o medio-piccoli dove il Pd è stato battuto, si coglie una verità amara. Con ogni evidenza, il centrosinistra italiano non era ancora pronto per vivere solo grazie alla luce riflessa del leader. Questa è la dimensione renziana, che si è trovata a convivere con una tradizione dedita a coltivare le proprie radici nel territorio. Radici all'improvviso perdute, certo anche per gli errori compiuti: ad esempio, quello di immaginare che fosse possibile vivere di rendita, pressoché immobili nel tumulto dei tempi. Il problema è che questo è il solo Pd di cui il premier-segretario dispone. Il tentativo di trasformarlo in qualcosa di diverso finora non è riuscito. E la sconfitta nelle urne, per quanto Renzi faccia mostra di non considerarsi il bersaglio di un voto di protesta, riapre ferite mai rimarginate. Ora il leader si sforzerà di ricondurre tutto alla battaglia referendaria, sulla quale chiederà di nuovo l'unità interna. Magari garantendo la sollecita convocazione di un Congresso nel quale discutere la questione del doppio incarico da lui accentrato, premier e segretario. Ma qualcosa è cambiato dopo i ballottaggi. La tregua, già difficile un mese fa, ora lo è molto di più. Dietro i dissensi interni, si staglia il nodo della legge elettorale. Agli occhi di molti, l'Italicum appare più che mai un azzardo. I risultati delle comunali indicano che sulla carta i Cinque Stelle possono battere il candidato del centrosinistra: soprattutto se riescono ad attirare i voti di destra, come lo stesso premier ammette. Tuttavia resta improbabile che il governo accetti di riaprire il "dossier". Qui Renzi resisterà. Nel frattempo tenterà di recuperare i voti "grillini" blandendoli e ammiccando ai temi anti-sistema. Il che configura una scommessa temeraria, dal momento che una linea anti-casta non s'improvvisa. E imitare l'avversario rischia di accreditarlo invece di svuotarlo.

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Pag 1 La fede politica che perde le radici di Ilvo Diamanti Queste elezioni amministrative segnano, indubbiamente, una svolta. Annunciata da qualche tempo, ma oggi evidente. E irreversibile. La riassumerei in questo modo: in Italia il voto non ha più una geografia. In altri termini: ha perduto le sue radici. E, quindi, i suoi legami con la storia, la società, le identità che gli garantivano senso e continuità. D'altronde, fino a pochi anni fa, la geografia elettorale in Italia riproduceva in larga misura il profilo emerso nel dopoguerra. Dove gli orientamenti di voto, in alcune zone, si riproponevano sempre uguali, nel corso del tempo. Nonostante il mutamento del clima politico e degli stessi partiti. Alcuni dei quali, scomparsi. In fondo, nel 1994, Silvio Berlusconi aveva "fondato" Forza Italia sull'anti-comunismo. Recuperando le fratture sociali e territoriali del passato. Questa geografia era stata ridisegnata, profondamente, dall'irruzione del M5s, alle elezioni del 2013. Matteo Renzi ne aveva seguito le tracce, alle elezioni europee del 2014. Il suo Pd aveva sfondato il muro del 40%, affermandosi, a sua volta, in tutte - o quasi - le aree del Paese. Così le Italie politiche si erano confuse. Zone rosse, bianche, verdi, azzurre: tutte scolorite. Ebbene, queste elezioni amplificano queste tendenze. Infatti, se osserviamo il risultato dei 143 Comuni maggiori, risulta chiara l'impossibilità di individuare una chiave di lettura. Se non l'inutilità delle chiavi di lettura che utilizziamo per analizzare e interpretare il voto. Oltre un terzo delle amministrazioni - cioè, circa 50 - ha, infatti, cambiato colore. Nello specifico, i governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà: 45, mentre prima erano 90. Il centro-destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate. Mentre il M5s è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti. Cioè, 19. Tra questi, Roma e Torino sono quelli che fanno più notizia. Comprensibilmente. Però il M5s si è affermato in tutte le aree. In particolare nel Mezzogiorno. A Roma e a Torino, peraltro, le sue candidate hanno intercettato il voto dei giovani, dei professionisti, dei tecnici. Ma anche dei disoccupati. In altri termini: la domanda di futuro e la delusione del presente. Colpisce, soprattutto, il cambiamento che ha coinvolto le regioni dell'Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Tradizionalmente le più stabili. Dove, però, oltre metà dei Comuni di centrosinistra hanno cambiato colore. Ciò conferma la non-chiave di lettura suggerita in precedenza. Sottolineata dal risultato del non-partito per definizione. Il M5s. Che fra il primo e il secondo turno ha allargato i suoi consensi da 650 mila a più di 1 milione e 100 mila voti. Cioè, di oltre il 70%. Un segno della sua capacità di intercettare elettori "diversi". Che provengono da partiti e da aree "diverse". Ma soprattutto da "destra", quando si tratta di opporsi ai governi di centrosinistra. Com'è avvenuto, in modo appariscente, a Roma e Torino, dove, nei ballottaggi, le candidate del M5s hanno allargato in misura molto ampia i loro consensi elettorali. Per questo penso che il significato di questo voto vada oltre i contesti locali. Riflette una tendenza consolidata, che Matteo Renzi ha contribuito a rafforzare. Non tanto perché abbia personalizzato il voto amministrativo, anche se in qualche misura ciò è avvenuto. Ma perché ha accentuato il distacco fra politica e territorio. Enfatizzando la personalizzazione e la mediatizzazione. Il Pd, trasformato in PdR. E la campagna elettorale condizionata dal dibattito sul referendum "costituzionale". Pardon, "personale". Su Renzi medesimo. Così i sindaci e le città hanno perduto significato, importanza. E le elezioni amministrative sono divenute un'arena dove si giocano altre partite, con altri protagonisti. Dove il M5s, più di altri soggetti politici, è in grado di affermarsi. Nel passato, invece, il suo rendimento elettorale risultava molto superiore nelle scadenze nazionali, quando poteva riprodurre il disagio e la protesta. Mentre nelle elezioni amministrative non riusciva a ottenere risultati analoghi, in quanto non disponeva di figure credibili, come soggetti di governo. In ambito locale. Oggi, evidentemente, non è più così. Perché il M5s è presente, ormai da anni, sul territorio. E ha raccolto, intorno a sé, militanti e attivisti. Tuttavia, più degli altri attori politici, è in grado di canalizzare la "domanda di cambiamento". Meglio ancora: i sentimenti e i risentimenti "in tempi di cambiamento". Come quelli che stiamo attraversando. Così questo voto rappresenta, al tempo stesso, una risposta e un segnale. Una risposta al dis-orientamento che ha investito molte zone del Paese. E, soprattutto, le aree urbane e metropolitane. In particolare: le periferie. Dove la "politica" ha perduto senso e radici. Ma anche un segnale, a modo suo, fragoroso, quanto il silenzio degli astenuti.

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Rammenta, infatti, che la "messa è finita". Le fedeltà si sono perdute. Liquefatte. Come i partiti. Non per nulla ne ha beneficiato un non-partito liquido come il M5s. Così, ogni scadenza elettorale diviene - e diverrà - un passaggio senza destinazioni precise. Senza mappe e senza bussole che permettano ai cittadini e agli elettori di orientarsi. E agli analisti, come me, di interpretarne - e prevederne - i percorsi. Le ragioni. Le destinazioni. AVVENIRE Pag 1 Questi voti da pesare di Marco Tarquinio Contare i voti è sempre più facile che pesarli. Stavolta non è così. E meno male, perché altrimenti l’analisi delle Amministrative di giugno 2016 risulterebbe complicata e rischierebbe di rivelarsi fuorviante. Infatti, se dovessimo dedicarci a una pura e semplice conta delle bandierine, a partire da quelle piantate sui Comuni capoluogo, sarebbe comunque chiaro che il Pd esce sconfitto: è impressionante il tonfo da 20 a 8 super sindaci, la disfatta è stata evitata solo dalla conquista-bis di Milano grazie a Beppe Sala. Ma sul vincitore finiremmo per prendere un abbaglio. Vincente, numeri alla mano: un balzo da 4 a 10 super sindaci, sembrerebbe il centro-destra (tornato 'col trattino' nell’era faticosamente postberlusconiana delle aspre guerre intestine) che però, nonostante il ritorno alla guida del Comune di Trieste, si rivela incapace di giocare da protagonista sulla grande scena politica. A trionfare è invece il Movimento 5 Stelle, che di super sindaci – anzi di super 'sindache' – ne porta a casa appena 3, ma 2 di enorme valore: Roma, con le clamorose proporzioni finali del successo (annunciato) di Virginia Raggi, e Torino, dove Chiara Appendino ha conquistato a spese di Piero Fassino una vittoria di prima grandezza politica, il risultato che fa davvero la differenza in questo passaggio elettorale. Matteo Renzi, premier e segretario del Pd, ha saputo riconoscere tutto questo con la sua migliore franchezza al cospetto di un partito sotto choc: «Ha vinto chi ha saputo interpretare meglio un’ansia di cambiamento». E colpisce, ma non stupisce, che si tratti degli stessi identici concetti usati, in contemporanea, da Beppe Grillo. Non per caso Pd e M5S si delineano come i grandi duellanti di un tempo politico tripolare in cui il centro-destra c’è, ma ha perso tempo e ruolo, facendosi illudere dal battutismo e dal cinismo politico simil-lepenista di Matteo Salvini (che mentre si concentrava, invano, sulla 'conquista' della capitale d’Italia, ha perso Varese, storica 'capitale' della Lega Nord). È vero, in quest’Italia in cui troppi si consegnano – anche con serie motivazioni e per delusioni forti – al non-voto, ha vinto chi ha saputo interpretare una basilare volontà «di cambiamento» degli elettori e, per sovrappiù non solo tecnico, ha padroneggiato meglio lo spartito offerto dal voto di ballottaggio. Lo studio sui flussi elettorali elaborato a caldo dall’Istituto Cattaneo segnala, proprio a questo proposito, qualcosa di molto interessante. Si è consolidata la tendenza al travaso di voti al secondo turno dal centrodestra al M5S in chiave anti-Pd, ma è emersa una propensione nuova e molto 'politica' di parte dell’elettorato grillino a fare altrettanto nella medesima chiave anti-Pd, anzi decisamente anti-Renzi. Questo potrebbe influire assai, nel prossimo autunno, sull’esito del referendum sulla riforma costituzionale (anche se in quella partita giochi e interessi sono ben più complessi dei dichiarati). Si vedrà. Per intanto, però, la portante del fenomeno è chiara: la contrapposizione frontale destra-sinistra che aveva caratterizzato la cosiddetta Seconda Repubblica, schiacciando o riducendo ai minimi termini ogni tentativo terzopolare, non penalizza affatto il M5S che anzi continua a sfruttarla. Con risultati eloquenti: 19 successi su 20 ballottaggi affrontati fanno pensare e segnalano che i cittadini là dove 'vedono' una proposta alternativa alla 'vecchia politica' autoreferenziale, troppo politicante e poco efficiente rispetto alle loro civiche attese, la scelgono. E non è un mistero che alle prossime politiche, come e più del 2013, l’offerta M5S sarà accurata e omogenea. Certo, questo voto «di cambiamento», di cui anche il Pd di Renzi ha goduto nel 2014, è in buona parte frutto di un mix di disillusione e di speranza più che di profonda convinzione. È dunque un voto potenzialmente volubile, ma soprattutto è un voto che pesa e che si somma all’altrettanto pesante (e, spesso, pensante) non-voto d’attesa. E tanto basta. Basta a dare una potente sveglia all’attuale governo, al suo partito perno e al suo capo inclini a cullarsi soprattutto nell’ultimo anno sull’idea di un’autosufficienza che tutto consente e nulla sconta. Basta a enfatizzare il perdurante ruolo gregario del centro-destra per insufficienza di leadership

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e di affidabilità 'moderata'. Basta a mettere sotto stringente esame il M5S che, al grido di «onestà onestà» e con la promessa di una felice efficacia, è approdato di forza al governo di due emblematiche metropoli italiane. Pag 2 Spari ai profughi siriani, icona della “giornata” di Paolo Lambruschi Otto uccisi, la metà bimbi, al confine con la Turchia L’eccidio di profughi siriani avvenuto l’altro giorno al confine tra Siria e Turchia diventa giocoforza il tragico simbolo della giornata mondiale del rifugiato celebrata ieri. Su otto persone inermi – uccise, secondo l’accusa dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, dalle guardie di frontiera di Ankara mentre tentavano di oltrepassare il confine, circostanza però smentita dal governo turco – quattro erano bambini. La metà. Non è un caso, sono bambini anche il 50% degli oltre 65 milioni di rifugiati stimati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite a fine 2015, il numero più alto dalla fine del secondo conflitto mondiale, 6 milioni in più rispetto al 2014. Quindi, il mondo ha attualmente il numero più elevato di bambini in fuga da guerre, persecuzioni e fame degli ultimi 70 anni. Ma non basta a scuotere le coscienze indifferenti degli europei. La Turchia, che pure secondo il rapporto sulle tendenze globali dell’Onu è il Paese più accogliente del pianeta con oltre tre milioni di rifugiati, giustifica i respingimenti dei profughi inermi con la necessità di difendersi dalle infiltrazioni dei terroristi. Che per Ankara sono soprattutto i curdi e che la stessa Turchia ritiene più pericolosi del Daesh. Eppure con lo stato turco, che non esita a usare tutti i mezzi per tenere le persone lontane dal confine e che ha parecchi, intollerabili deficit per quanto concerne il rispetto dei diritti umani e civili (giusto ieri ha arrestato preventivamente un giornalista che rappresenta l’associazione 'Reporter senza frontiere' per aver espresso solidarietà a una testata filo curda) l’Ue non ha esitato a stringere qualche mese fa un oneroso accordo per fare da guardiano delle frontiere, per stoppare coloro che provano a entrare sulla rotta balcanica, metterli in campi e poi eventualmente ricollocare quelli che ne hanno diritto negli Stati dell’Unione. Accordo che non funziona, perché le persone ricollocate sono finora troppo poche. E che ha provocato enormi costi umani, spingendo i profughi verso l’Egitto e bloccandone svariate migliaia – la metà sono sempre bambini, non scordiamolo – in una sorta di limbo che si allunga in Grecia e fino alle porte balcaniche della Fortezza Europa. Limbo fatto di campi improvvisati e precari, paradiso di criminali e trafficanti di esseri umani. Le porte sono state chiuse in faccia indiscriminatamente a tutti, a chi ha diritto e a chi non ne avrebbe, la selezione è arbitraria, in spregio alle norme internazionali, come documentano anche i reportage che stiamo pubblicando su Avvenire. E che alla fine ha solo spostato i naufragi dalle isole greche al Canale di Sicilia senza che il numero elevato delle vittime dei naufragi stessi nel Mediterraneo – circa 3.000 in sei mesi, ha ribadito ieri la Croce Rossa, e molti erano bambini – sia diminuito. Solo l’apertura dei corridoi umanitari che Sant’Egidio e la federazione delle chiese evangeliche stanno attuando in via sperimentale con il governo italiano, sembra offrire un’alternativa. Ripetiamolo con franchezza: scorrendo le cifre sui rifugiati, l’accordo con Ankara non fa onore all’Europa, ne mostra anzi tutta la debolezza politica, le paure del diverso e del terrorismo diffuse tra la popolazione – quella che la retorica definisce ancora 'Europa dei popoli'–, l’ipocrisia e le divisioni tra le cancellerie. Ieri l’Alto commissario Filippo Grandi ha puntato il dito sulla narrazione isterica fatta dai media (e dai politici che investono sulla paura, aggiungiamo noi) che creano nell’opinione pubblica un’emergenza inesistente nel Vecchio continente, dove i numeri delle persone accolte sono distanti anni luce da quelli del piccolo Libano, della stessa Turchia, della poverissima Etiopia. Numeri alla mano, si rivela inutile pure la logica della costruzione dei muri che tenta anche i nostri vicini austriaci e balcanici. Se nel mondo fuggono in media 24 persone al minuto, il buon senso insegna che occorre intervenire sulle cause del conflitto per fermare e possibilmente invertire un flusso oggi inarrestabile. Flusso, non ci stanchiamo di ripeterlo ancora, fatto per metà di bambini che cercano solo rifugio e braccia aperte per crescere in una terra che di figli ne mette al mondo ormai troppo pochi. Pag 8 Cacciari: Renzi deve fare un discorso verità. La rottamazione? E’ ferma alle porte del Pd di Diego Motta

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Massimo Cacciari, dopo il voto che ha consegnato Roma e Torino ai Cinque Stelle, è iniziata la rottamazione anche per il governo Renzi? Non ancora, ma per il presidente del Consiglio il giorno del giudizio si avvicina. Il problema è che la rottamazione si è fermata fuori dalla porta del Pd, perché al rinnovamento si è preferita la cooptazione. I risultati si sono visti: figure come Fassino e Merola appartengono al vecchio partito, mentre nel M5s sono apparsi candidati nuovi, capaci di parlare ai territori. Ora almeno si è aperta una vera competizione per il governo del Paese. Ha ragione chi dice che il doppio incarico di premier e segretario fa male soprattutto al partito? Il Pd è vittima di un errore storico, che risale all’epoca dell’Ulivo: non doveva essere la semplice sommatoria di ex comunisti ed ex democristiani, ma un contenitore capace di comprendere vastissime aree di cittadini non rappresentati. Penso alle nuove fasce di disagio sociale, alle forme di lavoro totalmente precarizzato, a una condizione giovanile al limite dell’indecenza. C’erano poveri cirenei come il sottoscritto che lo dicevano e pensavano, tra l’altro, a un assetto di partito in grado di valorizzare le autonomie, il federalismo, i territori. Tutto questo è stato disatteso dallo storico gruppo dirigente. In fondo Renzi arriva dopo quella fase e, come i Cinque Stelle, rappresenta soltanto una delle facce della rottamazione. Oggi la sfida sembra essere tra chi è rappresentato e chi non lo è, tra le élite e chi vuole abbatterle. Non è così? La sfida, che è anche il sottinteso di ogni discorso del Papa, rimane quella tra governi incapaci di affrontare i temi del nuovo millennio e una massa di persone in forte sofferenza, sociale e morale. Quanto al nostro Paese, nello specifico, il tripolarismo perfetto non esiste: guardi al segnale che è arrivato al centrodestra da Varese. L’operazione di Salvini si è arenata in modo clamoroso, è fallita e nello schieramento che fu di Berlusconi non c’è più alcun collante strategico. Lei aveva detto che, in fondo, per il Partito democratico la partita-clou sarebbe stata Milano, non Roma. Sala ha vinto... Sì, per il rotto della cuffia però... Milano è sempre stata un laboratorio politico e Sala è un buon manager, ma non può essere il futuro del centrosinistra. Il Pd ha massacrato e nascosto la questione settentrionale, poi ci si stupisce di quel che è successo a Torino... La verità è che la gente ha detto basta e se i grillini hanno rappresentato la via democratica alla protesta, non bisogna dimenticare che neppure loro sono stati sufficienti per riportare gli elettori alle urne. La disperazione e la rassegnazione nel Paese non faranno che produrre altra astensione, come s’è visto. Il partito di Grillo è pronto anche per la prova di governo nazionale? Intanto, a differenza del centrodestra, i grillini sono la vera alternativa a Renzi. Sono più che mai convinto che manterranno posizioni distinte rispetto a Salvini e soci anche nel prossimo referendum costituzionale. Piuttosto, non andranno a votare. Per il resto, Roma e Torino sono due storie completamente diverse. In Piemonte, nonostante le fosche previsioni di Fassino, a Chiara Appendino basterà dimostrare di saper amministrare per raggiungere i suoi obiettivi. Nella Capitale, povera Raggi, servirà ben altro... Cosa servirà? Vorrei dare un consiglio non richiesto al nuovo sindaco: non cada nella trappola di pensare che adesso arriva lei e mette tutto a posto, in nome della sbandierata onestà. Non faccia alcun repulisti e soprattutto non si metta contro la macchina amministrativa di Roma: altrimenti, rischia di collassare nel giro di due mesi. Piuttosto, scelga il meglio della struttura dirigenziale che troverà dentro la pubblica amministrazione e si fidi. Non si sogni di prendere consulenti da fuori e si sforzi di avere ottimi rapporti con tutti. Si dimostri autonoma dal partito e dal direttorio, predichi modestia e rimotivi la macchina burocratica. Renzi, invece, ha sbagliato a personalizzare la prossima consultazione referendaria? Purtroppo per lui, sarà sempre più costretto a farlo, perché sa che lì si gioca tutto. A lui suggerirei innanzitutto di non moltiplicare le promesse e gli ottanta euro... Faccia un discorso di verità al Paese, dicendo così: amici, sono trent’anni che si parla di riforme istituzionali. Io ho partorito questo topolino, si poteva fare meglio, ma quel che vi offro è pur sempre meglio di quel che c’è. Decidete voi quale sarà il futuro.

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IL GAZZETTINO Pag 1 Le sconfitte e il futuro dei due Mattei di Roberto Papetti Sono molti i campanelli d'allarme che questa tornata elettorale ha fatto suonare. Ma due sono i leader, accomunati dallo stesso nome, che, per ragioni diverse, hanno più da meditare sul voto di domenica. Il primo è ovviamente Matteo Renzi. L'inattesa e devastante doppia sconfitta di Roma-Torino, insieme al tracollo in decine di altri capoluoghi come Pordenone e Trieste, è un risultato che certamente allunga la sua ombra negativa sul "decisivo" referendum costituzionale di ottobre, ma ha un valore ancora più profondo. L'esito di queste comunali sembra dire che la forza propulsiva del premier-rottamatore si stia esaurendo. A tutto vantaggio del Movimento 5Stelle. Il Pd di Renzi, e Renzi stesso, non vengono più percepiti, da ampi settori dell'opinione pubblica, come fattori di rinnovamento del Paese, come alternativa al vecchio. Da questo punto di vista il clamoroso successo delle Europee del 2014 sembra lontano anni luce. Nelle città in cui si è votato, il renzismo non è stato in grado di intercettare le spinte al cambiamento, talvolta un po’ irrazionali e fine a se stesse, che percorrono la nostra tormentata società. Al contrario: è esso stesso, come è accaduto a Torino ma non solo, l'obiettivo primo di questa voglia di discontinuità che, spesso, prescinde anche dai risultati amministrativi o dell'attività di governo. Non è un cambiamento di poco conto per chi, come il premier, ha legato il proprio successo e la propria ascesa, dentro e fuori il Pd, all'immagine di "homo novus", di leader che rompe con il passato. È un ribaltamento di prospettive che impone al segretario del Pd di ripensare a fondo la sua strategia. Di capo partito e di capo di governo. I risultati di queste elezioni (ma anche altri segnali come i recenti fischi alla Confcommercio) indicano a Renzi la necessità di immaginare ed aprire una fase nuova della sua leadership. In caso contrario, forse, neppure la vittoria al referendum di ottobre potrebbe garantirgli un percorso politico di lungo respiro come quello che l'ex sindaco di Firenze aveva immaginato per sé. Ugualmente problematico è il risultato elettorale per l'altro Matteo, Salvini. Il leader leghista non può essere soddisfatto del voto di domenica. La sconfitta a Milano ma anche nella Varese di Maroni e il mancato sfondamento sotto la linea del Po, rappresentano una secca battuta d'arresto e indeboliscono Salvini nella sua corsa alla leadership del centrodestra. Tantopiù se questi risultati vengono raffrontati con l'indiscutibile successo che il suo partito ha invece ottenuto un po' dovunque in Veneto, dove la Lega ha però i toni e la linea ecumenica di Luca Zaia: partito strutturato sul territorio, insieme di protesta e di governo, interclassista e rassicurante, lontano da tentazioni lepeniste. Un mix che, in un territorio moderato ma anche irrequieto come il Veneto, ha consentito alla Lega "a trazione Zaista" di quasi azzerare le giunte a guida Pd, ma anche di contenere la montante onda d'urto grillina. Unica eccezione il risultato, clamoroso e pesante, di Chioggia, che appare però molto condizionato dal travagliato percorso della giunta uscente della città lagunare e rappresenta comunque un caso piuttosto isolato nel panorama politico dell'intero Nordest. Sia chiaro: parlare in questo momento di due Leghe, una salviniana e l'altra zaista, sarebbe improprio. Il Carroccio veneto, soprattutto dopo l'uscita di Tosi, è sempre stata allineato a Salvini e ben attento ad evitare qualsiasi tipo di contrasto con il leader nazionale. Tuttavia, anche per la Lega, è difficile non dare ai risultati di domenica un valore politico che vada oltre la dimensione locale e anche regionale. Il voto delle comunali, in particolare, assegna a Zaia un ruolo di maggior peso nella Lega e, soprattutto, nell'offerta politica che il centrodestra può mettere in campo a livello nazionale. Il governatore veneto ha sempre detto di non essere interessato, al momento, a impegni diversi da quelli per cui è stato eletto, ossia la guida della Regione Veneto. Si tratterà di vedere se e quanto sarà in grado di resistere su questa sua posizione. Pag 1 Chiara e Virginia, trentenni alla sfida della normalità di Maria Latella Arriva in Campidoglio la generazione Candy Candy, equivalente femminile di Jeeg Robot. La generazione delle trentenni cresciute - come i loro coetanei maschi - con i cartoni animati giapponesi. Candy Candy non sta per generazione ingenua. Tutt’altro. Le nate alla fine degli anni ‘70 sono un interessante mix di sicurezza introiettata grazie

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all’esempio materno (Chelsea Clinton per dire ha una madre come Hillary) e rapida presa d’atto del fatto che, nei rapporti sentimentali, tocca a loro, alle ragazze Candy Candy, rappresentare il lato forte della coppia, a fronte di partner tormentati o almeno dolcemente complicati come il marito (separato?) della neo sindaca di Roma, Andrea Severini. Per augurarle buon lavoro, Severini ha scritto un lungo post in stile Ligabue. «Non smetterò mai di ringraziarti» ma il senso era «L’amore conta», sottotitolo «Virginia sta casa aspetta ‘a te...». A Roma, dunque, siamo in piena “prima assoluta”, e non solo perché Virginia Raggi è la prima donna sindaco della capitale d’Italia. È anche la prima cittadina di una grande città europea che arriva in Campidoglio a 37 anni, molti di meno della sua collega di Madrid, la settantenne Manuela Carmena, e meno anche della cinquantottenne Anne Hidalgo sindaca di Parigi. Ancora: Virginia Raggi ha una militanza politica cortissima, cinque anni appena, mentre Anne Hidalgo è stata a lungo vicesindaco di Parigi e l’ex magistrata Manuela Carmena ha una vita di impegno a sinistra. Che cosa tutto ciò significherà concretamente, lo scopriremo solo vivendo tra sampietrini e San Pietro, tra autobus e asili. Però, ecco, non può non rilevarsi che, per la prima volta nella storia della capitale, ci sarà un sindaco che quando parla di vita quotidiana parla di sé e non per sentito dire, e quando parlerà di asili nido saprà davvero che cosa bisogna fare per riuscire a mandarci il pupo. In passato, per carità, abbiamo avuto sindaci in motorino, in bicicletta, sindaci che scalavano l’Everest, ma trattandosi in genere di uomini autoconsegnatisi in giovane età alla nobile causa della politica, ben poco tempo era rimasto loro per sperimentare la vera vita, e il resto. All’avvocata Virginia Raggi toccano dunque in sorte un sacco di prime volte. Ed essendo, si diceva, una nata alla fine degli anni ‘70 a lei, come alle coetanee, si richiederà l’arte del tenere insieme tutto, la famiglia e la politica, i contrasti con le opposizioni e le aspettative degli elettori che l’hanno votata. «Poraccia ‘sta Raggi, appena proverà a toglie le bancarelle je dovranno da’ la scorta» già la compiange un taxista. Si vedrà. Di solito le ragazze Candy Candy sanno che se hai voluto la bicicletta, devi possibilmente costruirti la pista ciclabile. Se ne sei capace. Ovviamente adesso dovrà guardarsi dai consigli. Da quelli superflui di chi è ancora convinto che se non parlano più di te non ti resta che parlare delle orecchie della Raggi, a quelli, più insidiosi, di chi cercherà di fare breccia nella cittadella 5 stelle con l’aria di rendersi utile. Il lato divertente, se cosi si può dire, è che finalmente anche in Italia nessuno crederà più alla balla de “le donne non votano le altre donne”. Non solo le elettrici hanno votato la Raggi a Roma e l’Appendino a Torino, ma pure la Carfagna e la Gelmini di Forza Italia, la Borgonzoni della Lega. La Valente, a Napoli, no, lei non l’hanno votata. Ma anche questo rientra nella normalizzazione. L’elettore, o l’elettrice, si è liberato delle ideologie. Figuriamoci se si rinchiude in una nuova gabbia, scegliendo il candidato in base al sesso. LA NUOVA Pag 1 Le elezioni del tutti contro uno di Massimiliano Panarari Testo non disponibile Pag 1 Due Leghe, Salvini perde e Zaia trionfa di Paolo Possamai Matteo Salvini rivendica di aver vinto a Cascina, in Toscana, ossia a casa del nemico dichiarato. Tu chiamale, se vuoi, consolazioni. In effetti, Salvini con la sua Lega di impronta lepenista esce con le ossa rotte dal test elettorale. La partita giocata a Roma nel nome di Giorgia Meloni, la ricerca di un profilo nazionale per la Lega, l’esito infausto delle sfide di Milano e di Bologna, financo la débacle nella domestica Varese: tutto dice di una prova di forza che è andata fallita. Il tentativo di Salvini di subentrare a Berlusconi alla guida del centrodestra è stato sottoposto a una severa batosta. Ma esiste pure una Lega vincente, anzi trionfante. Accade in Veneto, dove il vessillo con il Leone di San Marco garrisce su tanti dei principali municipi materia di voto. Due Leghe. Una estremista, l’altra a impronta più moderata, pragmatica, rassicurante. Ha la faccia di Luca Zaia, governatore del Veneto dai tratti avvolgenti, quasi democristiani. Gli antagonisti dicono che Zaia non scontenta perché non prende decisioni scomode mai, media per metodo e forma mentis, smussa e sopisce. Un democristiano post litteram. Magari pronto a candidarsi premier, tra un paio d’anni, di sicuro maturo per tornare sulla

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scena nazionale (e evitare di essere giudicato sul suo scarso fatturato in Veneto, dicono sempre gli antagonisti). La vittoria implica però l’esercizio della responsabilità di governare. Interessante, in questo senso, l’idea lanciata dal neo sindaco di Oderzo – Maria Scardellato – di un coordinamento tra i primi cittadini leghisti veneti in tema di accoglienza e immigrazione. Il coordinamento potrà respingere in toto il dovere dell’accoglienza? O invece i sindaci dovranno trovare tra loro un punto di equilibrio, non giocando più a scaricare il problema sul comune confinante o sull’altra provincia più tollerante? Il tema della responsabilità e della maturità al governo riguarda in particolare il Movimento 5 Stelle, trionfatore a Chioggia. Come è accaduto a Roma, fatte ovviamente le debite proporzioni, pure a Chioggia i partiti tradizionali sono stati per i grillini un fantastico e insostituibile asso nella manica. Il Partito democratico come Forza Italia hanno fatto tutto quel che occorreva per spingere al massimo l’affermazione dei neofiti 5 Stelle. Vedremo dunque se la genuinità, oltre a richiamare necessari e insieme ovvii principi di onestà e trasparenza, saprà essere coniugata anche a competenza e innovazione nella cultura amministrativa. Bastano poche righe infine per dire della impressionante parabola di Forza Italia e Pd. A chi si consola segnalando di aver vinto comuni importanti come Albignasego, ma pure Nanto, occorrerà pur far presente che il centrodestra in Veneto è a trazione leghista integrale. Senza Lega, non esiste centrodestra. E quanto al Pd, procede in un itinerario che conduce all’irrilevanza. Anche nei decenni dominati dal centrodestra, quando a Venezia i governatori si chiamavano Galan e Zaia, il partito democratico esprimeva volta a volta i sindaci di Venezia, Verona, Rovigo, Belluno, Vicenza, Padova, Treviso. Sfogliando la margherita e perdendo petalo dopo petalo, ci sarebbe da chiedersi con che spirito i sindaci di centrosinistra sopravvissuti a Treviso, Vicenza e Belluno si stiano avvicinando al traguardo del test elettorale. La riscossa di Vittorio Veneto avvenne appena un anno dopo la disfatta di Caporetto. Ma chi sta immaginando la resistenza e la strategia in casa Pd? Pag 5 La speranza che diventa trionfo di Dino Amenduni Nei partiti tradizionali ci sono persone che stanno dedicando i loro anni migliori, le loro energie, la loro passione alla politica all’interno dei partiti. Dibattiti, comizi, banchetti, volantinaggi. Non avrebbero nulla da invidiare a Virginia Raggi e Chiara Appendino. C’è però una differenza fondamentale tra le due nuove prime cittadine di Roma e Torino e i tantissimi militanti senza nome: le prime hanno avuto la possibilità di candidarsi a qualcosa, i secondi no. Nei partiti classici è praticamente impossibile che un militante “semplice” (laddove per semplice non si intende il primo passante, ma piuttosto una persona estremamente competente ma senza ruoli dirigenziali) possa diventare sindaco di una grande città. L’assenza di una reale contendibilità della leadership rende e continua a rendere il MoVimento5Stelle più attraente degli altri partiti. Gli italiani al momento preferiscono una speranza opaca al “nessuna speranza”. Non è un pensiero così irrazionale. Proprio Virginia Raggi e Chiara Appendino, ma soprattutto i loro sostenitori, hanno mosso una polemica nei confronti di tutti gli altri partiti e candidati: «Perché vi vergognate dei vostri simboli di partito e non li usate sui manifesti?». La spiegazione tecnica della scelta è spesso legata al fatto che i simboli sono difficilmente utilizzabili su materiali che invece devono fare della pulizia e della semplicità di lettura il loro tratto distintivo. Nessuno contesta a Hillary o a Trump di non utilizzare il logo dei loro partiti, per fare un esempio classico. Il MoVimento5Stelle fa invece in modo diverso, e corretto dal loro punto di vista: il loro logo non è semplicemente un segno grafico, ma è un elemento a cui i cittadini/elettori associano valori distinti, chiari, identitari. Possiamo dire lo stesso dei loghi del Pd o di Forza Italia in questo momento? Credo di no. Il logo del M5S invece crea appartenenza, e infatti i candidati lo usano con orgoglio. Lo usano perché in questo momento quel logo è uno dei pochi che nella politica italiana può aggiungere voti e non toglierli. Riempire i simboli di contenuti e significati è l’essenza della politica. Vincere le elezioni è lo strumento attraverso quei contenuti e significati diventano azione. I contenuti e i significati dell’azione del MoVimento5Stelle sono deliberatamente e orgogliosamente post-ideologici. Il dirsi né di destra né di sinistra è infatti una cifra distintiva, da sempre. A mio avviso esiste solo una strada per disarticolare un partito post-ideologico: tornare all’ideologia. Attenzione, per ideologia non s’intende nulla che appartenga al secolo scorso, né nelle idee né negli uomini.

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S’intende un insieme di idee politiche chiare, un orizzonte culturale definito, una visione di lungo periodo, una leadership fresca. Una forza post-ideologica si batte se è obbligata a prendere una posizione; il consenso del MoVimento5Stelle torna contendibile se la sinistra torna a fare la sinistra e la destra torna a fare la destra. Solo in questo modo i compositi elettorati che oggi formano la base del M5S tornerebbero nelle loro posizioni originali. E attenzione: tra le élite messe profondamente in discussione dal voto amministrativo ci sono, allo stesso modo, il sistema dei partiti e il sistema dei media. Sabato Luigi Di Maio, ragionevolmente il prossimo candidato premier del M5S, ha invitato su Facebook a non comprare più quotidiani come La Repubblica e Il Messaggero né a consultare i loro siti internet. Tutto questo è accaduto nel silenzio quasi integrale dell’opinione pubblica. Questo silenzio potrebbe non essere semplice distrazione, bensì una sostanziale condivisione dell’appello e del messaggio potente (quanto pericoloso in prospettiva) che c’è dietro: i media italiani sono sostanzialmente inaffidabili, meglio evitarli. Chiunque pensi che il voto di questa tornata di amministrative riguardi solo la politica ne sottovaluta l’impatto. Qualcuno parla di rivolta del popolo contro le élite: definizione suggestiva, soprattutto in Italia, ma non così lontana dalla verità. Torna al sommario