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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 21 giugno 2017 SOMMARIO “Per un clero non clericale” è il titolo dell’editoriale del direttore dell’Osservatore Romano Gian Maria Vian a proposito del particolare pellegrinaggio che Papa Francesco ha compiuto ieri. Ecco le sue considerazioni: “Sono impegnative le parole che il Papa ha pronunciato a Bozzolo e a Barbiana durante la visita breve e carica di significato in questi due luoghi per onorare la memoria di don Primo Mazzolari e di don Lorenzo Milani. Figure diversissime e che pure si sono incrociate, lasciando una traccia che Francesco ha definito «luminosa, per quanto scomoda». Due preti di cui Bergoglio ha detto che «seguirli ci avrebbe risparmiato sofferenze e umiliazioni». Con il riconoscimento solenne, alla fine del rapidissimo itinerario, di «un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa». Parlando di don Mazzolari e di don Milani il Pontefice non ha rievocato le loro vicende, ma ha voluto piuttosto trarne una meditazione, rivolta innanzi tutto ai preti e ai cattolici d’Italia. Le due figure di sacerdoti, importanti e complesse, sono state infatti molto studiate e Francesco ha chiesto oggi di tornare a considerarle, anche attraverso amarezze che non si devono dimenticare, perché «non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco» ha detto a Barbiana. Appena arrivato a Bozzolo il Papa ha parlato dei parroci, definendoli «la forza della Chiesa in Italia», additando un loro magistero e individuandone l’origine: «Credo che la personalità sacerdotale di don Primo sia non una singolare eccezione, ma uno splendido frutto delle vostre comunità, sebbene non sia stato sempre compreso e apprezzato». Non a caso subito dopo ha accennato alla figura di un «grande vescovo, Geremia Bonomelli, protagonista del cattolicesimo sociale, pioniere della pastorale degli emigranti», mentre a Barbiana ha descritto con tratti essenziali il «cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso» e ricordato don Raffaele Bensi ed Elia Dalla Costa. In questo modo Francesco ha invitato sacerdoti e laici a meditare sulle radici, su un «clero non clericale» che ha riconosciuto e onorato in queste due figure esemplari. Un clero che ha sempre cercato di «amare il proprio tempo», senza sterili e con ogni probabilità infondate nostalgie: «Don Mazzolari non è stato uno che ha rimpianto la Chiesa del passato, ma ha cercato di cambiare la Chiesa e il mondo attraverso l’amore appassionato e la dedizione incondizionata». Cercando soprattutto i «lontani» e i poveri, a cui don Milani ha voluto ridare la parola, con l’esempio e attraverso un’educazione esigente. Dalle brevi ore della visita del Papa viene dunque un’indicazione semplice e radicale che deve ispirare la missione dei cristiani: «amare il proprio tempo» e «cogliere ogni possibilità di annunciare la misericordia di Dio» ha detto sintetizzando la «profezia» di don Mazzolari. Con una particolare attenzione ai giovani e ai poveri, secondo l’insegnamento di don Milani, che volle «ridare ai poveri la parola». Come si deve fare anche oggi, quando «solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso» ha detto Bergoglio. Che a Barbiana ha lasciato la consegna, certo non solo ai preti, di ricercare Dio e di voler bene alla Chiesa, magari nelle tensioni, ma senza fratture né abbandoni” (a.p.) Al termine del suo discorso a Bozzolo (Mantova) il Papa ha citato questa preghiera di don Primo Mazzolari: «Sei venuto per tutti: per coloro che credono e per coloro che dicono di non credere. Gli uni e gli altri, a volte questi più di quelli, lavorano, soffrono, sperano perché il mondo vada un po’ meglio. O Cristo, sei nato “fuori della casa” e sei morto “fuori della città”, per essere in modo ancor più visibile il crocevia e il punto d’incontro. Nessuno è fuori della salvezza, o Signore, perché nessuno è fuori del tuo amore, che non si sgomenta né si raccorcia per le nostre opposizioni o i nostri rifiuti».

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 21 giugno 2017

SOMMARIO

“Per un clero non clericale” è il titolo dell’editoriale del direttore dell’Osservatore Romano Gian Maria Vian a proposito del particolare pellegrinaggio che Papa Francesco ha compiuto ieri. Ecco le sue considerazioni: “Sono impegnative le parole che il Papa ha pronunciato a Bozzolo e a Barbiana durante la visita breve e carica di significato in

questi due luoghi per onorare la memoria di don Primo Mazzolari e di don Lorenzo Milani. Figure diversissime e che pure si sono incrociate, lasciando una traccia che

Francesco ha definito «luminosa, per quanto scomoda». Due preti di cui Bergoglio ha detto che «seguirli ci avrebbe risparmiato sofferenze e umiliazioni». Con il

riconoscimento solenne, alla fine del rapidissimo itinerario, di «un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa». Parlando di don Mazzolari e di don Milani il

Pontefice non ha rievocato le loro vicende, ma ha voluto piuttosto trarne una meditazione, rivolta innanzi tutto ai preti e ai cattolici d’Italia. Le due figure di

sacerdoti, importanti e complesse, sono state infatti molto studiate e Francesco ha chiesto oggi di tornare a considerarle, anche attraverso amarezze che non si devono

dimenticare, perché «non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco» ha detto a Barbiana. Appena arrivato a

Bozzolo il Papa ha parlato dei parroci, definendoli «la forza della Chiesa in Italia», additando un loro magistero e individuandone l’origine: «Credo che la personalità sacerdotale di don Primo sia non una singolare eccezione, ma uno splendido frutto

delle vostre comunità, sebbene non sia stato sempre compreso e apprezzato». Non a caso subito dopo ha accennato alla figura di un «grande vescovo, Geremia Bonomelli,

protagonista del cattolicesimo sociale, pioniere della pastorale degli emigranti», mentre a Barbiana ha descritto con tratti essenziali il «cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso» e ricordato don Raffaele Bensi ed Elia Dalla Costa. In questo modo Francesco ha invitato sacerdoti e laici a meditare sulle radici,

su un «clero non clericale» che ha riconosciuto e onorato in queste due figure esemplari. Un clero che ha sempre cercato di «amare il proprio tempo», senza sterili

e con ogni probabilità infondate nostalgie: «Don Mazzolari non è stato uno che ha rimpianto la Chiesa del passato, ma ha cercato di cambiare la Chiesa e il mondo

attraverso l’amore appassionato e la dedizione incondizionata». Cercando soprattutto i «lontani» e i poveri, a cui don Milani ha voluto ridare la parola, con l’esempio e

attraverso un’educazione esigente. Dalle brevi ore della visita del Papa viene dunque un’indicazione semplice e radicale che deve ispirare la missione dei cristiani: «amare il proprio tempo» e «cogliere ogni possibilità di annunciare la misericordia di Dio» ha detto sintetizzando la «profezia» di don Mazzolari. Con una particolare attenzione ai giovani e ai poveri, secondo l’insegnamento di don Milani, che volle «ridare ai poveri

la parola». Come si deve fare anche oggi, quando «solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso» ha detto Bergoglio. Che a Barbiana ha lasciato la consegna, certo non solo ai preti, di ricercare Dio e di voler bene alla Chiesa, magari nelle tensioni, ma senza fratture né

abbandoni” (a.p.)

Al termine del suo discorso a Bozzolo (Mantova) il Papa ha citato questa preghiera di don Primo Mazzolari:

«Sei venuto per tutti: per coloro che credono e per coloro che dicono di non credere. Gli uni e gli altri, a volte questi più di quelli, lavorano, soffrono, sperano perché il mondo vada un po’ meglio. O Cristo, sei nato “fuori della casa” e sei morto “fuori della città”, per essere in modo ancor più visibile il crocevia e il punto d’incontro. Nessuno è fuori della salvezza, o Signore, perché nessuno è fuori del tuo amore, che

non si sgomenta né si raccorcia per le nostre opposizioni o i nostri rifiuti».

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2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Gazzera: raduno dei Grest nei campi sportivi di via Calabria Pag XXXIV Patriarcato, nell’annuario la situazione delle parrocchie di T.B. LA NUOVA Pag 20 Grest della diocesi, migliaia di bimbi In via Calabria 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Per un clero non clericale di g.m.v. Pagg 4 – 5 Le tensioni di questa grande città Francesco apre il convegno pastorale della diocesi di Roma indicando sei chiavi per l’educazione dei giovani Pag 6 Non si è tenuto al riparo dal fiume della vita A Bozzolo l’omaggio a don Primo Mazzolari Pag 7 Ridare ai poveri la parola A Barbiana il riconoscimento dell’esemplarità di don Lorenzo Milani AVVENIRE Pag 1 Padroni di niente di Maurizio Patriciello La libera obbedienza del prete Pag 1 Vera scuola per tutti di Rosanna Virgili A lezione dal santo scolaro Pag 21 Vangelo. La verità dei due messaggeri di Jean Zumstein Il discepolo prediletto e il Paraclito: testimoni e interpreti della buona novella CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Il giallo delle dimissioni del revisore e il timore di un terzo Vatileaks di Massimo Franco Via in anticipo Milone. Gli attriti con l’Apsa. Le voci da Santa Marta: era l’uomo sbagliato LA REPUBBLICA Pag 22 Il Papa su don Milani: “Un esempio per tutti”. Ma l’arcivescovo frena: “Per me non è un santo” di Paolo Rodari Si riaccende il dibattito sulla canonizzazione del prete fiorentino LA STAMPA I preti ribelli che il Papa porta nel cuore di Enzo Bianchi 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Cari maturandi, attenti alla lingua di Ferdinando Camon Tutto quello che costruiamo poggia lì sopra Pag 3 Libri rari e fuori catalogo, un’occasione per l’editoria di Giuliano Vigini Cultura e nuove tecnologie, i limiti da superare. Cosa ostacola il sogno di una biblioteca “on demand”

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6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 17 Regione, religiosi e gruppo Pederzoli per il San Camillo di Francesco Furlan Sfida a tre per l'acquisto dell'ospedale messo in vendita. In pole position la cordata messa in piedi da don Pistolato 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I La grande bellezza di Stefano Babato Reyer, storico scudetto Pag I L’identità di una città di Davide Scalzotto CORRIERE DEL VENETO Pag 15 Estasi Reyer, Venezia campione! di Daniele Rea e Matteo Valente PalaTrento sbancato: l’Umana volta con Filloy, Stone e Haynes e dopo 74 anni incassa il terzo scudetto della sua storia 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Un pensiero anti-corruzione di Piero Formica L’etica e la tecnologia Pag 5 La vera novità è il fenomeno delle liste civiche di Umberto Curi … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Combinare doveri con diritti di Sabino Cassese La cittadinanza Pag 6 L’ipoteca della giustizia sulla corsa dei partiti di Massimo Franco Pag 30 Gli obblighi di Macron dopo il trionfo elettorale di Bernard-Henri Lévy LA REPUBBLICA Pag 31 Il compromesso di Berlusconi di Stefano Folli AVVENIRE Pag 17 Congo, denuncia della Chiesa: “Sono 3 mila i morti nel Kasai” di Matteo Fraschini Koffi “Danneggiate abitazioni e strutture ecclesiastiche” Pag 17 “Così hanno ucciso mio padre” di Federica Zoja Egitto: il racconto di un bambino sopravvissuto alla strage di Minya. “Sei cristiano? Ha detto sì e gli hanno sparato davanti a me” IL GAZZETTINO Pag 1 Se l’incubo Isis entra nel dibattito sullo ius soli di Alessandro Orsini Pag 18 L’infinita emergenza dell’Italia terremotata di Oscar Giannino LA NUOVA Pag 1 Estremismi, minaccia per l’Europa di Renzo Guolo

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Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Gazzera: raduno dei Grest nei campi sportivi di via Calabria Da quando è finita la scuola, migliaia di bambini e ragazzi stanno partecipando in tutto il Patriarcato ai Grest, i gruppi estivi promossi dalle parrocchie. E, per favorire l'incontro tra le varie realtà, anche quest'anno è in programma il raduno generale negli impianti sportivi di via Calabria alla Gazzera. Alle 10 di questa mattina inizierà l'accoglienza e, alle 11, partiranno i giochi che si protrarranno fino alle 16 con l'intervallo della pausa pranzo. I partecipanti riceveranno il saluto del responsabile del progetto e della pastorale dei più giovani, don Fabio Mattiuzzi, del vicario episcopale don Danilo Barlese e dell'assessore alla Coesione sociale Simone Venturini. Quest'anno, per la prima volta, il Comune ha sostenuto i Grest con un contributo di 20mila euro che la diocesi sta adoperando per la formazione degli animatori, ragazzi delle superiori e dei primi anni dell'Università. Pag XXXIV Patriarcato, nell’annuario la situazione delle parrocchie di T.B. E' uscita la nuova edizione dell'Annuario del Patriarcato di Venezia, che presenta un'ampia nomenclatura sulla storia della Chiesa di San Marco per quanto concerne organismi diocesani, vicariati, parrocchie e sacerdoti, ordini e congregazioni religiose, maschili e femminili, nonchè associazioni, enti ed istituzioni che sono approvate dall'autorità ecclesiastica. Alcuni particolari dettagli riguardano il numero dei sacerdoti incardinati o diocesani, che sono 174, mentre quelli regolari o religiosi, sono 124 e i diaconi permanenti 26. Le parrocchie della diocesi sono 128 e spaziano, con il centro storico, fino al Lido, estendendosi poi all'estuario nord di Cavallino-Treporti, ad Eraclea, Caorle ed Jesolo e con la terraferma mestrina, fino a Mira e Zelarino, per una superfice totale di 871 chilometri quadrati, con 384.469 abitanti. La parrocchia con il maggior numero di abitanti è San Giovanni Battista, di Jesolo paese, che ne conta 11.326 e la più piccola, Marango di Caorle, con 40. Ed ancora: Santa Maria Gloriosa dei Frari, con 2381 abitanti è la più numerosa del centro storico, mentre Santa Maria Elisabetta, al Lido ne conta 6.271 e San Martino a Burano, 2.457. L'Annuario si apre con la pagina dedicata al Patriarca, Francesco Moraglia, che ha iniziato il ministero il 25 marzo 2012 ed è Presidente della Conferenza Episcopale Triveneta e membro del Consiglio Internazionale per la Catechesi e del Consiglio Episcopale Permanente della Commissione episcopale italiana. LA NUOVA Pag 20 Grest della diocesi, migliaia di bimbi In via Calabria Negli impianti sportivi di via Calabria a Mestre, da oggi alle 10 comincerà il raduno dei Grest della Diocesi di Venezia. Sono attesi un migliaio di bambini e ragazzi delle parrocchie veneziane e di quelle ospiti. L'inizio dei giochi è previsto dalle 11 alle 16, inframezzati dalla pausa pranzo. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Per un clero non clericale di g.m.v. Sono impegnative le parole che il Papa ha pronunciato a Bozzolo e a Barbiana durante la visita breve e carica di significato in questi due luoghi per onorare la memoria di don Primo Mazzolari e di don Lorenzo Milani. Figure diversissime e che pure si sono

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incrociate, lasciando una traccia che Francesco ha definito «luminosa, per quanto scomoda». Due preti di cui Bergoglio ha detto che «seguirli ci avrebbe risparmiato sofferenze e umiliazioni». Con il riconoscimento solenne, alla fine del rapidissimo itinerario, di «un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa». Parlando di don Mazzolari e di don Milani il Pontefice non ha rievocato le loro vicende, ma ha voluto piuttosto trarne una meditazione, rivolta innanzi tutto ai preti e ai cattolici d’Italia. Le due figure di sacerdoti, importanti e complesse, sono state infatti molto studiate e Francesco ha chiesto oggi di tornare a considerarle, anche attraverso amarezze che non si devono dimenticare, perché «non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco» ha detto a Barbiana. Appena arrivato a Bozzolo il Papa ha parlato dei parroci, definendoli «la forza della Chiesa in Italia», additando un loro magistero e individuandone l’origine: «Credo che la personalità sacerdotale di don Primo sia non una singolare eccezione, ma uno splendido frutto delle vostre comunità, sebbene non sia stato sempre compreso e apprezzato». Non a caso subito dopo ha accennato alla figura di un «grande vescovo, Geremia Bonomelli, protagonista del cattolicesimo sociale, pioniere della pastorale degli emigranti», mentre a Barbiana ha descritto con tratti essenziali il «cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso» e ricordato don Raffaele Bensi ed Elia Dalla Costa. In questo modo Francesco ha invitato sacerdoti e laici a meditare sulle radici, su un «clero non clericale» che ha riconosciuto e onorato in queste due figure esemplari. Un clero che ha sempre cercato di «amare il proprio tempo», senza sterili e con ogni probabilità infondate nostalgie: «Don Mazzolari non è stato uno che ha rimpianto la Chiesa del passato, ma ha cercato di cambiare la Chiesa e il mondo attraverso l’amore appassionato e la dedizione incondizionata». Cercando soprattutto i «lontani» e i poveri, a cui don Milani ha voluto ridare la parola, con l’esempio e attraverso un’educazione esigente. Dalle brevi ore della visita del Papa viene dunque un’indicazione semplice e radicale che deve ispirare la missione dei cristiani: «amare il proprio tempo» e «cogliere ogni possibilità di annunciare la misericordia di Dio» ha detto sintetizzando la «profezia» di don Mazzolari. Con una particolare attenzione ai giovani e ai poveri, secondo l’insegnamento di don Milani, che volle «ridare ai poveri la parola». Come si deve fare anche oggi, quando «solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso» ha detto Bergoglio. Che a Barbiana ha lasciato la consegna, certo non solo ai preti, di ricercare Dio e di voler bene alla Chiesa, magari nelle tensioni, ma senza fratture né abbandoni. Pagg 4 – 5 Le tensioni di questa grande città Francesco apre il convegno pastorale della diocesi di Roma indicando sei chiavi per l’educazione dei giovani Sei espressioni-chiave per riflettere sull’accompagnamento dei genitori nell’opera di educazione dei figli adolescenti: le ha suggerite Papa Francesco ai partecipanti al convegno pastorale della diocesi di Roma, aperto nel pomeriggio di lunedì 19 giugno, nella basilica di San Giovanni in Laterano. Come diceva quel prete: “Prima di parlare, dirò due parole”. Voglio ringraziare il cardinale Vallini per le sue parole e vorrei dire una cosa che lui non poteva dire, perché è sotto segreto, ma il Papa può dirlo. Quando, dopo l’elezione, mi hanno detto che dovevo andare prima alla Cappella Paolina e poi sul balcone a salutare la gente, subito mi è venuto in mente il nome del cardinale Vicario: “Io sono vescovo, c’è un vicario generale...”. Subito. L’ho sentito anche con simpatia. E l’ho chiamato. E dall’altra parte il cardinale Hummes, che era accanto a me durante gli scrutini e mi diceva cose che mi hanno aiutato. Questi due mi hanno accompagnato, e da quel momento ho detto: “Sul balcone con il mio vicario”. Lì, al balcone. Da quel momento mi ha accompagnato, e lo voglio ringraziare. Lui ha tante virtù e anche un senso dell’oggettività che mi ha aiutato tante volte, perché a volte io “volo” e lui mi faceva “atterrare” con tanta carità... La ringrazio, Eminenza, per la compagnia. Ma il cardinale Vallini non va in pensione, perché appartiene a sei Congregazioni e continuerà a lavorare, ed è meglio così, perché un napoletano senza lavoro sarebbe una calamità, in diocesi... [ride, ridono, applausi] Voglio ringraziare in pubblico per il suo aiuto. Grazie!

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E a voi, buonasera! Ringrazio per l’opportunità di poter dare inizio a questo Convegno diocesano, nel quale tratterete un tema importante per la vita delle nostre famiglie: accompagnare i genitori nell’educazione dei figli adolescenti. In queste giornate rifletterete su alcuni argomenti-chiave che corrispondono in qualche modo ai luoghi in cui si gioca il nostro essere famiglia: la casa, la scuola, le reti sociali, la relazione intergenerazionale, la precarietà della vita e l’isolamento familiare. Ci sono i laboratori su questi temi. Mi piacerebbe condividere con voi alcuni “presupposti” che ci possono aiutare in questa riflessione. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma lo spirito con cui riflettiamo è altrettanto importante dei contenuti (un bravo sportivo sa che il riscaldamento conta tanto quanto la prestazione successiva). Perciò, questa conversazione vuole aiutarci in tal senso: un “riscaldamento”, e poi starà a voi “giocare tutto sul campo”. L’esposizione la farò in piccoli capitoli. 1. In romanesco! La prima delle chiavi per entrare in questo tema ho voluto chiamarla “in romanesco”: il dialetto proprio dei romani. Non di rado cadiamo nella tentazione di pensare o riflettere sulle cose “in genere”, “in astratto”. Pensare ai problemi, alle situazioni, agli adolescenti... E così, senza accorgercene, cadiamo in pieno nel nominalismo. Vorremmo abbracciare tutto ma non arriviamo a nulla. Oggi su questo tema vi invito a pensare “in dialetto”. E per questo bisogna fare uno sforzo notevole, perché ci è chiesto di pensare alle nostre famiglie nel contesto di una grande città come Roma. Con tutta la sua ricchezza, le opportunità, la varietà, e nello stesso tempo con tutte le sue sfide. Non per rinchiudersi e ignorare il resto (siamo sempre italiani), ma per affrontare la riflessione, e persino i momenti di preghiera, con un sano e stimolante realismo. Niente astrazione, niente generalizzazione, niente nominalismo. La vita delle famiglie e l’educazione degli adolescenti in una grande metropoli come questa esige alla base un’attenzione particolare e non possiamo prenderla alla leggera. Perché non è la stessa cosa educare o essere famiglia in un piccolo paese e in una metropoli. Non dico che sia meglio o peggio, è semplicemente diverso. La complessità della capitale non ammette sintesi riduttive, piuttosto ci stimola a un modo di pensare poliedrico, per cui ogni quartiere e zona trova eco nella diocesi e così la diocesi può farsi visibile, palpabile in ogni comunità ecclesiale, con il suo proprio modo di essere. L’uniformità è un grande nemico. Voi vivete le tensioni di questa grande città. In molte delle visite pastorali che ho compiuto mi hanno presentato alcune delle vostre esperienze quotidiane, concrete: le distanze tra casa e lavoro (in alcuni casi fino a 2 ore per arrivare); la mancanza di legami familiari vicini, a causa del fatto di essersi dovuti spostare per trovare lavoro o per poter pagare un affitto; il vivere sempre “al centesimo” per arrivare alla fine del mese, perché il ritmo di vita è di per sé più costoso (nel paese ci si arrangia meglio); il tempo tante volte insufficiente per conoscere i vicini là dove viviamo; il dover lasciare in moltissimi casi i figli soli... E così potremmo andare avanti elencando una grande quantità di situazioni che toccano la vita delle nostre famiglie. Perciò la riflessione, la preghiera, fatela “in romanesco”, in concreto, con tutte queste cose concrete, con volti di famiglie ben concreti e pensando come aiutarvi tra voi a formare i vostri figli all’interno di questa realtà. Lo Spirito Santo è il grande iniziatore e generatore di processi nelle nostre società e situazioni. È la grande guida delle dinamiche trasformatrici e salvatrici. Con Lui non abbiate paura di “camminare” per i vostri quartieri, e pensare a come dare impulso a un accompagnamento per i genitori e gli adolescenti. Cioè, in concreto. 2. Connessi Insieme al precedente, mi soffermo su un altro aspetto importante. La situazione attuale a poco a poco sta facendo crescere nella vita di tutti noi, e specialmente nelle nostre famiglie, l’esperienza di sentirci “sradicati”. Si parla di “società liquida” - ed è così - ma oggi mi piacerebbe, in questo contesto, presentarvi il fenomeno crescente della società sradicata. Vale a dire persone, famiglie che a poco a poco vanno perdendo i loro legami, quel tessuto vitale così importante per sentirci parte gli uni degli altri, partecipi con gli altri di un progetto comune. È l’esperienza di sapere che “apparteniamo” ad altri (nel senso più nobile del termine). È importante tenere conto di questo clima di

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sradicamento, perché a poco a poco passa nei nostri sguardi e specialmente nella vita dei nostri figli. Una cultura sradicata, una famiglia sradicata è una famiglia senza storia, senza memoria, senza radici, appunto. E quando non ci sono radici, qualsiasi vento finisce per trascinarti. Per questo una delle prime cose a cui dobbiamo pensare come genitori, come famiglie, come pastori sono gli scenari dove radicarci, dove generare legami, trovare radici, dove far crescere quella rete vitale che ci permetta di sentirci “casa”. Oggi le reti sociali sembrerebbero offrirci questo spazio di “rete”, di connessione con altri, e anche i nostri figli li fanno sentire parte di un gruppo. Ma il problema che comportano, per la loro stessa virtualità, è che ci lasciano come “per aria” - ho detto “società liquida”; possiamo dire “società gassosa” - e perciò molto “volatili”: “società volatile”. Non c’è peggior alienazione per una persona di sentire che non ha radici, che non appartiene a nessuno. Questo principio è molto importante per accompagnare gli adolescenti. Tante volte esigiamo dai nostri figli un’eccessiva formazione in alcuni campi che consideriamo importanti per il loro futuro. Li facciamo studiare una quantità di cose perché diano il “massimo”. Ma non diamo altrettanta importanza al fatto che conoscano la loro terra, le loro radici. Li priviamo della conoscenza dei geni e dei santi che ci hanno generato. So che avete un laboratorio dedicato al dialogo intergenerazionale, allo spazio dei nonni. So che può risultare ripetitivo ma lo sento come qualcosa che lo Spirito Santo preme nel mio cuore: affinché i nostri giovani abbiano visioni, siano “sognatori”, possano affrontare con audacia e coraggio i tempi futuri, è necessario che ascoltino i sogni profetici dei loro padri (cfr. Gl 3, 2). Se vogliamo che i nostri figli siano formati e preparati per il domani, non è solo imparando lingue (per fare un esempio) che ci riusciranno. È necessario che si connettano, che conoscano le loro radici. Solo così potranno volare alto, altrimenti saranno presi dalle “visioni” di altri. E torno su questo; sono ossessionato, forse, ma... I genitori devono fare spazio ai figli per parlare con i nonni. Tante volte il nonno o la nonna è nella casa di riposo e non vanno a trovarli... Devono parlare. Anche scavalcare i genitori, ma prendere le radici dei nonni. I nonni hanno questa qualità della trasmissione della storia, della fede, dell’appartenenza. E lo fanno con saggezza di chi è sulla soglia, pronto ad andarsene. Torno, l’ho detto, qualche volta, sul passo di Gioele 3, 2: «I vostri anziani sogneranno e i vostri figli profetizzeranno». E voi siete il ponte. Oggi i nonni non li lasciamo sognare, li scartiamo. Questa cultura scarta i nonni perché i nonni non producono: questo è “cultura dello scarto”. Ma i nonni possono sognare solo quando si incontrano con la vita nuova, allora sognano, parlano... Ma pensate a Simeone, pensate a quella santa chiacchierona di Anna che andava da una parte all’altra dicendo: “È quello! È quello!”. E questo è bello, questo è bello. Sono i nonni che sognano e danno ai bambini una appartenenza della quale hanno bisogno. Mi piacerebbe che in questo laboratorio intergenerazionale facciate un esame di coscienza su questo. Trovare la storia concreta nei nonni. E non lasciarli da parte. Non so se questo l’ho detto una volta, ma a me viene alla memoria una storia che da bambino mi aveva insegnato una delle mie due nonne. C’era una volta in una famiglia il nonno vedovo: abitava in una famiglia, ma era invecchiato e quando mangiavano un po’ gli cadeva la zuppa o la bava e si sporcava un po’. E il papà ha deciso di farlo mangiare da solo in cucina, “così possiamo invitare amici...”. Così è stato. Alcuni giorni dopo, torna dal lavoro e trova il bambino che giocava con un martello, i chiodi, i legni... “Ma cosa stai facendo?” — “Un tavolo” - “Un tavolo, perché?” - “Un tavolo per mangiare” - “Ma perché?” - “Perché quando tu invecchi, possa mangiare da solo, lì”. Questo bambino aveva capito con intuizione dove c’erano le radici. 3. In movimento Educare gli adolescenti in movimento. L’adolescenza è una fase di passaggio nella vita non solo dei vostri figli, ma di tutta la famiglia - è tutta la famiglia che è in fase di passaggio - voi lo sapete bene e lo vivete; e come tale, nella sua globalità, dobbiamo affrontarla. È una fase-ponte, e per questo motivo gli adolescenti non sono né di qua né di là, sono in cammino, in transito. Non sono bambini (e non vogliono essere trattati come tali) e non sono adulti (ma vogliono essere trattati come tali, specialmente a livello di privilegi). Vivono proprio questa tensione, prima di tutto in sé stessi e poi con chi li circonda.1 Cercano sempre il confronto, domandano, discutono tutto, cercano risposte; e a volte non ascoltano le risposte e fanno un’altra domanda prima che i genitori dicano la risposta... Passano attraverso vari stati d’animo, e le famiglie con loro. Però,

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permettetemi di dirvi che è un tempo prezioso nella vita dei vostri figli. Un tempo difficile, sì. Un tempo di cambiamenti e di instabilità, sì. Una fase che presenta grandi rischi, senza dubbio. Ma, soprattutto, è un tempo di crescita per loro e per tutta la famiglia. L’adolescenza non è una patologia e non possiamo affrontarla come se lo fosse. Un figlio che vive la sua adolescenza (per quanto possa essere difficile per i genitori) è un figlio con futuro e speranza. Mi preoccupa tante volte la tendenza attuale a “medicalizzare” precocemente i nostri ragazzi. Sembra che tutto si risolva medicalizzando, o controllando tutto con lo slogan “sfruttare al massimo il tempo”, e così risulta che l’agenda dei ragazzi è peggio di quella di un alto dirigente. Pertanto insisto: l’adolescenza non è una patologia che dobbiamo combattere. Fa parte della crescita normale, naturale della vita dei nostri ragazzi. Dove c’è vita c’è movimento, dove c’è movimento ci sono cambiamenti, ricerca, incertezze, c’è speranza, gioia e anche angoscia e desolazione. Inquadriamo bene i nostri discernimenti all’interno di processi vitali prevedibili. Esistono margini che è necessario conoscere per non allarmarsi, per non essere nemmeno negligenti, ma per saper accompagnare e aiutare a crescere. Non è tutto indifferente, ma nemmeno tutto ha la stessa importanza. Perciò bisogna discernere quali battaglie sono da fare e quali no. In questo serve molto ascoltare coppie con esperienza, che se pure non ci daranno mai una ricetta, ci aiuteranno con la loro testimonianza a conoscere questo o quel margine o gamma di comportamenti. I nostri ragazzi e le nostre ragazze cercano di essere e vogliono sentirsi - logicamente - protagonisti. Non amano per niente sentirsi comandati o rispondere a “ordini” che vengano dal mondo adulto (seguono le regole di gioco dei loro “complici”). Cercano quell’autonomia complice che li fa sentire di “comandarsi da soli”. E qui dobbiamo stare attenti agli zii, soprattutto a quegli zii che non hanno figli o che non sono sposati... Le prime parolacce, io le ho imparate da uno zio “zitello” [ridono]. Gli zii, per guadagnare la simpatia dei nipoti, tante volte non fanno bene. C’era lo zio che ci dava di nascosto le sigarette, a noi... Cose di quei tempi. E adesso... Non dico che siano cattivi, ma bisogna stare attenti. In questa ricerca di autonomia che vogliono avere i ragazzi e le ragazze troviamo una buona opportunità, specialmente per le scuole, le parrocchie e i movimenti ecclesiali. Stimolare attività che li mettano alla prova, che li facciano sentire protagonisti. Hanno bisogno di questo, aiutiamoli! Loro cercano in molti modi la “vertigine” che li faccia sentire vivi. Dunque, diamogliela! Stimoliamo tutto quello che li aiuta a trasformare i loro sogni in progetti, e che possano scoprire che tutto il potenziale che hanno è un ponte, un passaggio verso una vocazione (nel senso più ampio e bello della parola). Proponiamo loro mete ampie, grandi sfide e aiutiamoli a realizzarle, a raggiungere le loro mete. Non lasciamoli soli. Perciò, sfidiamoli più di quanto loro ci sfidano. Non lasciamo che la “vertigine” la ricevano da altri, i quali non fanno che mettere a rischio la loro vita: diamogliela noi. Ma la vertigine giusta, che soddisfi questo desiderio di muoversi, di andare avanti. Noi vediamo in tante parrocchie, che hanno questa capacità di “prendere” gli adolescenti...: “Questi tre giorni di vacanza, andiamo in montagna, facciamo qualcosa...; o andiamo a imbiancare quella scuola di un quartiere povero che ha bisogno...”. Farli protagonisti di qualcosa. Questo richiede di trovare educatori capaci di impegnarsi nella crescita dei ragazzi. Richiede educatori spinti dall’amore e dalla passione di far crescere in loro la vita dello Spirito di Gesù, di far vedere che essere cristiani esige coraggio ed è una cosa bella. Per educare gli adolescenti di oggi non possiamo continuare a utilizzare un modello di istruzione meramente scolastico, solo di idee. No. Bisogna seguire il ritmo della loro crescita. È importante aiutarli ad acquisire autostima, a credere che realmente possono riuscire in ciò che si propongono. In movimento, sempre. 4. Una educazione integrata Questo processo esige di sviluppare in maniera simultanea e integrata i diversi linguaggi che ci costituiscono come persone. Vale a dire insegnare ai nostri ragazzi a integrare tutto ciò che sono e che fanno. Potremmo chiamarla una alfabetizzazione socio-integrata, cioè un’educazione basata sull’intelletto (la testa), gli affetti (il cuore) e l’agire (le mani). Questo offrirà ai nostri ragazzi la possibilità di una crescita armonica a livello non solo personale, ma al tempo stesso sociale. Urge creare luoghi dove la frammentazione sociale non sia lo schema dominante. A tale scopo occorre insegnare a pensare ciò che si sente e si fa, a sentire ciò che si pensa e si fa, a fare ciò che si pensa

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e si sente. Cioè, integrare i tre linguaggi. Un dinamismo di capacità posto al servizio della persona e della società. Questo aiuterà a far sì che i nostri ragazzi si sentano attivi e protagonisti nei loro processi di crescita e li porterà anche a sentirsi chiamati a partecipare alla costruzione della comunità. Vogliono essere protagonisti: diamo loro spazio perché siano protagonisti, orientandoli — ovviamente — e dando loro gli strumenti per sviluppare tutta questa crescita. Per questo ritengo che l’integrazione armonica dei diversi saperi — della mente, del cuore e delle mani — li aiuterà a costruire la loro personalità. Spesso pensiamo che l’educazione sia impartire conoscenze e lungo il cammino lasciamo degli analfabeti emotivi e ragazzi con tanti progetti incompiuti perché non hanno trovato chi insegnasse loro a “fare”. Abbiamo concentrato l’educazione nel cervello trascurando il cuore e le mani. E questa è anche una forma di frammentazione sociale. In Vaticano, quando le guardie si congedano, io li ricevo, uno a uno, quelli che si congedano. L’altro ieri ne ho ricevuti sei. Uno a uno. “Cosa fai, cosa farete...”. Ringrazio per il servizio. E uno mi ha detto così: “Io andrò a fare il carpentiere. Vorrei fare il falegname, ma farò il carpentiere. Perché mio papà mi ha insegnato tante cose di questo, e mio nonno anche”. Il desiderio di “fare”: questo ragazzo è stato bene educato con il linguaggio del fare; e anche il cuore è buono, perché pensava al papà e al nonno: un cuore affettivo buono. Imparare “come si fa”... Questo mi ha colpito. 5. Sì all’adolescenza, no alla competizione Come ultimo elemento, è importante che riflettiamo su una dinamica ambientale che ci interpella tutti. È interessante osservare come i ragazzi e le ragazze vogliono essere “grandi” e i “grandi” vogliono essere o sono diventati adolescenti. Non possiamo ignorare questa cultura, dal momento che è un’aria che tutti respiriamo. Oggi c’è una specie di competizione tra genitori e figli: diversa da quella di altre epoche, in cui normalmente si verificava il confronto tra gli uni e gli altri. Oggi siamo passati dal confronto alla competizione, che sono due cose diverse. Sono due dinamiche diverse dello spirito. I nostri ragazzi oggi trovano molta competizione e poche persone con cui confrontarsi. Il mondo adulto ha accolto come paradigma e modello di successo l’“eterna giovinezza”. Sembra che crescere, invecchiare, “stagionarsi” sia un male. È sinonimo di vita frustrata o esaurita. Oggi sembra che tutto vada mascherato e dissimulato. Come se il fatto stesso di vivere non avesse senso. L’apparenza, non invecchiare, truccarsi... A me fa pena quando vedo quelli che si tingono i capelli. Com’è triste che qualcuno voglia fare il “lifting” al cuore! E oggi si usa più la parola “lifting” che la parola “cuore”! Com’è doloroso che qualcuno voglia cancellare le “rughe” di tanti incontri, di tante gioie e tristezze! Mi viene in mente quando alla grande Anna Magnani hanno consigliato di fare il lifting, ha detto: “No, queste rughe mi sono costate tutta la vita: sono preziose!”. In un certo senso questa è una delle minacce “inconsapevoli” più pericolose nell’educazione dei nostri adolescenti: escluderli dai loro processi di crescita perché gli adulti occupano il loro posto. E troviamo tanti genitori adolescenti, tanti. Adulti che non vogliono essere adulti e vogliono giocare a essere adolescenti per sempre. Questa “emarginazione” può aumentare una tendenza naturale che hanno i ragazzi a isolarsi o a frenare i loro processi di crescita per mancanza di confronto. C’è la competizione, ma non il confronto. 6. La “golosità” spirituale Non vorrei concludere senza questo aspetto che può essere un argomento-chiave che attraversa tutti i laboratori che farete: è trasversale. È il tema dell’austerità. Viviamo in un contesto di consumismo molto forte... E facendo un collegamento tra il consumismo e quello che ho appena detto: dopo il cibo, le medicine e i vestiti, che sono essenziali per la vita, le spese più forti sono i prodotti di bellezza, i cosmetici. Questo è statistica! I cosmetici. È brutto dire questo. E la cosmetica, che era una cosa più delle donne, adesso è uguale in entrambi i sessi. Dopo le spese di base, la prima è la cosmetica; e poi, le mascotte [gli animali da compagnia]: alimentazione, veterinario... Queste sono statistiche. Ma questo è un altro argomento, quello delle mascotte, che non toccherò adesso: penseremo più avanti a questo. Ma torniamo al tema dell’austerità. Viviamo, ho detto, in un contesto di consumismo molto forte; sembra che siamo spinti a consumare consumo, nel senso che l’importante è consumare sempre. Un tempo, alle persone che avevano questo problema si diceva che avevano una dipendenza dalla spesa. Oggi non

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si dice più: tutti siamo in questo ritmo di consumismo. Perciò, è urgente recuperare quel principio spirituale così importante e svalutato: l’austerità. Siamo entrati in una voragine di consumo e siamo indotti a credere che valiamo per quanto siamo capaci di produrre e di consumare, per quanto siamo capaci di avere. Educare all’austerità è una ricchezza incomparabile. Risveglia l’ingegno e la creatività, genera possibilità per l’immaginazione e specialmente apre al lavoro in équipe, in solidarietà. Apre agli altri. Esiste una specie di “golosità spirituale”. Quell’atteggiamento dei golosi che, invece di mangiare, divorano tutto ciò che li circonda (sembrano ingozzarsi mangiando). Credo che ci faccia bene educarci meglio, come famiglia, in questa “golosità” e dare spazio all’austerità come via per incontrarsi, gettare ponti, aprire spazi, crescere con gli altri e per gli altri. Questo lo può fare solo chi sa essere austero; altrimenti è un semplice “goloso”. In Amoris laetitia vi dicevo: «La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza. Bisogna aiutare a scoprire che una crisi superata non porta ad una relazione meno intensa, ma a migliorare, a sedimentare e a maturare il vino dell’unione. Non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa» (n. 232). Mi sembra importante vivere l’educazione dei figli a partire da questa prospettiva, come una chiamata che il Signore ci fa, come famiglia, a fare di questo passaggio un passaggio di crescita, per imparare ad assaporare meglio la vita che Lui ci regala. Questo è quello che mi è sembrato di dirvi su questo tema. [Dopo le parole di ringraziamento del cardinale Vallini e la benedizione] Grazie tante! Lavorate bene. Vi auguro il meglio. E avanti! Pag 6 Non si è tenuto al riparo dal fiume della vita A Bozzolo l’omaggio a don Primo Mazzolari È stata Bozzolo la prima tappa della visita di Papa Francesco martedì mattina, 20 giugno, per onorare don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani. Nella cittadina mantovana il Pontefice è giunto intorno alle 9 e, dopo aver sostato presso la tomba di don Mazzolari, ha pronunciato il seguente discorso. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Mi hanno consigliato di accorciare un po’ questo discorso, perché è un po’ lunghetto. Ho cercato di farlo, ma non ci sono riuscito. Tante cose venivano, di qua e di qua e di qua... Ma voi avete pazienza! Perché non vorrei tralasciare di dire tutto quello che vorrei dire, su don Primo Mazzolari. Sono pellegrino qui a Bozzolo e poi a Barbiana, sulle orme di due parroci che hanno lasciato una traccia luminosa, per quanto “scomoda”, nel loro servizio al Signore e al popolo di Dio. Ho detto più volte che i parroci sono la forza della Chiesa in Italia, e lo ripeto. Quando sono i volti di un clero non clericale, come era quest’uomo, essi danno vita ad un vero e proprio “magistero dei parroci”, che fa tanto bene a tutti. Don Primo Mazzolari è stato definito “il parroco d’Italia”; e San Giovanni XXIII lo ha salutato come «la tromba dello Spirito Santo nella Bassa padana». Credo che la personalità sacerdotale di don Primo sia non una singolare eccezione, ma uno splendido frutto delle vostre comunità, sebbene non sia stato sempre compreso e apprezzato. Come disse il Beato Paolo VI: «Camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso noi non gli si poteva tener dietro! E così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti» (Saluto a pellegrini di Bozzolo e Cicognara, 1 maggio 1970). La sua formazione è figlia della ricca tradizione cristiana di questa terra padana, lombarda, cremonese. Negli anni della giovinezza fu colpito dalla figura del grande vescovo Geremia Bonomelli, protagonista del cattolicesimo sociale, pioniere della pastorale degli emigranti. Non spetta a me raccontarvi o analizzare l’opera di don Primo. Ringrazio chi negli anni si è dedicato a questo. Preferisco meditare con voi - soprattutto con i miei fratelli sacerdoti che sono qui e anche con quelli di tutta l’Italia: questo era il “parroco d’Italia” - meditare l’attualità del suo messaggio, che pongo simbolicamente sullo sfondo di tre scenari che ogni giorno riempivano i suoi occhi e il suo cuore: il fiume, la cascina e la pianura. 1) Il fiume è una splendida immagine, che appartiene alla mia esperienza, e anche alla vostra. Don Primo ha svolto il suo ministero lungo i fiumi, simboli del primato e della

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potenza della grazia di Dio che scorre incessantemente verso il mondo. La sua parola, predicata o scritta, attingeva chiarezza di pensiero e forza persuasiva alla fonte della Parola del Dio vivo, nel Vangelo meditato e pregato, ritrovato nel Crocifisso e negli uomini, celebrato in gesti sacramentali mai ridotti a puro rito. Don Mazzolari, parroco a Cicognara e a Bozzolo, non si è tenuto al riparo dal fiume della vita, dalla sofferenza della sua gente, che lo ha plasmato come pastore schietto ed esigente, anzitutto con sé stesso. Lungo il fiume imparava a ricevere ogni giorno il dono della verità e dell’amore, per farsene portatore forte e generoso. Predicando ai seminaristi di Cremona, ricordava: «L’essere un “ripetitore” è la nostra forza. [...] Però, tra un ripetitore morto, un altoparlante, e un ripetitore vivo c’è una bella differenza! Il sacerdote è un ripetitore, però questo suo ripetere non deve essere senz’anima, passivo, senza cordialità. Accanto alla verità che ripeto, ci deve essere, ci devo mettere qualcosa di mio, per far vedere che credo a ciò che dico; deve essere fatto in modo che il fratello senta un invito a ricevere la verità».1 La sua profezia si realizzava nell’amare il proprio tempo, nel legarsi alla vita delle persone che incontrava, nel cogliere ogni possibilità di annunciare la misericordia di Dio. Don Mazzolari non è stato uno che ha rimpianto la Chiesa del passato, ma ha cercato di cambiare la Chiesa e il mondo attraverso l’amore appassionato e la dedizione incondizionata. Nel suo scritto «La parrocchia», egli propone un esame di coscienza sui metodi dell’apostolato, convinto che le mancanze della parrocchia del suo tempo fossero dovute a un difetto di incarnazione. Ci sono tre strade che non conducono nella direzione evangelica. — La strada del “lasciar fare”. È quella di chi sta alla finestra a guardare senza sporcarsi le mani — quel “balconear” la vita —. Ci si accontenta di criticare, di «descrivere con compiacimento amaro e altezzoso gli errori»2 del mondo intorno. Questo atteggiamento mette la coscienza a posto, ma non ha nulla di cristiano perché porta a tirarsi fuori, con spirito di giudizio, talvolta aspro. Manca una capacità propositiva, un approccio costruttivo alla soluzione dei problemi. — Il secondo metodo sbagliato è quello dell’“attivismo separatista”. Ci si impegna a creare istituzioni cattoliche (banche, cooperative, circoli, sindacati, scuole...). Così la fede si fa più operosa, ma - avvertiva Mazzolari - può generare una comunità cristiana elitaria. Si favoriscono interessi e clientele con un’etichetta cattolica. E, senza volerlo, si costruiscono barriere che rischiano di diventare insormontabili all’emergere della domanda di fede. Si tende ad affermare ciò che divide rispetto a quello che unisce. È un metodo che non facilita l’evangelizzazione, chiude porte e genera diffidenza. — Il terzo errore è il “soprannaturalismo disumanizzante”. Ci si rifugia nel religioso per aggirare le difficoltà e le delusioni che si incontrano. Ci si estranea dal mondo, vero campo dell’apostolato, per preferire devozioni. È la tentazione dello spiritualismo. Ne deriva un apostolato fiacco, senza amore. «I lontani non si possono interessare con una preghiera che non diviene carità, con una processione che non aiuta a portare le croci dell’ora».3 Il dramma si consuma in questa distanza tra la fede e la vita, tra la contemplazione e l’azione. 2) La cascina. Al tempo di don Primo, era una “famiglia di famiglie”, che vivevano insieme in queste fertili campagne, anche soffrendo miserie e ingiustizie, in attesa di un cambiamento, che è poi sfociato nell’esodo verso le città. La cascina, la casa, ci dicono l’idea di Chiesa che guidava don Mazzolari. Anche lui pensava a una Chiesa in uscita, quando meditava per i sacerdoti con queste parole: «Per camminare bisogna uscire di casa e di Chiesa, se il popolo di Dio non ci viene più; e occuparsi e preoccuparsi anche di quei bisogni che, pur non essendo spirituali, sono bisogni umani e, come possono perdere l’uomo, lo possono anche salvare. Il cristiano si è staccato dall’uomo, e il nostro parlare non può essere capito se prima non lo introduciamo per questa via, che pare la più lontana ed è la più sicura. [...] Per fare molto, bisogna amare molto».4 Così diceva il vostro parroco. La parrocchia è il luogo dove ogni uomo si sente atteso, un «focolare che non conosce assenze». Don Mazzolari è stato un parroco convinto che «i destini del mondo si maturano in periferia», e ha fatto della propria umanità uno strumento della misericordia di Dio, alla maniera del padre della parabola evangelica, così ben descritta nel libro «La più bella avventura». Egli è stato giustamente definito il “parroco dei lontani”, perché li ha sempre amati e cercati, si è preoccupato non di definire a tavolino un metodo di apostolato valido per tutti e per sempre, ma di proporre il discernimento come via per interpretare l’animo di ogni uomo. Questo sguardo misericordioso ed

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evangelico sull’umanità lo ha portato a dare valore anche alla necessaria gradualità: il prete non è uno che esige la perfezione, ma che aiuta ciascuno a dare il meglio. «Accontentiamoci di ciò che possono dare le nostre popolazioni. Abbiamo del buon senso! Non dobbiamo massacrare le spalle della povera gente».5 Io vorrei ripetere questo, e ripeterlo a tutti i preti dell’Italia e anche del mondo: Abbiamo del buon senso! Non dobbiamo massacrare le spalle della povera gente. E se, per queste aperture, veniva richiamato all’obbedienza, la viveva in piedi, da adulto, da uomo, e contemporaneamente in ginocchio, baciando la mano del suo Vescovo, che non smetteva di amare. 3) Il terzo scenario - il primo era il fiume, il secondo la cascina - il terzo scenario è quello della vostra grande pianura. Chi ha accolto il «Discorso della montagna» non teme di inoltrarsi, come viandante e testimone, nella pianura che si apre, senza rassicuranti confini. Gesù prepara a questo i suoi discepoli, conducendoli tra la folla, in mezzo ai poveri, rivelando che la vetta si raggiunge nella pianura, dove si incarna la misericordia di Dio (cfr. Omelia per il Concistoro, 19 novembre 2016). Alla carità pastorale di don Primo si aprivano diversi orizzonti, nelle complesse situazioni che ha dovuto affrontare: le guerre, i totalitarismi, gli scontri fratricidi, la fatica della democrazia in gestazione, la miseria della sua gente. Vi incoraggio, fratelli sacerdoti, ad ascoltare il mondo, chi vive e opera in esso, per farvi carico di ogni domanda di senso e di speranza, senza temere di attraversare deserti e zone d’ombra. Così possiamo diventare Chiesa povera per e con i poveri, la Chiesa di Gesù. Quella dei poveri è definita da don Primo un’“esistenza scomodante”, e la Chiesa ha bisogno di convertirsi al riconoscimento della loro vita per amarli così come sono: «I poveri vanno amati come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto di ipoteca, neanche quella di farli cittadini del regno dei cieli, molto meno dei proseliti».6 Lui non faceva proselitismo, perché questo non è cristiano. Papa Benedetto XVI ci ha detto che la Chiesa, il cristianesimo, non cresce per proselitismo, ma per attrazione, cioè per testimonianza. È quello che don Primo Mazzolari ha fatto: testimonianza. Il Servo di Dio ha vissuto da prete povero, non da povero prete. Nel suo testamento spirituale scriveva: «Intorno al mio Altare come intorno alla mia casa e al mio lavoro non ci fu mai “suon di denaro”. Il poco che è passato nelle mie mani [...] è andato dove doveva andare. Se potessi avere un rammarico su questo punto, riguarderebbe i miei poveri e le opere della parrocchia che avrei potuto aiutare largamente». Aveva meditato a fondo sulla diversità di stile tra Dio e l’uomo: «Lo stile dell’uomo: con molto fa poco. Lo stile di Dio: con niente fa tutto».7 Per questo la credibilità dell’annuncio passa attraverso la semplicità e la povertà della Chiesa: «Se vogliamo riportare la povera gente nella loro Casa, bisogna che il povero vi trovi l’aria del Povero», cioè di Gesù Cristo. Nel suo scritto La via crucis del povero, don Primo ricorda che la carità è questione di spiritualità e di sguardo. «Chi ha poca carità vede pochi poveri; chi ha molta carità vede molti poveri; chi non ha nessuna carità non vede nessuno».8 E aggiunge: «Chi conosce il povero, conosce il fratello: chi vede il fratello vede Cristo, chi vede Cristo vede la vita e la sua vera poesia, perché la carità è la poesia del cielo portata sulla terra».9 Cari amici, vi ringrazio di avermi accolto oggi, nella parrocchia di don Primo. A voi e ai Vescovi dico: siate orgogliosi di aver generato “preti così”, e non stancatevi di diventare anche voi “preti e cristiani così”, anche se ciò chiede di lottare con sé stessi, chiamando per nome le tentazioni che ci insidiano, lasciandoci guarire dalla tenerezza di Dio. Se doveste riconoscere di non aver raccolto la lezione di don Mazzolari, vi invito oggi a farne tesoro. Il Signore, che ha sempre suscitato nella santa madre Chiesa pastori e profeti secondo il suo cuore, ci aiuti oggi a non ignorarli ancora. Perché essi hanno visto lontano, e seguirli ci avrebbe risparmiato sofferenze e umiliazioni. Tante volte ho detto che il pastore deve essere capace di mettersi davanti al popolo per indicare la strada, in mezzo come segno di vicinanza o dietro per incoraggiare chi è rimasto dietro (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 31). E don Primo scriveva: «Dove vedo che il popolo slitta verso discese pericolose, mi metto dietro; dove occorre salire, m’attacco davanti. Molti non capiscono che è la stessa carità che mi muove nell’uno e nell’altro caso e che nessuno la può far meglio di un prete».10 Con questo spirito di comunione fraterna, con voi e con tutti i preti della Chiesa in Italia - con quei bravi parroci - vorrei concludere con una preghiera di don Primo, parroco

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innamorato di Gesù e del suo desiderio che tutti gli uomini abbiano la salvezza. Così pregava don Primo: «Sei venuto per tutti: per coloro che credono e per coloro che dicono di non credere. Gli uni e gli altri, a volte questi più di quelli, lavorano, soffrono, sperano perché il mondo vada un po’ meglio. O Cristo, sei nato “fuori della casa” e sei morto “fuori della città”, per essere in modo ancor più visibile il crocevia e il punto d’incontro. Nessuno è fuori della salvezza, o Signore, perché nessuno è fuori del tuo amore, che non si sgomenta né si raccorcia per le nostre opposizioni o i nostri rifiuti». Adesso, vi darò la benedizione. Preghiamo la Madonna, prima, che è nostra Madre: senza Madre non possiamo andare avanti. Ave o Maria. 1) P. Mazzolari, Preti così, 125-126. 2) Id., Lettera sulla parrocchia, 51. 3) Ibid., 54. 4) P. Mazzolari, Coscienza sociale del clero, ICAS, Milano, 1947, 32. 5) Id., Preti così, 118-119. 6) Id., La via crucis del povero, 63. 7) Id., La parrocchia, 84. 8) Id., La via crucis del povero, 32. 9) Ibid. 33. 10) Id., Scritti politici, 195. Pag 7 Ridare ai poveri la parola A Barbiana il riconoscimento dell’esemplarità di don Lorenzo Milani Lasciato Bozzolo in elicottero, il Pontefice ha raggiunto Barbiana intorno alle 11.15 di martedì 20 giugno e, dopo la visita al cimitero e la preghiera in chiesa, ha rivolto ai presenti il seguente discorso. Cari fratelli e sorelle, sono venuto a Barbiana per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve, perché sia difesa e promossa la loro dignità di persone, con la stessa donazione di sé che Gesù ci ha mostrato, fino alla croce. 1. Mi rallegro di incontrare qui coloro che furono a suo tempo allievi di don Lorenzo Milani, alcuni nella scuola popolare di San Donato a Calenzano, altri qui nella scuola di Barbiana. Voi siete i testimoni di come un prete abbia vissuto la sua missione, nei luoghi in cui la Chiesa lo ha chiamato, con piena fedeltà al Vangelo e proprio per questo con piena fedeltà a ciascuno di voi, che il Signore gli aveva affidato. E siete testimoni della sua passione educativa, del suo intento di risvegliare nelle persone l’umano per aprirle al divino. Di qui il suo dedicarsi completamente alla scuola, con una scelta che qui a Barbiana egli attuerà in maniera ancora più radicale. La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. E quando la decisione del Vescovo lo condusse da Calenzano a qui, tra i ragazzi di Barbiana, capì subito che se il Signore aveva permesso quel distacco era per dargli dei nuovi figli da far crescere e da amare. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso, e di dare espressione alle istanze profonde del proprio cuore, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia. Di quella umanizzazione che rivendichiamo per ogni persona su questa terra, accanto al pane, alla casa, al lavoro, alla famiglia, fa parte anche il possesso della parola come strumento di libertà e di fraternità. 2. Sono qui anche alcuni ragazzi e giovani, che rappresentano per noi i tanti ragazzi e giovani che oggi hanno bisogno di chi li accompagni nel cammino della loro crescita. So

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che voi, come tanti altri nel mondo, vivete in situazioni di marginalità, e che qualcuno vi sta accanto per non lasciarvi soli e indicarvi una strada di possibile riscatto, un futuro che si apra su orizzonti più positivi. Vorrei da qui ringraziare tutti gli educatori, quanti si pongono al servizio della crescita delle nuove generazioni, in particolare di coloro che si trovano in situazioni di disagio. La vostra è una missione piena di ostacoli ma anche di gioie. Ma soprattutto è una missione. Una missione di amore, perché non si può insegnare senza amare e senza la consapevolezza che ciò che si dona è solo un diritto che si riconosce, quello di imparare. E da insegnare ci sono tante cose, ma quella essenziale è la crescita di una coscienza libera, capace di confrontarsi con la realtà e di orientarsi in essa guidata dall’amore, dalla voglia di compromettersi con gli altri, di farsi carico delle loro fatiche e ferite, di rifuggire da ogni egoismo per servire il bene comune. Troviamo scritto in Lettera a una professoressa: «Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Questo è un appello alla responsabilità. Un appello che riguarda voi, cari giovani, ma prima di tutto noi, adulti, chiamati a vivere la libertà di coscienza in modo autentico, come ricerca del vero, del bello e del bene, pronti a pagare il prezzo che ciò comporta. E questo senza compromessi. 3. Infine, ma non da ultimo, mi rivolgo a voi sacerdoti che ho voluto accanto a me qui a Barbiana. Vedo tra voi preti anziani, che avete condiviso con don Lorenzo Milani gli anni del seminario o il ministero in luoghi qui vicini; e anche preti giovani, che rappresentano il futuro del clero fiorentino e italiano. Alcuni di voi siete dunque testimoni dell’avventura umana e sacerdotale di don Lorenzo, altri ne siete eredi. A tutti voglio ricordare che la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. La dimensione sacerdotale è la radice di tutto quello che ha fatto. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore e che nel ministero sacerdotale trova la forma piena e compiuta per il giovane convertito. Sono note le parole della sua guida spirituale, don Raffaele Bensi, al quale hanno attinto in quegli anni le figure più alte del cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso, sotto il paterno ministero del venerabile Cardinale Elia Dalla Costa. Così ha detto don Bensi: «Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire» (Nazzareno Fabbretti, “Intervista a Mons. Raffaele Bensi”, Domenica del Corriere, 27 giugno 1971). Essere prete come il modo in cui vivere l’Assoluto. Diceva sua madre Alice: «Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale». Senza questa sete di Assoluto si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri, capaci di diventare servitori di Cristo nei fratelli. Cari preti, con la grazia di Dio, cerchiamo di essere uomini di fede, una fede schietta, non annacquata; e uomini di carità, carità pastorale verso tutti coloro che il Signore ci affida come fratelli e figli. Don Lorenzo ci insegna anche a voler bene alla Chiesa, come le volle bene lui, con la schiettezza e la verità che possono creare anche tensioni, ma mai fratture, abbandoni. Amiamo la Chiesa, cari confratelli, e facciamola amare, mostrandola come madre premurosa di tutti, soprattutto dei più poveri e fragili, sia nella vita sociale sia in quella personale e religiosa. La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità. 4. Prima di concludere, non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: «Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato...». Dal Card. Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani - non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco -, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il

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Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa. Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: «Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui... quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio... Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto. Per esempio il suo profondo equilibrio fra durezza e carità» (Nazareno Fabbretti, “Incontro con la madre del parroco di Barbiana a tre anni dalla sua morte”, Il Resto del Carlino, Bologna, 8 luglio 1970). Il prete «trasparente e duro come un diamante» continua a trasmettere la luce di Dio sul cammino della Chiesa. Prendete la fiaccola e portatela avanti! Grazie. [Ave Maria e Benedizione] Grazie tante di nuovo! Pregate per me, non dimenticatevi. Che anche io prenda l’esempio di questo bravo prete! Grazie della vostra presenza. Che il Signore vi benedica. E voi sacerdoti, tutti - perché non c’è pensione nel sacerdozio! -, tutti, avanti e con coraggio! Grazie. AVVENIRE Pag 1 Padroni di niente di Maurizio Patriciello La libera obbedienza del prete «Chi ha poca carità vede pochi poveri, chi ha molta carità vede molti poveri, chi ha nessuna carità non vede nessun povero». Papa Francesco, a Bozzolo, dall’altare dove il 5 aprile del 1959 don Primo Mazzolari, colpito da malore si accasciava durante la Messa, rilancia alla Chiesa la figura, la lezione, gli insegnamenti, lo stile di questo umile, grande e vero prete lombardo. La Chiesa, popolo di Dio, corpo di Cristo, ospedale da campo dell’umanità ferita, cammina nel mondo e con il mondo, per donare al mondo il Vangelo. A volte avanza con passo più lento e riflessivo, altre volte corre, altre volte ancora vola. E quando si è in cammino, occorre conoscere la strada, evitare le trappole, scegliere i sentieri meno scoscesi. Occorre provvedere agli anziani, ai malati, ai bambini. Loro vanno messi al centro della carovana, per essere meglio sorvegliati, accuditi, tutelati. È l’originale logica del Vangelo: gli ultimi saranno i primi, le prostitute ci precederanno nel Regno dei cieli, ai poveri è annunciato il Regno, chi si esalta sarà umiliato. La Chiesa ha bisogno di pionieri coraggiosi che, noncuranti del pericolo, si offrono di andare in avanscoperta. Esploratori che rischiano la vita perché più speditamente i fratelli giungano alla meta. Guerrieri valorosi che mettano in conto il rischio di cadere sotto i colpi del nemico. La Chiesa ha bisogno di profeti. Don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani sono stati profeti, vedevano lontano. E per questo, non poche volte, hanno dovuto bere il calice amaro dell’incomprensione da parte della stessa Chiesa. Paolo VI, ricevendo, in Vaticano, pochi anni dopo la sua morte, la sorella di don Primo, Giuseppina, ebbe a dire: «Suo fratello ha sofferto e ci ha fatto soffrire. La colpa non fu di nessuno. Lui correva troppo e noi si arrancava a stargli dietro ». I profeti sono fatti così. Severi e misericordiosi. Aspri eppure dolcissimi. Sanno di correre troppo, ma non ne possono fare a meno. Lo Spirito, che soffia dove vuole e su chi vuole, li spinge oltre i confini che la pigrizia umana, le consuetudini, le abitudini, le paure, hanno da sempre eretto a difesa di qualche privilegio che si nasconde ovunque. Non è facile rinunciare a qualche beneficio, a qualche comodità, a qualche posizione acquisita, a qualche inutile timore, fosse anche nell’ordine spirituale. Non è facile uscire dalle proprie sicurezze per rimettersi in discussione. Quante battaglie dovrà combattere un cristiano? «Quante volte, Signore, dovrò perdonare mio fratello?». A Barbiana, il Papa rivolto ai sacerdoti anziani ha ricordato: «Non c’è pensione per il sacerdote». Non c’è mai un momento in cui puoi dire 'basta'. Un momento in cui puoi tirare i remi in barca. Duc in altum. Prendi il largo. «Signore, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso niente». Adesso siamo stanchi, vecchi, malati. Lasciaci stare, Signore. Invece, no, è proprio questo il momento di continuare a credere e sperare. Spes contra spem. Non faccio affidamento sulle mie forze, sui miei talenti, ma sullo Spirito che continua a soffiare dove e quando vuole. Don Primo, parroco d’Italia, oggi insegna a noi parroci il modo migliore per essere parroco. Don Lorenzo, prete d’Italia, ci indica la strada per rimanere nella pace sempre

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inquieta che la fede ci dona e la coscienza accoglie. Niente è nostro. Di niente siamo padroni. Gesù è innamorato degli uomini, sono suoi, sono stati comprati a prezzo del suo sangue. Vuole che nessuno di loro vada perduto, perciò ci chiede di essere aiutato a recuperare i lontani, a spezzare il pane con gli affamati, a sostenerli, quando, rosi dall’odio, dalla avarizia, dall’invidia, sperimentano lo svilimento della loro umanità. Gesù ci chiede di essere portato in tutti i luoghi dove gli uomini vivono, si affaticano, sudano, soffrono, muoiono. Gesù vuole andare a Barbiana, a Bozzolo, a Cicognara, vuole penetrare nelle «periferie» geografiche ed esistenziali dei suoi fratelli. E ci invita a seminare gioia, speranza, carità senza nulla pretendere. La ricompensa è Lui. Per vedere i poveri occorre mettere occhi e cuore insieme. Chi ha molta carità vede molti poveri. Certo, perché si accorge anche delle povertà più nascoste, quelle di cui ci vergogniamo, che non confesseremmo mai. Povero è chi non ha niente da mangiare e chi non riesce più a sperare. Povero è il giovane senza lavoro e il vecchio senza amore. Povero è chi è convinto che la guerra sia la soluzione ai problemi dell’ umanità, chi continua a pensare che il colore della pelle e il Paese dove si nasce siano discriminanti ed escludenti. Poveri sono i 'caporali' del nostro Meridione che trattano i braccianti come fossero bestie da soma. Poveri sono i fratelli, che muoiono sui gommoni in mare e coloro che in quel mare li hanno spinti. Povero è il ricco, che si affatica per continuare ad accumulare inutili ricchezze. Poveri sono i cristiani, quando si lasciano avvilire dalla paura dei poveri. Poveri siamo tutti, quando ci appropriamo del patrimonio donato agli uomini per farlo diventare nostro. Compreso il patrimonio della fede. Niente è nostro. La carità vede ciò che gli altri non vedono, non possono vedere, non vogliono vedere. Francesco a Bozzolo, citando Benedetto XVI, ha ricordato che «la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione ». «Mostra a un bambini delle noci – scrive sant’ Agostino – e ti correrà dietro». «Mi sono lasciato sedurre Signore da te», confessa il profeta. L’odio, la gelosia, l’invidia, l’egoismo, l’avarizia non attraggono, allontanano. A sedurre, condurre a sé, affascinare, è la bellezza, la bontà, la comprensione, la condivisione, la generosità. E l’altruismo. E l’amore. Non proseliti, allora, non nuovi schiavi mascherati, non soldati schierati, ma innamorati. Così ci vuole il Signore. «Io so in chi ho creduto» e so anche quanto gli uomini – tutti gli uomini, di tutti i luoghi, di tutti i tempi – siano preziosi ai suoi occhi. «Non dobbiamo massacrare le spalle della povera gente», ha detto Francesco attingendo dagli scritti del parroco di Bozzolo. Poi si è fermato, ha alzato gli occhi dai fogli, ha accennato a una delle sue stupende espressioni con le quali comunica meglio di mille parole, e, scandendo le parole, ha ripetuto: «Non dobbiamo massacrare le spalle della povera gente». La lezione è per noi preti italiani e per i nostri confratelli sparsi per il mondo. Gesù non ha mai messo pesanti fardelli sulle spalle dei suoi amici, ma li ha invitati a donare a lui i loro pesi, le loro angosce, le ansie e le sofferenze. Don Primo e don Lorenzo, due figli della Chiesa italiana, due preti fedeli alla dottrina, obbedienti alla Chiesa fino a farsi male ma senza rinunciare a quella parresia cui sono chiamati tutti i cristiani. Liberi della libertà dei figli di Dio. Chi ama è sempre un uomo libero. «Pregate per me – ha detto il Papa a Barbiana – perché anch’io prenda esempio da questo bravo prete». Alla scuola di Bozzolo e Barbiana, sotto la guida di Francesco, vogliamo andare a studiare noi preti italiani e stranieri. Possiamo tirare un respiro di sollievo, la strada tracciata da due millenni, viene oggi ulteriormente illuminata da due lampade. Facciamone tesoro. Pag 1 Vera scuola per tutti di Rosanna Virgili A lezione dal santo scolaro Sulla vetrata di una nicchia della chiesa di Barbiana, don Lorenzo volle un mosaico con un’immagine che poi decise di chiamare 'Il Santo Scolaro'. C’era solo un libro aperto davanti a un volto invisibile, perché celava i volti di tutti, bisognosi di imparare. E quando da ragazzi si arrivava lì, con l’eskimo o la camicia bianca dei liceali degli anni Settanta e Ottanta, si sentiva il fascino e il timore di un luogo di silenzio, dove si sarebbe potuto imparare, tuttavia, a «far baccano» nel mondo! A Barbiana, martedì 20 giugno 2017, il volto ideale di quello scolaro si è incarnato nella fisionomia dolce di papa Francesco. Egli l’ha detto alla fine, con un saluto fatto a braccio: «Pregate per me, perché anch’io possa imparare da questo bravo prete». Come Vescovo di Roma – egli ha tenuto a precisare – di essere salito sin lì non solo per dare risposta a una domanda

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antica, che don Lorenzo aveva fatto al suo Vescovo, ma per sciogliere un debito con la profezia, urgente e dissetante per una Chiesa che voglia essere «assetata di assoluto». Parlare ancora di «risarcimento » e anche di «legittimazione »; sentire la gioia di una ferita profonda che viene ancora sanata è giusto, ma non è l’essenziale di questa visita, davvero storica. Francesco ha citato quella lettera al Vescovo che don Lorenzo aveva scritto: «Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato». Piovanelli aveva già dato, per primo, una risposta, ma «oggi lo fa il Vescovo di Roma: ciò non cancella le amarezze, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita il Vangelo, i poveri, la Chiesa stessa». Dunque, è la Chiesa tutta che, con il Papa, esprime il suo bisogno di imparare da chi, un tempo, aveva giudicato ed emarginato e ricacciato nelle remote periferie del Mugello. Oggi 'periferia' appare la Chiesa e Barbiana il centro, il cuore di una Chiesa di Vangelo, i cui confini sono quelli della dignità umana, della radicalità «del bene, del vero, del bello», sempre secondo le parole di Francesco. Da lì il Papa riparte per parlare innanzitutto alla Chiesa; non per caso ha detto di aver convocato i preti – giovani e vecchi – chiedendogli di seguire «l’esempio» di quel priore. Un prete che, alla fine, aveva chiesto perdono per aver amato di più quei ragazzini, figli di boscaioli, del Signore stesso! La novità della visita di Francesco è questa: don Milani è presentato come un modello per i preti e per tutto il popolo di Dio. Un sacerdote duro come un diamante, contro la deriva di alcuni preti del suo tempo che «erano circondati di carte e d’incenso »; che denunciava la puerile omertà in una Chiesa in cui tutti avevano paura di parlare con schiettezza, vale a dire con la parresìa apostolica… Un prete non clericale, dunque, che dà lezione ai chierici di tutto il mondo. Una lezione che, oggi, la Chiesa dà agli educatori: un modello di scuola che renda dignità a ogni ragazzo, a cominciare dal più svantaggiato, da quello scartato. Che si impegni per strutturare un pensiero con la potenza delle parole: solo calato nella lingua – strumento di relazione – il pensiero diventa, infatti, libera coscienza. Non deve accadere che la scuola si riduca a un mero laboratorio per acquisire competenze. Una lezione di politica 'alta' quella che oggi la Chiesa istituzionale dà, dai suoi sommi vertici: quella di uscire alle periferie, di abbassarsi ad ascoltare le voci di una 'Galilea delle genti' da cui verrà la Parola. Lezione importante per tutti quelli che si occupano di politica, laici compresi. Una lezione di giustizia per chi fa della giustizia un potere di condanna, di diffamazione, di legittimazione della menzogna, come Lorenzo stesso patì, fino alla morte. Una lezione di come si faccia 'cultura', vale a dire di come ci si possa integrare e sviluppare insieme per la conoscenza e la carità; perché gli intellettuali siano nodi di consapevolezza e di dialogo, anelli tra mondi diversi e staccati, affinché la pace si diffonda come crollo dei muri e colla di riconciliazione. Stupenda è questa giornata in cui uno speciale Santo Scolaro, manda a scuola la Chiesa da uno 'scolaro santo', laico, europeo nel suo orizzonte culturale. Lorenzo era ancora un ragazzo quando, leggendo una pagina di un testo liturgico, scrisse che lo trovava più profondo e interessante di 'Sei personaggi in cerca d’autore'. Un pensiero intelligente, perché capace di stabilire confronti e rendersi conto che dentro un mondo chiuso, tutti son condannati a essere ottusi, conservatori o incendiari! La visione limpida di una necessità che pian piano portò Lorenzo verso quelle periferie, che gli aprirono il mondo e gli regalarono la sua stupenda vocazione di maestro e di prete. Non solo fatto crescere, dunque, ma «consacrato» dalle colline schive di Barbiana. Santo così, senza bisogno di miracoli, come ha detto il cardinal Bassetti. Francesco ha preso la fiaccola di don Milani e l’ha consegnata alla Chiesa: «Prendete la fiaccola e portatela avanti», ha invitato, rivolgendosi specialmente ai giovani. Oggi la Chiesa si fa discepola ubbidiente di quella «disubbidienza» che fu una virtù: la passione incondizionata per il Vangelo, per gli ultimi e per la Chiesa. Amore radicale, senza compromessi di sorta, da cui, come Gesù, anche Lorenzo «imparò l’ubbidienza da ciò che sofferse» (Lettera agli Ebrei 5,8). Ai cristiani la fiamma che brucia ogni sterile velleità devozionale per accendere la sete di umanità e di assoluto che bruciò l’anima e il corpo di don Lorenzo. Essa deve prendere la decisione di stimarla davvero, di volerla, di conoscerla, abbracciarla, portarla avanti, farla risplendere. Pag 21 Vangelo. La verità dei due messaggeri di Jean Zumstein Il discepolo prediletto e il Paraclito: testimoni e interpreti della buona novella

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Arriviamo, finalmente, ai messaggeri della memoria dei primi cristiani. Voglio affrontare questo argomento da un punto di vista particolare, non sociologico o storico, ma piuttosto da un punto di vista inconfondibilmente cristiano. Come vengono tematizzati i messaggeri della memoria nella letteratura del Nuovo Testamento? Tra le opere raccolte nel Nuovo Testamento avrei potuto citare le lettere di san Paolo, dove l’apostolo è il messaggero del Vangelo, insomma della memoria fondatrice del cristianesimo, non soltanto con le sue parole ma anche con il suo corpo. Avrei potuto ricordare l’atto ermeneutico di san Luca, che, nella seconda parte della sua opera, descrive i primi messaggeri della memoria nel cristianesimo nascente. Tuttavia ho scelto, come esempio, il quarto Vangelo per il modo originale con il quale fotografa i messaggeri della memoria storica di Gesù di Nazareth. A due figure viene affidato questo compito: il discepolo prediletto e il Paraclito. Ed è, naturalmente, questa dualità che, al tempo stesso, esamina e rivela un aspetto originale della memoria dei primi cristiani. Prima di tutto il discepolo prediletto. La figura appare soltanto nel quarto Vangelo. Il nome che porta, «colui che Gesù amava» ( hòn egàpa ho Iesoûs), rivela l’intimo rapporto di fiducia con Cristo. Questa intimità non è soltanto emotiva ma anche cognitiva. Due tratti caratterizzano il discepolo prediletto. Prima di tutto egli è il testimone par excellence (è collegato, infatti, al vocabolario della testimonianza ( martyría, martyreîn), dal momento che è presente in tre passaggi fondamentali del kerygma cristiano: l’ultima cena, la croce e la tomba vuota. In questo modo egli può testimoniare gli eventi chiave che hanno aiutato a dare vita alla memoria cristiana. Il narratore fa notare questo quando evoca il discepolo prediletto ai piedi della croce: «Colui che ha visto questo ha testimoniato e la sua testimonianza è vera» (19,35). Ma – e questo è il secondo aspetto – il discepolo prediletto non viene soltanto introdotto per la sua testimonianza fedele alla verità. Viene anche presentato come l’incomparabile interprete di Cristo. Lui solo, tra tutti i discepoli, ha capito, e, quindi, compreso pienamente l’importanza del discorso di Gesù e del suo destino. Davanti alla tomba vuota si dice di lui che «vide e credette» e, aggiunge il narratore, senza conoscere le Scritture annunciò la Resurrezione del suo maestro. Il suo ruolo, come testimone e interprete, è confermato nell’epilogo del Vangelo (capitolo 21), ma assume anche un’ulteriore dimensione, cruciale per la formazione della memoria dei primi cristiani. La dichiarazione del testimone e interprete è messa in evidenza nelle Scritture. Da questo punto di vista il narratore afferma che: «Questo è il discepolo che testimonia questi eventi e ne ha scritto e sappiamo che la sua testimonianza è vera» (21,24). Così, mentre il discepolo prediletto, quel portatore unico della memoria di Gesù, è morto, le Scritture – e qui, in particolare, il quarto Vangelo – hanno il sopravvento e diventano il veicolo per la memoria della storia fondatrice dei primi cristiani. Tuttavia, accanto al discepolo prediletto, appare anche un secondo messaggero di memoria. Ecco lo Spirito Santo, che si chiama il Paraclito, nel Discorso dell’Addio. Così, il ruolo di messaggero della memoria non viene ridotto all’opera di un solo discepolo anche se si tratta di un testimone e interprete esemplare. Al suo fianco c’è anche un agente divino – il Paraclito – il cui ruolo viene definito in cinque successivi passaggi che descrivono diversi aspetti della memoria dei primi cristiani. Mentre il primo passaggio sul Paraclito annuncia l’arrivo dello Spirito, che non è altro che il doppio di Gesù che fa seguito al suo passaggio, e che è destinato a rimanere tra i discepoli per sempre (14,16), la seconda frase afferma «ma il Paraclito, lo Spirito Santo, che il Padre vi manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto» (14,26). Quindi, ricordare la rivelazione di Gesù è il primo compito dello Spirito, in forma di insegnamento, ovvero una riproposta interpretativa del messaggio di Gesù. Il ruolo doppio di discepolo prediletto come testimone e interprete è, pertanto, assunto anche dal Paraclito. La quinta frase (16,12-14) mette in atto il capovolgimento del quale ho parlato in precedenza. Il testimone dello Spirito, messaggero di memoria dei primi cristiani, non vuole proiettare i credenti in un passato lontano e a imprigionarli per sempre in quell’epoca. Piuttosto la sua missione culmina nella sua capacità di aprire il futuro: «Quando egli, lo Spirito di verità, arriverà, vi guiderà alla piena verità – così –, dirà soltanto quello che ha ascoltato e vi racconterà quello che deve ancora accadere». Lo Spirito, messaggero della memoria di Cristo, non insegna, quindi, soltanto per preservare e capire la memoria fondatrice in senso stretto, ma anche e, al tempo stesso, per sapere come decodificare il futuro che si apre al credente. Come possiamo capire questa dualità tra la funzione del discepolo prediletto e quella del Paraclito? Come

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possiamo capire questo raddoppiarsi di agenti nel lavoro della memoria? Da un lato il valore normativo della testimonianza del discepolo compensa il pericolo di un’esplosione di memorie selvagge lasciate alla volontà arbitraria di coloro che sono ispirati. Dall’altro, l’arrivo del Paraclito ci ricorda che la rivelazione cristologica è un regalo duraturo, non una proprietà stretta nelle mani degli uomini. Inviando il Paraclito, la memoria assume una dimensione di rappresentazione – quello che è passato con Gesù di Nazareth continua nel presente della fede. La memoria dei primi cristiani non viene limitata a un lavoro di ricordi, nel senso classico della parola, ma quello che ci ricorda mantiene la sua rilevanza e la sua natura kerigmatica per il presente, e abita il futuro. La conclusione del Vangelo unisce due fili di narrazione. Le testimonianze del Paraclito e del discepolo prediletto trovano, entrambe, la loro espressione privilegiata nella nascita di una Scrittura: quella del quarto Vangelo. Abbiamo qui l’espressione privilegiata della memoria dei primi cristiani. Può essere conosciuta attraverso una Scrittura i cui elementi essenziali saranno più tardi raccolti insieme in quello che verrà chiamato il Nuovo Testamento. CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Il giallo delle dimissioni del revisore e il timore di un terzo Vatileaks di Massimo Franco Via in anticipo Milone. Gli attriti con l’Apsa. Le voci da Santa Marta: era l’uomo sbagliato «Inutile negarlo: è un momento delicato per il Papa. Non vogliamo precipitare in un terzo Vatileaks...». L’ammissione arriva da Casa Santa Marta, la residenza di Francesco dentro la Città del Vaticano. Proviene da una delle persone più addentro alle questioni finanziarie della Santa Sede. Ma non si tratta di una reazione a caldo. Le dimissioni di Libero Milone, primo revisore generale dei conti vaticani, date ieri al Papa e subito accettate, tingono di mistero i contorni della riforma delle finanze vaticane. Eppure non appaiono inaspettate a chi seguiva da mesi l’azione del braccio destro del cardinale George Pell, prefetto della Segreteria per l’Economia, nei meandri della Curia. Milone, 68 anni, tra l’altro ex presidente e amministratore delegato di Deloitte, una delle maggiori società mondiali di consulenza, se n’è andato con tre anni d’anticipo rispetto alla scadenza dell’incarico. «Di comune accordo», si precisa. Ma nel comunicato scarno col quale ieri pomeriggio è stato fatto sapere che Milone ha dato le dimissioni e «il Papa le ha accolte», non c’è nessuna spiegazione. E questo moltiplica le voci sulle vere ragioni di una rottura che in Vaticano qualcuno paragona a quella con Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, l’Istituto per le Opere di Religione, nel maggio del 2012. «Deve averla fatta grossa», azzarda un cardinale con grande dimestichezza con le questioni economiche. Sono state fatte filtrare dal Vaticano indiscrezioni secondo le quali proprio Milone, «controllore dei controllori», sarebbe incappato in una indagine interna. Ma è ancora troppo presto per capire dove stia la verità. Si è parlato perfino di dimissioni chieste in realtà direttamente dal Papa, e subito date da Milone. Si può solo registrare che fin dall’inizio l’attività del Revisore generale ha vissuto momenti a dir poco tormentati. Nell’ottobre del 2015, a pochi mesi dal suo insediamento, il manager si accorse che era stato violato il suo computer, nell’ufficio di via della Conciliazione. E da lì aveva preso il via il secondo Vatileaks, dopo quella di tre anni prima che aveva coinvolto il maggiordomo di Benedetto XVI, Paolo Gabriele: uno scandalo che può avere contribuito alla decisione papale di dimettersi nel febbraio del 2013. Il timore vaticano è che adesso possano uscire altre carte riservate; altre indiscrezioni che, ancora una volta, riguardano le attività finanziarie della Santa Sede; le spese e gli investimenti dei dicasteri; i rapporti tra la Curia e gli organi di controllo. E, naturalmente, la cerchia di Francesco. Per questo si ammette esplicitamente il timore di «un terzo Vatileaks». Milone aveva il compito di analizzare i bilanci e i conti. Quando si era insediato, nel maggio del 2015, la sua scelta, caldeggiata da Pell, fu considerata un altro passo in avanti in direzione della trasparenza. E nel 2016 aveva chiamato accanto una decina di persone e due revisori aggiunti, Ferruccio Panicco e Alessandro Cassinis Righini, per aiutarlo a decifrare i geroglifici dei bilanci vaticani. Ma i metodi del Prefetto e di Milone non hanno mai riscosso grande popolarità, dentro le Sacre mura. Quando a maggio il cardinale Pell e il revisore hanno scritto una lettera ai dicasteri contro due missive dell’Apsa, presieduta dal cardinale Domenico Calcagno, sulla documentazione finanziaria

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da trasmettere, la tensione è riemersa. E ieri si è arrivati all’ultimo atto. Milone si è ritrovato prima «pesato» e misurato, poi guardato con crescente diffidenza, e alla fine isolato: una traiettoria condivisa, si dice, con Pell, sebbene gli esiti finora siano diversi. «La preoccupazione è che adesso parta una guerra di verità e di dossier a colpi di carte riservate», spiega un esponente vaticano. «Esiste un accordo tacito a non divulgare nulla. Ma bisogna vedere come si svilupperà questa brutta vicenda». I precedenti danno i brividi. Hanno punteggiato la fase finale del papato di Benedetto XVI. E adesso scalfiscono per la seconda volta il profilo delle riforme finanziarie avviate da Francesco. La prima risale all’ottobre del 2015, quando la Gendarmeria vaticana arrestò due persone, accusate di avere sottratto delle carte riservate: monsignor Lucio Angel Vallejo Balda, segretario della Commissione di studio sulle attività economiche e amministrative (Cosea) e Francesca Immacolata Chaouqui, membro della stessa commissione. I processi e le condanne che ne sono seguiti, anche nei confronti di due giornalisti poi assolti, non hanno portato una buona pubblicità. Il caso di Milone promette di avere contraccolpi altrettanto negativi. «Ma il Papa ha preso atto, con coraggio, di avere scelto una persona sbagliata. Anche se Milone l’aveva scelto Pell», si spiega da Casa Santa Marta. «Francesco ha preferito assumersi la responsabilità anche di chi ha sbagliato in suo nome». Forse, è l’annuncio di una resa dei conti non conclusa. Rimane il mistero del modo in cui vengono decise le nomine apicali di esponenti laici quando si tratta di spulciare i bilanci vaticani. C’è qualcosa che non funziona. Ma nessuno sembra avere trovato ancora un rimedio. LA REPUBBLICA Pag 22 Il Papa su don Milani: “Un esempio per tutti”. Ma l’arcivescovo frena: “Per me non è un santo” di Paolo Rodari Si riaccende il dibattito sulla canonizzazione del prete fiorentino Barbiana. Se non è stato un mea culpa, poco ci è mancato. Le parole che Francesco ha dedicato ieri mattina, prima a Bozzolo poi a Barbiana, rispettivamente alla memoria dei due «preti scomodi » don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani hanno di fatto voluto restituire ai due sacerdoti quanto le gerarchie anni fa negarono loro. Criticato aspramente don Mazzolari all'inizio del Novecento per il suo pensiero innovativo su tematiche che poi il Concilio ha confermato - l'insistenza sulla "Chiesa dei poveri", sulla libertà religiosa, il pluralismo, il dialogo coi lontani -, esiliato don Milani nel 1954 per frizioni con la curia in una minuscola e sperduta frazione di montagna nel comune di Vicchio, in Mugello, entrambi hanno lasciato una «traccia luminosa, per quanto scomoda». Seguirla, ha detto il Papa, «ci avrebbe risparmiato sofferenze e umiliazioni». Attraverso «amarezze che non si devono dimenticare», ha scritto Gian Maria Vian sull'Osservatore Romano, Bergoglio ha invitato sacerdoti e laici «a meditare sulle radici, su un "clero non clericale" che ha riconosciuto e onorato in queste due figure esemplari». Quello che ha svolto ieri Francesco è stato un pellegrinaggio intimo, quasi privato. La sua preghiera solitaria sulle tombe dei due sacerdoti è stata voluta, desiderata. Fino all'ultimo c'era incertezza da parte del Vaticano se concedere o meno l'accesso ai giornalisti, poi accordato soltanto per pool ristrettissimi. Bergoglio, che da arcivescovo di Buenos Aires ha subìto anch'egli un certo ostracismo da parte di Roma, ha ricordato a Barbiana la sofferenza di don Milani che scrisse al suo vescovo per avere l'onore di «un qualsiasi atto solenne» altrimenti tutto il suo apostolato sarebbe apparso «come un fatto privato». I successivi pastori di Firenze, da Silvano Piovanelli in avanti, gli accordarono questo riconoscimento «ma oggi - ha detto Bergoglio - è il vescovo di Roma a farlo». Certo, «ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo». Furono soprattutto alcuni sacerdoti, a metà del Novecento, a spaccare in due la Chiesa fiorentina. Le esperienze di rinnovamento religioso portate avanti da Giorgio La Pira, e incardinate nella comunità dell'Isolotto prima da don Enzo Mazzi, padre Ernesto Balducci e Milani, successivamente da David Maria Turoldo e Giovanni Vannucci, divisero la comunità ecclesiale portando la curia ad arroccarsi su una posizione difensiva. Oggi molto è cambiato, seppure ancora ieri il «no» categorico espresso dal cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo della città, in merito a un possibile processo di canonizzazione di don Milani, rivelano che l'esegesi di quella stagione è ancora materia calda. Per don Milani

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non ci sarà alcun «processo canonico - ha detto il porporato in conferenza stampa - Assolutamente no, almeno fino a quando ci sarò io. Dopo non tocca a me dirlo... ma io non credo alla santità di don Lorenzo: qui non ci farò un santuario». La curia, in sostanza, non crede nelle «riabilitazioni postume ». Perché, ha detto ancora Betori, «don Milani non si è mai sentito escluso dalla Chiesa, ha sempre rivendicato di starci dentro». Don Lorenzo «non appartiene alla contestazione ecclesiastica, è stato utilizzato da questa, come don Mazzolari, ma non è mai stato in contrapposizione. E per questo non c'è niente da riparare. Nella Chiesa ci si sta, soffrendo ma anche godendo e oggi abbiamo goduto». Con toni diversi si era espresso quattro giorni fa, intervenendo su Tv2000, il neo presidente dei vescovi italiani, il cardinale Gualtiero Bassetti. «Per come l'ho conosciuto io - ha detto - don Lorenzo Milani è santo. E il santo non è colui che ha meno difetti di tutti o che moralmente ha il profilo più alto di tutti». Certo, ha ammesso Bassetti, «quella di don Lorenzo è una santità che sarebbe difficilmente canonizzabile secondo anche gli schemi che abbiamo oggi e poi forse non ce n' è bisogno. Non c'è bisogno che don Lorenzo faccia i miracoli perché la sua vita è stata un miracolo». LA STAMPA I preti ribelli che il Papa porta nel cuore di Enzo Bianchi Il vescovo di Roma che testifica la fedeltà al vangelo di due preti ai margini, così diversi tra loro e così capaci di parlare al cuore della chiesa: questo il senso del pellegrinaggio di papa Francesco sulle tombe di don Mazzolari e di don Milani. Convinto com'è che «i destini del mondo si maturano in periferia», Francesco ha voluto raccogliersi in preghiera silenziosa davanti alle due tombe di questi preti periferici: lunghi minuti in cui chiunque scrutasse il volto dell'anziano vescovo di Roma non poteva fare a meno di unirsi alla meditazione e al rendimento di grazie. Che poi la chiesa a suo tempo non abbia saputo ascoltare la profezia di questi suoi due figli è motivo di riflessione e di impegno per l'oggi della cristiani nel mondo. Non a caso papa Francesco, pur di fronte anche a persone avanti negli anni che conobbero il parroco di Bozzolo e il priore di Barbiana, ha dedicato particolare attenzione ai bambini e ai giovani preti presenti nel paese della bassa mantovana e sulle colline del Mugello, fino a lasciare come saluto finale della giornata un significativo: «Prendete la fiaccola e portatela avanti». A Bozzolo Francesco si è fatto a più riprese eco schietta delle parole di don Mazzolari, attenendosi con scrupolo al testo scritto - che ha confessato di voler leggere per intero nonostante gli fosse stato consigliato di abbreviarlo - così da citare testualmente frasi da omelie e scritti che quel parroco sapeva indirizzare a un pubblico vasto ed eterogeneo proprio perché nascevano pensando degli uditori ben precisi e noti, i suoi parrocchiani. Quell'invito al «buon senso», al «non massacrare le spalle della povera gente» - radicato nella parola di Gesù sui capi religiosi che caricano sugli altri fardelli che loro non spostano - è attualissimo ancora oggi in ogni pastorale che voglia conservare la freschezza del vangelo della misericordia, ma sgorga dalla sollecitudine di don Primo per il duro mestiere di vivere dei suoi parrocchiani, da quell'osservare e conoscere il fiume, le cascine, la pianura che attraversavano l'esistenza dei contadini durante e dopo la tragedia della guerra. Papa Giovanni aveva definito don Primo «la tromba profetica della Val Padana» e ora papa Francesco ne conferma tutta la profezia di «portaparola» del Signore. A Barbiana poi, il vescovo di Roma - come lui stesso si è esplicitamente definito - ha insistito sul ministero di educatore svolto da don Milani, per rimarcarne la dimensione pastorale: è come prete che don Lorenzo ha dato il meglio della sua passione educativa, del suo ardente desiderio di «risvegliare l'umano» in quel piccolo gregge di minimi che gli era stato affidato quasi come condanna e che diventerà negli anni - e ancor più dopo la sua morte - la sua corona di gloria. «Ridare ai poveri la parola», renderli consapevoli che «senza parola non c'è dignità né libertà giustizia» non era per don Milani un corollario del suo ministero presbiterale, era l'esplicitazione per volti e persone ben precise della sua vocazione pastorale, il frutto maturo della sua fede genuina, l'anelito di chi «si prende cura» delle persone a lui affidate. Al suo vescovo don Milani chiese invano solo di riconoscere solo questa sua fedeltà al vangelo: «Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato». E credo non ci sia nulla di più doloroso per un presbitero che il vedere la propria opera pastorale considerata come un fatto privato. Don Milani non era un prete generato dal concilio,

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dalla sua preparazione e dalla sua dinamica, bensì un prete ispirato solo dal vangelo, fattosi ultimo con gli ultimi e che ha pagato a caro prezzo le proprie posizioni e parole profetiche. C'è stato un lungo silenzio su don Milani fino alla vigilia di questa visita papale, anche perché scarsa è stata la condivisione del suo mondo persino da parte della chiesa cosiddetta conciliare e riformatrice: questa non sempre ha saputo vedere quella passione radicale per Gesù Cristo, gli ultimi e i poveri, che don Milani era riuscito a esprimere con la sua intera esistenza dedicata a loro. Eppure proprio questa radicalità di scelta è la causa della sua santità di prete. Papa Francesco ha compiuto una doppia visita «privata» che più pubblica ed ecclesiale non poteva essere: non per la dimensione ostentata di onori e folle, ma per il «gridare dai tetti» quel vangelo vissuto come seme nascosto nel terreno, quel far conoscere il respiro dilatato e il cuore largo di due preti che, ciascuno con i propri carismi, hanno saputo rendere conto del loro essere «innamorati di Gesù e del suo desiderio che tutti abbiano la salvezza». Questo, ha ricordato papa Francesco, è «servire il Vangelo, i poveri e la chiesa stessa». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Cari maturandi, attenti alla lingua di Ferdinando Camon Tutto quello che costruiamo poggia lì sopra Oggi cominciano gli esami di Maturità. Da che cosa si vede la maturità di uno studente? Dalla memoria? Dai calcoli? Dalla parlantina? Dalle formule? Dalle date? Sì, anche da questo, ma soprattutto dalla lingua. Dalla ricchezza, dalla precisione, dalla correttezza della lingua. La lingua dello studente maturo dev’essere chiara, senza intoppi, senza errori di ortografia, di grammatica o di sintassi. Chi ha una lingua inceppata da storture ortografiche o sintattiche non ha un pensiero limpido, non ragiona bene, non capisce con prontezza: se non padroneggia la lingua, non domina il pensiero e non si orienta nella realtà. Uno che dice o scrive «io credevo che tu eri» o «che tu sarai», non eredita l’espressione e la comunicazione dei secoli precedenti, non è in grado di continuarla, non può avere funzioni di dirigente nello spazio pubblico, non può diventare un capo, non può essere eletto al Parlamento, e non può fare il ministro. Può fare il dirigente di una società privata, questo sì. Nel privato si può premiare ad libitum. Abbiamo avuto un direttore generale di una società di telecomunicazioni che insediandosi ha pronunciato un discorso con cui prometteva che avrebbe portato i suoi dipendenti alla vittoria, «come ha fatto Napoleone con i suoi soldati a Waterloo, dove ha realizzato il suo capolavoro». Qualche mese dopo un giornale cercò di capire se per quell’errore squalificante al supremo direttore avevan decurtato lo stipendio. No, gliel’avevano aumentato. Però quel che succede nel privato, affari loro. Ma quel che succede nel pubblico, affari nostri. E si dà proprio il caso che abbiamo senatori che sbagliano i congiuntivi e i condizionali, usano gli uni al posto degli altri, o usano l’indicativo al posto di ambedue. Sentirli parlare è deprimente. Perché non sono errori della lingua, sono errori del pensiero. Saltando dal congiuntivo al condizionale o all’indicativo, saltano dall’ipotesi e dall’irrealtà alla realtà. Senza accorgersene. Il sospetto, non campato in aria, è che possano commettere lo stesso errore quando apprestano una legge, o decidono un voto, o varano una manovra. Posso esprimere un pensiero, che mi gira per la testa da cinque minuti e, se non lo batto al computer, non se ne va? Cesare conquistò la Gallia con operazioni militari, ingegneristiche e governative sapienti. Cesare scriveva bene. Ergo: Cesare conquistò la Gallia perché scriveva bene. Voglio dire: le qualità di stratega si combinavano in lui con le qualità scrittorie. I congiuntivi e i condizionali sbagliati vengono dal Senato, le 'traccie' con la 'i' son venute ieri da un qualche dirigente del Ministero dell’Istruzione. In una direttiva per i candidati alla Maturità. L’errore è apparso in rete, la rete s’è scatenata, l’errore è stato ritirato, ma intanto ci pone una domanda: se i maturandi scrivono così nel tema di maturità, vengono maturati o no? Avendo fatto, per una decina d’anni, il commissario agli esami di Maturità, mi permetto di dire che non boccerei un maturando per un errore di questo genere. Però un conto è un maturando, altro conto è un ministero. Più in su si va, più perfetta dev’essere la

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lingua che si usa. Avere padronanza della lingua significa spiegarsi bene, e capire bene quelli che ti parlano. È il requisito fondamentale per chiunque sia il capo di qualcosa, dal capo di una famiglia al capo dello Stato. All’esame di Maturità è questo che vien fuori: se il maturando sa esprimersi, dunque se sa ragionare, se ha idee in testa e se sa trasmetterle. Dopo, nella vita, non farà altro che affrontare prove come questa. Il maturando crede che la Maturità sia l’ultimo spauracchio della vita. Invece è il primo. Tutte le tappe della vita saran così. Se, una volta diplomato, cercherà un lavoro, è questo che gli serve: andare all’incontro e far capire che ha un mondo dentro di sé, un mondo ordinato, senza confusione tra ipotesi e realtà. La lingua costituisce le nostre fondamenta. Tutto quello che costruiamo, poggia lì sopra. Pag 3 Libri rari e fuori catalogo, un’occasione per l’editoria di Giuliano Vigini Cultura e nuove tecnologie, i limiti da superare. Cosa ostacola il sogno di una biblioteca “on demand” Della scarsa reperibilità o indisponibilità dei libri correnti – un fenomeno non nuovo, come più volte si è rilevato anche su queste pagine – si lamentava già sant’Agostino, che nelle sue Confessioni ( VI,11,18) annotava: «Per leggere non c’è tempo. Gli stessi libri, dove cercarli? Come o quando procurarceli? Da chi farseli prestare?». Soltanto che oggi, nonostante i progressi sul piano distributivo e tecnologico, il fenomeno si è notevolmente aggravato, così che gran parte di quei 225 titoli (tra novità, nuove edizioni e ristampe) che ogni giorno escono in Italia è come se restassero dei fantasmi, perché non si materializzano nei normali canali di vendita o perché comunque escono troppo presto di scena e non vi fanno più ritorno. Il problema che qui si vuole sollevare riguarda proprio quei titoli o quelle edizioni importanti, che per un motivo o per l’altro imboccano, dopo poco tempo, il viale del tramonto. Passando gli anni, anche i libri nuovi diventano vecchi e, travolti dall’oblio in cui cadono spesso anche le cose buone, li si relega nell’enorme magazzino degli introvabili, di cui gli stessi editori perdono memoria e che nessuno pensa più a ristampare. Ci sono saggi, anche di pochi decenni fa – come segnala Roberto Righetto proprio su queste pagine – che hanno segnato un’epoca, un settore, un’area disciplinare, diventando a loro modo dei classici, che si vorrebbe in qualche modo poter ritrovare e che meriterebbero di essere conosciuti anche dai giovani d’oggi. Naturalmente, non si vuol dire con questo che molti saggi di particolare interesse non siano stati ristampati: basti pensare a tutte le collane di 'Reprint' in circolazione, dove anche in campo cattolico – con riferimento soprattutto all’area biblica e teologico-spirituale con Jaca Book, EDB o San Paolo – ci si è fatti un merito a rendere nuovamente disponibili parecchi testi di valore. Il fatto è che ciascuno ha i propri desiderata e la lista degli introvabili da ristampare sarebbe quindi molto lunga. Quando si scende poi agli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, i buchi da colmare sarebbero enormi. Non conviene? Costa più di quello che si ricava? Non vale la pena? Uno ingenuo si potrebbe domandare: ma la stampa digitale, che consente di stampare libri su richiesta e su 'misura', in un numero molto limitato di copie, a che cosa serve? Supponiamo che si voglia stampare, in 100 copie, un libro di 192 pagine in formato 13x21: non dovrebbe costare all’editore più di 400-500 euro. E gli e-book o i file di e-book da scaricare da una piattaforma, con i tanti strumenti di lettura oggi a disposizione (personal computer, lettori, tablet, iPad, smartphone), non potrebbero essere un’altra strada da battere, anche per il pregresso, visto che sono costi abbordabili? Certo, qualcuno mi potrebbe rispondere, su quest’ultimo punto, che il mercato digitale non cresce come ci si aspettava alcuni anni fa, sull’onda di un’euforia evidentemente eccessiva. Oggi la penetrazione degli e-book è ancora poco diffusa, in quanto supera raramente in Italia il 5% del mercato del libro, pur aumentando il numero dei titoli digitalizzati: il solo Gruppo Mondadori Libri, incluso il catalogo digitale di Rizzoli Libri, ha ormai toccato quota 17.000. Non sappiamo se, con il nuovo regime unificato dell’IVA al 4%, questa riduzione servirà anche a far aumentare significativamente la quantità dei titoli e il mercato del libro digitale. Tuttavia, pur essendo sostanzialmente fermo dopo la crescita dei primi anni e, al momento, restando tutto sommato un mercato di nicchia – stabile ma statico – il digitale resta pur sempre una grande opportunità, anche per queste operazioni di recupero di libri da tempo fuori catalogo. I n questo contesto, il problema dell’irreperibilità dei libri è talvolta particolarmente grave per la narrativa, la poesia e il

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teatro. Anche a limitarci all’editoria cattolica, ci sarebbe molto da recuperare nel vasto campionario di quelle proposte editoriali che hanno fatto la storia della letteratura cristiana del nostro tempo. Penso a collane come 'Il mosaico' (1954) della casa editrice Massimo, con autori di successo del calibro di Cesbron, Marshall, Gertrud von Le Fort, Mauriac e tanti altri; alla lunga serie di 'Maestri' e 'Capolavori' della San Paolo; alle 'Guglie' e a 'Il grappolo' dell’Istituto di propaganda libraria... Ci sono opere come La donna povera o Il disperato di Léon Bloy (di cui ricorrono a novembre i 100 anni dalla morte e sul quale si terrà alla Sorbona un importante convegno internazionale) che non sono più in circolazione da quarant’anni, o Eva di Péguy, pubblicata da Città Armoniosa nel 1991. Si potrebbero facilmente recuperare almeno cinquanta titoli di letteratura di alto livello, ossia di quegli autori amati da scrittori e intellettuali, dagli anni Trenta agli anni Sessanta, dei quali ebbe a dirmi una volta Vittorio Giuntella, lo storico dell’età dell’Illuminismo: «Vivevamo di loro. Cercavamo i loro libri come il pane. In tempi di asservimento, sofferenze e solitudine, abbiamo resistito per merito loro». La proposta – anche su pre-ordinazione di associazioni, gruppi, biblioteche ecclesiastiche e non – potrebbe essere quella di costituire, in tiratura limitata in stampa digitale, una 'Biblioteca' selezionata di questi titoli, ossia che qualche editore, istituzione o giornale sia interessato a pubblicare le opere giudicate più significative per un largo pubblico, ma potrebbe essere anche un’iniziativa editoriale e promozionale comune degli editori e dei librai cattolici (Uelci). Un accordo sui diritti o una licenza non dovrebbero costituire un ostacolo; semmai potrebbe esserci in alcuni casi qualche problema di traduzione non adeguata e quindi da rifare. Ma potrebbe essere percorribile anche la strada del web, anche se in genere meno frequentata dal pubblico cattolico. Tale 'Biblioteca' sarebbe utile sotto vari aspetti e per destinatari diversi, anche come nucleo letterario di una costituenda biblioteca parrocchiale, capace di proporre organicamente i fondamenti della fede e dell’umanesimo cristiano. Ma forse oggi, non tanto per scarsa convenienza economica, quanto per ritardo culturale e mancanza d’iniziativa, certe proposte sono destinate a rimanere nel libro dei sogni. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 17 Regione, religiosi e gruppo Pederzoli per il San Camillo di Francesco Furlan Sfida a tre per l'acquisto dell'ospedale messo in vendita. In pole position la cordata messa in piedi da don Pistolato Ci sono tre scenari nel futuro dell'ospedale San Camillo e la casa di riposo Stella Maris del Lido, messi in vendita dalla Fondazione dei padri camilliani, da tempo in cerca di acquirenti. La sfida a tre chiama in causa la Regione, una cordata costituita da alcuni istituti religiosi e una società finanziaria, e il gruppo Pederzoli di Verona. L'ipotesi della Regione. E' stata la prima a farsi avanti, poi si è defilata. Oggi, fonti vicine alla trattativa, la definiscono «un'ipotesi dormiente». La trattativa con la Regione risale ancora allo scorso anno quando il segretario generale della Sanità veneta, Domenico Mantoan, chiede a Giuseppe Dal Ben di preparare un dossier per valutare l'acquisto dell'ospedale di proprietà dei padri camilliani. Una trattativa arenatasi anche per i dubbi rispetto all'uso che la Regione vorrebbe fare della struttura del Lido. L'ipotesi circolata prevedeva infatti lo spostamento del polo riabilitativo dalla struttura del Lido all'ospedale di Noale sollevando le perplessità dei Comuni di Venezia e Chioggia, oltre che dei sindacati per le gravi ricadute sul piano dell'occupazione. L'interessamento della Regione all'acquisto sembra quindi scemato, almeno per il momento. La cordata di Pistolato. La seconda ipotesi in campo, al momento la più accreditata, è quella a cui sta lavorando da tempo don Dino Pistolato, nel ruolo di responsabile della pastorale della Salute del patriarcato. In questi giorni don Pistolato è impegnato nella definizione del piano industriale, con il coinvolgimento di una società finanziaria e alcuni istituti religiosi, tra i quali potrebbe esserci anche la Fondazione Opera immacolata concezione (Oic) di Padova, pronti a costituire una nuova società per sub-entrare nella gestione dell'ospedale e della casa di riposo, rimandando l'acquisto di un paio d'anni. Una

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gestione che porterebbe in dote anche un investimento di alcuni milioni di euro per la sistemazione delle due strutture. «Stiamo definendo il piano industriale», si limita a dire don Pistolato, «e la trattativa sta procedendo in modo positivo. L'obiettivo resta quello di sempre: che la gestione del San Camillo rimanga nell'orbita degli istituti religiosi». Proprio nelle prossime ore l'ipotesi sarà all'attenzione della Pontificia commissione per le attività del Settore sanitario, commissione voluta da Papa Francesco per aiutare e sostenere le strutture sanitarie ecclesiali - molte delle quali sono in difficoltà - con l'obiettivo di farle rimanere nel perimetro ecclesiale. I componenti della commissione sono stati designati nel gennaio del 2016 dal segretario di Stato, Pietro Parolin. Con l'obiettivo, spiegò lo stesso segretario di Stato in una nota, di una «più efficace gestione delle attività e per la conservazione dei beni mantenendo e promuovendo il carisma dei fondatori».Il re delle cliniche private. La terza ipotesi in campo riguarda l'acquisto dell'ospedale e della casa di riposo da parte del re delle cliniche private, Giuseppe Puntin, l'amministratore delegato della Pederzoli, con ospedali e case di riposo a Verona e a Rovigo. Negli ultimi anni il gruppo ha integrato nelle sue strutture la residenza assistita e l'ospedalizzazione, quindi la struttura del Lido rientra tra i possibili interessi del gruppo. Alcuni contatti ci sono già stati, ma molto dipenderà dall'esito della trattativa con la cordata messa insieme da don Dino Pistolato. Da Verona nessun commento ufficiale. I lavoratori. Resta il timore dei dipendenti e delle organizzazioni sindacali, da tempo mobilitati, per chiedere chiarezza e garanzie sulla cessione, e soprattutto sul mantenimento dei posti di lavoro. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I La grande bellezza di Stefano Babato Reyer, storico scudetto E’ scudettoooooo! La Reyer è campione d’Italia. Una frase che fa venire i brividi e che rimarrà per sempre nei cuori dei tifosi orogranata. Una frase stampata nell'albo d'oro dello sport più bello del mondo. Gara6 finisce in un delirio assoluto, nell'apoteosi più totale con Filloy seduto sul canestro e con sotto giocatori, tifosi, tecnici e dirigenti ad aspettare che il chirurgo della Reyer tagliasse la fatidica retina che rappresenta da sempre l'inequivocabile segno del trionfo. Sopra la Reyer non c'è nessuno. Finalmente nessuno! Qualcosa di nemmeno lontanamente immaginabile ad inizio stagione. Ma è tutto vero, è tutto meravigliosamente vero con il popolo orogranata che vivrà la sua notte più lunga in un delirio di emozioni con gli occhi lucidi, con la mente che ripercorrerà un amore che parte da lontano e che ieri sera ha fatto scoppiare il cuore di tutti in una centrifuga di bellezza, di pura bellezza come solo lo sport pulito e leale sa mostrare. E questa Reyer di bellezza ne ha mostrata davvero tanta in una stagione che nessun aggettivo di questo mondo potrà mai descrivere. L'ha fatto superando momenti difficili, in cui le critiche (comprese le nostre) fioccavano. L'ha fatto ricompattandosi nel momento più duro e difficile quando tutto sembrava remare contro: quei secondi venti minuti contro Pistoia in regular season che hanno rappresentato come ha detto spesso De Raffaele la vera svolta della stagione. E ora la Reyer è passata alla cassa prendendosi tutto, veramente tutto e di più ma soprattutto rispondendo alle critiche con i fatti. Forse molto più dei fatti! Gara6 è stata una partita pazzesca, come gara5, giocata sul filo dei nervi con le energie che via via sono venute meno e con la Reyer che per l'ennesima volta ha gettato il cuore oltre l'ostacolo. LA PARTITA - Trento mostra subito grande reattività a rimbalzo conquistandosi in attacco più di una seconda occasione, specialmente con Hogue che fa male alla Reyer da sotto. In compenso la squadra di Buscaglia tira male da fuori permettendo alla Reyer di ripartire in transizione non sempre però conclusa nel migliore dei modi. Ma gli orogranata trovano nel primo quarto un grande Eijm che colpisce sistematicamente dalla linea dei 3 punti portando la Reyer avanti di 5 al 5' (6-11). Gli adattamenti sistematici ordinati da De Raffaele funzionano piuttosto bene grazie soprattutto al gran lavoro di

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Bramos e Stone che difendono per 3. Una bomba di Gomes riporta il match in equilibrio al 10' (17-17). Si torna in campo con Batista che in post basso abusa di Lechtaler segnando e subendo fallo. Craft si mette in partita colpendo dall'angolo imitato 30 secondi dopo da Forray con De Raffaele che chiama subito time out per riordinare le idee (23-20 al 12'), con scarsi risultati a giudicare dalla seguente rimessa dal fondo intercettata da Forray per due punti facili. La Reyer non segna più e Sutton la punisce ancora da 3 portando Trento sul 31 a 20 al 15'. E' Ress a fermare l'emorragia con una bomba e il resto lo fa Haynes che segna 5 punti consecutivi (33-28 al 16'). Ci pensa poi Stone a ridurre ulteriormente il divario prima con una bella penetrazione e poi con un tiro aperto da 3. Si va al riposo lungo con Trento avanti di 1 (36-35). DOPO LA SOSTA - Si riparte con Stone che assesta una stoppata a Sutton e con Filloy che porta in vantaggio la Reyer prima con un sottomano e poi con una bomba (36-40 al 22'). Peccato che in attacco la Reyer sbagli qualcosa di troppo al tiro con Bramos e Filloy ma i padroni di casa non ne approfittano. Filloy si riscatta subito imitato subito dopo da Bramos che si scatena dalla linea dei tre punti con la Reyer che fugge sul 42 a 54 al 28', con Trento che subisce il colpo. Flaccadori interrompe finalmente il digiuno trentino con l'inerzia che passa dalla parte dei padroni di casa che chiudono il terzo quarto sotto solo di 5 punti (51-56). Eijm apre l'ultimo periodo con una magia da sotto e McGee sgancia subito dopo la bomba del più 10 (51-61) ma Trento ha sette vite riavvicinandosi con Hogue e Sutton. MANO CALDA - Haynes però si incendia mettendo una tripla pazzesca e poi segnando in penetrazione (56-66 al 34'). Peccato che a questo punto la Reyer si blocchi con De Raffaele che rispedisce in campo Filloy e le cose migliorano immediatamente con Stone che è ovunque in campo. Peccato che Eijm commetta il suo quinto fallo uscendo dal match seguito subito dopo da Stone: due mazzate per la Reyer che fatica enormemente a trovare spazi in attacco con Trento che ne approfitta attaccando in transizione il ferro orogranata (67-71 al 38') con estrema facilità. La Reyer si aggrappa solo o quasi ai liberi e la mano è glaciale. Haynes però si incarta in attacco e a 9 secondi dalla sirena Trento è a meno 1 (78-79). Lo stesso Haynes va in lunetta a 7 secondi dalla sirena e li mette. Flaccadori e Sutton sbagliano le triple del possibile pareggio e a questo punto è scudetto! Pag I L’identità di una città di Davide Scalzotto Chi l’avrebbe mai detto, 10 anni fa: una squadra di calcio impelagata ai confini col dilettantismo a sfidare il Pizzighettone. E una squadra di basket a giocare a Piove di Sacco, non certo in Champions. Oggi, invece, con lo scudetto storico della Reyer e la promozione in B del Venezia, c'è una città che cementa la propria voglia di rinascita nello sport, un'area metropolitana che cerca simboli attorno ai quali trovare la propria identità, magari scontrandosi con coloro che, fieramente orgogliosi della gloria del leone lagunare, guardano di sguincio la venezianità d'oltre ponte. Venezia e Reyer hanno fatto di più che riaccendere la passione sportiva. Hanno tracciato due modelli di rinascita. E in questo sono un esempio. Organizzazione, programmazione, la capacità di trasformare gli errori in opportunità. Lo scudetto della Reyer è lo scudetto a un certo modo di intendere lo sport, dà il senso dell'impresa. Attitudine che, quando c'è, diventa un moltiplicatore di energia e successi. La società ha saputo creare una struttura, un sentimento identitario, fin da quando ha iniziato a mandare a proprie spese un pullman a piazzale Roma per portare i tifosi al Taliercio. Questo è lo scudetto non solo della prima squadra: c'è la squadra femminile, c'è il vivaio, c'è la galassia Reyer, c'è il tifo, unito al palasport al di là che abbia votato e meno Brugnaro. Brugnaro, appunto. L'accoppiata vincente presidente-uomo politico è riuscita solo a Silvio Berlusconi. Entrambi nello sport e nell'impresa hanno trovato terreno fertile per il loro consenso. E hanno cercato di esportare il loro modello di successo in politica. Esportazione non facile e soprattutto piena di insidie, perché se in un'azienda o in una società sportiva il fasso tuto mi può funzionare, in politica - ahi loro - è diverso e più complicato. Brugnaro vede il nuovo palasport da diecimila posti ai Pili, sui propri terreni. E per cercare di mettersi al riparo da rischi e conflitti di interesse, ha annunciato un blind trust, in modo da non averne

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vantaggi. L'importante è che quel palasport si faccia, dice. Su questo si sono scatenati gli avversari politici. Tuttavia il pericolo del conflitto d'interessi tra il Brugnaro imprenditore e il Brugnaro politico è sempre stato alla luce del sole. L'intreccio era inevitabile e visibile fin dal giorno della candidatura, non lo si è certo scoperto dopo l'elezione a sindaco. Brugnaro lo sa. E sa quali sono le regole: sta a lui. Del resto, per contro, per troppi anni questa città ha vissuto conflitti di disinteresse, con ambiziosi progetti abortiti e soldi buttati. Qualcuno ci ha sempre guadagnato, la città alla fine ci ha perso. Ora qualche segnale che possa guadagnarci anche Venezia c'è: i progetti sul Lido, quelli del polo di Marghera per citarne un paio. E poi c'è lo sport, veicolo potentissimo di promozione urbana, del brand Venezia. Brugnaro e Tacopina vanno a braccetto, sono fatti della stessa pasta. Non hanno mai mollato da quando hanno rilevato le rispettive società, non mollano ora che vedono stadio e palasport come simboli di un nuovo salto: della città tutta, come sistema. Le parabole di Siena e Treviso nel basket ammoniscono che i pericoli sono dietro l'angolo, ma a Treviso sanno bene cosa vuol dire far crescere una città con lo sport. Adesso tocca a Venezia. CORRIERE DEL VENETO Pag 15 Estasi Reyer, Venezia campione! di Daniele Rea e Matteo Valente PalaTrento sbancato: l’Umana volta con Filloy, Stone e Haynes e dopo 74 anni incassa il terzo scudetto della sua storia Trento. E’ lo scudetto di Costantino Reyer e di Pietro Gallo. E’ lo scudetto delle Misericordia, dell’Arsenale e della rinascita al Taliercio. E’ lo scudetto dei pionieri, perché il basket in Italia è nato qui, signori, a Venezia. E’ lo scudetto della grande Reyer di Haywood e Dalipagic e di chi l’ha fatta ripartire dalla serie C dopo il fallimento del 1996. E’ lo scudetto di Luigi Brugnaro e di Federico Casarin, che undici anni fa sono partiti dalla B1 con la convinzione che, prima o poi, sarebbe successo. La Reyer ha vinto il suo terzo scudetto, la Reyer è campione d’Italia: la Reyer lo ha vinto al PalaTrento al termine di una battaglia incredibile in gara 6, senza paura e senza farsi prendere dall’angoscia. La Reyer di Walter De Raffaele è campione d’Italia e ci riesce al sesto campionato in serie A dal rientro nel grande basket. Onore a Trento ma solo applausi per questa squadra e questo staff. La partita. Alla palla a due Buscaglia rinuncia al doppio play e parte con Sutton, De Raffaele ripropone lo starting five visto in gara 5 domenica. La Reyer però non si fa vedere molle e indecisa come in gara 4 e va subito sul 2-5 con la tripla di Peric, poi il rientro trentino grazie anche i due liberi di Hogue. Si vede sul parquet una Reyer decisa e con gli occhi giusti, anche in difesa il quintetto piccolo con Peric da 5 funziona e per due volte Trento non riesce a chiudere l’azione entro i 24”. È ancora Ejim dall’arco va per il 6-11 orogranata. Ma il play bonsai Hogue resta un problema irrisolto anche nella sesta partita per la Reyer ed è lui con due azioni di forza sotto il ferro a tenere in asse l’Aquila. I primi dieci minuti si chiudono sul 17 pari con i cesti di Batista e Beto. Il secondo quarto si avvia con una Reyer troppo poco attenta: due banali palle perse dopo il 2+1 di Batista che dispensa lezioni gratis a Lechthaler provocano due triple marchiate Craft-Forray e Trento va avanti 23-20 dopo un’eternità a inseguire e prosegue il break 14-0 fino al 31-20 con due triple del redivivo Sutton che costringe De Raffaele a chiamare time out. Le triple non entrano più, le palle vaganti sono tutte preda della Dolomiti Energia e nemmeno il «fattore C» porge una mano agli orogranata fino alla tripla piazzata di Tomas Ress dalla sua mattonella per il 31-23. Poi 5 punti filati di Haynes e una stoppata micidiale di Ejim che polverizza il tentativo di Shields portano il match sul 33-28. A un minuto dalla fine una bomba di Stone segna il 34-33 seguito dal canestro di Filloy per il nuovo sorpasso reyerino con un devastante parziale di 12-1. All’intervallo lungo è 36-35 con un dato di 21 rimbalzi a 19 per Trento e 9 liberi concessi a uno è un 40% dalla lunga per Venezia che è un lusso rispetto alle medie viste fin qui. Pesantissimo l’impatto di un Ejim da 11 punti, 4 carambole e 17 di valutazione, pareggiati da un Hogue davvero imperioso sotto i tabelloni. E parte fortissimo la Reyer in difesa con uno Stone indemoniato e un Ress che mette in campo tutto quello che gli è rimasto nel fisico: 5 punti di Filloy, tripla del lungo di Salorno e sulla testa di Trento grandinano cattive notizie: 38-43. Trento sembra aver finito un po’ il carburante, la squadra di Buscaglia gioca molto sugli stimoli nervosi ma becca un 25-9 di parziale in meno di dieci minuti. Un parziale che si allunga fino al 42-54 con tre bombe di Filloy e

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Bramos (double per il greco). Con la forza di chi ha le spalle al muro Trento rientra sul 47-54, soprattutto grazie ai tiri dalla lunetta che restano invece un miraggio per la Reyer. Ma tant’è, il terzo quarto si chiude 51-56 con due liberi di Forray. L’ultimo parziale si apre con due punti di Ejim ma ci pensano poi McGee e Haynes a riportare la Reyer avanti 54-66. Ma a suon di liberi uno in fila all’altro Trento rientra fino al 61-66 con Sutton dalla linea della carità. A 180 secondi dalla fine è 63-71 ma Ejim e Stone devono lasciare il campo per cinque falli. E due canestri consecutivi di Hogue, frutto di attacchi poco lucidi della Reyer, portano la Dolomiti a -4 (67-71) con due minuti e mezzo da cardiopalma. A 9’52” Venezia è avanti di uno, 78-79 palla in mano in attacco. Ma sono i liberi di Haynes a dare il 78-81 finale con il tentativo disperato di Flaccadori che finisce corta sul primo ferro. Ed è festa, il sogno è realtà: la Reyer è campione d’Italia. Trento. È la notte che tutti i tifosi sognavano. Le lacrime, gli abbracci, la gioia in campo e sugli spalti è il simbolo più vero e concreto dell’impresa compiuta dai ragazzi di coach Walter De Raffaele. Il tecnico livornese, alla prima esperienza da capo allenatore, si va a prendere uno scudetto meritato per l’umiltà e la concretezza che ha saputo trasmettere a un gruppo meraviglioso. Una notte che nessun veneziano potrà sicuramente dimenticare, specialmente i cento tifosi del settore ospiti e i tanti supporters arrivati al PalaTrento per vivere la decisiva gara6. Ma soprattutto è la notte del coronamento del progetto del patron Brugnaro, in lacrime al suono della sirena, stretto nell’abbraccio della moglie e dei collaboratori più vicini, a partire dal presidente Casarin. «C’ho messo dodici anni, ma alla fine ci sono riuscito» le parole commosse del patron veneziano. Commovente il momento con Ress, il capitano orogranata, con un abbraccio prolungato e una chiacchierata che rimarrà a lungo segreta. Una partita che Venezia ha condotto fin dall’inizio, sapendo superare un unico momento difficile, quando i trentini hanno saputo andare sul 31-20. Lì è svoltata la partita, poi nel finale la grande freddezza dalla lunetta e l’urlo liberatorio: «Oggi era la nostra grande opportunità» commenta un felicissimo Ariel Filloy dopo aver tagliato la retina nel classico rito della vittoria. «Dopo gara 5 abbiamo capito che se scendevamo in campo determinati l’avremmo potuta chiudere qui. E ce l’abbiamo fatta: era tutto il giorno che pensavamo solo a questo momento, e ora si è realizzato. Abbiamo concluso davvero un’impresa sono fiero di questo gruppo e di questa squadra». La festa è continuata sotto la curva con il coro «siamo noi i campioni dell’Italia» e l’ormai immancabile «lo squadrone ce l’abbiamo noi». Lacrime immancabili anche per coach Walter De Raffaele, il gran timoniere della cavalcata da sogno degli orogranata: Venezia torna a cucirsi lo scudetto dopo 84 lunghissimi anni di attesa: quella che si chiama un’era. «È la vittoria di tutto il gruppo, un’impresa che abbiamo costruito con continuità, fin dall’inizio. Siamo stati costanti, abbia lavorato sodo: sono davvero contento e soddisfatto, ringrazio questi ragazzi che sono stati davvero meravigliosi e hanno fatto qualcosa di incredibile». Scudetto storico anche per il più giovane protagonista della finale, Stefano Tonut: «È stata una serie incredibile, con tanto equilibrio, e anche ieri sera ne è stata una prova. Sto provando davvero grandissime emozioni, ma sono felice per me e tutta la squadra». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Un pensiero anti-corruzione di Piero Formica L’etica e la tecnologia Il vento della corruzione soffia in Veneto. Contro le raffiche, è tempo di alzare il muro della Cultura. Secondo la Banca Mondiale, nel mondo il pagamento annuale di tangenti è pari al 2% della produzione. Ancora più alti sono i costi indiretti. La corruzione riduce le entrate pubbliche incoraggiando l’evasione fiscale ed erodendo gli incentivi a pagare le tasse. Conseguentemente, si riducono le risorse per quegli investimenti in assistenza sanitaria, istruzione e infrastrutture indispensabili affinché la crescita economica, oggi in salute ritrovata, sia sostenibile. I tentativi di sostenerla sono concentrati sulle tecnologie che crescono esponenzialmente. Le nostre imprese sono giustamente intenzionate (e

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vengono spronate) a cogliere i benefici dell’Industria 4.0 che sboccia dalle tecnologie produttive in grado di aumentare la produttività e la qualità degli impianti. Né manca nella comunità veneta l’eccitazione per la crescente velocità degli oggetti digitali (smartphone e simili) che ‘«indossiamo», per l’evoluzione del sequenziamento dei genomi, per lo sviluppo dell’energia solare e così via. Come nella fiaba dei fratelli Grimm, le tecnologie esponenziali sono il nostro «spirito nella bottiglia» che ci porterà più crescita economica e benessere diffuso investendo esponenzialmente anche nella cultura dell’etica, della fiducia e della governance sociale affinché le tangenti non corrodano la vita comunitaria. Quante risorse impegniamo nelle tecnologie, altrettante dobbiamo destinarle ai modi in cui ciascuno di noi orienta le proprie azioni. Ha scritto il fisico Stephen Hawking: «Producendo le macchine tutto ciò di cui abbiamo bisogno, il risultato dipenderà dal modo in cui le cose sono distribuite. Ognuno può godere di una vita piacevole se la ricchezza prodotta dalle macchine è condivisa, oppure la maggior parte delle persone può finire in miseria se i proprietari di macchine lottano con successo contro la ridistribuzione della ricchezza. Finora, l’andamento sembra essere verso la seconda opzione, con la tecnologia che fa crescere le disparità». E con la corruzione che contribuisce al risultato perverso. Come per la tecnologia, c’è bisogno di un pensiero esponenziale per sconfiggere la corruzione con la cultura. Parafrasando Adam Smith - la sua «Teoria dei sentimenti morali», una lettura da consigliare sin dalle scuole secondarie - non possiamo permettere che le tangenti diventino un abito alla moda da indossare, imitando i ricchi e potenti corruttori. Pag 5 La vera novità è il fenomeno delle liste civiche di Umberto Curi Ricordate la parabola evangelica della pagliuzza e della trave? Ben si applica alla grande maggioranza dei commenti che hanno accompagnato l’esito della consultazione amministrativa di domenica scorsa. Tutti – o quasi – propensi a valorizzare la pagliuzza dei decimi di percentuale in più o in meno per questo o quel partito, mentre a quasi nessuno è venuto in mente di occuparsi di una vera e propria trave, costituita dal fenomeno delle liste civiche. Per limitarsi al Veneto, ciò che è accaduto a Verona e a Padova – se appropriatamente interpretato – esprime una novità politica potenzialmente dirompente, certamente assai più significativa della contesa fra due coalizioni ben lontane dall’uscita dalla crisi, quali sono quelle di centrosinistra e di centrodestra. A conferma della peculiarità del fenomeno, si può notare che le liste civiche che si sono imposte nelle due città venete appartengono a «campi» politici diversi, e per certi aspetti opposti. Nella città scaligera il civismo in gara a sostegno di Patrizia Bisinella ha raccolto un’area vagamente centrista, con alcune accentuazioni liberali, mentre a Padova la Coalizione che ha espresso Arturo Lorenzoni si è più spiccatamente connotata per il riferimento a idee e valori della sinistra. In entrambi i casi, il bottino elettorale è stato perfino stupefacente. Raccogliere circa il 23% dei consensi senza una struttura organizzativa alle spalle, investendo risorse limitate, nettamente inferiori alle disponibilità delle altre forze politiche, puntando esclusivamente sulla generosa attività di alcune decine di volontari, riuscendo ad affermarsi in una contesa che ha visto un’amplissima offerta elettorale, è un dato che nessuno avrebbe previsto alla vigilia del voto, e che esige di essere attentamente valutato. La strada migliore sulla quale incamminarsi è quella del confronto con la vera e propria debacle a cui è andato incontro il Movimento Cinquestelle. Pur senza la necessità di ipotizzare una diretta trasmigrazione di voti, è evidente la connessione fra il successo delle liste civiche e la crisi della formazione guidata da Grillo. In termini inevitabilmente schematici, si può dire che nelle liste come quelle di Bisinella e di Lorenzoni si è riconosciuto un elettorato indisponibile ad accordare credito ai partiti tradizionali, ma insieme anche privo della carica di radicalismo estremistico, ai limiti dell’eversione, che caratterizza invece la variante pentastellata dell’antipolitica. Quel 23% è costituito da cittadini certamente nauseati dal logoro teatrino della politica, ma insieme anche orientati a ricostruire, in forme del tutto nuove, un inedito rapporto fra società civile e sistema politico. Per dirla in grande sintesi: un movimento che non si limita a dire «Vaffa», restandosene poi pervicacemente barricato in una presunta diversità, senza assumersi alcuna diretta responsabilità di governo, e che invece punta a un modo davvero nuovo di concepire e realizzare l’amministrazione di una città. E’ ovviamente ancora troppo presto per trarre conclusioni

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che potrebbero rivelarsi affrettate ed erronee di qui a pochi mesi. Ma sarebbe non meno sbagliato chiudere gli occhi rispetto a novità che non sembrano essere effimere. Con tutta la prudenza del caso, è possibile che l’11 giugno sia in futuro ricordato come l’alba di una tanto attesa rigenerazione complessiva della politica nel nostro paese. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Combinare doveri con diritti di Sabino Cassese La cittadinanza Dobbiamo preoccuparci per il cauto riconoscimento del diritto alla cittadinanza di chi è nato in Italia da stranieri residenti da più di cinque anni e di chi vi ha studiato continuativamente per cinque anni? Ha fondamento razionale l’acredine di chi oppone cittadini a non cittadini, uomini, donne e bambini che vivono gli uni e gli altri nella stessa società, spesso nella stessa casa? Vediamo innanzitutto le proporzioni del fenomeno. Quasi il 4 per cento della popolazione mondiale vive in un Paese diverso da quello di cui è cittadino. Questa percentuale è cresciuta rapidamente in mezzo secolo ed è destinata ad aumentare velocemente. I non cittadini (o i nati in altri Paesi) costituiscono in alcuni Stati un quarto della popolazione, in altri (ad esempio, Regno Unito, Francia, Germania) un decimo, in Italia solo un dodicesimo. I minori che acquisirebbero il diritto a ottenere la cittadinanza italiana, se passasse la legge in esame al Senato, sarebbero circa 800 mila. Prima conclusione: il fenomeno è di proporzioni mondiali e in Italia si presenta in termini molto meno preoccupanti che in altri Paesi. Se passiamo, poi, ad esaminare più da vicino la situazione italiana, si può notare che gli stranieri residenti legalmente rappresentano l’8 per cento della popolazione, più del 10 per cento degli occupati, l’8 per cento dei contribuenti; questi ultimi concorrono - secondo una stima - per circa il 5 per cento alle entrate dello Stato. A gli stranieri viene richiesto, quindi, l’adempimento dei doveri normalmente legati alla cittadinanza, primo tra tutti il rispetto dell’obbligo tributario, senza che ad essi vengano riconosciuti i diritti collegati, quelli così ben riassunti nella formula no taxation without representation (nessuna tassazione senza rappresentanza). Terza contraddizione: a coloro che risiedono stabilmente e legalmente sul territorio nazionale riconosciamo i diritti sociali, quelli civili, quelli economici, perché consentiamo loro di lavorare, di esprimersi liberamente, di istruirsi nelle scuole pubbliche, di farsi assistere negli ospedali, ma neghiamo la possibilità di godere dei diritti politici, il primo dei quali è quello di partecipare attivamente alla vita della collettività di cui fanno parte. Tutti i Paesi sviluppati hanno dovuto affrontare queste contraddizioni, e le hanno risolte riconoscendo progressivamente il diritto a diventare membri a pieno titolo della società in cui vivono (in questo consiste la cittadinanza) a coloro che hanno messo radici stabili sul proprio territorio. Tutti gli Stati moderni hanno compreso che la tensione tra cittadini e non cittadini si risolve solo a patto di riflettere nuovamente su una grande questione: che cosa è un popolo e come si distingue una nazione? Schiavi, negri, donne hanno sempre fatto parte delle società in cui vivevano, ma a lungo sono stati privati del diritto di partecipare alla vita collettiva (ad esempio, del diritto di voto). Non si riproduce ora la stessa situazione per gli stranieri legalmente e stabilmente residenti nello Stato? Nel diritto romano si formò il principio quod omnes tangit ab omnibus approbetur (quel che riguarda tutti deve essere approvato da tutti). Quel principio passò poi nel diritto canonico. Regge oggi le moderne democrazie: ad esempio, la nostra Costituzione stabilisce che i diritti dell’uomo (dell’uomo, non del cittadino soltanto) siano riconosciuti e garantiti anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Perché alla preparazione delle regole non debbono concorrere anche coloro che - come i non cittadini in possesso dei requisiti disposti dalla legge - vi debbono sottostare? Hannah Arendt coniò, in un suo scritto, la formula «diritto ad avere diritti», che dovrebbe spettare a tutti. Molte corti, nazionali e internazionali, hanno riconosciuto che non si può essere privati del diritto alla cittadinanza, che è la porta per vedersi riconosciuti altre aspettative. A quale titolo Paesi che si preoccupano del rispetto dei diritti umani in altri Stati non riconoscono a chi legalmente e stabilmente vive nel

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proprio territorio il diritto di far parte a pieno titolo della collettività alla cui vita contribuisce quotidianamente? Pag 6 L’ipoteca della giustizia sulla corsa dei partiti di Massimo Franco La campagna elettorale potrebbe presto avere i due bastioni giudiziari dai quali Pd e Movimento 5 Stelle potranno combattersi. La richiesta di processare per falso la sindaca di Roma, Virginia Raggi, fiore all’occhiello della formazione di Beppe Grillo, sarebbe in arrivo: proprio mentre al Senato ieri si scriveva un’altra pagina torbida e convulsa del caso Consip. L’azienda di forniture della pubblica amministrazione è sotto i riflettori per un’inchiesta nella quale sono coinvolti anche esponenti vicinissimi all’ex premier e segretario dem, Matteo Renzi. Significa che, di qui al voto, l’ipoteca della giustizia graverà sulla discussione e ne condizionerà i contorni. È verosimile che riemergeranno le accuse reciproche di «doppio standard» tra i propri indagati e quelli avversari. Si chiederanno dimissioni. Alla fine, tuttavia, l’impressione è che le accuse si elideranno a vicenda. Un Pd col ministro Luca Lotti implicato nel caso Consip difficilmente potrà invocare l’uscita di scena di Raggi, se ci sarà la richiesta di processarla; e viceversa. Il fatto che ieri il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, abbia anticipato che la sindaca non dovrebbe comunque dimettersi, conferma un larvato patto di non aggressione con Grillo: almeno fino ai ballottaggi di domenica per le Comunali. L’unica conseguenza di uno scontro senza tregua sarà un tentativo di delegittimazione reciproca, da consegnare al giudizio di un elettorato già disorientato e deluso. Con la magistratura compagna di strada, suo malgrado, del viaggio verso le Politiche del 2018. La sensazione è che i Cinque Stelle si rifiuteranno di equiparare le due vicende. Ieri in Senato hanno attaccato il governo sulle presunte responsabilità di Lotti; e sulla volontà del vertice del Pd di insabbiare tutto. Alessandro Di Battista accusa Renzi di volere elezioni anticipate solo per «risolvere i guai giudiziari della sua combriccola». La lettera con la quale il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha spiegato al Senato che il cda di Consip è dimissionario, non ha placato le polemiche. La richiesta di un rinvio al 27 giugno, avanzata dal capogruppo del Pd, Luigi Zanda, non è passata. E Padoan si è sentito rivolgere critiche ruvide da parte sia di Forza Italia che degli scissionisti dem del Mdp. Motivo: l’8 marzo Padoan aveva dichiarato che non c’erano le condizioni perché l’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, decadesse. Ma, al di là delle polemiche, il governo e la maggioranza hanno incassato come minimo un po’ di tempo. Le mozioni più a rischio sono state bocciate. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, si è preso la sua dose di attacchi per avere respinto quella dei Cinque Stelle, nella quale si chiedeva la revoca delle deleghe a Lotti, ministro dello Sport; e quella dell’Mdp, per il quale le vicende di Lotti e di Marroni sono «legate indissolubilmente». Non è finita, anche perché la questione finora è stata maneggiata in maniera piuttosto maldestra. Il problema è che le ombre di Consip e del Campidoglio non si proiettino su una campagna elettorale che già si presenta intossicata e confusa. Pag 30 Gli obblighi di Macron dopo il trionfo elettorale di Bernard-Henri Lévy No, gli elettori non sono «disgustosi», come ha dichiarato il patetico Henri Guaino. No, l’astensione (anche se da trent’anni e passa si insiste che favorisce sempre il Front National) non è stata la causa della vittoria di En Marche! E no, Emmanuel Macron non sta per intraprendere una carriera di dittatore a 39 anni, come non lo fece il generale de Gaulle a 67! In poche parole, quasi niente di quello che si sente ripetere sa spiegare lo tsunami elettorale al quale abbiamo assistito. Analisi e opinioni, che si susseguono a ciclo continuo da domenica scorsa nell’agorà digitale e catodica, si trasformano in un assordante rumore di sottofondo alle orecchie di quanti, da anni, non vogliono né vedere né ascoltare più nulla. E allora? Che cos’è realmente accaduto che possa spiegare come mai questo giovane leone, al quale erano state presagite infinite coabitazioni, sia riuscito nell’impresa, unica negli annali della Repubblica, di far entrare all’Assemblea più di 400 deputati schierati sotto i suoi colori? Innanzitutto, certo, c’è stato il «virtuosismo» di cui parlava Hannah Arendt nel suo commentario all’ Etica nicomachea, che ricollega il «politico» all’«artista», in quanto via alternativa all’espressione della «virtù»; in secondo luogo, la mediocrità tipica di quei populisti (Le Pen, Mélenchon) che contestavano alla

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Repubblica in marcia lo spazio del «rinnovamento», e che si sono visti risucchiare nel sifone del loro stesso dégagisme , ovvero la nuova ideologia che invita a cacciare chi è al potere. L’essenziale, tuttavia, sta nel ribaltamento profondo e, in realtà, strutturale che descrivevo dieci anni fa parlando di quel «grande moribondo», che abbiamo visto contorcersi nell’agonia finale. Tutto è iniziato con la rivoluzione francese e tutto è in gioco, più esattamente, con questa invenzione recente («Che cosa ne pensate, avrebbe chiesto Kissinger a Zhou Enlai, dell’impatto della rivoluzione francese?»… domanda alla quale, dopo un lungo silenzio, il cinese avrebbe risposto, «È ancora troppo presto per pronunciarsi»). Tutto è in gioco, pertanto, grazie a questa recente invenzione francese che è il concetto di «rivoluzione» posizionato, come una stella fissa, al vertice delle nostre rappresentazioni politiche, mentre il resto degli astri si allineano per rapporto ad essa: era «di sinistra» chiunque ritenesse di suo gradimento la prospettiva rivoluzionaria, mentre si spostava sul lato «destro» chi la vedeva invece come una minaccia e si sforzava di scongiurarla. Ebbene, abbiamo fatto una grande scoperta nel breve lasso di tempo che va, per l’esattezza, dalla rivoluzione cinese alla catastrofe cambogiana. E questa scoperta è stata la constatazione, mai prima di allora così palese, che più una rivoluzione è radicale, più è barbara e sanguinaria; che la rivoluzione non poteva più dirsi solamente «difficile», «utopica» o «impossibile», ma si rivelava profondamente odiosa; e man mano che la stella fissa si oscurava e si trasformava in un buco nero che ingoiava la sua stessa luce e quella degli astri meno luminosi che orbitavano attorno ad essa, tutto il sistema politico era condannato a implodere. Siamo arrivati a questo punto. Non è la prima volta che la spaccatura «destra-sinistra» si è sfocata. Accadde anche - cito a caso - con Valmy, con il caso Dreyfus, con Vichy, con il colonialismo. Ma proprio su questa scena di quarant’anni fa è stato polverizzato, e pertanto neutralizzato, il suo nocciolo razionale e immaginario: siamo davanti a un contraccolpo amplificato, a una deflagrazione lenta e all’onda d’urto che l’accompagna, all’annullamento programmato delle spartizioni, delle liti e, infine, dei significati costitutivi dell’«eccezione francese», della quale il fenomeno Macron rappresenta oggi l’ultima incarnazione. Mille domande si pongono a cominciare da questo punto: come si comporteranno i nuovi rappresentanti della nazione, inebriati dal trionfo? Da dove, tramite chi e quando si smaltiranno gli effetti della sbornia? E come saranno inventati i nuovi contropoteri indispensabili per il buon funzionamento della democrazia? E inoltre: poiché la «regola» (anglosassone) non si è rivelata, nelle ultime vicende, molto meglio dell’«eccezione» (francese), dove stiamo andando? Con quale bussola, quale rosa dei venti, quale orizzonte? E basterà, per arrivarci, riconciliare La Fontaine con le start-up, Giove e Internet - la simultaneità, in altre parole, può trasformarsi in politica (durevole)? E ancora: se si chiude effettivamente la successione di eventi che prese avvio nel 1789, ciò significa forse che siamo tornati al tempo dei Lumi? Al tempo della reinvenzione, precedente i Lumi, di un nuovo diritto naturale e del concetto di Repubblica che ne scaturisce? E riscriveremo Il leviatano oppure, tanto è lo stesso, i trattati di Vestfalia senza dover passare attraverso la tragica radicalizzazione delle guerre europee e mondiali in corso o in gestazione? Eppure il fatto inoppugnabile è proprio questo: Emmanuel Macron ha saputo vedere quello che i suoi precedessori avevano semplicemente intravisto. È stato, ed è, lo strumento o l’astuzia di questo avvenimento che si sta materializzando sotto i nostri occhi e che è destinato a durare a lungo. Ed è a lui, pertanto, che spetta il compito di ricostruire su questo ammasso di macerie; di impegnarsi affinché la fine di un certo modo di considerare la politica non significhi la fine della politica come tale; è a lui che spetta, assieme al popolo che l’ha eletto, e a quello che ha votato contro di lui o, peggio, si è astenuto, fare il meglio che possa fare un uomo di stato in tempi difficili: creare, pensare e inventarsi ex novo il regime storico in cui stiamo entrando — è l’arte dell’inizio, nella quale Hannah Arendt, ancora una volta, ravvisava l’obiettivo fondamentale dell’azione pubblica. LA REPUBBLICA Pag 31 Il compromesso di Berlusconi di Stefano Folli L'esito del voto in Senato sulla Consip ha un evidente significato politico. La maggioranza, ossia il Pd, ha tenuto grazie al soccorso di un manipolo di senatori di Forza Italia e di Ala, il gruppo di Verdini. Ne deriva una fotografia illuminante, soprattutto in

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vista di un domani - la nuova legislatura - che si annuncia fragile e carico di incognite. In altre parole, si capisce la determinazione con cui Silvio Berlusconi rigetta l'ipotesi di un accordo elettorale con la Lega. La sua tenacia è proporzionale alla volontà di mantenere e rafforzare nel prossimo Parlamento il rapporto con Matteo Renzi. Un asse centrista tra Forza Italia come espressione del Partito popolare europeo e il Pd modellato dal suo leader a propria immagine. Nella speranza che questo binomio sia sufficiente a garantire un equilibrio. Ieri sulla Stampa Ugo Magri ha descritto l'ostinazione con cui Berlusconi si adopera per ottenere dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo la possibilità di ricandidarsi. Anche a costo di farlo "con riserva" ovvero drammatizzando la situazione se la candidatura gli fosse preclusa. Il fondatore di Forza Italia è un maestro nel farsi passare per vittima di un sopruso quando gli conviene. E in questo caso avremmo un ex presidente del Consiglio, capo dell' opposizione, a cui si vieta di tornare in Parlamento: sarebbe un buon argomento per una campagna elettorale giocata sulle note della nostalgia e sul richiamo personale ed emotivo che Berlusconi ancora esercita su un segmento di elettorato. Ovvio che su questo terreno Salvini è più un ostacolo che un vantaggio. Con le sue posizioni nazionaliste ed euro-scettiche il capo della Lega è molto lontano da un Berlusconi la cui linea sull' Europa è oggi sovrapponibile a quella di Tajani, ortodosso e filo-tedesco presidente del Parlamento dell'Unione. Si dirà che in politica le contraddizioni si coprono in un attimo quando c'è interesse a farlo. Ma stavolta l' interesse di Berlusconi consiste nell' esaltare le differenze, non certo nell'attenuarle. Se vuole giocare un ruolo nei prossimi due o tre anni, l'anziano leader del centrodestra deve tentare di riaccreditarsi negli ambienti moderati continentali, ossia l'area in cui è egemone Angela Merkel. A tal fine il "lepenista" Salvini è del tutto controproducente, a meno che non accetti una piena e totale subordinazione a Forza Italia, il che è irrealistico. Di certo Berlusconi non può ammettere che l'opinione pubblica si convinca che esiste un duopolio al vertice del centrodestra. Un duopolio in cui l' impetuoso leghista, con il suo linguaggio perentorio e la sua linea priva di mediazioni, rischierebbe di essere percepito come l'elemento trainante. Altro discorso merita Giorgia Meloni, alla quale l'ex premier dedica sempre parole di simpatia. La giovane romana è titolare di un 4,5-4,8 per cento nelle intenzioni di voto e potrebbe forse essere recuperata a un'intesa con Forza Italia in qualità di ala destra di un partito che guarda al centro. Non è chiaro a quale percentuale punti realisticamente Forza Italia. Al di là delle smargiassate, un 18 per cento sarebbe un risultato di rilievo. Vorrebbe dire, fra l'altro, che Renzi non è riuscito a conquistare molti consensi nell'area berlusconiana. Di conseguenza, il rapporto fra i due sarebbe obbligato. Con Forza Italia solida abbastanza per porre condizioni. E Renzi forse condizionato da una partita a sinistra che al momento non è chiusa e chissà se lo sarà quando andremo a votare. Alla vigilia delle ferie estive, il bilancio politico di Berlusconi è tutt' altro che negativo. Di nuovo al crocevia dei giochi politici, rimesso in campo dalle manovre sulla riforma elettorale che hanno danneggiato Renzi e Grillo, ma non Forza Italia. Certo, al Nord l'alleanza con la Lega conserva un peso a cui non si può rinunciare a cuor leggero. Domenica i ballottaggi nelle città potrebbero dimostrare che il centrodestra vince quando è unito. E infatti sono tanti i parlamentari di Forza Italia nordisti le cui speranze di rielezione sono affidate, di qui al 2018, a una qualche intesa con Salvini. Ma se la strategia di Berlusconi non è lo scontro finale con il Pd renziano, bensì una forma di compromesso permanente, la lista solitaria ha un senso. Soprattutto con un sistema elettorale che è ormai proporzionale. AVVENIRE Pag 17 Congo, denuncia della Chiesa: “Sono 3 mila i morti nel Kasai” di Matteo Fraschini Koffi “Danneggiate abitazioni e strutture ecclesiastiche” Lomè (Togo) - «Oltre tremila le persone morte da ottobre 2016 a causa delle violenze in atto nel Kasai». Sono queste le cifre presentate alle autorità, locali e internazionali, dalla Nunziatura apostolica rispetto al brutale conflitto nella regione centrale della Repubblica democratica del Congo. Il documento della Chiesa locale parla di stupri, uccisioni di massa, fosse comuni e danni ad abitazioni e luoghi religiosi. «I decessi segnalati dalle nostre fonti sono 3.383 sebbene i dati non siano esaustivi – continua il rapporto –. Diverse strutture ecclesiastiche risultano danneggiate o chiuse, tra cui 60 parrocchie, 34

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case religiose, 31 centri sanitari cattolici, 141 scuole cattoliche, e una sede vescovile distrutta ». Inoltre sono stati registrati almeno «20 villaggi completamente distrutti tra cui 10 dalle Forze armate congolesi (Fardc), quattro da gruppi di miliziani, e sei da uomini armati ignoti». Durante le ricerche sono state trovate anche 30 fosse comuni. «La Chiesa ha pagato un prezzo altissimo a cause delle violenze – recitava ieri una nota della Nunziatura inviata all’Agenzia Fides –. Due vescovi, monsignor Félicien Mwanama Galumbulula, vescovo di Luiza, e monsignor Pierre-Célestin Tshitoko Mamba, vescovo di Luebo, sono stati costretti all’esilio». Sono inoltre cinque i seminari costretti alla chiusura, due dei quali sono seminari maggiori. La guerra civile in Kasai ha visto un radicale aumento delle ostilità da quando le forze governative hanno ucciso il 12 agosto dell’anno scorso durante un’operazione di sicurezza Kamwina Nsapu, il defunto leader dell’omonimo gruppo ribelle. I miliziani hanno quindi lanciato una rivolta, massacrando e decapitando le autorità locali e i civili simpatizzanti del governo. In almeno un caso sono stati ritrovati decine di cadaveri di poliziotti senza la testa. «Le violenze in corso nel Kasai hanno costretto 1,3 milioni di persone ad abbandonare le proprie case », stimano le Nazioni Unite, le quali hanno una delle più grandi missioni di pace nel Paese che però opera soprattutto nel remoto nord-est del Congo. Lo scorso marzo, inoltre, sono stati uccisi due giovani ricercatori dell’Onu, la cilena-svedese Zaida Catalan e il suo collega americano Michael Sharp. «È necessario lanciare subito un’investigazione congiunta tra l’Onu e il governo della Repubblica democratica del Congo », aveva proposto il Consiglio di Sicurezza da New York attraverso il segretario generale Onu, Antonio Guterres. Per ora il governo congolese, restio a collaborare con le Nazioni Unite, ha dichiarato di aver arrestato quattro responsabili dell’uccisione. Il Commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ràad Al Hussein, ha invece accusato ieri da Ginevra le autorità congolesi di finanziare una nuova milizia chiamata Bana Mura. «Sono sconvolto dal fatto che sia stata presumibilmente creata e armata una milizia, Bana Mura, per sostenere le autorità nella lotta contro Kamwina Nsapu – ha detto ieri Al Hussein –. Tali miliziani hanno anche lanciato attacchi orribili contro i civili dei gruppi etnici Luba e Lulua». Il Kasai Centrale, una vasta regione nel mezzo della Repubblica democratica del Congo, pullula di gruppi armati che si contendo un territorio ricco soprattutto di diamanti. Tra le principali milizie c’è la Kamwina Nsapu (“formica nera”, nella lingua locale Tshiluba). Il leader si chiama Jacques Kabeya Ntumba e, insieme ai miliziani, è accusato di reclutare bambini soldato. «Oltre la metà del Kamwina Nsapu è fatta di minori di 14 anni spesso drogati», affermano le Nazioni Unite. La milizia ha iniziato la sua rivolta popolare un anno fa contro le autorità centrali congolesi, allo scopo di rimuovere tutte le istituzioni e le forze di sicurezza dalla provincia del Kasai. Un altro gruppo armato formatosi di recente è il Bana Mura. I suoi miliziani sono accusati di violenze soprattutto contro la popolazione dei Luba, l’etnia più numerosa del Kamwina Nsapu. Mentre quest’ultima è legato maggiormente all’opposizione, il Bana Mura è apparentemente finanziato da gruppi di potere molto vicini al governo nazionale e locale. Entrambe le milizie hanno commesso uccisioni di massa, stupri e distruzioni di proprietà. La Chiesa locale ha spesso protestato contro il reclutamento forzato dei bambini che vengono presi nelle scuole. Pag 17 “Così hanno ucciso mio padre” di Federica Zoja Egitto: il racconto di un bambino sopravvissuto alla strage di Minya. “Sei cristiano? Ha detto sì e gli hanno sparato davanti a me” Un mese dopo l’agguato jihadista in cui hanno perso la vita 29 cittadini egiziani copti e altri 24 sono stati feriti mentre si recavano al monastero di San Samuele, nel governatorato egiziano di Minyia, orrore e speranza si intrecciano nelle testimonianze di alcuni dei sopravvissuti al massacro. Il 25 maggio scorso, il piccolo Mina Habib, di 10 anni, viaggiava su di un furgoncino insieme al padre Adel e al fratello maggiore Marco, di 14 anni. Il veicolo, ha raccontato Mina, è stato fermato da uomini in tuta militare. Più avanti sulla strada (un tratto desertico di statale, a circa 220 chilometri a Sud del Cairo) erano visibili gli altri due autobus del convoglio e cadaveri insanguinati abbandonati sulla strada. «Hanno chiesto a mio padre il suo nome e poi di recitare la professione di fede islamica. Ha rifiutato, ha detto che era cristiano. Hanno sparato a lui e a tutti gli altri nel

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camioncino», ha riferito il bambino. Gli assalitori erano «una quindicina». Mina non sa perché abbiano risparmiato lui e il fratello: «Ci hanno visto in fondo al furgoncino. Ci hanno fatto scendere e un uomo con una tuta come quella dell’esercito ci ha puntato la pistola contro, ma un altro vestito tutto di nero gli ha detto di lasciarci andare. Ogni volta che sparavano a qualcuno, urlavano “Allahu akhbar”». Ai giornalisti, il fratello Marco ha precisato che i miliziani «avevano accento egiziano» e «sembravano come noi, senza barbe». Altre testimonianze permettono di ricostruire la dinamica dell’attentato: gli jihadisti hanno sparato contro i finestrini dei due veicoli di testa; poi, una volta saliti a bordo, hanno ucciso gli uomini e gambizzato bambini e donne. Testimoni oculari hanno visto strappare alle donne gioielli e orologi d’oro. Nella sparatoria, uno pneumatico di una jeep degli attentatori si è bucato: sarebbe per questo, secondo una delle ipotesi al vaglio, che i terroristi hanno bloccato il furgoncino su cui viaggiava la famiglia Habib. Dopo l’attentato, una volta fuggiti i killer, Marco Habib è riuscito a bloccare un’auto e a farsi dare un passaggio, insieme al fratello, verso la salvezza. Per il coraggio dimostrato, ora i due ragazzini sono chiamati dai vicini «cuor di leone». «L’allarme è altissimo in Egitto», spiega ad Avvenire monsignor Shenouda, direttore del Seminario del Cairo, sottolineando che i terroristi «erano al corrente della gita al monastero perché il gruppo si era organizzato su Facebook». Ma il religioso ci tiene a dare anche un messaggio di speranza: «Sono a conoscenza, grazie a colleghi e amici, di alcune storie di grande fede: ad esempio, quella di una donna che era seduta sui gradini di uno degli autobus assaltati. Il marito e il fratello sono stati trucidati dagli jihadisti, saliti sul retro, per non aver rinnegato la propria fede, mentre lei e il suo bambino sono stati risparmiati. La signora sostiene che uno dei terroristi, dal viso gentile e rassicurante e dai tratti europei, ha interceduto per loro. Quasi un angelo, che le ha suggerito di dare tutto il proprio oro e di stringere forte a sé il figlio». A seguito del massacro, la comunità cristiana d’Egitto ha deciso di cancellare alcuni campi estivi e di farsi scortare dalla polizia per i tradizionali pellegrinaggi, ma, racconta ancora padre Shenouda, «i fedeli sono più che mai decisi a testimoniare con la vita ciò in cui credono». IL GAZZETTINO Pag 1 Se l’incubo Isis entra nel dibattito sullo ius soli di Alessandro Orsini L'ultimo attentatore di Parigi irrompe nel dibattito italiano sul conferimento della cittadinanza ai figli degli immigrati. L'ardore del dibattito è infatti causato dagli attentati dell'Isis e, pertanto, occorre svelare la vera posta in gioco che viene taciuta per motivi di sicurezza. Alcuni parlamentari temono che rendere più facile l'acquisizione della cittadinanza priverebbe l'Italia dello strumento dell'espulsione degli immigrati radicalizzati. È semplice: i jihadisti tunisini, vengono espulsi in Tunisia. I jihadisti italiani, restano in Italia. La Francia ha più difficoltà dell'Italia nel contrasto alla radicalizzazione perché molti seguaci dell'Isis hanno la cittadinanza francese. Anziché essere espulsi, finiscono in carcere, dove spesso si radicalizzano ulteriormente e dove promuovono la radicalizzazione di altri detenuti. Il terrorista Adel Kermiche aveva diciotto anni quando fu arrestato mentre cercava di lasciare la Francia per recarsi in Siria e arruolarsi nell'Isis. Posto agli arresti domiciliari, grazie alla clemenza dei giudici, sgozzò un prete cattolico in una chiesa in Normandia, il 26 luglio 2016, nelle poche ore in cui era autorizzato a uscire di casa. Senza la cittadinanza francese, Adel Kermiche sarebbe stato espulso in Algeria, suo paese di nascita, ai primi sintomi della sua radicalizzazione. Chérif Kouachi, uno dei massacratori di Charlie Ebdo, era stato arrestato il 25 gennaio 2005 mentre cercava di recarsi in Siria per andare a combattere nelle fila di al Qaeda contro i soldati americani in Iraq. Condotto in carcere, favorì la radicalizzazione di Amedì Coulibalì, uno dei terroristi che avrebbe insanguinato Parigi nei giorni della strage del 7 gennaio 2015. Tuttavia, esiste una quantità enorme di casi di immigrati che, avendo ricevuto la cittadinanza, hanno voltato le spalle all'Isis perché sono riconoscenti al paese che li ha accolti. Tra i numerosi esempi di musulmani che hanno denunciato i militanti dell'Isis, ricordiamo l'arresto di Jaber Albakr, il siriano di 22 anni ricercato per terrorismo. Jaber Albakr aveva chiesto ospitalità a un proprio connazionale che però lo ha consegnato alla polizia tedesca. È accaduto il 10 ottobre 2016 nel quartiere Paunsdorf di Lipsia. Stiamo parlando di un siriano che ha fatto arrestare un altro siriano. I lettori ricorderanno il nome di Syed Rizwan Farook, uno dei due autori della strage di San Bernardino del 2

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dicembre 2015 in California. Ebbene, il fratello di questo jihadista si era arruolato nell'esercito americano per combattere in Iraq. In alcuni casi, il conferimento della cittadinanza favorisce l'integrazione e allontana dall'Isis. In altri casi, gli immigrati si radicalizzano nonostante abbiano ottenuto la cittadinanza. Mohamed Bouhlel, l'autore della strage di Nizza del 14 luglio 2016, era un immigrato giunto in Francia dalla Tunisia nel 2005. Non aveva la cittadinanza francese e ha ucciso. Dzhokhar Tsaranev, uno dei due autori della strage contro la maratona di Boston del 15 aprile 2013, era nato in Kyrgyzstan. Aveva ottenuto la cittadinanza americana e ha ucciso. Ciò che è realmente decisivo nella vita degli immigrati non è il rapporto con lo Stato, che è importante, bensì il rapporto con le persone che fanno parte della loro vita quotidiana, che è ancora più importante. Un immigrato, che venga umiliato dalla società circostante, sarà incline a odiare l'Italia, pur avendo la cittadinanza. Un immigrato, che venga rispettato, sarà incline ad amare l'Italia, pur non avendo la cittadinanza. Il dibattito sul conferimento della cittadinanza ai figli degli immigrati dovrebbe svilupparsi senza tener conto del tipo di società che l'Isis vorrebbe costruire in casa nostra, ma tenendo conto unicamente del tipo di società che noi vorremmo costruire per i nostri figli e i figli degli immigrati. Pag 18 L’infinita emergenza dell’Italia terremotata di Oscar Giannino A febbraio scorso, abbiamo indirizzato al presidente del Consiglio un semplice appello di sei parole: governo Gentiloni non dimenticare il terremoto. Non ci sfiorava il dubbio che il premier potesse davvero non pensare al dramma abbattutosi dieci mesi e otto mesi fa su 131 Comuni in quattro Regioni del centro Italia. Tutti scrivemmo all'indomani del sisma che la lezione del passato andava messa a frutto. Non era possibile replicare le procedure di emergenza in deroga alla legge che in passato hanno alimentato fior di inchieste delle Procure. Questo significava dunque dare una risposta nuova, organizzativa e procedimentale, in termini di diritto amministrativo. Chi e con quali procedure avrebbe avuto il timone in mano delle decisioni da prendere in trasparenza e nel minimo tempo possibile, tra sindaci, presidenti di regione, protezione civile e commissario straordinario Errani? Senza una risposta precisa alla domanda, ritardi, inefficienze e caos sarebbero stati assicurati. Di qui la nostra richiesta: occorreva un esame spassionato della piramide di poteri in campo, e una nuova disciplina basata su più poteri ai sindaci, e su una sola autorità nazionale di indirizzo e coordinamento. Purtroppo, la risposta data è rimasta quella dei primissimi mesi, con la nomina del commissario alla ricostruzione prima che ne esistessero i presupposti, e il ping pong tra Comuni, Regioni e autorità nazionali per ogni pratica e decisione da prendere. Il bilancio è ora sotto i nostri occhi. Consegnate solo l'8 per cento delle 3620 casette che dovevano rappresentare le soluzioni abitative d'emergenza per l'inverno. Rimosso solo l'8 per cento dei 2,4 milioni di tonnellate di detriti, che restano ancora nei Comuni colpiti. Non sono ancora terminati i sopralluoghi sulle oltre 200mila unità abitative da verificare, sopralluoghi che in massa sono cominciati solo da fine aprile, mentre tra 5 settimane scade il termine per richiedere i contributi per la messa in sicurezza. Per le casette occorrono 11 diversi passaggi burocratici di soggetti diversi. Tra gli appalti e l'inizio dei lavori di rimozione delle macerie sono passati sei mesi. Ai sindaci non son state concesse deroghe, per tecnici e personale straordinario da destinare ai lavori, rispetto alle ordinarie graduatorie vigenti. Oltre a quattro successivi interventi normativi nazionali, dopo i primi decreti di Renzi, 29 ordinanze commissariali hanno stratificato continue novazioni procedurali. In moltissimi casi giudicate di ancor maggior ostacolo da parte dei sindaci, visto che ogni volta le regole mutavano. Protrarre l'emergenza di fatto siamo ancora in quella fase, e molto indietro significa almeno tre cose negative. Estendere l'effetto di sradicamento delle comunità umane dal loro habitat precedente. Accrescere la desertificazione delle attività economiche e d'impresa, senza le quali il ritorno delle popolazioni diviene insostenibile. E rinviare ulteriormente una scelta dolorosa ma necessaria: quella tra la ricostruzione dov'era e com'era, o la delocalizzazione degli abitati, per ragioni idrogeologiche, urbanistiche o economiche. All'indomani delle grandi scosse prevalse la prima idea, divenne quasi una parola d'ordine. Al contrario bisogna essere realisti: i secoli di sismi alle nostre spalle, nelle aree a maggior esposizione al rischio di cui l'Italia è purtroppo ricca, provano che a volte e talora anche sovente ricostruire e riedificare altrove è necessario, in maggior sicurezza. Dieci mesi dopo,

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servirebbe dunque ancora più che mai una grande assise, una maxi sessione di lavoro di un paio di giorni tra i 151 sindaci, i presidenti delle Regioni, il commissario, il premier e i ministri competenti. Con lo scopo di stilare l'elenco preciso delle modifiche procedurali necessarie. Da emanare subito. Non stiamo immaginando un soviet cacofonico. Ma un evento di ascolto dal basso che abbia anche, ammettiamolo, l'effetto collettivo di ripristinare e rialimentare fiducia ed entusiasmo. Per sconfiggere la piovra burocratica, madre della rassegnazione e generatrice del fallimento. Senza di questo, difficile immaginare di vincere domani la sfida ancor più grande. Quella che il governo Renzi aveva denominato Casa-Italia: il progetto pluriennale di messa in sicurezza progressiva del patrimonio immobiliare, culturale, urbano e produttivo delle aree a rischio sismico e idrogeologico. LA NUOVA Pag 1 Estremismi, minaccia per l’Europa di Renzo Guolo Le capitali europee nella spirale del terrore. Mentre a Parigi va a vuoto un nuovo attentato jihadista che, non di meno, segnala la persistenza della minaccia, a Londra preoccupa l'attacco terroristico di Finsbury Park. Perché evoca lo spettro di un paese che finisce nella tagliola di opposti estremismi e diventa campo di battaglia di jihadisti e autoctoni decisi a colpire i musulmani. Una spirale di azioni e reazioni che può diventare incontrollabile. Ne sono consapevoli le autorità britanniche. Per questo il gesto di Darren Osborne, il driver solitario di Seven Sister Road, viene condannato unanimemente dalla politica. Lo scenario è quello preferito dagli jihadisti: comunità islamiche sotto attacco in paesi dominati dalla "miscredenza". Clima che consentirebbe ai radicali di ampliare il loro bacino di reclutamento, mettendo a disposizione del desiderio di vendetta la loro totalizzante ideologia. Una prospettiva destinata a mettere fine agli sforzi di grande parte delle classi dirigenti del paese, leader musulmani non estremisti compresi, per rendere possibile la convivenza. Finsbury Park è uno dei luoghi simbolo di quello che è stato il "Londonistan". La moschea locale era il palcoscenico dell' "afghano" Abu Hamza al -Masri e di altri simpatizzanti qaedisti. Ma dopo la stretta seguita agli attentati del 2005 i radicali che guidavano le associazioni di quartiere e controllavano i luoghi di culto sono stati messi fuori gioco. In quella stessa moschea è stata tenuta, dieci anni dopo, una veglia funebre per le vittime dell'attacco a Charlie Hebdo non certo gradita agli jihadisti. Il "Londonistan", almeno nella sua dimensione organizzata, è ormai solo un ricordo. Ma Fisbury Park continua a nutrire l'immaginario collettivo ostile dei cantori autoctoni dello scontro di civiltà, appartengano organicamente alla destra xenofoba, alla schiera dei lupi solitari in versione identitaria cristiana o, semplicemente, agli odiatori scontenti del mondo. Ai loro occhi la distinzione tra radicali e non è inesistente: sempre di musulmani si tratta. E, in quanto tali, di nemici. Eppure le nuove leadership locali, anche quelle neotradizionaliste oggi egemoni, sono ostili al radicalismo. Sia pure non senza contraddizioni, autorità di governo e autorità religiose collaborano per mantenere l'ambiente bonificato. I leader religiosi della moschea che hanno protetto dal linciaggio Osborne avevano condannato aspramente, nelle settimane scorse, gli attacchi di Manchester, Westminster e London Bridge. L'attacco di Finsbury preoccupa anche fuori dalla Gran Bretagna, perché prefigura un futuro di scontri, in una logica azione-reazione-nuova azione, che rischia di diventare non solo un problema di ordine pubblico ma un serio punto di crisi per la tenuta democratica dei paesi europei. Per questo aumentano le misure di sicurezza anche nei pressi delle moschee. Intanto, nel panorama britannico emerge sempre più nettamente la figura di Sadiq Khan. Contrariamente alla premier May, il sindaco di Londra si mostra, ancora una volta, capace di empatia con i propri concittadini. Nelle settimane scorse il Mayor of London aveva duramente condannato gli attacchi jihadisti: ora lo fa con quelli di segno contrapposto. Nei suoi discorsi Khan evoca sempre i valori pluralisti che tengono insieme la collettività. Per questo gode del rispetto non solo dei cittadini di fede islamica, ma anche di quelli, molto più numerosi, di diverso orientamento culturale e religioso. Non lo ostacola in questo compito la sua origine: Khan è un musulmano che fa convivere la sua identità religiosa con un'identità politica di matrice laburista e una culturale di stampo europeo. Simbolo, più che mai, di quella odiata multiculturalità che gli estremisti di ogni campo vorrebbero distruggere. Anche a colpi di lame e ruote.

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