Rassegna stampa 17 ottobre 2016 · RASSEGNA STAMPA di lunedì 17 ottobre 2016 SOMMARIO Dal Corriere...

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 17 ottobre 2016 SOMMARIO Dal Corriere della Sera di domenica, ecco il ritratto che Aldo Cazzullo fa di Bebe Vio: “«Non chiamatemi poverina: la compassione può essere peggiore dell’indifferenza. Noi amputati non siamo inutili. Anzi, possiamo esservi d’aiuto». Dice Beatrice Vio, che tutti chiamano Bebe. «Se vi svegliate che fa freddo, piove e c’è traffico, non pensate: che giornata del cavolo. Una giornata del cavolo è svegliarsi con le gambe gonfie, non poter mettere le gambe artificiali e dover uscire in carrozzina». Una mattina con Bebe Vio è in effetti di grande aiuto. Da lei abbiamo molto da imparare. Ad esempio a vaccinare i nostri figli. «Quando vado in tv o parlo al telegiornale dico sempre che sono contenta così, che la malattia non mi ha sconfitta, eccetera. Però, quando accade un trauma del genere, non accade solo a te. Accade ai tuoi genitori, alla tua famiglia. E hai il dovere di evitare che accada. Se a casa non avessimo dato retta all’Asl, che ci diceva “tanto c’è tempo”, e se dopo la vaccinazione contro la meningite A avessi fatto anche quella contro la C, non mi sarei ammalata. Qui in Veneto ad esempio le vaccinazioni non sono obbligatorie; ed è sbagliato, infatti ci sono dei focolai. Non tutti hanno un paese che ti sostiene come ha fatto Mogliano con me, non tutti hanno una famiglia forte come la mia. Altri genitori non reggono al colpo: spesso uno dei due se ne va. Quasi sempre l’uomo, il padre. I ragazzi della nostra associazione, che consente agli amputati di fare sport, sono quasi tutti figli di genitori separati. La madre è quella che resta». Da piccola Bebe faceva ginnastica artistica. «Alla fine del primo anno mi dissero che c’era il saggio. Chiesi: cosa si vince? Mi risposero che non si vinceva niente; bisognava solo far vedere a mamma e papà quanto si era brave. Capii che non era lo sport per me. Provai con la pallavolo, ma mi fermai alla prima lezione: c’erano ragazze che palleggiavano contro un muro. Mi annoiai e presi l’uscita. Per fortuna non portava fuori ma in un’altra palestra. Dove si tirava di scherma». A undici anni Bebe era una promessa, aveva già vinto le prime gare. Meningite fulminante. Necrosi degli arti. Braccia amputate all’altezza del gomito, gambe sotto il ginocchio. 104 giorni di ospedale. «Della malattia non ho brutti ricordi. Sono i trucchi del cervello: cancella le cose orribili, che i miei genitori purtroppo ricordano benissimo; e salva le cose belle. Le visite dei miei fratelli, Nicolò e Maria Sole. I sabati sera con gli amici che venivano a trovarmi, portavano la pizza, mettevano su un film». «Datemi le gambe e riprendo a tirare di scherma». È stata la prima cosa che ho detto, appena uscita. Ma non avevo più le tre dita con cui si impugna il fioretto, e le protesi non andavano bene. Abbiamo provato a fissare l’arma con lo scotch, ma non funzionava. Poi hanno inventato un guanto di plastica che riesce a reggere la lama. Per le gambe non c’era problema: quelle artificiali vanno benissimo; però la scherma paralimpica si fa in carrozzina, e ho dovuto adeguarmi. Tanto, il fioretto è al 70% testa; anche se ora proverò la sciabola, che è più impetuosa. Al primo allenamento non volevo più scendere dalla pedana: “Chi vince regna!” dicevo, e continuavo a battere le avversarie, fino a quando non sono crollata dalla stanchezza. Devo molto a Elisa e Arianna, che per me sono sorelle maggiori, e a Valentina, che è come una zia». Elisa è Elisa Di Francisca, la prima atleta nella storia olimpica a mostrare la bandiera europea. Arianna è Arianna Errigo, argento a Londra 2012, che ora - come Bebe - vuole provare la sciabola. Valentina è Valentina Vezzali, la più grande atleta italiana di tutti i tempi. «Neppure per un momento mi hanno fatto sentire una poverina; sempre una di loro. Ai Mondiali sono stata buttata fuori al primo turno, e mi sono chiusa in bagno a piangere. Mamma mi ha inseguita, mi ha parlato, ha cercato di consolarmi, e io l’ho mandata via. Poi è arrivata Valentina, che mi ha ripetuto le stesse cose. Per me era come se parlasse l’oracolo di Delfi, la Sibilla cumana. Così mi sono rimessa in pista, a inseguire il mio sogno: le Olimpiadi». «La medaglia più preziosa a Rio non è stata l’oro nell’individuale, ma il bronzo a squadre. Con Loredana Trigilia e Andreea Mogos, che è di origine romena, siamo molto legate:

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 17 ottobre 2016

SOMMARIO

Dal Corriere della Sera di domenica, ecco il ritratto che Aldo Cazzullo fa di Bebe Vio: “«Non chiamatemi poverina: la compassione può essere peggiore dell’indifferenza.

Noi amputati non siamo inutili. Anzi, possiamo esservi d’aiuto». Dice Beatrice Vio, che tutti chiamano Bebe. «Se vi svegliate che fa freddo, piove e c’è traffico, non pensate: che giornata del cavolo. Una giornata del cavolo è svegliarsi con le gambe gonfie, non poter mettere le gambe artificiali e dover uscire in carrozzina». Una mattina con Bebe

Vio è in effetti di grande aiuto. Da lei abbiamo molto da imparare. Ad esempio a vaccinare i nostri figli. «Quando vado in tv o parlo al telegiornale dico sempre che sono contenta così, che la malattia non mi ha sconfitta, eccetera. Però, quando

accade un trauma del genere, non accade solo a te. Accade ai tuoi genitori, alla tua famiglia. E hai il dovere di evitare che accada. Se a casa non avessimo dato retta

all’Asl, che ci diceva “tanto c’è tempo”, e se dopo la vaccinazione contro la meningite A avessi fatto anche quella contro la C, non mi sarei ammalata. Qui in Veneto ad esempio le vaccinazioni non sono obbligatorie; ed è sbagliato, infatti ci sono dei

focolai. Non tutti hanno un paese che ti sostiene come ha fatto Mogliano con me, non tutti hanno una famiglia forte come la mia. Altri genitori non reggono al colpo: spesso

uno dei due se ne va. Quasi sempre l’uomo, il padre. I ragazzi della nostra associazione, che consente agli amputati di fare sport, sono quasi tutti figli di genitori

separati. La madre è quella che resta». Da piccola Bebe faceva ginnastica artistica. «Alla fine del primo anno mi dissero che c’era il saggio. Chiesi: cosa si vince? Mi risposero che non si vinceva niente; bisognava solo far vedere a mamma e papà

quanto si era brave. Capii che non era lo sport per me. Provai con la pallavolo, ma mi fermai alla prima lezione: c’erano ragazze che palleggiavano contro un muro. Mi

annoiai e presi l’uscita. Per fortuna non portava fuori ma in un’altra palestra. Dove si tirava di scherma». A undici anni Bebe era una promessa, aveva già vinto le prime

gare. Meningite fulminante. Necrosi degli arti. Braccia amputate all’altezza del gomito, gambe sotto il ginocchio. 104 giorni di ospedale. «Della malattia non ho brutti

ricordi. Sono i trucchi del cervello: cancella le cose orribili, che i miei genitori purtroppo ricordano benissimo; e salva le cose belle. Le visite dei miei fratelli, Nicolò e Maria Sole. I sabati sera con gli amici che venivano a trovarmi, portavano la pizza, mettevano su un film». «Datemi le gambe e riprendo a tirare di scherma». È stata la

prima cosa che ho detto, appena uscita. Ma non avevo più le tre dita con cui si impugna il fioretto, e le protesi non andavano bene. Abbiamo provato a fissare l’arma

con lo scotch, ma non funzionava. Poi hanno inventato un guanto di plastica che riesce a reggere la lama. Per le gambe non c’era problema: quelle artificiali vanno benissimo; però la scherma paralimpica si fa in carrozzina, e ho dovuto adeguarmi.

Tanto, il fioretto è al 70% testa; anche se ora proverò la sciabola, che è più impetuosa. Al primo allenamento non volevo più scendere dalla pedana: “Chi vince

regna!” dicevo, e continuavo a battere le avversarie, fino a quando non sono crollata dalla stanchezza. Devo molto a Elisa e Arianna, che per me sono sorelle maggiori, e a Valentina, che è come una zia». Elisa è Elisa Di Francisca, la prima atleta nella storia olimpica a mostrare la bandiera europea. Arianna è Arianna Errigo, argento a Londra 2012, che ora - come Bebe - vuole provare la sciabola. Valentina è Valentina Vezzali, la più grande atleta italiana di tutti i tempi. «Neppure per un momento mi hanno fatto sentire una poverina; sempre una di loro. Ai Mondiali sono stata buttata fuori al primo turno, e mi sono chiusa in bagno a piangere. Mamma mi ha inseguita, mi ha parlato, ha cercato di consolarmi, e io l’ho mandata via. Poi è arrivata Valentina, che mi ha

ripetuto le stesse cose. Per me era come se parlasse l’oracolo di Delfi, la Sibilla cumana. Così mi sono rimessa in pista, a inseguire il mio sogno: le Olimpiadi». «La

medaglia più preziosa a Rio non è stata l’oro nell’individuale, ma il bronzo a squadre. Con Loredana Trigilia e Andreea Mogos, che è di origine romena, siamo molto legate:

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dopo siamo partite insieme per una vacanza a Ilha Grande; mare caraibico, caldo anche d’inverno. I brasiliani sono speciali: dove non arrivano con le strutture,

arrivano con il cuore; se c’erano i gradini e mancava l’ascensore, ci prendevano in braccio. La Rai questa volta ha fatto conoscere lo sport paralimpico; il resto l’hanno fatto i social. Credo che gli italiani abbiano capito. Prima non mi conosceva nessuno,

adesso…». In due ore di conversazione, nel bar davanti alla stazione di Mestre, almeno dieci persone verr anno a dire a Bebe la loro ammirazione. «Lo so che ormai è

arrivata per me l’età dell’amore. Ma non sono cose di cui parlare con i giornalisti. Quest’anno ho finito le superiori: arti grafiche e comunicazioni, dai salesiani. Ora mi sono iscritta all’università, allo Iulm di Milano. La prossima settimana comincio uno stage a Fabrica, dai Benetton. Ho già fatto uno stage a Sky come grafico; ma stare

nove ore al giorno dietro il computer non fa per me. Tornerò a Sky dopo il 2024, per fare il capo dello sport». Davvero? «L’ho già detto al capo di adesso, Giovanni Bruno - sorride Bebe -. Ogni tanto mi siedo alla sua scrivania, per fare le prove». Perché dopo il 2024? «Perché prima voglio vincere l’oro alle Paralimpiadi di Roma». Ma a Roma non

si faranno né Paralimpiadi né Olimpiadi. «Non è detta l’ultima parola. Purtroppo la Raggi non ha ancora voluto incontrarmi. Vorrei dirle che i Giochi sarebbero una

splendida opportunità di attrezzare la capitale per i disabili, eliminare le barriere; Milano è cambiata grazie all’Expo. E anche per far crescere le persone normodotate, far capire che non siamo sfortunati da commiserare». «Tra noi ci prendiamo in giro: “Handicappato, ti muovi?”. Ci ridiamo su. L’autoironia ci fa bene. Disabile è chi si sente disabile, chi passa la giornata sul divano perché pensa di non saper fare più

nulla. Definirebbe disabile un grande italiano come Alex Zanardi? Si è preso a cuore la mia storia quand’ero un mezzo cadavere, e nessuno credeva in me. È stato

importante anche l’incontro con Oscar Pistorius. Ha fatto una cosa terribile, ed è giusto che paghi. Ma io spero che dopo aver espiato possa tornare ad aiutare gli altri, come ha fatto con me». Al suo cellulare arrivano di continuo messaggi. Lei si toglie la protesi e digita i numeri con il moncherino. «Non ho paura della fisicità. Come non mi

dispiacciono le cicatrici che ho sul viso. Quando vado in tv, al trucco insistono per coprirle. Sono stata a Parigi alla sfilata di Dior ispirata alla scherma, e anche lì

volevano mascherarle. Ma anche quelle fanno parte di me. Come gli occhi verdi che ho preso da mamma»” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 15 Giorno di preghiera insieme al Patriarca di g.ca. “In cammino con Maria” a Jesolo IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 16 ottobre 2016 Pag VII Il patriarca nomina un consulente per dare sostegno ai coniugi separati di al.spe. LA NUOVA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 36 In cammino con Maria a Jesolo di g.ca. Il patriarca Moraglia celebrerà la messa alle 17 al Pala Arrex 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 21 Giubileo operatori sanitari di n.d.l. Oggi messa in basilica 3 – VITA DELLA CHIESA LA REPUBBLICA Pag 19 Il Papa non va in vacanza, fine di un simbolo che ha resistito ai secoli di

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Agostino Paravicini Bagliani La rinuncia di Bergoglio ai soggiorni estivi a Castel Gandolfo chiude una lunga tradizione LA STAMPA "Ecco gli oppositori di Francesco Nostalgici e contrari al cambiamento" di Giacomo Galeazzi L'arcivescovo Forte: esaltano Putin solo per cecità ideologica IL FOGLIO Pag 1 Il dramma della Chiesa di Matteo Matzuzzi Dopo 1.300 giorni di pontificato, il Vaticano conta le divisioni teologiche e ideologiche e osserva con sospetto un fronte in crescita di dissidenti. Storia della prima controrivoluzione nella chiesa di Papa Francesco IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II L’addio di don Flavio, Spinea non giudica: “Siamo tutti con lui” di Melody Fusaro e Nicola De Rossi I commenti sul sagrato: “Chi non ha peccato scagli la prima pietra” LA NUOVA Pag 12 Don Flavio Gobbo lascia: “Sono stanco” di Filippo De Gaspari Spinea: il parroco di San Vito e Modesto ha ottenuto dal vescovo un periodo di riposo. Don Giorgio: “Nessuna fuga sentimentale” L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 8 Le radici e la memoria Francesco ricorda che gli anziani hanno un ruolo essenziale nella Chiesa e nella società AVVENIRE di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 La grande domanda di Paola Bignardi Giovani e Chiesa: Sinodo provvidenziale LA STAMPA di domenica 16 ottobre 2016 Quei cattolici contro Francesco che adorano Putin di Giacomo Galeazzi e Andrea Tornielli Viaggio nella galassia degli oppositori di Bergoglio. Un fronte che sul web unisce leghisti, nostalgici di Ratzinger, nemici del Concilio: "Chiesa in confusione per colpa del pontefice" Il leader russo è un punto di riferimento. Le teorie sulla presunta invalidità dell'elezione in conclave e le polemiche per le parole di don Georg sul "ministero allargato" dei due papi IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 16 ottobre 2016 Pagg VI – VII Il parroco fa le valigie: “Non sappiamo dov’è” di Melody Fusaro Don Flavio Gobbo, 46 anni, lascia la chiesa dei Santi Vito e Modesto a Spinea. “Ha chiesto un po’ di riposo”. Il precedente: la scelta di don Scarpa, l’apertura di don Trevisiol L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 15 ottobre 2016 Pag 8 Come i biscotti della nonna Messa a Santa Marta CORRIERE DELLA SERA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 21 L’arcivescovo di Assisi che ospita le migranti a casa di san Francesco di Gian Guido Vecchi LA REPUBBLICA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 35 La svolta del Papa nero di Alberto Melloni AVVENIRE di sabato 15 ottobre 2016

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Pag 17 I gesuiti eleggono Arturo Sosa di Filippo Rizzi Venezuelano, il nuovo superiore generale non ha ancora 68 anni. E’ il primo non europeo chiamato a guidare l’Ordine ignaziano Pag 21 Intreccia nuove reti l’Italia della carità di Lorenzo Rosoli Vangelo e società: sì a una Chiesa povera per i poveri, no a una Chiesa ong IL FOGLIO di sabato 15 ottobre 2016 Pag 2 Dalla fine del mondo arriva anche il Papa nero, grand’esperto di Chàvez di Matteo Matzuzzi P. Arturo Sosa, venezuelano, eletto generale dei gesuiti 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 27 L’anno zero per i maschi di Mauro Magatti E’ ormai necessaria una riflessione seria su cosa vuole dire oggi essere uomini, come hanno fatto le donne in passato CORRIERE DELLA SERA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 20 Il dilemma dei compiti di Gianna Fregonara e Orsola Riva E’ sconsigliato superare i 60 minuti al giorno, l’ideale è studiare a casa 4 ore alla settimana Pag 25 “Noi mamme lavoratrici andiamo in crisi perché tutto è pensato a misura d’uomo” di Chiara Maffioletti L’autrice della lettera sfogo al Corriere: avere un figlio potrebbe anche diventare una marcia in più LA REPUBBLICA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 Le famiglie bocciano la scuola di Matteo di Ilvo Diamanti LA NUOVA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 L’Università troppo sbeffeggiata di Vincenzo Milanesi CORRIERE DELLA SERA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 1 Le famiglie (e i giovani) invisibili di Maurizio Ferrera Ritardi italiani Pag 29 Scuola, lavoro, cultura. L’impegno dei nuovi italiani di Goffredo Buccini AVVENIRE di sabato 15 ottobre 2016 Pag 3 Economia circolare, la sfida del benessere senza sprechi di Marco Morosini Le ricerche più innovative sulla riduzione dei consumi 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ AVVENIRE di domenica 16 ottobre 2016 Pag 8 Stress da superlavoro nelle corsie degli ospedali di Paolo Viana Gli infermieri italiani sono troppo pochi. Servirebbero almeno 47mila nuove assunzioni 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 25 Una notte al museo di Andrea Pasqualetto Tommaso e altri 12 bambini con i genitori in sacco a pelo nel Palazzo Ducale di Venezia. I dubbi del ministero: iniziativa da chiarire IL GAZZETTINO DI VENEZIA

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Pag V Si autotassano per fare la chiesa di Alvise Sperandio Duemila rumeni ortodossi pagano di tasca propria: “Lavori conclusi entro giugno”. Padre Matei: “La gente ci incoraggia”. La geografia dei culti: greci ortodossi nell’ex Umberto I, a Campalto il “tempio” dei copti LA NUOVA Pag 9 Capitello imbrattato, l’ira del parroco di Nadia De Lazzari In un sotoportego vicino a Rialto IL GAZZETTINO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 20 1966, l’Aqua Granda. Venezia sul baratro di Edoardo Pittalis IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 16 ottobre 2016 Pagg II – III Previsioni flop. Acqua alta, l’onda delle polemiche di Michele Fullin e Tomaso Borzomi Rabbia dei commercianti: “Sul livello di marea basiamo il nostro lavoro”. Il Centro maree: “Il forte temporale ha abbassato il livello del mare” Pag XVI Casa per un giorno, il dono ai senzatetto di Alvise Sperandio I clochard accolti ad Altobello dalle associazioni cittadine per la “Notte senza dimora” Pag XVII Marghera: “In cimitero chiesa chiusa da un anno“ di g.gim. Il presidente della Municipalità Bettin si appella al Comune LA NUOVA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 25 Nuovo appello per la chiesa del cimitero di a.ab. Apertura a rischio a Marghera Pag 31 Festa ad Altobello con i senza dimora: “Grande successo” di Marta Artico Si sono presentanti un’ottantina, con tanto di cartelli. Don Capovilla: “Non è facile partecipare per un disagiato” CORRIERE DEL VENETO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 13 L’acqua alta non sale, le polemiche sì: “Centro maree depotenziato, errori” di Gloria Bertasi Previsioni disattese IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 15 ottobre 2016 Pag XI “Notte dei senza dimora” alla Madonna Pellegrina di a.spe. Altobello, con Caritas e associazioni Pag XXVII Jesolo, il presepe di sabbia dedicato agli esodi biblici di g.b. LA NUOVA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 11 Mazzacurati pretende altri 836 mila euro di Giorgio Cecchetti L’udienza del processo Mose: il Coveco finanziò Lia Sartori, Zoggia, Marchese, Tiozzo e il Marcianum con i fondi del Cvn Pag 27 Oggi la “Notte dei senza dimora” di m.a. Per la prima volta in città Pag 35 L’esodo il filo conduttore del presepe di sabbia di Giovanni Cagnassi Torna a Jesolo il tradizionale appuntamento di fine anno che finora ha raccolto 638 mila euro, destinati a progetti benefici. L’inaugurazione l’8 dicembre 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 Vaccini, ora subito la legge di Alessandro Russello

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Scienza e politica IL GAZZETTINO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 14 Gli imprenditori: Veneto più autonomo di Alda Vanzan L’85 per cento degli intervistati è favorevole IL GAZZETTINO di sabato 15 ottobre 2016 Pag 13 Profughi, Morcone “striglia” i comuni di Nicola Benvenuti e Luisa Morbiato Il super-prefetto: “In Veneto 250 sindaci rifiutano l’accoglienza, bisogna convincerli” CORRIERE DEL VENETO di sabato 15 ottobre 2016 Pag 3 Ospitava i migranti, si toglie la vita: “In ansia per i tempi di pagamento” di Alberto Beltrame Motta di Livenza, l’esercente romeno era indebitato. Aveva chiesto un anticipo alla coop … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’illusione di salvare quei confini di Angelo Panebianco Guerra in Siria e in Iraq Pag 3 Condoni e stretta sulle imprese, il doppio binario del Fisco di Federico Fubini Le misure del governo IL GAZZETTINO Pag 1 I veri obiettivi della strana armata del no di Marco Gervasoni LA NUOVA Pag 1 La manovra per vincere il referendum di Massimiliano Panarari Pag 1 Il federalismo che rimane puro slogan di Francesco Jori CORRIERE DELLA SERA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 Distrazioni pericolose sull’Europa di Francesco Giavazzi Voto e riforme Pag 1 Bebe, sorrisi e vita. “Non chiamatemi poverina, sono io a poter dare aiuto” di Aldo Cazzullo Pag 3 La Guerra invisibile di Guido Olimpio LA REPUBBLICA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 Ma Renzi è un vantaggio o un danno per l’Europa e per l’Italia? di Eugenio Scalfari AVVENIRE di domenica 16 ottobre 2016 Pag 2 Militanze e dimenticanze “referendarie” di Francesco D’Agostino I giuristi alla battaglia sulla riforma costituzionale Pag 3 Calor bianco, non guerra fredda di Vittorio E. Parsi Il rapido deterioramento dei rapporti Usa – Russia IL GAZZETTINO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 Le mosse cinesi che possono cambiare il mondo di Romano Prodi Pag 1 I pericolosi giochi di ruolo tra i due colossi di Alessandro Orsini LA NUOVA di domenica 16 ottobre 2016

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Pag 1 4 dicembre, il vero quesito di Fabio Bordignon AVVENIRE di sabato 15 ottobre 2016 Pag 1 C’è la torta, non la festa di Francesco Riccardi Pag 22 Dylan, il Nobel che divide Ferdinando Camon: un riconoscimento che sa di furbata. Giorgio Ferrari: la meta raggiunta dal chierico errante IL GAZZETTINO di sabato 15 ottobre 2016 Pag 1 Referendum: il vero obiettivo di chi dice no di Bruno Vespa Pag 1 Europa e Mosca, la difficile convivenza di Alessandro Orsini LA NUOVA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 1 Manovre e furbetti da stanare di Bruno Manfellotto Pag 8 Diffidenza a Oriente e Occidente di Giancesare Flesca

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 15 Giorno di preghiera insieme al Patriarca di g.ca. “In cammino con Maria” a Jesolo Jesolo. Non è arrivato don Mazzi, impegnato all’ultimo momento a Roma, in contatto con videomessaggio, ma la giornata di “In cammino con Maria”, appuntamento tradizionale al Pala Arrex per la grande giornata di preghiera si è concentrata sull’arrivo del patriarca Francesco Moraglia per la messa e che ha richiamato circa 1.500 fedeli. Un appuntamento ormai fondamentale, dopo l’estate, per la comunità di Jesolo che si raccoglie nella riflessione e la preghiera. La giornata era un tempo dedicata alle apparizioni di Medjugorje, ai drappelli di veggenti. Oggi, attendendo un presa di posizione ufficiale della Chiesa sulle apparizioni della Madonna nella località della Bosnia, la giornata jesolana è molto più mesta e ridimensionata, ma sempre molto partecipata. Ieri, il sesto appuntamento di questo incontro iniziato alle 9, ma con ingresso già dalle 7.30 nella struttura di piazza Brescia. Una giornata che forse ha perso un po’ il fascino irresistibile del sacro per la comunità jesolana, visto che era nata così. Non ci sono più guarigioni, veggenti che raccontano le testimonianze, preti santoni e tutto il fascino che rivestiva la giornata, quando addirittura furono scattate foto sui social, allora agli albori, di nubi a forma di madonne. Ieri è stata celebrata la preghiera del rosario, cui è seguita la consacrazione del cuore immacolato di Maria, poi l’adorazione eucaristica e preghiera per ottenere la Divina Misericordia. In programma anche l’Angelus in collegamento video. Il momento principale, la celebrazione della Messa presieduta dal patriarca Francesco Moraglia con la processione eucaristica. Infine le testimonianze di don Francesco Quintavalle, la giornalista Marina Ricci e Giada Nobile. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 16 ottobre 2016 Pag VII Il patriarca nomina un consulente per dare sostegno ai coniugi separati di al.spe. Nasce in diocesi l'ufficio pastorale per i coniugi separati. Recependo l'indicazione di papa Francesco con il recente "motu proprio" sulla riforma del processo di accertamento della nullità del matrimonio sacramento, il patriarca Francesco Moraglia ha incaricato un sacerdote di seguire i mariti e le mogli in crisi di coppia e che pensano di rivolgersi al Tribunale ecclesiastico per sancire che il legame non c'è mai stato. Si tratta di don Mauro

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Margagliotti, giovane vicario della collaborazione parrocchiale di Mira, scelto per la sua sensibilità e perché licenziato in diritto canonico e dunque esperto della materia. Sarà al Centro card. Urbani di Zelarino ogni mercoledì dalle 9.30 alle 12.30, per ricevere tutti coloro che hanno bisogno di un consiglio spirituale e di una consulenza tecnica sul da farsi, quando la relazione è finita. «Offriremo loro un accompagnamento in un momento molto delicato della vita che comporta decisioni altrettanto complesse - spiega don Margagliotti - Le porte della fede restano spalancate anche per chi ha detto il suo sì ad un'altra persona davanti a Dio e poi viene a trovarsi in difficoltà». Dal punto di vista operativo saranno le prossime settimane a definire come si muoverà il nuovo ufficio pastorale. Nella struttura di via Visinoni nascerà, per così dire, una sorta di sportello dove si potrà accedere di persona o previo appuntamento scrivendo all'indirizzo [email protected]. LA NUOVA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 36 In cammino con Maria a Jesolo di g.ca. Il patriarca Moraglia celebrerà la messa alle 17 al Pala Arrex Jesolo. In cammino con Maria, appuntamento domani al Pala Arrex per la grande giornata di preghiera con l’attesa presenza del patriarca Francesco Moraglia alle 17. Un appuntamento fisso dopo l’estate per la comunità di Jesolo che si raccoglie in preghiera, immersa nel sacro. Inizialmente era una giornata dedicata a Medjugorje e ai veggenti, ma con il tempo è cambiata in attesa di un pronunciamento sulle apparizioni della Madonna nella località della Bosnia. L’appuntamento è alle 9, ma con ingresso già dalle 7.30 e ingresso libero. Sono attese circa tremila persone secondo gli organizzatori nell’arco di questa lunga giornata che rappresenta anche un momento di riflessione per la comunità jesolana dopo le fatiche della stagione estiva. Il programma prevede il rosario cui seguirà la consacrazione del cuore immacolato di Maria. Poi l’adorazione eucaristica e preghiera per ottenere la divina misericordia. In programma anche l’Angelus in collegamento video. Il momento principale sarà la celebrazione della messa alle 17 presieduta dal patriarca Francesco Moraglia. In scaletta le testimonianze di don Francesco Quintavalle e don Antonio Mazzi della Fondazione Centri Giovanili, e ancora la giornalista Marina Ricci e Giada Nobile. Per informazioni al sito www.incamminoconmaria.com. Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 21 Giubileo operatori sanitari di n.d.l. Oggi messa in basilica Ieri sono ripresi i pellegrinaggi mariani guidati dal Patriarca Francesco Moraglia. Il ritrovo alle Zattere alla chiesa parrocchiale di Santa Maria del Rosario, detta dei Gesuati. Da lì i pellegrini, religiosi e laici, si sono incamminati recitando il santo rosario verso la Basilica della Madonna della Salute dove, intorno alle ore 8,15, il Patriarca ha presieduto la messa. Al termine per i partecipanti è previsto un momento di fraternità alla Salute dov'è situato il Seminario Patriarcale. Il secondo appuntamento dedicato “Al centro la persona e la prossimità” si svolgerà oggi pomeriggio. Nell'Anno Santo straordinario della Misericordia voluto da Papa Francesco Venezia si prepara al Giubileo diocesano degli operatori sanitari. L'appuntamento è alle 16 all'esterno della Basilica di San Marco e davanti alla Porta Santa di San Clemente che i pellegrini attraverseranno per partecipare alla messa presieduta dal vicario episcopale don Dino Pistolato, in sostituzione del Patriarca Moraglia. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA

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LA REPUBBLICA Pag 19 Il Papa non va in vacanza, fine di un simbolo che ha resistito ai secoli di Agostino Paravicini Bagliani La rinuncia di Bergoglio ai soggiorni estivi a Castel Gandolfo chiude una lunga tradizione I simboli fanno storia. Anche quando cedono, si trasformano o vengono soppressi. La residenza di Santa Marta, dove alloggia Papa Francesco, sottolinea la funzione del papa come servizio, laddove la memoria storica identificava il Palazzo Apostolico più volentieri con il potere. L'abbandono di Castel Gandolfo come residenza estiva del papa elimina invece quell'antico legame tra vita signorile e cultura di villeggiatura. Urbano VIII fu il primo a soggiornare a Castel Gandolfo nell' estate 1628, in quella che era la villa che si era fatta costruire da cardinale. Soltanto la metà dei trenta papi che si sono succeduti da allora hanno vissuto a Castel Gandolfo, talvolta solo per un giorno. I francesi misero a sacco il palazzo papale nel febbraio 1798. Gli accordi del Laterano (1929) hanno restituito al papato Castel Gandolfo, che fu regolarmente visitato dai papi di questi ultimi decenni. Due papi - Pio XII (1958) e Paolo VI (1978) - vi morirono. Giovanni Paolo II vi fece costruire una piscina. Una foto, che lo riprese mentre vi si tuffava, fece allora il giro del mondo. Ancor prima di Castel Gandolfo, nella stessa Roma, dalla fine del Cinquecento e fino al 1870, il palazzo del Quirinale fu la residenza estiva del pontefice. Ma anche nel Medioevo i papi avevano l'abitudine di passare i mesi d'estate fuori dell'Urbe, anzitutto per fuggire dalla malaria. Soltanto con Innocenzo III (1198-1216), però, l'alternanza residenziale dei papi diventa regolare. Il più giovane della storia - aveva trentasette anni quando fu eletto - visse più di un quarto del suo pontificato fuori dell'Urbe, nelle città di Segni, Sora e Anagni, nei vicini Castelli, a Subiaco e a Viterbo. Un abate fiammingo annotò allora che il papa «lasciò Roma temporaneamente a causa dell' estate che era contraria al suo corpo e risiedette a Viterbo come nella sua propria città». Nei primi decenni del Duecento i Romani presero persino l'abitudine di chiamare il palazzo del papa al Laterano «palazzo d'inverno». Anche per motivi legati a problemi politici, i papi vissero allora quasi quarant'anni in una delle città dello Stato pontificio. Nessun pontificato del Duecento si svolse interamente a Roma. Sui diciannove papi del Duecento, undici trascorsero più della metà del loro pontificato fuori dell'Urbe. Sei papi, tra cui tutti e tre i papi francesi del Duecento, non entrarono mai a Roma, vivendo in città come Viterbo, Montefiascone, Orvieto e Perugia. Durante i sei mesi del suo breve pontificato, Celestino V - il papa del "gran rifiuto" - non uscì dalle frontiere del regno di Sicilia. Verso il 1200 la malaria fu sempre più descritta come angosciante, forse per una sua recrudescenza. Gregorio IX trascorse l'estate ad Anagni (1227) «a causa delle minacce dell'estate e delle condizioni sospette dell'aria di Roma». Così racconta il suo biografo. Nel giugno 1230 si recò ad Anagni «per cercare un'aria più clemente», temendo «l'irruzione di un'estate incendiaria». A Rieti si fece costruire un palazzo «pieno di comodità». Il cancelliere di Federico II, Pier della Vigna, ricorda ai prelati che si recavano a Roma (1241) per prender parte al concilio destinato a deporre l'imperatore che a Roma «vi aspettano un calore insopportabile, un'acqua putrida, alimenti grossolani e malsani, un'aria pesante, una quantità enorme di zanzare, di scorpioni, di uomini sporchi, cattivi e scatenati. Sotto la città vi sono caverne piene di vermi velenosi che escono col calore dell'estate». Di solito i papi lasciavano Roma tra aprile e giugno e vi tornavano ad ottobre. Prima ancora che il papa si mettesse in viaggio, la guardaroba (la camera) e il tesoro del papa venivano portati nel luogo di residenza prescelto. I problemi logistici erano complessi. Quasi tutta la corte papale - ossia molte centinaia di persone - si stabiliva infatti insieme al papa. La curia dovette stipulare accordi con quelle città, come con Viterbo nel 1266 e nel 1278, per ottenere alloggi e facilitazioni di ogni genere. Nel Duecento il papato alternò quindi regolarmente la sua residenza tra Roma e una delle amene città dello Stato pontificio. Ma anche il palazzo del Vaticano fu allora dotato di stupendi giardini, da Niccolò III Orsini (1277-1280). Onorio IV (1285-1287) preferì però risiedere nel magnifico palazzo che si era fatto costruire sull'Aventino, circondato da stupendi giardini. Ad Avignone, dove risiedettero stabilmente dal 1308 al 1377, i papi disposero della Certosa di Villeneuve come residenza estiva. Pio II (1458-1464) fece costruire a Pienza, sua città natale, il Palazzo Piccolomini, primo grande esempio di architettura rinascimentale, ma anche simbolo di un' antica cultura di villeggiatura del papato, non così diversa da quella che investì per secoli Castel Gandolfo.

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LA STAMPA "Ecco gli oppositori di Francesco Nostalgici e contrari al cambiamento" di Giacomo Galeazzi L'arcivescovo Forte: esaltano Putin solo per cecità ideologica «Chi ha paura del rinnovamento, non crede al Vangelo». Agli oppositori di Francesco che individuano in Putin il difensore della cristianità, l'arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte applica le categorie della «cecità ideologica» e della «nostalgia strumentale». Nell'inchiesta pubblicata ieri sul La Stampa viene ricostruita la galassia anti-Bergoglio e il presidente della Commissione Cei per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso individua le «storture teologiche» del dissenso al Pontefice della misericordia. Lefebvriani, ultraconservatori che evocano crociate contro l'invasione islamica, nemici del Concilio e avversari delle aperture pastorali del Papa argentino sulla comunione ai divorziati risposati e sul dialogo con il governo cinese. Lei è stato segretario speciale al recente Sinodo dei vescovi sulla Famiglia, cosa tiene insieme un' opposizione al Pontefice così diversificata? «L'interesse unificante è il mantenimento dello status quo. Il Vangelo è libertà, rinnovamento, docilità allo Spirito Santo. Non credere al Vangelo induce a scambiare per pericoloso sovversivo chi predica la parola di Gesù. La paura del rinnovamento nasconde la paura dello Spirito Santo che guida la Chiesa. Ma è un fenomeno da ricondurre nelle sue reali dimensioni. E proprio la lezione del Sinodo è utile al riguardo». Si riferisce alle resistenze interne alle gerarchie ecclesiastiche? «All'inizio sembrava che la Chiesa fosse spaccata in due e invece alla fine c'è stata una grande maggioranza al Sinodo. La collegialità episcopale ha sconfessato le posizioni estreme di chiusura e di opposizione a un libero confronto». Al Papa viene addebitata anche l'accoglienza verso i migranti? «Di fronte a un cambiamento epocale come il fenomeno migratorio, un conto è un atteggiamento di comprensibile preoccupazione, un altro è la negazione ideologica, pregiudiziale e anti-evangelica di qualunque forma di accoglienza. Le migrazioni non sono solo questione di trasferimento di persone. È giusto interrogarsi su come garantire buona integrazione». Perché Francesco provoca reazioni accese di dissenso? «Contro il Papa si coalizzano chiusura culturale, nostalgie, staticità di atteggiamenti ideologici e politici. Invece di abbandonarsi al Dio, frange minoritarie si arroccano. È un'operazione, però, senza prospettive». La stupisce l'esaltazione del presidente russo Vladimir Putin da parte degli ultratradizionalisti che attaccano papa Bergoglio? «No. È la dimostrazione che quando prevale la cecità ideologica tutto diventa strumentale e ci si arrampica sugli specchi pur di sostenere le proprie ragioni fino a raggiungere scenari impensabili. Gesù stende le braccia sulla croce ad abbracciare tutti, quindi preghiamo perché gli oppositori del Papa ritrovino serenità e lucidità per discernere. Soltanto così vedranno quale dono provvidenziale sia questo pontificato». IL FOGLIO Pag 1 Il dramma della Chiesa di Matteo Matzuzzi Dopo 1.300 giorni di pontificato, il Vaticano conta le divisioni teologiche e ideologiche e osserva con sospetto un fronte in crescita di dissidenti. Storia della prima controrivoluzione nella chiesa di Papa Francesco Fratelli, in nome di Gesù Cristo, vi chiedo di mettervi d'accordo. Non vi siano contrasti e divisioni tra voi, ma siate uniti: abbiate gli stessi pensieri e le stesse convinzioni. No, non è Papa Francesco a parlare, magari dopo il Sinodo dei vescovi sulla famiglia (anni del Signore 2014 e 2015) che ha lacerato coscienze formate su dogmi e sacramenti. E' farina del dotto sacco di san Paolo, all'inizio della sua prima Lettera ai cristiani di Corinto (anno del Signore numero uno). Mi spiego: uno di voi dice Io sono di Paolo'; un altro Io di Apollo'; un terzo sostiene Io sono di Pietro'; e un quarto afferma Io sono di Cristo'. Paolo sbotta, e pare di sentire anche un pugno battuto sul tavolo: Ma Cristo non può essere diviso!. Era una comunità assai numerosa, quella di Corinto, in quel tempo

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agitata da contrasti, alla ricerca di come applicare l' insegnamento cristiano a diversi problemi concreti", si legge nell'Introduzione alla Lettera presente nell'edizione della Bibbia curata da ElleDiCi e Abu nel 1985, cioè trent' anni fa. Paolo è polemico, irato, perfino sconvolto. Non ne può davvero più di quelle faide striscianti nel corpo giovane della chiesa: "L'apostolo critica severamente l'esistenza di gruppi tanto divisi fra loro e riafferma il ruolo unico e fondamentale di Cristo e quello diverso e secondario dei predicatori, di chiunque si tratti, lui compreso". Sembra cronaca contemporanea, materiale da dibattito dentro e fuori la vigna scossa dal vento impetuoso che soffia a folate ora più deboli ora più forti sulla cupola che sovrasta la basilica vaticana. Ma proprio l'intemerata paolina dimostra che, in fin dei conti, nulla di nuovo c'è, che fazioni e divisioni hanno da sempre albergato sulla barca di Pietro. Lo sapeva bene pure sant' Agostino, padre della chiesa che mette sì tutti d'accordo, ma che in vita se la prese contro ariani, pelagiani, semipelagiani, donatisti, manichei e altre orde di eretici a vario titolo conclamati: "Pur agitata e scossa, la chiesa non crolla. Perché è fondata sulla pietra", diceva a mo' di rassicurazione il vescovo di Ippona, in epoca turbolenta di barbariche invasioni da nord, di concili frequentissimi e non indolori. Francesco ha urlato che quella delle di visioni "è una guerra sporca" dove è ben visibile la mano del diavolo, che "ha due armi potentissime per distruggere la chiesa: le divisioni e i soldi. E questo è accaduto sin dall'inizio, divisioni teologiche e ideologiche che laceravano la chiesa. Il diavolo semina gelosie, ambizioni, idee" e lo fa per dividere. "E noi, ingenui, stiamo al suo gioco". Quasi cinquant' anni fa, il 27 aprile del 1969, l'Espresso uscì nelle edicole con una copertina monotematica dedicata al "dramma della chiesa". Il mondo era sotto i colpi della contestazione più o meno rivoluzionaria, la chiesa del dopo Concilio (già spaccata) lo sarebbe stata ancora di più in seguito alla promulgazione della Humanae vitae, l'enciclica che scatenò un moto di ribellione tale che Paolo VI, da quel momento, di encicliche non ne avrebbe più scritte per i suoi ultimi nove anni di pontificato. "Qual è il ruolo del prete nella società contemporanea? Le strutture della chiesa impediscono una seria attività pastorale? Ha ancora senso il principio di autorità?": sono queste le principali domande che si poneva l'Espresso, tutti argomenti assai validi anche oggi, mezzo secolo e cinque papi dopo. Le tesi suonano ben familiari: "Si contesta il governo della chiesa, lo stile monarchico, assolutista, con cui viene retta la comunità dei fedeli. Si contesta la curia, si contesta l'episcopato". La diagnosi pare estratta da qualche analisi giornalistica di questi ultimi tempi, con la conta delle varie cordate e degli schieramenti banalmente ridotti a essere filo o contra papisti: "Esiste nei gangli più riposti della chiesa di Roma una crisi di strutture". Pareva, allora, tutto sul punto di squagliarsi, con il Papa giudicato un retrogrado (se non un reazionario) da chi pochi anni prima l'aveva considerato l'alfiere della modernità trionfante e sospettato di modernismo da chi mai aveva metabolizzato la sua rinuncia alla tiara e le innovazioni da lui abbracciate negli anni conciliari. Aveva però ragione sant'Agostino, la chiesa è sopravvissuta, Paolo VI è diventato beato, c'è stato il quarto di secolo giovanpaolino seguito dall'esperienza ratzingeriana. Poi è arrivato Francesco, il gesuita preso quasi alla fine del mondo, e di primavera s'è tornato a parlare, un po' come nel 1963. Rivoluzionario, s'è detto, se non altro per quel nome pesante scelto. Progressista, hanno rimarcato altri, esaminando i gesti dirompenti messi in pratica dall' ex arcivescovo di Buenos Aires. Deciso a rivoltare la chiesa come fosse un calzino, hanno chiosato altri ancora, perché o si esce dal proprio recinto un po' ammaccato o si muore per asfissia. E Francesco tutto vuole meno che la chiesa si riduca a essere un enorme museo con preti tristi occupati a spolverare reliquie che rimandano a un tempo che non può tornare. Al Papa essere chiamato rivoluzionario non piace, più volte ha ricordato che Ecclesia semper reformanda e che non vi è alcuna stravaganza o innovazione nel suo incedere. "Il famoso aggiornamento di Giovanni XXIII è proprio questo. Ci sono esigenze che sono legate al tempo in cui si vive. Non vogliamo seguire il rigore che ha segnato i primi anni del XX secolo, ma applicare il Concilio Vaticano II. Francesco non sta inventando niente, semplicemente applica", diceva già due anni fa padre Pepe di Paola, cura villero attivo nelle enormi ville miseria che cingono Buenos Aires e che meglio di ogni altri conosce Jorge Mario Bergoglio. A Ross Douthat, columnist conservatore e cattolico del New York Times, le spiegazioni dalle periferie argentine e le formule tratte dal latinorum non bastano. Senza troppo badare al forbito ed edulcorato lessico politicamente corretto, Douthat scrisse d'una "guerra civile ai più alti livelli della chiesa". Per lui, quel Sinodo era il punto di non ritorno, la scintilla capace

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di dare fuoco alle polveri già da tempo sparse sul campo. Leggeva la relazione finale dell'assemblea voluta da Bergoglio e osservava che la visione secondo cui "tutto ciò che c'è di cattolico possa cambiare quando i tempi lo richiedono, sa di eresia secon do ogni ragionevole definizione del termine". Sdoganava, l'editorialista conservatore, la parola tabù che nessuno s'era azzardato a pronunciare, anche perché dopotutto quella relazione finale era stata fatta propria dal Pontefice in persona. "Il nodo è tutto qui: il rapporto con il mondo di oggi", chiariva padre Antonio Spadaro, il direttore della Civiltà Cattolica che figura tra le persone più ascoltate dal Papa regnante. Ed è anche qui che sta il problema, il discrimine tra chi martinianamente lamenta una chiesa rimasta indietro di duecento anni rispetto al secolo e chi voleva e vuole anticipare le derive di quello stesso secolo. Douthat non faceva altro che dare corpo, magari senza troppo badare al rigore teologico o alla fine eloquenza, a un sentimento diffuso nei meandri della chiesa, fino ai sacri e ovattati palazzi romani. La fotografia che il columnist presentava al lettore newyorchese era quella di una rivincita di "attempati progressisti" sui "giovani wojtyliani e ratzingeriani", con il modello cristiano europeo difeso a spada tratta dai vescovi africani e "un Papa gesuita in guerra con quella che fu la Santa Inquisizione". Dove per Santa Inquisizione Douthat intendeva Gerhard Ludwig Müller, il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede che s' era mostrato anche pubblica mente poco propenso a sposare certe teorie pre e para sinodali che largo spazio avevano trovato sui media d'ogni parte del globo. E che erano condivise dal Papa, come è apparso chiaro con il severo discorso da lui pronunciato ai padri al termine dell' assise biennale che aveva avallato la svolta sulla pastorale della famiglia, aprendo porte (che peraltro non erano già chiuse) al riaccostamento al matrimonio dei divorziati risposati. Cosa impossibile, aveva scritto Müller sull' austero e ufficiale Osservatore Romano, richiamando al "dovere di dare alla misericordia, che è sì il nucleo centrale del messaggio evangelico e il nome stesso di Dio, il giusto valore e significato" perché altrimenti "si incorre nel rischio della banalizzazione dell' immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare". C'è qui una buona parte del gran dissidio che ha diviso vescovi e cardinali in schieramenti avversi, quasi fossero due squadre in campo a contendersi un trofeo assai prestigioso. La semplificazione mediatica ha etichettato i fronti secondo le vecchie categorie, i conservatori di qua e i progressisti di là, il partito del Sale della Terra a difendere l' eredità wojtyliana contro il Club di San Gallo dominato dal cardinale Danneels, determinato a svoltare, a inaugurare una nuova fase, una nuova storia nella millenaria vita della chiesa, con il rischio che alla fine, lavorando sulla dottrina, venga meno la communio, la base sulla quale far incontrare le diverse anime della chiesa. Il Sinodo, insomma, che scorie e veleni ne ha lasciate in abbondanza, sarebbe solo una prima tappa della grande rivoluzione attesa e promessa e avviata con il Conclave dell' inverno 2013. Perché la rivoluzione è stata annunciata e in qualche modo promessa dal Papa stesso, nel suo documento programmatico, l'esortazione Evangelii gaudium, promulgata otto mesi dopo la sua elezione. Cinque capitoli, 288 paragrafi, più di centotrenta pagine che si aprirono sottolineando che "ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e delle conseguenze importanti. Tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora - aggiungeva - non ci serve una semplice amministrazione. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno stato permanente di missione". L'obiettivo finale, esplicitato: "Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l'evangelizzazione del mondo attuale, più che per l'autopreservazione". Un programma ambizioso e vasto, potente al punto che le resistenze sono quasi naturali. E, soprattutto, di lungo respiro. Anche per questo sembra prematuro certificare il fallimento dell' intento di Francesco nel delineare lo spettro della sua riforma, come da ultimo ha fatto anche il liberal New York Times, con un editoriale di Matthew Schmitz, firma di primo piano dell'autorevole e seria rivista conservatrice First Things. Schmitz ammetteva sì il miglioramento "della percezione del papato, o quantomeno del Papa", sottolineando la grande popolarità di Bergoglio. Ma subito dopo osservava che nonostante questa empatia i cattolici americani in chiesa ci vanno sempre meno e che i millennial che avevano partecipato al rito dell'imposizione delle ceneri erano stati di più nel 2008, regnante Benedetto XVI, rispetto a quest'anno. Osservazioni

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oggettive, ça va sans dire, ma che non tengono presente quella premessa che lo stesso Papa aveva apposto al suo documento programmatico. Non si tratta di dare un giudizio di merito su quali saranno gli esiti (fausti o infausti) della riforma, ma è prematuro tirare le somme ora. Lo stesso Schmitz, alla fine, lo riconosce, quando scrive che "forse è troppo presto per giudicare. Probabilmente non avremo una misura piena dell'effetto-Francesco fino a quando la chiesa sarà governata da vescovi da lui nominati e da sacerdoti che adottano il suo approccio pastorale. E questo richiederà anni o decenni". Qualcosa inizia a muoversi, se è vero che il concistoro del prossimo 19 novembre sarà quello (dei tre tenuti dal Pontefice argentino) che più segna la svolta, con i profili dei nuovi cardinali quasi tutti riconoscibili nel profilo del vescovo immaginato e teorizzato dal Papa regnante. La strada, però, è lunga e dopotutto una delle frasi al primo impatto più enigmatiche di Francesco, da lui spesso ripetuta, è che "il tempo è superiore allo spazio". Per comprenderne il significato e, di riflesso, avere la conferma di quanto la riforma innestata sia solo all'inizio, è utile leggere quanto il Pontefice scrive nella Lumen fidei, la sua prima enciclica: Non facciamoci rubare la speranza, non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino, che frammentano' il tempo, trasformandolo in spazio. Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza. Di certo, il documento che ha messo la parola fine al Sinodo, l'esortazione Amoris laetitia, è un punto di partenza, il primo passo di una riforma che farà voltare pagina alla chiesa al termine di un periodo di 1.700 anni, diceva sicuro di sé il cardinale Walter Kasper, eminenza di spicco nel campo dei riformatori sensibili allo spirito del tempo. Tempo che la chiesa deve vivere e sapere interpretare, aveva aggiunto. Tutto bene, l'importante è che, per dirla con un cardinale come Camillo Ruini, l'indispensabile ricerca delle pecore smarrite non metta in difficoltà le coscienze delle pecore fedeli. Kasper, fine teologo e contraltare per decenni di Joseph Ratzinger, ha sempre sostenuto che la chiave per far partire la grande riforma consiste nel separare la prassi che evolve a seconda delle contingenze dell'epoca storica dalla dottrina, che resterebbe immutata. Il problema è che, a giudizio di Müller (altro teologo, altro tedesco) separare la dottrina dalla prassi riflette una sottile eresia. Una battaglia che per molti aspetti pare essere confinata alla complessa e pesante realtà tedesca, dove una chiesa ricchissima che si finanzia grazie alla Kirchensteuer, la tassa che ogni battezzato è impegnato a versare, è la capofila del cambiamento. E vista l'emorragia costante di fedeli, con il conseguente calo degli introiti, molti vescovi sono disposti ad allargare le maglie, cavalcando quella falsa misericordia cui accennava il prefetto dell'ex Sant'Uffizio per rimpolpare le casse ecclesiastiche. La fotografia della situazione l'ha fornita Benedetto XVI nel suo ultimo libro scritto con Peter Seewald: In Germania abbiamo un cattolicesimo strutturato e ben pagato, in cui spesso i cattolici sono dipendenti della chiesa e hanno nei suoi confronti una mentalità sindacale. Per loro ha proseguito Ratzinger la chiesa è solo il datore di lavoro da criticare. Non muovono da una dinamica di fede. Credo che questo rappresenti il grande pericolo della chiesa in Germania: ci sono talmente tanti collaboratori sotto contratto che l'istituzione si sta trasformando in una burocrazia mondana. Ed è da quella realtà che si sono avute le richieste di aprire le porte alla rivoluzione, con il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e presidente della Conferenza episcopale tedesca, che avvertiva: Non siamo una filiale di Roma e non sarà un Sinodo a dirci cosa fare qui. Significato implicito del monito: più spazio alle chiese locali, anche in materia dottrinaria. Una sorta di devolution, per usare terminologie politiche note; la richiesta dell'avvio di un processo che porti alla concessione di autonomia alle realtà ecclesiali nazionali. E si torna alla grande divisione: esultano i favorevoli, condannano i contrari, vedendo nel disegno una brutta copia dell'organizzazione delle chiese ortodosse autocefale o, più profanamente, la caricatura di una megaditta con le sue succursali in giro per il mondo. Estendendo di più il quadro e uscendo dalla dinamica Roma vs Germania che ha segnato la storia del cristianesimo europeo nell'ultimo mezzo millennio, si percepisce subito che le posizioni tedesche sono condivise anche dalla folta schiera delle chiese centro e nord europee. Realtà in enorme sofferenza, ormai da decenni secolarizzate e spesso alle prese con astrusi programmi pastorali per cercare di fermare la grande ritirata della presenza cattolica. La Repubblica ceca è il paese più ateo d'Europa. La Francia dominata dal culto laicista è immersa nella contraddizione che vuole chiese affollate nel sud e la desertificazione a settentrione. Il

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Belgio vede la chiesa cattolica divisa tra tentativi di ripartenza e vescovi intenti a congegnare stravaganti idee per rinfrescare il cattolicesimo. Cosa posso fare?, si chiedeva il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, città dove cattolici quasi non ve ne sono più. Aprendo ancora di più gli orizzonti, si vede come queste opzioni aperturiste siano condivise spesso anche in quelle periferie sulle quali tanto insiste Francesco. Il cardinale honduregno Oscar Rodríguez Maradiaga, l'ha detto esplicitamente: Sono fermamente convinto che la chiesa sia all'alba di una nuova èra, come cinquant'anni fa, quando Giovanni XXIII aprì le finestre per far entrare aria fresca. Un'èra in cui non ci sarà spazio per il ragionamento rigido che distingue solo tra bianco e nero: Müller è un tedesco, un professore di Teologia tedesco. Nella sua testa c'è solo il vero e il falso. Però io dico, fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po' flessibile quando ascolti altre voci. E quindi non solo ascoltare e dire no, spiegava. E la posizione di Maradiaga ha un notevole seguito tra le gerarchie latinoamericane, benché anche qui con sfumature diverse che rendono impossibile e vana una divisione tra conservatori e progressisti come si fece ai tempi del Vaticano II. Definita come contraltare della forza innovatrice tedesca è stata la chiesa statunitense, coltivata con cura nella stagione giovanpaolina e ratzingeriana. Fin dall'inizio del pontificato corrente è apparso chiaro come gli obiettivi e le priorità di Francesco non fossero in sintonia con quelle della chiesa americana, le cui alte gerarchie sono orientate sulla linea wojtylana cavalcando quel conservatorismo muscolare entrato poi in crisi d'identità, essendosi dimostrato incapace di fermare la deriva secolarizzante. Una direttrice diversa, una visione del mondo opposta che è emersa nel corso del viaggio di Francesco in terra americana, nel settembre del 2015. Tra tutti i discorsi pronunciati, ve n'è uno che chiarisce quanto forte fosse la richiesta di conversione auspicata dal Papa per l'episcopato statunitense. Parlando a Washington, Bergoglio tuonava contro l'uso della croce a mo' di vessillo di lotte mondane, dimenticando che la condizione della vittoria duratura è lasciarsi trafiggere e svuotare di se stessi. Tante, diceva, sono le tentazioni di chiudersi nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze. Insomma, la proposta era palese: basta con i fortini entro cui trincerarsi combattendo la buona battaglia perché il Papa disse che è spesso ostile il campo nel quale seminate. La scelta di concedere la porpora a Blase J. Cupich, arcivescovo di Chicago, a Joseph Tobin e Kevin Farrell è la conseguenza di quelle parole: profili lontani dal guerriero culturale e ben più attenti alle questioni di giustizia sociale che un posto di rilievo hanno nell'agenda di Francesco. Ma anche nella complessa realtà americana sarebbe superficiale categorizzare conservatori di qua e progressisti di là, quasi fosse una riduzione in chiave ecclesiastica della divisione tra repubblicani e democratici. Si prenda il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York che del superamento della rigida catalogazione in presuli di destra e sinistra è il principale fautore. Con il suo stile particolare, quello del thank you for stopping by, come back soon! Okay? detto al Papa a St. Patrick, un anno fa, da un lato si mantiene fermo nell'attaccare il secolarismo riduttivo ma al contempo tenta di aprire brecce nel fortino eretto a difesa sempre più blanda dei cattolici, ormai una nuova minoranza. La richiesta era quella di badare meno alle regole fisse, alla predicazione di complesse dottrine, al linguaggio aspro e bellicoso della divisione che non si addice alle labbra del pastore, non ha diritto di cittadinanza nel suo cuore. Un messaggio diretto sì ai vescovi americani ma anche un chiaro indirizzo di comportamento alla chiesa universale. E non è certo un caso se le nomine dei pastori inviati in giro per il mondo rispecchino nella quasi totalità dei casi proprio tali princìpi, riassumibili nell'identikit del pastore con l'odore delle pecore. E' questa la rivoluzione pratica che Francesco ha messo in moto in questo primo triennio di pontificato, più semplice e ben più visibile di quella conversione dei cuori che mille ostacoli trova. E' troppo presto. Di certo, è stato messo in moto un processo che nel Sinodo ha avuto il suo momento topico, al punto che la sua dinamica ha ricordato a più di un osservatore le intersessioni conciliari. Un processo che ha diviso. Mai era accaduto che in sala stampa il cardinale che aveva firmato la relazione di metà percorso (l'ungherese Péter Erdo) la sconfessasse pubblicamente. Mai era accaduto che diversi vescovi, conversando con i giornalisti, spiegassero che quel testo non corrispondeva per nulla al tenore del dibattito avvenuto a porte chiuse. Emergeva un fronte dissidente che riuniva l'Europa orientale con l'Africa, quest'ultima per la prima volta protagonista. Pressoché compatta, aveva nei cardinali Robert Sarah e Wilfrid Fox

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Napier i principali oppositori alla linea mitteleuropea teorizzata da Kasper, da molti vescovi asiatici e latinoamericani. Il Papa risolse la disputa plaudendo alla vivacità della chiesa cattolica, che non ha paura di scuotere le coscienze anestetizzate o di sporcarsi le mani discutendo animatamente e francamente, ma schierandosi ancora una volta contro i cuori duri che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della chiesa, o dietro le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite. La conferma della volontà di muoversi verso una chiesa più compassionevole e meno rigida, meno attaccata alle regole. Il problema, scriveva Damien Thompson in un tagliente commento apparso sullo Spectator nell'autunno scorso, è che Francesco si rifiuta di dire fino a dove voglia arrivare e appare ormai fuori controllo. Giudizio secco, che bollava già come fallita la rivoluzione che pure era partita. Ma che, in fin dei conti, è una carezza rispetto all'interrogativo che provocatoriamente (o forse no) diversi intellettuali si sono posti e hanno posto al mondo: Il Papa è cattolico? Alla Fordham University università gesuita hanno perfino organizzato una tavola rotonda sul tema. Cosa significa per la chiesa cattolica il nuovo tono che Papa Francesco ha dato al papato? Quali cambiamenti nella dottrina o nella pratica egli sta davvero suggerendo? Saranno attuati?, erano le domande alle quali gli oratori erano chiamati a dare risposta. Vi partecipava anche Douthat, che rivelava la principale accusa che gli oppositori muovono a Francesco: Introdurre un livello di ambiguità nella dottrina della chiesa che era sempre stato assente. Nel mirino del columnist del Nyt, ancora l'esortazione Amoris laetitia, un documento volutamente destabilizzante. Alla fine, più che sul Papa, chiosava David Gibson, il discorso dovrebbe cadere su ciò che oggi è il cattolicesimo. Ed è questo, paradossalmente, l'oggetto della contesa: se tutti sono d'accordo sulla necessità dell'uscita in missione, dell'avvio di una campagna rievangelizzatrice che punti tutto sull'attrazione e tenga alla larga ogni tentazione di proselitismo, non tutti sono disposti a scendere a patti con il mondo con il rischio di diluirsi in esso pur di guadagnare, forse, la spinta decisiva per resistere alla grande onda secolarizzante. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II L’addio di don Flavio, Spinea non giudica: “Siamo tutti con lui” di Melody Fusaro e Nicola De Rossi I commenti sul sagrato: “Chi non ha peccato scagli la prima pietra” Alla messa delle 9.15 c'è ancora qualcuno che non lo sa e si sorprende. Le parole del vicario foraneo don Giorgio Riccoboni, è lui a celebrarla, sono misurate, proprio come il giorno prima. La spiegazione è quella che è già stata data sabato sera: «Don Fulvio Gobbo ha chiesto una sospensione, vuole riposare». E al termine della messa chiede discrezione: «E quando usciamo non venite a cercare spiegazioni, con me si parla solo della partita della Juve - scherza - e nemmeno con don Paolo (Slompo, il cappellano, ndr) che in questi giorni ha già un gran daffare per mandare avanti tutte le attività della parrocchia». La comunità è quella dei Santi Vito e Modesto di Spinea che domenica mattina, leggendo "Il Gazzettino", ha scoperto l'improvvisa partenza del proprio parroco, don Flavio Gobbo. Un prete che era arrivato lì solo da un paio d'anni ma aveva già instaurato un forte legame con i suoi parrocchiani. Poi all'improvviso la scelta di andare via, con la richiesta di sospensione presentata al vescovo di Treviso. «Una situazione di affaticamento», la spiegazione data sabato sera, nella prima messa dopo la sua partenza «avrebbe voluto dare personalmente questa comunicazione e salutarvi tutti, ma immaginando che la commozione avrebbe preso il sopravvento ha scelto che il distacco fosse immediato. Noi vogliamo ricordarlo con gratitudine e affetto». E domenica mattina in chiesa si chiede di nuovo rispetto per la scelta di don Flavio. E i suoi parrocchiani ci aggiungono anche molto affetto e gratitudine: «Siamo tutti con lui - commentano alcune donne sul sagrato -, non ci interessano le ragioni ma apprezziamo la sua coerenza». Poco distante un'altra parrocchiana discute con dei ragazzi: «Chi non ha peccato scagli la prima pietra. Io, in cuor mio, penso a lui con affetto e spero solo che sappia tirarsi su». Soprattutto tra i più giovani erano molto apprezzate le sue omelie: «Era molto bravo sotto l'aspetto pastorale - commenta un trentenne -, le sue prediche erano spontanee e potenti. Tornavo a casa e ci riflettevo tutto il giorno». L'appoggio è unanime: «Qualsiasi sia il motivo non vediamo l'ora di poterlo salutare - dice Giada, una

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parrocchiana -. È meglio prendere una pausa, se non si è sicuri, piuttosto che mancare di rispetto al ruolo che si ricopre». Anche nei social un coro di ringraziamenti, apprezzamenti. E di inviti a mettere fine ai pettegolezzi. L'amarezza è solo per non essere riusciti a parlare con lui, a salutarlo. «Forse è solo una crisi di vocazione - conclude Enzo, un altro parrocchiano -, o magari semplicemente un periodo di stanchezza. Noi non possiamo saperlo, speriamo che si rassereni e che venga lui a parlarcene, prima o poi». Anche nella vicina Maerne ha destato sconcerto, e ha aperto una riflessione sulla vita del sacerdote e le sue difficoltà, la sofferta scelta di don Flavio Gobbo di lasciare improvvisamente (e definitivamente?) il suo incarico di parroco presso la parrocchia di San Vito e Modesto, a Spinea: ufficialmente, per una pausa e un periodo di riposo e di riflessione. Il 46enne sacerdote originario di Preganziol, infatti, ha prestato servizio per 3-4 anni come seminarista in parrocchia a Maerne, quand'era parroco don Giovanni Salvalaggio, rimanendovi fino al termine degli studi e fino alla sua ordinazione sacerdotale, avvenuta in cattedrale a Treviso il 25 maggio 1996: in pratica, gli anni cruciali della sua formazione. In questa veste di "aiuto" dei sacerdoti dell'epoca, don Flavio ha lasciato un profondo e positivo ricordo in tutta la comunità, in particolare tra i ragazzi di allora, oggi quarantenni (o quasi). Il religioso per tanti giovani del paese, di cui era poco più che coetaneo, è stato un punto di riferimento, un buon fratello maggiore e un modello, animandoli in tanti campi scuola dell'Azione Cattolica o anche nei Grest, le attività estive parrocchiali, una felice esperienza introdotta in parrocchia e consolidata anche grazie a lui e alla sua passione per i ragazzi. Tra quei giovani oggi cresciuti, molti dei quali hanno mantenuto anche negli anni i contatti con don Flavio, nonostante le strade diverse intraprese, vi è anche l'attuale vicesindaco, Marco Garbin, che interpreta lo stupore generale. «Confesso di essere rimasto molto sorpreso di fronte ad una scelta di questo genere - ammette - Tra le tante doti, don Flavio aveva una profonda vocazione, che ha saputo anche trasmetterci: di lui ho uno splendido ricordo come sacerdote. Si tratta comunque di dinamiche interiori e personali che vanno prese con il massimo rispetto». Martellago. «Non lasciate soli i preti, o il destino sarà sempre di più questo». Anche il parroco di Maerne, don Paolo Magoga, ha toccato nelle messe di ieri il caso di don Flavio, peraltro suo compagno in seminario a Treviso e di cui ha ricordato il carattere mite e la stima di cui godeva in paese, dicendosi anche lui stupito. Partendo dalla lettura tratta dall'Esodo, dove si parla di Mosè che prega e si fa aiutare da Aronne e Cur a tenere alzate le braccia che cadevano per la stanchezza, nell'omelia don Magoga ha aperto una riflessione e lanciato un appello e un grido di allarme per la "categoria". «Ciò che è successo deve farci pensare. Noi preti più di altri siamo sotto attacco del maligno, non possiamo essere "tirati" dappertutto, sempre sotto pressione; come tutti gli esseri umani abbiamo necessità dei nostri tempi, di riflessione, preghiera, riposo. Per questo abbiamo bisogno di persone e di una comunità che ci sostengano, altrimenti il destino è questo, si arriva al logoramento», ha concluso don Paolo, precisando però di non alludere in alcun modo a un'eventuale apertura ai sacerdoti del matrimonio, «a cui sono contrario: la soluzione non è questa». LA NUOVA Pag 12 Don Flavio Gobbo lascia: “Sono stanco” di Filippo De Gaspari Spinea: il parroco di San Vito e Modesto ha ottenuto dal vescovo un periodo di riposo. Don Giorgio: “Nessuna fuga sentimentale” Spinea. Impressione nella comunità per la decisione di don Flavio Gobbo di lasciare il pulpito. Il parroco di San Vito e Modesto ha chiesto e ottenuto dal vescovo di Treviso Gianfranco Agostino Gardin un tempo di riposo e riflessione, lasciando improvvisamente la comunità che guidava da due soli anni. La notizia è stata data ieri durante le messe della domenica, portata dal vicario foraneo del vicariato di Mirano, che è anche parroco della vicina Martellago, don Giorgio Riccoboni: è toccato a lui leggere all’inizio delle celebrazioni il messaggio del Vescovo e dello stesso don Flavio ai fedeli. «Non c’è cosa più sofferta che dare notizie come questa», ha esordito don Giorgio, «oggi ci è chiesto

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solo di pregare, perché il Signore ci aiuti a discernere nei fatti che segnano la vita di questa vostra comunità quale sia la sua volontà su di voi». Poi ha spiegato: «Don Flavio interrompe da oggi il suo servizio in parrocchia: una situazione di affaticamento e logoramento lo ha convinto a chiedere ai superiori un periodo di riposo. Il Vescovo glielo ha concesso e non mancherà di darvi un aiuto adeguato: il vicario generale della diocesi incontrerà nei prossimi giorni il consiglio parrocchiale, informandolo su chi assumerà il compito di aiuto pastorale. Don Flavio avrebbe desiderato dare personalmente questa comunicazione e salutare la comunità, ma immaginando che l’emozione avrebbe preso il sopravvento, ha chiesto che il suo distacco potesse avvenire in punta dei piedi. Assicura che porta tutti nella preghiera e chiede anche lui di essere ricordato da ognuno di noi». La notizia è arrivata come un fulmine a ciel sereno a Spinea già nella serata di sabato, anticipata dal giovane vicario parrocchiale don Paolo Slompo durante la messa vespertina. Ieri naturalmente, tra la gente in piazza e fuori da messa, non si parlava d’altro. La gente ha cercato di capire cosa fosse successo al loro parroco e cosa lo abbia spinto a rinunciare all’incarico e andarsene senza preavviso. Anche perché l’eco di altre recenti “fughe” di sacerdoti dalle loro parrocchie era giunto fin qui, ai confini della curia trevigiana. Non è dato sapere però dove si trovi ora don Flavio, quali siano le ragioni profonde del suo addio e soprattutto se sia previsto un suo ritorno. Don Flavio Gobbo era arrivato a Spinea due anni fa, celebrando proprio in questi giorni il suo ingresso a San Vito e Modesto accompagnato dal vescovo Gardin. Quarantasei anni, originario di Preganziol, è stato ordinato prete nel 1996. A Spinea, due anni fa, aveva preso il posto del parroco-istituzione don Antonio Genovese, andato a guidare la parrocchia di Montebelluna. Più riservato e schivo del suo predecessore, le prime parole di don Flavio Gobbo a Spinea suonano oggi come un presagio: «Cerco di essere prete con umiltà», aveva detto nella messa d’insediamento, «noi sacerdoti siamo ministri secondo lo spirito di servizio e io vorrei essere un testimone qui: non vado in cerca di cose più grandi delle mie forze, quando il Vescovo ha pronunciato la parola “Spinea” mi sono tremate le gambe, ora tranquillo non sono, ma sereno sì». Spinea. «Guardatevi dalle mormorazioni, sono come serpentelli che sicuramente si muoveranno tra voi nei prossimi giorni. È difficile rendersi conto di quanto male possano fare in chi li riceve e anche in chi li manda». Il vicario foraneo don Giorgio Riccoboni ammonisce durante l’omelia i fedeli di Spinea a lasciarsi andare a ipotesi o peggio illazioni, quando già qualcuno parlava addirittura di fuga per legami affettivi o ragioni sentimentali. Poco dopo è la Diocesi di Treviso a precisare che quello di don Flavio è solo un anno sabbatico, peraltro previsto dal Direttorio per il ministero e la vita del presbitero: si tratta di tempi di pausa che, in caso di stanchezza, fisica o psicologica, i sacerdoti possono concordare con il vescovo. Nessuna fuga dunque. E i più stretti collaboratori di don Flavio sono dello stesso avviso: «Lasciamo perdere le chiacchiere, potrebbe tornare, come speriamo: preghiamo per lui e perché questo accada. Non rendiamogli ancor più gravoso questo tempo di riposo e la possibilità di un ritorno». Giovedì intanto in parrocchia è previsto il consiglio pastorale e in quell’occasione un delegato del vescovo potrebbe già comunicare il nome del sostituto pro-tempore. Non sarà la nomina ufficiale di un nuovo parroco, ma un incarico di aiuto pastorale, per affiancare il giovane cappellano don Paolo e l’intera collaborazione pastorale di Spinea (che comprende anche l’altra parrocchia cittadina, Santa Bertilla) in questo momento di transizione. Qualcosa di simile è già successo negli anni scorsi, sempre nel Miranese, ma in diocesi di Padova, nella piccola parrocchia di Sant’Angelo di Sala. Fuori da messa i commenti si sprecano e sono quasi tutti di vicinanza a don Flavio: «Forse è anche un po’ colpa nostra», riflette un uomo, «nelle nostre parrocchie oggi si fatica a vedere vera comunione. Dovremmo stringerci di più ai nostri pastori, dando una mano pratica, ma anche un sostegno morale a questi parroci, uomini come noi, con tutte le loro debolezze». Spinea. Parroci che lasciano, vocazioni messe a dura prova dai tempi e dalle fragilità umane. Il caso di don Flavio Gobbo a Spinea è solo l’ultimo in ordine di tempo e chiama tutti, non solo religiosi, a una riflessione. Appena un mese fa l’addio di don Marco Scarpa (nella foto), a Venezia, scuote il patriarcato e le coscienze dei fedeli: d’accordo con il patriarca Francesco Moraglia il parroco di San Pantalon lascia la tonaca per affrontare,

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dice: «Un cammino di verifica sulla mia vita e sulle mie scelte, soprattutto nell’ambito dell’affettività». Nelle stesse ore è don Alberto Bernardi, della parrocchia del Sacro Cuore di Treviso, già sacerdote a San Donà e Martellago, a scrivere al vescovo Gardin prima di lasciare tutti gli incarichi . In diocesi di Padova, ma sempre nel veneziano, il precedente porta nella piccola parrocchia di Sant’Angelo di Sala: un anno fa don Pietro Cappellari comincia a non dare più notizie di sé e di fatto lascia la guida della parrocchia salese di San Michele Arcangelo. L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 8 Le radici e la memoria Francesco ricorda che gli anziani hanno un ruolo essenziale nella Chiesa e nella società Un nuovo monito contro «la cultura nociva dello scarto», che esclude ed emargina i più deboli, è stato lanciato da Papa Francesco durante l’udienza a settemila appartenenti alla Senior Italia Federanziani e all’Associazione nazionale lavoratori anziani, ricevuti nella mattina di sabato 15 ottobre, nell’Aula Paolo VI. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Mi rallegro di vivere insieme con voi questa giornata di riflessione e preghiera, inserita nel contesto della Festa dei Nonni. Vi saluto tutti con affetto, ad iniziare dai presidenti delle Associazioni, che ringrazio per le loro parole. Esprimo il mio apprezzamento a quanti hanno affrontato difficoltà e disagi pur di non mancare a questo appuntamento; e al tempo stesso sono vicino a tutte le persone anziane, sole o ammalate, che non hanno potuto muoversi da casa, ma che sono spiritualmente unite a noi. La Chiesa guarda alle persone anziane con affetto, riconoscenza e grande stima. Esse sono parte essenziale della comunità cristiana e della società. Non so se avete sentito bene: gli anziani sono parte essenziale della comunità cristiana e della società. In particolare rappresentano le radici e la memoria di un popolo. Voi siete una presenza importante, perché la vostra esperienza costituisce un tesoro prezioso, indispensabile per guardare al futuro con speranza e responsabilità. La vostra maturità e saggezza, accumulate negli anni, possono aiutare i più giovani, sostenendoli nel cammino della crescita e dell’apertura all’avvenire, nella ricerca della loro strada. Gli anziani, infatti, testimoniano che, anche nelle prove più difficili, non bisogna mai perdere la fiducia in Dio e in un futuro migliore. Sono come alberi che continuano a portare frutto: pur sotto il peso degli anni, possono dare il loro contributo originale per una società ricca di valori e per l’affermazione della cultura della vita. Non sono pochi gli anziani che impiegano generosamente il loro tempo e i talenti che Dio ha loro concesso aprendosi all’aiuto e al sostegno verso gli altri. Penso a quanti si rendono disponibili nelle parrocchie per un servizio davvero prezioso: alcuni si dedicano al decoro della casa del Signore, altri come catechisti, animatori della liturgia, testimoni di carità. E che dire del loro ruolo nell’ambito familiare? Quanti nonni si prendono cura dei nipoti, trasmettendo con semplicità ai più piccoli l’esperienza della vita, i valori spirituali e culturali di una comunità e di un popolo! Nei Paesi che hanno subito una grave persecuzione religiosa, sono stati i nonni a trasmettere la fede alle nuove generazioni, conducendo i bambini a ricevere il battesimo in un contesto di sofferta clandestinità. In un mondo come quello attuale, nel quale sono spesso mitizzate la forza e l’apparenza, voi avete la missione di testimoniare i valori che contano davvero e che rimangono per sempre, perché sono inscritti nel cuore di ogni essere umano e garantiti dalla Parola di Dio. Proprio in quanto persone della cosiddetta terza età voi, o meglio noi - perché anch’io ne faccio parte -, siamo chiamati a operare per lo sviluppo della cultura della vita, testimoniando che ogni stagione dell’esistenza è un dono di Dio e ha una sua bellezza e una sua importanza, anche se segnate da fragilità. A fronte di tanti anziani che, nei limiti delle loro possibilità, continuano a prodigarsi per il prossimo, ce ne sono tanti che convivono con la malattia, con difficoltà motorie e hanno bisogno di assistenza. Ringrazio oggi il Signore per le molte persone e strutture che si dedicano a un quotidiano servizio agli anziani, per favorire adeguati contesti umani, in cui ognuno possa vivere degnamente questa importante tappa della propria vita. Gli istituti che ospitano gli anziani sono chiamati ad essere luoghi di umanità e di attenzione amorevole, dove le persone più deboli non vengono dimenticate o trascurate, ma visitate, ricordate e custodite come fratelli e sorelle maggiori. Si esprime così la

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riconoscenza verso coloro che hanno dato tanto alla comunità e sono la sua radice. Le istituzioni e le diverse realtà sociali possono fare ancora molto per aiutare gli anziani ad esprimere al meglio le loro capacità, per facilitare la loro attiva partecipazione, soprattutto per far sì che la loro dignità di persone sia sempre rispettata e valorizzata. Per fare questo bisogna contrastare la cultura nociva dello scarto, che emargina gli anziani ritenendoli improduttivi. I responsabili pubblici, le realtà culturali, educative e religiose, come anche tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati a impegnarsi per costruire una società sempre più accogliente e inclusiva. E questo dello scarto è brutto! Una delle mie nonne mi raccontava questa storia, che in una famiglia il nonno abitava con loro [figli e nipoti], era vedovo, ma incominciò ad ammalarsi, ammalarsi..., e a tavola non mangiava bene, e gli cadeva un po’ del pasto. Un giorno il papà ha deciso che il nonno non mangiasse più con loro a tavola, ma in cucina, e ha fatto un tavolino piccolo per il nonno. Così, la famiglia mangiava senza il nonno. Alcuni giorni dopo, quando tornò a casa dal lavoro, trovò uno dei suoi figli piccolini che giocava con il legno, i chiodi, i martelli... “Ma cosa stai facendo?” [gli chiese il papà]. Il bambino gli rispose: “Sto facendo un tavolo” - “Ma perché?” - “Per te. Perché quando tu diventi vecchio, possa mangiare così”. I bambini naturalmente sono molto attaccati ai nonni e capiscono cose che soltanto i nonni possono spiegare con la loro vita, con il loro atteggiamento. Questa cultura dello scarto dice: “Tu sei vecchio, vai fuori”. Tu sei vecchio, sì, ma hai tante cose da dirci, da raccontarci, di storia, di cultura, della vita, dei valori... Non bisogna lasciare che questa cultura dello scarto vada avanti, ma che sempre ci sia una cultura inclusiva. È importante anche favorire il legame tra generazioni. Il futuro di un popolo richiede l’incontro tra giovani e anziani: i giovani sono la vitalità di un popolo in cammino e gli anziani rafforzano questa vitalità con la memoria e la saggezza. E parlate con i vostri nipotini, parlate. Lasciate che loro vi facciano domande. Sono di una peculiarità diversa dalla nostra, fanno altre cose, a loro piacciono altre musiche..., ma hanno bisogno degli anziani, di questo dialogo continuo. Anche per dare loro la saggezza. Mi fa tanto bene leggere di quando Giuseppe e Maria portarono il Bambino Gesù - aveva 40 giorni, il bambino - al tempio; e lì trovarono due nonni [Simeone e Anna], e questi nonni erano la saggezza del popolo; lodavano Dio perché questa saggezza potesse andare avanti con questo Bambino. Sono i nonni ad accogliere Gesù nel tempio, non il sacerdote: questo viene dopo. I nonni. E leggete questo, nel Vangelo di Luca, è bellissimo! Cari nonni e care nonne, grazie per l’esempio che offrite di amore, di dedizione e di saggezza. Continuate con coraggio a testimoniare questi valori! Non manchino alla società il vostro sorriso e la bella luminosità dei vostri occhi: che la società possa vederli! Io vi accompagno con la mia preghiera, e anche voi non dimenticatevi di pregare per me. E ora su di voi e sui vostri propositi e progetti di bene, invoco la benedizione del Signore. Adesso preghiamo la nonna di Gesù, Sant’Anna; preghiamo Sant’Anna, che è la nonna di Gesù, e lo facciamo in silenzio, un attimino. Ognuno chieda a Sant’Anna che ci insegni a essere buoni e saggi nonni. [Benedizione] Grazie. AVVENIRE di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 La grande domanda di Paola Bignardi Giovani e Chiesa: Sinodo provvidenziale È una bella notizia quella diffusa nei gironi scorsi: il prossimo Sinodo dei vescovi sarà dedicato ai giovani. Dà speranza e nuova motivazione a tutti coloro che hanno a cuore le nuove generazioni e che vorrebbero capirle meglio per accompagnarle con maggiore efficacia nel cammino della vita. Il mondo giovanile è quanto mai complesso, anche dal punto di vista religioso: vi è quello degli slanci generosi che si vedono alle Giornate mondiali della gioventù, quello delle inquietudini che tengono tanti giovani sulla soglia della comunità cristiana; quello dei ragazzi e delle ragazze che sono approdati a una indifferenza tale da apparire impermeabili a ogni proposta. La parola del Vangelo è per tutti e la sfida – la grande domanda – che la Chiesa accoglie, anche con questo Sinodo, è quella di interrogarsi su come aprire strade nuove al dialogo con i giovani e al tempo stesso, attraverso di loro, strade nuove per il Vangelo. Le nuove generazioni sono una componente fondamentale della Chiesa, come di ogni società, e non solo perché senza di loro non vi è futuro possibile, ma soprattutto perché essi sono la componente più innovativa e aperta, quella che respira più facilmente l’aria del proprio tempo e può

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provocare la Chiesa a camminare con esso. Quando papa Giovanni volle parlare del rinnovamento che si attendeva dal Concilio, parlò di ringiovanimento: le nuove prospettive cui la Chiesa era chiamata a orientarsi dovevano avere il sapore di novità e l’apertura al futuro della giovinezza. Oggi è evidente che i giovani vivono un profondo disagio verso la Chiesa e la proposta di vita cristiana. Basta vedere quanto esigua, sebbene non irrilevante, sia la presenza giovanile alle assemblee domenicali o ad altri appuntamenti ecclesiali. I dati della ricerca dell’Istituto Toniolo dicono che appena un quarto, per l’esattezza il 24%, di coloro che si dichiarano cattolici hanno una frequenza settimanale a un rito religioso. Eppure il desiderio di Dio non si è spento nel cuore dei giovani, che però si trovano alle strette in ogni comunità cristiana che non abbia rinnovato i suoi linguaggi, che non abbia trovato nuovo slancio per la sua azione missionaria, che non viva con uno stile gioioso la sua testimonianza quotidiana. La maggior parte della generazione giovanile ha ricevuto una formazione alla vita cristiana negli anni della fanciullezza, e ha tagliato i ponti con la comunità appena dopo la celebrazione dei sacramenti. La vita tuttavia ha proposto a essa le grandi domande che solo nell’incontro con il Signore e il suo Vangelo trovano quiete: ma quali strade percorrere, se nel frattempo si sono perduti i contatti con i contesti dove queste domande possono essere affrontate? Come continuare a coltivare il desiderio di Dio e la ricerca di Lui, senza avere al fianco qualcuno che faccia da guida? Come costruire il proprio progetto di vita, integrando in esso gli orizzonti della fede, se di essa non si è ancora maturata una visione adulta e convincente? Le domande restano sepolte sotto gli impegni di ogni giorno: studi, lavoro, amici, tempo libero, social... salvo riaffiorare in circostanze particolari, magari quando la vita riserva qualche esperienza dura. Oppure vengono affrontate in solitudine, e l’approdo è quello di una fede senza riferimenti, senza comunità, senza storia. È l’esperienza di tanti giovani, che nella ricerca di ragioni personali per credere e nello sforzo di trovare forme attuali alla loro esperienza spirituale finiscono con il confezionarsi una fede su misura. Il prezioso percorso verso una fede personale, quando è condotto in solitudine, approda quasi sempre a un’esperienza spirituale individualistica e di poco spessore. L’educatore che rifletta su questo processo si rende conto di quante aperture a una ricerca autentica di Dio vi sia nella coscienza di tanti giovani, solo che trovino accanto a sé una Chiesa pronta a «uscire», che faccia cioè sentire l’accoglienza, l’apertura, il calore della sua maternità e la concretezza della fraternità. E al tempo stesso, il cristiano attento coglie nella ricerca dei giovani i germi che possono contribuire a rinnovare la comunità stessa e le forme del suo credere. Questo Sinodo è un segnale di vicinanza che molti giovani accoglieranno come un ponte nuovo lanciato verso di loro perché possano non essere soli ad affrontare il loro percorso interiore e sperimentare che la comunità cristiana costituisce una famiglia con la quale questo cammino si fa più agevole, maturo, interessante. LA STAMPA di domenica 16 ottobre 2016 Quei cattolici contro Francesco che adorano Putin di Giacomo Galeazzi e Andrea Tornielli Viaggio nella galassia degli oppositori di Bergoglio. Un fronte che sul web unisce leghisti, nostalgici di Ratzinger, nemici del Concilio: "Chiesa in confusione per colpa del pontefice" Il leader russo è un punto di riferimento. Le teorie sulla presunta invalidità dell' ele zione in conclave e le polemiche per le parole di don Georg sul "ministero allargato" dei due papi A tenerla unita è l'avversione a Francesco. La galassia del dissenso a Bergoglio spazia dai lefebvriani che hanno deciso di «attendere un Pontefice tradizionale» per tornare in comunione con Roma, ai cattolici leghisti che contrappongono Francesco al suo predecessore Ratzinger e lanciano la campagna «Il mio papa è Benedetto». Ci sono gli ultraconservatori d ella Fondazione Lepanto e i siti web vicini a posizioni sedevacantiste, convinti che abbia ragione lo scrittore cattolico Antonio Socci a sostenere l'invalidità dell'elezione di Bergoglio soltanto perché nel conclave del marzo 2013 una votazione era stata annullata senza essere scrutinata. Il motivo? Una scheda in più inserita per errore da un cardinale. La votazione era stata immediatamente ripetuta proprio per evitare qualsiasi dubbio e senza che nessuno dei porporati elettori sollevasse obiezioni. Ancora, prelati e intellettuali tradizionalisti firmano appelli o protestano contro le aperture

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pastorali del Pontefice argentino sulla comunione ai divorziati risposati e sul dialogo con il governo cinese. Il dissenso verso il Papa unisce persone e gruppi tra loro molto diversi e non assimilabili: ci sono le prese di distanza soft del giornale online «La Bussola quotidiana» e del mensile «Il Timone», diretti da Riccardo Cascioli. C'è il quasi quotidiano rimprovero al Pontefice argentino messo in rete dal vaticanista emerito dell'«Espresso», Sandro Magister. Ci sono i toni apocalittici e irridenti di Maria Guarini, animatrice del blog «Chiesa e Postconcilio», fino ad arrivare alle critiche più dure dei gruppi ultratradizionalisti e sedevacantisti, quelli che ritengono non esserci stato più un Papa valido dopo Pio XII. La Stampa ha visitato i luoghi e incontrato i protagonisti di questa opposizione a Francesco, numericamente contenuta ma molto presente sul web, per descrivere un arcipelago che attraverso Internet ma anche con incontri riservati tra ecclesiastici, mescola attacchi frontali e pubblici a più articolate strategie. In prima linea sul web contro il Papa, lo scrittore Alessandro Gnocchi, firma dei siti Riscossa cristiana e Unavox: «Bergoglio attua la programmatica resa al mondo, la mondanizzazione della Chiesa. Il suo pontificato è basato sulla gestione brutale del potere. Uno svilimento della fede così capillare non si è mai visto». Cabina di regia Tra le mura paleocristiane della basilica di Santa Balbina all'Aventino, accanto alle terme di Caracalla, la Fondazione Lepanto è uno dei motori culturali del dissenso a Francesco. Tra libri pubblicati, l'agenzia di informazione «Corrispondenza romana» e gli incontri tenuti nel salone del primo piano qui opera una delle cabine di regia del fronte anti-Bergoglio. «La Chiesa vive uno dei momenti di maggiore confusione della sua storia e il Papa è una delle cause - afferma lo storico Roberto De Mattei che della Fondazione Lepanto è il presidente -. Il caos riguarda soprattutto il magistero pontificio. Francesco non è la soluzione ma fa parte del problema». L'opposizione, aggiunge De Mattei, «non viene solo da quegli ambienti, definiti tradizionalisti, ma si è allargata a vescovi e teologi di formazione ratzingeriana e wojtyliana». Più che di dissenso, De Mattei preferisce parlare di «resistenza», la stessa che si è recentemente espressa attraverso la critica all'esortazione apostolica «Amoris Laetitia» di 45 teologi e filosofi cattolici e la dichiarazione di «fedeltà al magistero immutabile della Chiesa» di 80 personalità, divenute poi alcune migliaia, tra cui cardinali, vescovi e teologi cattolici. Tra gli italiani c'è il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna. Uno dei principali centri di resistenza, sottolinea ancora lo storico, «è l'Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia, i cui vertici sono stati recentemente decapitati dal Bergoglio». Nel mirino dei tradizionalisti c'è anche il «contributo che la politica migratoria di Francesco fornisce alla destabilizzazione dell'Europa e alla fine della civiltà occidentale». Fronda politico-teologica. L'attacco a Bergoglio è globale. «Nella galassia del dissenso a Francesco c'è una forte componente geopolitica - osserva Agostino Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea all'Università Cattolica ed esperto di dialogo con la Cina -. Accusano Bergoglio di non annunciare con sufficiente forza le verità di fede, ma in realtà gli imputano di non difendere il primato dell'Occidente. È una opposizione che ha ragioni politiche mascherate da questioni teologiche ed ecclesiali». La Cina ne è l'esempio. «C'è un'alleanza fra ambienti Hong Kong, settori Usa e destra europea: rimproverano a Francesco di anteporre alla difesa della libertà religiosa l'obiettivo di unire la Chiesa in Cina - continua -. Sono posizioni che trovano spazio spesso nell'agenzia cattolica Asianews. Il Papa, secondo questi critici, dovrebbe affermare la libertà religiosa come argomento politico contro Pechino, invece di cercare il dialogo attraverso la diplomazia». A dar voce al dissenso, che ha innegabili sponde interne alla Curia, sono anche ecclesiastici con entrature vaticane, come il liturgista e teologo don Nicola Bux, consultore delle Congregazioni per il Culto divino e per le Cause dei Santi. «Oggi, non pochi laici, sacerdoti e vescovi si chiedono: dove stiamo andando?- spiega alla Stampa -. Nella Chiesa c'è sempre stata la possibilità di esprimere la propria posizione dissenziente verso l'autorità ecclesiastica, anche se si trattasse del Papa. Il cardinale Carlo Maria Martini, notoriamente esprimeva spesso, anche per iscritto, il suo dissenso dal pontefice regnante, ma Giovanni Paolo II non l'ha destituito da arcivescovo di Milano o ritenuto un cospiratore». Il compito del Papa, continua Bux, è «tutelare la comunione ecclesiale e non favorire la divisione e la contrapposizione, mettendosi a capo dei progressisti contro i conservatori». E «se un Pontefice sostenesse una dottrina eterodossa, potrebbe essere dichiarato, per esempio dai cardinali presenti a Roma, decaduto dal suo ufficio». In un crescendo di bordate, con un'intervista al Giornale nei giorni scorsi è sceso in campo

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anche il ricercatore Flavio Cuniberto, autore di un libro critico col magistero sociale del Papa, studioso di René Guenon e del tradizionalismo vicino alla destra esoterica. Ha dichiarato che «Bergoglio non ha aggiornato la dottrina, l'ha demolita, si comporta come se fosse cattolico ma non lo: l'idea stravolta di povertà eleva alla sfera dogmatica il vecchio pauperismo». Il Papa elogia la raccolta differenziata e così «le virtù del buon consumatore tardo-moderno diventano le nuove virtù evangeliche». Teorie sui due Papi Nella sua pagina ufficiale su Facebook, Antonio Socci sostiene che Benedetto XVI non si sia voluto davvero dimettere ma si consideri ancora Papa volendo in qualche modo condividere il «ministero petrino» con il successore. Interpretazione che lo stesso Ratzinger ha smentito seccamente a più riprese a partire dal febbraio 2014 fino al recente libro-intervista «Ultime conversazioni», dichiarando pienamente valida la sua rinuncia e manifestando pubblicamente la sua obbedienza a Francesco. La teoria ha tratto nuova linfa dall'interpretazione da alcune parole pronunciate nel maggio scorso dall'arcivescovo Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia e segretario di Benedetto XVI. Don Georg, intervenendo alla presentazione di un libro, aveva affermato: «Non vi sono dunque due papi, ma di fatto un ministero allargato - con un membro attivo e un membro contemplativo». Socci pubblica a fine settembre, una accanto all'altra, le foto di Bergoglio e Ratzinger sotto la scritta «quale dei due?». E scrive: «C'è chi si oppone l'amore alla verità (Bergoglio) e chi le riconosce unite in Dio (Benedetto XVI)». Tra i tanti commenti in bacheca, Paolo Soranno risponde: «Francesco I sembra che sia messo al servizio del Dio Arcobaleno (quello che non impone obblighi religiosi e morali) e non del Dio Cattolico». È nella Rete che il dissenso a Bergoglio assume i toni più accesi, con persone che dietro il paravento del computer si lasciano andare a furiose invettive, come si legge nei commenti sotto gli articoli postati sui social. Sul sito «messainlatino», che si dedica a promuovere la liturgia antica, ma ospita spesso anche commenti al vetriolo sul Papa, si parla di «noiosa monotonia ideologica dell'attuale pontificato». In rete si leggono commenti sulla Chiesa che «sarà spinta a sciogliersi in una sorta di Onu delle religioni con un tocco di Greenpeace e uno di Cgil», dato che «oggi i peccati morali sono derubricati e Bergoglio istituisce i peccati sociali (o socialisti)». Sul blog ipertradizionalista di Maria Guarini, «Chiesa e Postconcilio», si leggono titoli tipo questo: «Se il prossimo papa sarà bergogliano, il Vaticano diventerà una succursale cattomassonica». Il dissenso viene dall'area più conservatrice, ma trova sponde anche in qualche ultraprogressista deluso. È il caso del prete ambrosiano don Giorgio De Capitani, che attacca senza tregua Francesco da sinistra, e dunque non è assimilabile ai gruppi finora descritti. Sul suo sito web non salva nulla del pontificato. «Quante parole inutili e scontate - inveisce -. Pace, giustizia e bontà. Il Papa ci sta rompendo le palle con parole e gesti strappalacrime. Francesco è vittima del proprio consenso e sta suscitando solo illusioni, butta tanto fumo negli occhi, stuzzica qualche applauso manda in visibilio i giornalisti ignorantotti sulla fede». Giuseppe Rusconi, il giornalista ticinese curatore del sito «Rossoporpora», si chiede: «il nostro Pastore è veramente in primo luogo "nostro" o non mostra di privilegiare l'indistinto gregge mondiale, essendo così percepito dall' opinione pubblica non cattolica come un leader gradito ai desideri espressi dalla società contemporanea? Lo farà per strategia gesuitica o per scelta personale? E quando il Pastore tornerà all' ovile, quante pecorelle smarrite porterà con sé? E quante ne ritroverà di quelle lasciate». Questa composita galassia del dissenso ha eletto come suoi punti di riferimento alcuni vescovi e cardinali. Magister sul suo blog ha lanciato la candidatura papale del cardinale guineano Robert Sarah, attuale ministro per la liturgia di Francesco, amato da conservatori e tradizionalisti e molto citato nei loro siti e nelle loro pubblicazioni. Rischio scisma? Tra coloro che vengono considerati stelle polari da parte di questo mondo ci sono soprattutto il porporato statunitense Raymond Leo Burke, patrono dei Cavalieri di Malta, e il vescovo ausiliare di Astana, Athanasius Schneider. Ma al di là dell'amplificazione mediatica offerta dalla rete, non sembra proprio che vi siano all'orizzonte nuovi scismi, dopo quello compiuto dal vescovo Marcel Lefebvre nel 1988. Ne è convinto il sociologo Massimo Introvigne, direttore del Cesnur: «I vescovi cattolici nel mondo sono più di cinquemila, il dissenso riesce a mobilitarne una decina, molti dei quali in pensione, il che mostra appunto la sua scarsa consistenza». Introvigne sostiene che questo dissenso «è presente più sul web che nella vita reale ed è sopravvalutato: ci sono infatti dissidenti che scrivono commenti sui social sotto quattro o cinque pseudonimi, per dare l'impressione di essere più numerosi». Per il sociologo è un

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movimento che «non ha successo perché non è unitario. Ci sono almeno tre dissensi diversi: quello politico delle fondazioni americane, di Marine Le Pen e di Matteo Salvini che non sono molto interessati ai temi liturgici o morali - spesso non vanno neppure in chiesa - ma solo all'immigrazione e alle critiche del Papa al turbo-capitalismo. Quello nostalgico di Benedetto XVI, che però non contesta il Vaticano II. E quello radicale della Fraternità San Pio X o di de Mattei e Gnocchi, che invece rifiuta il concilio e quanto è venuto dopo. Nonostante vi sia qualche ecclesiastico che fa da sponda, le contraddizioni fra le tre posizioni sono destinate a esplodere, e un fronte comune non ha possibilità di perdurare». Introvigne fa notare una sorprendente caratteristica comune a molti di questi ambienti: «È l' idealizzazione mitica del presidente russo Vladimir Putin, presentato come il leader "buono" da contrapporre al Papa leader "cattivo", per le sue posizioni in materia di omosessuali, musulmani e immigrati. Con il dissenso anti-Francesco collaborano fondazioni russe legatissime a Putin». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 16 ottobre 2016 Pagg VI – VII Il parroco fa le valigie: “Non sappiamo dov’è” di Melody Fusaro Don Flavio Gobbo, 46 anni, lascia la chiesa dei Santi Vito e Modesto a Spinea. “Ha chiesto un po’ di riposo”. Il precedente: la scelta di don Scarpa, l’apertura di don Trevisiol Nel primo pomeriggio di ieri, suonando il campanello della parrocchia dei santi Vito e Modesto a Spinea, a rispondere non era già più don Flavio Gobbo. «Ha fatto le valigie ed è andato via questa mattina, non sappiamo nient'altro», dicono i suoi collaboratori. Poche parole, quelle di chi ha vissuto al suo fianco negli ultimi mesi. Solo che non si sa dove sia andato, che non è possibile contattarlo e soprattutto che è «una sua scelta, e non va commentata ma rispettata». Ha portato via tutto ed è andato altrove. E in parrocchia sono rimaste solo poche carte, per qualcuno la speranza che passi a prenderle così da poterlo salutare. Ma se si chiedono le ragioni, non si strappa una parola. «Sappiamo solo che è una scelta personale. Non farà nemmeno l'ultima messa, è andato via. Oggi (ieri per chi legge, ndr) sarà qualcun altro a celebrarla». Una decisione, quella di lasciare la tonaca, che di recente è stata presa anche da altri parroci nel Veneto. Solo nel Veneziano quello di don Flavio è infatti il secondo caso in due mesi. Ma non è bastato a evitare la sorpresa dei fedeli che ieri sera si sono trovati di fronte il cappellano e hanno scoperto che don Flavio ha chiesto un periodo di riposo. Una scelta legata a ragioni sentimentali? La voce circola tra i suoi parrocchiani ma non trova conferme ufficiali. In canonica per esempio, tra i più stretti collaboratori, nessuno nega ma nessuno nemmeno conferma. Per le fonti ufficiali, che non si sbilanciano, non si tratterebbe nemmeno di una situazione definitiva. «Un periodo di riflessione per scelta personale», è la versione ufficiale del vicario, don Paolo Slompo. Don Flavio Gobbo, che ha 46 anni, è arrivato a Spinea alla fine del 2014. Nato a Preganziol, è entrato in seminario in prima media ed è stato ordinato sacerdote il 25 maggio del 1996, dopo un periodo di diaconato a Maerne. Prima di arrivare alla santi Vito e Modesto è stato vicario parrocchiale a Camposampiero e a Montebelluna e, dal 2005, parroco prima a Passarella e Santa Maria di Piave e infine a Caposile. È inoltre coordinatore della Collaborazione pastorale di Musile di Piave fin dalla sua nascita, nel 2012. Nel Vicariato di San Donà è stato anche assistente dell'Azione Cattolica e coordinatore della Pastorale familiare. Ora che cosa succederà? Intanto a Spinea arriverà un nuovo parroco. E don Flavio avrà il tempo per riflettere ed eventualmente chiedere di tornare indietro ritirando la sospensione. Ma se alla fine dovesse rinunciare per sempre al sacerdozio, non potrà che chiedere a Papa Francesco di continuare a vivere la propria vita, tornando allo stato laicale. L'annuncio ufficiale arriva con la messa prefestiva, quella delle 18.30. I parrocchiani di Spinea non danno troppo peso al fatto che a celebrarla sia il vicario, don Paolo Slompo. Può essere un po’ di influenza, o un semplice impegno. Ma è alla fine della cerimonia, quando più di qualcuno sta già lasciando la chiesa, che entra il parroco di Santa Bertilla, coordinatore della collaborazione pastorale di Spinea, e invita tutti a sedersi di nuovo. «Ho una comunicazione che ci riguarda - annuncia -. Don Flavio Gobbo sospende il servizio di parroco a partire da oggi (ieri, ndr). Purtroppo una situazione di affaticamento

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lo ha spinto a chiedere ai superiori un tempo di riposo che il vescovo gli ha concesso volentieri, assicurando che non mancherà l'aiuto affinché questa popolosa parrocchia possa essere seguita come merita». In chiesa il silenzio è totale, qualcuno si guarda con l'espressione sorpresa. Poi la spiegazione continua: «Don Flavio avrebbe voluto dare personalmente questa comunicazione e salutarvi tutti, ma immaginando che la commozione avrebbe preso il sopravvento ha scelto che il distacco fosse immediato. Noi vogliamo ricordarlo con gratitudine e affetto». Fuori dalla chiesa non si parla d'altro. «Una doccia fredda, anzi ghiacciata - commentano due donne -. Spero non si tratti di un problema di salute». Ma c'è chi le rassicura e azzarda: «Non credo. Era nell'aria da un po’ e non ci sorprende. Forse ha solo bisogno di capire quale sarà la sua strada». Quest'oggi, durante le messe domenicali, toccherà a don Giorgio Riccoboni, parroco di Martellago, in qualità di vicario foraneo del vicariato del Miranese, il difficile compito di informare i fedeli. «Confermo che alle messe festive di domani (oggi, ndr), darò comunicazione della decisione presa da don Flavio Gobbo con il nostro vescovo di Treviso, monsignor Gianfranco Agostino Gardin, di ritirarsi dal suo incarico, per le motivazioni che saranno spiegate nel comunicato», chiariva ieri don Giorgio. «Mi atterrò strettamente e fedelmente alle parole del comunicato condiviso dal vescovo e dal parroco di San Vito e Modesto, per non dare adito ad alcuna congettura diversa dalle ragioni che saranno lette». «Avrebbe voluto farlo il vescovo in persona, ma non poteva essere presente per altri impegni - conclude il parroco di Martellago -, e avrebbe voluto farlo ancora di più don Flavio, ma con lo stress psicofisico a cui è stato sottoposto ultimamente, era troppo grande il rischio che potesse essere preso e sopraffatto dall'emozione». Con sempre meno ordinazioni di nuovi sacerdoti e quindi una presenza religiosa già in calo, ora la Chiesa deve affrontare anche il problema dei preti che se ne vanno. La parrocchia spinetense fa parte della diocesi di Treviso ma di recente anche quella veneziana si è trovata di fronte a un caso simile. Quello di don Marco Scarpa, parroco di San Pantalon a Venezia e a lungo vicario a Carpenedo, che a metà settembre ha sorpreso tutti annunciando, prima dal pulpito e poi su Facebook, l'intenzione di lasciare la tonaca. Ha usato poche parole, pronunciate alla fine della messa con cui si è congedato dai suoi parrocchiani: «mi prenderò un periodo di sospensione per una verifica nell'ambito dell'affettività». Di fatto lasciando intendere l'esistenza di un legame sentimentale. Una scelta sofferta, come già spiegava don Scarpa nel suo messaggio: «Chiedo scusa a tutti per le mie inadeguatezza e per i miei peccati. Sono addolorato se a qualcuno sono stato di scandalo, di inciampo, invece che un compagno di strada nella via verso il Signore». Parole accolte con affetto dai suoi parrocchiani, che hanno capito la sua decisione e lo hanno ringraziato per il gesto di pura onestà. Non è chiaro se le motivazioni della decisione di don Flavio Gobbo siano simili, ma di certo si tratta del secondo prete che, in pochi mesi, ha scelto di abbandonare per un po’ il ruolo di parroco. Situazione che nella chiesa, a partire da papa Francesco, sta già aprendo una profonda riflessione tra i favorevoli e i contrari all'apertura del sacerdozio anche a persone sposate. Potrebbe risollevare la chiesa dal problema della crisi di vocazione? Secondo don Armando Trevisiol, storico parroco di Carpenedo che ora ha 87 anni ed è un riferimento per la chiesa veneziana, è una possibilità. «Io sono del parere - aveva scritto commentando la vicenda di don Marco Scarpa - che prima o dopo la loro consacrazione i preti possono rimanere liberi nelle loro scelte di restare celibi o sposarsi. Mi pare bello, affascinante e opportuno che nella Chiesa vi siano creature che facciano la scelta di dedicarsi corpo e anima ai fedeli da celibi. Però penso pure che non vi sia motivo di alcun genere per opporsi, anche se chi sceglie di fare il prete, lo faccia pure da coniugato. Tutte le motivazioni contro questa tesi mi sembrano antistoriche e non religiose». L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 15 ottobre 2016 Pag 8 Come i biscotti della nonna Messa a Santa Marta Il cristiano non deve essere come i biscotti della nonna, popolarmente chiamate «bugie» proprio perché sono belli e grandi fuori ma vuoti e senza sostanza dentro. È dunque

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dall’ipocrisia, in tutte le sue peggiori declinazioni, che Papa Francesco ha messo in guardia durate la messa celebrata venerdì mattina, 14 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta. E il Pontefice ha anche suggerito le tracce per un esame di coscienza proprio sul livello di ipocrisia di ciascun credente. Prendendo le mosse dal passo evangelico di Luca (12, 1-7) proclamato durante la liturgia, Francesco ha indicato subito «una parola che il Signore dice ai discepoli: “lievito”». Scrive Luca, riportando l’insegnamento di Gesù: «Guardatevi bene dal lievito dei farisei». Il Signore, ha affermato il Papa, «ha parlato del lievito anche in altre occasioni, quando spiegava, per esempio, che il regno dei Cieli era come il lievito che la donna immischia con la farina, fa la massa e cresce: così è il regno dei Cieli». Inoltre «l’apostolo Paolo dice ai Corinzi: “Tirate via il vecchio lievito e siate pasta nuova”». Nel passo proposto dalla liturgia «Gesù parla di un lievito che non fa il regno dei Cieli, di un lievito cattivo». E dunque ci sono due lieviti, uno buono e uno cattivo: «il lievito che fa crescere il regno di Dio e il lievito che fa soltanto l’apparenza nel regno di Dio». Del resto, «il lievito fa crescere, sempre; e fa crescere, quando è buono, in modo consistente, sostanzioso e diventa un buon pane, una buona pasta: cresce bene. Ma il lievito cattivo non fa crescere bene». Per spiegare più efficacemente questa immagine, Francesco ha scelto di fare una confidenza personale: «Ricordo che per carnevale, quando eravamo bambini, la nonna ci faceva dei biscotti, ed era una pasta molto sottile, sottile, sottile quella che faceva. Poi la buttava nell’olio e quella pasta si gonfiava, si gonfiava e, quando noi incominciavamo a mangiarla, era vuota». Quei biscotti in dialetto si chiamavano “bugie”. Ed era proprio la nonna a spiegarne la ragione: questi biscotti «sono come le bugie: sembrano grandi, ma non hanno niente dentro, non c’è niente di verità, lì; non c’è niente di sostanza». Gesù, dunque, ci mette in guardia: «State attenti al cattivo lievito, quello dei farisei». E quel lievito «è l’ipocrisia». Perciò l’invito del Signore è di guardaci «bene dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia». Del resto, ha fatto notare Francesco, «tante volte Gesù dice “ipocriti, ipocriti” ai farisei, ai dottori della legge». Per esempio, «basta leggere il capitolo 23 di Matteo: una dietro all’altra». Ma, in realtà, «cos’è questo lievito cattivo, cos’è l’ipocrisia?». Per rispondere il Papa ha preso in esame «alcuni passi della Bibbia». E così ecco che «il Signore si lamenta con il profeta: “Questo popolo mi invoca con le labbra ma il cuore è lontano da me”». Perché, ha spiegato il Pontefice, «l’ipocrisia è una divisione interna, si dice una cosa e si fa un’altra: è una sorta di schizofrenia spirituale». Per di più «l’ipocrita è un simulatore: sembra buono, cortese ma dietro di sé ha il pugnale». Proprio come Erode, ha ricordato Francesco, che, spaventato dentro, «aveva ricevuto i magi» con «cortesia» e «poi, al momento del congedo, dice: “andate e poi tornate e ditemi dove è questo bambino perché anche io vada ad adorarlo”». Invece voleva «ucciderlo». «L’ipocrita che ha doppia faccia - ha insistito il Papa - è un simulatore». Gesù stesso, «parlando di questi dottori della legge», afferma che essi «dicono e non fanno». E questa «è un’altra forma di ipocrisia, è un nominalismo esistenziale: quelli che credono che, dicendo le cose, sistemano tutto. No, le cose vanno fatte, non solo dette». Invece «l’ipocrita è un nominalista, crede che con il dire si faccia tutto». Inoltre «l’ipocrita è incapace di accusare se stesso: mai trova in se stesso una macchia; accusa gli altri». Si pensi, ha suggerito Francesco, «alla pagliuzza e alla trave»: proprio «così possiamo descrivere questo lievito che è l’ipocrisia». In tale prospettiva, «per capire che cosa Gesù vuol dire a noi» il Pontefice ha proposto le tracce per un vero e proprio «esame di coscienza sul nostro modo di agire nella vita, sul nostro lievito», in modo che «possiamo essere più liberi per andare dietro al Signore e dirci sempre la verità». Perciò è importante chiedersi: «Come cresco, io? Cresco con il lievito vecchio che non serve a niente? Cresco come le crêpes della mia nonna, vuoto, senza sostanza, o cresco con il lievito nuovo, quello che fa il regno dei Cieli, che fa crescere il regno dei Cieli? Com’è il mio lievito?». E cioè: «Con quale spirito io faccio le cose? Con quale spirito io prego? Con quale spirito mi rivolgo agli altri? Con lo spirito che costruisce o con lo spirito che diviene aria?». Francesco ha suggerito anche di non ingannare mai se stessi dicendo: «ho fatto questo, ho fatto quell’altro». E ha indicato piuttosto l’esempio dei più piccoli: «Con quanta verità si confessano i bambini! I bambini mai, mai, mai dicono una bugia, nella confessione, mai dicono cose astratte: “Ho fatto questo, ho fatto quell’altro”». Dunque, ha spiegato il Papa, i bambini sono «concreti, quando sono davanti a Dio e davanti agli altri dicono cose concrete, perché hanno il lievito buono, il lievito che li fa crescere come cresce il regno dei Cieli». E così il

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Pontefice ha concluso la sua meditazione pregando il Signore che «ci dia, a tutti noi, lo Spirito Santo e la grazia della lucidità di dirci qual è il lievito con il quale io cresco, qual è il lievito con il quale io agisco», per essere sempre pronti a rispondere sinceramente a questa domanda: «Sono una persona leale e trasparente o sono un ipocrita?». CORRIERE DELLA SERA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 21 L’arcivescovo di Assisi che ospita le migranti a casa di san Francesco di Gian Guido Vecchi Città del Vaticano. Il padre, un ricco commerciante di stoffe, lo guardava sconcertato; il vescovo si commosse. Sono passati 810 anni da quando San Francesco, «da vero innamorato della povertà», si tolse i vestiti e rimase «completamente nudo davanti a tutti», scrive Bonaventura da Bagnoregio nella Legenda Maior. Da allora la Stanza della spoliazione, nel palazzo del vescovado di Assisi, è un simbolo universale di radicalità evangelica. «È una buona occasione per rivolgere alla Chiesa un invito a spogliarsi», esordì il 4 ottobre di tre anni fa papa Francesco, davanti a poveri e migranti: il primo pontefice a prendere il nome del Santo di Assisi era anche il primo, dei quaranta passati in città, a entrare in quella stanza. Così non è un caso che oggi, in un appartamento accanto, vivano tre ragazze nigeriane arrivate su un barcone dalla Libia e accolte dal vescovo in casa sua. «L’ingresso è proprio nell’atrio della Sala, ho scelto apposta quegli spazi perché fossero un segno anche per la diocesi, è bastato rinunciare a qualche ufficio di curia e farlo sistemare, due sale, la cucina, la tv, la camera da letto», spiega tranquillo l’arcivescovo Domenico Sorrentino. Nulla di strano, «ho solo voluto dare il mio contributo, fanno parte del gruppo più ampio di migranti arrivati da noi attraverso la Caritas diocesana». Le ragazze sono sorelle, «Hope e Favor adolescenti, sedici e diciassette anni, Christy ne ha trentaquattro e ha fatto loro da madre». Una storia tragica, come tante nel Mediterraneo. «Sono fuggite dalla Nigeria, scontri tribali, violenze, hanno perduto i genitori e credo non sia rimasto loro nessuno, quando ho provato ad accennarne avevano le lacrime agli occhi. Si sono imbarcate in Libia e il fratello che stava con loro è morto in mare». Sono cattoliche come lo era il padre, ma la maggiore non aveva mai ricevuto il battesimo e quando lo ha chiesto al vescovo è stato lui a seguirne la catechesi, «l’ho battezzata in cattedrale nella Veglia di Pasqua». Con il passare dei mesi «si è creata la sincerità di un rapporto di famiglia, hanno cominciato a chiamarmi papà», sorride monsignor Sorrentino. «Devo dire che sto sperimentando le difficoltà dei genitori. Sa, non è facile con gli adolescenti. A volte è dura combinare tutti gli impegni ma con l’aiuto di Dio ci sto riuscendo. Quando ho deciso di accoglierle in casa mi avevano messo in guardia: guardi che sono un po’ ribelli! Ma è troppo comodo dire agli altri di accogliere e poi occuparsi solo dei casi più semplici. Ho imparato a essere più umile nel pretendere dagli altri». Nel palazzo vive anche una piccola comunità di suore. Pranzano e cenano assieme, quando le ragazze non preferiscono cucinarsi i piatti della loro terra. «Una volta mi hanno fatto assaggiare una banana fritta: buona, per carità, ma ho fatto un po’ fatica a digerirla», sorride. «Hanno la loro vita, seguono le attività della Caritas, vanno a lezione di italiano e io stesso faccio loro un po’ di scuola». Il percorso di integrazione è appena iniziato: «È una cosa davvero bella, mi ha fatto mettere in pratica ciò che vado ripetendo, la necessità che la Chiesa recuperi il tono originario: mettere in comune i beni come negli Atti degli Apostoli, non aver paura di rischiare nella carità. È un sogno che ad Assisi siamo cercando di realizzare con le “famiglie del Vangelo”, sul modello delle prime comunità cristiane. Il Vangelo funziona». LA REPUBBLICA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 35 La svolta del Papa nero di Alberto Melloni Anche se s'è svolto un po' al riparo dal clamore mediatico, il "conclave" che ha eletto padre Arturo Sosa Abascál 30esimo preposito generale della compagnia di Gesù - primo gesuita non europeo a ricoprire quella carica - ha una enorme importanza. L'elezione di padre Sosa, è avvenuta dopo le dimissioni di padre Adolf Nicolás: che sembrava volesse marcare la "normalità" della rinuncia. Le prime dimissioni della storia gesuita, infatti, le aveva date padre Arrupe, assediato con la minaccia di una scissione sotto Montini e poi umiliato da Wojtyla che nel 1980 le rifiutò per commissariare l' ordine imponendogli una

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guida non eletta. Nel 2008 s'era dimesso padre Kolvenbach, ovattando la sua scelta col compimento degli 80 anni d'età. Annunciate da mesi quelle di Nicolás potrebbero "normalizzare" la temporaneità del generalato (che era a vita come lo era il papato e dal quale il papato potrebbe prendere spunto per stabilire di fatto che il Papa può lasciare senza bisogno del marasma vissuto sul finire dell'era Ratzinger). Ma convocarsi per eleggere il nuovo generale dei gesuiti aveva un significato sistemico. Infatti quella elezione ha dato spesso una ecografia inattesa delle tendenze profonde della chiesa: ha manifestato e spesso ha anticipato tendenze future, anche molto divergenti rispetto all'asse del papa regnante. Papa Francesco - che da buon gesuita - ha mantenuto la più ignaziana indifferenza davanti a un momento che non è né una elezione di mid-term, né l'oroscopo incerto d'un conclave futuro - sapeva dunque che questa era l'occasione per ascoltare su scala globale la rete di sensibilità, interessi e disinteressi, che rendono unica la compagnia di Gesù. L'elezione di padre Sosa dà una risposta. Scegliere un gesuita latino-americano dice che non s'è creato nella chiesa l'effetto che per esempio saturò di polacchi la Roma wojtyliana. Eleggere il direttore del primo Cias (i centri di indagine e azione sociale fondati sotto l’impulso di Arrupe in America Latina nel 1968), dice che la coscienza teologica e politica della ingiustizia come bestemmia dell'umano è ancora in agenda. Fare preposito un uomo che è stato "visiting" alla Georgetown di Washington, dove il cattolicesimo americano ha imparato ad essere democratico non per calcolo, ha perfino qualcosa da dire alla campagna americana e agli equilibri che la sperata Amministrazione Clinton dovrà segnare. Sosa esce da una meccanica elettorale propria della compagnia (che dice molto di Francesco). Le differenze fra il conclave del papa bianco e del papa nero sono molte. Alcune intrinseche: il capo dei gesuiti è un comandante globale legittimato, da chi lo sceglie; il pontefice è invece il vescovo di Roma che riceve dalla santità della chiesa di Pietro e Paolo a cui i cardinali lo chiamano poteri sulla chiesa simmetrici a quelli dei vescovi. Nel conclave pontificio i cardinali si parlano tutti insieme e poi chiudono la porta per trattare e votare, fino ad un esito certissimo e incontestabile; in quello gesuita un lungo lavoro assembleare sfocia nei giorni della "murmuratio", nei quali gli elettori possono e devono parlarsi solo a due a due, per capire chi può essere il punto di equilibrio. Quando il conclave finisce, il papa distanzia i suoi elettori; mentre la congregazione generale dei gesuiti continua per varie settimane (quella in corso finirà a novembre) per definire gli equilibri di un governo, nel quale si prolungano i grandi principi del papato di Bergoglio (che, come Arrupe, il generale della sua giovinezza, vuol fare le riforme a norme invariate, vuole conquistare i nemici e umiliare l'Avversario nel campo di battaglia che è la chiesa). Padre Sosa - la "murmuratio" deve essere servita a questo - non è stato scelto perché noto al Segretario di Stato, Pietro Parolin che fu nunzio in Venezuela; e tanto meno per la prossimità linguistica e culturale al papa regnante. Se mai è vero il contrario: padre Sosa è dentro un soffio che scuote la chiesa: e che non è il vento di una tempesta, la voce del silenzio più impalpabile - quello che andò a cercare Elia sull'Oreb - e che asseta l'orecchio dei profeti capaci di guardare alla violenza del mondo come ad una sfida suprema. AVVENIRE di sabato 15 ottobre 2016 Pag 17 I gesuiti eleggono Arturo Sosa di Filippo Rizzi Venezuelano, il nuovo superiore generale non ha ancora 68 anni. E’ il primo non europeo chiamato a guidare l’Ordine ignaziano Si dice «sorpreso» per questa elezione ma anche «grato al Signore» perché «adesso incomincia una grande sfida» che lo attende: quella di guidare l’Ordine dei gesuiti che rappresenta ai suoi occhi «non il lavoro di una persona ma è il lavoro del corpo della Compagnia di Gesù». Sono le prime parole proferite pubblicamente – ai microfoni di RadioVaticana – dal venezuelano Arturo Sosa Abascal, nuovo preposito generale della Compagnia di Gesù eletto ieri mattina a Roma dalla 36ª Congregazione dei gesuiti. Trentesimo successore di sant’Ignazio di Loyola, primo non europeo e primo latinoamericano, prende il posto dello spagnolo Adolfo Nicolás Pachón, dimessosi dall’incarico il 3 ottobre scorso (la rinuncia alla carica di Nicolás che è a vita è avvenuta al compimento degli 80 anni, come accadde nel 2008 al suo predecessore, l’olandese Peter Hans Kolvenbach, classe 1928 e ora ritiratosi in Libano). Padre Sosa è nato a Caracas il 12 novembre 1948, è stato consigliere proprio del padre generale “uscente”

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Nicolás, delegato del generale per le case e le opere interprovinciali della Compagnia di Gesù a Roma. Il suo ingresso nell’Ordine risale al 1966 mentre è stato ordinato sacerdote nel 1977. Padre Sosa ha conseguito il dottorato in scienze politiche alla Universidad Centraldel Venezuela. A eleggerlo ieri nella sede della Curia dei gesuiti sono stati i 212 elettori (a cui hanno partecipato in questa veste per la prima volta nella storia della Compagnia anche una delegazione di fratelli laici) ovvero i delegati dei quasi 17 mila religiosi sparsi nel mondo. Come è tradizione la prima persona a cui è stato comunicato il nome del nuovo superiore è stato papa Francesco. Si tratta della prima volta nella storia della Chiesa universale che un padre generale della Compagnia di Gesù viene eletto durante il pontificato di un papa gesuita ( Jorge Mario Bergoglio-Francesco). «L’America Latina si conferma in questo modo una Chiesa “fonte” – è stato il commento di uno dei 212 elettori, il gesuita e direttore de La Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro – lo è per la Chiesa universale con papa Francesco e lo è anche per la Compagnia di Gesù. Chiaramente, qui vediamo un legame molto forte: le due persone non solo si conoscono papa Francesco, diremo il “Papa bianco” come si suol dire e il “Papa nero” ma si apprezzano. E quindi possiamo immaginare una Compagnia di Gesù ancora più al servizio della Chiesa sotto il Romano Pontefice». Una traccia su come sarà la Compagnia di Gesù guidata da Arturo Sosa arriva anche da padre Federico Lombardi anche lui grande “elettore ” della 36ª Congregazione: «Il fatto che sia il primo latinoamericano è il dato di maggiore novità dopo tre “generali” (Arrupe, Kolvenbach e Nicolás) europei ma vissuti in Asia. Ma la ricerca di fondo di questa scelta è stata proprio quella indicata da Ignazio nella Costituzioni: la ricerca delle qualità spirituali e umane». Oggi alle 10.30 nella chiesa-madre dell’Ordine, il “Gesù” di Roma – dove proprio riposano le spoglie di sant’Ignazio – si terrà la “prima” Messa presieduta dal nuovo generale. La 36ª Congregazione proseguirà nei prossimi giorni per scegliere i collaboratori di Sosa Abascal e definire soprattutto l’agenda dell’Ordine. Pag 21 Intreccia nuove reti l’Italia della carità di Lorenzo Rosoli Vangelo e società: sì a una Chiesa povera per i poveri, no a una Chiesa ong Il nome è bello. Nuovo e antico insieme: Reti della Carità. Nate nell’estate del 2013, mentre l’Italia viveva una delle fasi più drammatiche della crisi economica, collegano fra loro realtà di ispirazione cristiana impegnate nella prevenzione e nella lotta alla povertà e alle discriminazioni. Solo una sigla? Un nome? Un mero contenitore? Una fabbrica di chiacchiere e sogni? No. Questa esperienza sorta dall’iniziativa della Casa della Carità di Milano – l’opera segno voluta dal cardinal Martini alla periferia della città – presto capace di coinvolgere una trentina di realtà «sorelle» dal nord al sud del Paese, ha altro respiro, natura, profondità, come spiega il volume La nascita delle Reti della Carità, curato da Maria Grazia Guida, Monica Giambersio, Luciano Perfetti e Paolo Riva (Erickson, 176 pagine, 15 euro), che viene proposto al lettore alla vigilia del primo convegno nazionale delle Reti della Carità, in programma a Bologna il 17 ottobre. A partire dagli scritti di Fabio Folgheraiter, ordinario di metodologia del lavoro sociale alla Cattolica di Milano, di don Virginio Colmegna, presidente della Fondazione Casa della Carità, di Maria Grazia Guida, presidente degli Amici di Casa della Carità, e di Enrico Finzi, ricercatore sociale, tutti gli interventi raccolti nel volume scandiscono un racconto a più voci che mostra come, alla radice e all’orizzonte delle Reti, stiano un’esigenza, una sfida, uno scenario e una provocazione. Drammatici, urgenti, fecondi. Un’esigenza radicale e imprescindibile, anzitutto: essere Chiesa povera per i poveri, in cammino con i poveri, che si lascia educare dai poveri, come chiede papa Francesco. Un cammino di conversione, personale, comunitaria, istituzionale, che incontra molte resistenze. La sfida? Portare questa ispirazione al cuore della vita sociale, culturale, politica, non solo ecclesiale. Fare dei poveri, le «pietre scartate» del nostro tempo, la «testata d’angolo » di un nuovo welfare, non assistenzialista, che non fa del povero un oggetto d’attenzione, ma un protagonista; «testata d’angolo», dunque, di nuovi cammini di coesione sociale, liberazione, giustizia, pace, cittadinanza inclusiva, economia a favore dell’uomo, a partire dalle periferie, dai quartieri, dalle comunità locali. Ma facendo rete. E guardando al mondo, maniche rimboccate contro quella «globalizzazione dell’indifferenza» tante volte stigmatizzata dal vescovo di Roma, preso quasi alla fine del mondo. Lo scenario? La violenta crisi – non solo economica, ben più che economica – che negli ultimi anni ha

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aggredito l’Italia e l’Europa, mentre altri 'teatri' di crisi, siano guerre, miseria, persecuzioni, crisi ambientali, muovono le masse umane attraverso le nazioni e i continenti. Uno scenario che ha messo a dura prova anche molte realtà d’ispirazione cristiana impegnate con i poveri. Queste realtà, da un lato, hanno visto crescere tumultuosamente il numero di persone in difficoltà che bussano alla loro porta. Dall’altro, hanno subito la delega di sempre più ampie fette di welfare da parte di pubbliche istituzioni a corto di risorse, e di una politica ripiegata, impaurita, dal respiro corto. Nel frattempo: proprio a causa della crisi, quelle stesse realtà del terzo settore, del volontariato, del «farsi prossimo», hanno patito una contrazione delle entrate: si pensi al calo delle donazioni o al ridursi delle convenzioni. La provocazione? Viene ancora dalla voce del Papa: «La Chiesa non è una ong, è una storia d’amore! Quando l’organizzazione prende il primo posto, l’amore viene giù e la Chiesa, poveretta, diventa una ong. E questa non è la strada». «Quella del Papa – riconosce don Colmegna – è stata una benefica provocazione, dalla quale sono sbocciate le Reti della Carità». Il primo incontro per iniziare a «fare rete» si è svolto il 28 ottobre 2013 alla Casa per la Pace di Impruneta (Firenze). Ne seguiranno molti altri (tutti documentati nel libro) in sedi differenti, dentro un cammino che è condivisione di riflessioni ed esperienze su diversi temi (povertà, periferie, economia, accoglienza, custodia del creato, giustizia restitutiva, ruolo delle donne), scambio di buone pratiche, ospitalità reciproca, tentativo di «contagiare » la realtà circostante. E impegno generoso alla «fecondazione ecclesiale». Da Pax Christi al Cnca, dalle Famiglie della Visitazione di Bologna di don Giovanni Nicolini alle Catacombe di Napoli, Rione Sanità, col parroco don Antonio Loffredo, dalla Fraternità della Visitazione di Pian di Scò (Arezzo) alla parrocchia della Resurrezione di Marghera ( Venezia), le Reti restituiscono la mappa di un’Italia – per dirla ancora con papa Francesco – che non si lascia rubare la speranza. Che nella povertà riconosce un luogo e una categoria teologica, prima che sociologica. E che nel servizio ai poveri porta una spiritualità, «un’urgenza contemplativa forte», testimonia don Colmegna. Al cammino di questi anni si uniscono alcuni vescovi (Rodolfo Cetoloni, Luciano Giovannetti, Giovanni Giudici, Francesco Savino, Gastone Simoni) e alcuni studiosi (come l’economista Niccolò Abriani, il filosofo Roberto Mancini, la sociologa Chiara Giaccardi), né sono mancati momenti di confronto schietto, di incontro fecondo con i vertici della Conferenza episcopale italiana (l’allora sottosegretario monsignor Domenico Pompili; il segretario generale Nunzio Galantino). Il cammino delle Reti è aperto, e si è aperto, anche a cristiani d’altre Chiese (come Anna Maffei, pastore della Chiesa battista), a non credenti e a credenti di altre fedi. Perché la misericordia di Dio, sottolinea don Colmegna, non si incontra «in modo intellettuale, ma toccando le piaghe dei poveri che, ci ricorda papa Francesco, sono 'la carne di Cristo'». E questa è un’idea «talmente evangelica da poter essere condivisa da persone con storie e percorsi differenti». «All’interno delle Reti della Carità – riprende don Colmegna – c’è una pluralità di esperienze che hanno una radice comune: la volontà di farsi interrogare dalla carità o, meglio, come diceva Carlo Maria Martini, dall’eccedenza della carità. E questa radice credo sia capace di unire fedeli di religioni diverse, credenti e non credenti». In rete per un’Italia e un mondo più accoglienti, giusti, umani. IL FOGLIO di sabato 15 ottobre 2016 Pag 2 Dalla fine del mondo arriva anche il Papa nero, grand’esperto di Chàvez di Matteo Matzuzzi P. Arturo Sosa, venezuelano, eletto generale dei gesuiti Roma. "Verso il largo, dove è più profondo", recita il motto della trentaseiesima Congregazione generale della Compagnia di Gesù, chiamata a eleggere il suo nuovo Preposito generale, il "Papa nero", dopo le dimissioni presentate già due anni fa dallo spagnolo Adolfo Nicolás, che ha compiuto ottant' anni. E verso il largo i padri riuniti a Roma ci sono andati, se è vero che il prescelto è padre Arturo Sosa Abascal, venezuelano, primo Preposito latinamericano - risultano facili gli accostamenti anche mediatici con il primo Papa latinoamericano e gesuita - nella storia dell' ordine fondato da sant'Ignazio di Loyola. Dopo l'applauso di rito, come prescrivono le norme è stato avvertito con una telefonata il Pontefice, che ha preso atto della scelta (non può, infatti, opporsi a quanto deciso dalla congregazione generale). Sosa Abascal ha 68 anni e ha un

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profilo accademico. Docente di Teoria politica, è stato anche rettore dell'Università cattolica di Tachira, prima di essere stato invitato alla Georgetown University di Washington nel 2004 per tenere corsi di politica latinoamericana. Dal 1996 al 2004 è stato Superiore provinciale della Compagnia in Venezuela e da un paio di anni lavorava a Roma come consultore generale del Preposito Nicolás e delegato per le case e le opere interprovinciali della Compagnia di Gesù a Roma, vale a dire per le istituzioni che dipendono direttamente dal Padre generale e di cui fanno parte anche la Pontificia università Gregoriana, il Pontificio istituto biblico, il Pontificio istituto orientale e la Civiltà cattolica. L'elezione è avvenuta nella mattinata di venerdì, al termine di quattro giorni di murmuratio, la procedura stabilita da Ignazio cinquecento anni fa che prevede un confronto vis-àvis tra gli elettori (erano 212 e il quorum per l'elezione era fissato a 107), in modo da impedire il formarsi di cordate, partiti e autocandidature. Padre Sosa - oltre che profondo conoscitore della dottrina sociale della chiesa - è un grande esperto di politica venezuelana, il tema su cui più si è concentrata la sua attività accademica. Ha seguito, già come provinciale locale, l'ascesa e il consolidamento di Hugo Chávez e del suo regime. Due anni fa, in un'intervista, definiva il governo di Nicolás Maduro una forma di "tirannia popolare". Secondo Austen Ivereigh, biografo di Papa Francesco e conoscitore delle dinamiche vaticane (anche nei suoi contorni diplomatici), l'elezione di padre Sosa può essere letta come un tentativo di rafforzare la mediazione della Santa Sede finalizzata a evitare il collasso definitivo dello stato venezuelano, da mesi piegato da una crisi economica e sociale senza precedenti. Un paio di mesi fa, il segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin - che a Caracas è stato nunzio prima di tornare in curia - aveva parlato pubblicamente dei "problemi reali e gravi che affliggono il paese", puntando tutto sul necessario incontro tra il governo e l'opposizione per salvare il Venezuela. La carica di Preposito è a vita, ma nulla vieta che ci si possa dimettere, come hanno fatto gli ultimi tre generali prima di Sosa. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 27 L’anno zero per i maschi di Mauro Magatti E’ ormai necessaria una riflessione seria su cosa vuole dire oggi essere uomini, come hanno fatto le donne in passato Sul palcoscenico delle elezioni presidenziali americane Donald Trump e Hillary Clinton mettono in scena, in un sorta di epica rappresentazione che alterna toni da tragedia e da farsa, la rinegoziazione in corso nella cultura contemporanea del rapporto uomo-donna. Da un lato Trump, lo spaccone, emblema del maschio che continua a giocare la classica accoppiata potere-sesso. Ma in un mondo in cui sono cambiati i rapporti di forza e l’intero ordine simbolico si va ridefinendo per l’incalzare delle trasformazioni nella sfera riproduttiva, la riproposizione del vecchio cliché di «sciupafemmine» (incarnato negli ultimi anni da Berlusconi, Sarkozy, Strauss-Kahn) suona un po’ patetica. Dietro il grottesco che affiora nelle affermazioni sessiste c’è in realtà il tentativo, comprensibile ma perdente, del maschio contemporaneo di rifugiarsi nell’ «usato sicuro» del conquistatore, pura potenza esercitata arbitrariamente al di là della legge. Un modello che pure tocca corde profonde dell’elettorato maschile, ma non può far altro che forzare sempre di più i toni, fino ad autodistruggersi. Dall’altra parte Hillary, emblema della donna capace e determinata, madre e moglie senza paura. La sua biografia rivela tratti «eroici». Dotata di uno spiccatissimo senso del potere, Hillary ha tenuto insieme carriera e famiglia, sopportando persino l’umiliazione del tradimento del marito presidente; vera lady di ferro, come Thatcher e Merkel. Eloquente più di mille parole il suo sguardo ironico durante il dibattito televisivo, mentre interloquiva con un uomo che (come suo marito peraltro) appartiene alla schiera dei «predatori sessuali» (Michelle Obama). Eppure, il suo problema è quello di non diventare solo una macchina da guerra, più dura dell’uomo più duro, segretamente motivata dalla volontà di dimostrare chi porta veramente i pantaloni. Quanto sta accadendo negli Stati Uniti ci riguarda dunque tutti, uomini e donne di questo tempo chiamati a far avanzare un processo dagli esiti ancora

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incerti. Per evitare la fine patetica del Trump di turno, gli uomini di oggi devono rendersi conto che è venuto il tempo di tentare qualcosa di simile a ciò che le donne stanno facendo da un secolo rispetto al proprio ruolo: e cioè chiedersi cosa vuole dire essere maschi oggi. In rapporto all’altro sesso, ai figli, al mondo, a se stessi. Pensare di riprodurre i cliché del passato è comodo, ma stupido. Non si tratta in ogni caso di arrivare a delineare un nuovo modello standard. Cosa impossibile oltre che insopportabile. Piuttosto, di elaborare il lutto di una primazia che il maschio oggi (per fortuna) non ha più. Occorre ammettere che siamo all’anno zero: se non è più il potere che si traduce in sesso (come ha espresso in modo così volgare Trump ai suoi compari), a quale immagine possiamo rivolgerci? Forse, possiamo cominciare a pensare che il potere è solo un pallido idolo di quel desiderio infinito che si può compiere, sempre limitatamente, e quindi senza arroganza, in ciò che ci prendiamo la responsabilità di far esistere. Per le donne, si tratta di completare una transizione: la lunga e difficile marcia verso l’emancipazione è andata avanti e ha registrato tanti successi. In un mondo in cui gli uomini possono essere ridotti a meri produttori di seme, la donna acquista strutturalmente una nuova centralità. Ma qui sta il punto: per le donne - e Hillary per prima - non è più questione di puntare a un’assimilazione del modello maschile, di dimostrare chi sono i «veri uomini». Si tratta, più ambiziosamente, di portare un contributo per correggere le storture di un modello di convivenza che affonda le radici nell’archetipo maschilista-patriarcale. Il tesissimo, a volte goffo, confronto Trump-Hilary parla di questo: ciò di cui abbiamo bisogno è una nuova simbolizzazione del maschile e del femminile che, nel processo di negoziazione di genere, riconosca il contributo femminile - che al maschio non è affatto estraneo - a tessere i legami tra le generazioni, includere, prendersi cura. Non nell’ordine subordinato della famiglia patriarcale, ma come complemento simbolico a ciò che drammaticamente manca al nostro mondo. CORRIERE DELLA SERA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 20 Il dilemma dei compiti di Gianna Fregonara e Orsola Riva E’ sconsigliato superare i 60 minuti al giorno, l’ideale è studiare a casa 4 ore alla settimana Le mamme di Varese che hanno mandato una petizione al sindaco per chiedere una scuola senza compiti sono solo l’ultima goccia di un diluvio di appelli in rete di genitori affranti per il dopo lavoro pomeridiano dei propri figli. Sì, perché i compiti sono diventati un affare di famiglia: i piccoli, stremati dal tempo pieno, implorano l’aiuto di mamma e papà, e loro, i grandi, rientrando a casa la sera sono ostaggio delle divisioni a due cifre o delle invasioni doriche in Grecia nel XII secolo avanti Cristo. Ma un problema ci dev’essere se i quindicenni italiani fanno il triplo dei compiti - nove ore alla settimana - dei finlandesi che li surclassano nei test Pisa: lì si studia a casa una mezzoretta al giorno salvo negli ultimi due anni di superiori quando i compiti si fanno ben più gravosi. Che dire però degli studenti più bravi al mondo, i cinesi di Shanghai, che sono anche i più sgobboni (17 ore alla settimana)? Studiare serve ma i risultati dei ragazzi dipendono più dalla qualità dei programmi e dalla preparazione dei docenti che della mole dei compiti. Un’ora in più chini sui libri vale in media 5 punti in più nei test Pisa di matematica, in Italia addirittura il triplo: 15 punti, il che vuol dire che con due ore di studio in più alla settimana il miglioramento del rendimento scolastico equivale a 9 mesi di lezione in classe. Tuttavia il beneficio dello studio a casa tende a diminuire se l’impegno giornaliero supera i 60 minuti: il massimo si ottiene con quattro ore alla settimana, poi comincia a calare. Oltre un certo limite di ore il lavoro pomeridiano non cambia nulla. Non va dimenticato infine che i compiti hanno una grande controindicazione nei sistemi scolastici: accentuano la diseguaglianza fra ricchi e poveri. Un argomento cavalcato con forza dal presidente francese François Hollande che, richiamandosi a una vecchia norma, aveva proposto di vietare i compiti almeno alle elementari in nome dell’ égalité. D’altra parte, mentre l’Ocse benedice i compiti se servono a promuovere l’autonomia dei ragazzi e li aiutano a mettere a punto un metodo di studio individuale, oggi purtroppo i genitori tendono a sostituirsi ai figli. Non solo in Italia. Secondo una recente ricerca inglese due genitori su tre aiutano i figli nei compiti mentre in un caso su sei addirittura li fanno al posto loro. Niente di più sbagliato. Come ha dimostrato lo studio americano The broken compass (La bussola rotta: coinvolgimento parentale nell’educazione), i genitori che

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assillano i figli li danneggiano rendendoli più insicuri. Molto meglio farebbero a comunicare ai propri figli l’importanza dello studio e della scuola. Nella classifica stilata da John Hattie in Visible Learning (raccolta di oltre 50 mila ricerche, 80 milioni di studenti coinvolti) su quali fattori hanno un maggior impatto nell’apprendimento, gli homework sono all’88esimo posto su 138 voci: ciò che più conta invece è quello che succede a scuola, la dinamica dei rapporti fra docente e studenti e degli studenti fra loro. E comunque ci sono compiti e compiti. «Lo studio - spiega Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia generale alla Bicocca di Milano - non può sostituire il lavoro in classe. Ha senso che un bambino delle elementari faccia le divisioni a casa? No, la didattica si fa a scuola. Se dopo 8 ore, devi ancora studiare, vuol dire che il tempo pieno ha fallito». Alle medie - aggiunge - si può incominciare a dare compiti mirati, non più di un’ora al giorno. E anche alle superiori è assurdo caricarli come dei muli costringendoli magari ad abbandonare gli sport o lo studio di uno strumento musicale che li aveva appassionati. Non la pensa così la scrittrice Paola Mastrocola, professoressa di liceo: «Continuiamo ad alleggerire la scuola da ogni fatica, pretendiamo che ci riconsegni i figli dopo 8 ore, pronti senza dover più pensare a nulla. Ma la scuola esige studio e concentrazione, vorrei sapere che cosa diremmo di un atleta che si presenta ad una gara senza allenamento. La scuola è lo stesso, ha bisogno allenamento quotidiano della mente». Comunque la si pensi, un conto è che le famiglie, com’è nel loro diritto, possano aprire un confronto con gli insegnanti, tutt’altro è lanciare petizioni in rete e appellarsi ai sindaci o al governo per vietare i compiti, in una logica di confitto permanente genitori-insegnanti. Come ha ricordato anche il ministro Stefania Giannini: «Non si possono cancellare i compiti per legge. La libertà di insegnare è sacra». Il segreto della ricetta finlandese non sta nell’assenza dei compiti - come ha banalizzato nel suo ultimo film Michael Moore - ma nel rispetto di cui gli insegnanti godono in quella società. Come ha ricordato Papa Francesco, di fronte all’emergenza educativa di questi giorni, non è immaginabile altra via d’uscita che un nuovo patto scuola-famiglia. Con o senza i compiti. Pag 25 “Noi mamme lavoratrici andiamo in crisi perché tutto è pensato a misura d’uomo” di Chiara Maffioletti L’autrice della lettera sfogo al Corriere: avere un figlio potrebbe anche diventare una marcia in più Non è stato semplice incontrare Silvia P. Non è stato semplice convincere ad andare avanti con il suo ragionamento la mamma che - scrivendo una lettera a Beppe Severgnini - ha acceso un dibattito così trasversale e condiviso. Non immaginava che le sue parole fossero anche quelle di così tante donne. Tutte convinte che lavorare e avere figli, in Italia, è ancora un problema. «Il giorno in cui è stata pubblicata, anche nel mio ufficio tutti ne parlavano». Lei, avvocato in un importante studio, si è trasformata di colpo nell’Elena Ferrante delle mamme. Ancora non se la sente di svelare la sua identità: «Per il mio lavoro e per la mia famiglia». Ed ecco un punto fondamentale: Silvia P. dice cose comuni a molte. Eppure, facendolo, ancora appare sovversiva. Perché? «Credo che abbia ragione chi sostiene che il femminismo è stato frainteso. Abbiamo inseguito modelli maschili pensando di raggiungere la parità. Non è andata bene. La rivoluzione sarebbe creare dei veri modelli femminili». Le difficoltà delle donne sul lavoro dipendono dal fatto che l’organizzazione del lavoro è pensata da uomini? «Esattamente. Credo che se fossero le donne a organizzare il lavoro, con criteri loro, molti problemi sarebbero minimizzati». Eppure si parla tanto di orari flessibili, di telelavoro... «Però poi se anche solo vai via al tuo orario, senza fermarti di più, ti guardano strano. Non è solo norma ma cultura. Si pensa che una mamma che chiede di lavorare da casa passi il suo tempo a fare le tagliatelle. Bisognerebbe restituire dignità a pratiche tipo quella o il part time». Dopo la sua lettera non sono mancate le critiche...

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«Hanno detto che mi sono lamentata. Certo ho usato toni migliorabili, ma alla fine non solo facciamo questa vita di acrobazie tra lavoro e famiglia, ma non possiamo neanche lamentarci?». Qui però bisogna cercare di andare oltre. Ha confessato che con suo marito non dividete la gestione dei figli al 50%... «Mi sembra ipocrita negare che nella maggior parte dei casi il peso dei figli ricada più sulle donne. Il padre collabora. La mamma deve incastrare tutto. Con il pediatra parlo io, so io dove sono tutte le cose dei bambini in casa, metto io le calzine antiscivolo nei loro sacchetti dell’asilo e non sono io che chiedo a lui i loro impegni perché me li ricordi. Non credo di essere in una minoranza». In Italia no di sicuro: anche i fasciatoi, di norma, sono nei bagni delle donne... «Appunto. La questione culturale esiste e la strada è in salita». Cosa aiuterebbe una mamma che lavora, oltre a un cambio di mentalità e a un’organizzazione del lavoro pensata da donne? «Asili aziendali, bonus per le tate. Se ci fosse anche solo un pulmino che, con un contributo, passasse a prendere i bambini, recupererei le due ore e l’energia che impiego per portarli e andarli a recuperare. All’estero succede. E poi, ripeto, lavorare da casa». Quello che viene richiesto alle mamme che lavorano non è uguale a quello che ci si aspetta dai papà? «Non siamo uguali. Mettiamola così: io non riuscirei a pensare di andare al lavoro se i miei figli stanno male. Gli uomini lo fanno, anche perché sanno che, il più delle volte, vicino ai loro bambini c’è la mamma». Diventare mamma toglie energie al lavoro? «Io vedo donne ancora più produttive. Non sono aiutate. Ed è vero che quelle che approfittano della maternità per lavorare meno fanno un danno enorme a tutte le altre». Essere una mamma e avere un lavoro sono dimensioni per lei inconciliabili? «Faccio fatica a fare tutto. E questo ricade sui miei figli. A scuola arriviamo sempre trafelati, alla fine di ogni giornata ti sembra un miracolo essere riuscita a fare tutto. Ma non è giusto. E non deve succedere che i figli delle mamme che non lavorano stiano meglio di quelli le cui mamme hanno un impiego». Le hanno scritto che dovrebbe ingegnarsi per gestire bene lavoro e maternità... «E invece no. Al di là delle soluzioni personali, io auspico una specie di “modello Ikea” anche nella società. Quando entri lì tutto è pensato per riuscire a fare ciò che devi con la serenità che i bambini nel frattempo sono tranquilli. Una provocazione, ma sarebbe bello. Chiedo solo che le mamme siano messe in condizione di lavorare meglio». LA REPUBBLICA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 Le famiglie bocciano la scuola di Matteo di Ilvo Diamanti La “buona scuola”. È una riforma di bandiera per il governo presieduto da Matteo Renzi. D’altronde, fin dal titolo, riflette lo stile comunicativo del premier. Diretto e friendly. Su una materia che coinvolge tutti i cittadini. Tutte le famiglie. E, per questo, dovrebbe unire, non dividere gli italiani. Per questo - anche per questo - il premier ha dedicato molto spazio alla scuola nella legge di bilancio 2016-17 presentata ieri. Eppure, nonostante tutto, agli italiani, o meglio: a molti italiani, la Buona scuola non pare tanto "buona". È ciò che emerge dal sondaggio di Demos-Coop condotto negli ultimi giorni. Certo, l'istituzione scolastica continua a suscitare grande fiducia, come dichiara oltre metà (52%) degli italiani (intervistati). Tuttavia questo dato appare in calo (4 punti in meno), rispetto all'anno scorso. Tanto più rispetto al decennio precedente: oltre 10 punti. Insomma, la scuola resta al centro dell'interesse dei cittadini. Ma, rispetto al passato, suscita qualche dubbio in più. Un altro segno di cambiamento nel clima d'opinione, a questo proposito, riguarda la crescente credibilità della "scuola privata" di fronte a quella "pubblica". Oggi, la differenza fra i due ambiti del mondo scolastico è molto limitata: 4 punti appena. Mentre dieci anni fa erano 10. Le ragioni di questa evoluzione sono diverse. Di certo, però, la scuola privata non costituisce più la periferia del sistema. Frequentata da studenti di famiglia agiata e dal rendimento scarso. Propone, invece, un'offerta articolata e, talora, qualificata. A livello universitario, inoltre, è nota la presenza di atenei "privati" di assoluto rilievo, in ambito non solo nazionale. Il

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prestigio della scuola pubblica, tuttavia, continua a essere elevato, soprattutto nelle regioni del Centro-Nord. Molto meno nel Mezzogiorno. Orientamenti che riflettono il diverso grado di considerazione dello Stato e delle istituzioni pubbliche in Italia. Ma anche un diverso livello di efficienza, certificato da sistemi di valutazione nazionali ed europei. Tuttavia, se la scuola "soffre" un declino di fiducia fra i cittadini non è certo a causa "dell'insegnamento degli insegnanti". I quali mantengono un prestigio sociale elevato. Su tutti, i professori universitari, "stimati" dal 64%. Seguiti dagli insegnanti delle elementari. I "maestri", che improntano la nostra biografia personale (e tanta narrativa, letteraria e tele-cinematografica): 55%. Non è colpa loro se l'immagine della scuola si è appannata. Tanto che la maggioranza degli italiani ritiene maestri e professori "preparati" ma prevalentemente "sotto-pagati". E condivide la protesta dei docenti ai quali la "Buona scuola" ha assegnato sedi lontane dalla regione dove risiedono. Il deficit di fiducia nella scuola che si osserva negli ultimi tempi, secondo gli italiani, dipende, invece, dal deficit di investimenti pubblici. Un problema che si ripercuote, anzitutto, sull'habitat di chi studia e insegna. Gli edifici scolastici, infatti, secondo due persone su tre, sono inadeguati e, ancor più, insicuri. Ma il primo fra i problemi denunciati dagli italiani (intervistati) è la mancanza di risorse per la didattica. Insieme allo scarso collegamento con il mondo del lavoro. Mentre molti, anzi, quasi tutti, sottolineano l'esigenza di "formare i formatori". Cioè, di inserire, a loro volta, i docenti in un processo di formazione continua. Associato a sistemi di valutazione che permettano di "premiare il merito". Concetti ripetuti da tempo. E, come dimostra anche questo sondaggio, largamente condivisi. Sempre evocati eppure mai attuati davvero. Anche se qualcosa si è mosso, negli ultimi anni. In particolare nell'Università, dove la valutazione della didattica e della ricerca è divenuta una pratica consolidata. Per distribuire le risorse ministeriali. Agli Atenei e ai Dipartimenti. Ma anche per regolare le carriere dei docenti. Con procedure, peraltro, discusse e discutibili, per i parametri adottati nella valutazione. Infine, ma non per importanza, l'indagine di Demos-Coop sul rapporto fra gli italiani e la scuola fa emergere un rilievo auto-critico, per gli intervistati. Il peso crescente e perfino eccessivo dei genitori, di fronte agli insegnanti. In difesa dei figli. Un altro segnale e meccanismo del familismo dis-educativo diffuso in Italia. Questi rilievi contribuiscono a spiegare il voto "negativo" attribuito dagli italiani intervistati alla riforma della Buona scuola. Disegnata e approvata due anni fa, dal governo guidato da Matteo Renzi, con la supervisione della ministra Stefania Giannini. Esperta di scuola, visto che è stata rettrice dell'Università per stranieri di Perugia. Senza ottenere i risultati attesi, come dimostrano le molteplici tensioni degli ultimi anni. Intorno alle cattedre da assegnare e a quelle vuote, agli insegnanti di sostegno per gli alunni diversamente abili. Come dimostrano le opinioni rilevate in questo sondaggio. La riforma e i provvedimenti sulla scuola avviati dal governo, infatti, secondo gli italiani, meritano l'insufficienza. Un 5 pieno. E (come segnala Luigi Ceccarini in questa pagina) i più critici sono proprio coloro che, in famiglia, vivono con persone che frequentano scuole pubbliche. In altri termini. La Buona scuola piace di meno soprattutto a chi la conosce e ne ha esperienza. Tuttavia, se risaliamo all'origine dei "voti" attribuiti alla riforma, emerge un'altra spiegazione. Significativa. I giudizi, infatti, si differenziano e si distanziano soprattutto in base all'appartenenza politica. Anzi: partitica. Perché solo gli elettori del Pd attribuiscono alla riforma sulla scuola un voto molto positivo. Più che sufficiente. Vicino al 7. Mentre gli elettori di tutti gli altri partiti di centro, destra e sinistra - e perfino gli alleati di governo - la bocciano. O, almeno, la rimandano agli esami di riparazione. Da ciò un'impressione. Un'idea. Che anche questa riforma, come il referendum costituzionale, sia irrimediabilmente personalizzata. Al di là del merito: è divenuta la Scuola di Renzi. E ciò rende ancor più difficile - letteralmente - darle un "voto". LA NUOVA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 L’Università troppo sbeffeggiata di Vincenzo Milanesi Ormai ci siamo (quasi) abituati. Gli atenei italiani sono (di nuovo) additati al pubblico ludibrio come sentina di tutti i vizi, a cominciare da quello di un nepotismo fonte di diffusa corruzione, e causa, addirittura, della “fuga dei cervelli”. Ma ragioniamo un attimo, senza alcuna volontà di sbrigative e inopportune autoassoluzioni, prima di emettere una condanna senza appello. C’è il rischio che, nella foga di un empito di

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giustizialismo più etico-politico che giudiziario, si perda di vista il punto centrale. Che è quello del meccanismo di selezione della classe docente. Le procedure concorsuali per il reclutamento e per le progressioni di carriera, insomma. Che sono state cambiate più e più volte, negli ultimi decenni di storia dell’università italiana, senza risolvere il problema. Non premiano “i migliori”, si dice, costringendo i medesimi a “fuggire” all’estero, e lasciando spazio al nepotismo accademico. Che seleziona “i peggiori”. Se davvero così fosse, alcune cosette però non si spiegherebbero. A cominciare dal fatto che i nostri “fuggitivi” sono in grado di competere con successo fuori dall’Italia, pur essendo stati formati all’interno di un sistema in cui alligna da decenni una malefica corruzione. Allora forse il sistema non è poi così marcio, per merito di quelli che, da decenni, non sono “fuggiti” e, stando qui, hanno formato i fuggitivi di oggi. Intendiamoci bene: nessuno dubita che i fuggitivi di ieri e di oggi siano eccellenti ricercatori e docenti, ma resta da dimostrare che solo quelli fuggiti sono bravi, anzi sono “i migliori”, e che quelli che restano sono cascami residuo di un sistema viziato da corruzione e nepotismo. Altrettanto, non si spiega perché la ricerca universitari italiana sia considerata nella top ten a livello internazionale, per risultati complessivi e per produttività dei singoli, a livello quantitativo ma anche qualitativo, pur con finanziamenti notoriamente di molto inferiori a quelli della “concorrenza”. Difficile quindi negare, se si vuole essere intellettualmente onesti, che i fuggitivi sono tali anche perché altrove trovano condizioni sensibilmente più soddisfacenti, come stipendi, e come fondi e facilities per la loro ricerca, quindi non solo perché altrove i meccanismi di selezione dei docenti non sono affetti dal cancro del nepotismo. Il tema dei meccanismo di selezione è però quello su cui concentrare l’attenzione. È lì che bisogna intervenire, ancora una volta, e magari imparando da come le cose funzionano fuori dall’Italia. Là si procede con meccanismi di cooptazione molto più “spinti” che da noi, secondo una logica che è quanto di più rispettosa ci sia dell’autonomia e della libertà di scelta di ciascuna sede universitaria, ma si valutano con assoluto rigore e serietà di metodo i risultati del lavoro svolto dai cooptati, con tutte le conseguenze del caso. A valle, e quindi non a monte, per così dire, avviene, di fatto, la selezione del corpo accademico, sia che la valutazione venga effettuata da organismi statali o da un meccanismo “di mercato”, per quanto sgradevole sia questa espressione. In Italia siamo alle prime prove di procedure di valutazione nazionale all’interno del sistema universitario, dopo almeno venticinque anni in cui il sistema era in una condizione assolutamente anomala, con un relativamente ampio grado di autonomia nella selezione “a monte” e nessuna procedura di valutazione dei risultati “a valle”. È con questi princìpi che si deve cominciare a ragionare anche da noi, non certo facendo nominare commissioni, formate solo da accademici stranieri, dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, come sta accadendo in questi giorni per le cosiddette “cattedre Natta”, 500 posti di super-professori di rientro dall’estero, selezionati da quelle commissioni. E c’è forse da pensar male, se si collegano esternazioni fatte con grande tempismo sulla corruzione negli atenei italiani, con le, inedite e preoccupanti, procedure delle “cattedre Natta”? CORRIERE DELLA SERA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 1 Le famiglie (e i giovani) invisibili di Maurizio Ferrera Ritardi italiani Sulle questioni di principio (come il matrimonio o le scelte riproduttive) il tema della famiglia suscita scontri ideologici da cappa e spada. Sul piano pratico è invece un non-tema, l’invisibile Cenerentola del welfare. L’Unione Europea colloca il modello d’intervento dell’Italia nel cosiddetto Gruppo 4 (su quattro: il più arretrato), insieme a Bulgaria, Estonia, Croazia, Grecia e Spagna. Nel Gruppo 1 sta la Scandinavia, con il Belgio e il Regno Unito. Questi Paesi sono caratterizzati da una politica familiare «capacitante», che aiuta i giovani a formare unioni autonome e stabili, a fare figli, a partecipare al mercato del lavoro e ad avere un reddito adeguato. Nel Gruppo 4 tutte queste cose sono difficili, per molte fasce sociali enormemente difficili. La Ue definisce la politica familiare di questo insieme di Paesi «limitata». Sarebbe più appropriato chiamarla «limitante». Le sue debolezze pesano infatti come un macigno sulle opportunità dei giovani, dei genitori e in particolare delle madri italiane. Sul ritardo anagrafico con cui da noi si comincia un’autonoma vita di coppia e sul tasso di fertilità

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stendiamo un velo pietoso. Una anomalia meno dibattuta riguarda il lavoro. Il 42% delle famiglie con figli è monoreddito: ad essere occupato è solo il padre. Nel Gruppo 1 la percentuale è sotto il 30%, la norma è il doppio reddito, con o senza part-time. Siccome anche in Italia sta crescendo il numero di working poor (occupati che pur lavorando restano in condizioni di indigenza) non possiamo certo stupirci se abbiamo il tasso di povertà minorile più alto della Ue. N el modello capacitante lo Stato assicura che la presenza dei figli non generi impoverimento. Gli assegni familiari sono universali e il Fisco agevola, soprattutto se la madre lavora (in Italia il 25% delle madri lascia o perde il lavoro dopo la gravidanza). Per i redditi più bassi sono previsti crediti d’imposta: denaro che si aggiunge alla retribuzione. Le capacità non dipendono però solo dai soldi, conta anche la disponibilità di servizi, a cominciare dai nidi. Su questo fronte l’Italia ha fatto recentemente qualche progresso, ma unicamente al Centro-Nord. Nel Mezzogiorno siamo addirittura fuori dal perimetro del Gruppo 4. La conciliazione resta un dramma: lo confermano le lettere e i dibattiti pubblicati sul sito «La 27ma ora». L’organizzazione del lavoro è troppo rigida, mancano i servizi (o costano troppo), i carichi domestici gravano ancora principalmente sulle donne: il 63% delle occupate dichiara di non ricevere nessun aiuto dal partner. Per uscire dal modello limitante dobbiamo metterci a correre. Dopo un inizio promettente, il governo Renzi è tornato alla cattiva abitudine dei provvedimenti frammentati e temporanei: bonus, sconti, micro-agevolazioni, detrazioni. Senza una logica riconoscibile che non sia quella del consenso (con vantaggi, peraltro, tutti da verificare). Alle politiche capacitanti non si arriva improvvisando, mettendo e togliendo. Servono interventi coordinati sul fronte dei trasferimenti, del Fisco, dei servizi, dei congedi parentali, dell’abitazione, dell’accesso al credito. E naturalmente occorrono risorse. Per la famiglia il nostro Paese spende meno di 310 euro pro capite all’anno, la metà della media Ue, un terzo rispetto a Francia e Germania (dati 2012). Per le pensioni di vecchiaia spendiamo invece più di 3.700 euro, il valore più alto di tutta la Ue, Paesi scandinavi inclusi. Il governo si è impegnato (anche con Bruxelles) a redigere un Piano nazionale contro la povertà. Il piatto forte dovrebbe essere l’introduzione di una misura nazionale di garanzia del reddito, pilastro fondamentale del modello capacitante. Sarebbe stato auspicabile concentrare su questo fronte le risorse «sociali» della legge di Stabilità. Invece si è scelto di dare la priorità alle pensioni. Di nuovo un’occasione sprecata, l’ultima di una interminabile serie.

Pag 29 Scuola, lavoro, cultura. L’impegno dei nuovi italiani di Goffredo Buccini La risposta sono loro, solo che si fatica ancora a capirlo. Chi avesse dubbi residui sulla lentezza paralizzante dei nostri iter parlamentari nell’adeguarsi alla realtà, avrebbe dovuto assistere ieri a Roma alla nascita di un nuovo soggetto politico e giuridico. In una sala del ministero del Lavoro e degli Affari sociali intitolata a Massimo D’Antona, una ventina di ragazzi nati o cresciuti da noi, ma con famiglie immigrate qui da mezzo mondo, hanno dato vita, a nome di altrettante associazioni radicate dal Piemonte alla Sicilia e per conto di una platea di novecentomila coetanei nelle loro condizioni (la «generazione involontaria» di Tahar Ben Jelloun, coloro che si trovano migranti senza averlo deciso), al Coordinamento nazionale delle nuove generazioni italiane, il Conngi. Hanno origini in Pakistan e in Egitto, in Brasile e in Cina, in Albania e in Costa d’Avorio e in cento altri posti ancora questi ventenni e trentenni quasi sempre laureati, quasi tutti occupati nel sociale e nella mediazione culturale, che si esprimono in un italiano talvolta migliore dei nostri altri connazionali (e sovente dei nostri parlamentari), perché per loro lingua e tricolore sono cardini di identità e futuro. Hanno eletto il loro gruppo dirigente e sottoscritto un manifesto che delinea quattro sezioni - scuola, lavoro, cultura e cittadinanza - come campi di intervento e interlocuzione con le istituzioni dello Stato, le associazioni, i corpi intermedi. Non amano essere definiti «seconda generazione» ma amano ancor meno che si parli di seconde generazioni in loro assenza, come è quasi sempre accaduto fino a oggi. Si pongono il problema di recuperare la dispersione scolastica tra i figli di immigrati (assai sopra la media), far crescere tra i docenti la capacità di gestire classi con più culture, coinvolgere i genitori e strappare al buio della segregazione soprattutto le mamme, sì, le madri migranti spesso prigioniere di una condizione femminile difficile, confinate nell’isolamento di una prima generazione che non si fida e non è a suo agio con la nostra società e i nostri modi di essere. Vogliono

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porsi come «ambasciatori» verso il mondo di provenienza, usare il « back ground migratorio» come una ricchezza occupazionale da spendere con le nostre aziende, un ponte di cui Dio solo sa quanto abbiamo e avremo bisogno. Vengono a dirci «noi ci siamo». E chiedono di incontrare il presidente Mattarella per dirlo anche a lui. Perché, ecco, l’ultimo punto del loro manifesto, il più dolente, è quello della cittadinanza negata: la paradossale condizione per la quale una giovane e brillante donna del loro direttivo come Marwa Mahmoud, arrivata ad appena due anni da Alessandria d’Egitto a Reggio Emilia, possa fare tutte le scuole in Italia sin dall’asilo e insegnare adesso ai ragazzi italiani, ma abbia dovuto attendere dai diciotto ai ventidue anni la cittadinanza, sottoponendosi all’umiliazione costante del rinnovo del permesso di soggiorno, dentro un limbo nel quale, viaggiando magari coi compagni di liceo, non avrebbe avuto neppure la loro stessa copertura sanitaria. La legge sulla nuova cittadinanza, ispirata a un pur molto annacquato ius soli (il sacrosanto principio vigente negli Stati Uniti secondo il quale chi nasce in un Paese ne diventa cittadino), è passata il 13 ottobre 2015 alla Camera (Lega contraria e Cinque Stelle astenuti) ma è bloccata da un anno in Senato sotto il peso di migliaia di emendamenti leghisti di cui appare difficile non sospettare almeno in parte la natura strumentale. Lo stallo sarebbe anche un ottimo argomento per chi sostiene la fine del bicameralismo al referendum del 4 dicembre, non fosse che così si sposterebbe il focus ad altra materia. Mentre oggi è giusto tenere i riflettori su questi ragazzi, autori di un clamoroso contropiede politico con l’aiuto (va detto) di quei dirigenti del ministero che da anni si occupano di integrazione e di tutela dei minori stranieri. Hanno spedito ai senatori foto della loro infanzia nelle nostre scuole; si sono dati una veste giuridica; bussano infine alla porta del presidente della Repubblica. Sulla via di un riformismo che tenga insieme legalità e integrazione nella gestione dei migranti, loro, che migranti non sono e non ci si sentono, costituiscono il codice di lettura necessario in un’Italia che, senza forze nuove, sarebbe fra trent’anni vecchia e spopolata. Marwa, che porta il velo leggero (l’hijab) per «libertà e identità» dai tempi dell’università a Bologna, spiega sempre in classe il concetto africano dell’ubuntu, «noi siamo grazie a tutti gli altri», traduce. Non è escluso che, se non verranno esautorati dalla riforma, persino i nostri senatori riluttanti finiscano, prima o poi, per intravederne il senso. AVVENIRE di sabato 15 ottobre 2016 Pag 3 Economia circolare, la sfida del benessere senza sprechi di Marco Morosini Le ricerche più innovative sulla riduzione dei consumi Il concetto di 'economia circolare', che sta dilagando nelle agende di parlamenti, governi, e aziende, sembra un termine tecnico. Invece esso prelude a un cambiamento epocale, soprattutto del pensare e del vivere. È un cambiamento altrettanto radicale – e di segno opposto – rispetto a quello degli ultimi spensierati anni del consumismo terminale. Decenni fa per molti giovani della 'generazione-eskimo' era segno identitario indossare vecchi indumenti militari, robusti e duraturi, riciclandoli in una nuova e prolungata vita. Oggi è segno identitario giovanile comprare e indossare pantaloni pre-stracciati. Questi sono 'realizzati' da raffinati robot industriali, costruiti con gran impegno di materiali e di energia, per sostituire gli umani non solo nel produrre, ma ora addirittura anche nel consumare. Perché i consumatori terminali non consumano abbastanza. Ecco, l’economia circolare è l’esatto contrario di tutto questo. Non è una faccenda di ecoingegneria. È una contro-rivoluzione antropologica. Nell’economia circolare il prelievo di materiali dalla natura è ridotto al minimo possibile. Ciò avviene grazie all’aumento della durata, del riuso, dell’ammodernamento, della riparazione, e del riciclo dei manufatti e dei materiali. In questo modo essi 'circolano' quindi nell’economia reale molte più volte e molto più a lungo, invece di attraversala brevemente sotto forma di merci effimere per uscirne rapidamente come spazzatura e inquinamento. Secondo molti studiosi, con le migliori tecnologie già disponibili l’economia materiale può darci abbastanza benessere, pur usando solo un decimo delle materie prime e un terzo dell’energia attuali. Queste riduzioni così rilevanti dei consumi materiali sono preconizzate per esempio dal Factor 10 Institute (Istituto del fattore 10), dalla strategia energetica dei governi svizzeri dal 2002, per una 'società da 2000 watt' (2000 watt pro capite, invece degli attuali 6000), dal think-tank di scienziati francesi e europei Negawatt – e da molti altri. Ma allora, perché l’'economia del buon senso' non prende

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piede? Le 'tre vie' dell’economia dell’oro ci danno buoni indizi. Una parte dell’oro mondiale lavorato circola da secoli, fuso e rifuso in innumerevoli manufatti: moltissimo valore d’uso (sommato nel tempo) è generato da poco materiale usato e riusato. Una seconda parte dell’oro mondiale è estratta con fatica e danni ambientali da sottoterra, per rimetterla subito sottoterra nei caveau delle banche e degli Stati: molto materiale genera zero valore d’uso. Sottoterra, infine, seppelliamo e disperdiamo una terza parte dell’oro mondiale lavorato: quello contenuto nei telefonini e in altri dispositivi che finiscono nelle discariche solo dopo qualche anno dalla sua estrazione mineraria: molto materiale genera un modesto e brevissimo valore d’uso. Di queste 'tre vie dell’oro', la prima è il prototipo dell’economia circolare, la seconda e la terza lo sono dell’economia lineare. Il nostro 'hardware sociale' – ovvero la tecnologia – saprebbe bene come evitare i due destini insensati dell’oro, e come ridurre di centinaia di volte i danni sociali e ambientali associati alla sua produzione. Ciò che ci impedisce di farlo è il nostro 'software sociale'. La seconda 'via insensata dell’oro' (quella verso i caveau), non la abbandoniamo a causa delle convenzioni finanziarie che attribuiscono all’oro un valore di scambio svincolato dal suo valore d’uso. La terza 'via insensata dell’oro' (quella verso le discariche) non la abbandoniamo a causa delle scelte politiche, che determinano cosa è tassato e cosa è sovvenzionato dallo Stato: l’uso di natura, suolo, materiali e energia (relativamente scarsi, quindi da risparmiare) è poco tassato o addirittura è sovvenzionato, il che favorisce il loro spreco. Il costo totale del lavoro umano (che abbiamo in abbondanza e in parte non sappiamo come impiegare) invece è gravato da alti prelievi previdenziali e tasse. Ciò incita a risparmiarne il più possibile, impiegando, al posto del lavoro, sempre più macchine, più materiali, e più energia, con i relativi danni ambientali. Una 'riforma fiscale ecologica' dovrebbe semplicemente invertire il peso di queste tassazioni: meno tasse sul lavoro, più tasse su energia e materiali. «Disoccupati diventerebbero i chilowatt e le tonnellate, non le persone», disse nel 1998 il fondatore del Wuppertal Institut Ernst Ulrich von Weiszaecker nel premiato documentario svizzero di Beppe Grillo Un futuro sostenibile. Anche secondo il professore zurighese e ginevrino Walter Stahel, il padre – anzi «il nonno», come egli dice – dell’economia circolare, una «riforma fiscale ecologica» è il provvedimento-cardine verso un’economia con meno danni ambientali e con più occupazione. Il titolo del suo primo libro nel 1976, Il potenziale per sostituire l’energia con la manodopera, può sembrare un errore di stampa o un anacronismo. Ma come? Da millenni 'progresso' vuol dire far lavorare meno gli umani e più le macchine. Certo, ma è tutta una questione di scala. Oltre una certa dimensione della popolazione mondiale e delle sue attività materiali, quello che è stato progresso per gli individui, si trasforma in boomerang per la specie umana, per il suo ambiente e per molte altre specie. Troppo uso e troppo spreco di troppi materiali e di troppa energia portano una società globale di sette miliardi di umani a compromettere gravemente integrità e equilibri planetari consolidati da millenni. «Sostituire l’energia con la manodopera» ( Walter Stahel) non vuol dire «rinunciare alla lavatrice», né al progresso tecnico. Vuol dire dare una direzione a questo progresso, usando il genio e la manodopera per prolungare la vita delle cose, non per abbreviarla. Istitut de la durée o Product-life Institute si chiama con pertinenza l’organismo creato negli anni ’80 a Ginevra da Walter Stahel e – non a caso – dal suo sodale, il docente emerito di 'economia del servizio' all’Università di Ginevra, il triestino Orio Giarini. Il contributo principale di questi due ecopionieri e dei loro libri (per esempio Dialogo sulla ricchezza e sul benessere di Orio Giarini) non è nell’eco-ingegneria, ma nell’economia politica. Si tratta niente di meno che della ridefinizione del concetto di valore economico delle cose: il valore è nel servizio realmente reso dalle cose, non nella loro produzione o nel loro commercio. Se questo è vero, allora cambia davvero tutto. Nell’era dell’iperconsumismo terminale, la conservazione delle cose e della natura diventa sovversione del disordine costituito. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ AVVENIRE di domenica 16 ottobre 2016 Pag 8 Stress da superlavoro nelle corsie degli ospedali di Paolo Viana

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Gli infermieri italiani sono troppo pochi. Servirebbero almeno 47mila nuove assunzioni Due infermieri ogni cento che mancano all’appello non giustificano denunce come quella arrivata in redazione da una città del Piemonte: una lettrice ci racconta di «laureate in scienze infermieristiche che non riescono ad inserirsi negli ospedali a causa del blocco delle assunzioni» e di infermiere sulla cinquantina «che lavorano negli ospedali e sono stremate dalla fatica, con vite famigliari spesso dissestate anche a causa dell’eccessiva gravosità del loro lavoro». In altre parole, il deficit assistenziale e terapeutico che si nasconde dentro le statistiche ufficiali avrebbe dimensioni ben più importanti dei numeri, peraltro molto chiari, che sono stati diffusi negli ultimi anni dalle rappresentanze del settore e le conseguenze reali sono talmente gravi da poter essere calcolate addirittura, secondo studi internazionali, con un possibile aumento della mortalità dei pazienti. Numeri e conseguenze che - come vedremo non saranno ribaltati dalla manovra annunciata ieri, che prevede la stabilizzazione di 4.000 precari e, attraverso il blocco del turn over, l’assunzione di qualche migliaio di nuovi infermieri a fronte di un fabbisogno che va da 18.000 a 47.000 dipendenti in più. Due infermieri ogni cento. Partiamo dalla situazione attuale: gli infermieri dipendenti dal Servizio Sanitario Nazionale nel 2014 erano poco meno di 270.000. Abbiamo parlato di due infermieri ogni cento, perché è del 2,21% la diminuzione della forza lavoro occorsa tra l’ultimo contratto, firmato nel 2009, e il 2014, l’ultimo anno in cui sono disponibili dei dati ufficiali. In realtà, secondo uno studio della Federazione nazionale Ipasvi, che riunisce i collegi infermieristici - studio che è stato condotto sui dati della Ragioneria generale dello Stato -, ci sono delle Regioni, come la Calabria, in cui le perdite ammontano a sette volte tanto (-16,31%) e altre dove l’organico invece è cresciuto, in media dello 0,83. Il computo peggiora se si considera il part time, che è particolarmente diffuso, e sottrae il 10% del personale, gravando soprattutto sulle Regioni 'ricche', laddove quelle in piano di rientro, già in sofferenza d’organico, tendono invece a non concederlo. Una montagna di straordinari. Queste ultime regioni, peraltro, sono anche quelle che ingigantiscono il monte delle ore di straordinario, che nel caso degli infermieri italiani è già imponente e va a compensare la riduzione delle retribuzioni, la quale tra il 2011 e il 2014 è stata di 70 euro pro capite; un sacrificio cui va sommata la perdita di potere d’acquisto, che secondo le analisi degli operatori del settore è stata del 25% tra il 2011 e il 2015. Anche in tal caso, tuttavia, la media non aiuta a capire la sperequazione che caratterizzerebbe l’attività infermieristica: ci sono regioni, come la Liguria, dove l’infermiere prende 664 euro meno della media nazionale e altre, come la Campania, dove incassa 478 euro in più, sempre in relazione al differente carico degli straordinari. Questi ultimi, peraltro, aumentano in tutte le Regioni ma più sensibilmente in quelle soggette a piani di rientro e quindi a blocco dei turn over: in Campania e nel Lazio coprono il 4,5% della retribuzione media. Un rapporto squilibrato. Secondo l’Ipasvi, una «controprova dell’insufficienza degli organici infermieristici in alcune Regioni deriva anche dall’analisi del rapporto numerico tra medici (calati anch’essi nei cinque anni di circa 4.900 unità) e infermieri che dovrebbe essere in misura ottimale di 1 a 3 per coprire le esigenze di servizio h24 e che in media nel 2014 era di 2,5 infermieri per medico. Tra le Regioni a statuto ordinario, è conforme a questo valore solo il Veneto (Regione benchmark 2016, rapporto 3,1). Sono compresi tra il 2,5 e i 3 infermieri per medico Emilia Romagna (tra le cinque Regioni scelte per il benchmark 2016, rapporto 2,9), le Marche (benchmark 2016, rapporto 2,8), il Lazio, la Liguria, la Lombardia (tra le cinque Regioni scelte per il benchmark 2016, rapporto 2,7), il Molise, il Piemonte, la Puglia, la Toscana, l’Umbria (benchmark 2016, rapporto 2,7). Si collocano al di sotto della media nazionale le altre Regioni con la punta più bassa tra quelle a statuto ordinario in Sicilia (1,9) Calabria e Campania (2)…» Per ripristinare l’equilibrio perduto quasi ovunque servirebbero poco meno di 18.000 dipendenti e per raggiungere la piena efficienza secondo gli standard europei dovrebbero essere assunti 47.000 infermieri. Le conseguenze sul paziente. Quelli che riferiamo non sono soltanto numeri. Secondo uno studio inglese del 2011 il tasso di mortalità negli ospedali scende del 20% quando ogni infermiere ha in carico un numero di pazienti pari o inferiore a 6, rispetto a quando ne ha in carico 10 o più. In Italia, oggi, sono ricoverati in media 12 pazienti per ogni infermiere e se dovessero essere assunti i suddetti 47mila infermieri si avrebbe un calo medio di due pazienti per infermiere. Non va sottaciuto che i turni infermieristici sono anche una questione di impegno fisico, che si complica con

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l’avanzare dell’età e il già citato blocco del turn over. La letteratura scientifica attesta infine che turni di 12 ore - rispetto a turni di 8 -, che sono molto diffusi perché comportano una riduzione dei costi per le aziende sanitarie, si associano a tassi più elevati di errori terapeutici. Finora a evitare che questi errori avessero un esito fatale ci hanno pensato i professionisti che lavorano nel nostro Servizio sanitario, ma oltre certi limiti non si può andare. Anche per questo, l’Ipasvi invoca il nuovo contratto. Ipasvi ha chiesto l’assunzione di 47.000 nuovi infermieri: non vi pare una pretesa irrealistica? Il numero nasce da due fattori. Il primo -risponde Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione dei Collegi degli infermieri (Ipasvi), che rappresenta gli oltre 430mila infermieri pubblici e privati presenti in Italia - è il rispetto delle norme Ue su orari di lavoro e turni di riposo: di infermieri in più, per la copertura dei turni, ce ne vogliono 17-18mila. L’altro fattore è l’assistenza sul territorio a una popolazione che invecchia, con malattie croniche e non autosufficienza in aumento. Trentamila infermieri sono il fabbisogno di personale in base ai bisogni di salute di questa popolazione. Se nei Paesi Ocse la media di infermieri ogni mille abitanti è superiore a 9 e noi ci fermiamo a 6, lo 0,3 per mille in più (47mila, appunto) sembrano una richiesta ragionevole per un sistema tra i migliori del mondo. Arrivano migliaia di assunzioni, non siete contenti? La coperta della sanità è sempre corta: l’annuncio è di due miliardi in più in manovra rispetto al 2016: 113 miliardi. Pochi comunque per garantire la qualità. Si conferma priorità ai contratti ai quali tuttavia vanno risorse che consentono aumenti nemmeno dell’1% dopo sette anni di assenza totale. Anche Renzi ha ammesso che si debbono fare i concorsi, sbloccando il turn over, anche se solo per 10mila posti tra forze dell’ordine e infermieri, mentre 4.000 colleghi precari saranno stabilizzati. Il punto non è essere contenti o no: le risorse che chiediamo servono per garantire cure di qualità ai cittadini. Parliamo della qualità del servizio assicurato dalle cooperative: è vero che in alcuni ospedali opera personale peggio retribuito e meno preparato? Peggio retribuito si. Le cifre sul territorio, i servizi in outsourcing ad esempio, parlano anche di 5 euro l’ora: un’offesa per la professione. In ospedale anche il lavoro interinale deve rispondere ai contratti. Meno preparato no, se chi lavora ha un titolo riconosciuto secondo i parametri di legge: gli infermieri sono professionisti che seguono un percorso universitario verificato e certificato e hanno obblighi di aggiornamento continuo per garantire la qualità del servizio. Esiste un problema di inidoneità degli infermieri oggi in attività? Secondo il dato di una ricerca del Cergas Bocconi del 2016, il 15,1% degli infermieri ha limitazioni lavorative, considerate nel 49,5% dei casi relative alla movimentazione dei carichi, nel 12,6% alle posture e nel 12% al lavoro notturno e alla reperibilità. Questo perché l’età media degli infermieri cresce di 6 mesi/anno e oggi è attestata sui 49 anni. L’elemento che fatica a entrare nelle agende di chi si occupa di organizzazione, è la necessità di pensare approcci manageriali e organizzativi innovativi quali il diversity management piuttosto che l’adozione di programmi strutturati di formazione del personale e prevenzione del fenomeno. Da qualche tempo, avete aperto il fronte dell’assistenza territoriale, stimando un fabbisogno di 30.000 operatori. Chi li paga? Nessuno paga di più. Presupponendo l’indispensabile reintegro degli organici, un certo numero di professionisti, invece di restare negli ospedali che devono occuparsi solo dei casi acuti, è spostato sul territorio per l’assistenza alla persona e ai suoi bisogni: dipendenti erano in ospedale, dipendenti sono sul territorio. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 25 Una notte al museo di Andrea Pasqualetto Tommaso e altri 12 bambini con i genitori in sacco a pelo nel Palazzo Ducale di Venezia. I dubbi del ministero: iniziativa da chiarire

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C’è l’armigero, vecchia guardia delle prigioni che alla vista dei nuovi arrivati commenta burbero in dialetto veneziano: «Ma cosa me gavè portà, na nave de nani?». C’è un fantasma che cammina misterioso sui legni cigolanti della Sala delle torture e fa calare improvviso un silenzio di gruppo; c’è Giacomo Casanova, il detenuto eccellente dei «piombi», cioè le antiche celle del sottotetto di Palazzo Ducale. Spunta solitario e insofferente in una stanza angusta, libertino senza libertà e pronto alla fuga: «Passo le mie giornate leggendo, scrivendo, anzi, un giorno scriverò le mie memorie». E c’è naturalmente il Doge, austero, imponente, autorevole, simbolo della magnificenza della millenaria Repubblica di Venezia in questa Sala del Senato che fu cuore palpitante dell’antico potere: «Putei, questa xe a casa dei venexiani... prima i venexiani e dopo i cristiani», ricordando così la pretesa laicità della Serenissima. Qua e là un Tintoretto, un Paolo Veronese, un Tiziano. E poi loro, tredici bambini fra gli 8 e gli 11 anni. Con i genitori hanno potuto visitare le sale e dormire all’interno di Palazzo Ducale armati di torce e sacchi a pelo, prima assoluta per queste stanze. È l’iniziativa voluta dal team education della Fondazione Musei civici di Venezia per avvicinare i bambini all’arte, alla storia e alla bellezza attraverso un magico racconto. Attori, guide, guardie, educatori sono quasi tutti volontari, animati dal piacere di regalare un’emozione ai piccoli visitatori. Costo: 80 euro per nucleo familiare. Kit obbligatorio: materassino isolante, sacco a pelo, pigiama o tuta, torcia elettrica, spazzolino da denti. Risultato: tutto esaurito e, soprattutto, tutti soddisfatti. «Esperienza straordinaria, finalmente le famiglie si riappropriano del patrimonio culturale», si entusiasma Andrea Carisi, che ha accompagnato un vivacissimo Tommaso, sette anni. «Indimenticabile e intenso», rilancia Massimiliano Bigarello, altro papà. Ma c’è qualcosa che rischia di rovinare la festa. Il Segretariato regionale dei beni e delle attività culturali del Veneto, articolazione territoriale del ministero, ha preannunciato che chiederà lumi sulla vicenda. Vuole capire se sono state rispettate le regole, se c’erano tutte le autorizzazioni. Una verifica apparentemente innocua. Dietro la quale affiora però la questione del decoro e una domanda su tutte: qual è il limite da non superare in questi luoghi? Si parla di sacralità di Palazzo Ducale e in particolare della Chiesetta del Doge, restaurata due anni fa. È lì che mamme, papà e figli si sono infilati nei sacchi a pelo, sotto gli occhi marmorei della Madonna con Bambino di Jacopo Sansovino e davanti ad affreschi settecenteschi. «Solo in Italia ci si pongono certe domande - frena lo storico dell’arte Philippe Daverio -. Per me è un’iniziativa intelligente, io stesso ho lanciato a Milano un sistema del genere vent’anni fa a Palazzo Reale. Ha funzionato: si genera un rapporto di affezione nel bambino per l’arte che lo contaminerà per tutta la vita». Federica Zane, una delle mamme della notte al museo, sorride: «Secondo me è vero il contrario: questa attività non minaccia il decoro ma lo insegna, e promuove l’amore per l’arte. Io ho visto un assoluto rispetto del luogo e tanti volti felici». Il piccolo Tommaso accompagnato da papà Andrea Carisi ha altri pensieri per la testa: «Signor Doge - chiede al medico attore Plinio Boscolo -, Giacomo non c’è più nella cella, ho paura che sia scappato». Vuole rivedere Casanova. La sveglia è di fresco mattino, quando il Palazzo è ancora deserto e silenzioso. Veloce colazione e poi tutti nella sala del Maggior Consiglio, sede della massima magistratura della Serenissima, per vedere l’alba sul bacino di San Marco. «I bambini giocavano in quel posto pieno di storia, è stato fantastico», non ha dubbi Carisi. Mentre suo figlio Tommaso ripete la sua domanda: «Dov’è Giacomo?». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Si autotassano per fare la chiesa di Alvise Sperandio Duemila rumeni ortodossi pagano di tasca propria: “Lavori conclusi entro giugno”. Padre Matei: “La gente ci incoraggia”. La geografia dei culti: greci ortodossi nell’ex Umberto I, a Campalto il “tempio” dei copti Si autotassano tutti i mesi sul proprio stipendio, per avere una chiesa nuova dove trovarsi a pregare. I rumeni ortodossi metteranno di tasca loro tutti i 2 milioni di euro (una parte acquisiti con un mutuo bancario) necessari a costruire quell'imponente edificio di culto da 500 metri quadrati che ormai si vede bene nella struttura portante, con la cupola e gli archi laterali, ma senza campanile, in via Marieschi a Zelarino. Sono duemila persone che da una quindicina di anni si trovano a Santa Lucia in via Monte

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Piana, poco distante dalla stazione, che hanno preso in affitto dalle Ferrovie e che comunque manterranno per la gente del posto anche quando sarà il momento di fare il trasloco. I lavori sono iniziati un anno e mezzo fa sul terreno da 6mila metri quadrati concesso dal Comune in comodato d'uso per 50 anni rinnovabili, e per vederli finiti servirà ancora qualche mese. «Vorremo arrivare all'inaugurazione entro il prossimo giugno, dopo le mura sarà la volta degli impianti elettrici e del riscaldamento e poi degli arredi», spiega padre Avram Matei che segue la comunità. I fedeli provengono in gran parte dalla Romania, Moldavia e Ucraina, ma c'è anche una buona rappresentanza italiana. Sono in stretto contatto con le altre parrocchie presenti in provincia a Venezia (Sant'Elena), Mogliano, Mirano, Noale, Chioggia, San Donà di Piave e Portogruaro, che negli anni sono state via via create. «La chiesa è il nostro desiderio più grande ed è un miracolo del Signore che poco per volta si sta avverando. Ringraziamo tutti coloro che ogni mese rinunciano a una parte del loro stipendio per offrirlo a questa opera. E ringraziamo i cittadini di Zelarino per l'incoraggiamento che ci manifestano ad ogni occasione», sottolinea padre Matei. I fedeli sono molto affiatati e seguono numerose attività: il catechismo e le colonie estive dei bambini; i pellegrinaggi; l'aiuto ai poveri, orfani e malati; le adozioni nel quadro di un programma avviato dalla diocesi che comprende circa 450 bambini; le offerte per i funerali di chi non può permetterseli; l'assistenza religiosa in entrambe le carceri veneziane. Ultimamente hanno avviato una raccolta di soldi da destinare alle popolazioni terremotate di Amatrice e Arquata, così come avevano già fatto per l'Aquila. Dal 2002 i rumeni ortodossi si trovano a pregare a Santa Lucia di via Monte Piana, che si trova nell'ambito territoriale della parrocchia di Santa Maria di Lourdes di via Piave, con cui la collaborazione è sempre stata costante. I greci ortodossi, invece, frequentano la chiesetta che si trova all'interno dell'ex Umberto I, alla quale si accede dall'ingresso che dà su piazzale Candiani di fronte all'ex padiglione De Zottis. È uno degli immobili, peraltro di un certo pregio, affiancato dall'ex casa delle suore, rimasti in piedi dopo la dismissione dell'ospedale e che con l'affidamento alla comunità ha così ripreso ad essere frequentato. Oltre al cantiere di Zelarino, in città sta sorgendo anche la nuova chiesa dei copti che è stata ricavata in via Orlanda a Campalto, giusto di fianco al Centro don Vecchi 4 nell'area che in origine ospitava la prima struttura di recupero del centro don Milani. Invece a Marghera nel capannone di via Monzani, s'incontrano i fedeli musulmani. LA NUOVA Pag 9 Capitello imbrattato, l’ira del parroco di Nadia De Lazzari In un sotoportego vicino a Rialto Raid vandalico notturno in centro storico nei pressi di Rialto. Nel capitello votivo, in restauro, dedicato a Sant'Antonio che si trova nel sotoportego de Siora Bettina, zona di grande affluenza di residenti e turisti, mani ignote hanno posizionato nella parte concava della piccola struttura un cranio nero con venature bianche e imbrattato con strisce verticali nere la superficie. Allarmato il parroco della vicina chiesa di San Cassiano, don Antonio Biancotto. «Non è un atto di sacrilegio o di profanazione» commenta il sacerdote «È inciviltà, maleducazione, mancanza di rispetto verso una piccola struttura architettonica religiosa di devozione popolare». Don Biancotto rattristato dice: «Da giorni con grande cura e pazienza vedo tecnici qualificati che hanno sistemato i muri e dipinto di giallo ocra tutto il sottoportico ed ora stanno lavorando per restaurare l'antico capitello. La ditta inoltre ha posizionato un'apposita struttura di protezione, ha tolto provvisoriamente e messo in sicurezza la statua di Sant'Antonio». Il sacerdote prosegue: «Ho osservato da vicino il disegno del cranio e ho notato che è visibile a carattere stampatello la sigla Snem», un writer molto noto che ha lasciato altre testimonianze del suo passaggio sui muri della città, da san Rocco a piazzale Roma e al quale comunque non sono ricondotti i vandalismi. «Propongo che gli imbrattatori rimettano subito a posto e paghino a proprie spese il danno causato alla collettività» auspica il sacerdote. I lavori di restauro sono totalmente finanziati dalla frequentata osteria ristorante Nono Risorto, la cui entrata è proprio davanti al capitello. Purtroppo non è la prima volta che in città teppisti prendono di mira i capitelli sfregiandoli e lordandoli.

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IL GAZZETTINO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 20 1966, l’Aqua Granda. Venezia sul baratro di Edoardo Pittalis L'orrore discese dai monti quel 4 novembre 1966, come una cascata che si portava dentro alberi, pezzi di case, carcasse, corpi. Il furore dell'acqua di decine di fiumi e torrenti si rovesciò sul Triveneto, fino all'Adriatico, e travolse tutto. Un centinaio di morti, annegati, spazzati via con le loro cose, vinti dalla paura su un ramo o su un tetto. Poi Venezia che fu un passo dalla scomparsa e quasi si sentì morta per un giorno e un giorno ancora. Fu “l'Aqua Granda”, la sola da affidare alla memoria: né prima né dopo ce ne sono state altre da meritare l'aggettivo grandiosamente devastante. Un drammatico novembre, ancora una volta mese dell'acqua che sconvolge e uccide e cambia la storia. Come era accaduto nel 1951 in Polesine, lo stesso giorno, quasi a rimarcare che la storia ha memoria. Dice un proverbio polesano che l'acqua uccide in silenzio, ma questa volta mente: fa un rumore assordante, pauroso, avverte che sta precipitando e che non lascia scampo. La furia investe le province di Trento e Belluno, poi quelle di Udine e Venezia e arriva sino al Polesine. Si muore come l'acqua va a valle, non c'è fiume che non trabocchi, il Piave è gonfio, al Ponte della Priula lambisce le arcate e sale sino al livello stradale. Quel 4 novembre, anniversario della Vittoria, il presidente del Consiglio Aldo Moro è stato a Redipuglia e arriva da Vittorio Veneto. E' previsto che parli in riva al Piave, su un palco coperto, quando scatta l'allarme sotto un cielo nero: tutti i sindaci presenti sono mobilitati per l'alluvione. Anche in Piazza San Marco quel 4 novembre hanno issato il tricolore per una cerimonia che non si farà: la bandiera resterà a sventolare su un mare di gondole, barche e barchini, tavolini dei bar. A Venezia sembra la fine. La laguna funziona come un polmone: ogni sei ore la corrente entra e esce, riceve l'acqua pulita dall'Adriatico e la restituisce sporca. Il vento si trasforma in nemico incontrollabile, lo scirocco soffia a cento chilometri orari e gonfia un'onda enorme che minaccia la città. È piovuto incessantemente, la marea sale fino a 176 centimetri alle due del pomeriggio, alle 21 tocca i due metri e sommerge ogni zona. Sarà il vento a salvare Venezia, dopo molte ore, placandosi all'improvviso e non spingendo più acqua in laguna. In un solo giorno Venezia è sommersa, terrorizzata. Il mare alza onde e sfonda ovunque. Nell'isola di Pellestrina la gente si rifugia sui tetti, i battelli caricano gli abitanti e li trasportano all'Ospedale al Lido. Sommersi Burano, Murano, Sant'Erasmo, la penisola del Cavallino. Venezia è spettrale, livida come l'acqua che la ricopre e il cielo che sta sopra. I pianoterra abitati da quindicimila persone sono distrutti, così pure i negozi. La merce è stata portata via dalle acque. Sul Canal Grande galleggiano mobili, nafta, colombi, topi, ogni genere di carcassa. Soprattutto la zona di Rialto è sott'acqua. La sede del Gazzettino, palazzo Faccanon, è inagibile e il giornale non può essere stampato. L'alluvione riesce dove soltanto il fascismo era riuscito, dopo il delitto Matteotti. Ma il silenzio dura un giorno soltanto, domenica 6 novembre il giornale è in edicola con un titolo significativo, anche se provvisorio: “Un tragico bilancio. Le alluvioni nelle Tre Venezie e in Toscana". Segue il conto dei morti e dei dispersi, ce ne sono in ogni provincia. Sui muri e nelle calli la nafta resta come la traccia della maledizione; le poche fabbriche attive non riaprono. È lo svuotamento di Venezia, l'inizio della grande fuga. L’alluvione del 4 novembre 1966 in presa diretta, come l’hanno vissuta i protagonisti e raccontata i nostri cronisti e fotografi di allora: questo sarà la mostra "L’Aqua Granda del 1966 dall’archivio de Il Gazzettino", che si aprirà in quattro tappe a partire da mercoledì 19: la prima tappa è il Centro Candiani a Mestre, dove rimarrà aperta fino al 30 ottobre, dal martedì alla domenica, dalle 16 alle 20. Seguiranno, con lo stesso orario, il Teatro La Fenice, dal 2 al 20 novembre, e Ca’ Farsetti (municipio di Venezia) dal 22 novembre all’11 dicembre. L’ultima sede espositiva sarà il Piccolo museo Laguna Sud di Pellestrina, dal 16 dicembre all’8 gennaio. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 16 ottobre 2016 Pagg II – III Previsioni flop. Acqua alta, l’onda delle polemiche di Michele Fullin e Tomaso Borzomi Rabbia dei commercianti: “Sul livello di marea basiamo il nostro lavoro”. Il Centro maree: “Il forte temporale ha abbassato il livello del mare”

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Prima 125-130, poi 120 poi 115, poi 110, poi 90 e infine quasi 100. Un’altalena di valori sulle previsioni di marea non si vedeva da tempo. Alla fine della giostra, 92 centimetri la serata di venerdì e un metro scarso ieri verso mezzogiorno, quando nel frattempo le passerelle erano state tolte perché dalla sala operativa della polizia municipale era partita l’indicazione a Veritas di farlo. Peccato che le passerelle sarebbero state comunque utili. Non ci sono stati comunque costi aggiuntivi - fanno sapere da Veritas - se non la mancata raccolta differenziata perché le passerelle sono state montate e smontate dai netturbini che avrebbero dovuto svolgere quel compito. Che cosa è accaduto: imprevedibilità del tempo o al Centro maree qualcosa non ha funzionato? Per Monica Sambo e Alessandro Baglioni, Pd, un motivo c’è. «La cancellazione dell'Istituzione Centro maree ed il suo declassamento è stato uno dei gravi errori dell'Amministrazione Brugnaro, dettato da una scarsissima conoscenza delle attività del Centro, nonché dall'assenza di sensibilità del sindaco e di molti esponenti di maggioranza rispetto ai problemi della vita veneziana». Fatto sta che, in una città turistica gli operatori siano piuttosto contrariati per il coacervo di messaggi arrivati negli ultimi giorni. «Una volta - esordisce Ernesto Pancin, Aepe - lo scostamento tra previsione e marea era di 5 centimetri. Questa volta sono state montate le passerelle per niente, Veritas non ha fatto la raccolta differenziata e puntuali sono arrivate in mattinata le disdette dei clienti. E poi, comunque bisogna cominciare a non dire "un metro e 30" ma prendere come zero il livello di piazza San Marco. Per me - conclude - non è ininfluente il fatto che il restringimento delle bocche di porto fatto con il Mose abbia accelerato i flussi d’acqua rendendo difficile fare le previsioni». Roberto Magliocco, Ascom Confcommercio, ritiene che sia arrivato il momento di investire sulla previsione delle maree, a 50 anni dall’Acqua Granda. «Queste segnalazioni hanno causato problemi sia venerdì che sabato - dice, segnalando un certo disagio tra i commercianti - e torniamo al vecchio ragionamento che ci vuole un coordinamento per le previsioni. Il sindaco ha passato alla Protezione civile il Centro maree e penso che sia anche giusto, ma i soggetti restano tre mentre ne basta uno. Servono investimenti e Legge speciale non può voler dire solo Mose. Per questo, credo, i veneziani dovrebbero protestare. Bisogna che il Governo aiuti Venezia e non la consideri speciale solo per farsi bello». Gianni De Checchi, Confartigianato, non si scandalizza. «Accertato che il depotenziamento del Centro Maree non aiuta - commenta - a me hanno spiegato che la meteorologia non è una scienza esatta. Non stupisce che si possa incappare in qualche svarione. Non me la sentirei di crocifiggere nessuno per qualche caffè o qualche souvenir venduto in meno. Venezia in questo è strana. Bisognerebbe incavolarsi per una previsione sbagliata al ribasso, che coglie la gente impreparata e non per il contrario». La tanto attesa acqua alta, alla fine, non si è vista. A riprova, il fatto che alle 10.30 di ieri mattina gli operatori di Veritas nella zona di San Marco davanti al Danieli stavano tirando via le passerelle, ammassandole una sopra l'altra, dopo averle posizionate proprio per fronteggiare la marea prevista. Tanti gli esercenti infastiditi e arrabbiati, a partire da chi vive e lavora ai banchetti: «Ieri sera (venerdì, ndr) siamo scappati via date le previsioni catastrofiche - ha spiegato Franco - e abbiamo perso una serata di lavoro per niente. Poi nei magazzini ho tirato su tutto quanto per non dover buttar via la merce, tanto tempo e fatica sprecata, oltre che l'allarmismo inutile procurato». Franco c'era anche cinquant'anni fa, quando il 4 novembre si è registrata "l'aqua granda": «Lavoravo come allestitore di un palco: è sparito tutto. Gli stivali a tutta gamba non bastavano, abbiamo messo insieme alcune tavole di legno e le abbiamo usate come zattera per andare verso la torre dell'orologio, tra i bicchieri che navigavano in piazza». Marcella, anche lei titolare di un banchetto, non c'era nel 1966, ma è infastidita per la previsione di ieri: «Mia madre mi ha raccontato di un evento fuori dal normale, che ha fatto danni. Un po’ come gli errori che sviano i commercianti, perché uno si attrezza, pensa di vendere stivali e organizza turni, per niente. Chiudere il centro maree è stato un errore». La pensa così anche Leonardo, titolare dell'azienda Ecos, che in calle dei Specchieri vende gioielli in legno: «Siamo qui da meno di un anno, ma una corretta informazione serve per organizzare il lavoro. Son venuto appositamente in negozio senza delegare ad altri per niente, perché non sapevo cosa potesse succedere con 130 centimetri. Non sapevo se spostare tutto in alto o tenere chiuso, avevo timore anche per

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il negozio, dato che è tutto in legno». In Spadaria Sandro spiega come previsioni di questo tipo spaventino i turisti: «Dire che arrivino 120-130 centimetri vuol dire spaventare i turisti e infatti stamattina ce n'erano pochi. Così si crea un allarme anche per chi lavora e ha la merce in negozio». Il ricordo si sposta poi a cinquant'anni fa: «Allora c'era il pensiero - proseguiva Sandro - che Venezia potesse scomparire, si camminava sotto muro perché non si capiva dove finisse la fondamenta e servivano gli stivali da caccia, fino alla pancia. Da allora, al più piccolo allarme, ho imparato a tirar su tutto subito». Enza, della legatoria in calle Fiubera, è un po’ arrabbiata: «Qui siamo a 140 di soglia, ma c'è da arrabbiarsi perché non si può mai sapere fino a dove si sbagli e si crea allarme». Alle Mercerie, in forma anonima, alcuni commessi sono chiari: «Se lavorassimo come lavorano loro nel darci queste informazioni, avremmo già chiuso». E sempre nella zona, Flavio, che vende oggettistica, spiega: «Non sono attendibili queste previsioni. Da tempo non le guardiamo più, è più affidabile ilmeteo.it che da una settimana diceva 105 centimetri». Per poi spiegare il suo 4 novembre 1966: «Era un altro mondo, per una settimana si girava senza luce in città, lavoravo in un bar e mi ricordo che abbiamo dovuto buttare tutto». Infine, l'86enne Gianni «Papussa» Dittura ricorda il 1966 dal suo negozio di calzolaio in calle Fiubera: «Ne ho viste tante di acque alte, ma quella volta un amico mi venne a prendere col suo sandolo per portarmi a casa sua, l'ho aspettato seduto sopra al bancone». Tre mesi fa il Centro Maree ha cambiato la sua natura, passando da istituzione relativamente autonoma, ma con un proprio consiglio di amministrazione e da un comitato scientifico ad un ufficio comunale sotto la Protezione civile e la polizia municipale. Il personale addetto, la sala operativa e le relative strumentazioni sono rimasti gli stessi. Difficile dire se le previsioni abbino perso in qualità con il cambio, poiché le voci sono discordanti, anche dal suo interno. La situazione di confusione che si è venuta a creare, con previsioni cambiate di ora in ora, sembra non essere dovuta ad una minore attenzione, ma in assenza di un progetto speciale che consentiva la massima flessibilità di orario anche in piena notte agli operatori, adesso la presenza notturna potrebbe essere fatta solo con turni o ricorrendo allo straordinario. «Il Centro Maree ha costantemente seguito l'evolversi del fenomeno - dicono da Ca ’ Farsetti - adeguando la previsione alla continua evoluzione di una situazione meteorologica, che ha presentato anche degli aspetti anomali, e mantenendo costantemente informata la popolazione mediante la segreteria telefonica e i canali internet». Ed ecco in fine la spiegazione dei centimetri in meno: «Il forte temporale, che ha colpito la città tra le 19.30 e le 20.30, posizionandosi davanti alle bocche di porto, ha comportato un improvviso abbassamento del livello del mare di circa 15cm, riducendo il livello del picco di marea rispetto al previsto». Pag XVI Casa per un giorno, il dono ai senzatetto di Alvise Sperandio I clochard accolti ad Altobello dalle associazioni cittadine per la “Notte senza dimora” Assieme, per sentirsi più forti delle avversità che ti costringono a vivere per strada. Festa grande, ieri, per una settantina di clochard che hanno risposto all'invito per la prima edizione della "Notte senza dimora", organizzata in occasione della Giornata dell'Onu contro la povertà. Si sono incontrati da metà pomeriggio a notte fonda ad Altobello, sul piazzale della chiesa della Madonna Pellegrina per condividere tanti momenti tra canti, balli, danze, racconti e teatro, fino alla cena in compagnia e al thè della buonanotte che chissà dove più di qualcuno ha trascorso. Un'iniziativa voluta dal basso, da chi si prende cura di queste persone non solo per farle sentire accolte ma anche per sensibilizzare il Comune alla vigilia della chiusura del bando per la gestione dei servizi invernali di assistenza, dopo la soppressione dell'affidamento alla cooperativa Caracol che comunque ha presentato l'offerta per ripartire da dov’era rimasta. «La prossima settimana si riunirà la commissione per aprire e valutare le buste e completare la procedura tecnica - dice l'assessore alla Coesione sociale Simone Venturini -. Tutti i dispositivi degli scorsi anni rimarranno validi nei consueti cento giorni che decorrono dal primo di dicembre al 10 marzo, solo che adesso si procede con una gara pubblica, com'è normale e corretto che sia». La manifestazione è stata promossa dalle numerose realtà che hanno allestito i propri stand e curato sin nei dettagli l'organizzazione: la Caritas, la

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Croce rossa, la Comunità di Sant'Egidio, i Volontari della colazione della Cita, l'Agesci Mestre centro e Marghera, Emergency, San Vicenzo mestrina, la stessa Caracol, la Boutique solidale di Marghera, le Gocce di luce e molti altri a titolo personale. «È bello vedere che i cittadini possono incontrarsi senza divisioni e barriere venendo in aiuto di chi è più sfortunato e rischia di restare invisibile e isolato dalla vita sociale - ha sottolineato il parroco della Cita don Nandino Capovilla -. Certo, con l'inverno alle porte c'è la preoccupazione che i senza dimora non possano più godere dell'assistenza e del supporto di cui hanno sempre beneficiato negli anni, ma confidiamo che l'amministrazione comunale ne garantisca la continuità». Pag XVII Marghera: “In cimitero chiesa chiusa da un anno“ di g.gim. Il presidente della Municipalità Bettin si appella al Comune Lo scorso anno le commemorazioni dei santi e dei defunti nella chiesa del cimitero di Marghera furono «salvate» per un soffio. Quest'anno si rischia, invece, che nessuna messa possa essere celebrata. Ad evidenziare il pericolo che questo accada e a sollecitare l'avvio di interventi urgenti, è il presidente della Municipalità Gianfranco Bettin. «Oltre un anno fa, venne assicurato da Comune e Veritas che, in tempi medio brevi e certamente entro la festività di tutti i Santi di quest'anno, - scrive Bettin in una nota - sarebbe stata finalmente sistemata la chiesa». I primi di novembre, invece, si stanno avvicinando e nella chiesa di via delle Querce nulla si è mosso. Le vetrate, in particolare quella a lato dell'altare, restano pericolanti. Lo scorso anno, una corsa contro il tempo permise di "tamponare" la situazione e la concelebrazione vicariale dei primi di novembre, in extremis, fu celebrata. Una corsa necessaria anche quest'anno. «Il rischio è che - denuncia, infine, Bettin - non sia possibile utilizzare la chiesa per celebrare la sentitissima ricorrenza. Invitiamo perciò il sindaco, l'assessore ai Lavori pubblici, Veritas ad attivarsi subito per colmare il ritardo accumulato e, in ogni caso, per rendere agibile la chiesa per i riti dedicati ai Santi e ai defunti». LA NUOVA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 25 Nuovo appello per la chiesa del cimitero di a.ab. Apertura a rischio a Marghera La chiesetta del cimitero di Marghera è ancora inagibile, scatta la protesta del presidente della Municipalità Gianfranco Bettin che chiede alla giunta comunale di intervenire in tempi rapidi per renderla fruibile per le commemorazioni dei defunti di inizio novembre. «Oltre un anno fa», dice Bettin, «in diversi incontri, venne assicurato da Comune di Venezia e Veritas che, in tempi medio brevi e certamente entro la festività di Tutti i Santi e dei defunti del 1 e 2 novembre di quest'anno, sarebbe stata finalmente sistemata la chiesa del cimitero di Marghera. Lo scorso anno la sua agibilità era stata garantita provvisoriamente, con interventi specifici di breve durata. Nel frattempo, non è accaduto nulla. Il rischio, dunque, è che quest'anno non sia possibile utilizzare la chiesa per celebrare la sentitissima ricorrenza». La richiesta alla giunta Brugnaro è di fare presto. «Invitiamo il sindaco, l'assessore ai Lavori pubblici, Veritas», dice Bettin, «ad attivarsi subito per colmare il ritardo accumulato e, in ogni caso, per rendere agibile la chiesa per i riti dedicati a tutti i Santi e alla partecipatissima commemorazione del defunti». Proteste su come era ridotto il cimitero di Marghera erano arrivate nelle scorse settimane anche dai residenti del quartiere. Pag 31 Festa ad Altobello con i senza dimora: “Grande successo” di Marta Artico Si sono presentanti un’ottantina, con tanto di cartelli. Don Capovilla: “Non è facile partecipare per un disagiato” Mestre. Sono arrivati alla spicciolata, per passare una serata in compagnia, tra amici, cercando di dimenticare pensieri e problemi e sentirsi, per una volta, come tutti gli altri. Il piazzale della Madonna Pellegrina ieri pomeriggio e fino a sera, ha accolto un'ottantina di persone che frequentano le numerose realtà istituzionali e di base, dai dormitori alle mense, seguite dalla Caritas Diocesana piuttosto che dai volontari nelle stazioni. Un momento per far uscire dall'invisibilità persone nel disagio sociale e richiamare la

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cittadinanza alle pesanti difficoltà che vivono. La “Notte dei Senza Dimora” è stata organizzata grazie a gruppi e associazioni che si mettono in gioco tutto l'anno assieme ai protagonisti. «Siamo davvero contenti», ha commentato don Nandino Capovilla, «perché è difficile immaginare un disagiato che partecipa a un evento pubblico, oggi invece l'hanno fatto, grazie anche al lavoro di questi giorni». I cartelli e gli slogan scritti dai senza dimora, sono stati portati in giro per le strade, per far sentire la gente partecipe e far conoscere i sentimenti delle persone meno fortunate. Claudio Costantini, è il direttore del dormitorio maschile Papa Francesco della Caritas: «La risposta è stata molto buona», racconta, «noi abbiamo invitato i nostri ospiti, che sono 24, mentre serviamo una cinquantina di pasti al giorno. Non ci aspettavamo che partecipassero, è stato inaspettato, perché sono persone abitudinarie, che sono uscite allo scoperto, dalla loro routine. Speriamo il prossimo anno di coinvolgere maggiormente anche la cittadinanza». «È un'iniziativa molto bella», commenta il direttore della Caritas, Stefano Enzo, «importante, essendo la prima, perché è un momento di aggregazione anche per loro: da noi passano e vanno, qui si possono incontrare e vivere assieme un momento di gioia e festa: sarebbe bello diventasse un'iniziativa della comunità e del territorio». Il pomeriggio è passato tra balli, danze, lotterie e poi il momento del pasto, servito dai volontari. Suor Anna, è volontaria del Centro di ascolto Caritas di Marghera: «Le persone che vedo chiedono tre cose: mangiare, dormire e lavorare, soprattutto dormire e lavoro, il cibo è più facile da procurare. Il lavoro è il problema principale, se sei senza lavoro non puoi accedere al resto. Spiego loro che la Caritas dà un supporto ma non è la soluzione, che devono fare richiesta. Vengono per passaparola o mandati dai servizi sociali. C'è uno zoccolo permanente, e gente che prima aveva un lavoro e perdendolo si è ritrovata per strada e ha rimandato la famiglia a casa. Ultimamente vengono dall'Africa settentrionale, Pakistan, Marocco, Bangladesh». Il servizio produce curriculum e aiuta a cercare lavoro via web: «Quest'anno ne abbiamo scritti 70, ma hanno trovato lavoro in 7». Presenti ieri Croce Rossa di Mestre, la Comunità di Sant'Egidio, il Coordinamento Caritas Vicariato di Marghera, Volontari della colazione Cita, l'Agesci Marghera e Mestre centro, Caritas Diocesana, Emergency, San Vincenzo Mestrina, Coop Caracol, Boutique solidale di Marghera e Gocce di Luce. CORRIERE DEL VENETO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 13 L’acqua alta non sale, le polemiche sì: “Centro maree depotenziato, errori” di Gloria Bertasi Previsioni disattese Venezia. L’allarme è rientrato e nessuno deve fare i conti con magazzini e locali allagati: l’acqua ieri si è fermata a 100 centimetri, 21 in meno dell’ultima previsione del Centro maree. Il problema però rimane. Perché passata l’emergenza, ora è però tempo di polemiche, per due giorni di previsioni ballerine che hanno tenuto i veneziani con il fiato sospeso. «Colpa dello “scioglimento” del Centro maree, la giunta torni indietro», attacca l’opposizione. Tutto parte giovedì quando con un sms il Centro comunica un picco tra i 120 e i 130 centimetri per sabato mattina. Consultando la pagina web del Centro maree, l’incertezza aumentava. Il grafico riportava un picco di 125 centimetri per le 10.50, mentre la tabella riassuntiva 120 per le 12. I dati di Ispra hanno aumentato ancora di più la confusione, perché in evidente contrasto con le previsioni del Comune. L’Istituto ha mantenuto livelli decisamente più bassi: venerdì dava una previsione di 103 centimetri per sabato, abbassati a 88 ieri mattina. Actv ha comunque frammentato il servizio di navigazione come sempre succede con le maree sostenute, Veritas ha disposto le passerelle e cancellato la raccolta differenziata per venerdì e sabato. «Ci sono state anomalie e continue variazioni meteorologiche», spiega Valerio Collini, dirigente della Protezione civile, da un mese responsabile anche del Centro maree. «Il forte temporale, che venerdì sera ha colpito la città ha comportato un improvviso abbassamento del livello del mare di circa 15 centimetri - spiegano i tecnici - riducendo il livello del picco di marea rispetto al previsto». Le spiegazioni fornite non sciolgono però i dubbi di chi punta l’indice contro Ca’ Farsetti e lo scioglimento dell’Istituzione Centro maree, servizio rientrato in Comune sotto la direzione della Polizia municipale dopo la riorganizzazione fucsia della macchina amministrativa. «È stata smantellata l’Istituzione e il suo cda, manca un esperto che decida e si assuma le responsabilità -

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commenta Rocco Fiano della Lista Casson -. E’ un problema serio, presenteremo un’interpellanza». Monica Sambo e Alessandro Baglioni del partito democratico chiedono un netto dietrofront: «La difficoltà nel fare previsioni testimonia la necessità di investire sul Centro - dicono -. La carenza di comunicazioni alla cittadinanza fa temere che il servizio sia depotenziato, siamo a pochi giorni dal 50esimo anniversario dell’acqua alta del ‘66 e Venezia si ritrova a fare i conti con le previsioni». E ancora: «La cancellazione dell’Istituzione e il suo declassamento a ufficio comunale complica il lavoro, è stato un grave errore, urgono azioni correttive per evitare che alla prossima acqua alta la città sia impreparata». Cerca di abbassare i toni Maurizio Crovato, capogruppo fucsia in consiglio comunale. «Non è cambiato nulla - spiega - quelli che erano prima, ci sono ancora, il problema è che servono soldi per disporre le sonde in Adriatico, magari cercando aziende che facendo leva sul nome di Venezia siano disposti a sconti sul costo». Fatto sta che da un anno a questa parte le previsioni sono meno precise del passato e negli ultimi giorni sono apparse del tutto «sbagliate». Da sempre gli esperti chiedono di disporre sonde in mare aperto ma, a oggi, sono sempre mancati i 300 mila euro necessari all’investimento. «Dopo alcuni errori nelle previsioni, è passato il principio di cautela - è la spiegazione del vicecapogruppo fucsia Renzo Scarpa - ma il problema è un altro, è ambientale, la laguna oggi è un braccio di mare e non riesce più a difendersi dalle maree, persino il ponte della Libertà non è più uno sfogo, le arcate sono tutte incrostate». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 15 ottobre 2016 Pag XI “Notte dei senza dimora” alla Madonna Pellegrina di a.spe. Altobello, con Caritas e associazioni Chi non ha un tetto la notte fatica e non poco, soprattutto quando comincia a fare freddo come in questi giorni. Ai senza dimora è dedicata la serata di oggi che li vedrà convergere nel patronato della Madonna Pellegrina, ad Altobello, per un momento di accoglienza, festa e sensibilizzazione della città. Lo promuovono le associazioni impegnate in questo ambito, dalla Caritas diocesana alle mense, dagli operatori dei dormitori ai volontari nelle stazioni ferroviarie, con l'obiettivo di richiamare le istituzioni all'attenzione verso le centinaia di persone costrette dalla povertà a vivere in strada. "È difficile farsi amico di un senza dimora, ma è ancora più difficile perderlo", recita lo slogan dell'iniziativa che comincerà alle 17 e si articolerà in diversi eventi fino a fare notte, dopo la cena in compagnia. «È un momento di condivisione di riflessione sulle condizioni di vita di queste che prima di tutto sono delle persone e non soggetti invisibili ed esclusi dalla vita sociale», dice il parroco della Cita don Nandino Capovilla, che coordina l'organizzazione. Pag XXVII Jesolo, il presepe di sabbia dedicato agli esodi biblici di g.b. Jesolo - Sand Nativity dedicato agli esodi raccontati nella Bibbia. È il tema scelto dall'Amministrazione comunale per la 15. edizione del presepe di sabbia che verrà allestito come sempre nella tensostruttura di piazza Marconi in un'area di quasi 500 metri quadrati. Si tratta di una tradizione molto sentita in città, da sempre abbinata ad una serie di progetti benefici in tutto il mondo e che lo scorso anno ha registrato oltre 100mila visitatori. Un evento legato ad un significato di condivisione e forte spiritualità che per quest'edizione si arricchisce di un profondo e attuale significato. «Visto quanto sta accadendo attorno a noi - spiega il sindaco Valerio Zoggia - pensiamo per esempio ai rifugiati siriani in fuga da Aleppo o ai popoli che abbandono la loro terra, abbiamo fatto questa scelta. Agli scultori, provenienti da tutto il mondo, spetterà il compito di rappresentare alcune di queste scene raccontate nella Bibbia». Di sicuro, oltre all'immagine della Natività, verrà rappresentata anche l'uscita dall'Egitto del popolo ebraico sotto la guida di Mosè. Quindi ci saranno altre immagini sacre ora in fase di definizione sotto la guida del direttore artistico Richard Varano al quale spetterà il compito di coordinare il lavoro dell'intero gruppo di scultori. I lavori di allestimento inizieranno a novembre mentre l'inaugurazione si terrà giovedì 8 dicembre. L'opera resterà visibile fino a febbraio e sarà uno degli eventi più importanti delle manifestazioni

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organizzate in città nel periodo natalizio. Da ricordare, infine, che nel 2018 il presepe di sabbia di Jesolo verrà realizzato anche a San Pietro. LA NUOVA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 11 Mazzacurati pretende altri 836 mila euro di Giorgio Cecchetti L’udienza del processo Mose: il Coveco finanziò Lia Sartori, Zoggia, Marchese, Tiozzo e il Marcianum con i fondi del Cvn Venezia. Nonostante sia incapace di intendere e volere, l’ingegnere Giovanni Mazzacurati dalla California ha spedito un decreto ingiuntivo al Consorzio Venezia Nuova: vuole gli 836 mila euro che i commissari voluti dal presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone hanno congelato. Il Consiglio direttivo del Consorzio aveva deciso che, dopo le sue dimissioni, doveva avere sette milioni di euro di liquidazione, per ora ne ha incassati solo sei e ora vuole il resto. Ma, ieri in aula, l’avvocato del Consorzio Paola Bosio, viste le condizioni mentali dell’ingegnere si è chiesta se sia stato indotto a firmare, magari da qualche parente. E l’udienza è terminata con la testimonianza del contabile del Coveco di Marghera, il mestrino Enrico Provenzano. Stimolato dalle domande del pubblico ministero Stefano Ancilotto ha spiegato che tutti i finanziamenti del Consorzio veneto delle cooperative (il presidente Morbiolo ha patteggiato un anno e mezzo e19 mila 500 euro di multa) utilizzati per i finanziamenti ai politici per le campagne elettorali non venivano dalle casse delle aziende consorziate, ma arrivavano dal Consorzio Venezia Nuova e a ordinarli era Savioli. Così, sono finiti 25 mila euro per la campagna elettorale europea a Lia Sartori del Pdl, 33 mila euro ciascuno agli esponenti del Pd Lucio Tiozzo (ex capo gruppo in Consiglio regionale) e Giampietro Marchese (responsabile organizzativo del partito uscito dal processo con un patteggiamento di 11 mesi e 20 mila euro), infine 40 mila euro a Davide Zoggia (ex presidente della Provincia e ora deputato Pd). E le cooperative rosse hanno finanziato anche il Marcianum del patriarca Angelo Scola per almeno 400 mila euro, utilizzando sempre i fondi giunti dal Consorzio e giustificati con fatture fasulle o sovradimensionate. Alle domande del pubblico ministero Stefano Buccini, invece, ha risposto l’ex presidente del Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta (che dal Consorzio ha preso almeno 4 milioni di euro ed è uscito dal processo patteggiando due anni e pagando 750 mila euro). Ha spiegato che con Mazzacurati erano diventati amici, come del resto le rispettive mogli. «Una sera eravamo a cena al ristorante “alla Madonna” a Venezia e mi fece cenno che anche Maria Giovanna Piva, che è stata il mio successore, era stata pagata». Cuccioletta ha poi sostenuto di essersi stupito della cifra che l’ex presidente del Consorzio gli aveva elargito perché «era troppo». Anche perché ha aggiunto che lui «non ha mai fatto alcun atto contrario al dovere d’ufficio». «Ho perso la mia dignità» ha spiegato, quindi ha raccontato che gli consegnavano i soldi a Roma, a casa sua arrivavano con le “24 ore” prima Luciano Neri, poi Federico Sutto, braccio destro di Mazzacurati, lo stesso che ha dichiarato di aver consegnato il denaro all’ex sindaco Giorgio Orsoni per la sua campagna elettorale. Infine, ha testimoniato il colonnello della Guardia di finanza Roberto Ribaudo, che ha coordinato le indagini: ha ricordato che tutto è partito con la verifica fiscale il 6 marzo 2008 alla Coop San Martino di Chioggia e con la scoperta della contabilità parallela e i fondi neri. Quindi, da settembre dell’anno successivo le intercettazioni su Mazzacurati, Savioli e altri. Infine, la verifica fiscale l’11 giugno 2010 al Consorzio e quattro mesi dopo quella alla Mantovani. Venezia. Toccherà al medico legale e psichiatra di Conegliano Carlo Schenardi compiere la perizia su Giovanni Mazzacurati. Ieri, il Tribunale di Venezia gli ha dato l’incarico. Ha trenta giorni di tempo per dire se le condizioni mentali e fisiche dell’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova gli permettono di arrivare dalla California a Venezia in aereo e di rispondere alle domande che gli verrebbero poste. Naturalmente se sia in grado di fornire risposte consapevoli. Il presidente del Tribunale Stefano Manduzio ha insistito sul fatto che l’esame di Schenardi deve riguardare «le capacità attuali» di Mazzacurati. Il medico legale e psichiatra dovrà prendere in esame la documentazione medica consegnata dal difensore dell’ingegnere, cartelle cliniche, Cd di risonanze magnetiche e Tac celebrali. L’avvocato Emanuele Fragasso ha contestato questa circostanza,

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sostenendo che si impone, invece, anche un colloquio clinico e quindi un viaggio in California del perito. Pag 27 Oggi la “Notte dei senza dimora” di m.a. Per la prima volta in città Mestre. «È difficile farsi amico di un senza dimora, ma è ancora più difficile perderlo». È questo uno degli slogan che accompagnerà la Notte dei Senza Dimora, che andrà in scena per la prima volta anche a Mestre nel piazzale della Madonna Pellegrina (o nel teatro della parrocchia a seconda del tempo) grazie a gruppi e associazioni che si metteranno in gioco assieme ai protagonisti. In questi giorni le tante persone di cui ci accorgiamo solo quando le vediamo a un angolo della strada rannicchiate nel loro sacco a pelo o mentre si recano alle mense, hanno messo per iscritto i loro pensieri, i loro stati d'animo, hanno cercato di raccontare sé stessi in cartelloni e poster. Parteciperanno la Croce Rossa di Mestre, la Comunità di Sant'Egidio, il Coordinamento Caritas Vicariato di Marghera, Volontari della colazione Cita, l'Agesci Marghera e Mestre centro, Caritas Diocesana, Emergency, San Vincenzo Mestrina, Coop Caracol, Boutique solidale di Marghera e Gocce di Luce. Tutte persone impegnate in prima linea per dar voce a chi non ce l'ha, per aiutare anche i meno fortunati. La Giornata delle Nazioni Unite contro la povertà è stata istituita nel 1993 con l'obiettivo di aumentare la consapevolezza circa il bisogno di eliminare la povertà e l'indigenza. Per la prima volta anche a Venezia le numerose realtà istituzionali e di base, dai dormitori alle mense, dalla Caritas Diocesana ai volontari nelle stazioni, faranno uscire dall'invisibilità centinaia di cittadini nel disagio sociale. Ad Altobello saranno loro i protagonisti, in un contesto di festa e di accoglienza ma anche di presa di parola e di dibatto. Dalle 17 un ricco programma. Ci saranno gli stand delle associazioni, canti, balli, danze, teatro, uno spazio dedicato al racconto. Tra i momenti clou la cena in compagnia e un thè notturno. Pag 35 L’esodo il filo conduttore del presepe di sabbia di Giovanni Cagnassi Torna a Jesolo il tradizionale appuntamento di fine anno che finora ha raccolto 638 mila euro, destinati a progetti benefici. L’inaugurazione l’8 dicembre Jesolo. I grandi esodi nella storia saranno il tema e filo conduttore del presepe di sabbia in piazza Marconi per l’edizione 2016-2017. Jesolo si prepara alla nuova edizione del presepe che ha raccolto nella sua storia ormai 638 mila euro per progetti benefici, migliaia e migliaia di presenze ogni anno, tanto da stupire anche chi lo ha visto crescere sempre di più. E per la nuova edizione è stato scelto un argomento forte, di quelli che possono dividere soprattutto una città in cui la questione migranti solleva discussione e polemiche quotidiane. Perché partendo dagli ebrei con Mosè, quindi la famiglia di Gesù, anch’essa migrante da Nazareth e Betlemme, di migrazioni e grandi esodi è piena la storia, fino ad arrivare ai giorni nostri con le fughe dei migranti dai Paesi in guerra che ci riguardano da vicinissimo. Mentre Jesolo attende il 2018, quando il presepe di sabbia farà il suo primo ingresso in Vaticano, già confermato, quest’anno la proposta è davvero forte e pregna di significato. Il sindaco Valerio Zoggia non ha esitato ad accettare questa sorta di sfida e gli artisti internazionali si stanno preparando con entusiasmo, provenienti da tutto il mondo per modellare le sculture che arriveranno come sempre ai primi di dicembre, solitamente l’8 della festa dell’Immacolata quando si prevede l’inaugurazione per proseguire fino a febbraio. Le sculture saranno ispirate ai grandi esodi dai Paesi in guerra, nella storia fino ai giorni nostri e ai “rifugiati nel cimitero del nostro tempo”, come ha detto il Papa. “Quando l’uomo lascia la propria terra”, dunque, questo il filo conduttore che legherà le varie sculture nella tensostruttura che sarà allestita come ogni anno in piazza Marconi. Da non dimenticare che a Jesolo l’artista Carlo Pecorelli ha già realizzato una scultura, con la sabbia evocatoria di Lampedusa, in una performance sulla spiaggia del lido dedicata al bambino trovato senza vita su una spiaggia turca. Il tema della migrazione è più che mai attuale in città, dove sono stati ospitati una centinaio di migranti alla Croce Rossa, non senza qualche ostacoli e tensioni. Ma a Jesolo questi ragazzi hanno trovato le porte aperte e una città che a tratti è stata tollerante e commossa davanti alle loro storie. La prima notte a Jesolo i migranti africani cercavano

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un telefono. Hanno trovato altri ragazzi jesolani che hanno ascoltato impressionati le loro storie. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 Vaccini, ora subito la legge di Alessandro Russello Scienza e politica Questo giornale, la cui linea è scientista e quindi allineata alla medicina ufficiale e alla verità dei dati legati all’efficacia di pratiche contrapposte alle narrazioni di ideologie «alternative» che di dati a supporto non ne portano alcuno di verificato, ha sposato con forza la battaglia a favore delle vaccinazioni. Il motivo sta nel fatto che negli ultimi anni il numero delle vaccinazioni stesse – somministrate in gran parte ai bambini - è drasticamente crollato, con l’aggravante che il Veneto è l’unica regione italiana ad avere sospeso l’obbligatorietà della profilassi attraverso una legge votata nel 2007 ed entrata in vigore nel 2008. La conseguenza di tale legge, approvata dal Consiglio regionale (per un voto) sull’onda di un pensiero allora dominante secondo il quale la virtuosità di questa regione poteva permettersi una sorta di facoltatività ispirata da un «liberismo sanitario» tradotto nell’invito ai genitori a formarsi una «propria consapevolezza», è nei numeri che la stessa Regione ha recentemente divulgato. Numeri che per determinate vaccinazioni di fondamentale importanza pongono il Veneto in fondo alla classifica italiana: al punto che il ministero della Salute si è allarmato fino a considerare che, pur inserita in una problematica esistente a livello nazionale, la nostra regione rappresenti un’«emergenza». I numeri parlano da soli. Per quanto riguarda le coperture vaccinali contro la poliomelite, il ticket difterite-tetano e l’epatite B - obbligatorie in tutte le altre regioni - in Veneto dal 2003 al 2013 il «crollo» è stato calcolato in una forbice fra il 6,4 e il 6,7 per cento, con la profilassi scesa a quota 90 per cento (91,3 polio e difterite-tetano, 90,8 epatite B). Un calo sensibile si è registrato anche per quanto riguarda la prevenzione di pertosse e morbillo (che quota 90 l’ha sfondata arrivando all’87,1). Usare il termine «crollo» con queste percentuali potrebbe far ridere. In realtà si ride molto meno quando si scopre che la copertura del 90 per cento per i virologi è ritenuta un «limite di attenzione» mentre l’85 di «allarme». Soprattutto in considerazione del fatto che la curva continua a scendere in modo preoccupante. Neanche a farlo apposta, nei giorni scorsi sono stati registrati nelle scuole della nostra regione casi di pertosse e morbillo, malattie ritenute praticamente debellate e che invece stanno facendo segnare il loro ritorno. Se, come detto, il risultato di tutto ciò può essere in parte ascrivibile alla superficialità e al disinteresse da parte di famiglie «legittimate» a soprassedere alla profilassi dalla sospensione dell’obbligatorietà - dall’altra al preoccupante crollo contribuisce sempre più il fronte dei comitati «no vaccino». Comitati spesso nati dal combinato disposto di famiglie che ritengono che i loro figli abbiano subìto gravi danni collaterali e dalla linea di qualche medico che contro l’evidenza dei dati incoraggia a rifiutare la copertura. Fra questi medici ci sarebbero anche diversi pediatri di base, come ha denunciato la campionessa paralimpica trevigiana Bebe Vio, che sulla propria pelle ha provato gli effetti di una cultura per fortuna ancora (molto?) minoritaria. I suoi genitori furono sconsigliati a procedere ad un «richiamo» del vaccino e Bebe contrasse la meningite. Per essere salvata, i medici dovettero amputarle i quattro arti: un dramma che lei, ora diciannovenne, ha trasformato in una vita a suo modo meravigliosa. Questo giornale, proprio accogliendo l’invito della campionessa di Mogliano Veneto, diventata testimonial della campagna internazionale «WinForMeningitis» con una fotografia coraggiosa e d’impatto straordinariamente estetico oltre che etico, ha deciso una netta scelta di campo. Convinti del fatto che i dati statistici siano il punto di partenza per ogni ragionamento medico-scientifico - e in una civiltà dove il web fa marmellata di tutto - abbiamo pubblicato il dossier ufficiale della Regione Veneto con i numeri sul «crollo» ritenendoli doppiamente affidabili visto che si tratta della stessa istituzione che ha la legge più «liberale» di questo Paese. Abbiamo quindi messo a confronto la classe medica. Trovando nella Federazione nazionale degli Ordini dei medici un netto sì al

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ripristino dell’obbligatorietà in Veneto («L’informazione sulla libertà di scelta è completamente mancata, c’è una responsabilità civile e penale di chi non ricorrendo alla protezione da malattie pandemiche mette a repentaglio la collettività», ha detto il presidente ). E il «sì» dell’Ordine regionale all’introduzione dell’obbligatorietà - se non per legge - come «condizione per l’iscrizione dei bambini alle scuole pubbliche dal nido in poi» (che però sembra suonare come la stessa cosa). Un altro punto lo hanno messo i dati della Regione Veneto, rispondendo indirettamente ai comitati del «no». Lo abbiamo scritto nell’editoriale del 5 ottobre scorso con il quale abbiamo voluto sensibilizzare sia i nostri lettori che la «classe dirigente» deputata a decidere sulla nostra salute e lo riscriviamo oggi: dal 1993 al 2015 su 31 milioni 982 mila dosi somministrate, sono emerse 533 reazioni gravi, nella maggior parte guarite completamente; mentre i pazienti che hanno presentato conseguenze a distanza sono 17 e in ventidue anni di osservazione non sono stati segnalati decessi correlabili. Per quanto ci riguarda, se vanno rispettati il dolore e le rivendicazioni delle famiglie che hanno dovuto far fronte alle conseguenze dei vaccini, riteniamo che più che la libertà di scelta dei genitori (per ora assai inconsapevole) vada tutelato il diritto della collettività a difendersi dalla malattia e dal contagio. Trentum milioni contro pochi casi sospetti. Per questo crediamo nella battaglia di Bebe. E a quanto pare ci crede sempre più chi la legge veneta la potrebbe materialmente cambiare. Singoli consiglieri, gruppi consiliari, partiti. Di tutti gli schieramenti. Dalla Lega, al centrodestra, al Pd che dall’opposizione ha già presentato una proposta di legge per reintrodurre l’obbligo delle vaccinazioni. Perfino gli «scettici» grillini sembrano aver aperto alla possibilità di tornare indietro. Fino alla parole del governatore Luca Zaia, che in una importante intervista al nostro giornale a firma di Marco Bonet ha fatto un «endorsment» non da poco. Pur premettendo che lascerà l’ultima parola agli esperti e riconoscendo la libertà di ciascun genitore a confutare le tesi scientifiche, il presidente ha annunciato la riapertura del dossier sull’obbligo della profilassi e ha testualmente dichiarato: «Se io avessi un figlio lo vaccinerei». Ora, di fronte a queste posizioni riteniamo che dovrebbe essere estremamente semplice e rapido procedere alla revoca della sospensione di quella infelice legge. Cogliamo questa congiunzione astrale. La politica completamente allineata su un tema così importante la si vede, forse, solo il giorno in cui gioca la Nazionale. IL GAZZETTINO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 14 Gli imprenditori: Veneto più autonomo di Alda Vanzan L’85 per cento degli intervistati è favorevole Gli imprenditori veneti sono favorevoli a una maggiore autonomia della Regione. Ed è una percentuale molto alta: più dell’85 per cento tra chi pensa che l’autonomia sia un’idea "giusta e da perseguire" (48,5%) e chi la reputa "giusta ma irrealizzabile" (36,8%). Neanche due imprenditori su dieci (14,7%) la reputano "sbagliata e da rifiutare". È quanto risulta da uno studio della Fondazione Nord Est tra un campione di imprenditori "ritenuti particolarmente significativi per il sistema produttivo e imprenditoriale veneto", con l’obiettivo di sondare il tema dell’autonomia in seguito alla proposta referendaria della Regione. «Questo "opinion panel" - ha detto il presidente di Fondazione Nord Est, ex presidente di Confindustria Padova, Francesco Peghin - ha confermato che tra gli imprenditori veneti, accantonato ogni pensiero di indipendentismo, gode tuttora di buona legittimità l’idea che per il Veneto sarebbe giusto prevedere un riconoscimento specifico in forma di una maggiore autonomia o di federalismo fiscale. Questo perché rimane ancora aperta la spinosa questione di un Veneto stretto tra due regioni a statuto speciale». Il 48,5% degli imprenditori considera l’autonomia un’idea "giusta e da perseguire", il 62,5% è convinto che quello federalista sia "un progetto da perseguire ancora" e il 55,1% ritiene che lo statuto speciale dovrebbe essere previsto per le regioni virtuose. Ancora: gli imprenditori ritengono che l’eventuale autonomia regionale condurrebbe ad una situazione “migliore” in tema di capacità decisionale (75,7%) e di crescita economica (72,1%), con una consistente maggioranza anche per fisco (66,2%), infrastrutture (63,2%) e burocrazia (57,4%). Solo per il tema dell’immigrazione, una maggioranza di imprenditori ritiene che la situazione prodotta dall’autonomia sarebbe “uguale” (54,8%) o “peggiore” (4,4%). Con più autonomia regionale, i vantaggi per le aziende sarebbero apprezzabili soprattutto sul

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fronte della competitività, degli oneri fiscali (59,3%) e degli oneri burocratici (54,5%); per il 56,2%, inoltre, migliorerebbe l’attenzione da parte delle istituzioni. Oltre sei imprenditori su dieci credono poi che il federalismo fiscale mantenga la propria attualità. Per il 55,1% lo statuto speciale è una condizione che dovrebbe essere prevista per "quelle regioni che negli anni hanno mostrato capacità di una gestione efficiente delle risorse e delle funzioni loro assegnate", mentre il rimanente 44,9% pensa che la specialità non debba più essere prevista per alcuna regione. Lo studio della fondazione degli industriali è stato accolto con soddisfazione dal governatore del Veneto Luca Zaia: «È un’ulteriore conferma di un sentimento condiviso e fortemente diffuso in Veneto. È la prova che siamo sulla strada giusta, che è quella di chiedere maggiori competenze e nuove forme di autonomia». Ma Zaia chiama in causa Confindustria: «Mi chiedo se e in che modo Confindustria, che ha espresso pubblico appoggio alla riforma costituzionale del Governo, interpreti le istanze dei propri associati. Tutti i giuristi e i costituzionalisti, indipendentemente dalla posizione assunta nei confronti del referendum costituzionale, hanno spiegato che la riforma va verso un accentramento dei poteri e delle competenze e, contestualmente, produce una netta riduzione dell’autonomia alle Regioni e agli enti locali. Se oltre 4 imprenditori su 5 si dicono favorevoli ad una maggiore autonomia regionale, invocando il federalismo fiscale, appare evidente la necessità che Confindustria riapra una riflessione seria e approfondita». IL GAZZETTINO di sabato 15 ottobre 2016 Pag 13 Profughi, Morcone “striglia” i comuni di Nicola Benvenuti e Luisa Morbiato Il super-prefetto: “In Veneto 250 sindaci rifiutano l’accoglienza, bisogna convincerli” «Bisogna elaborare un piano condiviso per i richiedenti asilo coinvolgendo i sindaci e il territorio, abbandonando gradualmente le grandi strutture di accoglienza». Parole del Prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento per l'immigrazione e le libertà civili del Ministero degli Interni, ieri in visita a Bagnoli di Sopra nel Padovano e a Cona, nel Veneziano: a distanza di circa cinque chilometri l'uno dall'altro, sono i due centri che ospitano rispettivamente 835 e 1.100 rifugiati, che fanno parte della quota di circa 13mila finora assegnati al Veneto. Morcone è stato chiaro: «Questi grandi hub non sono ideali per accogliere, tanto meno per integrare» ha affermato, «ed è necessario procedere a un progressivo alleggerimento dei numeri di coloro che qui vivono». Il super-prefetto ha anche aggiunto: «Dobbiamo far sì che ogni comune, anche e soprattutto i 250 della regione Veneto che non ospitano ancora richiedenti asilo, partecipi a tale progetto». Sembra ormai pronta una direttiva ministeriale che declina il principio, già espresso in più occasioni dal ministro degli Interni Angelino Alfano, che prevede un parametro di 3 profughi ogni mille abitanti. In sostanza la direttiva, che è già sui tavoli dei Prefetti, punta a sostenere i comuni che li accolgono, anche attraverso un allentamento del Patto di Stabilità. Lo scopo è quello di favorire una maggiore adesione alla programmazione dello Sprar, il «Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati» in vigore esclusivamente su base volontaria. «Le amministrazioni che aderiranno potranno godere dello sblocco delle assunzioni e una piccola parte delle somme pro capite destinate per ogni migrante, verrà destinato alle spese generali di quei comuni» ha confermato il super-prefetto. Morcone ha anche preannunciato che «verranno applicati correttivi specifici per le grandi aree metropolitane dove vi è una notevole concentrazione di richiedenti asilo, mentre con presenze contenute e diffuse sul territorio è molto più semplice il controllo e soprattutto l'integrazione con la popolazione residente». E ha formulato l'invito a «non coinvolgere i profughi in ogni circostanza, impostando la relazione sulla paura». Intanto con la sua visita, Morcone ha sancito un progressivo alleggerimento dei due hub a cavallo tra le province di Padova e Venezia, raccogliendo il plauso dei sindaci dei comuni interessati e di quelli più prossimi. «Lo Stato è finalmente tornato a Bagnoli. Io vigilerò sulla prosecuzione dei trasferimenti», ha affermato il primo cittadino Roberto Milan, che però ha anche chiesto polemicamente le dimissioni del prefetto di Padova Impresa. Secondo il sindaco di Agna, Gianluca Piva, «è importante che il Basso Veneto non sia lasciato da solo, il Governo deve prendersi le sue responsabilità su questo tema attuando anche una politica impositiva sugli enti locali, senza lasciare tutto alla buona volontà degli stessi». Sul tema delle migrazioni ha ribadito la sua posizione anche la Chiesa padovana, attraverso don Marco Cagol, vicario

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episcopale per i rapporti con le istituzioni: «Il vescovo Claudio Cipolla rinnova l'appello al territorio per un patto che coinvolga tutti al di là delle convinzioni politiche», afferma il sacerdote, che aggiunge: «La Diocesi è favorevole all'accoglienza diffusa». Sono già una quarantina le parrocchie padovane che praticano la micro accoglienza, per un totale di 191 richiedenti asilo. CORRIERE DEL VENETO di sabato 15 ottobre 2016 Pag 3 Ospitava i migranti, si toglie la vita: “In ansia per i tempi di pagamento” di Alberto Beltrame Motta di Livenza, l’esercente romeno era indebitato. Aveva chiesto un anticipo alla coop Motta di Livenza (Treviso) Duecento cittadini erano scesi in piazza martedì sera per protestare contro l’arrivo di 15 profughi nel suo ex albergo, accanto alla pizzeria che aveva preso da pochi giorni in gestione. Ma non era quello a preoccupare Iulian Claudiu Diaconu. Il ristoratore romeno si era pentito di essersi imbarcato in quell’impresa quando si era reso conto che i finanziamenti per l’accoglienza sarebbero arrivati non prima di diversi mesi. Un dettaglio del quale il 50enne non aveva forse tenuto conto, considerata la sua situazione economica: secondo quanto emerso dalle indagini era alle prese con pesanti debiti, alcuni dei quali legati al gioco. Un retroscena sul quale stanno cercando di fare chiarezza i carabinieri intervenuti giovedì pomeriggio alla pizzeria Delle Nogare di Malintrada a Motta di Livenza, dove l’uomo si è tolto la vita impiccandosi sul retro del locale. Diaconu aveva preso in gestione l’ex albergo con l’intenzione di offrire 24 posti letto ai richiedenti asilo. La prefettura di Treviso, analizzata la sua offerta, aveva deciso di mandargli 15 profughi, arrivati lunedì pomeriggio direttamente da Ragusa. I residenti avevano subito protestato. Il sindaco Paolo Speranzon, informato del loro arrivo, aveva scritto alla prefettura sostenendo che nell’albergo di Malintrada non ci fossero le condizioni per l’ospitalità. E i cittadini, martedì sera, erano scesi in piazza con tanto di striscioni (uno dei quali recitava «Migranti = business») per manifestare la loro contrarietà. Mercoledì era stata chiamata in causa dalla prefettura la Cooperativa Provinciale Servizi di Paola Mason. Con Diaconu era stato firmato un accordo: il 50enne si sarebbe dovuto occupare di pasti e logistica, la coop della mediazione culturale. Ma dopo aver parlato con la cooperativa, il ristoratore aveva espresso tutti i suoi timori. «Era molto pallido, preoccupato, soprattutto quando gli abbiamo detto che i finanziamenti sarebbero arrivati dopo alcuni mesi - spiega Paola Mason -. Aveva fatto dei conti diversi e infatti ci ha chiesto se potevamo anticipargli 5 mila euro. Gli abbiamo spiegato che anche noi siamo fermi con i pagamenti ad aprile, ma che lunedì avremmo cercato di dargli una mano anche su questo. La sera, vedendolo così, me ne sono andata angosciata». Giovedì mattina Diaconu si era addirittura informato per sapere quali fossero i tempi per rescindere dal contratto appena stipulato. Poi la giornata era proseguita nell’attività coi 15 migranti ospitati. Finché, poco prima delle 15, ha inviato un messaggio che faceva presagire quanto accaduto in seguito: «Per favore mandate stasera qualcuno a dare da mangiare ai ragazzi alle 19.30. È un’emergenza, io non ho nessuno che mi può sostituire». Un paio d’ore più tardi il corpo esanime di Diaconu veniva ritrovato nel retro della pizzeria da Sal, uno dei suoi collaboratori. Accanto a lui nessun biglietto per spiegare il gesto. Nemmeno all’ex moglie, che vive a Spilimbergo, e ai suoi tre figli. «Mio padre era una persona per bene - lo ricorda sua figlia Alina - ed era felice di dare aiuto a persone bisognose. Voleva guadagnarci? Forse sì, ma di sicuro disprezzava il comportamento razzista di certe persone». Sul caso interviene Giovanni Manildo, sindaco dem di Treviso: «Serve una rivoluzione culturale: la disgrazia di Motta è un terribile segno, l’esito dell’incapacità di gestire assieme il tema dei migranti, come comunità». Nessun commento dalla prefettura, secondo cui la situazione di Malintrada, a livello organizzativo, «non è dissimile da molte altre». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’illusione di salvare quei confini di Angelo Panebianco

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Guerra in Siria e in Iraq Il tempo non è ancora arrivato. Anzi, questo sembra addirittura il momento peggiore anche solo per parlarne. Però è un fatto che non si riuscirà mai a ridare un po’ di stabilità al Medio Oriente senza una conferenza di pace (o qualcosa di simile) che ridefinisca i confini fra i vari gruppi territoriali locali, che faccia nascere nuovi Stati al posto di quelli, ormai finiti, disegnati dalle potenze occidentali nel XX secolo. Mentre Assad e i suoi alleati russi distruggono Aleppo e contemporaneamente, nel nord dell’ex Iraq, è in corso una cruciale battaglia per strappare la città di Mosul allo Stato Islamico, e mentre, per sovrappiù, le due grandi potenze, Stati Uniti e Russia, sono impegnate nel più pericoloso duello che si ricordi dopo la crisi missilistica del 1962, non è ancora il momento, evidentemente. Ma, ciò nonostante, resta vero quanto certi esperti dell’area dicono da tempo apertamente e i diplomatici ripetono nelle conversazioni private: non c’è nessuna speranza di pacificare il Medio Oriente se non si mette da parte la pericolosa illusione di poter ricostituire un mondo ormai dissolto, di potere ancora utilizzare la vecchia carta geopolitica in cui figuravano entità statali denominate «Siria», «Iraq», «Yemen», forse anche «Libia». Prendiamo il caso dello Stato Islamico. Perché è nato e perché esiste ancora? La risposta ufficiale è che ha goduto (e gode tuttora) degli appoggi di altri Stati dell’area. Ma è una verità solo parziale. L a principale ragione dell’esistenza dello Stato Islamico è che i sunniti ex iracheni non vogliono essere dominati da una maggioranza sciita (come accadrebbe se il vecchio Iraq venisse ricostituito) e i sunniti ex siriani non vogliono tornare sotto il tallone della minoranza alawita (come nella vecchia Siria). Lo Stato Islamico verrà rapidamente sconfitto nel momento in cui ai sunniti di Iraq e di Siria sarà consentito di dare vita a uno Stato sunnita unificato. Ma perché si faccia strada un tale progetto occorre che la comunità internazionale accetti l’idea di una definitiva scomparsa dei vecchi Stati. Sia gli alawiti della ex Siria (al seguito di Assad) sia gli sciiti dell’ex Iraq dovranno convincersi dell’impossibilità di ritornare allo status quo ante . Ma potranno farlo, sospendendo finalmente le ostilità, solo se potranno a loro volta contare su confini sicuri garantiti dalle grandi potenze. Poi c’è la questione curda, forse la più intrattabile a causa dell’atteggiamento turco (e non soltanto turco) verso i curdi. È dai tempi della caduta dell’impero ottomano che esiste una questione nazionale curda aperta e irrisolta. Ai turchi dovranno essere date, certamente, compensazioni varie ma ciò che non trovò soluzione, uno sbocco accettabile, al termine della Prima guerra mondiale, dovrà trovarlo (a beneficio dei curdi ma anche della stabilizzazione dell’area) un secolo dopo. Poi c’è la questione dello Yemen. Anche lì non è pensabile una pace senza una spartizione territoriale e un divorzio consensuale fra le componenti sunnita e sciita (nella variante locale: gli Huthi). C’è infine il caso libico. Oggi la Libia è uno Stato fallito. Non c’è possibilità di ricomposizione che non passi per l’instaurazione di un sistema di garanzie reciproche, soddisfacenti per i principali gruppi territoriali e tribali coinvolti. Gli sforzi della diplomazia internazionale, Italia in testa, per ripristinare l’unità libica sono lodevoli, ma vale anche qui ciò che vale nel caso dello Stato Islamico: è il grosso delle persone coinvolte (le persone comuni, con i loro legami tribali e territoriali, non solo certe frazioni delle élite nazionali) che devono essere convinte della validità e della convenienza delle soluzioni proposte. Ciò serve a ricordare il fatto che le grandi potenze, e gli altri Stati al loro seguito (la cosiddetta «comunità internazionale»), possono essere i promotori di accordi di pace, possono blandire gli attori locali, possono allettarli con promesse di aiuti o minacciarli di sanzioni, possono anche proporsi come i futuri garanti esterni degli accordi stipulati, ma non possono «imporre» nessuna pace sulla testa dei locali, non hanno il potere di calpestarne la volontà. Alla fine, è sempre la convenienza di questi ultimi che decide del successo o del fallimento delle trattative. La ragione per cui il Medio Oriente è forse (quasi) pronto per soluzioni negoziate guidate da una giusta mescolanza di realismo, immaginazione e intelligenza, è che ormai da troppo i combattimenti si trascinano senza che coloro che combattono, da una parte o dall’altra, possano ancora illudersi che la vittoria sia certa e a portata di mano. Fermo restando che saranno comunque gli attori locali ad avere l’ultima parola, tocca alle grandi potenze la prima mossa, tocca a loro fare proposte e offrire garanzie. In concreto, il piano di una conferenza di pace che ridisegni i confini politici in Medio Oriente può marciare solo se è voluto e sostenuto dagli Stati Uniti, ossia dalla prossima Amministrazione americana. Se

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il futuro presidente fosse Trump niente da fare. Cercherebbe un accordo purchessia con Putin sulla pelle dell’Europa, e anche del Medio Oriente. I piani lungimiranti non sono alla sua portata, richiedono statisti. Non è sicuro che Hillary Clinton lo sia, però ha l’esperienza che serve. I russi (che oggi fanno apertamente campagna elettorale per Trump) sono dei realisti. Con un «falco» antirusso come Clinton alla Casa Bianca, potrebbero calmarsi, ridurre l’attuale eccesso di aggressività. Per paradosso, proprio un presidente tutt’altro che compiacente verso i russi potrebbe allettarli riconoscendo loro lo status internazionale che essi vogliono. Il che accadrebbe se alla Russia venisse offerto di impegnarsi, al fianco degli Stati Uniti, per favorire i futuri accordi di pace in Medio Oriente, per aiutare le forze locali coinvolte nei conflitti a ridisegnarne la mappa geopolitica. Non ci sarà pace in quei luoghi (né riduzione della minaccia terroristica in Europa) fin quando i vecchi confini statali, decisi e concordati fra le potenze occidentali dopo il collasso dell’impero ottomano, non verranno consensualmente abbandonati. Pag 3 Condoni e stretta sulle imprese, il doppio binario del Fisco di Federico Fubini Le misure del governo Nel Pinocchio di Collodi il giudice fa arrestare il burattino colpevole di essersi fatto rubare le monete d’oro dal gatto e dalla volpe, che la fanno franca. Nella legge di Stabilità appena varata emerge un’altra inversione di senso tipicamente italiana: il governo tende a far risaltare certe novità dagli effetti controversi, mentre dà l’impressione di voler passare sotto silenzio quelle più utili e virtuose. La divergenza è così netta da far pensare che nell’esecutivo qualcuno consideri solo le prime popolari, mentre altre che alla lunga sarebbero più nell’interesse degli italiani sembrano così tossiche che è meglio non parlarne. Niente di tutto questo ha impedito al governo di inserire nella sua proposta di legge di Bilancio misure fiscali del secondo tipo, efficaci nella lotta all’evasione. In particolare, c’è un’iniziativa potenzialmente in grado di trasformare il rapporto di cinque milioni di piccoli e medi imprenditori italiani con il Fisco: la fatturazione elettronica delle transazioni fra imprese private, con segnalazione digitale all’Agenzia delle Entrate a scadenze costanti. Un adeguamento tecnico, a prima vista. Ma quando di recente è scattato in Portogallo, il governo di Lisbona si è accorto che le entrate da imposte indirette salivano del 10% anno dopo anno. La proposta anti evasione viene dall’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco e dal Nens, il centro studi da lui fondato, e secondo gli autori può far emergere nel tempo gettito per 40 miliardi di euro che permetterebbe di ridurre le aliquote fiscali. Se la stima sembra iperbolica, non sarebbe la prima di Visco e del Nens a trovare conferma. Da loro nel 2015 il governo di Matteo Renzi ha preso l’idea del cosiddetto «split payment» - lo Stato versa l’imposta sul valore aggiunto (Iva) per conto delle imprese con cui ha dei contratti - e questa da sola ha generato tante entrate in più da tenere il deficit sotto controllo malgrado la frenata dell’economia. Con la fatturazione elettronica segnalata all’Agenzia delle Entrate, diventerebbe impossibile per un’impresa nascondere al Fisco una transazione con una seconda azienda che su quel pagamento detrae l’Iva. Resta solo da capire in che misura il governo spingerà nei prossimi anni per diffondere questo meccanismo e renderlo obbligatorio. Nel frattempo, comunicate con più enfasi, sono arrivate nella legge di Stabilità anche misure di segno opposto: sanatorie e condoni come quelli che in Italia si promette sempre di abbandonare, perché minano la credibilità del Fisco e la fedeltà dei contribuenti. L’aspetto che molti osservatori nel resto d’Europa seguiranno con più attenzione riguarda la seconda ondata della «voluntary disclosure», la regolarizzazione di capitali nascosti al Fisco pagando una quota sul loro valore. Dal governo è filtrato che il provvedimento potrebbe riguardare anche somme in contanti nascoste in Italia, non solo in conti anonimi all’estero. Fosse vero, una misura del genere aprirebbe una via di Stato al riciclaggio legale di proventi della corruzione o di altri traffici illegali da parte di organizzazioni di qualunque tipo. Anche per questo i dettagli della legge di Stabilità verranno studiati da vicino dalla Commissione Ue. La stessa «abolizione» di Equitalia, in realtà un accorpamento nell’Agenzia delle Entrate dell’organismo di riscossione, contiene sconti e sanatorie perché cancella penali e interessi sugli arretrati fiscali. La decisione (con le relative stime sulle nuove entrate una tantum) sarebbe stata presa solo sabato mattina, poche ore prima di varare la legge di Stabilità, dunque molti dettagli restano da

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definire. Ma se il gettito previsto è di circa 4 miliardi, in prevalenza su singoli arretrati di non oltre 15 mila euro, allora è probabile che il governo condoni così debiti fiscali in penali e interessi di un valore compreso fra uno e quattro miliardi. Sarebbe una sanatoria sulla repressione dell’evasione - un ossimoro istituzionale - con un effetto collaterale in più: dato che i dipendenti di Equitalia lavorano in base al contratto privato dei bancari, in una fusione con l’Agenzia delle Entrate si apre l’occasione per risolvere il problema dei dirigenti di quest’ultima declassati perché non hanno mai vinto un concorso. È dunque tirata verso due direzioni opposte, la politica sull’evasione nella legge di Bilancio. E visto da fuori deve sembrare uno strano Paese, quello in cui un governo si sente al sicuro se tiene sottotraccia le misure che inducono al rispetto della legge, ma si vanta di quelle con cui condona (di nuovo) chi la infrange. IL GAZZETTINO Pag 1 I veri obiettivi della strana armata del no di Marco Gervasoni Se è vero che ogni referendum vede contrapporsi fronti eterogenei al loro interno, trasversali alle fedeltà partitiche, “l’armata” del No alla riforma Boschi va però ben al di là. Raramente infatti si è visto aderire a una medesima causa, e parlare quasi lo stesso linguaggio, figure che per lunghi anni non si erano semplicemente combattute: si erano demonizzate, come gli antiberlusconiani dei “girotondi” del popolo viola, ora a fianco del centro-destra nel campo del No, per i quali Renzi sarebbe il nuovo Berlusconi. Ma su questo si è scritto molto, così come si è ironizzato sulla reviviscenza di gloriose figure della prima repubblica, richiamate alla tenzone politica contro la «minaccia autoritaria» incarnata dalla riforma costituzionale. Si capisce che l’evento si presta a siparietti gustosi ma il tema è più che serio. A parte alcune eccezioni, come il presidente emerito Giorgio Napolitano e gli ex vertici delle Camere Casini, Violante e Pera, buona parte della classe politica della seconda e soprattutto della prima repubblica si è schierata per il No - e qui basta fare solo i nomi di Ciriaco De Mita e di Gianfranco Fini per capire l’ampiezza del fenomeno. Sarebbe molto riduttivo scambiare questo impegno per un subdolo tentativo di rientrare in campo, di giocare un ruolo a livello nazionale. Buona parte della classe politica d’antan si è infatti alzata contro la riforma Boschi per una ragione culturale. Al di là della sua portata effettiva, la vittoria del Sì incarnerebbe dal punto di vista simbolico qualcosa di ben più radicale: se dovesse passare, la riforma segnerebbe infatti il tramonto di un’idea di politica come consociazione, come continua mediazione pattizia, in cui non si vince né si perde mai veramente. Una concezione che è tempo di superare, in nome di una visione più competitiva e al tempo stesso meno assoluta di politica, dove chi perde perde e al limite deve cercare di vincere (rinnovandosi) la volta successiva. Questo concetto è però antitetico a quella vissuto e praticato non solo nella prima repubblica ma anche nella seconda: dove, al di là della retorica maggioritaria, del “bipolarismo muscolare”, i costumi consociativi e pattizi hanno continuato a dominare. Non a caso Berlusconi, sceso in campo nel ‘94 in nome di una visione moderna di politica ma poi anch’egli risucchiato dal passato che non passa, si è ben guardato dall’intrupparsi nell’allegra brigata dei revenants. Una brigata che, nel calore della propaganda, si è lasciata poi trascinare dal brutto vizio di origine di alcuni suoi compagni di strada: quella di demonizzare gli avversari. Se è vero infatti che i toni di alcuni esponenti del Sì non sono stati gradevoli, il livello di aggressività della squadra concorrente ci pare decisamente superiore. Non solo perché nel fronte del No un ruolo di primissimo piano lo svolgono i demonizzatori per definizione, i 5 Stelle, coloro per i quali gli avversari sono «il male, la peste rossa» come ha detto Grillo in un’occasione. La tesi vagamente paranoica che la riforma sia stata scritta per favorire «la finanza internazionale» e JP Morgan è stata, per esempio, sostenuta da scranni ben più autorevoli dell’ex Direttorio M5S. La politica non è mai stata un pranzo di gala ma non è trasformandola in una gara di wrestling che si costruisce qualcosa. Soprattutto quando in gioco sono le istituzioni. LA NUOVA Pag 1 La manovra per vincere il referendum di Massimiliano Panarari La legge di bilancio del 2017, e il referendum del 4 dicembre. Non c’è strabismo tra i due corni della questione, ma un’identità di veduta strategica e un target comune che porta

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la prima a essere finalizzata per agevolare la vittoria del premier nel secondo. Perché Matteo Renzi vuole durare e, gira voce nei palazzi, anche se l’“ordalia” non andrà nella direzione da lui auspicata, vuole rimanere un attore rilevante di un paesaggio politico che sarà soggetto, in caso di vittoria del No, a forti scosse telluriche, e da vari punti di vista. Il Consiglio dei ministri ha licenziato una manovra finanziaria dell’ammontare di 24,5 miliardi di euro, sulla quale la Commissione europea dovrà dire la sua e che sarà oggetto di trattativa con Bruxelles, dal momento che il governo punta a ottenere un po’ di flessibilità aggiuntiva e qualche margine in più sul rapporto deficit/Pil (nella nota d’aggiornamento del Documento di economia e finanza ha messo nero su bianco un obiettivo del 2% per l’anno prossimo, ma ha ricevuto dal Parlamento il mandato per arrivare sino al 2,4%). Renzi si è ben guardato dall’esprimere toni trionfalistici, indicando le “stelle polari” della legge di stabilità per l’anno a venire nella volontà di «tenere insieme competitività ed equità», per poi sottolineare che l’Italia pur non andando bene va meglio di prima. Il bagno di realismo renziano è ovviamente da riportare al momento politicamente delicatissimo e alla consistenza dei settori dell’opinione pubblica contrari al presidente del Consiglio e al Pd che, pur diversi nelle visioni e motivazioni, troveranno l’arma del quesito referendario per esprimere il loro scontento. I “titoli” principali su cui il primo ministro e il titolare dell’Interno Angelino Alfano (l’alleato obbligato del momento, e quello per vari versi più fedele, sempre al momento) hanno voluto concentrare l’attenzione sono l’aumento di 2 miliardi del fondo sanitario, la chiusura di Equitalia (e la «rottamazione» di more e cartelle esattoriali) – ma al riguardo va monitorato con estrema attenzione ciò che rimpiazzerà quella struttura molto detestata – e la ripartenza delle assunzioni nel pubblico impiego. Renzi avrebbe voluto fare di più per riuscire a finanziare una serie di interventi popolari, dai quali – ritiene – può dipendere la vittoria nel referendum. Ha evitato l’aumento dell’Iva – per fortuna, visto che, come noto, si tratta di una misura in grado di affardellare ulteriormente la già complicatissima situazione dei consumi. Ha varato alcuni strumenti per sostenere la crescita (il nostro problema per eccellenza) e il lavoro produttivo, con il taglio dell’Ires, la riduzione dei contributi previdenziali per le partite Iva e la decontribuzione (seppure con una formula variata) sulle nuove assunzioni. Numerosi sono i fronti “caldi” e i contesti critici che ha davanti Renzi. Scongiurare il paventato taglio al fondo sanitario serve a ridurre la fibrillazione tra le Regioni che avevano annunciato il muro contro il muro e le barricate a fronte ai problemi nella gestione della sanità, e che rimproverano – chi più chi meno – quello che denunciano come il neocentralismo dell’esecutivo (un argomento su cui batte anche il fronte del No al referendum). Le misure sulle pensioni si indirizzano a una platea elettorale importante e quelle per la crescita devono fare i conti con il “fronte esterno” di Bruxelles. Sulla legge di stabilità 2017 il premier si è giocato tutte le carte che poteva con i mezzi di cui disponeva, avendo l’orizzonte a brevissimo termine della battaglia referendaria; e lo ha fatto con efficacia. Il Paese però ha bisogno di una strategia di politica economica organica e coerente – che vada oltre la messe di interventi occasionali e consensus-orientend – per ripartire e per «tenere insieme competitività ed equità» (come lui stesso ha dichiarato). Ma questa, nel contesto politico odierno, è un’altra partita, che dipende da quella – salvo rinvii per i ricorsi sul testo del quesito referendario – del 4 dicembre. Chi vivrà, vedrà… Pag 1 Il federalismo che rimane puro slogan di Francesco Jori Il federalismo del sior Intento: che dura tanto tempo, che mai non se destriga… La vecchia filastrocca fa da ideale colonna sonora al documento appena presentato dai presidenti di Lombardia, Veneto e Liguria: riproponendo per l’ennesima volta quello che in Italia era, è e rimane un puro slogan. Cavalcato alla grande negli anni Novanta, anche da chi non sapeva nemmeno di cosa si trattasse ma pensava che gli facesse guadagnare voti. E poi sprofondato nella palude delle mode dismesse, per lasciare posto a nuove fiammate di centralismo: grazie anche alla pessima condotta di troppe Regioni, che hanno offerto il destro alle vestali dello statalismo per mettere all’indice l’autonomia tout-court, senza distinguere tra virtuosi e cialtroni. Non se ne farà niente neppure stavolta. Il rilancio dei governatori di centrodestra si iscrive nella più ampia campagna anti-referendaria che sembra oggi la sola emergenza nazionale. Ma anche a toglierla da

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un tale contesto, suona comunque scarsamente credibile: perché non esiste federalismo possibile se prima non si disbosca l’asfissiante giungla normativa, finanziaria e burocratica che tiene in ostaggio il Paese, vanificando ogni riforma grande e piccola. E’ un magistrato del valore di Carlo Nordio a denunciare che in Italia ci sono troppe leggi, molte delle quali inutili e dannose. Per non parlare di un debito pubblico fatto disinvoltamente lievitare dagli anni Ottanta, e che restringe pesantemente ogni spazio di manovra. Perché le Regioni, a partire proprio da Lombardia e Veneto, anziché dedicarsi al copia-e-incolla di vecchi proclami rimasti di carta, non promuovono una comune battaglia con chi ci sta per incassare quote maggiori di autonomia utilizzando gli strumenti esistenti in Costituzione già da una quindicina d’anni? E’ comunque singolare che il tema venga rilanciato dal centrodestra, se si considera che Forza Italia e Lega sono state a lungo al governo; dove uno dei tre firmatari del documento, Maroni, ha fatto a lungo il ministro, compreso lo strategico incarico degli Interni. Perché non è mai passata neppure una briciola di federalismo vero, malgrado in Parlamento ci fossero i numeri? E’ stata o no soprattutto questa incapacità di portare a casa risultati concreti a determinare la rovinosa caduta di Bossi dopo un ventennio di guida intangibile del Carroccio? Ed è stato o no un altro leghista, Calderoli, da ministro per la semplificazione normativa, a esibirsi nella sceneggiata del rogo delle leggi inutili? Non che il centrosinistra abbia seguito un diverso registro; anzi. La riforma del titolo V nel 2001, spacciata per federalismo, nacque monca a causa di non poche lacune, inclusa la mancata trasformazione del Senato in Camera delle autonomie. E rimane nitido il ricordo delle sprezzanti affermazioni di taluni leader nazionali nei confronti di chi quelle autonomie rivendicava, sindaci in testa: dai “cacicchi” di D’Alema alle “centopadelle” di Amato. Ma la verità è che a crederci davvero sono sempre stati in pochi, ridotti a sparuta minoranza: incluse quelle voci che pure a suo tempo si erano levate a pieni decibel, dalle associazioni di categoria al sindacato (che federalisti al loro interno non sono affatto), e perfino alla stessa chiesa. Perché? Perché il federalismo, se si fa sul serio, è una scelta esigente, difficile, responsabile, che non fa sconti a nessuno: molto più comodo farsi utenti silenziosi ma assidui dell’assistenzialismo, dove chi è più furbo e disinvolto riesce a incamerare di più, anche oggi che il piatto piange. In uno dei suoi ultimi scritti su questa stessa testata, il maggior sostenitore dell’autonomia, Giorgio Lago, sfornò al riguardo un’immagine micidiale: “Il federalismo, carta igienica del riformismo all’italiana. Meno ce n’è, più lo si risparmia”. L’unico esempio nostrano di frugalità. CORRIERE DELLA SERA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 Distrazioni pericolose sull’Europa di Francesco Giavazzi Voto e riforme Dopo il referendum italiano l’Europa entrerà in una lunga apnea. Un intervallo che durerà un paio d’anni, il tempo necessario per votare in Francia e Germania, nel 2017, e poi formare nuovi governi, con un negoziato che, a Berlino, potrebbe non essere facile. In questo periodo i temi politici al centro dell’attenzione saranno domestici, mentre su quelli europei regnerà una grande calma. Ma non perché l’Europa avrà risolto i suoi problemi: l’inevitabile cancellazione del debito greco verrà solo rimandata, il Portogallo, oggi il Paese più debole dell’Ue, rimarrà in bilico, di completare l’unione bancaria non si parlerà più, né di riscrivere le regole per i bilanci pubblici che lo stesso presidente Juncker giudica ormai superate. In questi due anni i contrasti fra i governi nazionali e la Ue verranno sopiti, le leggi Finanziarie approvate, anche se non proprio in linea con le regole di Bruxelles. Le banche non falliranno: se necessario si troverà un modo per salvarle con denaro pubblico. Questo lungo periodo di calma apparente si concluderà nel 2019 con due appuntamenti: l’uscita definitiva della Gran Bretagna dall’Ue e, a fine giugno, la scelta del successore di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea. In Italia, dove già facciamo fatica a mettere l’Europa nella nostra agenda politica, c’è da scommettere che in questo intervallo di tempo del futuro dell’Ue e dell’unione monetaria ce ne scorderemo del tutto. Sarebbe un errore molto grave che potrebbe aprire la strada a un drastico ridimensionamento del nostro ruolo in Europa. Anche a Parigi e a Berlino la politica, per motivi elettorali, spesso mette in sordina i temi europei. Ma entrambi i Paesi hanno burocrazie di alto livello, abituate a negoziare i dossier anche quando il governo è

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apparentemente disinteressato, o addirittura un governo non esiste. Non saranno le burocrazie a decidere, ma quando si riaprirà la discussione politica, le alternative sulle quali è possibile raggiungere un accordo saranno state individuate, e le norme necessarie in parte già scritte. Certo, sarà la politica a scegliere, ma fra un menù di opzioni analiticamente definite e in parte già negoziate. Presentarci impreparati a quell’appuntamento vorrebbe dire dover scegliere in un menù preparato da altri ed essere poi costretti a puntare i piedi e minacciare veti all’ultimo momento: non una buona strategia negoziale. Quali sono i dossier aperti? Il futuro dell’unione monetaria innanzitutto. Nel 2019 l’euro compirà vent’anni, un periodo ancora troppo breve perché il progetto possa essere considerato irreversibile. La Zollverein, l’unione monetaria fra 39 Stati tedeschi indipendenti, fu lanciata nel 1834 ma per molti anni il progetto fu tutt’altro che irreversibile, come dimostrò la temporanea sospensione del 1866. Lo divenne solo all’inizio degli anni Settanta dell’800, dopo la guerra fra Francia e Prussia e la nascita dell’impero tedesco. Senza quel salto politico è improbabile che la Zollverein sarebbe sopravvissuta. Il nostro compito è più difficile: per sopravvivere l’euro ha bisogno di una discontinuità politica, ma non vorremmo, né sarebbe più possibile, una soluzione simile a quella che impose l’egemonia della Prussia sul resto della Germania. Oltre alla politica vi sono questioni più mondane da affrontare. Un’unione monetaria con al suo centro un Paese il cui surplus commerciale sfiora il 10% del reddito è troppo sbilanciata. Ma lo è anche perché alcuni Paesi della periferia, in prima fila l’Italia, hanno perduto molti punti di competitività rispetto a Germania e Francia, e non si capisce come riusciranno a ritrovare un equilibrio che consenta loro di ricominciare a crescere. Una soluzione semplice - che le cancellerie di Parigi e Berlino non escludono, seppur non auspicandola - consiste nell’abbandonare la periferia al suo destino e limitare l’unione monetaria a Francia, Germania più pochi Paesi satelliti, un gruppo, quello sì, relativamente omogeneo. L’effetto anestetico dei due anni di calma apparente che ci aspettano può indurci a dimenticare questi problemi, a lasciare che altri studino e preparino le soluzioni. Dopo il referendum del 4 dicembre, qualunque sia l’esito del voto, si aprirà la campagna per le prossime elezioni politiche che, è facile prevederlo e anche comprensibile, si giocherà tutta su temi domestici. Se così facessimo, io temo che nel 2019 ci attenderebbe un brusco risveglio, con la possibilità concreta di essere costretti ad abbandonare se non le istituzioni europee, almeno il loro nuovo nocciolo duro. A quel punto, ancora una volta, dovremmo rimproverare solo noi stessi. Pag 1 Bebe, sorrisi e vita. “Non chiamatemi poverina, sono io a poter dare aiuto” di Aldo Cazzullo «Non chiamatemi poverina: la compassione può essere peggiore dell’indifferenza. Noi amputati non siamo inutili. Anzi, possiamo esservi d’aiuto». Dice Beatrice Vio, che tutti chiamano Bebe. «Se vi svegliate che fa freddo, piove e c’è traffico, non pensate: che giornata del cavolo. Una giornata del cavolo è svegliarsi con le gambe gonfie, non poter mettere le gambe artificiali e dover uscire in carrozzina». Una mattina con Bebe Vio è in effetti di grande aiuto. Da lei abbiamo molto da imparare. Ad esempio a vaccinare i nostri figli. «Quando vado in tv o parlo al telegiornale dico sempre che sono contenta così, che la malattia non mi ha sconfitta, eccetera. Però, quando accade un trauma del genere, non accade solo a te. Accade ai tuoi genitori, alla tua famiglia. E hai il dovere di evitare che accada. Se a casa non avessimo dato retta all’Asl, che ci diceva “tanto c’è tempo”, e se dopo la vaccinazione contro la meningite A avessi fatto anche quella contro la C, non mi sarei ammalata. Qui in Veneto ad esempio le vaccinazioni non sono obbligatorie; ed è sbagliato, infatti ci sono dei focolai. Non tutti hanno un paese che ti sostiene come ha fatto Mogliano con me, non tutti hanno una famiglia forte come la mia. Altri genitori non reggono al colpo: spesso uno dei due se ne va. Quasi sempre l’uomo, il padre. I ragazzi della nostra associazione, che consente agli amputati di fare sport, sono quasi tutti figli di genitori separati. La madre è quella che resta». Da piccola Bebe faceva ginnastica artistica. «Alla fine del primo anno mi dissero che c’era il saggio. Chiesi: cosa si vince? Mi risposero che non si vinceva niente; bisognava solo far vedere a mamma e papà quanto si era brave. Capii che non era lo sport per me. Provai con la pallavolo, ma mi fermai alla prima lezione: c’erano ragazze che palleggiavano contro un muro. Mi annoiai e presi l’uscita. Per fortuna non portava fuori ma in un’altra palestra. Dove si

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tirava di scherma». A undici anni Bebe era una promessa, aveva già vinto le prime gare. Meningite fulminante. Necrosi degli arti. Braccia amputate all’altezza del gomito, gambe sotto il ginocchio. 104 giorni di ospedale. «Della malattia non ho brutti ricordi. Sono i trucchi del cervello: cancella le cose orribili, che i miei genitori purtroppo ricordano benissimo; e salva le cose belle. Le visite dei miei fratelli, Nicolò e Maria Sole. I sabati sera con gli amici che venivano a trovarmi, portavano la pizza, mettevano su un film». «Datemi le gambe e riprendo a tirare di scherma». È stata la prima cosa che ho detto, appena uscita. Ma non avevo più le tre dita con cui si impugna il fioretto, e le protesi non andavano bene. Abbiamo provato a fissare l’arma con lo scotch, ma non funzionava. Poi hanno inventato un guanto di plastica che riesce a reggere la lama. Per le gambe non c’era problema: quelle artificiali vanno benissimo; però la scherma paralimpica si fa in carrozzina, e ho dovuto adeguarmi. Tanto, il fioretto è al 70% testa; anche se ora proverò la sciabola, che è più impetuosa. Al primo allenamento non volevo più scendere dalla pedana: “Chi vince regna!” dicevo, e continuavo a battere le avversarie, fino a quando non sono crollata dalla stanchezza. Devo molto a Elisa e Arianna, che per me sono sorelle maggiori, e a Valentina, che è come una zia». Elisa è Elisa Di Francisca, la prima atleta nella storia olimpica a mostrare la bandiera europea. Arianna è Arianna Errigo, argento a Londra 2012, che ora - come Bebe - vuole provare la sciabola. Valentina è Valentina Vezzali, la più grande atleta italiana di tutti i tempi. «Neppure per un momento mi hanno fatto sentire una poverina; sempre una di loro. Ai Mondiali sono stata buttata fuori al primo turno, e mi sono chiusa in bagno a piangere. Mamma mi ha inseguita, mi ha parlato, ha cercato di consolarmi, e io l’ho mandata via. Poi è arrivata Valentina, che mi ha ripetuto le stesse cose. Per me era come se parlasse l’oracolo di Delfi, la Sibilla cumana. Così mi sono rimessa in pista, a inseguire il mio sogno: le Olimpiadi». «La medaglia più preziosa a Rio non è stata l’oro nell’individuale, ma il bronzo a squadre. Con Loredana Trigilia e Andreea Mogos, che è di origine romena, siamo molto legate: dopo siamo partite insieme per una vacanza a Ilha Grande; mare caraibico, caldo anche d’inverno. I brasiliani sono speciali: dove non arrivano con le strutture, arrivano con il cuore; se c’erano i gradini e mancava l’ascensore, ci prendevano in braccio. La Rai questa volta ha fatto conoscere lo sport paralimpico; il resto l’hanno fatto i social. Credo che gli italiani abbiano capito. Prima non mi conosceva nessuno, adesso…». In due ore di conversazione, nel bar davanti alla stazione di Mestre, almeno dieci persone verr anno a dire a Bebe la loro ammirazione. «Lo so che ormai è arrivata per me l’età dell’amore. Ma non sono cose di cui parlare con i giornalisti. Quest’anno ho finito le superiori: arti grafiche e comunicazioni, dai salesiani. Ora mi sono iscritta all’università, allo Iulm di Milano. La prossima settimana comincio uno stage a Fabrica, dai Benetton. Ho già fatto uno stage a Sky come grafico; ma stare nove ore al giorno dietro il computer non fa per me. Tornerò a Sky dopo il 2024, per fare il capo dello sport». Davvero? «L’ho già detto al capo di adesso, Giovanni Bruno - sorride Bebe -. Ogni tanto mi siedo alla sua scrivania, per fare le prove». Perché dopo il 2024? «Perché prima voglio vincere l’oro alle Paralimpiadi di Roma». Ma a Roma non si faranno né Paralimpiadi né Olimpiadi. «Non è detta l’ultima parola. Purtroppo la Raggi non ha ancora voluto incontrarmi. Vorrei dirle che i Giochi sarebbero una splendida opportunità di attrezzare la capitale per i disabili, eliminare le barriere; Milano è cambiata grazie all’Expo. E anche per far crescere le persone normodotate, far capire che non siamo sfortunati da commiserare». «Tra noi ci prendiamo in giro: “Handicappato, ti muovi?”. Ci ridiamo su. L’autoironia ci fa bene. Disabile è chi si sente disabile, chi passa la giornata sul divano perché pensa di non saper fare più nulla. Definirebbe disabile un grande italiano come Alex Zanardi? Si è preso a cuore la mia storia quand’ero un mezzo cadavere, e nessuno credeva in me. È stato importante anche l’incontro con Oscar Pistorius. Ha fatto una cosa terribile, ed è giusto che paghi. Ma io spero che dopo aver espiato possa tornare ad aiutare gli altri, come ha fatto con me». Al suo cellulare arrivano di continuo messaggi. Lei si toglie la protesi e digita i numeri con il moncherino. «Non ho paura della fisicità. Come non mi dispiacciono le cicatrici che ho sul viso. Quando vado in tv, al trucco insistono per coprirle. Sono stata a Parigi alla sfilata di Dior ispirata alla scherma, e anche lì volevano mascherarle. Ma anche quelle fanno parte di me. Come gli occhi verdi che ho preso da mamma». Pag 3 La Guerra invisibile di Guido Olimpio

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Washington. È una guerra a tratti invisibile. Battaglie combattute nel cyberspazio, lungo i sentieri di Internet, ma anche in mare e in cielo. Da una parte i russi, con hacker al servizio del Cremlino e piattaforme come WikiLeaks a fare da trampolino mediatico. Dall’altra gli americani, impegnati in una selvaggia campagna elettorale. Arduo separare politica estera e interna: spie e candidati le uniscono. Le prime mosse le hanno compiute gli uomini ombra dislocati in Russia o chissà dove. Una prosecuzione delle attività condotte in questi ultimi anni dove il conflitto digitale si è affiancato a quello convenzionale. I russi hanno partecipato con i «cyberguerrieri» alle campagne militari in Georgia e Ucraina, per esempio. Al tempo stesso hanno ampliato le attività di spionaggio rubando il possibile o raccogliendo dati per creare dossier, lanciare ricatti, carpire informazioni sensibili su figure di spicco. Perché è così che fanno: immagazzinano a futura memoria. In un paio di nuovi centri sono confluiti esperti di cyberwar e altri in grado di redigere storie da diffondere a livello globale. Le mosse degli Usa - Gli Stati Uniti hanno giocato le loro carte con le ormai note infiltrazioni della Nsa, contro nemici e amici. Hanno colpito l’Iran sabotando le reti petrolifere e nucleari, hanno sorvegliato dirigenti di Stati, hanno piazzato «orecchie» ovunque. Un sistema poderoso gestito dall’agenzia, ma che si è ampliato alla Cia e al Pentagono, con il Cyber Command. Un dispositivo, su ordine di Obama, in grado di parare le frecce nemiche, ma anche di sferrare offensive simili a quelle affidate agli stormi dell’Air Force. Tutto abbastanza prevedibile fintanto che non è cominciata la lunga corsa alla Casa Bianca. La scommessa di Mosca - La Russia ha «scelto» il suo candidato: Donald Trump. Convinta che una vittoria di Clinton vedrà un’America interventista. Ed ecco che i «pirati» - è l’accusa Usa - si sono messi al lavoro per saccheggiare le email della ex segretaria di Stato e dei suoi collaboratori. Dialoghi a tratti imbarazzanti che - sempre secondo la tesi statunitense - sono stati passati da Mosca a WikiLeaks, rapida nel spargerli sul web. Un tentativo di influenzare il voto Usa mai visto prima, al punto che molte voci al Congresso hanno chiesto un’inchiesta Fbi sui rapporti tra Trump e Putin. Le indagini diranno di più, ma già a prima vista si scorge la sintonia tra alcuni media russi, l’organizzazione di Assange e i messaggi degli uomini di Trump che, non a caso, ha sempre difeso Mosca. Perfino durante i dibattiti l’imprenditore si è rifiutato di sottoscrivere le accuse mosse dall’intelligence Usa e ha ipotizzato la mano cinese o dell’improbabile «ciccione stravaccato sul letto a smanettare con un computer». I rischi - C’è poco da ridere. È legittimo chiedersi se gli spioni si siano limitati a prendere di mira l’imprudente Hillary o se, come è probabile, non abbiano messo altro fieno in cascina. Nel turbinio di rivelazioni ora potrebbe esserci spazio per nuove sorprese. La Cia ha elaborato il piano hacker per svelare le magagne di Cremlino e oligarchi. WikiLeaks promette altre carte esplosive sulla Clinton. Ieri ha diffuso 800 files. Nel mentre, una nave spia russa fa il pendolo davanti alla Siria vicino ai cavi di comunicazione, gli aerei americani da guerra elettronica partono da Sigonella e volano su Mar Nero e Mediterraneo Orientale, i super droni Global Hawk vegliano in Ucraina e captano conversazioni. Non manca nulla. LA REPUBBLICA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 Ma Renzi è un vantaggio o un danno per l’Europa e per l’Italia? di Eugenio Scalfari Ho avuto un colloquio telefonico con Matteo Renzi un'ora prima della riunione della direzione del Pd e nel pomeriggio dello stesso giorno, a riunione già avvenuta, un colloquio con Gianni Cuperlo, uno dei dem dissidenti più rappresentativo di quel gruppo finora orientato a votar No. Sono gli strumenti del mio mestiere e posso dunque raccontarne il contenuto. I dissidenti tentano di ottenere una modifica sostanziale del referendum e soprattutto della legge elettorale. Renzi si è reso conto che questo è anche il suo interesse anzi è soprattutto il suo, perché nel caso di un accordo il Sì probabilmente avrebbe la prevalenza sul No e questo è fondamentale per lui. Se vincesse il No la sua carriera politica sarebbe finita, questo è certo, sia come presidente del Consiglio sia come segretario del partito. Sarebbe un danno o un vantaggio per l'Italia? La risposta a questa domanda non rientra nei ferri del mio mestiere, è un

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giudizio personale d'un cittadino che con la politica ha una certa familiarità, perciò dico questo: un nuovo segretario non porterebbe alcun danno al partito; un nuovo capo di governo probabilmente sì, soprattutto a livello europeo. Che io sappia c'è in Italia un solo personaggio che può degnamente rappresentarci in Europa: Enrico Letta. Il guaio è che è alquanto difficile che Letta ottenga una maggioranza dei voti in Parlamento: la vittoria del No metterebbe profondamente in movimento l'intero schieramento politico: la Destra, il Centrodestra, la Sinistra, i Cinquestelle, i populisti antieuropei. Ma se Letta non vince non vedo francamente un terzo nome. Non a caso i poteri forti in Europa stanno solidarizzando con Renzi, sia pure dopo i profondi contrasti degli ultimi mesi. Il Partito socialista europeo (Pse) si è schierato l'altro ieri all'unanimità per il Sì al referendum italiano e non a caso Obama dedicherà il suo ultimo pranzo ufficiale alla Casa Bianca a Renzi che porterà con sé un gruppo di italiani rappresentativi in vari campi della nostra società civile e Obama farà altrettanto. Non politici, ma esponenti dell'economia, dello sport, dello spettacolo. È certamente un appoggio politico ad un Renzi pericolante e quindi bisognoso di appoggi internazionali. Dell'Occidente e non di Putin, come accade a molti movimenti populisti, xenofobi, antieuropei e in Europa contrari anche alla moneta comune. Donald Trump è l'esempio più clamoroso, ma perfino Grillo guarda a Mosca con molta più simpatia di quanto non guardi ad Obama e non parliamo del capo della Lega e perfino di Berlusconi che di Putin è amico personale e per personalissime ragioni. Ora riprendo i miei strumenti giornalistici per raccontare i colloqui telefonici dei quali ho già fatto cenno all'inizio. Renzi desiderava un parere sui modi per riportare compattezza nella classe dirigente del Pd e quindi sull'intero partito. Se questo avverrà - ha detto - sarà più probabile la vittoria del Sì e anche, se comunque vincesse il No, un Pd compatto resterebbe la più forte minoranza del Parlamento con tutto ciò che ne consegue. La mia risposta, credo oggettiva, è stata di mettere l'accento sulla legge elettorale che a mio avviso va profondamente cambiata per evitare un ballottaggio che oggi in un sistema non più bipolare ma tripolare, darebbe probabilmente forti chance di vittoria ai Cinquestelle e comunque, così come è fatta, darebbe allo stesso Renzi poteri maggiori di quelli che già possiede. Insomma l'autoritarismo diventerebbe non più un pericolo ma una realtà fortemente sgradita alla maggioranza degli italiani, comunque la pensino politicamente. Naturalmente (dicesse verità o bugie) Renzi ha negato di avere un potere forte oggi entro i limiti della Costituzione e di proponimenti di ottenere la nostra fiducia. Lui ha capito - mi ha detto - che deve modificare la legge elettorale vigente e quindi è disposto a spostare il suo impegno politico fin da subito, tant'è che per questo motivo un'ora dopo sarebbe stato esaminato l'Italicum con la dissidenza del partito per studiare un cambiamento sostanziale e soddisfacente per tutti, con tre limiti però: 1. Pubblicamente, e cioè in Parlamento. Verrà deliberato che l'Italicum sarà modificato ma il contenuto specifico sarà reso noto e discusso dopo il voto referendario del 4 dicembre e dopo la sentenza della Corte costituzionale che entro dicembre sarà resa nota. 2. Il premio di maggioranza non si tocca, salvo quello che dirà in proposito la sentenza della Corte. 3. Il ballottaggio non si tocca neppure quello. Su tutto il resto lui terrà nel massimo conto le proposte dei dissidenti. E ne ha anticipata una (che è stata già resa pubblica): i senatori del nuovo Senato previsto dal referendum saranno eletti direttamente dal popolo e non dai consigli regionali. A questo punto ha rinnovato la domanda che già mi aveva posto ed io ho risposto: doveva abolire le preferenze che l'Italicum prevede per l'elezione dei capilista e che sono la fonte di potere del lobbismo, perfino mafioso. La risposta è stata subito positiva e l'annuncerò (ha detto) quanto prima. Poi dovrà far svolgere le elezioni soltanto in collegi uninominali a largo e non a piccolo spazio territoriale. Il premio di maggioranza deve essere abolito. Quanto al ballottaggio, andrebbe abolito anch'esso ma se proprio insiste su questo punto allora può svolgersi tra i primi due partiti risultati dall'esito del voto nei collegi, contrattando alleanze con altri partiti e presentandosi al ballottaggio con liste apparentate. Questa è un'antica proposta dei socialisti guidati all'epoca da Pietro Nenni, De Martino e Riccardo Lombardi. A me sembra valida anche oggi se proprio il ballottaggio non deve essere abbandonato. Naturalmente la coalizione può essere fatta con la sinistra che è fuori dal Pd e/o con un centrodestra di moderati del tipo rappresentato da Alfano e da Parisi. La risposta di Renzi è stata che avrebbe molto riflettuto su questi suggerimenti alcuni dei quali (il voto soltanto nei collegi) avrebbe comunque accettato. Nel pomeriggio ho parlato con Cuperlo e gli ho raccontato

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il colloquio con Renzi. Cuperlo mi ha detto che su quelle ipotesi avevano ampiamente discusso con Renzi e Cuperlo aveva pensato ed esposto proposte molto simili alle mie. La conclusione, certamente positiva, era stata di nominare un comitato del Pd composto da cinque membri, due dei quali dei dissidenti, che avrebbe proposto e poi sottoposto a voto della direzione le conclusioni. Quel documento sarà presentato in Parlamento e le modifiche all'Italicum portate al voto della Camera nel prossimo gennaio. A me sembra un esito positivo per il Paese, sempre che le cose vadano così. Una sola parola sulla presenza della Nato a Riga e nei Paesi baltici, alla quale parteciperà anche un contingente italiano. Lo scopo della Nato è di rassicurare quelle nazioni dell'Est spaventate dalle eventuali mire espansionistiche russe, ma anche convincere il Cremlino ad una maggiore prudenza e moderazione alla Siria di Assad e ad Aleppo in particolare. Questa presenza militare italiana è stata criticata da tutte le forze politiche di opposizione e invece appoggiata da tutto il Pd. Personalmente penso che si tratti d'una presenza italiana pienamente legittima e prevista dallo statuto della Nato che a suo tempo il nostro Parlamento ha accettato. Farò una brevissima aggiunta su un tema molto importante di carattere fiscale, sul quale già due volte mi sono intrattenuto su queste pagine. Si tratta di un taglio ragguardevole del cuneo fiscale sui contributi dei lavoratori e degli imprenditori all'Inps, al quale potrebbero aggregarsi anche molte categorie con propri enti assistenziali come per esempio l'Inpgi dei giornalisti. La mia proposta iniziale era un taglio di cinquanta punti ma poi ho ridotto la proposta da cinquanta a trenta che, debbo dire, è comunque importante come effetto sull'economia nazionale (l'avrebbe perfino ridotta al 25). Da molti lettori mi è stato chiesto a quanto ammontano questi tagli in cifre assolute e dopo alcune ricerche eccole. Il taglio dei contributi di trenta punti ammonta in cifre assolute a 80-90 miliardi annui. Poiché l'Inps dovrebbe fornire alle imprese e ai loro dipendenti gli stessi servizi, l'ammontare del taglio contributivo sarebbe addossato allo Stato e cioè a carico dei contribuenti fiscalizzando l'importo e partendo da una cifra minima di 120 mila dichiarati. I contribuenti al di sopra dei 120 mila euro dichiarano in tutto un reddito di 58 miliardi. In questi termini la fiscalizzazione diventa impossibile. Lo Stato dovrebbe trovare un'altra fonte di entrate che coprano la cifra di 80 miliardi. Sarebbe ampiamente sufficiente una cifra di 60 miliardi che riduce la fiscalizzazione a 20 miliardi e quindi ampiamente accettabile, ma potrebbe ancora essere ridotta se la cifra trovata dallo Stato fosse di 70 miliardi anziché di 60. La fonte è chiara: il reddito nero che è stato valutato a 200 miliardi e anche di più. Poi ci sono anche spese improduttive che possono essere tagliate e in qualche modo trasferite verso questa operazione. È una operazione altamente salutare per il rilancio dell'economia italiana attraverso un aumento dei consumi e degli investimenti. AVVENIRE di domenica 16 ottobre 2016 Pag 2 Militanze e dimenticanze “referendarie” di Francesco D’Agostino I giuristi alla battaglia sulla riforma costituzionale Tutti coloro che si stanno impegnando nella campagna referendaria costituzionale, in vista del voto del prossimo 4 dicembre, riconoscono di avere un dovere fondamentale, quello di informare correttamente l’elettorato in merito alla reale portata delle modifiche costituzionali proposte. L’informazione più corretta dovrebbe avere un rigoroso carattere giuridico, dato che coloro che andranno a votare, pensando più all’effetto del loro voto sul Governo in carica che al futuro istituzionale del Paese, non sentono nessuna necessità di essere adeguatamente informati: costoro voteranno (come avviene per lo più nelle tradizionali votazioni politiche) seguendo le loro propensioni ideologiche, per modificare le quali è davvero ingenuo pensare che possano bastare non solo abbondanti informazioni di merito, ma anche (ahimè) argomentazioni razionali ben calibrate. Di conseguenza – sento dire sempre più spesso –, dovrebbe essere uno specifico dovere dei giuristi intervenire nel dibattito referendario per depoliticizzarlo, per riportarlo al suo unico corretto ambito, quello istituzionale. E in effetti è questo quello che sta avvenendo da diverse settimane, con un risultato però che non corrisponde alle aspettative: invece di chiarire le idee alla pubblica opinione sembra che i giuristi contribuiscano a confondergliele ancora di più. I costituzionalisti (quelli che tra i giuristi dovrebbero ovviamente avere più voce in capitolo) si sono divisi in due (e forse ancor più) fazioni,

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aderendo a gruppi di opinione che sembrano non avere alcun interesse a comunicare tra loro e che si sono rivelati capaci soltanto di attivare interminabili e raffinate elaborazioni concettuali (quelle che Platone chiamava logomachie, con una certa ironia, dato che le vere battaglie, le vere machie, sono cruente, mentre per nostra fortuna quelle tra giuristi non arrivano, almeno fino ad ora, a ferire i corpi, ma tutt’al più il narcisismo intellettuale dei combattenti). In questo contesto vedere che perfino illustri Presidenti Emeriti della Corte Costituzionale si schierano, facendo sì che la loro autorevolezza (giuridica) venga strumentalizzata non per migliorare la conoscenza dei problemi, ma solo per raccogliere voti mette una certa tristezza addosso. E di una tristezza infinita si dovrebbe parlare quando si vede Gustavo Zagrebelsky battagliare in televisione con Matteo Renzi, come se il confronto pubblico tra un illustre giurista e un abile politico potesse davvero illuminare la mente dei telespettatori. Quando, dopo la fine del dibattito, Zagrebelsky ha osservato che erano venute a confronto due visioni del mondo non conciliabili, ha detto una cosa esattissima, ma non ha rilevato che la non conciliabilità delle visioni del mondo è propria della politica, che alla fin fine per risolvere le sue controversie interne ricorre, in democrazia, al criterio strettamente quantitativo del voto, e, nelle non democrazie, alla verifica fattuale e brutale di chi tra i contendenti riesca ad imporsi materialmente come il più forte. Nel diritto non è così e nessuno più di Zagrebelsky dovrebbe saperlo: nel diritto ci sono e ci saranno sempre posizioni antagonistiche tra di loro, ma la loro conflittualità è sempre in linea di principio aperta ad una soluzione, che è quella dettata e soprattutto motivata dal giudice nelle sue sentenze. Ecco perché spiace vedere che giudici emeriti della Corte Costituzionale entrino nel dibattito referendario mettendo sul piatto della bilancia la loro autorevolezza giuridica, ma dimenticandosi che esso avrà, quale sia l’indicazione che emergerà dal voto del 4 dicembre, una soluzione assolutamente legittima, ma anche nello stesso tempo non giuridica, bensì esclusivamente politica. Pag 3 Calor bianco, non guerra fredda di Vittorio E. Parsi Il rapido deterioramento dei rapporti Usa – Russia Non c’è nessuna nuova Guerra fredda alle porte e lo schieramento di truppe della Nato all’interno del territorio dell’Alleanza non costituisce un atto di provocazione – e men che meno di aggressione da parte dell’Occidente – nei confronti della Russia di Putin. Ciò che invece deve preoccupare, e parecchio, è il rapido deterioramento delle relazioni bilaterali tra Mosca e Washington. Nei giorni scorsi il rilancio della prossima implementazione della decisione assunta l’estate scorsa al Vertice Nato di Varsavia ha occupato molte prime pagine e alimentato la solita bagarre di chi ignora che per partecipare a esercitazioni della Nato non occorre nessuna autorizzazione parlamentare. Qua e là si è giunti ad evocare scenari di guerra guerreggiata con Mosca, scenario possibile solo nel caso (al momento improbabile) che la Russia replichi contro uno o più Stati membri dell’Alleanza l’azione muscolare compiuta in Ucraina. Putin ha tutto l’interesse a soffiare sul fuoco della sua propaganda e a cercare di dividere quell’Occidente che ritiene responsabile del declino del prestigio e del rango della Russia seguito alla fine dell’Urss. Come sappiamo, in realtà l’Unione Sovietica implose malamente a causa delle sue contraddizioni interne; ma è una verità troppo scomoda da accettare per il nuovo zar, che ha fatto dello sciovinismo nazionalista la sua bandiera ideologica. Spazzato il campo dagli equivoci su fantomatiche volontà occidentali di ritorno alla Guerra fredda come fu fino a trent’anni fa, occorre constatare che le relazioni bilaterali tra Washington e Mosca stanno rapidamente passando dal gelo al calor bianco. È di ieri la rivelazione dell’emittente televisiva americana Nbc, secondo la quale il presidente Obama si starebbe apprestando a ordinare un attacco hacker contro Mosca, come ritorsione alla violazione della centrale informatica del Partito democratico americano, che il Fbi ritiene provenire dalla Russia. Non è la prima volta che Mosca (come Pechino) viene accusata di atti di guerra cibernetica. Nel 2007, sempre durante una delle ricorrenti presidenze di Putin, l’Estonia denunciò una simile aggressione da parte russa e, non per caso, nel 2014 in occasione del Vertice di Cardiff, la Nato decise di considerare questo tipo di attività come aggressioni paragonabili, a tutti gli effetti, a quelle convenzionali. La portavoce del Cremlino ha reagito a quelle che per ora sono solo voci non confermate con una rudezza inusuale persino per lo stile comunicativo della Russia odierna, tradendo un eccesso di

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nervosismo quantomeno sospetto. Ma occorre subito precisare che, se anche il Fbi avesse ragione, la via della rappresaglia sembra certamente la meno indicata, considerando lo stato attuale di tensione russo-americana. Mentre Mosca fa filtrare notizie di massicce esercitazioni della protezione civile in stile anni Cinquanta del Secolo scorso, con la rimessa a nuovo di rifugi antiatomici e l’immagazzinamento di scorte alimentari, accusando l’Occidente di «russofobia isterica», tutto serve tranne che fornire al Cremlino argomenti per la sua disinformazione. Come dicevamo, Putin ha fin troppi interessati mentori in Occidente, sia tra gli estimatori del cinismo politico come modalità di pensiero e di azione sia tra coloro che si illudono di poterne usare gli argomenti propagandistici per i propri fini di polemica politica interna. Sono gli stessi che ritengono la Russia un disinteressato bastione contro l’offensiva islamista, mentre i bombardamenti di Mosca aiutano Assad a colpire la sua stessa popolazione ad Aleppo. Appare fin troppo facile 'leggere' il gioco di Mosca: alimentare il mito di un’aggressione occidentale (ieri in Ucraina, oggi sul Baltico, domani nel cyberspazio) per continuare nella propria strategia nazionalistica. Proprio per questo, alla fermezza e al legittimo impiego di tutti gli strumenti dissuasivi che le alleanze offrono, occorre unire sempre lo scrupoloso rispetto del diritto internazionale e delle sue prassi: tra le quali decisamente non rientrano le cyber-rappresaglie. Sarebbe un grave errore dare a Mosca seri appigli e farla passare dalla parte della ragione. Torna al sommario IL GAZZETTINO di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 Le mosse cinesi che possono cambiare il mondo di Romano Prodi Nel bene e nel male la Cina si trova di fronte a scelte complicate. In tutti i dibattiti interni la fase che il paese sta ora attraversando è definita come una fase di "nuova normalità" (new normal). Come se la Cina fosse diventata, dopo anni di crescita impetuosa, un paese come gli altri, una delle tante potenze esistenti. Nulla di più sbagliato, se non altro per quello che la Cina non fa. In tutti i grandi conflitti che oggi insanguinano il mondo essa non c'è. Non ha nulla a che fare con la Siria, nulla con la Libia (dove pure ai tempi di Gheddafi era massicciamente presente dal punto di vista economico) e non opera né in Ucraina né in Afghanistan. E nemmeno nei conflitti interni dei paesi africani dove pure ha così diffusi interessi. Dal punto di vista militare si dedica principalmente a costruire basi ed aeroporti nelle isole intorno ad essa, anche in acque territoriali discusse. Sicura che nessuno verrà ad interrompere questo suo accresciuto ruolo di potenza regionale, ha realizzato per la prima volta una base militare lontana da casa, in quell'area di estrema importanza strategica che è Gibuti. Una lenta ma progressiva crescita di influenza nel mondo alla quale si accompagna un cospicuo aumento delle spese militari, che pure rimangono una frazione di quelle americane. Vengono rafforzate l'aviazione e la marina, viene progressivamente modernizzato l'esercito che, alleggeritosi di 300mila uomini trasferiti a carico del sistema delle imprese pubbliche, dispone ora di armi più sofisticate rispetto al recente passato. Lo sforzo maggiore del riarmo marcia tuttavia verso una direzione totalmente nuova, verso la così detta guerra cibernetica (cyberwarfare), che costa meno delle guerre tradizionali ma richiede risorse umane e strutture di ricerca di elevatissima complessità. Una guerra che si combatte non con i carri armati o i missili ma con i computer, come nei film di fantascienza e che, proprio come in questi film, può procurare danni enormi a qualsiasi ipotetico nemico. La sicurezza della Cina viene tuttavia maggiormente protetta dalla creazione di nuove alleanze, tra le quali emerge un sempre più amichevole rapporto con la Russia, che il conflitto ucraino e le ormai eterne sanzioni hanno progressivamente allontanato dall'Europa. In questo modo l'Occidente sta mettendo in atto il grande capolavoro di legare fra di loro le due grandi potenze militari che da decenni si guardavano con sospetto. A questa "nuova normalità" politico-militare si affianca quella economica. L'economia cresce infatti come previsto dalle autorità cinesi, cioè tra il 6 e il 7%, con una tendenza a calare leggermente nel tempo, come è naturale per un paese che dalla povertà è passato ad un livello di reddito medio. In questa normalità rimangono tuttavia problemi insoluti di grande portata. Rimane una quantità impressionante di edifici invenduti, non si arresta il flusso di denaro verso l'estero, così

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come continua a preoccupare le istituzioni internazionali il crescente debito. Il rapporto fra il debito pubblico e privato rispetto al Pil viene infatti stimato intorno al 260%. Il che, anche tenuto conto delle particolarità cinesi, non può che costituire un elemento di preoccupazione, così come la non sufficiente solidità del sistema bancario. In questo quadro così complesso continua senza sosta la difficile politica dedicata all'aumento dei consumi interni e alla maggiore diversificazione dell'economia. Sono nate negli ultimi mesi ben 13.000 nuove imprese al giorno: non solo un numero impressionante anche per un paese come la Cina, ma con un aumento del 30% rispetto allo scorso anno. Nonostante l'enorme quantità di risorse ancora assorbite dal settore pubblico, il cammino verso la diffusione dell'imprenditorialità procede quindi veloce, soprattutto nel campo dei servizi, dove la Cina si trova ad essere ancora debole, con un impressionante deficit annuale di 221miliardi di dollari di fronte ad un attivo di 544 miliardi nel commercio dei beni. Molti osservatori pensano che tutto questo avrà in futuro forti implicazioni politiche. È possibile e forse probabile che sia così. Per ora si deve prendere atto di un ulteriore accentramento del potere del presidente XI, che tiene ormai saldamente nelle sue mani partito, esercito e governo e che sta ulteriormente proseguendo nella ormai lunga, diffusa e necessaria lotta contro la corruzione. Mai come oggi la Cina si presenta quindi come l'opposto del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Mentre a Palermo tutto doveva cambiare affinché tutto potesse rimanere uguale, a Pechino tutto sembra dovere rimanere uguale e strettamente concentrato in pochissime mani affinché la sterminata società cinese sottostante possa trasformarsi e modernizzarsi in tutte le sue forme. Sarà quindi interessante seguire le evoluzioni di questo processo perché esso ha una dimensione tale da modificare la vita di tutta l'umanità. Pag 1 I pericolosi giochi di ruolo tra i due colossi di Alessandro Orsini Quando si parla delle relazioni tra Russia e Stati Uniti, niente è più fuorviante delle apparenze. Iniziamo da ciò che vediamo. Stati Uniti e Russia si contrappongono in Siria e nell’Ucraina orientale. La Nato schiera le sue truppe in funzione anti-russa e i comandanti russi invitano la popolazione a preparare le riserve di grano, lasciando presagire l’inizio di una guerra frontale e duratura con l’Occidente. I pirati informatici russi attaccano i candidati democratici americani e la Cia annuncia di essere pronta a un attacco informatico contro il Cremlino. L’apparenza non lascia dubbi: Russia e Stati Uniti sono nemici. Eppure, l’amicizia che lega questi due paesi è più grande della loro inimicizia. I casi dell’Iran e della Siria aiuteranno a comprendere il senso di questa affermazione. Per alcuni decenni, l’Iran ha supplicato la Russia, a mani giunte, di fornirle i missili che consentirebbero a Teheran di colpire Tel Aviv. La Russia ha sempre rinunciato a un affare per miliardi di dollari per compiacere gli Stati Uniti. Se Israele sapesse che l’Iran si accinge ad acquistare simili missili dalla Russia, darebbe vita a un attacco contro l’Iran, in base alla dottrina Begin, dal nome del premier israeliano che la enunciò nel giugno 1981, dopo avere bombardato il reattore nucleare di Osirak, in Iraq. Tale dottrina afferma che Israele ha il diritto di bombardare, in via preventiva, qualunque paese minacci di bombardare Israele. Il fatto che la Russia non abbia mai venduto missili anti-israeliani all’Iran ha scongiurato un conflitto, in Medio Oriente, che avrebbe potuto assumere le caratteristiche di una nuova guerra mondiale. La conseguenza è che Israele è dominante e l’Iran è dominato. È un favore che i russi fanno agli americani. Dall’8 marzo 2016, l’Iran dispone di un missile balistico, il Qadr H, che ha una gittata di circa duemila chilometri. Ma ha impiegato talmente tanti anni per costruirlo che, nel frattempo, Israele ha potuto acquisire la tecnologia per abbatterlo e contrattaccare con la bomba atomica. Il caso della Siria è ancora più eclatante. La Russia sta investendo miliardi di dollari per bombardare i ribelli che si battono per rovesciare Bassar al Assad, legato, mani e piedi, a Putin. Tali ribelli, che sono fedeli agli americani, supplicano Obama, a mani giunte, di vendere loro i missili che consentirebbero l’abbattimento degli aerei russi. Obama, per compiacere Putin, si è sempre rifiutato di accogliere una simile richiesta. La conseguenza è che i ribelli filo-americani sono stati letteralmente ricoperti di bombe russe, senza potersi difendere. Quasi tutto ciò che resta di loro è confinato nella parte est di Aleppo. Di fatto, sono topi in gabbia. È un favore che gli americani fanno ai russi. Fino a quando gli Stati Uniti e la

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Russia saranno governati da Obama e Putin, non avremo una guerra aperta tra questi due paesi, che provocherebbe un’ecatombe. Putin e Obama sono dominati da un rapporto particolare con la loro psiche, che li porta a considerarsi i benefattori dell’umanità. I conflitti in cui sono coinvolti sono scaturiti da una serie di forze oggettive, indipendenti dalle loro volontà. Né Putin, né Obama, potevano prevedere le manifestazioni popolari, note con il nome di Euromaidan, che hanno portato all’abbattimento del regime filo-russo in Ucraina. I due non potevano nemmeno prevedere la primavera araba in Siria, che si è sviluppata dal basso, a partire dal marzo 2011. Alcune complicatissime reazioni a catena hanno costretto Russia e Stati Uniti a intervenire su fronti contrapposti. Il problema è che la storia, periodicamente, chiama al potere capi fanatici e guerrafondai, i quali scelgono l’odio e la guerra come missione esistenziale. Se, prima della loro ascesa, gli Stati a cui appartengono hanno preparato la guerra, anziché la pace, i fanatici trovano spianata, davanti a sé, la via della distruzione. Quando i cannoni sono puntati, bisogna semplicemente accendere la miccia. Il problema tra Stati Uniti e Russia non riguarda l’oggi. Riguarda il domani. Il tempo di pace serve a questo: a costruire ostacoli, freni e barriere, per rendere più faticoso il lavoro dei capi fanatici. Chiunque schieri le truppe al confine deve ricordarlo. LA NUOVA di domenica 16 ottobre 2016 Pag 1 4 dicembre, il vero quesito di Fabio Bordignon È ormai scontro totale, in vista dell’Armageddon del 4 dicembre. L’#ItaliaDelNo e l’#ItaliaDelSì marciano divise su tutto. Persino sul quesito del referendum. Già, ma qual è la vera questione sulla quale gli italiani saranno chiamati ad esprimersi? Indubbiamente, le posizioni dei due fronti riflettono ragioni di tipo tattico, che si traducono in affermazioni dogmatiche. E spesso reticenti. Partiamo proprio dalla formulazione del quesito. Domanda tendenziosa, come affermano gli oppositori della riforma? Sicuramente sì, visto che rimarca alcuni elementi populisti - e quindi popolari - della Renzi-Boschi (vuoi tu risparmiare, decapitando oltre 200 senatori?). Domanda legittima, come si ribatte nel campo del Sì? In attesa del pronunciamento del Tar del Lazio e del Tribunale di Milano, ci sentiamo di rispondere affermativamente: gli autori del testo, d’altronde, sono riusciti a farlo passare ripetutamente “sotto il naso” dei parlamentari, con il titolo che sarà riprodotto sulla scheda. Ma passiamo ai contenuti. I sostenitori del No denunciano i rischi di indebolimento della democrazia, addirittura di derive autoritarie. Ma «i poteri del premier non cambiano!», ribattono i fan della riforma. Ora, non ci aspetta il Terzo Reich, all’alba di una eventuale vittoria del Sì: semmai, il possibile avvio di una Terza Repubblica. Nella quale - è vero - non cambiano le prerogative formali del presidente del Consiglio (nessuna possibilità di revoca dei ministri, ad esempio). Sicuramente, però, si spostano gli equilibri tra governo e Parlamento. La riforma, infatti, non prevede “solo” il superamento della navetta Camera - Senato - Camera - Senato… (ad libitum). Ma istituisce anche una corsia preferenziale per le leggi di iniziativa “governativa”. Spezza, infine, il legame della doppia fiducia, riconducendo alla sola aula di Montecitorio il circuito di legittimazione del governo: che rimane formalmente indiretta, ma diventa, nelle dinamiche reali innescate dall’Italicum, quasi-diretta. Ed eccoci dunque all’altro nodo cruciale: la combinazione legge elettorale-revisione costituzionale. L’Italicum «non c’entra nulla», tagliano corto quelli del Sì. Ma tutti sanno che vale l’esatto contrario. Simul stabunt, simul cadent: nei fatti, le due leggi rientrano in un unico disegno di riforma. Maggioritario e presidenziale. Mentre l’eventuale successo del No potrebbe portare ad un esito di segno opposto. Perché, a dispetto di quanto sostengono i nemici della riforma (e dell’Italicum), trovare un accordo su una legge elettorale “alternativa” è operazione tutta in salita. Che difficilmente garantirà un vincitore, la sera delle elezioni. Del resto, come ha chiarito Gustavo Zagrebelsky, in democrazia le elezioni «non si vincono». Affermazione che riassume, in modo esemplare, la preferenza per un preciso modello di democrazia. Alternativo a quello promosso dalla “Grande riforma” renziana: un modello che antepone il principio della rappresentanza a quello della governabilità. Che tutela le minoranze. E si associa a regole elettorali di tipo proporzionale. Come quelle che rimarrebbero in vigore per il redivivo Senato. E che in molti sembrano prediligere. Al di là delle schermaglie tra le due Italie del 4/12, è questo il bivio che gli elettori si troveranno di fronte. Il “vero quesito”

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(tecnicamente improponibile) dovrebbe allora suonare più o meno così: preferite una democrazia nella quale… ...sono soprattutto il governo e il suo capo, indicati dagli elettori, a formulare le decisioni politiche (anche a costo di non tenere conto, in alcuni casi, del parere delle minoranze). Oppure …sono soprattutto i partiti in Parlamento a dover trovare un accordo sul governo e sulle leggi da approvare (anche a costo rinunciare, in alcuni casi, alla velocità delle decisioni). Vi sembra chiaro? Vi sembra equilibrato? AVVENIRE di sabato 15 ottobre 2016 Pag 1 C’è la torta, non la festa di Francesco Riccardi Può dispiacere a qualcuno vedersi offrire una fetta di torta? No, nessuno se ne lamenterà sapendo che – più o meno grande – un pezzo di dolce verrà distribuito (quasi) a tutti. Si metteranno da parte le buone intenzioni dietetiche e si addenterà la pasta frolla. È ciò che rischia di accadere, in sostanza, con la manovra economica che il governo si appresta a varare nella riunione del Consiglio dei ministri di oggi. Una manovra da ben 24,5 miliardi di euro, quella che si prospetta, farcita con quasi 4 miliardi di investimenti pubblici, oltre 3 miliardi per l’aumento e l’anticipo delle pensioni, 350 milioni dedicati alla competitività delle imprese e poi glassata con una serie di bonus perfetti per ingolosire i palati delle famiglie. Si parla infatti di un contributo per le rette degli asili nido da 1.000 euro l’anno; di un altro che premierebbe la maternità prossima a realizzarsi, con 800 euro una tantum per coprire le spese della diagnostica e dei primi acquisti per il bambino in arrivo, oltre alla conferma dei buoni asilo per le mamme che rientrano al lavoro e gli 80 euro per i figli fino a 3 anni delle coppie sotto i 25mila euro di reddito Isee, che raddoppiano se la famiglia non raggiunge il livello di 7mila euro... Come si fa a rifiutare un piattino del genere? Con l’appetito che hanno le famiglie italiane tenute a stecchetto, andrà tutto giù in un boccone. Una volta smaltito l’eccesso di zuccheri, però, ci si accorgerà di come, in realtà, nulla sia cambiato nella condizione quotidiana dei nuclei con figli, perché rimarranno intatte le storture della mancanza di equità orizzontale che il nostro sistema fiscale perpetua, in particolare per i monoreddito e in generale non 'soppesando' nella giusta misura la diversa condizione di chi cresce uno o più bambini e chi ha solo se stesso a cui badare. I dolci bonus piacciono a tutti, ma quanto è più salutare una dieta equilibrata, che apporta le giuste calorie e sa dosare i diversi componenti. Senza gli sbalzi glicemici (dovuti agli zuccherini-bonus) , le famiglie sarebbero più tranquille nel portare a compimento i loro progetti genitoriali, sapendo di poter contare su un fisco strutturalmente amico e su un riconoscimento stabile del loro compito educativo e del loro valore sociale. Anche quest’anno l’occasione di una grande riforma è sfumata, si parla del 2018 e per allora il premier ha evocato addirittura il «quoziente familiare»... sperando non sia la solita carota fissata davanti all’asino perché proceda. Lo abbiamo già scritto su queste colonne, pure l’aumento della quattordicesima per i pensionati fino a 750 euro al mese e la sua estensione a chi riceve un assegno fino a 1.000 euro, non sembra una scelta equilibrata. Nonostante ciò che sostengono il sottosegretario Nannicini e i sindacati confederali, la decisione non ha nulla di previdenziale. Non si comprende infatti perché proprio solo a questa categoria di pensionati - non certo privilegiata, ma per lo più formata da persone andate in quiescenza con il più vantaggioso sistema retributivo e meno anni di contribuzione di quanti non ne occorrano adesso - si conceda una mensilità aggiuntiva, a prescindere dalla loro condizione familiare e patrimoniale. Pare solo un’altra fetta di torta che si vuole distribuire, appunto. Non è per rovinare l’appetito né fare i guastafeste a tutti i costi, ma il problema è che quella torta che il governo prepara con le migliori intenzioni è impastata con ingredienti potenzialmente pericolosi. Anzitutto, misure finanziate a deficit, tra i 6 e i 13 miliardi. Poi la scommessa di una crescita economica che arrivi al +1% – quando le previsioni oscillano tra un pessimistico 0,6 e un ottimistico 0,9% – proprio in virtù, per buona parte, delle misure distributive messe in atto con la manovra finanziaria stessa che dovrebbero fungere da volano a consumi interni stagnanti. Insomma, è un po’ come se un maestro pasticciere facesse conto di vendere altre torte solo perché distribuisce gratuitamente la prima. E nel frattempo lasciasse da pagare ai figli, alle generazioni di giovani, il conto della farina presa a debito. Probabilmente è una scommessa necessaria, quella di spingere all’estremo la flessibilità dei conti pubblici,

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evitando politiche di austerità che hanno già dimostrato tutta la loro negatività. Ma è certo un rischio grande distribuire le risorse a pioggia, cercando di contentare più elettori potenziali possibili. Perché se poi la ricetta non funzionasse e la torta risultasse indigesta a molti... toccherà passare il 2017 a dieta strettissima. Abbiamo, insomma, una torta, ma la festa non c’è. Bisogna augurarsi – e lavorare – perché non sia così. Pag 22 Dylan, il Nobel che divide Ferdinando Camon: un riconoscimento che sa di furbata. Giorgio Ferrari: la meta raggiunta dal chierico errante (Camon) Il Nobel per la Letteratura è in crisi. Lo si capisce dall’incrocio tra i due Nobel extra-scrittori, quello italiano, Dario Fo, che è morto, e quello americano, Bob Dylan, appena scelto. Il fatto che siano extraletteratura significa che dentro la letteratura i giudici del Nobel non trovavano un nome unico, riconosciuto e accettabile da tutti. La crisi del Nobel era prevedibile, perché il Nobel si attribuisce un compito assurdo: indicare un narratore o un poeta come il più meritevole del mondo. Il migliore. Questo progetto è impossibile. Non si può scegliere il migliore tra i narratori e i poeti del mondo, semplicemente perché sono imparagonabili tra loro. Ognuno è unico e inconfondibile. Può darsi che nel campo delle Scienze, della Medicina, della Pace, sia possibile vedere chi ha fatto di più, chi è più importante, chi influirà di più sul futuro, e insomma chi merita di essere premiato. Ma nel campo della Narrativa e della Poesia un simile confronto, tra americani, cinesi, russi, indiani, eccetera, è stolto. Come diceva Borges, ogni volta che il premio Nobel veniva assegnato e non a lui: «I libri di chi non vince il Nobel non perdono nulla». Vero. Se erano tanto restano tanto, se erano poco restano poco. Non è che, perché vince il Nobel, Quasimodo diventa più importante di Ungaretti. O Churchill un narratore di rilevanza mondiale. I libri di chi vince il Nobel vendono di più, certo. L’unica conseguenza, sul piano del risultato, di una vittoria del premio Nobel, è dunque economica, cioè borghese. Non è artistica. Non è estetica. È però importante per le condizioni economiche dell’autore, se è uno scrittore e soprattutto se è un poeta: gli può cambiare la vita, il tenore della vita, il lavoro, le giornate. Ma se è un cantante, e specialmente un cantante che vende decine di milioni di dischi, non gli cambia nulla. Il premio Nobel è, quest’anno, è di 8 milioni di corone svedesi, pari a circa 830mila euro. Per un poeta, un miraggio. Per una star della canzone, una briciola. Anche per questo i poeti protestano per l’assegnazione a Bob Dylan: la sentono come il furto di un bene in casa loro. Cosa fa un premio, premiando? Premia un autore. Ma non solo, e qui uso la formula che mi sono costruito, lavorando in tante giurie letterarie: “Ogni premio, premiando, premia se stesso”. Cerca, cioè, un ritorno di benefìci su se stesso. Vuole uscirne più forte, più noto, più commentato, più sorprendente, più appetibile. Il Nobel per la letteratura che hanno dato a Dario Fo era migliore se lo avessero dato a Mario Luzi? Non c’è dubbio, sarebbe stato migliore. Mario Luzi era un grandissimo poeta, ma tutto interno alla Letteratura. Il ritorno che ne avrebbe avuto l’organizzazione del Nobel sarebbe stato modesto. Il premio a Dario Fo fu da molti considerato uno scandalo, e tale viene considerato da alcuni anche adesso. Ma il ritorno pubblicitario che il premio ne ebbe fu enorme, e resta ancora enorme. Non fu un premio alla Letteratura, e nemmeno al teatro, inteso come genere: fu un premio a un attore, che faceva teatro con il corpo, le mani, la pancia, la voce, la bocca, gli occhi. Un mimo. Che faceva un teatro personale, legato alla sua fisicità, intrasmissibile. Un teatro esaltante e distruttivo, di forte potenza sul piano sociale e politico, un teatro che vinceva non con la ragione ma con la violenza. Un premio Nobel per il teatro gli sarebbe andato a pennello. Per la Letteratura, non c’entra niente. Un premio Nobel per la canzone a Bob Dylan sarebbe ben assegnato, per la Letteratura è un premio sghembo e di ripiego. Dicono: ma la sua canzone è poesia. Tutta l’arte è poesia, anche un film, anche una cattedrale. Ma dare il Nobel per la Letteratura a un regista non significa onorare il cinema, ma disprezzare gli scrittori. Tuttavia ragioniamo: se avessero dato il Nobel a uno scrittore saremmo ancora qui a parlarne dopo due giorni? L’hanno dato a un cantante, e non smetteremo mai. È una furbata, e funziona. (Ferrari) A vederla da vicino, sembrava ci fosse qualcosa di sproporzionato nella Hibbing High School, il grande complesso educativo che le compagnie minerarie fecero edificare

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nel 1918 a Hibbing, piccolo borgo del Minnesota a cento chilometri da Duluth e dal Lake Superior, dove il termometro d’inverno riesce a scendere a 46 gradi sotto zero, il 96 per cento degli abitanti sono da sempre bianchi e la popolazione non ha mai superato le 20 mila unità. Visitarla per quelli della mia generazione fu quasi un obbligo, perché lì negli anni Cinquanta aveva studiato il piccolo ebreo Robert Allen Zimmerman, quando ancora non si chiamava Bob Dylan. E qui, a dispetto di quella landa desolata e di quel grigiore eterno che non può che spingere un ragazzo a sognare altri mondi e se lo può a fuggire, bisogna lodare quella scuola, quei professori che gli hanno trasmesso quelle passioni omeriche, shakespeariane, quel gusto tutto americano per la grande letteratura che accende la fantasia e il talento di chi sa cosa farne, che lezione ricavarne, quali piccoli e grandi furti perpetrare dai versi di Blake, di Alceo, di Whitman, dalla Bibbia, dalla cultura bassa come da quella alta. Un’idrovora, un buco nero, il giovane Dylan, nella sua irridente e sfrontata marcia destinata a sovvertire la grande tradizione popolare nordamericana coniugandola con il rock, la modernità, una meteora che solca i cieli seminando speranza, confusione, esaltazione, accecamento, bagliori impensabili in quell’intreccio mai districabile fra la parola e la musica, recitarcantando e Sprechgesang, canzone folk e rock ballad. “Sono solo canzonette”, dicono da sempre i numerosi detrattori, oggi in armi e in lutto per il Nobel mancato a Philip Roth o a Cormac McCarthy (che lo meriterebbero ampiamente). E hanno ragione. Ma non sono le “canzonette” il marchio di Dylan, quelle sono semplicemente il veicolo su cui ha traghettato e depositato nel cuore della cultura orale americana (e immediatamente dopo mondiale) il suo densissimo universo in perenne mutazione, come un logografo dell’antica Grecia, curioso come Erodoto, sentenzioso come Plutarco, clericus vagans per inderogabile natura. Ancora oggi, a 75 anni, persegue con puntiglio il suo “never ending tour”, che lo conduce – evitiamo di proposito la pur trasparente metafora dell’ebreo errante – a esibirsi con la sua band in una tournée senza fine: un centinaio di date all’anno in tutto il mondo, attualmente siamo vicini ai tremila concerti a partire dal 1988. Certamente è un bene che il ricciuto menestrello di Blowin’ in the Wind e di Mister Tambourine Man, il profetico provocatore di Gates of Edene di Highway 61, il dolente cronista degli spenti amori di Tangled up in Blue e Simple Twist of Fate non esistano più. Da anni la voce di Dylan si è arrochita, l’intelligibilità delle liriche e delle melodie sfigurate, smozzicate, rivoltate come un guanto sfida duramente la buona volontà e l’ardore dei suoi fan, stuzzicandone la fedeltà e suscitando spesso abiure e dolorosi addii. In ogni caso – con buona pace di chi considera questo Premio Nobel un furto con destrezza ai danni dei veri scrittori – rimane difficile separare il musicista (a torto considerato un semplice folksinger) dal poeta. Come è difficile collocarlo, dargli una fisionomia, un profilo. Quando passò da Milano per una mostra a Palazzo Reale che ospitava alcuni suoi dipinti (di mediocre valore) si dileguò lasciando di sé la scia impalpabile della sua presenza. C’era davvero? Non c’era? Meglio di tutti l’ha rappresentato probabilmente il biopic del 2007 I’m not there (tradotto in Italia come Io non sono qui), sette ritratti di sette diverse possibili identità di Bob Dylan, senza che mai ci si possa illudere di imprigionarne definitivamente l’essenza. Così probabilmente vuole lui: anti-heideggerianamente, non esserci. A noi lascia il suo rutilante mondo di parole, quella “veggenza” rimbaudiana che esala da certe sue sulfuree quanto imperscrutabili visioni. Almeno tre generazioni sono cresciute con il martellante rintocco delle sue Chimes of Freedom, e ciascuno di noi ha inevitabilmente conservato qualcosa, un frammento, un verso, una reliquia della sua sterminata produzione, sapendo che – come accade con i grandi – contenerlo tutto è impresa impossibile. Accontentiamoci di ascoltarlo. Perché come (dylanianamente?) proclamava Rilke nei suoi Sonetti a Orfeo, « Gesang ist Dasein »: cantare è esistere. IL GAZZETTINO di sabato 15 ottobre 2016 Pag 1 Referendum: il vero obiettivo di chi dice no di Bruno Vespa La battaglia politica sul referendum sta sovrastando nettamente la discussione sul merito della nuova Costituzione. Il dibattito di queste settimane più che sulla opportunità o meno di accelerare il processo legislativo e di ridurre i poteri delle regioni sui temi strategici verte sulla opportunità di mantenere Renzi al governo o di mandarlo a casa, anche se non immediatamente. Nella commedia di Eduardo “Natale a casa Cupiello” il protagonista vorrebbe che il presepe che sta preparando piacesse al figlio. Quando

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questo gli risponde di no, lui comincia a fargli offerte di ogni genere e il figlio continua a rispondere no: il presepe non gli piace e basta. Quando ho mostrato il filmato di Eduardo a Roberto Speranza, uno dei capi della minoranza Pd, lui si è divertito e ci si è anche ritrovato. Renzi ha detto agli inquieti compagni di essere disposto a far eleggere i senatori come vogliono loro e a modificare la legge elettorale in tutti i modi possibili. Ma non è “quel” presepe che non piace a Bersani e ai suoi: è l’idea stessa di presepe. Quindi è inutile insistere. A meno di miracoli, il popolo della sinistra Pd al referendum voterà no e basta. Teme che il Sì rafforzerebbe il segretario del loro partito e poiché alle elezioni sarà lui a dare le carte per la formazione delle liste (come nel 2013 le dette Bersani) e sarà a lui a concedere poche candidature, come allora Bersani ne concesse poche agli amici di Renzi. E’ la politica bellezza… Da parte sua, il presidente del Consiglio ha capito molto bene che con l’economia ferma una parte cospicua dell’elettorato meno motivato potrebbe astenersi. E si sa tradizionalmente che chi protesta va alle urne più volentieri di chi non protesta. Chi vota no è più propenso a votare col freddo decembrino di chi voterebbe sì. Ecco perciò la spettacolare serie di provvedimenti che in larga parte tra poco saranno inseriti nella legge di stabilità. I sondaggi dicono che i Sì prevalgono dalla Toscana in su, mentre da Roma in giù prevalgono i no? Ecco allora l’annuncio di un concorso per diecimila nuovi assunti, soprattutto tra forze dell’ordine e infermieri. E si sa che ai concorsi partecipa soprattutto gente del Mezzogiorno. Si aggiungano il rinnovo (atteso da anni) dei contratti per il pubblico impiego, la riduzione delle tasse già annunciata per le imprese e l’impegno per l’Irpef nel 2018 , i pensionamenti anticipati, la quattordicesima ai pensionati più poveri, il sostegno alle famiglie disagiate, i bonus per le piccole partite Iva, la proroga dei 500 euro per i diciottenni e per l’aggiornamento professionale per gli insegnanti, le infrastrutture per il Sud e il ponte sullo Stretto. La potenza di fuoco è impressionante. Sia la sinistra Pd che il centrodestra non auspicano una caduta immediata di Renzi e tantomeno elezioni anticipate: non sarebbero pronti. Non vogliono abbatterlo, ma ferirlo gravemente per trattare in posizione di vantaggio liste e nuova legge elettorale. Ma pur avendo avuto una formazione democristiana, Renzi è uomo di sfondamento. C’è perciò da sperare che se vince il Sì, sappia gestirsi con saggezza ed equilibrio. Pag 1 Europa e Mosca, la difficile convivenza di Alessandro Orsini La Russia non può avviare una guerra frontale e duratura con l’Occidente per tre ragioni. La prima è legata alla sua inferiorità sul piano militare. La spesa militare della Russia è pari a 53 miliardi di dollari all’anno contro i 570 miliardi degli Stati Uniti. L’arretratezza dell’esercito russo è apparsa, in tutta la sua evidenza, durante la guerra del 2008 contro la Georgia. Una volta piegato questo piccolo nemico, la Russia ha avviato un ampio processo di modernizzazione del settore militare, che costerà circa 700 miliardi di dollari entro il 2020. Il fine è quello di trasformare l’esercito russo, da una forza di massa, concepita per affrontare scontri globali, in una forza leggera e dinamica, per risolvere conflitti locali e regionali. Un esempio di successo è rappresentato dalle rapide operazioni militari con cui le truppe di Putin hanno occupato la Crimea nel marzo 2014. Il progetto di modernizzazione dell’esercito russo non è stato concepito per intraprendere una guerra ampia, e di lunga durata, con i paesi occidentali. La seconda ragione è legata all’inferiorità sul piano delle alleanze. La Russia non dispone di alleati paragonabili, per potenza economica, peso strategico e capacità militari, agli alleati degli Stati Uniti. Quando si corre alle armi, una delle differenze principali tra Usa e Russia è che gli americani possono contare sul sostegno dei paesi più ricchi e potenti del mondo. Il livello di profondità delle relazioni tra Russia, Iran e Cina non è paragonabile, nemmeno lontanamente, alla profondità delle relazioni tra Stati Uniti, Israele, Inghilterra, Francia e Germania. Il 16 agosto 2016, il ministro della difesa russo annunciò che i suoi aerei avevano iniziato a decollare da una base iraniana per colpire le postazioni dell’Isis in Siria. L’Iran, che aveva chiesto alla Russia di mantenere segreta la notizia, s’infuriò e chiuse immediatamente le sue basi agli aerei di Putin. La terza ragione è forse la più importante di tutte. Se la Russia avviasse una guerra su larga scala contro l’Occidente, cadrebbe nella trappola della Casa Bianca. Come dimostra l’evoluzione militare della guerra in Siria, gli Stati Uniti sanno di non poter abbattere Putin, uccidendo direttamente i suoi soldati e abbattendo i suoi aerei. Tuttavia, se un nemico non può essere abbattuto

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dall’esterno, può essere abbattuto dall’interno. La Russia attraversa una crisi economica imponente, che ha spinto il suo governo a tagliare la spesa sociale. Anche in questo caso, la differenza tra il peso strategico degli alleati americani, e quello dei russi, balza agli occhi. L’Arabia Saudita, operando per favorire il crollo del prezzo del petrolio, ha drammaticamente impoverito la Russia. Nello stesso tempo, gli Stati Uniti, e l’Arabia Saudita, continuano a finanziare la guerra in Siria, che hanno perso in modo inoppugnabile, ma che possono trascinare ancora a lungo, armando i ribelli che lottano contro Bassar al Assad. Rifiutando di mollare la presa sulla Siria, gli americani costringono la Russia a finanziare una serie di operazioni militari esterne, che accrescono il suo impoverimento interno. I soldi che Putin spende, per difendere Bassar al Assad in Siria, vengono sottratti ai cittadini russi e, più in particolare, ai ceti meno abbienti, che hanno maggiore bisogno del sostegno economico dello Stato. Disoccupazione, e riduzione dei sussidi, creano il terreno favorevole alle rivolte interne: sia quelle di piazza, sia quelle di palazzo. Maggiore è il numero di guerre in cui la Russia è costretta a impegnarsi, maggiore è la rapidità del suo declino. L’affermazione, secondo cui la Russia aggredisce l’Occidente, andrebbe sottoposta al vaglio della ragione. Le due guerre che il blocco occidentale sta combattendo contro Putin sono entrambe in “casa” della Russia e non dell’Occidente. Fino al 2011, la Siria era un paese sotto il dominio russo, come lo era l’Ucraina, fino al 2014. Se gli americani perderanno queste due guerre, si ritroveranno nella posizione di partenza. Il che significa che non avranno perso niente. Se, invece, la sconfitta toccherà a Putin, la Russia perderà il controllo che esercitava sulla Siria e sull’Ucraina. Il che significa che avrà perso molto. In sintesi, l’obiettivo degli americani è accrescere il numero delle guerre con la Russia mentre l’obiettivo dei russi è ridurre il numero delle guerre con gli americani. Gli Stati Uniti sono una macchina perfetta per avanzare. La Russia è una macchina imperfetta per non arretrare. A differenza di ciò che crediamo, l’Occidente - pur essendo il più grande difensore dei diritti umani - non è una civiltà fondata sulla costruzione della pace. È una civiltà fondata sulla costruzione della pace, alla fine di una guerra. LA NUOVA di sabato 15 ottobre 2016 Pag 1 Manovre e furbetti da stanare di Bruno Manfellotto Gli esami non finiscono mai. Specie se l’allievo è l’Italia, i professori sono gli occhiuti censori di Bruxelles e la materia è la “manovra” 2017. E così oggi, premier e ministro dell’Economia snoccioleranno i numeri ufficiali dicendoci anche dove hanno trovato i 7 miliardi che finora mancano all’appello. E vabbè. Ma non finisce qui. Lunedì il pacco di documenti prenderà la via della Commissione europea alla quale spetta l’ultima parola. Specie su quel parametro chiamato “flessibilità” che ci sta a cuore, insomma la possibilità di rallentare i tagli al debito pubblico concordati con l’Ue. Trovando così i soldi necessari per ciò che Renzi vuole fare prima del referendum. Come sempre, al varo del Def, il documento di economia e finanza che regola i conti per l’anno a venire, si intrecciano questioni economiche e politiche, sulle quali grava stavolta il macigno referendum. Ma cominciamo dai numeri. Finora sappiamo che la manovra sarà pari a 24,5 miliardi, quanti ne servono per tenere il bilancio in ordine. Comunque la cifra più grossa - 15,1 miliardi - serve a disinnescare la cosidetta clausola di salvaguardia, una sorta di contratto firmato con l’Ue che prevede un consistente aumento dell’Iva nel caso non si riescano a fare i tagli di spesa concordati. Ma un aumento delle imposte sui consumi significherebbe un’ulteriore gelata per l’economia. Altri soldi servono per un pacchetto di investimenti pubblici, per spese non rinviabili e per finanziare le misure a favore delle pensioni minime e per il rinnovo del contratto per i pubblici dipendenti. E le entrate? Finora si è parlato di spending review, insomma di tagli di spesa per 2,6 miliardi, di lotta all’evasione fiscale e di voluntary disclosure (agevolazioni per chi fa rientrare in Italia capitali fuggiti all’estero) per un totale di 8,5 miliardi. Ma com’è noto, le risorse non si trovano solo tagliando, anche coltivando speranze e avviando trattative. La speranza è che l’economia cresca più di quanto dicano gli analisti: il Fondo monetario scommette su uno 0,9; l’authority che vigila sui conti pubblici, e che ha bocciato le stime del governo, su uno 0,8; il ministro Padoan è convinto invece che si arrivi all’1. Certo, può apparire un balletto insulso, ma ogni decimale vale più o meno 1,5 miliardi e soprattutto può alleggerire il rapporto deficit-Pil su cui vigila l’Ue. Con la quale siamo

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impegnati in una sfibrante trattativa: secondo gli accordi, nel 2017 dovremmo ridurre il rapporto deficit-Pil a 2,0 mentre Padoan e Renzi hanno chiesto che sia tollerato un 2,4 (flessibilità). La motivazione? Il terremoto e la questione migranti oggi tutta sulle nostre spalle. Quanto vale quello 0,4? Più o meno quanto serve, appunto, per terremoto e migranti: 6-7 miliardi. La commissione europea darà ascolto ai lamenti italiani? L’aria non è molto favorevole, anche se il presidente Juncker sembra più disponibile del commissario Moscovici. Per paradosso, si può sperare più in un sì politico che finanziario perché, come è a tutti evidente, economia e referendum finiscono per legarsi. E questo lo pensano anche i nostri partner europei. Il Def contiene alcune misure, come dire?, rassicuranti per gli elettori, e poi l’Italia, già colpita dal terremoto, si sta anche accollando tutta intera o quasi l’emergenza migranti. Non è il momento, dicono in molti a Bruxelles, di abbandonare Renzi al suo destino. Questione economica, questione politica. Ce ne sarebbe da aggiungere una morale, di giustizia sociale. Proprio mentre il governo iscrive nel Def 8,5 miliardi frutto della lotta all’evasione fiscale, l’Istat si immerge nell’economia nera, nel sommerso, nei traffici criminali, nel non dichiarato e stima che ben 211 miliardi di euro - pari a una decina di queste manovre, a 13 punti di Pil - sfuggano del tutto a controlli, tassazione e contributi. Ed è ancora più inquietante che, secondo l’Istat, la stragrande maggioranza del nero sia riconducibile non a droga, contrabbando e prostituzione ma all’evasione di tasse e contributi. I furbetti ci costano più dei delinquenti. E se qualcuno si decidesse a stanarne almeno un po’ avremmo risolto non pochi dei nostri problemi. Pag 8 Diffidenza a Oriente e Occidente di Giancesare Flesca Nel luglio del 2009 a Ginevra l’allora segretaria di Stato americana Hillary Clinton fece al suo omologo russo Serghej Lavrov un regalo assai significativo: un bottone rosso con la scritta Reset. Allora il neo presidente Barack Obama sperava di ricostruire un clima di fiducia e di distensione con la Russia dopo gli inasprimenti dovuti alla gestione Bush, e per un po’ parve a tutti che fra le due superpotenze fosse tornato il fair-play. Anno dopo anno, però, le cose sono cambiate, e proprio ieri il presidente Usa ha convocato una specie di gabinetto di guerra per intimare a Putin di “stare al suo posto”, come un tempo facevano le famiglie borghesi quando la servitù si allargava un po’ troppo. Contemporaneamente nello schizofrenico teatrino della nostra politica è “esplosa” una notizia che per la verità si sapeva dal mese di agosto, e cioè che un contingente di 140 soldati italiani sarà spedito nel 2018 in Lettonia, nell’ambito della consueta routine Nato. Oddio, apriti cielo! Le opposizioni tutte si sono affrettate ad accusare il governo di bieco militarismo, di russofobia, di pericoloso interventismo... Vediamo. Assieme ad altri 27 Paesi l’Italia fa parte della Nato, organizzazione per la difesa atlantica sorta durante gli anni della guerra fredda per difendere l’Occidente dal comunismo sovietico. Se un paese Nato veniva aggredito dall’orso russo, tutti gli altri sarebbero intervenuti a difenderlo. Finché è durata la guerra fredda, la Nato non ha mosso un dito. Subito dopo, per rifarsi, ha promosso la bellezza di sette operazioni belliche variamente definite, a partire dalla prima guerra del Golfo del 1991 per finire all’intervento in Libia del 2011, passando per Somalia, Iraq, Afghanistan, Serbia e Bosnia. Tutti questi conflitti hanno una sola caratteristica in comune: nessuno di loro rispondeva a una minaccia immediata verso paesi aderenti alla Organizzazione, a ciascuno di loro si è tentato di imporre un ordine internazionale a nostra immagine e somiglianza. Quattrocentomila sono le vittime totali di questa insensata striscia di sangue. Non sorprende perciò che i pacifisti di tutto il mondo, ma anche le persone dotate di un senso di rispetto per le vite e le scelte altrui, vedano la Nato come il panno rosso per il toro. E però che vorrebbe dire, oggi, uscire dalla Nato? L’amata Europa ha un esercito comune capace di difenderne i confini? Vogliamo arruolarci nella Confederazione euro-asiatica promossa da Vladimir Putin? Se anche così fosse, probabilmente il nuovo zar nemmeno ci vorrebbe. Non siamo mai stati parte dell’Impero russo e neanche di quello sovietico che Putin, manifestamente, vorrebbe ricostruire: un disegno rispetto al quale, a torto o a ragione (dice Sergio Romano), l’Occidente ha deciso di mettergli i bastoni fra le ruote. Per citare un caso, quando nel 2008 la Georgia tentò di conquistare l’Ossezia del Nord, nelle sue retrovie si scoprirono 800 “addestratori” americani. Sacrosanto comunque che i paesi ex comunisti e in vario modo affiliati all’Ue e alla Nato abbiano un grande timore. Mezzo secolo di

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dittatura comunista ti rendono quanto meno diffidente verso Mosca, e possono perfino giustificare certe posizioni che questi Stati assumono nei vari dossier europei, invocando gli eventi ucraini. Per la verità il caso ucraino è atipico e, per quanto deprecabile, ha una sua spiegazione nell’esistenza in quel paese di una forte minoranza russofona. Avendo in gran numero tali minoranze anche loro, i paesi baltici che fra due anni i nostri soldati andranno a presidiare, hanno chiesto e ottenuto un trattamento speciale da parte della Nato, come anche la Polonia. Ma la Polonia non ha minoranze di ceppo russo. La strategia di Putin si sviluppa invece verso il Caucaso, ma soprattutto verso i grandi Paesi asiatici dominati da Caterina seconda. Il grimaldello, come spiega un brillante studio di Agnia Grigas rilanciato da Newsweek, è appunto l’intensificarsi dei rapporti con le popolazioni russofone che a suo tempo Stalin mandò laggiù, per poi tirare la rete. Certo, se a un simile disegno si aggiunge la posizione dominante che il nuovo zar sta tentando di raggiungere in Medio-Oriente con tanta abilità e altrettanta barbarie, allora il prossimo inquilino della Casa Bianca farebbe bene a riprenderselo, quel pulsante, o ad usarlo per un’autentica revisione del potere planetario. Torna al sommario