Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le...

45
RASSEGNA STAMPA di mercoledì 12 febbraio 2020 SOMMARIO “Se vogliamo diventare in questo secolo – commenta Alessandro Rosina sul Gazzettino di oggi - uno dei Paesi demograficamente più squilibrati, con tutte le implicazioni economiche e sociali che ne conseguono, i dati più recenti Istat ci dicono che siamo sulla strada giusta. La popolazione italiana non cresce più, è anzi oramai da cinque anni in continuo arretramento, conseguenza di un saldo migratorio che non riesce più a compensare il saldo naturale in rosso sempre più profondo. La questione centrale non è però quanti siamo in valore assoluto, ma come muta il rapporto relativo tra le generazioni più giovani e quelle più anziane. È certamente positivo il fatto di vivere più a lungo. Su questo processo l'Italia non è una anomalia, presenta valori simili ai Paesi avanzati più virtuosi. Ciò che alimenta in modo accentuato gli squilibri italiani è invece la persistente bassa natalità che rende ogni nuova generazione demograficamente più esile rispetto alle precedenti. Detto in altre parole, a fronte della crescita degli anziani, più degli altri Paesi l'Italia associa un indebolimento dei giovani, ovvero della componente a cui poter affidare crescita economica e sostenibilità del sistema di welfare. Che non vi sia alcuna inversione di tendenza in atto rispetto all'allargarsi degli squilibri demografici, lo evidenzia soprattutto l'andamento della fecondità. Il numero medio di figli per donna è sceso, dopo gli anni più acuti della crisi, sui livelli più bassi in Europa e non accenna a risalire. Cosa lo ha fatto scendere così tanto e cosa frena la sua risalita? Alcune indicazioni interessanti si possono ottenere da due realtà con evoluzione positiva negli ultimi dieci anni. Il primo caso è quello della Germania, che da livelli inferiori rispetto alla fecondità italiana nel 2008, si trova oggi vicina alla media europea. Il secondo caso è quello della Provincia di Bolzano, che, a differenza del dato nazionale, presenta oggi valori più elevati rispetto all'inizio della crisi economica. Queste due realtà hanno soprattutto due elementi in comune. Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta di avere un figlio, rafforzando fiducia e clima sociale. Dove, invece, questo non è avvenuto, è cresciuto un diffuso senso di insicurezza verso il futuro, che anziché stemperarsi dopo la crisi, sembra sceso in profondità. La seconda condizione favorevole che caratterizza sia la Germania, nel contesto europeo, e sia la Provincia di Bolzano, nel quadro nazionale, è il basso tasso di Neet (gli under 35 che non studiano e non lavorano). Nel resto d'Italia tale indicatore è tutt'ora sopra i livelli pre-crisi. Non è un caso che la bassa fecondità italiana sia soprattutto da ricondurre, come mostrano i dati dettagliati dell'Istat, ad un crollo delle nascite realizzate prima dei 30 anni e ad una difficoltà a recuperare in età 30-34. La prima fascia d'età soffre, infatti, soprattutto delle difficoltà ad agganciare i propri progetti di vita a solidi percorsi formativi e di lavoro (da cui deriva un continuo rinvio oltre i trent'anni del primo figlio). La seconda fascia si scontra, invece, soprattutto con i limiti della conciliazione tra lavoro e famiglia (con aumento del rischio di rinuncia ad andar oltre il primo figlio). Un ulteriore riscontro è il peggioramento accentuato della fecondità nelle regioni meridionali. Per superare difficoltà oggettive e insicurezze soggettive servono misure solide e strutturali, in grado di inserirsi coerentemente all'interno di una visione positiva del Paese, nella quale collocare la scelta di avere un figlio. Difficile però che questo avvenga in un Paese schiacciato in difesa - come rivela l'acceso confronto sulle pensioni - molto restio a portare le proprie priorità dalla difesa degli interessi e dei diritti delle generazioni più mature all'investimento in una nuova fase di crescita attraverso la promozione delle scelte e delle opportunità delle nuove generazioni”. Per Mauro Magatti, che ha scritto sul Corriere della Sera di oggi, “il problema nasce dal fatto che in Italia, più che altrove, ci si ostina a non collocare la questione demografica nella giusta cornice. Che è quella della sostenibilità integrale, per la quale l’elemento intergenerazionale è essenziale. Il confronto internazionale

Transcript of Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le...

Page 1: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

RASSEGNA STAMPA di mercoledì 12 febbraio 2020

SOMMARIO

“Se vogliamo diventare in questo secolo – commenta Alessandro Rosina sul Gazzettino di oggi - uno dei Paesi demograficamente più squilibrati, con tutte le implicazioni

economiche e sociali che ne conseguono, i dati più recenti Istat ci dicono che siamo sulla strada giusta. La popolazione italiana non cresce più, è anzi oramai da cinque

anni in continuo arretramento, conseguenza di un saldo migratorio che non riesce più a compensare il saldo naturale in rosso sempre più profondo. La questione centrale non è però quanti siamo in valore assoluto, ma come muta il rapporto relativo tra le generazioni più giovani e quelle più anziane. È certamente positivo il fatto di vivere più a lungo. Su questo processo l'Italia non è una anomalia, presenta valori simili ai

Paesi avanzati più virtuosi. Ciò che alimenta in modo accentuato gli squilibri italiani è invece la persistente bassa natalità che rende ogni nuova generazione

demograficamente più esile rispetto alle precedenti. Detto in altre parole, a fronte della crescita degli anziani, più degli altri Paesi l'Italia associa un indebolimento dei

giovani, ovvero della componente a cui poter affidare crescita economica e sostenibilità del sistema di welfare. Che non vi sia alcuna inversione di tendenza in

atto rispetto all'allargarsi degli squilibri demografici, lo evidenzia soprattutto l'andamento della fecondità. Il numero medio di figli per donna è sceso, dopo gli anni più acuti della crisi, sui livelli più bassi in Europa e non accenna a risalire. Cosa lo ha

fatto scendere così tanto e cosa frena la sua risalita? Alcune indicazioni interessanti si possono ottenere da due realtà con evoluzione positiva negli ultimi dieci anni. Il primo caso è quello della Germania, che da livelli inferiori rispetto alla fecondità italiana nel 2008, si trova oggi vicina alla media europea. Il secondo caso è quello della Provincia

di Bolzano, che, a differenza del dato nazionale, presenta oggi valori più elevati rispetto all'inizio della crisi economica. Queste due realtà hanno soprattutto due elementi in comune. Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche

familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta di avere un figlio, rafforzando fiducia e clima sociale. Dove, invece, questo non è avvenuto, è

cresciuto un diffuso senso di insicurezza verso il futuro, che anziché stemperarsi dopo la crisi, sembra sceso in profondità. La seconda condizione favorevole che

caratterizza sia la Germania, nel contesto europeo, e sia la Provincia di Bolzano, nel quadro nazionale, è il basso tasso di Neet (gli under 35 che non studiano e non

lavorano). Nel resto d'Italia tale indicatore è tutt'ora sopra i livelli pre-crisi. Non è un caso che la bassa fecondità italiana sia soprattutto da ricondurre, come mostrano i

dati dettagliati dell'Istat, ad un crollo delle nascite realizzate prima dei 30 anni e ad una difficoltà a recuperare in età 30-34. La prima fascia d'età soffre, infatti,

soprattutto delle difficoltà ad agganciare i propri progetti di vita a solidi percorsi formativi e di lavoro (da cui deriva un continuo rinvio oltre i trent'anni del primo

figlio). La seconda fascia si scontra, invece, soprattutto con i limiti della conciliazione tra lavoro e famiglia (con aumento del rischio di rinuncia ad andar oltre il primo figlio). Un ulteriore riscontro è il peggioramento accentuato della fecondità nelle

regioni meridionali. Per superare difficoltà oggettive e insicurezze soggettive servono misure solide e strutturali, in grado di inserirsi coerentemente all'interno di una

visione positiva del Paese, nella quale collocare la scelta di avere un figlio. Difficile però che questo avvenga in un Paese schiacciato in difesa - come rivela l'acceso

confronto sulle pensioni - molto restio a portare le proprie priorità dalla difesa degli interessi e dei diritti delle generazioni più mature all'investimento in una nuova fase

di crescita attraverso la promozione delle scelte e delle opportunità delle nuove generazioni”. Per Mauro Magatti, che ha scritto sul Corriere della Sera di oggi, “il

problema nasce dal fatto che in Italia, più che altrove, ci si ostina a non collocare la questione demografica nella giusta cornice. Che è quella della sostenibilità integrale, per la quale l’elemento intergenerazionale è essenziale. Il confronto internazionale

Page 2: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

(in primis con la Francia, dove una politica lungimirante ha riportato il tasso di fertilità a 2,01 bambini per donna) mostra chiaramente che solo un’azione mirata e

prolungata permette di affrontare la questione. Se si vuole restituire ai nostri giovani la possibilità di scegliere di costruire una famiglia occorre dunque mettere in campo

una strategia complessiva. Non singole misure spot come si è fatto negli ultimi decenni. Per questo, prima ancora di mettersi a elencare i vari interventi possibili, occorre superare la contesa ideologica (famiglia sì, famiglia no) che ha occupato il

dibattito pubblico nel nostro Paese e convenire finalmente su una visione positiva e realista. In primo luogo, mettere al mondo, accudire e educare i figli non è

semplicemente un atto privato, che riguarda chi decide di darlo, ma è una decisione che ha rilievo di interesse generale. Un contributo allo sviluppo della società italiana nella prospettiva della sostenibilità integrale di lungo periodo. In secondo luogo, in

una società avanzata esistono tanti tipi di famiglia, più o meno stabili. Sappiamo anche, però, che il lavoro di cura è un lavoro difficile che si estende su almeno due decenni. Per quanto oggi un tale compito non possa più essere fatto ricadere solo

sulla famiglia – che spesso non è nella condizione di poterlo fare – rimane il fatto che il suo svolgimento sia più facile (e meno costoso) se si è in due: è nell’interesse sociale

che il nucleo familiare abbia una certa stabilità. In terzo luogo, è in atto nella vita sociale una lenta ma profonda rinegoziazione dei rapporti di genere. Su tanti piani

diversi. Da qualunque parte la si voglia prendere, al cuore c’è la questione femminile. Tanto più se si tiene conto che il livello di studio delle ragazze è oggi superiore a

quello dei ragazzi. Se non si affronta e si risolve - dentro e fuori la famiglia (a cominciare dall’ambito lavorativo) - la questione femminile, non sarà possibile nessun rilancio. Né economico né demografico. In quarto luogo, la famiglia non è una cellula autosufficiente. Non lo è mai stata e lo è ancora meno oggi. Il suo nucleo più intimo

può esistere e funzionare solo dentro un ecosistema. E poiché il contesto tradizionale (fatto di reti parentali e di vicinato) non esiste più, ne va costruito uno nuovo. Vale

qui il vecchio detto africano «per crescere un bambino ci vuole un villaggio». Cioè una comunità. Che oggi va ricostituita tessendo una rete di spazi, contesti, servizi.

Quando questo non accade, si arriva al paradosso che il mettere al mondo figli diventa un privilegio di chi sta bene. Infine, va riconosciuto e premiato il ruolo educativo della famiglia. Tutto ciò che i genitori spendono per far sviluppare le doti e le capacità dei

propri figli - in ambito scolastico, professionale, artistico, sportivo e così via - va considerato come un investimento che ha nel formare persone e cittadini migliori il

suo ritorno sociale” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Ca’ Letizia, cancelli aperti contro le soste in strada di Fulvio Fenzo In attesa del trasloco, si punta ad alleggerire l’impatto sulla zona Pag VIII Carpenedo, un salasso per sistemare il rosone crollato 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO L’anziano come maestro di senso di Gabriella Gambino Pastorale della Chiesa e vecchiaia Vittorio Bachelet, una lezione esemplare di Matteo Truffelli Vittorio Bachelet, la santità della porta accanto di Gianni Di Santo AVVENIRE Pag 8 I “nuovi” Legionari di Cristo di Riccardo Maccioni Dal rapporto choc sugli abusi al cambiamento del governo. La necessità di difendere il

Page 3: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

carisma dalle ombre nere del fondatore IL FOGLIO Pag 2 La querida Amazzonia è la prova del fuoco per il pontificato di Francesco di Matteo Matzuzzi Oggi sarà promulgata l’esortazione. Il modello “Amoris laetitia” LIBERO Il Vaticano promuove Medjugorje. «La Madonna è apparsa davvero» di Caterina Maniaci Indiscrezioni sui risultati dell'inchiesta. La Commissione istituita da Ratzinger avrebbe riconosciuto la natura sacra perlomeno delle prime visioni. Non risparmiando però critiche a uno dei veggenti: ci ha speculato IL GAZZETTINO Pag 8 Preti sposati in Amazzonia, arriva la frenata del Papa di Franca Giandsoldati Sfuma la proposta fatta per la carenza di vocazioni nell’area grande quanto l’Europa VATICAN INSIDER Amazzonia, dal Papa nessuno spiraglio per i preti sposati di Domenico Agasso jr Francesco non menziona la questione in «Querida Amazonia», l’esortazione post sinodale pubblicata oggi. Più responsabilità a diaconi, suore e laici. No al diaconato femminile SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister) Il silenzio di Francesco, le lacrime di Ratzinger e quella sua dichiarazione mai pubblicata 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 19 In Italia mai così pochi figli. Meglio al Nord, record a Bolzano di Alessandra Arachi Mattarella: “Fenomeno da contrastare”. I dati Istat: sempre più mamme over 30 Pag 19 Non c’è solo la detanatalità: tanti in fuga dal Meridione di Federico Fubini Pag 24 Diventare mamma e papà è sempre più difficile di Mauro Magatti LA REPUBBLICA Pag 26 Culle vuote, politica cieca di Massimo Giannini Pag 26 La madre francese di Anais Ginori AVVENIRE Pag 1 Chiamata d’emergenza di Massimo Calvi Denatalità: è tempo di risposte Pag 5 Nascite, indietro di un secolo di Maurizio Carucci e Paolo Ferrario Si diventa madri sempre più tardi. Gli stranieri raggiungono il 10% della popolazione residente Pag 12 Poesia di un padre separato per l’addio alle figlie “vietate” di Luciano Moia IL GAZZETTINO Pag 1 Un Paese senza figli che non investe sul futuro di Alessandro Rosina Pag 6 Culle sempre più vuote, l’anno scorso sono nati solo 435.000 bimbi di

Page 4: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Claudia Guasco Rapporto Istat: l’età media delle madri sale a 32,1 anni e pesa la difficoltà a conciliare lavoro e famiglia Pag 7 Meglio la vita di coppia ma non è fondamentale di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Il 45% dei nordestini ritiene importante avere una relazione stabile al giorno d’oggi dieci anni fa la percentuale era al 59% Pag 27 Le difficoltà di coppia questione generazionale di Paolo Legrenzi LA NUOVA Pag 6 Siamo il Paese delle culle vuote. Mai così male da oltre un secolo di Flavia Amabile La fotografia Istat: nel 2019 il saldo peggiore tra nati e morti Pag 7 De Rita: “C’è paura di impoverirsi. E i giovani rifiutano i sacrifici” di Giacomo Galeazzi Il fondatore del Censis: “Si tende sempre più a rinviare in avanti il passaggio alla vita adulta” Pag 7 Per il rilancio c’è una sola strada: puntare sul lavoro di Roberta Carlini Pag 8 Fra trent’anni in Veneto 82 inattivi ogni 100 lavoratori. Welfare in pericolo di Gianpiero Dalla Zuanna La tendenza si può combattere, a partire dalle politiche locali applicando i principi di sussidiarietà e uguaglianza 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 14 Acqua alta, il progetto per San Marco di Roberta Brunetti Venezia, presentato il piano per dotare la piazza di un sistema di protezione invisibile. Oggi si allaga già a 87 centimetri LA NUOVA Pag 2 Piazza restaurata e protetta dall’acqua. Masegni da riparare, pompe e valvole di Alberto Vitucci Presentato ieri il progetto che il Provveditorato ha affidato a Kostruttiva. Trenta milioni e protezione fino a quota 110 CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Pompe, valvole, barriere. Un piano da 30 milioni per salvare San Marco di Alberto Zorzi Oltre il Mose: presentati i dieci interventi chiave per proteggere la piazza. La guerra alle barriere di vetro in Basilica: “Fate presto per poterle stoppare” 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Chi sono i veri indigeni di Luigi Copiello Chiampo e dintorni Pag 9 Corsi di formazione ai medici per il suicidio assistito: “Vale solo per i malati terminali” di Silvia Moranduzzo … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA

Page 5: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Pag 1 Un’Europa in cerca di difesa di Franco Venturini La Ue e la sicurezza AVVENIRE Pag 3 I danni della falsa sicurezza e della logica emergenziale di Antonio Maria Mira Accoglienza e inclusione / 1: la circolare del Viminale è solo un primo passo Pag 3 Due giusti cardini per l’asilo: volontariato e professionalità di Maurizio Ambrosini Accoglienza e inclusione / 2: la circolare del Viminale, il nodo è la qualità LA NUOVA Pag 11 Tempeste di vento e terra che si riscalda. Colpa del carbonio e dell’indifferenza di Mario Tozzi Solo Greta e il Papa protestano

Torna al sommario

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Ca’ Letizia, cancelli aperti contro le soste in strada di Fulvio Fenzo In attesa del trasloco, si punta ad alleggerire l’impatto sulla zona Mestre. L'obiettivo resta quello del trasferimento. Ma il difficile trasloco (e, soprattutto, la scelta del luogo dove riaprire) sembra essere un'operazione ancora più complicata di quanto si prevedeva. E così, per tamponare la situazione e ridurre i disagi di chi ci vive attorno, la mensa serale di Ca' Letizia aprirà i cancelli in anticipo per accogliere i poveri ed evitare le soste lungo via Querini, davanti ai condomini o sotto i portici. Con la sistemazione anche del cortile e l'arrivo degli uffici della Caritas al terzo piano del Centro pastorale Albino Luciani. TEMPI PIÚ LUNGHI - Se, fino a qualche mese fa, la scelta della nuova sede della mensa gestita dalla San Vincenzo mestrina era data per certa entro la fine del 2019, pare ormai sicuro che per la decisione definitiva si dovrà attendere ancora qualche mese, alla quale si dovranno poi aggiungere i tempi tecnici per le operazioni di trasloco di arredi e cucine. «L'emergenza acqua alta e il caso delle Muneghette a Venezia ha indubbiamente avuto il sopravvento, rallentando le altre priorità - spiega don Fabrizio Favaro, rettore del Seminario e vicario episcopale per i servizi e gli affari economici del Patriarcato -. Ma l'obiettivo di individuare un'altra sede per Ca' Letizia resta una priorità e continua la concertazione con il Comune per studiare tutte le alternative possibili a quella attuale. In attesa di questo trasferimento abbiamo comunque pensato di intervenire per alleggerire ulteriormente l'impatto della mensa e migliorare il decoro dell'area esterna. Aprendo il cancello del Centro pastorale agli ospiti che attendono di entrare si eviteranno gli stazionamenti in strada - prosegue don Fabrizio Favaro -. Inoltre sostituiremo i contenitori in lamiera usati come depositi con delle casette di legno, il tutto con un impegno economico sostenuto dalla Diocesi». 120 COPERTI AL GIORNO - In queste settimane l'attività della mensa dei poveri sta intanto proseguendo a pieno regime, con una media di 120 coperti al giorno, più altri 10-15 cestini con la cena che vengono dati a quanti risultano non proprio in condizioni tali da poter entrare all'interno dei locali. «Si vogliono evitare problemi se queste persone si presentano dopo aver bevuto, ma non possiamo evitare di aiutarli offrendogli comunque un pasto, perché altrimenti continuerebbero ad ingerire alcolici» spiega Stefano Bozzi, presidente della San Vincenzo che, con i suoi instancabili volontari, continua a garantire questo servizio ormai da anni al centro di ripetute polemiche per la sua presenza nel centro cittadino. Delle cinque persone sono state definitivamente espulse dalla mensa, un paio non bazzicano più in zona mentre le altre si ritrovano stabilmente sotto i portici di via Carducci, nei pressi del discount In's dove si

Page 6: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

riforniscono di birre e cartoni di vino. Un disagio (ed un degrado) quindi non imputabile a Ca' Letizia sul quale vigilano stabilmente gli agenti della polizia locale che, nei giorni scorsi, hanno anche sanzionato un bar sotto i portici, vietando per un mese la vendita di alcolici dopo le 16.45. Pag VIII Carpenedo, un salasso per sistemare il rosone crollato È stato un miracolo che non si sia fatto male nessuno, ma ora - per trovare tutti i soldi necessari a sistemarlo - ne servirà anche un altro. Per ripristinare il rosone interno della facciata della chiesa dei santi Gervasio e Protasio di Carpenedo (due quintali crollati da 15 metri di altezza durante la messa del 7 luglio scorso), la parrocchia dovrà sborsare la bellezza di 40mila euro. «E, nonostante il contributo di 10mila euro stanziato dal Comune e il rimborso previsto dall'assicurazione - spiega il parroco don Gianni Antoniazzi nell'ultimo numero del foglietto Lettera aperta -, si rischia davvero di non riuscire a coprire interamente la spesa». Superati i tempi burocratici per l'approvazione del progetto di ripristino da parte dell'Ufficio chiese della Curia e della Soprintendenza, nelle scorse settimane è arrivata l'autorizzazione a dare il via alla sostituzione del rosone interno, mentre quello esterno si trova tuttora puntellato per sicurezza. E a questo punto sono arrivati i preventivi delle ditte: «Complessivamente la spesa potrebbe arrivare a quasi 40mila euro in quanto dobbiamo rispettare i requisiti previsti dalla legge - spiega don Gianni -. La Soprintendenza ci ha chiesto di ricomporre i telai, rinnovare le parti murarie adiacenti, sostituire le reti esterne mettendone altre meno visibili e di realizzare gli interventi adatti a dare stabilità alle opere». In questi giorni è iniziata la ricostruzione del nuovo rosone interno che riprodurrà fedelmente quello precedente degli inizi del 900. «Il Comune di Venezia ha stanziato 10mila euro per i lavori - conclude il sacerdote -. L'assicurazione che abbiamo sempre pagato ci dice che c'è un massimale e nel nostro caso prevede di non riuscire a coprire interamente la spesa. Supplichiamo tutti di contenere le spese».

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO L’anziano come maestro di senso di Gabriella Gambino Pastorale della Chiesa e vecchiaia Persino nei più ampi consessi internazionali si è ormai messa nell’Agenda dei prossimi anni l’urgenza di una decisa tutela delle persone anziane nell’ottica dell’inclusione, tutelandole dalla cultura dell’“ageismo” - che vede come un disvalore il passare degli anni - e da ogni forma di discriminazione. Correggere la rappresentazione negativa e svilente della vecchiaia che oggi domina molte società deve essere un impegno culturale ed educativo che coinvolge tutte le generazioni. La vita è un dono, sempre, e finché continueremo a non dare valore alla vecchiaia non sapremo dare valore nemmeno alla vita nascente e ai bambini, ai malati e a chiunque manifesti una modalità di essere diversa da quell’ideale fittizio di perfezione edonistica e narcisistica di cui sono imbevuti la post-modernità e il mercato. È ora di agire, affinché coloro che avanzano negli anni possano invecchiare con dignità, senza temere di essere ridotti a non contare più nulla. Per questo dobbiamo modificare l’attivismo di alcuni contesti ecclesiali in un atteggiamento di maggiore ascolto, cura e discernimento dei bisogni di chi va più lento per l’affievolirsi delle forze, ma può essere parte viva e attiva della società. Siamo Chiesa e come tali ci dobbiamo sentire interpellati a intervenire e a inventare con creatività la pastorale delle persone anziane. Abbiamo bisogno di una pastorale attenta alla diversità dei bisogni e mirata alla valorizzazione delle capacità e possibilità di ciascuno. Ciò richiede due atteggiamenti interiori: una forte volontà di conversione del cuore per cogliere il significato profondo del valore della persona anziana e l’attitudine al dono tra le generazioni. C’è un comandamento molto bello nelle tavole della Legge, bello perché corrispondente al vero, capace di generare una riflessione profonda sul senso della nostra vita: «Onora tuo padre e tua madre». Onore in ebraico significa

Page 7: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

«peso», valore; onorare vuol dire riconoscere il valore di una presenza: quella di coloro che ci hanno generato alla vita e alla fede. E che non sono solo i nostri genitori, ma i nonni e coloro che ci hanno preceduto nelle generazioni. «È il comandamento che contiene un esito» - ci spiega Papa Francesco - poiché onorando chi ci ha preceduto possano prolungarsi i nostri giorni e siamo felici (Dt 5, 16). La realizzazione di una vita piena e di società più giuste per le nuove generazioni dipende dal riconoscimento della presenza e della ricchezza che costituiscono per noi i nonni e gli anziani, in ogni contesto e luogo geografico del mondo. E tale riconoscimento ha il suo corollario nel rispetto, che è tale se si esprime nell’accoglienza, nell’assistenza e nella valorizzazione delle loro qualità. La vecchiaia si manifesta come un “tempo favorevole”, ove tutto converge, perché possiamo cogliere il senso della vita e raggiungere la “sapienza del cuore”. Ma è necessario creare le condizioni perché tutti noi da anziani possiamo maturare quella sapienza, ossia la «forza tranquilla con cui si mette ordine a ciò che accade nella vita, si conserva il passato e si porta avanti il futuro», una sorta di risolutezza che rende la vita densa, seria e preziosa. È la bellezza profonda di questo insegnamento che dobbiamo trasmettere alle nuove generazioni, con una pastorale nuova e intergenerazionale, che sappia mettere in dialogo i ragazzi, fin dal catechismo, con gli anziani del loro quartiere, nella parrocchia, per le strade e nelle case. Dobbiamo creare le condizioni concrete perché ci sia davvero uno scambio di doni tra le generazioni. Ciò ci aiuta a preparare i nostri figli a una vita densa, fatta di servizio e di dialogo, affinché un giorno sappiano accettare l’avanzare degli anni, l’affievolirsi delle forze e abbiano essi stessi una vecchiaia bella. In concreto, considerando l’eterogeneità della situazione degli anziani nelle centinaia di diocesi sparse per tutto il mondo, così come nei differenti contesti culturali e sociali, possiamo concludere insieme tenendo a mente alcuni punti da mettere in agenda. 1. Considerare il grande popolo degli anziani come parte del popolo di Dio e non solo come oggetto di un’attenzione caritatevole. Essi sono una parte considerevole del laicato cattolico e hanno esigenze particolari di cui dobbiamo tenere conto. Per questo è necessario che le diocesi creino degli uffici dedicati alla pastorale degli anziani. 2. Una pastorale in uscita. La pastorale degli anziani, come ogni pastorale, va inserita nella nuova stagione missionaria inaugurata da Papa Francesco con Evangelii gaudium. Ciò significa: annunciare la presenza di Cristo alle persone anziane. L’evangelizzazione deve mirare alla crescita spirituale di ogni età, poiché la chiamata alla santità è per tutti, anche per i nonni. Non tutte le persone anziane hanno già incontrato Cristo e anche se l’incontro c’è stato, è indispensabile aiutarli a riscoprire il significato del proprio Battesimo in una fase speciale della vita e in una triplice direzione: a) per ritrovare lo stupore dinanzi al mistero dell’amore di Dio e all’eternità; b) per superare la concezione, molto diffusa, di un Dio giudice che punisce, e scoprire invece la relazione con il Dio dell’amore misericordioso; c) per chiedere agli anziani che fanno parte delle nostre comunità di essere attori della nuova evangelizzazione per trasmettere essi stessi il Vangelo. Essi sono chiamati a essere missionari. Dove? Tra gli anziani, i malati, i poveri, con i bambini, nelle famiglie, e come sposi con testimonianze di vita. 3. Non impostare la pastorale degli anziani come un settore isolato, ma secondo un approccio pastorale trasversale. È necessario che in ogni ambito del nostro impegno ecclesiale li teniamo presenti: la pastorale giovanile, familiare, laicale. In questo senso il Dicastero per i laici, la famiglia e la vita terrà presenti gli anziani nell’ambito dell’incontro mondiale delle famiglie e della Gmg. 4. Valorizzare i doni e i carismi delle persone anziane, nell’attività caritativa, nell’apostolato, nella liturgia, per esempio coinvolgendoli di più nel diaconato permanente, nei ministeri del lettorato e dell’accolitato. Ma anche nei servizi liturgici, nel lavoro di segreteria per la parrocchia, e come ministri dell’Eucaristia. 5. Sostenere le famiglie e farsi presenti con loro quando hanno la necessità di accudire nonni anziani. Le famiglie devono essere “casa” per i nonni. Bisogna favorire il permanere dell’anziano nella propria casa con forme di assistenza domiciliare integrata e la formazione di operatori e volontari all’altezza delle necessità. E sostenere l’associazionismo familiare: le famiglie da sole non ce la possono fare. È necessario favorire reti tra famiglie perché si sentano di poter condividere fatiche e responsabilità con altre famiglie. Per gli anziani, il radicamento nella propria famiglia è un fattore essenziale al loro benessere, negli studi internazionali è secondo solo al valore salute. E

Page 8: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

bisogna proteggerli con determinazione e coraggio da ogni forma di abuso e violenza, psicologica, fisica e morale, nelle famiglie come nelle istituzioni, facendo riferimento alle varie istanze, civili ma anche ecclesiastiche, in cui si possano denunciare gli abusi senza timore. Allo stesso modo, dobbiamo promuovere nelle famiglie un atteggiamento di stima nei confronti dei nonni, che possono avere un ruolo educativo essenziale nella trasmissione della fede, nella memoria delle radici, nella testimonianza della preghiera. Nel mondo iperconnesso, che cambia a una velocità tecnologica a volte disumanizzante, gli anziani restano spesso esclusi. Ci sono anziani che imparano a usare la rete e i suoi strumenti digitali, ma anche molti anziani che non hanno più le capacità cognitive per farlo e restano esclusi. Non hanno accesso alle dinamiche virtuali che ingabbiano i loro figli e nipoti e divengono silenziosi osservatori di un mondo che tende ad annullare e travolgere radici, memoria, tradizioni, valori umani e cristiani. Il loro ruolo è indispensabile per ricordarci da dove veniamo, poiché «l’uomo è un essere narrante», che ha bisogno di «rivestirsi di storie per custodire la propria vita». 6. Arginare la cultura dello scarto. Pensiamo a quanti anziani chiedono di essere ricoverati in istituto per non essere di peso. In futuro il senso della propria inutilità potrebbe avere esiti ancora più preoccupanti. E in alcuni Paesi già si propone l’eutanasia - esplicitamente condannata dalla Chiesa - per le persone anziane sole, stanche di vivere. Perciò, laddove delle persone si stiano domandando se la propria vita sia ancora utile o interessi a qualcuno, ebbene, lì c’è un vuoto che la pastorale della Chiesa deve riempire, c’è un bisogno di un uomo che grida, che cerca una mano in aiuto. Cerchiamo questi vuoti, tendiamo le nostre mani con coraggio e amore. Come fa Dio Padre con ciascuno di noi, quando manifestiamo la nostra debolezza e gli chiediamo aiuto. 7. Curare la spiritualità degli anziani, perché la religiosità degli anziani, accanto alla pietà e alla pratica devozionale, sia immersa in una autentica relazione spirituale profonda con Dio. L’uomo che invecchia non si avvicina alla fine; piuttosto ha bisogno di avvicinarsi a Dio e al mistero dell’eternità: 1) con l’apostolato della preghiera, che tutti gli anziani, anche i più malati, possono compiere. Ogni anziano malato, con la preghiera, può abbracciare il mondo e lo può cambiare con la sua forza! Anche quando è debole, infatti, ogni persona può farsi strumento della storia della salvezza. 2) Con la cura dei sacramenti: Riconciliazione, Eucaristia e Unzione degli infermi, spiegando meglio questo incredibile dono dello Spirito Santo, che troppe persone nel mondo confondono con un sacramento che annuncia la morte, quando invece è la forza per affrontare con serenità e fiducia qualunque difficoltà dell’anima e del corpo. 3) Con il dialogo spirituale: con l’avanzare degli anni la persona continua a vivere il succedersi di fasi diverse nella vita spirituale ed è necessario che ci prendiamo cura delle domande, del bisogno di intimità con Cristo e di condivisione della fede, che esiste anche nelle età più avanzate della vita. Non servono strategie, ma relazioni umane da cui possano scaturire reti di collaborazione e solidarietà tra diocesi, parrocchie, comunità laicali, associazioni e famiglie. Servono reti solide con radici forti, non iniziative frammentate e fragili, anche se è dai semi più piccoli - come il granellino di senapa - che a volte nascono i progetti più grandi. Ricordiamoci, come diceva Romano Guardini, che la vecchiaia è l’epoca della saggezza, che spesso è il frutto dell’esperienza: «Ciò che si viene a creare quando l’assoluto e l’eterno penetrano nella coscienza e da questa gettano luce sulla vita». Nell’affievolirsi delle forze, l’anziano, sebbene spesso meno attivo, irradia: con la sua saggezza può rendere manifesto il senso delle cose. E di questo senso l’uomo, per rimanere tale, avrà sempre bisogno. Vittorio Bachelet, una lezione esemplare di Matteo Truffelli Tutta la vita di Vittorio Bachelet ci offre la testimonianza esemplare di un credente capace di abitare in maniera significativa il proprio tempo: nella dimensione familiare così come in quella ecclesiale, in quella politica come in quella culturale. Spazi in cui Bachelet seppe mettere in gioco la propria fede a servizio della costruzione di una società più fraterna, più giusta, più umana. Traducendo in scelte precise e in uno stile di vita mite e generoso una fede profonda, asciutta, vissuta non come insieme inscalfibile di certezze e di risposte per ogni situazione ma come fiducia, affidamento e consegna di se stesso. Nella certezza che la storia è storia di salvezza. «Per costruire ci vuole la

Page 9: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

speranza», disse nel 1973, al momento di lasciare la presidenza generale dell’Azione Cattolica Italiana. «In fondo io penso - continuava - che noi dovremmo riflettere molto le grandi parole che diceva [Papa] Giovanni all’inizio del Concilio: “Ci sono quelli che vedono sempre che tutto va male, e invece noi pensiamo che ci siano tante cose valide, positive”. Noi dobbiamo tenerlo fermo come atteggiamento di speranza, che ci consente di vincere anche queste ombre, di vincere anche questi rischi, di vincere il male con il bene. E questo vale anche nella vita della società. (...) anche qui, se ci saranno situazioni difficili (e ci saranno probabilmente anche qui delle situazioni difficili), dobbiamo sempre tenere presente una fiducia fondamentale, che non è quella nelle nostre forze o in formulette, ma è quella nell’aiuto finale di Dio e nella capacità che avremo, se fideremo in Lui, di volgere le cose al bene». È da questo atteggiamento di fondo che possiamo ricavare il cuore della lezione di Bachelet per i credenti di oggi, e in modo particolare per i credenti laici, chiamati a spendere i propri talenti sul terreno non facile dell’impegno sociale e politico. È nota, in questo senso, l’immagine utilizzata da Paolo VI, Papa che tanto stimava Vittorio e che Vittorio tanto amava: «i nostri laici», diceva, «fanno da ponte. E ciò non già per assicurare alla Chiesa un’ingerenza (...), ma per non lasciare il nostro mondo terreno privo del messaggio della salvezza cristiana». Un’immagine di cui proprio Bachelet colse tutta la forza, quando ricordava che «per essere “ponte” bisogna essere saldamente cristiani e vigorosamente uomini del nostro tempo; non per subirne quanto vi è di corruzione, ma per viverne con linearità, con fortezza, ma con animo aperto la ricchezza di esperienza. Bisogna essere in entrambe le comunità vivi, attivi e responsabili. Giacché come ogni ponte, il laico è sottoposto alla tensione della grande arcata». È questa la dinamica peculiare che sperimentano i credenti che si pongono a servizio del proprio tempo: la condizione di una continua “tensione”, un continuo inarcamento tra contesti, esperienze, spinte spesso tra loro contrapposte, frammentate e divergenti. Nella consapevolezza che il bene per il quale si è chiamati a spendere senza risparmio tutti i propri talenti, le proprie energie e la propria coscienza formata sarà sempre un bene parziale, inadeguato, relativo. È proprio prendendo le mosse da questo snodo decisivo che Bachelet indicava nell’acquisizione di un profondo senso del significato della storia la condizione indispensabile per poter agire dentro il mondo da credenti. Egli era convinto, infatti, che mettere la propria fede a servizio del bene possibile comportasse sì la necessità di educarsi «a una lineare aderenza agli essenziali immutabili principi», ma che occorresse «in pari tempo» formarsi e formare ciascuno «al senso storico, alla capacità cioè di cogliere il modo nel quale quei principi possono e debbono trovare applicazione». «Se non si distinguono con chiarezza i valori perenni e immutabili del bene comune dai suoi mutevoli contenuti storici», ammoniva infatti Bachelet con lucidità, «si rischia che dall’inevitabile mutare dei secondi finiscano per apparire travolti anche i primi». Un modo di concepire il rapporto tra fede e storia per nulla scontato, all’epoca come oggi. Ma è proprio qui che si colloca la radice più profonda della lezione che Bachelet ci ha lasciato e che suona tanto più preziosa per i tempi in cui viviamo. Il nostro tempo, infatti, sembra se possibile ancor più sfidante per la fede di quello in cui visse Vittorio. Le grandi trasformazioni dentro cui siamo immersi interpellano i credenti, con cambiamenti che aprono possibilità inedite ed entusiasmanti, ma dischiudono anche rischi finora forse solo immaginati dalla letteratura e dai grandi miti antichi. Trasformazioni enormi sotto il profilo culturale, economico, geopolitico, ambientale, interrogano la nostra fede, esponendoci alla tentazione di fare di essa una barriera dietro cui trincerarci per difenderci dalle vicende del nostro tempo e, in particolare, dal confronto che esso ci impone con chi può apparire come una minaccia, perché portatore di valori, tradizioni, visioni dell’uomo differenti dalle nostre. Finendo, così, per perdere di vista il nucleo stesso della nostra fede, che ci impone di vedere in chi è diverso da noi il volto del fratello, e non del nemico. Già molto tempo fa Bachelet vedeva bene questo pericolo. «Oggi è di moda l’integralesimo», scriveva appena ventunenne: «Umanesimo integrale, cristianesimo integrale (...). E fin qui non possiamo che esser d’accordo. Il guaio comincia quando dalle parole si passa ai fatti. (...) Succede allora, per esempio, che invece di essere il cristianesimo a regolare in pieno ogni atteggiamento della nostra vita, siamo noi che trasportiamo i nostri piccoli modi di vedere nella concezione stessa del cristianesimo, e mentre siamo in buona fede convinti di attuare un cristianesimo integrale, non facciamo in realtà che deformare spesso paurosamente la stessa

Page 10: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

concezione cristiana. (...) portati dal corso stesso delle cose a concepire il cristianesimo, la Chiesa cattolica, come un gigantesco fronte di combattimento che - come tutti i fronti - divide gli uomini in due schiere: quelli che stanno al di qua e quelli che stanno al di là, gli amici e i nemici. Ora bisogna intendersi: (...) Se nemico è colui che non ama, allora è vero senz’altro che i cattolici hanno molti tenaci nemici: ma se nemico è colui che non si ama, allora è più vero ancora che i cattolici non hanno nemici. (...) Questo può essere più difficile oggi, in una società spezzettata o atomica, in cui ogni piccola frazione sente il dovere di chiudersi nella sua piccola fortezza puntando sulle altre le proprie batterie. (...) Ad ogni modo è certo che, qualunque possa essere la difficoltà, alla legge non si può derogare. (...) Se i cristiani sapessero sempre amare così, essi avrebbero certamente meno nemici. Perché è difficile resistere alla forza dell’amore». Solo apparentemente la tragica morte di Bachelet segna una sconfitta di questo modo di porsi, da credente, dentro il proprio tempo. La storia ci testimonia infatti che la sconfitta autentica attendeva coloro che pensarono di poter cambiare il proprio tempo usando la violenza contro la mitezza, la forza contro la ragione, l’ideologia contro la democrazia. Il seme gettato dentro la società dalla testimonianza esemplare di Vittorio continua invece dopo quaranta anni a portare frutto. Vittorio Bachelet, la santità della porta accanto di Gianni Di Santo «Hanno ucciso Bachelet». Ricordo bene quel 12 febbraio del 1980. Avevo appena quindici anni e il mio parroco, don Enrico Ghezzi, piangeva come un disperato, ripetendo a voce alta: «hanno ucciso Bachelet». «Ma Bachelet chi?», si chiedevano i ragazzi presenti in parrocchia, «quel signore sempre sorridente che viene a messa la domenica e sta sempre all’ultimo banco con sua moglie, la signora Miesi?». «Vittorio», esclamò don Enrico, «è il papà di Maria Grazia, la vostra catechista, la sorella di Giovanni che ora è in America a studiare». Sì, ogni tanto capitava di incrociare il volto sorridente di Vittorio all’interno della “nostra” chiesa in cemento armato in stile moderno. La prima delle famose “cattedrali del deserto” che in quegli anni cominciarono a spopolare nelle periferie urbane delle grandi città, ancora oggi ubicata in un quartiere chiamato Labaro. Una grande chiesa per un territorio e una comunità che si espandevano a vista d’occhio. I Bachelet, in particolare con l’impegno di Maria Grazia, sono stati i nostri primi catechisti, i nostri primi educatori. Li aveva convinti a impegnarsi in questo angolo di periferia romana il parroco, don Enrico, in virtù di un’amicizia personale cresciuta con gli scout nella parrocchia di Sant’Eugenio, a due passi dal cuore della borghesia romana, dove si conobbero. Così, quando don Enrico più tardi divenne parroco al Labaro, decisero di regalare del tempo prezioso a una comunità cristiana di Roma nord. Una dedizione silenziosa al servizio verso un’emarginazione culturale e sociale, più che economica, che si toccava con mano in quel lembo di periferia. Maturata nel solco del Concilio Vaticano II, fortificata nel Convegno sui “mali di Roma” del 1974, fondata sulla Parola sacra, sulle biografie dei profeti e sull’esempio dei testimoni della “santità quotidiana”. In realtà nessuno di quei giovani ragazzi aveva mai accostato il nome, così importante, di Vittorio Bachelet alla sua famiglia, sempre nascosta ai riflettori, sobria nei comportamenti, così umile. Ma in quei giorni, soprattutto durante la celebrazione dei funerali nella chiesa di San Roberto Bellarmino, anche la biografia di Vittorio appariva nuova, tracciata dai segni del Vangelo. E dal sangue del martirio. La preghiera del “perdono” letta da Giovanni in chiesa, che tanto impressionò l’opinione pubblica, non fu altro, anche per la gente di una periferia a nord della capitale, che il naturale proseguimento di uno stile cristiano fedele alla “buona notizia”: «vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri». Nel giorno dei funerali, scoprimmo in fondo che il sorriso di Vittorio - sì, proprio quel signore che ascoltava la messa seduto in disparte - non era altro che un mirabile esempio di come la vita vince la morte. E di come il martirio si fondi soprattutto su una santità della porta accanto. Facendo affidamento, nella vita di ogni giorno, alle cose che contano veramente: la famiglia, il lavoro, la preghiera, l’etica nell’impegno pubblico. Anche grazie a Vittorio Bachelet, a Paolo Giuntella e Laura Rozza, a un giovanissimo Michele Nicoletti che teneva lezioni di filosofia ai ragazzi della parrocchia, ai consigli di

Page 11: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Pietro Scoppola - una piccola pattuglia avanzata del cattolicesimo democratico -, la parrocchia di San Melchiade al Labaro divenne per lungo tempo un centro di eccellenza (si direbbe così oggi) nello studio della Parola, nei corsi biblici e teologici, nelle catechesi per adulti, nella circolazione di idee e contenuti che si battevano per il bene comune, nel territorio, nella città. Un laboratorio di “buona speranza”. Una piccola battaglia culturale e persino ecclesiale - dal centro della città alla periferia, e viceversa - provata a vincerla con le armi della radicalità evangelica, della formazione delle coscienze e di una spiritualità contemplativa bensì ancorata all’essenziale e a un tessuto sociale fatto di gente semplice. Perché, in fondo, il vero miracolo Vittorio già lo aveva fatto. Il suo volto sorridente accompagnava le vite di tante persone, sussurrava parole di coraggio ai progetti ecclesiali, rendeva viva la “buona battaglia” della testimonianza evangelica. E se siamo consapevoli che con la sua morte violenta, insieme a quella di Aldo Moro, la parola “democrazia” abbia risentito di un deficit di attuazione secondo quanto stabilito dalla Costituzione repubblicana, siamo altrettanto certi che la testimonianza di vita di Vittorio Bachelet abbia in qualche modo unito cielo e terra, fedeltà al Vangelo e fedeltà alla polis. Dicendoci che sapienza, sorriso, coraggio, giustizia, stile e sobrietà, perdono e riconciliazione sono parole da non disperdere nel lessico politico ed ecclesiale. Persino auspicabili. Oggi come allora. In centro e in periferia. Nella Chiesa e nel paese. AVVENIRE Pag 8 I “nuovi” Legionari di Cristo di Riccardo Maccioni Dal rapporto choc sugli abusi al cambiamento del governo. La necessità di difendere il carisma dalle ombre nere del fondatore Roma. Il passato nessuno è in grado di cambiarlo. Resta quello. Però puoi trasformarlo da nemico in alleato, farlo diventare memoria sapiente, occasione di crescita, via di purificazione. L’importante è evitare errori grossolani, discernere bene, essere attenti nel separare la zizzania, destinata al macero, dal grano buono. Un’immagine evangelica che può essere applicata al Capitolo generale dei Legionari di Cristo, Congregazione alle prese con la drammatica e per certi versi paradossale esigenza di salvaguardare il proprio carisma dalla tragica eredità del fondatore, il messaggio dal messaggero. A dodici anni dalla sua morte infatti la cattiva fama di padre Marcial Maciel Degollado, abusatore seriale, arrivato a esercitare violenza sui suoi stessi figli, continua a gettare una pesante ombra nera da cui è difficile liberarsi. E lo stesso vale per la rete di connivenze, per i silenzi complici che l’hanno accompagnato e coperto. Non a caso, in avvio dei lavori, ai capitolari, 66 sacerdoti provenienti da nove “territori”, è stato presentato un rapporto, una “Radiografia di otto decenni per sradicare gli abusi” in cui sono raccolti i risultati di un’indagine interna sui casi accertati dal 1941 ad oggi. I numeri parlano di 175 minori, di età tra gli 11 e 16 anni, vittime di 33 sacerdoti, tra cui 14 con incarichi di responsabilità. Il solo Maciel è stato riconosciuto responsabile di 60 abusi. Parallelamente è esploso il caso di Fernando Martinez Suarez, dimesso dallo stato clericale perché riconosciuto colpevole di violenze su sei bambine agli inizi degli anni ’90, e accusato anche di abusi, nel 1969, su di un bimbo. Da notare che Martinez era stato a sua volta vittima di Maciel. Come si capisce la presentazione del rapporto ha senso solo se pensata per mettere al centro i diritti e la cura degli abusati, per andare all’origine dei casi, per valutare l’efficacia delle misure già adottate, i cosiddetti “ambienti sicuri”, ed eventualmente stabilirne di nuove. Lavoro, appunto, nell’agenda del Capitolo generale che ha come altre priorità il bilancio degli ultimi sei anni, l’elezione del nuovo governo nonché le sfide dell’evangelizzazione e le questioni urgenti per il prossimo sessennio. Compiti cui Regnum Christi, la Federazione di cui i Legionari fanno parte, affronterà forte degli Statuti entrati in vigore il 15 settembre scorso dopo l’approvazione della Santa Sede, ad experimentumper 5 anni, arrivata l’11 giugno 2019. Frutto di un cammino di revisione lungo 9 anni. La nuova configurazione canonica prevede che Regnum Christi sia appunto una Federazione, formata e governata collegialmente dai Legionari di Cristo, le consacrate e i laici consacrati, con voce e voto consultivo dei laici che vi si associano individualmente. Si tratta, come si capisce, di un organigramma che per funzionare ha bisogno di armonia, di un’orchestra in cui ciascun musicista deve conoscere bene ed eseguire con cura il proprio spartito. A cominciare dal nuovo direttore generale del Legionari di Cristo, eletto lo scorso 6 febbraio dal Capitolo.

Page 12: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Si tratta di padre John Connor, 51 anni, statunitense, già superiore territoriale in Nord America con esperienze anche in Germania, Italia e Spagna. Dicono le cronache che è il primo non messicano alla guida della Congregazione. Scelta che potrebbe essere un ulteriore segno della volontà di cambiamento. Dalle parole ai fatti. Dalla “malattia” alla guarigione, ma senza nascondere le “cicatrici”. Da un governo centralizzato, quasi monocratico, a una guida più collegiale. Padre Manuel Alvarez Vorrath, 45 anni, direttore territoriale per l’Italia dei Legionari di Cristo, commenta con pacato ottimismo gli scenari che emergono dal Capitolo generale della Congregazione. Si tratta di guardare con realismo e concretezza al futuro, a partire però, e non potrebbe essere altrimenti, dall’ombra scura lasciata dal fondatore. Perché l’oggi è segnato dalla realtà di un carisma che resiste all’infezione della sua radice, che va avanti nella sua missione malgrado la pesante eredità lasciata da Marcial Maciel il cui comportamento criminale, a 12 anni dalla morte, non smette di stupire e indignare. «È importante chiarire – sottolinea padre Alvarez – che una volta approvato, il carisma non è più della Congregazione e neanche del fondatore ma appartiene alla Chiesa, supera i limiti della stessa istituzione che l’ha generato. I carismi sono una sottolineatura del Vangelo, un modo per seguire Gesù. Non bisogna farne un assoluto perché lo scopo è arrivare a Dio ma al tempo stesso vanno preservati perché sono un suo dono. Io credo, ma è una mia personalissima chiave di lettura, che in una società di uomini “fragili” il Signore scelga strumenti che lo sono a loro volta per far vedere che l’opera è sua. Se fosse solamente umana sarebbe già finita». Immagino sia difficile far capire la differenza tra la vita del fondatore e la vostra. Come si può recuperare credibilità nell’opinione pubblica? Certo l’ideale sarebbe che messaggio e messaggero fossero un tutt’uno. Si è credibili quando la propria vita è coerente col messaggio che si annuncia, nel nostro specifico la verità evangelica. Penso sia stato molto importante, sebbene emotivamente impegnativo e anche doloroso, aver fatto luce sul caso degli abusi; abbiamo cercato nel modo più approfondito e serio possibile di documentare quello che purtroppo è accaduto. Chi si affaccia dall’esterno saprà vedere nella trasparenza, nell’onestà e nella serietà di indagine e di ascolto con cui abbiamo affrontato questi temi la coerenza delle scelte. È questo a renderci credibili. Si tratta di un cammino che dura tutta la vita per ognuno di noi. Poi a dimostrare che si è diversi dal fondatore, più delle parole conteranno le persone, le loro vite, le nostre realtà spirituali e sociali, i fatti. Quello in corso si può definire il Capitolo della rinascita? In realtà si tratta del primo Capitolo generale ordinario in senso stretto, perché prima era il fondatore che decide- va tutto. Poi nel 2014 è arrivato il Delegato Pontificio ed abbiamo rifatto le costituzioni e scelto un nuovo governo. In questo Capitolo abbiamo l’elezione del direttivo, le eventuali modifiche alle norme introdotte ad experimentume le linee guida per i prossimi sei anni. Abbiamo cominciato dagli abusi perché la relazione presentata a dicembre 2019 aveva fatto scalpore. Adesso vogliamo “prendere il largo” per portare avanti la gioia di evangelizzare, della missionarietà, di essere “Chiesa in uscita”. È questo che dà senso alla nostra vita. Le vicende, terribili, degli abusi sembrano non finire mai... Le vittime hanno i loro tempi, arrivano a denunciare dopo periodi di maturazione che sono diversi da una all’altra, spesso molto lunghi. Si tratta di decidere prima come agire quando i casi vengono evidenziati, in modo che al primo posto sia messo chi ha subito abusi e dopo come fare luce sui percorsi realizzati finora. Con grande onestà, facendo i necessari “mea culpa”, evidenziando che magari non siamo stati sempre all’altezza per accogliere ed ascoltare come avremmo dovuto o abbiamo ceduto a un certo negazionismo istituzionale. Si è ipotizzato persino di cambiare il nome della Congregazione... Anche se la proposta è arrivata sul tavolo nel 2014 non l’abbiamo fatto perché abbiamo guardato alla Passione. Il Signore quando risorge si presenta con le stimmate, per far capire che è proprio Lui. Noi abbiamo deciso di fare la stessa cosa. Cerchiamo di operare un rinnovamento vero rimanendo quel che siamo, non cambiando l’immagine con un’aggiustatina, con una truccatina. Dobbiamo essere noi stessi, con la nostra vita, a parlare, a testimoniare chi siamo.

Page 13: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Il report sugli abusi ha fornito i numeri di queste vicende terribili. Non sarebbe stato opportuno fare subito tutti i nomi dei chierici coinvolti? Ci sono due aspetti da considerare: da una parte il Papa l’anno scorso parlando ai presidenti delle Conferenze episcopali ha ricordato che fin quando c’è un’indagine in corso si presume l’innocenza, perché se si fa un nome, quella persona viene “uccisa” dai media e poi, nell’eventualità di un’assoluzione, ristabilire la buona fama risulta impossibile. L’altro aspetto riguarda le legislazioni civili, con situazioni anche molto diverse tra loro. Ci sono Paesi europei in cui le norme sulla privacy sono molto esigenti. In altri, ad esempio gli Stati Uniti, dove invece è consentito, abbiamo fatto i nomi laddove la colpevolezza sia stata accertata. La prassi cambia da realtà a realtà. Dove le leggi lo permettano e i processi canonici sono finiti si valuterà caso per caso quando sia conveniente farlo per il bene delle vittime e della società. Ci siamo impegnati a sradicare questi crimini dalla congregazione. Un altro aspetto fondamentale riguarda però la prevenzione. Abbiamo attivato un codice di condotta per la protezione dei minori che prevede anche una selezione molto più rigorosa per chi chiede di entrare in noviziato. Ma controlli, filtri, riguardano tutto il periodo di formazione, che dura circa 13 anni, non poco. Quanto ai casi sospetti, per garantire la massima trasparenza sin dall’avvio, le indagini interne si avvalgono di consulenti e di specialisti “esterni”; la persona accusata, su cui si apre formalmente un’indagine, viene automaticamente ritirata dal ministero pubblico. Inoltre periodicamente la Praesidium, Inc, un’organizzazione indipendente impegnata nel campo della protezione dei minori, verifica con degli audit come stiamo lavorando. Vogliamo rendere sicuri i nostri ambienti e istituzioni. Malgrado la crisi, continuate ad avere vocazioni. Non sono i numeri di prima ma ancora oggi nel Seminario qui a Roma ci sono 250 seminaristi. Comunque più della quantità conta che anche grazie al rinnovamento della formazione, dell’approccio, i seminaristi cerchino davvero la santità, la gioia di seguire Gesù, la gloria di Dio, il servizio alla Chiesa e il bene delle persone. Che abbiano un’identità forte di uomini di Dio, realizzati, gioiosi, capaci di rendere testimonianza che il Vangelo può riempire la vita. Si è parlato molto del quarto voto che vi impediva di parlare male del fondatore. È la prima cosa che ha tolto Benedetto XVI. Non si poteva criticare un superiore se non con uno più in alto in modo da fermare le critiche, le maldicenze. In sé non era una cosa malvagia però abbiamo visto che impediva di fare luce sulle cose che non andavano. Ma c’è anche un quinto voto che manteniamo ancora: quello di non desiderare per sé o per altri, incarichi e ruoli di prestigio in seno alla Congregazione. Così da evitare il carrierismo. Abbiamo lasciato tutto per servire. Oltre a chi fa parte del Regnum Christi, ci sono sacerdoti e vescovi per così dire “amici”. Aderiscono alla spiritualità, il nostro movimento come tutti gli altri è uno strumento che ti dà elementi, mezzi di perseveranza, di apostolato per arrivare al Signore. Alla fine si tratta di andare in cielo, il resto sono solo mezzi. Qui a Roma abbiamo il Pontificio Collegio Maria Mater Ecclesiae che è nato per formare i formatori di Seminario. Tra quelli usciti da lì otto sono diventati vescovi. Una struttura simile si trova anche in Brasile a San Paolo. Sono i vescovi a decidere chi mandare. State sperimentando la collegialità. La scelta della Santa Sede di dare autonomia ai laici e alle consacrate laiche è stata molto saggia, però l’elemento del carisma e la missione restano comuni. In questo senso la Federazione del Regnum Christi ci sembra la forma canonica che può rispondere meglio all’esigenza di collaborare insieme sia a livello generale che di province. Ma lei quando ha saputo dei comportamenti del fondatore ha pensato di uscire? Ricordo che mia madre me lo chiese a bruciapelo: cosa pensi di fare? Io le ho risposto che ci stavo pregando su, ma che fino ad allora la mia vita nella Legione era stata felice. E che a farmi più male era vedere i confratelli e le consorelle soffrire, perché loro erano, e sono tuttora, un’altra parte della mia famiglia. IL FOGLIO Pag 2 La querida Amazzonia è la prova del fuoco per il pontificato di Francesco di Matteo Matzuzzi

Page 14: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Oggi sarà promulgata l’esortazione. Il modello “Amoris laetitia” Roma. Alle 12 di oggi sarà svelato l'arcano che dallo scorso autunno domina ogni discussione sul Sinodo amazzonico, celebrato in Vaticano a ottobre. Cosa ha deciso il Papa sul punto più delicato e controverso, quello relativo alla necessità di garantire i sacramenti per le popolazioni degli sperduti villaggi dell'immensa foresta? Ipotesi e veline ne sono circolate parecchie nelle ultime settimane, spesso in contraddizione l'una con l'altra. C'è chi giura d'aver visto il via libera ai viri probati, cioè a uomini anziani ordinati, e chi invece assicura che il tema non sarà neppure sfiorato nelle pagine di Querida Amazonia, questo il titolo dell'esortazione apostolica firmata dal Papa lo scorso 2 febbraio e completata a fine dicembre. Quel che si sa, che è ufficiale e ampiamente dibattuto, è la proposta dell'assemblea sinodale, votata a maggioranza qualificata e sottoposta al Pontefice per le sue valutazioni. Il paragrafo 111 afferma infatti che "considerando che la legittima diversità non nuoce alla comunione e all'unità della chiesa, ma la manifesta e ne è al servizio, come testimonia la pluralità dei riti e delle discipline esistenti, proponiamo che, nel quadro di Lumen Gentium 26, l'autorità competente stabilisca criteri e disposizioni per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, i quali, pur avendo una famiglia legittimamente costituita e stabile, abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato al fine di sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica. A questo proposito, alcuni si sono espressi a favore di un approccio universale all'argomento". Se Francesco recepisse in toto tale assunto, si tratterebbe di un cambiamento epocale, perché è evidente che un'apertura di tale portata non resterebbe confinata ai villaggi dell'Amazzonia. Già in Germania, dove è in corso un drammatico Sinodo biennale dagli esiti potenzialmente devastanti per l'unità della chiesa cattolica - il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, proprio ieri ha fatto sapere di non essere disponibile a un nuovo mandato quale presidente della locale Conferenza episcopale -, non pochi vescovi si sono detti pronti ad adeguarsi alle disposizioni che saranno adottate dal Papa per la regione sudamericana. Ed è proprio questa una delle ragioni che secondo alcuni avrebbe fatto tirare il freno a mano a Francesco, chiudendo alla prospettiva tanto invocata nell' assise di ottobre. Ieri, secondo alcune interpretazioni e traduzioni un po' forzate, si era diffusa la voce secondo la quale il Papa, conversando con alcuni vescovi americani dello Utah e del Wyoming, avrebbe assicurato che nell'esortazione non v'è traccia dell'ordinazione dei "preti sposati", tema che tra l'altro non è mai stato all'ordine del giorno - nel documento post sinodale non si parla neanche di viri probati. In realtà, Francesco ha semplicemente detto che chi si focalizza su quel tema resterà deluso. E' quanto affermò prima della promulgazione di Amoris laetitia, al termine del doppio Sinodo sulla famiglia. Ed è probabilmente proprio quell'esortazione il modello da considerare nelle ore che precedono la presentazione al pubblico di Querida Amazonia. E' evidente che un Sinodo non è stato convocato per lasciare tutto com'era né per lanciare dal pulpito romano qualche denuncia sul male del mondo, il colonialismo e la deforestazione. E poiché il Sinodo l'ha convocato Francesco, che ben sapeva quali sarebbero state le richieste dei vescovi locali, sarebbe sorprendente se l'esortazione si riducesse a una serie di non possumus. LIBERO Il Vaticano promuove Medjugorje. «La Madonna è apparsa davvero» di Caterina

Maniaci Indiscrezioni sui risultati dell'inchiesta. La Commissione istituita da Ratzinger avrebbe

riconosciuto la natura sacra perlomeno delle prime visioni. Non risparmiando però critiche a uno dei veggenti: ci ha speculato

Medjugorie: milioni di pellegrini ogni anno, conversioni, vocazioni, opere di carità, saggi e studi di ogni genere, polemiche, una commissione che ha prodotto migliaia di pagine con fatti, tedtimonianze, indagini in incognito. E alla fine ecco i risultati: nessuna origine diabolica, nessuna manipolazione. Tra le prime apparizioni della Madonna, sette sono autentiche. Piuttosto sono "banali" i messaggi quotidiani, e i cosiddetti segreti non

Page 15: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

hanno alcuna approvazione ecclesiastica. Perplessità anche sui presunti veggenti, in primis a causa di un rapporto ambiguo con il denaro, soprattutto in un caso particolare. Serve un più costante e approfondito accompagnamento spirituale dei pellegrini e un nuovo santuario. Sono questi, in sintesi, i punti salienti della relazione ancora top segret della Commissione pontificia, istituita da Benedetto XVI e guidata dal cardinale Camillo Ruini, che aveva lo scopo di fare chiarezza sul fenomeno delle apparizioni mariane. Risultati destinati a suscitare molte reazioni, e anche molti malumori. Queste conclusioni, a grandi linee, erano già state rese note, nel 2017, da papa Francesco, in attesa che fosse pubblicata la relazione finale della Commissione, documento che poi il Pontefice avocò a sè. Ora i particolari di queste trenta pagine sono stati diffusi da Davide Murgia - giornalista, saggista, e autore di diversi programmi televisivi per Tv2000, la televisione della Cei - nel suo blog personale (ilsegnodiGiona.com). Murgia sottolinea come la relazione sia «un vero capolavoro», che per metodologia e ricerca «dovrebbe essere studiata e proposta come modello nelle università», elogiato pubblicamente dallo stesso Francesco. Pagine molto chiare ed efficaci, spiega ancora il giornalista, che potranno aiutare tutti coloro che «cercano la verità, sia quelli che non credono a Medjugorie sia quelli che ci credono come il sottoscritto». La Commissione ha redatto questo documento a partire dal 2010, ha lavorato per quasi quattro anni, attraverso 17 riunioni plenarie. Ne hanno fatto parte 13 membri, a cui si sono aggiunti 4 esperti. «La Commissione internazionale ritiene di poter affermare con ragionevole certezza che le prime sette apparizioni risultano intrinsecamente credibili», si legge nel documento, e ci si riferisce a quelle avvenute dal 24 giugno al 3 luglio 1981, «perché capaci di suscitare in chi le ha vissute un risveglio della fede, una conversione del modo di vivere e un rinnovato senso di appartenenza alla Chiesa». Ma il punto che maggiormente provocherà reazioni - «mal di pancia», li definisce Murgia - è quello in cui la Commissione stessa si esprime rispetto ai comportamenti dei presunti veggenti - un gruppo di sei ragazzini, a cui poi se ne sono aggiunti altri due, ma dal quale successivamente ne sono usciti due - soprattutto per il rapporto, definito ambiguo, con il denaro. Esiste un dossier su questo tema scottante, rimasto segreto per decenni, di cui Murgia annuncia che scriverà «nei prossimi giorni». In sostanza, secondo gli esperti vaticani, i veggenti si sono fatti coinvolgere dalla «ricerca di un benessere personale», senza poter contare su un maturo «accompagnamento spirituale». Ma la Commissione pontificia si è espressa con chiarezza specialmente sui cosiddetti messaggi, la presunta "vita di Maria", "il grande segno" e i famosi "dieci segreti". Contraddistinti, secondo la relazione, da una «banalità ripetitiva», senza la presenza di quegli elementi «tipici» della comunicazione «soprannaturale», ossia la «indeducibilità e l'eccedenza». Anche se tutti questi messaggi sono in linea con la "fides Ecclesiae", la fede della Chiesa. IL GAZZETTINO Pag 8 Preti sposati in Amazzonia, arriva la frenata del Papa di Franca Giandsoldati Sfuma la proposta fatta per la carenza di vocazioni nell’area grande quanto l’Europa Città del Vaticano. Niente preti sposati in Amazzonia. Tanto meno donne diacono. Per sopperire alla carenza di vocazioni i vescovi continueranno a mandare in quelle zone dei sacerdoti in prestito, i cosiddetti fidei donum. E dire che durante il sinodo sull'Amazzonia se ne era parlato tanto. Era stato detto che i preti sposati potevano costituire una soluzione accettabile in una regione grande quasi quanto l'Europa visto che alcune comunità vedono un missionario se va bene una volta l'anno. Durante il sinodo c'era un misto di entusiasmo e speranza per una imminente piccola, timida svolta da parte del Papa a favore dei viri probati, persone di provata fede con moglie e figli. Un drappello di vescovi e cardinali brasiliani avevano anche esercitato un discreto pressing. DUBBI - Nel documento finale la proposta era contenuta in un passaggio, il numero 111, il più divisivo, approvato con 128 voti e 41 contrari. Poi nel corso di questi tre mesi qualcosa è cambiato, il dibattito è proseguito sottotraccia, in modo carsico e al Papa sono arrivati i giudizi negativi di tanti big del collegio cardinalizio sfavorevoli ad aperture. Qualcuno ha persino evocato un possibile scisma se solo Francesco nella sua Esortazione Post Sinodale - che viene presentata stamattina, e ha come titolo: Querida Amazzonia, Diletta Amazzonia - avesse accolto e fatto diventare regola la consacrazione

Page 16: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

di uomini sposati. Da allora i toni si sono fatti più dubbiosi, causando sacche di resistenza. Fino al colpo finale, il libro del Teologo Ratzinger e del cardinale ultra-conservatore Robert Sarah pubblicato per scongiurare una eventuale spinta in avanti da parte di Francesco. Nessuno saprà mai se il Papa ha subito pressioni e se Querida Amazzonia è stata nel frattempo cambiata in extremis, magari sbianchettata in alcuni punti critici, riformulata per evitare uno scontro atomico. In ogni caso le tifoserie dei due Papi in queste settimane hanno duellato a distanza. L'entourage di Francesco ha insistito molto nel sottolineare che la sua posizione non è mai cambiata e che è sempre stato contro ad ogni apertura ed eccezione. Di segno opposto i fan di Ratzinger. Un po' di tempo fa hanno pubblicato persino una bozza non ufficiale in cui appariva la temuta apertura. L'Esortazione Apostolica, nella versione finale, è un testo ortodosso, ripercorre le tematiche ambientali, la necessità di preservare il polmone verde amazzonico, il rispetto della biodiversità la tutela delle popolazioni indigene che stanno scomparendo sotto i colpi del land-grabbing, delle politiche di Bolsonaro e del disboscamento delle multinazionali assai attive anche in Perù, Bolivia, Equador, Colombia, Venezuela. Francesco si concentra sull'eucarestia come fulcro della vita cristiana. Un sacramento che riservata solo ai sacerdoti. I laici vengono tenuti fuori anche se a loro viene riconosciuto un grande ruolo nella evangelizzazione del territorio e nel far crescere il senso della comunità, magari sviluppando progetti per diffondere le scritture. Per il resto ribadisce, a scanso di equivoci, che chi celebra la messa è solo il prete. Un ruolo di stretta pertinenza maschile visto che nemmeno alle donne vengono fatte concessioni di sorta. Tuttavia la battaglia per il sacerdozio femminile e l'abolizione del celibato è destinata a camminare altrove. Non ha funzionato in Amazzonia ma ora bisogna vedere come va avanti il vento riformista che soffia in Germania, dove i vescovi hanno avviato un biennio di dibattiti. Un cammino che si sa dove inizia ma non si conosce ancora dove possa finire. VATICAN INSIDER Amazzonia, dal Papa nessuno spiraglio per i preti sposati di Domenico Agasso jr Francesco non menziona la questione in «Querida Amazonia», l’esortazione post sinodale pubblicata oggi. Più responsabilità a diaconi, suore e laici. No al diaconato femminile «C'è necessità di sacerdoti, ma ciò non esclude che ordinariamente i diaconi permanenti - che dovrebbero essere molti di più in Amazzonia -, le religiose e i laici stessi assumano responsabilità importanti per la crescita delle comunità e che maturino nell'esercizio di tali funzioni grazie ad un adeguato accompagnamento». Dunque, non si tratta «solo di favorire una maggiore presenza di ministri ordinati che possano celebrare l'Eucaristia». Così papa Francesco nell’esortazione «Querida Amazonia», senza menzionare la questione posta dal Sinodo di ottobre, non apre a un cambio di regolamentazione del celibato sacerdotale. Non schiude spiragli ai preti sposati. Nessuna risposta e nessuna svolta, dunque. Piuttosto, invoca una maggiore generosità dei vescovi dell’America Latina, affinché i nuovi preti «scelgano l’Amazzonia». E chiede di aprire seminari per le vocazioni indigene. Più preti dall’America Latina e formazione sacerdotale indigena - Nel quarto e più delicato capitolo, dedicato a «Un sogno ecclesiale», dell’Esortazione apostolica post-sinodale, il Pontefice premette che l'«inculturazione, vista la situazione di povertà e abbandono di tanti abitanti dell'Amazzonia, dovrà necessariamente avere un timbro fortemente sociale ed essere caratterizzata da una ferma difesa dei diritti umani». Poi invita anche a «raccogliere nella liturgia molti elementi propri dell'esperienza degli indigeni nel loro intimo contatto con la natura e stimolare espressioni native in canti, danze, riti, gesti e simboli». Già il Concilio Vaticano II «aveva richiesto questo sforzo di inculturazione della liturgia nei popoli indigeni, ma sono trascorsi più di cinquant'anni e abbiamo fatto pochi progressi in questa direzione», rileva. Quindi, passando alla «ministerialità», riconosce che «la pastorale della Chiesa ha in Amazzonia una presenza precaria, dovuta in parte all'immensa estensione territoriale con molti luoghi di difficile accesso, alla grande diversità culturale, ai gravi problemi sociali, come pure alla scelta di alcuni popoli di isolarsi». E questa situazione «non può lasciarci indifferenti ed esige dalla Chiesa una risposta specifica e coraggiosa». Bisogna «far sì che la ministerialità si

Page 17: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

configuri in modo tale da essere al servizio di una maggiore frequenza della celebrazione dell'Eucaristia, anche nelle comunità più remote e nascoste», dice il Vescovo di Roma. Ma nello stesso tempo c'è urgenza di «ministri che possano comprendere dall'interno la sensibilità e le culture amazzoniche». Per Papa Bergoglio, il modo di «configurare la vita e l'esercizio del ministero dei sacerdoti non è monolitico e acquista varie sfumature in luoghi diversi della terra», avvertendo però che è specifico del sacerdote ordinato, e «non può essere delegato», il compito di «presiedere l'Eucaristia» e di amministrare la confessione, assolvendo dai peccati. In questi due «Sacramenti c'è il cuore della sua identità esclusiva», puntualizza. Nelle circostanze specifiche dell'Amazzonia, «specialmente nelle sue foreste e luoghi più remoti, occorre trovare un modo per assicurare il ministero sacerdotale. I laici potranno annunciare la Parola, insegnare, organizzare le loro comunità, celebrare alcuni Sacramenti, cercare varie espressioni per la pietà popolare e sviluppare i molteplici doni che lo Spirito riversa su di loro. Ma hanno bisogno della celebrazione dell'Eucaristia, perché essa “fa la Chiesa”». È perciò «urgente fare in modo che i popoli amazzonici non siano privati del Cibo di nuova vita e del Sacramento del perdono». Questa necessità «pressante mi porta ad esortare tutti i Vescovi, in particolare quelli dell'America Latina, non solo a promuovere la preghiera per le vocazioni sacerdotali, ma anche a essere più generosi, orientando coloro che mostrano una vocazione missionaria affinché scelgano l'Amazzonia». Ed è anche opportuno «rivedere a fondo la struttura e il contenuto sia della formazione iniziale sia della formazione permanente dei presbiteri, in modo che acquisiscano gli atteggiamenti e le capacità necessari per dialogare con le culture amazzoniche». Fondamentali per comprendere il pensiero del Papa sono due note al testo. La numero 132: «Colpisce il fatto che in alcuni Paesi del bacino amazzonico vi sono più missionari per l’Europa o per gli Stati Uniti che per aiutare i propri Vicariati dell’Amazzonia». Vengono in mente, per esempio i più di mille sacerdoti della Colombia, di cui si è parlato al Sinodo. E la 133: «Nel Sinodo si è parlato anche della carenza di seminari per la formazione sacerdotale di persone indigene». L’ordine sacro impoverirebbe il contributo delle donne - Francesco tra le righe sbarra la strada anche al diaconato femminile. Per il Papa infatti occorre «evitare di ridurre la nostra comprensione della Chiesa a strutture funzionali». Perché «tale riduzionismo ci porterebbe a pensare che si accorderebbe alle donne uno status e una partecipazione maggiore nella Chiesa solo se si desse loro accesso all'Ordine sacro. Ma in realtà questa visione limiterebbe le prospettive, ci orienterebbe a clericalizzare le donne, diminuirebbe il grande valore di quanto esse hanno già dato e sottilmente provocherebbe un impoverimento del loro indispensabile contributo». In Amazzonia ci sono «comunità che si sono sostenute e hanno trasmesso la fede per lungo tempo senza che alcun sacerdote passasse da quelle parti, anche per decenni». Questo è stato possibile «grazie alla presenza di donne forti e generose: donne che hanno battezzato, catechizzato, insegnato a pregare, sono state missionarie, certamente chiamate e spinte dallo Spirito Santo». Per secoli le donne «hanno tenuto in piedi la Chiesa in quei luoghi con ammirevole dedizione e fede ardente. Loro stesse, nel Sinodo, hanno commosso tutti noi con la loro testimonianza», evidenzia Jorge Mario Bergoglio. Secondo Francesco, le donne «danno il loro contributo alla Chiesa secondo il modo loro proprio e prolungando la forza e la tenerezza di Maria, la Madre. In questo modo non ci limitiamo a una impostazione funzionale, ma entriamo nella struttura intima della Chiesa». Così «comprendiamo radicalmente - osserva - perché senza le donne essa crolla, come sarebbero cadute a pezzi tante comunità dell'Amazzonia se non ci fossero state le donne, a sostenerle, a sorreggerle e a prendersene cura. Ciò mostra quale sia il loro potere caratteristico». La situazione attuale «ci richiede di stimolare il sorgere di altri servizi e carismi femminili, che rispondano alle necessità specifiche dei popoli amazzonici in questo momento storico». In una Chiesa «sinodale le donne, che di fatto svolgono un ruolo centrale nelle comunità amazzoniche, dovrebbero poter accedere a funzioni e anche a servizi ecclesiali che non richiedano l'Ordine sacro e permettano di esprimere meglio il posto loro proprio». Ed è bene «ricordare che tali servizi comportano una stabilità, un riconoscimento pubblico e il mandato da parte del Vescovo. Questo fa anche sì che le donne abbiano un'incidenza reale ed effettiva nell'organizzazione, nelle decisioni più importanti e nella guida delle comunità, ma senza smettere di farlo con lo stile proprio della loro impronta femminile».

Page 18: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Alla Chiesa panamazzonica serve una cultura «marcatamente laicale» - Secondo Francesco, in Amazzonia, oltre a «favorire una maggiore presenza di ministri ordinati che possano celebrare l'Eucaristia, serve «promuovere l'incontro con la Parola e la maturazione nella santità attraverso vari servizi laicali, che presuppongono un processo di maturazione - biblica, dottrinale, spirituale e pratica - e vari percorsi di formazione permanente». Una Chiesa «con volti amazzonici richiede la presenza stabile di responsabili laici maturi e dotati di autorità, che conoscano le lingue, le culture, l'esperienza spirituale e il modo di vivere in comunità dei diversi luoghi». il Papa incoraggia a «permettere lo sviluppo di una cultura ecclesiale propria, marcatamente laicale. Le sfide dell'Amazzonia esigono dalla Chiesa uno sforzo speciale per realizzare una presenza capillare che è possibile solo attraverso un incisivo protagonismo dei laici». In una nota, la n. 136, il Papa quindi aggiunge, dal Codice di Diritto canonico: «È possibile, data la scarsità di sacerdoti, che il Vescovo affidi “ad un diacono o ad una persona non insignita del carattere sacerdotale o ad una comunità di persone una partecipazione nell'esercizio della cura pastorale di una parrocchia”». Non ripete né rimpiazza il testo finale del Sinodo - Spiegando nei primi punti «il senso di questa Esortazione», il Papa afferma di avere «ascoltato gli interventi durante il Sinodo» e «letto con interesse i contributi dei circoli minori. Con questo Testo«desidero esprimere le risonanze che ha provocato in me questo percorso di dialogo e discernimento - prosegue - Non svilupperò qui tutte le questioni abbondantemente esposte nel Documento conclusivo. Non intendo né sostituirlo né ripeterlo. Desidero solo offrire un breve quadro di riflessione che incarni nella realtà amazzonica una sintesi di alcune grandi preoccupazioni che ho già manifestato nei miei documenti precedenti, affinché possa aiutare e orientare verso un'armoniosa, creativa e fruttuosa ricezione dell'intero cammino sinodale». E anche «voglio presentare ufficialmente quel Documento, che ci offre le conclusioni del Sinodo e a cui hanno collaborato tante persone che conoscono meglio di me e della Curia romana la problematica dell'Amazzonia, perché ci vivono, ci soffrono e la amano con passione. Ho preferito non citare tale Documento in questa Esortazione, perché invito a leggerlo integralmente». I quattro grandi sogni - Francesco rivela di sognare «un'Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa. Sogno un'Amazzonia che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana. Sogno un'Amazzonia che custodisca gelosamente l'irresistibile bellezza naturale che l'adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste. Sogno comunità cristiane capaci di impegnarsi e di incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici». Sono i «quattro grandi sogni che l'Amazzonia mi ispira». Le denunce di crimini e ingiustizie - Poi, la denuncia contro l'«ingiustizia e crimine» legati al «disastro ecologico» e alla devastazione della regione, gli «interessi colonizzatori» dello sfruttamento minerario e della deforestazione, i rapporti economici che «diventano uno strumento che uccide», gli incendi «provocati intenzionalmente», oltre alle «gravi violazioni dei diritti umani» sulle popolazioni originarie e le «nuove schiavitù che colpiscono specialmente le donne», le alleanze cui hanno partecipato anche poteri locali «con la scusa dello sviluppo» e «allo scopo di distruggere la foresta», l'utile «di poche imprese potenti» che non va posto «al di sopra del bene dell'Amazzonia e dell'intera umanità». Al punto che il Papa sente il bisogno di esprimere vergogna e chiedere «umilmente perdono, non solo per le offese della Chiesa, ma per i crimini contro i popoli indigeni durante la cosiddetta conquista dell'America e per gli atroci crimini che seguirono attraverso tutta la storia dell'Amazzonia». «Ripensare l’organizzazione» - «Con la sua Esortazione, papa Francesco «testimonia uno sguardo che eccede le diatribe dialettiche che hanno finito per rappresentare il Sinodo quasi come un referendum sulla possibilità di ordinare sacerdoti uomini sposati. Questione discussa da lungo tempo e che potrà esserlo ancora in futuro, perché “la perfetta e perpetua continenza” non è “certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio”, come ha affermato il Concilio Ecumenico Vaticano II», lo dichiara il direttore editoriale dei media vaticani, Andrea Tornielli. Questione «sulla quale - continua - il Successore di Pietro, dopo aver pregato e meditato, ha deciso di rispondere non prevedendo cambiamenti o ulteriori possibilità di deroghe rispetto a quelle già previste dalla vigente disciplina ecclesiastica, ma chiedendo di ripartire dall'essenziale.

Page 19: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Da una fede vissuta e incarnata, da un rinnovato slancio missionario frutto della grazia cioè dal lasciar spazio all'azione di Dio, e non dalle strategie di marketing o dalle tecniche comunicative degli influencer religiosi». Secondo Tornielli, l’Esortazione «invita a una risposta “specifica e coraggiosa” nel ripensare l'organizzazione e i ministeri ecclesiali. Richiama alla responsabilità l'intera Chiesa cattolica, perché avverta su di sé le ferite di quei popoli e i disagi di quelle comunità impossibilitate a celebrare l'Eucaristia domenicale, e vi risponda con generosità, con l'invio di nuovi missionari, valorizzando tutti i carismi e puntando di più sui nuovi servizi e ministeri non ordinati, da affidare in modo stabile e riconosciuto ai laici e alle donne». SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister) Il silenzio di Francesco, le lacrime di Ratzinger e quella sua dichiarazione mai

pubblicata Ciò che più colpisce nell’esortazione apostolica postsinodale “Querida Amazonia”, resa pubblica oggi, 12 febbraio 2020, è il suo totale silenzio sulla questione più attesa e controversa: l’ordinazione di uomini sposati. Nemmeno la parola “celibato” vi compare. Papa Francesco auspica che “la ministerialità si configuri in modo tale da essere al servizio di una maggiore frequenza della celebrazione dell’eucaristia, anche nelle comunità più remote e nascoste” (n. 86). Ma ribadisce (al n. 88) che soltanto il sacerdote ordinato può celebrare l’eucaristia, assolvere dai peccati e amministrare l’unzione dei malati (perché anch’essa “intimamente legata al perdono dei peccati”, nota 129). E non dice nulla sull’estensione dell’ordinazione ai “viri probati”. Nessuna novità neppure per i ministeri femminili. “Se si desse loro accesso all’ordine sacro”, scrive Francesco al n. 100, “ci si orienterebbe a clericalizzare le donne” e “a ridurre la nostra comprensione della Chiesa a strutture funzionali”. La curiosità che sorge immediata, dalla lettura di “Querida Amazonia”, è dunque di capire in quale misura il libro bomba scritto dal papa emerito Benedetto XVI e dal cardinale Robert Sarah in difesa del celibato del clero, pubblicato a metà gennaio, abbia influito sull’esortazione e in particolare sul suo silenzio circa l’ordinazione di uomini sposati. A questo scopo vanno aggiunte alcune informazioni in più rispetto a quelle già note, su ciò che accadde nei giorni roventi seguiti alla pubblicazione del libro (…) Da più fonti tra loro indipendenti Settimo Cielo ha successivamente avuto notizia di almeno quattro fatti in più, di importanza rilevantissima. Il primo è avvenuto la mattina di mercoledì 15 gennaio. Lungo tutta la giornata di martedì 14 l’attacco condotto dalle correnti radicali contro Ratzinger e Sarah aveva avuto un crescendo devastante, alimentato di fatto dalle ripetute smentite del prefetto della casa pontificia Georg Gänswein di una corresponsabilità del papa emerito nella composizione e nella pubblicazione del libro, fino a chiedere il ritiro della sua firma, e inutilmente contrastato dalla precisa e documentata ricostruzione, resa pubblica da Sarah, della genesi del libro stesso per opera concorde dei suoi due coautori. Ebbene, la mattina di mercoledì 15 gennaio, mentre papa Francesco stava tenendo la sua udienza generale settimanale e Gänswein sedeva come di regola al suo fianco nell’aula Paolo VI, lontano quindi dal monastero Mater Ecclesiae che è la residenza del papa emerito di cui egli è segretario, Benedetto XVI alzò di persona il telefono e chiamò Sarah prima a casa, dove non lo trovò, e poi in ufficio, dove il cardinale rispose. Benedetto XVI espresse, accorato, a Sarah la sua solidarietà. Gli confidò di non riuscire a comprendere le ragioni di un’aggressione così violenta e ingiusta. E pianse. Anche Sarah pianse. La telefonata si chiuse con entrambi in lacrime. Il secondo fatto reso noto qui per la prima volta è avvenuto durante l’incontro tra Sarah e Ratzinger, nella residenza di quest’ultimo, la sera di venerdì 17 gennaio. Quella sera stessa, il cardinale riferì dell’avvenuto incontro in tre tweet, nei quali confermava la piena concordia tra lui e il papa emerito nella pubblicazione del libro. Ma non disse che durante quello stesso incontro – in realtà svoltosi in due momenti distinti, prima alle 17 e poi alle 19 – Benedetto XVI aveva scritto assieme a lui un conciso comunicato che intendeva rendere pubblico con la firma del solo papa emerito, per attestare la piena consonanza tra i due coautori del libro e invocare la cessazione di ogni polemica. Ai fini della pubblicazione, Gänswein consegnò la dichiarazione – di cui Settimo Cielo è in possesso e in cui il tratto personale, persino autobiografico, di Ratzinger traspare

Page 20: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

evidente – al sostituto segretario di Stato Edgar Peña Parra. Ed è ragionevole ipotizzare che questi ne abbia informato sia il proprio diretto superiore, il cardinale Pietro Parolin, sia lo stesso papa Francesco. Sta di fatto – ed è la terza notizia fin qui inedita – che questa dichiarazione del papa emerito non ha mai visto la luce. Ma è stata verosimilmente all’origine della decisione di Francesco di esonerare da lì in poi da ogni presenza visibile al proprio fianco il prefetto della casa pontificia Gänswein. L’ultima di queste apparizioni pubbliche risale alla mattina di quello stesso venerdì 17 gennaio, in occasione della visita in Vaticano del presidente della Repubblica Democratica del Congo. Dopo di che Gänswein non è più comparso accanto al papa, né nelle udienze generali del mercoledì, né nelle visite ufficiali del vicepresidente americano Mike Pence, del presidente iracheno Barham Salih e di quello argentino Alberto Fernández. Agli occhi di papa Francesco la dichiarazione di Benedetto XVI aveva infatti comprovato l’inattendibilità delle ripetute negazioni fatte da Gänswein della corresponsabilità del papa emerito nella composizione del libro. In altre parole, l’opposizione del papa emerito a che il suo successore cedesse alle correnti radicali sul fronte del celibato del clero risaltava a questo punto a tutto tondo, senza più alcuna attenuazione. E tutto questo a pochi giorni dalla pubblicazione dell’esortazione postsinodale in cui molti, in tutto il mondo, aspettavano di leggere un’apertura di Francesco all’ordinazione di uomini sposati. A corollario di tutto ciò, va data notizia anche del ruolo che il cardinale Parolin ha svolto in questa vicenda. Quando infatti mercoledì 22 gennaio l’editore Cantagalli ha pubblicato un comunicato riguardante l’imminente uscita del libro in Italia, con pochissime e marginali variazioni rispetto all’originale francese, non è stato detto che quel comunicato era stato precedentemente visto e limato riga per riga dal cardinale segretario di Stato, che ne aveva infine vivamente incoraggiata la pubblicazione. Un comunicato nel quale il libro di Ratzinger e Sarah è definito “un volume dall’alto valore teologico, biblico, spirituale ed umano, garantito dallo spessore degli autori e dalla loro volontà di mettere a disposizione di tutti il frutto delle loro rispettive riflessioni, manifestando il loro amore per la Chiesa, per Sua Santità papa Francesco e per tutta l’umanità”.

Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 19 In Italia mai così pochi figli. Meglio al Nord, record a Bolzano di Alessandra Arachi Mattarella: “Fenomeno da contrastare”. I dati Istat: sempre più mamme over 30 Roma. Se l’Italia fosse la Lombardia, non ci troveremmo a recitare anche quest’anno il rosario dei bambini mai nati, in un Paese che continua ad invecchiare senza poter sperare nel ricambio generazionale. In controtendenza con i dati nazionali, il Nord dell’Italia e in particolare il Nord-Est. Infatti sono nati più bambini lo scorso anno in Lombardia (il 3,4 per mille in più) e ancora migliore è la crescita nelle province di Bolzano (+5) e di Trento (+3,6), e pure in Emilia-Romagna (+2,8 per mille). Ma poi bisogna sommare il crollo demografico del Molise e della Basilicata (meno 1 per cento in un anno) o di Regioni come la Sardegna, con il suo 5,3 per mille, ed ecco che i conti precipitano rapidamente nel rosso più profondo. Sono nati appena 435 mila bambini in Italia nel 2019, segnala l’Istat nel suo rapporto demografico annuale (1,29 in media per donna, con Nord e Nord est sopra la media: ad esempio Lombardia 1,36 e Veneto 1,32), ovvero quasi 5 mila in meno rispetto al 2018 che già aveva segnato il nostro record negativo nazionale. Non solo: se ci aggiungiamo il saldo dei nati e dei morti (meno 212 mila), vediamo che alla fine la popolazione italiana nell’ultimo anno è diminuita «soltanto» di 116 mila unità grazie agli immigrati (più 143 mila). Al primo gennaio di quest’anno la popolazione era di 60 milioni 317 mila individui, e 120 mila residenti si sono anche cancellati dalle anagrafi per andare a vivere all’estero. Non sono una novità questi cali e questi crolli demografici, è un trend che si trascina da alcuni anni e che quest’anno ha inquietato anche il presidente della Repubblica Sergio

Page 21: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Mattarella. Non è rimasto in silenzio ieri il capo dello Stato davanti ai numeri dell’Istat: «Va assunta ogni iniziativa per contrastare questo fenomeno, perché come conseguenza dell’abbassamento di natalità vi è un abbassamento del numero delle famiglie, e questo significa che il tessuto del nostro Paese si indebolisce». Si indebolisce, e certamente invecchia il nostro Paese. Siamo infatti il Paese più vecchio del mondo dopo il Giappone, con una speranza di vita che è arrivata a 85,3 anni per le donne e a 81 anni per gli uomini, mentre di contro il tasso di natalità è tra i più bassi del mondo, 1,29 figli per donna. Figli che vengono messi al mondo da donne sempre più mature: l’età media del primo parto è salita a 32,1 anni, e secondo i dati del nostro Istituto di statistica oggi risultano essere più fertili le donne sopra i quaranta anni di quanto non lo siano quelle sotto i venti, mentre il divario con le 20-24 enni è stato praticamente del tutto assorbito. Basta fare un parallelo con quanto succedeva appena dieci anni fa per capire: oggi ogni 100 persone che muoiono arrivano 67 bambini, dieci anni fa erano 96. «La natalità è il punto di riferimento più critico, il principale di questa stagione», ha rilevato ancora il presidente Sergio Mattarella, sotto gli occhi le cifre dell’Istat che segnalano anche quest’anno come il problema della nostra denatalità sarebbe molto più preoccupante se non ci fossero i bimbi stranieri. Un dato per tutti: nel 2019 un quinto dei bimbi nati aveva madre straniera, ovvero circa 85 mila bambini. Tra queste nascite ben 63 mila sono con mamma e papà tutte e due stranieri, e 22 mila invece con mamma straniera e papà italiano. Pag 19 Non c’è solo la detanatalità: tanti in fuga dal Meridione di Federico Fubini L’Italia si sta restringendo. E questa è, insieme, causa ed effetto della sua stagnazione. Troppi giovani rinviano la scelta di avere figli e preferiscono emigrare, perché non vedono prospettive di lavoro e di reddito soddisfacenti; ma proprio il declino della popolazione che ne deriva erode consumi, produttività e quelle stesse prospettive di crescita che servirebbero perché i giovani decidessero di fare figli e cercare un futuro in Italia. È una spirale che si autoalimenta e fa sì che si siano già persi 478 mila abitanti dal 2015, momento di massima estensione della popo-lazione in Italia. Eppure la crisi demografica italiana si compone di due storie completamente diverse in un Paese spezzato: c’è una discreta tenuta al Nord e ancora di più a Nord-Est e un collasso nel Mezzo-giorno. Gli indicatori pubblicati ieri dall’Istat non lasciano dubbi in proposito. Nel 2019 la popolazione al Nord è aumentata (di 36 mila persone, più 0,14%) grazie agli afflussi netti di persone dal resto d’Italia (70 mila) o dall’estero (85 mila) che hanno più che compensato un numero di nascite molto inferiore ai decessi. Dunque le migrazioni interne e internazionali fanno sì che la popolazione nel Nord Italia continui a crescere un po’. Nelle regioni del Centro Italia nel frattempo si registra una lieve decrescita dei residenti (-0,22%) nel 2019, anche perché poche persone si sono spostate dal resto del Paese in Toscana, Lazio, Umbria o Marche. Al Sud invece la popolazione sta rapidamente calando. L’intera area ha perso 129 mila persone l’anno scorso - più di quante ne abbia perse l’Italia nel complesso - con un saldo netto di 77 mila meridionali che hanno scelto di andarsene al Nord. In altri termini, l’Italia è un contenitore che si sta riempiendo a un’estremità e drammaticamente svuotando dall’altra. Di questo passo il Mezzogiorno perderà oltre il 6% dei suoi abitanti in dieci anni. Ma le strutture squilibrate sono, alla lunga, le più instabili. Pag 24 Diventare mamma e papà è sempre più difficile di Mauro Magatti Le ricerche ci dicono che il desiderio di avere dei figli e costituire una famiglia rimane molto popolare tra i giovani. In Italia, secondo i dati forniti dall’Osservatorio dell’Istituto Toniolo, ancora oggi due ragazzi su tre considerano diventare genitori come una dimensione fondamentale della propria realizzazione. Sappiamo però che le cose vanno in ben altro modo. Secondo i dati appena resi noti dall’Istat, nel 2019 in Italia il numero delle nascite zero è stato pari circa a 435.000, meno della metà rispetto ai nati del 1974 e minimo storico dall’Unità d’Italia. Con un’ulteriore flessione del tasso di fecondità (1,29 figli per donna, fanalino di coda in Europa) e i tanti giovani che lasciano il Paese (in 10 anni abbiamo perso 250.000 giovani), da cinque anni l’Italia segna un bilancio demografico negativo (nel 2019 -1,9 per 1.000 residenti). Per molti dei nostri giovani

Page 22: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

l’aspirazione a diventare padri e madri è destinata a non realizzarsi mai. O almeno a essere rinviata sine die. Le ragioni culturali - legate all’instabilità delle relazioni affettive - non bastano a spiegare la situazione. L’inverno demografico del nostro Paese rivela un grave ritardo nel capire, prima ancora che nel contrastare, le cause di una difficoltà che non sta solo penalizzando una intera generazione, ma anche compromettendo ogni prospettiva di rilancio. L’Italia si trova così a vivere in modo particolarmente acuto uno dei paradossi delle società contemporanee che, se non governate, finiscono per negare la stessa facoltà di scelta individuale di cui si riempiono retoricamente la bocca. Infatti, le condizioni nelle quali vivono i nostri giovani - dal punto di vista del lavoro (con salari bassi, precarietà persistente e percorsi di carriera stentati, specie per le donne in età fertile), della casa (con un mercato immobiliare che continua a essere caratterizzato da valori sproporzionati) e dei servizi (con la scarsità e il costo degli asili nido) - sono tali da rendere molto difficile la decisione di formare una famiglia. Il problema nasce dal fatto che in Italia, più che altrove, ci si ostina a non collocare la questione demografica nella giusta cornice. Che è quella della sostenibilità integrale, per la quale l’elemento intergenerazionale è essenziale. Il confronto internazionale (in primis con la Francia, dove una politica lungimirante ha riportato il tasso di fertilità a 2,01 bambini per donna) mostra chiaramente che solo un’azione mirata e prolungata permette di affrontare la questione. Se si vuole restituire ai nostri giovani la possibilità di scegliere di costruire una famiglia occorre dunque mettere in campo una strategia complessiva. Non singole misure spot come si è fatto negli ultimi decenni. Per questo, prima ancora di mettersi a elencare i vari interventi possibili, occorre superare la contesa ideologica (famiglia sì, famiglia no) che ha occupato il dibattito pubblico nel nostro Paese e convenire finalmente su una visione positiva e realista. In primo luogo, mettere al mondo, accudire e educare i figli non è semplicemente un atto privato, che riguarda chi decide di darlo, ma è una decisione che ha rilievo di interesse generale. Un contributo allo sviluppo della società italiana nella prospettiva della sostenibilità integrale di lungo periodo. In secondo luogo, in una società avanzata esistono tanti tipi di famiglia, più o meno stabili. Sappiamo anche, però, che il lavoro di cura è un lavoro difficile che si estende su almeno due decenni. Per quanto oggi un tale compito non possa più essere fatto ricadere solo sulla famiglia – che spesso non è nella condizione di poterlo fare – rimane il fatto che il suo svolgimento sia più facile (e meno costoso) se si è in due: è nell’interesse sociale che il nucleo familiare abbia una certa stabilità. In terzo luogo, è in atto nella vita sociale una lenta ma profonda rinegoziazione dei rapporti di genere. Su tanti piani diversi. Da qualunque parte la si voglia prendere, al cuore c’è la questione femminile. Tanto più se si tiene conto che il livello di studio delle ragazze è oggi superiore a quello dei ragazzi. Se non si affronta e si risolve - dentro e fuori la famiglia (a cominciare dall’ambito lavorativo) - la questione femminile, non sarà possibile nessun rilancio. Né economico né demografico. In quarto luogo, la famiglia non è una cellula autosufficiente. Non lo è mai stata e lo è ancora meno oggi. Il suo nucleo più intimo può esistere e funzionare solo dentro un ecosistema. E poiché il contesto tradizionale (fatto di reti parentali e di vicinato) non esiste più, ne va costruito uno nuovo. Vale qui il vecchio detto africano «per crescere un bambino ci vuole un villaggio». Cioè una comunità. Che oggi va ricostituita tessendo una rete di spazi, contesti, servizi. Quando questo non accade, si arriva al paradosso che il mettere al mondo figli diventa un privilegio di chi sta bene. Infine, va riconosciuto e premiato il ruolo educativo della famiglia. Tutto ciò che i genitori spendono per far sviluppare le doti e le capacità dei propri figli - in ambito scolastico, professionale, artistico, sportivo e così via - va considerato come un investimento che ha nel formare persone e cittadini migliori il suo ritorno sociale. LA REPUBBLICA Pag 26 Culle vuote, politica cieca di Massimo Giannini Piazze piene, culle vuote. Le parole di Sergio Mattarella sulla crisi demografica sono un pugno nello stomaco per un'Italia assopita sul divano nella nostalgica contemplazione di Sanremo. Ma sono anche uno schiaffo in faccia per una politica ripiegata su se stessa nella sterile celebrazione dei suoi vecchi riti di Bisanzio. Ognuno ha un suo "popolo" da mobilitare, in questa dissennata guerra di logoramento. Ma nessuno coglie le tendenze

Page 23: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

di fondo che stanno cambiando la società. Nessuno vede che il vero virus dal quale dobbiamo difenderci, più ancora del Covid-19, è quello della denatalità. Il presidente della Repubblica lo dice, mettendo in mora governo e Parlamento. Il crollo delle nascite è un dramma che riguarda «l'esistenza stessa del nostro Paese». Le famiglie «sono l'Italia». Andrebbero aiutate, incentivate, sostenute. Ma il Palazzo pensa ad altro. Gli ultimi dati Istat dovrebbero essere l'incubo di qualunque classe dirigente all'altezza delle sfide della modernità. Con 435 mila nascite e 647 mila decessi, siamo al livello di "ricambio naturale" più basso dal 1918, cioè dai tempi della Prima guerra mondiale. Per ogni 100 persone che muoiono ne nascono solo 67, contro le 96 di dieci anni fa. È un dramma sociale, ma anche un disastro economico. Lo aveva capito John Keynes, che nel 1937 dedicò al tema una delle sue visionarie "letture". L'Europa mostra qualche segno di attenzione. All'inizio del suo semestre di presidenza, la Croazia ha messo la crisi demografica al centro dell' agenda dell'Unione, evocando a sua volta (proprio come fa Mattarella) un vero e proprio «rischio esistenziale» del Vecchio continente. Con un'età media di 42 anni (12 in più del resto del mondo) l'Europa ha la popolazione più anziana del globo. Di qui al 2035 ci saranno 50 milioni di persone in meno in età di lavoro (quella compresa tra i 20 e i 64 anni). Questo significa che nel 2040 la spesa pubblica per previdenza e assistenza degli anziani aumenterà del 2,3% del Pil. Dal 2050 in Spagna, Francia e Germania il crollo demografico deprimerà il reddito pro-capite di 4.759/6.548 euro. In questo deserto noi stiamo molto peggio degli altri. Negli ultimi dieci anni ci siamo "persi" 136.912 bambini. È crollato il numero di donne in età fertile: 180 mila in meno. Il rapporto "figli nati per donna fertile" è pari all'1,29%, tra i più bassi nella Ue. Le conseguenze economiche della denatalità sono devastanti. Secondo la Banca d' Italia, a questi ritmi nel 2040 il Pil calerà del 15% e il reddito pro-capite del 13: avremo 1,2 milioni di residenti in meno e 6 milioni di pensionati in più. Secondo Eurostat, la nostra spesa previdenziale raggiungerà il 18,3% del Prodotto. "Ci state rubando il futuro", ripetono i giovani. Non hanno torto. Le ragioni di questo "furto" le conosciamo. Nella fascia di età tra i 20 e i 30 anni non nascono bambini non perché i genitori potenziali sono «bamboccioni» (come diceva Padoa-Schioppa), o «choosy» (come diceva Elsa Fornero). Più banalmente, hanno lavori precari e bassi salari, politiche per la famiglia scarse e politiche per la casa nulle. A questi vincoli "materiali" (comuni a molti Paesi occidentali) si associano limiti "culturali" (tipici dei Paesi cattolici-apostolici-romani): nelle famiglie tradizionali i ruoli "di genere" resistono al cambiamento, e le donne/mamme (oltre a scontare il tasso di occupazione più basso d'Europa) si fanno carico della gestione molto più che degli uomini/padri. Il Conte bis improvvisa pannicelli caldi, come l'aumento a un mese del congedo di paternità. Ma restiamo anni luce lontani dai modelli scandinavi (propri dei Paesi cristiani "riformati"). Il demografo Wolfgang Lutz ha elaborato una teoria: la «trappola della bassa fertilità». Un circolo vizioso, che porta il patto sociale alla rottura e il Welfare al collasso. La sequenza è questa: bassa crescita e vincoli di bilancio rendono sempre più critiche le condizioni materiali per le giovani coppie, i figli si fanno in età sempre più avanzata, il tasso di fertilità dei genitori si riduce ulteriormente nel tempo, la popolazione invecchia ancora, aumentano tasse e spese che servono a finanziare lo Stato sociale. E così si ricomincia daccapo, in una spirale che non lascia scampo. Come uscirne sarebbe il tema epocale di questi Anni 20. Se solo i poteri dello Stato non si consumassero in questo paralizzante immobilismo, tra fragorose crociate contro i vitalizi e penose battaglie sulla prescrizione. E se solo la sinistra avesse il coraggio di affrontare in questa chiave nuova il problema dei diritti e delle politiche fiscali, dell'uguaglianza tra i sessi e tra le generazioni, dell'immigrazione e dell'integrazione. Ma ci vorrebbe uno sguardo lungo, e invece già incombono le elezioni regionali di maggio. È l'altra trappola: quella del «presentismo», come la chiamerebbe Fiorello. L'unico "leader" riconosciuto da tutti gli italiani.

Pag 26 La madre francese di Anais Ginori Quando si rimane incinta in Francia, capita di essere inseguite da solerti funzionarie che mandano lettere e chiedono appuntamenti per poter fornire alla futura mamma un panorama completo dei vari servizi pubblici di cui potrà usufruire per l'arrivo del pargolo, dall'ostetrica che viene gratuitamente a domicilio dopo il parto fino alle scuole

Page 24: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

che rimangono aperte fino alle 18 e durante le vacanze per agevolare i genitori che lavorano. In Italia la ricerca di un nido può diventare un'impresa disperata. Oltralpe le famiglie sanno di poter contare su un mix di offerte, tra nidi, puericultrici a domicilio e altri centri per l'infanzia. È un sistema che cambia profondamente le mentalità. Se a un'italiana può capitare di essere guardata come una madre indegna perché torna al lavoro sei mesi dopo la nascita del figlio, per la maggior parte delle francesi tre mesi di congedo maternità bastano e avanzano, senza essere per questo giudicate. E anche quando le famiglie non trovano una sistemazione in un nido pubblico, possono contare sul cosiddetto Paje, prestation d'accueil du jeune enfant, organizzando nidi a casa con altre mamme oppure appoggiandosi a strutture private convenzionate. Quasi metà dei piccoli tra 0 e 2 anni è mandata dai genitori in strutture pubbliche o private, il doppio della media europea. Molto prima della rivoluzione femminista, la Francia ha cercato di dare alle madri gli strumenti per conciliare lavoro e famiglia. Con un risultato evidente: la Francia non è solo una delle nazioni dove si fanno più figli, ma è anche quella con la percentuale di occupazione femminile superiore alla media europea. E non è un discorso di parità: nelle statistiche, gli uomini francesi non partecipano più degli italiani alle faccende domestiche. È lo Stato che si affianca nella cura dei figli in una politica natalista che risale all'epoca del regime di Vichy. La spesa pubblica per ogni bambino sotto ai 6 anni è quasi il doppio della media Ocse, anche se negli ultimi anni la crisi economica si è fatta sentire: il fatidico tasso di fertilità non è più superiore ai 2 figli per donna. L'offerta di nidi è solo uno dei tasselli della ricetta francese. Al centro di tutto, c'è il quoziente famigliare. Gli ultimi governi hanno ridotto i benefici fiscali per le famiglie ma rimane una deduzione importante per le coppie con figli. Neppure i Paesi scandinavi, noti per la loro mentalità children friendly, "regalano" così tanto alle famiglie. Creato nel 1945 dal radicale Adolphe Landry, il quoziente famigliare segue lo slogan: "A livello di vita uguale, tasso di imposizione uguale". Il reddito complessivo del nucleo famigliare deve essere suddiviso in parti secondo il numero dei componenti. Un modo di abbassare l'imponibile e non tassare il reddito unitario ma quello disponibile. Al sistema di detrazioni fiscali, che comprende anche sgravi per il pagamento di baby sitter, si aggiungono diversi sussidi pubblici, tra cui il bonus bebè e gli assegni famigliari che sono stati recentemente parametrati al reddito ma restano un caposaldo del modello francese. AVVENIRE Pag 1 Chiamata d’emergenza di Massimo Calvi Denatalità: è tempo di risposte Lo spopolamento delle aree ai margini dello sviluppo e il calo delle nascite sono due grandi fenomeni che interessano molti Paesi sviluppati, e in particolare l’Italia, ma che il dibattito pubblico e la politica hanno trascurato per troppo tempo. Nel diffondere il rapporto sugli indicatori demografici del 2019, l’Istat ha avuto il merito di metterli sullo stesso piano, lasciando capire che la soglia di emergenza è già stata superata. Anche perché si tratta di tendenze molto difficili da contrastare. Prendiamo il Sud, ma anche tante aree montane o periferiche: le persone lasciano i territori con pochi o cattivi servizi, dove il gap tecnologico è più alto, le infrastrutture sono carenti, i trasporti difficili, il capitale sociale basso. E come biasimarle? I grandi poli di attrazione sono la Lombardia e l’Emilia Romagna, ma potremmo dire le aree metropolitane di Milano e Bologna, perché questa è la stagione del successo delle città, per le maggiori opportunità che offrono. Si può contrastare questa tendenza – non invertirla – a condizione di riconoscere che senza grandi investimenti tecnologici e nella direzione di un maggiore sviluppo, tutto sarà più difficile. La difficoltà dei 'luoghi che non contano' non riguarda solo la fuga delle popolazioni residenti, ma si ripercuote sulla natalità: a differenza di un tempo, oggi chi è più povero o vive in contesti arretrati ha meno figli. Le nascite premiano invece le aree più ricche, dove i redditi sono più alti e i servizi più diffusi. È per questo che i tassi di fecondità sono da tempo più alti al Nord rispetto al Sud. Ed è per questo che il declino demografico è più preoccupante in Italia, Paese avaro di sostegni universali e servizi per le famiglie nel confronto europeo. E qui veniamo al secondo punto, la denatalità. Anche in questo caso si può e si deve intervenire per contrastare la tendenza in corso, sapendo però che invertirla resta

Page 25: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

difficile. Per due terzi le minori nascite sono dovute a ragioni strutturali: a causa dei tanti anni di denatalità oggi non ci sono abbastanza donne in età fertile per aumentare le nascite in tempi brevi. D’altra parte il contesto sociale e culturale non aiuta: anni di 'storytelling' negativo e di esaltazione dell’individualismo hanno contribuito a logorare l’immagine della famiglia con figli come una prospettiva desiderabile per chi non è mosso da forti motivazioni anche spirituali. È sufficiente guardare due bei film del momento, 'Figli' e 'Storia di un matrimonio', per rendersi conto che l’emergenza non riguarda tanto il fatto che oggi vengono al mondo pochi bambini, ma che ovunque non nascono abbastanza genitori: la fine della famiglia è anche la crisi della capacità di essere per qualcun altro, non solo per se stessi. Le esperienze, in Italia come all’estero, dimostrano però che azioni positive ampie e coerenti possono avere effetti positivi. L’idea che il ventaglio di misure del 'Family Act' proposto dalla ministra per la Famiglia e le pari opportunità Elena Bonetti e l’Assegno unico previsto dalla legge delega Del Rio-Lepri possano convergere in un piano per la famiglia e la natalità, come suggerito dal premier Giuseppe Conte, è un passo importante. Una misura non può escludere l’altra: tutti i Paesi che hanno ampliato i servizi per l’educazione e la cura dei bambini e per facilitare la conciliazione famiglia-lavoro prevedono infatti, di base, un assegno di 100-200 euro al mese per ogni figlio, senza limiti di reddito e senza distinzioni tra lavoratori autonomi e dipendenti. Non è un dettaglio da poco. Allo stesso tempo andrebbe ricordato che un piano per contrastare il declino demografico in tutte le aree del Paese, non solo in quelle più ricche, avrebbe poca efficacia in un contesto caratterizzato da instabilità e insicurezza: la natalità, lo dimostrano numerose ricerche, non va d’accordo con i debiti pubblici elevati, i sistemi previdenziali insostenibili, i deficit elettorali, i bonus e le provvidenze di welfare che penalizzano le coppie sposate e con più figli rispetto ai single, i sistemi fiscali che non compensano i maggiori costi sostenuti da tutti i genitori. Questo dovrebbe far capire che la crisi della natalità non ha solo una dimensione personale, ma pubblica. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, incontrando il Forum delle associazioni familiari, lo ha detto molto chiaramente: se il numero delle famiglie con figli diminuisce, come sta avvenendo, «è un problema che riguarda l’esistenza del nostro Paese», e per tale ragione «va assunta ogni iniziativa per contrastare questo fenomeno». Subito. Pag 5 Nascite, indietro di un secolo di Maurizio Carucci e Paolo Ferrario Si diventa madri sempre più tardi. Gli stranieri raggiungono il 10% della popolazione residente L’Italia non riesce a divincolarsi dalla morsa dell’inverno demografico. Culle sempre più vuote e fuga all’estero stanno riducendo in maniera evidente la popolazione. Per 100 persone decedute arrivano soltanto 67 bambini (dieci anni fa erano 96). Il 2019, infatti, si candida a passare alla storia come l’anno dei record negativi. Non solo si è registrato il minor numero di nascite di sempre (appena 435mila), ma è avvenuto anche il ricambio naturale più basso degli ultimi 102 anni. In un Paese da 60,3 milioni di abitanti (di cui 5,4 milioni stranieri) dove continua inesorabile il calo della popolazione: –116mila persone in un anno. I dati dell’Istat mostrano un’Italia con un evidente problema di denatalità. L’annuale Rapporto dell’Istituto di statistica mostra un Paese dove fare figli è sempre più difficile. Nonostante l’ennesimo record negativo di nascite, la fecondità rimane costante al livello espresso nel 2018, ossia 1,29 figli per donna. Nell’ultimo biennio, in particolare, tra le donne residenti in età feconda (convenzionalmente di 15-49 anni) si stima una riduzione di circa 180mila unità. In aggiunta a tale fattore va poi richiamato che i tassi specifici di fecondità per età della madre continuano a mostrare un sostanziale declino nelle età giovanili (fino a circa 30 anni) e un progressivo rialzo in quelle più anziane (dopo i 30). L’età media al parto ha toccato i 32,1 anni, anche perché nel frattempo la fecondità espressa dalle donne 35-39enni ha superato quella delle 25-29enni. Non solo, fanno più figli le donne ultraquarantenni di quanti ne facciano le giovani sotto i 20 anni di età mentre il divario con le 20-24enni è stato quasi del tutto assorbito. Un dato, quello della detanalità, che sarebbe ancora più marcato se non ci fosse il contributo alle nascite da parte delle donne immigrate. Circa un quinto di bimbi nati nel 2019, infatti, ha madre straniera. Tra queste nascite, pari a un totale di 85mila, 63mila sono quelle che riguardano

Page 26: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

partner stranieri (che quindi incrementano il numero di nati in Italia con cittadinanza estera), 22mila quelle con partner italiano. L’Istat, inoltre, registra un aumento anche degli italiani che vanno all’estero. Nel 2019 sono stati 120mila, 3mila in più dell’anno precedente. Il saldo migratorio con l’estero resta comunque positivo per 143mila unità, «in virtù del fatto che a fronte di 307mila iscrizioni anagrafiche dall’estero si hanno solo 164mila cancellazioni – sottolinea l’istituto –. Il dato risulta in evidente calo se confrontato con quello del biennio precedente (in media oltre 180mila unità aggiuntive annue) e persino al di sotto della media degli ultimi cinque anni (+156mila). I movimenti in ingresso sono per lo più dovuti a cittadini stranieri, 265mila, oltre 20mila in meno sull’anno precedente, ma in ogni caso preponderanti rispetto agli appena 43mila rimpatri di italiani, che a loro volta si riducono di circa 4mila unità». «Il 2019 - spiega comunque l’Istat - è un anno nel quale le tendenze demografiche risultano da un punto di vista congiunturale in linea con quelle mediamente espresse negli anni più recenti». Una delle poche note positive che viene dall’Istat riguarda invece l’ulteriore aumento della speranza di vita. A livello nazionale gli uomini sfiorano gli 81 anni, le donne gli 85,3. Per gli uni come per le altre l’incremento sul 2018 è pari a un mese di vita in più. È al Nord-Est che si riscontrano le condizioni di sopravvivenza più favorevoli: gli uomini residenti nella parte nordorientale del Paese possono contare su una speranza di vita di 81,6 anni, le donne di 85,9. Nel Mezzogiorno, invece, 80,2 anni tra gli uomini e 84,5 tra le donne. Al Nord-Ovest e al Centro risulta identica la speranza di vita per le donne (85,5), mentre leggermente favoriti risultano gli uomini residenti nel Centro (81,3 contro 81,1). Gli uomini vivono di più nella provincia di Trento (82,2 anni), in Umbria (81,9), Marche (81,8) e in provincia di Bolzano (81,8). Trento è l’area più favorevole anche per le donne, grazie a una vita media di 86,6 anni, dato che costituisce il più alto livello di speranza di vita mai toccato nella storia del Paese per una singola regione. «Tra tutti i segni “meno” che, purtroppo, caratterizzano le ricerche sul Mezzogiorno, questo del calo delle nascite e della diminuzione del tasso di fecondità è il più preoccupante in assoluto. Perché è il segnale di un’arretratezza e di un disagio che sono diventati strutturali. Significa che la gente non ha più un’idea di futuro». È preoccupante e drammatica, l’analisi degli indicatori demografici dell’Istat del presidente della Fondazione “Con il Sud”, Carlo Borgomeo. «Nel Mezzogiorno – ricorda – abbiamo vissuto periodi più difficili dell’attuale. Pensiamo, per esempio, al secondo dopoguerra. Ma allora si percepiva una grande attesa di futuro, che oggi è quasi del tutto sparita. È come se la gente del Sud non si riconoscesse più in un domani possibile. È come se avesse persino perduto la speranza che ci possa essere un futuro per questi territori». E i “numeri” sono lì a dimostrarlo. Rispetto a un tasso di fecondità del Nord di 1,36 figli per donna, il Sud, che tradizionalmente è sempre stato percepito come una terra favorevole alle nascite, si ferma ad 1,26 figli per donna. Contemporaneamente, il Mezzogiorno perde popolazione a causa dell’emigrazione verso altri territori (-6,3 per mille, con il Molise e la Basilicata che, in un solo anno, hanno visto scomparire l’1% della popolazione) e invecchia rapidamente. Pur avendo una popolazione con l’età media più bassa rispetto al Centro-Nord (44,6 anni contro 46,2), il Sud, dal 2010, ha visto aumentare l’età media della popolazione di oltre due anni e mezzo. Soltanto nel 2019, annota l’Istat, quasi mezzo milione di persone (418mila individui per l’esattezza) ha lasciato un Comune del Mezzogiorno per trasferire la residenza in un altro territorio, mentre 341mila sono stati coloro che hanno eletto un paese del Sud come luogo di dimora abituale. «Per invertire questo andamento negativo – rilancia Borgomeo – dobbiamo fare subito due interventi “piccoli” e uno più consistente. Innanzitutto, dobbiamo mettere in campo delle politiche per la famiglia degne di questo nome. In Italia – ricorda il presidente della Fondazione “Con il Sud” – per un malinteso senso di “modernità” pensiamo che le politiche familiari siano qualcosa di datato, quasi di reazionario. E così siamo gli ultimi in Europa. Invece, politiche per la famiglia significa, per esempio, più asili nido, più welfare e più servizi. Il secondo intervento “minore” dovrebbe riguardare le politiche migratorie. Dobbiamo diventare un po’ più accoglienti, perché, se ben governata, l’immigrazione può diventare davvero una risorsa, anche demografica, per l’Italia. Invece, la risposta più grande e impegnativa da dare – conclude Borgomeo – riguarda un nuovo clima di fiducia da ricostruire. Dobbiamo

Page 27: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

rafforzare le nostre comunità e investire davvero sul capitale sociale. Come Fondazione lavoriamo così nei territori e qualche risultato si comincia a vedere. È una strada obbligata se vogliamo ridare una speranza alla nostra gente. Direi che è l’unica strada che abbiamo». Alle donne e all’occupazione femminile, guarda invece Luca Bianchi, direttore della Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. «Se riparte il tasso di occupazione femminile riparte il Sud», sottolinea l’esperto, ricordando che «in Calabria il tasso di occupazione delle donne è al 31% e in Sicilia al 29%», i più bassi d’Europa. «Dobbiamo riportarli almeno al livello di quello della Spagna, che è quasi al 50%», ribadisce Bianchi. Ma le donne devono essere messe nelle condizioni di poter lavorare e questo significa, in prima istanza, più servizi e servizi di qualità migliore. Da questo punto di vista, ricorda il direttore della Svimez, c’è un divario importante da colmare, tra Nord e Sud, in termini di investimenti. L’associazione diretta da Bianchi ha quantificato in 200 euro pro capite, la distanza tra Settentrione e Mezzogiorno, a vantaggio del primo. «Questo è un nodo sul quale si deve intervenire – sottolinea Bianchi – anche se, in linea generale, non è del tutto corretto dire che al Sud non ci sono soldi da spendere. Piuttosto manca una rinnovata ed efficace capacità progettuale, per cominciare a investire le risorse già oggi disponibili». Soldi, ribadisce anche il direttore della Svimez, da mettere per aumentare i servizi sia in termini di quantità che di qualità. «Se le donne non lavorano perché al Sud non ci sono asili nido – aggiunge Bianchi – tanti emigrano anche per farsi curare in ospedali migliori e vanno, ancora una volta, soprattutto al Nord. Con il risultato che, specialmente nelle aree interne, stiamo assistendo a un progressivo e inarrestabile abbandono dei paesi. Allo spegnersi dei campanili. Negli ultimi quindici anni, i piccoli centri del Sud hanno perso più di 250mila persone. Ma la politica parla quasi esclusivamente dell’“emergenza immigrazione”. Qua al Sud la vera emergenza è l’emigrazione. È questa “invasione” al contrario che sta svuotando interi territori». Nonostante tutto, l’Italia rimane un Paese che attrae. Seppure in calo rispetto agli anni precedenti, il saldo migratorio con l’estero rimane «più che positivo», secondo i ricercatori dell’Istat. Nello specifico, il saldo del 2019 è risultato positivo per 143mila unità: a fronte di 307mila iscrizioni anagrafiche dall’estero, si sono registrate solo 164mila cancellazioni. Rispetto al recente passato, il saldo migratorio è in costante diminuzione. In media, infatti, ogni anno il saldo superava, in media, le 180mila unità aggiuntive, mentre negli ultimi cinque anni è stato di +156mila iscrizioni. In aumento anche il numero dei cittadini stranieri residenti in Italia: al 1° gennaio 2020 ammontano a 5 milioni e 382mila, in crescita di 123mila unità (+2,3%) rispetto all’anno scorso. Complessivamente, la popolazione straniera costituisce l’8,9% del totale, in crescita dello 0,2% rispetto all’anno precedente. Le regioni dove più forte è l’incidenza della popolazione straniera sul totale dei residenti sono l’Emilia- Romagna (12,6%), la Lombardia (12,1%) e il Lazio (11,7%). Il peso percentuale della popolazione straniera risulta relativamente più basso nel Mezzogiorno (4,4% contro l’11% del Centro- nord); il minimo è in Puglia e Sardegna (3,5%). Peraltro, fatto pari a 100 il numero di residenti stranieri sul territorio nazionale, 58 risiedono nel Nord (di cui 23 nella sola Lombardia), 25 nel Centro e appena 17 nel Mezzogiorno. Il nuovo record di stranieri residenti in Italia potrebbe essere più consistente, se si contassero anche gli stranieri non iscritti all’anagrafe. Come ha fatto l’Ismu, la Fondazione di studi sulla multietnicità, secondo cui gli stranieri non residenti sono quasi un milione: 966mila per la precisione. Stando a questo nuovo conteggio, il numero totale di stranieri in Italia supera i 6,3 milioni, pari al 10,3% della popolazione. «La maggiore crescita di popolazione straniera in Italia rispetto al passato – si legge in una nota dell’Ismu – non è dovuta a flussi in entrata sempre maggiori in confronto con quelli in uscita». L’aumento non è dovuto nemmeno al saldo naturale, visto che i nati da donne immigrate sono stati 63mila rispetto ai 65mila del 2018 e ai 68mila del 2017, mentre gli 8mila decessi sono in linea con quelli degli anni precedenti. Inoltre, l’incremento di residenti stranieri non è dovuto nemmeno alle acquisizioni di cittadinanza. Nel 2019 sono state 109mi-la, rispetto alle 113mila del 2018, alle 147mila del 2017 e al record di 202mila del 2016. «Piuttosto – osserva l’Ismu – l’aumento di popolazione straniera è dovuto alle revisioni anagrafiche, che hanno portato a un surplus di cancellazioni di stranieri rispetto agli iscritti di 46mila unità nel 2019, rispetto alle 81mila del 2018 e alle 79mila del 2017».

Page 28: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Pag 12 Poesia di un padre separato per l’addio alle figlie “vietate” di Luciano Moia Difficile la vita.../ Cruento il destino/ Meschino il giorno/ Lontano il cielo/ Nodi che legano ferite/ che sanguinano ancora/ E lacrime infuocate di dolore… Scriveva poesie Alì. Poesie d’amore, anche colme d’amarezza, come questi versi. Gli ultimi. Scritti pochi giorni prima di decidere che non ci sarebbe stata altra soluzione al suo dramma di padre separato se non quella più estrema e più assurda. Nelle sue poesie, che gli avevano fruttato anche premi letterari, parlava spesso anche di quei figli che dal maggio scorso non riusciva più a vedere. Soprattutto le più piccole, due ragazzine di 7 e 15 anni che amava profondamente. Proprio per amor loro aveva deciso di andarsene da casa. I litigi ormai quotidiani con la moglie, le tensioni profondissime, le incomprensioni gli spezzavano il cuore. Non voleva più che le bambine assistessero a quelle urla. Ma non voleva neppure mettere in difficoltà la moglie che non smetteva di amare e che continuava a sostenere economicamente, per quanto possibile. Parlava quattro lingue, aveva una profonda cultura. Aveva chiesto aiuto, lui musulmano credente ma disponibile al confronto, all’associazione Famiglie separate cristiane, anche se formalmente separato non lo era ancora. L’avevano aiutato e ascoltato per lunghe ore. L’avvocato dell’associazione con cui l’avevano messo in contatto gli aveva spiegato che sarebbe stato opportuno avviare un procedimento per ottenere l’affido congiunto delle due figlie minorenni. Ma Alì, 53 anni, origini marocchine ma da oltre 30 anni in Italia dove sono nati i suoi tre figli, era incerto. Non voleva mettere di mezzo la legge. Conosceva bene la situazione dei padri separati. Aveva ascoltato tante testimonianze E più si informava, più la sua convinzione di non poter reggere al fuoco incrociato della burocrazia, dei costi economici e delle lungaggini giuridiche diventava incrollabile. «Sapeva che a noi padri separati a cui, come spesso accade, viene impedito di vedere i figli – spiega Ernesto Emanuele, presidente dell’Associazione famiglie separate cristiane – la legge offre ben pochi aiuti. Dobbiamo pagare e tacere». Una volta avviato, il procedimento giudiziario può portare a esiti inimmaginabili, come quello di vedersi fissare l’obbligo di versare un assegno mensile superiore alle proprie forze. Oppure vincoli sulle modalità di incontrare i propri figli, per esempio alla presenza di un assistente sociale. «Che ricordo avranno di loro padre le mie bambine?». Con questa incertezza che lo consumava dentro, si era trascinato per alcuni mesi. Sempre più confuso e annichilito. Alla rabbia si era sostituita la depressione. Ma continuava a lavorare. Nel suo paesino, nel Nord-ovest del Milanese, era sostenuto da varie famiglie. Una, in particolare, che con grande sensibilità lo affiancava fin da quanto era arrivato in Italia. «L’abbiamo sostenuto, incoraggiato. Ma abbiamo capito che era sempre più difficile penetrare nel suo dolore. Non voleva neppure prendere farmaci per vincere la depressione». A preoccuparlo, come detto, la sorte delle figlie nel caso in cui si fosse avviato un procedimento giudiziario. «Ho visto centinaia di casi in questi anni – racconta Nicola Saluzzi, vicepresidente dell’Associazione Papà separati Milano, che l’aveva incontrato varie volte in queste ultime settimane – ma non mi sono mai confrontato con una situazione così drammatica e insieme così lucidamente disperata. Ci ha toccato tutti nel profondo». Da qui l’idea di compilare un dossier con i nomi di tutti i membri dell’associazione che si sono tolti la vita nell’ultimo decennio. Dati, nomi, circostanze, situazioni giudiziarie. Una lunga striscia di sofferenze e di ingiustizie. Quanti sono? «Possiamo soltanto fare una stima, perché naturalmente – riprende Ernesto Emanuele – i nostri aderenti sono soltanto una piccola percentuale rispetto ai 4 milioni di separati. Ma non crediamo di esagerare se diciamo che nell’ultimo decennio sono stati 250-300 l’anno i padri separati che si sono tolti la vita. Per questo la legge di riforma dell’affido condiviso è un’urgenza assoluta. Ma dev’essere una legge equilibrata, non ideologica, che non metta padri e madri gli uni contro le altre. E imponga tempi certi». Perché nulla come l’attesa senza fine sbriciola la fiducia nella giustizia e la volontà di resistere alle situazioni emotivamente più coinvolgenti.

Torna al sommario IL GAZZETTINO

Page 29: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Pag 1 Un Paese senza figli che non investe sul futuro di Alessandro Rosina Se vogliamo diventare in questo secolo uno dei Paesi demograficamente più squilibrati - con tutte le implicazione economiche e sociali che ne conseguono - i dati più recenti Istat ci dicono che siamo sulla strada giusta. La popolazione italiana non cresce più, è anzi oramai da cinque anni in continuo arretramento, conseguenza di un saldo migratorio che non riesce più a compensare il saldo naturale in rosso sempre più profondo. La questione centrale non è però quanti siamo in valore assoluto, ma come muta il rapporto relativo tra le generazioni più giovani e quelle più anziane. È certamente positivo il fatto di vivere più a lungo. Su questo processo l'Italia non è una anomalia, presenta valori simili ai Paesi avanzati più virtuosi. Ciò che alimenta in modo accentuato gli squilibri italiani è invece la persistente bassa natalità che rende ogni nuova generazione demograficamente più esile rispetto alle precedenti. Detto in altre parole, a fronte della crescita degli anziani, più degli altri Paesi l'Italia associa un indebolimento dei giovani, ovvero della componente a cui poter affidare crescita economica e sostenibilità del sistema di welfare. Che non vi sia alcuna inversione di tendenza in atto rispetto all'allargarsi degli squilibri demografici, lo evidenzia soprattutto l'andamento della fecondità. Il numero medio di figli per donna è sceso, dopo gli anni più acuti della crisi, sui livelli più bassi in Europa e non accenna a risalire. Cosa lo ha fatto scendere così tanto e cosa frena la sua risalita? Alcune indicazioni interessanti si possono ottenere da due realtà con evoluzione positiva negli ultimi dieci anni. Il primo caso è quello della Germania, che da livelli inferiori rispetto alla fecondità italiana nel 2008, si trova oggi vicina alla media europea. Il secondo caso è quello della Provincia di Bolzano, che, a differenza del dato nazionale, presenta oggi valori più elevati rispetto all'inizio della crisi economica. Queste due realtà hanno soprattutto due elementi in comune. Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta di avere un figlio, rafforzando fiducia e clima sociale. Dove, invece, questo non è avvenuto, è cresciuto un diffuso senso di insicurezza verso il futuro, che anziché stemperarsi dopo la crisi, sembra sceso in profondità. La seconda condizione favorevole che caratterizza sia la Germania, nel contesto europeo, e sia la Provincia di Bolzano, nel quadro nazionale, è il basso tasso di Neet (gli under 35 che non studiano e non lavorano). Nel resto d'Italia tale indicatore è tutt'ora sopra i livelli pre-crisi. Non è un caso che la bassa fecondità italiana sia soprattutto da ricondurre, come mostrano i dati dettagliati dell'Istat, ad un crollo delle nascite realizzate prima dei 30 anni e ad una difficoltà a recuperare in età 30-34. La prima fascia d'età soffre, infatti, soprattutto delle difficoltà ad agganciare i propri progetti di vita a solidi percorsi formativi e di lavoro (da cui deriva un continuo rinvio oltre i trent'anni del primo figlio). La seconda fascia si scontra, invece, soprattutto con i limiti della conciliazione tra lavoro e famiglia (con aumento del rischio di rinuncia ad andar oltre il primo figlio). Un ulteriore riscontro è il peggioramento accentuato della fecondità nelle regioni meridionali. Per superare difficoltà oggettive e insicurezze soggettive servono misure solide e strutturali, in grado di inserirsi coerentemente all'interno di una visione positiva del Paese, nella quale collocare la scelta di avere un figlio. Difficile però che questo avvenga in un Paese schiacciato in difesa - come rivela l'acceso confronto sulle pensioni - molto restio a portare le proprie priorità dalla difesa degli interessi e dei diritti delle generazioni più mature all'investimento in una nuova fase di crescita attraverso la promozione delle scelte e delle opportunità delle nuove generazioni. Pag 6 Culle sempre più vuote, l’anno scorso sono nati solo 435.000 bimbi di Claudia Guasco Rapporto Istat: l’età media delle madri sale a 32,1 anni e pesa la difficoltà a conciliare lavoro e famiglia Culle vuote, popolazione anziana, solo 67 bimbi che nascono (dieci anni fa erano 96) ogni 100 decessi. Di questo passo, gli italiani sono una popolazione in via di estinzione. Lo scenario tracciato dall'Istat nel rapporto sugli indicatori demografici del 2019 infila una serie di record negativi. Non solo si è registrato il minor numero di nascite di

Page 30: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

sempre, appena 435 mila, ma si è toccato anche «il più basso livello di ricambio naturale dal 1918», con saldo negativo di 212 mila unità considerati i 647 mila decessi. MENO FAMIGLIE - In un Paese con 60,3 milioni di abitanti, di cui 5,4 milioni stranieri, per il quinto anno consecutivo la popolazione diminuisce: al 1 gennaio 2020 i residenti erano 60 milioni 317 mila, 116 mila in meno. «Il 2019 è un anno nel quale le tendenze demografiche risultano da un punto di vista congiunturale in linea con quelle mediamente espresse negli anni più recenti. Le evidenze documentano ancora una volta bassi livelli di fecondità, un regolare quanto atteso aumento della speranza di vita, cui si accompagna come ormai di consueto una vivace dinamica delle migrazioni internazionali», si legge nel dossier. Ciò che emerge, soprattutto, è che l'Italia è un Paese dove avere figli è sempre più difficile. E i contraccolpi sociali sono allarmanti. «Come conseguenza dell'abbassamento di natalità vi è un abbassamento del numero delle famiglie. Questo significa che il tessuto del nostro Paese si indebolisce e va assunta ogni iniziativa per contrastare il fenomeno», afferma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. L'età media delle madri si attesta a 32,1 anni, con tassi di fecondità che «continuano a mostrare un sostanziale declino nelle età giovanili, fino a circa trent'anni, e un progressivo rialzo dopo i trenta», rileva l'Istat. Fanno più figli le donne ultraquarantenni rispetto alle giovani sotto i vent'anni, precarietà occupazionale e difficoltà a svolgere il doppio ruolo di mamma lavoratrice spostano sempre più avanti l'asticella. «Dati preoccupanti. La soluzione c'è, ma costa molto. In Svezia la spesa per natalità è il doppio della nostra. Ma loro spendono un sesto dell'Italia per interessi sul debito», rileva Carlo Cottarelli, direttore dell'Osservatorio sui conti pubblici italiani. Il calo della popolazione si concentra prevalentemente nel Mezzogiorno (-6,3 per mille) e in misura inferiore nel Centro (-2,2 per mille), mentre prosegue il processo di crescita al Nord (+1,4 per mille), dove nascono anche più bambini: 1,36 figli per donna, contro 1,26 del Sud e 1,25 del Centro. Il primato della zona più prolifica spetta alla provincia di Bolzano con 1,69 figli per donna, segue Treno con 1,43, dati che - si legge nel rapporto - «evocano una correlazione tra intenzioni riproduttive e potenzialità garantite da un maggior sviluppo economico e sociale di tali regioni». MIGRAZIONI - Ma lo scenario complessivo resta desolante. «Il divario tra nascite e decessi, nonché il calo dei nuovi nati, conferma come nel nostro Paese sia in atto un vero e proprio smottamento demografico, che procede sempre più spedito. Solo negli ultimi dieci anni l'Italia ha perso quasi 134 mila neonati e rispetto al baby boom degli anni Sessanta registriamo oltre mezzo milione di nascite in meno», sottolinea Save the children. Un tasso di denatalità che sarebbe ancora più marcato se non ci fosse il contributo alle nascite da parte delle donne immigrate: circa un quinto di bimbi nati nel 2019, infatti, ha madre straniera. Nel contempo l'Istat segnala un aumento anche degli italiani che vanno all'estero: nel 2019 sono stati 120 mila, tremila in più dell'anno precedente. L'unica buona notizia è che in Italia si vive più a lungo: in generale, la speranza di vita al momento della nascita si è allungata di un mese, passando a quasi 81 anni per gli uomini e 85,3 per le donne. Al Sud si abbassa rispettivamente a 80,2 e 84,5, nel Nord est arriva a 81,6 e 85,9, mentre al Centro è di 81,3 per gli uomini e di 85,5 anni per le donne. Il record di sopravvivenza femminile spetta a Trento, con una speranza di vita che arriva a 86,6 anni, livello più alto mai toccato nella storia del Paese per una singola regione. Anche il Mezzogiorno però si aggiudica un primato: nonostante si stia spopolando, i suoi abitanti sono mediamente più giovane rispetto a quelli del Centro-Nord. Pag 7 Meglio la vita di coppia ma non è fondamentale di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Il 45% dei nordestini ritiene importante avere una relazione stabile al giorno d’oggi dieci anni fa la percentuale era al 59% «Saremo felici o saremo tristi, che importa? Saremo l'uno accanto all'altra. E questo deve essere, questo è l'essenziale», diceva Gabriele D'Annunzio. Oggi, però, sembrano essere sempre meno le persone che condividono l'essenzialità dell'essere in coppia. Secondo i dati analizzati da Demos per l'Osservatorio sul Nord Est del Gazzettino, infatti, meno di un nordestino su due (45%) ritiene fondamentale avere una relazione stabile al giorno d'oggi: rispetto al 2009, quando la medesima opinione raggiungeva il

Page 31: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

59%, il saldo è negativo di 14 punti percentuali. Quattro nordestini su dieci (40%), invece, giudicano questa una condizione importante, ma non fondamentale. In questo caso, la crescita, rispetto a 11 anni fa, quando il valore era fermo al 32%, è di 8 punti percentuali. Più che raddoppiata anche la quota di chi ritiene che essere in una coppia stabile non sia una condizione per avere una vita piena, che sale dal 5% rilevato nel 2009 all'attuale 11%. Sostanzialmente stabile (4%), infine, la percentuale di chi pensa sia meglio non avere nessun legame. UNDER E OVER - Giovani e anziani appaiono speculari nel giudizio sull'importanza del rapporto di coppia. Tra gli under-25, infatti, prevale nettamente la quota di chi ritiene sia importante avere un compagno o una compagna, ma non fondamentale (70%). Dall'altra parte, tra gli over-65 cresce la quota di chi giudica fondamentale avere un rapporto di coppia, superando abbondantemente la soglia della maggioranza assoluta (67%). Nelle classi d'età centrali, invece, le idee sembrano essere un po' meno chiare. Tra quanti hanno tra i 25 e i 34 anni, sono sostanzialmente equivalenti le percentuali di chi giudica fondamentale (41%) e importante (40%) avere un rapporto di coppia, ma tra di loro tende ad essere più presente anche l'idea che non sia una condizione per una vita piena (16%). Tra le persone di età centrale (35-54 anni), poi, l'idea che avere un compagno o una compagna stabile sia fondamentale (37-40%) cede il passo a quanti ritengono che sia importante, ma niente di più (44-45%). In linea con i valori medi, invece, sono quelli rilevati tra gli adulti tra i 55 e i 64 anni. I FATTORI VINCENTI - Cosa è importante in un rapporto di coppia oggi? Il dialogo è il primo fattore (37%, -3 punti percentuali rispetto al 2009), seguito da complicità (18%, in crescita di 4 punti percentuali rispetto a 11 anni fa) e comprensione (17%, sostanzialmente stabile). Condividere i problemi è l'aspetto più importante nell'avere un compagno o una compagna per il 14% dei nordestini (-4 punti percentuali guardando al 2009), mentre avere interessi in comune è la priorità per il 10% (+5 punti percentuali rispetto a 11 anni fa). Chiudono, il sesso, la passione (2%) e il romanticismo (1%): sostanzialmente stabili rispetto al 2009, non sembrano aver mutato la loro (ridotta) rilevanza. «Credo che il Nordest abbia bisogno di seguire un corso per comprendere il senso dell'amore. Intanto, inviterei tutti a leggere L'Educazione Sentimentale di Gustave Flaubert, o Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Wolfgang Goethe. In fondo, sono anche letture facili». Stefano Zecchi, filosofo e scrittore, rimane senza parole innanzi ad un sondaggio in cui il romanticismo in una coppia risulti essere marginale. «È una proiezione davvero triste. Anche se non stupisce in una società sempre più chiusa e votata all'egoismo». In effetti le persone che credono nella vita a due, come fondamento del proprio esistere, sono sempre meno numerose. «Perché si sta smarrendo l'idea di famiglia. Perché a vincere, oggi, è la paura delle responsabilità. Un limite, questo, che impedisce di guardare al futuro con gioia. Tant'è, in molti casi, si predilige la solitudine che, d'altra parte, non è poi una condizione così triste nella contemporaneità. La società si sta plasmando ed adeguando alla singletudine'. Ed è giusto che sia così. Ma, ripeto, la vita fatta di egoismi, solitudini e pigrizie non evolve». I giovani sono i meno inclini a puntare tutto sulla coppia. «Non ci credono. E non c'è da meravigliarsi se per gli adulti, che sono il loro modello, l'amore è importante ma non fondamentale o, addirittura, non necessario; e, soprattutto, se per gli adulti a rendere solida una relazione sono le parole, la comprensione, la complicità, la condivisione dei problemi e l'avere interessi comuni. Sminuendo il romanticismo, che è invece l'essenza dell'amore, è la tenerezza, l'affetto, è l'irrazionale che lega indissolubilmente due esistenze». Pag 27 Le difficoltà di coppia questione generazionale di Paolo Legrenzi Le opinioni sono profondamente cambiate. Dieci anni fa, più di due terzi dei veneti alla domanda: Quanto è importante nella vita di una persona avere una relazione di coppia stabile?, rispondeva che era importante, se non fondamentale. Oggi sono aumentati molto quelli che pensano che sia una condizione importante, ma non fondamentale,

Page 32: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

forse nemmeno necessaria. Secondo fatto: sono molti di più, soprattutto tra i giovani, i veneti che non vivono sotto lo stesso tetto del partner, fisso o saltuario che sia. L'Istat, ci fornisce i dati e usa un lessico inquietante per comunicarli. Parla di famiglie unipersonali. Sembra paradossale perché i media e la pubblicità tendono a parlare, o a mostrare come famiglia standard quello che è lo stereotipo: una coppia con figli. Sul piano statistico, però, la famiglia considerata normale è ormai diventata eccezionale. Forse è meglio parlare di unipersonale invece di solitario? Costoro preferiscono vivere da soli oppure non riescono a mettere su famiglia? Quante famiglie unipersonali sono persone che hanno un partner e non una casa, ma vorrebbero averli entrambi? Tutte domande cruciali, ma senza risposte precise. Capiremmo molte cose del mondo di oggi se sapessimo quali sono le cause e quali gli effetti. Terzo fatto: in Italia i giovani vivono in casa con i genitori anche da grandi, più a lungo che in tutti i paesi industriali, molto più a lungo che nei paesi anglosassoni. Questa è una scelta o una necessità o un miscuglio delle due cose? Forse iniziano a stare in casa per necessità e poi diventa una comoda abitudine? Lo ignoriamo. Probabilmente non lo sapremo mai, sono questioni troppo intime. Illusorio indagarle tramite i sondaggi. Anche se proviamo a farlo, non sappiamo se le persone dicono il vero, ammesso che sappiano loro stesse quale sia la verità. Misteri. Altri fenomeni sono meno nascosti. Sappiamo per certo, per esempio, che la generazione che ha più di cinquanta anni ha rubato il futuro ai giovani. Credendo di acquisire il consenso di chi vota, a scapito di chi non ha l'età per farlo, i politici hanno per decenni distribuito risorse che non avevano, aumentando così il debito pubblico sulle spalle di chi non poteva ribellarsi e, probabilmente, neppure lo sapeva. Molti - tra chi ha beneficiato di queste risorse a debito, che cioè non erano state guadagnate - stanno forse bene con il partner. Hanno però uno o più figli in casa, anche perché è alta la percentuale di giovani che non lavorano rispetto agli altri paesi industriali. I genitori dicono che preferirebbero avere dei figli con un'occupazione e un partner stabile, quello che era capitato loro da giovani. Molti, purtroppo, non sono consapevoli che la loro stessa generazione - nel complesso, non loro personalmente - ha agito per impedirlo. LA NUOVA Pag 6 Siamo il Paese delle culle vuote. Mai così male da oltre un secolo di Flavia Amabile La fotografia Istat: nel 2019 il saldo peggiore tra nati e morti Mai così pochi nati in Italia come nel 2019. E mai così pochi nati rispetto all'aumento di chi invecchia. Sono nati 435mila bambini, il ricambio naturale più basso degli ultimi 102 anni e un calo di 140mila nascite dal 2008. E rispetto al baby boom degli anni Sessanta ci sono oltre mezzo milione di nascite in meno. Sono i dati contenuti nel rapporto annuale diffuso dall'Istat. Mostrano un'Italia in balia di un problema nascite in corso da anni senza che nessun governo abbia finora posto in essere le iniziative strutturali in grado di invertire o almeno porre un freno a questa tendenza. È quello che ha chiesto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Va assunta ogni iniziativa per contrastare questo fenomeno» ha detto il capo dello Stato spiegando che si rischia un indebolimento del «tessuto del nostro Paese». Un appello che la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti intende raccogliere: «Compito delle istituzioni è quello di rimettere al centro le famiglie e di restituire loro speranza. Stiamo provando a farlo con il Family Act, una visione integrata e di politiche organiche che permettano alle donne e agli uomini del nostro Paese di fare scelte libere e consapevoli». In Italia ci sono 60,3 milioni di abitanti, di cui 5,4 milioni stranieri. L'età media delle madri è fra le più alte dell'Unione europea, sui 32,1 anni, con i tassi di fecondità che «continuano a mostrare un sostanziale declino nelle età giovanili (fino a circa trent'anni) e un progressivo rialzo in quelle più anziane (dopo i trenta)». Secondo i dati dell'Istat, fanno più figli le donne che hanno superato i quarant'anni di quanti ne facciano le giovani sotto i venti anni. E la mancanza di figli è in parte attenuata dal contributo alle nascite da parte delle donne immigrate. Circa un quinto di bambini nati nel 2019, infatti, ha madre straniera. Tra queste nascite, pari a un totale di 85mila, 63mila sono quelle con un compagno straniero (che quindi incrementano il numero di nati in Italia con cittadinanza estera), 22mila quelle con un compagno italiano. Al calo delle nascite, e quindi delle generazioni più giovani, si contrappone l'aumento della speranza di vita:

Page 33: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

cresce di un mese arrivando a 85,3 anni per le donne e a 81 per gli uomini. Si segnala, inoltre, un ulteriore rialzo dell'età media: 45,7 anni al primo gennaio 2020. È una notizia positiva ma andando a analizzare nel dettaglio i dati, si nota un'Italia sempre più divisa in due, con il Nord in crescita costante e il Sud alle prese con una speranza di vita più bassa e uno spopolamento conseguenza delle migrazioni interne. A fare figli sono soprattutto gli abitanti delle province autonome di Bolzano e Trento, mentre Molise e Basilicata hanno perso in un anno una cifra enorme, l'1% della popolazione. In aumento anche gli italiani che vanno all'estero. Nel 2019 sono stati 120 mila, tremila in più dell'anno precedente. Il saldo migratorio con l'estero resta comunque positivo per 143 mila unità, «in virtù del fatto che a fronte di 307 mila iscrizioni anagrafiche dall'estero si hanno solo 164 mila cancellazioni», sottolinea l'Istat. Il dato risulta in evidente calo se confrontato con i due anni precedenti (in media oltre 180mila unità aggiuntive annue) e persino al di sotto della media degli ultimi cinque anni (+156mila) . «Il 2019 - sottolinea l'Istat - è un anno nel quale le tendenze demografiche risultano da un punto di vista congiunturale in linea con quelle mediamente espresse negli anni più recenti». Richieste di misure di sostegno alle donne e alle famiglie sono arrivate da tutto il mondo della politica, mentre Save The Children ha lanciato un allarme sullo «smottamento demografico. Questo - spiega l'associazione - ci deve far riflettere: in Italia nascono pochi bambini e hanno in media genitori più anziani rispetto al passato, anche in considerazione delle difficoltà per i più giovani di raggiungere l'autonomia necessaria per creare e sostenere un nuovo nucleo familiare». Pag 7 De Rita: “C’è paura di impoverirsi. E i giovani rifiutano i sacrifici” di Giacomo Galeazzi Il fondatore del Censis: “Si tende sempre più a rinviare in avanti il passaggio alla vita adulta” Analisi secca, senza sfumature: «Per riempire le culle non bastano bonus o asili nido gratis. Bisogna lavorare sul tessuto sociale e ricostruire un'idea di comunità». Il sociologo Giuseppe De Rita, fondatore del Censis ed ex presidente del Cnel, attribuisce il crollo delle nascite a «una dinamica culturale malata». Prende in mano i dati sulla natalità a partire dagli anni 70 e li mette a confronto con quella che chiama la «cetomedizzazione» dell'Italia. Qual è la tendenza in atto? «In Italia la denatalità è un dato ormai strutturale. Ciò provoca un danno anche economico. Per anni la dottrina tradizionale riteneva l'elevata natalità un moltiplicatore delle possibilità di povertà». Poi cosa è cambiato? «Ora la prospettiva sociologica si è capovolta: la denatalità diminuisce la ricchezza sociale attraverso effetti negativi sulla mobilità economica e sulla psicologia collettiva. Le culle sempre più vuote sono il risultato di un Paese impaurito, ripiegato sul presente, incapace di pensare al futuro». Problema solo culturale? «Non solo. C'è un narcisismo di massa che fa temere al ceto medio un progressivo impoverimento. Non si è più disposti a fare sacrifici per proiettare in avanti, attraverso i figli, le proprie speranze. Il crollo delle nascite nell'ultimo decennio sarebbe stato ancora più verticale se l'Italia non avesse goduto dell'effetto compensatorio della fecondità delle straniere». Cosa deve fare la politica? «C'è un quadro di incertezza occupazionale ed economica che contribuisce a una profonda revisione anche dei modelli culturali relativi alla procreazione. È un paradigma sociale segnato dalla tendenza a rinviare i momenti di passaggio alla vita adulta, soprattutto la scelta coraggiosa di diventare genitori». Qual è l'alternativa?«Si preferisce divertirsi o mettere da parte risorse in vista di qualche investimento o nel timore di esigenze future. Quello che entra in cassa viene messo a risparmio invece che a consumo. Fare figli è ritenuto un salto nel buio». Quanto ha inciso la crisi economica di questo decennio?«La crisi ha pesato su tutto, anche sulla voglia di avere figli. Ma non è detto che le coppie sarebbero più propense ad allargare la famiglia se migliorassero gli interventi pubblici. È un problema più profondo, di mentalità e di dittatura dell'io. Una società che non sa più dire "noi" non fa figli. Si è perso l'equilibrio nei rapporti sociali necessario per stare bene insieme, uno accanto all'altro. Per uscire dall'inverno demografico occorre rimboccarsi le maniche. Servono umiltà, volontà di fare, capire, migliorarsi. Altrimenti è la decadenza». Cosa è cambiato dal 2008? «Il ceto medio di natura impiegatizia ha peggiorato la propria condizione, si è precarizzato e ha introiettato insicurezze e rabbia che prima non aveva. Invece di un

Page 34: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

salto di qualità c'è stato un balzo all'indietro generalizzato». E ciò a cosa è dovuto? «L'egolatria dei social riduce gli orizzonti mentali e impedisce di accettare la sfida della genitorialità. Sono cresciuti timori, risentimento, autoreferenzialità. Tutti dicono che in Italia non c'è più un euro, ma non è vero. Aumentano i depositi bancari, le polizze vita, il risparmio nei fondi d'investimento, i soldi provenienti dall'economia sommersa e nascosti nel materasso. Lo conferma il fatto che in giro sono introvabili le banconote da 200 euro. Se non si fanno figli è soprattutto perché non si vuole ridimensionare tenore di vita, abitudini e comodità. I figli costano e obbligano eterni Peter Pan a uscire dal loro egoismo». Tanti vanno all'estero... «Le nuove generazioni, quelle in età fertile, vanno a studiare o lavorare all'estero e lasciano il Paese al suo declino. La metafora della mucillagine rende bene l'idea: monadi scomposte che si riaggregano in poltiglie indistinte, senza un collante che le unisca in nome di un bene comune o di un progetto familiare. Non c'è più la speranza di migliorare, di crescere». Pag 7 Per il rilancio c’è una sola strada: puntare sul lavoro di Roberta Carlini Sessantasette neonati ogni cento morti. Il bilancio demografico che l'Istat ci consegna ogni anno puntualmente ci mostra teste sempre più grigie e con esse ingrigisce le aspettative. Sì, è vero che la vita continua ad allungarsi: adesso l'aspettativa di vita alla nascita è di 81 anni per gli uomini, 85,3 per le donne. Ma quel mese di vita in più che statisticamente conquistano le generazioni che ogni anno nascono, in quale Paese lo vivono e lo vivranno? Prima risposta: in un Paese che invecchia e che si spopola. Il trend è iniziato cinque anni fa e da allora non si è fermato. Scende in numeri assoluti la popolazione italiana, 116.000 in meno nel 2019 rispetto all'anno prima. Questo dato include diverse variabili: le persone nascono, muoiono e si spostano nel frattempo. Se guardiamo solo al saldo nascite-morti, il bilancio è di meno 212.000. Appunto, 67 neonati ogni 100 morti. Scrive l'Istat che si tratta del più basso livello di ricambio naturale mai espresso dal Paese dal 1918. In questi giorni è nelle sale 1917, il film che ci ricorda la carneficina della prima guerra mondiale che fu la causa di quel record negativo, nel 1918. E oggi? Se non una carneficina, qual è la causa? Seconda risposta: le cause sono tante, e certo la più importante è l'onda lunga della denatalità dei decenni trascorsi. Ci sono meno donne in età fertile e dunque meno figli. Però insieme a questo dato strutturale, in qualche modo ineliminabile, ce ne sono altri su cui invece si può agire. Il record di "uscite" per emigrazione (164mila cancellazioni per l'estero, il livello più alto mai raggiunto da quando questa misurazione esiste) registra solo una parte del fenomeno dei cervelli e braccia in fuga, sul quale la politica non si attiva, impegnata invece a tempo pieno sull'altro versante, quello dell'immigrazione - peraltro in calo, dicono i numeri del 2019. Qui la "carneficina" si chiama economia, il lavoro che non c'è o è pagato male, le opportunità che non si aprono o non si vedono. Ma allora non si può fare niente, finché non si trova il modo di stimolare e far funzionare politiche per lo sviluppo? Terza risposta: qualcosa si può fare, anche prima e fuori dalla agognata ripresa (che, hanno appena detto i numeri dell'Istat, è lontana e potrebbe vieppiù distanziarsi a causa delle turbolenze economiche da coronavirus). Basta guardare alle differenze nel tasso di fecondità tra le regioni, con Bolzano e Trento, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto in testa. Tutti posti nei quali non solo vanno relativamente meglio l'economia e il mercato del lavoro, ma è maggiore anche l'occupazione femminile. Da anni i numeri smentiscono il vecchio luogo comune: le donne che lavorano fanno più figli, non meno figli. Perché una famiglia monoreddito con figli ha molte probabilità di essere una famiglia povera, e per vari altri motivi. Puntare sul lavoro - a cominciare da quello delle donne - è l'unica strada per contrastare il grigio dei dati e delle previsioni demografiche. Pag 8 Fra trent’anni in Veneto 82 inattivi ogni 100 lavoratori. Welfare in pericolo di Gianpiero Dalla Zuanna La tendenza si può combattere, a partire dalle politiche locali applicando i principi di sussidiarietà e uguaglianza Il documento Demografia e welfare sostenibili: il Veneto e le sue comunità locali verrà presentato sabato alle 9.30 al centro parrocchiale di Limena (viale della Rimembranza,

Page 35: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

29). Dopo un'introduzione di Sandro Castegnaro, del Forum di Limena, Maria Letizia Tanturri e Gianpiero Dalla Zuanna, demografi dell'Università di Padova, parleranno dell'importanza della sostenibilità demografica. Seguiranno tre interventi sulle politiche possibili nel Veneto e nei suoi Comuni. Erica Bertoncello, già assessore al Sociale di Bassano, racconterà cosa possono fare i Comuni per le famiglie con figli; Antonio (Gianni) Saccardin, già vicesindaco di Rovigo, parlerà di misure di contrasto allo spopolamento; Michele Testolina, funzionario comunale, ragionerà sulle sperimentazioni di welfare innovativo. Seguirà un momento di discussione, che sarà concluso da Giorgio Santini, presidente di ASVESS. Il Forum di Limena - costituito nel 2019 da un gruppo di cristiani, sacerdoti e laici, del Triveneto - propone occasioni di riflessione e di incontro sui fondamenti dell'impegno politico e sulle conseguenti politiche possibili nelle regioni del Nord Est. Il suo documento fondativo è stato sottoscritto da più di 500 persone. ASVESS (Associazione Veneta per lo Sviluppo Sostenibile) promuove a livello regionale gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, per un futuro in cui il benessere delle persone e delle formazioni sociali cresca in armonia con quello dell'ambiente. L'Europa ospita il 10% della popolazione mondiale, produce il 20% del PIL, ma la sua spesa per il welfare è il 50% di quella mondiale. Gli adulti europei, produttori di reddito, attraverso il prelievo fiscale e i contributi pensionistici sostengono il benessere di bambini e anziani, ossia di quanti il reddito non sono ancora o non sono più in grado di produrlo. Per mantenere il nostro welfare, i produttori devono essere così numerosi da sostenere i consumatori di welfare. Quando parliamo di welfare europeo dobbiamo quindi parlare anche di demografia. La sfida che ci attende nei prossimi decenni è difficile. In Europa fra il 1960 e il 2020 il rapporto fra le potenziali "bocche da sfamare" di età 0-19 e 70+ e i potenziali lavoratori di età 20-69 è stato sostenibile, perché il continuo aumento degli anziani è stato compensato dalla rapida diminuzione dei giovani. Nella seconda metà del Novecento la demografia è stata quindi favorevole al welfare e allo sviluppo economico. Nel prossimo trentennio, invece, anche tenendo conto delle possibili immigrazioni, gli adulti in Europa diminuiranno rapidamente (2 milioni e 400 mila persone in età 20-69 in meno ogni anno), mentre i figli del baby boom nati nel 1950-70 diventeranno vecchi (un milione e 800 mila ultra-settantenni in più ogni anno). Nel 2050 in Europa vi saranno 70 "bocche da sfamare" ogni 100 persone in età di lavoro, mentre oggi ce ne sono 53. La sfida da affrontare in l'Italia e nel Veneto è ancora più drammatica. Da qualche anno l'Italia e il Veneto vivono una "tempesta demografica perfetta" a causa dell'incremento della sopravvivenza oltre i 70 anni, di una prolungata bassa fecondità e di saldi migratori negativi o debolmente positivi per i giovani e per gli adulti. Nel 2050 in Italia e nel Veneto, se le prudenti previsioni dell'Istat si realizzeranno, ci saranno 82 persone da accudire ogni 100 persone in età da lavoro, contro 70 su 100 nella già vecchia Europa. Partendo da questi dati, un gruppo di lavoro promosso dal Forum di Limena e dall'ASVESS presenta una serie di proposte per mantenere la sostenibilità del welfare veneto. Sono azioni che - fin da oggi - la Regione, i Comuni, le imprese e le associazioni venete potrebbero intraprendere per contrastare il declino demografico, o almeno per mitigarne gli effetti. Il documento - che verrà presentato sabato alle 9.30 al centro Parrocchiale di Limena - è assai articolato: parla di contributi europei, di fondi pensione, di welfare aziendale, di lotta allo spopolamento, di case di riposo, di politiche di integrazione degli stranieri, di scuole per l'infanzia statali e paritarie, dei Comuni amici della famiglia, di tempi delle città, di politiche familiari regionali, e di molto altro ancora. Il documento prende sul serio le idee di sussidiarietà e di uguaglianza, declinandole in proposte concrete. Applicare la sussidiarietà vuol dire favorire le iniziative messe in atto dalle "formazioni sociali ove si svolge la personalità dell'uomo" (art. 2 della Costituzione). Un esempio di (mancata) sussidiarietà è la politica della Regione Veneto per le scuole per l'infanzia paritarie. Il contributo regionale alle scuole paritarie e comunali è sceso da 42 milioni l'anno del 2014 a 31 milioni l'anno nel 2019, un calo molto superiore rispetto alla diminuzione degli alunni. È facile non aumentare le tasse, tagliando i servizi! Lottare per l'uguaglianza vuol dire eliminare le differenze dovute - ad esempio - al luogo di residenza. Una parte del documento è dedicata allo spopolamento, che colpisce molte aree della nostra regione, non solo montane. Il Veneto potrebbe adottare misure già messe in atto in altre realtà italiane, come contributi ai piccoli negozi, deroghe nelle

Page 36: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

dimensioni delle classi scolastiche, nella localizzazione dei presìdi sanitari fissi e mobili, degli uffici postali e degli altri presìdi pubblici. Vanno inoltre potenziati i collegamenti con mezzi pubblici. Diversamente, tutti i centri del Veneto piccoli e isolati rischiano di diventare paesi-fantasma, come è già accaduto in altri luoghi d'Italia, in particolare negli Appennini e in alcune aree alpine. Per fare queste cose, rendendo più facile e confortevole la vita per le famiglie, è necessario ripensare la distribuzione del welfare, Questo documento propone qualche passo concreto in questa direzione.

Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 14 Acqua alta, il progetto per San Marco di Roberta Brunetti Venezia, presentato il piano per dotare la piazza di un sistema di protezione invisibile. Oggi si allaga già a 87 centimetri Venezia. Un sistema di protezione invisibile, che metterà all'asciutto Piazza San Marco senza farsi notare troppo. «Sarà come nel gioco della Settimana enigmistica Trova le differenza - ha scherzato l'architetto Raffaele Germetta, presidente della società di progettazione Mate -. Prima e dopo gli interventi che proponiamo, la Piazza dovrà apparire uguale, anzi con qualche piccolo dettaglio migliorativo». L'atteso progetto per la salvaguardia di Piazza San Marco dalle acque alte intermedie - quelle fino ai 110 centimetri, quando dovrà entrare in funzione il Mose - è pronto. Era stato il Provveditorato alle opere pubbliche a rimettere in moto il Consorzio Venezia Nuova, che a sua volta aveva affidato la progettazione a Kostruttiva, con la sua consorziata Mate, e Thetis. Dopo due anni di lavoro che hanno coinvolto anche l'università di Padova e lo Iuav, il progetto definitivo è stato consegnato al Consorzio il 15 gennaio. E ieri è stato presentato alla stampa. Un'iniziativa presa dalle imprese, che hanno organizzato questo incontro, in Marciana, ancora prima dell'avvio dell'iter autorizzativo che coinvolgerà lo stesso Consorzio, ma soprattutto Provveditorato e Soprintendenza. «Non vogliamo sostituirci a nessuno - ha chiarito Devis Rizzo, il presidente di Kostruttiva - ma dopo i fatti di novembre, volevamo dare un messaggio di speranza, mostrare che c'è gente che sta lavorando per risolvere i problemi». Insomma la strada è ancora lunga. Ma il progetto definitivo è un primo passo importante verso la realizzazione di un'opera di difesa indispensabile. Anche con la messa in funzione del Mose, infatti, San Marco è destinata a finire sott'acqua spesso. Un problema qui particolarmente drammatico, visto che già con una marea tra gli 87 e gli 89 centimetri la Piazza è per metà allagata, ma che interessa anche tanti altri luoghi della città che finiscono sott'acqua prima dei 110 centimetri, fissati come soglia per l'innalzamento delle dighe mobili. «Il sistema Mose non è fatto solo dalle opere alle bocche di porto - ha ribadito ieri Rizzo -. E non ci sono dighe mobili che tengano, senza gli altri interventi. Servono opere di difesa diffuse in città per raggiungere l'obiettivo della vera salvaguardia». UNA SOLUZIONE ARTICOLATA - Per la Piazza la soluzione proposta è articolata. Abbandonata la vecchia (e costosissima) idea di impermeabilizzare San Marco con una sorta di guaina, il nuovo progetto punta, da un lato, sulla difesa dei marginamenti con piccole paratoie e barriere mimetizzate, dall'altro, sulla chiusura della rete sotterranea di cunicoli (i cosiddetti gatoli) da cui risale l'acqua con un sistema di valvole e pompe da sistemare in un impianto di sollevamento che smaltirà anche le acque piovane. «Le chiusura saranno limitate a quando necessario. Il sali e scendi della marea, che ha dato stabilità alla Piazza, non sarà interrotto», ha precisato l'ingegner Lino Pollastri che ha illustrato tanti dettagli del progetto, tutti improntati al minimo impatto. Ed eccole le paratoie in legno e acciaio rimovibili nei punti più bassi del molo, dove sarà creata anche una pedana-barriera in legno, tipo panchina. Sarà rifatto anche il frangiflutti in acqua, perché qui le onde - è stato calcolato dall'università di Padova - possono raggiungere il mezzo metro. Mentre l'angolo di Palazzo Ducale sarà protetto con un altro tipo di barriera mimetizzata. L'impianto di smaltimento con le pompe sarà inserito in un pontile, per una manutenzione più facile. Invisibili, ma raggiungibili anche le quattro valvole per chiudere la rete dei cunicoli che saranno sistemate in Bacino

Page 37: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Orseolo, in calle della Canonica, in rio della Luna e al Molo. Imponente anche lo sforzo immaginato per non alterare nulla dei 20mila metri quadri di superficie della Piazza. «Su circa 100mila lastre di pietra, ne saranno movimentate 90mila - ha spiegato l'architetto Arturo Augelletto - ma con l'obiettivo di non perdersi alcun pezzo. Ognuno sarà classificato». TEMPI, COSTI & POLEMICHE - Un intervento invisibile, ma impegnativo, che costerà circa 30 milioni. «Difficile calcolare i tempi - ha precisato Rizzo - Dipende dal cronoprogramma che dovrà essere concordato con tutti i soggetti interessati. Il cantiere non potrà intercludere in modo eccessivo un luogo come Piazza San Marco, ci sarà un percorso da studiare con tutti». In un paio d'anni dall'inizio dei lavori, però, Rizzo calcola che si potrebbero già vedere gli effetti della protezione con gli «impianti in esercizio provvisorio». I primi complimenti al progetto sono arrivati ieri dalla presidente di Italia Nostra di Venezia, Lidia Fersuoch, e da professor Stefano Boato, figura storica dell'ambientalismo lagunare, entrambi molto critici, invece, verso il nuovo progetto della Procuratoria di San Marco che vorrebbe proteggere la Basilica con dei parapetti in vetro. «Un obbrobrio» per Fersuoch. «Non conosco il progetto della Procuratoria. Non posso valutarlo. Ma anche il nostro progetto metterà al sicuro la Basilica», ha risposto Germetta. LA NUOVA Pag 2 Piazza restaurata e protetta dall’acqua. Masegni da riparare, pompe e valvole di Alberto Vitucci Presentato ieri il progetto che il Provveditorato ha affidato a Kostruttiva. Trenta milioni e protezione fino a quota 110 Venezia. Quattro valvole per intercettare l'acqua che entra. Sette pompe per togliere l'acqua piovana. Il rialzo delle rive di qualche centimetro con paratie amovibili e il restauro dei cunicoli sotterranei e dei masegni. Eccolo il progetto per mettere all'asciutto Piazza San Marco. Presentato ieri mattina nella sala Monumentale della Biblioteca Marciana dal Consorzio di imprese che lo ha ultimato su incarico del Provveditorato alle Opere pubbliche. Sono la Mate engineering, del Consorzio Costruttiva e la Thetis. Trenta milioni di euro il costo dei lavori. «In questo modo», spiega il presidente di Kostruttiva Devis Rizzo, «metteremo la Piazza all'asciutto per le maree fino a 110 centimetri, quota oltre la quale dovrebbe entrare in funzione il Mose». A differenza dei vecchi progetti invasivi e con la grande guaina per isolare la Piazza dall'acqua, questo prevede un avanzamento per gradi. Saranno schedati uno a uno i 100 mila masegni e pietre, con le lastre in trachite che risalgono alla metà del Settecento, della pavimentazione originale di Andrea Tirali. I ventimila metri quadrati della Piazza saranno restaurati, scavati a mano per riparare gli antichi cunicoli. «Ma la Piazza dovrà respirare, non sarà bloccata la risalita dell'acqua come è sempre stato», dice l'ingegnere di Mate Lino Pollastri. Allora come farà a stare all'asciutto? Rilevazioni batimetriche e con il laser hanno consentito di schedare non solo il Molo, la Piazza e la Piazzetta ma anche le aree adiacenti a San Marco. Cioè il Bacino Orseolo, la Canonica, il Molo dal lato del palazzo Reale, l'angolo di palazzo Ducale verso il ponte della Paglia. In questi quattro punti saranno posizionate piccole barriere alte 30 centimetri. In modo da impedire l'arrivo dell'acqua fino a una quota massima di 115 centimetri. Saranno isolate anche le condotte delle acque nere, che oggi confluiscono negli stessi gatoli cioè i tombini delle acque piovane. A quel punto non resterà che azionare le pompe in grado di estrarre fino a 700 litri di acqua al secondo (nei casi di emergenza sono al massimo 500) e dunque mantenere la Piazza asciutta. Gli impianti di sollevamento saranno posizionati sotto il pontile del Provveditorato, davanti al Todaro. «In questo modo», dicono i tecnici, «non saranno visibili e si potrà intervenire facilmente per eventuali riparazioni». Anche i cantieri saranno non molto grandi, e divisi per lotti successivi, occuperanno al massimo una porzione di 20 metri per 8. «Terremo conto delle attività esistenti, i negozi, gli esercizi pubblici e i gondolieri», dicono i tecnici.Adesso il problema è che il progetto non si fermi. Era successo più volte nel passato. Dovrà essere approvato dalla Soprintendenza, che ha già dato indicazioni precise per non interferire sulla monumentalità della Piazza. È stato consegnato al Consorzio, al Comune e al Provveditorato. La settimana prossima sarà presentato al sindaco Luigi Brugnaro, che si

Page 38: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

è detto molto interessato all'idea.Si tratterà adesso di trovare i 30 milioni necessari per avviare il progetto e i lavori che si potrebbero concludere entro due anni. Una somma ingente, ma di molto inferiore ai 50 milioni richiesti qualche anno fa per la «guaina». In ogni caso quasi la metà del costo del famoso jack-up, la nave attrezzata per rimuover e le paratoie voluta dal Consorzio di Mazzacurati.«Noi siamo pronti», ha detto Rizzo, «adesso tocca alla politica decidere». Uno stallo di vent'anni. Perché della Piazza ci si era quasi dimenticati. In termini di finanziamenti, dirottando i soldi al Mose a partire dagli anni Duemila. E anche in termini di progetto. Bocciata l'idea di mettere la guaina e sventrare San Marco non si erano mai presi in esame progetti alternativi.Adesso la proposta progettuale è finita. Anche se la commissaria Sblocca Cantieri Elisabetta Spitz e il provveditore Cinzia Zincone hanno chiesto di verificare il progetto. Ieri erano entrambe assenti, in viaggio per Roma dove era prevista l'audizione. Assenti anche i progettisti della Thetis, la società del Consorzio che pura fa parte dell'Ati, l'associazione temporanea di imprese. Molte le richieste di chiarimento anche da parte dell'Associazione piazza San Marco, che pure vede con favore il nuovo intervento. I lavori riguarderanno la pavimentazione e non l'interno dei negozi o il sottosuolo delle Procuratìe Vecchie. CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Pompe, valvole, barriere. Un piano da 30 milioni per salvare San Marco di Alberto Zorzi Oltre il Mose: presentati i dieci interventi chiave per proteggere la piazza. La guerra alle barriere di vetro in Basilica: “Fate presto per poterle stoppare” Venezia. Qualcuno la chiama il «salotto» di Venezia, ma quella maxi-guaina impermeabilizzante, come se fosse il piano terra di un’abitazione qualunque, non era passata. L’aveva studiata vent’anni fa il Consorzio Venezia Nuova, quando c’era Giovanni Mazzacurati e il Mose doveva ancora emettere i primi vagiti: costava 100 miliardi di lire e prevedeva un intervento pesantissimo, dovendo togliere quasi tutti i 100 mila masegni della piazza. Ora invece per tenere all’asciutto San Marco si punta su un metodo «soft», con una decina di interventi integrati tra loro, che – e già questo a Venezia è un miracolo – mettono d’accordo anche il fronte ambientalista, presente in massa ieri alle sale monumentali della Biblioteca Marciana per la presentazione del progetto firmato dalle aziende Kostruttiva (tramite la consorziata Mate) e Thetis. Un progetto che dovrebbe mettere fine – non prima di tre anni, però, e con un investimento di 30 milioni – al «paradosso del Mose», se davvero dall’autunno potrà essere sollevato per difendere Venezia dall’acqua alta: ovvero quattro schiere di dighe costate 5 miliardi e mezzo di euro alle bocche di porto e piazza San Marco ancora sott’acqua, con i danni del sale all’inestimabile patrimonio monumentale, a partire dalla Basilica. Il Mose infatti è tarato per alzarsi quando l’acqua sale a 110 centimetri sopra il medio mare, ma piazza San Marco inizia ad allagarsi a quote ben più basse: a 65 centimetri addirittura nel nartece (cioè l’atrio) della Basilica, a 71 in piazza, al 20 per cento a quota 81 e per metà a 89. Perché l’acqua – come hanno spiegato ieri Raffaele Gerometta e Lino Pollastri di Mate – entra non solo scavalcando la riva del bacino di San Marco, stabilita a quota 110 proprio in relazione al Mose; non solo (in minima parte, in realtà) attraverso le infiltrazioni dai marginamenti e dal sottosuolo; ma soprattutto risalendo quel sistema di cunicoli (detti «gatoli» in veneziano) costruiti proprio per il motivo opposto, cioè scaricare in laguna l’acqua delle piogge. E proprio da lì è partito il pool di architetti e ingegneri, che ha lavorato sulla falsariga del progetto del nartece della Basilica. Il «cuore» dell’intervento sarà proprio il restauro dei «gatoli», che verranno puliti e impermeabilizzati, sollevando 9-10 mila masegni, un decimo del totale: alcuni poi saranno chiusi definitivamente, in altri saranno installate delle valvole (quattro in tutto) per impedire la risalita. Non è tutto però. Per evitare l’allagamento durante le piogge sarà creato un sistema di sollevamento con sette pompe che porteranno via l’acqua a ritmo di 700 litri al secondo: l’impianto sarà posizionato sotto un pontile del Bacino, per ridurre al minimo l’impatto paesaggistico e per agevolare la manutenzione, senza dover alzare quei masegni che stanno invece rendendo complessa quella del nartece. Per proteggere la riva del molo di San Marco, verranno poi installati una struttura frangionde, poi una pedana in legno con un rialzo di circa mezzo metro

Page 39: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

nella parte più bassa e delle piccole paratie d’acciaio di 40 centimetri removibili: in caso di forte vento, altrimenti, l’onda rischierebbe di sormontare la sponda. Saranno poi ricalibrate le pavimentazioni di alcune calli (non troppo, perché ci sono le entrate dei negozi), rialzate le porte d’acqua e creata una barriera in acciaio rivestito in simil-pietra alta 30 centimetri sul lato di Palazzo Ducale. Questo dice il progetto definitivo, consegnato lo scorso 15 gennaio al Consorzio Venezia Nuova, che un anno e mezzo fa aveva incaricato Kostruttiva e Thetis su spinta dell’allora provveditore Roberto Linetti. Ora gli enti, compresa la Soprintendenza, dovranno vagliarlo, per poi andare avanti con l’esecutivo. «Dopo l’”acqua granda” del 12 novembre vogliamo dare un messaggio di speranza alla città - dice il presidente di Kostruttiva Devis Rizzo - In questi mesi abbiamo lavorato senza clamori: per noi è stato un grande onore, ma anche una grande responsabilità lavorare sulla piazza più famosa del mondo». Questo inciderà anche sui tempi dei cantieri, che dovranno avanzare con micro-lotti per dare meno fastidio possibile a negozi e locali, a residenti e turisti. Dal momento in cui ci sarà il via burocratico, serviranno comunque un paio d’anni di lavori, anche perché per due mesi almeno i cantieri vanno fermati, tra Carnevale e Capodanno, Redentore e feste varie, comprese le lauree in piazza di Ca’ Foscari. Rizzo invece non si sbilancia sui finanziamenti. «La sicurezza della città non la dà solo il Mose e questo è un esempio», è il suo messaggio. «Alla fine lasceremo la piazza come l’abbiamo trovata», assicura Gerometta. Alla base c’è infatti un’accurata analisi della piazza, con i sofisticati georadar e laserscanner e l’utilizzo di software di modellistica per le immagini in 3D. Ma quando si dovrà scavare, vista la delicatezza, si tornerà all’antico: con le mani. «Bisogna fare svelti, rendere questo progetto utile il prima possibile per stoppare certe baggianate e follie», dice Stefano Boato, ex docente Iuav. «Sono soddisfatta che non si parli più di membrane e impermeabilizzazioni, ma mi piacerebbe che questo progetto stoppasse l’idea di infilzare lastre di vetro tra i masegni», aggiunge Lidia Fersuoch, presidente della sede veneziana di Italia Nostra. I progettisti hanno ripetuto chiaramente che i due interventi non sono assolutamente collegati: ma tanti degli ambientalisti presenti in platea vedono il progetto di Kostruttiva e Thetis per tenere all’asciutto piazza San Marco come un modo per arginare la nuova ipotesi della Procuratoria di San Marco: barriere in vetro o cristallo intorno alla Basilica per difenderla dall’acqua alta che entra proprio dalla piazza, dopo che l’intervento sul nartece ha stoppato la risalita. Il piano costerebbe 3 milioni e potrebbe essere pronto già per l’autunno, in vista delle nuove acque alte, dopo che quelle dello scorso novembre-dicembre hanno martoriato una delle chiese più famose al mondo. Ma sia la Procuratoria che il Provveditorato hanno spiegato in passato che si tratta di due progetti complementari e non in competizione.

Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Chi sono i veri indigeni di Luigi Copiello Chiampo e dintorni Testo non disponibile Pag 9 Corsi di formazione ai medici per il suicidio assistito: “Vale solo per i malati terminali” di Silvia Moranduzzo Padova. La vita è costellata di scelte. Scegliere come vestirsi, quale scuola frequentare, chi sposare (e se sposarsi). Scegliere di abbandonare il mondo terreno in caso di malattie gravissime. L’essere umano è libero in quanto sceglie, decide di sé. A questo si ispirano testamento biologico e suicidio assistito. Per quest’ultimo, la Corte Costituzionale, dopo il dibattito scaturito dalla vicenda giudiziaria (e umana) che ha coinvolto Marco Cappato, accusato di aver favorito il suicidio di Dj Fabo e assolto il 23 dicembre dello scorso anno, con la sentenza 242 del 2019 ha messo dei paletti entro i

Page 40: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

quali i medici si possono muovere per aiutare quei pazienti che, a causa delle proprie condizioni cliniche, non vogliono più vivere. E anche l’Ordine dei medici ha deciso di muoversi, eliminando le sanzioni disciplinari per coloro che rientrano nei limiti posti dalla Corte. «Bisogna fare una precisazione: non parliamo di eutanasia – sottolinea Paolo Simioni, presidente dell’Ordine dei medici di Padova –. E non è che da oggi i medici possono staccare la spina ai pazienti: l’articolo 580 del codice penale e l’articolo 17 del nostro codice deontologico sono tutt’ora validi. L’eutanasia è un’azione attiva da parte del medico che procura la morte del paziente e in Italia resta illegale. Sono ancora pochissimi i Paesi nei quali si può praticare legalmente. Il suicidio assistito è un atto, invece, passivo. In questo caso il paziente, che potrebbe vivere ancora, decide che per le sue particolari condizioni di salute vuole morire. Se intercorrono determinate condizioni il medico è autorizzato ad aiutarlo nel suo gesto estremo ma non procura direttamente la morte». La persona deve versare in gravissime condizioni cliniche, essere tenuto in vita tramite trattamenti di sostegno vitale (come idratazione o alimentazione artificiale), soffrire di una patologia non curabile che provoca dolori fisici atroci oltre che a un malessere psicologico e, soprattutto, deve essere capace di intendere e di volere. Capace di scegliere. In questo caso il medico può, ad esempio, togliere la flebo della nutrizione oppure il respiratore. «Altra cosa ancora sono le cure palliative – continua Simioni –. Si tratta di terapie del dolore per persone che inevitabilmente moriranno come i malati terminali, pazienti con neoplasie gravissime e incurabili. Non si accelera il processo, attenzione, ma si danno farmaci che calmino il dolore fino alla fine. Le cure palliative hanno costituito un grande passo avanti nell’umanizzazione della medicina». Per sapersi muovere al meglio nei meandri a volte tortuosi della legge, l’Ordine dei medici di Padova sta organizzando una serie di iniziative informative. «Da tempo abbiamo messo in campo alcuni eventi per informare personale sanitario e cittadini sul testamento biologico, faremo lo stesso sul tema del suicidio assistito e credo si stiano muovendo anche nelle altre città venete – afferma Simioni –. Ci sarà un convegno verso la fine della primavera aperto anche ai padovani durante il quale cercheremo di spiegare nel modo più semplice e immediato possibile cosa prevede la sentenza della Corte Costituzionale. Poi faremo dei seminari operativi specifici per i medici che devono sapere come muoversi nel caso in cui un loro paziente voglia porre fine alla sua vita, chiariremo quali sono le modalità di applicazione della legge. Il tema già era stato affrontato nelle nostre due scuole di etica medica e di comunicazione (quest’ultima è la prima in Italia). È fondamentale che cittadini e medici siano informati a tutto tondo su argomenti delicati come questi. Deve prendere piede una cultura che per ora non c’è, di qui l’importanza della formazione per i medici e dell’informazione per i cittadini. Auspichiamo che si inneschi un dibattito culturale non solo nell’ambito della medicina ma anche in altri, come quello giuridico o etico».

Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Un’Europa in cerca di difesa di Franco Venturini La Ue e la sicurezza Da quando russi e americani hanno cancellato di comune accordo (anche se non lo ammetteranno mai) il trattato Inf che vietava gli euromissili, la questione della sicurezza europea ha acquistato una nuova urgenza. Troppo passivo davanti alle nuove minacce del dopo-guerra fredda e troppo sicuro di una protezione statunitense meno scontata di un tempo, il Vecchio Continente ha incassato a fatica i dissensi transatlantici degli ultimi tre anni. E ora che aumentano le probabilità di rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca, in Europa cresce in parallelo un inedito tormento strategico: dove e con quale consenso sociale si possono trovare le risorse per far avanzare il progetto della difesa europea, oppure quello, più realizzabile, di un pilastro europeo all’interno della Nato e dell’alleanza con l’America? Come evitare di essere schiacciati in un futuro prossimo dalla tenaglia strategica e tecnologica Usa-Cina, con la Russia che non starà certo a guardare? E ancora, come promuovere l’unità di intenti almeno tra i principali

Page 41: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Stati della Ue, essendo chiaro a tutti che non può esistere una sicurezza comune senza volontà politica comune? La Russia e la Turchia, davanti al tardivo risveglio dell’Unione, hanno avuto di recente l’involontaria cortesia di offrire all’Europa un banco di prova capace di collaudare le sue nuove inquietudini: la Libia. Un conflitto a noi vicino, legatissimo agli interessi europei a cominciare da quelli italiani, e per di più osservato con scarso interesse dagli Stati Uniti che più volte hanno invitato gli alleati a provvedere per proprio conto. Ebbene, se di collaudo si è trattato va detto che i risultati sono stati sin qui assai deludenti. Alla vaghezza retorica e agli errori passati dell’Italia si sono aggiunti i timori di fallimento della Germania, e così la conferenza di Berlino è diventata un esercizio diplomatico troppo affollato che ha prodotto un libro dei sogni senza impegni precisi da parte di chi tiene il dito sul grilletto. Tutti hanno detto «sì» ma ognuno si regola come vuole, la tregua e lo stop ai rifornimenti militari sono rimasti concetti in gran parte astratti, si parla anche in Italia di «missione europea» senza precisarne il ruolo e senza valutarne le necessarie premesse, restano inevasi interrogativi come quello che riguarderebbe Misurata (dove c’è un ospedale italiano protetto da forze italiane) nel caso il cirenaico Haftar decidesse di attaccarla, e le linee del confronto militare disegnano di fatto una spartizione della Libia che nessuno dichiara di volere. Se la Libia è un assaggio delle potenzialità di una nuova sicurezza europea, il meno che si possa dire è che resta moltissimo da fare. Ma sul tavolo dell’Europa prossima ventura non c’è soltanto la Libia. C’è, anche, quel Boris Johnson che ha appena celebrato la parte più facile della Brexit e si prepara a una guerra negoziale con Bruxelles su quella più difficile. Non solo, perché resta da scoprire quale sarà la politica estera di Johnson. Quella nazionale e spesso vicina all’Europa esibita in tema di Huawei e 5G, oppure quella appiattita sugli Usa (i precedenti non mancano) mostrata pochi giorni dopo elogiando, nell’imbarazzo degli altri alleati, il «piano del secolo» di Trump sul conflitto israelo-palestinese? L’interrogativo è cruciale, perché gli europei vorrebbero mantenere inalterata, se non allargare, la collaborazione con Londra in tema di sicurezza e di difesa. Cosa che potrebbe non piacere a Washington, particolarmente in campo industriale. C’è la nevrosi politica tedesca davanti al declino dei partiti tradizionali e della cancelliera Merkel, che si traduce in un indebolimento dell’intero progetto europeo. E poi c’è la Francia, diventata grazie al divorzio con Londra l’unico Stato europeo a possedere un seppur modesto arsenale nucleare. Cosa intendeva Emmanuel Macron quando nei giorni scorsi si è detto disposto ad associare altri Paesi europei al potere deterrente della Force de frappe ? L’Eliseo ha respinto un suggerimento venuto da un parlamentare tedesco volto a porre le forze atomiche transalpine sotto comando Ue o Nato, ma se esiste davvero una via alternativa da mettere al servizio dell’autonomia strategica dell’Europa, fin dove vorrà e potrà spingersi un Macron che alle ultime europee ha soltanto pareggiato con Marine Le Pen e che tra poco dovrà affrontare una nuova campagna presidenziale? Di certo le parole del capo dell’Eliseo hanno fatto risuonare un campanello in molte cancellerie europee a cominciare da quella di Berlino, e le prospettive della mezza apertura di Parigi sembrano migliori, e soprattutto meno divisive, del coinvolgimento della Russia sollecitato da Parigi. L’Italia, se non fosse per l’industria della difesa che di norma difende bene occasioni e interessi, brillerebbe per la sua assenza da un simile dibattito. Indipendentemente dalla sorte futura dei progetti europei, si tratta di un errore non nuovo che soltanto in parte può essere giustificato dalla demagogia propagandistica e dalle liti permanenti che caratterizzano la nostra politica interna. A mancare è una consapevolezza fondamentale, che la pace si difende con una valida struttura di sicurezza, non con l’arrendevolezza, la vulnerabilità o l’incertezza dei trattati. Anche perché così si lascia spazio a una non nuova suggestione di certa destra americana, secondo cui l’Italia starebbe meglio rompendo con l’Europa e assumendo, con l’aiuto Usa, una ipotetica quanto poco probabile leadership nel Mediterraneo. Come dirci che continuiamo a essere il ventre molle dell’Europa, quello che più facilmente può essere allontanato dai suoi veri interessi nazionali. AVVENIRE Pag 3 I danni della falsa sicurezza e della logica emergenziale di Antonio Maria Mira Accoglienza e inclusione / 1: la circolare del Viminale è solo un primo passo

Page 42: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Un primo segnale, non ancora una vera ridiscussione del sistema di accoglienza di profughi e immigrati dopo il grave strappo della gestione Salvini. La recente circolare del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, sui costi dei centri di accoglienza per richiedenti asilo, resta ispirata dall’emergenza (vera, presunta o temuta) piuttosto che da scelte lungimirante integrazione. Perché non saranno quei pochi euro in più concessi a invertire la rotta sbagliata presa col cosiddetto primo decreto sicurezza e col decreto ministeriale che ha drasticamente peggiorato il sistema di accoglienza. Solo un passo, speriamo il primo di una nuova rotta. Su queste pagine sono stati documentati a fondo i guasti e l’insicurezza provocati da provvedimenti che stravolgevano il sistema. «I tagli previsti dalle nuove linee guida riguardano infatti esclusivamente costi legati all’erogazione di servizi di integrazione, garantiti con l’impiego di figure professionali specializzate», annotavamo il 7 novembre 2018. E Simone Andreotti, presidente della cooperativa In-Migrazione, grandi esperti di seria accoglienza e di percorsi di inclusione, aveva avvertito: «In presenza di nuovi bandi pubblici con pro die pro capite tagliati, molti gestori privati che lavorano sulla qualità e su centri con piccoli numeri potrebbero non poter partecipare e chiudere». È accaduto. Già a fine 2018, numeri alla mano, emergeva con chiarezza che perfino l’assistenza sanitaria e la 'guardianìa' sarebbero risultati insufficienti. Proprio quello di cui parla la circolare. Bisogna però rendersi conto che il sistema di prima accoglienza non ha mai funzionato bene perché è sempre stato improntato all’emergenza. Anche la nuova circolare sembra ancora una volta cercare soprattutto 'posti', sotto la pressione dei bandi che vanno deserti e per timore di nuovi arrivi a causa della guerra in Libia. Un combinato disposto che da mesi preoccupa i prefetti. Perché se i 'posti' non si trovano, basta un piccolo aumento di approdi ed è subito 'crisi'. Il Viminale poteva imboccare due strade: prevedere, con decreto ministeriale, un capitolato per i servizi di accoglienza diverso da quello fatto confezionare da Salvini e rivitalizzare la rete Sprar (oggi Siproimi), un modello che ancora funziona, pur se con crescente difficoltà. È una delle indicazioni del mondo dell’accoglienza cattolico e laico - e comporta quelle modifiche al 'decreto sicurezza' da tempo evocate dal ministro Luciana Lamorgese. La rivalorizzazione degli Sprar metterebbe in campo posti adeguati, per numero e qualità. Si è puntato sui piccoli correttivi. E si continuano a correre rischi. Il cosiddetto decreto sicurezza e il capitolato Salvini hanno penalizzato l’accoglienza diffusa, di qualità e dei piccoli centri. Gli attuali aggiustamenti non cambiano il quadro e potrebbero favorire chi ragiona solo in termini economici. Un segnale negativo viene pure dalla giustificazione dell’aumento della cifra assegnata con il fatto che in Italia il costo della vita non è uguale dappertutto e quindi il precedente taglio tassativo può essere diversificato. La circolare fa l’esempio dell’affitto. Dice, in sostanza, 'dove la vita costa di più, tu puoi mettere una base d’asta più alta'. Non dice che i fondi sono pochi perché non permettono servizi utili e di qualità, motivo per cui associazioni e cooperative non partecipavano più ai bandi. La Caritas, per esempio, ha rinunciato non perché 'non ci guadagna abbastanza', ma perché non si possono assumere persone e perseguire progetti seri: non ci sono lo psicologo, gli animatori culturali, gli insegnanti di italiano, gli operatori sociali... Il Ministero, a oggi, non dice 'rimetti queste figure' ma dà solo un po’ più di soldi. E questo andava fatto, ma non comporta automaticamente un miglioramento dei servizi. È un richiamo, invece, per chi segue una mera logica di profitto. Che messaggio è per quanti, con sacrificio, hanno continuato a fornire preziosi servizi di integrazione a spese proprie? Si pensi, per esempio, alla realtà della cooperativa Diaconia della diocesi di Frosinone. Infine, bisogna tornare sul tema dell’assistenza sanitaria e della 'guardianìa', per i quali la circolare autorizza chi ha vinto il bando a fare affidamenti diretti aggiuntivi. Non si tratta di servizi per l’inclusione, ma di interventi nella logica dell’immigrato 'sporco e cattivo'. Con un ulteriore rischio. Una cosa è assumere personale, altra è affidare esternamente il servizio, magari a una società privata di vigilanza. Le persone richiedenti asilo restano senza far niente, ma con un guardiano in più. Una risposta di ordine pubblico, non di inclusione. Se non si andasse oltre, sarebbe un nuovo assist ai propagandisti del 'noi' contro 'loro', a chi accusa il governo soltanto di 'riaprire il portafogli'. Le intenzioni del ministro Lamorgese sono certamente altre, come più volte lei stessa ha spiegato. Per questo servono passi

Page 43: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

più decisi fuori dalla logica e dalla retorica cattivista e dello sgoverno del complesso fenomeno migratorio. Pag 3 Due giusti cardini per l’asilo: volontariato e professionalità di Maurizio Ambrosini Accoglienza e inclusione / 2: la circolare del Viminale, il nodo è la qualità La decisione del governo di rialzare il contributo giornaliero per i soggetti che accolgono i richiedenti asilo ha suscitato, come era prevedibile, un vespaio di polemiche. Questo tema d’altronde è da anni un cavallo di battaglia del cattivismo antiimmigrati, con le ricorrenti accuse sul 'business dei rifugiati', sui falsi volontari, sulle risorse sottratte agli italiani bisognosi. È bene, perciò, cercare di fare un po’ di chiarezza sull’argomento. È anzitutto sbagliato confondere volontari e professionisti del lavoro sociale. Nei servizi alla persona, compresi quelli gestiti da fondazioni, cooperative sociali e altri soggetti senza scopo di lucro, lavorano regolarmente migliaia di persone che hanno titoli professionali specifici (medici, psicologi, educatori, responsabili amministrativi e tanti altri) e da questo lavoro traggono la remunerazione che spetta a tutti i lavoratori, secondo i contratti. Spesso sono le norme di legge a richiedere l’impiego di figure professionali con determinati diplomi e profili. Il volontariato si aggiunge a questo corpo di professionisti, non li può sostituire e non va confuso con loro. Il fatto dunque che anche nei servizi di accoglienza per i rifugiati, come sulle navi del soccorso in mare, siano impiegati degli operatori professionali stipendiati è non solo normale, ma risponde all’esigenza di assicurare servizi qualificati, a beneficio delle persone accolte e delle comunità in cui si inseriscono. Guai se così non fosse. Bisognerebbe semmai insistere affinché gli operatori siano sempre meglio formati e qualificati. In secondo luogo, molti servizi alle persone sono oggi gestiti da soggetti esterni alle pubbliche amministrazioni: residenze sanitarie-assistenziali per anziani, comunità di accoglienza per minori, servizi per disabili o persone con disagio psichico. Anche quando si tratta di soggetti senza scopo di lucro, devono tenere i conti in ordine, presentare bilanci in equilibrio, conseguire anche se possibile un certo margine di utile per finanziare investimenti o fronteggiare ritardi nei pagamenti (assai frequenti) e contingenze negative. Ora, quando si tratta di servizi per anziani o disabili, il loro diritto all’equilibrio economico non è contestato. Quando si tratta di servizi di accoglienza per richiedenti asilo, diventerebbe invece un disvalore, un comportamento riprovevole. Si tenta, insomma e persino con martellante veemenza, una delegittimazione di principio, che purtroppo ha contagiato anche settori dell’opinione pubblica non ostili all’accoglienza: operare nel campo dell’asilo finisce per comportare un alone di sospetto, un pregiudizio sfavorevole sulle motivazioni recondite e le finalità inconfessate dell’attività svolta. Casi di malaffare, di infiltrazioni criminali o di cattiva gestione hanno alimentato una sfiducia diffusa, essendo stati ingigantiti e generalizzati. Come per tutti i servizi alle persone, e soprattutto alle persone in condizioni di fragilità, bisognerebbe invece distinguere gestori competenti e incompetenti, seriamente motivati oppure improvvisati, dotati di risorse professionali adeguate o inadeguate. La rivalutazione della diaria è una conseguenza del fatto che le gare delle Prefetture risultavano deserte, era diventata impossibile la fornitura di servizi che andassero oltre i minimi bisogni materiali, l’accoglienza era stata svilita a livelli inaccettabili. Proprio gli operatori più esigenti e motivati erano usciti o stavano uscendo dal sistema. Accogliere degnamente richiede risorse e competenze professionali. L’at-tenzione va spostata sulla qualità dell’accoglienza effettivamente dispensata, non sul principio in sé. Altrimenti inseguiremmo la logica per cui l’asilo (e la richiesta di asilo) non è un diritto costituzionale, ma un’attività fastidiosa e derogabile: la stessa logica che induce a gridare 'accoglieteli a casa vostra'. LA NUOVA Pag 11 Tempeste di vento e terra che si riscalda. Colpa del carbonio e dell’indifferenza di Mario Tozzi Solo Greta e il Papa protestano

Page 44: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

Uno spettro si aggira per il pianeta Terra, lo spettro del cambiamento climatico, ma nessuna delle potenze del vecchio mondo sembra aver compreso quanto grave possa già essere la situazione. E le persone illuminate che lo hanno capito si rassicurano pensando che non sarà domani e si domandano perché dovrebbero fare qualcosa se neanche gli scienziati sono d'accordo. Iniziamo dalle conseguenze. Incendi smisurati hanno portato sull'orlo della fusione il terreno permanentemente ghiacciato della Siberia, compromesso la ricchezza dei viventi, sapiens e non, in Amazzonia, liberato ingenti quantità di anidride carbonica e spinto verso l'estinzione i marsupiali australiani (per non parlare delle vittime). Questi roghi sono stati certo favoriti dalla siccità e dall'abbassamento delle falde idriche. Temperature calde come mai in passato hanno interessato tutto il pianeta, da Parigi (+43°C, mai registrati prima) a Biarritz, da Torino all'Antartide (record di +18°C, più caldo che a Roma), mentre tempeste di vento a 200 km/h flagellano il Nord del mondo e l'Italia settentrionale. Secondo l'Università di Oxford, entro il 2030 (nei mesi estivi) non si riformerà più la grande banchisa del Polo Nord, passando i ghiacci artici da più di 11 a circa 4 milioni di km quadri dal 1980. E la fusione dei ghiacciai terrestri porterà a un innalzamento del livello medio dei mari calcolato fra 1 e 10 metri nei prossimi trent'anni. Perturbazioni meteorologiche a carattere violento stanno diventando più numerose, più frequenti e avvengono anche al di fuori delle regioni e delle stagioni tradizionali. Tutto questo dipende dal fatto che fa più caldo e che il sistema atmosferico deve evacuare maggiori quantità di energia termica e regolare contrasti termici sempre più profondi. Gli scienziati non sono affatto divisi sul cambiamento climatico: tutti gli specialisti del clima sostengono unanimemente che stiamo assistendo a un cambiamento climatico anomalo e accelerato rispetto al passato. E che dipende dalle attività produttive dei sapiens. Se si calcolano le pubblicazioni scientifiche (unico terreno su cui si confrontano i ricercatori, che non hanno maggiore calibro se vengono intervistati dai media), si vede chiaramente che, su decine di migliaia di articoli pubblicati in riviste peer reviewed, solo alcuni non concordano sulle responsabilità degli uomini. Purtroppo l'audience di questa straminima minoranza (che in altre discipline neanche avremmo considerato), è amplificato da alcune personalità autorevoli e da una gran massa di siti e articoli (non scientifici) prezzolati dalle compagnie petrolifere. È curioso, però, che anche scienziati esperti in altre discipline discettino allegramente del ruolo del Sole o neghino il riscaldamento rilasciando interviste, non, invece, scrivendo articoli sulle riviste scientifiche che potrebbero certificare il loro dissenso.Il clima della Terra può variare solo per cinque motivi: irregolarità dell'orbita terrestre (che spiega le grandi glaciazioni del Quaternario), correnti oceaniche (che riscaldano, per esempio, maggiormente la Scandinavia), posizione dei continenti (il nostro emisfero ha più continenti e perciò è più freddo di quello australe), Sole (se è più caldo o più freddo) e presenza di carbonio in atmosfera. Ma possiamo considerare attualmente irrilevanti i primi quattro motivi, in quanto cambiano molto lentamente e addirittura perché il Sole raramente è stato così freddo. Rimane solo un motivo che può cambiare il clima sulla Terra oggi, ed è il carbonio in atmosfera. Ed è anche l'unico su cui i sapiens possono intervenire, non potendo certo influire sugli altri. Nonostante ci siano cicli naturali del carbonio che muovono 770 miliardi di tonnellate di CO2, il contributo degli uomini è significativo (30-40) e, soprattutto, interviene su sistemi all'equilibrio: la classica goccia che fa traboccare il vaso. La logica rafforza i numeri degli specialisti del clima. Bisogna sempre distinguere il tempo dal clima, ma ormai gli eventi meteorologici si ripetono così frequentemente da diventare climatici. Ed è inutile pensare che anche nel passato il clima cambiava: certo, ma solo alcune regioni alla volta e più lentamente. Oggi il cambiamento è globale e avviene in maniera più accelerata del passato, tanto che ogni anno che passa è ormai più caldo di quello precedente. Inoltre le previsioni delle tendenze climatiche di 15 o 10 anni fa si sono rilevate esatte, segno che i modelli fisici e matematici utilizzati erano corretti.Va poi rilevato che non stiamo soffrendo di tutto il potenziale negativo del cambiamento climatico, che è ancora di là da venire: il carbonio persiste in atmosfera per cento anni, dunque quello riversato in passato è ancora largamente attivo. Se oggi potessimo azzerare istantaneamente tutte le combustioni degli uomini e tutto quello che non è energia rinnovabile si fermasse, ci vorrebbero 45 anni perché la CO2 tornasse ai livelli pre-industriali (cioè attorno alle 350 ppm, oggi siamo a 415). Come a dire che la temperatura media continuerebbe ancora a salire per

Page 45: Rassegna stampa 12 febbraio 2020€¦ · Il primo è di avere potenziato, anziché ridotto, le politiche familiari durante la recessione. Ciò ha dato ancor più valore alla scelta

decenni prima di tornare al livello di oggi, perché l'inerzia dell'atmosfera è considerevole. Dunque il famigerato punto di non ritorno (il tip-point) rischiamo di vederlo negli specchietti retrovisori, lanciati a tutta velocità verso uno schianto che non procurerà alcun fastidio al pianeta, ma ai sapiens e ai viventi sì, riducendo drasticamente il nostro benessere e portando alla morte e alla migrazione forzata gli uomini della parte povera del pianeta. È davvero avvilente constatare che solo una ragazzina e un uomo vestito di bianco amplifichino le preoccupazioni degli scienziati, mentre tutti gli altri fanno finta di niente.

Torna al sommario