Rassegna stampa 11 gennaio 2018 · 2018-01-11 · RASSEGNA STAMPA di giovedì 11 gennaio 2018...

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 11 gennaio 2018 SOMMARIO Continuando la catechesi sulla Messa, Papa Francesco si è soffermato ieri sull’orazione detta “colletta” ed anche sul silenzio che è bene l’accompagni. Ecco le sue parole: “Dopo il “Gloria”, oppure, quando questo non c’è, subito dopo l’Atto penitenziale, la preghiera prende forma particolare nell’orazione denominata “colletta”, per mezzo della quale viene espresso il carattere proprio della celebrazione, variabile secondo i giorni e i tempi dell’anno. Con l’invito «preghiamo», il sacerdote esorta il popolo a raccogliersi con lui in un momento di silenzio, al fine di prendere coscienza di stare alla presenza di Dio e far emergere, ciascuno nel proprio cuore, le personali intenzioni con cui partecipa alla Messa. Il sacerdote dice «preghiamo»; e poi, viene un momento di silenzio, e ognuno pensa alle cose di cui ha bisogno, che vuol chiedere, nella preghiera. Il silenzio non si riduce all’assenza di parole, bensì nel disporsi ad ascoltare altre voci: quella del nostro cuore e, soprattutto, la voce dello Spirito Santo. Nella liturgia, la natura del sacro silenzio dipende dal momento in cui ha luogo: «Durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica». Dunque, prima dell’orazione iniziale, il silenzio aiuta a raccoglierci in noi stessi e a pensare al perché siamo lì. Ecco allora l’importanza di ascoltare il nostro animo per aprirlo poi al Signore. Forse veniamo da giorni di fatica, di gioia, di dolore, e vogliamo dirlo al Signore, invocare il suo aiuto, chiedere che ci stia vicino; abbiamo familiari e amici malati o che attraversano prove difficili; desideriamo affidare a Dio le sorti della Chiesa e del mondo. E a questo serve il breve silenzio prima che il sacerdote, raccogliendo le intenzioni di ognuno, esprima a voce alta a Dio, a nome di tutti, la comune preghiera che conclude i riti d’introduzione, facendo appunto la “colletta” delle singole intenzioni. Raccomando vivamente ai sacerdoti di osservare questo momento di silenzio e non andare di fretta: «preghiamo», e che si faccia il silenzio. Raccomando questo ai sacerdoti. Senza questo silenzio, rischiamo di trascurare il raccoglimento dell’anima. Il sacerdote recita questa supplica, questa orazione di colletta, con le braccia allargate è l’atteggiamento dell’orante, assunto dai cristiani fin dai primi secoli - come testimoniano gli affreschi delle catacombe romane - per imitare il Cristo con le braccia aperte sul legno della croce. E lì, Cristo è l’Orante ed è insieme la preghiera! Nel Crocifisso riconosciamo il Sacerdote che offre a Dio il culto a lui gradito, ossia l’obbedienza filiale. Nel Rito Romano le orazioni sono concise ma ricche di significato: si possono fare tante belle meditazioni su queste orazioni. Tanto belle! Tornare a meditarne i testi, anche fuori della Messa, può aiutarci ad apprendere come rivolgerci a Dio, cosa chiedere, quali parole usare. Possa la liturgia diventare per tutti noi una vera scuola di preghiera” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO La liturgia è scuola di preghiera All’udienza generale il Papa esorta i sacerdoti a non andare di fretta durante i momenti di silenzio nella messa AVVENIRE Pag 7 Quell’ora per scoprire il senso della nostra vita di Enrico Lenzi e Andrea Monda Irc, insegnamento che fa crescere tutti. Il messaggio della presidenza Cei. L’esperienza sul campo: ecco come far capire ai ragazzi perché “vale” Pag 22 L’intelligenza affascinata dalla mistica di Gianfranco Ravasi

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Page 1: Rassegna stampa 11 gennaio 2018 · 2018-01-11 · RASSEGNA STAMPA di giovedì 11 gennaio 2018 SOMMARIO Continuando la catechesi sulla Messa, Papa Francesco si è soffermato ieri sull’orazione

RASSEGNA STAMPA di giovedì 11 gennaio 2018

SOMMARIO

Continuando la catechesi sulla Messa, Papa Francesco si è soffermato ieri sull’orazione detta “colletta” ed anche sul silenzio che è bene l’accompagni. Ecco le sue parole:

“Dopo il “Gloria”, oppure, quando questo non c’è, subito dopo l’Atto penitenziale, la preghiera prende forma particolare nell’orazione denominata “colletta”, per mezzo della quale viene espresso il carattere proprio della celebrazione, variabile secondo i giorni e i tempi dell’anno. Con l’invito «preghiamo», il sacerdote esorta il popolo a raccogliersi con lui in un momento di silenzio, al fine di prendere coscienza di stare

alla presenza di Dio e far emergere, ciascuno nel proprio cuore, le personali intenzioni con cui partecipa alla Messa. Il sacerdote dice «preghiamo»; e poi, viene un

momento di silenzio, e ognuno pensa alle cose di cui ha bisogno, che vuol chiedere, nella preghiera. Il silenzio non si riduce all’assenza di parole, bensì nel disporsi ad

ascoltare altre voci: quella del nostro cuore e, soprattutto, la voce dello Spirito Santo. Nella liturgia, la natura del sacro silenzio dipende dal momento in cui ha luogo:

«Durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è

ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica». Dunque, prima dell’orazione iniziale, il silenzio aiuta a raccoglierci in noi stessi e a pensare al perché siamo lì. Ecco allora l’importanza di ascoltare il nostro animo per

aprirlo poi al Signore. Forse veniamo da giorni di fatica, di gioia, di dolore, e vogliamo dirlo al Signore, invocare il suo aiuto, chiedere che ci stia vicino; abbiamo familiari e

amici malati o che attraversano prove difficili; desideriamo affidare a Dio le sorti della Chiesa e del mondo. E a questo serve il breve silenzio prima che il sacerdote,

raccogliendo le intenzioni di ognuno, esprima a voce alta a Dio, a nome di tutti, la comune preghiera che conclude i riti d’introduzione, facendo appunto la “colletta”

delle singole intenzioni. Raccomando vivamente ai sacerdoti di osservare questo momento di silenzio e non andare di fretta: «preghiamo», e che si faccia il silenzio. Raccomando questo ai sacerdoti. Senza questo silenzio, rischiamo di trascurare il raccoglimento dell’anima. Il sacerdote recita questa supplica, questa orazione di

colletta, con le braccia allargate è l’atteggiamento dell’orante, assunto dai cristiani fin dai primi secoli - come testimoniano gli affreschi delle catacombe romane - per

imitare il Cristo con le braccia aperte sul legno della croce. E lì, Cristo è l’Orante ed è insieme la preghiera! Nel Crocifisso riconosciamo il Sacerdote che offre a Dio il culto a

lui gradito, ossia l’obbedienza filiale. Nel Rito Romano le orazioni sono concise ma ricche di significato: si possono fare tante belle meditazioni su queste orazioni. Tanto

belle! Tornare a meditarne i testi, anche fuori della Messa, può aiutarci ad apprendere come rivolgerci a Dio, cosa chiedere, quali parole usare. Possa la liturgia

diventare per tutti noi una vera scuola di preghiera” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO La liturgia è scuola di preghiera All’udienza generale il Papa esorta i sacerdoti a non andare di fretta durante i momenti di silenzio nella messa AVVENIRE Pag 7 Quell’ora per scoprire il senso della nostra vita di Enrico Lenzi e Andrea Monda Irc, insegnamento che fa crescere tutti. Il messaggio della presidenza Cei. L’esperienza sul campo: ecco come far capire ai ragazzi perché “vale” Pag 22 L’intelligenza affascinata dalla mistica di Gianfranco Ravasi

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 31 Ma l’Italia quanto cresce davvero? di Federico Fubini LA NUOVA Pag 1 La ricchezza concentrata crea pericoli di Franco A. Grassini 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 1 Violenze e furti, l’isola felice non esiste più di Tiziano Graziottin Il caso Venezia IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIII Io, finito in mezzo alla rissa tra africani, straniero a casa mia di Vittorio Franchin La “solita” violenza tra via Piave e stazione in balia delle bande CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Solo la Cina può salvare Venezia di Paolo Costa Lo spopolamento dei residenti Pag 13 Se due noccioli di pesca cambiano a sproposito la nascita di Venezia di Ivone Cacciavillani LA NUOVA Pagg 2 – 3 Area dei Pili. Casinò, ville e palasport sulla proprietà del sindaco di Francesco Furlan e Vera Mantengoli Bufera sul possibile conflitto di interessi per gli investimenti milionari di Mr Kwong Pag 23 “Le foto delle recite? Non su facebook” di Francesco Furlan Regolamento comunale asili nido: i genitori dei bambini potranno usarle soltanto a titolo personale, ma non divulgarle attraverso i social Pag 24 Alcol, sempre più pazienti in cura al Serd di Simone Bianchi Il rapporto dell’Usl 3 sono 257 le persone seguire per curare l’abuso di vino e birra, 79 si sono avvicinate nel’ultimo anno Pag 34 Il presepe di sabbia arriva in Vaticano: “Un sogno per Jesolo” di Giovanni Cagnassi Ieri l’incontro in Comune con gli emissari del Papa. Sarà allestito in piazza San Pietro per il Natale 2018 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 2 di Gente Veneta in uscita venerdì 12 gennaio 2018: Pagg 1, 15 - 18 Visita pastorale, la prima tappa di Giorgio Malavasi, Giampaolo Rossi e Pierpaolo Biral Per la prima volta a una Collaborazione, Jesolo Lido. Comunità, annuncio del Vangelo, rapporto con il turismo: ampi servizi nelle quattro pagine centrali Pag 1 Promettere solo ciò che si può mantenere di Giorgio Malavasi Pag 1 Luci su Marghera, ma anche ombre di Serena Spinazzi Lucchesi

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Pag 5 Il Patriarca alle detenute: ci si può rialzare aiutando gli altri di Alessandro Polet «Come i Magi dobbiamo avere il coraggio di vedere e seguire la stella. Un modo per rialzarsi è aiutare gli altri a compiere questo gesto. Le storie delle persone sono anche storie di ferite: seguire la stella è lasciare che il Signore entri dentro di noi, spenga Erode e ci renda Magi» Pag 9 Diaconi permanenti, un ritratto in Patriarcato di Tiziano Scatto Prime ordinazioni 31 anni fa, oggi sono 26 Pag 11 Ecumenismo, don Marchesi: «Camminare insieme, unica via» di Giorgio Nordio Inizia la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. L’incaricato per l’ecumenismo in diocesi di Venezia fa il punto: «Il rapporto fra le Chiese va sviluppato di più. La Settimana sia un’occasione per conoscerci maggiormente e per pregare insieme. È urgente andare insieme verso l’unità» Pag 12 I funerali di mons. Memo, il Patriarca: «Don Ezio si è dedicato tutto a Gesù» Le esequie del sacerdote, mancato il 30 dicembre, a 86 anni: nella sua vita tanti incarichi per la Chiesa di Venezia. Maria Leonardi lo ricorda tra i fondatori della Scuola biblica diocesana Pag 21 «Il Mose (provvisorio) entrerà in funzione dal 1° gennaio 2019» di Marta Gasparon Per completare l’opera mancano però 221 milioni di euro. Finora ne sono stati stanziati appena 40: «Se il finanziamento s’inceppa – avverte l’ing. Linetti - potrebbero verificarsi dei problemi sui tempi». Previsto all’Arsenale il “cuore” della manutenzione futura, per un costo di 80 milioni di euro all’anno Pag 22 Epifania a pranzo con i senza tetto, quelli lontani dal cliché di Chiara Semenzato Una cinquantina gli ospiti: quasi tutti italiani, tra i 40 e i 45 anni l’età media. Dormono in stazione e qui i volontari della parrocchia del Sacro Cuore di Mestre li assistono incontrandoli due sere la settimana. Spiega un volontario della Caritas parrocchiale: «Non sono i frequentatori abituali delle mense cittadine» Pag 23 Campalto, in chiesa una catechesi d’arte con 6700 origami di Giorgio Malavasi Rimarrà visitabile fino al 21 gennaio l’allestimento realizzato in San Benedetto grazie all’idea di un architetto, Daniele Conte, e al lavoro entusiasta di 150 persone. Nelle quattro settimane d’Avvento hanno realizzato i lavori con la carta. «A dimostrazione che bellezza e gratuità vincono anche oggi» Pag 25 A Casa Taliercio adesso arrivano giovani cinesi cristiane di Chiara Semenzato «Nel 2017 - spiega il presidente Romano Berti - ne abbiamo ospitate una trentina. Scappano dalla Cina perché perseguitate: ci hanno mostrato le foto delle chiese distrutte. Qui trovano lavoro nei ristoranti, poi si mettono insieme per condividere l’affitto». Sempre aperto il flusso delle badanti Pag 27 Vangelo, amicizia, libertà: la “formula” di un gruppo di Mira di Giorgio Malavasi Ragazze e ragazzi di quarta e quinta superiore della Collaborazione pastorale: quest’anno diventano protagonisti e portano agli incontri, a turno, un brano di un volume di Maurizio Botta: «I contenuti li affrontiamo secondo le modalità che ci stanno più a cuore. Così si riesce a parlare liberamente» … ed inoltre oggi segnaliamo…

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CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le favole da evitare sul debito di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Piani elettorali Pag 1 I no che i maschi dovrebbero iniziare a dirsi di Pierluigi Battista Noi e le donne Pag 7 Schieramenti e partiti senza visione e senza unità di Massimo Franco Pag 26 Il cortocircuito europeo tra politica e diritti umani di Franco Venturini LA REPUBBLICA Pag 1 Incapaci di immaginare il futuro di Mario Calabresi AVVENIRE Pag 1 Un “nucleo” per l’Europa di Vittorio E. Parsi Intesa necessaria con Parigi (e Berlino) Pag 2 Coi vaccini non si può giocare, meno che mai se c’è da votare di Antonella Mariani Promesse e giochi di prestigio in campagna elettorale / 1 Pag 2 Rifuggiamo i pifferai, servono idee chiare e un “patto” saldo di Alberto Mattioli Promesse e giochi di prestigio in campagna elettorale / 2 Pag 3 Un’intera città di senzatetto nel cuore gelato di New York di Giorgio Ferrari Dalla crisi 130mila homeless. Un piano per aiutarli Pag 8 Annunci, un giorno di ordinaria follia. La rottamazione del buon senso di Eugenio Fatigante IL GAZZETTINO Pag 1 I pericoli della furia abolizionista di Alessandro Campi LA NUOVA Pag 1 Intercettare senza limiti è un errore di Fabio Pinelli

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO La liturgia è scuola di preghiera All’udienza generale il Papa esorta i sacerdoti a non andare di fretta durante i momenti di silenzio nella messa «Possa la liturgia diventare per tutti noi una vera scuola di preghiera»: con questo auspicio il Papa ha concluso le riflessioni sull’importanza del «Gloria» e dell’orazione colletta, all’udienza generale di mercoledì mattina, 10 gennaio. Proseguendo con i fedeli presenti nell’Aula Paolo VI le catechesi sulla messa, il Pontefice ha anche esortato i preti a non andare di fretta durante i momenti di silenzio nelle celebrazioni. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nel percorso di catechesi sulla celebrazione eucaristica, abbiamo visto che l’Atto penitenziale ci aiuta a spogliarci delle nostre presunzioni e a presentarci a Dio come siamo realmente, coscienti di essere peccatori,

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nella speranza di essere perdonati. Proprio dall’incontro tra la miseria umana e la misericordia divina prende vita la gratitudine espressa nel “Gloria”, «un inno antichissimo e venerabile con il quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 53). L’esordio di questo inno - “Gloria a Dio nell’alto dei cieli” - riprende il canto degli Angeli alla nascita di Gesù a Betlemme, gioioso annuncio dell’abbraccio tra cielo e terra. Questo canto coinvolge anche noi raccolti in preghiera: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà». Dopo il “Gloria”, oppure, quando questo non c’è, subito dopo l’Atto penitenziale, la preghiera prende forma particolare nell’orazione denominata “colletta”, per mezzo della quale viene espresso il carattere proprio della celebrazione, variabile secondo i giorni e i tempi dell’anno (cfr. ibid., 54). Con l’invito «preghiamo», il sacerdote esorta il popolo a raccogliersi con lui in un momento di silenzio, al fine di prendere coscienza di stare alla presenza di Dio e far emergere, ciascuno nel proprio cuore, le personali intenzioni con cui partecipa alla Messa (cfr. ibid., 54). Il sacerdote dice «preghiamo»; e poi, viene un momento di silenzio, e ognuno pensa alle cose di cui ha bisogno, che vuol chiedere, nella preghiera. Il silenzio non si riduce all’assenza di parole, bensì nel disporsi ad ascoltare altre voci: quella del nostro cuore e, soprattutto, la voce dello Spirito Santo. Nella liturgia, la natura del sacro silenzio dipende dal momento in cui ha luogo: «Durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica» (ibid., 45). Dunque, prima dell’orazione iniziale, il silenzio aiuta a raccoglierci in noi stessi e a pensare al perché siamo lì. Ecco allora l’importanza di ascoltare il nostro animo per aprirlo poi al Signore. Forse veniamo da giorni di fatica, di gioia, di dolore, e vogliamo dirlo al Signore, invocare il suo aiuto, chiedere che ci stia vicino; abbiamo familiari e amici malati o che attraversano prove difficili; desideriamo affidare a Dio le sorti della Chiesa e del mondo. E a questo serve il breve silenzio prima che il sacerdote, raccogliendo le intenzioni di ognuno, esprima a voce alta a Dio, a nome di tutti, la comune preghiera che conclude i riti d’introduzione, facendo appunto la “colletta” delle singole intenzioni. Raccomando vivamente ai sacerdoti di osservare questo momento di silenzio e non andare di fretta: «preghiamo», e che si faccia il silenzio. Raccomando questo ai sacerdoti. Senza questo silenzio, rischiamo di trascurare il raccoglimento dell’anima. Il sacerdote recita questa supplica, questa orazione di colletta, con le braccia allargate è l’atteggiamento dell’orante, assunto dai cristiani fin dai primi secoli - come testimoniano gli affreschi delle catacombe romane - per imitare il Cristo con le braccia aperte sul legno della croce. E lì, Cristo è l’Orante ed è insieme la preghiera! Nel Crocifisso riconosciamo il Sacerdote che offre a Dio il culto a lui gradito, ossia l’obbedienza filiale. Nel Rito Romano le orazioni sono concise ma ricche di significato: si possono fare tante belle meditazioni su queste orazioni. Tanto belle! Tornare a meditarne i testi, anche fuori della Messa, può aiutarci ad apprendere come rivolgerci a Dio, cosa chiedere, quali parole usare. Possa la liturgia diventare per tutti noi una vera scuola di preghiera. AVVENIRE Pag 7 Quell’ora per scoprire il senso della nostra vita di Enrico Lenzi e Andrea Monda Irc, insegnamento che fa crescere tutti. Il messaggio della presidenza Cei. L’esperienza sul campo: ecco come far capire ai ragazzi perché “vale” L’invito è rivolto ai genitori come agli studenti. Nel Messaggio in cui riflette sull’importanza di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica (Irc) per il prossimo anno scolastico, la Presidenza della Cei sottolinea che si tratta «di un’occasione formativa importante» per arricchire il percorso di crescita e «conoscere le radici cristiane della nostra cultura e della nostra società». Al tempo stesso i contenuti dell’ora di religione mentre accompagnano i cambiamenti culturali e sociali in atto sono in grado di rispondere efficacemente «alle domande più profonde degli alunni di ogni età, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado». E i numeri stanno lì a dimostrarlo. Nell’anno scolastico 2016-2017 la percentuale degli studenti che si sono avvalsi dell’Irc è stata complessivamente dell’87,1% con punte del 90,7% nella scuola primaria. Il

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Messaggio arriva alla vigilia delle iscrizioni al prossimo anno scolastico, possibili da martedì 16 gennaio all’8 febbraio. Pubblichiamo il Messaggio della Presidenza della Conferenza episcopale italiana in vista della scelta di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nell’anno scolastico 2018/2019. Cari studenti e cari genitori, nelle prossime settimane si svolgeranno le iscrizioni online al primo anno dei percorsi scolastici che avete scelto. Insieme alla scelta della scuola e dell’indirizzo di studio, sarete chiamati ad effettuare anche la scelta di avvalersi o non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. È proprio su quest’ultima decisione che richiamiamo la vostra attenzione, perché si tratta di un’occasione formativa importante che vi viene offerta per arricchire la vostra esperienza di crescita e per conoscere le radici cristiane della nostra cultura e della nostra società. Anche se ormai questa procedura è divenuta abituale, vogliamo invitarvi a riflettere sull’importanza della scelta di una disciplina che nel tempo si è confermata come una presenza significativa nella scuola, condivisa dalla stragrande maggioranza di famiglie e studenti. A voi genitori desideriamo ricordare soprattutto il fatto che in questi ultimi anni l’Irc ha continuato a rispondere in maniera adeguata e apprezzata ai grandi cambiamenti culturali e sociali che coinvolgono tutti i territori del nostro bel Paese. I contenuti di questo insegnamento, declinati da specifiche Indicazioni didattiche, appaiono adeguati a rispondere efficacemente anche oggi alle domande più profonde degli alunni di ogni età, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado. La domanda religiosa è un’insopprimibile esigenza della persona umana e l’insegnamento della religione cattolica intende aiutare a riflettere nel modo migliore su tali questioni, nel rispetto più assoluto della libertà di coscienza di ciascuno, in quanto principale valore da tutelare e promuovere per una vita aperta all’incontro con l’altro e gli altri. Anche papa Francesco nei giorni scorsi ha ricordato che «questa è la missione alla quale è orientata la famiglia: creare le condizioni favorevoli per la crescita armonica e piena dei figli, affinché possano vivere una vita buona, degna di Dio e costruttiva per il mondo» (Angelus nella Festa della Sacra Famiglia, 31 dicembre 2017). A voi studenti desideriamo ricordare il diffuso apprezzamento che da anni accompagna la scelta di tale insegnamento. I vostri insegnanti di religione cattolica si sforzano ogni giorno per lavorare con passione e generosità nelle scuole italiane, sia statali che paritarie, sostenuti da un lato dal rigore degli studi compiuti e dall’altro dalla stima dei colleghi e delle famiglie che ad essi affidano i loro figli. Per tutti questi motivi, desideriamo rinnovare l’invito ad avvalervi dell’insegnamento della religione cattolica, sicuri che durante queste lezioni potrete trovare docenti e compagni di classe che vi sapranno accompagnare lungo un percorso di crescita umana e culturale, decisivo e fondamentale anche per il resto della vostra vita. La Presidenza della Conferenza episcopale italiana È un forte invito a genitori e studenti per una scelta consapevole e responsabile: don Daniele Saottini responsabile del Servizio nazionale Cei per l’insegnamento della religione cattolica (Irc), sintetizza così il messaggio che ogni anno i vescovi italiani rivolgono alle famiglie impegnate nella iscrizione dei propri figli al prossimo anno scolastico. Una scelta che raggiunge livelli molto alti: circa l’88% degli studenti italiani. Segno di buona salute dell’insegnamento? Direi di si, confortato anche dai risultati che giusto un anno fa sono emersi da una ricerca specifica sull’Irc, definita “una disciplina alla prova”. Ovviamente non mancano spazi di miglioramento, ma complessivamente la disciplina appare apprezzata e scelta con convinzione. Ovviamente questo non significa fermarsi nel migliorare, ma certo rappresenta un momento importante di valutazione a oltre 30 anni dalla trasformazione della disciplina da obbligatoria a opzionale. Quali sono secondo lei i punti forti su cui si basa questa scelta? Da tempo nella nostra società si fatica a creare relazioni educative significative. Lo vivono sulla loro pelle le stesse famiglie. L’Irc si propone come una occasione di

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formazione umana completa. Una formazione con la quale cercare di superare quella sensazione di essere adulti 'afoni' rispetto a grandi valori come il dialogo, l’accoglienza, il confronto e potremmo continuare ancora. Scegliere questo insegnamento significa accompagnare quel cammino di crescita in un aspetto delicato della vita che è quello delle scelte. Lei parla di occasione per apprendere valori. Eppure davanti alla società in cui ci troviamo sembrerebbe una scelta “perdente”. Potremmo usare l’immagine evangelica del seminatore e del seme che cade sui diversi tipi di terreno. L’Irc è così: un seme sparso su tanti terreni, che sono gli studenti, molti dei quali non italiani e neppure di religione cattolica. Eppure sono una presenza significativa. A tutti loro offriamo la possibilità di fare propri questi valori. È l’offerta di un orizzonte che speriamo possa portare frutto. E in tanti scelgono di avvalersene... E non dimentichiamoci che si tratta di una scelta responsabile, direi quasi impegnativa visto che si tratta di fare una ora in più di lezione senza un immediato ritorno, come il voto che fa media. Si potrebbe definire la scelta di una disciplina “gratuita” che non da “vantaggi” immediati. Eppure l’88% degli studenti e delle famiglie non rinuncia a questa opportunità educativa e formativa. Lo scorso 1° settembre i vescovi hanno scritto una Lettera ai docenti dell’Irc esprimendo la loro gratitudine per il servizio svolto alla Chiesa e al Paese. Un gesto significativo... Un apprezzamento non solo dei vescovi, ma anche delle famiglie e degli studenti stessi che possono verificare in classe l’impegno di questi 24mila docenti, che si spendono per loro. Una presenza apprezzata anche dai colleghi delle altre discipline, tanto che non sono pochi i docenti Irc a svolgere funzioni di servizio all’interno dall’organizzazione scolastica stessa. Insegnanti che hanno fatto dell’aggiornamento professionale un aspetto decisivo e che si spendono davvero molto per rendere questa ora di insegnamento occasione di crescita umana completa. Scelta, valori, responsabilità, impegno: parole un po’ controcorrente in questa società, non le sembra? È la sfida che vogliamo raccogliere con la presenza dell’Irc nella scuola italiana, accanto alle famiglie e agli studenti. Una proposta educativa di alto profilo, come lo sono i valori a cui facciamo riferimento nel nostro insegnamento. Religione vuol dire essenzialmente relazione. Per questo l’ora di religione rappresenta l’insegnamento per eccellenza, nel senso che mostra in modo evidente la sostanza del fenomeno che chiamiamo “scuola”: un’esperienza di relazione tra esseri umani. Nella sua “debolezza”, un insegnamento facoltativo, concentrato in una sola ora a settimana, con minor peso rispetto alle altre materie in termine di media dei voti (che per lo più sono giudizi, non voti nume-rici), quest’ora di lezione riesce però a cogliere e rappresentare il cuore della scuola, intesa come lo spazio e il tempo dell’incontro, fecondo, tra le generazioni. L’ora di religione è una spada che taglia e pone in modo secco la questione su cosa sia effettivamente la scuola: non solo e non tanto un’erogazione di nozioni e informazioni ma innanzitutto un’esperienza educativa e formativa, intrecciata strettamente con la vita. Insegno religione dal 2000 nei licei di Roma e ho potuto constatare la “specialità” di questo insegnamento che, affine in tutto alle altre materie (una disciplina scientifica esattamente come la letteratura e l’algebra, la filosofia e il greco...), per alcuni aspetti rimane un unicum, un qualcosa di diverso che peraltro gli studenti subito percepiscono. Questa specialità non è tanto negli aspetti esteriori, strutturali (la debolezza sopra evidenziata), ma risiede in quei contenuti che, come ricordano i vescovi italiani, «appaiono adeguati a rispondere efficacemente anche oggi alle domande più profonde degli alunni di ogni età». Io lo spiego in classe nella prima lezione: «Quest’ora ha come argomento ciò che vi interessa di più: voi». Il modo è un po’ rozzo, ma il messaggio arriva, efficace, grazie a quella parola: interessare. Ciò di cui tratta l’ora di religione cattolica, un credo basato sull’incarnazione di un Dio fatto uomo, è proprio il mistero dell’uomo, qualcosa che inter-essa, cioè sta dentro il cuore di ogni adolescente. E l’interesse è il vero antidoto alla noia, l’oscuro nemico che tra le pareti degli edifici scolastici spesso trova un terreno d’elezione. Più di ogni altra disciplina, studiare il cristianesimo (il suo corpus teologico, il suo sviluppo storico e gli effetti di questa storia bimillenaria nella cultura, nell’arte, nell’etica, nella politica,

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nell’economia..) non può non interessare gli adolescenti perché al centro c’è l’esperienza umana, quella quotidiana, concreta, in tutte le sue sfaccettature. Quando escono da scuola e incontrano la loro fidanzata o quando discutono con gli amici e litigano con i genitori, quando ascoltano le notizie dal mondo, quando attraversano momenti di prova, fosse anche la semplice interrogazione, quando giocano o ballano o solamente chiacchierano fino a tarda notte, i nostri studenti portano nel loro cuore molto di ciò che apprendono tra i banchi ma forse, più di ogni altra nozione, prevale il ricordo di quella discussione, guardandosi negli occhi, con il docente di religione. Nelle pieghe della loro esistenza quotidiana forse quelle parole che scaturiscono dalla spiegazione di uno dei nuclei tematici della religione cattolica possono rivelarsi più incisive, durature, feconde della formula del quadrato di un binomio o dell’ossigeno, della data della caduta di Costantinopoli o della regola dell’ablativo assoluto. I giovani hanno, anzi sono, domande, domande innanzitutto rivolte verso se stessi e hanno quindi bisogno di luoghi favorevoli all’espressione di queste domande, ed è qui che entra in gioco la responsabilità del docente e la sua capacità di far emergere, dal profondo, quelle domande che proprio nell’età scolastica possono e devono giungere a fioritura. Pag 22 L’intelligenza affascinata dalla mistica di Gianfranco Ravasi Il dominio contemporaneo della tecnica ha creato per reazione un inatteso ritorno alla spiritualità, ma anche alcune derive legate alla fluidità stessa di questo concetto. È, allora, importante ritornare alle sorgenti più autentiche di un’esperienza che è, certo, affettiva ma non irrazionale, è interiore ma non astratta, è incorporea ma anche “carnale”, è mistero ma anche epifania, è silenzio ma non afasia. In “Spiritualità e Bibbia” (Queriniana, pagine 264, euro 17,00), di cui anticipiamo qui un estratto, il cardinale Gianfranco Ravasi percorre le Sacre Scritture tra esegesi dettagliata e ampie panoramiche, per dare sostanza biblica all’attuale revival della spiritualità, creando non solo una guida alla mistica, ma anche un’essenziale sintesi della teologia biblica. Filosofo, matematico, scrittore (Nobel 1950 della letteratura) ma soprattutto agnostico, tant’e vero che poteva intitolare un suo saggio del 1927 Perché non sono cristiano: sarà proprio Bertrand Russell l’autore nel 1918 di uno scritto sorprendente fin dal titolo, Misticismo e logica. In quelle pagine senza remore o imbarazzi asseriva che «i più grandi filosofi hanno sentito il bisogno sia della scienza sia della mistica». E tentava anche una definizione di questa realtà apparentemente così fluida e allergica a ogni stampo classificatorio: «La mistica è, in sostanza, poco più di una certa intensità e profondità di sentimento nei riguardi di ciò che si pensa a proposito dell’universo». Sta di fatto che la spiritualità, con la sua originale grammatica mobi-le, ha conquistato spesso personaggi a prima vista urticanti nei confronti della religione, forse per qualche esperienza deludente della giovinezza. E il caso, per esempio, di un altro Nobel letterario (1947), André Gide, in continuo duello con la sua matrice ugonotta, come si evince dai frequenti rimandi biblici dei titoli delle sue opere: Il ritorno del figlio prodigo, Se il grano non muore…, La porta stretta, Saul, Numquid et tu?, L’immoralista e così via. In uno dei suoi primi romanzi, I falsari (1925-26), esplorazione dei segreti contraddittori dell’anima perforando i veli dell’ipocrisia puritana, non esitava a scrivere: «Senza la mistica non si raggiunge nulla di grande». E il fremito della spiritualità pervadeva l’autobiografico Numquid et tu?: «Penso che non si tratti tanto di credere alle parole di Cristo perché Cristo e il figlio di Dio, quanto di comprendere che egli è il figlio di Dio perché la sua parola è bella al di sopra di ogni parola umana, e da questo riconosco che sei il figlio di Dio». È per questo che, prima di percorrere le pagine bibliche secondo il taglio specifico dell’interiorità spirituale, vorremmo aprire solo uno squarcio in questo orizzonte così come è stato accostato da figure a prima vista a esso estranee. È un modo anche per sottolineare il rilievo che riveste la spiritualità nella stessa cultura attuale apparentemente così secolarizzata e allergica a simili temi. Certo, il tema e stato affrontato anche da intellettuali credenti. Tanto per evocare qualche esempio, pensiamo al dibattito nel 1925 tra i filosofi Maurice Blondel e Jacques Maritain attorno al “problema della mistica”, o a un altro grande pensatore come Henri Bergson con le riflessioni presenti nel suo capolavoro Le due fonti della morale e della religione (1932), mentre il gesuita Joseph Maréchal tentava di far interloquire psicologia e spiritualità con la sua

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opera La psychologie des mystiques (1924). Noi, però, dovremmo allargare di molto il ventaglio degli agnostici tentati da questa stessa esperienza, a partire dallo straordinario sguardo «dall’occhio chiuso» (ma questa locuzione ebraica, applicata al mago Balaam in Numeri 24,3, significa in realtà «dall’occhio penetrante») dello scrittore argentino Jorge L. Borges, per risalire a Voltaire, ammiratore dell’Imitazione di Cristo, uno dei classici della spiritualità, le cui «parole sono come fuoco nascosto nella pietra», per giungere fino al noto saggista e critico francese Roland Barthes che considerava gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola un eccezionale palinsesto dell’anima, per cui «non occorre essere né cattolici né cristiani né credenti né umanisti per essere interessati a quest’opera» (così nel suo Sade, Fourier, Loyola del 1971). A questo punto ci si può chiedere quale sia la calamita che attrae talvolta persone remote dalla pratica religiosa e persino individui apatici rispetto a temi religiosi, pronti però a pendere dalle labbra di un guru misticheggiante esotico o, più seriamente, a interrogarsi sul vento dello Spirito che soffia dove vuole (cf. Gv 3,8). Non è possibile isolare una risposta omogenea, anche perché – nonostante l’oceano bibliografico critico dedicato a un altrettanto vasto mare testuale – come si è già ripetuto, è arduo elaborare una definizione di questo fenomeno dalle infinite iridescenze. Non per nulla, per esempio, la parola “mistica” ha alla radice il verbo greco myêin che esige un chiudere le labbra o gli occhi, tacendo, essendo appunto l’oggetto da conoscere il “mistero”. Uno dei più alti scrittori mistici, lo spagnolo cinquecentesco san Giovanni della Croce, nella sua Salita al monte Carmelo intro- duceva una vetta di vertigine ritmata sulla dialettica paradossale antitetica Nada/Todo: «Per giungere a gustare tutto, non volere il gusto di niente. Per giungere a possedere tutto, non voler possedere niente. Per giungere a essere tutto, non voler essere niente. Per giungere a sapere tutto, non voler sapere niente…». Ignorando le frontiere etnico-culturali e religiose, la spiritualità replica anche in Oriente questa stessa intuizione apofatica (ma non afasica) in un testo indiano: «Come si scopre Dio? Rendendo bianco il cuore con la meditazione silenziosa. Non rendendo nera la carta con scritti religiosi. Non rendendo spessa l’aria con le parole spirituali». L’ineffabilità e il vertice mistico e, proprio per questo, come suggeriva il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951), quello di cui non si può parlare, si deve narrare. Usando liberamente l’acronimo NOMA dei Non Overlapping Magisteria, ossia degli statuti di conoscenza “non sovrapponibili”, propugnato dallo scienziato americano Stephen Gould (1941-2002) per il nesso tra scienza e religione, potremmo dire che la mistica privilegia non la definizione teorica (che pure talora e presente: si pensi al celebre autore medievale Meister Eckhart), ma la descrizione esperienziale, la cognitio experimentalis de Deo, come suggerivano già san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura. La spiritualità e tendenzialmente affettiva, basata non sull’irrazionale ma su una metarazionalità, alla maniera delle “ragioni del cuore” propugnate da Pascal (si pensi, per esempio, a Ildegarda di Bingen, a Giuliana di Norwich, a Matilde di Magdeburgo e così via). È ciò che affermava il cancelliere trecentesco dell’università di Parigi, Giovanni Gerson, nella sua Teologia mistica: «Coloro che non abbiano mai fatto l’esperienza interiore di Dio, non potranno mai sapere intimamente che cosa sia la teologia mistica, come chi non avesse mai amato non potrebbe mai dire con perfetta cognizione di causa cosa sia l’amore». In questa frase abbiamo già uno dei percorsi più lineari per intuire quel “magistero” non sovrapponibile alla pura e semplice razionalità e alla sua logica formale. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 31 Ma l’Italia quanto cresce davvero? di Federico Fubini Il numero degli occupati ai massimi da quarant’anni. Il ritmo di crescita più rapido del decennio. Il principale indice di Borsa di Milano lievitato quasi del 19% in dodici mesi e rendimenti dei titoli di Stato fra i più bassi del dopoguerra, mentre il fatturato dell’export nel 2017 aumenta più che in Francia o in Germania. Accanto a tutto questo, dai partiti proposte pensate per un elettorato psicologicamente ancora in recessione: vi leviamo le tasse sulle crocchette per gatti o la tivù di Stato; vi ridiamo la pensione nel pieno delle

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forze con un assegno intatto; vi garantiamo un sussidio universale o un salario minimo del 15% sopra ai livelli tedeschi. Ma l’Italia come sta veramente? Quando si guardano i mercati finanziari, o l’economia, il lavoro e gli investimenti, o l’industria del credito, oppure la finanza pubblica, la risposta è sempre la stessa: ambivalente. Se l’obiettivo era la ripresa, è stato ampiamente centrato; se era una convergenza con il resto d’Europa, allora in gran parte sfugge e si allontana anche mentre splende il sole. Era dal 2009 che l’Italia non vedeva tassi di crescita del reddito nazionale attorno all’1,5%, al punto che ormai un ritmo simile sembra un record; eppure nel 2017 sarà ancora una volta il più basso della zona euro, mentre il ritardo sul resto dell’area molto probabilmente è destinato a restare lo stesso: quasi un punto in meno, come nel 2016. Quanto al lavoro, un milione di posti sono stati aggiunti da quando la ripresa è arrivata in Italia all’inizio del 2014; nel frattempo però il tasso di occupazione - la quota di coloro che lavorano in proporzione a coloro che potrebbero farlo - resta nettamente la più bassa dell’Unione europea dopo la Grecia, staccata anche dalla Spagna. Lo stesso vale poi per i tassi di attività, che includono chi non lavora ma almeno studia: migliorati quasi del 2% in due anni, ma i più bassi in Europa (Grecia inclusa). Si presta a una doppia lettura anche il volto migliore dell’economia nazionale, l’export. Nel 2017 le vendite all’estero sono salite di circa l’8%, più del commercio mondiale e più che in Francia (5%) e Germania 88%). Una seconda occhiata rivela però che dal 2010 al 2016 la crescita cumulata di fatturato del «made in Italy» (+24%) era rimasta indietro non sono sulla Francia (+ 25%) e la Germania (33%), ma era stata staccata da Spagna (34%) e Portogallo (38%). L’Italia cerca dunque di recuperare terreno, non accumulare vantaggio: impresa resa più complessa dal fatto che il numero di imprese esportatrici resta quasi fermo, non si espande. Sempre la stessa élite di produttori diventa più efficiente, allargando il divario con tutti gli altri. Una delle ragioni è forse in una quota di laureati nel Paese salita dal 12% (2007) a quasi il 16%, pur restando nettamente la più bassa dell’area euro; l’Île-de-France. la regione di Parigi, ha una densità quasi doppia di giovani laureati rispetto alla Lombardia. Una seconda ragione più transitoria della mancata crescita di scala di tante imprese è negli investimenti che in Italia finalmente salgono, ma restano scarsi: siamo al 17,2% del prodotto lordo nel 2017, mezzo punto sopra ai minimi del 2014 ma ancora ai livelli degli anni orribili 2011-2012; terz’ultimi dopo Grecia e Portogallo. Probabilmente dipende anche dal guado che il sistema bancario non ha ancora varcato del tutto: i crediti in default nei bilanci sono scesi un bel po’ ma, al 14% del portafoglio prestiti, restano (in proporzione) fra i più alti del mondo, mentre la capacità del sistema bancario di coprire queste perdite generando reddito è fra le più basse. I miglioramenti dell’Italia - innegabili - giustificano la corsa degli indici di Borsa, ma non va letta come un assegno in bianco sul futuro: i prezzi delle azioni in rapporto agli utili restano due punti e mezzo sotto le medie europee. Né sorprende che l’incertezza politica renda lo spread dei titoli di Stato di Roma più alto anche rispetto a Lisbona. Del resto anche il debito pubblico si sta stabilizzando ma, secondo Bruxelles, l’Italia resta fra i rari casi in cui anche nel 2017 sale un po’. Non è insomma il caso di battersi il petto, né di gonfiarlo. Di sicuro il risveglio italiano deve alla ripresa europea più di quanto tanti politici ammettano. Preferiscono le promesse elettorali. Eppure il problema di queste ultime non è che saranno attuate, perché sono troppo strabilianti. È piuttosto che la politica così perde la legittimità di proporre misure più realistiche e meno seducenti dopo, quando magari non basterà più l’Europa a sospingerci. LA NUOVA Pag 1 La ricchezza concentrata crea pericoli di Franco A. Grassini Tra i molti doni che Babbo Natale ha portato lo scorso dicembre, chi si occupa di economia deve dare un posto privilegiato ad un saggio redatto da cinque studiosi, alcuni universitari altri di banche centrali, di Paesi e continenti diversi intitolato: "The rate of return on everything 1870-2015" (i rendimenti di tutto). Gli Stati i cui dati sono stati studiati sono 17, tra i quali l'Italia, e vale la pena, prima di considerarne il significato, di riportare quelli principali. In tutto il periodo considerato la ricchezza ha reso nella media degli anni 5,85%, mentre il reddito nazionale (Gnp) è aumentato del 3,05%. In Italia i dati corrispondenti sono il 5,05% ed il 3,81%. Andando in maggiori dettagli, i depositi in banca e simili hanno reso l'1,31% annuo, le obbligazioni il 2,44%, le case il 6,69%, le

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azioni il 7,04%. In Italia non ci siamo allontanati troppo dato che i rispettivi rendimenti sono stati l'1,20%, il 2,53%, il 4,77% e il 7,32%. Ci sono molti insegnamenti che si possono trarre dallo studio qui considerato, ma sembra a chi scrive che almeno tre vadano sottolineati. Il primo è che gli elevati tassi di rendimento dei titoli di Stato degli anni '80 sono stati storicamente un'anomalia. Questo vuol dire che per le banche centrali non sarà facile tornare alla presunta normalità alzando i tassi d'interesse. Al tempo stesso, peraltro, tale loro indebolimento potrebbe lasciare più spazio ai governi per emettere titoli a costi non molto elevati ed usare i proventi per sostenere, con investimenti in opere pubbliche ed istruzione, la domanda nei momenti in cui la stessa tende ad indebolirsi eccessivamente come sembra sia piuttosto probabile nei prossimi anni. Una seconda lezione che emerge considerando la modesta diversità di rendimenti tra le azioni e le abitazioni e la molta maggior variabilità e rischi delle prime è che, dopo tutto, gli italiani, con la loro atavica attrazione per il mattone, sono economicamente molto più razionali e meno retrogradi di quanto molto spesso si tende a pensare. Ne consegue che, se le nostre imprese per crescere ed innovare hanno bisogno anche di capitali non bancari, occorre attentamente riflettere su come trattare fiscalmente le diverse forme di risparmio. La terza e più preoccupante lezione che emerge da questi nuovi dati è che aveva ragione l'economista francese Thomas Piketty quando, nel 2013, basandosi su dati da lui elaborati e diversi da quelli dello studio qui menzionato, sostenne che il rendimento del capitale è storicamente più elevato del saggio di crescita dell'economia e, di conseguenza, la quantità della ricchezza, con il tempo, tende ad aumentare sempre di più nei confronti del reddito nazionale. Poiché la ricchezza non è distribuita come il Gnp, ma è molto più concentrata, ne consegue che le diseguaglianze tendono ad aumentare. E, sulla base dei nuovi dati, tendono a farlo più di quanto lo stesso Piketty avesse previsto. Se consideriamo che, come mostrano recenti risultati elettorali in nazioni profondamente diverse, le crescenti diseguaglianze rischiano di mettere in pericolo i sistemi democratici come tradizionalmente si sono sviluppati, i nuovi dati dovrebbero servire come stimolo al cambiamento da parte delle classi dirigenti. Non è sicuramente facile perché chi sta bene difficilmente ama cambiare, ma c'è da sperare che l'intelligenza prevalga sul quieto vivere. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 1 Violenze e furti, l’isola felice non esiste più di Tiziano Graziottin Il caso Venezia L'isola felice è diventata l'isola che non c'è? Il mito della Venezia sicura, dove si cammina anche a tardissima ora senza doversi guardare le spalle, scricchiola sotto il peso di eventi magari abituali in altre luoghi ma non altrettanto ordinari nella città lagunare. Certo, si dirà, i tre assalti in 20 giorni ai supermercati potrebbero essere stati firmati dagli stessi balordi protagonisti del fatto di sangue a San Polo; certo il colpo a Palazzo Ducale può essere inquadrato come eccezionale sotto ogni punto di vista. Però la cronaca nera dell'ultimo anno racconta di tanti piccoli episodi di criminalità ma anche di agguati in calle, soprattutto ai danni di anziani e donne sole; è stato scoperto un covo dove alcuni islamici parlavano di attentati a Rialto; abbiamo visto una banda di ladri mettere in atto l'assalto (con i fumogeni come diversivo) a San Marco. A lasciare il segno, delle vicende di questo inizio anno, è anche la constatazione che due luoghi simbolo della città hanno fatto da scenario agli eventi: il 3 gennaio è stato violato palazzo Ducale, lunedì notte tutto è avvenuto a San Polo, nel cuore del centro storico, in un luogo ben tenuto (non in un'area periferica abbandonata da Dio e dagli uomini), punto di passaggio frequentatissimo da turisti, residenti, pendolari per lavoro. Non è il caso di lanciare generici appelli sulla sicurezza ( l'operato dei carabinieri nella vicenda di questi giorni è stato esemplare), ma c'è un campanello di allarme che suona e che va ascoltato. E da questo punto di vista non va sottovalutato anche un altro aspetto, finora poco analizzato: la fuga dei residenti dal centro storico fa venir meno anche un certo tessuto sociale, sta evaporando la città in cui tutti sapevano tutto di tutti (per la

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straordinaria facilità di rapporti in campi e calli veneziani, anche questa una specificità) e di conseguenza quel controllo di vicinato che oggi va per la maggiore in tante aree urbane ma che a Venezia era nell'ordine naturale delle cose senza bisogno di associazioni e strutture organizzate. Senza dire che la stessa politica urbanistica sulle case pubbliche (almeno fino a qualche anno fa) non ha tutelato il ceto medio - costretto da stringenti logiche di mercato a spostarsi in terraferma - ed è venuta così a determinarsi una paradossale situazione per cui a Venezia sono restate in buona parte solo famiglie particolarmente benestanti da un lato e dall'altro nuclei in difficoltà economica. Tutti fattori che picconano il mito della Venezia sicura a prescindere. Ma una città in queste condizioni è destinata se non alla morte al declino e alla perdita di identità. Un destino che Venezia non si merita. E che dovrebbe essere interesse di tutti, non solo in laguna, scongiurare. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIII Io, finito in mezzo alla rissa tra africani, straniero a casa mia di Vittorio Franchin La “solita” violenza tra via Piave e stazione in balia delle bande Il ragazzo nero svolta l'angolo, si guarda indietro e allunga il passo. Si sentono voci. Sempre più forti. Uno scoppio d'ira. Lingua straniera. Africana. Ma siamo a Mestre. Qui dove la città, nella sua conformazione urbana, è iniziata un centinaio di anni fa, tra le strade che ricordano i luoghi della Grande Guerra. E mentre il ragazzo venuto da lontano fa ancora qualche passo lungo via Col di Lana, eccone un altro che gira l'angolo con via Monte San Michele, ne spunta un terzo, sembra una vedetta che presidia l'incrocio. In un amen i ragazzi neri diventano cinque, poi ne arrivano altri, alla spicciolata, minacciosi. Riempiono la strada. Saranno una dozzina, inseguono il primo. E urlano feroci frasi incomprensibili. Il fuggitivo viene accerchiato, un paio di amici si fanno avanti, gli abbaiano in faccia chissà che cosa, una donna lancia un grido da una finestra, alcuni operai escono da un cantiere, guardano, le porte del fu ristorante Valeriano (un tempo ritrovo in di Mestre ora passato in mani cinesi) restano chiuse. Ecco perché scappava il ragazzo nero. Gli altri sono sempre più vicini. Lui porta la mano dietro la schiena: una bottiglia, la rompe contro un palo di ferro, il vetro in mille pezzi, il collo rimane saldo nelle sue mani. Partono colpi, pugni dati all'aria da una parte, fendenti con il coccio di vetro appuntito dall'altra. Si sfiorano. Ma vanno tutti a vuoto. Poi riprende la fuga. Uno slalom tra gli inseguitori che, evidentemente preoccupati di non venire feriti, lo lasciano passare. Una scia di latrati del branco insoddisfatto. Nemmeno un graffio. Niente sangue. Il tumulto cessa. Sarà passato un minuto, forse meno. La vita, rimasta sospesa, torna a scorrere. Successo niente. Ma se in mezzo alla rissa ci fosse finito un bambino? Una mamma con carrozzina? La nonna con la borsa della spesa? L'anziano che si appoggia al bastone? Con i se non si fa la storia, ma almeno si può fare prevenzione. Invece, alla scena di ordinaria follia in queste strade della vecchia Mestre ha assistito da vicino solo un uomo uscito a portare le immondizie. Prima l'umido, tre bidoni strapieni. Poi il secco in un cassonetto che, mannaggia alla chiavetta elettronica, anche l'altra mattina non si apriva. Bloccato. E così l'intruso - cioè il sottoscritto, degnato solo di un rapido sguardo da parte di quei ragazzotti - è stato involontario testimone di questo film, purtroppo familiare a tanti altri abitanti della zona, i veri eroi senza medaglia della situazione, quelle famiglie normali (termine sempre meno politicamente corretto) che ancora abitano nei palazzi e nelle villette stile liberty, alcune trasformate in bunker con telecamere e allarmi, tra le strade intitolate ai luoghi della Prima guerra mondiale e la stazione ferroviaria, dove i negozianti organizzano serrate e i residenti mai troppo ascoltate manifestazioni di protesta. In questo rione di Gomorra che è diventato periferia in centro città. La via Anelli di Mestre, ma Padova nel decennio scorso ha saputo arginare il degrado del quartiere malfamato. Qui, per ora, nulla. Né prima con vent'anni di centrosinistra, né per ora con Brugnaro & C. LA SICUREZZA - E allora il giornalista-testimone fatica a frenare le pulsioni emotive. A tenere la giusta distanza dai fatti. E comincia a provare - lui che ha la fortuna di abitare qualche strada più in là - ciò che avvertono ogni giorno i concittadini. Non è paura. È molto peggio: delusione, sconforto, umiliazione... in definitiva, sentirsi stranieri a casa propria. Perché, come si evince, non basta un mezzo dell'esercito parcheggiato

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all'angolo per infondere sicurezza. Né bastano quattro vigili di ronda. O le volanti della polizia allertate per le emergenze. Di notte poi, quando il presidio viene tolto, inizia lo spaccio, che pare essere la principale attività di quei ragazzi africani che passano la giornata appoggiati lungo i muri dei palazzi o seduti sul marciapiede. Come si mantengono? Hanno quel che una volta si chiamava lavoro onesto? I permessi di soggiorno in regola? Certo le espulsioni non sono facili, ma almeno un tentativo, nel caso, viene fatto? Perché, al di là degli episodi, il pericolo per l'ordine pubblico è sotto gli occhi di tutti. E le leggi, magari cavillose, ci sono. Ecco cosa si chiede la gente comune al supermercato, al bar o sull'autobus. La gente appunto. Un po' ingenua e qualunquista e arrabbiata, ma che è anche quella che va a votare e che assiste allo scempio di questa parte di Mestre. E se fosse qui istituito un distaccamento della polizia municipale? COSA FARE - Il sottoscritto, l'altro giorno, ha fatto il giro dell'isolato per depositare la spazzatura nei cassonetti davanti alla stazione. Nel frattempo i giovinastri, a cui evidentemente era calato il livello di testosterone, erano tornati al loro posto: all'angolo di via Monte San Michele. Tutto come prima. Successo niente. Come piccolo atto di ribellione, anzi di resistenza, continuerò a portare i rifiuti in via Col di Lana. Di più, mi auguro che altri, molti altri mestrini, facciano lo stesso. Per non arrendersi. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Solo la Cina può salvare Venezia di Paolo Costa Lo spopolamento dei residenti Il centro storico di Venezia, quello che il resto del mondo pensa che coincida con l’intera città, chiude il 2017 con poco più di 53.000 residenti; un migliaio in meno di un anno fa, ma ben 120.000 in meno del 1951, persi da allora con una regolarità impressionante. Un andamento che, così continuando, porterebbe ad un sostanziale azzeramento della popolazione di Venezia storica entro 10 -15 anni. O ancor prima; per l’agitarsi di fenomeni nuovi - che il 2017 ha messo in evidenza - che hanno a che vedere con la globalizzazione dei mercati e la rivoluzione digitale che stanno cambiando l’economia e la società di ogni parte del mondo. La globalizzazione del mercato – quello turistico che oggi interessa Venezia - è percepita da tempo, ma la dimensione che va assumendo sono tali da rendere incolmabile la sproporzione tra la capacità di accoglienza della destinazione Venezia, che in quanto storica non è ampliabile, e la domanda illimitata di «vedere Venezia» che il mondo esprime. Una sproporzione che rende conveniente, oltre che un aumento dell’offerta di strutture complementari (alberghi e altre forme di accoglienza turistica) a Mestre e in mezzo Veneto, la trasformazione di «tutta» Venezia storica – al di fuori del ridotto costruito attorno all’Università, alla Biennale, alle altre fondazioni culturali e artistiche, al porto passeggeri e a un po’ di pubblica amministrazione - in offerta turistica. Tutta Venezia; perché - e qui entra in ballo la sharing economy (l’economia della condivisione) - le piattaforme digitali, come Airbnb, consentono oggi di «condividere» direttamente con singoli residenti temporanei tutto o parte del proprio alloggio od alloggi sottratti ad hoc alla residenza stabile. Le piattaforme alla Airbnb hanno abbattuto anche l’ultimo muro che difendeva almeno la residenza da un più «efficiente» e massiccio uso turistico dell’intero patrimonio edilizio della Venezia storica. Se accanto ai palazzi che diventano alberghi - pratica alla quale stanno contribuendo anche la Regione del Veneto, il Comune di Venezia e la Camera di Commercio di Venezia con propri immobili - e alle botteghe artigiane che diventano ristoranti o negozi di chincaglierie, tutte le case diventano potenziali residenze temporanee, perché incomparabilmente più redditizie delle residenze stabili, il disaccoppiamento del destino di Venezia urbs da quello di Venezia civitas è compiuto. Vi si può resistere per un po’, ma le differenze di rendita alla fine prevarranno. L’urbs, il costruito storico veneziano, verrà conservato e tramandato dai «padroni» dell’offerta turistica; la civitas, la comunità veneziana, sarà invece condannata alla diaspora. Una prospettiva che non può non angosciare i veneziani superstiti, ma che, c’è da scommetterlo, non turberà più di tanto né l’Unesco né il mondo intero, il cui interesse sta tutto nella «Venezia da vedere». È una prospettiva evitabile? O un destino comune anche ai centri storici di Firenze o di Roma? Firenze e Roma si salvano dal disaccoppiamento totale urbs - civitas perché, almeno per il momento, incrociano globalizzazione e rivoluzione digitale forti di una base economica non turistica

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consolidata. Roma per le attività statali che ospita entro le mura aureliane, e quelle direzionali che la capitale attira, e Firenze per la presenza nel centro storico di un distretto degli affari e professionale ancora sufficientemente radicato. E Venezia? Non disponendo più in centro storico di una base economica alternativa al turismo, la sola possibilità di sottrarsi ad un destino segnato sta nel costruirsene con pazienza una di nuova. Ma non una qualsiasi perché deve necessariamente essere di caratura globale, e percepita tale dal mondo intero. Una possibilità che esiste anche se è stata finora colpevolmente sottovalutata. La sola possibilità di vedere tra qualche anno un albergo veneziano riconvertito in uffici o residenze sta nella capacità – nel coraggio - dei governi di capire e prendere sul serio il messaggio che la Cina di Xi Jinpin lancia ripetutamente da almeno tre anni: Venezia come terminale occidentale della Via della Seta Marittima del 21° secolo. Un messaggio ribadito anche dopo le risposte en fin de non recevoir date dal governo italiano, prigioniero di una lettura della proposta cinese in termini banali di politica portuale. Un progetto italo-cinese capace di «rottamare» a favore dell’Italia, del Nordest, e quindi, solo quindi, anche di Venezia l’intera catena logistica delle relazioni commerciali tra Cina e il resto dell’Estremo Oriente, da una parte, e l’Europa via Adriatico e Nordest, dall’altra, è progetto di caratura globale capace di cambiare la faccia del nostro Paese a partire da quella della terra che attorno a Venezia – da Ravenna a Trieste, dal Brennero a Tarvisio - servirebbe relazioni privilegiate Cina-Europa. Pag 13 Se due noccioli di pesca cambiano a sproposito la nascita di Venezia di Ivone Cacciavillani Ha destato grande scalpore la scoperta di due noccioli di pesca sotto il pavimento della Basilica di San Marco, risalenti (secondo gli studi di due archeo-ricercatori dell’Università americana di Colgate, che da noi è semplicemente una marca di dentifricio) al VII secolo dopo Cristo: «Venezia più vecchia di 200 anni», titolavano nei giorni scorsi alcuni giornali, ricavando la sensazionale notizia dalla rivista americana Antiquity. Tra «il 650 e il 770» d.C. risalirebbero quei noccioli, per cui, per retrodatare di 200 anni la nascita di Venezia si dovrebbe collocare la «data di nascita» della Città tra fine Otto e i primi del Novecento. Il che non si sa proprio donde i due prodi archeologici abbiano tratto il loro convincimento. Non era evidentemente dello stesso parere, ad esempio, Cassiodoro, Ministro del Re Goto Teodorico, che, chiedendo, con la celebre lettera del 496, aiuto alla flotta veneziana per il trasporto di merci dall’altra sponda istriana, descrive con molta puntualità lo stato della Città in via di consolidamento sulle isole realtine. Tradizione ben consolidata e risalente vuole che in quelle isole -mai state stabilmente abitate ma nemmeno del tutto deserte, abitualmente usate come rifugio d’emergenza; comode ai pescatori della costa per le manovre della navigazione di cabotaggio- si siano precipitosamente rifugiati gli abitanti delle fiorenti città dell’entroterra veneto -Altinum (Altino), Ateste (Este), Patavium (Padova), Acellum (Asolo) - in fuga davanti al flagello Attila, che imperversava nella pianura veneta (e non solo). Migrazioni di massa, in cui i fuggiaschi d’una città prendevano possesso di un’isola ristabilendovi un minimo di vita comune e allocandosi alla ben e meglio. Questo accadeva nel 452, vale a dire circa tre/quattro secoli prima dell’abbandono di quei famosi due noccioli di pesca. Comunità via via consolidatesi, istaurando rapporti di vicinato con gli abitanti di altre isole e lentamente «facendo città», sempre conservando una specie di cordone ombelicale con le città di provenienza, che a loro volta si stavano ricostruendo sulle rovine «attilane». Vari e non sempre felici i rapporti tra le comunità «isolane» e le città di presunta provenienza: così Padova rivendicava la paternità dell’isola di Malamocco e Asolo quella di Torcello. Poi i problemi isolani presero il sopravvento; vennero creati i Tribuni d’isola, fino a darsi un Doge (probabile corruzione di Dux), tradizionalmente individuato in Paoluccio Anafesto, che avrebbe «regnato» proprio a cavallo della data del probabile abbandono dei due noccioli di pesca americani: dal 697 al 717; salvo che fossero i resti della festa per l’arrivo delle venerate spoglie di San Marco, fortunosamente giunte a Venezia l’827. No davvero: la storia di Venezia non ha bisogno di nessun «regalo» di secoli; né i due noccioli di pesca americani fanno Città. LA NUOVA

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Pagg 2 – 3 Area dei Pili. Casinò, ville e palasport sulla proprietà del sindaco di Francesco Furlan e Vera Mantengoli Bufera sul possibile conflitto di interessi per gli investimenti milionari di Mr Kwong Venezia. Il progetto c'è, l'interesse dell'imprenditore di Singapore Ching Chiat Kwong anche. E se, come dicono dalla Porta di Venezia, non è l'unico a essersi fatto avanti, è pur vero che è il più vicino al traguardo per il grande intervento immobiliare previsto nei 40 ettari dei Pili. L'area è di proprietà, attraverso Porta di Venezia (gruppo Umana) del sindaco Luigi Brugnaro che, a fine dicembre, ha creato un blind trust per la gestione delle sue società. «Certo, prima ha posto le basi per l'intervento ai Pili e poi si ha fatto il blind trust», sbotta il consigliere Ottavio Serena. Lui e Renzo Scarpa proporranno l'istituzione di una commissione consiliare straordinaria di indagine sul caso Pili.Porta di Venezia. «Il blind trust apre la strada allo sviluppo di progetti che fino a ora erano impensabili per le società del sindaco Luigi Brugnaro». Parola dell'amministratore delegato di Porta di Venezia, Luca Gatto. «Adesso che c'è il blind trust si può finalmente pensare a un progetto di sviluppo dell'area, senza più avere l'ombra di possibili conflitti d'interesse. Noi non comunichiamo nulla a Brugnaro, come prevede l'accordo. Ci sono dei manager che prendono delle decisioni sulla società e c'è una separazione netta di ruoli. Per evitare equivoci spiegheremo quanto prima come funziona il blind trust». La squadra di Mr Kwong. È il tycoon di Singapore della Grandeur Oxley Holding Limited che, dopo aver acquistato Palazzo Donà e con le chiavi di Palazzo Poerio Papadopoli già in mano - il Comune sta procedendo all'assegnazione - punta sull'area dei Pili. Palazzetto dello sport da 10 mila posti, Casinò, albergo fronte laguna, villette residenziali con porticciolo d'accesso. «Ci sono stati dei contatti con lui», aggiunge Gatto, «ma non c'è nulla di scritto. Ci sono altri imprenditori che hanno presentato dei progetti e bisognerà valutare». Con mister Kwong, che non avrebbe preso bene l'uscita del suo nome collegato all'intervento dei Pili, è già al lavoro da mesi un gruppo di professionisti tra i quali Fabiano Pasqualetto, architetto di Mestre e Claudio Vanin, rappresentante della Sama Global Italia di Villorba, società che sta seguendo anche la trasformazione alberghiera di Palazzo Donà. «Per capire l'intervento dei Pili», conferma un architetto vicino all'operazione, «è giusto prendere come riferimento il progetto Royal Wahrf, lungo il Tamigi, che sarà però adeguato alla laguna». Destinazione d'uso. Per poter realizzare quel che ha in mente i Mr Kwong bisognerà però cambiare la destinazione d'uso del terreno, ora prevista a verde urbano. Come? Con il voto del consiglio comunale, a maggioranza fucsia, quindi della Lista Brugnaro. Sulla questione dei Pili, tanto più dopo la nascita del blind trust, il sindaco per ora preferisce non parlare. Se in futuro arriveranno proposte, fa però sapere, sarà infatti il consiglio comunale a decidere, non certo lui in prima persona. I maliziosi, pure in maggioranza, non mancano: può essere che l'imprenditore di Singapore si sia avventurato in un progetto per centinaia di milioni di euro senza avere una rassicurazione? Ci sono poi altri due nodi da sciogliere. Il primo è l'inquinamento del terreno (cosa c'è lì sotto?) sui cui il senatore Felice Casson ha chiesto lumi al ministro dell'Ambiente Galletti. Il secondo riguarda il parere della Soprintendenza che dovrà dire la sua per l'eventuale progetto affacciato alla laguna. L'opposizione. C'è chi sostiene, come Pd e Cinque Stelle, che sia impossibile che il primo cittadino non sappia cosa stia accadendo in città e nemmeno che il consiglio comunale si schieri contro di lui. «Non è in questione che si voglia cambiare il waterfront, ma il blind trust sembra un espediente per consentire quest'operazione» dice il consigliere Nicola Pellicani del Pd: «Non si è mai visto nella storia della Repubblica che un sindaco di una grande città promuova un progetto immobiliare in un'area di sua proprietà». I sindacati. Dubbi sul progetto anche per la Cgil, il cui segretario generale Enrico Piron ha scritto una lettera aperta all'imprenditore di Singapore, e per la Cisl. Quell'area, dicono i sindacati, deve mantenere una vocazione industriale. «La parte di quell'area con sbocco al mare deve rimanere legata all'attività industriale e portuale mentre la parte interna potrebbe essere considerata in continuità con il padiglione Aquae e Vega, dedicata alla ricerca e alla innovazione scientifica». Venezia. «Se il progetto andrà come deve andare potrà diventare un importante modello di riferimento per recuperare anche altre aree ex industriali di Porto Marghera, un territorio devastato che potrebbe rinascere».Ne è convinto Tobia Scarpa, 83 anni

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compiuti lo scorso primo gennaio, architetto e designer noto in tutto il mondo con opere esposte anche al MoMa. Tra i suoi ultimi interventi di architettura c'è il restauro della chiesa di San Teonisto, a Treviso, di proprietà della famiglia Benetton, con la quale Scarpa ha lavorato a lungo. All'architetto veneziano è stato chiesto di partecipare, con la sua visione, al progetto previsto nell'area dei Pili, alle porte del Ponte della Libertà. «Il contratto non è ancora stato firmato», racconta Scarpa, «ma dovrebbe avvenire a breve». Anche se per il momento preferisce non svelare chi sia stato, fino ad ora, il suo interlocutore. Scarpa assicura però che un «ragionamento con i promotori del progetto c'è già stato» compresa una visita alle aree, per capire come sia possibile intervenire sugli ettari stretti tra il Ponte della Libertà, un pezzo della laguna e l'area industriale. Un'area che dovrà rispondere anche a criteri di servizio pubblico, con l'individuazione di uno sponsor che poi risulti appagato dalla realizzazione dell'intervento».Il palazzetto dello sport dunque ma anche - da quanto trapela - un albergo, strutture residenziali con un porticciolo. «Il basket è diventato uno dei simboli di questa città e il palazzetto ci sarà sicuramente», riflette Scarpa, ricordando come sia da tempo una richiesta che arriva da tutto il territorio metropolitano. e Poi l'albergo, forse il Casinò, le villette. «Se verrà costruita una proposta valida potrà senza dubbio diventare un intervento punto di riferimento per la riconversione anche di altre zone di Marghera, capace di individuare un'idea di futuro per la città». Anche se, la posizione dell'area e il terreno obbligano i progettisti a muoversi con cautela. «Siamo affacciati alla laguna, a fianco del Ponte della libertà, in un punto che è stato usato anche come una discarica di materiali», osserva Scarpa. «Non è tanto l'inquinamento a preoccuparmi, perché al giorno d'oggi ci sono le soluzioni tecniche per poter intervenire, ma la fragilità del supporto, perché il terreno fangoso». In ogni caso sarà un progetto di costruzione che si svilupperà su più anni, «almeno cinque anni, perché non è intervento che si possa realizzare in breve tempo, perché la laguna è la laguna, il fango è fango e l'acqua è acqua». Un intervento, ne è ben conscio Scarpa, farà discutere la città: perché il proprietario del terreno è il sindaco Luigi Brugnaro attraverso la società Porta di Venezia, e per il tipo di intervento a ridosso della laguna, e all'ingresso di Venezia.«Dibattito legittimo, a me basta che non vengano fuori i soliti che parlano senza sapere, che parlano senza conoscere che tipo di intervento dovrebbe essere realizzato». Il consigliere Nicola Pellicani attacca il sindaco: «Se a Brugnaro sta veramente a cuore il futuro di Venezia e vuole rigenerare il waterfront di Porto Marghera non è concepibile che pensi di vendere a Ching Chiat Kwong l'area dei Pili in veste di imprenditore per poi cambiarne la destinazione d'uso in veste di sindaco, moltiplicando il valore della stessa superficie in modo esponenziale. Ciò che in caso può fare come sindaco è espropriare l'area dei Pili di sua proprietà al medesimo costo di 5 milioni circa per cui l'ha acquistata dal Demanio nel 2006. In tal modo la città e il Consiglio comunale potranno decidere in modo libero, scevro da condizionamenti, il futuro e lo sviluppo dell'area». Stessa perplessità dai Cinque Stelle. «Il blind trust sarà anche cieco, ma il sindaco Brugnaro ci vede benissimo» afferma Davide Scano: «Noi non abbiamo mai chiesto il blind trust, ma abbiamo denunciato più volte che il sindaco è pieno di conflitti d'interesse e che il suo essere imprenditore cozza con l'interesse al bene pubblico. Se questa operazione ai Pili è vera, lo dimostra. Dopo aver annunciato il blind trust, dopo una settimana partono gli investimenti, ma chi vuole prendere in giro? Il suo blind trust è solo un barbatrucco che permette di fargli fare tutto senza rendere conto a nessuno». Diversa invece la posizione del fucsia Maurizio Crovato (a destra): «I conflitti di interessi ci sono stati per tutti» spiega «Mi viene in mente un sindaco che non ha mai chiuso il suo studio di avvocato, non c'erano conflitti di interesse? Brugnaro spende 100 mila euro all'anno per il blind trust. Inoltre è stato l'unico a intuire che l'area dei Pili era strategica, dopo due aste andate a vuoto e il no dell'allora Massimo Cacciari che avrebbe potuto esercitare il diritto di prelazione. Certo, allora non c'era la legge che chi inquina bonifica, ma Brugnaro ha capito che era un punto strategico, la cerniera tra l'isola e la terraferma. Adesso salta fuori il problema di mister Kwong, ma se uno guarda i progetti per Londra non può dire che ci sia una speculazione, anzi porta soldi e realizza un bel waterfront. L'area è privata e un privato ci fa quello che vuole, se poi si dovrà decidere in consiglio comunale, ognuno voterà». Attualmente (delibera 26/2012 approvata senza osservazioni) l'area è a

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destinazione verde urbano, in pratica si possono realizzare alcuni interventi ma non case o alberghi. «Il Trust è un istituto della Common Law, un modello di ordinamento giuridico di origine anglosassone. Attraverso questo istituto un soggetto si spossessa di determinati beni, mobili o immobili, e li fa gestire da un gestore indipendente, di solito un professionista o una banca. Si tratta di una separazione patrimoniale: il proprietario stabilisce le finalità di questo patrimonio e le destina al cosiddetto Trustee, il gestore di questo patrimonio che segue le sue volontà. Ci sono molte specie di Blind Trust: quello che ha fatto il sindaco, primo in Italia, è per tracciare una linea tra amministratore pubblico e imprenditore. Dato che potrebbe avere dei conflitti di interesse se dovesse amministrare la città a causa del suo patrimonio, il sindaco si spoglia di quella parte di conflitto di interesse perché non deve avere occhi che per l'amministrazione pubblica. Il gestore ha una finalità gestoria, ma il guadagno resta al proprietario. Nel Trust ci deve essere una separazione assoluta, pena l'annullamento dell'istituto. L'unica cosa che il disponente può fare è dare delle indicazioni iniziali. Nel caso di un consiglio comunale che abbia come oggetto un suo bene, il diretto interessato si astiene. I consiglieri non hanno un interesse diretto sul bene, quindi possono votare. Il Trust è un documento pubblico perché è un atto notarile». Caro signor Kwong, certo le sarà capitato di visitare il nostro territorio in questi giorni e avrà notato come, per giustissima volontà dell'amministrazione e del nostro sindaco, da qualche tempo, alcuni siti industriali siano illuminati la notte. È una idea certo di impatto ma, mi creda, non evocativa o estetica. Serve a ricordare alle menti più distratte, proprio perché stiamo celebrando il centenario dell'area industriale, che questo compleanno non è unicamente una rievocazione del tempo che fu, di industrie che non ci sono più, di lavoro scomparso e territorio abusato, ma l'inizio di nuova progettualità. Venezia, che abbiamo la fortuna di abitare, è certamente uno straordinario luogo storico e artistico, unico nel mondo, ma deve tornare a essere il centro di un processo di ricostruzione di un tessuto industriale e manifatturiero che da troppo tempo attende segnali di ripresa. (Parlo bene, signor sindaco?). Tutte e tutti ci stiamo impegnando affinché tale progettualità non resti lettera morta, ma che dia nel più breve tempo possibile, risposte concrete che permettano a progetti industriali ed investimenti, di trovare, proprio qui e finalmente, quelle prerogative per rimettere in moto il volano della produzione industriale moderna. Lo status di "area di crisi complessa" , il grande lavoro svolto in questi mesi e l'imminente inizio di questa fase, nonostante le già grandi difficoltà ambientali presenti, rappresentano un'occasione alla quale nessuno intende a rinunciare e per la quale ognuno è disposto a fare la proprio parte. (Giusto, signor sindaco?). Non le nego poi che in questi giorni ci stiamo impegnando tutti anche per ripensare il territorio, per valorizzarne le specificità, per integrare maggiormente il Porto con la città, per trovare elementi di compatibilità tra fattori presenti a partire proprio dal turismo e dalle grandi navi da crociera, salvaguardando quell'importantissimo lavoro, magari valorizzandolo e stabilizzandolo ma evitando che il turismo si divori tutto il nostro territorio e che lo impoverisca, sopratutto perché Venezia non diventi un parco di divertimenti a tema, ma resti una città, con i suoi abitanti, con le attività produttive, artigianali, di servizio che una città deve mantenere, con i servizi essenziali per i suoi cittadini, tutti i cittadini di un luogo tanto complesso, dalla città storica alla terraferma, con un welfare che non discrimini e che liberi dal bisogno, insomma un progetto politico di rilancio anche in un'ottica metropolitana, anche se ormai quasi ci siamo dimenticati di esserlo, metropolitani. (Un po'è così, vero signor sindaco?). Veda, signor Kwong, siamo lusingati dal fatto che lei abbia pensato a Venezia per i suoi investimenti e all'area dei Pili, ma, mi creda, la sua visione imprenditoriale confligge proprio con le aspettative del territorio e con i desiderata del nostro sindaco. Quel territorio ha un vincolo industriale ed è opportuno non solo che mantenga quel vincolo, ma che su quell'area vengano impiantate realtà manifatturiere e industriali, start up, progetti produttivi con le università. Mi permetto di aggiungere che, tra l'altro, proprio il proprietario di quelle aree da mesi sta dicendo con veemenza e coraggio, che a Venezia serve proprio che l'industria riparta e che non intende rassegnarsi al declino in cui verte, che lui è figlio di questo territorio e che a Porto Marghera e alle sue industrie deve moltissimo e che

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intende ricompensarlo di quello che ha ricevuto e sono convinto che giammai permetterà che proprio sulle aree di sua proprietà vengano impiantati progetti che non sono improntati su questa dimensione. Forse non lo dice a lei ma lo ha detto a tutti noi. Caro signor Kwong, mi creda. A Venezia serve ricostruire un tessuto produttivo ed industriale all'altezza della sfida mondiale. Partecipi anche lei ai progetti di re-industrializzazione. Converta gli investimenti di capitali in lavoro e produzione. Sottragga tutti noi da questo imbarazzo. (Enrico Piron - segretario generale Cgil Venezia) Pag 23 “Le foto delle recite? Non su facebook” di Francesco Furlan Regolamento comunale asili nido: i genitori dei bambini potranno usarle soltanto a titolo personale, ma non divulgarle attraverso i social Sì alle foto delle recite, ma no alla pubblicazione sui social network come facebook: lo prevede il nuovo regolamento comunale sugli asili nido, che dopo essere stato discusso nelle commissioni consiliari oggi pomeriggio approderà in Consiglio comunale per l'approvazione definitiva. Davanti all'obiettivo della macchina fotografica di mamma e papà c'è il figlio vestito da folletto, per la recita di fine anno dell'asilo nido. E prima di scattare le foto, almeno qualche volta, scattano pure i dubbi del buon senso: «Ma oltre a mio figlio potrò ritrarre anche gli altri bambini? E poi, di queste foto, che uso ne potrò fare?». Tema sensibile, in tutti gli asili. E in tutte le scuole frequentate da minori. Per le foto e i video realizzati direttamente dalle scuole, ai genitori viene spesso chiesto di firmare una liberatoria. Perché quelle foto potrebbero diventare il calendario della classe, finire nei lavoretti dei laboratori, o essere pubblicate sul sito Internet. Ma che fine fanno le foto scattate a raffica dai genitori? Spesso finiscono su facebook o instagram, altrettanto spesso con troppa leggerezza. Telefonate tra genitori, richieste di rimozione, inviti - almeno per la prossima recita - a prestare maggiore attenzione, ad offuscare i volti «dei bambini che non sono suo figlio». Ora succede che, nel nuovo regolamento sugli asili nido, il Comune abbia deciso di inserire un articolo specifico sull'argomento e sulla relazione tra le immagini dei bambini e i social network. È l'articolo 22: "Immagini di recite e gite scolastiche".«Sono autorizzate, in quanto non violano la privacy, la riprese video e le fotografie raccolte dai genitori durante le iniziative dell'asilo nido, ma solo destinate a uso personale e non alla loro diffusione», recita l'articolo del regolamento, «deve invece essere preventivamente ottenuto il consenso dei genitori dei bambini presenti in fotografie o in video acquisiti allo scopo di pubblicazione in Internet, su social network o comunque di diffusione». È vero che il Comune, introducendo questo articolo, si uniforma a quanto previsto e chiarito più volte dal Garante per la privacy sugli ambienti scolastici, ma è anche vero che l'introduzione di questo articolo nel regolamento serve a rafforzare la tutela dei minori, soprattutto per ciò che riguarda le immagini da pubblicare sui social network. A chi non è capitato, almeno una volta, di aver pubblicato la foto del figlio con alcuni amici, e poi di essersene pentito? Vale per i bambini, ma anche per gli adolescenti, come insegna il recente caso di Roma. Dove il tribunale ha condannato una madre a pagare diecimila euro per aver pubblicato su facebook le foto del figlio sedicenne senza il consenso dello stesso ragazzo. «Se la madre non rimuoverà tutte le foto», ha decretato il tribunale di Roma, «dovrà pagare 10mila euro di multa». «La decisione di inserire nel regolamento la gestione delle immagini», spiega Alessio De Rossi, consigliere della lista Brugnaro, «da un lato serve a far chiarezza sull'assenza del divieto di poter scattare delle foto o realizzare dei filmati, dall'altro è importante che le famiglie capiscano che è meglio evitare di pubblicare le foto di bambini, perché tra i genitori ci sono sensibilità diverse tra genitori su questo tipo di argomento». Una decisione che vede d'accordo consiglieri di maggioranza e di opposizione. Con ogni probabilità il nuovo regolamento degli asili nido verrà votato nel corso del consiglio comunale di oggi, dopo la discussione relativa a una serie di emendamenti, su altri aspetti del regolamento, presentati dai consiglieri di opposizione. L'articolo introdotto nel regolamento degli asili nido comunali ricalca quanto già stabilito dal garante per la privacy in un documento dal titolo "La scuola a prova di privacy".Nel capitolo dedicato alle recite e alle gite si legge proprio che «non violano la privacy le riprese video e le fotografie raccolte dai genitori durante le recite, le gite e i saggi

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scolastici», quando raccolte per fini personali e «destinate a un ambito familiare o amicale e non alla diffusione». «Va però prestata particolare attenzione alla eventuale pubblicazione delle medesime immagini su Internet, e sui social network in particolare», avverte il garante, «in caso di comunicazione sistematica o diffusione diventa infatti necessario, di regola, ottenere il consenso informato delle persone presenti nelle fotografie e nei video».Un concetto ripreso quindi nel regolamento comunale. Nelle linee guida del garante per la privacy c'è anche un capitolo che riguarda l'uso di di telefoni cellulari e di tablet.«Uso consentito», scrive il garante per la registrazione «ma esclusivamente per fini personali, e sempre nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone coinvolte (siano essi studenti o professori) in particolare della loro immagine e dignità. Le istituzioni scolastiche hanno, comunque, la possibilità di regolare o di inibire l'utilizzo di registratori, smartphone, tablet e altri dispositivi elettronici all'interno delle aule o nelle scuole stesse. Gli studenti e gli altri membri della comunità scolastica, in ogni caso, non possono diffondere o comunicare sistematicamente i dati di altre persone (ad esempio pubblicandoli su Internet) senza averle prima informate adeguatamente e averne ottenuto l'esplicito consenso». Tra le altre novità previste dal nuovo regolamento c'è l'istituzione di una graduatoria unica per l'individuazione della scuola. Gli anni scorsi infatti i genitori candidavano il figlio in una scuola, e poi facevano una seconda scelta (finendo in una seconda graduatoria) con il rischio, in caso di mancata ammissione alla prima scuola, di rimanere fuori anche dalla seconda, pur avendo un punteggio maggiore in graduatoria di altre famiglie. Altra novità riguarda l'introduzione di due graduatorie in corso d'anno per dare la possibilità di iscriversi anche ai genitori dei bambini nati a chiusura della graduatoria di fine marzo. Tra gli aspetti più discussi - su cui oggi in Consiglio ci sarà battaglia - riguarda la formazione del consiglio di Nido, composto da tre rappresentanti dei genitori, due educatori, un dipendente del Comune nominato dal dirigente, e altri due rappresentanti che, in passato, venivano indicati dal presidente della Municipalità, e potevano essere membri della società civile. Con il nuovo regolamento un rappresentante sarà nominato direttamente dal sindaco, e uno dal presidente della Municipalità, ma solo tra i consiglieri di Municipalità competente per territorio. Una scelta che non va giù a Monica Sambo del Pd e a Davide Scano (Movimento 5 Stelle) che oggi presenterà un emendamento per chiedere di rivedere questa scelta. Altro aspetto riguarda le madri ospiti delle case famiglia. «Da tempo abbiamo posto la questione di realtà come Casa Aurora, Casa Pio X, Santa Maria della Pietà ed altre strutture che accolgono mamme in difficoltà (vittime di violenza o tossicodipendenti) e i loro bambini», spiega Monica Sambo del Pd. «Questi bambini frequentano o dovrebbero frequentare le scuole o i servizi per l'infanzia del Comune di Venezia, anche per permettere ai bimbi di seguire un percorso normale di educazione e di socializzazione. Parte delle mamme ospitate in queste strutture non è residente nel Comune di Venezia, di conseguenza, applicando il regolamento in modo rigido e miope le stesse dovrebbero pagare la retta massima a prescindere dal reddito, e se loro o il comune di appartenenza non possono pagare, il bambino viene escluso dal nido. Questo ha portato molte mamme a ritirare lo scorso anno l'iscrizione dei loro bambini, ricordiamo mamme in difficoltà maltrattate o tossicodipendenti. Queste mamme in difficoltà vanno garantite». Pag 24 Alcol, sempre più pazienti in cura al Serd di Simone Bianchi Il rapporto dell’Usl 3 sono 257 le persone seguire per curare l’abuso di vino e birra, 79 si sono avvicinate nel’ultimo anno La crisi economica alimenta l'abuso di alcol. L'ultimo rapporto del Servizio Dipendenze dell'Usl 3 lo dice chiaramente. Un dato che emerge dalle attività svolte nel distretto veneziano. Sono infatti sempre di più i cittadini che abusano di vino, birra e superalcolici in generale. Il Serd veneziano lancia infatti un vero e proprio allarme, a fronte di un problema sempre più esteso, e che sta colpendo in particolare i giovani anche in forma nascosta, con in generale quasi il 9 per cento di utenti del Serd in più in un anno. «Tra gli utenti alcolisti del nostro Serd», sottolineano i responsabili degli ambulatori di Mestre e Venezia, «il vino è l'alcolico d'abuso primario, compagno di viaggio del 61,9 per cento degli alcolisti in cura. Tra gli alcolici consumati viene al secondo posto la birra, che crea

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dipendenza al 22,6 per cento delle persone seguite. Percentuali più basse riguardano infine aperitivi e superalcolici». Significativa anche la percentuale di utenti alcolisti che associano all'abuso di alcol anche il consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope. Sono 50 (il 19,4 per cento del totale), e la percentuale di utenti che ricadono in entrambe le dipendenze è più alta a Venezia (34,2) rispetto a Mestre, dove i pazienti seguiti mescolano alcool e stupefacenti nel 13,6 per cento dei casi totali. Il rapporto del Serd locale mostra come complessivamente nel 2016 sono stati seguiti dalle due sedi 257 alcolisti (184 a Mestre e 73 a Venezia), di cui 79 giunti al servizio per la prima volta. Si è registrato un aumento dell'8,8 per cento rispetto al 2015, e +14 rispetto al 2014. L'incremento è stato del 10,1 per cento a Mestre e del 25,8 a Venezia. «Numeri in crescita costante», proseguono dal Serd, «a cui va idealmente sommato anche il numero di coloro che, pur essendo alcolisti, non si rivolgono a questo servizio sanitario. E' chiaro che questo è un fronte caldo, in cui si mescolano elementi peculiari del territorio veneto, aggravati dalle difficoltà sociali che negli anni della lunga crisi hanno colpito una grande fetta di popolazione». La maggioranza degli utenti (il 69%) sono maschi. Dei 257 soggetti presi in carico, 218 (l'84,8% ) risiedono nel Veneziano. Tra questi, 5 sono senza fissa dimora. I cittadini stranieri presi in carico sono stati in tutto 19. Il 31,5 per cento del totale risulta occupato stabilmente, il 12,5 saltuariamente. Il 28,4 è disoccupato. Il 10 per cento è pensionato e il 5,1 per cento delle donne coinvolte risulta fare la casalinga. Il 64 per cento di chi ha problemi con l'alcol ha una età compresa tra 40 e 59 anni. Sono pochi i giovani che si rivolgono al Serd, ma questo non significa che il problema non colpisca anche quella fascia, anzi. A collaborare in questo senso con il Serd dell'Usl 3 sono pure i medici del dipartimento di Salute mentale. E all'Ospedale Fatebenefratelli, che collabora con il SerD e al suo interno prevede dei posti per la riabilitazione alcologica, nel 2016 sono stati 112 i ricoveri specifici. Pag 34 Il presepe di sabbia arriva in Vaticano: “Un sogno per Jesolo” di Giovanni Cagnassi Ieri l’incontro in Comune con gli emissari del Papa. Sarà allestito in piazza San Pietro per il Natale 2018 Jesolo. Presepe di sabbia in Vaticano, ieri l'incontro con gli emissari di San Pietro in Comune a Jesolo. Hanno discusso con il sindaco, Valerio Zoggia, sulle prossime tappe di questo viaggio che verrà preparato appena finirà questa edizione 2018 di Sand Nativity, l'11 febbraio con la chiusura e la destinazione dei fondi raccolti. Ieri è arrivata una delegazione tecnica per definire la realizzazione delle sculture di sabbia in piazza San Pietro in programma per il Natale 2018.L'assessore al Turismo, Flavia Pastò, e i dirigenti del Comune hanno accolto il direttore dei servizi tecnici della Città del Vaticano, don Rafael García de la Serrana Villalobos, accompagnato da un ingegnere e un architetto. La delegazione ha fatto visita alle sculture di sabbia di piazza Marconi, estasiata dalla bellezza e l'esecuzione degli artisti internazionali. Hanno discusso assieme al direttore di Jesolo Patrimonio, Igor Buosi, le modalità di trasporto della sabbia dal litorale di Jesolo alla Città del Vaticano, l'impostazione del cantiere all'interno di piazza San Pietro e il periodo nel quale potranno essere effettuati i lavori di allestimento senza interferire con le udienze papali in programma, alla luce delle misure di sicurezza antiterrorismo che dovranno essere adottate.«Siamo molto soddisfatti dall'esito di questo incontro», ha commentato l'assessore al Turismo, Flavia Pastò, «che ha visto non solo il grande apprezzamento da parte della delegazione nei confronti del nostro presepe di sabbia, ma anche la disponibilità al dialogo e al confronto. L'appuntamento del Natale 2018 rappresenta per Jesolo un po' il coronamento di un sogno che premia il lavoro che su questa iniziativa è stato e sarà fatto». «Jesolo entrerà quindi in piazza San Pietro nella trentaseiesima edizione del presepe di sabbia del Vaticano, la sesta che vede il presepe donato da un'altra città. Un'opportunità che ci aprirà una finestra sul mondo e una visibilità senza eguali. Assieme al nostro presepe, ci sarà poi l'albero di Natale, che sarà donato dalla regione Friuli-Venezia Giulia a ulteriore testimonianza di un Nord est che si muove e del quale vengono apprezzate le proposte».Oggi, la XVI edizione di Sand Nativity, organizzata dalla Città di Jesolo con il prezioso contributo di Jesolo Turismo, si attesta tra le più visitate degli ultimi anni: 95 mila le presenze registrate dallo scorso 8 dicembre. Si supereranno dunque anche quest'anno le 100 mila visite. Gli afflussi alla

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feste sono molto alti, con una media di circa 4.400 presenze giornaliere e un picco di 6.800 ingressi nel giorno di Santo Stefano. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le favole da evitare sul debito di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Piani elettorali Luigi Di Maio ha consegnato alla stampa un suo scritto in cui annuncia che il Movimento 5 Stelle sta elaborando un piano per ridurre in due legislature il debito pubblico del 40 per cento del Pil, da 130 circa, il livello di oggi, a 90. Il piano non comporterebbe tagli alla spesa pubblica, anzi dovrebbe prevedere un aumento della spesa per infrastrutture. Abolirebbe anche la riforma pensionistica (la legge Fornero), un provvedimento che la Ragioneria generale dello Stato stima produrrà, nel biennio 2019-20, un risparmio di 25 miliardi l’anno lordi (cioè senza tener conto dell’effetto sulle imposte pagate dai pensionati). Queste favole fiscali sono solo leggermente meno fantasiose delle promesse di Donald Trump (al quale Di Maio evidentemente si ispira), quando in campagna elettorale annunciava che avrebbe annullato il debito pubblico americano in 8 anni (due legislature appunto) aumentando, anche lui, le spese per infrastrutture e riducendo le imposte. Di Maio (proprio come Trump) non ci dice come intenda realizzare questa straordinaria riduzione del debito. Trenta-quaranta punti di taglio sul Pil in 10 anni non sono impossibili ma richiedono almeno un paio di cose: dei surplus di bilancio notevoli (altro che aumenti di spese e abolizione della legge Fornero!), e dei tassi di interesse reali che rimangano assai bassi, e questo non dipende da noi. La storia e la teoria economica ci spiegano che per ridurre il debito ci sono tre modi. Il primo è svalutare il valore reale del debito con una «botta di inflazione». L’iperinflazione tedesca degli anni 20 cancellò l’enorme debito pubblico che la Germania aveva accumulato durante la Prima guerra mondiale, contribuendo a provocare eventi sociali e politici drammatici. Anche dopo la Seconda guerra mondiale l’inflazione svalutò, seppure in modo meno drammatico, il valore reale del debito, sia negli Stati Uniti che in Italia. Oggi però l’idea che il debito pubblico possa essere svalutato dall’inflazione è un’assurdità: non appena i risparmiatori lo sospettassero, i tassi di interesse salirebbero molto più dell’inflazione rendendo il debito ancora più costoso. Il secondo modo è un ripudio. Se il nostro debito fosse detenuto solo da italiani, un ripudio comporterebbe una ridistribuzione di ricchezza da chi possiede titoli pubblici ai contribuenti. Ma questo non è il nostro caso. Il 40 per cento circa del debito italiano è detenuto da investitori internazionali. Un ripudio creerebbe una crisi di fiducia verso i nostri mercati, il blocco degli investimenti esteri, fallimenti bancari e una nuova crisi finanziaria. Un ripudio dopo l’altro, l’Argentina è passata da essere uno dei Paesi più ricchi del mondo a un caso quasi disperato. La terza alternativa è una crescita del denominatore del rapporto debito/Pil più rapida della crescita del numeratore, cioè il deficit dei conti pubblici. In certi periodi storici - ad esempio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dopo la Seconda guerra mondiale - la crescita del Pil è stata cosi alta che il rapporto debito/Pil si è ridotto relativamente in fretta. Purtroppo tassi di crescita elevati come durante il boom degli anni Cinquanta e Sessanta non sono all’orizzonte. La conclusione è che ridurre il debito richiede molto tempo, grande pazienza e politiche che riducano il numeratore, cioè conti pubblici in attivo, o per lo meno un avanzo di bilancio al netto degli interessi e un tasso di crescita del Pil più alto del costo del debito. Un avanzo nel bilancio pubblico si può ottenere o riducendo le spese o aumentando le imposte. L’evidenza empirica dimostra che un aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese riduce la crescita, così tanto che alla fine il rapporto debito/Pil anziché diminuire sale ancor di più. Invece, tagli alla spesa pubblica hanno l’effetto desiderato, cioè riducono il rapporto debito/Pil perché non rallentano la crescita, o al massimo la influenzano di poco e per poco tempo. Questo è vero soprattutto per quelle riforme che bloccano l’aumento automatico di certe spese come le pensioni, soprattutto quando diventano incompatibili con l’allungamento della vita e il calo della natalità. È per questo motivo che cancellare la legge Fornero

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renderebbe ancor più difficile ridurre il debito. Questo è ciò che si impara leggendo i libri di storia e qualche manuale di economia. Purtroppo questa campagna elettorale è piena di favole. In parte è inevitabile, ma a noi pare che si stiano superando limiti assai pericolosi. Pag 1 I no che i maschi dovrebbero iniziare a dirsi di Pierluigi Battista Noi e le donne Ma allora, a chi dobbiamo dar retta, noi esseri umani di genere maschile, insomma maschi? Stare dalla parte delle star che hanno sfilato in nero sul red carpet della gloria al Golden Globe 2018 oppure con le tre Catherine - Deneuve, Millet, Robbe-Grillet - che invece denunciano il clima da caccia alle streghe, il nuovo puritanesimo, l’attacco alla libertà sessuale che si celerebbe dietro la campagna del #MeToo? Cosa fare, come comportarsi, fin dove è lecito spingersi? Adeguarsi, sì va bene. Ma se stessimo esagerando, dicono tanti di noi? E se si salda pericolosamente in un’unica catena la predazione ricattatoria di Weinstein, e poi la molestia, e poi il tentativo di un bacio e di un abbraccio spinto, e poi l’insistenza nel corteggiamento, e poi la seduzione audace e poi il corteggiamento stesso, e poi la timida avance, insomma il «provarci» che è l’antefatto stesso di una relazione? E poi, «provarci», esattamente cosa significa, qual è il limite? E poi, dobbiamo rassegnarci davvero a una infinita, straziante, snervante guerra tra i sessi? Da qualche mese a questa parte i maschi sono frastornati. Lo sono sempre, ma da qualche mese più del solito. Si sentono sotto attacco, addirittura. Più semplicemente, non sanno più bene, o fingono di non saperlo, qual è il confine, il limite, la soglia da non oltrepassare in una vita che mica è ingabbiata in uno schema lineare e asettico, è complicata, torbida, confusa, fangosa talvolta. Edoardo Albinati ha scritto che essere maschi «è una malattia incurabile». Ma almeno possiamo consolarci con qualche cura palliativa. Proviamo a soffocare il primitivo che è in noi, civilizziamoci. E soprattutto, proponiamo di delimitare il campo della discussione, di mettere un po’ di ordine, si circoscrivere il discorso. Articolandolo in tre capitoli. La violenza sessuale - Primo capitolo, quello più tremendo: la violenza sessuale, lo stupro. Non facciamola troppo complessa: è, inequivocabilmente, stupro la costrizione a un rapporto sessuale che non potrebbe aver luogo se si rispettasse la volontà della donna che lo subisce. Possiamo renderla più mossa e articolata, ma la violenza sessuale è riconoscibile, netta, chiara. Noi maschi dovremmo tracciare una linea di demarcazione invalicabile con chi commette uno stupro, allontanare i giustificazionisti dall’area della rispettabilità: non sono eccentrici politicamente scorretti, sono dei cialtroni. Chi dice o pensa «se l’è cercata» incarna lo stereotipo dell’imbecille, dice una cosa falsa. Recentemente qualcuno ha avuto l’ottima idea di mettere in mostra i vestiti indossati dalle donne al momento della violenza sessuale: la stragrande maggioranza erano vestiti normalissimi, dimostrando ancora una volta l’assoluta inconsistenza dello pseudo-argomento «se la sono cercata». E se anche fosse, anche chi se ne va vestita in modo cosiddetto «provocante» cerca di apparire bella, desiderabile, seducente, attraente, esercita semplicemente un diritto inalienabile nelle società moderne. Chi sostiene il contrario e nega questo diritto è un imbecille. È troppo dirlo? No, se l’è cercata. La zona grigia - Secondo capitolo, quello più scivoloso: la zona grigia, che poi è quella che attira il maggior numero di maschi, e che non sono nemmeno potenti produttori di Hollywood. Qui i confini, esclusa la violenza come da capitolo uno, sono davvero poco chiari. O forse no: diciamocelo noi maschi, ce la cantiamo, perché lo sappiamo benissimo, lo sappiamo per intuito, sensazione, esperienza, dove sta il confine. E il confine è il consenso. Tutto è più difficile nelle relazioni dove non entra lo squilibrio gerarchico, il rapporto di potere crudo e brutale, nei piccoli uffici, nei negozi, nelle cliniche, negli studi professionali, in tutto il mondo che non ha i riflettori addosso. Tutto diventa più macchiato e sconnesso, c’entrano passioni, ambivalenze, attrazioni, il fascino, la trasgressione, il desiderio senza nome, persino la sfera del dominio e della sottomissione. E qui si capisce l’appello delle tre Catherine: non riduciamo la vita a un freddo decalogo, questo sì, questo no, questo si dice, questo non si dice. Ma si capisce anche che noi maschi facciamo finta di non capire quando il no è no. E se insistiamo, non è perché siamo presi da impulsi sessuali veementi e incontrollabili, ma semplicemente perché mal sopportiamo l’umiliazione del rifiuto. «Ma come, osa resistere

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al mio fascino?», «Dice no ma in realtà è un sì» e via consolandoci con questa rappresentazione grottesca e auto-millantatrice, se così si può dire, di noi stessi. Questo capitolo si può tenere fuori dalla discussione? La zona grigia può restare grigia, ma il punto del consenso è quello fondamentale. Spingersi oltre, forzando la resistenza altrui, non è un eccitante gioco di ruolo, è una carognata. Tanto lo sappiamo dove si situa quell’«oltre». L’abuso di potere - Terzo capitolo, il vero punto dolente, quello che è e deve restare il vero oggetto della disputa: l’abuso di potere. Il ricatto per cui o ti adegui alle mie condizioni oppure perdi il lavoro è una roba che noi maschi dovremmo considerare con aperta ripugnanza. Si è sempre fatto? Basta, non si fa più. Il produttore o il regista che scarta la giovane attrice perché non ha ceduto fa schifo, punto. O il luminare medico che fa cacciare la giovane infermiera precaria. O il super capoufficio che estorce un disgustato sì alla sua segretaria. O il direttore di un supermercato con la cassiera con contratto a tempo determinato. Ci sono momenti della storia in cui quello che appariva normale un minuto prima, un minuto dopo appare come una porcheria. Il momento attuale è uno di questi e non credo che ne venga messa a rischio la nostra virilità o la libertà sessuale di tutte e di tutti. Fare i minimizzatori su questo punto è sbagliato. Poi, certo, c’è anche, in qualche caso, il fascino del potere. Poi ci sono quelle che si sono adeguate. Ma tra i diritti fondamentali c’è anche quello di non essere eroiche, di temere le conseguenze, di non saper o di non voler prendere a ceffoni il predatore. Questo diritto è incoercibile. E capirlo è indispensabile, meglio tardi che mai. Pag 7 Schieramenti e partiti senza visione e senza unità di Massimo Franco Iniettare i vaccini nella campagna elettorale promette di aumentare la confusione e aggravare la credibilità delle forze politiche. Non solo. Finisce per mostrare un ritardo culturale e un approccio strumentale su una questione che attraversa e divide non solo uno schieramento dall’altro, ma le alleanze e perfino i partiti: come se nemmeno su questo riuscissero a trasmettere una visione comune. C’è da giurare che l’effetto non sarà dei migliori. Anche perché lo scontro è fatto per marcare distanze con intenti puramente polemici. Matteo Salvini che attacca la legge Lorenzin, pur ammettendo di avere fatto vaccinare i figli, riapre un problema che sembrava archiviato. E si scontra con esponenti di Forza Italia che sostengono una tesi opposta: quasi un’estensione della lotta per il primato nel centrodestra. Le divergenze che affiorano tra i Cinque Stelle sono simili. Col candidato Luigi Di Maio sostenitore delle vaccinazioni; e alcuni esponenti d’accordo con Salvini: una variante dello scontro tra governativi e movimentisti del M5S. Il segretario del Pd, Matteo Renzi, tende a minimizzare i distinguo nelle file avversarie. Per lui, «il fatto che Lega e Cinque Stelle siano d’accordo contro l’obbligatorietà dei vaccini significa che esiste un’alleanza non scritta tra forze diverse, unite dal rifiuto della scienza». Insomma, ognuno legge l’ultimo scampolo polemico con l’occhio proteso verso le urne. D’altronde, è quanto fanno anche gli avversari del Pd, approfittando delle ultime rivelazioni in materia di banche, che chiamano in causa i rapporti tra il vertice dem e l’editore Carlo De Benedetti. Il caso nasce da un’intercettazione del 16 gennaio 2015, depositata presso la commissione di inchiesta sulle banche, nella quale De Benedetti spiegava al suo factotum di avere saputo da Renzi una notizia delicata: l’approvazione a giorni del provvedimento che trasformava le Popolari in società per azioni. De Benedetti decise di investire in Borsa 5 milioni di euro: gli avrebbero dato 600 mila euro di guadagno. Per Di Maio «è uno scandalo». E dal centrodestra, Silvio Berlusconi segnala che «De Benedetti è stato preso con le mani nella marmellata. Fosse successo a me sarei stato messo in croce». Riaffiora una sorta di «maledizione bancaria» per il Pd. Ma Renzi replica che la riforma delle Popolari era nota da tempo. E quanto è stato fatto «è perfettamente lecito». Se esistono problemi tra De Benedetti e Berlusconi, «se la vedano loro». Quanto all’editore, un portavoce ricorda che la procura di Roma non ha ravvisato «un abuso di informazione privilegiata». Ma i risparmiatori che si sentono truffati parlano di «ennesimo schiaffo». Almeno sul piano politico, la vicenda non si chiuderà presto. Pag 26 Il cortocircuito europeo tra politica e diritti umani di Franco Venturini

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Non è vero che in Iran sia tornata la piena normalità, come assicurano i capi dei Pasdaran. Le organizzazioni umanitarie segnalano centinaia di arresti ba sati su sospetti e delazioni, qualche coraggioso scende ancora in piazza, e i conservatori, superato il timore di andarci di mezzo, sono ripartiti all’assalto del governo riformatore di Hassan Rouhani. Fuori dai confini della Repubblica islamica, poi, la questione iraniana è al centro dell’attenzione in Europa come a Washington. La Ue è sul banco degli imputati come troppo spesso le accade, perché ha reagito tardi e con misura alla repressione poliziesca che ha schiacciato le proteste facendo almeno 23 morti. Sarebbe andata molto peggio, risponde Bruxelles, se nelle ore più gravi l’Europa non avesse discretamente raccomandato moderazione alle autorità di Teheran. Può darsi, ma la tesi difensiva non coglie il punto centrale dell’accusa. L’Europa è lenta quando serve essere tempestivi, vuole avere il consenso di ventotto diverse capitali prima di esprimersi, e i governi nazionali restano spesso alla finestra in attesa che Bruxelles dica la sua. L’intreccio tra burocrazia ed eccessiva prudenza finisce così per diffondere sulla scena internazionale un messaggio di indecisione, di debolezza, persino di pavidità. Errore grave, che nel caso della repressione iraniana è diventato strategico. Perché se vuole essere credibile e rispettata nella sua politica di forte sostegno all’accordo nucleare con Teheran (che Trump vuole invece affondare), l’Europa deve dimostrare che altrettanta energia viene dedicata alla difesa dei propri valori. A ciò serviva l’immediata, pubblica e dura scomunica dell’uso della forza contro i dimostranti. Il troppo silenzio (anche da parte dei singoli governi europei) ha invece offerto il fianco alle critiche di Washington, e questo proprio nel momento in cui Donald Trump deve decidere nei prossimi giorni se reintrodurre o meno le sanzioni petrolifere contro Teheran. L’Europa distratta rischia di essersi sparata sui piedi, dopo aver lungamente tentato di convincere Trump a non decretare nuove misure punitive che di fatto silurerebbero l’accordo nucleare e potrebbero spingere l’Iran a riprendere i suoi programmi atomici. Questa volta di nascosto da tutti. Il cortocircuito tra politica e diritti umani non è peraltro una novità, per l’Europa e per l’intero Occidente. Si pensi ai rapporti con la Cina, preziosi per tutti, addirittura necessari per la crescita globale, ma oscurati da ben note violazioni dei diritti civili da parte delle autorità di Pechino. Quando la posta è troppo alta il pragmatismo politico impone il silenzio, o almeno una impenetrabile discrezione, e così le polemiche con Xi Jinping, semmai, riguardano i commerci, la gestione monetaria o la Corea del Nord. La denuncia non è obbligatoria, e si può anche sceglierla seguendo le proprie convenienze: il Trump che si è indignato per gli iraniani repressi e uccisi ha forse detto una sola parola contro le stragi di civili compiute dai suoi clienti sauditi nello Yemen (senza dimenticare che le bombe, secondo il New York Times, venivano anche dalla Sardegna)? Sul fronte europeo si è visto un lungo tira e molla con la Turchia, Paese alleato nel quale si viene facilmente arrestati per le proprie opinioni. La verità la conosciamo tutti: la prudenza è necessaria perché la Turchia, in cambio di molti soldi, fa da argine ai migranti siriani che vorrebbero andare in Germania. E ben venga la franchezza di Emmanuel Macron, che ricevendo Erdogan a Parigi nei giorni scorsi ha finalmente rifiutato l’ipocrisia regnante comunicando all’uomo forte di Ankara che non esistono le condizioni per un ingresso turco nella Ue. In Libia, invece, non si è ancora parlato chiaro. Lo scandaloso contrabbando umano che quando va bene scarica moltitudini di diseredati sulle coste italiane è diminuito di un terzo nel 2017, un dato positivo soprattutto in tempi di campagna elettorale. Ed è anche vero che il clamore sollevato dalla Cnn con un servizio sull’atroce trattamento inflitto ai migranti dalle milizie libiche (quelle presunte amiche, in Tripolitania) si riferiva in realtà a circostanze da tempo note, anche all’Onu. Ma questo non assolve l’Italia, l’Europa, l’intera comunità internazionale. Mentre fatica a prendere forma una diversa politica europea sui rifugiati e si predispongono investimenti in Africa che richiederanno molto tempo per funzionare, resta inevasa la necessità di riportare la Libia e i suoi molteplici centri di potere tra i Paesi civili che non riducono gli uomini in schiavitù e non ne fanno commercio. Ora le Ong italiane potranno ispezionare i centri di detenzione «ufficiali», ma non è lì che vengono commessi autentici crimini contro l’umanità. Il passo più costruttivo, in attesa di vedere se nel 2018 si potrà votare e con quali risultati, è stato compiuto dal governo Gentiloni quando ha deciso di trasferire cinquecento militari dall’Iraq al Niger. Per dissuadere i migranti dall’attraversare il Sahel e dall’entrare in Libia rincorrendo il miraggio Italia, e per diminuire la pressione nel tuttora minaccioso «serbatoio umano»

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che ci guarda e ci desidera dall’altra parte del Mediterraneo. Eppure una buona fetta della politica italiana, nella foga preelettorale, non ha capito che andare in Niger era un cruciale interesse nazionale dell’Italia. La politica estera europea, come abbiamo già rilevato su queste colonne, sta crescendo anche grazie alla Brexit e a Trump. Ora si può costruire la difesa comune. E la Ue, o gran parte di essa, ha scoperto di saper dire «no» alla Casa Bianca su molte cose, dall’ambiente a Gerusalemme, passando appunto per l’Iran. Ma difendere i propri interessi significa saper affrontare le situazioni più spinose, Libia in testa. E significa rifiutare i compromessi al ribasso nella difesa dei diritti civili. Altrimenti una stagione internazionale difficile ma piena di occasioni passerà senza lasciare traccia. LA REPUBBLICA Pag 1 Incapaci di immaginare il futuro di Mario Calabresi Incapaci di immaginare il futuro ci propongono di smontare il passato. I candidati alla guida dell'Italia da settimane ci inondano di promesse, nessuna però guarda avanti, nessuna intende costruire qualcosa di nuovo o sbloccare una situazione. Ascoltiamo solo una grottesca cantilena di abolizioni. Via l'obbligo dei vaccini, via il canone Rai, via il bollo auto, via lo spesometro, via le tasse universitarie, via il redditometro, via la legge Fornero, via il Jobs act, fino alla mirabolante promessa finale di cancellare migrazioni e migranti. Forse coscienti della loro incapacità di assumersi responsabilità, di costruire novità o di trasformare l'esistente, i politici di questa campagna elettorale si accontentano di prometterci di eliminare doveri, fastidi e problemi. Con un tratto di penna, magicamente, senza preoccuparsi di spiegarci come, con che risorse o con quali conseguenze. Nella giostra dell'irresponsabilità ieri Luigi Di Maio ha fatto la parte del leone proponendo di abolire 400 leggi con un unico atto da varare nei primi giorni di governo. Una riedizione su larga scala della promessa berlusconiana degli albori, quella di liberare l'Italia da lacci e lacciuoli. Il leader a cinque stelle non chiarisce quali leggi manderà al macero ma fa di più, chiede ai cittadini di segnalare su un apposito sito, creato per l'occasione, le norme più moleste e fastidiose di cui poi lui farà piazza pulita. Per non essere da meno e restare in ombra per un giorno, Matteo Salvini ha rilanciato, propugnando l'abolizione dell'obbligo vaccinale, incurante di rischi e conseguenze. Il grande partito del disfare è al lavoro, convinto di interpretare alla perfezione lo spirito del tempo. Se nessuno crede più che la politica possa fare la differenza nella vita dei cittadini, se nessuno crede più che il futuro possa essere migliore, allora guardiamo indietro e promettiamo l'unico sollievo possibile: l'eliminazione di tutto ciò che non sopportiamo. Come se questo poi bastasse o servisse a qualcosa. Se non si può salvare il paziente - sembra essere il ragionamento - allora è destino rifugiarsi nella terapia del dolore. Il problema però è che il paziente non è incurabile mentre il medico appare incapace di diagnosi e di immaginare una guarigione. Conseguenza questa del disprezzo per l'esperienza, la competenza e la professionalità. Dai dilettanti, dagli improvvisatori e da chi non studia e mai ha studiato non ci si può attendere molto di più. A questo punto non eravamo mai arrivati. Persino nel famoso contratto con gli italiani firmato nello studio di Bruno Vespa, Berlusconi si era preoccupato di proporre "Grandi opere", posti di lavoro e innalzamento delle pensioni. Il modello oggi è Donald Trump, che ha cavalcato le spinte del malcontento popolare indicando il nemico in tutto ciò che è stato fatto da chi è venuto prima e nella rimozione - non nella risoluzione - dei problemi: no al patto sul clima, no ai trattati di libero commercio, no alla riforma sanitaria di Obama, no ai migranti, no al patto con l'Iran, no ai transgender nell'esercito, no ai santuari ambientali, no ai divieti sulle trivellazioni. La promessa più attraente per conquistare il cittadino deluso e affaticato appare proprio questa: rovesciare il tavolo, fare piazza pulita del passato, gridare un gigantesco No. Per costruire cosa e con quali risultati nessuno lo dice. Eppure avremmo bisogno di pazienza, di rammendo, di manutenzione, di investimento di risorse, energie e passioni. Avremmo bisogno di coraggio e immaginazione, di alzare lo sguardo per provare a vedere oltre, per scoprire che il futuro non è già scritto ma sarebbe tutto da costruire. Non da distruggere. AVVENIRE Pag 1 Un “nucleo” per l’Europa di Vittorio E. Parsi

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Intesa necessaria con Parigi (e Berlino) È senza dubbio un positivo segnale di attenzione e considerazione nei confronti dell’Italia quello lanciato da Emmanuel Macron con la proposta di un 'Trattato del Quirinale' che, sulla falsariga del celebre 'Trattato dell’Eliseo' firmato da Francia e Germania nel 1963, consenta un maggior coordinamento delle politiche dei due Paesi. Il presidente francese sta reagendo da par suo, con indubbio attivismo e 'ritmo', all’evidente tendenza allo sfarinamento del quadro europeo. Un’involuzione che è ingigantita dalle incertezze sul futuro politico della Germania e che è intollerabile di fronte alla deriva americana e all’assertività russa. L’Europa si trova infatti di fronte a due prospettive: di crescente irrilevanza internazionale per l’incapacità di assumere concrete posizioni comuni, soprattutto in ambiti e aree dove i rischi sono maggiori (Medio Oriente e Africa subsahariana, migranti, sicurezza delle frontiere) e di bicefalismo, con il gruppo dei Paesi mitteleuropei che tira in una direzione diversa rispetto alle posizioni, peraltro sovente statiche, del club dei vecchi soci fondatori. Sullo sfondo, solo per ricordarlo, c’è la questione della Brexit, le cui conseguenze sulla Ue sono tutt’altro che evidenti. Si spiega così, l’accordo di 'superintegrazione' tra Francia e Germania, che verrà ratificato dai Parlamenti francese e tedesco, su una serie di questioni che riguardano soprattutto l’ambito economico, della regolamentazione dei rapporti di lavoro e della contrattualistica più in generale. Non altrettanto ambizioso, ma inscritto nella stessa logica, è quanto sembra essere ricercato con l’Italia, anche perché al momento, le relazioni tra i due Paesi in campo finanziario e industriale hanno subito qualche scossone: dal caso Vivendi-Finivest a quello, a ruoli invertiti, che ha riguardato la proposta di acquisizione dei cantieri navali Stx da parte di Leonardo (l’ex Finmeccanica). I francesi amano fare shopping nella Penisola, ma non ricambiano la prospettiva reciproca con altrettanta amabilità. Gli italiani si sono accorti tutto d’un tratto che dopo il settore bancario-assicurativo e quello agroalimentare anche la comunicazione poteva finire nel portafoglio di Parigi. Quindi un quadro che regoli di fatto bilateralmente una serie di questioni aperte e le molte possibili che potrebbero aprirsi in futuro è quanto mai opportuno. Ma al di là di questo, come si diceva, c’è la volontà francese di consolidare i Paesi della 'vecchia Europa' per farne il nucleo duro, di tenuta rispetto alle trazioni di quelli della 'Nuova Europa', per poter rilanciare nella direzione dell’europeismo caro all’Eliseo la politica, interna e internazionale, dell’Unione. Sul primo campo, l’intesa appare meno complicata, pur nella consapevolezza che la questione dei migranti continua a rappresentare un oggettivo macigno sulla strada della più forte cooperazione. D’altronde l’idea del presidente francese di una collettiva e comune assunzione di responsabilità per la sicurezza della frontiera esterna dell’Unione appare il solo modo per uscire dall’impasse e per riconoscere la natura interna e internazionale che il tema della migrazione riveste. Sul secondo, nonostante il recente accordo per l’invio di truppe italiane in Niger che innegabilmente presenta inconsuete ambiguità e comporta rischi, Parigi rappresenta un perno essenziale di una necessaria politica comune dell’Unione. Certo, occorre evitare di finire con ciò schiacciati sugli specifici (e ancora cospicui) interessi nazionali francesi, soprattutto in Africa, ma non è facile trovare prospettive alternative. È un esercizio di sano realismo, che del resto è lo stesso che ha guidato l’azione di Gentiloni a Palazzo Chigi e prima alla Farnesina, ogniqualvolta la sinergia tra Roma e Parigi era possibile per una effettiva sintonia di valori, obiettivi e metodi. Dato che siamo in piena (e finora pessima per quanto riguarda l’atteggiamento verso l’Europa) campagna elettorale, vale la pena concludere sottolineando che nella proposta francese non c’è nessuna idea né di sostituire un’intesa italo-francese all’asse franco-tedesco (che resta saldo nonostante la 'vacanza' della Merkel) né di allargare a Roma il direttorio rappresentato da Berlino e Parigi. Ma è indubitabile che sia nell’interesse italiano ricercare un’intesa tanto con la Francia quanto con la Germania. Oltre tutto, oggi più che mai, l’inquilino dell’Eliseo è il solo di cui conosciamo l’identità per i prossimi anni, mentre non altrettanto possiamo dire per chi siederà a Palazzo Chigi o al Palazzo della Cancelleria. Pag 2 Coi vaccini non si può giocare, meno che mai se c’è da votare di Antonella Mariani Promesse e giochi di prestigio in campagna elettorale / 1

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Distruggere costa meno fatica che costruire. Se questo è vero, si può ben dire che la campagna elettorale per le politiche del 4 marzo è per una larga parte improntata al risparmio di energie. Via il Jobs Act. Via l’euro (o forse no). Via le rette universitarie. Via la legge Fornero. Niente di nuovo: a una certa potenza di fuochi d’artificio elettorali gli italiani sono abituati. Purtroppo: lo scetticismo – o il disincanto – nei confronti di chi dovrà rappresentarli e governarli non è una caratteristica ottimale per un popolo. Per diversi motivi, non da ultimo perché autorizza i candidati più spregiudicati ad alzare il tiro impunemente: sanno che, se eletti, difficilmente si esigerà che mantengano le promesse, mai prese sul serio fino in fondo. Ma la questione si fa più complessa se le sparate elettorali riguardano argomenti di vita o di morte – sì, di vita o di morte – come i vaccini. Liquidare in una battuta da Twitter – eccola: «Cancelleremo norme Lorenzin. Vaccini sì, obbligo no» – la faticosissima mediazione raggiunta solo sei mesi fa in Parlamento va al di là delle promesse lecite e ammissibili a 2 mesi dalle elezioni. Eppure Matteo Salvini, leader della Lega e aspirante candidato premier, che in questa pseudobattaglia «free-vax» è in buona compagnia di diversi esponenti 5 Stelle, dovrebbe ricordare che la Corte Costituzionale a novembre bocciò il ricorso del governatore veneto leghista Luca Zaia proprio con la motivazione che la tutela della salute pubblica e individuale prevale sulla libertà dei genitori di vaccinare o meno i propri figli. Dovrebbe pure sapere che a fronte di un 6% di «no vax», impermeabili alle spiegazioni scientifiche sulla necessità della massima copertura vaccinale, il 57% degli italiani condivide l’obbligatorietà dei vaccini. Rimettere in discussione il decreto Lorenzin – dopo la sconfitta nelle aule del Parlamento – strizzerà pure l’occhio (elettorale) a quel 37% di italiani che, secondo un sondaggio Swg, è «free vax», cioè pro vaccini ma lasciando libertà ai genitori, tuttavia è un segnale preoccupante di cui non si sentiva davvero il bisogno, proprio negli stessi giorni in cui la Francia porta da 3 a 11 i vaccini obbligatori per la prima infanzia. Preoccupa anche la prossimità della data del voto con la scadenza del 10 marzo, termine entro il quale i genitori devono consegnare alle segreterie scolastiche la documentazione delle avvenute vaccinazioni. Se nella campagna elettorale persistessero le istanze di «no vax» e «free vax» non vorremmo davvero essere nei panni dei dirigenti scolastici, costretti a lasciare i figli degli inadempienti fuori dalle aule. Ancora una volta sarebbero i bambini a pagare le conseguenze della irresponsabilità degli adulti. Ma non solo loro: a titolo di esempio, la bassa copertura vaccinale ha fatto registrare 4.885 casi di morbillo nel 2017; l’88% dei contagiati non era vaccinato, il 74% di loro aveva più di 15 anni. Si tratta del 22% dei casi registrati in tutta Europa. Quattro persone sono morte l’anno scorso per gravi complicazioni della malattia. Del primo morto per morbillo del 2018 si sono celebrati ieri i funerali. Si chiamava Alessandro Grosso, aveva 41 anni. No, con la salute e con i vaccini non si gioca. Meno che mai in una “partita” elettorale. Pag 2 Rifuggiamo i pifferai, servono idee chiare e un “patto” saldo di Alberto Mattioli Promesse e giochi di prestigio in campagna elettorale / 2 Caro direttore, la campagna elettorale è partita e le varie parti in causa hanno iniziato la sfida a colpi di bonus. Promesse che mirano alla presa del consenso da portafoglio che poi rischia di divenire una presa per i fondelli se non si potranno realizzare senza squassare i conti pubblici. Ma il futuro del Paese, il nostro benessere non dipendono da questo. Occhio quindi alle promesse facili, diceva a Pinocchio il saggio Grillo Parlante di Collodi: «Non ti fidar, ragazzo mio, di quelli che ti promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o sono imbroglioni». Chiunque governerà dovrà in primis evitare incompetenti sprovvedutezze per non mettere a rischio la stabilità e la ripresa in corso. Onestà e competenza sono la faccia della stessa medaglia. La questione nodale è che la ripresa possa consentire un cambio di marcia per le politiche del lavoro. Anziché qualche euro in più in tasca occorre offrire agli italiani, e soprattutto ai giovani, buone e stabili occupazioni. Bisogna limitare la precarietà che ha consentito alle imprese il massimo della flessibilità e puntare alla massima espansione del lavoro tendenzialmente stabile. Solo così si potrà stabilizzare anche la società e invertire la rotta delle disuguaglianze. Certo, fare ciò è competenza della politica ma non solo. Il

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Governo può offrire strumenti tecnici e fiscali, può favorire investimenti e attrazione di capitali esteri, ma ciò dev’essere di un progetto che coinvolga tutte la parti in causa, imprenditori e parti sociali. Occorre un “Patto sociale per il rilancio del lavoro”. Le imprese chiedano cosa reputano necessario ma si impegnino a destinare parte dei proventi alla crescita occupazionale. Questo è ciò che conta per i buoni e duraturi conti di tutti. Altra questione connessa è il rilancio politico per una Europa unita, coesa e solidale proprio per rilanciare il lavoro e reggere le sfide internazionali a partire dai fragili equilibri del Mediterraneo. L’annunciato patto di maggiore sinergie tra Francia e Spagna con l’impegno dei rispettivi Parlamenti è una buona notizia in generale, ma al contempo un campanello d’allarme per l’Italia. Non ci possiamo permettere di rimanere marginalizzati. Siamo uno dei grandi Paesi fondatori e presidiamo il vasto fronte mediterraneo ed è quindi interesse di tutti concertare insieme le azioni per migliorare gli assetti e il peso politico dell’Europa. Inoltre l’annunciata graduale diminuzione di acquisti di Titoli di Stato da parte della Bce comporta una politica finanziaria adeguata onde evitare ripercussioni telluriche. Gli epicentri ovunque avvengano ormai determinano forti scosse per tutte le economie. Piedi per terra e viste acute sono qualità più che mai necessarie di buone classi dirigenti. A noi elettori il compito di non farci ingannare dai pifferai, e di scegliere bene. Pag 3 Un’intera città di senzatetto nel cuore gelato di New York di Giorgio Ferrari Dalla crisi 130mila homeless. Un piano per aiutarli Zero gradi Farenheit, meno 17,8 gradi Celsius. L’inverno a Boston, a New York, perfino in Florida si sta rivelando durissimo. Una temperatura insopportabile. Soprattutto per quelle 553.732 persone che secondo le stime federali sono ufficialmente senza tetto. E più ancora per quei 130mila che si aggirano senza dimora per le strade di New York. Dei quali solo poco più di 60mila trovano ricovero nei rifugi messi a disposizione dal sindaco Di Blasio. «Non limitiamoci a definirli sbrigativamente homeless – dice Abigail, portavoce di Coalition for the Homeless (Cfth), la più importante fra le organizzazioni non governative – perché molti di loro sono figli di una crisi più vasta, che viene da lontano. A cominciare dal brusco rincaro degli affitti, dalle abitazioni abbandonate e perdute a seguito del collasso dei mutui subprime. È un’altra America che spesso si evita di guardare». È vero, ma è vero anche che gli homeless – di fatto una città nella città che sicuramente sfugge ad ogni possibile censimento – rappresentano un problema di non facile soluzione. In fondo alla 51ma Ovest a Manhattan c’è un rifugio per senzatetto. Tre uomini sono accovacciati sul marciapiede. Si fa fatica a concepire che in una metropoli che trasuda opulenza, energia e ottimismo come New York City esista un’umanità scivolata a tal punto in fondo alla china, che trascina la propria esistenza da un lastricato all’altro. «Lo shelter, il rifugio, c’è – dice Matthew, che fa il cameriere in un ristorante francese – ma loro non ci vanno volentieri. Preferiscono stare sulla strada. E morire di freddo, se è il caso». Follia? Non proprio. Anche i ricoveri a volte sono un pericolo. Secondo un rapporto del Nypd (il dipartimento di polizia di New York) ben 34 sui 57 alberghi che la municipalità ha riservato alle famiglie di senzatetto con prole sono stati teatro di atti criminosi, come l’induzione alla prostituzione, il traffico di droga, il furto di beni e le minacce. Un sistema che al Comune costa 575mila dollari al giorno per ospitare 7.500 persone. Una goccia nel mare, che per giunta non funziona. «Perché gli homeless e le loro famiglie sono i soggetti più deboli della catena, spesso costretti a subire e a tacere e talvolta cedere alla tentazione di raggranellare qualche dollaro in cambio di sesso», spiega il reverendo David O’Dale, cattolico, che presta servizio nella cattedrale di St Patrick sulla Quinta Strada. Non occorre riesumare il tanto decantato compassionate conservatism – cavallo di battaglia dei repubblicani – per rendersi conto di come la democratica New York (a Manhattan Donald Trump non ha superato il 15% dei voti) sia da sempre, a dispetto di quanto si possa credere, una città sensibile e solidale. Decine di volontari perlustrano ogni notte a bordo di minivan gli angoli meno ospitali del Bronx, di Staten Island, di Spanish Harlem, di Bedford Stuyvesand a Brooklyn. Ciascun mezzo dispone di 250 pasti caldi. In mezz’ora vanno regolarmente esauriti. «Chi si imbatte in un senzatetto può chiamare il 331 e avvisarci perché lo si accompagni in un rifugio», dicono i volontari. Ma c’è chi, come Mursel Ilker Yalbuzdag, fa ancora di più: il suo locale, l’Ali Baba, tra la 46ma Est e la Seconda Avenue, offre un

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tetto e una stanza riscaldata a chi ne ha bisogno. «Per il Giorno del Ringraziamento abbiamo ospitato cento persone a pranzo – dice Mursel – ma per la notte non abbiamo tutto questo spazio. Una decina almeno però nel vestibolo ci stanno. Non è molto, ma mi sembra doveroso farlo». «Quella di New York City è la crisi peggiore dai tempi della Grande Depressione – dice Giselle Routhier di Cfth – complice il rincaro degli affitti e il crescere della diseguaglianza sociale. Il sindaco Di Blasio ha fatto molto, ma non basta mai. Anche perché la sola città di New York non ce la può fare da sola. Occorre un intervento dello Stato, del governatore Cuomo. I costi per fornire un riparo di emergenza ai single e alle famiglie senza tetto è aumentato di circa 700 milioni di dollari dal 2011, eppure lo Stato ha sostenuto meno del 6% di questo costo. Questa è una vera emergenza, anzi una vera e propria guerra per i senzatetto, una guerra in cui il Governatore è assente». Le nude cifre danno un’idea chiarissima del problema e dei diversi modi affrontarlo: per il Municipio si può solo contenere il numero dei senzatetto – peraltro in continuo aumento – stabilizzandoli a 63mila entro il 2020. Secondo Cfth si può diminuire il disagio degli homeless offrendo loro assistenza, ricovero e sostegno riducendone il numero fino a 47 mila. Ma accanto alla New York solidale esiste anche una città arroccata nei propri egoismi privati. Come chi lamenta il cattivo affare dell’appartamento acquistato in una brownstone sull’8va Avenue: «Quando ho comperato casa nel 2001 il marciapiede era sgombro. Oggi debbo fare lo slalom fra i senzatetto e il valore del mio appartamento è crollato». «Molti homeless hanno problemi psichici – dice Hanna – per questo non capiscono che devono ripararsi dal gelo e restano in strada a morire di ipotermia». «Rimpiango il sindaco Bloomberg – dice Thomas –: era un uomo d’affari, ricco e liberale, ma ha trattato il problema con metodo e buon senso. Di Blasio invece sta spendendo 2 miliardi di dollari con risultati scadenti e forse si occupa più delle piste ciclabili che dell’emergenza homeless». «Essere senzatetto non è un reato – dice la portavoce della polizia di New York Jessica McRorie –: quando ne incontriamo uno gli offriamo la possibilità di essere assistito, ricoverato e curato. Ma molti rifiutano. È un loro diritto, ma il numero di coloro che dicono 'no grazie' è molto elevato. Nell’anno che si è appena concluso abbiamo fatto almeno diecimila interventi, ma il novanta per cento dei senzatetto ha rifiutato il ricovero nei rifugi». È una guerra, dicono i responsabili di Coalition for the Homeless. Di cui New York City è solo la spia più appariscente, perché anche il Texas, la Florida e la California vantano il triste primato del più alto numero di giovanissimi senza tetto. Siamo lontani dai tempi della Grande Depressione, quando gli homeless superavano i due milioni, ma il numero reale di cittadini senza dimora (compresi coloro che l’hanno perduta per disastri naturali, i divorziati, i veterani dell’Iraq e dell’Afghanistan affetti da disordine da stress posttraumatico) è insopportabilmente alto. «Anche il Rambo di Sylvester Stallone, un veterano del Vietnam, a suo modo era un senza dimora. Vagabondava per gli Stati Uniti cercando di dare un senso alla propria vita», dice Father O’Dale. Il bilancio è sconfortante. Nel 1890 un’inchiesta del fotoreporter Jacob Riis per il 'New York Tribune' svelò la drammatica situazione di quella che Riis – un immigrato danese con la passione per il giornalismo – raccolse nel volume dal titolo How the other half lives (come vive l’altra metà). Un ritratto senza veli della vita grama degli slum e delle migliaia di homeless che popolavano New York sul finire del diciannovesimo secolo. Centoventisette anni dopo, Riis, fotografo di grande talento, potrebbe sostanzialmente offrirci il medesimo reportage. Che in effetti fu riproposto dal 'New York Times' nel 2013 raccontando la storia di Dasani, una ragazzina di colore che ha trascorso un terzo della propria esistenza con la famiglia nell’Auburn Family Center di Fort Greene a Brooklyn insieme ad altri 280 minori: un ghetto per homeless, circondato da un quartiere in rapida gentrificazione, dove case di lusso e orgogliosi grattacieli stavano rapidamente prendendo il posto del vecchio panorama del borough newyorkese. La storia di Dasani, la virtuale emarginazione che i senzatetto subiscono nonostante la buona volontà e gli aiuti comunali e federali, ha commosso l’America. Anche perché le statistiche rivelano che un bambino americano su cinque vive a ridosso della soglia di povertà. Il gelido abbraccio dell’inverno imprigiona New York nelle sue eterne contraddizioni. A migliaia rischiano di morire sui marciapiedi, spolverati dal blizzard che si stende come una coltre ingannevole sopra i loro corpi. E non sempre è possibile soccorrerli tutti.

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Pag 8 Annunci, un giorno di ordinaria follia. La rottamazione del buon senso di Eugenio Fatigante La tentazione è troppo forte, evidentemente. I ripetuti appelli ad animare il cammino verso le urne di promesse e proposte «realistiche» sembrano destinati a cadere nel vuoto. La giornata di ieri ha offerto un campionario degno di un piazzista di rango. Basterebbe, da solo, il salviniano annuncio di voler cancellare le norme introdotte dall’ultimo governo sull’obbligo dei vaccini, tema che la politica dovrebbe avere il buon gusto di affidare più alle competenze degli scienziati che al clima, avvelenato, dei comizi. Questo è stato, però, solo l’esordio. In rapida successione, abbiamo assistito a: Silvio Berlusconi dire alla radio che «se torneremo al governo aboliremo il Jobs act», il che sarebbe stato, per il centrodestra, un singolare impegno a cassare delle norme a lungo invocate dal mondo delle imprese e, per di più, non lontane da quelle in passato promesse dal centrodestra stesso (difatti Forza Italia ha in parte corretto le parole del suo capo, che a sera ha poi completato la marcia indietro); il candidato premier Luigi Di Maio annunciare entusiasticamente che uno dei primi atti di 5 Stelle al governo sarebbe «una legge con cui abolire 400 leggi inutili», senza ovviamente perdere tempo a indicare quali sarebbero questi 'provvedimenti- zavorra' da sopprimere (ma nessun problema: per questo è già spuntato l’ennesimo sito www.leggidaabolire.it, dove i cittadini potranno dare le loro indicazioni); e le voci, scaturite dal tavolo programmatico del centrodestra, sull’accordo che sarebbe stato raggiunto per innalzare il limite del contante a 8mila euro, il che evidentemente secondo gli alleati deve corrispondere a un’esigenza avvertita da ampi strati della popolazione (per non dire dell’altro impegno a introdurre persino il vincolo di mandato, 'dettaglio' che richiederebbe una riforma della Costituzione). Il 'decorso impazzito' di questa campagna elettorale, insomma, produce spettacoli pirotecnici a getto continuo, in cui ognuno dice la sua senza curarsi dello spirito di coalizione. Dove la credibilità delle affermazioni fatte passa in secondo piano rispetto all’esigenza (ma poi, che esigenza è?) di dire cose che 'facciano presa' sull’elettorato. Colpiva, al riguardo, la nonchalance con cui, l’altra sera a 'Porta a porta', sempre Di Maio replicava alle circostanziate domande dei giornalisti in studio sul come si pensi di conciliare le maggiori spese annunciate (in primis per il reddito di cittadinanza) con l’impegno a ridurre il debito pubblico per almeno 70 miliardi l’anno: la risposta era che le misure annunciate produrranno una maggior crescita che consentirà di ripagare il debito. La scoperta dell’acqua calda, insomma! Un’ultima conseguenza, non trascurabile, è che ciascuno di questi annunci sembra poi prefigurare un’ipotetica alleanza virtuale (mentre quelle già in piedi rischiano di divaricarsi, vedi tra Lega e Fi sui vaccini). Alleanza destinata però a scombinarsi sull’argomento successivo. Senza alcuna logica apparente. E l’Europa assiste sbigottita a questo spettacolo dove a uscirne rottamato è il buon senso. Ha gioco facile il presidente emerito Napolitano a parlare di «penoso impoverimento» della politica. IL GAZZETTINO Pag 1 I pericoli della furia abolizionista di Alessandro Campi L'abolizionismo come corrente o posizione politica rimanda alla storia americana ottocentesca. Negli anni intorno alla guerra civile, con tale termine si indicavano coloro che si battevano contro la schiavitù. Ma dopo questa campagna elettorale ci sarà probabilmente bisogno di aggiornare il vocabolario. Abolizionismo: 1) Movimento o dottrina che chiede l'abolizione di leggi o consuetudini ritenute sorpassate. 2) Politico italiano che promette di cancellare ogni genere di norme nella speranza che gli elettori lo votino. S'è perso il conto delle leggi che verranno soppresse quando questo o quello sarà al governo. Via dunque la riforma Fornero sulle pensioni, le norme sui vaccini obbligatori, le tasse universitarie, il Jobs-Act, il canone Rai, lo spesometro e il redditometro, la legge appena approvata sul biotestamento, il bollo sulla prima auto, le imposte sulle successioni E tutto ciò senza interrogarsi sull'impatto, in particolare sui conti pubblici, che avrebbero alcune di queste soppressioni. L'importante è vincere imbonendo. Poi si vedrà. Una furia abolizionista che però non si spiega solo col fatto che siamo in campagna elettorale e quindi qualche bugia è normale che scappi. Stavolta sembra diverso. Rispetto a quando si annunciava un milione di posti di lavoro o di far

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piangere i ricchi tassando le barche di lusso, ma ci si preoccupava anche di presentare agli elettori qualche proposta un tantino più credibile e realistica, si è fatto un grandioso salto all'indietro. È come se i partiti che si sottoporranno al giudizio degli italiani non avessero né programmi da proporre né obiettivi da realizzare né propositi di riforma da perseguire. Nel deserto delle idee fioccano dunque gli annunci improbabili, spesso declinati in una logica distruttiva e demolitrice rispetto al passato, come se non ci fosse una sola legge o riforma da salvare (e nemmeno eventualmente da migliorare). Ma per fortuna fioccano anche le ritrattazioni repentine, come quella berlusconiana di ieri sul Jobs Act prima da abolire e ora da mantenere. Probabilmente, quelli che stiamo vivendo sono soltanto giorni di grande confusione, dai quali presto usciremo. Ma bisogna anche chiedersi che su questa corsa al rialzo non incidano anche fattori diversi dalla semplice confusione. Ad esempio il convincimento, che in molti leader politici probabilmente è genuino, che giocando sul risentimento e le speranze spesso frustrate di questa o quella categoria sociale (ognuna delle quali ha certo motivo per desiderare l'abolizione di qualche legge o misura ritenuta per sé iniqua e penalizzante) si possano per davvero guadagnare voti e consensi. Da qui la gara a chi sopprime di più. Si tratta tuttavia di un calcolo miope. Innanzitutto perché per contentare uno se ne scontenta sempre un altro. E poi perché se di una cosa gli italiani in questo momento avrebbero bisogno è di misure concrete e praticabili, di qualche proposta magari minima ma sensata e, soprattutto, realizzabile. Stavolta l'illusionismo, che già abbiamo amaramente scontato negli ultimi venticinque anni, rischia di non pagare. E se c'è una quota di arrabbiati ad oltranza che si beve qualunque cosa e vorrebbe sfasciare tutto, c'è anche una fetta molto grande di elettori (molti dei quali momentaneamente parcheggiati nell'astensionismo o semplicemente indecisi) che desidererebbero una politica finalmente misurata, pratica e fattiva. A loro chi pensa? C'è poi un altro problema: se ci si mette sul terreno della sola demolizione e della gara a chi la spara più grossa si finisce per fare un regalo involontario a Grillo e ai grillini. Che la loro partita non nelle urne, ma sul piano del linguaggio e della propaganda si può dire l'abbiano già vinta dal momento che anche quelli che, a destra e sinistra, dicono di volersi presentare come un argine al populismo spesso ne adottano i peggiori stereotipi e lo stile. Ma combattere il populismo col populismo è davvero una scelta suicida. C'è infine un altro fattore, meno effimero, che spiega la febbre abolizionista di queste ore e che getta un'ombra ancora più cupa sullo stato della nostra politica. Ed è la mancanza in Italia, non da oggi, di un'idea di quest'ultima come un sistema, come un bene comune e condiviso. Come se fosse una necessità o un segno di intelligenza, per una forza politica, smantellare una volta al governo tutto ciò che ha fatto quello precedente. Per fortuna poi le cose non vanno in questa maniera, altrimenti l'Italia da un pezzo sarebbe in bancarotta. Smantellare (peraltro a chiacchiere) è facile. Il difficile come sempre è costruire e lasciare qualcosa di solido in eredità a chi viene dopo, perché a sua volta aggiunga e migliori. LA NUOVA Pag 1 Intercettare senza limiti è un errore di Fabio Pinelli Lo scorso 30 dicembre è entrata in vigore la nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Una riforma certamente molto attesa, della quale però non è del tutto chiaro se vi fosse effettivo bisogno. Certamente sì quanto alla limitazione dell'utilizzo dei captatori informatici (i cosiddetti trojan horses), virus che, installati sugli smartphone che tutti noi quotidianamente utilizziamo, consentono, senza che ce ne accorgiamo, di ascoltare le nostre conversazioni, dovunque ci troviamo, nonché di monitorare i nostri spostamenti. Rispetto ad innovazioni tecnologiche come queste, nemmeno immaginabili fino a qualche anno fa, la normativa tradizionale in materia d'intercettazioni era certamente da aggiornare. Molto positiva è anche la "stretta" sull'assoluta riservatezza delle conversazioni tra l'indagato e il suo difensore, che non possono in alcun modo essere trascritte negli atti d'indagine. Non si tratta di un privilegio, bensì della necessaria salvaguardia dell'effettività del diritto di difesa, che è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, come recita la nostra Costituzione all'articolo 24 comma II. Viceversa, rispetto all'obiettivo dichiarato di porre un argine alla diffusione delle conversazioni (prive di rilevanza investigativa e di esclusivo interesse giornalistico), la nuova disciplina desta molteplici perplessità. La

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riforma, infatti, ruota intorno al nuovo divieto di trascrizione, anche sommaria, delle conversazioni ritenute non rilevanti per le indagini, o comunque ai fini di prova. Il punto critico, peraltro, sembra quello di lasciare autonomia di valutazione, al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria, su cosa sia rilevante e cosa non lo sia per un'attività di indagine. A ben vedere, una intercettazione può discolpare un accusato e una notizia - anche se non di interesse per l'indagine - può essere invece importante per il cittadino. Sul versante giuridico, il modello attuato sembra svilire il principio che sia il contraddittorio tra le parti (tutte le parti coinvolte, accusa e difesa), sin dalla fase delle indagini, a far emergere ciò che possa essere probatoriamente utile in un processo penale. Mentre, su quello del diritto/dovere di cronaca (di rilevanza costituzionale), risulta compresso l'interesse sociale alla conoscenza di determinati fatti, assolutamente essenziale per la qualità della vita democratica di un Paese: la libertà di stampa è un valore ineludibile che non può dirsi salvaguardato se non si ha adeguato accesso alla notizie. La riforma dunque non affronta il vero nodo cruciale in tema di intercettazioni, che non è quello della loro utilizzabilità all'esterno, bensì - più alla radice - quello dei limiti della loro ammissibilità. Sarebbe stato sufficiente prendere atto che la pratica delle intercettazioni si è trasformata da eccezione a regola, ridefinendo più compiutamente quando è possibile ricorrervi e quando invece no; in tal modo limitando la loro autorizzazione alla necessità di reprimere reati di particolare gravità e allarme sociale. Perché questo è il problema: ben diversamente dalla lettera e dallo spirito del Codice del 1987, intercettare è divenuto un metodo generalizzato dell'attività investigativa, addirittura di carattere preventivo. Intercettare senza (sostanziali) limiti, non risponde ai canoni cui devono aspirare un paese civile e una società liberale. Non era dunque necessario ridurre lo spazio della trascrivibilità delle intercettazioni, rimettendo tra l'altro la valutazione della loro rilevanza alla discrezionalità assoluta di pubblico ministero e polizia giudiziaria. Sarebbe stato più condivisibile un intervento normativo che avesse affrontato il cuore del problema: la (ri)definizione dei casi di ammissibilità delle intercettazioni. Il risultato non sarebbe stato quello di limitare il diritto di difesa da un lato e di pregiudicare la libertà di stampa dall'altro. Torna al sommario