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ATTI E RASSEGNA TECNICA DELLA SOCIETÀ DEGLI INGEGNERI E DEGLI ARCHITETTI IN TORINO ANNO 152 - LXXIII - N. 1 - APRILE 2019 Rassegna

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SANDRO CARANZANO

L’arco di Augusto di Susa. Architettura, urbanistica e segni visuali nella propaganda augusteaThe Arch of Augustus in Susa. Architecture, urban planning and visual marks in the Augustan propaganda

AbstractScopo del contributo è riassumere le ricerche condotte presso il centro storico dell’antica città romana di Segusio (Susa) in corrispondenza del foro roma-no, dell’arco di Augusto, dell’altare celtico e del palazzo prefettizio. Lo studio ha dimostrato che l’arco onorario fu progettato utilizzando una proporzione ternaria (1/3, 2/3) e tenendo in considerazione i rapporti intercorrenti tra monumento e paesaggio circostante (nel rispetto della tradizione ellenistica). Inoltre, esso fu progettato in modo tale che la cima del monte Rocciamelone sia inquadrata simmetricamente dalla chiave di volta del fornice, e che il pun-to di osservazione ottimale coincida con l’asse di uscita dell’adiacente palaz-zo prefettizio. L’arco onorario fu costruito per celebrare il recente trionfo di Roma sulle popolazioni alpine seguito alle guerre del 27-13 a.C., ma non con un approccio punitivo bensì in un’ottica di ricomposizione politica e sociale. Effettivamente, gli autori antichi riferiscono che il vecchio regolo locale fu in-tegrato nell’amministrazione romana rivestendo il titolo di prefetto della pro-vincia alpina delle Alpi Cozie istituita da Augusto.

This paper summarizes the recent researches carried out at the archaeological complex of Susa, Italy (Roman forum, triumphal arch, celtic altar, praefectum palace). Provided that mathematical and geometrical relationships between the different parts of a specific building and the neighbouring landscape are well-doc-umented in the Hellenistic and Roman tradition, our research demonstrated that the Arch of August was designed using a ternary proportion (1/3, 2/3). Moreover, the peak of the mount Rocciamelone is framed by the roman fornix at its centre, optically matching its keystone. We discovered that the point from where the effect became more evident and scenographic coincides with the axis of the nearby Roman palace gate. The aim of the monument was to celebrate the recent triumph of Rome over the Alps (after the Alpines War, 27-13 BC). Indeed, we know from the Roman authors and from the ancient epigraphy that the Celtic king was appointed as Roman praefectus Augustus himself.

1. Il quadro storico e urbanisticoLa fondazione della città romana di Segusio ebbe luogo in coincidenza cro-nologica con la conclusione delle cosiddette guerre alpine (17-14 a.C.) volute da Augusto e portate a termine dai figli adottivi Druso Maggiore e Tiberio. Le operazioni presero le mosse dal Trentino e dal lago Lemano con l’obiettivo di stringere le tribù libere dei Celti, dei Liguri e dei Reti in una sorta di “tena-glia”1. L’acquisizione da parte di Roma delle Alpi Cozie avvenne però in modo pacifico (fatta eccezione per alcune ostilità iniziali a cui, però, fa riferimento

Sandro Caranzano, Centro Studi Archeologici Herakles.

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solo Ammiano Marcellino2); tale stato di cose consentì al re celtico indigeno, Cozio figlio di Donno, di venire accol-to nell’ordine equestre e rivestire il ruolo di prefetto della provincia delle Alpium Cottiarum istituita da Augusto stes-so (alla quale si sarebbero affiancati i distretti delle Alpes Maritimae e delle Alpes Poeninae 3).A Susa (l’antico capoluogo amministrativo della prefettura), nonostante le profonde alterazioni urbanistiche derivate dalla contrazione del centro abitato all’interno della cinta tardoantica, il dialogo instaurato dagli urbanisti romani tra i monumenti e il paesaggio ha mantenuto parte della vitalità originaria, continuando a costituire il perno di un tessuto solo parzialmente alterato dalle riplasmazioni medievali e postmedievali4.L’edificio antico più celebre ed eminente è indubbiamente l’arco onorario di Augusto, ubicato lungo la salita diretta al colle ove sorgeva il palazzo prefettizio di Cozio. In occasio-ne dei sondaggi archeologici effettuati nel 2007 presso le fondazioni del cosiddetto Castello della marchesa Adelaide sono state identificate le substructiones in opus caementi-cium che costituivano il basamento della residenza patrizia5. L’analisi delle calci impiegate come legante nei caementa ha permesso di verificare la sincronicità (e dunque l’unitarietà progettuale) dei cantieri del palazzo e del foro (quest’ultimo

riportato alla luce in occasione degli scavi per i Giochi Olimpici Invernali 2006 nell’attuale piazza Savoia)6.La strada che partiva dal foro intercettava inizialmente l’heroon di Cozio (citato da Ammiano Marcellino e rico-nosciuto in un’ambiente venuto alla luce nel 1907 presso la palazzina Ramella7), passava per l’arco onorario di Augusto, sfiorava il portale di accesso al palazzo prefettizio e si con-cludeva nel punto più alto della collina, cioé in prossimità della roccia a coppelle “celtica”8.Se consideriamo la funzione di limite e di diaframma eser-citata dagli archi onorari nella cultura romana9, ne conse-gue un’urbanistica imperniata su due poli contrapposti e separati da un dislivello di circa 20 metri, vale a dire il foro (ubicato in prossimità del corso della Dora Riparia e orien-tato in senso nord-sud) e la domus Cotii (presso l’altura del castello), luogo amministrativo assegnato al regolo celtico insignito di una titolatura magistratuale romana.Si tratta di uno schema non nuovo, che si ripropone nella stessa Roma augustea, dove il foro repubblicano era attra-versato dalla via Sacra che, prima delle trasformazioni con-seguenti alla costruzione dell’anfiteatro Flavio, superato il Tempio di Castore, passato il diaframma costituito da due archi onorari (quello per la Vittoria di Azio e quello per la re-stituzione delle insegne di Crasso) e l’Aedes Vestae, piegava a

L'arco onorario di Augusto a Susa visto dalla sommità del colle (sud). Come si può osservare, da questa posizione la cima del Rocciamelone non è in alcun modo percepibile (foto S. Caranzano).

Il complesso del foro di Susa con sulla destra le mura costantiniane. Si riconoscono i punti oggetto dei sondaggi archeologici e la via lastricata che provenendo dal foro devia a sud in direzione della cosiddetta acropoli (da F. Barello, 2009, p. 241).

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destra e risaliva il colle Palatino dove si trovavano la residenza del principe e il Tempio di Apollo10. La domus di Augusto, che fungeva di fatto da sede governativa, era annunciata da una porta su cui campeggiava la corona civica offerta dei cit-tadini romani per celebrare la fine delle guerre civili11.La presenza di una bipolarità città/palazzo, di un’arteria di collegamento tra i due e la posizione dominante della sede del potere rispondono a una schema non nuovo, ma ampia-mente sperimentato dalle monarchie ellenistiche alle quali il principato romano (al di là di quanto formalmente dichiara-to) si ispirò almeno in parte12.Sin dai primi studi di inizio Novecento, l’arco onorario di Susa è stato oggetto di particolare attenzione per il fregio ubicato immediatamente al di sotto dell’attico che incurio-sisce per la relativa rozzezza del ductus e l’esecuzione somma-ria. Per spiegare tali anomalie – insolite in un monumento celebrativo di tale prestigio – si è proposto di attribuirne la realizzazione a scalpellini di cultura indigena13, a una cor-rente artistica italica non colta14, a maestranze militari op-pure di vedervi una tipica espressione di “arte popolare”15.I fregi maggiori (posizionati sulle facciate nord e sud) sono occupati da una solenne sfilata religiosa interrotta, al centro, da un altare adornato da un festone e da un bucranio ai cui lati si trovano gli officianti tra cui un sacerdote velato capite, i victimarii, i camilli, la sfilata degli animali condotti al sacri-ficio (suoveturilia), alcuni littori e altre figure accessorie16.Come avremo modo di discutere, i temi del sacrificio e del-la celebrazione religiosa sono i medesimi espressi nell’Ara Pacis17, un monumento praticamente coevo, la cui edifica-zione fu promossa da Ottaviano Augusto in Campo Marzio e che venne inaugurato il 30 gennaio del 9 a.C. L’altare romano e l’arco onorario segusino, al di là delle differenze compositive e del divario artistico, sembrano rispondere alla medesima temperie culturale e ad un medesimo disegno.

Ma vi è una particolarità che rende l’arco davvero “speciale”.È stato lo studioso e pioniere dell’archeologia piemontese E. Ferrero, nel 1901, a segnalare per primo18 che percorrendo la strada diretta al foro (da sud verso nord) e mantenendosi lungo la mezzeria, a circa 10 m della facciata prospiciente dell’arco, il grande fornice inquadra in perfetta “simmetria” la cima del Rocciamelone in modo tale che la sua punta toc-chi la chiave di volta retrospicente dell’arco.L’intenzionalità di tale soluzione è evidente anche a un’e-sperienza empirica, tanto più che un piccolo spostamento dell’osservatore in avanti e indietro comporta l’annullamen-to dell’effetto visuale. A ciò si deve aggiungere che, proprio in occasione delle recenti rilevazioni19, è stato chiarito come il punto di osservazione ottimale fu progettato in modo di intercettare l’asse centrale della porta dell’antico palazzo del prefetto (ubicato sul lato orientale della strada). Ne con-segue che chi usciva dal palazzo governativo, voltandosi a destra, poteva vedere la vetta della montagna inquadrata e sottoposta all’arco. Procedendo oltre e scendendo verso la città, un ipotetico osservatore avrebbe potuto godere della veduta della piazza del foro conclusa sul fondo da un tem-pio italico su alto podio, con un effetto scenografico “per stadi” caratterizzato da una spiccata teatralità20. Si tratta di un escamotage ampiamente attestato nell’architettura elle-nistica, rielaborato a Roma e nel Lazio a partire dal II sec. a.C. a seguito degli stimoli derivati della frequentazione dei mercati orientali e dalle conquiste militari portate a segno in Oriente che avevano fatto di Roma un centro di produ-zione ellenistica (caso di studio esemplare è il santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina21).Tale complessa rete di corrispondenze ha stimolato un’in-dagine archeometrica22 del complesso monumentale che ha permesso la raccolta di una serie di dati inediti.Come si vedrà, i risultati sembrano dimostrare l’invio sul po-sto di un architetto formatosi alla grande scuola ellenistica e dotato di specifiche competenze “scientifiche”. Siccome poi le soluzioni adottate rispondono a specifici dettami politici e pubblicistici, è sembrato possibile tentare di risalire, con un procedimento a ritroso, alle scelte della committenza: cosa che può contribuire, in qualche modo, a una migliore com-prensione dei “piani” del principe in quel particolare diafram-ma geografico e politico rappresentato dalle Alpi occidentali.

2. Archeometria dell’arco di SusaL’arco di Susa si presenta nella forma di una massa archi-tettonica compatta, con il tipico nucleo in calcestruzzo (caementa) e un rivestimento esterno in blocchi isodomi realizzato in marmo locale. La definizione architettonica del monumento onorario è affidata a un singolo fornice in-quadrato da semicolonne corinzie sul quale si impostano la cornice, il fregio e l’attico. Quest’ultimo ospita un’iscrizione onoraria ricostruibile grazie ai segni lasciati dalle grappe di fissaggio delle lettere bronzee, che furono asportate in un momento imprecisato del periodo di decadenza della città.

Dettaglio del fregio dell'arco. Da destra verso sinistra, uno dei Dioscuri, sfilata di fanti e cavalieri, i victimarii accompagnati da un ariete e un toro, dei littori e i sacrificanti ai lati di un'ara (foto S. Caranzano).

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Nell’iscrizione, le quattordici tribù alpine entrate nell’or-bita politica di Roma effettuano una dedica all’imperatore Ottaviano Augusto (di cui vengono elencate le cariche e, nello specifico, il pontificato massimo, l’imperium, e la potestà tri-bunizia23); è questo un atto lealista che trova corrispondenza

nella non lontana Augusta Praetoria Salassorum, ove un alta-re scoperto in prossimità del teatro vede come committenti i Salassi indigeni qui se in colonia ab initio contulerunt 24.La rilevazione con stazione totale del monumento ha per-messo di chiarire alcuni elementi di un certo interesse rela-tivi al cantiere edile e ai principi costruttivi messi in atto25.L’ossatura dell’edificio fu realizzata con un’attenzione quasi maniacale per il rispetto della planarità e delle proporzioni; grazie al supporto assicurato dai grandi piloni fondati sull’af-fioramento roccioso di base, l’intradosso del fornice (la cui profondità è pari 5,27 metri) presenta un errore planare sti-mabile nell’ordine dei millimetri (dunque insignificante, an-che in considerazione dell’abrasione e del deterioramento a cui la pietra è stata soggetta a causa degli agenti atmosferici).Uno dei risultati più interessanti emersi dall’indagine arche-ometrica è la conferma che l’intero edificio fu progettato secondo una precisa ratio, vale a dire su rapporti di 1:3 e 2:3.Le misurazioni dimostrano che il fornice centrale ha una corda (cf) di 5,88 m e una larghezza alla risega di base (bf) pari a 5,94 m (con una deviazione di soli 6 mm rispetto alla corda). L’altezza del fornice (hf), misurata dalla risega alla chiave di volta è, invece, di 8,73 m.Ora, dato un fornice con un’ampiezza (bf) pari a 5,94 m, applicando la ratio 2:3 otteniamo un valore h1f (altezza del fornice dal basolato stradale alla chiave di volta) pari a 8,91 m (5,94/2·3), che corrisponde ad un piano di calpestio anti-co posto a circa 18 centimetri al di sotto della risega di fon-dazione. Si tratta di una situazione non molto differente da quella attuale, con la porzione superiore del primo filare del plinto in vista per circa 20 cm (d’altronde, l’allineamento del piano di calpestio moderno con la soglia romana del vicino palazzo prefettizio indica che la strada non ha subito signifi-cativi rialzamenti negli ultimi duemila anni). Le misure così ricavate (5,94 x 8,91 m), se tradotte nelle unità di misura in uso nell’antichità, descrivono un fornice misurante 20 x 30 piedi romani.La facciata principale dell’arco onorario fu ottenuta appog-giandosi ad un quadrato di 9,9 x 9,9 m, i cui lati sono dati dalla larghezza (x) del dado di calcestruzzo bn (escludendo l’aggetto delle colonne angolari) e della distanza (hn) inter-corrente tra la sede stradale e la cornice inferiore del fregio del suovetaurilia.La fascia occupata dal fregio istoriato e il sovrastante attico (che dunque sono concepiti come elementi organici e in re-lazione reciproca) occupano uno spazio verticale che corri-sponde nuovamente a una proporzione ternaria: infatti, ha è uguale a 3,3 m, ovvero a un terzo del lato del quadrato di base (hn) (9,9 : 13,2 = 3 : 4).Se ne evince che la larghezza del nucleo cementizio dell’arco bn (escluso l’aggetto delle colonne) si ottiene sommando la misura dalla base del fornice (bf) ai suoi due terzi (bn = bf + 2/3 bf = 5,94 m + 3,96 m = 9,9 m)26.Alla costruzione rigorosamente geometrica e bilanciata sul modulo 1:3 del progetto non sembra corrispondere, per

Proporzioni e misura dei blocchi isodomi che compongono i piedritti dell'arco (grafica S. Caranzano).

Le proporzioni ternarie sottese al progetto dell'arco (grafica S. Caranzano).

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contro, un’analoga precisione del cantiere da costruzione, dal momento che il raggiungimento delle quote e delle mi-sure prefissate fu ottenuto per approssimazione, scolpendo i blocchi isodomi del rivestimento esterno secondo la misu-ra del piede romano ma con un certo livello di empirismo, sicché l’altezza delle singole lastre oscilla tra 0,61 e 0,65 m. Fanno eccezione il primo e il quarto filare partendo dal bas-so che misurano tra 0,38 e 0,33 m al fine di assecondare i profili degli zoccoli e delle cimase che incorniciano i piedi-stalli delle colonne. Anche la larghezza dei blocchi del rive-stimento è estremamente variabile, sicché nell’intradosso del fornice è possibile misurare dimensioni oscillanti tra gli 0,78 e gli 1,03 m, con un blocco delle dimensioni record di 8,5 piedi romani (circa 2,50 m) inserito nel quinto filare della parete orientale del fornice. Tali imprecisioni (che tuttavia non alterano in alcun modo la percezione del monumento grazie alla precisa rasatura dei profili e alla qualità di assemblaggio e giunzione dei blocchi) potrebbero spiegarsi in ragione di una dicotomia tra fase progettuale e fase di cantiere, la prima affidata a un archi-tetto dotato di notevoli capacità teoretiche (come sarà più chiaro a breve), la seconda affidata a squadre coordinate da un capomastro (forse un praefectum fabrum) avezza alla re-alizzazione rapida e funzionale di impianti infrastrutturali, civili e militari27.La particolare attenzione per la stabilità e la solidità dell’e-dificio (la firmitas vitruviana28) è assicurata dall’inserimento di grappe in ferro piombate nel punto di congiunzione dei blocchi isodomi, alle quali è possibile risalire seguendo le profonde scalpellature realizzate tra la tarda-antichità e l’al-to medioevo per estrarre il metallo e rifonderlo. L’eliminazione dei giunti non ha però indebolito l’impo-nente struttura che, nel corso dei secoli, ha mantenuto la compattezza originaria senza essere soggetta ad alcun feno-meno di slittamento, assestamento o compensazione.

3. La relazione arco/RocciameloneSi è accennato alla particolare attenzione rivolta dei costrut-tori al rapporto intercorrente tra edificium e paesaggio. Tale rapporto si manifesta nella sua massima complessità in con-siderazione del bisogno di coordinare e armonizzare le co-siddette «relazioni orizzontali» con quelle «verticali»29.La trattatistica romana non lascia dubbi sul fatto che l’orien-tamento della pertica cittadina veniva impostata tenendo in considerazione la rete idrografica locale (ci troviamo, infatti, in prossimità del punto di confluenza del torrente Cenischia con la Dora Riparia), l’esistenza di vie di comu-nicazione, la morfologia naturale, la presenza di ostacoli, la corretta esposizione solare degli edifici e la direzione dei venti dominanti. Benché le trasformazioni di età costanti-niana abbiano parzialmente alterato il tessuto urbano, risul-ta chiaro che la deviazione angolare tra i plinti dell’arco (ca. 27° E N-E) e il frontone del tempio del foro (ca. 8° E N-E) si giustifica in considerazione dell’incombenza del massiccio

roccioso ubicato immediatamente a ovest (monte Morone), con la necessità di coordinarsi con il percorso della via delle Gallie (a sua volta condizionato dagli ostacoli naturali) e per la presenza di un ponte sul fiume (la cui ubicazione esatta è però ancora ipotetica).Nel caso dell’arco onorario di Susa, il progettista dovette misurarsi con la necessità di garantire l’inquadramento del-la punta del Rocciamelone da parte del fornice (una «re-lazione verticale»), cosa possibile solo calibrando con cura la scelta del punto topografico in cui installare il cantiere e dopo aver ben considerato l’inclinazione dell’asse visivo che intercetta la cima della montagna (α).La problematica sembra essere stata risolta dai costruttori romani con particolare maestria, come evidenziano le inda-gini archeometriche.Dato un punto di stazionamento F (518,5 m s.l.m), un pun-to di osservazione ad altezza d’uomo A (stimato a 1,60 m dal piano della strada), un segmento BC pari al dislivello sull’as-se y tra gli occhi dell’osservatore e la cima delle montagna (3538 m s.l.m.), un segmento B´C´ pari al dislivello sull’asse y tra gli occhi dell’osservatore e la chiave del fornice sul lato retrospicente dell’arco onorario (B´C´ = B´D - C´D), un segmento AC´ pari alla distanza sull’asse x tra l’osservatore e la facciata retrospicente dell’arco onorario, e un segmento AC pari alla distanza sull’asse x tra l’osservatore e la base del Rocciamelone, si verifica la seguente equivalenza:

B´C´ BC —— = —— AC´ AC

Il segmento AB´ misura 17,088 m (pari a c. 57,5 piedi ro-mani), il segmento AC´ misura 15,92 m (pari a c. 53,8 piedi romani), dando luogo ad un angolo di osservazione α di 21° 18´36”.Nel corso delle operazioni di rilievo è stato possibile verifi-care che il punto di osservazione ottimale per percepire l’ef-fetto scenico (A) si situa alla distanza di m 10,65 (pari a c. 36 piedi romani) dalla facciata meridionale dell’arco onorario. Come abbiamo accennato, tale punto non è casuale, dal mo-mento che corrisponde topograficamente all’asse mediano dell’accesso alla fortezza costantiniana la cui soglia è stata attribuita all’originario palazzo di Cozio.L’elemento forse più sorprendente della soluzione proposta dal progettista romano è la presenza di un rapporto ternario nella profondità del fornice rispetto alla posizione dell’os-servatore. Il rapporto AH/HC´ (ovvero la distanza inter-corrente tra l’osservatore e facciata prospicente confrontata con la profondità del fornice) risponde a una relazione mo-dulare di ratio 3:1 (15,92/5,27 = 3,020).Il caso dell’arco di Susa non è isolato, e trova confronti par-ticolarmente convincenti con l’arco romano scavato nella roccia lungo la via delle Gallie in Valle d’Aosta, a Donnas (321 m. s.l.m.)30. Qui il fornice fu ricavato in uno specifico

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punto del percorso della via consolare (che assecondando la morfologia naturale curva leggermente nel tratto termina-le posto ad oriente) e in modo che l’asse centrale intercetti l’emergenza montuosa del Bec di Nona (2085 m. s.l.m.). A Donnas, la cima della montagna tocca in posizione perfetta-mente simmetrica la chiave dell’arco con un notevole effetto scenografico, proprio come a Susa.

Il fornice di Donnas è di dimensioni minori in ragione del limitato aggetto della strada (ricavata con il taglio della roc-cia) e per l’incombenza della scarpata della Dora Baltea. L’arco di Donnas consentiva il passaggio di un unico carro a senso unico alternato, una soluzione presente altrove lungo la via delle Gallie, ad esempio presso i vicini ponti romani di Chatillon e St. Vincent. La sua corda è pari a 3,02 m e

Il Becco di Nona inquadrato dall’Arco romano a Donnas (età augustea?) (foto S. Caranzano).

Il punto di osservazione (A) dell'effetto scenografico tra Arco e Rocciamelone rispetto alla soglia del palazzo prefettizio di età augustea e le proporzioni dell’arco di Susa (grafica S. Caranzano).

La posizione privilegiata per l’osservazione dell’inquadramento del Rocciamelone dal Palazzo prefettizio (grafica S. Caranzano).

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l’altezza del fornice è di 4,83 m, fatto che determina un rap-porto h/l di circa 2:3, dunque identico a quello rilevato pres-so l’Arco di Susa (in verità, la ratio sembrerebbe avvicinarsi al valore di 1,6 tipico della Sezione aurea, ma è opportuno essere prudenti in quanto la consunzione del selciato deriva-ta dal continuo passaggio dei carri e l’abrasione superficiale hanno fortemente deteriorato la pavimentazione in pietra).Una soluzione simile fu sperimentata dagli architetti ro-mani anche presso la Porta di Adriano ad Atene, il cui for-nice è allineato con il monumento coregico di Lisicrate e inquadra la propaggine più alta dell’acropoli, mentre l’i-scrizione bilingue posta sull’attico celebra il principe come novello Teseo31.La costruzione geometrica di porte e archi basati su uno schema 1:3/2:3 non è isolata nell’antichità, e fu adottata da-gli architetti e dai capomastri in svariate occasioni per la sua efficacia estetica e la semplicità esecutiva32.La scelta di applicare un modello ternario all’intera costru-zione si spiega però soprattutto con la volontà di garanti-re caratteri di armonia e “bellezza” all’edificio secondo una proporzione prestabilita.Si tratta di una sensibilità che Roma ereditò dalla grande cultura architettonica greco-ellenistica e che trova con-ferma nella lettura del De Architettura di Marco Vitruvio Pollione, ove si afferma che per garantire agli edificia una forma armonica e piacevole alla vista sia necessario ricer-care la εὐρυθμία e la συμμετρία, due vocaboli tradotti con una certa difficoltà dal greco nella lingua latina (e su cui si è discusso a lungo), ma che devono intendersi rispetti-vamente come progettazione dell’edificio secondo misure proporzionali (dunque, in cui altezza, larghezza e profon-dità siano correttamente commisurate) e accostamento armonico delle singole parti (vale a dire progettazione dei diversi elementi – colonne, capitelli, architravi, triglifi – per moduli o frazioni di modulo)33. È chiaro che i principi enunciati da Vitruvio sono espressio-ne del dialogo intercorrente tra le conquiste della geometria euclidea sviluppate nel periodo ellenistico e le ricerche sull’i-dea del “bello” inteso come imitazione della Natura elabo-rate sin dall’età classica in ambito filosofico e speculativo34.Nel caso dell’arco di Susa, una delle problematiche da af-frontare fu senza dubbio quella relativa al rapporto inter-corrente tra il paesaggio (cima della montagna), l’arco e la posizione dell’osservatore. Piuttosto che procedere istinti-vamente, sembra naturale che l’architetto abbia cercato nei numeri e nella geometria una verifica preliminare. Per inten-dersi, qualora la posizione topografica dell’acropoli di Susa rispetto alla montagna avesse determinato un angolo visuale troppo verticale (incombente) oppure avesse richiesto una posizione troppo arretrata dell’arco rispetto al punto di os-servazione ne sarebbe conseguita una disarmonia e un ef-fetto scenico fortemente depotenziato. Da qui, la necessità di definire preliminarmente le potenzialità euritmiche del progetto, cosa possibile solo attraverso l’uso del «numero».

L’applicazione della trigonometria per valutare aprioristica-mente le misure intercorrenti tra arco, montagna e il punto di stazionamento – per quanto non da escludersi a priori – si sarebbe presentata particolarmente macchinosa in ra-gione della difficoltà di calcolare il dislivello tra l’altitudine di Susa (321 m s.l.m.) e la sommità della montagna (3538 m s.l.m.) e per la notevole distanza intercorrente tra il punto di osservazione e l’asse verticale del massiccio montuoso.Una soluzione molto semplice (senza bisogno di scomo-dare il computo matematico) poteva essere allora quella di sfruttare la geometria euclidea. Ho così proposto che il progettista si sia affidato al “teorema della secante e della tangente”, applicato dei matematici ellenistici per ricavare la sezione aurea di un segmento. Nel modello originario, dato un rettangolo AC´B´, tracciata una circonferenza di raggio B´C´ tangente all’ipotenusa AB´ in G, disegnando da A un cerchio di raggio AG si ottiene un punto di intersezione H sul segmento AC´ (secante) pari alla sezione aurea (φ = 1,618033; vale a dire AH è la sezione aurea di AC’)Allorchè si provi a inserire l’arco onorario in tale “schema” di modo che l’ipotenusa AB’ coincida con l’asse visuale di un osservatore posto nel punto A (che all’altitudine di Susa determina un angolo visuale pari a 21°18´ 36”) dando all’ar-co onorario una profondità pari al segmento HC’ (5,27 m), ne deriva un segmento AH (cioé la distanza tra osservatore e facciata dell’arco) pari a 10,75 m, con un rapporto tra i due segmenti di 2:3 (ratio che abbiamo visto essere il modulo ge-neratore dell’arco). Uno schema vicino a quello della sezione aurea, da considerarsi indubbiamente euritmico. Naturalmente, la “non” corrispondenza dell’angolo B´AC’ con il valore teorico di 26° previsto dal teorema originario si deve ai vincoli naturali rappresentati dall’altezza della vetta del Rocciamelone e dall’altitudine di Susa (che sono delle costanti, k), cosa che dà luogo ad un arrotondamento (1,618033>1,5). Quest’ultimo, però, doveva apparire irri-levante nell’ottica dell’architettura trionfale romana e anzi, rappresentando una semplificazione, poteva rivelarsi addirit-tura funzionale. Azione necessaria e preliminare fu dunque la misurazione con un goniometro dell’angolo visuale (α) e la costruzione geometrica di un triangolo con secante e tan-gente. Ottenuta la proiezione sul cateto maggiore di due seg-menti di ratio 1:1,5 il progettista si deve essere convinto della bontà del progetto e che la ratio 1:3/2:3 poteva costituire la generatrice dell’intero monumento35. È solo una ipotesi, ma è improbabile che una soluzione armonica e visivamente apprezzabile come quella messa in atto a Segusio sia frutto dell’improvvisazione o di un approccio totalmente empirico.Vi è da credere che l’Arco di Susa sia stato, piuttosto, il frut-to di un progetto ingegnoso e geniale, capace di sfruttare la fortunata posizione geografica del colle di Susa rispetto al monte. Monumento celebrativo ed esornativo, esso fu immaginato in qualità di traguardo ottico capace di regola-rizzare e normare il percorso che dal foro saliva all’acropoli contribuendo alla chiarezza percettiva dell’area urbana.

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L’impostazione urbanistica messa in atto dai costruttori romani ha avuto un effetto permanente sul tessuto urbano influenzandolo nei suoi sviluppi successivi: l’orientamento della via che sale all’arco e quello dell’arco medesimo, infatti, hanno vincolato la posizione della cinta del forte costan-tiniano che fu alla base della costruzione del castello della marchesa Adelaide, mentre l’asse del foro ha determinato il perimetro dell’imponente mole del Seminario arcivescovile, quello della facciata della cattedrale di San Giusto e l’anda-mento delle mura medievali che proseguono tangenti alla chiesa di Santa Maria fino collegarsi all’altura del castello.

4. Alpes victae e pax augusteaLa sottoposizione delle più eminenti cime alpine agli ar-chi onorari fu realizzata allo scopo di esercitare un potente messaggio visuale sugli osservatori, nei quali dobbiamo ri-conoscere sia i coloni trasferitisi nella neonata fondazione segusina, sia la popolazione indigena integrata e censita all’interno della nuova prefettura, della cui esistenza siamo informati dal persistere di nomenclature epicoriche nel re-pertorio epigrafico36.Per interpretare sul piano storico le scelte pubblicistiche attuate da Roma nel decennio immediatamente successivo la conquista delle Alpi, è possibile fare alcune osservazioni. Come si è accennato, l’arco di Susa non rientra nella catego-ria dei monumenti trionfali, ma deve considerarsi un arco onorario, vista l’assenza di qualunque accenno a imprese militari anche e soprattutto nel fregio istoriato. Si avver-te, inoltre, l’assenza di una qualunque volontà punitiva nei

confronti delle popolazioni indigene che, scese a patti, ac-cettarono l’amicizia con Roma mantenendo un certo grado di autonomia amministrativa (receptio in amicitiam)37. La scelta di inquadrare la vetta montana sembra innanzitut-to sottendere una specifica volontà scenografica e una certa qual ricerca di magnificenza ma indica, al contempo, l’in-teresse per la parte sommitale dell’edificio, oggetto di una concentrazione semantica e visuale (l’arcus).In effetti, il vocabolo arcus fu utilizzato per la prima volta in architettura proprio a partire dall’età augustea allo sco-po di definire una particolare tipologia di edificio (l’arco onorario o trionfale), nel contesto di una rivoluzione cul-turale e artistica finalizzata a giustificare e a consolidare il principato (è il novicius inventus a cui accenna Plinio nella Naturalis Historia 38).In considerazione dell’importante ruolo giocato dalle im-magini all’interno della propaganda augustea (riassunta da P. Zanker nel celebre saggio Augusto e il potere delle imma-gini 39) sembra sensato suggerire che l’inquadramento del Rocciamelone da parte dell’arco di Susa e del Bec di Nona da parte dell’arco Donnas si spieghino con l’intento di espri-mere visualmente il dominio di Roma sulle Alpi. La scelta riassumerebbe, in modo immediato, il nuovo corso politico avviato da Augusto con le guerre alpine (17-14 a.C.)40 che avevano determinato la sottomissione dei gruppi etnici che popolavano le Alpi italiane, ponendole sotto l’ala protettiva di Roma, delle sue leggi e dei suoi ordinamenti41. Parallelamente, osservando i temi raffigurati sul fregio dell’arco di Susa, appare chiaro come elemento centrale

Schema dimostrativo della Sezione aurea ricavata sul cateto AC’ con la secante e la tangente, e inserimento dell’Arco di Susa entro lo schema geometrico nel rispetto delle misure effettive (grafica S. Caranzano).

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dell’interesse compositivo siano la religio, la pax e la concor-dia, nel rispetto di una tradizione pubblicistica ben attestata nel periodo augusteo.Il principe si dimostrò seriamente intenzionato a cancellare il ricordo delle sanguinose guerre civili seguite alla morte di Giulio Cesare (la battaglia di Filippi, la guerra di Perugia, la battaglia di Azio contro Marco Antonio e Cleopatra, le guer-re di conquista in Gallia, Belgica e Spagna), promuovendo la rivalutazione del passato mitico delle origini di Roma (attra-verso l’Eneide di Virgilio e l’erezione di specifici monumenti sul Palatino42) celebrando, al contempo, una nuova era di pace e felicità seguita alla ricomposizione dei conflitti43. È significativo che il periodo caratterizzato da una maggio-re insistenza su questi temi sia prossimo all’istituzione della festa di Pax, voluta da Augusto e votata dal Senato nel 13 a.C., celebrata per la prima volta presso l’Ara Pacis in Campo Marzio il 30 gennaio del 9 a.C. e, di fatto, quasi contempo-ranea all’erezione dell’arco onorario di Susa (che si data tra il 9 e l’8 a.C.)44.Impadronitosi, di fatto, del vecchio regno celtico, Ottaviano sembra aver ricercato una soluzione oculata, nella quale il dominio di Roma fosse in qualche modo dissimulato: nel caso della via che dal foro saliva al palazzo, l’attenzione degli spettatori veniva focalizzata sui temi sacri della consecratio e della pax, celebrati nel grande fregio del sacrificio ove, non a caso, l’imperatore non appare in prima persona ma in cui si accenna alla dignità equestre acquisita da Cozio. Non biso-gna dimenticare che ogni riferimento alla religio rimandava indirettamente ad Augusto stesso, in considerazione del fat-to che Ottaviano era stato insignito, nel 12 a.C., della massi-ma carica religiosa di pontefice massimo45.Vi è ancora un elemento degno di approfondimento. A bre-ve distanza dall’arco, nella posizione più elevata del rilievo naturale un tempo occupato dal palazzo prefettizio, emerge un’imponente ara cultuale scolpita nella roccia affiancata da una scala monumentale.Definito popolarmente “ara druidica” per la presenza di coppe artificiali collegate da canaletti di scolo, il complesso rientra nella categoria degli altari a coppelle, ben noti agli studiosi della regione alpina e tipici dei periodi preistorico e protostorico (anche se in modo non esclusivo). Scoperta nel 1947 al di sotto di una coltre erbosa che la ricopriva46, l’ara non è purtroppo databile con precisione in assenza di una stratigrafia e di materiali diagnostici. Tuttavia, in consi-derazione del taglio particolarmente netto dei gradini e dei piani (possibile solo utilizzando strumenti in ferro) e data la presenza di una sorta di pozzo cerimoniale scavato nella roccia (un bothros?) il complesso viene comunemente asse-gnato all’età del Ferro47.Distrutto in età cristiana in concomitanza con la fondazio-ne dei piloni di un grande acquedotto (Terme Graziane) resosi necessario per superare la sommità delle mura costan-tiniane e portare l’acqua in città, l’altare a coppelle emerge in modo segnato sul territorio e sorge a breve distanza dall’arco

onorario48. Tra i fattori più insoliti e difficili da spiegare, si annovera il fatto che l’altare non fu distrutto in occasione della prima occupazione romana del colle ma, anzi, venne affiancato da alcuni ambienti pavimentati dei quali si vede traccia sul versante meridionale. Inoltre, la posizione altimetrica elevata e la vicinanza al pa-lazzo prefettizio rendono improbabile l’ipotesi che, in età imperiale, la roccia non fosse visibile (tanto più che il suo

I temi della religio e del sacrificio sono al centro degli interessi augustei nel periodo immediatamente successivo alla conclusione delle guerre alpine. Qui in alto, il suovetaurilia presso l'altare centrale dell’Ara Pacis in Campo Marzio.

L'ara del sacrificio celtica con la scalinata monumentale distrutta dai piloni delle Terme Graziane di età post-costantiniana (grafica S. Caranzano).

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Note1 Cesare Letta, Augusto e le guerre alpine, in L’arco di Susa e i monumenti della propaganda imperiale in età augustea, Atti del Convegno, Susa, 12 aprile 2014, Susa 2015, pp. 45-52.2 Ammiamo Marcellino, Storie XV 10, 2.

nucleo principale non fu intaccato da fondamenta o da ter-razzamenti artificiali). Il fatto che, in età romana, l’ara fosse “esposta” è d’altronde confermato dalla presenza di alcuni incisioni in prossimità delle coppelle raffiguranti una foglio-lina e le lettere A, R, PP.LS e AV (le ultime due intrecciate, cosa che ne garantisce la romanità)49.Come è stato notato da L. Manino, risulta inoltre difficile da giustificare la posizione altimetricamente depressa (e dun-que di apparente inferiorità semantica) dell’arco di Augusto rispetto alla roccia sacrificale a cui quest’ultimo era collegato dalla strada50.Le rilevazioni archeometriche hanno permesso di chiarire un fatto piuttosto interessante: tracciando una linea orizzonta-le (ad altezza d’uomo) dal ripiano sacrificale si intercetta, in perfetto allineamento, il margine inferiore del fregio dell’arco di Augusto sul quale è appresentata proprio la scena del sacri-ficio. Abbiamo accennato al fatto che la cornice inferiore del fregio coincide – nel contesto della progettazione geometri-ca dell’arco – con la sommità del quadrato di base ospitante il fornice. È plausibile che una così precisa corrispondenza geometrica e altimetrica sottintenda una intenzionalità.Altrettanto curiosa è la corrispondenza visuale tra l’ara sa-crificale e la scena di sacrificio. Ci troviamo qui di fronte a una unità tematica che doveva apparire lampante, anche in ragione della relativa vicinanza dell’arco all’ara.Se consideriamo l’arco onorario come diaframma tra l’area di pertinenza dei civites e l’acropoli occupata dalla domus del prefetto celtico, si può proporre che un altare indigeno pre-esistente sia stato volutamente rispettato (e forse ampliato) allo scopo di sottolineare il sincretismo tra le deità indigene e quelle romane, in un’ottica di fusione e integrazione tra i vecchi regni alpini e il dominio romano. Il potere civile era stato delegato al vecchio re che poté mantenere una sorta di sovranità sulle terre avite grazie al titolo prefettizio ricevuto da Augusto. Se così fu, si potrebbe persino ipotizzare che l’altare fosse incluso nelle pertinenze della domus Cotii e che qui si sia

svolta la cerimonia di fondazione o inaugurazione a cui si accenna nel fregio dell’arco51.La proposta, che permetterebbe di integrare in un’unica vi-sione d’insieme e in un un unico progetto celebrativo il foro, l’heroon di Cozio, l’arco di Augusto, il palazzo prefettizio e l’altare celtico è un’ipotesi di lavoro che necessità di ulte-riori verifiche, ad esempio effettuando la prima rilevazione puntuale della roccia coppellata e uno studio analitico delle scalpellature, con l’obiettivo di verificare l’esistenza di fasi di cantiere differenti e scaglionate nel tempo.In ogni caso, anche volendo escludere dal nostro discor-so l’altare a coppelle, l’articolato complesso monumentale dell’arco di Augusto e delle sue pertinenze doveva evocare in un osservatore dell’antichità una serie di messaggi su più livelli, connessi al ricordo delle guerre alpine che avevano avuto come fondale la valle, alla loro conclusione e alla cele-brazione del foedus tra Augusto e Cozio, foriero di una nuo-va epoca di pace convivenza sotto il dominio di Roma. Una serie di allusioni per noi particolarmente complesse da rico-struire, ma che dovevano apparire immediate ed evidenti a coloro che avevano vissuto, direttamente e indirettamente, quelle vicende e che avevano avuto modo di sperimentare i simboli e i messaggi allusivi propugnati dal potere imperiale, a Roma e nelle province. L’impiego dell’architettura e degli apparati scenografici in funzione pubblicistica sottintende (nelle misure, nelle pro-porzioni e nella composizione logica delle parti) una visione d’insieme particolarmente ambiziosa e coerente. In tal sen-so, la decodifica dell’architettura antica può considerarsi – con tutti i limiti di un processo logico deduttivo – come una fonte al servizio della ricostruzione storica.

Rapporto altimetrico tra il fregio con il suovetaurilia e il cosiddetto altare sacrificale druidico al vertice della salita (grafica S. Caranzano).

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di varia funzione, tra cui aree sacre e templari. Caratteristica dell’e-dificio regio è di non essere isolato ma di costituire il punto focale dell’interazione tra basileus, philoi e politai. Cfr. Rolf Strootman, The hellenistic royal court. Cerimonial and ideology in Greece, Egypt and the Near East (336-30 BCE), tesi di dottorato, Utrecht University, 2007, pp. 55-57 e pp. 89-94.13 Carlo Carducci, Il substrato ligure nelle sculture romane del Piemonte e della Liguria, in «Rivista Ingauna e Intemelia», VII, 1941, pp. 67-95.14 Bianca Maria Felletti Maj, Il fregio commemorativo dell’arco di Susa, in «Rendiconti della Pontificia Accademia», 33, 1960/61, pp. 129-153.15 Ranuccio Bianchi Bandinelli, L’arte romana nel centro del pote-re, Feltrinelli, Milano 1969, p. 57.16 Non è semplice l’identificazione dei personaggi che presenziano alla cerimonia. In linea di massima, si pensa di poter riconoscere un generale in rappresentanza di Augusto, un giovane togato e forse Cozio stesso, ormai indossante la toga da cittadino roma-no (Bianca Maria Felletti Maj, Il fregio commemorativo cit. pp. 136-139). La presenza di due tori condotti al sacrificio sul lato meridionale e la presenza di Castore e Polluce agli estremi del fregio hanno indotto a ipotizzare che la cerimonia fosse dedicata ai Dioscuri, protettori dell’ordine equestre a cui Cozio stesso era stato iscritto (Ibidem, pp. 138-139).17 L’accostamento è proposto da C. Carducci (Carlo Carducci, sculture preromane e romane del Piemonte, in «Bollettino Società Piemontese di Archeologia e di Belle Arti», a. III, 1949, p. 11) e da G.A. Mansuelli (Guido Achille Mansuelli, Arco di Augusto a Susa, in «Arte Antica e Moderna», 7, 1959, pp. 370-371). Sull’Ara Pacis si veda invece: Giuseppe Moretti, L’Ara Pacis Augustae, Roma 1947; Orietta Rossini, Ara Pacis, Electa, Milano 2006, pp. 6-40.18 Cfr. Ermanno Ferrero, L’arc d’Auguste à Suse, in «Atti del-la Società Promotrice Archeologia e Belle Arti», 1, 1901, pp. 208-211. La questione verrà successivamente richiamata da J. Prieur in uno studio monografico dedicato alle Alpi Cozie ( Jean Prieur, La province romaine des Alpes Cottienes, Centre d’Étud-es gallo-romaines de la Faculté des Lettres et Sciences humaines de Lyon, Villeurbane 1968, pp. 70-80), negli anni settanta dal Soprintendente P. Barocelli (Piero Barocelli, Manifestazioni re-ligiose preromane e romane delle Gentes alpine delle Alpi Cozie e Graie, in «Ad Quintum», 4, 1976, pp. 7-15) e da D. Fogliato (Dario Fogliato, L’arco di Augusto cit. p. 21). Infine, viene accosta-to e confrontato con l’arco di Donnas in Valle d’Aosta e con l’ar-co di Adriano di Atene dallo scrivente: Sandro Caranzano, Susa “celtica” e romana. Riflessioni e spunti di ricerca, in L’archeologia in Piemonte, prima e dopo Ottaviano Augusto, Ananke, Torino 2013, pp. 73-76).19 Id., Eurythmia e symmetria. Susa, l’arco, il palazzo, il Rocciamelone: altimetrie e relazioni semantiche, in «Segusium», 54, 2016, pp. 16-46.20 In una recente tesi di dottorato, Ketti Iannantuono ha sotto-lineato come l’idea di “movimento” sia comune al souvetaurilia scolpito sull’arco e al percorso che dal foro saliva al palazzo. Ha quindi osservato come il convergere della sfilata verso l’altare centrale contribuisca a portare l’attenzione dell’osservatore verso l’asse verticale del monumento, a sua volta incentrato sulla vetta della montagna. Il tema del movimento verso un punto foca-le ben definito sarebbe allora la chiave di lettura del complesso (Ketti Iannantuono, Monumentalizing Roman rule in the Alps: accommodating new power balance in Augustan North Italy and Provence, tesi di dottorato, Radboud University, 2018).

3 Titolo concesso a vita ed ereditario. Svetonio. Nero, 18; Cesare Letta, Postille sulle iscrizioni della dinastia cozia, in «Segusium», 31, 1994, pp. 115-127; Hannah Cornwell, The king who would be prefect: authority and identity in the Cottian Alps, in «Journal of Roman Studies», Cambridge 2015, pp. 1-32.4 Alfredo D’Andrade, Alpes Cottiae. Susa. Avanzi di antichi edifici scoperti presso l’arco di Augusto, in «Notizie Scavi» 1901, pp. 3-4; Carlo Carducci, Susa, in «Notizie Scavi», Serie Sesta, XI, 1938, pp. 328-333; Luisa Brecciaroli Taborelli, Segusio, nuovi dati ed alcune ipotesi, in «Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte», 9, 1990, pp. 65-157; Liliana Mercando, La porta del Paradiso. Un restauro a Susa, Stamperia Artistica Nazionale, Torino 1993.5 Sergio Sfrecola, Analisi archeometriche sulle malte murarie dell’antica Segusio, in «Segusium», Atti del Convegno, L’arco di Susa e i monumenti della propaganda imperiale in età augustea, Susa 12 aprile 2014, Susa 2015, pp. 293-302.6 Federico Barello, Segusio. Nuovi dati archeologici sulla nascita di una capitale, in Alpis Poenina. Grand Saint Bernard. Une voie à travers l’Europ, Séminaire de Clôture, Forte di Bard 11-12 aprile 2008, Aosta 2008, pp. 431-437; Id., Il foro di Segusio e la nasci-ta di una nuova città, in I complessi forensi della Cisalpina roma-na: nuovi dati, in Atti del Convegno, Pavia, 12-13 marzo 2009, All’insegna del Giglio, Firenze, 2011, pp. 27- 36.7 L’edificio è stato identificato con il cenotafio del re celtico da L. Brecciaroli Taborelli sulla base di un passo di Ammiano Marcellino e per il ritrovamento di un’urna in pietra. Tale propo-sta è ampiamente accettata (cfr. Giulia Molli Boffa, Tombe roma-ne in Piemonte, in Liliana Mercando (a cura di), Archeologia in Piemonte - Età romana, 3 voll., Allemandi, Torino 1998, vol. II, pp. 189-205).8 Rimane ancora aperta la questione relativa all’andamento della strada che saliva al palazzo, soprattutto dopo il sondaggio effettua-to in piazza Pola che dimostra che la strada non si inerpicava con decisione come quella moderna ma procedeva, per il primo tratto, con andamento lievemente obliquo (Federico Barello, Domus e urbanistica segusina alla luce degli ultimi interventi di archeolo-gia preventiva, in Intra illa moenia domus ac penates, Atti delle Giornate di Studio (Padova, 10-11 aprile 2018), in «Antenor Quaderni», 14, 2009, pp. 221-228.9 Sandro De Maria, Gli archi onorari di Roma e dell’Italia roma-na, Erma di Bretschneider, Roma 1988.10 Marziale, Epigrammi, IV, 78; Publio Ovidio Nasone, Tristia, III, 28-34. Inoltre: Maria Antonietta Tomei, Il tempio di Giove Statore sul Palatino, in «Mélanges de l’École française de Rome», 105, 1993, II, pp. 621-659; Andrea Carandini, La casa di Augusto dai “Lupercalia” al Natale, Laterza, Bari 2008, pp. 62-63.11 È opinione comune che l’arco sia stato costruito a cavallo della via delle Gallie diretta al Monginevro e che gli autori antichi ricordano essere stata ricostruita da Augusto (Strabone IV, 6, 6) o da Cozio stesso (Ammiano Marcellino XV, 10, 2 e 7). La cosa non osta alla lettura qui proposta, innanzitutto perché è noto l’uso di far transita-re le grandi arterie di comunicazione nella vicinanza dei fora (si veda il caso di Filippi, in Macedonia), poi perché la bipolarità del percor-so poteva circoscriversi al tratto concluso entro il pomerio cittadino che esprimeva una propria autonomia giuridica e funzionale.12 Furono le monarchie ellenistiche a codificare lo speciale rappor-to tra sede del potere (basileion/regia) e polis. Il palazzo risulta nor-malmente incluso entro le mura urbiche, ma in posizione distinta e rilevata per poter essere visibile ai cittadini. Rientra in tale sensi-bilità anche la coesistenza all’interno o presso il “palazzo” di edifici

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21 Giorgio Gullini, Guida del santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina, in «Archeologia classica», Roma (1956); Idem, L’ellenismo, Jaka Book, Milano 1998, p. 124.22 Lo studio è stato condotto dallo scrivente con il sostegno del Centro Studi Archeologici Herakles di Torino; le rilevazioni ar-cheometriche sono stato effettuate da Nicola Pozzato.23 IMPERATORI · CAESARI · DIVI · FILIO · AVGVSTO · PONT · MAX · IMP · XIIII · TRIB · POT · XVII · SENATVS · POPVLVSQVE · ROMANVS · QVOD · ERIVS · DVCTV · AVSPICIISQVE · GENTES · ALPINAE · OMNES · QVAE · A · MARI · SVPERO · AD · INFERUM · PERTINEBANT · SUB · IMPERIUM · P · R · SVNT · REDACTAE (CIL, V, p. 904).24 Rosanna Mollo Mezzena, Augusta Praetoria ed il suo territorio, in Archeologia in Valle d’Aosta. Dal Neolitico alla caduta dell’Impe-ro romano. 3500 a.C.-V sec. d.C., Aosta 1981, p. 134; Eadem, La stratificazione archeologica di Augusta Praetoria, in «Archeologia stratigrafica dell’Italia settentrionale», l, 1988, pp. 74-100.25 È opportuno considerare che, ad oggi, gran parte degli studi si è basato su planimetrie o chine realizzate nel corso degli anni Ottanta e Novanta, caratterizzate da un buon livello di affida-bilità ma prive di quei caratteri di precisione garantiti dalle mo-derne tecnologie di rilevamento tipo laser scanner e nuvola di punti. Fa eccezione un primo lavoro condotto da una equipe del Politecnico di Torino: Filibero Chiabrando, Elisabetta Donadio, Belen Jimenez, Fernandez-Palacios, Fabio Remondino, Antonia Spanò, L’arco di Augusto a Susa: un nuovo modello digitale, in «Segusium», Anno LII (2014), pp. 217-232. Ci si è qui limitati alla rilevazione puntuale delle misure dell’arco facendo uso di una «stazione totale», sia in considerazione del ridotto costo opera-tivo, sia in considerazione del fatto che questa ha garantito un nu-mero sufficiente di dati per affrontare le problematiche in oggetto.26 Le prime osservazioni archeometriche sull’arco di Susa si tro-vano in Ermanno Ferrero, L’arc d’Auguste a Susa, in «Bulletin de la Societé d’archéologie et des beaux-arts pour la province de Turin», 1 (1901) e in Luciano Manino, L’arco di Susa nel con-testo urbanistico segusino, in «Segusium», vol. spec. (1994), pp. 209-210.27 Tale dicotomia tra progettazione ed esecuzione è stata im-piegata per spiegare la modestia delle sculture del fregio, cfr. Emanuel Loewy, De Anfänge des Triumphbogens, Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien, Kunsthistorische Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses, Vienna, 1928, pp. 9-10. Inoltre, cfr. Carlo Carducci, Il substrato cit. e e Patrizio Pensabene, Arco di Susa: forme della decorazione cit., pp. 85-87.28 Marco Vitruvio Pollione, De Architectura, I, 3, 2.29 Daniela Scagliarini Corlaita, La situazione urbanistica degli archi onorari nella prima età imperiale, in Studi sull’arco onorario romano, in «Studia Archaeologica», 21 (1979), pp. 29-72.30 Colin O’Connor, Roman bridges, Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 89-93; Luciana Pramotton, Patrizia Framarin, Lorenzo Apollonia, Ponte romano di Pont-Saint Martin, Aosta 2015.31 Sandro Caranzano, Eurythmia e symmetria cit., p. 25.32 Antoni A. Ostrasz, The hippodrome of Jerasa. A report on exca-vation and research 1982-87, in «Syria», 66, 1989; Jean Pierre Adam, L’arte di costruire presso i Romani, Longanesi, Milano 2008, pp. 51-77.33 Erone di Alessandria, Definizioni, 128; Vitruvio Marco Pollione, De Architectura, I, II, 4. Inoltre cfr. Plinio il vecchio, Naturalis Historia, XXXIV, 65; Clemente Maroni, The Oxford handbook of greek and roman art, Oxford 2015, pp. 45-57.

34 Filolao, Frammenti dei Presocratici, 44 B6; Aristotele, Poetica; Marco Vitruvio Pollione, De Architectura, I, 12, 16; Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIV, 55; Claudio Galeno, Placita Hippocratis et Platonis, V, 3, Inoltre cfr. Sandro Caranzano, Dispense di architettura greca, Fondazione Università Popolare di Torino, 2016.35 Infatti il vero problema da risolvere era l’impostazione di un rapporto tra osservatore, cima e arco rispondente a criteri, per l’appunto, euritmici. L’architetto si deve essere chiesto quale fosse la distanza ideale tra la facciata e l’osservatore per garantire il mas-simo apprezzamento dell’allineamento visuale; il teorema della secante e della tangente ha dunque stabilito la profondità del for-nice cosa che rende la contemplazione del complesso scenografico arco/monte “armonica”.36 Giovannella Cresci Marrone, Segusio e il processo cit., pp. 193-196. Per una sintesi completa cfr. Elena Cimarosti, Testimonianze di età romana. Guida alla lettura delle epigrafi della Valle di Susa, Segusium, Susa, 2008.37 Patrizio Pensabene, Arco di Susa: forme della decorazione archi-tettonica, in L’arco di Susa cit., pp. 99-100; Dario Fogliato, L’arco di Augusto cit. p. 15.38 Guido A. Mansuelli, Fornix e Arcus. Note di terminologia, in La situazione urbanistica degli archi onorari nella prima età imperiale, in Studi sull’arco onorario romano, in «Studia Archaeologica», 21 (1979), pp. 15-27; Sandro De Maria, L’apparato figurativo dell’ar-co onorario di Susa. Revisione critica del problema, in «Rivista di Archeologia», 1 (1977), p. 48; Id., Gli archi onorari cit., p. 56.39 Paul Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, C.H. Beek, Monaco 2003, p. 347.40 Cesare Letta, Augusto e le guerre alpine cit. pp. 45-48.41 Come è stato osservato «La duplice iscrizione dice che il pre-fetto Cozio e le 14 tribù costruirono l’arco in onore di Augusto; non fa parola del trattato, che costituiva una diminutio per l’ex re» (Bianca Maria Felletti Maj, Il fregio commemorativo cit. p. 132).42 Nel dizionario enciclopedico di Sesto Pompeo Festo, alla voce Roma Quadrata, lo scrittore ricorda un altare fatto costruire da Augusto di fronte al Tempio di Apollo sul Palatino (nelle imme-diate vicinanze della propria domus) e specifica che «qui è posto ciò che di buon auspicio si suole usare nella fondazione di un città» (Sesto Pompeo Festo, De verborum significatu 310). Non lontano dalla domus di Augusto, gli scavi condotti nel 1886 da P. Rosa permisero di recuperare alcuni piloncini arcaicizzanti sui quali sono riportati i nomi di Marspiter, Remureine, Anabestas e Ferter Resius. I segnacoli indicavano il luogo dello scontro tra Romolo e Remo ai tempi mitici della fondazione della città (Maria Antonietta Tomei, Tre colonne iscritte, in «Museo Palatino», Electa, Milano 1997).43 Gilles Sauron, Mito e potere: la mistificazione augustea, in E. La Rocca (a cura di), Augusto, catalogo della mostra, Roma Scuderie del Quirinale, 18 ottobre 2013 - 9 febbraio 2014, Electa, Milano 2013, pp. 84-87. Dopo la battaglia di Azio il progetto di Augusto fu «quello di legare intimamente la propaganda fondata sul tema del compimento della storia, che faceva della pace – la pax Augusta – il termine ultimo della manifestazione di un piano divi-no iniziato con la nascita di Enea, con una visione d’insieme della mitologia greca e di tutta la storia, distribuita tra le età susseguitesi secondo la tradizione di Esiodo – l’età degli Eroi e l’età del Ferro – considerate come periodi di inevitabile declino morale i cui unici elementi positivi erano quelli che preparavano il rinnovamento cosmico promosso dal nuovo re degli dei, Apollo, e realizzato sulla terra grazie ad Augusto».

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44 La data è ricostruibile sulla base della tribunicia potestas, attri-buita al principe per la prima volta nel 24/23 a.C. e poi rinnovata ogni anno. L’arco dovrà pertanto essere datato al secondo semestre del 9 a.C. o al primo semestre dell’8 a.C. (Dario Fogliato, L’arco di Augusto a Susa, in «Ad Quintum», n. speciale, 1992, pp. 12-13).45 Sandro Caranzano, Eurythmia e symmetria cit., pp. 13-46; Luciano Manino, L’arco di Augusto nel contesto urbanistico segu-sino, Atti per il Bimillenario dell’Arco, Susa 2-3 ottobre 1992, in «Segusium», n. speciale, 1994, pp. 209-211; Id., Considerazioni grammaticali e stilistiche sul testo dell’epigrafe dell’arco di Susa, in «Segusium», 34, 1995, pp. 19-28.46 Piero Barocelli, Appunti di topografia segusina, in «Bollettino della. Commissione Archeologica Comunale di Roma», app. VII, 1936, pp. 3-22; Carlo Felice Capello, Scoperta di rocce cup-pelliformi nell’agro segusino, in «Atti della SPABA», 1-4, 1949, pp. 27-37.47 Carlo Carducci, Susa, in «Notizie scavi», serie VI, vol. XIV, 1938, pp. 328-333; Id., Scavi nell’area del Castrum, in «Notizie scavi», serie VI, vol. XIX, 1941, pp. 20-28; Liliana Mercando, La città, le mura e le porte, in La porta del Paradiso cit., pp. 79-82; Andrea Arcà, La pietra e il segno. Incisioni rupestri in Valle di Susa, Tipolito Melli, Susa 1990, pp. 54-57.48 Giuse Scalva, Gli archi dell’acquedotto e le mura: la sistemazione della passeggiata archeologica, in Liliana Mercando (a cura di), La Porta del Paradiso cit., pp. 205-219.

49 Carlo Felice Capello, Scoperta di rocce cit., p. 35.50 Luciano Manino, L’arco di Augusto nel contesto cit., pp. 209-211.51 Tale interpretazione è incompatibile con l’ipotesi tradizionale sul percorso seguito dalla cosiddetta via delle Gallie: secondo al-cuni autori, la via sarebbe scesa a tornanti sino all’attuale Sacrario di Santa Maria delle Grazie, avrebbe quindi risalito l’altura di castello passando attraverso l’area delle rocce a coppelle per poi proseguire sotto l’arco di Augusto e scendere in piazza Savoia. Ho già espresso l’opinione che tale strada non risalga alla sistemazione originale della città augustea ma piuttosto a una risistemazione di età post-costantiniana quando, venuto meno l’interesse per l’area pagana (e anzi in odio a questa) si procedette a sbancare la roccia creando la via di circonvallazione alle mura, distruggendo l’antico altare con i piloni delle cosiddette Terme Graziane. Cfr. Sandro Caranzano, Eurythmia e symmetria cit., pp. 37-44. Contra cfr. Jacques Debergh, Nugae attorno all’arco di Susa, in «Segusium», n. speciale, 1990, p.199, e Silvana Finocchi, Città fortificate su vie di comunicazione transalpine, in Atti del convegno internazionale «La comunità alpina nell’Antichità» Gargano del Garda, 19-25 maggio 1974, Milano 1976, pp. 303-314. A favore di un percorso che dall’arco di Augusto avrebbe svoltato a destra in prossimità dell’altare a coppelle per proseguire verso Gravere cfr. Daniele Sepio, David Wicks, Federico Barello, Archeologia del paesaggio. Per un’ipotesi ricostruttiva di un tratto della via delle Gallie, in L’arco di Susa e i monumenti cit. pp. 317-330.

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FEDERICA BERGAMINI

Il “borgo del Moschino” e la neoclassica casa Clerico nell’ampliamento di Torino verso il Po e VanchigliaThe “Moschino” borough and the neoclassical Clerico house in the Turin expansion towards the Po river and Vanchiglia district

AbstractIl rapporto tra l’impianto di Torino e la sponda del Po ha assunto forme orga-nicamente strutturate solo verso la fine del XIX secolo. Problematica era stata la riqualificazione della sponda sinistra con il tardivo abbattimento del “borgo del Moschino” e la costruzione dei Murazzi. Negli anni trenta, in un contesto ancora degradato, erano sorti alcuni palazzi di pregio come quello dell’am-miraglio del Po Bartolomeo Clerico, tra via Pescatore e lungo Po Cadorna: progettato da Luigi Vigitello, avrebbe dovuto costituire uno dei più eleganti edifici neoclassici sulla riva del fiume. L’opera – mai completata – diventa, nel-le sue traversie costruttive, testimone della difficile riqualificazione urbana tra piazza Vittorio e Vanchiglia, seguendo le dinamiche socio-politiche e culturali della città: dalla temperie progressista del periodo carloalbertino e dai fasti – brevi – di capitale d’Italia sino allo sviluppo di fine secolo. Anche il Novecento vi lascia il segno, nelle forme di una frettolosa sopraelevazione dettata dalle speculazioni del dopoguerra.

The link between the Turin layout and the Po river was organically shaped in the late nineteenth century only. Upgrading the left bank and accomplishing the Murazzi river walls meant waiting decades for the decaying “Moschino” bor-ough to be demolished. In the ‘30s, in a still degraded context, some high-level mansions were built: so the one of the Po Admiral, Clerico. Designed by Luigi Vigitello, it was planned to be one of the most elegant neoclassical buildings on the riverbank. Clerico house was never completed according to the original plan, becoming a witness to how problematic the renovation of the area turned out. Its troubled construction phases reflect the dynamics affecting the city: from the progressive policy of the Carloalbertine period to the glorious – but short – role of Turin as capital, from the 1865 crisis to the growth at the turn of the century. The twentieth century left its mark too: a hasty raising as a result of post-WWII building speculation.

Il dialogo tra la città e le sponde del Po ha assunto forme compiute soltanto in tempi relativamente recenti. Per secoli, oltre i confini medievali o seicenteschi del costruito, si era esteso un suburbio spontaneo la cui fisionomia rispecchia-va esigenze e funzionalità legate alle attività fluviali e al collegamento – preca-rio – con la via di Casale1.L’esigenza di pianificare e definire questo ampliamento cittadino nasce, com’è noto, in età napoleonica, fondando le sue basi sui modelli urbanistici fran-cesi2. Gli esiti compiuti, dopo una lunga stagione di proposte e progetti3, saranno tuttavia ascrivibili al periodo della Restaurazione: pur partendo da differenti presupposti, ora funzionali a un nuovo potere assoluto, si arriverà a

Federica Bergamini, architetto, ha conseguito il diploma di specializzazione in Beni archi-tettonici e del paesaggio presso il Politecnico di Torino; funzionario architetto presso la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Como, Lecco, Monza e Brianza, Pavia, Sondrio e Varese.

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conclusioni non dissimili, concependo spazi e rapporti ur-bani in linea con l’idea coeva di città moderna. Il completa-mento del ponte napoleonico e la volontà di asservirlo alla nuova chiesa della Gran Madre, monumento ob adventum regis 4, aveva rafforzato la determinazione di riqualificare nelle forme più alte l’asse della via di Po, di cui il sacrario regio avrebbe rappresentato la fuga visiva. Dal celeberrimo progetto del Frizzi, che rielabora i modelli barocchi dell’e-sedra di Po5, inizia la “modellazione” del nuovo borgo, che fonda il suo lessico su un’interpretazione del tutto moderna dei canoni neoclassici6.I risvolti sul fiume del nuovo grande organismo sono rigi-damente normati nelle volumetrie e negli ornati, secondo uno schema che avrebbe dovuto dare omogeneità all’impat-to visivo dei blocchi, anche sulle vie secondarie. Tali vinco-li, tuttavia, si smorzano inevitabilmente nella pianificazio-ne del tessuto tangente al complesso: se negli isolati della piazza la forma urbana nasce da una visione pubblica e da fondi privati, l’edificazione dei lotti retrostanti – sempre fa-vorita dalla Municipalità – avverrà in forme e modi legati alle singole circostanze. Con l’inizio degli anni trenta si ha una prima sistemazione della sponda con il Quai del Mosca, che però funge da contenimento solo per i blocchi terminali della piazza7. Negli isolati a nord si contano poi alcune pre-esistenze dequalificanti, come il Macello di Po e il malsano e mal frequentato “borgo del Moschino”8. Pochi sono i citta-dini facoltosi che, a partire dagli anni trenta, si sobbarcano l’onere di costruire in un contesto di architetture spontanee o di servizio. Tra questi pionieri troviamo Birago di Vische e Clerico9, quest’ultimo incontrerà le maggiori difficoltà nel portare a compimento la propria impresa.

1. La casa ClericoIn archeologia, un “testimone” è una porzione dello scavo risparmiata per documentarne la stratigrafia; il metodo si applica anche al restauro architettonico per riconoscere e documentare le fasi di un edificio. A una scala maggiore, la persistenza di un singolo fabbricato che sia testimone nello sviluppo urbano è rara e per lo più attiene non a una speci-fica volontà ma ai più vari condizionamenti esterni. Il pre-sente case-study consente di seguire gli sviluppi, le criticità, le circostanze e l’esito attuale dell’ampliamento urbano verso il fiume. Dalla sponda destra del Po è possibile notare come l’u-niformità volumetrica del fronte imponente degli isolati risulti interrotta da un unico elemento di discontinuità: casa Clerico, all’angolo tra via Matteo Pescatore e lungo Po Cadorna. L’edificio è a torre, a sette piani fuori terra e con falda di copertura asimmetrica, raccordato ai palazzi sul fronte fiume da una manica bassa con più fitta scansione delle aperture (Figura 1).Considerando il modello torinese dell’isolato compatto cin-to da palazzate uniformi, il ritmo scazonte di questa com-posizione fa supporre circostanze particolari: se il progetto

originario fosse stato realizzato pienamente, la prospettiva sul Po sarebbe stata omogenea, arricchendosi di uno dei più eleganti palazzi neoclassici in città. Dall’Archivio Storico del Comune di Torino si evince il nome del progettista: Luigi Giacinto Vigitello (1795-1838), ingegnere architetto che, anche insieme al fratello Costantino, aveva già realizzato alcuni notevoli edifici del borgo Nuovo10. I Vigitello possono essere annoverati tra le tante generazioni di architetti formatesi al magistero tori-nese di Bonsignore11 e Talucchi, sebbene il loro indirizzo di laurea fosse squisitamente tecnico, d’ingegneria idraulica o di architettura industriale: una tesi su un “castello d’acqua” per Luigi e su un filatoio per Costantino12. Il lessico compo-sitivo dei loro progetti di edilizia residenziale riflette piena-mente l’interpretazione sobria e pura degli ordini architet-tonici del Bonsignore. La misura con cui vengono trattati gli ornati, gli aggetti, gli sporti tende a rifiutare elementi – compositivi e tipologici – estranei alla tradizione classica: si preferiscono ringhiere in ghisa con motivi a grottesche di neroniana memoria ai balaustri lapidei di sapore neori-nascimentale, tipici del neoclassico ottocentesco di scuola braidese post-piermariniana. Altri architetti di ambito tori-nese ma con spiccate predilezioni lombarde, come il Leoni, avrebbero presto introdotto tali elementi, a superamento della tradizione locale13.Vigitello presenta il progetto di casa Clerico nel 183714 (Figura 2) prevedendo una fabbrica di grande respiro, anche grazie al contesto ampio e arioso (Figura 3): il Po offriva mag-giori possibilità espressive, senza i limiti prospettici imposti da densi tessuti urbani. Egli stesso aveva elaborato soluzioni d’angolo che conferivano ai propri edifici una spiccata mo-numentalità per favorirne la percezione tridimensionale15. Anche in questo caso l’espediente angolare è brillante, con un compatto blocco bugnato a tutt’altezza su via Pescatore.

Figura 1. Casa Clerico vista dalla sponda destra del Po, 2018.

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Vigitello sperimenta qui per la prima volta un doppio or-dine, dorico puro nel registro inferiore e ionico in quello superiore: i fusti sono privi di scanalature, a superamento dei canoni classici16. Il bugnato è ora meno marcato ed ele-gantemente intervallato da lesene singole o binate. L’ordine superiore ritma campiture lisce e si interseca con una sottile fascia a can corrente; di grande eleganza è l’intreccio delle volute ioniche in corrispondenza delle paraste binate. Su

tutto domina la trabeazione, riccamente decorata a girali vegetali e sormontata da una cornice a dentelli. Sul fronte di via Pescatore, nello sfondato centrale, la cimasa si pre-senta invece liscia con fioroni e palmette17. Lo sviluppo del coronamento è infatti ancora ben identificabile, anche se la fabbrica è stata «malamente soprelevata di due piani con parziale scomparsa del cornicione originale»18. In linea con i progetti precedenti è la soluzione dei balconi che alterna due moduli dimensionali e prevede ringhiere in fusione di ghisa dall’alto valore ornamentale19. Il lessico compositivo del Vigitello raggiunge la massima maturità in questo suo ultimo progetto, confermando l’au-tore come una delle figure più rappresentative della prima fase del Neoclassico a Torino. La ricerca di un effetto co-loristico misurato, che si esprime in un linguaggio relativa-mente semplice ma raffinato, dà vita a organismi di somma eleganza, in cui elementi desunti dal repertorio classico, bugnato incluso, giocano con la luce senza mai dare esiti di pesantezza. Eppure, già in questi anni finali della sua breve carriera, si andava diffondendo uno stile dai tratti più mar-cati, con massicce balconate o logge a balaustri lapidei20: un gusto che prelude all’eclettismo del secondo Ottocento.Vigitello non vedrà neppure iniziata l’opera: morirà pochi mesi dopo, il 5 aprile 1838, e la direzione del cantiere passa verosimilmente al fratello minore Costantino21.

Figura 2. Il progetto presentato nel 1837: ASCT, Progetti edilizi, 1837/43.

Figura 3. Ricostruzione che integra i dati dell’elaborato originale con l’evidenza della prima fase costruttiva.

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2. La committenzaIl committente era una personalità legata al contesto della zona, a stretto contatto con il fiume: il “capitano di navi-gazione” Bartolomeo Clerico22. La carica, reminiscenza dell’Ammiragliato del Po istituito da Cristina di Francia, aveva competenze amministrative e di polizia fluviale, fon-damentali per le attività connesse ai corsi d’acqua. La nuova residenza dei Clerico sorgeva infatti a ridosso del Moschino, il principale attracco della flottiglia fluviale23. Il borgo era un coacervo di tuguri privi dei più elementari requisiti igie-nici: principale focolaio di epidemie di colera, come quella del 1866, si trovava da tempo nel mirino della Municipalità. Eppure, il definitivo abbattimento viene deliberato solo nel 187224, consentendo la riqualificazione a nord di piazza Vittorio e rispettando, infine, gli allineamenti stabiliti dai piani di sviluppo redatti dalla Restaurazione in poi25.Clerico era stato tra i primi ad aderire alla proposta comuna-le rivolta ai titolari dei lotti a settentrione perché edificassero

Figura 4. L'isolato di San Valeriano e il borgo del Moschino rappresentati nel Catasto Rabbini (ASTo, Sezioni riunite, Catasto Rabbini, Circondario di Torino, cart. 194, 7, XLII mappa originale del Comune di Torino abitato, 1858-1860).

Figura 5. Pianta dell'isolato di San Valeriano e del borgo del Moschino, piano degli abbattimenti allegato alla delibera del 1872, cfr. nota 24), elaborazione dell'autore.

Figura 6. Nicolas Marie Chapuy, Vue générale de Turin prise de la terrasse du Couvent des Capucins, Paris 1845. Torino, collezione privata, particolare.

Figura 7. Giorgio Sommer, Veduta dal monte dei Cappuccini, 1867 ca., stampa, Torino, collezione privata, particolare.

in forme degne di una città moderna: a loro sono concessi gli stessi privilegi già accordati a quanti avevano costruito sulla piazza26. La parte residua del Moschino occupava l’area nord-est dell’isolato di San Valeriano (tra via Bava e lungo Po) e si estendeva lungo la sponda bloccando il collegamen-to tra corso San Maurizio e via Napione (Figure 4-5). Il de-grado, in questo caso, non era soltanto igienico-sanitario ma anche sociale, e costituiva un grave fattore di allarme collet-tivo, dato anche l’alto tasso di delinquenza27.Molti personaggi di spicco, forse presagendo i futuri espro-pri (dal 1872), avevano acquistato le vecchie case del bor-go28, tra questi Clerico che già possedeva alcune proprietà nell’area. Le attività economiche dei borghigiani erano or-mai condannate a un sicuro declino: nuovi ponti, nuova via-bilità, nuovo acquedotto rendono sempre più marginale il trasporto e le attività fluviali.Nella domanda di concessione edilizia, relativa a una prima fase costruttiva dell’imponente edificio, Clerico si dichiarava

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Figura 8. Il progetto di Debernardi per il primo ampliamento, ASCT, Progetti edilizi, 1873/77.

Figura 9. Il progetto per la manica bassa sul Po, ASCT, Progetti edilizi, 1873/140.

Figura 10. Anonimo, Panorama della Città di Torino, tav. fuori testo al fasc. 4-5 in Torino e l’Esposizione Italiana del 1884, Roux e Favale-F.lli Treves, Torino-Milano 1884.

Figura 11. Il progetto di Tosi per la sopraelevazione della manica bassa sul Po, la parte con soffitta e abbaini non fu autorizzata (ASCT, Progetti edilizi, 1894/94).

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disposto a estendere i lavori a un suo basso fabbricato atti-guo, «sin che piaccia alla Città di farne l’acquisto»29 per poi cederglielo. Il vecchio fabbricato, irregolare, sarebbe stato ricostruito secondo i nuovi allineamenti di via Napione de-finiti dal Piano del 1825. Negli elaborati presentati, a testi-moniare l’idea progettuale, è accluso anche il prospetto sul Po nel suo pieno sviluppo; tuttavia, questo primo lotto sarà di fatto una variante in corso d’opera circoscritta al fronte di via Pescatore e con quattro dei cinque piani previsti: è que-sto lo scenario riprodotto da Chapuy nel 1845 (Figura 6) con il prospetto su fiume limitato allo spessore di manica, scandito da due aperture per piano30.Nella bella fotografia di Giorgio Sommer (1867)31 si nota il viale alberato dell’allora via Napione che termina alla fine del Quai del Mosca; oltre, il coacervo del Moschino negli ultimi anni di vita32 (Figura 7). Quanto a casa Clerico, cui si addossa ancora il basso fabbricato, l’immagine conferma forme e apparati decorativi già compiuti e pronti per i suc-cessivi ampliamenti, mentre la scelta cromatica delle finiture è invertita: lesene chiare risaltano su un fondo più scuro.Per la fase successiva si dovrà attendere il 1873, quando il Comune, con il trauma del trasferimento della capitale e la conseguente crisi del tessuto socio-economico locale, pro-muove riplasmazioni urbane per dare nuovo impulso alle attività produttive: il compimento di grandi opere viarie e idrauliche diventa fondamentale per le industrie emer-genti33. Nuovi fondi governativi, poi, consentono il finan-ziamento degli espropri nel Moschino e la realizzazione del nuovo tratto di Murazzi fino alla testata di corso San Maurizio34.Tocca a un altro Clerico, Giuseppe, portare avanti l’impresa avviata trentasei anni prima da Bartolomeo. Il progettista è ancora una figura di spicco: Antonio Debernardi35 (Figure 8-9). Il corpo principale risulta ampliato di un modulo sul fronte fluviale, ora composto da tre aperture per piano e completato con le restanti lesene e il terminale bugnato a tutt’altezza, simmetrico a quello sulla via36.Nello stesso anno – il 1873 – iniziano gli espropri nel bor-go, interessando anche alcune proprietà dei Clerico37, e, ciò nonostante, il progetto vigitelliano deve subire una rimo-dulazione per due ragioni principali: una servitù di veduta, che limita la nuova manica a soli due piani fuori terra38, e la coartazione planimetrica dovuta all’assegnazione di un lotto attiguo a nord39. Dell’anno seguente è la variante per costruire un terrazzo e gli abbaini in copertura40: solo questi ultimi saranno realizzati come testimoniato da un’incisione su base fotografica del 188441 (Figura 10) e da un’immagine di Giovanni Battista Maggi42.Nel 1894 i nuovi proprietari Adele Clerico e Francesco Meranghini optano per una sostituzione del passo carraio – realizzato nella nuova manica e di fatto sottodimensiona-to – con un accesso più ampio su via Pescatore, dotato di androne aulico e ornato di cancellata mediana con il mono-gramma CMC. Nello stesso anno si chiede l’autorizzazione

per sopraelevare la manica bassa, dotandola di un massiccio balcone con balaustrata lapidea e di una copertura a terrazzo ornata da un parapetto nello stesso stile43 (Figura 11): tale realizzazione – esistente tuttora – riflette pienamente il gu-sto dell’epoca.Qui si sarebbero dovute concludere le vicende delle due maniche ora riequilibrate nelle proporzioni, ma così non è stato: con il frazionamento del palazzo, i proprietari delle soffitte (famiglia Formini) si assicurano i diritti di soprae-levazione. L’intervento, che prevede l’aggiunta di due pia-ni più un sottotetto abitabile, risale alla metà degli anni cinquanta: la composizione e le volumetrie previste da Vigitello sono alterate definitivamente44. Stridono ancora oggi il profilo disomogeneo delle coperture e gli incongrui terrazzi a tasca in sostituzione dei più consoni e tradiziona-li abbaini: l’esito al momento conclude la travagliata storia della fabbrica. La casa è pertanto testimone dei guasti dell’e-dilizia selvaggia, della deregulation urbanistica precedente la definizione di un preciso quadro normativo in materia45, e si conferma come rivelatrice di una serie di varie e complesse dinamiche succedutesi per più di un secolo.

3. Lo sviluppo del quartiere Mentre casa Clerico affronta le sue pluridecennali traver-sie che ne impedivano il completamento, l’intero quartiere continua a svilupparsi a un ritmo vigoroso, accrescendo i le-gami con l’altrettanto espansivo borgo Vanchiglia46.Il tessuto sociale va pian piano trasformandosi: è quanto emerge già prima dell’abbattimento del Moschino. La Guida Generale Illustrata della Città di Torino del 186947 riflette una situazione ormai molto diversa rispetto allo stato degra-dato e depresso di trent’anni prima. Attività e presenze qua-lificate, che si erano estese all’intera piazza Vittorio a partire dall’esedra, iniziano a diffondersi anche verso nord: qui la progressione è, come prevedibile, a macchia di leopardo.Gli artigiani specializzati (mobilieri48, tipografi o rilegato-ri49) sono i primi a insediarvi le proprie attività. Il Vigitello stesso aveva contribuito allo sviluppo produttivo della zona progettando sede e residenza dei fonditori Colla-Odetti in via Barolo 11 e corso San Maurizio 6350.Oltre le numerose bottiglierie che forse rifornivano ancora il Moschino, aprivano i primi caffè come il Brescia (via Bava angolo via Pescatore) e le prime trattorie (Asti, via Bava 2; Primavera, via Pescatore angolo via Giulia di Barolo), ele-vando l’offerta oltre le istanze di mera sussistenza.In questo contesto di sviluppo e rinnovamento si raffor-za il ruolo delle nuove residenze, tra cui il palazzo del marchese Birago di Vische di via Vanchiglia 6, opera del Talentino51 (1839) che firma anche gli eleganti fabbricati di via Bava 7-9, proprietà del segretario di Stato Vincenzo Daziani. Palazzo Birago, che pure al piano terra accoglie la «Panatteria Economica-Igienica di Ariano Felice» ospita ai piani superiori diversi artisti e, al terzo, un medico. Oltre il corso, la famosa casa Antonelli di via Vanchiglia 9-11 con il

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Vera Comoli Mandracci, Torino, «Le città nella storia d’Italia», Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 93-117. 4 La costruzione del ponte risale agli anni 1810-14 su progetto di La Ramée Pertinchamp (1808), mentre il decreto per erigere la chiesa della Gran Madre di Dio è del 1814: com’è noto, i lavori saranno avviati molto più tardi (1827) risultando quasi contem-poranei alla piazza Vittorio. Si vedano Comoli Mandracci, Torino cit., pp. 111 e 126-132; Beni culturali ambientali nel Comune di Torino, vol. I, Politecnico di Torino, Dipartimento Casa-Città, Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino, Torino 1984, pp. 336 e 627; Agostino Magnaghi, Mariolina Monge, Luciano Re, Guida all’architettura moderna di Torino, Lindau, Torino 1995, pp. 15 e 17.5 Cfr. Mauro Volpiano, Una immensa piazza «per la venuta del re», in Vera Comoli, Rosanna Roccia (a cura di), Progettare la città. L’urbanistica di Torino tra storia e scelte alternative, Archivio sto-rico della Città di Torino, Torino 2001, pp. 217-222. Interessanti le circostanze che hanno portato all’approvazione del progetto del Frizzi: il Vicariato lo promuoveva mentre la maggioranza del Consiglio degli Edili era contraria. Il conflitto verteva non solo su come concepire la forma della città o le pratiche dell’espansio-ne urbana, ma soprattutto sulla gestione del potere di controllo: il Consiglio sarà di fatto esautorato dall’affaire della piazza, che verrà gestito esclusivamente dal Vicariato. Si veda in proposito: Filippo De Pieri, Il controllo improbabile. Progetti urbani, buro-crazie, decisioni in una città capitale dell’Ottocento, FrancoAngeli, Milano 2005, pp. 65-66.6 All’Olivero si deve la rivalutazione del patrimonio edilizio ne-oclassico torinese con i suoi contributi degli anni ‘20, riediti in una monografia del 1960: Eugenio Olivero, L’Architettura in Torino durante la prima metà dell’Ottocento, Tipografia Carlo Accame, Torino 1960. L’austera monumentalità di forme unita alla forte razionalità del Neoclassico di scuola lombarda e tici-nese sono state le matrici fondamentali per il successivo sviluppo dello stile a Torino, che ha assunto caratteri propri interpretan-do i canoni stilistici in chiave più misurata si veda l’enfasi data agli sporti e alla loro decorazione. Un esempio di ciò si ravvisa nell’opera del ticinese Leoni: Walter Canavesio, Giuseppe Leoni di Breganzona. Un architetto luganese nella Torino neoclassica, in Svizzeri a Torino nella storia, nell’arte, nella cultura, nell’eco-nomia dal Quattrocento a oggi, in «Arte e Storia», LII, Lugano 2011, pp. 570-587. La tradizione persiste oltre la metà del seco-lo, pur con innesti di gusto lombardo-ticinese: casa Rodi di via Vanchiglia 27, un elegante palazzetto con atrio tetrastilo ionico, mostra ancora ringhiere in ghisa e non già le balaustrate tipiche dell’eclettismo, di cui il progettista, Camillo Riccio (allievo del Promis), pure sarebbe stato esponente. Questa sua prima realiz-zazione (ASCT, Progetti edilizi, 1866/52) è d’impostazione an-cora accademica, ma già rivela gli orientamenti della cattedra di architettura civile in cui Riccio succederà al Promis. Così viene rievocato nell’elogio funebre: «Ricordiamo quegli esemplari di stampe autografate che ci distribuiva [...] e coi quali facevamo per la prima volta conoscenza delle Cancellerie, dei palazzi Farnese, delle Fornasine, dei palazzi di Venezia, dei palazzi Gondi e via di-cendo. L’uso di quelle autografie era stato ideato dal Promis [...] Fu allora che per la prima volta si insegnarono i primi rudimenti dell’architettura, prendendo per guida le opere concrete dei nostri grandi Maestri del Rinascimento; si abbandonò quell’uso danno-so che si era fatto precedentemente colle stampe degli ordini del Vignola» in Grescentino Caselli, Commemorazione dell’Archi-tetto Camillo Riccio, «Atti della Società degli Ingegneri e degli

suo Caffè Galileo, e altri stabili di pregio, catalizzano pre-senze e attività qualificate, come pedine su uno scacchiere da riconvertire per gradi. A casa Antonelli dimorano pittori, tra cui Camillo Righini, professore d’Accademia52.La temperie politico-culturale del Piemonte, da Carlo Alberto in poi, aveva attratto personalità da tutta Italia: in via Vanchiglia 21 abita il perugino Ariodante Fabretti, diret-tore del «Regio Museo di Antichità ed Egizio» e professore di Archeologia classica alla Regia Università. In contrada de’ Pescatori 7, oggi via Pescatore 15, dal 1849 al 1853 dimora lo statista Francesco Crispi.Molti ormai i professionisti, che spaziano dalla giurispru-denza53 alla sanità54 e alla cultura55: tra questi ultimi il poeta Giovanni Prati, politico e storiografo ufficiale della dinastia, che risiede in piazza Vittorio 23, all’angolo con il lungo Po, dove abitano anche due scultori.

4. Un quadro compiutoLa prospettiva fluviale si può considerare sostanzialmente compiuta all’alba del Novecento, conferendo a questa parte della città, forse la più rappresentativa, il dovuto e voluto decoro. Non a caso, è la più riprodotta sia in pittura, sia in fotografia. Proprio gli artisti sembrano suggellarne tale vo-cazione: ad entrambe le estremità del fronte troviamo le palazzine di due valenti pittori. A sinistra, quella di Carlo Bossoli, all’angolo tra lungo Po Diaz e via Giolitti56; a destra, quella di Vittorio Avondo, tra il Po e via Napione, ora sede della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti. Di certo, il palazzo del Vigitello con la sua composta eleganza avrebbe conferito fascino ancor maggiore a questo eccezio-nale scorcio del paesaggio urbano.

Note1 Già nel Seicento, con il progetto della «città nuova di Po» di Castellamonte (1673), crebbe la volontà di elevare l’asse piazza Castello-contrada di Po a nuova arteria cittadina, nell’ambito di un preciso disegno politico che plasmava il territorio secondo punti di fuga che si irradiavano dal luogo simbolo del potere: il Castello. Si veda: Andreina Griseri, Urbanistica, cartografia e anti-co regime nel Piemonte sabaudo, in «Storia della città», n. 12-13, Milano 1980, pp. 19-38.2 «una nuova idea di funzionalità [...] per committenti che, a Torino, non erano più solo i duchi e la corte, ma una nuova borghesia di imprenditori, banchieri, costruttori, alti funzio-nari, professionisti affermati»: Andreina Griseri, L’architettura piemontese nei primi decenni del secolo, in Id., Roberto Gabetti, Architettura dell’eclettismo. Un saggio su G. B. Schellino, Einaudi, Torino 1973, p. 23.3 Basti pensare alla grande varietà di progetti di questa fase iniziale: dai primi di Bonsignore, Boyer, Lombardi (1802) e Pregliasco (1802) a quelli di Dausse (1805) e La Ramée Pertinchamp (1808), fino al Plan Général d’embellissement del 1809. Nella seconda fase, relativa al ritorno dell’ancien régime, troviamo i progetti di Lombardi con l’ampliamento a sud-est (1817) e di Ernest Melano che prevedeva una piazza d’armi tra-sversa alla via di Po (1817): una vera e propria “chiusura” della città verso il fiume per favorire i controlli della cinta daziaria. Cfr.

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Architetti in Torino», 11 (1899), pp. 78-86. Per il neoclassico lombardo si vedano: Gianni Mezzanotte, Architettura neoclassica in Lombardia, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1966; Anna Maria Brizio, Interventi urbanistici e architettonici a Milano du-rante il periodo napoleonico in Napoleone e l’Italia, Roma 1973, pp. 413-426; Fernando Mazzocca, Alessandro Morandotti, Enrico Colle, Milano neoclassica, Longanesi, Milano 2001. Per i ticinesi a Torino si veda Svizzeri a Torino cit. e, in particolare, i seguenti contributi presenti nella rivista: Andrea Spiriti, Artisti e architet-ti svizzeri a Torino. Le ragioni della continuità, pp. 56-65; Elena Dellapiana, La presenza degli svizzeri nell’Università di Torino tra il 1740 e il 1850, pp. 352-359.7 La costruzione fu decretata il 25 febbraio 1834: ASCT, Regi Biglietti 1834-1848, serie 1K, n.10, f.13.8 Per l’espansione a notte di piazza Vittorio: Paolo Scarzella (a cura di), Torino nell’Ottocento e nel Novecento. Ampliamenti e trasformazioni entro la cerchia dei corsi napoleonici, Politecnico di Torino, Dipartimento di Ingegneria dei Sistemi Edilizi e Territoriali, Celid, Torino 1995, pp. 506-519.9 «la realizzazione [...] di prestigiosi palazzi di residenza e d’affit-to venne progressivamente a compensare l’influenza negativa delle presenze suddette [Macello e Moschino]. Si tratta, in particolare, dei palazzi Barabino (del 1835, in via Giulia di Barolo 12), Clerico (del 1837, in via Pescatore 17), Birago di Vische (del 1839, in via Vanchiglia, 6)»: Ibid., p. 508.10 Sulle figure dei Vigitello si vedano Giovanni Maria Lupo (a cura di), Ingegneri Architetti Geometri in Torino. Progetti edilizi nell’Archivio Storico della Città (1780-1859), in «Storia dell’urba-nistica. Piemonte/III», Roma 1990, pp. 132-133 (le attribuzioni all’uno e all’altro dei fratelli sono in parte da verificare); Filippo Morgantini, Luigi e Costantino Vigitello architetti a Torino, in Enrica Ballaré, Gianpaolo Garavaglia (a cura di), Una lunga fe-deltà all’arte e alla Valsesia. Studi in onore di Casimiro Debiaggi, Borgosesia 2012, pp. 269-298. Sul borgo Nuovo: Mila Leva Pistoi, Maddalena Piovesana, Borgo Nuovo. Un quartiere torinese tra storia e vita quotidiana, Celid, Torino 2000.11 Sul Bonsignore si vedano Luciano Re, Maria Grazia Vinardi, Ferdinando Bonsignore. L’opera e i tempi, in Il tempio della Gran Madre di Dio in Torino, catalogo della mostra, Torino 1984; Walter Canavesio, Filippo Morgantini, Ferdinando Bonsignore, in Saur Allgemeines Künstlerlexikon, vol. XII, Monaco-Lipsia 1996, pp. 612-613; Augusto Sistri, Ferdinando Bonsignore: architetto Neoclassico, in Pier Luigi Bassignana (a cura di), Di architetti di chie-se e di palazzi, Torino 2002, pp. 235-267; Ferdinando Bonsignore. Da Roma a Torino, dall’Antico Regime alla Restaurazione, catalo-go della mostra, Archivio Storico della Città di Torino, Torino 2002; Laura Guardamagna, Augusto Sistri (a cura di), Ferdinando Bonsignore, architetto del disegno, architetto civile, Archivio Storico della Città di Torino, Torino 2004; Elena Dellapiana, Ferdinando Bonsignore (1760-1843), in Angela Cipriani, Gian Paolo Consoli, Susanna Pasquali (a cura di), Contro il Barocco. Apprendistato a Roma e pratica dell’architettura civile in Italia 1780-1820, Roma 2007, pp. 399-404.12 Cfr. Morgantini, Luigi cit., p. 278.13 Cfr. Canavesio, Giuseppe cit., pp. 570-587.14 ASCT, Progetti edilizi, 1837/43, presentato il 31.08.1837. Del progetto si realizzò solo la prima fase, tuttora esistente.15 Morgantini, Luigi cit., p. 286. La parcella di Luigi Vigitello a Bartolomeo Clerico ammontava a Lire 1363. Così risulta dall’e-lenco dei crediti vantati dallo studio al momento della mor-te (5 aprile 1838), inserito nell’Inventario dell’eredità del Sig.

Ingegnere Architetto idraulico e civile Luigi Giacinto Vigitello: Ibid., p. 289 e nota 55.16 Una differenza marcata rispetto ai precedenti progetti: casa Michel (via della Rocca 20) ordine corinzio, case Claretta (via della Rocca 27-29) e Operti (via Mazzini 15-19) ordine ionico, casa Rosso (via Mazzini 22) con soluzione ibrida. Si noti l’affini-tà di stile con le opere milanesi del ticinese Luigi Canonica: casa Claretta (1835), come molte altre, richiama gli stilemi di palaz-zo Anguissola Antona Traversi (1829) in via Manzoni 39-41 a Milano.17 Il progetto originario prevedeva solo l’avancorpo angolare: quello opposto su via fu aggiunto in corso d’opera, come suggeri-sce una veduta fotografica del 1867 (cfr. nota 31).18 Morgantini, Luigi cit., pp. 286, 288. 19 Vigitello predilesse le ringhiere metalliche di tipo a grottesche, in versioni più o meno elaborate. Lo stile si ravvisa anche in con-testi aulici come Villa Luserna di Rorà a Campiglione-Fenile. La corrispondenza tra le ringhiere seriali di quest’ultima e quelle di casa Claretta a Torino fa supporre un controllo diretto del proget-tista. Canavesio attribuisce a Giuseppe Leoni l’intervento sui bal-coni riferendolo a casa Clerico, tuttavia la pratica ASCT, Progetti edilizi, 1858/41 concerne una proprietà Gioacchino Clerico che non risulta in via Pescatore. Si tratta con tutta probabilità di uno stabile in via Santa Teresa, contiguo al civico 11, ora distrutto. La tavola indica come confinanti il “Marchese Palavicini” a sini-stra, il “Conte Viale” a destra. Per il primo cfr. ASCT, Progetti edilizi, 1851/1 e 1852/54, per il secondo ASCT, Progetti edilizi, 1846/70. Cfr. Canavesio, Giuseppe cit., p. 584 e nota 74.20 A fine anni trenta si avranno i primi esempi di tale evoluzione nel borgo Nuovo ad opera di architetti come Formento, Leoni o lo stesso Promis; altri, come il Talentino, si mostrarono più a pro-prio agio con il lessico precedente. Cfr. Olivero, L’Architettura cit., p. 18 e fig. 18.21 Morgantini, Luigi cit., p. 290 sgg. L’inizio dei lavori deve aver tardato: una veduta del 1845 da Villa della Regina, mostra un cantiere aperto, mentre l’edificio retrostante di via Pescatore 15 (ASCT, Progetti edilizi, 1838/25) sembra già completato. Cfr. Ada Peyrot, Torino nei secoli. Vedute e piante, feste e cerimonie nell’incisione dal Cinquecento all’Ottocento, vol. II, Torino 1965, p. 699-700. 22 Sulla famiglia Clerico si veda: Giuseppina Pellosio, Paroni di barche a Torino. La famiglia Clerico in Borgo Po, Centro Studi Piemontesi, Torino 2018, in particolare sulla figura di Bartolomeo pp. 135-153. Sulle vicende di casa Clerico si veda il compendio in Scarzella, Torino cit., p. 514 sgg.23 Bartolomeo Clerico ebbe le patenti di “Capitano delle barche sovra il Po” il 13 settembre 1814: Ibid., p. 152. Sull’Ammiraglio del Po: Gian Enrico Ferraris, Il Moschino. Origini e leggende di Borgo Vanchiglia, Graphot, Torino 2003, pp. 21-26.24 ASCT, Atti Com., 1872, p. 219 e sgg.25 Un primo piano redatto da Frizzi è del 1825 (ASCT, Tipi e disegni, 62-5-33); il 27 novembre 1852 la Città adottò il «Regio Decreto per lo Ingrandimento parziale della città nel quartiere Vanchiglia e sue attinenze», accogliendo la proposta avanzata dal Promis.26 Cfr. Scarzella, Torino cit., pp. 513-515.27 Famose erano le coche, o cosche di veri e propri banditi, contra-state invano dalle forze dell’ordine. Cfr. Ferraris, Il Moschino cit., pp. 35-59.28 Ad esempio l’ing. Pietro Spurgazzi, poliedrico progettista e Segretario Generale del Ministero Lavori Pubblici.29 Cfr. nota 14.

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30 Nicolas Marie Chapuy, Vue générale de Turin prise de la terrasse du Couvent des Capucins, Paris 1845 in Peyrot, Torino nei secoli cit., p. 696.31 Torino, coll. privata. Cfr. Archivio Alinari, Firenze, Collez. Favrod, RMFA FCC-F-011108-0000.32 La consistenza del “borgo del Moschino” prima dell’abbattimen-to appare chiaramente leggibile dal rilievo puntuale in Antonio Rabbini, Mappa originale del Comune di Torino, detta “Catasto Rabbini”, 1866. Archivio di Stato di Torino (ASTo), Riunite, Finanze, Catasti, Catasto Rabbini, ff. XL, XLII. Per una lettura critica del processo di taglio dell’area e di risanamento, si riman-da alla sezione specifica in Pia Davico, Chiara Devoti, Giovanni Maria Lupo, Micaela Viglino, La storia della città per capire, il ri-lievo urbano per conoscere. Borghi e borgate di Torino, Politecnico di Torino e Città di Torino, Torino 2014, pp. 263-273.33 In zona si cita la deviazione del canale della Ceronda che nel suo ramo meridionale, in Vanchiglia, dava energia a stabilimenti come la Venchi, e confluiva nel Po sulla direttrice di via Artisti.34 La sovvenzione per l’esproprio delle case del borgo ammonta-va a L. 470.000 oltre ai costi di costruzione del nuovo tratto di Murazzi: ASCT, Atti Com., 1872, pp. 219 sgg.; 1872-1878. 35 ASCT, Progetti edilizi, 1873/77, 1873/140. Debernardi ave-va già realizzato il Mattatoio Civico che dal 1867 sostituiva il Macello di Po. Per una scheda sul progettista: Lupo, Ingegneri cit., pp. 45-49.36 La si vede ben ritratta in una nota veduta della collezio-ne Simeom, datata 1880 circa. Cfr. Immagini della Collezione Simeom, ASCT, Torino 1983, p. 174.37 Lotti a nome Clerico Giuseppe: sezione Po, n. LI, lotti G, F, V, X, indicati in Edoardo Pecco, Piano generale dei caseggiati esi-stenti sulla sponda sinistra del Po e la via Bava nella località detta Moschino con le progettate demolizioni (allegato alla delibera del 18 maggio 1872, cfr. nota 24).38 Il contratto stipulato con la Città il 27/9/1873 assegnava al Clerico il lotto corrispondente alla mera area del basso fabbricato preesistente e ne limitava l’altezza massima a 9,25 m, recependo gli effetti di una servitù di veduta (atti richiamati in ASCT, Progetti edilizi, 1894/94) a favore di un terrazzo interno all’isolato e di proprietà del ricorrente avv. Luigi Flandinet (ASCT, Progetti edi-lizi, 1858/33).39 Su di esso si sarebbe impostato il grande caseggiato di lungo Po Cadorna 5-7 opera di Luigi Bologna, proprietà dell’artista e di-rettore dei Musei Civici Vittorio Avondo (ASCT, Progetti edilizi, 1878/55).40 ASCT, Progetti edilizi, 1874, 112. L’affermazione in Scarzella, Torino cit., p. 515, che data la costruzione di questa manica a dopo il 1885, anno in cui i Clerico avrebbero riacquisito il vetusto e bas-so fabbricato, pare forse da rivedere.41 Anonimo, Panorama della Città di Torino, tav. fuori testo al fasc. 4-5 in Torino e l’Esposizione Italiana del 1884, Roux e Favale -F.lli Treves, Torino-Milano 1884.

42 L’avanzamento lavori della Mole, ritratta con ancora la tettoia provvisoria alla base del tempietto, fa ipotizzare una datazione ai primi anni ottanta.43 ASCT, Progetti edilizi, 1894/94. Progettista Giacinto Tosi. Il progetto, come quello del Debernardi, prevedeva una soluzione mista di copertura con una parte a terrazzo e l’altra a doppia falda con soffitte non autorizzate e perciò espunte. L’innalzamento poi oltre quota +9,25 (11,70 m) previde assenso scritto del nuovo ti-tolare del terrazzo interno.44 Quest’ultima sopraelevazione si inserisce nel quadro del genera-lizzato aumento di cubatura che coinvolse l’edilizia torinese in pie-no boom economico: tali interventi si sono spesso rivelati avulsi dallo stile e dal carattere delle relative preesistenze. Cfr. nota 18.45 A partire dalla Legge 21 dicembre 1955, n. 1357 (G.U. 14/1/1956, n. 11).46 Grande impulso allo sviluppo di Vanchiglia venne da Giulia Falletti di Barolo che finanziò molte iniziative tra cui la costruzio-ne della chiesa di Santa Giulia. Celebre poi l’azione dell’Antonel-li che già nel 1844 aveva avanzato una proposta di lottizzazione tramite la Società dei Costruttori di Vanchiglia. Cfr. Ferraris, Il Moschino cit., p. 45 sgg. 47 Guida Generale Illustrata della Città di Torino. Anno 1869, Tipografia G. Baglione e comp., Torino 1869.48 Al pianterreno di casa Clerico (ai civici 9-11 dell’allora «con-trada de’ Pescatori») si era installato il mobiliere Giovanni Montecchi. Al civico 7, ecco un altro ebanista: Giuseppe Pozzi.49 «Lineatore di carta Mosso Giovanni, contrada de’ Pescatori, n.5», attività probabilmente indotta dalla Stamperia Reale di via Vanchiglia 16, presso la quale, “alla bisogna”, era reperibile un «Uomo di lettere». Si segnala poi il «Fonditore di caratteri» Biffi Giacomo, in via Vanchiglia 17, e il «Falegname per oggetti tipografici» Castiglione Giacomo & Figli in via Bava 10.50 ASCT, Progetti edilizi, 1835/38 e 1837/49.51 Lupo, Ingegneri cit., pp. 121-122.52 Cfr. Scarzella, Torino cit., p. 508 sgg.53 Dall’avvocato Chiesa in via Bava 7 (casa Daziani) all’afferma-to legale Giuseppe Flandinet (il detentore della servitù di veduta che limitava il progetto di Debernardi, cfr. nota 35) in contrada de’ Pescatori 7-9, sino al notaio Craveri in via Bava 9 (altra casa Daziani).54 Titolare di attività inerente lo sviluppo non urbanistico ma de-mografico, la levatrice Antonietta Deconsoli abitava anch’essa in una casa Daziani, quella di via Bava 7. 55 Le damigelle Marianna e Margherita Lamberti, impartivano lezioni di francese nella casa di via Bava 5, e altrettanto faceva il maestro di canto Cavalier Giuseppe Lamberti, forse della stessa famiglia.56 Proprio al Bossoli dobbiamo la grande, onirica Veduta ideale del Borgo Po dipinta nel 1863, ora alla GAM di Torino: la sua pa-lazzina sul fiume significava proprio l’avverarsi, almeno parziale, di un sogno.

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CRISTIANO TOSCO

Tutte le strade portano a Torino. Una lettura della rete tranviaria extraurbana a partire dalle sue permanenze materialiAll the roads bring to Turin. A reading of the extra-urban tramway network starting from its material persistence

AbstractIl contributo propone un’indagine “neo-materialista” sulla storica rete tramvia-ria extraurbana torinese, scomparsa definitivamente nel secondo Dopoguerra.Singoli manufatti permangono quali testimonianze nel paesaggio contempora-neo e, seppure tra loro scollegati, compongono un frammentario mosaico di ele-menti attraverso i quali ripercorrere il racconto di un territorio non più visibile.L’indagine sul campo assume un ruolo centrale nella selezione e nella lettura di questi oggetti ancora esistenti (ex stazioni, ricoveri ecc.), e permette di con-siderarli quali testimonianze attive nei processi territoriali legati alla viabilità. Le attuali criticità nei servizi pubblici di trasporto extraurbano rappresentano l’opportunità per riflettere sul valore di queste infrastrutture eliminate, sovra-scritte, sostituite e abbandonate, pensando a sviluppi e strategie per il futuro che partono proprio da questi manufatti che divengono, a tutti gli effetti, un patrimonio culturale locale.

The text proposes a “neo-materialistic” survey on the historical extra-urban tram-way network of Turin, permanently disappeared in the second post-war period.Individual artefacts remain as witnesses in the contemporary landscape and, even if they are disconnected between them, they define a fragmented mosaic of elements by which retracing the tale of a no longer visible territory.The on-site investigation assumes a central role in the selection and in the reading of these still-existing objects (former stations, shelters, etc.) and it allows consid-ering them as active witnesses in the territorial processes linked to the viability. The present critical issues in the public transportation services represent the op-portunity to reflect about the value of these infrastructures which were deleted, overwrite, substituted and abandoned, thinking on developments and strategies for the future that have their starting point just from these artefacts which become a full-fledged local cultural heritage.

1. Introduzione: una breve storia ufficialeRacconti e testimonianze che la documentazione storica1 ci offre a proposito dei tram che, tra fine Ottocento e inizio Novecento, da Torino si immergevano nel territorio rurale, stabiliscono i limiti della conoscenza indiretta del fenomeno che si vuole qui osservare. L’obiettivo di questo contributo non è quello di am-pliare tale bacino di conoscenza stratificata e già depositata negli archivi2, quanto piuttosto di definire un campo di esistenza contemporaneo dove le tracce e le permanenze materiali di questa rete infrastrutturale possono assumere un ruo-lo attivo nella definizione di politiche, scelte e progetti possibili per integrare e migliorare i trasporti pubblici nel territorio che circonda il capoluogo. Non è

Cristiano Tosco, architetto laureato in Architettura per il Progetto Sostenibile a Torino nel 2017, borsista di ricerca presso il DAD del Politecnico di Torino; membro ope-rativo in attività di ricerca e progettazione per la piattaforma “bananathinktank”.

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tuttavia possibile prescindere da un inquadramento “ufficia-le” del fenomeno, e quindi da una sua lettura attraverso la len-te sistematizzata e collaudata delle informazioni documentali.Le linee di trasporto pubbliche torinesi iniziarono a consoli-darsi per servire la crescente industrializzazione che tra XIX e XX secolo ha definito tracciati ancora oggi ben demarcati, rotte di consumo e di trasporto che permangono nell’assidu-ità dei flussi umani quanto nella loro posizione economica-mente strategica. Il Piano Unico Regolatore del 19083 aveva infatti proposto, tra le altre cose, una strategia che agevola-va la crescita industriale della città individuandone i centri principali a ovest (dove già esistevano opifici e stabilimenti lungo il fiume Dora e dove poi sarebbero sorti, ad esempio, la ThyssenKrupp e il grande complesso che comprendeva le Ferriere Fiat, la Michelin, la Savigliano e la Paracchi, oggi Parco Dora), sud e nord (per esempio, con l’espansione pe-riferica delle sedi Fiat). Il sistema seguiva dunque i tracciati fluviali principali di Po, Dora, Stura, Sangone (con relative canalizzazioni derivate) e definiva, in linea con le strade esi-stenti, nuove possibilità per le infrastrutture extraurbane che dal cuore nobile della città si immergevano oltre la periferia, corrodendo lentamente i limiti canonici e ormai vacillanti tra urbe e campagna. L’industria non era infatti localizzata solo a Torino: il territorio circostante divenne ben presto un ric-co bacino di opportunità da sfruttare in forme più o meno pesanti di produzione, in particolare in ambito tessile, mec-canico e chimico. Periferie e centri agricoli si apprestavano ad affrontare una crescita industriale diffusa e l’urgenza dello sviluppo richiedeva di implementare e densificare la rete di trasporti tra capoluogo e proprio intorno.

Tra la fine del XIX secolo e la metà del XX si assistette, infatti, alla sistematizzazione infrastrutturale dei trasporti rappresen-tata in particolare dalla rete ferroviaria e da quella tranviaria. La prima, attualmente in uso, affonda le radici nei primi anni del regno, quando Torino era capitale e la copertura ferrovia-ria era una priorità. La seconda costituiva invece una densifi-cazione dei collegamenti: in analogia con i livelli gerarchici della mobilità, le linee tramviarie erano il tessuto secondario, a saturazione delle obbligate lacune che i tracciati ferroviari lasciavano (Figura 1). Ma la differenza tra le due veniva sanci-ta anche giuridicamente da una legge del 18964, per la quale, mentre le ferrovie dovevano essere dotate di sede propria, le tramvie si installavano su strade preesistenti e coesistevano con il regolare traffico, allo stesso livello stradale. È chiaro, quindi, come tale rete si prestasse a un’adattabilità unica, ele-mento chiave nella sua diffusione regionale (vicende analoghe sono rintracciabili per altri territori italiani, ad esempio intor-no a Milano, Roma o Firenze) e nel suo frequente impiego per collegare centri non connessi con le grandi città tramite le ferrovie. Il costo ridotto, la facilità di gestione, la versatilità, la facile dismissione e la superfluità di stazioni se non per il ricovero, resero le tramvie uno strumento vincente in territo-rio italiano5. La rete tramviaria attorno a Torino si sviluppò in anni nei quali quella ferroviaria risultava già completata e attiva: si trovò dunque a saturare e a interagire6 con il sistema primario dei trasporti, generando interessanti esiti materiali dispersi sul territorio.Le linee tramviarie extraurbane per Torino erano un tota-le di nove, la prima delle quali – tra Torino e Moncalieri – aprì nel 1874 (a trazione animale) per poi convertirsi in alimentazione a vapore nel 1879, estendersi fino a Poirino nel 1881 ed elettrificarsi nel 1904. Seguirono quindi quelle verso Giaveno, Rivoli, Brusasco, Saluzzo, Piobesi, Volpiano, Venaria e Settimo (nel 1884).Il minimo comune multiplo di queste nove linee era di es-sere tutte collegate con Torino, centro che diventava, nella sua apertura verso il territorio produttivo, il nucleo del siste-ma, dal quale tutto partiva e dove tutto ritornava. Attorno al 1914-1915 risale la massima estensione del sistema a va-pore/elettrificato7, che visse ancora un lungo periodo di uti-lizzo fino al secondo conflitto mondiale, durante il quale le linee assunsero un ruolo centrale negli sfollamenti durante gli allarmi e i bombardamenti. Negli anni del Dopoguerra la rete soffrì i danni dell’incuria e della mancanza di manu-tenzione, in parte conseguenza dell’avanzare dell’automobi-le che, in particolare nella città della Fiat, stava divenendo una prerogativa per chi se la poteva permettere (Figura 2). Gradualmente, i binari furono smantellati per far posto a strade sempre più asfaltate e gli edifici che distribuivano la rete sul territorio accolsero nuovi utilizzi o subirono lo stato di abbandono. La stagione della rete tramviaria extraurbana torinese si chiuse con il 1958, i suoi binari vennero dismessi, e i fabbricati di servizio, riutilizzati o meno, rimasero immo-bili testimonianze nel paesaggio.

Figura 1. Tramvie extraurbane e ferrovie intorno a Torino, concesse al 1935 (elaborazione di Miriam Quassolo).

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Figura 2. Sviluppo e declino della rete tramviaria extraurbana. La linea continua indica l’apertura di una linea, quella tratteggiata la chiusura (elaborazione di Miriam Quassolo).

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2. Per una metodologia d’indagine puntualeUna volta descritti i contorni storiografici di questa vicen-da territoriale, attraverso la documentazione bibliografica e archivistica, l’analisi può procedere arricchita da un’irri-nunciabile consapevolezza globale e storica del fenomeno. L’approccio metodologico proposto si concentra sull’analisi sul campo e sull’osservazione diretta di un quadro fenome-nologico definito. Attraverso sopralluoghi mirati, la ricerca si muove sul territorio con le braccia operanti della fotoca-mera, delle descrizioni testuali e dei disegni, mirando a for-nire impressioni e strumenti per stabilire un punto di vista scientifico della vicenda delle tramvie e delle loro perma-nenze. Il senso di questo approccio risiede nell’ampliamento delle possibilità della ricerca, che da statica si fa dinamica, e nel ruolo rivestito dagli oggetti in questa estesa narrazione territoriale, che da elementi passivi si fanno soggetti attivi. Tale attivazione è una suggestione che deriva dal modo con il quale si interroga il dato materiale e lo si pone al centro di specifici accadimenti, in questo caso, di una storia locale. Si delinea quindi un protocollo che ha i tratti dell’esperimen-to, dove ogni traccia viene indagata e catalogata, osservata per la propria collocazione rispetto alla rete della quale fa parte e archiviata. In questo modo è possibile confrontare i risultati di ciascuna indagine specifica, confezionando una lettura tassonomica che permette di raggiungere l’obiettivo intermedio della definizione quali-quantitativa di uno stato dell’arte dei fatti materiali.È da sottolineare, affrontando i termini metodologici dello studio, che questa indagine di stampo “neo-materialista”8 as-sume il campo di studio in forma pretestuale per testare degli strumenti consolidati, in un protocollo che sperimenta una conoscenza focalizzata principalmente sugli oggetti. D’altro canto, gli aspetti operativi della ricerca si intrecciano con gli interessi personali. In questo senso l’attenzione metodica riposta sulle permanenze materiali dell’ex rete tramviaria è controbilanciata da una scelta soggettiva. A supportare l’ine-vitabilità della personalità della ricerca, Eugenio Turri scrive che: «l’inserimento dell’elemento episodico, particolare, in un quadro più vasto è un’operazione che si può fare in modi diversi a seconda degli interessi personali, anche se tutti […] partiranno, come notava Humboldt, da un’emozione, primo momento di ogni rapporto con il paesaggio»9. Ed è proprio a partire da interessi personali che nasce questo studio. Ricordi, memorie, racconti ed evidenze di continue trasformazioni spingono l’occhio indagatore a concentrarsi sui dettagli, per poi apprendere che questi sono parte di un sistema più am-pio. In questo modo la ricerca tende all’azione, è operativa nel trovare connessioni e interpretarle. Essa si muove nella direzione del connettere i dati materiali che permangono con le questioni immateriali presenti e passate, in modo da poter finalmente costruire il palinsesto entro il quale prefigurare perturbazioni. La ricerca è, insomma, già progetto.I resti materiali dispersi nel paesaggio intorno al capoluogo si fanno testimoni10, testimoni della rete di cui furono parte

integrante, testimoni di chi li ha costruiti e del perché, testi-moni di paradigmi sociali e ambientali differenti. Gli ogget-ti diventano ponti con il passato e con il plausibile, con delle realtà laterali che impostano l’immagine del paesaggio come differente in funzione degli oggetti stessi che la costituisco-no. N paesaggi differenti sono immaginabili a partire dalle testimonianze di questi oggetti, tutti connessi ai processi che la componente materiale ha innescato nel territorio e che ne mantiene vivi i caratteri di palinsesto già attribuitigli da André Corboz nel 198511.Elencare tutti i manufatti che hanno avuto a che fare con le linee tramviarie è un’operazione quasi impossibile per-ché significherebbe occuparsi di ogni fabbrica, abitazione, ristorante o edificio che ha intessuto relazioni sociali ed economiche attorno alla rete di trasporto. Questo conduce necessariamente a operare una selezione che deve tenere in considerazione quali manufatti hanno stretto un maggior numero di relazioni con la rete e quindi fra di loro: quali di essi, in altre parole, hanno fatto da nodi nevralgici della rete. Per la ricerca di questi poli sul vasto territorio in questione (che si spinge fino alle porte di Cuneo) è doveroso far notare come autori e appassionati abbiano contribuito alla produ-zione open source di database dello stato dell’arte, fornendo una cospicua base di riferimento per l’impostazione opera-tiva della ricerca12.

2.1 Sulle tracce dei binari: sistematizzare le permanenzeIn generale si può affermare che le tracce rimaste della rete tramviaria non si palesano per caratteristiche formali o stili-stiche comuni quanto per la posizione lungo assi più o meno fondamentali per la viabilità dei centri nei quali si trovano. Nonostante l’abbandono, la manipolazione e la trasforma-zione funzionale dei beni in questione, essi disegnano preci-si disegni territoriali confluenti nel capoluogo.Le permanenze della rete tranviaria possono essere classifi-cate attraverso due modelli ricorrenti.Le stazioni e i ricoveri, per ragioni logistiche, appaiono spes-so comunicanti tra loro nello spazio di un lotto, sufficiente-mente ampio da fungere quale snodo strategico per il ricove-ro e la riparazione dei mezzi, oltre che punto di riferimento per il personale e per i passeggeri (Figura 3). Rari casi di tratti viari (rotaie e sopraelevazioni) permango-no inoltre a testimonianza di un paesaggio caratterizzato da un proprio “paradigma infrastrutturale”13 ormai scomparso ma che modificava radicalmente percezioni e flussi di interi brani territoriali. Gli usi oggi accolti da ciò che resta di questi due ma-cro-gruppi di manifestazioni fenomenologiche rimbalzano dal commerciale al pubblico, con diffusi casi di abbando-no e più rare forme di monumentalizzazione, talvolta de-contestualizzata. Per la precisione, le ricerche e le verifiche in situ dimostrano l’esistenza a oggi di ben 29 manufatti dispersi nel territorio che circoscrive Torino, spingendosi, verso sud, nel cuneese. Di questi oggetti “ritrovati”, 22 sono

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edifici originariamente adibiti a stazione, 5 erano destinati a ricovero o deposito dei vagoni, mentre 2 consistono di porzioni di binario (più precisamente una doppia arca-ta del cavalcavia a Trofarello e una porzione di binario a Settimo, certamente ricollocata). La maggiore concentra-zione di questi oggetti si riconosce a Trofarello, Orbassano, Collegno e Paesana pur distribuendosi in forma sporadica ma equilibrata su tutto il territorio storicamente servito dalla rete tramviaria (Figura 4). A oggi, di questi 29 artefat-ti, 6 sono occupati da attività commerciali, 2 utilizzati per il ricovero dei bus delle autolinee pubbliche, 3 accolgono associazioni ed enti pubblici, 8 sono abitazioni (in alcuni casi con attività commerciali al piano terra), uno solo è un museo (l’ex stazione del villaggio Leumann di Collegno), 7 sono in stato di abbandono, e 2, seppure evidentemente la-sciati allo stato di rudere o “feticcio”, sono consapevolmen-te inseriti nel contesto urbano (a Settimo Torinese) e rurale (a Trofarello) quali “monumenti” di un passato recente. A causa della particolare fase storica nella quale le linee tram-viarie si inseriscono – tra la fine dell’Ottocento e i primissi-mi anni del secondo Dopoguerra – e per via delle differenti

disponibilità economiche e dei distinti tratti culturali tra i Comuni interessati14, le differenze formali e talvolta stilisti-che tra i manufatti sono quantomai evidenti. Si passa infatti da edifici dallo spiccato accento razionalista (non privo di retorica di regime) come la stazione di Orbassano, ad altri dal carattere più vernacolare e povero come per la stazione di Staffarda, con i lineamenti semplici e il laterizio come materiale dominante, alla stazione del villaggio Leumann, che riflette le influenze del modernismo internazionale e del cosiddetto stile cottage britannico (Figura 5). È tutta-via evidente che la maggior parte delle testimonianze siano state fortemente manipolate negli anni, risultando tanto stratificate e rimaneggiate da essere quasi irriconoscibili e rendere la loro ricerca sul territorio compito non sempli-ce. Parlare quindi di stili specifici, se si tenta di osservare questo insieme di manufatti come un sistema unico, può essere superfluo. Forse è più interessante notare come il di-venire abbia determinato effettive perturbazioni materiali che hanno cambiato i tratti funzionali d’origine, soprae-levando, ampliando, riducendo, demolendo, dipingendo, rinnovando, integrando e sostituendo parti di questi. Non

Figura 3. Alcuni esempi di permanenze materiali. Da in alto a sinistra, in senso orario: ex deposito dei tram a Brusasco, ex stazione di Leinì, ex stazione Regina Margherita a Collegno ed ex stazione di Sanfront (fotografie di Paolo Chiesa).

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solamente i singoli manufatti hanno subito trasformazioni nel tempo, ma anche lo spazio che li circondava, come te-stimoniato ad esempio dall’area della prima stazione tram-viaria di Orbassano (Figura 6).

2.2 Una stazione, un ricovero e una rotaiaCon l’obiettivo di approfondire ulteriormente la ricerca si sono analizzati nello specifico tre manufatti differenti tra loro, mirando a una discreta copertura territoriale e a una differenziazione “tipologica”. A coronare le seguenti schede identificative si propongono dei prospetti che agevolano la visualizzazione. I tre casi studio sono l’ex ricovero vagoni di Carmagnola, in via Fratelli Rosselli 8, l’ex stazione dei tram elettrici di Orbassano, in via Ascianghi 4, la porzione di ro-taia sopraelevata a Trofarello, sulla Strada Regionale 29 al numero 268.

Figura 4. Grafico che elenca localizzazione, uso originario e uso attuale delle 29 permanenze (elaborazione di Cristiano Tosco).

Figura 5. L’ex stazione del villaggio Leumann (foto Paolo Chiesa).

Figura 6. Confronto aerofotogrammetrico dell’area della prima stazione dei tram di Orbassano tra il 2005 (sinistra) e il 2018 (destra).

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Il primo è un edificio povero, con struttura in mattoni pie-ni e manto di copertura attualmente in tegole marsigliesi. La regolarità originaria della scansione strutturale sul lato lungo è stata con gli anni compromessa attraverso aperture nella muratura, inserimento di travi in ferro, ripensamenti e tamponamenti su tutto il perimetro. La struttura del tetto è in legno e chiaramente a uno stato avanzato di degrado, compromettendo la stabilità strutturale di tutta l’opera, che è oggi perlopiù abbandonata e utilizzata come capanno per il parcheggio dei veicoli dei residenti. L’edificio si trova in-fatti nell’area privata di pertinenza di alcuni fabbricati di ci-vile abitazione che condividono il vasto spazio dove, fino al 1948, sorgeva la stazione di Carmagnola. L’area nella quale si colloca l’edificio è soggetta oggi a un generale stato di in-curia e parziale abbandono, ed è perlopiù inutilizzata e cir-condata da fronti urbani variabili e visibilmente stratificati nel tempo. Sulla stessa superficie pertinenziale insiste, dal lato che affaccia su via Chiffi, anche la ex stazione, anch’essa in stato di abbandono (Figura 7). Il secondo caso è quello dell’ex stazione di Orbassano. In seguito all’elettrificazione della linea (nel 1928), l’originale stazione dei tram fu spostata dal luogo dove oggi sorge la biblioteca civica all’attuale area dell’edificio in analisi. Esso risente chiaramente delle esigenze estetiche fasciste, esiben-do elementi ricorrenti in tutta l’Italia del ventennio, quali un arco del tutto privo di ornamenti, un portico dalla sti-lizzazione geometrica, tetti piani, ampie superfici spoglie e cieche e un orologio alto e centrale. Le finiture in intonaco

celano una struttura in calcestruzzo armato che sostiene una forma caratterizzata da un’interessante variazione dei pro-spetti. La logica funzionalista del manufatto non tenta di nascondere la precisa vocazione originaria dell’edificio, che si trova all’angolo nord-ovest di un’area che ha ospitato, fino a pochi anni fa, il ricovero degli autobus di linea ma che, a oggi, pare sempre meno utilizzata e abbandonata all’incu-ria. Tale ambito spaziale coincideva con la stazione dei tram elettrici di Orbassano. Se anche in questo caso è vero che si tratta di una forma di abbandono, l’edificio, grazie anche alle sue qualità architettoniche, assume un ruolo percettivo nella perimetrazione di piazza Martiri della Libertà e quindi partecipa, seppure in termini puramente visivi, alla vita pub-blica di questa porzione del Comune (Figura 8).Infine, sulla strada regionale a Trofarello, svetta, precisamen-te in corrispondenza di un passaggio a livello che incrocia la ferrovia per Chieri, una doppia arcata in calcestruzzo armato che sostiene i binari del tram, il cui tragitto doveva necessaria-mente sopraelevarsi in corrispondenza della via ferrata. I resti della strada sopraelevata hanno un’altezza di circa 9 metri e le campate ampiezze differenti (quella attraversata dai doppi binari del treno è maggiore). I pilastri, che si impostano a terra su dei basamenti di sezione maggiore, si rastremano verso l’al-to per terminare con il piano originariamente adibito al pas-saggio dei tram e dove ancora oggi permangono le griglie di protezione e i binari. Le campate sono scandite da geometrie spigolose dovute anche alle travi superiori che, in corrispon-denza dell’imposta della piastra dei binari, si rinforzano nei

Figura 7. Prospetto Sud dell’ex ricovero dei tram a Carmagnola (elaborazione di Cristiano Tosco).

Figura 8. Prospetto est dell’ex stazione dei tram elettrici di Orbassano (elaborazione di Cristiano Tosco).

Figura 9. Prospetto sud del rudere di cavalcavia a Trofarello (elaborazione di Cristiano Tosco).

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punti di contatto con i pilastri. La vegetazione infestante rico-pre la superficie grigia e grezza della struttura la quale, priva di particolari accorgimenti formali o estetici, si mostra per quel-lo che è: una piccola porzione di un’opera infrastrutturale. La sua permanenza è un atto politico del passato, un’azione che ricalca la diretta dipendenza del monumento dalla sua radice semantica di “memento”. Ma il ricordo della linea tranviaria è in realtà messo percettivamente in discussione dalla condi-zione ambientale nella quale questo recente reperto si ritro-va oggi. Pur essendo stata pensata e costruita in quel punto, l’arcata pare oggi decontestualizzata; essa permane e il suo intorno si modifica tanto radicalmente da renderla estranea al proprio ambito spaziale originario. In queste circostanze, la permanenza la rende feticcio, o meglio ne accentua una con-genita “funzione narcisica”15 (Figura 9).

3. Tra oggi e ieri: differenze, criticità e potenzialità tra emergenze materiali e nuovi paradigmiI risultati, qui sinteticamente descritti, sono legati a una ri-cerca in continua espansione e hanno la finalità mirata di una riflessione sul patrimonio attivo di un territorio. Il si-stema di permanenze che la rete tramviaria ha lasciato sul territorio assume il valore di testimonianza diffusa, se presa nel suo insieme, perché in grado, se correttamente valoriz-zata, di ricostruire un “tecnorama”16 scomparso, flessibile, adattabile ed esteso. Ora che la dilagante crisi ambientale punta i riflettori sul consumo di suolo, sulla sua impermea-bilizzazione, su smog e polveri sottili, sulle congestioni e sul traffico automobilistico, questi manufatti possono testimo-niare che dal passato si apprende e attraverso esso è possibile ampliare le prospettive d’azione – e quindi gli scenari – per il futuro. L’esempio dell’esperienza tramviaria dello scorso secolo è una storia di occasioni mancate, di incapacità poli-tica di ragionare sul lungo termine, di assenza di un ricono-scimento di valore per i manufatti che hanno costituito una rete oggi potenzialmente preziosa. Se letto come un patrimonio diffuso, questo sistema di og-getti sembra rispondere ai requisiti delle «cose mobili e immobili [...] quali testimonianze aventi valore di civiltà»17 e quindi acquisisce i connotati di un patrimonio culturale. La sua attivazione, solo accennata all’inizio di questo ulti-mo capitolo, è verificata nel momento in cui questo insieme di tracce materiale viene correttamente osservato e fornisce stimoli e direzioni preferenziali per uno sviluppo ambien-talmente più sostenibile e socialmente più civile. Per dirla con Luca Dal Pozzolo: «il patrimonio culturale può svol-gere una funzione di riattivazione della profondità della storia e rappresentare una risorsa preziosa per una visione culturalmente attrezzata delle traiettorie a venire. A patto che si eviti uno sguardo solo antiquario, che il patrimonio possa divenire un fuoco di convergenza […] riconquistando una corrispondenza sentimentale nel corpo della società lo-cale»18. L’esistenza di questi oggetti e il loro valore devono dunque essere verificabili da tutti, esperti e profani.

Ma le descrizioni e le brevi schedature sono fini a sé stesse se non confrontate con una condizione attuale dei trasporti ex-traurbani piemontesi intorno al capoluogo. La diffusione del-le linee di bus e delle ferrovie (le stesse di un tempo) non pare sufficiente a risolvere gli urgenti problemi di inquinamento dell’aria di Torino e la sua cintura. Secondo la Relazione an-nuale sui dati rilevati dalla rete metropolitana di monitoraggio della qualità dell’aria del 2017 19, redatta da ARPA e Città Metropolitana di Torino, le medie annue di concentrazio-ne di particolato sospeso nel territorio in analisi tendono a pareggiare e superare il limite medio annuo fissato di 40 µg/m3. Incrociando questi dati con quelli meno recenti sull’u-so dell’automobile nella città metropolitana torinese20, per i quali nel 2013 il 48,3% degli spostamenti sono avvenuti con mezzi privati e solo il 18% con quelli pubblici, si può afferma-re che l’emergenza sui trasporti è una sfida che richiede una strategia di lungo termine e investimenti che possano saturare le lacune non solo fisiche dell’attuale assetto infrastrutturale.Seguendo le tendenze nazionali e internazionali degli ultimi anni, che trattano di interconnessione modale dei trasporti, di integrazione di modelli sostenibili di mobilità con le reti già esistenti, di miglioramento delle infrastrutture attuali, di disincentivazione all’uso di mezzi privati e, in generale, di applicazione di PUMS (Piani Urbani Mobilità Sostenibile), il presente studio dovrebbe rivelarsi utile nell’avviare alcuni approfondimenti che possono costituire una base per impo-stare strategie consapevoli sul lungo termine. L’estensione di questo patrimonio apre differenti scenari plausibili; in particolare, a prima vista, sembrano emergere due linee di sviluppo combinabili, ovvero l’uso didattico e quello gestio-nale dei fabbricati che permangono allo stato di abbandono o con funzioni incompatibili. Nel primo caso, alcuni ma-nufatti “superstiti” acquisirebbero un ruolo educativo, co-stituendo piccole strutture museali, gallerie, spazi espositivi e racconterebbero alla cittadinanza, talvolta, della propria storia e del valore di un trasporto pubblico tanto esteso nel passato. Nel secondo caso, altri edifici costituirebbero dei poli di scambio, informazione, noleggio, acquisto biglietti e attesa dei mezzi, nell’ottica della ridefinizione di linee di tra-sporto pubblico sul territorio, integranti quelle esistenti e in grado di potenziare soluzioni innovative e sperimentali, te-stando le attitudini del territorio e dei suoi abitanti. Questi oggetti tornerebbero a fare parte di una rete dei trasporti extraurbani rinnovata, attenta alle criticità del futuro e con-sapevole di rischi e opportunità del passato.

Note1 Sebbene siano pochi i contributi che si occupano specifica-mente delle linee extraurbane piemontesi in questione (come: Giovanni Brogiato, Le tramvie extraurbane in Piemonte. 1875-1914, in «Cronache economiche», 1° semestre 1977, 1-2, pp. 55-63), esistono volumi e saggi parziali sull’argomento che spa-ziano da documenti storici (ad es: Antonio Viappiani, La costru-zione e l’esercizio delle tramvie, Camilla e Bertolero, Torino 1893) ad approfondimenti su specifiche linee tramviarie (ad es: Guido

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11 André Corboz, Il territorio come palinsesto, in «Casabella», 516, settembre 1985, p. 22.12 Si ricorda in particolare la meticolosa ricerca di Paolo Chiesa, consultabile su: http://www.museodeltram.it/.13 Jeremy Rifkin, La Terza Rivoluzione Industriale in chiave terri-toriale, in Territorio zero, Minimum Fax, Roma 2013, p. 80.14 «La concessione per la costruzione di una linea tranviaria ve-niva rilasciata a chi ne faceva richiesta dall’Ente proprietario della strada […] ossia il Comune e la Provincia. Se la linea interessava più Comuni, questi dovevano riunirsi in un Consorzio». Bocca, Tramvie intercomunali cit., p. xii.15 Françoise Choay (trad. Alfonso Ernesto), L’Allegoria del patri-monio, Officina Edizioni, Roma 1995, p. 162.16 L’espressione intende il paesaggio come flusso tecnologico, in: Arjun Appadurai (trad. Piero Vereni), Modernità in polve-re. Dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Roma 2004, p. 54.17 Articolo 2 del D.L. 22 gennaio 2004, consultabile su: http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAt-to/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2004-02-24&at-to.codiceRedazionale=004G0066&elenco30giorni=false.18 Luca Dal Pozzolo, Il patrimonio culturale tra memoria e futuro, Editrice Bibliografica, Milano 2018, retrocopertina.19 ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale), SNPA (Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente), Città Metropolitana di Torino, Uno sguardo all’aria. Relazione annua-le sui dati rilevati dalla rete metropolitana di monitoraggio della qualità dell’aria. Anno 2017, p. 51, consultabile su: http://www.cittametropolitana.torino.it/cms/risorse/ambiente/dwd/quali-ta-aria/relazioni-annuali/relazione2017.pdf.20 AMP (Agenzia Mobilità Piemontese), Indagine sulla Mobilità delle Persone e sulla Qualità dei Trasporti. Rapporto di sintesi sull’a-rea metropolitana. 2013, p. 11, consultabile su: http://mtm.tori-no.it/it/dati-statistiche/indagine-imq-2013/pdf-1/IMQ2013_RapportoSintesi.pdf.

Guidi, Il trenino di Rivoli, in «Torino», n. 1, 1955) a riferimenti urbani sulle tramvie della sola Torino (ad es: Nico Molino, Tram e tramvie di Torino, Edizioni Locodivision, Torino 1989) a pratiche analoghe in altre parti d’Italia (ad es: Gianni Cornolò, Fuori porta in tram. Le tramvie extraurbane milanesi 1876-1980, Ermanno Albertelli, Milano 1980)2 La maggior parte di queste fonti consiste di atti ufficiali e opere di manutenzione e sono consultabili nell’Archivio Storico della Provincia di Torino, negli Archivi Storici di alcuni Comuni inte-ressati dalle reti tramviarie, in archivi aziendali (di ATM, SATTI, Leumann ecc.), nel Museo Ferroviario Piemontese a Torino e Savigliano, negli archivi di varie associazioni e società editrici, oltre che nelle collezioni private, dove si trova molto materiale fotografico.3 “PIANTA/DELLA/CITTÀ DI TORINO/COLL’INDICA-ZIONE DEL PIANO UNICO REGOLATORE E DI AMPLIA-MENTO/1906”, Torino, 1908, ASCT, Decreti Reali, Piani Regola-tori, 1899-1911, serie 1K, n. 14, allegato 3 e successive varianti.4 L. 561, 27 dicembre 1896: Legge riflettente le tramvie a trazione meccanica e ferrovie economiche.5 Mario Bocca, Mario Governato, Tramvie intercomunali di Torino nelle immagini d’epoca 1880-1950, Artema Edizioni del Capricorno, Torino 1999, p. xii.6 Tale interazione è suggerita dallo scartamento più diffuso delle tramvie (di 1435 mm) che coincideva con quelle delle ferrovie. Questo permetteva un collegamento diretto con la rete delle fer-rovie principali, rendendo più semplice il trasporto di materiale.7 Giovanni Brogiato, Le tramvie extraurbane in Piemonte. 1875-1914, in «Cronache economiche», 1° semestre 1977, 1-2, p. 55.8 Sull’argomento si consiglia di consultare la produzione scienti-fica degli autori Timothy James LeCain e Jane Bennett.9 Eugenio Turri, Il paesaggio degli uomini. La natura, la cultura, la storia, Zanichelli, Bologna 2003, p. 29.10 Il concetto di “testimone materiale” (material witness) è al cen-tro della ricerca di Susan Schuppli, consultabile su: http://susan-schuppli.com/research/materialwitness/.

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MANFREDO DI ROBILANT

Falchera su «Urbanistica» 7, 1951 e «Metron» 53-54, 1954: retoriche ed estetiche di presentazioneFalchera public housing neighborhood on «Urbanistica» 7, 1951 and «Metron» 53-54, 1954: narration and iconographic presentation

AbstractIl quartiere Falchera venne costruito alla periferia nord di Torino fra il 1951 e il 1954, diventando presto un caso emblematico di edilizia residenziale pubblica della ricostruzione italiana. Il suo principale progettista, Giovanni Astengo, lo presentò nel 1951 sulla rivista «Urbanistica» e nel 1954 sulla rivista «Metron», a cantiere appena completato. In entrambi i casi, la Falchera venne descritta nelle sue doppie radici: locali e internazionali, su cui avrebbe dovuto crescere una nuova comunità. Emergono in entrambe le pubblicazioni, a un lato la iper-definizione delle quantità urbanistiche dall’altro l’idealizzazione dei futuri abitanti. Dal punto di vista della teoria dell’architettura, Falchera ne emerge come un caso emblematico di scollatura fra il racconto e l’illustrazione del progetto e la realtà dei fatti, che l’attende subito dopo il cantiere.

The Falchera neighborhood was built on the northern edge of Turin in 1951-1954, soon becoming a case in point of public housing in the Italian reconstruc-tion. The main designer of Falchera, Giovanni Astengo, presented the project in 1951 on the journal «Urbanistica» and in 1954 on the journal «Metron», this latter when the building was just completed. In both cases Falchera was described in its twofold roots: local and international, with the wish to grow on these very roots a new community. Both publications show on the one hand a meticulous definition of urban standards, and on the other hand the idealization of the fu-ture inhabitants. From the standpoint of architectural theory, Falchera emerges as a demanding case of the divergence between the narration and illustration of a project and its “ life” after the building process ends.

Nel progetto dell’architettura e dello spazio urbano, la presentazione di un’o-pera appena completata segna il momento in cui quest’ultima inizia la propria vita mediatica, più o meno estesa e longeva a seconda dei casi. Un esempio italiano interessante a riguardo si trova nell’architettura e nell’urbanistica della ricostruzione post-seconda guerra mondiale: è un caso noto nella letteratura specialistica, e discusso con una certa ricorrenza nel corso dei suoi quasi set-tanta anni dalla sua realizzazione, ma mai sotto l’aspetto della sua divulgazione attraverso le riviste di settore. Il caso studio è il quartiere Falchera, alla periferia nord di Torino, inaugurato nel 1954. Nel caso specifico, un ulteriore elemento di interesse, pertinente alla teoria del progetto architettonico e urbanistico, è dato dal fatto che l’autore degli articoli qui considerati è anche il principale progettista degli stessi. Si tratta di Giovanni Astengo, professionista, ricerca-tore e docente di urbanistica noto e influente in Italia durante tutta la sua vita professionale, fra i primi anni cinquanta e gli anni ottanta.

Manfredo di Robilant, architetto e ricercato-re insegna progettazione architettonica pres-so il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino. È stato Visiting Scholar al Canadian Center for Architecture e associato alla ricerca per la 14ma Biennale di architettura di Venezia.

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Il progetto per il quartiere Falchera è pubblicato la prima volta in «Urbanistica» 7, 19511, dove compare in una ras-segna di progetti per quartieri INA-Casa2, intitolata Nuovi quartieri in Italia e curata da Giovanni Astengo. Quattro pagine di premessa costituiscono lo spunto per una presa di posizione esplicita dell’autore. Il testo descrive una parabo-la ascendente, che trae dagli eventi della storia appena tra-scorsa le sue giustificazioni, e da ragionamenti dottrinali i suoi auspici. La breve introduzione evidenzia le «occasioni perdute» del periodo post-bellico; il primo paragrafo rile-va il miglioramento rappresentato dalle prime realizzazioni INA-Casa, perlomeno dal punto di vista edilizio; il secondo, di impronta più teorica, pone l’antitesi «Disseminazione o raggruppamento», che termina col richiamo a modelli ame-ricani, inglesi, svedesi; il terzo interpreta la strategia del pia-no INA-Casa, individuando il «raggruppamento» come elemento progettuale fondante: i nuovi quartieri devono avere sufficiente densità da renderli riconoscibili come en-tità autonome. Il quarto paragrafo, «I progetti», anticipa il climax, coincidente con la presentazione del piano Falchera come manifesto. Per questo, e per il suo costituire un tenta-tivo di sistemazione concettuale della vicenda Inacasa, meri-ta un esame più circostanziato. Tre linee progettuali vengono individuate. Esempi di «plasticismo puro» sono il quartiere San Paolo al Valco, a Roma, di cui viene criticata una presunta scarsa attenzio-ne alle valenze sociali; il Dessiè, a Milano, nei cui spazi «si sente un’atmosfera che avvolge tutti i corpi, li cristallizza; purismo e funzionalismo creano […] un ambiente artificiale cui non è del tutto estranea la ricerca di una astratta monu-mentalità»; il Canton Vesco, a Ivrea, per cui vengono spese solo tre righe, sulla «lungimirante azione sociale» svolta sul luogo dall’Olivetti – peraltro non nominata esplicitamente. Due sono gli interventi esemplificati a illustrare la successiva corrente del «plasticismo organico»: il primo è il romano Tiburtino a riguardo di cui – pur rilevando, oltre alla ele-vata densità, un eccessivo formalismo – viene espresso un giudizio positivo, anche in virtù del suo rappresentare un momento polemico nei confronti del «plasticismo puro», «cui aggiunge lo studio psicologico e la valorizzazione de-gli spazi interni»; il secondo esempio è dato dal quartiere Panigale a Bologna, di nuovo elogiato per «l’effetto generale di eccitante discontinuità, resa più nervosa dagli spezzetta-menti di volumi e di superfici», ma non risolto nell’obietti-vo di costituire «un corale gioco d’assieme». Terza corrente delineata, intesa come degenerazione in chiave formalistica del «plasticismo organico», è quella del «plasticismo ro-mantico», per la cui esemplificazione si fa un generico cen-no ad «alcuni complessi, dovuti alla progettazione d’ufficio della gestione». L’impianto retorico costruito con la descri-zione delle tre linee progettuali è quello di tesi e antitesi, dove la tesi è rappresentata dal «plasticismo puro» mentre l’antitesi dal «plasticismo organico», e dove la discrimina-zione tra tesi e antitesi è data da un’addizione qualitativa,

vale a dire la considerazione degli aspetti psicologici del costruire. Il «plasticismo romantico», dai contorni poco definiti e non confortato da esempi specifici, rappresenta poi, di fatto, nell’economia del discorso, un artificio, teso a porre in evidenza i pericoli insiti in un proliferare di «bor-ghi spontanei», sulla scorta del successo di critica dei nuovi quartieri romani iscritti tra le espressioni del neorealismo. L’operazione condotta da Astengo con l’individuare sche-matismi entro cui inserire i progetti elaborati dai suoi com-pagni nell’avventura dell’INA-Casa, rappresenta un saggio di critica operativa3; per quanto riguarda poi la scelta delle categorie di giudizio – estetiche – appare la discendenza dalla critica d’arte figurativa di discendenza crociana4. A tesi e antitesi fa seguito la sintesi: «Ad un diverso indirizzo e ad una diversa impostazione appartengono invece le due nuo-ve unità di Falchera e di Mestre. Per entrambe il punto di partenza non è la ricerca plastica, astrattamente ed organi-camente intesa; il punto di partenza è oltre, è in una idea so-ciale, non in un’idea figurativa». Il momento della sintesi è, dunque, formalmente introdotto come nuova e più marcata antitesi, in modo da consentirne l’inserimento su un piano diverso e superiore rispetto al precedente. La descrizione del progetto per Falchera rivela l’immedesimazione dell’autore nel contesto fisico e sociale:

[…] la campagna piemontese, con le grandi masse di alberi e le Alpi e la collina all’orizzonte […] una classe lavoratrice evoluta, formata da ingegnosi operai specializzati, che as-sociano ad una cultura tecnica una certa solidità e serietà di vita, che è quasi borghese, che disdegnano di coltivare l’orto, non amano troppo comarare e sono irriducibilmente gelosi del loro appartamento.

Terzo aspetto presentato come ispiratore è il carattere subur-bano, ma non per questo casuale degli spazi progettati:

Le grandi distanze tra gli edifici, ottenute con la riunione di tutti gli spazi esterni, isolano perfettamente ogni allog-gio dalla vista del frontista e attutiscono i rumori. La casa è come sul bordo di un mare. Questo respiro e questa quiete si associano ad una continua varietà di spazi, tutti indivi-duati, con i corpi di fabbrica tra loro compenetrati, in modo da ricavare ambienti e spazi concavi, con prospettive variate e visuali lontane.

Non casuali, tra queste parole sono quelle spese a illustrare i vantaggi del grande distanziamento tra corpi di fabbrica: nel frequentato dibattito sul soleggiamento degli alloggi in relazione alle distanze tra edifici, Astengo nel 1946 ave-va assunto una posizione, con un articolo su «Metron»5. Interessante è l’espediente retorico utilizzato: da una propo-sizione che descrive oggettivamente la soluzione adottata, vale a dire, appunto, i grandi vuoti tra edifici, e i relativi van-taggi in termini di isolamento, si fa discendere una metafo-ra di nuovo quasi poetica: la casa «sul bordo di un mare». Nella seconda parte del discorso compare una terminologia

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«organica»6: gli oggetti descritti si compenetrano e formano concavità su uno sfondo di prospettive variate. Quarto e ul-timo elemento ispiratore del progetto a venire menzionato è la volontà di creare, concentrandola solo in alcuni pun-ti, nominati come «fuochi», «una vita cittadina di certo movimento ed interesse». Falchera non, dunque, come an-ti-città, borgo rurale che sia scena continua di vita sociale paesana, ma paesaggio progettato, inframmezzato da episo-di di socialità a tutti gli effetti urbana.In generale, la presentazione segue la forma dell’articolo scientifico, con un apparato di cinque note, concentrate en-tro la parte iniziale del terzo paragrafo, dopo il quale il di-scorso assume retoriche da critica d’arte figurativa. Le note rivelano richiami che sono tutti interni alla vicenda italiana, e a quella dell’INA-Casa specificamente; di particolare in-teresse è la quarta: una minuziosa classificazione quantita-tiva dei termini «nucleo», «sottonucleo», «quartiere» – quest’ultimo, eventualmente, «autonomo» – «borgo» o «unità residenziale».Sono diciannove i progetti INA-Casa successivamente il-lustrati. Il trattamento riservato al progetto per Falchera, inserito nella parte terminale della serie, lo colloca in posi-zione di preminenza, dal punto di vista dello spazio dedi-cato. La descrizione della collocazione prescelta è occasio-ne di richiamo a dinamiche di sviluppo, non solo urbano torinese, ma anche regionale; sia il P.R.G. di Torino che il Piano Regionale7 vengono chiamati in causa, chiudendo il cerchio attorno alle due maggiori polemiche dell’urbanisti-ca dell’immediato dopoguerra, portate avanti da Astengo in prima persona. Pur con questo doppio richiamo, il carattere del nuovo insediamento, che emerge dalla descrizione della sua collocazione, rivela un’attenzione maggiore al livello re-gionale, non solo per l’insistenza di Falchera su terreni non soggetti al P.R.G., ma anche per il porre l’accento sulla sua prossimità ad arterie di comunicazione interregionale, come l’autostrada Torino-Milano e la ferrovia. La localizzazione di Falchera risulta anche dall’apparato iconografico; a uno schema dell’area urbana torinese con le sue principali vie di comunicazione è affidata la raffigurazione del rapporto con la città e il territorio, mentre i pregi paesaggistici del sito sono illustrati a due panorami. L’immagine di maggiore di-mensione è una fotografia aerea. Se lo schema grafico della collocazione di Falchera all’interno dell’area urbana sotten-de retoriche legate alla definizione di quantità e polarità, le immagini dei panorami riflettono la permanenza di modelli legati a un paesaggismo figurativo8 (Figure 1-4). A chiudere la presentazione è una serie di quantità: superfici, vani, allog-gi, abitanti, prezzi, costi, servizi. Il notevole interesse rivesti-to da questo prospetto delle quantità e dei tipi risiede anzi-tutto nella chiarezza con cui svela l’aspirazione, diffusa nelle élite coinvolte nella vicenda dell’INA-Casa a inquadrare le prassi di pianificazione entro un sistema di individuazione e quantificazione dei bisogni che appaia scientifico9. Tuttavia, i dati sono forniti come risultati esatti di un processo ai cui

meccanismi non si accenna. La tendenza a presentare il pro-getto come opera compiuta, nei suoi raggiungimenti teorici e nella sua realizzazione, a scapito del processo progettuale e costruttivo, traspare anche da un’osservazione che è possibi-le compiere sull’apparato iconografico a corredo del doppio numero di «Metron» con cui la Falchera viene presentata, tre anni dopo l’articolo su «Urbanistica». Nessuna imma-gine del cantiere di Falchera è pubblicata su «Metron»; non è dunque solo l’iter progettuale a rimanere nell’ombra, ma anche la fase di realizzazione, con tutte le questioni che essa implica, in primo luogo quella delle tecniche costrutti-ve messe in relazione al tipo di forza lavoro che si sceglie di impiegare. D’altronde, le due riviste hanno una contiguità stretta dal punto di vista dei circoli intellettuali e politici che le animano, e che agiscono a livello nazionale. Questa conti-guità è da individuare innanzitutto nel ruolo di ispirazione e finanziamento che Adriano Olivetti, all’epoca saldamente a capo dell’azienda omonima ereditata dal padre, esercita su entrambe, oltre che – ma forse soprattutto – al ruolo di pro-duzione di contenuti di Bruno Zevi, all’epoca personaggio chiave nella critica architettonica italiana10.Alla presentazione – di fatto ufficiale – della Falchera completata è dedicato un doppio numero monografico di «Metron», il 53-54 del 1954, firmato da Astengo e artico-lato su un primo testo di presentazione generale, diviso in paragrafi titolati, e sulla successiva illustrazione dei progetti edilizi realizzati nell’ambito del piano urbanistico (Figura 5);

Figura 1. «Urbanistica», 7, 1951, copertina.

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RASSEGNA

Figura 2. «Urbanistica», Falchera rispetto ai grandi assi di attraversamento di Torino.

Figura 4. «Urbanistica», il sito di Falchera: idillio rurale.

Figura 3. «Urbanistica», il sito di Falchera: perimetrazione.

entrambe le parti sono corredate da un ampio apparato ico-nografico, costituito perlopiù da fotografie, oltre che schemi grafici e piante. La necessità imprescindibile dell’urbanistica, come unico possibile strumento da contrapporre, nell’interes-se collettivo, a un mercato inteso come fonte primaria della irrazionalità con cui le città italiane stanno cambiando il loro aspetto, è implicitamente rivendicata, nelle parole introdutti-ve, con un topos classico della polemica contro l’iniziativa pri-vata nella costruzione della città: la speculazione libera e sfre-nata, portatrice di caos. La vicenda di Falchera entra nel vivo con il primo paragrafo, «Il tema», che occupa due colonne a tutta pagina. Ricompare, al principio di questo paragrafo, la messa in rilievo dei tempi ridotti della progettazione, da dicembre 1950 a metà gennaio 1951, nonché la descrizione delle quantità – superficie e abitanti previsti – qui non rias-sunte in schema, ma presentate, insieme all’ubicazione, come dati del problema progettuale, la cui struttura viene prospet-tata nei termini di una equazione a tre variabili. Le prime due – ubicazione in funzione dei servizi da prevedere e densità re-sidenziale – con il loro carattere quantitativo (possono essere espresse come punti su un piano cartesiano) sono componenti classiche in un percorso progettuale di impronta razionalista, e sono note; la terza, dichiarata come incognita, è costituita dal «tipo di abitanti» e rappresenta l’elemento discriminante che permette di iscrivere la Falchera nel novero dell’urbanisti-ca «organico-sociale». Sotto la dizione «tipo di abitanti» si nasconde in effetti uno dei punti cruciali nella costruzione dell’identità progettuale della Falchera e delle retoriche fina-lizzate a definirla; gli elementi che nel testo vengono ricon-dotti a questa variabile sono elencati, in ossequio a convin-zioni positiviste11, come tra loro indipendenti e distinguibili: la composizione familiare e professionale, la provenienza, i caratteri psicologici delle famiglie assegnatarie. Presentati sen-za cenni di discussione del loro significato, i quattro compo-nenti della ricerca «organico-sociale» mettono però in crisi il processo del piano – come ammesso nel racconto – quando si tratti di tradurli in dati da cui far discendere criteri per la progettazione. Tra le righe della presentazione su «Metron» si può così leggere il non avvenuto consolidamento di quella

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giunzione fra scienze sociali e prassi di pianificazione che rap-presenta una delle grandi istanze fatte proprie dagli urbanisti – con Astengo in prima fila – già nell’immediato dopoguerra, sulla scorta di esperienze straniere avvicinate con l’atteggia-mento della contemplazione12. In mancanza – dichiarata – di un metodo e di esperienze di riferimento, i dati sui quali viene formato il piano sono frutto di procedure, nominate come «ipotesi congetturate», che non vengono affatto illustrate. Per quanto concerne la «composizione delle famiglie» sono così riportati nel testo risultati non falsificabili, ripetendo ciò che già si era verificato su «Urbanistica» tre anni prima. «Composizione professionale», «provenienza» e «carat-teri psicologici» si rivelano poi categorie strumentali a deli-neare l’appassionato ritratto di un gruppo umano, specificato non solo in termini di classe – operaia e impiegatizia – ma an-che di collocazione geografica – torinese – al quale si ipotizza appartengano gli assegnatari della Falchera, che si vogliono incarnare in quegli «ingegnosi operai specializzati» di cui già si tessevano le lodi su «Urbanistica».Rispetto a quest’ultima, nei primi due paragrafi di «Metron» non compaiono novità; inedito è invece il «precedente sto-rico» cui il terzo paragrafo è intitolato. Accompagnate da tre fotografie – di cui solo una rappresenta edifici rurali – e una planimetria generale – non corrispondente allo stato di fatto né ad alcuna fase progettuale e costruttiva – quindici righe proclamano nel complesso dei rustici di Stupinigi13

una fonte di «spunti e suggerimenti» per i progettisti di Falchera, non solo da un punto di vista formale, ma anche in virtù del loro costituire «una interessante comunità agrico-la-artigianale» (Figure 6-8). Ma il richiamo a Stupinigi non si limita a costituire una novità, sostituisce infatti, nella ri-vendicazione di precedenti e fonti d’ispirazione, la citazione delle esperienze inglesi, svedesi, nord-americane che compa-riva su «Urbanistica»; le ragioni di questa sostituzione non vengono addotte, e nelle pagine successive nulla di nuovo appare, rispetto alla presentazione del 1951, da necessitare un cambiamento delle fonti, per mantenimento di coerenza tra queste e il risultato del progetto. La scelta del precedente iuvarriano discende dunque da logiche esterne al percorso progettuale, che vanno nella direzione di un ulteriore mes-sa in evidenza del radicamento della cultura progettuale di Falchera alla località, alla ricerca di appigli “organici” non solo con l’estrazione culturale degli abitanti e i loro riti so-ciali, ma anche con la storia del territorio; in questo senso l’esibizione di exempla stranieri, poco affini agli spiriti del luogo, apparendo controproducente, sarebbe da scartare. Pur con il richiamo agli aspetti sociali della realtà borghigia-na, l’analogia tra Stupinigi e Falchera corre essenzialmente sul piano figurativo, e le immagini riprodotte sono costruite secondo schemi che ricorrono in quelle successivamente ri-portate a illustrazione degli edifici di Falchera14.Alla descrizione del sito è dedicato il successivo paragrafo, intitolato «L’area e l’ambiente» e corredato di grandi foto-grafie, che ne costituiscono la parte più importante, attiran-do l’attenzione più sugli aspetti paesaggistici che non sulle polarità e sulla prossimità ad assi di comunicazione. Se in «Urbanistica» erano questi ultimi i fattori maggiormente premiati dalle retoriche di presentazione, su «Metron» si assiste ad un ribaltamento, che orienta il paragrafo in sen-so di descrizione visiva, e fortemente partecipata, del luo-go dell’intervento nel suo stato “di natura”. Le fotografie riprodotte sono quattro e, a eccezione della prima, una ve-duta aerea con delimitazione dell’area d’intervento e nord segnato, già pubblicata su «Urbanistica», che risponde a canoni iconografici da pianificazione scientifica, avvicinano modi da paesaggismo romantico: il bosco in una giornata di vento, con le montagne sullo sfondo e grandi nuvole in cielo; il bosco ai bordi del sentiero in un giorno di sole; la cascina immersa in un prato mosso dal vento con la colli-na di Superga in secondo piano (Figure 9-11). La querelle ottocentesca tra vedutismo e topografia15, tra romantici e illuministi nostalgici prima, tra romantici nostalgici e po-sitivisti poi, trasfigurata, si ripropone nelle iconografie con cui Falchera viene presentata, nel segno di una commistione tra figurazione mirante all’esattezza e figurazione partecipa-ta emotivamente. L’insistenza sull’ispirazione derivata di-rettamente dal contatto con il luogo compare nuovamente nel paragrafo successivo, sulle tipologie: «l’idea delle case a tre piani con ampi spazi verdi interclusi nacque, si può dire, sul posto, guardando il paesaggio e la campagna, e

Figura 5. «Metron» 53-54, 1954, copertina con Falchera.

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Figura 6. «Metron», la locanda di Stupinigi. Figura 7. «Metron», un cortile prospiciente la palazzina di Stupinigi.

Figura 8. «Metron», le cascine di Stupinigi, ai lati della locanda. Figura 9. «Metron»: il sito di Falchera: idillio rurale.

Figura 10. «Metron»: il sito di Falchera: idillio rurale.

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considerando gli insediamenti rurali circostanti, le cascine, quasi tutte con pianta a U aperta a sud». I principi ispiratori per la definizione del carattere del quartiere riportati prece-dentemente rappresentano una singolare fusione di retori-che organiche, tese a porre in rilievo la compenetrazione fra costruito e natura, e di retoriche antiurbane: «queste visuali di ampio respiro [le Alpi, Superga, il bosco adiacente] do-vevano essere conservate e sentite all’interno del quartiere. La caotica periferia era laggiù, ben distaccata, coperta dalla spessa nube dei fumi multicolori delle fabbriche: essa dove-va restare laggiù, distaccata»; ma Falchera non è comunque un villaggio: «qui si doveva avere la sensazione di un altro tipo di città, di un altro modo di vivere». La scelta della disposizione dei corpi è poi oggetto di una dimostrazione che, con l’ausilio di schematici disegni, vuole apparire, nella sua consequenzialità, incontestabile come un procedimen-to geometrico. Le due alternative illustrate, e scartate, sono il classico blocco chiuso della tradizione torinese e i corpi allineati e paralleli della tradizione razionalista: antico e moderno dell’urbanistica vengono esclusi a favore di una so-luzione, quella dei corpi snodati ad ali e orientati verso sud, presentata con caratteri di sintesi, derivante da un sostrato di cultura anonima radicata nella storia del territorio e nobi-litata dall’illustre precedente dei rustici di Stupinigi (Figura 12). Segue «L’impostazione planimetrica», attraverso cui si legge l’evoluzione della planimetria di Falchera in relazio-ne al confronto tra poteri interessati nei processi decisionali per la sua definizione. La «casa alta» per i commercianti, prevista a chiusura dell’asse sud-nord, non viene edificata, a denuncia di un mancato incontro fra capitale privato, che avrebbe dovuto finanziarne la costruzione, e piano pubbli-co; la piazza costituente il «centro sociale, commerciale e religioso» subisce una incisiva modifica in seguito alle pres-sioni della diocesi che portano al raddoppio della superficie destinata alla parrocchia e al suo spostamento «in posizione

Figura 12. «Metron»: il sito di Falchera: idillio rurale, con la cascina Falchera.

Figura 11. «Metron», Falchera come prodotto di una commistione planimetrica fra edilizia tradizionale e moderna.

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più baricentrica» – evidente la dialettica tra una volontà di piano che punta all’equiparazione gerarchica delle funzio-ni del centro e le pressioni di chi lo intende essenzialmen-te come sagrato (ma nel testo il conflitto emerge solo tra le righe). Il rapporto con l’autorità comunale – terzo potere nominato – consente poi la considerazione del piano per Falchera alla stregua di Piano particolareggiato, tramite il suo inserimento nel Piano di ricostruzione, con la conse-guente possibilità di imporre aree di rispetto attorno al nuo-vo quartiere, altrimenti preda – il ricorso è ad una locuzione classica della letteratura di denuncia16 – degli «assalti degli appetiti» dei privati, che si manifestano nella lottizzazione «malauguratamente» preesistente nel settore meridionale, in cui le villette previste dal Piano particolareggiato «sono in parte a tre piani, in parte a fabbricati continui, senza giar-dino (mentre il Piano prescriveva che l’area coperta fosse ¼ dell’area totale), con destinazione a negozi e con un cinema-tografo». Dopo capitale e Chiesa anche il Comune fa dun-que la sua comparsa nel racconto di Falchera, con il ruolo di coadiutore nella difesa dell’ordine progettato dal “disordi-ne” del mercato. Conclusa la presentazione del progetto urbanistico, succede l’illustrazione di quanto realizzato. Due pagine sono dedi-cate a «Falchera nel paesaggio», con due fotografie aeree e una panoramica, l’unica a colori dell’intero articolo (Figure 13, 14); altre due pagine sono per «Il perimetro esterno», illustrato con due vedute aeree, oltre ad una sequenza di quattro immagini più piccole – i cui punti di presa sono ri-portati nella pianta adiacente – finalizzate alla dimostrazio-ne di uno degli aspetti più insistiti nella presentazione del progetto, la possibilità di individuare Falchera come unità ben definita e confinata rispetto all’intorno, del quale sono messi in evidenza i caratteri da idillio campestre – stacciona-te, siepi, alberi che occupano il primo piano delle immagini. Ancora due pagine per «Gli spazi interni», documentati

attraverso una iconografia che in parte (l’osservazione non vale per le due vedute) si accosta a stilemi razionalisti – le fo-tografie scontornate dei corpi di fabbrica, montate come as-sonometrie su uno schizzo planimetrico, o emergenti sullo sfondo di cielo e terreno colorati in rosso – pur nell’intento di una dimostrazione tipicamente riconducibile all’ambito culturale organico: sotto la dicitura «spazi interni», non specificata ulteriormente, sfilano infatti – in piena sintonia con i dettati zeviani – i vuoti tra edifici, considerati, alla stregua di interni urbani, delimitati da corpi di fabbrica che hanno valenza di pareti.«La progettazione e la costruzione degli edifici» è il titolo delle successive ventiquattro pagine di catalogo delle realiz-zazioni edilizie, preceduto da due colonne in cui vengono ri-portati gli otto punti fissati come criteri unificanti della pro-gettazione, oltre a due brevi tabelle di quantità concernenti cubature e assegnazioni. L’illustrazione dei progetti edilizi, ordinata secondo un criterio di loro collocazione nella pla-nimetria del quartiere, è affidata essenzialmente a fotogra-fie17, oltre che a piante degli alloggi tipo, estese in alcuni casi all’intero corpo di fabbrica, e stralci di prospetti. L’apparato iconografico che complessivamente ne risulta, è una singo-lare e illuminante commistione di stilemi consolidati della fotografia d’architettura d’impronta razionalista, e di im-magini che sono la traduzione in fotografia dei soggetti tra l’idillico e l’aneddotico di tanto paesaggismo tardo-ottocen-tesco. A rappresentare la componente di marca razionalista sono fotografie improntate ad una resa fortemente iconica degli edifici, inquadrati perlopiù secondo prospettive incli-nate che ne mettono in rilievo, anche attraverso l’esaltazione dei contrasti luminosi, gli aspetti di plastica oggettualità, stagliandoli contro il cielo sempre nitido, senza instaurare rapporti col contesto o gli altri fabbricati. Emblematiche, a riguardo, le inquadrature da sotto in su che esaltano l’aggetto dei balconi, in particolare quella, scontornata, dell’edificio

Figura 13. «Metron»: vista aerea del nuovo quartiere, con Torino esclusa.

Figura 14. «Metron»: Falchera come borgo in mezzo alla campagna.

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Figura 16. «Metron»: pascolo e case nuove.

Figura 17. «Metron»: lenzuola al sole e case nuove.

di Aldo Rizzotti, ripetizione di uno tra i più affermati cli-ché della pubblicistica del movimento moderno. Lo stesso edificio compare nella pagina successiva, a fare da sfondo a un soggetto classico nell’iconografia del lavoro campestre, i bovini al pascolo. I salici, le staccionate, le lenzuola a svento-lare nel sole, l’aratore e i cavalli al giogo, i prati alti pieni di fiori occupano il primo piano di altre fotografie degli edifici, impostate in chiave di idillio rurale (Figure 15-17).L’impressione è di una schizofrenia iconografica, traduzione in immagini di un contrasto non risolto, nella presentazione di Falchera, tra ossequio al paesaggio italico e all’atmosfera del piccolo borgo, raccomandato nella guida per i proget-tisti INA-Casa18, e aspirazione ad assecondare istanze che, per provenienza culturale, non contemplano riferimenti alla specificità del territorio e della sua storia.La chiusura del doppio fascicolo di «Metron», è affida-ta a due pagine, con tre colonne di testo in totale e cinque fotografie, dedicate alla presentazione degli assegnatari di Falchera: gli «ingegnosi operai specializzati» torinesi sono sostituiti da contadini dell’Italia del sud e, in misura molto minore, da profughi giuliani – lo iato tra utenza prevista e utenza reale del progetto è implicito nelle righe del racconto, e dichiarate sono le difficoltà che ne derivano, compensate più da auspici che dati di fatto. Il rito del piano giunge così al suo ultimo atto, con l’esaurimento dei quattro momenti della progettazione urbanistico-architettonica che si vuole scientifica - conoscere, comprendere, giudicare, intervenire19.

Note1 Giovanni Astengo, Nuovi quartieri in Italia, in «Urbanistica», 7, 1951, pp. 9 sgg., per un quadro degli organici di «Urbanistica» il riferimento è alla nota 3 in: Carlo Olmo, Gli incerti confini di una professione, in Urbanistica e società civile, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Il progetto urbanistico di Falchera ha come capo-gruppo Giovanni Astengo, all’epoca trentacinquenne, professore incaricato di urbanistica presso lo IUAV di Venezia, ed è forma-to da Sandro Molli Boffa, Mario Passanti, Nello Renacco, Aldo Rizzotti. I singoli edifici hanno ciascuno un progettista, tra cui tutti i componenti del gruppo di progettazione urbanistica, oltre a Gino Becker, Franco Fasana, Mario Oreglia.2 Sull’INA-Casa: per un’antologia ufficiale di tutte le realizza-zioni: Luigi Beretta Anguissola (a cura di), I quattordici anni del piano INACASA, Staderini, Roma 1963. Per uno studio della genesi legislativa e delle basi politiche: Sergio Pace, Una solida-rietà agevolata: il piano INA-Casa, in «Rassegna», 54, 1993, pp. 20 sgg. Per un racconto critico d’assieme: Istituto Luigi Sturzo (a cura di), Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta e il modello ita-liano di welfare state. Il piano INA-Casa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002; Paola Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione: il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni cinquanta, Donzelli, Roma 2010; Stephanie Zeier Pilat, Reconstructing Italy: the Ina-Casa neighborhoods of the postwar era, Ashgate, Farnham 2014. Si se-gnalano inoltre le foto che Cesare Leonardi, studente alla Facoltà di Architettura di Firenze, scatta al quartiere Falchera come esercitazione per il corso di Urbanistica I di Ludovico Quaroni (cfr. Andrea Cavani, Giulio Orsini (a cura di), Cesare Leonardi. L’architettura della vita, Lazy Dog, Milano 2017).

Figura 15. «Metron»: corpo edilizio di Aldo Rizzotti: aggetti modernisti e tessiture laterizie da cascina.

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3 Per una definizione di critica operativa: Manfredo Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Laterza, Roma-Bari 1968.4 Una polemica e sintetica voce sulla vicenda della critica d’arte in Italia fino agli anni ‘40 è in Carlo Ludovico Ragghianti, Profilo della critica d’arte in Italia, Edizioni U, Firenze 1948.5 Giovanni Astengo, Mario Bianco, Soleggiamento degli edifici, in «Metron», 9, 1946, pp. 17 sgg.6 Al 1951 Bruno Zevi ha già pubblicato le sue opere più fortunate, Verso un’architettura organica, nel 1945, Saper vedere l’architettura, nel 1948, e, nel dicembre 1950, la Storia dell’architettura moderna.7 Al piano regionale piemontese è dedicato il numero monografi-co di «Metron», 14, 1947.8 Cfr. le osservazioni sull’avvio del piano di Ivrea in Carlo Olmo, Gli incerti confini di una professione, in Urbanistica e società civile, cit. 9 Carlo Olmo, Gli incerti confini di una professione, in Urbanistica e società civile cit.; Marco Romano, Gli anni cinquanta. La com-plicità ideologica degli urbanisti e il ruolo di mediazione della cul-tura, in L’urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo, Marsilio, Venezia 1980, pp. 113 sgg. 10 Roberto Dulio, Introduzione a Bruno Zevi, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 65-66; Giuseppe De Luca, Su Bruno Zevi e l’INU. Prime riflessioni, in: Antonietta Iolanda Lima (a cura di), Bruno Zevi e la sua eresia necessaria. Atti del convegno 23-24 maggio 2018, Dario Flaccovio Editore, Palermo 2018, pp. 111-114.11 L’impianto positivista delle tesi di Astengo viene messo in rilie-vo, e stigmatizzato in quanto ostacolo alla presa in considerazione della dialettica materialista, in Marco Romano, Gli anni cinquan-ta. La complicità ideologica degli urbanisti e il ruolo di mediazione della cultura, in L’urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo cit.12 Marco Romano, Il clima culturale del dopoguerra, in L’urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo cit.

13 Le fotografie pubblicate in «Metron» raffigurano una lo scor-cio delle facciate delle cascine sul lato verso Borgaretto, una la fac-ciata dell’osteria verso il viale, una la corte del canile, il cui perime-tro snodato è una suggestione evidente per le soluzioni adottate a Falchera.14 In particolare, lo scorcio sulle facciate dei rustici, incorniciato dalle chiome degli alberi in primo piano, con l’aneddoto della fi-gura sul sentiero.15 Molte osservazioni di Giovanni Romano in L’attenzione di Giovan Piero Viesseux e le disattenzioni di Julien Sorel calzano per-fettamente alle iconografie di presentazione di Falchera: Giovanni Romano, Studi sul paesaggio, Einaudi, Torino 1978, pp. 93 sgg.16 Per una panoramica sulla letteratura di denuncia negli anni ‘50 il rinvio, in particolare per le note, è a Giovanni Durbiano, L’appello al realismo: cultura comunista e cultura architettonica, 1954-1956, in Giovanni Durbiano, I Nuovi Maestri, Marsilio, Venezia 2000, pp. 55 sgg.17 Le fotografie sono in tutto sessantadue, ripartite senza squilibri evidenti tra i diversi edifici; stralci di prospetti su fondo viola sono dedicati agli edifici di Astengo e di Rizzotti; di tutti gli edifici sono illustrate le piante degli alloggi. Solo per l’edificio di Astengo sono illustrate due vedute dall’interno verso l’esterno, ed è sempre l’edificio di Astengo l’unico dal quale si affaccino, in una piccola fotografia, degli abitanti.18 Piano incremento occupazione operaia – case per lavoratori. Suggerimenti, norme e schemi per la elaborazione e presentazione dei progetti, Roma ottobre 1950; Piano incremento occupazione operaia – case per lavoratori. Suggerimenti, esempi e norme per la progettazione urbanistica, Roma, dicembre 1950.19 Giovanni Astengo, Intervento al IV congresso dell’INU, Venezia 18-21 ottobre 1952, in «Urbanistica», 10-11, 1952.

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SANDRA BARBERI, DIEGO GIACHELLO

Il Castello dei Sogni. Un nuovo percorso di visita al castello di IssogneThe Dreams Castle of Issogne. A new exhibition itinerary

AbstractIl progetto del Castello dei Sogni a Issogne recupera gli spazi del cosiddet-to appartamento di Avondo al primo piano dell’edificio permettendo la visi-ta di una porzione della dimora degli Challant e che da anni era priva di un vero e proprio allestimento. I visitatori sono oggi guidati dallo stesso Vittorio Avondo, che compare attraverso l’artificio gli specchi, filo conduttore dell’in-tero progetto narrativo. Ci si trova così trasportati nell’atmosfera di un tempo a metà strada tra quel Medioevo ancora presente nei numerosi affreschi, che ornano le sale, e quello immaginato dall’allegra brigata di amici, che qui sogna-rono e riscoprirono gli anni dello splendore del castello.

The project at Dreams Castle of Issogne recovers the rooms of the so called “Avondo’s apartment” on the first floor of the building, offering a partial view of Challant’s abode, which has been for many years devoid of a proper installation. Visitors are lead through a play of mirrors by Vittorio Avondo himself, leitmotif of the whole narration. They are then transported in an atmosphere set in a time between Middle Age, still witnessed by various frescos adorning the rooms and the one days imagined by the lively group of friends that here daydreamed and rediscovered the years of splendour of the castle.

La fama internazionale del castello di Issogne è legata alle lunette del portica-to, immagini tra le più note e riprodotte per documentare la vita quotidiana tra il XV e il XVI secolo, e alla celebre fontana del melograno. La dimora riflet-te la cultura raffinata del priore Georges de Challant, a cavallo tra la splendida fioritura dell’autunno del Medioevo e le novità di un rinascimento di ritorno di marca transalpina1. Meno conosciute sono le vicende legate al recupero tar-do-ottocentesco del castello, di cui è protagonista il pittore torinese Vittorio Avondo (1836-1910). Artista, connoisseur, collezionista, direttore del Museo Civico di Torino dal 1890 al 1910, Avondo fa parte del cenacolo di artisti e let-terati che animano la cultura storicista subalpina nella seconda metà del XIX secolo, i cui orientamenti troveranno l’espressione più matura nella realizza-zione del Borgo e della Rocca medievale per l’Esposizione nazionale di Torino del 18842. Nel 1872 Avondo acquista all’asta il castello di Issogne. È l’inizio di una grande avventura, condivisa con gli amici Alfredo d’Andrade, Federico Pastoris, Casimiro Teja, Giuseppe Giacosa, allora giornalista critico d’arte e aspirante drammaturgo, e suo fratello Piero, studente di medicina e pittore di-lettante, conosciuti e frequentati nell’ambito del cenacolo artistico noto come Scuola di Rivara. Una «lieta brigata» di giovani colti e cosmopoliti uniti dai comuni interessi intellettuali, la volontà di rinnovare il linguaggio artistico in direzione del naturalismo e una propensione verso il Medioevo locale che in

Sandra Barberi, storica dell’arte, si occupa principalmente di problemi storico-artistici relativi alla Valle d’Aosta, sia con finalità di ricerca specialistica, sia nella prospettiva di divulgazione e valorizzazione del patrimonio locale. Alterna la sua attività come libero pro-fessionista tra Aosta e Torino.

[email protected]

Diego Giachello con Officine delle Idee si oc-cupa sia del disegno di nuovi luoghi per la cultura e per l’abitare che della rigenerazione di spazi già esistenti, dove allestire mostre, musei, conservare le testimonianze del pas-sato, raccontare le storie di ieri e vivere quelle di oggi.

[email protected]

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Figure 1-2. La visita ha inizio dalla Camera di Marguerite de La Chambre, dove alcuni arredi – che gli inventari già documentano in questo locale – lasciano supporre che il padrone di casa sia appena arrivato. L’allestimento prevede un grande specchio/monitor sul quale, dopo l'ingresso dei visitatori, compare la figura di Vittorio Avondo. Una voce fuori campo racconta le vicende dell'acquisizione del castello e introduce i protagonisti del percorso, Avondo e i suoi amici. Sulle pareti guizzano, rapide e indistinte come fantasmi, proiezioni delle immagini dei personaggi evocati, accompagnate da voci e suoni.

Figura 3. Linea del tempo, organizzata su tre pareti, con la cronologia sinottica della storia ottocentesca del castello e la biografia di Avondo. A partire dal 1872, anno dell'acquisto del monumento, le due cronologie si sovrappongono anche visivamente attraverso la disposizione dei pannelli Lumilite retroilluminati: sullo sfondo gli eventi relativi al castello, in primo piano le vicende salienti della vita del personaggio. L'installazione è completata da oggetti reali, in parte inseriti entro vetrine: un dipinto di Avondo, la sua tavolozza, alcune suppellettili da lui fatte appositamente realizzare per l'arredo del castello e uno specchio convesso, ispirato al celebre esempio di Van Eyck sullo sfondo dei coniugi Arnolfini.

Figura 4. In questo piccolo vano di passaggio, per il quale è previsto solo l’affaccio da parte del pubblico, il pavimento è ricoperto con una superficie specchiante per sottolineare l’effetto “a scatola” della decorazione che riveste interamente le pareti e il soffitto dell’ambiente, altrimenti non percepibile.

Figure 5-6. L'ambiente è dedicato alla presentazione della “lieta brigata” degli amici di Avondo che frequentavano assiduamente il castello e collaborarono al suo ripristino: Federico Pastoris, Alfredo d'Andrade e Casimiro Teja, insieme nella foto scattata intorno al 1870, in occasione di una delle numerose gite in montagna condivise (Archivio Fotografico Fondazione Torino Musei, Fondo D'Andrade). Su un grande schermo Lumilite sono riprodotti firme, biglietti da visita, lettere e altri documenti relativi ai personaggi in questione, per lo più tratti dal Fondo Avondo già nel castello. La parete fa da sfondo a quattro postazioni con gli appositi cilindri per scoprire da vicino, attraverso il principio dell'anamorfosi, i volti delle singole figure.

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Figure 7-8. Il locale è dedicato al Ritorno di Terra Santa di Federico Pastoris, alla figura e all'opera del pittore. La biografia dell'artista si dispiega sul grande telo che scherma la finestra, mentre il Lumilite sulla parete presenta un approfondimento sul dipinto, illustrato nella sua genesi concettuale, nel divenire della sua stesura pittorica e nelle vicende storiche attraverso le quali è giunto nelle collezioni regionali. Un breve filmato riassume le fasi salienti dell'intervento di restauro.

Figura 9. Lo scavo del vano scala che nel corridoio di passaggio scendeva al piano terreno è stato coperto ottenendo uno spazio dedicato interamente a Giuseppe e Piero Giacosa, anch'essi membri della “lieta brigata”. Affacciandosi al parapetto trasparente che recinge l'area, il pubblico osserva un’installazione multimediale a pavimento che ripercorre le vicende dei fratelli Giacosa, accompagnata dalla voce narrante fuori campo.Figura 10. La camera da letto che Avondo occupava durante i suoi soggiorni al castello, dove sono esposti alcuni suoi oggetti di uso personale e i giochi utilizzati come passatempo con gli amici, tra cui i gustosi scacchi “fatti in casa” con figurine disegnate, ritagliate e incollate su basi che riutilizzano i pezzi numerati della tombola.

Figura 11. Conclude il percorso di visita la Sala d'armi, dove Avondo aveva esposto la sua collezione prediletta, quella di armi antiche. Per evocare la presenza di una raccolta in origine più ricca, la rastrelliera è stata duplicata virtualmente per mezzo di una superficie specchiante. Un altro specchio/monitor analogo a quello della prima sala illustra il progetto museografico di Avondo attraverso le fotografie di Vittorio Ecclesia, accompagnato da un audio in prima persona. Questo congedo ideale del “padrone di casa” serve anche a raccordare visivamente l'ambiente alle altre sale visitabili del castello, in ciascuna delle quali è presenta la foto Ecclesia dell’allestimento.

Piemonte affonda le sue radici nella tradizione storiografica e letteraria tardosettecentesca e prosegue ininterrotta per tutto l’Ottocento e oltre, fino agli anni del fascismo, e da un’amicizia sancita dalla passione per la montagna, vissuta attraverso escursioni che si concludono spesso con un’alle-gra sosta nell’osteria più vicina3. Ma l’interesse per il vero che accomuna il gruppo, allineato con le più avanzate ricerche artistiche europee, oltrepassa i confini della pittura per di-ventare una disposizione particolare anche verso lo studio

dell’arte antica, indagata non tanto sui libri quanto sui mo-numenti, per «risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisiono-mia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita»4. Avondo e i suoi compa-gni si impegnano per ridare vita agli ambienti del castello così come doveva apparire all’epoca di Georges de Challant: per loro il castello è palestra di studio e cantiere di lavoro, il laboratorio dove prenderà forma il Borgo Medievale, ma è anche il teatro dove rievocare e rivivere la vita quotidiana del

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Medioevo, in una fusione inscindibile tra passato e presente, arte e vita, sogno e realtà. Non per niente, giocando sull’as-sonanza del toponimo, il castello d’Issogne era chiamato il Castello dei Sogni: il sogno di Avondo, certamente, ma an-che il sogno romantico di un’intera epoca che ha riscoperto, amato appassionatamente e ricreato il Medioevo in tutti i campi della vita sociale e culturale, dalla letteratura all’arte, al teatro, agli arredi domestici. L’architettura e gli apparati decorativi del castello sono studiati nei dettagli, le pitture svelate, le sale riaperte e riarredate con mobili e suppellettili recuperati sul mercato antiquario o fedelmente copiati da-gli originali. La campagna fotografica eseguita da Vittorio Ecclesia tra 1882 e 18845, alla conclusione dei lavori ispirati a criteri quasi modernamente filologici, restituisce il proget-to museografico e collezionistico di Avondo, che nel 1907 donerà il castello allo Stato. Queste preziose immagini e gli inventari della dimora all’epoca della donazione hanno for-nito una solida base documentaria per il riallestimento del castello condotto dalla Soprintendenza per i beni e le attivi-tà culturali della Regione autonoma Valle d’Aosta nel 1998.Il nuovo intervento conclusosi nell’estate 2018 risponde all’esigenza, a vent’anni di distanza, di un rinnovamento

almeno parziale dei contenuti della visita, rimasta da allora immutata6. Lo spunto è stato offerto dall’acquisto del ca-polavoro di Federico Pastoris, Ritorno di Terra Santa, rea-lizzato per l’Esposizione nazionale di Belle Arti di Torino del 1880, cui fa da sfondo il cortile del castello di Issogne, restituito fedelmente nella decorazione pittorica e nei parti-colari architettonici7. Del monumentale dipinto, acquistato dal Duca d’Aosta, si erano perse le tracce dal 1892, anno in cui era stato esposto alla mostra del cinquantenario della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino. Ricomparsa sul mercato antiquario nel 2009, l’opera è stata tempestiva-mente acquisita dall’Amministrazione regionale, che ne ha individuato la collocazione più opportuna tra le mura del castello che l’ha ispirata.La Soprintendenza ha pertanto avviato i lavori per un nuovo percorso di visita, autonomo da quello già esistente, incen-trato sulla storia del castello dall’acquisto di Vittorio Avondo fino alla donazione allo Stato, con il duplice intento di con-testualizzare la tela di Pastoris e di approfondire le vicende legate alla rinascita ottocentesca del castello, che nella visita tradizionale risultavano penalizzate in favore di quelle me-dievali: insomma, un percorso che illustrasse il castello di

Figura 12. Figura 12. Planimetria percorso espositivo. I locali dell’Appartamento si snodano in sequenza al primo piano del Castello; il pubblico è invitato a seguire un racconto che lo stesso Vittorio Avondo propone attraverso la sequenza di installazioni.

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Figura 13. Specchio o monitor. Un cristallo riflettente con cornice ottocentesca nasconde in monitor da 80” che si attiva a sorpresa dopo alcuni istanti in cui il pubblico si specchia: è lo stesso Avondo a comparire e a invitare ad entrare nella sua casa.

Figura 14. Le grandi pareti raccontano. Dopo la prima stanza il pubblico incontra la Garderobe, un ambiente completamente graficizzato grazie alla sovrapposizione su piani diversi di lumilite, tessuti tesi su telai in alluminio retroilluminati da un panello led.

Avondo accanto al castello di Georges de Challant , per dar voce alle due anime della dimora, compresenti e intimamente allacciate. Il nuovo itinerario si snoda attraverso il cosiddetto appartamento di Avondo al primo piano dell’edificio, nei lo-cali la cui fisionomia tardogotica era stata irrimediabilmente alterata dagli interventi del barone Vautherelet, proprietario del castello prima dell’acquisto di Avondo, e per questo mo-tivo esclusi dall’intervento di recupero tardo-ottocentesco. Una sfida ardua, questa nuova proposta di visita: tante le informazioni da veicolare per ricostruire il tessuto culturale ricco e complesso che fa da sfondo a personaggi e a vicen-de ignoti al grande pubblico, pochi gli oggetti da esporre e poche le immagini a disposizione, in gran parte di scarsa qualità. Il tutto complicato dai limiti di tempo imposti per motivi logistici alla visita (mezz’ora) e da un budget che non permetteva grandi voli pindarici. Il progetto di allestimento nasce dalla collaborazione di due esperienze professionali diverse coordinate da Alessandra Vallet, responsabile del castello di Issogne per la Soprintendenza: quella di Paola Corti, attrice teatrale, e quella di Sandra Barberi, storica dell’arte e già curatrice dell’allestimento del 1998, puntan-do a una narrazione rigorosa nei contenuti ma giocata sul registro evocativo, onirico, suggerito dall’immagine del Castello dei Sogni 8. L’elemento di suggestione poetica su cui si fonda il percorso ruota attorno allo specchio. Attraverso lo specchio, ci insegna Alice, si entra in un mondo altro, nel mondo dei sogni. E la storia dello specchio attraverso cui la dama di Shalott era condannata a guardare per evitare di fissare lo sguardo verso Camelot, uscita dalla fantasia di Alfred Tennyson, è assunta felicemente da Renato Bordone come metafora dell’immaginario collettivo sul Medioevo: «di quel tempo favoloso, infatti, non si coglie quasi mai un’immagine diretta, derivata dalle fonti coeve, ma sempre e soltanto il riflesso di quello specchio deformante che fu la

fantasia ottocentesca»9. Ma lo specchio include anche un rimando al castello di Georges de Challant, ideatore della composizione araldica che decora le pareti del cortile del ca-stello, quel Miroir pour les enfants de Challant (tanto caro ad Avondo, che personalmente aveva lavorato per riportarne alla luce l’iscrizione coperta dalle ridipinture) che additava modelli di eccellenza politica, militare ed ecclesiastica alla progenie del giovane Philibert, cugino del priore e destinato a divenire quarto conte di Challant.Il ricorso ai mezzi multimediali, per loro stessa natura con-dannati a precoce senescenza, è stato volutamente limitato e ridotto a un utilizzo molto semplice. Voci, suoni, immagini labili come fantasmi accolgono il visitatore e lo trasporta-no nell’atmosfera del tempo, in quel Medioevo lucidamente sognato da Avondo e dai suoi compagni e riflesso dunque nello specchio della sensibilità del XIX secolo. Il leit Motif dello specchio è declinato in modo diverso in ogni locale, dalla grande specchiera che accoglie il visitatore, coinvol-gendolo in prima persona nel gioco di rimandi tra passato e presente, realtà e fantasia, al pavimento specchiante, ai ri-tratti dei protagonisti che si ricompongono per anamorfosi su uno specchio cilindrico, un espediente pensato anche per destare la curiosità delle numerose scolaresche di bambini che visitano il castello. L’esposizione delle vicende è affidata a brevi testi da leggere, composti secondo la consueta forma didascalica, e a testi da ascoltare, questi ultimi anche sotto forma di narrazioni affabulatorie, secondo una modalità non altrove sperimentata in Valle d’Aosta.A distanza di pochi mesi dall’inaugurazione, il nuovo percor-so ha registrato un discreto numero di presenze, ma è troppo presto per fare un bilancio, che sarà possibile solo dopo aver attraversato i periodi di alta stagione delle gite scolastiche tra aprile e maggio e dei mesi estivi. Sarà quello il reale banco di prova per la logistica e la gestione dei due circuiti di visita

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Note1 Sandra Barberi (a cura di), Il castello di Issogne in Valle d’Aosta. Diciotto secoli di storia e quarant’anni di storicismo, Allemandi, Torino 1999.2 Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli (a cura di), Tra Verismo e Storicismo. Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezio-nismo, dal museo al restauro, SPABA, Torino 1997 (Nuova Serie, Atti, IV) Per il contesto culturale rimane un testo di riferimento quello di R. Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medioevale del Valentino, in Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello (a cura di), Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, Vallecchi, Firenze 1981, pp. 19-43. 3 Sui rapporti tra i componenti della «lieta brigata» si veda Piero Nardi, Vita e tempo di Giuseppe Giacosa, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2007 (ed. or. Milano 1949).4 Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891. Catalogo Cronografico Illustrato della Esposizione retrospettiva 1892, Paravia, Torino 1893, p. 337 (l’affermazione è riferita qui a F. Pastoris).5 Pierangelo Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia, Fondazione Torino Musei, Torino 2005, pp. 29-35. Si vedano anche P. Cavanna, Invece di leggere la storia nei libri. Fotografia e museografia in Piemonte intorno al 1884, 2006, http://www.pierangelocavanna.

Scheda progetto

Ideazione e direzione artisticaSandra BarberiPaola CortiAlessandra Vallet

Progettazione dell’allestimentoDiego Giachello

Allestimento, grafica e apparati multimedialiACME04

da parte del personale di custodia del castello, che potrebbe comportare variazioni nelle tempistiche di avvicendamento degli ingressi, rigidamente regolamentati dalle norme di sicu-rezza. L’apertura di numerosi locali finora sconosciuti al pub-blico e l’offerta di due circuiti di visita con modalità di co-municazione e contenuti differenti sono i primi passi attuati dall’Amministrazione regionale per superare la sostanziale staticità della proposta culturale all’interno del castello: l’au-spicio è di poter incrementare il flusso di visitatori in quella che, pur essendo forse la più coinvolgente e affascinante tra le antiche dimore nobili valdostane, non registrava finora un successo di pubblico equiparabile alle sue potenzialità.

it/2016/01/31/invece-di-leggere-la-storia-nei-libri-fotografia-e-mu-seografia-in-piemonte-intorno-al-1884-2006/; Id., Un poco fuori fuoco. Torino 1884-1898: dalla fotografia d’arte alla fotografia arti-stica, 2013, http://www.pierangelocavanna.it/2016/02/21/un-po-co-fuori-fuoco1-torino-1884-1898-dalla-fotografia-darte-alla-foto-grafia-artistica-2013/.6 Alessandra Vallet, Sandra Barberi, Paola Corti, Nuovo percorso di visita al Château d’Issogne, in «Bollettino della Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Regione autonoma Valle d’Aosta», n. 14/2017 (2018), p. 219.7 Alessandra Vallet, Rosaria Cristiano, Maria Paola Longo Cantisano, Sandra Barberi, Maria Gabriella Bonollo, Achille Gallarini, Un percorso di tutela e valorizzazione intorno al Ritorno di terra santa di Federico Pastoris, in «Bollettino della Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Regione au-tonoma Valle d’Aosta», n. 9/2012 (2013), pp. 187-196.8 Afferma Carlo Bertelli: «Credo che il sogno sia una com-ponente importante di ogni storia. E questo vale anche per Medioevo. O meglio, per il recupero che si è fatto del Medioevo» (cit. dall’intervento Sogno medievale, l’importanza dello studio e della ricerca nella ricostruzione storica, Pavone Canavese, 4 giu-gno 1997). 9 Renato Bordone, Lo specchio di Shalott. L’invenzione del Medioevo nella cultura dell’Ottocento, Liguori, Napoli 1993, p. 11.