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2015

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Rappresentanza della Regione europea Tirolo-Alto Adige-Trentino

45-47 rue de Pascale

B-1040 Bruxelles

Tel.: +32 (0)2 743 27 00 – 01

Fax: +32 (0)2 742 09 80

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Foto della copertina: Cédric Puisney, « L'habit fait le magistrat «, CC BY-NC-ND 2.0

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CURIA-News Annuario 2015

Dal settembre 2011, sulla base di precedenti esperienze di monitoraggio della

normativa europea e del relativo processo formativo è nata la newsletter

“Curia News”, un progetto comune della Rappresentanza della

Regione europea Tirolo – Alto Adige – Trentino a Bruxelles.

L’obiettivo condiviso è quello di monitorare la giurisprudenza della Corte di

giustizia e del Tribunale, al fine di accrescere la sensibilità verso il diritto

dell’Unione europea.

Oltre alla newsletter periodica, quest’annuario rappresenta un ulteriore

strumento di informazione della giurisprudenza europea del 2015 e mira a

facilitare la consultazione delle pronunce nei settori di maggiore importanza.

Innsbruck, Bolzano, Trento e Bruxelles nel gennaio 2016

Fritz Staudigl

Klaus Luther

Fabio Scalet

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INDICE

LA CORTE DI GIUSTIZIA ..................................................................................... 1

SENTENZE 2015 ................................................................................................. 3

Agricoltura e pesca ................................................................................................ 3

La protezione degli animali durante il trasporto prevista dal diritto dell’Unione non

cessa alle frontiere esterne dell’Unione ................................................................. 3

Aiuti di stato ...................................................................................................... 4

La Corte condanna l'Italia per aver ritardato nel recupero di aiuti incompatibili con il

mercato comune ................................................................................................ 4

La decisione della Commissione che ordina il recupero di un aiuto di Stato concesso

agli operatori della piattaforma televisiva terrestre è legittima ................................. 5

Ambiente, energia e consumatori ....................................................................... 6

La normativa nazionale che non impone misure di prevenzione e di riparazione a carico

dei proprietari non responsabili dell’inquinamento dei loro terreni è compatibile con il

diritto dell’Unione ............................................................................................... 6

Una decisione amministrativa nazionale di non effettuare una valutazione dell’impatto

ambientale di determinati progetti pubblici e privati ai sensi del diritto dell’Unione ha

efficacia vincolante ............................................................................................. 7

Fallisce il tentativo di far annullare il regolamento sull’etichettatura indicante il

consumo d’energia degli aspirapolvere .................................................................. 9

Appalti pubblici ................................................................................................ 10

Un bando di gara che prevede un requisito di ubicazione geografica è contrario al

diritto dell'Unione ............................................................................................. 10

L’aggiudicazione di appalti pubblici può essere subordinata dalla legge al pagamento di

un salario minimo ............................................................................................ 11

Diritti fondamentali .......................................................................................... 12

La Corte chiarisce la nozione di “tariffe minime salariali” dei lavoratori distaccati ...... 12

Disposizioni istituzionali .................................................................................. 14

Le valutazioni di impatto destinate a fornire alla Commissione delucidazioni

nell’elaborazione delle sue proposte di atti legislativi, in linea di principio, non sono

accessibili al pubblico prima della divulgazione delle proposte ................................ 14

Fiscalitá ............................................................................................................ 15

Il cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale «bitcoin» è esente da

IVA ................................................................................................................ 15

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Libera circolazione dei lavoratori ..................................................................... 16

La normativa belga che prevede che le conoscenze linguistiche possano essere

dimostrate per mezzo di un unico tipo di certificato non è sono conforme al diritto UE

..................................................................................................................... 16

Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi .................................... 17

Il diritto dell’Unione non osta all’organizzazione di una nuova procedura di gara volta

all’attribuzione, in materia di giochi d’azzardo, di concessioni di durata inferiore alle

precedenti ....................................................................................................... 17

La Corte di giustizia precisa l’interpretazione di due direttive nel settore degli appalti

pubblici ........................................................................................................... 18

L’Amministrazione aggiudicatrice non può respingere un’offerta che soddisfa i requisiti

del bando di gara basandosi su motivi non previsti in tale bando ............................ 19

La normativa di uno Stato membro non può imporre alle società aventi la qualità di

organismi di attestazione di avere la sede legale nel territorio nazionale ................. 20

Principi del diritto comunitario ......................................................................... 22

L’installazione di contatori elettrici a un’altezza inaccessibile in un quartiere

densamente popolato da Rom è atta a costituire una discriminazione fondata

sull’origine etnica quando gli stessi contatori sono installati in altri quartieri a

un’altezza normale ........................................................................................... 22

Politica sociale ................................................................................................. 24

L’obesità può costituire un “handicap” ai sensi della direttiva sulla parità di trattamento

in materia di occupazione .................................................................................. 24

La Corte precisa le condizioni in presenza delle quali un lavoratore può essere

qualificato come lavoratore frontaliero in disoccupazione parziale ........................... 25

Il computo dei periodi di studio del sistema pensionistico austriaco è compatibile con il

principio di non discriminazione ......................................................................... 26

Il Lussemburgo non protegge sufficientemente i lavoratori saltuari dello spettacolo .. 28

Uno Stato membro non può esigere un nuovo periodo contributivo di sei mesi

preliminare all’ottenimento del diritto a un’indennità di maternità per il solo fatto che

la lavoratrice interessata ha cambiato status lavorativo o lavoro ............................ 29

La Corte chiarisce la nozione di “stabilimento” in materia di licenziamenti collettivi ... 31

Impedendo ai dipendenti pubblici di sesso maschile, la cui moglie non lavori, di

avvalersi del congedo parentale, la normativa ellenica è contraria al diritto dell’Unione

..................................................................................................................... 32

Uno Stato membro può escludere da talune prestazioni sociali, di carattere non

contributivo, cittadini dell’Unione che vi si recano per trovare lavoro ...................... 33

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Gli spostamenti effettuati dai lavoratori senza luogo di lavoro fisso o abituale tra il loro

domicilio ed il primo o l’ultimo cliente della giornata costituiscono orario di lavoro .... 35

La direttiva sul mantenimento dei diritti dei lavoratori si applica alle imprese pubbliche

che pongano termine al contratto con il quale avevano esternalizzato un determinato

servizio e che decidano di gestire tali attività con proprio personale ........................ 37

La risoluzione di un contratto di lavoro in seguito al rifiuto da parte del lavoratore di

acconsentire a una modifica unilaterale e sostanziale, a suo svantaggio, degli elementi

essenziali di tale contratto costituisce un licenziamento ai sensi della direttiva sui

licenziamenti collettivi ....................................................................................... 38

Ravvicinamento delle legislazioni ..................................................................... 40

Corte dichiara invalida la decisione della Commissione che attesta che gli Stati Uniti

garantiscono un adeguato livello di protezione dei dati personali trasferiti ............... 40

L’aumento delle tariffe di telecomunicazione in base a un indice dei prezzi al consumo

non consente agli abbonati di recedere dal loro contratto ...................................... 42

Sanitá pubblica ................................................................................................ 43

L’esclusione dalla donazione di sangue per gli uomini che abbiano avuto rapporti

sessuali con una persona dello stesso sesso può, alla luce della situazione in uno Stato

membro essere giustificata ................................................................................ 43

Sicurezza sociale .............................................................................................. 45

I redditi patrimoniali dei residenti in Francia che lavorano in un altro Stato membro

non possono essere soggetti ai contributi sociali francesi ....................................... 45

Spazio di libertà, sicurezza e giustizia .............................................................. 46

Una normativa nazionale che impone o l’ammenda o l’allontanamento di cittadini di

paesi terzi in caso di soggiorno irregolare, a seconda delle circostanze, è in contrasto

con il diritto dell’Unione .................................................................................... 46

I cittadini di paesi terzi, che siano soggiornanti di lungo periodo possono essere

obbligati dagli Stati membri a superare un esame di integrazione civica .................. 48

Gli Stati membri possono esigere che i cittadini di paesi terzi superino un esame di

integrazione civica preliminarmente al ricongiungimento familiare .......................... 49

La direttiva «rimpatri» non osta, in linea di principio, alla normativa di uno Stato

membro che commina una pena detentiva ad un cittadino di un paese terzo che entri

irregolarmente nel suo territorio trasgredendo un precedente divieto d’ingresso....... 50

Trasporti .......................................................................................................... 51

Uno Stato membro può vietare al titolare di una patente di guida conseguita in altro

Stato membro di guidare dopo aver commesso un’infrazione stradale di natura tale da

determinare la sua inidoneità alla guida .............................................................. 51

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vi

La prova dell’esistenza di un domicilio dichiarato sul territorio dello Stato membro non

può essere il solo strumento utile per dimostrare il requisito di «residenza normale» ai

fini del rilascio o rinnovo di una patente di guida .................................................. 52

Il vettore aereo è tenuto a indennizzare i passeggeri anche in caso di annullamento del

volo per problemi tecnici imprevisti .................................................................... 53

Tutela dei consumatori ..................................................................................... 54

La direttiva concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori si

applica anche ai contratti standard di servizi di assistenza legale............................ 54

Nel contratto di credito al consumo spetta al creditore fornire la prova dell’esecuzione

dei suoi obblighi precontrattuali di informazione e di verifica della solvibilità del

debitore .......................................................................................................... 55

Il consumatore non deve essere indotto in errore dall’etichettatura di un prodotto che

suggerisce la presenza di un ingrediente che in realtà è assente dal prodotto .......... 57

La Corte ha precisato che si presume che i difetti di conformità che si manifestano

entro sei mesi dalla consegna del bene, esistessero al momento della consegna ...... 58

Le operazioni di cambio nell’ambito di taluni tipi di mutui in valuta estera non

costituiscono servizi di investimento ................................................................... 59

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LA CORTE DI GIUSTIZIA

La Corte di giustizia è il più alto organo giurisdizionale dell’UE. Garantisce che il diritto

dell‘Unione europea venga interpretato ed applicato uniformemente in tutti gli Stati membri e

con le sue sentenze ha promosso l’integrazione europea in molti settori.

Compiti e competenze

Le regole sulla composizione e l’attività della Corte di giustizia sono contenute nel Trattato di

Lisbona. Il procedimento è, invece, disciplinato dai Trattati, dal Protocollo sullo statuto della

Corte di giustizia, dal regolamento di procedura e dal regolamento addizionale di procedura. La

Corte di giustizia giudica le controversie insorte tra i Governi degli Stati membri e l’Unione

europea. Tuttavia, anche privati, imprese ed organizzazioni possono adire la Corte di giustizia,

qualora ritengono che un organo dell’UE abbia leso i loro diritti. La Corte di giustizia decide

prevalentemente:

1) domande di pronuncia pregiudiziale, tramite le quali un giudice nazionale che

dubiti dell’interpretazione o della validità di una norma dell’UE rimette la questione alla

Corte;

2) ricorsi per inadempimento, avviati dalla Commissione europea o da uno Stato

membro, se un altro Stato membro non adempie agli obblighi previsti dal diritto

europeo;

3) ricorsi di annullamento, che possono essere proposti da uno Stato membro, dal

Consiglio, dalla Commissione o, in determinate circostanze, anche dal Parlamento

europeo nei confronti di norme giuridiche dell’UE che si presumono illegittime. Anche i

privati hanno la possibilità di chiedere l’annullamento di un determinato atto giuridico

che li riguardi direttamente e personalmente qualora questo arrechi loro un

pregiudizio. Per i ricorsi di annullamento di persone fisiche individuali é competente, in

primo grado, il Tribunale;

4) ricorsi per carenza, che possono essere proposti per accertare un’inerzia di

un’istituzione, di un organo o di un organismo dell’UE. La competenza a decidere il

ricorso per carenza é ripartita tra la Corte di giustizia ed il Tribunale secondo gli stessi

criteri propri del ricorso di annullamento;

5) impugnazioni, che possono essere proposte contro le sentenze e le ordinanze del

Tribunale.

Composizione

La Corte di giustizia si compone di 28 giudici (uno per ogni Stato membro dell’UE) assistiti da

11 avvocati generali, i quali hanno il compito di presentare pubblicamente, con assoluta

imparzialità e piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause di cui é investita la Corte di

giustizia. I giudici e gli avvocati generali sono designati dai Governi degli Stati membri di

comune accordo per un periodo rinnovabile di sei anni.

Il regime linguistico del procedimento

Al fine di garantire che ogni cittadino dell’UE possa compiere atti giuridici nella propria lingua, il

ricorrente può scegliere liberamente una tra le 24 lingue ufficiali dell’UE quale lingua

processuale della causa. Per quanto attiene alle domande di pronuncia pregiudiziale, la lingua

processuale è quella dello Stato membro del giudice che si rivolge alla Corte. Durante il

dibattimento é prevista – se necessario – la traduzione nelle altre lingue ufficiali dell’UE. I

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giudici deliberano in una lingua comune che, di regola, é il francese. Anche i fascicoli della

causa vengono inoltre tradotti in francese che resta la lingua ufficiale interna della Corte di

giustizia.

Spese del procedimento

Il procedimento dinanzi alla Corte di giustizia è gratuito. Le spese legali sono invece a carico

delle parti. Se una parte non è in grado di sostenere in tutto o in parte le spese del

procedimento, può chiedere di essere ammesso al beneficio del gratuito patrocinio.

Il Tribunale e il Tribunale della funzione pubblica

Il Tribunale ed il Tribunale della funzione pubblica dell’UE compongono, assieme alla Corte di

giustizia, il sistema giurisdizionale dell’Unione europea. Il Tribunale (precedentemente nominato

“Tribunale di primo grado”) è stato istituito nel 1988 come organo della Corte di giustizia allo

scopo di decongestionarne l’attività ed è costituito da almeno un giudice per Stato membro. Le

cause che non presentino particolari complessità possono essere decise da un giudice

monocratico. Il Tribunale si pronuncia sulle controversie proposte da privati, imprese e

determinate organizzazioni nonché sulle cause in materia di diritto della concorrenza. Per

determinate materie il Parlamento europeo e il Consiglio hanno anche la possibilità di istituire

tribunali specializzati.

Il Tribunale per la funzione pubblica, istituito nel 2005, è invece competente a dirimere le

controversie tra l’UE ed i suoi dipendenti.

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SENTENZE 2015

Agricoltura e pesca

La protezione degli animali durante il trasporto prevista dal diritto dell’Unione non

cessa alle frontiere esterne dell’Unione

(Sentenza della Corte nella causa C-424/13, Zuchtvieh-Export GmbH/Stadt Kempten)

Nel contesto di una controversia tra la Zuchtvieh-Export GmbH e la Stadt Kempten in merito alla

decisione, adottata da quest’ultima nella sua qualità di autorità competente del luogo

di partenza, di negare lo sdoganamento di una partita di bovini da trasportare su

strada da Kempten (Germania) ad Andijan (Uzbekistan), il Bayerischer

Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa bavarese) ha presentato una domanda

di pronuncia pregiudiziale che verteva sull’interpretazione del regolamento (CE) n.

1/20051 sulla protezione degli animali durante il trasporto. Tale regolamento si basa,

da un lato, sul principio secondo cui gli animali non devono essere trasportati in

condizioni tali da rischiare di subire lesioni o sofferenze inutili e, d’altro lato, sulla

considerazione che il benessere degli animali implica che i trasporti di lunga durata

siano limitati nella misura del possibile.

Con tale domanda la Corte amministrativa bavarese voleva sapere dalla Corte se gli

obblighi relativi al giornale di viaggio e il potere dell’autorità competente di esigere,

eventualmente, modifiche a tale documento si applichino, nel caso di un trasporto da

uno Stato membro verso uno Stato terzo, anche alla parte del viaggio che si svolge

all’esterno dell’Unione.

La Corte nella sua sentenza del 23 aprile 2015 ha fatto presente che affinché un

trasporto di animali possa essere autorizzato, l’organizzatore del viaggio deve

presentare un giornale di viaggio realistico che consenta di ritenere che le disposizioni

del regolamento 1/2005 saranno rispettate, anche nella parte del viaggio che si svolge

all’esterno dell’Unione. La pianificazione del viaggio risultante dal giornale di viaggio

deve mostrare che il trasporto previsto rispetterà, in particolare, le specifiche tecniche

relative agli intervalli di abbeveraggio e di alimentazione nonché alla durata dei periodi

di viaggio e di riposo. Qualora il giornale di viaggio non risponda a tali requisiti,

l’autorità può esigere una modifica delle modalità di svolgimento del trasporto. Per i

trasporti di animali in partenza dal territorio dell’Unione e diretti verso paesi terzi non

è previsto infatti un regime particolare di autorizzazione che sia distinto da quello

applicabile ai trasporti che si svolgono all’interno dell’Unione.

Ciò premesso, la Corte ha concluso che la protezione degli animali durante il trasporto

prevista dal diritto dell’Unione non cessa alle frontiere esterne dell’Unione e che quindi

gli obblighi relativi agli intervalli di abbeveraggio e di alimentazione, nonché alla durata

dei periodi di viaggio e di riposo vigono anche per la parte del trasporto che si svolge

al di fuori dell’Unione.

Link alla versione integrale della sentenza

1 Regolamento (CE) n. 1/2005 del Consiglio, del 22 dicembre 2004, sulla protezione degli animali durante il trasporto e le operazioni correlate che modifica le direttive 64/432/CEE e 93/119/CE e il regolamento (CE) n. 1255/97

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Aiuti di stato

La Corte condanna l'Italia per aver ritardato nel recupero di aiuti incompatibili con il

mercato comune

(Sentenza della Corte di giustizia nella causa C-367/14, Commissione / Italia)

Con decisione del 25 novembre 19992 la Commissione ha ritenuto che le riduzioni dagli

oneri sociali concessi ad alcune imprese del territorio insulare di Venezia e Chioggia

costituivano aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune. Nel 2009 la

Commissione ha quindi proposto un ricorso per inadempimento contro l’Italia,

addebitando a quest’ultima di non avere adottato, entro i termini prescritti, tutte le

misure necessarie al recupero degli aiuti. Con sentenza del 20113, la Corte ha già

accertato che l’Italia non ha soddisfatto l’obbligo di recupero ad essa incombente in

forza della decisione della Commissione.

La Commissione ha quindi proposto un nuovo ricorso per inadempimento contro l’Italia

avendo constatato che questa non aveva ancora recuperato l’insieme degli aiuti e

aveva persino sospeso il recupero di alcuni di essi. Con sentenza del 17 settembre

2015, la Corte ha ora accertato che l’Italia è nuovamente venuta meno all’obbligo di

recupero ad essa incombente.

La Corte constata che le difficoltà intervenute nel corso della procedura di recupero

degli aiuti non consentono di giustificare la mancata esecuzione della sentenza del

2011. La Corte ritiene che l’Italia non sia riuscita a dimostrare che il complesso delle

misure adottate al fine di recuperare gli aiuti siano state oggetto di un controllo

permanente ed efficace, tanto più che uno Stato membro non può avvalersi del proprio

ritardo nell’esecuzione dei suoi obblighi per giustificare la mancata esecuzione di una

sentenza per inadempimento della Corte. Inoltre il fatto che alcune imprese siano in

difficoltà o in fallimento non incide sull’obbligo di recuperare gli aiuti illegittimamente

versati, dato che l’Italia è tenuta, secondo i casi, a provocare la liquidazione della

società, a fare inserire al passivo dell’impresa il suo credito o ad adottare qualsiasi

altra misura che consenta il rimborso dell’aiuto.

La Corte ha giudicato che l’imposizione di una penalità (12 milioni EUR per semestre di

ritardo nell’esecuzione della sentenza del 2011) costituisca uno strumento finanziario

adeguato al fine di incitare l’Italia ad adottare le misure necessarie per porre fine

all’inadempimento accertato.

Infine, tenuto conto che l’Italia è già stata oggetto di numerose sentenze per

inadempimento a causa del recupero tardivo di aiuti illegittimi ed incompatibili con il

mercato interno, la Corte ha ritenuto che l’effettiva prevenzione della reiterazione

futura di analoghe violazioni del diritto dell’Unione richieda l’adozione di una misura

dissuasiva quale l’imposizione di una somma forfettaria, che la Corte ha stabilito in un

importo pari a 30 milioni EUR. Link alla versione integrale della sentenza

2 Decisione 2000/394/CE della Commissione, del 25 novembre 1999, relativa a misure di aiuto in favore delle imprese

nei territori di Venezia e Chioggia, previste dalle leggi n. 30/1997 e n. 206/1995, recanti sgravi degli oneri sociali (GU

2000, L 150, pag. 50).

3 Sentenza della Corte, del 6 ottobre 2011, Commissione/Italia (causa C-302/09).

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5

La decisione della Commissione che ordina il recupero di un aiuto di Stato

concesso agli operatori della piattaforma televisiva terrestre è legittima

(Sentenza del Tribunale nelle cause T-461/13, T-462/13, T-463/13, T-464/13, T-465/13, T-

487/13, T-541/13 Spagna/Commissione)

La Commissione ha promosso la digitalizzazione della radiodiffusione nell’Unione

europea sin dal 2002. La digitalizzazione può essere effettuata tecnicamente mediante

piattaforme terrestri, satellitari, via cavo o mediante accessi alla banda larga su

Internet.

Tra il 2005 e il 2009, le autorità spagnole hanno adottato una serie di misure volte a

consentire il passaggio dalla televisione analogica alla televisione digitale. Le emittenti

nazionali erano tenute a coprire il 96% della popolazione, nel caso del settore privato,

e il 98% della popolazione, nel caso del settore pubblico, nel loro rispettivo territorio.

Poiché sussisteva il pericolo di non raggiungere gli obiettivi prefissati in alcune zone, le

autorità spagnole hanno allora erogato un finanziamento pubblico per sostenere il

processo di digitalizzazione terrestre.

A seguito di una denuncia da parte di una società concorrente, nel giugno 2013 la

Commissione ha adottato una decisione sui citati finanziamenti. Questi ultimi sono

aiuti di Stato illegali e incompatibili con le regole del mercato unico. Nella stessa

decisione, la Commissione ha ordinato il recupero dell’aiuto presso i beneficiari.

Diverse regioni spagnole hanno chiesto al Tribunale dell’Unione europea di annullare la

decisione della Commissione.

Nella sua sentenza del 16 novembre 2015 il Tribunale respinge tutti i ricorsi e

conferma la decisione della Commissione.

Il Tribunale rileva che la Commissione non è incorsa in errore nel ritenere che, in

assenza di una definizione chiara del servizio di sfruttamento di una rete terrestre in

quanto servizio pubblico, le misure dovessero essere qualificate come aiuto di Stato.

Affinché un intervento statale possa essere considerato come una compensazione

diretta a rappresentare la contropartita delle prestazioni effettuate dalle imprese

beneficiarie per assolvere obblighi di servizio pubblico, l’impresa beneficiaria deve

essere effettivamente incaricata dell’adempimento di tali obblighi ed essi devono

essere definiti in modo chiaro. Le autorità spagnole non hanno fornito elementi di

prova al riguardo.

In secondo luogo la Commissione ha, secondo il Tribunale, correttamente ritenuto che

le misure in questione non potessero essere considerate come un aiuto di Stato

compatibile con il mercato interno, in particolare perché non hanno rispettato il

principio di neutralità tecnologica.

Link alla versione integrale della sentenza

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Ambiente, energia e consumatori

La normativa nazionale che non impone misure di prevenzione e di riparazione a

carico dei proprietari non responsabili dell’inquinamento dei loro terreni è

compatibile con il diritto dell’Unione

(Sentenza nella causa C-534/13, Fipa Group e altri)

Nella causa C-534/13 il Consiglio di Stato italiano nell’ambito una domanda di

pronuncia pregiudiziale ha chiesto, in sostanza, se i principi del diritto dell’Unione in

materia ambientale, segnatamente, il principio «chi inquina paga»4, debbano essere

interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, nel caso in cui sia

impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o di ottenere da

quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre

l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale terreno,

non responsabile della contaminazione5.

Dopo aver precisato l’applicabilità ratione temporis della direttiva 2004/35 e la nozione

di “operatore” ai sensi della medesima direttiva, nella sentenza del 4 marzo 2015 la

Corte ha confermato che, affinché il regime di responsabilità ambientale sia efficace, è

necessario che sia accertato dall’autorità competente un nesso causale tra l’azione di

uno o più operatori individuabili e il danno ambientale concreto e quantificabile. La

Corte ricorda che, conformemente all’articolo 8, paragrafo 3, lettera a), della direttiva

2004/35, in combinato disposto con il considerando 20 della stessa, l’operatore non è

tenuto a sostenere i costi delle azioni di riparazione adottate in applicazione di tale

direttiva quando è in grado di dimostrare che i danni in questione sono opera di un

terzo e si sono verificati nonostante l’esistenza di idonee misure di sicurezza, o sono

conseguenza di un ordine o di un’istruzione impartiti da un’autorità pubblica. Allorché

non possa essere dimostrato alcun nesso causale tra il danno ambientale e l’attività

dell’operatore, tale situazione rientra nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale,

nel rispetto delle norme del Trattato e fatti salvi altri eventuali atti di diritto derivato.

La Corte ha osservato che nella specie è pacifico che la normativa di cui trattasi nel

procedimento principale non consente di imporre misure di riparazione al proprietario

non responsabile della contaminazione, limitandosi al riguardo a prevedere che siffatto

proprietario può essere tenuto al rimborso dei costi relativi agli interventi intrapresi

dall’autorità competente nei limiti del valore del terreno, determinato dopo

l’esecuzione di tali interventi.

Pertanto la Corte ha risposto alla questione pregiudiziale che la direttiva 2004/35

deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come

quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia

impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da

quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre

l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito,

non responsabile della contaminazione. Link alla versione integrale della sentenza

4 Articolo 191, paragrafo 2, TFUE e direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. 5 Si tratta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale (“Codice dell’ambiente”), articoli 244, 245, 253.

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Una decisione amministrativa nazionale di non effettuare una valutazione

dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati ai sensi del diritto

dell’Unione ha efficacia vincolante

(Sentenza nella causa C-570/13, Karoline Gruber/Unabhängiger Verwaltungssenat für Kärnten

e.a.)

Il Governo del Land Carinzia aveva autorizzato la costruzione di un centro commerciale

senza effettuare una preventiva valutazione d’impatto ambientale (VIA) e riteneva tale

decisione vincolante e definitiva nei confronti di ogni cittadino. Per questa ragione, un

cittadino, ha promosso ricorso dinanzi al Tribunale Amministrativo austriaco. Nella

causa C-570/13 il predetto tribunale, ha chiesto alla Corte di Giustizia se l’articolo 11

della direttiva 2011/92 relativa alla valutazione d’impatto ambientale (VIA)6 debba

essere interpretato nel senso che osti ad una normativa nazionale, in forza della quale

una decisione amministrativa che accerta che non è necessario effettuare una VIA per

un progetto, ha efficacia vincolante nei confronti dei vicini che non disponevano di un

diritto di ricorso contro detta decisione amministrativa.

Nella sua sentenza del 21 aprile 2015 la Corte di Giustizia precisa in primo luogo che

l’articolo 11 della direttiva 2011/92 stabilisce che gli Stati provvedano affinché i

membri del “pubblico interessato” che vantino un interesse sufficiente o facciano

valere la violazione di un diritto possano proporre ricorso contro decisioni, atti e

omissioni soggetti alle disposizioni della direttiva 2011/92 per contestarne la

legittimità sostanziale o procedurale. Mette poi in luce la Corte che la individuazione di

cosa costituisca “interesse sufficiente” e “violazione di un diritto” rientra nella

competenza degli Stati Membri, tuttavia detta valutazione deve essere svolta

compatibilmente con l’obiettivo di fornire al pubblico interessato un ampio accesso alla

giustizia. In tal senso, atteso che è la stessa legge austriaca a definire il concetto di

“vicino” quale persona che può essere messe in pericolo o disturbata dalla costruzione,

dall’esistenza o dal mantenimento in funzione di uno stabilimento, o la cui proprietà o

altri diritti reali possano essere compromessi, tale nozione può, ad avviso della Corte,

far parte del “pubblico interessato”. Per contro, la legislazione austriaca esclude a

priori dai ricorrenti la categoria dei “vicini”, come quella di altri soggetti

potenzialmente idonei a soddisfare i requisiti di cui all’art. 11 della Direttiva, atteso che

limita il diritto di ricorso ai richiedenti l’autorizzazione per il progetto, alle autorità

cooperanti, al mediatore per l’ambiente (Umweltanwalt) e al comune interessato., Tale

esclusione, pressoché generale, limita la portata del predetto articolo 11, paragrafo 1

della Direttiva, e risulta quindi incompatibile con la direttiva medesima.

Conclude dunque la Corte statuendo che l’articolo 11 della direttiva 2011/92/UE deve

essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in forza della quale

una decisione amministrativa, che accerta che non è necessario effettuare una

valutazione dell’impatto ambientale per un progetto, ha efficacia vincolante nei

confronti dei vicini che non dispongono di un diritto di ricorso avverso detta decisione

amministrativa. E ciò a condizione che tali vicini, facenti parte del «pubblico

interessato» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, di tale direttiva, soddisfino i criteri

previsti dal diritto nazionale per quanto riguarda l’«interesse sufficiente» o la

«violazione di un diritto». Spetta in ogni caso al giudice del rinvio verificare se tale

6 Direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati.

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8

condizione sia soddisfatta nel procedimento dinanzi a esso pendente. In caso

affermativo, esso deve negare l’efficacia vincolante, nei confronti di detti vicini, di una

decisione amministrativa di non effettuare tale valutazione.

Link alla versione integrale della sentenza

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9

Fallisce il tentativo di far annullare il regolamento sull’etichettatura indicante il

consumo d’energia degli aspirapolvere

(Sentenza nella causa T-544/13 Dyson Ltd/Commissione)

Dal 1° settembre 2014 tutti gli aspirapolvere venduti nell’Unione europea sono

soggetti a un’etichettatura indicante il consumo d’energia le cui modalità sono

precisate dalla Commissione in un regolamento che integra la direttiva

sull’etichettatura indicante il consumo d’energia7. L’etichettatura mira, in particolare, a

informare i consumatori sul livello di efficienza energetica e sull’efficacia pulente

dell’aspirapolvere vuoto. Il regolamento non prevede di sottoporre a verifica gli

aspirapolvere con il contenitore della polvere pieno.

Una società inglese progetta e produce aspirapolvere ciclonici senza sacco. Avendo

ritenuto, sostanzialmente, che la verifica adottata dalla Commissione per misurare il

livello di efficienza energetica degli aspirapolvere sfavoriva i suoi prodotti rispetto agli

aspirapolvere con sacco, essa ha chiesto al Tribunale dell’Unione europea

l’annullamento del regolamento della Commissione.

La società afferma che il regolamento induce i consumatori in errore, in quanto

l’efficacia pulente è testata unicamente quando il contenitore per la raccolta della

polvere è vuoto, e non durante l’uso. Secondo l’opinione della stessa, il regolamento

favorirebbe gli aspirapolvere con sacco a discapito degli aspirapolvere senza sacco e/o

degli aspirapolvere ciclonici, poiché la perdita di aspirazione dovuta all’intasamento dei

sacchi non potrebbe essere individuata da prove effettuate in un contenitore della

polvere vuoto.

Riguardo alla prima questione, il Tribunale ricorda che la Commissione non poteva

adottare verifiche condotte con il contenitore della polvere pieno, poiché esse non sono

affidabili, accurate e riproducibili, come richiesto dal regolamento. A tale riguardo, il

Tribunale constata anche che la richiedente non ha provato la riproducibilità delle

verifiche condotte con aspirapolvere pieni.

Infine il Tribunale risponde che il regolamento non viola il principio della parità di

trattamento. Infatti, sebbene esistano, per stessa ammissione della Commissione,

differenze oggettive tra gli aspirapolvere senza sacco e gli aspirapolvere con sacco, la

Commissione poteva trattare in modo uniforme tali diverse situazioni, poiché sussiste

una giustificazione obiettiva e appropriata. A tale riguardo, il Tribunale rileva che

proprio a causa dell’assenza di verifiche riproducibili condotte con aspirapolvere pieni,

era obiettivo e appropriato trattare allo stesso modo gli aspirapolvere senza sacco e gli

aspirapolvere con sacco.

Link alla versione integrale della sentenza

7 Regolamento delegato (UE) n.665/2013 della Commissione, del 3 maggio 2013, che integra la direttiva 2010/30/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda l’etichettatura indicante il consumo d’energia degli aspirapolvere (GU L192, pag.1).

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10

Appalti pubblici

Un bando di gara che prevede un requisito di ubicazione geografica è contrario al

diritto dell'Unione

(sentenza nella causa C-552/13, Grupo Hospitalario Quirón SA/Departamento de Sanidad del

Gobierno Vasco)

Nei Paesi Baschi (Spagna) le autorità competenti hanno istituito un meccanismo di cooperazione

con strutture sanitarie e ospedali privati in base al quale taluni servizi pubblici di cure

mediche di sostegno sono esternalizzati e garantiti da strutture private, su base

contrattuale e in seguito all’aggiudicazione di un appalto pubblico di servizi. I capitolati

contenenti le specifiche tecniche concernenti l'appalto precisano, tra i requisiti minimi,

che i centri sanitari proposti devono trovarsi nel Comune di Bilbao.

Nel corso di un contenzioso relativo alla regolarità del bando di gara, lo Juzgado de lo

Contencioso-Administrativo n. 6 di Bilbao (tribunale amministrativo n. 6 di Bilbao) ha

deciso di sospendere il procedimento principale e di sottoporre alla Corte la questione

pregiudiziale concernente la compatibilità di tale requisito, inserito nei contratti

amministrativi di gestione di servizi pubblici di assistenza sanitaria, con il diritto

dell'Unione.

Nella sentenza del 22 ottobre 2015, la Corte precisa che il requisito secondo cui

siffatta struttura deve imperativamente essere ubicata in un dato comune destinato ad

essere il luogo di fornitura esclusivo dei servizi sanitari di cui trattasi, costituisce, in

considerazione della situazione geografica in discussione nel procedimento principale,

un vincolo di esecuzione territoriale che non è idoneo a consentire di raggiungere

l’obiettivo di garantire la prossimità e l’accessibilità della struttura ospedaliera privata

considerata, nell’interesse dei pazienti, dei loro familiari e del personale medico che

deve spostarsi verso tale struttura, garantendo al contempo un accesso a detti appalti

che sia pari e non discriminatorio per tutti gli offerenti.

Un requisito di ubicazione geografica, come quello formulato nelle clausole

amministrative speciali ha infatti l’effetto di escludere automaticamente gli offerenti

che non possono fornire i servizi di cui trattasi in una struttura situata in un dato

comune, nonostante il fatto che soddisfino eventualmente le altre condizioni stabilite

nei capitolati d’oneri e le specifiche tecniche degli appalti considerati. Il requisito in

parola non garantisce un accesso che sia pari e non discriminatorio per tutti gli

offerenti nella misura in cui esso rende accessibili gli appalti in parola unicamente agli

offerenti che possono fornire i servizi di cui trattasi in una struttura ubicata nel comune

indicato nei corrispondenti bandi di gara.

Di conseguenza la Corte ha statuito che tale requisito è contrario all’articolo 23,

paragrafo 2, della direttiva 2004/188.

Link alla versione integrale della sentenza

8 Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi

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11

L’aggiudicazione di appalti pubblici può essere subordinata dalla legge al

pagamento di un salario minimo

(Sentenza nella causa C-115/14 RegioPost GmbH & Co.KG / Stadt Landau in der Pfalz)

Una cittá tedesca ha escluso un’impresa dalla partecipazione ad una procedura di

appalto pubblico riguardante i servizi postali della città. Tale impresa aveva omesso di

dichiarare, contrariamente alle disposizioni del bando di gara e nonostante una lettera

di sollecito, che si impegnava a versare un salario minimo al personale. Le disposizioni

si riferivano ad una norma del stato federato tedesco.

Il tribunale regionale superiore adito dall’impresa chiedeva alla Cprte di giustizia

europea, se tale normativa fosse compatibile con il diritto europeo e in particolare con

la direttiva 2004/189. In base a questa direttiva, le amministrazioni aggiudicatrici

possono esigere condizioni particolari in merito all'esecuzione dell'appalto purché siano

compatibili con il diritto comunitario e siano precisate nel bando di gara o nel

capitolato d'oneri.

Nella sua sentenza del 17 novembre 2017 la Corte ha dichiarato che la direttiva

2004/18 non osta ad una normativa che impone agli offerenti e ai loro subappaltatori

di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta da allegarsi all’offerta, a versare un

salario minimo prefissato al personale assegnato all’esecuzione delle prestazioni.

Secondo la Corte, l’obbligo di cui trattasi costituisce una condizione particolare

ammessa, in linea di principio, dalla direttiva, giacché riguarda l'esecuzione

dell'appalto, ed è basata su considerazioni di tipo sociale. La Corte rileva, inoltre, che

tale obbligo è, nella fattispecie, nel contempo trasparente e non discriminatorio. Anche

quando il salario minimo potesse essere idoneo a restringere la libera prestazione dei

servizi, in linea di principio, puó essere giustificato dall’obiettivo di proteggere i

lavoratori.

Dunque, come non osta a che sia richiesto un impegno scritto relativo al rispetto di un

salario minimo, la direttiva consente del pari di escludere dalla partecipazione ad una

gara d’appalto pubblico un offerente che rifiuti di assumere un impegno siffatto.

Link alla versione integrale della sentenza

9 Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag.114, e rettifica GU 2004, L 351, pag. 44), come modificata dal regolamento (UE) n. 1251/2011 della Commissione, del 30 novembre 2011 (GU L 319, pag.4 3).

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12

Diritti fondamentali

La Corte chiarisce la nozione di “tariffe minime salariali” dei lavoratori distaccati

(Sentenza nella causa C-396/13, Sähköalojen ammattiliitto ry/ Elektrobudowa Spółka Akcyjna)

Nella causa C-396/13 la Corte di giustizia si è occupata di un’ atto di citazione

presentato da dei di lavoratori polacchi che sono stati distaccati dalla loro impresa per

l’esecuzione di lavori di elettrificazione in Finlandia. Tramite il sindacato finlandese del

settore dell’energia elettrica, i suddetti hanno chiesto il pagamento della retribuzione

minima sulla base di quanto riportato dai contratti collettivi finlandesi di applicazione

generale conclusi per le branche dell’elettrificazione e degli impianti tecnici di edificio.

Infatti, i criteri per il calcolo della retribuzione minima previsti di tali contratti collettivi

erano più favorevoli rispetto a quelli applicati dall’impresa polacca.

Il tribunale finlandese, investito in ultima istanza della questione, nell’ambito di un

procedimento di rinvio pregiudiziale, voleva sapere della Corte, se il sindacato contro il

diritto nazionale polacco si possa richiamare all’art. 47 della Carta dei diritti

fondamentali e se i lavoratori polacchi possano richiamarsi al diritto finlandese. Inoltre,

il tribunale voleva sapere dalla Corte, se la nozione di “tariffe minime salariali” ai sensi

della direttiva 96/71/CE10 relativa al distacco dei lavoratori include gli elementi

retributivi oggetto del procedimento principale.

Con sentenza del 12 febbraio 2015, la Corte ha innanzitutto rilevato che è applicabile il

diritto processuale finlandese pertanto i lavoratori polacchi possono delegare le loro

pretese salariali al sindacato. Di seguito la Corte ha osservato che la direttiva

96/71/CE ha l’obiettivo di stabilire le condizioni di lavoro e di occupazione garantite ai

lavoratori, come la durata minima delle ferie annuali retribuite e le tariffe minime

salariali. Da un lato mira a garantire una leale concorrenza tra le imprese nazionali e

quelle che svolgono una prestazione di servizi transnazionale, e dall’altro, ha lo scopo

di garantire ai lavoratori distaccati l’applicazione di un nucleo di norme imperative di

protezione minima dello Stato ospitante. La direttiva non ha però armonizzato il

contenuto sostanziale di tali norme, ma si è limitata piuttosto a fornire alcuni

informazioni in merito. Per determinare le tariffe minime salariali, la direttiva rinvia

espressamente alla legislazione e alla prassi nazionale dello Stato membro ospitante,

premesso che sussistono norme vincolanti e trasparenti. Tale accertamento spetta al

giudice nazionale. Pertanto le modalità di calcolo delle tariffe e i criteri a esse applicati

devono parimenti essere di competenza dello Stato membro ospitante, laddove questo

non ostacoli la libera prestazione dei servizi tra gli Stati membri. Secondo la Corte

l’indennità specifica per il distacco (indennità giornaliera, destinata a garantire la tutela

sociale dei lavoratori grazie alla compensazione dei disagi dovuti al distacco) e

l’indennità per il tempo di tragitto giornaliero possono essere considerati parti

integranti delle tariffe minime salariali. Non costituiscono invece parte integrante delle

tariffe minime salariali i buoni pasto e i costi relativi all’alloggio. Per quanto riguarda il

diritto di ogni lavoratore a ferie annuali retribuite, la direttiva deve essere interpretata

nel senso che la gratifica minima per ferie, che deve essere accordata al lavoratore

10 Direttiva 96/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1996, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (GU 1997, L 18, pag. 1, rettifiche GU 2007, L 301, pag. 28, e L 310, pag.22)

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distaccato per la durata minima delle ferie annuali retribuite, corrisponda al salario

minimo cui quest’ultimo ha diritto durante il periodo di riferimento.

Link alla versione integrale della sentenza

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14

Disposizioni istituzionali

Le valutazioni di impatto destinate a fornire alla Commissione delucidazioni

nell’elaborazione delle sue proposte di atti legislativi, in linea di principio, non sono

accessibili al pubblico prima della divulgazione delle proposte

(Sentenza del Tribunale nella causa T-424/14 e T-425/14 Client Earth/Commissione)

Un organismo senza scopo di lucro che si occupa di tutela dell’ambiente, aveva chiesto

alla Commissione l’accesso a due valutazioni d’impatto inerenti alla politica ambientale

dell’Unione. Poiché tali valutazioni erano destinate ad essere utilizzate nella

preparazione di iniziative legislative in materia ambientale la Commissione ha rifiutato

di concedere l’accesso, in quanto la loro divulgazione rischiava di arrecare grave danno

ai processi decisionali della Commissione, influenzandone la discrezionalità e

riducendone la capacità di trovare dei compromessi.

L’organizzazione ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale dell’Unione europea per

ottenere l’annullamento del diniego opposto dalla Commissione.

Il Tribunale ha riconosciuto che, nell’ambito della preparazione ed elaborazione di

proposte politiche (ed eventualmente di proposte di atti legislativi), la Commissione

può invocare motivi di ordine generale derivanti dall’esigenza di preservare il suo

spazio di riflessione, il suo margine di manovra, la sua indipendenza nonché il clima di

fiducia durante le discussioni e, dall’altro, in relazione al rischio di pressioni esterne

che potrebbero incidere sullo svolgimento delle discussioni e dei negoziati in corso. Ne

consegue che la Commissione può presumere che la divulgazione di tali documenti, in

linea di principio, arrechi grave pregiudizio al suo processo decisionale di elaborazione

di una proposta politica, e ciò fintantoché essa non abbia adottato la relativa decisione.

Con sentenza del 13 novembre 2015 il Tribunale ha respinto il ricorso

dell’organizzazione per la difesa dell’ambiente, confermando che la Commissione ha

legittimamente negato l’accesso ai documenti richiesti.

Link alla versione integrale della sentenza

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15

Fiscalitá

Il cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale «bitcoin» è esente

da IVA

(Sentenza nella causa C-264/14 Skatteverket / David Hedqvist)

Un cittadino svedese intende fornire servizi consistenti nel cambio di valute tradizionali

nella valuta virtuale «bitcoin» e viceversa. Il «bitcoin» è una valuta virtuale utilizzata

per pagamenti tra privati via internet nonché in taluni negozi online che l’accettano;

gli utenti possono acquistare e vendere tale valuta in base a tassi di cambio. Prima di

iniziare ad avviare tali operazioni, il cittadino ha richiesto un parere preliminare alla

commissione tributaria svedese per sapere se doveva essere versata l’IVA all’acquisto

e alla vendita di unità di «bitcoin». Secondo tale commissione, il «bitcoin» è un mezzo

di pagamento utilizzato in maniera corrispondente a mezzi legali di pagamento e le

operazioni che verrebbero effettuate dovrebbero essere quindi esenti da IVA. Lo

Skatteverket (amministrazione finanziaria svedese), ha proposto ricorso contro la

decisione della commissione tributaria dinanzi allo Högsta förvaltningsdomstolen

(Corte suprema amministrativa), sostenendo che le operazioni non ricadono nelle

esenzioni previste dalla direttiva IVA11.

La Corte suprema amministrativa chiedeva dunque in via pregiudiziale alla Corte, se

tali operazioni siano assoggettate a IVA e, nell’ipotesi affermativa, se siano esenti da

tale imposta.

Nella sentenza del 22 ottobre 2015, la Corte ha statuito che le operazioni di cambio di

valute tradizionali contro la valuta virtuale «bitcoin» (e viceversa) costituiscono

prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso ai sensi della direttiva, dato che esse

consistono nel cambio di diversi mezzi di pagamento. La Corte ha infatti sottolineato

come, nel procedimento principale, la valuta virtuale «bitcoin» non avesse altre finalità

oltre a quella di un mezzo di pagamento e che essa fosse accettata a tal fine da alcuni

operatori.

La Corte afferma anche che tali operazioni sono esenti dall’IVA in forza della

disposizione riguardante le operazioni relative «a divise, banconote e monete con

valore liberatorio». La Corte sottolinea come l’esclusione delle operazioni in oggetto

dalla sfera di applicazione di tale disposizione priverebbe quest’ultima di parte dei suoi

effetti, alla luce della finalità dell’esenzione, che consiste nell’ovviare alle difficoltà

insorgenti nel contesto dell’imposizione delle operazioni finanziarie quanto alla

determinazione della base imponibile e dell’importo dell’IVA detraibile.

Link alla versione integrale della sentenza

11 Direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU L 347, pag. 1).

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Libera circolazione dei lavoratori

La normativa belga che prevede che le conoscenze linguistiche possano essere

dimostrate per mezzo di un unico tipo di certificato non è sono conforme al diritto

UE

(Sentenza nella causa C-317/14, Commissione europea/Regno del Belgio)

Nella causa C-317/13 la Commissione europea aveva citato in giudizio il Regno del Belgio,

ritenendo una violazione del diritto Dell’Unione, il fatto, che tale Stato membro

esigesse dai candidati ai posti nei servizi locali delle regioni di lingua francese o di

lingua tedesca, la dimostrazione delle proprie conoscenze linguistiche per mezzo di un

unico tipo di certificato , qualora dai diplomi o certificati richiesti non risultasse lo

svolgimento dei loro studi in tali lingue. Un solo ente ufficiale belga poteva rilasciare

tale certificato, mediante un esame organizzato da sul territorio nazionale.

Nella sentenza del 5 febbraio 2015 la Corte ha innanzitutto affermato che le norme del

Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) ostano a qualsiasi

provvedimento che, seppure applicabile senza discriminazioni basate sulla

cittadinanza, sia idoneo ad ostacolare o a scoraggiare l’esercizio da parte dei cittadini

dell’Unione, delle libertà fondamentali garantite dal Trattato. Certamente, l’articolo 3,

paragrafo 1, secondo comma, del regolamento n.492/201112 relativa alla libera

circolazione dei lavoratori riconosce agli Stati membri il diritto di stabilire le condizioni

relative alle conoscenze linguistiche richieste in relazione alla natura dell’impiego

offerto e il possesso di un diploma che attesti il superamento di un esame di lingua

può costituire un criterio che consente di valutare le conoscenze linguistiche richieste.

Tuttavia, ciò non può pregiudicare la libera circolazione dei lavoratori e i requisiti

imposti dalle misure destinate ad attuare tale diritto non devono in alcun caso essere

sproporzionati rispetto allo scopo perseguito.

Con riferimento alla sentenza Angonese (C-281/98) la Corte ha censurato che il

requisito della prova delle conoscenze linguistiche mediante la presentazione di un

unico tipo di certificato esclude completamente la possibilità di prendere in

considerazione il grado di conoscenze linguistiche tramite un diploma ottenuto in un

altro Stato membro, alla luce della natura e della durata degli studi di cui attesta il

compimento. Inoltre la Corte ha contestato che mediante l’introduzione di un tale

requisito risultino svantaggiati i cittadini degli altri Stati membri che desiderino

candidarsi a un impiego in un servizio locale in Belgio. Tali cittadini sarebbero infatti

costretti a recarsi nel territorio belga al solo fine di far valutare le proprie conoscenze

nell’ambito di un esame indispensabile per il rilascio del certificato richiesto per il

deposito della candidatura. Gli oneri supplementari che una siffatta restrizione

comporta sono tali da rendere più difficile l’accesso agli impieghi di cui trattasi.

Pertanto, la Corte di giustizia è pervenuta alla conclusione che la normativa belga

contrasta con il diritto dell’Unione.

Link alla versione integrale della sentenza

12 Regolamento (UE) n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione (GU L 141, pag.1).

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17

Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi

Il diritto dell’Unione non osta all’organizzazione di una nuova procedura di gara

volta all’attribuzione, in materia di giochi d’azzardo, di concessioni di durata

inferiore alle precedenti

(Sentenza della Corte nella causa C- 463/13, Stanley International Betting Ltd, Stanleybet Malta

Ltd/Ministero dell’Economia e delle Finanze)

In Italia, l’organizzazione di giochi d’azzardo, compresa la raccolta di scommesse, è

subordinata all’ottenimento di una concessione amministrativa e di un’autorizzazione

di polizia. La società britannica Stanley International Betting e la sua controllata

maltese Stanleybet Malta operano in Italia mediante «Centri di trasmissione di dati»

(«CTD») e, ritenendo di essere state escluse ingiustamente da precedenti gare per

l’ottenimento della concessione amministrativa, hanno chiesto l’annullamento della

gara del 2012 e l’organizzazione di una nuova gara. Esse hanno criticato la durata

delle nuove concessioni (40 mesi), sensibilmente inferiore a quella delle precedenti

(fra nove e dodici anni), nonché il carattere esclusivo dell’attività di

commercializzazione dei prodotti di gioco e il divieto di cessione delle concessioni.

Il Consiglio di Stato ha chiesto alla Corte di giustizia se il diritto dell’Unione ammetta

una normativa nazionale13 che, in ragione di un riordino del sistema volto

all’allineamento delle scadenze delle varie concessioni, preveda l’indizione di una gara

per il rilascio di concessioni di durata inferiore rispetto a quelle rilasciate in passato.

Secondo la Corte la normativa italiana rispetta i principi di parità di trattamento e di

effettività. La Corte, nella sentenza del 22 gennaio 2015, ricorda infatti che le

restrizioni alle attività dei giochi d’azzardo possono essere giustificate da motivi

imperativi di interesse generale (la tutela dei consumatori od anche la prevenzione

delle frodi e dell’incitamento dei cittadini a spese eccessive legate al gioco), nonché

dall’obiettivo della lotta contro la criminalità. In assenza di un’armonizzazione a livello

dell’Unione, il singolo Stato membro può identificare gli obiettivi perseguiti e valutare

le esigenze che la tutela di siffatti interessi comporta.

La Corte ha dichiarato pertanto che, in tale peculiare contesto, il riordino del sistema

delle concessioni attraverso un allineamento temporale delle loro scadenze può

contribuire ad un coerente perseguimento dei legittimi obiettivi della riduzione delle

occasioni di gioco o della lotta contro la criminalità collegata a detti giochi e non va al

di là di quanto necessario per il raggiungimento di tali obiettivi. Nell’ipotesi in cui, in

futuro, le autorità nazionali intendessero ridurre il numero delle concessioni rilasciate

oppure esercitare un controllo più rigoroso sulle attività nel settore dei giochi

d’azzardo, misure di questo tipo sarebbero agevolate laddove tutte le concessioni

fossero rilasciate per la stessa durata e la loro scadenza avvenisse nello stesso

momento.

Di conseguenza, la Corte ha dichiarato che il diritto dell’Unione non osta a che l’Italia

indichi, ai fini di un allineamento temporale delle scadenze delle varie concessioni, una

nuova gara volta all’attribuzione di concessioni aventi durata inferiore rispetto a quelle

rilasciate in passato. Link alla versione integrale dell’ordinanza

13 Decreto legge del 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla legge del 26 aprile 2012, n. 44

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La Corte di giustizia precisa l’interpretazione di due direttive nel settore degli appalti pubblici

(Sentenza nella causa C-538/14, eVigilo Ltd/Priešgaisrinės apsaugos ir gelbėjimo departamentas prie Vidaus reikalų ministerijos)

Nella causa C-538/13 la Corte di giustizia si è occupata di una domanda di pronuncia

pregiudiziale che la Corte suprema della Lituania aveva presentato nel contesto di una

controversia relativamente alla valutazione delle offerte nell’ambito dell’aggiudicazione

di un appalto pubblico. Sulle domande che riguardavano l’interpretazione delle

direttive 89/665/CEE14 e 2004/18/CE15 la Corte nella sua sentenza del 12 marzo 2015

ha risposto quanto segue:

In linea di principio, è possibile che l’illegittimità della valutazione delle offerte degli

offerenti sia constatata sulla base della sola circostanza che l’aggiudicatario

dell’appalto ha avuto legami significativi con esperti nominati dall’amministrazione

aggiudicatrice che hanno valutato le offerte. La Corte ha sottolineato che l’offerente

escluso in questo caso non è obbligato a provare la parzialità concreta degli esperti.

Spetta all’amministrazione aggiudicatrice esaminare tutte le circostanze rilevanti che

hanno condotto all’adozione della decisione relativa all’aggiudicazione dell’appalto e ad

adottare le misure adeguate al fine di prevenire, di individuare i conflitti di interesse e

di porvi rimedio. Se un’eventuale parzialità degli esperti abbia avuto o meno un

impatto su una decisione di aggiudicazione dell’appalto e se ed in quale misura le

autorità amministrative e giurisdizionali competenti debbano tenerne conto di tale

circostanza, va determinato dal diritto nazionale.

Dall’ altra parte la Corte si è espressa sul termine di decadenza per la proposizione di

un ricorso relativo alla legittimità della gara previsto dal diritto nazionale. A tal

riguardo la Corte ha contestato che un diritto di ricorso relativo alla legittimità della

gara sia azionabile, dopo la scadenza del termine previsto dal diritto nazionale, da un

offerente ragionevolmente informato e normalmente diligente che è stato in grado di

comprendere le condizioni della gara unicamente nel momento in cui l’amministrazione

aggiudicatrice, dopo aver valutato le offerte, ha fornito informazioni esaustive sulle

motivazioni della sua decisione. Un siffatto diritto di ricorso può essere esercitato fino

al momento della scadenza del termine di ricorso avverso la decisione di

aggiudicazione dell’appalto.

Inoltre la Corte ha anche deciso che un’amministrazione aggiudicatrice può utilizzare

quale criterio di valutazione delle offerte depositate dagli offerenti a un appalto

pubblico il grado di conformità di queste ultime con i requisiti indicati nella

documentazione di gara. L’elenco di diversi criteri collegati all’oggetto dell’appalto

pubblico per la valutazione dell’offerta più vantaggiosa, contenuti nella direttiva

2004/18 non è, infatti, tassativo. Pertanto, l’amministrazione aggiudicatrice ha la

facoltà di stabilire altri criteri di aggiudicazione nella misura in cui questi siano

collegati all’oggetto dell’appalto e rispettino i principi di cui all’articolo 2 della direttiva

2004/18.

Link alla versione integrale della sentenza

14 Direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (GU L 395, pag. 33). 15 Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114 e rettifica in GU 2005, L 329, pag.40).

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19

L’Amministrazione aggiudicatrice non può respingere un’offerta che soddisfa i

requisiti del bando di gara basandosi su motivi non previsti in tale bando

(Sentenza nella causa C-278/14 – SC Enterprise Focused Solutions/Spitalul Județean de Urgență

Alba Iulia)

La causa C-278/14 ha ad oggetto una domanda pregiudiziale relativa

all’interpretazione dell’articolo 23, paragrafo 8 – relativo alle specifiche dei prodotti -

della direttiva 2004/18/CE16. Detta domanda è stata presentata nell’ambito di una

controversia tra la SC Enterprise Focused Solutions SRL (EFS) e lo Spitalul Judetem. In

particolare, lo Spitalul Judetem aveva indetto una gara d’appalto del valore di euro

58.600 in vista della conclusione di un contratto di fornitura di sistemi e di materiali

informatici. I documenti dell’appalto chiarivano, per quanto concerne l’unità centrale

del sistema informatico, che il processore doveva corrispondere “almeno” a un

processore “Intel Core i5 3,2 GHz o equivalente”. L’offerta presentata dall’EFS

comprendeva un processore del marchio AMD e di tipo Quad Core A8-5600KM, dotato

di sei core, con frequenza standard di 3,6 GHz e frequenza “turbo” di 3m9 GHz. Tale

offerta, nonostante fosse pacificamente superiore rispetto al marchio Intel previsto nel

bando, veniva tuttavia esclusa sul presupposto che essa non era conforme alle

specifiche tecniche dell’appalto, atteso che pur essendo il prodotto proposto ancora sul

mercato, la produzione del medesimo era oramai cessata.

L’EFS ha contestato giudizialmente la propria esclusione. La Corte d’Appello Alba Iulia,

adita in seconda istanza sulla questione ha chiesto dunque alla Corte di Giustizia se

l’articolo 23 paragrafo 8 della direttiva 2004/18 potesse essere interpretato nel senso

che quando l’amministrazione aggiudicatrice definisce le specifiche tecniche di un

prodotto di un determinato marchio, le caratteristiche del prodotto proposto come

equivalente debbano essere riferite solo alle caratteristiche dei prodotti che si trovano

attualmente in produzione o possano anche essere riferite ai prodotti esistenti sul

mercato ma la cui produzione è cessata.

Nella sua pronuncia del 16 aprile 2015, la Corte ha innanzitutto affermato la non

applicabilità al caso di specie della direttiva 2004/18 sul presupposto che il valore

dell’appalto risultava essere inferiore rispetto alla soglia rilevante di applicazione di

tale direttiva e pari a euro 200.000. Tuttavia, atteso l’interesse trasfrontaliero del

predetto appalto, la Corte ritiene comunque applicabili al caso di specie le norme

fondamentali e i principi generali del Trattato, segnatamente i principi di parità di

trattamento e di non discriminazione a motivo della nazionalità, nonché l’obbligo di

trasparenza. In tal senso, la Corte ha reinterpretato la questione pregiudiziale alla luce

di detti principi e riformulato il quesito chiedendosi se una amministrazione

aggiudicatrice, che ha definito una specifica tecnica facendo riferimento a un prodotto

di un marchio determinato, possa, in caso di cessata fabbricazione di quest’ultimo

prodotto, modificare tale specifica facendo riferimento al prodotto analogo del

medesimo marchio che è ormai prodotto, le cui caratteristiche sono differenti. A tale

quesito la Corte ha risposto negativamente, atteso che respingere un’offerta che

soddisfa il bando di gara sulla base di motivi non previsti in tale bando costituisce una

violazione dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione, nonché

dell’obbligo di trasparenza, che hanno lo scopo di eliminare il rischio di arbitrio.

Link alla versione integrale della sentenza

16 Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi.

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20

La normativa di uno Stato membro non può imporre alle società aventi la qualità di

organismi di attestazione di avere la sede legale nel territorio nazionale

(Sentenza della Corte nella causa C-593/13 – Presidenza del Consiglio dei Ministri e. a./ Rina

Services SPA e. a.)

La sentenza in oggetto trae origine da un ricorso presentato dalla Società SOA Rina

Organismo di Attestazione SPA e dalle sue controllanti volto a contestare la legittimità

dell’articolo 64 paragrafo 1, del DPR 5 ottobre 2010 n. 207 là dove prevede che la

sede legale delle SOA deve essere ubicata nel territorio della Repubblica italiana.

Accolto il ricorso in primo grado sulla base degli articoli 14 e 16 della direttiva

2006/12317, relativi ai principi della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei

servizi, gli appellanti facevano valere in secondo grado che l’attività svolta dalle SOA

partecipa all’esercizio di poteri pubblici ai sensi dell’articolo 51 TFUE e che di

conseguenza è sottratta all’ambito di applicazione sia della direttiva 2006/123 che

degli articoli 49 TFUE e 56 TFUE. Il Consiglio di Stato sospendeva dunque il

procedimento e sottoponeva alla Corte di Giustizia due questioni pregiudiziali. In primo

luogo chiedeva alla Corte se i principi del Trattato sulla libertà di stabilimento (articolo

49 TFUE) e sulla libera prestazione dei servizi (articolo 56 TFUE), nonché quelli di cui

alla direttiva 2006/123, ostino all’adozione e applicazione di una normativa nazionale

che sancisce che per le Società Organismi di Attestazione (SOA) costituite nella forma

di società per azioni, la sede legale deve essere nel territorio nazionale. In secondo

luogo, chiedeva se la deroga all’applicazione dei testé citati principi contenuta nell’art.

51 TFUE debba essere interpretata nel senso di ricomprendere una attività come

quella di attestazione svolta da organismi di diritto privato i quali, da un lato, devono

essere costituiti nella forma delle società per azioni e operano in un mercato

concorrenziale e, dall’altro, partecipano all’esercizio di pubblici poteri e, per questo,

sono sottoposti ad autorizzazione e a stringenti controlli da parte dell’Autorità di

Vigilanza. Nella sua pronuncia del 16 giugno 2015, la Corte ha affrontato innanzitutto

la seconda questione e affermato la non applicabilità dell’articolo 51 TFUE alle attività

di attestazione esercitate dalle SOA, atteso che dette società esercitano le proprie

attività in condizioni di concorrenza, non dispongono di alcun potere decisionale

connesso all’esercizio di poteri pubblici e atteso altresì che le relative attività non

configurano una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri ai

sensi dell’art. 51 TFUE. Quanto alla prima questione, la Corte ha precisato in primo

luogo che i servizi di attestazione sono espressamente menzionati nel testo della

direttiva 2006/123 nell’elenco esemplificativo delle attività oggetto della direttiva e

che l’articolo 14 della stessa direttiva vieta agli Stati di subordinare l’accesso ad

un’attività di servizi o il suo esercizio al requisito del possesso della sede legale in un

determinato territorio. Ha precisato poi che a nulla vale addurre, come fa la

Repubblica Italiana, che il requisito della sede legale nel territorio nazionale sarebbe

giustificato dalla necessità di garantire l’efficacia del controllo esercitato dalle

Amministrazioni pubbliche sulle attività delle SOA, atteso che il divieto dei requisiti

stabiliti dall’art. 14 della direttiva 2006/123 non ammette giustificazioni. Se tali

giustificazioni fossero ammesse, la disposizione de qua sarebbe privata di ogni effetto

utile, pregiudicando l’armonizzazione mirata da essa operata. La Corte ha dunque

concluso statuendo che l’articolo 14 della direttiva 2006/123 deve essere interpretato

17Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno

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21

nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro in forza della quale è

imposto alle SOA di avere la loro sede legale nel territorio nazionale.

Link alla versione integrale della sentenza

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22

Principi del diritto comunitario

L’installazione di contatori elettrici a un’altezza inaccessibile in un quartiere

densamente popolato da Rom è atta a costituire una discriminazione fondata

sull’origine etnica quando gli stessi contatori sono installati in altri quartieri a

un’altezza normale

(Sentenza nella causa C-83/14, CHEZ Razpredelenie Bulgaria AD/Komisia za zashtita ot

diskriminatsia)

In base alla direttiva sulla parità di trattamento18 è vietata qualsiasi discriminazione

fondata sulla razza o sull’origine etnica. Ciò si riferisce anche all’accesso ai beni e ai

servizi e alla loro fornitura.

In un quartiere di Dupnitsa (Bulgaria), nel quale risiedono prevalentemente persone di

origine rom, l’impresa di distribuzione di energia elettrica ha installato i contatori

elettrici di tutti gli abbonati del quartiere sui pali di cemento della rete della linea

elettrica aerea a un’altezza di 6 o 7 metri. Negli altri quartieri della città (in cui i Rom

non sono così numerosi) i contatori installati dall’azienda sono collocati a un’altezza di

1,70 metri, nella maggior parte dei casi direttamente presso i consumatori o sulla

facciata o sui muri di recinzione. Un’abitante del quartiere, che non è di origine rom,

ha presentato un reclamo presso la Komisia za zashtita ot dikriminatsia (Commissione

per la difesa contro la discriminazione o «KZD»). La KDZ ha accertato che la

reclamante era stata effettivamente vittima di una discriminazione. L’impresa di

distribuzione dell’energia elettrica ha quindi proposto ricorso contro tale decisione

dinanzi alla Corte amministrativa di Sofia, che ha chiesto alla Corte di giustizia se la

prassi contestata costituisca una discriminazione vietata fondata sull’origine etnica.

L’azienda ha affermato dinanzi alla KZD che i danni e gli allacciamenti illegali sono

principalmente opera di persone di origine rom, suggerendo in questo modo che detta

prassi si fondi su stereotipi o pregiudizi di ordine etnico. Inoltre la prassi ha carattere

coatto e generalizzato. La prassi può essere percepita come atta a suggerire che i

residenti di tale quartiere sono considerati nel loro complesso come potenziali autori di

comportamenti illegali. Essa costituisce un trattamento sfavorevole a danno dei

residenti, a causa sia del suo carattere offensivo e stigmatizzante, sia dell’estrema

difficoltà o persino dell’impossibilità per gli interessati di consultare il proprio contatore

elettrico per controllare il consumo.

Nella sentenza del 16 luglio 2015 la Corte rileva, in primo luogo, che il principio della

parità di trattamento si applica non solo alle persone aventi una determinata origine

etnica, ma anche a quelle che, pur non appartenendo all’etnia, subiscono insieme alle

prime un trattamento meno favorevole o uno svantaggio particolare a causa di una

misura discriminatoria. Spetterà tuttavia al giudice nazionale prendere in

considerazione tutte le circostanze in cui viene messa in atto tale prassi al fine di

determinare se essa sia stata effettivamente posta in essere per una ragione di ordine

etnico e costituisca quindi una discriminazione diretta ai sensi della direttiva. La Corte

inoltre sottolinea alcuni aspetti da tenere in considerazione.

18 Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica

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23

Qualora il giudice nazionale non ritenga che la prassi controversa costituisca una

discriminazione diretta fondata sull’origine etnica, la Corte osserva che essa potrebbe

costituire, in linea di principio, una discriminazione indiretta. Supponendo che sia stata

posta in essere esclusivamente al fine di contrastare gli abusi commessi in quel

quartiere, tale prassi si baserebbe su criteri apparentemente neutri incidendo in

misura notevolmente maggiore sulle persone di origine rom. Inoltre il giudice

nazionale dovrà esaminare se esistano altre misure appropriate e meno restrittive per

risolvere i problemi riscontrati. Anche se non esistesse nessun’altra misura tanto

efficace quanto la prassi controversa per conseguire i predetti obiettivi, la Corte

dichiara che essa appare sproporzionata rispetto a tali obiettivi e ai legittimi interessi

dei residenti del quartiere.

Link alla sentenza completa.

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24

Politica sociale

L’obesità può costituire un “handicap” ai sensi della direttiva sulla parità di

trattamento in materia di occupazione

(Sentenza nella causa C-354/13, Fag og Arbejde (FOA), handelnd für Karsten Kaltoft/

Kommunernes Landsforening (KL), handelnd für die Billund Kommune)

Nella causa C-354/13 la Corte si è occupata di una domanda pregiudiziale che era

stata presentata nell’ambito di una controversia in merito alla legittimità del

licenziamento di un babysitter del Comune di Billund (Danimarca), il sig. Kaltoft.

Considerato che, secondo l’atto di citazione, il licenziamento era fondato sull’obesità

del sig. Kaltoft, il tribunale di Kolding (Retten i Kolding) voleva sapere dalla Corte di

Giustizia, se il diritto dell’Unione vieti in modo autonomo le discriminazioni fondate

sull’obesità. In via subordinata è stato chiesto, se l’obesità possa costituire un

handicap e se rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78/CE19 sulla

parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Nella sentenza del 18 dicembre 2014, la Corte ha innanzitutto affermato, che il diritto

dell’Unione in materia di occupazione e condizioni di lavoro non sancisce alcun

principio generale di non discriminazione in ragione dell’obesità in quanto tale. La

Corte è però pervenuta alla conclusione che lo stato di obesità di un lavoratore in

determinate circostanze può ricadere nella nozione di “handicap” ai sensi della

direttiva 2000/78/CE. Ciò vale nel caso in cui tale stato comporti una limitazione,

risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, tale da

ostacolare, in interazione con barriere di diversa natura la piena ed effettiva

partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza

con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata. Secondo la Corte, una

tale limitazione sussisterebbe in particolare se l’obesità del lavoratore non gli

consentisse di partecipare alla vita professionale in ragione di una mobilità ridotta o

dell’insorgenza, in tale persona, di patologie che le impediscono di svolgere il suo

lavoro o che determinano una difficoltà nell’esercizio della sua attività professionale.

Spetta al giudice nazionale determinare se l’obesità del sig. Kaltoft rientri nella

definizione di “handicap”.

Link alla versione integrale della sentenza

19 Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16).

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La Corte precisa le condizioni in presenza delle quali un lavoratore può essere

qualificato come lavoratore frontaliero in disoccupazione parziale

(Sentenza della Corte nella causa C-655/13, H.J. Mertens/Raad van bestuur het

Uitvoeringsinstituut werknemersverzekeringen)

L’articolo 71, paragrafo 1, del regolamento (CEE) n. 1408/7120 disciplina

l’individuazione dello Stato membro competente a concedere prestazioni di

disoccupazione, distinguendo tra lavoratore frontaliero in disoccupazione parziale e

lavoratore frontaliero in disoccupazione completa. A tal riguardo, il lavoratore

frontaliero in disoccupazione parziale è tenuto a richiedere le prestazioni di

disoccupazione nello Stato membro in cui si trova il suo posto di lavoro, mentre il

lavoratore frontaliero in disoccupazione completa beneficia delle disposizioni della

legislazione dello Stato membro in cui risiede.

La domanda di pronuncia pregiudiziale in questione è stata sottoposta nell’ambito di

una controversia fra la sig.ra Mertens e l’autorità olandese competente in materia di

gestione delle assicurazioni per i lavoratori subordinati (Uwv), relativamente al rifiuto

da parte di quest’ultima di concedere prestazioni di disoccupazione all’interessata. La

Uwv ha ritenuto che la sig.ra Mertens dovesse essere considerata come lavoratore

frontaliero parzialmente disoccupato e che, pertanto, dovesse presentare una

domanda diretta ad ottenere prestazioni di disoccupazione nello Stato membro in cui

si trova il suo posto di lavoro, ossia in Germania.

Il Centrale Raad van Beroep ha considerato opportuno sottoporre alla Corte una

questione pregiudiziale in cui chiedeva se, ai sensi dell’articolo 71 del regolamento n.

1408/71, un lavoratore frontaliero, il quale subito dopo la cessazione di un rapporto di

lavoro a tempo pieno presso un datore di lavoro in uno Stato membro venga assunto

da un altro datore di lavoro nello stesso Stato membro per un numero di ore inferiore,

possa essere considerato come un lavoratore frontaliero in disoccupazione parziale.

Nella sentenza del 5 febbraio 2015, la Corte ha risposto in maniera affermativa,

rigettando la tesi sostenuta dalle autorità tedesche competenti e dichiarando, invece,

che una situazione di disoccupazione completa implica necessariamente che il

lavoratore interessato abbia totalmente cessato di lavorare. A tal riguardo, la Corte ha

specificato che è priva di pertinenza la circostanza che l’impresa che aveva assunto la

sig.ra Mertens nel quadro di un contratto di lavoro a tempo pieno non sia la stessa che

l’ha assunta, successivamente, nel contesto di un contratto di lavoro a tempo parziale.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha concluso che l’articolo 71, paragrafo 1,

lettera a), i), del regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971,

deve essere interpretato nel senso che un lavoratore frontaliero, il quale, subito dopo

la cessazione di un rapporto di lavoro a tempo pieno presso un datore di lavoro in uno

Stato membro, è assunto a tempo parziale da un altro datore di lavoro in tale

medesimo Stato membro, ha la qualità di lavoratore frontaliero in disoccupazione

parziale.

Link alla versione integrale della sentenza

20 Regolamento (CEE) n.1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità

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26

Il computo dei periodi di studio del sistema pensionistico austriaco è compatibile

con il principio di non discriminazione

(Sentenza della Corte nella causa C-529/13, Georg Felber/Bundesministerium für Unterricht,

Kunst und Kultur)

Oggetto del procedimento di specie era la possibilità di prendere in considerazione

periodi di studi svolti prima del diciottesimo anno di età per il computo della pensione

di un dipendente pubblico in relazione alla direttiva 2000/78/CE sulla parità di

trattamento ed, in particolare riguardo al divieto di discriminazione in funzione

dell’età. La normativa nazionale sul computo della pensione non contrasta con questa

direttiva, se da un lato é oggettiva, proporzionata e giustificata da un obiettivo

legittimo, e dall’altro lato sia uno strumento congruo e necessario per il

raggiungimento di tale obiettivo.

La sentenza della Corte di giustizia si basa su un procedimento amministrativo del

Landesschulrat für Salzburg (provveditorato agli studi per il Land Salisburgo) relativo

ad un professore, funzionario del servizio dello Stato federale dal 1991, al quale con

decisione adottata nel 1992 erano stati determinati i periodi assimilabili ai fini

pensionistici precedenti all’entrata in servizio nell’amministrazione. A tal fine erano

stati presi in considerazione i periodi di formazione e di attività svolti successivamente

al compimento del diciottesimo anno di età , ma non i tre anni di studi svolti

precedentemente. Il professore di scuola media ha quindi chiesto di tenere in

considerazione questo periodo o almeno di avere la possibilità di riscattarlo. Il

Landesschulrat Salzburg, considerato che l’assunzione era avvenuta prima del 1

maggio 1995 e quindi ricadeva nella previsione di cui all’articolo 88, comma 1 della

legge relativa ai diritti pensionistici, in prima istanza ha respinto la sua domanda. La

Corte amministrativa, che si é occupata in ultima istanza della questione, ha deciso di

sospendere il processo e di sottoporre alla Corte di giustizia una domanda

pregiudiziale. Nella sentenza del 21 gennaio 2015 la Corte risponde preliminarmente in

modo affermativo per quanto riguarda l’applicabilità della direttiva 2000/78/CE sulle

pensioni di dipendenti pubblici austriaci, che ai sensi del diritto austriaco costituiscon

una retribuzione nell’ambito di un rapporto di servizio di diritto pubblico che permane

anche dopo il pensionamento del dipendente. Di conseguenza la Corte ha dichiarato,

che la normativa austriaca costituisce una discriminazione in ragione all’età in quanto

persone che concludono la loro formazione prima del compimento del diciottesimo

anno di età non possono computare tale periodo ai fini pensionistici. Nell’art. 6 comma

1 della direttiva 2000/78/CE sono però previste possibili cause che possono

giustificare tale discriminazione, la cui sussistenza viene confermato dalla Corte. Per

quanto riguarda la legittimità, la Corte osserva che, per la determinazione di obiettivi

e strumenti nei settori delle politiche sociali e occupazionali, gli Stati membri hanno

un’ampia discrezionalità. Inoltre, bisogna tenere in considerazione che la normativa

austriaca è una normativa eccezionale, che punta ad uniformare il momento d’inizio

delle prestazioni dei contributi pensionistici. La normativa è quindi oggettiva,

proporzionata e persegue un obiettivo legittimo. Per quanto riguarda invece la

congruità e la necessità dello strumento utilizzato, la Corte di giustizia fa presente che,

per poter entrare nel servizio pubblico, bisogna avere un’età minima di 18 anni.

L’esclusione di periodi di studio svolti prima del compimento del diciottesimo anno di

età è quindi una misura idonea a consentire a tutte le persone di iniziare a versare

contributi alla stessa età. Tale normativa non è sproporzionata, in quanto anche per i

periodi si studio svolti dopo il compimento del diciottesimo anno di età è previsto un

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27

contributo se questi devono essere presi in considerazione per il computi della

pensione. A causa della funzione compensatoria di tali pagamenti e considerata

l’ampio margine discrezionale riconosciuto agli Stati membri nei settori delle politiche

sociali e occupazionali, la Corte è pervenuta alla conclusione che lo strumento sia

appropriato e non supera lo stretto necessario per il conseguimento di tale finalità.

Link alla versione integrale della sentenza

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Il Lussemburgo non protegge sufficientemente i lavoratori saltuari dello spettacolo

(Sentenza della Corte nella causa C-238/14, Commissione/Lussemburgo)

Nella causa 238/14 la Corte di giustizia ha deciso che il Granducato di Lussemburgo

non protegge sufficientemente i lavoratori dello spettacolo dall’utilizzo abusivo di una

successione di contratti a tempo determinato. L’obbligo della protezione di abusi

dall’utilizzo di contratti a breve durata è previsto nell’accordo quadro sul lavoro a

tempo determinato nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE.21

Nella summenzionata direttiva, che rappresenta il fondamento legislativo dell’ obbligo

degli Stati membri di proteggere dall’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato,

viene preso in considerazione il fatto che il beneficio della stabilità dell’impiego è

inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori mentre i contratti di

lavoro a tempo determinato possono essere giustificati soltanto in alcune circostanze.

L’accordo quadro concede però agli Stati membri la discrezionalità, di raggiungere,

questo obiettivo mediante l’implementazione delle misure previste dell’accordo oppure

applicando norme giuridiche già esistenti. Sussiste però la possibilità di prevedere

delle eccezioni per certi settori o categorie dei lavoratori, se questo può essere

giustificato, cioè se sussiste una “ragione obiettiva.”

In linea di principio il Lussemburgo ha rispettato l’accordo quadro, in quanto la durata

di contratti a tempo determinato non può superare per un medesimo dipendente, i 24

mesi, inclusi i rinnovi. Per i lavoratori saltuari dello spettacolo il Granducato ha però

approfittato della possibilità di prevedere un’eccezione per certi settori e previsto che

tali contratto a tempo determinato possano essere rinnovati più di due volte, anche

per una durata totale superiore ai 24 mesi. Il Lussemburgo giustifica questa previsione

sulla base del fatto che i lavoratori saltuari dello spettacolo partecipano a progetti

singoli e circoscritti nel tempo, per cui le esigenze provvisorie dei datori di lavoro in

materia di assunzione costituiscono una “ragione obiettiva “che giustifica il rinnovo dei

contratti a tempo determinato.

Tale impostazione non è stata condivisa dalla Commissione europea che quindi ha

avviato un procedimento d’infrazione ai sensi dell’art. 258 TFUE. Concretamente ha

contestato il mancato chiarimento delle ragioni per cui la normativa lussemburghese

esige che i lavoratori saltuari dello spettacolo esercitino attività di natura temporanea.

La Corte nella sua sentenza del 26 febbraio 2015 ha accolto l’argomentazione della

Commissione, in quanto la nozione di “ragioni obiettive” si riferisce a circostanze

precise e concrete, mentre regole nazionali generali ed astratte non corrispondono a

questo presupposto. Da una tale norma formale si possono trarre alcuni criteri

oggettivi e trasparenti per esaminare se un prolungamento di tali contratti corrisponda

effettivamente ad una vera esigenza e se sia adeguato e necessario per il

raggiungimento dell’obiettivo perseguito. Il Lussemburgo non è stato infatti in grado di

provare la sussistenza di queste circostanze per tutto il settore interessato.

Pertanto, la Corte ha concluso che il Lussemburgo è venuto meno agli obblighi ad esso

incombenti in virtù dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, in quanto ha

mantenuto alcune deroghe alle disposizioni volte a prevenire un utilizzo abusivo di una

successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Link alla versione integrale

della sentenza

21 Direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag. 43).

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Uno Stato membro non può esigere un nuovo periodo contributivo di sei mesi

preliminare all’ottenimento del diritto a un’indennità di maternità per il solo fatto

che la lavoratrice interessata ha cambiato status lavorativo o lavoro

(Sentenza nella causa C-65/14, C. Roselle/Institut national d’assurance maladie –invalidité e.a.)

Nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Rosselle, da un lato, e l’Institut national

d’assurance maladie-invalidité (Istituto nazionale di assicurazione malattia-invalidità)

(INAMI) e l’Union nationale des mutualités libres (Unione nazionale delle mutue

autonome) (UNM), dall’altro, avente ad oggetto il rifiuto di versare alla predetta

signora Rosselle un’indennità di maternità atteso che la stessa non avrebbe maturato

il periodo contributivo minimo previsto dal diritto nazionale, il Tribunal du Travail

Nivelles (Tribunale di lavoro Nivelles) ha presentato una domanda di pronuncia

pregiudiziale relativa all’interpretazione delle direttive 92/85/CEE22 e 2006/548/CE23. A

tal riguardo il giudice di rinvio ha rilevato che la normativa belga prevede, nell’ipotesi

di dimissioni o di licenziamento del dipendente pubblico, una dispensa dal periodo

contributivo minimo necessario per percepire talune prestazioni sociali. Per contro, non

è data siffatta dispensa nell’ipotesi di un dipendente pubblico messo in aspettativa per

motivi personali, in particolare per quanto concerne la prestazione relativa al congedo

di maternità. Pertanto il giudice di rinvio ha chiesto alla Corte di giustizia, se il diritto

dell’Unione debba essere interpretato nel senso che esso osta a che uno Stato

membro rifiuti di corrispondere a una lavoratrice un’indennità di maternità in quanto

essa, come dipendente pubblica che ha ottenuto una messa in aspettativa per motivi

personali al fine di esercitare un’attività lavorativa subordinata nel settore privato, non

ha maturato, nell’ambito di quest’ultima attività, il periodo contributivo minimo

previsto dal diritto nazionale per fruire della predetta indennità di maternità, sebbene

abbia lavorato per più di dodici mesi immediatamente prima della data presunta del

suo parto.

La Corte nella sua sentenza del 21 maggio 2015 innanzitutto ha rilevato che – secondo

la sua giurisprudenza costante, il diritto al congedo di maternità riconosciuto alle

lavoratrici gestanti va considerato come un mezzo di protezione del diritto sociale che

riveste un’importanza particolare. Per garantire alle lavoratrici l’esercizio dei diritti di

protezione della sicurezza e della salute, la direttiva 92/58 prevede che nell’ipotesi del

congedo di maternità, devono essere assicurati il mantenimento di una retribuzione

e/o il versamento di un’indennità adeguata alle lavoratrici. La Corte ha anche

constatato che la direttiva 92/58 concerne tutti i settori d’attività, privati o pubblici, e

che la definizione «lavoratore» si riferisce a qualsiasi persona impiegata da un datore

di lavoro, compresi i tirocinanti e gli apprendisti, ad esclusione dei domestici. Inoltre, i

«periodi di lavoro preliminare» di cui all’articolo 11, punto 4, secondo comma, della

direttiva 92/85 non possono essere limitati al solo impiego occupato prima della data

presunta del parto. Tali periodi di lavoro devono essere intesi nel senso che essi

comprendono i diversi impieghi occupati in successione dalla lavoratrice interessata

prima di tale data, ivi inclusi quelli svolti per differenti datori di lavoro e con status

diversi. Pertanto, la Corte ha concluso che uno Stato membro non può esigere un

22 Direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE). 23 Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.

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nuovo periodo contributivo di sei mesi preliminare all’ottenimento del diritto a

un’indennità di maternità per il solo fatto che la lavoratrice interessata ha cambiato

status lavorativo o lavoro. Esigere un periodo contributivo minimo distinto a ogni

cambiamento di status lavorativo o di lavoro equivarrebbe a rimettere in discussione

la tutela minima prevista all’articolo 11, punto 2, della direttiva 92/85 e pertanto la

normativa belga non è compatibile con il diritto dell’Unione.

Link alla versione integrale della sentenza

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La Corte chiarisce la nozione di “stabilimento” in materia di licenziamenti collettivi

(Sentenza della Corte nella causa C-80/14, Union of Shop, Distributive and Allied Workers

(USDAW) und B. Wilson/WW Realisation 1 Ltd (in Liquidation), Ethel Austin Ltd and Secretary of

state for Business, Innovation and Skills)

Nel contesto di una controversia in merito alla legittimità dei licenziamenti, la Court of

Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Regno Unito), ha presentato una domanda

di pronuncia pregiudiziale che verteva sull’interpretazione della direttiva 98/59/CE24.

Tale direttiva prevede l’obbligo del datore di lavoro che intende effettuare un

licenziamento di procedere in tempo utile a consultazioni con i rappresentanti dei

lavoratori al fine di giungere ad un accordo. Per “licenziamenti collettivi” ai sensi della

direttiva si intende, tra l’altro, ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per

uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore , se il numero dei

licenziamenti effettuati è almeno pari a venti su un periodo di 90 giorni

indipendentemente dal numero dei lavoratori abitualmente occupati negli stabilimenti

interessati.

Nella causa C-80/14 il giudice di rinvio voleva sapere, se l’espressione “almeno pari a

20” contenuta nella direttiva si riferisca al numero di licenziamenti effettuati

nell’insieme degli stabilimenti del datore di lavoro in cui hanno luogo i licenziamenti

nel corso di un periodo di 90 giorni, o se invece si riferisca unicamente al numero di

licenziamenti effettuati in ciascun singolo stabilimento. Inoltre, il giudice ha chiesto

alla Corte di spiegare il significato della nozione di stabilimento e di chiarire se essa

comprenda l’insieme delle attività commerciali al dettaglio, considerandole come una

sola unità economica e commerciale, oppure l’unità alla quale i lavoratori interessati

sono addetti per lo svolgimento delle loro mansioni, vale a dire ciascun singolo

negozio.

Nella sua sentenza del 30 aprile 2015 la Corte ha dichiarato anzitutto che la nozione di

“stabilimento”, che non è precisata nella direttiva stessa, costituisce una nozione di

diritto dell’Unione, che quindi deve ricevere un’interpretazione uniforme in tutti gli

Stati membri. Qualora un’impresa ricomprenda più entità, è l’entità cui i lavoratori

colpiti da licenziamento sono addetti per lo svolgimento delle loro mansioni a costituire

lo “stabilimento”. Per l’interpretazione dell’espressione “almeno pari a 20“ devono

pertanto essere presi in considerazione i licenziamenti effettuati in ciascuno

stabilimento considerato separatamente. Gli Stati membri hanno però la possibilità di

adottare norme più favorevoli ai lavoratori che vanno oltre la tutela minima prevista

dalla direttiva.

Di conseguenza la Corte è pervenuta alla conclusione che la direttiva 98/59/EC non

osti a una normativa nazionale che preveda un obbligo di informazione e di

consultazione dei lavoratori quando il licenziamento riguarda, nel corso di un periodo

di 90 giorni, almeno 20 lavoratori di un particolare stabilimento di un’impresa e non

invece quando il numero complessivo di licenziamenti in tutti gli stabilimenti o in taluni

stabilimenti di un’impresa nel corso del medesimo periodo raggiunge o supera la soglia

di 20 lavoratori.

Link alla versione integrale della sentenza

24 Direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.

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Impedendo ai dipendenti pubblici di sesso maschile, la cui moglie non lavori, di

avvalersi del congedo parentale, la normativa ellenica è contraria al diritto

dell’Unione

(Sentenza nella causa C-222/14, Konstantinos MaÏstrellis /Ministero per la Giustizia, Trasparenza e

i Diritti umani)

Il diritto ellenico prevede che un dipendente pubblico di sesso maschile non abbia

diritto al congedo parentale retribuito se la moglie non lavora. Fa eccezione a questo

principio il caso in cui la stessa, a causa di grave malattia o disabilità, venga

considerata non in grado di accudire prole. Un magistrato greco chiedeva alla fine del

2010 un congedo parentale retribuito di nove mesi per prendersi cura del figlio nato il

24 ottobre 2010. Il Ministro ellenico competente (Ministro della Giustizia, della

Trasparenza e dei Diritti dell’Uomo) respingeva la richiesta con la motivazione che la

moglie del magistrato all’epoca non lavorava.

Il cittadino greco proponeva quindi ricorso al Consiglio di Stato (Symvoulio tis

Epikrateias). Questo domandava alla Corte di giustizia, se negare il beneficio del

congedo parentale ai dipendenti pubblici di sesso maschile la cui moglie non lavori sia

conforme alla direttiva sul congedo parentale25 e alla direttiva sulla parità di

trattamento in materia di occupazione26.

Con la sentenza di data 16 luglio 2015, la Corte ha chiarito nella sentenza della causa

C-222/14 che la normativa greca oggetto della causa è in contrasto con entrambe le

direttive citate.

In primo luogo la Corte ricorda che, ai sensi della direttiva sul congedo parentale,

ciascun genitore è titolare individualmente del diritto al congedo parentale. Si tratta di

una prescrizione minima alla quale non si può derogare in nessun caso, né attraverso

provvedimenti legislativi né attraverso convenzioni collettive. Ne deriva che un

genitore non può, sotto alcuna condizione, essere privato del diritto al congedo

parentale. Anche la situazione professionale del coniuge non può quindi ostare

all’esercizio di tale diritto. Una soluzione del genere è conforme all’obiettivo della

direttiva sul congedo parentale, che è quello di agevolare la conciliazione delle

responsabilità professionali e familiari dei genitori che lavorano. Inoltre essa rafforza la

qualità, riconosciuta dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, di diritto

sociale fondamentale al diritto al congedo parentale.

In secondo luogo la Corte rileva che le madri che hanno lo status di dipendente

pubblico possono beneficiare del congedo parentale, indipendentemente dalla

situazione professionale del coniuge. La mera qualità di genitore quindi, se è

sufficiente a consentire alle donne dipendenti pubblici di avvalersi di tale congedo, non

lo è per gli uomini aventi il medesimo status. Ne deriva che il codice ellenico del

pubblico impiego istituisce, nei confronti dei padri dipendenti pubblici che intendano

avvalersi del congedo parentale, una discriminazione diretta fondata sul sesso

contraria alla direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione.

Link alla versione integrale della sentenza

25 Direttiva 96/34/CE del Consiglio, del 3 giugno 1996, concernente l’accordo quadro sul congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (GU L 145, pag. 4), come modificata dalla direttiva 97/75/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997 (GU 1998, L 10, pag. 24). 26 Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (GU L 204, pag. 23).

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Uno Stato membro può escludere da talune prestazioni sociali, di carattere non

contributivo, cittadini dell’Unione che vi si recano per trovare lavoro

(Sentenza della Corte nella causa C-64/14, obcenter Berlin Neukölln / Nazifa, Sonita, Valentina e

Valentino Alimanovic)

Gli stranieri che giungono in Germania per ottenere un aiuto sociale o il cui diritto di soggiorno è

giustificato solo dalla ricerca di un lavoro sono esclusi dalle prestazioni

dell’assicurazione di base tedesca, che mirano segnatamente a garantire il

sostentamento dei beneficiari (p.e.: sussidi di disoccupazione). Nella causa pendente

fra un centro per il lavoro tedesco (competente per il pagamento di tali prestazioni) e

cittadini svedesi, la domandava verteva sul fatto che tale esclusione fosse legittima

anche per quanto riguarda cittadini dell'Unione che si siano recati nel territorio di uno

Stato membro ospitante per cercare lavoro e che vi abbiano già lavorato per un certo

tempo, laddove tali prestazioni sono garantite ai cittadini dello Stato membro

ospitante che si trovino nella stessa situazione.

Nella sua sentenza del 15 settembre 2015, la Corte ha dichiatato che il fatto di

rifiutare ai cittadini dell'Unione, il cui diritto di soggiorno nel territorio di uno Stato

membro ospitante è giustificato unicamente dalla ricerca di un lavoro, il beneficio di

talune «prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo», le quali sono

altresì costitutive di una «prestazione d’assistenza sociale», non è contrario al principio

della parità di trattamento.

La Corte ricorda che, per poter accedere a prestazioni di assistenza sociale come

quelle oggetto della presente causa, un cittadino dell’Unione può richiedere la parità di

trattamento rispetto ai cittadini dello Stato membro ospitante solo se il suo soggiorno

sul territorio dello Stato membro ospitante rispetta i requisiti di cui alla direttiva sulla

cittadinanza dell’Unione27. Nel caso di specie due sono le alternative possibili:

- se un cittadino dell'Unione che ha beneficiato di un diritto di soggiorno in quanto

lavoratore si trova in stato di disoccupazione involontaria dopo aver lavorato per un

periodo inferiore a un anno e si è fatto registrare in qualità di richiedente lavoro

presso l’ufficio di collocamento, egli conserva lo status di lavoratore e il diritto di

soggiorno per almeno sei mesi. Per tutto questo periodo, può avvalersi del principio

della parità di trattamento e del diritto a prestazioni di assistenza sociale;

- se un cittadino dell'Unione non ha ancora lavorato nello Stato membro ospitante o il

periodo di sei mesi è scaduto, questo cittadino, in quanto richiedente lavoro, non può

essere allontanato da tale Stato membro fintantoché possa dimostrare che continua a

cercare lavoroe che ha reali possibilità di essere assunto. In tal caso, lo Stato membro

ospitante può tuttavia rifiutare qualsiasi prestazione di assistenza sociale.

Infine, la Corte ricorda che uno Stato membro, prima di adottare una misura di

allontanamento o di stabilire che una persona costituisce un onere eccessivo per il

sistema di assistenza sociale nell’ambito del suo soggiorno, deve prendere in conto la

situazione individuale della persona interessata. Tuttavia, la Corte sottolinea che, in un

caso come quello di cui trattasi nella fattispecie, un siffatto esame individuale non è

27 Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE (GUL 158, pag. 77 e rettifiche in GU 2004, L 229, pag. 35, e GU 2005, L 197, pag. 34).

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necessario, poiché il sistema graduale di mantenimento dello status di lavoratore

previsto nella direttiva sulla cittadinanza dell’Unione (sistema che mira a tutelare il

diritto di soggiorno e l’accesso alle prestazioni sociali) prende esso stesso in

considerazione diversi fattori che caratterizzano la situazione individuale del

richiedente una prestazione sociale.

Link alla versione integrale della sentenza

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Gli spostamenti effettuati dai lavoratori senza luogo di lavoro fisso o abituale tra il

loro domicilio ed il primo o l’ultimo cliente della giornata costituiscono orario di

lavoro

(Sentenza nella causa C-266/14 Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras

(CC.OO.)/ Tyco Integrated Security SL et Tyco Integrated Fire & Security Corporation Servicios SA)

L’orario di lavoro è definito come qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a

disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni,

conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali. Ogni periodo che non viene

considerato orario di lavoro, vale quale periodo di riposo28.

Un’azienda spagnola, che si occupa di installazione e manutenzione di sistemi di

sicurezza antifurto, nel 2011 ha chiuso i suoi uffici regionali e trasferito tutti i

dipendenti presso la sede centrale. I dipendenti svolgono le loro mansioni presso

abitazioni cosí come presso locali industriali e commerciali siti nella zona territoriale di

loro competenza, sebbene non abbiano un luogo di lavoro fisso. I lavoratori

dispongono ciascuno di un veicolo di servizio per spostarsi quotidianamente dal loro

domicilio verso i diversi luoghi di lavoro e per ritornare al loro domicilio alla fine della

giornata. Per l’espletamento delle loro mansioni, i lavoratori dispongono ciascuno di un

telefono cellulare che consente loro di comunicare a distanza con l’ufficio centrale. Alla

vigilia della loro giornata di lavoro, i lavoratori ricevono una tabella di viaggio che

elenca i vari luoghi nei quali dovranno recarsi nel corso della giornata, nell’ambito

della loro zona territoriale, e gli orari degli appuntamenti con i clienti. L’azienda

considera il tempo di spostamento «domicilio-clienti» (ossia gli spostamenti quotidiani

tra il domicilio dei lavoratori ed i luoghi in cui si trovano il primo e l’ultimo cliente

indicati dall’azienda) non come orario di lavoro, ma come periodo di riposo. Prima

della chiusura degli uffici regionali, l’azienda conteggiava tuttavia l’orario di lavoro

quotidiano dei dipendenti a partire dall’ora di arrivo nell’ufficio (quando i dipendenti

prendevano possesso del veicolo messo a loro disposizione, dell’elenco dei clienti da

cui recarsi e della tabella di viaggio), sino all’ora del loro rientro, la sera, nell’ufficio

(quando i dipendenti vi lasciavano il veicolo).

Il tribunale nazionale adito nella causa principale chiedeva in via pregiudiziale alla

Corte europea, se il tempo che i lavoratori impiegano per spostarsi ad inizio ed a fine

giornata debba essere considerato come orario di lavoro ai sensi della direttiva

2003/88/CE.

La Corte ritiene che i lavoratori che si trovano in tale situazione stiano esercitando le

loro attività o le loro funzioni durante l’intera durata di tali spostamenti. Gli

spostamenti dei lavoratori verso i clienti indicati dal loro datore di lavoro costituiscono

lo strumento necessario per l’esecuzione delle loro prestazioni tecniche nel luogo in cui

si trovano tali clienti. I lavoratori sono inoltre a disposizione del datore di lavoro

durante i tempi di spostamento. Infatti, durante tali spostamenti, i lavoratori sono

sottoposti alle direttive del loro datore di lavoro, che può modificare l’ordine dei clienti

oppure annullare o aggiungere un appuntamento. La Corte considera inoltre che i

lavoratori siano al lavoro durante gli spostamenti. Se un lavoratore che non ha più un

luogo di lavoro fisso esercita le sue funzioni durante lo spostamento che effettua verso

28 Direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (GU L 299, pag. 9).

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un cliente od in provenienza da questo, egli deve essere considerato come al lavoro

anche durante tale tragitto. Infatti, poiché gli spostamenti sono intrinseci alla qualità

di un siffatto lavoratore, il luogo di lavoro di quest’ultimo non può essere ridotto ai

luoghi del suo intervento fisico presso i clienti del datore di lavoro.

Link alla versione integrale della sentenza

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La direttiva sul mantenimento dei diritti dei lavoratori si applica alle imprese

pubbliche che pongano termine al contratto con il quale avevano esternalizzato un

determinato servizio e che decidano di gestire tali attività con proprio personale

(Sentenza nella causa C-509/14, Administrador de Infraestructuras Ferroviarias (ADIF)/Luis Aira

Pascual)

La direttiva 2001/23/CE disciplina il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di

trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti e si applica ai

trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti ad un

nuovo imprenditore in seguito a cessione contrattuale o a fusione.

Nel Regno di Spagna un’impresa pubblica incaricata di prestare il servizio di

movimentazione delle unità di trasporto intermodale nel terminal di Bilbao (Spagna)

ha esternalizzato la gestione di detto servizio, attribuendolo ad altra società alla quale

ha anche trasferito alcuni dei propri dipendenti. Successivamente ha deciso che non

intendeva prorogare il contratto poiché avrebbe fornito essa stessa, con il proprio

personale, il servizio di cui trattasi e ha altresì comunicato alla società

precedentemente incaricata che rifiutava di essere surrogata nei diritti e negli obblighi

di quest’ultima nei confronti del proprio personale. Quest'ultima ha proceduto di

conseguenza al licenziamento collettivo per motivi economici di vari lavoratori.

Il Tribunal Superior de Justicia de la Comunidad Autónoma del País Vasco ha chiesto

alla Corte di giustizia se rientri nell’ambito di applicazione della direttiva una situazione

in cui un’impresa pubblica, incaricata di esercitare un’attività economica di

movimentazione di unità di trasporto intermodale, affidi, con un contratto di gestione

di servizi pubblici, la gestione di tale attività a un’altra impresa, mettendo a

disposizione di quest’ultima le infrastrutture e le attrezzature necessarie di cui essa è

proprietaria, e in seguito decida di porre termine a tale contratto senza riassumere il

personale di quest’ultima impresa, gestendo in futuro essa stessa detta attività con il

proprio personale.

Nella sentenza del 26 novembre 2015, la Corte rileva che, conformemente all’articolo

1, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2001/23, perché quest’ultima sia applicabile,

il trasferimento deve riguardare un’entità economica che conserva la propria identità,

intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia

essa essenziale o accessoria. Per quanto concerne la mancata riassunzione del

personale, ciò non consente di escludere che l’entità economica in esame nel

procedimento principale abbia mantenuto la propria identità e quindi di escludere

l’esistenza di un trasferimento d’impresa ai sensi della medesima direttiva. Spetta al

giudice del rinvio accertare, tenendo conto del complesso delle circostanze di fatto che

caratterizzano l’operazione di cui trattasi, l’esistenza o meno di un trasferimento

d’impresa nel procedimento principale.

La Corte risponde pertanto alla domanda posta in via pregiudiziale statuendo che, le

situazioni assimilabili a quella del procedimento principale rientrano nel campo di

applicazione della direttiva 2001/23.

Link alla versione integrale della sentenza

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La risoluzione di un contratto di lavoro in seguito al rifiuto da parte del lavoratore di

acconsentire a una modifica unilaterale e sostanziale, a suo svantaggio, degli

elementi essenziali di tale contratto costituisce un licenziamento ai sensi della

direttiva sui licenziamenti collettivi

(Sentenza nella causa C-422/14 Cristian Pujante Rivera / Gestora Clubs Dir, SL e Fondo de Garantía

Salarial)

La direttiva 98/59/CE 29 stabilisce che, per determinare l’esistenza di un licenziamento

collettivo, ai fini del calcolo del numero dei licenziamenti, sono assimilate a questi le

cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per una

o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, purché i licenziamenti siano

almeno cinque.

Nel periodo compreso tra il 16 e il 26 settembre 2013, una società spagnola (che

impiega 126 dipendenti) ha proceduto a 10 licenziamenti individuali per ragioni

oggettive, tra cui quello dell’appellante. Nei 90 giorni precedenti e successivi all’ultimo

di tali licenziamenti per ragioni oggettive, hanno avuto luogo altre 27 risoluzioni

contrattuali, dovute a cause diverse (come, in particolare, la scadenza dei contratti o

la cessazione volontaria da parte dei lavoratori). Tali cessazioni ricomprendono altresì

quella di una lavoratrice che ha acconsentito alla risoluzione consensuale del contratto

dopo essere stata informata della modifica delle proprie condizioni di lavoro e la quale

l’azienda ha in seguito risarcito.

Secondo la legge spagnola, nelle imprese che occupano fra 100 e 300 lavoratori, per

«licenziamento collettivo» s’intende la risoluzione di contratti di lavoro per cause

oggettive, qualora, nell’arco di un periodo di 90 giorni, tale risoluzione riguardi almeno

il 10 % del numero di lavoratori.

L’appellante ritiene che la società avrebbe dovuto applicare la procedura di

licenziamento collettivo.

La corte nazionale adita chiedeva dunque in via pregiudiziale alla Corte di giustizia se

la nozione di “cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di

lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore” della direttiva

98/59, comprendesse la cessazione contrattuale concordata tra il datore di lavoro e il

lavoratore che, pur derivando da un’iniziativa del lavoratore, fosse dovuta a una

modifica di condizioni di lavoro per iniziativa del datore di lavoro a causa di una crisi

aziendale e rispetto alla quale, in definitiva, fosse stata riconosciuta un’indennità di

importo equivalente al licenziamento illegittimo.

Nella sentenza dell’11 novembre 2015 La Corte ha stabilito che, al fine di accertare

l’esistenza di un licenziamento collettivo ai sensi della direttiva, la condizione che i

licenziamenti siano almeno cinque non riguarda le cessazioni di contratti di lavoro

assimilate a un licenziamento, bensì esclusivamente i licenziamenti in senso stretto. La

Corte ha altresì stabilito che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e

a svantaggio del lavoratore, a una modifica sostanziale degli elementi essenziali del

contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientra

nella nozione di «licenziamento» ai sensi della direttiva.

29 Direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi (GUL 225, pag. 16).

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Di conseguenza, qualsiasi normativa nazionale o interpretazione che conduca a

ritenere che, in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, la

risoluzione del contratto di lavoro non costituisca un licenziamento ai sensi della

direttiva altererebbe l’ambito di applicazione di quest’ultima, privandola così della sua

piena efficacia.

Link alla versione integrale della sentenza

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Ravvicinamento delle legislazioni

Corte dichiara invalida la decisione della Commissione che attesta che gli Stati

Uniti garantiscono un adeguato livello di protezione dei dati personali trasferiti

(Sentenza nella causa C-362/14, Maximilian Schrems/Data Protection Commissioner)

La causa verte nel procedimento principale sull’utilizzo dei dati personali degli utenti

Facebook da parte della societá irlandese affiliata della piattaforma social. I dati

vengono in parte o del tutto inviati a server che si trovano negli Stati Uniti. Un utente

Facebook austriaco ha presentato una denuncia presso l’autoritá per la protezione dei

dati personali irlandese. Egli riteva che la normativa e la prassi statunitense non

offrissero una tutela adeguata contro la sorveglianza svolta dalle autorità pubbliche sui

dati trasferiti verso tale paese. L’autoritá irlandese respingeva la denuncia

egnatamente con la motivazione che, in una decisione del 26 luglio 200230, la

Commissione aveva ritenuto che, nel contesto del cosiddetto regime di «approdo

sicuro»31, gli Stati Uniti garantissero un livello adeguato di protezione dei dati

personali trasferiti. La High Court irlandese adita si ricorreva in via pregiudiziale alla

Corte di Giustizia europea, per sapere se questa decisione della Commissione produca

l’effetto di impedire ad un’autorità nazionale di controllo di indagare su una denuncia

con cui si lamenta che un paese terzo non assicura un livello di protezione adeguato e,

se necessario, di sospendere il trasferimento di dati contestato.

A seguito della direttiva sul trattamento dei dati personali32, il trasferimento di tali

dati verso un paese terzo può avere luogo, in linea di principio, solo se il paese terzo

di cui trattasi garantisce per questi dati un adeguato livello di protezione. La Corte ha

stabilito, che nessuna disposizione della direttiva osta a che le autorità nazionali

controllino i trasferimenti di dati personali verso paesi terzi oggetto di una decisione

della Commissione. Conseguentemente l’esistenza di una decisione della Commission

non elimina né limita i poteri delle autoritá nazionali di controllo.

La Corte ha inoltre verificato la validità della decisione della Commissione del 26 luglio

2000. Nella decisione la Commissione ha esaminato il regime dell’”approdo sicuro” per

la protezione dei dati. Questo è applicabiole unicamente alle imprese statunitensi che

vi si sottopongano unilaterlamente, e non alle autoritá dello stesso Paese. Questa base

giuridica rende così possibili ingerenze da parte delle autorità pubbliche nei diritti

fondamentali delle persone, e la Commissione non ha fatto cenno all’eventuale

esistenza di altri strumenti di protezione. Infine la Corte ha dichiarato che la decisione

della Commssione priva le autoritá di controllo nazionali dei loro poteri nel caso in cui

una persona contesti la compatibilità della decisione con la tutela della vita privata e

delle libertà e diritti fondamentali delle persone. La Corte afferma che la Commissione

non aveva la competenza di limitare in tal modo i poteri delle autoritá nazionali di

controllo.

30 Decisione 2000/520/CE della Commissione, del 26 luglio 2000, a norma della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull'adeguatezza della protezione offerta dai principi di approdo sicuro e dalle relative «Domande più frequenti» (FAQ) in materia di riservatezza pubblicate dal Dipartimento del commercio degli Stati Uniti (GU2000, L215, pag.7). 31 Il regime dell’approdo sicuro consta di una serie di principi, relativi alla protezione dei dati personali, che le imprese americane possono volontariamente sottoscrivere. 32 Direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (GU L281, pag.31).

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Per questi motivi i giudici hannodichiarato invalida la decisione del 2000 della

Commissione. La sentenza del 6 ottobre 2015 ha come conseguenza, che le autoritá di

controllo nazionali sono obbligate ad esaminare le dununce come quella oggetto del

procedimento principale e ha decidere se la normativa straniera sia compatibile con il

diritto comunitario o meno.

Link alla versione integrale della sentenza

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L’aumento delle tariffe di telecomunicazione in base a un indice dei prezzi al

consumo non consente agli abbonati di recedere dal loro contratto

(Sentenza della Corte nella causa C-326/14, Verein für Konsumenteninformation / A1 Telekom

Austria AG)

Secondo la direttiva servizio universale33, gli abbonati a servizi di comunicazione

elettronica hanno il diritto di recedere dal loro contratto, senza penali, all’atto della

notifica di modifiche delle condizioni contrattuali.

L’Obertser Gerichtshof (Corte suprema, Austria) è investita di una controversia tra

un’associazione di consumatori e un fornitore di servizi di telecomunicazione. Secondo

la predetta associazione, il fornitore di servizi di telecomunicazione avrebbe impiegato

clausole illecite nei contratti conclusi con i consumatori. Le condizioni generali

predisposte dall’azienda prevedono, infatti, che gli abbonati non possano recedere dal

loro contratto qualora le tariffe siano adeguate in base a un indice annuale oggettivo

dei prezzi al consumo stabilito dall’Istituto austriaco di statistica (Statistik Österreich).

In tale contesto, la Corte suprema intendeva accertare se tale adeguamento tariffario

costituisse una modifica delle condizioni contrattuali ai sensi della direttiva:

circostanza che, in caso di risposta affermativa, avrebbe conferito agli abbonati il

diritto di recedere dal loro contratto.

Con la sentenza del 26 novembre 2015, la Corte di giustizia ha risposto negativamente

a tale domanda.

Essa osserva che la clausola controversa contenuta nelle condizioni generali

predisposte dalla società di telecomunicazioni prevede un adeguamento delle tariffe in

base a un indice annuale oggettivo dei prezzi al consumo stabilito da un istituto

pubblico. Un adeguamento tariffario, come previsto dal contratto, che si basa su un

metodo di indicizzazione chiaro, preciso e accessibile al pubblico e derivante da

decisioni e meccanismi propri della sfera pubblica, non può porre gli utenti finali in una

situazione contrattuale differente rispetto a quella che emerge dal contratto.

Conseguentemente, qualora una modifica delle tariffe venga così effettuata, essa non

può essere qualificata come modifica delle condizioni contrattuali, ai sensi della

direttiva.

Link alla versione integrale della sentenza

33 Direttiva 2002/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale) (GUL 108, pag.51), come modificata dalla direttiva 2009/136/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009 (GUL 337, pag. 11).

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Sanitá pubblica

L’esclusione dalla donazione di sangue per gli uomini che abbiano avuto rapporti

sessuali con una persona dello stesso sesso può, alla luce della situazione in uno

Stato membro essere giustificata

(Sentenza nella causa C-528/13 Geoffrey Léger / Ministre des Affaires sociales, de la Santé et des

Droits des femmes, Établissement français du sang)

Nell’ambito di una controversia che oppone il sig. Léger al Ministre des Affaires

sociales, de la Santé et des Droits des femmes (Ministro degli Affari sociali, della

Sanità e dei Diritti delle donne) nonché all’Établissement français du sang, il Tribunal

administratif de Strasbourg (Tribunale amministrativo di Strasburgo) ha presentato

una domanda di pronuncia pregiudiziale che verteva sull’interpretazione della direttiva

2004/33/CE34. In particolare il giudice di rinvio voleva sapere se l’esclusione dalla

donazione di sangue per gli uomini che abbiano avuto rapporti sessuali con una

persona dello stesso sesso fosse compatibile con tale direttiva. A norma della direttiva,

le persone il cui comportamento sessuale le esponga ad un alto rischio di contrarre

gravi malattie trasmissibili col sangue sono infatti escluse in modo permanente dalla

donazione di sangue.

Nella sua sentenza del 29 aprile 2015, la Corte ha innanzitutto affermato che il giudice

francese dovrà verificare se, nel caso di un uomo che abbia avuto rapporti sessuali con

una persona dello stesso sesso, esista, in Francia, un alto rischio di contrarre gravi

malattie infettive trasmissibili con il sangue. Ai fini di tale analisi, dovrà essere presa in

considerazione la situazione epidemiologica in Francia, che secondo i dati a sua

disposizione, presenterebbero un carattere specifico.

Anche nell’ipotesi in cui il Tribunal administratif de Strasbourg considerasse che gli

uomini che hanno avuto rapporti sessuali con una persona dello stesso sesso siano

esposti in Francia, ad un alto rischio di contrarre malattie quali l’HIV, si porrebbe la

questione di sapere se la controindicazione permanente alla donazione di sangue sia

conforme ai diritti fondamentali dell’Unione e, in particolare, al principio del divieto di

discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. A tal riguardo la Corte ha ricordato

che eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali dell’Unione

europea possono essere apportate solo laddove siano necessarie e rispondano

effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di

proteggere i diritti e le libertà altrui.

In proposito la Corte ha dichiarato che, sebbene l’esclusione, prevista dalla normativa

francese, contribuisca a ridurre al minimo il rischio di trasmissione ai riceventi di una

malattia infettiva e, pertanto, alla finalità generale di garantire un livello elevato di

protezione della salute umana, il principio di proporzionalità potrebbe non essere

rispettato. Ciò in quanto non si potrebbe escludersi che l’HIV possa essere riscontrato

mediante tecniche efficaci atte ad assicurare un livello elevato di protezione della

salute dei riceventi. Spetta al giudice nazionale di verificare se siffatte tecniche

esistano, fermo restando che i test devono essere praticati secondo le procedure

scientifiche e tecniche più recenti. Nel caso in cui simili tecniche non esistano, bisogna

verificare la sussistenza di metodi meno restrittivi rispetto all’esclusione permanente

34 Direttiva 2004/33/CE della Commissione, del 22 marzo 2004, che applica la direttiva 2002/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a taluni requisiti tecnici del sangue e degli emocomponenti

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dalla donazione di sangue per assicurare un livello elevato di protezione della salute

dei riceventi.

Link alla versione integrale della sentenza

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Sicurezza sociale

I redditi patrimoniali dei residenti in Francia che lavorano in un altro Stato membro

non possono essere soggetti ai contributi sociali francesi

(Sentenza della Corte nella causa C-623/13, Ministre de L’Èconomie et des Finances/Gérard de

Ruyter)

Nella causa C-623/13 la Corte si è occupata di una domanda pregiudiziale che è stata

presentata nell’ambito di una controversia in merito al pagamento di vari contributi

sociali. Il signor de Ruyter, cittadino olandese che lavora nei Paesi Bassi, ma residente

in Francia, si è opposto al prelevamento di contributi sociali dai suoi redditi

patrimoniali (rendite vitalizie stipulate nei Paesi Bassi).

Già nell’anno 2000 la Corte aveva esaminato in due sentenze se dai redditi da lavoro e

sostitutivi percepiti da lavoratori che, ancorché residenti in Francia, lavorano in un

altro Stato membro, potessero essere prelevati contributi sociali francesi. Allora la

Corte aveva constatato che tali prelievi erano destinati specificamente e direttamente

al finanziamento della previdenza sociale in Francia e ne ha dedotto che presentavano

un rapporto diretto e sufficientemente rilevante con le leggi che disciplinano i settori di

previdenza sociale elencati all’articolo 4 del regolamento n.1408/7135. Pertanto la

Corte aveva concluso che, in relazione ai lavoratori interessati, il prelievo di tali

contributi era incompatibile sia con il divieto del cumulo in materia di previdenza

sociale (regolamento n. 1408/71) sia con la libera circolazione dei lavoratori e la

libertà di stabilimento.

Nella sentenza del 26 febbraio 2015, la Corte ha constatato che ciò vale anche per i

prelievi che sono basati sui redditi patrimoniali. Il divieto di cumulo previsto dal

regolamento 1408/71 non è, infatti, subordinato all’esercizio di un’attività

professionale e si applica quindi indipendentemente dall’origine dei redditi percepiti

dalla persona interessata. Pertanto i redditi del signor de Ruyter non possono essere

assoggettati in Francia a prelievi che presentano un rapporto diretto e

sufficientemente rilevante con i settori della previdenza sociale. Altrimenti verrebbe

creata una disparità di trattamento in relazione all’articolo 13 del regolamento n.

1408/71, dato che tutti gli altri residenti in Francia sono tenuti unicamente a

contribuire al regime previdenziale dello stessa.

Link alla versione integrale della sentenza

35 Regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità

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Spazio di libertà, sicurezza e giustizia

Una normativa nazionale che impone o l’ammenda o l’allontanamento di cittadini di

paesi terzi in caso di soggiorno irregolare, a seconda delle circostanze, è in

contrasto con il diritto dell’Unione

(Sentenza nella causa C-38/14, Subdelegaciòn del Gobierno en Guipuzkoa/Zaizoune)

La direttiva 2008/115/CE36 stabilisce norme e procedure comuni da applicarsi negli

Stati membri per il rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel

rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del

diritto internazionale, compresi gli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di

diritti dell’uomo. Il sig. Zaizoune, cittadino marocchino, era stato fermato dalle

autorità spagnole perché non aveva potuto presentare i suoi documenti d’identità. Di

conseguenza era stato disposto il suo allontanamento dal territorio spagnolo con

divieto d’ingresso per cinque anni. Il Juzgado de lo Contencioso – Administrativo de

Donostia – San Sebastian (Tribunale amministrativo di San Sebastien) ha tuttavia

annullato tale decisione sostituendo l’allontanamento con un’ammenda.

In tale contesto, appellata la decisione dalle autorità spagnole, il Tribunal Superior de

Justicia de la Comunidad Autonoma del Pais Vasco ha chiesto alla Corte in via

pregiudiziale se, alla luce dei principi di leale cooperazione e dell’effetto utile delle

direttive, la direttiva 2008/115/CE debba essere interpretata nel senso che osta ad

una normativa, come interpretata dalla giurisprudenza spagnola, che consente di

punire la situazione irregolare di uno straniero nel territorio statale esclusivamente

con una sanzione economica, la quale risulta altresì incompatibile con la sanzione

dell’allontanamento.

Nella sentenza del 23 aprile 2015, la Corte ha ricordato che l’obiettivo della direttiva

2008/115 consiste nell’istituzione di un’efficace politica in materia di allontanamento e

rimpatrio e l’articolo 6, paragrafo 1, prevede innanzitutto, in via principale, l’obbligo

per gli Stati membri di adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque

cittadino di paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio sia irregolare. Una volta

constatata l’irregolarità del soggiorno, le autorità nazionali competenti devono, fatte

salve le eccezioni previste dalla direttiva, emanare una decisione di rimpatrio. La Corte

ha anche ricordato che, come discende tanto dal dovere di lealtà degli Stati membri

quanto dalle esigenze di efficacia, l’obbligo che la direttiva impone agli Stati membri di

procedere all’allontanamento di detto cittadino deve essere adempiuto con la massima

celerità. Del resto, nessuna disposizione della predetta direttiva, né alcuna

disposizione di un atto rientrante nell’acquis comunitario, consente l’introduzione di un

meccanismo che imponga, in caso di soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi nel

territorio di uno Stato membro, a seconda delle circostanze, o un’ammenda o

l’allontanamento, misure queste applicabili l’una ad esclusione dell’altra.

Considerato che gli Stati membri non possono applicare una propria normativa in

modo tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva

e da privare così quest’ultima del suo effetto utile, la Corte ha risposto che la direttiva

36 Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (GU L 348, pag. 98).

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2008/115 deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno

Stato membro che impone, in caso di soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi nel

territorio di tale Stato, a seconda delle circostanze, o un’ammenda o l’allontanamento,

misure queste applicabili l’una ad esclusione dell’altra.

Link alla versione integrale della sentenza

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I cittadini di paesi terzi, che siano soggiornanti di lungo periodo possono essere

obbligati dagli Stati membri a superare un esame di integrazione civica

(Sentenza nella causa C-579/13, P e S/Commissie Sociale Zekerheid Breda, College van

Burgermeester en Wethouders van de gemeente Amtstelveen)

Nell’ambito di una controversia in cui P e S si contrapponevano alla Commissione di previdenza

sociale di Breda e alla Giunta comunale dei borgomastri e degli assessori del Comune

di Amstelveen in merito all’imposizione da parte di questi ultimi di un obbligo di

integrazione civica, il Centrale Raad van Beroep (Corte suprema amministrativa, Paesi

Bassi) ha presentato una domanda di pronuncia pregiudiziale relativa

all’interpretazione della direttiva 2003/109/CE37. Questa direttiva prevede che gli

Stati membri conferiscano lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di

paesi terzi che hanno soggiornato nel loro territorio legalmente e ininterrottamente

per cinque anni immediatamente prima della presentazione della loro domanda.

Considerato che il Centrale Raad van Beroep sollevava dubbi sulla conformità

dell’obbligo di integrazione civica con la direttiva, lo stesso ha chiesto la Corte di

giustizia in particolare, se, dopo la concessione dello status di soggiornante di lungo

periodo sia lecito che gli Stati membri pongano condizioni d’integrazione costituite da

un esame di integrazione civica, sanzionato da un sistema di ammende.

Con sentenza del 4 giugno 2015 la Corte ha innanzitutto rilevato che quest’obbligo del

superamento di un esame per dimostrare l’acquisizione di capacità di espressione

orale e scritta nella lingua neerlandese nonché una conoscenza sufficiente della

società olandese, non è una condizione per ottenere né per conservare lo status di

soggiornante di lungo periodo, ma determina unicamente l’irrogazione di

un’ammenda. Inoltre, la Corte ha sottolineato l’importanza attribuita dal legislatore

dell’Unione alle misure di integrazione e constatato che il diritto dell’Unione non

impone né vieta agli Stati membri di esigere dai cittadini di paesi terzi l’adempimento

di obblighi di integrazione dopo l’ottenimento dello status di soggiornante di lungo

periodo. Il fatto che l’obbligo di integrazione civica di cui al procedimento principale

non sia imposto ai cittadini nazionali non viola neanche il principio di parità di

trattamento con i cittadini nazionali, in quanto la situazione dei cittadini di paesi terzi

non è analoga a quella dei cittadini nazionali per quanto concerne l’utilità delle misure

di integrazione quali l’acquisizione di una conoscenza tanto della lingua quanto della

società del paese in questione.

Pertanto, la Corte è pervenuta alla conclusione che la direttiva 2003/109 non osta

all’imposizione dell’obbligo di superare un esame di integrazione civica, a condizione

che le sue modalità di applicazione non siano tali da compromettere la realizzazione

degli obiettivi perseguiti dalla direttiva. Spetta al giudice del rinvio di verificare tale

circostanza.

Link alla versione integrale della sentenza

37 Direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo (GU 2004, L16, pag. 44).

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Gli Stati membri possono esigere che i cittadini di paesi terzi superino un esame di

integrazione civica preliminarmente al ricongiungimento familiare

(Sentenza nella causa C-153/14, Minister van Buittenlandse Zaken / K e A)

La direttiva 2003/86/CE38 fissa le condizioni dell’esercizio del diritto al

ricongiungimento familiare di cui dispongono i cittadini di paesi terzi che risiedono

legalmente sul territorio degli Stati membri. La legislazione dei Paesi Bassi subordina il

diritto al ricongiungimento familiare al superamento di un esame di base di

integrazione civica. Nella causa principale due persone hanno addotto problemi di

salute e disturbi psichici che impedirebbero loro di sostenere l’esame di integrazione

civica. Nonostante siano previste esenzioni per i richiedenti che non sono in grado, in

modo duraturo, di superare l’esame, a causa di un handicap fisico o psichico, le loro

domande di permesso di soggiorno temporaneo sono state respinte dalle autorità

olandesi. Il Raad van State (Consiglio di Stato), cui sono state sottoposte le

controversie riguardanti tali rifiuti, ha deciso di interpellare la Corte di giustizia in

merito alla compatibilità dell’esame di integrazione civica con la direttiva.

In concreto il tribunale richiedente voleva sapere se fosse compatibile con la direttiva

2003/86/CE, che uno Stato membro richiedesse ai cittadini di paesi terzi il

superamento di un esame di integrazione civica -nel quale vengono valutate

conoscenze di base sia della lingua sia della società dello Stato membro, e che

prevede l’esborso di denaro a titolo diverso per la partecipazione-, prima di

autorizzare l’entrata e la permanenza sul proprio territorio nell’ambito del

ricongiungimento familiare.

Nella sua sentenza del 9 luglio 2015 la Corte ricorda che la direttiva ammette in via

generale che gli Stati membri subordinino il rilascio di un permesso di ingresso sul

proprio territorio al rispetto di determinate misure preliminari di integrazione, soltanto

se queste consentono appunto di facilitare l’integrazione dei familiari del soggiornante.

Conoscenze di base della lingua e della società del paese possono in ogni caso favorire

un’integrazione maggiore. Esistono comunque circostanze individuali particolari, come

l’età, il livello di educazione, la situazione finanziaria o le condizioni di salute che

devono essere prese in considerazione in vista di un esonero dei familiari interessati

dall’obbligo di superare un esame d’integrazione. In caso contrario, in tali circostanze,

un simile obbligo potrebbe costituire un ostacolo, difficilmente sormontabile,

all’effettivo esercizio del diritto al ricongiungimento familiare.

La Corte constata che dalla decisione di rinvio emerge che la legislazione olandese non

consente di esonerare i familiari del soggiornante dall’obbligo di superare l’esame di

integrazione civica in tutti i casi in cui tale obbligo rende impossibile o eccessivamente

difficile il ricongiungimento familiare. Inoltre il costo del pacchetto di preparazione

all’esame (110 euro), dovuto una tantum, e l’importo delle tasse d’iscrizione (350

euro) possono rendere impossibile o eccessivamente difficile il ricongiungimento

familiare.

Link alla sentenza completa

38 Direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (GU L 251, pag. 12).

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50

La direttiva «rimpatri» non osta, in linea di principio, alla normativa di uno Stato

membro che commina una pena detentiva ad un cittadino di un paese terzo che

entri irregolarmente nel suo territorio trasgredendo un precedente divieto

d’ingresso

(Sentenza della Corte nella causa C-290/14, Skerdjan Celaj)

Un cittadino albanese è rientrato piú volte sul territorio italiano, nonostante il divieto

di ingresso emesso nei suoi confronti. Nella causa principale, il pubblico ministero

italiano ne ha chiesto la condanna sulla base di una normativa italiana che prevede

una pena detentiva fino a quattro anni per la violazione del divieto di ingresso. Il

giudice italiano competente domandava quindi in via pregiudiziale alla Corte di

Giustizia europea, se la norma nazionale fosse compatibile con la direttiva sul

rimpatrio di cittadini di paesi terzi (cd. “direttiva rimpatri”)39.

Nella sua sentenza del 1 ottobre 2015 la Corte ha stabilito che la “direttiva rimpatri

non osta ad una normativa nazionale, che qualifichi come reato il nuovo ingresso

illegale. L’obiettivo della direttiva non è quello di armonizzare il diritto di soggiorno

per i cittadini dei paesi terzi nei diversi paesi membri. Il limite è da individuarsi lá

dove una disposizione nazionale comprometta il raggiungimento degli obiettivi

perseguiti dalla direttiva.

Conformemente alla giurisprudenza della Corte è stato ribadito, che gli obiettivi della

direttiva sarebbero pregiudicati qualora venisse anteposto all’esecuzione della

decisione di rimpatrio, o addirittura alla sua stessa adozione, un procedimento penale

idoneo a condurre alla reclusione. In questo caso verrebbe minacciata la tempestivitá

dell’espulsione. Pertanto la “direttiva rimpatri” stabilisce procedure uniformi

unicamente per il primo rimpatrio.

Ció è nel caso di specie irrilevante, dal momento che il cittadino albanese è rientrato

nel territorio italiano, in violazione del divieto di ingresso, dopo la conclusione del

procedimento di espulsione.

La Corte ha sottolineato che, dalla lettura combinata dei considerando della direttiva e

del TFUE, emerge come l'introduzione di una politica sui rimpatri è parte integrante

dello sviluppo di una politica comune dell'immigrazione da parte dell'Unione europea.

Ció è destinato a garantire, tra l'altro, la prevenzione e il rafforzamento delle misure

per combattere l'immigrazione clandestina.

Tuttavia, vi deve essere pieno rispetto dei diritti fondamentali, in particolare quelli

garantiti dalla CEDU quanto, eventualmente, della convenzione di Ginevra.

Link alla versione integrale della sentenza

39 Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (GU L348, pag.98).

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51

Trasporti

Uno Stato membro può vietare al titolare di una patente di guida conseguita in altro

Stato membro di guidare dopo aver commesso un’infrazione stradale di natura tale

da determinare la sua inidoneità alla guida

(Sentenza della Corte nella causa C-260/13, Sevda Aykul /Land Baden-Württemberg)

La direttiva 2006/126/CE40 individua un modello di patente di guida per tutti gli Stati

membri e stabilisce che le patenti di guida rilasciate dagli Stati membri siano

reciprocamente riconosciute. In seguito ad un controllo di polizia effettuato in

Germania, dal quale era risultato che una cittadina austriaca aveva guidato sotto

l’effetto di sostanze stupefacenti, le autorità tedesche le hanno quindi negato il diritto

di guidare in Germania con la sua patente di guida austriaca. In Austria, peraltro, la

stessa persona ha continuato ad essere considerata idonea a guidare veicoli ed è

pertanto rimasta in possesso della propria patente di guida.

L’interessata, ritenendo che solamente le autorità austriache fossero competenti a

stabilire la sua idoneità a guidare dei veicoli, ha quindi adito il Tribunale

amministrativo di Sigmaringen (Germania) per contestare la decisione amministrativa

tedesca che le aveva negato il diritto di utilizzare la sua patente di guida austriaca in

Germania. Il Tribunale ha chiesto alla Corte di giustizia se l’obbligo di riconoscimento

reciproco delle patenti di guida previsto dalla direttiva 2006/126/CE sia compatibile

con la decisione contestata.

Nella sua pronuncia la Corte ha riconosciuto che, secondo tale direttiva, solo lo Stato

membro di residenza normale del titolare della patente di guida è competente ad

adottare misure restrittive della patente che producono i loro effetti in tutti gli Stati

membri. Per contro, la direttiva autorizza ogni Stato membro ad adottare, in forza

della propria normativa nazionale ed a motivo dell’infrazione commessa nel proprio

territorio, misure circoscritte a tale territorio. La possibilità che uno Stato membro

revochi al titolare di una patente di guida l’autorizzazione a guidare nel proprio

territorio a motivo di un’infrazione commessa in quest’ultimo costituisce certo una

limitazione al principio del reciproco riconoscimento delle patenti di guida. Tuttavia,

tale limitazione è idonea a rafforzare la sicurezza della circolazione stradale e rientra

quindi nell’interesse di tutti i cittadini.

Nella sentenza del 23 aprile 2015 la Corte ha dichiarato che quindi la direttiva

concernente la patente di guida non osta a che uno Stato membro, nel cui territorio il

titolare di una patente di guida rilasciata da un altro Stato membro temporaneamente

soggiorni, rifiuti di riconoscere la validità di tale patente a motivo di un’infrazione che

il titolare ha commesso in detto territorio successivamente al rilascio della patente

stessa e che, conformemente alla legge nazionale del primo Stato membro, è di

natura tale da determinare l’inidoneità alla guida di veicoli a motore. Spetta inoltre

allo stesso Stato verificare se i requisiti previsti dalla sua stessa normativa per

riacquistare il diritto di guidare rispettino il principio di proporzionalità e, in

particolare, non superino i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il

raggiungimento dell’obiettivo perseguito dalla direttiva che è quello di rafforzare la

sicurezza della circolazione stradale. Link alla versione integrale della sentenza

40 Direttiva 2006/126/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, concernente la patente di guida

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52

La prova dell’esistenza di un domicilio dichiarato sul territorio dello Stato membro

non può essere il solo strumento utile per dimostrare il requisito di «residenza

normale» ai fini del rilascio o rinnovo di una patente di guida

(Sentenza della Corte nella causa C-664/13, Nīmanis)

Il requisito di residenza normale costituisce un elemento essenziale del sistema del

riconoscimento reciproco istituito dalla direttiva sulla patente di guida41, la quale

dispone che per residenza normale s’intende il luogo in cui una persona dimora

abitualmente, vale a dire per almeno 185 giorni all’anno, per interessi personali e

professionali o, nel caso di una persona che non abbia interessi professionali, per

interessi personali che rivelino stretti legami tra la persone e il luogo in cui essa abita.

Un cittadino lettone, privo di un domicilio dichiarato in Lettonia, ha chiesto il rinnovo

della sua partente di guida in tale Stato membro, in quanto egli vi ha la propria

residenza normale. L’autorità competente, constatato che il cittadino non aveva un

domicilio dichiarato in Lettonia, ha adottato una decisione di rifiuto atteso che il

cittadino avrebbe dovuto risiedere in Lettonia per almeno 185 giorni e dichiarare il

proprio domicilio conformemente alla procedura prevista dalla normativa lettone. A

seguito di ricorso contro tale decisione, il giudice del rinvio ha chiesto alla Corte di

giustizia se l’articolo 12 della direttiva 2006/126 debba essere interpretato nel senso

che osta alla normativa di uno Stato membro secondo cui l’unico mezzo per

dimostrare la residenza normale di una persona in detto Stato (Lettonia) è costituito

dal domicilio dichiarato di tale persona.

Nella sentenza del 25 giugno 2015 la Corte precisa che il requisito di residenza

contribuisce, in particolare, a combattere il «turismo delle patenti di guida» in assenza

di un’armonizzazione completa delle normative degli Stati membri relative al rilascio

delle patenti di guida e che tale requisito è indispensabile per il controllo del rispetto

del requisito dell’idoneità alla guida.

Secondo la Corte le modalità di prova del rispetto del requisito di residenza normale

non devono andare al di là di quanto necessario per consentire alle autorità

competenti dello Stato membro di garantire che l’interessato rispetta tale requisito

alla luce dei criteri di cui all’articolo 12 della direttiva 2006/126. Una normativa di uno

Stato membro in forza della quale l’unico strumento di cui dispone il richiedente una

patente di guida consiste nel dimostrare l’esistenza di una dichiarazione di domicilio

dell’interessato sul territorio di tale Stato membro presenta un carattere troppo

esclusivo.

La Corte conclude quindi precisando che l’articolo 12 della direttiva 2006/126 deve

essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro in

forza della quale il solo strumento di cui dispone una persona che chiede il rilascio o il

rinnovo di una patente di guida in tale Stato membro, per dimostrare che soddisfa il

requisito di «residenza normale» sul territorio, consiste nel provare l’esistenza di un

domicilio dichiarato sul territorio dello Stato membro interessato.

Link alla versione integrale della sentenza

41 Direttiva 2006/126/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, concernente la patente di guida

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53

Il vettore aereo è tenuto a indennizzare i passeggeri anche in caso di annullamento

del volo per problemi tecnici imprevisti

(Sentenza nella causa C-257/14, Corina van der Lans/Koninklijke Luchtvaart Maatschappij NV)

In caso di annullamento di un volo, il vettore aereo è tenuto, ai sensi del diritto dell’Unione42, a

fornire ai passeggeri assistenza e compensazione pecuniaria (da EUR 250 a EUR 600,

in funzione della distanza). Nessuna compensazione è, tuttavia, dovuta se il vettore è

in grado di provare che l’annullamento sia imputabile a circostanze eccezionali, che

non avrebbero potuto essere evitate neppure adottando tutte le misure del caso.

Un signora olandese disponeva di una prenotazione di un biglietto aereo per un volo

operato da una compagnia europea. Il volo in questione è arrivato a destinazione con

un ritardo di 29 ore. Secondo il vettore, il ritardo era dovuto a circostanze eccezionali,

ovvero a una concomitanza di problemi: due pezzi erano difettosi, segnatamente la

pompa del carburante e l’unità idromeccanica.

La corte adita ha deciso di deferire questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia,

domandando se un problema tecnico che sia sorto improvvisamente, non sia

imputabile a carenze di manutenzione e neppure sia emerso nel corso di un regolare

controllo rientri nella nozione di «circostanze eccezionali», esonerando dunque il

vettore dal proprio obbligo d’indennizzo.

Con la sentenza C-257/14 del 17 settembre 2015, la Corte ricorda anzitutto come,

secondo la sua giurisprudenza, i problemi tecnici possano rientrare fra le circostanze

eccezionali43. Nondimeno, le circostanze che si accompagnano all’insorgere di tali

problemi possono essere qualificate «eccezionali» unicamente se sono collegate a un

evento che non sia inerente al normale esercizio dell’attività del vettore aereo e

sfugga, per natura o per origine, all’effettivo controllo di quest’ultimo: i problemi

tecnici emersi in occasione della manutenzione degli aeromobili, o a causa di una

carenza di manutenzione, non possono costituire di per sé «circostanze eccezionali».

Pertanto, nell’ambito dell’attività di un vettore aereo, tale evento inaspettato è

inerente al normale esercizio dell’attività e il vettore deve sistematicamente far fronte

a problemi tecnici imprevisti. Di conseguenza, un problema tecnico come quello di cui

trattasi non può rientrare nella nozione di «circostanze eccezionali» e il vettore è

tenuto all’assistenza e alla compensazione pecuniaria secondo quanto previsto dal

citato Regolamento (CE) n. 261/2004.

Link alla versione integrale della sentenza

42Regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il regolamento (CEE) n. 295/91 (GUL 46, pag. 1). 43V. sentenza della Corte del 22 dicembre 2008, Wallentin-Hermann (causa C-549/07.

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54

Tutela dei consumatori

La direttiva concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i

consumatori si applica anche ai contratti standard di servizi di assistenza legale

(Sentenza nella causa C-573/13, Birutė Šiba/Arūnas Devėnas)

Nella causa C-573/13 la Corte si è occupata di una domanda pregiudiziale che era

stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Šiba e il sig. Devėnas,

nella sua qualità di avvocato, in merito ad una richiesta di pagamento di onorari. La

sig.ra Šiba ha stipulato con il sig. Devėnas, nella sua qualità di avvocato, tre contratti

standard di prestazione di servizi di assistenza legale a titolo oneroso, nei quali le

modalità di pagamento degli onorari e i termini entro i quali siffatto pagamento

doveva essere effettuato non erano specificati. I contratti non individuavano con

precisione neppure i diversi servizi di assistenza legale per i quali detto pagamento era

richiesto, né il prezzo delle prestazioni che vi corrispondevano. Dato che la sig.ra Šiba

non ha pagato gli onorari entro il termine stabilito dal sig. Devėnas, quest’ultimo ha

chiesto l’emissione di un’ingiunzione di pagamento per gli onorari dovuti.

Il Lietuvos Aukščiausiasis Teismas (Corte suprema della Lituania), investito in ultima

istanza della questione, voleva sapere della Corte, in sostanza, se la direttiva

93/13/CEE concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori44

deve essere interpretata nel senso che essa si applica a contratti standard di servizi di

assistenza legale, come quelli di cui al procedimento principale, stipulati da un

avvocato con una persona fisica che non agisce per fini che rientrano nel quadro della

sua attività professionale.

Con sentenza del 15 gennaio 2015, la Corte ha innanzitutto rilevato che la direttiva

93/13/CEE definisce i contratti ai quali essa si applica con riferimento alla qualità dei

contraenti, a seconda che essi agiscano o meno nell’ambito della loro attività

professionale. Per quanto concerne i contratti di assistenza legale, come quelli di cui al

procedimento principale, la Corte ha rilevato che, in materia di prestazioni offerte

dagli avvocati, vi è, in linea di principio, una disparità tra i „clienti-consumatori” e gli

avvocati, dovuta segnatamente dall’asimmetria informativa tra tali parti. Pertanto, un

avvocato che, come nel procedimento principale, nel quadro della sua attività

professionale fornisca a titolo oneroso un servizio di assistenza legale a favore di una

persona fisica che agisce per fini privati è un „professionista” ai sensi della direttiva

93/13/CEE e il contratto relativo alla prestazione di un servizio siffatto è, di

conseguenza, assoggettato al regime di detta direttiva. Tale constatazione non può

essere confutata dalla natura pubblica dell’attività degli avvocati, in quanto la direttiva

93/13/CEE riguarda qualsiasi attività professionale «sia essa pubblica o privata» e,

riguarda «anche le attività professionali di carattere pubblico». Alla luce dell’obiettivo

della tutela dei consumatori perseguito da tale direttiva, infatti, la questione della sua

stessa applicabilità non può essere determinata dalla natura pubblica o privata delle

attività del professionista o dalla missione specifica di quest’ultimo.

Pertanto la Corte è pervenuta alla conclusione, che anche i contratti standard di servizi

di assistenza legale, come quelli di cui al procedimento principale, rientrano

nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13/CEE.

Link alla versione integrale della sentenza

44 Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori

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55

Nel contratto di credito al consumo spetta al creditore fornire la prova

dell’esecuzione dei suoi obblighi precontrattuali di informazione e di verifica della

solvibilità del debitore

(Sentenza nella causa C-449/13, Consumer Finance SA/Ingrid Bakkaus e.a.)

Gli obblighi d’informazione della direttiva 2008/48/CE sui crediti ai consumatori45,

devono essere interpretati in modo che non sussiste un’inversione dell’onere della

prova a carico del consumatore. Una tale clausola standard – nella quale il

consumatore dichiara essere stato informato correttamente - è però ammissibile se ha

un mero effetto d’indizio e non vincola il tribunale a tale inversione dell’onere della

prova.

Alla base del caso di specie vi erano due contratti di credito ai consumatori di diritto

francese, da una parte tra i coniugi Bonato e la CA Consumer Finance SA (in breve:

CA CF), e dall’altra parte tra la signora Bakkaus e la CA CF. Le due controparti

contrattuali della CA CF erano consumatori. Sia i coniugi Bonato, sia la signora

Bakkaus non avevano rimborsato più le rate mensili dei loro rispettivi contratti di

credito e di conseguenza la CA CF avevano agito in giudizio dinnanzi al Tribunal

d’instance d’Orléans per il pagamento delle rate mensili in arretrato. Il tribunale di

prima istanza aveva esaminato d’ufficio se alla stipulazione dei contratti la CA CF

aveva adempiuto il suo obbligo d’informazione e se in mancanza di tale informazione

la banca non avesse più diritto al pagamento degli interessi. Un tale obbligo

informativo è previsto dal codice dei consumatori francese nell’ambito di trasposizione

della direttiva 2008/48/CE. Il tribunale di prima istanza ha rilevato che da parte della

CA CF con i due contratti non era stato prodotto ne la scheda d’informazione con le

informazioni precontrattuali né alcun altro documento. Il contratto stipulato con la

signora Bakkaus conteneva però una clausola standard nella quale la debitrice dava

atto di aver ricevuto e di aver preso conoscenza della scheda.

Considerato che la direttiva non contiene regole riguardanti l’onere della prova, il

Tribunal d’instance d’Orléans ha avviato un procedimento di domanda pregiudiziale ai

sensi dell’art.267 TFUE dinnanzi alla Corte di giustizia. Quest’ultima ha deciso che il

principio di effettività del diritto dell’Unione sarebbe compromesso se da una clausola

standard, come quella del contratto con la signora Bakkaus, si potresse dedurre

un’inversione dell’onere della prova. Ai sensi di tale principio l’applicazione del diritto

dell’Unione non può essere reso impossibile. Il consumatore di regola non dispone dei

mezzi, che gli consentono di provare che il creditore non gli ha fornito le informazioni

richieste, mentre si può pretendere dal creditore di provare l’esecuzione dei suoi

obblighi di fornire informazioni e chiarimenti mediante una scheda d’informazione o

qualcosa di simile. Pertanto una tale clausola standard, nella quale il consumatore -

come nel caso di specie – conferma di aver ricevuto la scheda e l’informazione, non é

automaticamente nulla. Nell’ambito della valutazione delle prove tale clausola può,

infatti, costituire un indizio per il tribunale, senza però vincolarlo. I necessari

chiarimenti possono anche essere dati preliminarmente alla valutazione di solvibilità

da parte del creditore. In tal caso, se dalla valutazione di solvibilità dovessero

emergere elementi da prendere in considerazione, il creditore sarebbe tenuto a fornire

ulteriori chiarimenti al consumatore. Tuttavia i requisiti per questi ulteriori chiarimenti

45 Direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE

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non sono soggetti ad una forma rigida ed non è necessario un specifico documento.

Inoltre, la Corte si è occupata anche della questione dell’entità e dell’intensità della

valutazione della solvibilità del consumatore da parte del creditore. In linea di principio

il creditore può senza problemi fidarsi delle sole informazioni fornite dal consumatore,

se queste sono sufficienti e corredati da documenti giustificativi. Il creditore non è

comunque obbligato a controllare sistematicamente la correttezza delle informazioni

fornite.

Link alla versione integrale della sentenza

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57

Il consumatore non deve essere indotto in errore dall’etichettatura di un prodotto

che suggerisce la presenza di un ingrediente che in realtà è assente dal prodotto

(Sentenza della Corte nella causa C-195/14, Bundesverband der Verbraucherzentralen und

Verbraucherverbände – Verbraucherzentrale Bundesverband e.V. /Teekanne GmbH & Co)

Nell’ambito di una controversia tra il Bundesverband der Verbraucherzentralen und

Verbraucherverbände – Verbraucherzentrale Bundesverband e.V. (BVV) e la Teekanne

GmbH & Co. KG in merito al presunto carattere ingannevole dell’etichettatura di un

prodotto alimentare la Corte di giustizia si è occupata di una domanda di pronuncia

pregiudiziale che verteva sull’interpretazione della direttiva 2000/13/CE46..

Il BVV aveva addebitato alla società Teekanne di avere indotto in errore il

consumatore sulla composizione dell’infuso ai frutti chiamato “Felix avventura

lampone-vaniglia”, mediante elementi che compaiono sulla confezione. Infatti, sulla

base di tali elementi, il consumatore si aspetterebbe che l’infuso contenga componenti

di vaniglia e di lampone, o per lo meno aromi naturali di vaniglia e di lampone e

questo non è il caso.

Nella causa C-195/14 il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) voleva quindi

sapere, se il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che osta a che

l’etichettatura di un prodotto alimentare e le relative modalità di realizzazione possano

suggerire, tramite l’aspetto, la descrizione o la rappresentazione grafica di un

determinato ingrediente, la presenza di quest’ultimo in tale prodotto, quando invece,

in effetti, tale ingrediente è assente, e tale assenza risulta unicamente dall’elenco

degli ingredienti riportato sulla confezione di detto prodotto.

Nella sua sentenza del 4 giugno 2015 la Corte ha constatato che l’elenco degli

ingredienti, pur essendo esatto ed esaustivo, può essere inadeguato a correggere in

maniera sufficiente l’impressione errata o equivoca che risulta, per il consumatore da

alcuni elementi mendaci, errati ambigui, contraddittori o incomprensibili

dell’etichettatura di tale prodotto. Pertanto, quando l’etichettatura di un prodotto

alimentare suggerisce la presenza di un ingrediente che in realtà è assente (assenza

che emerge unicamente dall’elenco degli ingredienti), detta etichettatura è tale da

indurre in errore l’acquirente sulle caratteristiche del prodotto. Spetta al giudice

nazione di verificare la sussistenza di questa circostanza.

Link alla versione integrale della sentenza

46 Direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità (GU L 109, pag. 29), come modificata dal regolamento (CE) n. 596/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 giugno 2009 (GU L 188, pag. 14;

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La Corte ha precisato che si presume che i difetti di conformità che si manifestano

entro sei mesi dalla consegna del bene, esistessero al momento della consegna

(Sentenza nella causa C-497/13 Froukje Faber/Autobedrijf Hazet Ochten BV (autorimessa))

Nell’ambito della controversia tra la Sig.ra Froukje Faber e la Autobedrijf Hazet Ochten BV

(autorimessa) in merito ad una domanda di risarcimento per il danno cagionato dal

difetto di conformità di un’auto usata, completamente distrutta dopo aver preso fuoco,

il Gerechtshof Arnhem-Leeuwarde (Paesi Bassi) ha sottoposto alcune domande

pregiudiziali alla Corte di giustizia europea sull’interpretazione della direttiva

1999/44/EC47. In particolare il giudice del rinvio voleva sapere se e in quale misura il

giudice nazionale sia tenuto, in base al diritto europeo, a valutare la sussistenza della

qualifica di consumatore ai sensi della direttiva 1999/44 in capo all’acquirente. In

secondo luogo le domande pregiudiziali riguardavano l’obbligo del consumatore di

informare tempestivamente il venditore del difetto di conformità di un bene,

acquistato con un contratto che ricade nel campo di applicazione della direttiva

1999/44, e come sia ripartito l’onere della prova all’interno di un successivo processo,

sempre in relazione al difetto di conformità.

Nella sentenza del 4 giugno 2015, la Corte, rispondendo alla questione pregiudiziale

riguardante l’obbligo di valutare d’ufficio la sussistenza della qualifica di consumatore

ai sensi della direttiva 1999/44 in capo alla Sig.ra Faber, ha affermato che tale obbligo

esiste, sebbene la stessa non abbia espressamente rivendicato questa qualità.

Riguardo l’obbligo in capo al consumatore di informare il venditore tempestivamente

del difetto di conformità, la Corte ha ricordato che la direttiva consente agli Stati

membri di prevedere che il consumatore debba denunciare al venditore il difetto in

questione entro il termine di due mesi. Questo onere però, ha precisato la Corte, è

limitato alla denuncia dell’esistenza di un difetto e non si estende alla prova dello

stesso o alla sua causa. L’informazione deve comunque contenere le indicazioni utili al

venditore.

Riguardo infine la ripartizione dell’onere della prova nel processo, la Corte ha

affermato che, qualora il difetto si sia manifestato entro sei mesi dalla consegna del

bene, la direttiva alleggerisce l’onere che grava sul consumatore, prevedendo che si

presuma che il difetto esistesse al momento della consegna. Il consumatore deve

tuttavia produrre la prova di determinati fatti: egli deve far valere e fornire la prova

che il bene venduto non è conforme al corrispondente contratto in quanto, ad

esempio, non presenta le qualità convenute in quest’ultimo o, ancora, è inidoneo

all’uso che ci si attende abitualmente per questo genere di bene. Egli deve inoltre

portare la prova che il difetto si è concretamente palesato entro i sei mesi dalla

consegna.

Una volta dimostrati tali fatti, il consumatore è dispensato dall’obbligo di provare che il

difetto di conformità esisteva alla data della consegna del bene. Grava allora sul

venditore l’obbligo di produrre la prova che il difetto non era presente al momento

della consegna del bene, dimostrando che tale difetto trova la propria origine o la sua

causa in un atto o in un’omissione successiva a tale consegna.

Link alla versione integrale della sentenza

47 Direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 maggio 1999, su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo (G.U. n. L 171 del 07/07/1999 pag. 12 – 16)

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Le operazioni di cambio nell’ambito di taluni tipi di mutui in valuta estera non

costituiscono servizi di investimento

(Sentenza nella causa C-312/14, Banif Plus Bank Zrt. / Márton Lantos e Mártonné Lantos)

Due coniugi ungheresi hanno stipulato un contratto di credito al consumo con una banca

ungherese, finalizzato all’acquisto di un’automobile. Per ottenere un tasso d’interesse

più favorevole rispetto a quello offerto per i mutui in fiorini ungheresi, hanno optato

per un mutuo in valuta estera, esponendosi così al rischio di un apprezzamento di tale

valuta rispetto al fiorino nel corso del periodo di rimborso.

Nell’ambito di un ricorso presentato dalla banca dinanzi ad un tribunale ungherese, la

coppia chiedeva a tale giudice di dichiarare che i contratti di credito in valuta estera

rientrano nel campo di applicazione della direttiva sui mercati degli strumenti

finanziari48, di modo che la banca, in quanto ente creditizio, avrebbe dovuto, in

particolare, valutare che il servizio fornito fosse adeguato o adatto.

Il tribunale ungherese chiedeva dunque alla Corte se la concessione di un mutuo in

valuta estera come quello di cui al procedimento principale possa essere considerato

come prestazione di un servizio di investimento, al quale si applicano le disposizioni in

parola della direttiva. Inoltre, il giudice ungherese chiede se la violazione di dette

disposizioni comporti la nullità del contratto di mutuo.

Nella sua sentenza del 3 dicembre 2015 la Corte constata che operazioni di cambio

realizzate nell’ambito della concessione di un mutuo in valuta estera come quello in

esame costituiscono attività puramente accessorie alla concessione e al rimborso del

prestito. Infatti, dette operazioni fungono unicamente da modalità di esecuzione di

queste due obbligazioni essenziali del contratto di mutuo.

Poiché il mutuatario mira solamente ad ottenere fondi in previsione dell’acquisto di un

bene o di un servizio e non a gestire un rischio di cambio o a speculare sul tasso di

cambio di una valuta estera, e operazioni di cui trattasi non hanno lo scopo di

realizzare servizi di investimento. Peraltro, in virtù della direttiva, tali operazioni non

costituiscono neppure, di per sé, servizi siffatti. Le operazioni di cambio in parola sono

inoltre connesse ad uno strumento (il contratto di mutuo) che non costituisce uno

strumento finanziario ai sensi della direttiva.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte conclude che le operazioni di cambio

nell’ambito di mutui in valuta estera come quello in parola non costituiscono servizi di

investimento, di modo che la concessione di un tale mutuo non è soggetta alle

disposizioni della direttiva relative alla protezione dei consumatori.

Link alla versione integrale della sentenza

48 Direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le direttive 85/611/CEE e 93/6/CEE del Consiglio e la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 93/22/CEE del Consiglio (GU L 145, pag.1)