rapporto2002

21
colloqui di Venezia Palazzo Labia 22-23 novembre 2002 seconda edizione Alleanza con gli Stati Uniti Rapporto annuale Comitato Difesa Duemila Ci sentiamo in guerra?

description

2002 Alleanza con gli Stati Uniti Rapporto annuale Comitato Difesa Duemila Palazzo Labia seconda edizione 22-23 novembre

Transcript of rapporto2002

Page 1: rapporto2002

colloqui di VeneziaPalazzo Labia 22-23 novembre 2002

seconda edizione

Alleanza con gli Stati UnitiRapporto annuale

Comitato Difesa Duemila

Ci sentiamoin guerra?

Page 2: rapporto2002

CCCOOOMMMIIITTTAAATTTOOO DDDIIIFFFEEESSSAAA DDDUUUEEEMMMIIILLLAAA

CI SENTIAMO IN GUERRA?

Il testo è stato redatto dal Comitato Difesa Duemila:

Prof. Michele Nones (coordinatore), On. Ferdinando Adornato, Gen. Mario Arpino,

Gen. Vincenzo Camporini, Dott. Massimo De Angelis, Gen. Carlo Finizio, Dott.

Renzo Foa, Gen. Carlo Jean, On. Luigi Ramponi, Prof. Stefano Silvestri, Amm.

Guido Venturoni; Segretario del Comitato è il Dott. Giovanni Gasparini.

Page 3: rapporto2002

2

Introduzione

Il nuovo scenario internazionale di questi primi anni duemila sta evidenziando

l’inadeguatezza delle attuali politiche di sicurezza occidentali e le difficoltà delle

strutture nazionali ed internazionali preposte alla difesa.

Nell’ultimo decennio si è resa evidente un’incapacità nel comprendere le nuove

minacce e la loro rapida evoluzione nel tempo, principalmente per due ragioni: la

prima legata al presupposto che ad una bassa minaccia tecnologica corrispondesse un

basso rischio, la seconda perché tale minaccia aveva assunto nelle sue manifestazioni

operative aspetti e respiro limitati, mantenuti entro i confini di dispute etniche,

religiose, tribali, nazionalistiche, riferite a conflittualità regionali di ben circoscritta

ampiezza ed interesse, senza assumere quel carattere di globalità che ha assunto,

invece, dopo l’11 settembre. Tutto questo in un quadro caratterizzato da una

razionalità condivisa fra le parti avverse, tale da consentire un equilibrio strategico in

cui la deterrenza, nei suoi diversi livelli, funzionava almeno a difesa del teatro

principale, quello euro-atlantico. Le stesse strutture organizzative e burocratiche

difensive (essenzialmente territoriali) ereditate in seguito al crollo dell’Unione

Sovietica sono state colte impreparate dall’attacco terroristico dell’11 settembre, nel

mezzo di una lenta e difficile trasformazione che poneva l’accento non più sulla

minaccia al territorio nazionale ma sulla proiezione di forza tesa a creare stabilità nel

mondo.

Sinora le politiche di difesa occidentali si sono concentrate sulla “fascia alta” della

minaccia, alla quale si sono accompagnate iniziative rivolte a rispondere alla

crescente esigenza di missioni internazionali di pace ed umanitarie, nelle loro varie

forme (peace keeping, peace enforcing, peace making, …). I fatti recenti mostrano

che, mentre rimangono da fronteggiare rischi e minacce alla stabilità mondiale che

richiedono l’approntamento di strumenti militari “tradizionali” (anche se non più

strettamente “territoriali”), il processo di diversificazione della minaccia in corso

ormai da un decennio ha portato alla luce la pericolosità di fenomeni sinora ritenuti di

“fascia bassa”, la cui portata si pone ora a livello strategico.

La differenziazione e multidirezionalità delle minacce porta necessariamente alla

diversificazione delle risposte. Si deve partire dalla considerazione che una minaccia

globale come quella del terrorismo internazionale richiede una risposta globale, sia a

livello internazionale, sia a livello dei singoli stati e, quindi, multidisciplinare, poiché

Page 4: rapporto2002

3

coinvolge gli apparati di politica estera, difesa, polizia, giustizia, finanza. A questa

considerazione si deve aggiungere la necessità di rivedere l’organizzazione degli

strumenti di sicurezza, il loro coordinamento, le loro necessità anche e soprattutto in

termini di capacità di spesa, efficacia ed efficienza.

Nonostante i numerosi elementi di preoccupazione che hanno continuato a

caratterizzare lo scenario internazionale negli ultimi anni ed il forte impegno delle

nostre Forze Armate nelle operazioni per il mantenimento ed il ristabilimento della

pace, si continua a registrare nel nostro paese una preoccupante discontinuità e

disattenzione verso questi problemi da parte di settori importanti dell’opinione

pubblica, del mondo dell’informazione e del mondo politico. La natura di tali

problemi e le stesse possibilità di soluzione richiedono, invece, continuità e massima

attenzione.

Sullo sfondo resta una domanda alla quale, per ora, né in Italia, né in Europa è

possibile dare una precisa risposta e che rischia, invece, di aprire una frattura nella

collaborazione transatlantica: fino a che punto ci sentiamo realmente in guerra

contro il terrorismo e contro quanti, direttamente o indirettamente, lo

sostengono?

Con questo documento che costituisce il suo primo intervento pubblico il Comitato

“Difesa Duemila” si propone di contribuire ad un approfondimento del dibattito su

questi temi in un’ottica europea e transatlantica. La nostra iniziativa, si propone di

elaborare ogni anno un policy-paper da sottoporre alle classi dirigenti del paese allo

scopo di creare un’occasione regolare di confronto, per evidenziare quelle che

riteniamo le principali priorità delle politiche di difesa e di sicurezza.

Page 5: rapporto2002

4

1. Un nuovo rapporto transatlantico

Gli atti terroristici perpetrati negli Stati Uniti l’11 settembre dello scorso anno e a Balì

e a Mosca nell’ottobre di quest’anno, hanno evidenziato l’inadeguatezza delle attuali

politiche di sicurezza occidentali e le difficoltà delle strutture nazionali ed

internazionali preposte alla difesa.

Il processo di diversificazione della minaccia in corso ormai da un decennio ha

portato alla luce la pericolosità di fenomeni sinora ritenuti di “fascia bassa”, la cui

portata si pone ora a livello strategico.

La differenziazione e multidirezionalità delle minacce porta necessariamente alla

diversificazione delle risposte che devono anch’esse muoversi a livello strategico. Si

deve partire dalla considerazione che una minaccia globale come quella del

terrorismo internazionale richiede una risposta globale, sia a livello

internazionale (come mostrato dall’ampiezza della coalizione anti talebana unita

sotto la guida degli Stati Uniti) sia a livello dei singoli stati (e quindi

multidisciplinare, poiché coinvolge gli apparati di politica estera, difesa, polizia,

giustizia, finanza, ecc…).

A questa considerazione si deve aggiungere la necessità di rivedere l’organizzazione

degli strumenti di sicurezza, il loro coordinamento, le loro necessità anche e

soprattutto in termini di capacità di spesa, efficacia ed efficienza.

Si devono minimizzare le diseconomie e le duplicazioni giungendo ad un elevato

grado di collaborazione ed integrazione fra i paesi alleati ed in particolare a livello

europeo.

Un discorso analogo può essere fatto per quanto riguarda i sistemi; le diverse esigenze

della forze di sicurezza nazionali (difesa “classica”, difesa da armi di distruzione di

massa, proiezione di forza, contrasto all’azione terroristica, …) necessitano di una

molteplicità di sistemi in quantitativi anche ridotti. Il costo per l’approntamento di una

difesa globale costituita dal coordinamento di più “strati” appare sempre più

proibitivo per i singoli stati nazionali. Questo “sistema di sistemi” risulterebbe,

inoltre, sovradimensionato rispetto alle esigenze del singolo attore internazionale e

difficilmente sostenibile nel tempo (oltre che assai oneroso da organizzare e

costituire).

Page 6: rapporto2002

5

Nel corso dell’ultimo decennio e con l’inizio della lotta contro il terrorismo

internazionale si è andato confermando il trend di cambiamento dell’impostazione

strategica generale da un concetto di difesa militare in senso stretto e geograficamente

determinato ad un ben più ampio concetto di sicurezza, non necessariamente vincolato

da limiti geografici.

Il nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica risponde a queste esigenze, ma il

processo di cambiamento innescato dovrà essere proseguito e potenziato.

Il fattore chiave che caratterizza lo scenario internazionale e il nuovo rapporto

transatlantico è dato dalla differenza nella percezione della minaccia da parte

delle due sponde dell’Atlantico, e più in generale fra gli Stati Uniti, potenza

egemone ferita, da una parte, e il resto della comunità internazionale dall’altra

(anche se il recente attentato a Bali ha indicato un allargamento della minaccia

terroristica a livello internazionale, mentre l’attentato di Mosca è percepito,

nonostante tutto, come un problema interno alla Russia, legato esclusivamente

all’intervento in Cecenia).

Si viene strutturando una divisione di fatto del lavoro in termini militari, così come si

è già proposta anche in Afghanistan: gli Usa conducono la “guerra guerreggiata”

(warfighting) e lasciano agli europei il compito di pacificare e agire in seguito

all’intervento.

La guerra in Afghanistan, infatti, è stata diretta da Washington senza ricorrere ad altre

strutture intermedie, pur essendovi una partecipazione dei paesi europei (su base

bilaterale) significativa.

La differenza nella percezione della minaccia ha delle profonde ricadute

sull’impostazione dello strumento di difesa e sugli stanziamenti per la sicurezza. Nel

settembre 2001 i governi americano ed europei dichiaravano che doveva essere

rafforzata la sicurezza e la difesa dei loro paesi e di quelli alleati e che sarebbero stati

perseguiti non solo i terroristi, ma anche i regimi che li proteggono. “Niente sarà più

come prima” si sosteneva sulle due sponde dell’Atlantico.

♦ Un anno dopo Stati Uniti ed Europa presentano uno scenario molto diverso.

Gli Stati Uniti non scherzano e per loro “niente è più come prima”. La spesa militare è

salita quest’anno di 45 miliardi di dollari (quasi tre volte l’intero bilancio della difesa

italiana), passando dal 3,1% al 3,3% del PIL e salirà a 450 in un quinquennio. Si

potranno così finanziare nuovi investimenti nel campo della ricerca e

Page 7: rapporto2002

6

dell’approvvigionamento che dovranno consentire alle forze armate americane di

affrontare meglio equipaggiate, organizzate ed addestrate i nuovi difficili compiti che

le attendono.

Gli europei, invece, dichiarano di condividere la necessità di combattere il

terrorismo, ma non sembrano per nulla sentirsi in guerra. Solo il Regno Unito ha

deciso di aumentare la sua già considerevole spesa per la difesa in modo da garantirle

il 2,4% del PIL. Si potranno così assicurare la partecipazione ai programmi JSF ed

ETAP, avviare la costruzione di nuove portaerei, rinnovare le telecomunicazioni,

rafforzando l’efficienza delle forze armate e la loro integrabilità con quelle americane.

Recentemente anche la Francia si è allineata preannunciando un analogo investimento

nel prossimo quinquennio, con l’obiettivo di passare dall’1,8% al 2,3% del PIL.

Ferme al palo restano, invece, la Germania e l’Italia e gli altri paesi con minore peso

militare. Nel complesso la spesa europea resta così attestata sui livelli del dopo

“guerra fredda” e non accenna a riprendersi. Nella sostanza per l’Europa “tutto

è rimasto come prima”.

Vi è inoltre una disparità circa la qualità del procurement: gli europei stanno portando

avanti scelte di spesa conservatrici che ben identificano lo stato di una regione che

non si sente in guerra; a questo si aggiunge il peso dei programmi preesistenti agli

avvenimenti del 11 settembre.

Una spinta all’innovazione dei sistemi viene dagli Usa; ne è un esempio l’enfasi posta

sullo sviluppo del sistema di difesa missilistica, la cui realizzazione è incompatibile

con le attuali ristrettezze finanziarie europee, ma il cui ombrello potrebbe essere

esteso agli alleati in cambio di apporti di natura non economica (basi, consenso,

supporto politico, appoggio militare di diversa entità).

La divaricazione crescente fra le scelte degli Stati Uniti e quelle degli Alleati europei

pone dei pressanti (e pesanti) problemi che vanno dal ruolo politico alle difficoltà in

termini di integrazione ed interoperabilità, agli investimenti per le nuove tecnologie,

alle nuove modalità organizzative.

In un certo senso, la divaricazione in termini operativi è legata allo scontro in atto sui

valori fondativi dell’Occidente, cui gli attentati terroristici hanno dato una profonda

scossa. Dopo decenni di “navigazione a vista”, occorre ridefinire cosa sia

l’“Occidente”, e in base a questo disegnare il nuovo quadro strategico generale e

di sicurezza. Mentre appare certamente incongrua e artificioso la teoria, pur

attualmente assai frequentata che vuole che gli “occidenti” in realtà siano due.

Page 8: rapporto2002

7

E’ necessario dunque impostare un nuovo dialogo fra le due sponde dell’Atlantico,

basato su una certa comunanza di valori e di interessi, ma anche sul riequilibrio di un

rapporto sfavorevole per l’Europa, grazie ad un maggior impegno europeo nella “hard

security” e ad un’accresciuta disponibilità americana a riconoscere il valore della

“soft security” e ad impegnarsi in tal senso.

È singolare che anche quei settori che spingono per accrescere il potenziale di

difesa “autonoma” dell’Europa finiscano poi per sottolineare come tale obiettivo

sia mirato a non “dipendere” più dagli Stati Uniti per poterne magari “frenare”

l’azione e non già, viceversa, per impegnarsi in modo più autonomo e incisivo

nella lotta contro il terrorismo, assumendo per esempio maggiori responsabilità

nell’area mediterranea, geopoliticamente cruciale e per diverse ragioni più

“vicina” agli europei.

In definitiva: un rapporto di mutua complementarietà in un contesto di reciproca

autonomia sembra la soluzione più probabile e desiderabile per fondare una relazione

transatlantica tanto proficua quanto quella che ha caratterizzato la seconda metà del

ventesimo secolo.

Diverrebbe, però, sempre più problematico stabilire un rapporto di complementarietà

bilanciata qualora si dovesse allargare il solco che divide la potenza “egemone”

rispetto alle politiche meno propense all’uso della forza degli alleati “deboli”.

Da questo punto di vista appare prioritario un ripensamento dei principi guida e

delle strategie di prevenzione militare e politica fin qui seguiti dall’epoca della

guerra fredda: ripensamento necessario in conseguenza delle nuove esigenze

create dalla guerra asimmetrica lanciata contro il mondo occidentale l’11

settembre.

Page 9: rapporto2002

8

2. Il ruolo dell’Europa

La nuova realtà delle relazioni internazionali pone i paesi europei di fronte alla scelta

fra continuare a perseguire politiche di sicurezza essenzialmente nazionali o

sviluppare ulteriormente la dimensione europea già presente nelle loro scelte

strategiche.

I diversi paesi occidentali si trovano a dover fronteggiare minacce sostanzialmente

comuni e ad organizzare risposte assai poco differenziate: è, quindi, evidente quanto

ampio sia lo spazio per una collaborazione di lungo termine sul piano politico-

militare.

♦ Gli strumenti difensivi nazionali si presentano sempre più in affanno di fronte

alle crescenti esigenze. A loro viene ora richiesto di sviluppare un’ulteriore capacità,

quella di rispondere ad una sfida che si manifesta anche all’interno del paese e non

solo dall’esterno.

Le risposte su base nazionale appaiono, nello stesso tempo, sempre più

insostenibili ed inadeguate, incapaci di far fronte ai cambiamenti epocali

dell’ultimo decennio e dell’ultimo anno.

I governi europei dovrebbero cogliere l’occasione per riconoscere la crescente

esigenza di una maggiore integrazione delle loro politiche di sicurezza e difesa: nuove

e più strette collaborazioni non sono solo auspicabili, sono necessarie. Questo sforzo

in ambito europeo non può che essere mutuamente complementare ad un’analoga

politico euro-atlantica di consolidamento di un’Alleanza diversa da quella del passato,

ma non per questo inutile. Si deve riconoscere come le sfide future siano sempre più

comuni e, quindi, amplifichino il valore di una risposta comune. In quest’ottica

sarebbe certamente auspicabile un rapporto più equilibrato rispetto a quello

sperimentato negli ultimi decenni ed è anche per questo che i paesi europei

dovrebbero cercare di elaborare una politica comune di solidarietà euro-atlantica.

La soluzione ai problemi esposti non può limitarsi all’incremento della spesa per la

sicurezza e allo stanziamento di nuovi fondi, che appaiono comunque necessari, ma

deve porre l’accento sulle modalità e sulla qualità della spesa e sulla sua integrazione

internazionale. Il cambiamento deve procedere uniformemente su due binari:

l’incremento dei budget e la riqualificazione della spesa.

Page 10: rapporto2002

9

Per l’Europa il rischio è di sviluppare solo una capacità di intervento di peacekeeping

a bassa intensità. Una soluzione di questo tipo è pericolosa e negativa non solo per gli

europei, ma anche per la sicurezza collettiva atlantica in generale.

♦ I paesi europei hanno, infatti, molteplici capacità da offrire all’alleato americano

nei diversi ambiti: politico, economico, industriale e militare. Talune specificità delle

forze armate europee (fra cui l’attitudine a operazioni di polizia internazionale a

livello militare) e le capacità diplomatiche costituiscono un apporto non irrilevante

alla sicurezza internazionale che possono utilmente integrare le capacità di intervento

americane.

Rimane, comunque, irrisolto (e difficilmente risolvibile, almeno nel breve periodo) il

problema del divario fra le percezioni dell’opinione pubblica e delle leadership

europee e di quelle americane.

Sicuramente da parte europea si deve procedere ad un processo di

responsabilizzazione dei decision makers e delle opinioni pubbliche nei confronti del

problema della sicurezza, senza per questo rinunciare al tradizionale approccio

multisettoriale (sul quale si basa, peraltro, l’originalità e l’efficacia delle politiche

europee). Per le Istituzioni europee è giunto il momento di cogliere l’occasione per un

avanzamento del loro ruolo sulla scena internazionale: si avverte l’esigenza di passare

dalla fase di costruzione delle istituzioni, costellata da dichiarazioni di principio

spesso disattese dagli Stati membri, alla fase di attuazione delle politiche reali (il che

implica anche l’impiego delle necessarie risorse).

L’Europa può aiutare non poco gli Stati nazionali a passare dal concetto di

difesa a quello di sicurezza. Si deve sviluppare una capacità comune che si

estenda nelle tre dimensioni dell’intelligence (condivisione di informazioni), della

homeland security (in ottemperanza al principio di solidarietà europea) e della

capacità militare (prevenzione e dissuasione dell’avversario tramite la capacità

di proiettare la forza).

Tra le proposte operative, forse premature per alcuni Stati, ma certamente

coerenti con questa nuova impostazione, si devono annoverare la creazione di

uno strumento europeo per l’impiego delle forze speciali e per la raccolta,

condivisione ed analisi delle informazioni.

Per quanto concerne la capacità di gestione delle operazioni, si deve poter fare

riferimento, almeno inizialmente, agli assets già disponibili a livello Nato.

Page 11: rapporto2002

10

Nell’ultimo periodo la Pesd non ha compiuto progressi sufficienti a garantirle un

ruolo di primo piano nella gestione dei nuovi rischi strategici. Queste carenze non

possono essere ricondotte soltanto al mancato accordo fra Nato e Ue in merito

(applicazione del cosiddetto Berlin plus), ma più in generale alla permanenza di

politiche nazionali che non valorizzano il ruolo dell’Europa nell’ambito delle alleanze

occidentali.

Sicuramente se l’esito della Convenzione Europea dovesse rafforzare sul piano

istituzionale la Pesc e la Pesd, inserendo anche una clausola esplicita di solidarietà fra

i paesi membri e stabilendo un’effettiva catena di comando, il compito sarà più facile,

ma, nel frattempo, alcuni problemi richiedono concrete soluzioni: basti pensare alla

necessità di coprire il disimpegno americano nei Balcani o alla richiesta di un

maggiore intervento in Afghanistan.

Non si deve dimenticare, infine, che gli interessi nazionali saranno tanto più protetti

quanto maggiore sarà il peso decisionale del contesto europeo di cui fanno parte e di

cui contribuiscono a definire le politiche.

Page 12: rapporto2002

11

3. Il problema italiano

Se il problema di fondo della differenziazione fra Europa e Stati Uniti risiede nella

diversa percezione della minaccia, l’Italia non fa eccezione.

La partecipazione del paese alla lotta al terrorismo internazionale e alle nuove

minacce non si sviluppa principalmente sul piano militare, come dimostrano

chiaramente l’invarianza degli stanziamenti per la difesa e, anzi, caso unico in

Occidente, la loro recente riduzione. Nella stessa ottica vanno interpretate le

difficoltà incontrate nel processo di riforma dell’apparato militare. L’Italia rimane,

inoltre, uno dei paesi più riluttanti ad accettare l’effettivo impiego della forza militare.

Manca anche un certo livello di chiarezza circa gli obiettivi da perseguire, in altre

parole sull’identificazione dell’interesse nazionale e su quali siano le modalità e i

mezzi con cui tutelarlo.

Di fronte alle evoluzioni dei due principali assi portanti della sicurezza italiana,

rappresentati dalla dimensione atlantica e da quella europea, ci si deve chiedere se, al

termine del processo di riforma dello strumento militare e dell’apparato di sicurezza

(inclusi quindi i Carabinieri, i Servizi di sicurezza, la Guardia di Finanza e le forze di

Polizia), ci si troverà davanti ad uno strumento utile e ben dimensionato rispetto alle

sfide future e coerente con le esigenze di sostegno della politica estera del paese.

Di fronte alle croniche carenze di fondi ci si può porre, fra gli altri, anche il problema

della specializzazione delle forze in ambito europeo (pur con tutte le cautele

necessarie al fine di assicurare comunque una capacità di influenza nei fori

internazionali e la difesa di specifici interessi nazionali non necessariamente condivisi

dagli alleati).

Dal basso livello di percezione della minaccia e dalla scarsa considerazione politica, e

più in generale della società italiana, verso il mondo della sicurezza, discendono una

serie di problemi che affliggono la rete di sicurezza del paese (la quale, peraltro,

soffre di una serie non piccola di inefficienze interne, in particolare di natura

burocratica).

Si può tentare, comunque, di definire una serie di misure di breve e medio periodo,

volte a riequilibrare progressivamente la struttura. In un contesto di risorse

particolarmente scarse, l’attenzione è ovviamente rivolta all’incremento di efficienza

da un lato e alla prioritarizzazione delle politiche di intervento dall’altro.

Page 13: rapporto2002

12

♦ Il “Sistema difesa” italiano si trova oggi nel bel mezzo di un duplice guado,

strutturale e organizzativo: da un lato il processo di professionalizzazione, avviato da

tempo, dovrebbe culminare a breve (alla fine del 2004, secondo gli ultimi

intendimenti espressi a livello politico) nella sospensione di quel che resta della leva,

con una vasta serie di problemi tuttora irrisolti, a carattere sia normativo sia

finanziario; dall’altro, la riforma dei vertici dovrebbe essere completata, in modo da

assicurare una maggiore autorità, non solo formale, del Capo di Stato Maggiore della

Difesa nei confronti dei Capi di Forza Armata. Affrontare e risolvere queste

problematiche è di importanza cruciale e il loro esito condizionerà pesantemente ed in

modo determinante la capacità stessa del nostro paese di contribuire, con efficacia e

con il peso che gli compete, alla sicurezza internazionale.

Infatti, se si vogliono contingenti idonei alla condotta di operazioni negli scenari

di oggi e di domani, servono in primo luogo soldati giovani, motivati, di elevata

qualità intellettuale, incentivati da adeguate opportunità di qualificazione, da

retribuzioni di livello e da prospettive di lavoro aperte per il “dopo servizio”.

Per quanto attiene invece alla riforma dei vertici, le ambiguità insite nelle legge

25/1997, amplificate dal testo del relativo regolamento applicativo, impediscono nella

realtà una gestione realmente integrata dalle Forze Armate. Così la pianificazione

dello strumento militare, lungi dal rispondere a un disegno unificante, non è altro che

la giustapposizione di visioni rigorosamente “single service” e ancora, l’attribuzione

ai Capi di Forza Armata di esclusiva competenza logistica limita, di fatto, la

cooperazione in questo settore vitale a quanto consentito dalla spontanea buona

volontà dei singoli. Analoga impostazione caratterizza l’utilizzo del personale,

problema particolarmente grave perché condiziona l’attività degli organismi

interforze.

Ciò detto, è peraltro vero che, anche ove tali problemi fossero risolti con i necessari

atti normativi (ben al di là del dettato della legge 137/2002), la problematica

principale rimarrebbe quella delle risorse per la sicurezza, il cui significato trascende

l’aspetto puramente operativo per porsi a livello politico, quale scelta di fondo del

livello di apporto del paese alla sicurezza nazionale ed internazionale. In tutto il

dopoguerra la spesa militare italiana è stata caratterizzata da un basso volume (la

percentuale del Pil è stata sempre vicina al livello minimo in ambito Nato) e, al suo

interno, da una quota minima destinata agli investimenti. Questa sottocapitalizzazione

Page 14: rapporto2002

13

dello strumento militare è ormai diventata endemica e ha comportato, fra il resto,

queste conseguenze:

1. sono rimasti in servizio equipaggiamenti più vecchi rispetto ai nostri partners con

pesanti implicazioni sulle capacità operative in termini di prestazioni e

interoperabilità con gli alleati e, ancor più, di costi e tempi di manutenzione; a

livello di capacità tecnologiche e produttive questo ha comportato, in alcuni casi,

significative fratture nella crescita, col salto di una generazione e la necessità di

acquisizione dall’estero delle relative tecnologie o degli stessi equipaggiamenti;

2. sono rimaste irrisolte alcune carenze strutturali e, dovendo dare la priorità alle

carenze più vistose, si è finito inevitabilmente col privilegiare le piattaforme

(aerei, navi, carri) in quanto tali, anziché costruire uno strumento equilibrato più

piccolo, ma in grado di operare efficacemente;

3. si è via via irrigidito il bilancio della Difesa, vincolando una quota crescente delle

limitate risorse disponibili ai programmi pluriennali in corso, precludendo la

possibilità di partecipare a nuove iniziative;

4. si è mantenuto un legame inscindibile fra programmi di sviluppo e programmi di

acquisizione e si è così tolta ulteriore flessibilità ad ogni possibile intervento di

riallocazione delle risorse; in ogni caso si è inevitabilmente privilegiata l’attività

di acquisizione rispetto a quella di ricerca e sviluppo.

Vi è stato, quindi, un accumularsi di esigenze insoddisfatte che si manifestano

pesantemente anche sul piano operativo.

A fronte di ciò, la promessa di maggiori stanziamenti a partire dall’anno seguente,

regolarmente riproposta in sede di ogni nuovo bilancio, ha ingenerato una diffusa

incertezza e una conseguente deresponsabilizzazione. Si è così consolidata una prassi

che porta ad assumere impegni sulla base di ipotesi che sono poi continuamente

disattese. Sono evidenti le conseguenze negative di un simile atteggiamento che

rischia di togliere certezze e credibilità ad ogni discussione sulle effettive esigenze

finanziarie della Difesa.

Nell’ultimo decennio è, inoltre, cresciuto il numero dei programmi internazionali

cui l’Italia ha aderito (probabilmente in Europa il nostro paese è quello che, fra i

paesi maggiori, ha più internazionalizzato i programmi di acquisizione) e ogni

difficoltà nel sostenerne l’onere finanziario rischia di riflettersi sui rapporti con i

nostri partners e sull’immagine dell’Italia come partner affidabile.

Page 15: rapporto2002

14

Questi problemi si sono regolarmente posti anche quest’anno. La speranza accesa

nello scorso luglio, quando nel DPEF (Documento di programmazione economica

e finanziaria per il quadriennio 2003-06) veniva indicata la necessità di arrivare

all’1,5% del PIL (il che comporterebbe un aumento del 50% delle nostre spese

per la difesa), si è per il momento spenta. Il blocco della spesa statale per il

corrente anno, deciso a settembre, sta facendo saltare alcuni importanti

programmi militari pronti per la firma, mentre la manovra di bilancio per il

2003 prevede di far scendere la nostra spesa per la difesa a qualche decimo sopra

l’1% del PIL. Potremmo così conquistare la maglia nera fra tutti i paesi

industrializzati, in totale controtendenza con gli alleati europei, per non parlare

di quello americano. Se si verificasse l’ipotesi di tagliare 4-500 milioni dagli

investimenti, si sacrificherebbe ulteriormente la disponibilità di equipaggiamenti

adeguati alle nuove sfide, si vanificherebbe la speranza di poter contare verso la fine

di questo decennio su uno strumento militare moderno ed efficiente e si

comprometterebbe la nostra partecipazione ad importanti programmi di

collaborazione internazionale, con danni incalcolabili per la nostra credibilità e per le

nostre capacità tecnologiche ed industriali.

Anche sul piano pratico dovranno essere riviste molte politiche, fra cui spiccano

quelle relative al personale, all’addestramento e alle capacità tecnologiche di nicchia,

con particolare riferimento al settore C4ISR.

La transizione in corso da un modello basato sulla coscrizione ad uno basato su forze

volontarie richiede una nuova metodologia di indirizzo delle dinamiche relative al

reclutamento, all’addestramento e all’impiego del personale militare e civile. Si

devono disegnare i necessari incentivi atti a garantire il giusto equilibrio di lungo

periodo fra l’esigenza di attrarre personale qualificato e la garanzia di una corretta

possibilità di impiego dello stesso. In quest’ottica, la proposta governativa di far

svolgere un periodo di servizio volontario nelle Forze Armate come prerequisito

anche per accedere ai Corpi Armati dello Stato sembra andare nella giusta

direzione. L’organico andrebbe, inoltre, rivisto sia in termini qualitativi sia

quantitativi, adottando un approccio non tradizionale “manning the arms” anziché

“arming the men”.

Inoltre, affinché lo strumento sia realmente composto da professionisti, si deve agire

anche sul fronte dell’addestramento. Il più sistematico impiego delle Forze Armate a

livello operativo, soprattutto in operazioni a maggiore livello di rischio, deve andare

Page 16: rapporto2002

15

in parallelo con un addestramento più intenso e sistematico. Come per i sistemi

d’arma la flessibilità e la proiettabilità divengono caratteristiche irrinunciabili, così

deve essere per le risorse umane; queste caratteristiche sono perseguibili solo a

condizione di rivedere qualitativamente e quantitativamente gli attuali sistemi di

addestramento.

Ovviamente tutto ciò si traduce in una maggiore spesa, necessaria per riqualificare i

sistemi di addestramento e garantire cicli di training più frequenti ed intensi

(compensando anche la maggiore usura degli assets connessi).

Fra le capacità di nicchia e ad alta intensità tecnologica da sviluppare, particolare

attenzione dovrebbe essere rivolta al C4ISR. Le realtà operative dell’ultimo decennio,

l’esigenza di contribuire a livello internazionale alla sicurezza collettiva e le

prevedibili necessità di impiego future mostrano quotidianamente l’esigenza di dotarsi

di strumenti tecnologici atti a comprendere le situazioni di pericolo e a sviluppare una

capacità di moltiplicazione delle forze disponibili, particolarmente utile nella gestione

di conflitti asimmetrici, così come di quelli su larga scala. Le carenze nazionali ed

europee in questa area rimangono gravi, nonostante alcuni recenti sviluppi in questo

senso. Si dovrebbero studiare le modalità per predisporre i necessari correttivi,

considerando che con ogni probabilità la soluzione del problema dovrà essere trovata

a livello europeo.

Opzioni

Si è, quindi, in presenza di una situazione difficile e confusa che sembra richiedere un

riesame complessivo, da un lato definendo le scelte strategiche di fondo della politica

estera e di difesa del Paese, dall’altro ridando concreto vigore all’impulso di

integrazione in senso realmente interforze, sotto la direzione del vertice tecnico-

operativo della difesa, non condizionato da visioni di parte.

Al decisore politico si presentano sostanzialmente due opzioni, entrambe plausibili,

ma che richiedono una scelta tra due strade nettamente distinte:

1) Stare al passo con i nostri maggiori partners.

2) Ridimensionare il nostro ruolo politico-militare.

• Stare al passo con i nostri maggiori partners

Page 17: rapporto2002

16

Secondo la posizione ufficiale sinora sostenuta a livello governativo, la politica estera

e di difesa dell’Italia dovrebbe avere fra i suoi obiettivi il raggiungimento di una

posizione di sostanziale parità di ruolo e rango rispetto ai principali paesi europei

(Regno Unito, Francia e Germania).

La cronica carenza di fondi stanziati per la Difesa, ed in particolare per

l’investimento, minano però la credibilità di queste dichiarazioni d’intenti.

Per soddisfare questo requisito, la pianificazione richiede lo sviluppo di uno

strumento militare equilibrato, capace di “fare un po' di tutto”.

E’ evidente che il principale limite di questa posizione risiede nella difficoltà di

sostenere il peso che essa ha in termini di risorse economiche, politiche e sociali.

Decenni di costante disattenzione per le tematiche della difesa hanno accumulato un

differenziale di capitalizzazione rispetto ai paesi guida dell’Europa della Difesa (per

non parlare dell’alleato americano), situazione che pesa negativamente sulla reale

capacità operativa presente e futura delle nostre Forze Armate.

Per raggiungere questi obiettivi (ambiziosi, seppur commisurati al peso economico e

sociale della sesta potenza economica) bisognerebbe procedere ad una “revisione

strategica” degli obiettivi che il Paese si vuole dare, elaborando un piano di aumento

degli investimenti che tenga conto delle necessarie compatibilità finanziarie, ma,

soprattutto, che definisca un quadro di priorità in grado di perseguire i nostri interessi

nazionali.

Il problema principale legato a questa policy riguarda l’impatto sulla spesa per la

Difesa.

I fondi attualmente attribuiti risultano insufficienti e disattesi gli impegni politici per

incrementare le dotazioni ancorandole a valori prossimi all’1,5% del Pil (di cui un

terzo circa dedicato al procurement). All’interno di questa previsione la Difesa sta

sostenendo, da ormai alcuni anni, che gli investimenti dovrebbero arrivare

rapidamente a circa 4,5 miliardi di Euro annui (secondo l’ultima Nota Aggiuntiva) per

recuperare un adeguato livello di efficienza, ma questo obiettivo, sganciato da un

preciso piano finanziario, resta solo un auspicio.

Per contro, le responsabilità assunte dalle Forze Armate nel contesto internazionale

restano rilevanti: nell’attesa di nuovi fondi è, quindi, indispensabile ristrutturare

internamente la spesa per la difesa, partendo dalla ridefinizione del tipo di strumento

Page 18: rapporto2002

17

in funzione delle nuove minacce e tenendo conto anche dei maggiori costi dovuti alla

transizione al nuovo modello di difesa. In quest’ottica bisogna definire le aree di

intervento prioritario ed accelerare lo sviluppo di quei programmi già in corso di cui si

riconosce l’immediata valenza operativa nel nuovo contesto internazionale.

Una revisione critica del processo e delle scelte di procurement, alla luce di un

effettivo approccio interforze e delle nuove esigenze operative, dovrebbe giungere a

definire le priorità fra i diversi programmi, procedendo di conseguenza all’incremento

delle velocità di sviluppo di quelli ritenuti critici.

Questo processo dovrebbe essere reso più facile grazie ad opportuni accorgimenti di

carattere finanziario, anche ad hoc, nonché all’adozione di strumenti innovativi di

carattere organizzativo e di finanziamento del procurement.

Se si riuscisse a porre una maggiore attenzione per le tematiche della difesa (ci si

sentisse quindi, “in guerra”), un particolare rilievo potrebbe assumere soprattutto il

settore delle difese antiaeree ed antimissile.

I recenti avvenimenti internazionali hanno mostrato la necessità di dotarsi di uno

strumento di difesa aerea sempre più efficiente.

In questo contesto devono essere esaminate anche le implicazioni del Programma di

Difesa Missilistica lanciato dagli Stati Uniti sia sul piano tecnologico, sia su quello

finanziario. Lo sforzo americano nella parte C4ISR imprimerà un forte salto

tecnologico nell’elettronica e, direttamente o indirettamente, in tutto il settore

militare. Per gli alleati europei questo comporterà il rischio di vedere allargato il gap a

livello tecnologico e operativo. Se, invece, non ci si limiterà ad una semplice adesione

politica e ci si sforzerà di arrivare ad un’effettiva partecipazione, dovrà essere risolto

il problema di reperire adeguati finanziamenti. Nel caso italiano se non si potrà

incrementare immediatamente la spesa militare, non sembrano esservi margini per

finanziare la nostra partecipazione se non a discapito di altri programmi già previsti, a

meno di non considerare la nostra partecipazione sul piano dell’innovazione

tecnologica e, quindi, assegnarle una priorità rispetto al finanziamento di altri settori

civili.

Al di là delle questioni relative all’adeguamento della spesa per la difesa agli obiettivi

di politica estera dichiarati, permane comunque l’esigenza di mettere mano ad

un’incisiva riforma dello strumento militare nel suo complesso, sulla scorta di una

rapida ed incisiva applicazione dei principi guida già delineati dalle leggi di riforma

dei vertici e della professionalizzazione.

Page 19: rapporto2002

18

Gli ambiti di azione riguardano praticamente tutti i settori, da quello operativo

(reclutamento ed addestramento del personale, miglioramento della logistica, …), a

quello burocratico-amministrativo (informatizzazione, riqualifica degli impiegati

civili), alle strutture che garantiscono l’interoperabilità a livello joint e combined con i

principali alleati (apparati C4ISR, applicazione del concetto di network-centric

warfare, …). L’appartenenza ad alleanze stabili e consolidate, dotate di una forte

capacità operativa dovrebbe consentire un migliore utilizzo delle risorse, evitando le

duplicazioni a livello internazionale e creando un ambiente favorevole alla

pianificazione di lungo periodo.

Dal punto di vista politico, ad un incremento dei costi associati alla difesa

corrisponderebbe una migliore interoperabilità a livello europeo e con gli Stati Uniti e

una più ampia capacità di influenza e libertà di azione, oltre che una maggiore

assunzione di responsabilità quanto meno a livello regionale (o comunque a guida

italiana).

• Ridimensionare il nostro ruolo politico-militare

L’adozione di questa policy risulterebbe come conseguenza del riconoscimento che i

paesi che si stanno maggiormente impegnando nel campo della difesa, Regno Unito e

Francia, sono troppo distanti per essere raggiunti.

Si tratterebbe in definitiva della rinuncia a far parte dell’attuale direttorio di fatto a

due-tre paesi in ambito difesa (il ruolo tedesco in merito non è ancora chiaro, date le

difficoltà economiche e politiche recentemente incontrate dalla Germania).

Questa visione nasce dalla consapevolezza dei limiti del Paese, di natura economica e

politica, e dell’orientamento dell’opinione pubblica, esasperato dalla logica di breve

periodo che caratterizza i nostri decisori politici.

Certamente questa decisione porterebbe a ridurre notevolmente il ventaglio di

operazioni effettuabili, quantomeno rispetto alla prima opzione prospettata.

Una scelta di questo tipo richiede un radicale cambiamento della pianificazione per

sfruttare al meglio le risorse disponibili, nell’ottica di strutturare uno strumento

militare basato su una totale “integrabilità” con quello dei principali alleati e,

soprattutto, con quello americano.

Page 20: rapporto2002

19

In quest’ottica sarebbe necessario stabilire forti priorità in ambito interforze e di

spingere agli estremi il concetto di interoperabilità, jointness e specializzazione

con le forze alleate.

Andrebbe, quindi, privilegiata l’acquisizione di quegli assets che siano

intrinsecamente dotati di una maggiore flessibilità operativa e capacità di proiezione

in scenari di impiego congiunti con forze internazionali. Si dovrebbe valorizzare al

massimo ciò che si ha già e concentrare gli ulteriori investimenti in capacità molto

specifiche e possibilmente ad alta tecnologia, fornendo alle forze nazionali degli

assets pur numericamente ridotti ma potenzialmente decisivi (cosiddette “silver

bullets”). Fra i settori di intervento prioritario potrebbero esserci lo sviluppo

delle aree in cui vi sono anche carenze a livello internazionale, quali le forze

speciali e le unità specialistiche dotate di armamenti leggeri, gli assets per il

contrasto delle armi nucleari, batteriologiche e chimiche (NBC), i sistemi di

comunicazione tattica e strategica (impiegando il Sicral in ottica multinazionale),

i sistemi di soppressione delle difesa aeree nemiche (upgrade dei Tornado allo

standard Ecr, riducendone il numero), il trasporto aereo tattico a medio raggio e

quello elicotteristico, il Combat Search and Rescue, il gruppo navale

“Garibaldi”, le unità cacciamine.

Si tratta di sviluppare le aree di eccellenza, in simmetria con quanto sta già avvenendo

in campo industriale, in cui il Paese ha già delle competenze specifiche o può

raggiungerle in tempi ragionevoli. Per poter passare dall’attuale modello ancora

troppo “labour intensive” ad uno basato su un elevato rapporto capitale/uomo, è

essenziale investire in selezionate tecnologie di fascia alta.

E’ implicita in tutto questo discorso la rinuncia a condurre operazioni autonome,

anche di entità ridotta, e a guidare operazioni multinazionali, se non in casi

eccezionalmente favorevoli per gli assets disponibili.

Inoltre, andrebbe prevista una drastica riduzione del personale rispetto agli obiettivi

dell’attuale modello di difesa, basato su 190.000 uomini, in favore di forze

numericamente ridotte ma ad altissima prontezza operativa. Allo stesso tempo, dato il

contesto geopolitico di riferimento, sarebbe utile conservare forze militari e di polizia

del tipo MSU per operazioni di fascia bassa, da affiancare alle forze ad alta prontezza

per gli scenari ad alta intensità.

Page 21: rapporto2002

20

La riduzione dovrebbe, inoltre, coinvolgere drasticamente anche i gradi medio-

superiori, snellendo la piramide che sembra formarsi nel processo di transizione in

corso.

Alla valutazione dell’impatto in termini di pianificazione ed operatività di questa

nuova impostazione, deve corrispondere anche una valutazione sulle sue conseguenze

in termini politici.

In primo luogo questa soluzione comporterebbe una diminuzione dello spazio di

manovra della politica estera italiana. Inoltre, l’attuale incertezza circa le prospettive

del quadro delle alleanze non rende facile la programmazione, proprio quando diviene

più necessario sviluppare contesti istituzionali e alleanze il più possibile stabili per

potersi specializzare senza correre i rischi della marginalizzazione.

♦ Oggettivamente l’Italia si troverebbe in una situazione di minore autonomia e

potrebbe ricoprire solo un ruolo più limitato nella gestione delle crisi internazionali.

D’altra parte anche una situazione che perpetui l’esistente (tendenzialmente

condannando il nostro Paese a dover evidenziare l’impossibilità di continuare a

sostenere un impegno internazionale al di sopra delle sue capacità militari) avrebbe

esattamente gli stessi effetti di marginalizzazione, ad un costo più elevato.

Quel che è certo è che una decisione, comunque, va presa e anche in tempi rapidi.