rapporto2002
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colloqui di VeneziaPalazzo Labia 22-23 novembre 2002
seconda edizione
Alleanza con gli Stati UnitiRapporto annuale
Comitato Difesa Duemila
Ci sentiamoin guerra?
CCCOOOMMMIIITTTAAATTTOOO DDDIIIFFFEEESSSAAA DDDUUUEEEMMMIIILLLAAA
CI SENTIAMO IN GUERRA?
Il testo è stato redatto dal Comitato Difesa Duemila:
Prof. Michele Nones (coordinatore), On. Ferdinando Adornato, Gen. Mario Arpino,
Gen. Vincenzo Camporini, Dott. Massimo De Angelis, Gen. Carlo Finizio, Dott.
Renzo Foa, Gen. Carlo Jean, On. Luigi Ramponi, Prof. Stefano Silvestri, Amm.
Guido Venturoni; Segretario del Comitato è il Dott. Giovanni Gasparini.
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Introduzione
Il nuovo scenario internazionale di questi primi anni duemila sta evidenziando
l’inadeguatezza delle attuali politiche di sicurezza occidentali e le difficoltà delle
strutture nazionali ed internazionali preposte alla difesa.
Nell’ultimo decennio si è resa evidente un’incapacità nel comprendere le nuove
minacce e la loro rapida evoluzione nel tempo, principalmente per due ragioni: la
prima legata al presupposto che ad una bassa minaccia tecnologica corrispondesse un
basso rischio, la seconda perché tale minaccia aveva assunto nelle sue manifestazioni
operative aspetti e respiro limitati, mantenuti entro i confini di dispute etniche,
religiose, tribali, nazionalistiche, riferite a conflittualità regionali di ben circoscritta
ampiezza ed interesse, senza assumere quel carattere di globalità che ha assunto,
invece, dopo l’11 settembre. Tutto questo in un quadro caratterizzato da una
razionalità condivisa fra le parti avverse, tale da consentire un equilibrio strategico in
cui la deterrenza, nei suoi diversi livelli, funzionava almeno a difesa del teatro
principale, quello euro-atlantico. Le stesse strutture organizzative e burocratiche
difensive (essenzialmente territoriali) ereditate in seguito al crollo dell’Unione
Sovietica sono state colte impreparate dall’attacco terroristico dell’11 settembre, nel
mezzo di una lenta e difficile trasformazione che poneva l’accento non più sulla
minaccia al territorio nazionale ma sulla proiezione di forza tesa a creare stabilità nel
mondo.
Sinora le politiche di difesa occidentali si sono concentrate sulla “fascia alta” della
minaccia, alla quale si sono accompagnate iniziative rivolte a rispondere alla
crescente esigenza di missioni internazionali di pace ed umanitarie, nelle loro varie
forme (peace keeping, peace enforcing, peace making, …). I fatti recenti mostrano
che, mentre rimangono da fronteggiare rischi e minacce alla stabilità mondiale che
richiedono l’approntamento di strumenti militari “tradizionali” (anche se non più
strettamente “territoriali”), il processo di diversificazione della minaccia in corso
ormai da un decennio ha portato alla luce la pericolosità di fenomeni sinora ritenuti di
“fascia bassa”, la cui portata si pone ora a livello strategico.
La differenziazione e multidirezionalità delle minacce porta necessariamente alla
diversificazione delle risposte. Si deve partire dalla considerazione che una minaccia
globale come quella del terrorismo internazionale richiede una risposta globale, sia a
livello internazionale, sia a livello dei singoli stati e, quindi, multidisciplinare, poiché
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coinvolge gli apparati di politica estera, difesa, polizia, giustizia, finanza. A questa
considerazione si deve aggiungere la necessità di rivedere l’organizzazione degli
strumenti di sicurezza, il loro coordinamento, le loro necessità anche e soprattutto in
termini di capacità di spesa, efficacia ed efficienza.
Nonostante i numerosi elementi di preoccupazione che hanno continuato a
caratterizzare lo scenario internazionale negli ultimi anni ed il forte impegno delle
nostre Forze Armate nelle operazioni per il mantenimento ed il ristabilimento della
pace, si continua a registrare nel nostro paese una preoccupante discontinuità e
disattenzione verso questi problemi da parte di settori importanti dell’opinione
pubblica, del mondo dell’informazione e del mondo politico. La natura di tali
problemi e le stesse possibilità di soluzione richiedono, invece, continuità e massima
attenzione.
Sullo sfondo resta una domanda alla quale, per ora, né in Italia, né in Europa è
possibile dare una precisa risposta e che rischia, invece, di aprire una frattura nella
collaborazione transatlantica: fino a che punto ci sentiamo realmente in guerra
contro il terrorismo e contro quanti, direttamente o indirettamente, lo
sostengono?
Con questo documento che costituisce il suo primo intervento pubblico il Comitato
“Difesa Duemila” si propone di contribuire ad un approfondimento del dibattito su
questi temi in un’ottica europea e transatlantica. La nostra iniziativa, si propone di
elaborare ogni anno un policy-paper da sottoporre alle classi dirigenti del paese allo
scopo di creare un’occasione regolare di confronto, per evidenziare quelle che
riteniamo le principali priorità delle politiche di difesa e di sicurezza.
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1. Un nuovo rapporto transatlantico
Gli atti terroristici perpetrati negli Stati Uniti l’11 settembre dello scorso anno e a Balì
e a Mosca nell’ottobre di quest’anno, hanno evidenziato l’inadeguatezza delle attuali
politiche di sicurezza occidentali e le difficoltà delle strutture nazionali ed
internazionali preposte alla difesa.
Il processo di diversificazione della minaccia in corso ormai da un decennio ha
portato alla luce la pericolosità di fenomeni sinora ritenuti di “fascia bassa”, la cui
portata si pone ora a livello strategico.
La differenziazione e multidirezionalità delle minacce porta necessariamente alla
diversificazione delle risposte che devono anch’esse muoversi a livello strategico. Si
deve partire dalla considerazione che una minaccia globale come quella del
terrorismo internazionale richiede una risposta globale, sia a livello
internazionale (come mostrato dall’ampiezza della coalizione anti talebana unita
sotto la guida degli Stati Uniti) sia a livello dei singoli stati (e quindi
multidisciplinare, poiché coinvolge gli apparati di politica estera, difesa, polizia,
giustizia, finanza, ecc…).
A questa considerazione si deve aggiungere la necessità di rivedere l’organizzazione
degli strumenti di sicurezza, il loro coordinamento, le loro necessità anche e
soprattutto in termini di capacità di spesa, efficacia ed efficienza.
Si devono minimizzare le diseconomie e le duplicazioni giungendo ad un elevato
grado di collaborazione ed integrazione fra i paesi alleati ed in particolare a livello
europeo.
Un discorso analogo può essere fatto per quanto riguarda i sistemi; le diverse esigenze
della forze di sicurezza nazionali (difesa “classica”, difesa da armi di distruzione di
massa, proiezione di forza, contrasto all’azione terroristica, …) necessitano di una
molteplicità di sistemi in quantitativi anche ridotti. Il costo per l’approntamento di una
difesa globale costituita dal coordinamento di più “strati” appare sempre più
proibitivo per i singoli stati nazionali. Questo “sistema di sistemi” risulterebbe,
inoltre, sovradimensionato rispetto alle esigenze del singolo attore internazionale e
difficilmente sostenibile nel tempo (oltre che assai oneroso da organizzare e
costituire).
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Nel corso dell’ultimo decennio e con l’inizio della lotta contro il terrorismo
internazionale si è andato confermando il trend di cambiamento dell’impostazione
strategica generale da un concetto di difesa militare in senso stretto e geograficamente
determinato ad un ben più ampio concetto di sicurezza, non necessariamente vincolato
da limiti geografici.
Il nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica risponde a queste esigenze, ma il
processo di cambiamento innescato dovrà essere proseguito e potenziato.
Il fattore chiave che caratterizza lo scenario internazionale e il nuovo rapporto
transatlantico è dato dalla differenza nella percezione della minaccia da parte
delle due sponde dell’Atlantico, e più in generale fra gli Stati Uniti, potenza
egemone ferita, da una parte, e il resto della comunità internazionale dall’altra
(anche se il recente attentato a Bali ha indicato un allargamento della minaccia
terroristica a livello internazionale, mentre l’attentato di Mosca è percepito,
nonostante tutto, come un problema interno alla Russia, legato esclusivamente
all’intervento in Cecenia).
Si viene strutturando una divisione di fatto del lavoro in termini militari, così come si
è già proposta anche in Afghanistan: gli Usa conducono la “guerra guerreggiata”
(warfighting) e lasciano agli europei il compito di pacificare e agire in seguito
all’intervento.
La guerra in Afghanistan, infatti, è stata diretta da Washington senza ricorrere ad altre
strutture intermedie, pur essendovi una partecipazione dei paesi europei (su base
bilaterale) significativa.
La differenza nella percezione della minaccia ha delle profonde ricadute
sull’impostazione dello strumento di difesa e sugli stanziamenti per la sicurezza. Nel
settembre 2001 i governi americano ed europei dichiaravano che doveva essere
rafforzata la sicurezza e la difesa dei loro paesi e di quelli alleati e che sarebbero stati
perseguiti non solo i terroristi, ma anche i regimi che li proteggono. “Niente sarà più
come prima” si sosteneva sulle due sponde dell’Atlantico.
♦ Un anno dopo Stati Uniti ed Europa presentano uno scenario molto diverso.
Gli Stati Uniti non scherzano e per loro “niente è più come prima”. La spesa militare è
salita quest’anno di 45 miliardi di dollari (quasi tre volte l’intero bilancio della difesa
italiana), passando dal 3,1% al 3,3% del PIL e salirà a 450 in un quinquennio. Si
potranno così finanziare nuovi investimenti nel campo della ricerca e
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dell’approvvigionamento che dovranno consentire alle forze armate americane di
affrontare meglio equipaggiate, organizzate ed addestrate i nuovi difficili compiti che
le attendono.
Gli europei, invece, dichiarano di condividere la necessità di combattere il
terrorismo, ma non sembrano per nulla sentirsi in guerra. Solo il Regno Unito ha
deciso di aumentare la sua già considerevole spesa per la difesa in modo da garantirle
il 2,4% del PIL. Si potranno così assicurare la partecipazione ai programmi JSF ed
ETAP, avviare la costruzione di nuove portaerei, rinnovare le telecomunicazioni,
rafforzando l’efficienza delle forze armate e la loro integrabilità con quelle americane.
Recentemente anche la Francia si è allineata preannunciando un analogo investimento
nel prossimo quinquennio, con l’obiettivo di passare dall’1,8% al 2,3% del PIL.
Ferme al palo restano, invece, la Germania e l’Italia e gli altri paesi con minore peso
militare. Nel complesso la spesa europea resta così attestata sui livelli del dopo
“guerra fredda” e non accenna a riprendersi. Nella sostanza per l’Europa “tutto
è rimasto come prima”.
Vi è inoltre una disparità circa la qualità del procurement: gli europei stanno portando
avanti scelte di spesa conservatrici che ben identificano lo stato di una regione che
non si sente in guerra; a questo si aggiunge il peso dei programmi preesistenti agli
avvenimenti del 11 settembre.
Una spinta all’innovazione dei sistemi viene dagli Usa; ne è un esempio l’enfasi posta
sullo sviluppo del sistema di difesa missilistica, la cui realizzazione è incompatibile
con le attuali ristrettezze finanziarie europee, ma il cui ombrello potrebbe essere
esteso agli alleati in cambio di apporti di natura non economica (basi, consenso,
supporto politico, appoggio militare di diversa entità).
La divaricazione crescente fra le scelte degli Stati Uniti e quelle degli Alleati europei
pone dei pressanti (e pesanti) problemi che vanno dal ruolo politico alle difficoltà in
termini di integrazione ed interoperabilità, agli investimenti per le nuove tecnologie,
alle nuove modalità organizzative.
In un certo senso, la divaricazione in termini operativi è legata allo scontro in atto sui
valori fondativi dell’Occidente, cui gli attentati terroristici hanno dato una profonda
scossa. Dopo decenni di “navigazione a vista”, occorre ridefinire cosa sia
l’“Occidente”, e in base a questo disegnare il nuovo quadro strategico generale e
di sicurezza. Mentre appare certamente incongrua e artificioso la teoria, pur
attualmente assai frequentata che vuole che gli “occidenti” in realtà siano due.
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E’ necessario dunque impostare un nuovo dialogo fra le due sponde dell’Atlantico,
basato su una certa comunanza di valori e di interessi, ma anche sul riequilibrio di un
rapporto sfavorevole per l’Europa, grazie ad un maggior impegno europeo nella “hard
security” e ad un’accresciuta disponibilità americana a riconoscere il valore della
“soft security” e ad impegnarsi in tal senso.
È singolare che anche quei settori che spingono per accrescere il potenziale di
difesa “autonoma” dell’Europa finiscano poi per sottolineare come tale obiettivo
sia mirato a non “dipendere” più dagli Stati Uniti per poterne magari “frenare”
l’azione e non già, viceversa, per impegnarsi in modo più autonomo e incisivo
nella lotta contro il terrorismo, assumendo per esempio maggiori responsabilità
nell’area mediterranea, geopoliticamente cruciale e per diverse ragioni più
“vicina” agli europei.
In definitiva: un rapporto di mutua complementarietà in un contesto di reciproca
autonomia sembra la soluzione più probabile e desiderabile per fondare una relazione
transatlantica tanto proficua quanto quella che ha caratterizzato la seconda metà del
ventesimo secolo.
Diverrebbe, però, sempre più problematico stabilire un rapporto di complementarietà
bilanciata qualora si dovesse allargare il solco che divide la potenza “egemone”
rispetto alle politiche meno propense all’uso della forza degli alleati “deboli”.
Da questo punto di vista appare prioritario un ripensamento dei principi guida e
delle strategie di prevenzione militare e politica fin qui seguiti dall’epoca della
guerra fredda: ripensamento necessario in conseguenza delle nuove esigenze
create dalla guerra asimmetrica lanciata contro il mondo occidentale l’11
settembre.
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2. Il ruolo dell’Europa
La nuova realtà delle relazioni internazionali pone i paesi europei di fronte alla scelta
fra continuare a perseguire politiche di sicurezza essenzialmente nazionali o
sviluppare ulteriormente la dimensione europea già presente nelle loro scelte
strategiche.
I diversi paesi occidentali si trovano a dover fronteggiare minacce sostanzialmente
comuni e ad organizzare risposte assai poco differenziate: è, quindi, evidente quanto
ampio sia lo spazio per una collaborazione di lungo termine sul piano politico-
militare.
♦ Gli strumenti difensivi nazionali si presentano sempre più in affanno di fronte
alle crescenti esigenze. A loro viene ora richiesto di sviluppare un’ulteriore capacità,
quella di rispondere ad una sfida che si manifesta anche all’interno del paese e non
solo dall’esterno.
Le risposte su base nazionale appaiono, nello stesso tempo, sempre più
insostenibili ed inadeguate, incapaci di far fronte ai cambiamenti epocali
dell’ultimo decennio e dell’ultimo anno.
I governi europei dovrebbero cogliere l’occasione per riconoscere la crescente
esigenza di una maggiore integrazione delle loro politiche di sicurezza e difesa: nuove
e più strette collaborazioni non sono solo auspicabili, sono necessarie. Questo sforzo
in ambito europeo non può che essere mutuamente complementare ad un’analoga
politico euro-atlantica di consolidamento di un’Alleanza diversa da quella del passato,
ma non per questo inutile. Si deve riconoscere come le sfide future siano sempre più
comuni e, quindi, amplifichino il valore di una risposta comune. In quest’ottica
sarebbe certamente auspicabile un rapporto più equilibrato rispetto a quello
sperimentato negli ultimi decenni ed è anche per questo che i paesi europei
dovrebbero cercare di elaborare una politica comune di solidarietà euro-atlantica.
La soluzione ai problemi esposti non può limitarsi all’incremento della spesa per la
sicurezza e allo stanziamento di nuovi fondi, che appaiono comunque necessari, ma
deve porre l’accento sulle modalità e sulla qualità della spesa e sulla sua integrazione
internazionale. Il cambiamento deve procedere uniformemente su due binari:
l’incremento dei budget e la riqualificazione della spesa.
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Per l’Europa il rischio è di sviluppare solo una capacità di intervento di peacekeeping
a bassa intensità. Una soluzione di questo tipo è pericolosa e negativa non solo per gli
europei, ma anche per la sicurezza collettiva atlantica in generale.
♦ I paesi europei hanno, infatti, molteplici capacità da offrire all’alleato americano
nei diversi ambiti: politico, economico, industriale e militare. Talune specificità delle
forze armate europee (fra cui l’attitudine a operazioni di polizia internazionale a
livello militare) e le capacità diplomatiche costituiscono un apporto non irrilevante
alla sicurezza internazionale che possono utilmente integrare le capacità di intervento
americane.
Rimane, comunque, irrisolto (e difficilmente risolvibile, almeno nel breve periodo) il
problema del divario fra le percezioni dell’opinione pubblica e delle leadership
europee e di quelle americane.
Sicuramente da parte europea si deve procedere ad un processo di
responsabilizzazione dei decision makers e delle opinioni pubbliche nei confronti del
problema della sicurezza, senza per questo rinunciare al tradizionale approccio
multisettoriale (sul quale si basa, peraltro, l’originalità e l’efficacia delle politiche
europee). Per le Istituzioni europee è giunto il momento di cogliere l’occasione per un
avanzamento del loro ruolo sulla scena internazionale: si avverte l’esigenza di passare
dalla fase di costruzione delle istituzioni, costellata da dichiarazioni di principio
spesso disattese dagli Stati membri, alla fase di attuazione delle politiche reali (il che
implica anche l’impiego delle necessarie risorse).
L’Europa può aiutare non poco gli Stati nazionali a passare dal concetto di
difesa a quello di sicurezza. Si deve sviluppare una capacità comune che si
estenda nelle tre dimensioni dell’intelligence (condivisione di informazioni), della
homeland security (in ottemperanza al principio di solidarietà europea) e della
capacità militare (prevenzione e dissuasione dell’avversario tramite la capacità
di proiettare la forza).
Tra le proposte operative, forse premature per alcuni Stati, ma certamente
coerenti con questa nuova impostazione, si devono annoverare la creazione di
uno strumento europeo per l’impiego delle forze speciali e per la raccolta,
condivisione ed analisi delle informazioni.
Per quanto concerne la capacità di gestione delle operazioni, si deve poter fare
riferimento, almeno inizialmente, agli assets già disponibili a livello Nato.
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Nell’ultimo periodo la Pesd non ha compiuto progressi sufficienti a garantirle un
ruolo di primo piano nella gestione dei nuovi rischi strategici. Queste carenze non
possono essere ricondotte soltanto al mancato accordo fra Nato e Ue in merito
(applicazione del cosiddetto Berlin plus), ma più in generale alla permanenza di
politiche nazionali che non valorizzano il ruolo dell’Europa nell’ambito delle alleanze
occidentali.
Sicuramente se l’esito della Convenzione Europea dovesse rafforzare sul piano
istituzionale la Pesc e la Pesd, inserendo anche una clausola esplicita di solidarietà fra
i paesi membri e stabilendo un’effettiva catena di comando, il compito sarà più facile,
ma, nel frattempo, alcuni problemi richiedono concrete soluzioni: basti pensare alla
necessità di coprire il disimpegno americano nei Balcani o alla richiesta di un
maggiore intervento in Afghanistan.
Non si deve dimenticare, infine, che gli interessi nazionali saranno tanto più protetti
quanto maggiore sarà il peso decisionale del contesto europeo di cui fanno parte e di
cui contribuiscono a definire le politiche.
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3. Il problema italiano
Se il problema di fondo della differenziazione fra Europa e Stati Uniti risiede nella
diversa percezione della minaccia, l’Italia non fa eccezione.
La partecipazione del paese alla lotta al terrorismo internazionale e alle nuove
minacce non si sviluppa principalmente sul piano militare, come dimostrano
chiaramente l’invarianza degli stanziamenti per la difesa e, anzi, caso unico in
Occidente, la loro recente riduzione. Nella stessa ottica vanno interpretate le
difficoltà incontrate nel processo di riforma dell’apparato militare. L’Italia rimane,
inoltre, uno dei paesi più riluttanti ad accettare l’effettivo impiego della forza militare.
Manca anche un certo livello di chiarezza circa gli obiettivi da perseguire, in altre
parole sull’identificazione dell’interesse nazionale e su quali siano le modalità e i
mezzi con cui tutelarlo.
Di fronte alle evoluzioni dei due principali assi portanti della sicurezza italiana,
rappresentati dalla dimensione atlantica e da quella europea, ci si deve chiedere se, al
termine del processo di riforma dello strumento militare e dell’apparato di sicurezza
(inclusi quindi i Carabinieri, i Servizi di sicurezza, la Guardia di Finanza e le forze di
Polizia), ci si troverà davanti ad uno strumento utile e ben dimensionato rispetto alle
sfide future e coerente con le esigenze di sostegno della politica estera del paese.
Di fronte alle croniche carenze di fondi ci si può porre, fra gli altri, anche il problema
della specializzazione delle forze in ambito europeo (pur con tutte le cautele
necessarie al fine di assicurare comunque una capacità di influenza nei fori
internazionali e la difesa di specifici interessi nazionali non necessariamente condivisi
dagli alleati).
Dal basso livello di percezione della minaccia e dalla scarsa considerazione politica, e
più in generale della società italiana, verso il mondo della sicurezza, discendono una
serie di problemi che affliggono la rete di sicurezza del paese (la quale, peraltro,
soffre di una serie non piccola di inefficienze interne, in particolare di natura
burocratica).
Si può tentare, comunque, di definire una serie di misure di breve e medio periodo,
volte a riequilibrare progressivamente la struttura. In un contesto di risorse
particolarmente scarse, l’attenzione è ovviamente rivolta all’incremento di efficienza
da un lato e alla prioritarizzazione delle politiche di intervento dall’altro.
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♦ Il “Sistema difesa” italiano si trova oggi nel bel mezzo di un duplice guado,
strutturale e organizzativo: da un lato il processo di professionalizzazione, avviato da
tempo, dovrebbe culminare a breve (alla fine del 2004, secondo gli ultimi
intendimenti espressi a livello politico) nella sospensione di quel che resta della leva,
con una vasta serie di problemi tuttora irrisolti, a carattere sia normativo sia
finanziario; dall’altro, la riforma dei vertici dovrebbe essere completata, in modo da
assicurare una maggiore autorità, non solo formale, del Capo di Stato Maggiore della
Difesa nei confronti dei Capi di Forza Armata. Affrontare e risolvere queste
problematiche è di importanza cruciale e il loro esito condizionerà pesantemente ed in
modo determinante la capacità stessa del nostro paese di contribuire, con efficacia e
con il peso che gli compete, alla sicurezza internazionale.
Infatti, se si vogliono contingenti idonei alla condotta di operazioni negli scenari
di oggi e di domani, servono in primo luogo soldati giovani, motivati, di elevata
qualità intellettuale, incentivati da adeguate opportunità di qualificazione, da
retribuzioni di livello e da prospettive di lavoro aperte per il “dopo servizio”.
Per quanto attiene invece alla riforma dei vertici, le ambiguità insite nelle legge
25/1997, amplificate dal testo del relativo regolamento applicativo, impediscono nella
realtà una gestione realmente integrata dalle Forze Armate. Così la pianificazione
dello strumento militare, lungi dal rispondere a un disegno unificante, non è altro che
la giustapposizione di visioni rigorosamente “single service” e ancora, l’attribuzione
ai Capi di Forza Armata di esclusiva competenza logistica limita, di fatto, la
cooperazione in questo settore vitale a quanto consentito dalla spontanea buona
volontà dei singoli. Analoga impostazione caratterizza l’utilizzo del personale,
problema particolarmente grave perché condiziona l’attività degli organismi
interforze.
Ciò detto, è peraltro vero che, anche ove tali problemi fossero risolti con i necessari
atti normativi (ben al di là del dettato della legge 137/2002), la problematica
principale rimarrebbe quella delle risorse per la sicurezza, il cui significato trascende
l’aspetto puramente operativo per porsi a livello politico, quale scelta di fondo del
livello di apporto del paese alla sicurezza nazionale ed internazionale. In tutto il
dopoguerra la spesa militare italiana è stata caratterizzata da un basso volume (la
percentuale del Pil è stata sempre vicina al livello minimo in ambito Nato) e, al suo
interno, da una quota minima destinata agli investimenti. Questa sottocapitalizzazione
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dello strumento militare è ormai diventata endemica e ha comportato, fra il resto,
queste conseguenze:
1. sono rimasti in servizio equipaggiamenti più vecchi rispetto ai nostri partners con
pesanti implicazioni sulle capacità operative in termini di prestazioni e
interoperabilità con gli alleati e, ancor più, di costi e tempi di manutenzione; a
livello di capacità tecnologiche e produttive questo ha comportato, in alcuni casi,
significative fratture nella crescita, col salto di una generazione e la necessità di
acquisizione dall’estero delle relative tecnologie o degli stessi equipaggiamenti;
2. sono rimaste irrisolte alcune carenze strutturali e, dovendo dare la priorità alle
carenze più vistose, si è finito inevitabilmente col privilegiare le piattaforme
(aerei, navi, carri) in quanto tali, anziché costruire uno strumento equilibrato più
piccolo, ma in grado di operare efficacemente;
3. si è via via irrigidito il bilancio della Difesa, vincolando una quota crescente delle
limitate risorse disponibili ai programmi pluriennali in corso, precludendo la
possibilità di partecipare a nuove iniziative;
4. si è mantenuto un legame inscindibile fra programmi di sviluppo e programmi di
acquisizione e si è così tolta ulteriore flessibilità ad ogni possibile intervento di
riallocazione delle risorse; in ogni caso si è inevitabilmente privilegiata l’attività
di acquisizione rispetto a quella di ricerca e sviluppo.
Vi è stato, quindi, un accumularsi di esigenze insoddisfatte che si manifestano
pesantemente anche sul piano operativo.
A fronte di ciò, la promessa di maggiori stanziamenti a partire dall’anno seguente,
regolarmente riproposta in sede di ogni nuovo bilancio, ha ingenerato una diffusa
incertezza e una conseguente deresponsabilizzazione. Si è così consolidata una prassi
che porta ad assumere impegni sulla base di ipotesi che sono poi continuamente
disattese. Sono evidenti le conseguenze negative di un simile atteggiamento che
rischia di togliere certezze e credibilità ad ogni discussione sulle effettive esigenze
finanziarie della Difesa.
Nell’ultimo decennio è, inoltre, cresciuto il numero dei programmi internazionali
cui l’Italia ha aderito (probabilmente in Europa il nostro paese è quello che, fra i
paesi maggiori, ha più internazionalizzato i programmi di acquisizione) e ogni
difficoltà nel sostenerne l’onere finanziario rischia di riflettersi sui rapporti con i
nostri partners e sull’immagine dell’Italia come partner affidabile.
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Questi problemi si sono regolarmente posti anche quest’anno. La speranza accesa
nello scorso luglio, quando nel DPEF (Documento di programmazione economica
e finanziaria per il quadriennio 2003-06) veniva indicata la necessità di arrivare
all’1,5% del PIL (il che comporterebbe un aumento del 50% delle nostre spese
per la difesa), si è per il momento spenta. Il blocco della spesa statale per il
corrente anno, deciso a settembre, sta facendo saltare alcuni importanti
programmi militari pronti per la firma, mentre la manovra di bilancio per il
2003 prevede di far scendere la nostra spesa per la difesa a qualche decimo sopra
l’1% del PIL. Potremmo così conquistare la maglia nera fra tutti i paesi
industrializzati, in totale controtendenza con gli alleati europei, per non parlare
di quello americano. Se si verificasse l’ipotesi di tagliare 4-500 milioni dagli
investimenti, si sacrificherebbe ulteriormente la disponibilità di equipaggiamenti
adeguati alle nuove sfide, si vanificherebbe la speranza di poter contare verso la fine
di questo decennio su uno strumento militare moderno ed efficiente e si
comprometterebbe la nostra partecipazione ad importanti programmi di
collaborazione internazionale, con danni incalcolabili per la nostra credibilità e per le
nostre capacità tecnologiche ed industriali.
Anche sul piano pratico dovranno essere riviste molte politiche, fra cui spiccano
quelle relative al personale, all’addestramento e alle capacità tecnologiche di nicchia,
con particolare riferimento al settore C4ISR.
La transizione in corso da un modello basato sulla coscrizione ad uno basato su forze
volontarie richiede una nuova metodologia di indirizzo delle dinamiche relative al
reclutamento, all’addestramento e all’impiego del personale militare e civile. Si
devono disegnare i necessari incentivi atti a garantire il giusto equilibrio di lungo
periodo fra l’esigenza di attrarre personale qualificato e la garanzia di una corretta
possibilità di impiego dello stesso. In quest’ottica, la proposta governativa di far
svolgere un periodo di servizio volontario nelle Forze Armate come prerequisito
anche per accedere ai Corpi Armati dello Stato sembra andare nella giusta
direzione. L’organico andrebbe, inoltre, rivisto sia in termini qualitativi sia
quantitativi, adottando un approccio non tradizionale “manning the arms” anziché
“arming the men”.
Inoltre, affinché lo strumento sia realmente composto da professionisti, si deve agire
anche sul fronte dell’addestramento. Il più sistematico impiego delle Forze Armate a
livello operativo, soprattutto in operazioni a maggiore livello di rischio, deve andare
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in parallelo con un addestramento più intenso e sistematico. Come per i sistemi
d’arma la flessibilità e la proiettabilità divengono caratteristiche irrinunciabili, così
deve essere per le risorse umane; queste caratteristiche sono perseguibili solo a
condizione di rivedere qualitativamente e quantitativamente gli attuali sistemi di
addestramento.
Ovviamente tutto ciò si traduce in una maggiore spesa, necessaria per riqualificare i
sistemi di addestramento e garantire cicli di training più frequenti ed intensi
(compensando anche la maggiore usura degli assets connessi).
Fra le capacità di nicchia e ad alta intensità tecnologica da sviluppare, particolare
attenzione dovrebbe essere rivolta al C4ISR. Le realtà operative dell’ultimo decennio,
l’esigenza di contribuire a livello internazionale alla sicurezza collettiva e le
prevedibili necessità di impiego future mostrano quotidianamente l’esigenza di dotarsi
di strumenti tecnologici atti a comprendere le situazioni di pericolo e a sviluppare una
capacità di moltiplicazione delle forze disponibili, particolarmente utile nella gestione
di conflitti asimmetrici, così come di quelli su larga scala. Le carenze nazionali ed
europee in questa area rimangono gravi, nonostante alcuni recenti sviluppi in questo
senso. Si dovrebbero studiare le modalità per predisporre i necessari correttivi,
considerando che con ogni probabilità la soluzione del problema dovrà essere trovata
a livello europeo.
Opzioni
Si è, quindi, in presenza di una situazione difficile e confusa che sembra richiedere un
riesame complessivo, da un lato definendo le scelte strategiche di fondo della politica
estera e di difesa del Paese, dall’altro ridando concreto vigore all’impulso di
integrazione in senso realmente interforze, sotto la direzione del vertice tecnico-
operativo della difesa, non condizionato da visioni di parte.
Al decisore politico si presentano sostanzialmente due opzioni, entrambe plausibili,
ma che richiedono una scelta tra due strade nettamente distinte:
1) Stare al passo con i nostri maggiori partners.
2) Ridimensionare il nostro ruolo politico-militare.
• Stare al passo con i nostri maggiori partners
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Secondo la posizione ufficiale sinora sostenuta a livello governativo, la politica estera
e di difesa dell’Italia dovrebbe avere fra i suoi obiettivi il raggiungimento di una
posizione di sostanziale parità di ruolo e rango rispetto ai principali paesi europei
(Regno Unito, Francia e Germania).
La cronica carenza di fondi stanziati per la Difesa, ed in particolare per
l’investimento, minano però la credibilità di queste dichiarazioni d’intenti.
Per soddisfare questo requisito, la pianificazione richiede lo sviluppo di uno
strumento militare equilibrato, capace di “fare un po' di tutto”.
E’ evidente che il principale limite di questa posizione risiede nella difficoltà di
sostenere il peso che essa ha in termini di risorse economiche, politiche e sociali.
Decenni di costante disattenzione per le tematiche della difesa hanno accumulato un
differenziale di capitalizzazione rispetto ai paesi guida dell’Europa della Difesa (per
non parlare dell’alleato americano), situazione che pesa negativamente sulla reale
capacità operativa presente e futura delle nostre Forze Armate.
Per raggiungere questi obiettivi (ambiziosi, seppur commisurati al peso economico e
sociale della sesta potenza economica) bisognerebbe procedere ad una “revisione
strategica” degli obiettivi che il Paese si vuole dare, elaborando un piano di aumento
degli investimenti che tenga conto delle necessarie compatibilità finanziarie, ma,
soprattutto, che definisca un quadro di priorità in grado di perseguire i nostri interessi
nazionali.
Il problema principale legato a questa policy riguarda l’impatto sulla spesa per la
Difesa.
I fondi attualmente attribuiti risultano insufficienti e disattesi gli impegni politici per
incrementare le dotazioni ancorandole a valori prossimi all’1,5% del Pil (di cui un
terzo circa dedicato al procurement). All’interno di questa previsione la Difesa sta
sostenendo, da ormai alcuni anni, che gli investimenti dovrebbero arrivare
rapidamente a circa 4,5 miliardi di Euro annui (secondo l’ultima Nota Aggiuntiva) per
recuperare un adeguato livello di efficienza, ma questo obiettivo, sganciato da un
preciso piano finanziario, resta solo un auspicio.
Per contro, le responsabilità assunte dalle Forze Armate nel contesto internazionale
restano rilevanti: nell’attesa di nuovi fondi è, quindi, indispensabile ristrutturare
internamente la spesa per la difesa, partendo dalla ridefinizione del tipo di strumento
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in funzione delle nuove minacce e tenendo conto anche dei maggiori costi dovuti alla
transizione al nuovo modello di difesa. In quest’ottica bisogna definire le aree di
intervento prioritario ed accelerare lo sviluppo di quei programmi già in corso di cui si
riconosce l’immediata valenza operativa nel nuovo contesto internazionale.
Una revisione critica del processo e delle scelte di procurement, alla luce di un
effettivo approccio interforze e delle nuove esigenze operative, dovrebbe giungere a
definire le priorità fra i diversi programmi, procedendo di conseguenza all’incremento
delle velocità di sviluppo di quelli ritenuti critici.
Questo processo dovrebbe essere reso più facile grazie ad opportuni accorgimenti di
carattere finanziario, anche ad hoc, nonché all’adozione di strumenti innovativi di
carattere organizzativo e di finanziamento del procurement.
Se si riuscisse a porre una maggiore attenzione per le tematiche della difesa (ci si
sentisse quindi, “in guerra”), un particolare rilievo potrebbe assumere soprattutto il
settore delle difese antiaeree ed antimissile.
I recenti avvenimenti internazionali hanno mostrato la necessità di dotarsi di uno
strumento di difesa aerea sempre più efficiente.
In questo contesto devono essere esaminate anche le implicazioni del Programma di
Difesa Missilistica lanciato dagli Stati Uniti sia sul piano tecnologico, sia su quello
finanziario. Lo sforzo americano nella parte C4ISR imprimerà un forte salto
tecnologico nell’elettronica e, direttamente o indirettamente, in tutto il settore
militare. Per gli alleati europei questo comporterà il rischio di vedere allargato il gap a
livello tecnologico e operativo. Se, invece, non ci si limiterà ad una semplice adesione
politica e ci si sforzerà di arrivare ad un’effettiva partecipazione, dovrà essere risolto
il problema di reperire adeguati finanziamenti. Nel caso italiano se non si potrà
incrementare immediatamente la spesa militare, non sembrano esservi margini per
finanziare la nostra partecipazione se non a discapito di altri programmi già previsti, a
meno di non considerare la nostra partecipazione sul piano dell’innovazione
tecnologica e, quindi, assegnarle una priorità rispetto al finanziamento di altri settori
civili.
Al di là delle questioni relative all’adeguamento della spesa per la difesa agli obiettivi
di politica estera dichiarati, permane comunque l’esigenza di mettere mano ad
un’incisiva riforma dello strumento militare nel suo complesso, sulla scorta di una
rapida ed incisiva applicazione dei principi guida già delineati dalle leggi di riforma
dei vertici e della professionalizzazione.
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Gli ambiti di azione riguardano praticamente tutti i settori, da quello operativo
(reclutamento ed addestramento del personale, miglioramento della logistica, …), a
quello burocratico-amministrativo (informatizzazione, riqualifica degli impiegati
civili), alle strutture che garantiscono l’interoperabilità a livello joint e combined con i
principali alleati (apparati C4ISR, applicazione del concetto di network-centric
warfare, …). L’appartenenza ad alleanze stabili e consolidate, dotate di una forte
capacità operativa dovrebbe consentire un migliore utilizzo delle risorse, evitando le
duplicazioni a livello internazionale e creando un ambiente favorevole alla
pianificazione di lungo periodo.
Dal punto di vista politico, ad un incremento dei costi associati alla difesa
corrisponderebbe una migliore interoperabilità a livello europeo e con gli Stati Uniti e
una più ampia capacità di influenza e libertà di azione, oltre che una maggiore
assunzione di responsabilità quanto meno a livello regionale (o comunque a guida
italiana).
• Ridimensionare il nostro ruolo politico-militare
L’adozione di questa policy risulterebbe come conseguenza del riconoscimento che i
paesi che si stanno maggiormente impegnando nel campo della difesa, Regno Unito e
Francia, sono troppo distanti per essere raggiunti.
Si tratterebbe in definitiva della rinuncia a far parte dell’attuale direttorio di fatto a
due-tre paesi in ambito difesa (il ruolo tedesco in merito non è ancora chiaro, date le
difficoltà economiche e politiche recentemente incontrate dalla Germania).
Questa visione nasce dalla consapevolezza dei limiti del Paese, di natura economica e
politica, e dell’orientamento dell’opinione pubblica, esasperato dalla logica di breve
periodo che caratterizza i nostri decisori politici.
Certamente questa decisione porterebbe a ridurre notevolmente il ventaglio di
operazioni effettuabili, quantomeno rispetto alla prima opzione prospettata.
Una scelta di questo tipo richiede un radicale cambiamento della pianificazione per
sfruttare al meglio le risorse disponibili, nell’ottica di strutturare uno strumento
militare basato su una totale “integrabilità” con quello dei principali alleati e,
soprattutto, con quello americano.
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In quest’ottica sarebbe necessario stabilire forti priorità in ambito interforze e di
spingere agli estremi il concetto di interoperabilità, jointness e specializzazione
con le forze alleate.
Andrebbe, quindi, privilegiata l’acquisizione di quegli assets che siano
intrinsecamente dotati di una maggiore flessibilità operativa e capacità di proiezione
in scenari di impiego congiunti con forze internazionali. Si dovrebbe valorizzare al
massimo ciò che si ha già e concentrare gli ulteriori investimenti in capacità molto
specifiche e possibilmente ad alta tecnologia, fornendo alle forze nazionali degli
assets pur numericamente ridotti ma potenzialmente decisivi (cosiddette “silver
bullets”). Fra i settori di intervento prioritario potrebbero esserci lo sviluppo
delle aree in cui vi sono anche carenze a livello internazionale, quali le forze
speciali e le unità specialistiche dotate di armamenti leggeri, gli assets per il
contrasto delle armi nucleari, batteriologiche e chimiche (NBC), i sistemi di
comunicazione tattica e strategica (impiegando il Sicral in ottica multinazionale),
i sistemi di soppressione delle difesa aeree nemiche (upgrade dei Tornado allo
standard Ecr, riducendone il numero), il trasporto aereo tattico a medio raggio e
quello elicotteristico, il Combat Search and Rescue, il gruppo navale
“Garibaldi”, le unità cacciamine.
Si tratta di sviluppare le aree di eccellenza, in simmetria con quanto sta già avvenendo
in campo industriale, in cui il Paese ha già delle competenze specifiche o può
raggiungerle in tempi ragionevoli. Per poter passare dall’attuale modello ancora
troppo “labour intensive” ad uno basato su un elevato rapporto capitale/uomo, è
essenziale investire in selezionate tecnologie di fascia alta.
E’ implicita in tutto questo discorso la rinuncia a condurre operazioni autonome,
anche di entità ridotta, e a guidare operazioni multinazionali, se non in casi
eccezionalmente favorevoli per gli assets disponibili.
Inoltre, andrebbe prevista una drastica riduzione del personale rispetto agli obiettivi
dell’attuale modello di difesa, basato su 190.000 uomini, in favore di forze
numericamente ridotte ma ad altissima prontezza operativa. Allo stesso tempo, dato il
contesto geopolitico di riferimento, sarebbe utile conservare forze militari e di polizia
del tipo MSU per operazioni di fascia bassa, da affiancare alle forze ad alta prontezza
per gli scenari ad alta intensità.
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La riduzione dovrebbe, inoltre, coinvolgere drasticamente anche i gradi medio-
superiori, snellendo la piramide che sembra formarsi nel processo di transizione in
corso.
Alla valutazione dell’impatto in termini di pianificazione ed operatività di questa
nuova impostazione, deve corrispondere anche una valutazione sulle sue conseguenze
in termini politici.
In primo luogo questa soluzione comporterebbe una diminuzione dello spazio di
manovra della politica estera italiana. Inoltre, l’attuale incertezza circa le prospettive
del quadro delle alleanze non rende facile la programmazione, proprio quando diviene
più necessario sviluppare contesti istituzionali e alleanze il più possibile stabili per
potersi specializzare senza correre i rischi della marginalizzazione.
♦ Oggettivamente l’Italia si troverebbe in una situazione di minore autonomia e
potrebbe ricoprire solo un ruolo più limitato nella gestione delle crisi internazionali.
D’altra parte anche una situazione che perpetui l’esistente (tendenzialmente
condannando il nostro Paese a dover evidenziare l’impossibilità di continuare a
sostenere un impegno internazionale al di sopra delle sue capacità militari) avrebbe
esattamente gli stessi effetti di marginalizzazione, ad un costo più elevato.
Quel che è certo è che una decisione, comunque, va presa e anche in tempi rapidi.