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Cura, tutela e salvaguardia di un sito archeologico a Genova. La “Libera Collina di Castello” un progetto partecipato. Tesi di Laurea Magistrale in Architettura A.A. 2014/2015 Relatori: Prof.ssa Arch. Anna Boato, Prof. Arch. Stefano Francesco Musso. Candidato: Matteo Rocca Università degli Studi di Genova Scuola Politecnica - Dipartimento di Scienze per l’Architettura Università degli Studi di Genova Dipartimento di Scienze per l’Architettura Scuola Politecnica Università degli Studi di Genova

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Cura, tutela e salvaguardia di un sito archeologico a Genova.La “Libera Collina di Castello” un progetto partecipato.

Tesi di Laurea Magistrale in ArchitetturaA.A. 2014/2015Relatori: Prof.ssa Arch. Anna Boato, Prof. Arch. Stefano Francesco Musso.Candidato: Matteo Rocca

Università degli Studi di GenovaScuola Politecnica - Dipartimento di Scienze per l’Architettura

RAFTSReactivating Areas with Floating Temporary Spaces

Tesi di Laurea Magistrale in ArchitetturaA.A. 2013/2014

Relatore: Prof. Arch. Christiano Lepratti

Correlatori: Prof. Arch. Massimo Musio-Sale, Dott. Martina Callegaro

Candidati: Elena Pisano, Carolina Tuillier

Università degli Studi di GenovaScuola Politecnica - Dipartimento di Scienze per l’Architettura

Università degli Studi di GenovaDipartimento di Scienze per l’ArchitetturaScuola Politecnica

Università degli Studi di Genova

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Premessa 7Introduzione 9

Parte 1 I luoghi del progetto...............................................La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.0 Gli spazi.................................................................................................................................................121.1 I giardini.................................................................................................................................................161.2 Le terrazze e la piazza di S.Silvestro......................................................................................................................181.3 La chiesa e il conento....................................................................................................................................201.4 Strutture architettoniche ed elementi decorativi superstiti................................................................................................22

1.4.1 La chiesa1.4.2 La cappella tardogotica1.4.3 La cappella del Tavarone1.4.4 La chiesa interna1.4.5 L’ante-coro1.4.6 Il campanile1.4.7 Il convento

1.5 I rilievi...................................................................................................................................................431.6 Le fonti bibliogragiche...................................................................................................................................501.7 La stratigrafia archeologica. Il caso della controfacciata..................................................................................................521.8 La storia dalle origini al Secondo Conflitto Mondiale......................................................................................................54

1.8.1 La Collina di Castello1.8.2 Il palazzo della famiglia Embriaci1.8.3 Le trasformazioni urbane della collina nel XV secolo1.8.4 Le povere di San Silvestro1.8.5 La prima chiesa quattrocentesca1.8.6 La decorazione barocca1.8.7 Dopo il 1798 sopressioni degli ordini e declino materiale

1.9 La storia di un abbandono...............................................................................................................................62

Indice

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Parte 2 La Libera Collina di Castello........................................Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.0 Iniziativa popolare, tutela del bene, Restauro.............................................................................................................69 2.1 La storia e l’iniziativa popolare: consapevolezza e divulgazione...........................................................................................752.2 Il progetto di conservazione: stratigrafia archeologica, manutenzione, restauro debole....................................................................792.3 I valori fondanti e i principi guida dell’iniziativa popolare..................................................................................................862.4 Il Processo di trasformazione: da spazio a Luogo.........................................................................................................922.5 I progetti elaborati dalla comunità.......................................................................................................................94

2.5.1 L’accessibilità e la messa in sicurezza2.5.2 Aspetti di conservazione/manutenzione2.5.3 Operare e programmare interventi conservativi

- Lotto 0: il lavatoio degli orti- Lotto 1: l’affresco delle monache

2.5.4 Gli interventi per la vivibilità dello spazio: realizzazioni, lavori in corso, progetti2.5.5 Laboratori di formazione e i principi dell’autocostruzione Schede delle realizzazioni

- Il Forno di quartiere- L’Impianto fotovoltaico- La Cucina comunitaria- Il Lavatoio- Gli Orti urbani- La Panca - Il Pergolato

2.6 Internet e i social network..............................................................................................................................1182.7 Gli orizzonti di progetto e il ruolo dell’architetto.........................................................................................................120

2.7.1 La visione futura2.7.2 I “dispositivi” per l’accessibilità

2.7.3 Le vocazioni dei luoghi

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Parte 3 Approfondimenti....................................Alcune riflessioni conclusive sul tema della cura/partecipazione/bene comune3.0 Le ragioni delle azionpopolare in seno al restauro........................................................................................................1293.1 L’iniziativa popolare e il rapporto con il restauro.........................................................................................................1303.2 L’iniziativa popolare e il rapporto con la legislazione in materia di Beni culturali...........................................................................131

3.2.1 Il principio di sussidiarietà orizzontale

3.2.2 Il bene culturale comune: teoria e pratica

Conclusioni............................................................................................................................................135

Bibliografia tematica........................................................................................................................................136

AllegatiAllegato 1 Materiale storico archivistico recuperato

- Le planimetrie storiche e le ricostruzioni- Le immagini dell’Archivio Storico Fotografico di Genova- La campagna fotografica del Cresta del 1942

Allegato 2 Stratigrafia archeologica - Mappatura archeologica- Tabella stratigrafica- Matrice di Harris- Ricostruzioni delle fasi storiche

Allegato 3 Materiale divulgativo- Mappa del parco- Cartelloni didattici- Brochure storica

Allegato 4 I progetti presentati dalla comunita’ - Progetto Conviviale 1.0- Progetto Conviviale 2.0

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Nella fase matura delle teorie sulla conservazione dei beni culturali, abbiamo assistito ad un allargamento di prospettive sul cosa è restau-rare e su cosa è del patrimonio. Tutelare, oggi, non è riducibile ad una semplice operazione legata alla pratica della conservazione materiale, di natura critica o meno1, o di quali tecniche mettere in pratica in un cantiere di restauro. Conservare significa primariamente ridare me-moria ai Luoghi che altrimenti sarebbero spazi vuoti. Conservare si-gnifica immaginarsi un Paese votato al riuso intelligente del suo patri-monio nel rispetto delle tracce materiali che la storia ci ha consegnato.Oggi, oserei affermare, l’architetto/conservatore (più in generale il cit-tadino) ha una missione, un compito sociale: far acquisire alla società e alla politica la consapevolezza della necessità di cambiare modello di sviluppo, cosciente che la valorizzazione dell’esistente non è solo una buona pratica di tutela del patrimonio, ma una cura nei confronti di una società votata al consumo, vittima di un’idea di crescita infinita, che materialmente ha generato danni irreparabili all’ambiente in cui viviamo.La valorizzazione dell’esistente è un tema non più rimandabile per la generazione degli architetti contemporanei2: intere periferie da ripen-sare, spazi abbandonati nei centri storici prossimi alla rovina o già in tali condizioni, campagne rimpiazzate da distese di capannoni. Pro-spettarsi una società migliore dovrebbe essere connaturato all’indole dell’architetto, colui che proietta, progetta il miglioramento, non colui che concorre a umiliare il territorio, a saccheggiare il paesaggio della propria bellezza.3

Il problema è complesso, va al di là del tema della tutela e conserva-zione del patrimonio ed è legato all’esercizio del diritto/dovere di pro-tezine che il cittadino ha nei confronti dell’ambiente, del paesaggio, del territorio (comunque lo si voglia chiamare), ossia un’adesione attiva sia individuale sia collettiva ai valori della tutela come cittadini, ma ancora di più come architetti. Non più mero detentore del diritto passivo di fruizione degli spazi collettivi o privati, ma cittadino attivo nelle idee e nelle pratiche legate alla tutela per la difesa del bene comune.4

La grande rivoluzione risiederebbe dunque in scelte drastiche del legi-

slatore su scala nazionale per imporre, con i dovuti accorgimenti, piani urbanistici che seguano il principio della cubatura zero, forti incentivi alla riconversione e al recupero dei beni esistenti, sia incentivando i privati e le aziende sia le iniziative popolari di carattere partecipativo.5

Come è testimoniato a scala nazionale anche in Italia l’iniziativa po-polare sul Bene Comune sta diventando una prassi diffusa, espressa in varie forme, quasi sempre sottraendo all’abbandono spazi destinati viceversa all’oblio.6 La prima legge dello Stato contempla e sostiene queste forme di iniziativa nell’art. 118. Il Codice dei Beni Culturali, in linea con la Costituzione, contempla il sostegno dello Stato a privati, singoli o associati. Nonostante la Repubblica favorisca e sostenga l’a-zione del cittadino, il vuoto normativo tra il principio costituzionale e la realtà sussiste. Esempi come il “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni culturali” redatto dal comune di Bologna insieme ai cittadini nel 2006, è un esempio virtuoso di strade possibili per incentivare la sussidiarietà orizzontale7.Sicuramente, va sottolineato, che un aggiornamento legislativo in seno a quanto appena ricordato darebbe un contributo notevole alla valorizzazione di questo genere di iniziative e diversa autorità a que-ste “comunità di vita” che tanto possono dare alla pratica attiva del-la salvaguardia. Aspettando che la legge si adegui alle pratiche della contemporaneità bisogna ricordare altrettanto che questi meccanismi innescati dall’iniziativa popolare sono, ancor prima che funzionali al re-cupero materiale del bene, un importantissimo argine alla crisi di ideali e di valori in cui il nostro Paese è precipitato e che porta irrimediabil-mente con se la crisi della qualità dello spazio e delle forme aggregati-ve in cui la società vive. Come sempre nella storia, lo spazio prende la forma della società che cambia e la società si trasforma nello spazio in cui vive, non sempre consapevole di quest’ultima conseguenza. Abbiamo assistito, dappri-ma, alla rivoluzione negativa del paesaggio italiano con la grande indu-strializzazione e relativo avvento della civiltà operaia di massa, e, negli ultimi decenni, ad una definitiva affermazione della civiltà dell’indivi-

Premessa

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duo, dell’automobile e del parcheggio sotto casa, della “perversa villet-ta a schiera”8, dell’orrido condominio, del centro per gli acquisti asceso al ruolo di nuova piazza pubblica ugualmente reiterata in tutto il mon-do, cattedrale della nuova religione del consumo. La consacrazione del Junkspace.9 L’iniziativa popolare come una delle strade del recupero e della tutela del territorio a difesa della storicità, della misura, del ragionato non è peraltro una chimera. Non è facile immaginarsi come, in una società in crisi, per alcuni aspetti statica o bloccata, sia possibile dare spazio a pratiche di resistenza attiva che inneschino meccanismi virtuosi e offrano nuove prospettive di intervento sui beni comuni artistici. Non è facile, nemmeno per chi la storia la tutela (soprintendenze alle Belle arti e al Paesaggio) accettare certe pratiche e inquadrarle nella salva-guardia piuttosto che nel danneggiamento. Per approdare ad una conservazione basata su una programmazione di interventi periodici di manutenzione, come è auspicato dalle più ag-giornate teoria della conservazione10, non potrebbero forse essere gli stessi cittadini attivi, con le competenze necessarie a farsi carico della valorizzazione delle permanenze? Raccontando, analizzando, descri-vendo quello che in questi anni si è fatto (e si progetta di fare) sulla collina di Castello nelle Rovine di Santa Maria di Passione si intende documentare come, in certa misura, una comunità di persone abbia dato alla collettività un importante contributo su molteplici aspetti della conservazione e innescato dapprincipio un meccanismo di salva-guardia di un bene comune di rilevanza storico-artistica.Si può chiamare “architettura militante”: una definizione di Giancarlo De Carlo che si fondava sull’idea di un architetto impegnato attiva-mente sul piano politico, a servizio della “polis”, direttamente a servi-zio della società, ridando all’architettura una dimensione collettiva e condivisa.11 E’ una formula passata che però forse aiuta a inquadrare meglio la ragione di esistere delle contemporanee forme di partecipa-zione nella progettazione, ben diverse e più limitate da quelle che si propugnava De Carlo, ma vicine nei valori che le guidano.

1 Si veda la definizione che Giovanni Carbonara dà di Restauro, per chiarire la dif-ferenza che intercorre, secondo alcuni studiosi della disciplina, tra la pratica della conservazione ed il restauro, che è visto appunto come “conservazione critica” in Che cos’è il restauro? Nove studiosi a confronto (da un’idea di B. Paolo Torsello), Venezia, Marsilio, 2005.2 FEDRIGO G., 2010.3 Si leggano a riguardo i vari studi fatti da urbanisti, intellettuali, storici in Italia negli ultimi 10 anni in cui si è preso coscienza, dopo i nuovi anni della speculazione rampante a cavallo del nuovo millennio (1995-2007), del problema. Paesaggio Costi-tuzione Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, SETTIS S., 2010. No sprawl, SALZANO E. e GIBELLI M.C., 2006.4 SETTIS S., 2012.5 CAMPAGNOLI G., 2014.6 Si veda il paragrafo 3.4 dove sono testimoniate alcune esperienze virtuose sul territorio nazionale.7 Dal 2006 ad oggi 64 comuni italiani hanno adottato questo regolamento e molti altri comuni sono in fase di approvazione. A riguardo si fa riferimento al laboratorio per la sussidiarietà LABSUS (www.labsus.org) il cui portale recita: “Convincerti che ti conviene prenderti cura dei luoghi in cui vivi, perché dalla qualità dei beni comuni materiali e immateriali dipende la qualità della tua vita. Il tempo della delega è fini-to. L’Italia ha bisogno di cittadini attivi, responsabili e solidali”. 8 SALZANO E. 2012.9 KOOLHAS R. 2001.10 ERMENTINI M., 2007.11 DE CARLO G.,1973.

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Introduzione

Questa tesi vuole testimoniare in primo luogo ciò che ha determinato negli anni un processo di partecipazione dal basso e quali sono le prime ricadute sugli spazi, quali le osservazioni necessarie, quali i problemi non ancora risolti. Delineare gli strumenti a disposizione della comuni-tà per portare avanti il processo/progetto di un effettivo recupero che permetta di configurare l’esistenza di un parco archeologico gestito dal basso nel quale è la stessa comunità a fare opera e pianificazione della manutenzione (previo riconoscimento delle autorità competenti), della divulgazione e della salvaguardia.

La parte iniziale ha carattere analitico descrittivo dell’area di studio. E’ una schietta rappresentazione dei luoghi al loro stato attuale, ben diverso da quello di appena 4 anni fa. Si cerca di integrare l’analisi arti-stica e storica passata e presente con la descrizione sia architettonica sia dello stato di conservazione dell’intera area archeologica. Segue un approfondimento sulle fonti da cui si è attinto per acquisire migliore conoscienza dei luoghi e una sintesi della storia dell’area archeologica che tra le sue varie fasi conserva la testimonianza materiale di una buona parte delle vicende storiche della città di Genova nei suoi 2600 anni. A conclusione del primo capitolo l’interessante cronaca dei tem-pi recenti che inizia ad inquadrare la complessità delle risposte che si possono fornire per un progetto di recupero: i casi del “progetto provvi-sorio” di Bruno Gabrielli e della ”Acropoli trasparente” elaborato da un team di professori e architetti coordinato da Franz Prati.

La parte seconda, fondamentale cardine del presente lavoro, espone, calate nel caso specifico di Santa Maria in Passione, le varie concet-tualizzazioni generali che costituiscono le premesse della tesi stessa.Il tema delle cura diretta praticata nell’ambito di un processo parteci-pativo di un bene culturale comune. L’idea del progetto conservativo, l’esperienza didattico divulgativa, le posizioni culturali della comunità sono alcuni degli argomenti che vanno a comporre il quadro tematico.

Nella terza parte vengono curati gli approfondimententi in ambito nor-

mativo dell’azione popolare e i rapporti con il Codice dei Beni Culturali.

Si vuole dimostrare come in qualche misura il processo partecipativo sia una componente positiva (in potenza per qualsiasi realtà a valenza pubblica) per la conservazione del sito archeologico di Santa Maria in Passione. Componente positiva, ma anche strumento della tutela e della salvaguardia delle permanenze materiali.“La tutela consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad indivi-duare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la PRO-TEZIONE e la conservazione per fini di pubblica fruizione”, (Articolo 3 comma 1 Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio). Attività conoscitiva, individuazione delle strategie progettuali per l’o-pera di conservazione, il ritorno alla fruizione del bene culturale sono i tre argomenti cardine della tesi qui esposta. In sintesi questo è lo schema di sviluppo:-Si analizzano i rapporti tra la storia/restauro/l’iniziativa dal basso.-Il rapporto tra archeologia/studio stratigrafico e progetto di architet-tura.-Più in generale si mette in luce il contributo consapevole di un aspi-rante architetto/conservatore attivamente coinvolto in questo pro-cesso partecipativo nelle vesti di divulgatore e responsabile della cura delle permanenze materiali nel sito.-Si restituisce, infine, una visione architettonica di alcune idee pro-mosse dalla comunità sulle future dotazioni per migliorare l’uso vitale del Parco Archeologico immaginato.

1 In ordine di importanza: Soprintendenza ai Beni Archeologici, Soprintendenza alle Belle Arti e al Paesaggio, Amministrazione Comunale, Circostrizione Centro Est.2 Si vedano i precetti del Restauro Timido (ERMENTINI M., 2007) e di La Conservazione programmata del patrimonio storico architettonico (DELLA TORRE S., 2003).3 GABRIELLI B., 1993.4 PRATI F., 2009.5 LEONE G. T. LEO A., 2006.

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1I luoghi del progetto

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione

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1 L’ex chiesa di Santa Maria in Passione vista dalla Piazza

Tra il 2011 e il 2014 una graduale riapertura delle aree inaccessi-bili della Collina di Castello ha riportato all’attenzione della città una grande porzione inutilizzata del centro antico di Genova. L’area, di cui è oggetto questa tesi, corrisponde con buona approssimazione a dove un tempo insisteva il complesso conventuale di Santa Maria in Passio-ne. La superficie totale è di 3640 mq di cui 1310 mq di verde, 1630 mq di vie e piazze selciate. I rimanenti 700 mq sono occupati dalle rovine dell’ex convento. Facilmente tracciabili sono i confini degli spazi attuali poiché tutti gli accessi sono protetti da cancelli, alcuni appartenenti alla Facoltà di Architettura altri a protezione del complesso archeolo-gico. (segnalati nella mappa qui a fianco). A demarcare con chiarezza il limite sud dell’area si staglia l’edificio principale della stessa facoltà.Gli spazi si articolano su 3 livelli principali, i Giardini di Babilonia1, le Terrazze verdi e il Complesso conventuale, quest’ultimo comprenden-te anche l’ex chiesa (foto a fianco). Essi vanno da quota 28 m s.l.m a quota 43 m s.l.m. La sommità della torre campanaria posta nel punto apicale della collina sfiora i 60 m s.l.m.Le aree verdi sono caratterizzate da una notevole acclività. Anche le vie di accesso e di collegamento al loro interno sono scalinate o ripide mattonate. Per quanto riguarda l’accessibilità, gli spazi verdi presen-tano varchi di ingresso posti su scale poco agevoli (non praticabili per persone con disturbi motori). I Giardini di Babilonia (nome preso da un cartello che era stato posto il giorno delle prima apertura nel 2011) ve-dono il loro unico punto di acceso posto sulla Scalinata Edoardo Ben-venuto. Le Terrazze limitrofe all’edificio principale della facoltà, han-no due ingressi sulla Scalinata E. Benvenuto e uno sul Vicolo di Santa Maria in Passione. Le aree verdi sono ben visibili da Stradone Sant’A-gostino, la strada pedonale più frequentata nei pressi dei luoghi, ma rimangono tuttavia arretrate rispetto all’asse stradale e leggermente rialzate rispetto alla quota strada (2,5 m). Questa conformazione im-pedisce di percepire come uno spazio aperto tutti le aree in questione. Con la loro estensione totale di 1300 mq le superfici a verde sono la più grande zona a verde pubblico all’interno della città medioevale (corri-spondente approssimativamente con l’area racchiusa dalla, in parte scomparsa, Cinta del Barbarossa).

1.0 Gli spazi

I luoghi del progetto La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione

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Sezione A A’ a pag 40-41Sezione B B’ a pag 44-45Sezione C C’ a pag 50-51

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A

A’

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N

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La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.0 Gli spazi

La parte sommitale della collina ha mantenuto le sue caratteristiche “fortificate” derivanti dalla morfologia medioevale della Collina2: per giungere in Piazza di Santa Maria di Passione bisogna percorrere ripidi vicoli a percorso spezzato (“a barionetta”) e arrivare in questa parte dell’abitato antico genovese non è, di conseguenza, impresa semplice. Si accede al complesso archeologico del convento a quota 43 m s.l.m. (segnalato nella mappa) giungendo negli Orti di Santa Maria in Passio-ne, uno spazio verde pianeggiante. L’aula (scoperta) della chiesa è ad una quota intermedia tra gli orti e l’omonima piazza e misura circa 220 mq (il piano di calpestio è posto a 1,20 sopra alla piazza e 2,50 m sotto gli orti). Le rovine non presentano barriere architettoniche sensibili, è facilmente fruibile eventualmente anche da persone che presentano disabilità motoria. Il sito archeologico di Santa Maria in Passione è indubbiamente la più evidente testimonianza archeologica della storia materiale della città di Genova (vedi Paragrafo 1.7). Le potenzialità dell’insieme sono evi-denti, se messe a sistema le due caratteristiche principali, il verde col-linare e le emergenze archeologiche, possono determinare la nascita di uno spazio unico. Un parco verde e un parco archeologico sinergica-mente uniti in uno spazio ad uso pubblico contenitore di eventi, spazio ludico e ricreativo, conservatore di storia e qualità estetiche.

1 I Giardini di Babilonia: 500 mq2 Le aree verdi terrazzate: 300 mq3 La iazza di San Silvestro: 300 mq4 Le rovine: 950 mq

2 La chiesa vista dall’archivolto di Salita di S. Maria in Passione

1 I Giardini di Babilonia prima di essere soprannominati tali semplicemente non erano: non avevano nome ne erano mai diventati qualcosa di pubblico. Un cartello che recitava “Liberi Giardini di Babilonia” ha dato nome ad uno spazio che ora si appresta ad Essere. 2 Nel tardo medioevo in questa parte della collina era insediato in Castrum Embriacorum la prima curia della famiglia Embriaci. La famiglia di origine viscontile aveva stabilito la sua contrada fortificata lungo la strada di acceso al Castello. Anche nel corso dei secoli succes-sivi la zona non rinuncia al suo ruolo preminente di controllo e anzi viene potenziato inse-rendo percorsi a barionetta per rendere meglio difendibile il Castrum. A livello planimetrico questa impostazione si è conservata (vedi BONORA F., 1982 e BOATO A., 1997).

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1: dettaglio del cartello da cui hanno preso il nome i giardini2: terrazze pensili poste sopra il basamento dell’università3: vista dei giardini con sullo sfondo il campanile di S.M: in Passione

Stra

done

San

t’Ago

stin

o

Vivo Vegetti

Via di Mascherona

Scalinata E. Benvenuto23,4 m s.l.m. 25,9 m s.l.m.

30,4 m s.l.m.

31,6 m s.l.m.

34,00 m.l.m.

100 m fermata Piazza Sarzano

350 m Piazza De Ferrari

5

4 3

cancello di accesso

C ’ C

3 Dettaglio dei giardini detti “di Babilonia” proprio per quel cartello4 Vista da Piazza Neri del “podio sul quale posa il palazzo universitario. Sopra ospita delle terrazze pensili5 Vista dei giardini ripresa dalle terrazze pensili

N

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I giardini si articolano su 500 mq di cui la totalità a verde, accessibili da scalinata E.Benvenuto con la presenza di alberature anche ad alto fu-sto (Lecci) e alberi da frutto (olivi,mandorli) e arbustive (allori, lentischi). Le essenze sono in buona salute e topiate, il manto erboso necessita di interventi di manutenzione straordinaria. Non sono visibili affiora-menti archeologici nell’area. Questo spazio è il primo che ha visto una graduale riapertura al pubblico negli anni successivi all’insediamen-to della Facoltà di Architettura sull’area. In prima battuta veniva fatta ordinaria manutenzione del verde da parte dell’istituto universitario (sfalcio del prato), successivamente ha conosciuto anni di abbandono a cui sono seguiti delle interessanti attività di sperimentazione con modelli in scala 1:1 di sistemi costruttivi tradizionali. Questo luogo ha visto, quindi, per alcuni anni un attività universitaria di ricerca che ha avuto fine per problemi legati alla tutela dei suoli. Lo spazio infatti è tutt’oggi un’area archeologica non ancora scavata. Alcuni interventi hanno inficiato l’integrità della stratigrafia e per questo è stata inti-mata la cessazione immediata di ogni sperimentazione da parte della Soprintendenza. Punto di svolta per questa impasse è stata l’iniziativa di alcuni cittadini che nel 2011 hanno sanato e riaperto i luoghi. Attual-mente sono stati messi in sicurezza con un contributo dell’università a seguito del progetto presentato dalla comunità che vi opera3.

3 4 5

3Si veda Allegato n°4 “Progetto Conviviale 1.0”.

1.1 I giardini

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.1 I giardini

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6 Le terrazze con sotto i giardini.7 Vista delle terrazze degradanti in direzione della Chiesa di Sant’Agostino.8 Vista d’insieme della Piazza di San Silvestro con sullo sfondi gli orti e i resti del convento

Salita Santa Maria di Castello

Vico Santa Maria in Passione

Piazza di San Silvestro

Scalinata Edoardo Benvenuto

Via di Santa Croce

Via di Mascherona

31,6 m s.l.m.

31,9 m s.l.m. 6 7

8

N

42,2 m s.l.m

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Le aree verdi terrazzate misurano 450 mq quasi interamente a verde, l’area è molto acclive e le sue pendenze sono scandite da spessi muri in pietra. Questi e altri monconi sono i muri affioranti del ex Convento. Gli affioramenti archeologici sono consolidati , le teste murarie protet-te. Il verde è composto principalmente da lecci, corbezzoli, allori e len-tischi che necessitano di potature straordinarie; è presente una specie pioniera di tipo Aelanto di cui urge una rapida rimozione. Gli sporti e gli affacci potenzialmente pericolosi sono stati messi in parte in si-curezza. Sono accessibili anche queste dalla scalinata che fiancheg-gia la sede della facoltà di architettura. La Piazza di San Silvestro, la quale prende il nome dalla chiesa ormai distrutta dove ora si imposta il nuovo edificio della facoltà si estende per 400 mq selciati a risseu e mattonate; la sua pavimentazione è in perfetto stato di conservazio-nie e risale ai lavori di sistemazioni degli interventi su S.M. in Passione. Sulla piazza è presente l’accesso superiore alla Facoltà di Architettura e sul lato ovest un cancello delimita la stessa da Salita di Santa Maria di Castello.

6 7 8

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.2 Le terrazze e la Piazza di S. Silvestro

1.2 Le terrazze e la Piazza di S. Silvestro

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9 Resti del portico affacciante gli Orti10 Scala di collegameto tra il livello Chiesa e gli Orti11 Aula della Chiesa inquadrata dalla zona presbiteriale12 Copertura dei resti della Chiesa interna e vista sul campanile

Vico Santa Maria in Passione

Salita Santa Maria di Castello

Giardini Pasquale Rotondi50 m s.l.m.

35,7 m.l.m

37,5m.l.m.

56,9 m s.l.m.

Piazza di San Silvestro

N

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Il complesso conventuale e la chiesa in rovina ricoprono una su-perficie di 950 mq. Gli spazi sono suddivisi in tre distinguibili ambiti. La Chiesa (1), la cui aula è attualmente a cielo aperto, suscita anco-ra una decisa fascinazione di interno. La sua parte meglio conserva-ta è il presbiterio, sormontato da una copertura a vela, realizzata nel 19924,, che ripropone e conclude la definizione spaziale dell’abside. E’ presente una decorazione a stucco e a fresco in parte conservata. Sul lato sinistro della Chiesa insistono due cappelle, una con l’accesso non dall’aula ecclesiale, entrambe voltate ancora con la struttura origina-ria. Sopra di esse un secondo livello, anche questo con in parte gli oriz-zontamenti superstiti, era l’accesso al coro scomparso della Chiesa. Su questi ambienti si imposta il campanile miracolosamente illeso. I resti del Convento si dividono in due parti distinte separate dal Vi-colo di Santa Maria in Passione (negli ultimi interventi completa-mente recuperato e nuovamente selciato con una pavimentazio-ne ancora oggi in ottimo stato di conservazione). Attualmente una porzione (2) è sormontata da una struttura reticolare in acciaio e vetro la quale assolve alle sue funzioni protettive. L’altra porzio-ne (3) è protetta da una copertura, in teoria provvisionale, in lamie-ra con struttura in acciaio di sostegno. Segue un approfondimen-to descrittivo delle parti superstiti e del loro stato di conservazione.

3

2

1

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.3 La Chiesa e il Convento

1.3 La Chiesa e il Convento

4 Si veda per tutti gli interventi realizzati sull’area tra il 1992 e il 1997 il paragrafo 1.4 e l’arti-colo di GABRIELLI B., (1993) pp. 554-569.

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Sezione orizzontale a quota 39 m.l.m.

37.5 m s.l.m

34,7 m s.l.m.

37,6 m s.l.m.

34,3 m s.l.m.N

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L’insieme dei resti archeologici del ex complesso conventuale di San-ta Maria in Passione rappresentano un sistema di tracce insopprimibili per la memoria cittadina della città di Genova. Rovina e relitto di vicen-de belliche recenti che hanno conosciuto interventi di consolidamento per impedire l’innarestabilità del degrado, ma chiuse e abbandonate fino al 2014. Il sito è contraddistinto da una molteplicità di segni, la cui maggiore quantità è più traccia di storia materiale, storia di un modo di vivere e costruire lontano dal nostro presente, che lacerto di ese-cuzione o decorazione d’arte. Da questo punto di vista c’è una netta distinzione tra la parte conventuale, la Chiesa e le cappelle limitrofe giacchè nella parte conventuale non c’è traccia di pittura e decorazione (sui monconi prospicienti gli Orti è sopravvissuto in piccole porzioni un intonaco quattrocentesco risalente alla prima fase di edificazione del complesso che scandiva le membrature architettoniche5). Nell’aula della Chiesa e nella restanti parti superstiti adiacenti si assommano tracce di tre fasi decorative chiaramente distinguibili6 (in alcune rare porzioni ancora ben conservate), poca cosa da un punto di vista arti-stico, seppure non del tutto mute per la vita di cui sono stati testimoni.

1.4.1 La Chiesa Quello che si presenta a noi oggi è un ambiente scoperto ancora chia-ramente riconoscibile come un aula di una chiesa, ma di cui sarebbe im-possibile immaginarsi le fattezze se non fosse arrivata a noi una stra-ordinaria documentazione fotografica realizzata dal Cresta nel 1942 e conservata all’Archivio Storico Fotografico di Genova.7 Va riconosciuto

1.4 Strutture architettoniche e elementi decorativi superstiti

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.4 Strutture architettoniche e elementi decorativi superstiti

5 Tra il 1457 e il 1462 secondo le fonti antiche si costruì la Chiesa. Con tutta probabilità ne seguì la costruzione del convento per affinità costruttive e tipologie di materiali utilizzate nella chiesa e nel portico del convento. Che l’intonaco risalga al quattrocento è evidente anche dalla fasciatura bianca e nera che lo decora, collocabile solo in quel periodo storico. 6 Una fase tardogotica risalente alla prima costruzione della chiesa e convento, una fase tardo manierista collocabile a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, e una fase eminentemen-te barocca la cui realizzazione è documentata nella quinta e sesta decade del XVII secolo (MELLI P.,1982). 7 Nell’Allegato n°1 è raccolta una sintesi delle immagini storiche recuperate negli anni nei vari centri di documentazione, nelle case private, o da residenti che mi hanno consegnato spontaneamente il materiale.13 La zona presbiteriale vista dell’aula della Chiesa

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Sezione verticale aula ecclesiale

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il merito all’ultimo intervento di recupero sulla parte presbiteriale. Ri-produrre con un’astrazione formale di una volta a vela “per ripristinare il vuoto interno”8. Operazione ben riuscita se vista dalla parte interna della Chiesa, da mitigare ,a mio parere, alla scala della città. A Nord una mutila controfacciata segna la fine dell’aula ecclesiale.9

Un’aula unica composta da due campate pressoché quadrate concluse con un presbiterio a scarsella. Le coperture erano volte a crociera co-stolonate leggermente ad angolo acuto decorate a “pizzo” come si vede su alcuni intonaci nelle porzioni di unghie delle volte ancora superstiti. La prima campata verso il portale di accesso alla Chiesa vedeva inseri-to a mezza quota un coro sorretto da una volta ad ombrello di cui sono ancora leggibili i segni di ammorsatura alle murature superstiti e i sui peducci d’imposta10. Le principali tracce persistenti sulla parete est11, unica superstite, sono di tipo archeologico ed è scomparsa ogni forma di decorazione pittorica:-l’arcone di accesso al coro della monache, grande apertura di 5 m di luce;-l’”impronta” dell’organo sulla muratura collegato da una passerella lignea al coro;-la cornice conclusiva dell’ordine gigante che componeva la chiesa ba-rocca;-alcuni disegni preparatori incisi a fresco sugli intonaci.La Chiesa oggi dopo i restauri che hanno ristabilito il manto pavimen-tale, riprendendo il disegno originario, è di nuovo agibile12. Le teste mu-rarie degli sporti sono consolidate e l’unica accortezza sarebbe quella di rimuovere la vegetazione che le infesta.

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14

8 GABRIELLI B., 1993, p. 556. 9 Lo studio stratigrafico della controfacciata è analizzato in maniera sistematica nell’Alle-gato n°2 a questa tesi. 10 Brevemente sulla struttura originaria della chiesa tardogotica e della decorazione ba-rocca che meravigliosamente ornava la chiesa si veda il paragafo 1.7.5 e 1.7.6 (fonti MELLI P., 1982). 11 La sezione architettonica alla pagina 22 illustra questa parete e ne dettaglia le tracce. 12 Il vano della Chiesa era un tempo pavimentato con lastra a losanghe alternate in ardesia e marmo bianco di Carrara di cui sono in parte conservate alcuni frammenti sotto la con-trofacciata. Il progetto realizzato (GABRIELLI B., 1993, p.556) ha riproposto, giustamente, lo stesso disegno ma interamente in ardesia.

14 Vista della copertura presbiteriale dal basso15 I lacerti di affresco e la decorazione a stucco superstite (presbiterio)

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La zona presbiteriale è una scarsella a pianta leggermente trape-zioidale con il lato lungo del trapezio sulla navata, fino al 1959 questa parte della chiesa era rimasta voltata e venne demolita per ragioni di sicurezza.13 Sulle murature di sinistra in condizioni di parziale leggibili-tà è conservato l’apparato decorativo a stucco e alcuni lacerti di affre-sco sono ancora leggibili14, opera di Domenico Piola che affrontò senza l’apporto di V. Castello la dipintura della zona più sacra della chiesa15. Di maggiore interesse rimangono l’analisi degli stucchi che hanno un effettivo valore nell’articolazione dell’immagine delle pareti presbite-riali. Putti, girali, cornici ornano ancora precariamente la parete di sini-stra e la decorazione continua nelle fasci laterali all’altare maggiore16, e per la parte bassa nella parete di destra. Una parte di questa deco-razione è rovinata a terra il 7 luglio del 2015, campanello di allarme che rende ancora più urgente la necessità di un intervento conservativo.Per quanto riguarda questa decorazione bisogna enunciare le oppor-tune osservazioni critiche a riguardo dell’unico apparato artistico an-cora degno di nota. “Se effettivamente a Genova soltanto nella se-conda metà del Seicento lo stucco si libera quasi improvvisamente dei legami con la tradizione tardo-manierista in concomitanza della nascita del nuovo affresco decorativo e l’arrivo da Bologna dei pittori quadraturisti, dobbiamo porre in un momento di passaggio […] l’inte-ressante e problematica decorazione di Santa Maria in Passione dove è possibile immaginare ancora Paolo Brozzi l’ideatore dell’esuberante decorazione a stucco” (GAVAZZA E., 1963). La zona presbiteriale è pro-prio l’esempio di questa fase di passaggio, una decporazione già licen-ziosa e barocca nel dettaglio, ma ancora ingabbiata in una ripartitura a cartelle tipica del manierismo genovese. La volta crollata raffigurante Putti con Simboli della Passione di Cristo superava questa concezione manierista e le cornici mistilinee delle cartelle costituivano un unicum

13 MELLI P. ,1982 p.10. 14 L’Orazione dei Getsemani e la Flagellazione di Cristo. MELLI P., 1982 p.58. 15 GAVAZZA E., 1963 pp. 52-53. 16 L’altare maggiore è attualmente conservato nell’aula sconsacrata della vicina Chiesa di Sant’Agostino.

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con la decorazione a fresco17. La pavimentazione è parte conservata in opera, ma per 2/3 del tutto assente; una soletta in cemento rende praticabile in sicurezza questa parte della chiesa.

1.4.2 La Cappella tardogotica Il primo ambiente che si descrive con la struttura voltata originaria è la cappella gotica ricavata sul lato sinistro dell’altare maggiore. Essa comunicava in origine direttamente con l’aula della chiesa come testi-moniano le evidenze stratigrafiche e la sua costruzione coincide con la fase di adattamento a chiesa del palazzo Embriaci (seconda metà del XVI secolo).18 Oggi vi si accede dalla Chiesa Interna (vedi 1.4.5). A livello architettonico ha un impianto rettangolare sul quale si imposta una volta a crociera archiacuta con costoloni torici a scandirne le vele. La decorazione è quella tipica del periodo tardo gotico genovese: costola-tura a bande bianche e nere ad evidenziare le membrature architetto-niche. Sul lato est era presente una finestra ad oculo ancora leggibile esternamente in facciata. Successivamente nelle modificazioni di età barocca l’ambiente ha subito un restringimento ancora oggi esistente. Dal punto di vista conservativo non presenta problematiche strutturali di sorta, l’orizzontamento che la copre è stato consolidato nelle re-centi ristrutturazioni.19 Le superfici parietali presentano, meglio che in tutte le altre parti del complesso, quella che era la “pelle gotica” dell’e-dificio.20 Con operazioni di pulitura e consolidamento di alcune parti in fase di distacco sarebbe possibile tramandare al futuro le fattezze attuale dell’ambiente gotico senza particolari oneri. 17 Domenico Piola e Paolo Brozzi curarono i lavori di questa volta a vela intorno alla metà del XVII secolo. ALIZERI, 1846 pp. 327-328; SOVRANI RATTI ,1768 p.345. 18 Una perdita di intonaco sulla muratura in questione (lato aula della chiesa) fa notare la realizzazione in mattoni disposti a coltello e l’arcone presente dalla parte interna chiarisce ogni dubbio sulla correttezza di questa deduzione già esposta da BONORA F., 1982. 19 GABRIELLI B., 1993. 20 Si deve infatti immaginare una chiesa gotica con volte a crociera, uno spazio semplice ma sottolineato nella sua spazialità da decorazioni a bande bianche e nere proprio come si vedono ancora ben conservate nell’ambiente.

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17

18 1916 Volta a crociera della cappella - 17 Arcone con decorazione a bande posto tra la chiesa e la cappella - 18 Materiale lapideo all’interno - 19 Ingresso cappella.

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1 Cappella attribbuita a Lazzaro Tavarone2 Chiesa interna con decorazioni a fresco3 Cappella gotica4 Ante coro con lacderti di decorazioni barocche5 Vano ricostruito nel 1997, botola di accesso alla torre campanaria

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5

Il secondo ambiente superstite, che è quello più interessante dal punto di vista artistico, si inserisce sul fianco sinistro della navata ri-spetto all’altare maggiore ed è l’unica cappella della chiesa. La sua rea-lizzazione si pone secondo le fonti documentarie21 in un periodo subito precedente ai grandi lavori di decorazione barocca che interesseranno la Chiesa a partire dalla metà del secolo XVII. La decorazione a stucco e a fresco è con certezza attribuita a Lazzaro Tavarone22 che si attenne alla moda tardo manierista ancora in voga a Genova nella prima metà del ‘60023. La cappella ha pianta pressoché quadrata e una volta a vela la sormonta. La volta (Figura 21) è suddivisa in vari riquadri spartiti da cornici a stucco dorate che al centro inquadrano un ottagono dove è ancora chiaramente leggibile (e restaurabile) un Assunzione della Vergine. Quattro medaglioni ornano i peducci delle volta in cui sono rappresentati La Nascita della Madonna, la Presentazione al Templio, la Visitazione e l’Annunciazione24. Parte di decorazione ancora conser-vate sono presenti nei sottarchi della volta dove però la decorazione a fresco è di difficile lettura. Sull’esterno della cappella sono ancora presenti le due paraste che inquadravano l’arcone di accesso alla cap-pella. Qui l’analisi dello stato di conservazione è più complessa. Se da un lato le pitture murali e gli stucchi sono le parti meglio conservate dell’intero sito dal punto di vista strutturale è doveroso sottolineare la presenza di fessurazioni tipiche del cinematismo di rottura dell’ar-co all’ingresso. È evidente, osservandolo dal basso, un disassamento della chiave dell’arco rispetto alla giacitura dell’imposta. Per quanto concerne la volta è presente una struttura provvisionale che dovreb-be aiutare a sorreggere la struttura. Per risolvere i problemi di tenuta

21 RATTI 1766 pag. 99; ALIZERI 1846 pag. 333. 22 “pinse in questa cappella alcuni misteri della madonna a fresco” ALIZERI 1846 p.333. 23 “nella distribuzione degli ornamenti di queste pitture volle per sua mera vaghezza attenersi alla maniera del Bergamasco Castello e la raggiunse perfettamente” RATTI 1766 p.145. 24 MELLI 1983 pag.52.

1.4.3 La Cappella del Tavarone

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strutturale, garantendo il non danneggiamento delle pitture, andrebbe armata la calotta all’estradosso possibilmente a secco.25 All’estrados-so di questa volta troviamo un terrazzo esterno, realizzato negli ultimi lavori di recupero. Osservando le infiltrazioni d’acqua nelle parti sot-tostanti, si deduce che il manto di copertura andrebbe rimosso (ope-razione comunque indispensabile per consolidare strutturalmente la volta sottostante) e ricostruito uno nuovo meglio impermeabilizzato. L’apparato decorativo è minacciato principalmente dalle infiltrazioni provenienti dalla copertura, ma se lo compariamo con le pitture mu-rali del resto dell’edificio è la decorazione meglio conservata. Figure, decorazioni, colori sono ancora nitidamente distinguibili. Cherubini, volute e cornici a stucco hanno perso gran parte della loro doratura, ma conservano le fattezze. I colori a fresco sono in parte degradati, ma si ravvisano ancora quasi integralmente i soggetti rappresentati. Un recupero di questa cappella sarebbe auspicabile, ma si tratterebbe di un intervento non limitato ad un restauro delle superfici e ad un risanamento delle infiltrazioni. Non è chiaro quanto sia compromessa la tenuta della volta. L’intervento strutturale è senza dubbio alcuno il più urgente dell’intero complesso e pertanto è urgente individuare una strategia di intervento.

1.4.4 La Chiesa Interna Al fianco della Cappella del Tavatone (1.4.4) è un grande vano ret-tangolare che insiste sul lato sinistro della navata un tempo come do-cumentato dalle foto separato da una grata in ferro. Pertanto si può

25Costruendo un telaio di supporto a cui ancorare dal di sopra la volta. E’ una sistemazio-ne tutta da verificare e studiare. È necessaria un ispezione della calotta all’estradosso e verificare l’effettiva condizione statica. 26La tipologia della chiesa interna eraè declinata in tre diverse varianti nei conventi adi-centi di Santa Maria in Passione, Santa Maria delle Grazie la Nuova, e in San Silvestro. In S.Maria in Passione si sviluppava al primo livello perpendicolare allo sviluppo della chiesa; in S. Maria delle Grazie la Nuova è disposta parallelamente all’andamento della navata; in San Silvestro era perpendicolare ma al secondo livello. Gavazza E.-Magnani L.-Leonardi A-De Marco B 2011

Particolare di decorazione ad affresco della volta. Pennacchio della volta

La volta affrescata della cappela del Tavarone, con la puntellatura di sostegno

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Sezione orizzontale a quota 39 m s.l.m

Sezione trasversale A-A’

39,1 m.l.m.

37,5 m.l.m.

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A A’

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affermare con certezza che questo ambiente fosse destinato alla vita di clausura e rappresentasse la cosiddetta Chiesa Interna vano adi-bito alla preghiera.26 Questo ambiente fu ricavato ampliando una già esistente appendice laterale del antico palazzo Embriaci sfondando il muro di separazione ed affiancandosi fino alla chiesa.27 Attualmente nella parte più ad est dell’ambiente, rimasta a cielo aperto, sono leg-gibili i resti delle murature antelamiche28 del antico palazzo. Mentre in prossimità della chiesa sono ancora in parte superstiti le volte a crociera che coronavano il locale. Una copertura reticolare in vetro e acciaio copre attualmente il locale e, interposto tra l’estradosso delle volte a crociera superstiti e la copertura, un orizzontamento in cemen-to armato che assolve alla sua funzione di controvento per migliorare la stabilità delle intero edificio29. In prossimità della navata su questo vano c’è la proiezione del campanile: quest’ultimo non ha fondazioni di sorta e solo due sono le facce del campanile che hanno sotto pareti portanti. L’apparato decorativo in questa parte dell’edificio è ancora in parte leggibile, la documentazione fotografica ci ragguaglia, però, sul veloce degrado che dagli anni ’60 ad oggi queste decorazioni hanno su-bito. La lunetta posta sulla parte terminale del lato corto dell’ambiente raffigurava un tema iconografico inconsueto e molto particolare che ornava la chiesa interna: un Cristo portatore di croce con al seguito mona-che agostiniane con la croce in spalla. (vedi Figura 47 a pag. 56). Di questa decorazione non sappiamo l’autore ma possiamo stilisticamente da-tarla come risalente alla seconda meta del ‘500.30 Attualmente sono visibili solo alcuni lacerti della veste del cristo, ma l’importante testi-monianza delle presenza delle monache è ormai del tutto perduta. Alla seconda metà del ‘500 o anche ai primi anni del ‘600 sono databili i frammenti di decorazione murale che ornano le volte dello stesso

28 BONORA F. 1982. 29 Murature in conci di calcare marnoso squadrati (pietra di promontorio) apparecchiati con un sottile strato di malta. 29 Lagomaggiore F. 1993 pp. 564-567. 30 Melli P. 1982 p. 39.Gli orittontamenti in calcestruzzo armato che controventano le scarpe murarie

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29 I resti della chiesa interna

30 Particolare di affresco in una muratura dell’ante-coro

vano. In esso però è ben leggibile un interessante disegno preparatorio che precedeva l’affrescatura di una balaustra dipinta.31

L’assetto statico di questa parte non presenta alcuna pericolosità ed è garantito anche dai pesanti interventi degli ultimi lavori.32 Lo sta-to conservativo della parte decorativa è pessimo. Come accennato è ormai compromessa la leggibilità d’insieme e pochi sono i lacerti di pigmenti. Interessante sarebbe conservare lo stato di fatto e, impe-dendo un ulteriore deperimento della materia, valorizzare l’importanza documentaria che possono rappresentare le tracce della preparazione che eseguivano i quadraturisti prima della finitura ad affresco. Questa stanza è crocevia della parte archeologica del sito. Da questo ambiente si accede alla chiesa, è direttamente collegato con una porta al Vicolo di Santa Maria in Passione, con una scale si accede internamente al complesso al livello degli Orti. Attualmente dopo interventi di straordi-naria pulizia, e sgombero del materiale lapideo di cantiere da parte dei cittadini è agibile, praticabile e in sostanziale sicurezza.

31 Probabilmente questa parte della decorazione è avvenuta in concomitanza delle de-corazione dell’aula ecclesiale visto il pregio delle architetture dipinte analogo alle altre, un tempo presenti nella chiesa del Brozzi MELLI P. p. 54. 32 Per il dettaglio delle tecniche di esecuzione di questi lavori proprio su questo vano si rimanda a Lagomaggiore F. 1993 pp. 564-567.

23 La chiesa interna con la scala di collegamento agli orti24 Il terrazzo prospiciente l’ante-coro, è la copertura soprastante la cappella del Tavarone25 Volte della chiesa interna. Affresco Figura femminile in medaglione 26 Parete ovest interna dell’ante-coro. Affresco. arcangelo27 Volta della chiesa interna. affresco. medaglione con vescovo 28 Parete est interna dell’ante-coro. Affresco decorazione barocca29 La chiesa interna30 Parete ovest interna dell’ante-coro. Affresco di paesaggio

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Sezione orizzontale a quota 46,3 m s.l.m

Sezione trasversale B-B’

39,1 m.l.m.

B B’

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31 La stanza dell’ante-coro con ancora allestito il cantiere del 1997

Sopra i tre ambienti appena descritti si articola il secondo livello della parte superstite. Esso è agibile con una scala di nuova costruzione dal livello degli Orti. Antistante la parte coperta c’è un terrazzo (copertura della Cappella del Tavarone 1.4.4) un tempo punto cardine della distri-buzione degli ambienti del intero complesso conventuale che a questo livello vedeva la presenza, come si desume dalle piante storiche ritro-vate33, di una grande corridoio (probabilmente quel corridoio affrescato immortalato nella foto del Cresta, Figura 51 pag. 57, nel 1942 errone-amente identificato dalla Newcome Schleier nel 1978 come l’oratorio). Questi corridoi sono scomparsi compresa la loro decorazione che sap-piamo dalle fonti fotografiche collocabile stilisticamente a cavallo tra il tardo manierismo e la stagione del nuovo ‘600 genovese.34 Attualmen-te nell’area è superstite soltanto una rappresentazione di monache por-tatrici di croce35 che pare ripetere la più grande raffigurazione, di cui ab-biamo ricordato la presenza nella Chiesa Interna, oggi quasi del tutto scomparsa. Il vano coperto contiguo era l’ambiente che precedeva il Coro delle monache posto nella prima campata della chiesa. Per metà, questo vano, è rimasto voltato, in prossimità del campanile, e per metà oggi presenta un solaio in calcestruzzo armato a vista. Gli interven-ti del 1997 hanno ripristinato e garantiscono la sicurezza strutturale dell’ambiente.36 Al suo interno si sovrappongono tre fasi stilistiche: gli intonachi del quattrocento con la tipica decorazione a pizzo bocciardati per far aderire la nuova decorazione; una decorazione tardo manierista forse coeva o precedente alla decorazione della cappella del Tavarone; una decorazione seicentesca risalente sicuramente all’ultima fase di aggiornamento del complesso.37 Queste pitture, essendo state pro-tette con il nuovo solaio e nuovi infissi alle bucature, non presentano fenomeni di degrado in corso. Sono in pessimo stato di conservazione e andrebbero assicurate nuovamente al supporto sottostante in al-cune parti in fase di distacco, risarcite in alcune fessurazioni, pulite da incrostazioni di malte delle ultime lavorazioni eseguite in cantiere. La stanza è attualmente tornata accessibile dopo un intervento di pulizia straordinario e la realizzazione di una mostra fotografica.

33 Immagine numero 1 dell’Allegato n°1. 34 GAVAZZA E., 2011. 35 Nel secondo capitolo è pensato e descritto un intervento di recupero di questa pittura murale. 36 Lagomaggiore F., 1993 pp. 564-567. 37 Le fonti collocano il Tavarone operante nel convento i primi decenni del XVII secolo. Non sappiamo se alcuni lacerti all’oggi conservati nella stanza dell’ante-coro appartengono alla bottega del pittore, ma è proponibile una collocazione cronologica di questi frammenti in quel periodo.

1.4.5 L’ante-coro

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32 Vista della Torre Campanaria dal livello degli Orti

Il secondo e ultimo livello è il vano di accesso alla cella campanaria. Attualmente non ci sono collegamenti verticali che uniscono il vano alla parte sottostante, unica modalità di accedervi e mettendo una scala mobile dall’esterno. Il campanile sarebbe accessibile da questo ambiente ma è assente una scala di collegamento. Il vano di identiche dimensioni a quello sottostante è stato completamente ricostruito negli ultimi restauri. La soffittatura è una volta a botte ribassata in calcestruzzo armato che vede inseriti due pozzi luce dalla copertura a cui non sono mai stati aggiunti degli infissi. Come è facilmente intuibi-le questa ultima condizione a fatto si che dal 1997 ad oggi il vano fos-se allagabile dalle piogge e le conseguenze nell’ambiente sottostante sono evidenti. In precedenza il vano era in comunicazione con l’ante-coro con una scala che bucava le volte tra i due ambienti proprio sotto la proiezio-ne del campanile. Ai fini di consolidare il già precario basamento della torre campanaria è stato tamponato in calcestruzzo. Alcune aperture non più utilizzate nelle murature sotto il campanile sono state chiuse con muratura in mattoni pieni ammorsati con la muratura esistente ai fini di garantire la massima continuità meccanica al paramento mu-rario.38

Il Campanile è una struttura composta di quattro setti murari che non hanno fondazione di sorta e solo due delle murature in elevato hanno sotto un corrispettivo muro portante, le restanti si appoggiano diret-tamente su delle volte. Durante il consolidamento eseguito nel 194839 è stato notato che ad uno dei quattro muri della scatola muraria era-no addossati gli altri tre. Questo fa presupporre che in prossimità del muro di spina in origine si stagliasse un campanile a vela che in se-guito è stato trasformato in torre, usando, peraltro quasi con certezza,

38 Queste operazioni sono ben descritte da LAGOMAGGIORE F.,1993 pp. 564-567 39 Un primo consolidamento e recupero della torre campanaria è avveduto ad opere del Genio Civile con la supervisione della Soprintendenza, rifacendo la copertura, i pinnacoli e rintonacando a base di calce idraulica, operando pure una operazione di liberazione di una bifora che nei secoli era stata tamponata con il crescere in altezza dei corpi di fabbrica limi-trofi. MELLI P., 1982 e GABRIELLI B.,1993

1.4.6 La Torre Campanaria

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colonne di rimpiego dell’antico palazzo preesistente per finestrare la torre.40 Dopo le distruzioni belliche questa torre ha sfidato la sorte rimanen-do in piedi senza la controspinta che i corpi di fabbrica del convento esercitavano su essa. Nei consolidamenti realizzati tra il 1992 e il 1997 vengono innalzate due scarpe murarie in calcestruzzo armato, ade-renti alla muratura esistente, inclinate a 45° per consolidare lato est del campanile. Le due pareti inclinate sono tra loro controventate con tre orizzontamenti a quote diverse aanche essi in cemento armato.41 Quella più in basso, per alleggerire visivamente l’impatto generato sul-le parti superstiti, è “sfondata” da un ovale che interrompe la soletta armata. Forse questo è un tentativo di rivisitazione dello sfondamento prospettico barocco dipinto nella volta a crociera li a fianco, ormai quasi del tutto illeggibile escluso il disegno preparatorio. Tralasciando il non risolto impatto con il contesto, queste strutture mettono in sicurezza la torre, altrimenti realmente in precario esercizio.Probabilmente la riserva statica dell’edificio storico ha permesso di non mandare in collasso le poche murature rimaste in opera sotto la torre campanaria considerando anche che la stessa ha una struttura leggera con molte bucature.Per quanto riguarda la presenza di tracce decorative gli unici lacerti persistono proprio nel sottarco delle bucature del campabile. Il vano sottostante non conserva traccia di sorta.Gli interventi consigliabili sarebbero quelli di dotare di un collegamento verticale iil vano e la torre campanaria.

40 BONORA F., 1982 41 LAGOMAGGIORE F., 1993 pp. 564-56733 Chiesa e campanile prima e dopo la Guerra. Si vede la necessità dell’intervento

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.4 Strutture architettoniche e elementi decorativi superstiti

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43 m.l.m.

37,6 m.l.m.

40,2 m.l.m.

41,2

Sezione orizzontale a quota 44,5 m s.l.m.N

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Le rovine del primo blocco conventuale si impostano a lato degli spazi pianeggianti a verde detti Orti di S. Maria in Passione. Il volume edi-lizio in origine era ben più alto dell’attuale copertura in struttura re-ticolare in acciaio e vetro.42 Per appoggiare questa nuova struttura a pensilina, aperta sui lati corti, sono stati elevati, sui monconi dei muri perimetrali rimasti, nuovi muri per arrivare ad un livello orizzontale. Il risultato è qualcosa di avulso dal contesto di non trascurabile impatto estetico, ma assolve alla funzione di riparo delle rovine. Tutti gli inter-venti realizzati tra il 1992 e il 1994 sono stati pensati come un’opera di salvataggio, per lasciare spazio ad un futuro progetto, un domani.43 Il domani è giunto e il convento è ancora sormontato da questa coper-tura tratto distintivo di questa porzione. I monconi superstiti, come il resto del complesso raccontano una storia di stratificazione. A partire dagli ambienti più bassi posti ad una quota inferiore sia al vicolo sia agli Orti si possono osservare molte tracce di varia natura e origine. Questi ambienti erano sicuramente le cantine del convento e sono in parte ricavati scavando la roccia della collina che timidamente affiora scalpellata sui muri perimetrali di questi vani. Altra traccia interessan-te è il sistema di raccolta delle acque reflue che è ancora in opera. Sono conservati in elevato il corrispondente di due piani del convento e una volta a botte ricopre ancora un solo ambiente. Sulle murature super-stiti affiora un’apparecchiatura muraria tipica del periodo medioevale a Genova: conci squadrati in pietra di promontorio appartenenti ad un edificio preesistente rispetto al convento.44 Ma la vera particolarità è che questa parete si appoggia su una grande bucatura realizzata chia-

42 Dal piano degli orti a quota 41,5 s.l.m l’edificio si doveva elevare intorno ad una quota di almeno 55 s.l.m. Questo è desumibile sui segni dei tetti lasciati in alcune porzioni di mura-ture superstiti del campanile e da alcune foto storiche tra cui la più rilevante, non presente all’Archivio Storico Fotografico di Genova, ma rintracciabile nell’web. http://www.isegreti-deivicolidigenova.com/p/le-chiese-di-genova.html 43 GABRIELLI B. 1993 p. 559 44 Deduzioni logiche spendibili a seguito delle ricerche condotte da Tiziano Mannoni. SI veda la tabella che sinteticamente classifica cronologicamente le diverse tecniche mu-rarie in pietra in Liguria. MANNONI T. in Le tradizioni liguri negli impieghi delle pietre, in P.MARCHI 1993 pp. 37-44

1.4.7 Il Convento

34 Interni del convento, in primo piano l’unico ambiente voltato superstite

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36.3

38.4 m s.l.m

41.3

37.5

40.8

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ramente in seguito. Per queste ragioni è leggibile una chiara opera-zione di cuci-scuci45 (sulla sinistra dell’arcone che si osserva nella Foto 34 di nella pagina precedente). Dal punto di vista manutentivo questi spazi non soffrono fenomeni di degrado attivi46, la loro accessibilità non è ostacolata anche se sono privi di pavimentazioni stabili, non si corrono pericoli di sorta. I monconi in aggetto delle volta non hanno fessurazioni che fanno presagire crolli. Gli interventi preventivi consi-gliati riguarderebbero il monitoraggio di eventuali spostamenti micro-scopici nelle parti potenzialmente pericolose. In questi ambienti non è presente traccia di decorazione. Questo corpo è collegato con un passaggio sotterraneo, passante sot-to il vicolo di Santa Maria in Passone, con un’altra porzione di rovine. Una tettoia in lamiera che appoggia su una struttura in acciaio fondata a terra con dei plinti in calcestruzzo semplicemente appoggiati copre le rovine. Anche questa struttura venne pensata provvisoriamente per riparare i resti dei monconi murari dai danni causati dall’esposizione alle intemperanze climatiche. A differenza dell’altra porzione del con-vento molte parti sono puntellate, i camminamenti non sono sicuri e ci sono effettivi pericoli di crollo. L’uso di questa parte è oggi poco imma-ginabile ed è per questo che non verrà trattato come parte del progetto di tesi, rimandando la questione ad un futuro prossimo venturo. Il convento come è deducibile dalle planimetrie storiche e come è do-cumentato da alcune fotografie scattate durante la Seconda Guerra Mondiale dal Cresta si estendeva fino a Stradone Sant’Agostino dove le monache avevano fatto costruire dopo i bombardamenti francesi del 1684 un edificio per case borghesi che affittavano riscuotendo una lauta rendita.47 L’edifico raro esempio di architettura Rococò a Genova

45 Come vedremo in seguito lo studio stratigrafico del complesso, anche se non sistematico su tutte le murature, ha permesso tramite deduzioni logiche, cronotipologiche, osservazioni su tecniche e dei materiali di individuare le fasi le particolarità del luogo con la storia arche-ologica più importante del centro storico di Genova. Si veda per l’archeologia in architettura A.Boato 2008 e T.Mannoni 1997. 46 Sono stati sostituiti due vetri rotti della copertura nel 2015 senza i quali sarebbe conti-nuato al di sotto il dilavamento delle teste murarie operato dagli agenti atmosferici. 47 L.Grossi Bianchi – E.Poleggi, 198036 Vicolo di Santa Maria in Passione

35 Vista della pensilina in struttura reticolare dal lato corto

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.4 Strutture architettoniche e elementi decorativi superstiti

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è ancora intatto su Stradone. Del chiostro del convento non è rimasto che un moncone di fondazione sulle attuali terrazze verdi.48

Gli Orti sono l’unica parte esterna del convento che ancora presenta il suo impianto originario: una parte a giardino affiancata da un portico. Oggi è visivamente distinguibile la scansione delle campate del portico grazie alla presenta dei monconi murari, l’unica parte voltata ancora in opera è una loggetta che presenta però evidenti problemi struttu-rali. Un piccolo muretto di contenimento cinge il terrapieno degli orti sul quale sono ancora leggibili i segni della malta di allettamento sulla quale era posizionata una balaustra in colonnine probabilmente ana-loga a quella nel Chiostrino di Santa Maria di Castello.49 Importante testimonianza della vita quotidiana del convento è il siste-ma del lavaggio dei panni esterno ancora conservato. Il lavatoio con-serva le vasche foderare in lastre di ardesia.50 È conservata la cisterna di raccolta delle acque piovane posta sotto il piana di calpestio degli orti. Ad essa ci si accede con un pozzo, detto Gagiolo51, la cui bocca in marmo è ancora in opera. Dirimpetto sulla parte interna del porticato è presente un braciere con affiancato un frammento del vaso dove si metteva a riposare la cenere per fare la liscivia. Le pavimentazioni esterne sono state risistemate negli ultimi lavori di restauro e dopo l’operazione di bonifca delle aree operata nel 2014 questi luoghi hanno riacquisito una vera agibilità.

48Si veda il paragrafo 1.2. 49L’ultima colonnina a sud del muretto è conservata in parte inglobata nella muratura esi-stente, non è intuibile l’altezza di questa particolare balaustra divisoria perchè purtroppo la colonna non è integra fino alla sua sommità. 50Nel secondo capitolo è descritto l’intervento di restauro conservativo realizzato della te-sta muraria delle vasche per poter tornare ad utilizzarle. 51BOATO A. e MANNONI T., 1998 p.98.

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38 Vista degli Orti con il secondo piano i resti del porticato del Convento37 La parte del Convento non accessibile sormontata da tettoie in lamiera

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Per quanto non sia un rilievo rigoroso il documento qui presentato rappresenta una sintesi dei tanti rilievi elaborati e prodotti dallo scri-vente dal 2012 ad oggi. Un lavoro minuzioso di acquisizione di materiale già elaborato, di misure effettuate mediante rilevazioni longimetriche, rilievo degli elevati, con successiva vettorializzazione di fotoraddriz-zamenti e rilievo a vista delle murature. Non è stata una sistematica campagna di misurazione come ci si aspetterebbe, ma frutto di varie fasi. Un primo rilievo è stato eseguito sui giardini detti “di Babilonia” nel 2012 in occasione del primo progetto presentato di cui si daranno delucidazioni nella Parte 2 della tesi.1 Sull’aula della Chiesa esisteva già del materiale prodotto dalla Scuola di Specializzazione in Beni Ar-chitettonici e del Paesaggio (S.S.B.A.P.), ma solo in formato cartaceo. A questo rilievo ne è stato affiancato un altro altrettanto rigoroso dell’aula della Chiesa eseguito durante il Laboratorio di Restauro Ar-chitettonico di A.Boato (studenti: Rocca, Langella, Odone, Pacini).2

Nel corso degli anni, dal 1992 ai giorni nostri, sono state eseguite siste-matiche campagne di rilievo come è testimoniato dai numerosi bollini per la rilevazione dei punti3. Nelle varie ricerche condotte in uffici co-munali, in Università e Soprintendenza non risultano conservati rilievi aggiornati allo stato dei fatti (dopo il progetto civis si intende) e non è rintracciabile materiale digitale di sorta. L’obbiettivo era restituire un disegno misurato non solo della Chiesa ma dell’intero complesso, comprese le aree verdi e il contesto urbano collinare. Le finalità di questo lavoro erano di fare una sintesi del ma-teriale prodotto negli anni restituendo una descrizione dettagliata alla scala sia urbana sia del dettaglio delle pareti, anche se non rigorosa, utile un domani per acquisire dati su una base omnicomprensiva del complesso di Santa Maria in Passione. E in definitiva consegnare un documento completo, utile per future ricerche, sull’intera area all’oggi mancante.1 Si veda Allegato n°3, “Progetto Conviviale 1.0”.2 Laboratorio di Restauro Architettonico, Anno Accademico 2012/2013 Prof.ssa A.Boato.3 Nel corso dell’anno accademico 2000/2001 è stato svolto un laboratorio dal Professor Mannoni. Gli studenti si sono occupati di rilevare le di chiesa e convento. Essendo la docu-mentazione prodotta suddivisa in piccoli stralci non è stato utile avvalersi di questi rilievi. 4GABRIELLI B., 1993.

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.5 I rilievi

1.5 I rilievi

39 Gli Orti di Santa Maria in Passione

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Sezione A - A’

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La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.5 I rilievi

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Sezione B - B’

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La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.5 I rilievi

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Sezione C - C’

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Per avere un quadro abbastanza esaustivo del valore storico che l’area in questione rappresenta bisogna far riferimento alle numerose ricer-che che dal 19521 hanno interessato la Collina di Castello inizialmente sotto forma di ”semplici sondaggi atti a provare l’esistenza di strutture e depositi archeologici sotto la coltre di macerie”. Gli sventurati avve-nimenti della guerra hanno permesso di gettare luce sugli inizi della vicenda urbana genovese che prende forma proprio sulla sommità di questa collina. A tracciarne i contorni, per la prima volta, saranno Ti-ziano Mannoni e Ennio Poleggi in un articolo del 1974 in Archeologia medievale intitolato “Fonti scritte e strutture medioevali del Castello di Genova” e ,a seguire, lo stesso anno in Controspazio sempre Poleggi insieme a Grossi Bianchi con un articolo intitolato “la Collina di Castel-lo nella vicenda urbana di Genova”.2 In questi due articoli viene per la prima volta analizzato, al di fuori dei riferimenti mitici passivamente accettati dalla storiografia ottocentesca sulla nascita di Genova, l’ori-gine del Castrum Januae mettendo a confronto fonti scritte e testimo-nianze archeologiche. Altro testo fondamentale per comprendere la storia dell’area è “S. Ma-ria in Passione. Per la storia di un edificio dimenticato” testo a cura di Piera Melli uscito in una collana di Quaderni realizzati in collaborazione tra Soprintendenza archeologica della Liguria e la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola. Il Quaderno n°5 raccoglie le fonti documentarie con-cernenti il complesso conventuale elaborando un quadro non limitato alle notizie provenienti dai documenti d’archivio, ma mettendo a siste-ma le informazioni ricavate dai numerosi scavi archeologici.3

E’ quindi necessario puntualizzare l’assoluta rilevanza storica che que-sti luoghi hanno per delineare la vicenda urbana di Genova: la Collina

40 Copertina del libro Una città portuale del Medioevo. Genova nei secoli X-XVI. 1 I primi sondaggi nell’area di Santa Maria in Passione vennero effettuati tra il 1952 e il 1954 in due successive campagne di scavo da l’allora Soprintendenza alle An-tichità della Liguria e dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri sotto la direzione di Nino Lamboglia” tratto da LAMBOGLIA N.,1955. 2 Da storici e eruditi di storia locale come Francesco Podestà e Amedeo Villa viene inquadrata la Collina di Castello come il posto mitico di fondazione della Città. In Storia di Genova DE NEGRi T. O., 1974 3 MELLI P., 1984 pp. 66-95.

1.6 Le fonti bibliografiche

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di Castello, è ormai conclamato, ha ospitato il primo nucleo fortificato della città e ha visto susseguirsi intricati avvicendamenti urbani. Per approfondire l’interessante storia del contesto collinare si rimanda, ol-tre ai già citati articoli, a “Una città portuale nel Medioevo. Genova nei secoli X – XVI” (L.Grossi Bianchi – E.Poleggi, Genova, 1980) .L’area oggetto di studio4 corrisponde con buona approssimazione a dove un tempo era edificato il complesso conventuale di Santa Maria di Passione e la Chiesa omonima annessa (vedi mappa del XVIII secolo qui a fianco con sovrapposta l’attuale area di progetto e le parti dell’o-riginario convento). Pertanto l’indagine ha riguardato primariamente l’analisi delle fasi storiche attinenti la chiesa e quello che fu la prima area dell’insediamento delle monache dette le “Povere di San Silve-stro”. Per un approfondimento della storia della collina si rimanda alle fonti citate pocanzi. Ad affiancare l’esegesi delle fonti scritte, un altro strumento cognitivo, importante veicolo per la comprensione dell’oggetto di studio, è stata l’indagine archeologica delle evidenze stratigrafiche degli elevati.5 An-che in questo caso prima di approfondire il perché dell’ importanza di questa fase di anamnesi, è doveroso ricordare l’importante contributo reso alla conoscenza archeologica di questi luoghi dagli studi e le ricer-che fatte da Ferdinando Bonora, pubblicate all’interno del Quaderno n°5 a cura di Piera Melli.6 Si propone a seguire una sintesi delle vicende storiche con annesso materiale grafico di approfondimento della Chie-sa e Convento di Santa Maria in Passione.

41 Ricostruzione planimetrica della Collina di Castello nel XVII secolo

4 Nel Paragrafo 1.0 è descritta architettonicamente. 5 Si rimanda per l’approfondimento all’Allegato n°2. 6 BONORA F., 1982

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.6 La storia e le fonti

Aree occupata in origine dal convento di Santa Maria in Passione

Aree oggetto di studio

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L’applicazione del metodo scientifico di studio archeologico dell’eleva-to è un indispensabile elemento a servizio della logica per verificare/confrontare le nozioni e le informazioni storiche con le evidenze strati-grafiche. In un sito, dove pioneristicamente si sono fatte le prime ricer-che cronotipologiche sull’archeologia dell’elevato, era doveroso appro-fondire la parte di ricerca stratigrafica. Il quadro che emerge dalle fonti storiografiche è di assoluta complessità e pertanto l’affiancamento di un indagine scientifica è di grande aiuto. Lo studio dei vari elementi co-struttivi e dei loro materiali, con relativa campionatura e misurazione, è servito a discriminare cosa in apparenza, da una prima analisi, pote-va sembrare analogo1 o di poco valore. Nello stesso presente convivo-no tracce risalenti a secoli e storie costruttive differenti, stratificate e di conseguenza confuse dal tempo cancellatore.2 È emerso un quadro di sintesi e conferma di quanto citato nelle fonti documentarie e una confutazione precisa di svariati aspetti. E’ certa, ad esempio la presen-za di una Domun Embriaci del XII secolo prima della costruzione della chiesa, in controfacciata ne sono conservate ampie parti. Non vi è dub-bio che con la perdita di importanza della Collina di Castello il palazzo subisca un riadattamento funzionale in seno alle esigenze di una clas-se artigiana con disponibilità economiche più modeste. Altra certezza è che i mastri costruttori della chiesa siano stati attenti a riutilizzare murature già in opera e a rimpiegare materiali di spoglio delle parti inevitabilmente demolite per il riadattamento funzionale a chiesa.

La controfacciata dell’ex chiesa di Santa Maria in Passione si presenta a noi come mutilo moncone di un edificio non chiaramente identifi-cabile, ad un disattento osservatore potrebbe sembrare una muratu-ra mal riuscita fatta di materiali di spoglio e di rimpiego casualmente amalgamati insieme. Essa fra tutte le murature superstiti è quella che

1.7 La Stratigrafia archeologica. Il caso della controfacciata.

1 Alcune unità stratigrafiche senza una loro campionatura e una successiva valutazione cronotipologica non avrebbero trovato una collocazione temporale certa. Dettagli da un punto di vista scientifico, ma piccoli passi per la comprensione organica dell’insieme del sito. 2 BOATO A., 2008 53 La controfacciata della chiesa

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La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.7 La Stratigrafia archeologica

conserva la più ricca stratificazione. Purtroppo le recenti ristruttura-zioni3 hanno annullato la leggibilità stratigrafica della facciata che fino al 1992 presentava la medesima situazione dell’attuale controfaccia-ta. Le teorie della conservazione non erano forse all’epoca pronte per operare un semplice consolidamento delle tracce senza aggiungere e senza togliere4. Questo ha compromesso la possibilità di realizza-re uno studio archeologico come quello fatto nel 1982 da F. Bonora il quale potè confrontare le tracce da una faccia all’altra della muratura.Allegato alla tesi è presente lo studio analitico dei rapporti stratigra-fici5, l’interpretazioni dei suddetti, lo studio e la ricostruzione grafica delle fasi che si sono succedute nei secoli su questa muratura. Ad af-fiancare l’analisi condotta nel 2013 è presente nell’allegato lo studio stratigrafico realizzato da Ferdinando Bonora6. Non si ravvisano sco-perte clamorose rispetto al lavoro appena citato, ma una descrizione analitica tabellata di tutte le unità stratigrafiche e una campionatura dei materiali7 (non praticata all’epoca della prima stratigrafia) hanno permesso di confrontare, dare valore scientifico e fornire un quadro più dettagliato alla storia materiale del manufatto.Nel seconda parte di questa tesi si danno delucidazioni su come lo studio archeologico e la consapevolezza del valore documentario delle stratificazioni debbano condizionare positivamente le scelte di pro-getto sul sito. Il valore delle tracce in questo contesto assume un’im-portanza gerarchica su qualsiasi scelta di progetto, sia anche esso un piccolo e circoscritto intervento.L’allegato 3 è dedicato allo studio stratigrafico della controfacciata.

3 GABRIELLI B 1993 p.559 4 Per un approfondimento sulle possibili strategie di conservazione si veda il secondo capitolo che spiega l’idea di conservazione delle permanenze che questa tesi propugna. 5 Eseguito nel Laboratoria di restauro architettonico anno accademico 2012/2013 Prof.ssa A.Boato (Studenti Rocca M., Langella F., Odone P, Pacini A.) 6 BONORA F. 1982 7 L’analisi dei campioni è stato eseguita dal Roberto Ricci.54 La stratigrafia della controfacciata realizzata nel 1982.

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Questo complesso conventuale presenta la sovrapposizione del-la più intricata delle storie; storie disvelate dal suo essere un edificio non più integro, mutilo di gran parte dei suoi elementi, ma incredibil-mente “parlante” grazie alla possibilità di osservare le sue murature (stonacate, rotte o sezionate in più punti) e confrontarle con le fonti documentarie. Sufficiente, questo, per comprendere la storia non solo dell’edifcio, ma della vicenda urbana dell’intorno. Rudere a seguito dei bombardamenti aerei su tutta la collina durante il secondo conflitto armato, ma prima di questo: austero palazzo di una delle famiglie più influenti nella società genovese del ‘200; umile casa di un formaggia-io; nel 1462, chiesa tardogotica costruita dalle Povere di San Silvestro (monache agostiniane) non ancora importanti sul panorama cittadino; ricca e fastosa chiesa barocca nel XVII; caserma delle guardie di città nel XIX secolo dopo la chiusura del convento e sede nel periodo fasci-sta dell’Opera nazionale maternità ed infanzia.1 Queste fasi, appena sommariamente esposte, sono riscontrabili pre-cisamente nelle murature con l’indagine archeologica degli elevati. Lo studio stratigrafico ha reso possibile comprovare scientificamente queste molteplici stratificazioni in maniera precisa e sistematica.

1.7.1 Il suo contesto: la Collina di Castello La Collina di Castello, dove è locato il complesso conventuale e la Chie-sa di Santa Maria in Passione è la zona di insediamento del primo nu-cleo abitato di origine preromana della città di Genova.2 Dal toponimo, ancor oggi conservato, si capisce la posizione di controllo che ha sem-pre avuto. Tracce di fortificazioni preromane, due cinte concentriche di spesse muraglie, sono state rinvenute nell’area dell’attuale Facoltà di Architettura. In età romana, data la sostanziale situazione di pace nella penisola

42 Resti archeologici esistenti interrati e affioranti nel Castello di Genova

1 Va ricordato che in questo luogo pioneristicamente si è iniziato a portare il metodo di verifica stratigrafica sugli elevati, con le prime deduzioni sulle malte e gli aggregati, sulla crono tipologia. In proposito si veda MANNONI T. – POLEGGI 1974, 2 ibidem

1.8 La Storia dalle origini al Secondo Conflitto Mondiale

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completamente sotto il controllo latino, la collina perde importanza a favore di aree più pianeggianti, subito sotto la collina, acquisendo quindi una valenza quasi esclusivamente agricola. E’ tra il VIII e il X secolo che la collina torna ad assumere un ruolo di controllo militare e di assoluta centralità e si definiscono i tratti del primo insediamento citato nelle fonti come Castro civitate Jenua.3 Alla fine di questa fase, dopo la costruzione della prima cinta muraria del IX secolo, il Vescovo si insedia nel castello fortificato e, come è tipico delle città episcopali altomedioevali, funzioni civili si assommano con funzioni religiose. Con la creazione delle nuove mura cittadine nel 1155-11614 la Collina dovrà rinunciare al ruolo strategico che fino a quel momento aveva reso servizio alla classe di governo, ma l’area rimane appannaggio del patriziato urbano fino agli inizi del XIV secolo: qui si articolava la platea Embriacorum una cittadella fortificata della famiglia Embriaci e dife-sa da torri attestata principalmente attorno all’attuale Piazza di San-ta Maria in Passione.5 Con il ‘400 assistiamo ad un cambio di utenza di classe con l’abbandono del Castello cittadino da parte della classe dominante e del Vescovo e conseguente addensamento del ceto po-polare e di comunità monastiche. La condizione di isolamento che in pochi anni la collina acquisì, la rese appetibile per molti ordini monacali che a partire dalla metà del ‘400 “assaltarono il Castello” e costruirono negli anni un ininterrotto quartiere di monasteri, chiese, oratori, con-fraternite, con passaggi pensili e sotterranei che regolavano una vita claustrale a sé stante dalla città.Con la soppressione dei monasteri, sull’onda della secolarizzazione dell’Europa voluta da Napoleone, la collina e i suoi conventi vengono praticamente abbandonati e riutilizzati scarsamente in tutto il XIX se-colo e per il primo quarantennio del XX come caserme, scuole, uffici e sede di enti previdenziali lasciando le innumerevoli chiese e oratori in una condizione di progressivo abbandono o uso “altro”.

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Parlare di “Chiesa di Santa Maria in Passione” è una semplificazione enorme. Questo edificio presenta la sovrapposizione della più intricata delle storie; storie disvelate dal suo essere un edificio non più integro, mutilo di gran parte dei suoi elementi, ma incredibilmente “parlante” grazie alla possibilità di osservare le sue murature (stonacate, rotte o sezionate in più punti) e confrontarle con le fonti documentarie. Sufficiente, questo, per comprendere la storia non solo dell’edifcio, ma della vicenda urbana dell’intorno. Rudere a seguito dei bombardamenti aerei su tutta la collina durante il secondo conflitto armato, ma prima di questo: austero palazzo di una delle famiglie più influenti nella società genovese del ‘200; umile casa di un formaggiaio; nel 1462, chiesa tardogotica costruita dalle Povere di San Silvestro (monache agostiniane) non ancora importanti sul panorama cittadino; ricca e fastosa chiesa barocca nel XVII; caserma delle guardie di città nel XIX secolo dopo la chiusura del convento; e sede nel periodo fascista dell’Opera nazi-onale maternità ed infanzia.

Il suo contesto: la collina di Castello

La collina di Castello, dove è locato il complesso conventuale e la chiesa in ques-tione, è la zona di insediamento del primo nucleo abitato di origine preromana della città di Genova. Dal toponimo, ancor oggi conservato, si capisce la posizione di controllo che ha sempre avuto. Tracce di fortificazioni preromane, due cinte concentriche di spesse muraglie, sono state rinvenute nell’area dell’attuale facoltà di Architettura.

In età romana, data la sostanziale situazione di pace nella penisola completa-mente sotto il controllo latino, la collina perde importanza a favore di aree più pi-aneggianti, subito sotto la collina, acquisendo quindi una valenza quasi esclusiva-mente agricola. E’ tra il VI e il X secolo che la collina torna ad assumere un ruolo di controllo militare e di assoluta centralità e si definiscono i tratti del primo inse-diamento citato nelle fonti come Castro civitate Jenua (POLEGGI 1973). Alla fine di

questa fase, dopo la costruzione della prima cinta muraria del IX secolo, il Vescovo si insedia nel castello fortificato e, come è tipico delle città episcopali altomedioe-vali, funzioni civili si assommano con funzioni religiose.

Con la creazione delle nuove mura cittadine nel 1155-1161 la collina dovrà rinun-ciare al ruolo strategico che fino a quel momento aveva reso servizio alla classe di governo, ma l’area rimane appannaggio del patriziato urbano fino agli inizi del XIV secolo, qui si articolava la platea Embriacorum . Con il ‘400 assistiamo ad un cambio di utenza di classe con l’abbandono del Castello cittadino da parte della classe dominante e del Vescovo e conseguente addensamento del ceto popolare. La condizione di isolamento che in pochi anni la collina acquisì, la rese appetibile per molti ordini monacali che a partire dalla metà del ‘400 “assaltarono il Castel-lo” e costruirono negli anni un ininterrotto quartiere murato di monasteri, chiese, oratori, confraternite, con passaggi pensili e sotterranei che regolavano una vita claustrale a sé stante dalla città.

Monastero di Santa Maria delle Grazie

Monastero del Corpo di Cristo

Monastero di Santa Maria di Castello

Santa Maria in Passione

Città nel XI secolo con in nero le mura del IX

Scavi archeologici realizzati nell’ arco della Facoltà di Architettura

43 Città nel XI secolo con in nero le mura del IX

3 POLEGGI E., 1973. 4 Le cosiddette mura del Barbarossa costruite per difendere la città da un imminente arrivo dell’imperatore Federico II. 5 BOATO A.,1997.

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.8 La Storia dalle origini al Secondo Conflitto Mondiale

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I bombardamenti aerei del secondo conflitto mondiale colpirono la col-lina come nessun’altra porzione di città, distruggendo e compromet-tendo irreparabilmente più dei due terzi degli edifici in collina. Nel 1945 la Collina era un cumulo di macerie6 e non si provvide, come in altre parti della città7, alla ricostruzione e cura immediata degli edifici lesi. Oggi nel 2015 dopo un trentennio di investimenti pubblici, di riqua-lificazioni anche di grande pregio come la Facoltà di Architettura o il Museo di Sant’Agostino e altre sicuramente meno apprezzabili, l’unico frammento cittadino rimasto in una condizione di dimenticanza, sia su un piano di abbandono materiale, sia su un piano, ancora più grave, della memoria collettiva, è il complesso conventuale di Santa Maria in Passione, incredibile documento storico conservante tutta la storia millenaria della Collina.

1.7.2 Il palazzo della famiglia Embriaci Per quanto strano possa apparire, le tracce più evidenti e che ci aiu-tano a conoscere l’edificio attuale, consistono nel perimetro del pri-mo palazzo qui costruito. Un grande edificio ad L formato da un corpo pressappoco quadrato di lato 15 m e un corpo addossato ad est di forma rettangolare. Quest’ultima parte, conservata solo fino a circa i 4 metri di altezza, è interamente costituita da una muratura in bloc-chi squadrati di calcare marnoso disposti in filari (sono presenti due aperture ad arco ogivale). Il corpo principale prospiciente alla Piazza di Santa Maria in Passione, oltre che conservare le tracce di un portico diviso in tre campate con archi leggermente ad ogiva, conserva porzio-ni del secondo ordine del palazzo, realizzate in muratura in laterizio a vista con tre aperture a tutto sesto, una delle quali, quella centrale, più ampia. Come è evidente non si tratta di edilizia vernacolare, ma di una delle domus Embriaci.8

6 Si veda l’immagine 61 a pag 74-75 nella Parte 2. 7 immediatamente dopo la Guerra si realizzarono importanti interventi conservativi per i monumenti piu importanti della città: VIa Garibaldi, San Siro, SS. Annunziata del Vastado 8 BONORA F. 1982

Palazzo Embriaci

46 Ricostruzione di come doveva apparire il fronte del Palazzo Embriaci

45 La Collina nel XII secolo

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Monatero di S. Maria delle Grazie

Monastero del Corpo di Cristo

Questa famiglia di origine viscontile insediò la sua “curia”(citata nel 1186) attorno all’attuale Piazza di Santa Maria di Passione.9 Le case della famiglia si attestarono su una strada che dall’odiena Piazza Em-briaci saliva nell’attuale Piazza di S.M. in Passione per proseguire a “barionetta” al castello-palazzo vescovile. Era un asse molto impor-tante per il controllo militare delle vie di accesso al castello e pertanto, nonostante l’ingentilimento della Collina di Castello (le famiglie più in vista scelsero a dimora l’area perché meglio difesa rispetto ad altre frazioni urbane), non venne mai perso il carattere militare e di controllo di questa area urbana.10 Ne sono la testimonianza le tre torri Embriaci, una celeberrima in città perché (a quanto narra ALIZERI 1846) unica risparmiata dall’editto della Repubblica del 1196 che imponeva di ab-battere tutte le torri cittadine al di sopra degli 80 palmi11; di cui però persistono dubbi sull’ appartenenza alla famiglia Embriaci. Delle altre due torri, di cui di una menzionata negli scritti nel 1308, sono state rin-venute le fondazioni intatte nei lavori di restauro della Chiesa di Santa Maria delle Grazie la Nuova.12 Si può adesso immaginare questo luogo sicuramente di rilievo sulla scena urbana del tempo, all’altezza di una famiglia fondatrice, tra le altre, della Compagna communis; discenden-ti di Guglielmo Embriaco liberatore di Gerusalemme nel 1099 a quanto narra il Tasso nel suo celebre scritto.

1.7.3 Le trasformazioni urbane nel XV secolo La perdita di importanza dell’antico Castello cittadino, e quindi di inte-resse per l’aristocrazia, a favore di altre aree urbane più vicine all’arco portuale e ai centri di potere di una ormai strutturata Repubblica mer-cantile oligarchica, hanno delle ripercussioni materiali sull’assetto col-linare.13 In un primo momento si assiste al trasferimento di una classe 9 Le notizie storiche sulla famiglia Embriaci sono state confermate sul libro di SCORZA A. M. G., 1924. 10 GROSSI BIANCHI L. e POLEGGI E. in MELLI P.,1982. 11 Un palmo genovese corrisponde a 0,248 metri. 12 BOATO A., 1997. 13 GROSSI BIANCHI L. e POLEGGI E., 1974.

Monastero di S. Maria di Castello

Monastero di S. Maria In Passione

44 La Collina di Castello nel XVII secolo

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.8 La Storia dalle origini al Secondo Conflitto Mondiale

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meno abbiente e alla conseguente edificazione di un area rimasta fino a quel momento14 a giardini e orti15. In questa fase inscrivibile tra la fine del XIV secolo e la prima metà del XV il Palazzo Embriaci, il quale sorgeva dove si edificherà la Chiesa di Santa Maria in Passione, subi-sce una trasformazione: il piano primo viene modificato, ristrette le finestre, probabilmente si può immaginare un frazionamento interno dei vani (troppo grandi e costosi da scaldare per un piccolo artigiano) e una tamponatura di una parte del portico forse per ricavarne una bottega. L’ultimo proprietario, secondo quanto riportato da Perasso (1746), è Simone da Bargagli, di professione formaggiaio. Una seconda fase di grande interesse, che durerà per più di 300 anni, è la trasformazione repentina in un complesso di monasteri e chie-se. Ad inaugurare questa stagione fu la vendita del Castello da parte dell’Arcivescovo alle Domenicane di Pisa nel 1449. Immediatamente dopo, i Domenicani entrano a Santa Maria di Castello, le Canonichesse Lateranensi trasformano alcuni dei palazzi Embriaci nel convento e chiesa di Santa Maria delle Grazie la Nuova e, con le stesse modalità, le Povere di San Silvestro acquisirono da Simone da Bargagli “una casa vicina alla loro residenza e vicina all’archivolto della torre” (PERASSO) per edificarvi la loro chiesa e convento con concessione dell’Arcivesco-vo Paolo Fregoso 10 ottobre 1457.16

1.7.4 Le Povere di San Silvestro Secondo il Perasso risale al 1323 la prima memoria della comunità monacale. Non sappiamo l’entità della comunità all’epoca della fonda-zione e non sappiamo con certezza dove fosse locata la loro residen-za, ma sappiamo che vivevano sotto la cura dei Frati della povera vita insediati nella piccola chiesa di San Silvestro, facente parte del com-

14 Escluso il castello-palazzo vescovile, le case Embriaci e la contrada dei mercanti Luc-chesi raccolti lungo via di Santa Croce. 15 Documenti d’archivio riportano una controversia tra il vescovo e il vicini, un certo Bucu-cio de Mari, sul taglio di alcune querce. E. POLEGGI T. MANNONI 1974. 16 F.BONORA 1982 50 Ricostruzione della sezione della Chiesa nel ‘400

47 Cristo portatore di croce con al seguito corteo di monache. 1942 (foto Cresta)

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plesso del palazzo-castello vescovile. Da qui il nome di “Povere di San Silvestro”. Agli inizi del ‘400 le monache si trasferirono in un edificio contiguo all’antica chiesa di San Silvestro (PERASSO c.181) e ricevettero nel 1455 il giuspatronato in una cappella dedicata alla Vergine nella sud-detta chiesa. La cessione dell’ intero complesso di proprietà del Vesco-vo alle Domenicane di Pisa, per insediarvi il Monastero del Corpo di Cri-sto, determinò la convivenza nella chiesa di due comunità di monache. Per queste ragioni le Povere di San Silvestro acquisirono da Simone da Bargagli l’edificio qui analizzato. Con l’aiuto finanziario di Argenta Giustiniani che prese a cuore le sorti della comunità (a cui era stata concessa nel 1463 l’appartenenza alla regola agostiniana) costruirono la chiesa tra il 1457 e il 9 agosto 1462, data in cui l’edificio risulta ter-minato (PERASSO cc.182, 183; MELLI 1982)

1.7.5 La prima chiesa quattrocentesca La costruzione della chiesa operata tra il 1457 e il 1462 venne costruita dove sorgeva il precedenta Palazzo Embriaci. Il cantiere mutò radical-mente il precedente edificio, il quale venne svuotato e privato del muro sud, ma conservandone il restante perimetro, abbassando le mura-ture, tamponando le numerose finestre ed alzando il livello del pavi-mento di 1,2 m18. La chiesa venne costruita in aula unica rettangolare frazionata in due campate all’incirca quadrate a crociera, con a sud la parte presbiteriale a scarsella. Alla destra di questa, originariamente era posta una cappella con accesso direttamente sulla pubblica via, probabilmente riservata all’ascolto delle funzioni per la famiglia Giusti-niani patrona della chiesa19. La larghezza dell’aula era sensibilmente

49 Planimetria del convento di Santa Maria in Passione nel XVIII secolo

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18 Gli scavi realizzati nell’aula della chiesa nel 1999 hanno rilevato una giacitura secondaria di materiale di demolizioni. Probabilmente il materiale di risulta della demolizione del Palazzo Embriaci durante i cantieri di adattamento a chiesa e stato impiegato per alzare il piano di calpestio. Sotto questo livello e’ emersa la fase di vita dell’edificio quando veniva-no svolte attività artigiane al suo interno, si pensa al XIV secolo. MELLI 1999. 19 Fu grazie all’intervento economico di Argentea Giustiniani che si prese a cuore le sorti della comunità delle Povere di san silvestro che si potè realizzare la chiesa e il convento. 51 Galleria affrescata del convento. Oggi distrutta (foto 1942 Cresta)

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meno ampia della facciata del palazzo e sul lato di risulta ad est fu organizzata una cappella. Nella prima campata si costruì in appog-gio su una volta ad ombrello il coro delle monache. La chiesa doveva presentarsi con decorazioni povere a fasce bianche e nere alternate in prossimità delle strutture architettoniche, per esempio i costoloni torici, a risaltarne le forme.

1.7.6 La decorazione barocca L’importanza della comunità monacale aumentò notevolmente ne-gli anni grazie all’assorbimento di altre monache provenienti da altri quattro monasteri soppressi e anche grazie all’acquisizione di lotti edificabili ed alcuni già edificati dove ampliare il monastero (PERASSO c.184). Usanza comune a tutta la penisola, nelle famiglie aristocratiche, era di confinare le figlie non primogenite nei monasteri. Questa pratica serviva ad evitare il depauperamento del casato, evitando di frazio-nare l’eredità per eventuali doti. Questo se da una parte comportava un aumento spaventoso delle donne costrette in clausura, dall’altra aumentava la levatura sociale di provenienza delle monache. Se si leg-gono gli elenchi di monache appartenenti alla comunità delle Povere di San Silvestro20 (conservati all’archivio conventuale di Santa Maria di Castello) ricorrono numerosi nomi delle più influenti casate genove-si come Maria Magdalena Iustiniana, Laura Lomellina, Angela Adurna, Bartholomea De Marinis, Maria de Grimaldis. Questo potrebbe giusti-ficare il grande capitale economico investito per ornare la chiesa con un ciclo di affreschi così vasto e, nondimeno, eseguito da due artisti di grande fama sul panorama artistico cittadino e non solo: Domenico Piola e Valerio Castello21. Queste decorazioni sono collocabili tra il 1650 e il 1670 (i primi bombardamenti aerei del 1942 che incendiarono il tetto compromisero solo parzialmente le decorazioni e una documen-

21 MELLI P., 1982. 22 Quest’ultimo un talento della decorazione barocca prematuramente scomparso, ma di grandezza riconosciuta in seguito a livello internazionale; molte opere dell’artista sono al 51. 30 settembre 1947. Crollo della parete ovest dell’aula ecclesiale.

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tazione fotografica realizzata subito a seguire dal Cresta rappresenta una decisiva testimonianza di questo ciclo oggi perduto)22. Il primo intervento documentato della Chiesa risale intorno a metà Cin-quecento ad opera di Lazzaro Tavarone, autore della decorazione dell‘ unica cappella della Chiesa23. La datazione sembra collocarsi intorno al Seicento sebbene ci sia un’ indifferenza rispetto alle innovazioni arti-stiche di quegli anni a Genova. La costruzione delle immagini riprende l’mpianto tardomanierista invece di seguire la lezione di Rubens, di Ba-rocci e dei pittori toscani in Liguria.24 I lavori ripresero intorno alla metà del Seicento quando le monache agostiniane chiamarono Valerio Castello, affiancato dal Piola e dal Brozzi, per decorare le pareti della navata e della volta. Il bolognese Brozzi, era un quadraturista, pittore di ornamenti25 talen-tuoso che progettò le architetture dipinte di tutta la chiesa26. A incorni-ciare gli affreschi troviamo motivi in uso a Genova nella seconda metà del Cinquecento, putti, elementi vegetali stilizzati, volute. La decorazione a stucco della Chiesa si pone in un momento di transi-zione della tradizione del Cinquecento e la nuova pittura barocca, Broz-zi sembra esserne l’ideatore. La copertura del presbiterio realizzata da D. Piola risente di un’interpretazione barocca, l’ ottagono diventa cornice mistilinea e le cartelle angolari si smussano e si arrotondano abbandonando lo spigolo e licenziandosi in sinuose volute barocche.27 La volta sotto il coro nella quale collaborarono il Piola e il Brozzi è co-struita architettonicamente, da quest’ ultimo, in modo tale da dilatare lo spazio con un gioco prospettico di illuminismo pittorico concettual-mente contrapposto alla valorizzazione gotica delle innervature archi-tettoniche, realizzando piuttosto una smaterializzazione della scatola architettonica.

Louvre a al Kun¬sthistorisches Museum 23 Per visionare le foto vedi allegato N° 1. 24 Si veda descrizione della cappella al paragrafo 1.4.3. 25 GAVAZZA E., 1974. 26 ALIZERI, 1846, p. 328. 27 GAVAZZA E., 1971, p.201.

1.7.7 Dopo il 1798: sopressioni degli ordini e declino Nel 1798, in linea con le direttive napoleoniche, la Repubblica Ligure soppresse gli ordini e i monasteri. Le monache furono trasferite. Per conseguenza della Restaurazione al loro posto tra il 1818 e il 1846 è documentato il trasferimento delle Canonichesse Lateranensi appar-tenenti al convento soppresso di Santa Maria delle Grazie la Nuova. Il convento lasciato parzialmente libero dalle monache nel 1889 diven-ne sede di uffici ed enti comunali, in un primo momento le Guardie di Città e, successivamente, si stabili la Guardia di Finanza. Un periodo quello tra il 1798 e la Seconda Guerra Mondiale di declino materiale degli edifici e di marginalità dell’intera area. La guerra cambiò, come detto pocanzi, definitivamente l’assetto della collina quasi distruggen-dola interamente. Santa Maria in Passione rimasta miracolosamente in piedi dopo il conflitto, ma senza la copertura, crollò il 31 agosto 1947 dopo giorni di forti piogge. La parete ovest ceduta completamente si portò dietro le volte, ed il Genio Civile chiamato ad intervenire nelle demolizioni delle parti pericolanti fece il resto. La volta del presbiterio rimase in opera ancora per alcuni anni, poi venne demolita dal Genio Civile per ragioni di sicurezza28 Segue, al paragrafo 1.9, la storia recente delle vicende urbane dal do-poguerra ad oggi.

28 MELLI P., 1982, p. 9.

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Come già accennato, gli sconvolgimenti bellici distrussero buona par-te della collina nell’incursione aerea alleata del 4 settembre 1944 e il complesso conventuale venne raso al suolo. La chiesa miracolosa-mente in piedi cadde per mano dell’abbandono nel 1947; il genio civile intervenne per demolire le parti pericolanti e solo l’anno successivo si intervenne per consolidare staticamente l’ancora integro campanile.1 La guerra offre una favorevole occasione per iniziare sitematiche cam-pagne archeologiche sulla Collina per indagare sulle origini della città. Il primo scavo venne effettuate nella piazza di Santa Maria in Passione nel 1952 sotto la direzione di Nino Lamboglia.2 Lo scavo nella restante parte non era reso praticabile dalla eccessiva mole di macerie e dalle abitazioni di fortuna costruite dagli sfollati e dai migranti a partire dal 1947.3

A partire dal 1968 l’area venne recinta e sgomberata: iniziò una decen-nale attività di scavi su tutta la Collina. In quegli anni l’Amministrazione Comunale approva con l’adozione di un piano particolareggiato di re-cupero l’insediamento dei poli umanistici sulla collina nell’area dell’ex chiesa di S.Silvestro: era il 1972.4 Un piano ambizioso che non vedrà mai una sua completa attuazione determinato anche dalla mancata volontà delle facoltà umanistiche di trasferirsi nell’area. Un ridimen-sionamento del piano e il cambio di interlocutore universitario, la Fa-coltà di Architettura, resero possibile un virtuoso recupero, a partire dalla metà anni ‘80, dell’area dell’ex chiesa di San Silvestro compren-dente il restauro nelle sue forme originarie del Palazzo del Vescovo e dell’ex Convento del Corpo di Cristo.Gli ultimi ruderi ancora ben visibili nei primi anni ‘90 rimasero Santa

1.9 La Storia di un abbandono

1 MEllI P., 1982, p.8. 2 LAMBOGLIA N., 1955. 3 CAVALLI L., 1957. 4 Il Piano Particolareggiato approvato sull’area dal comune nel 1972 (firmato da Ignazio Gardella) prevedeva un recupero e un’appropriazione di tutte le aree in rovina di questa parte di città per costruire un nuovo polo umanistico umanistico. “La generosa coerenza del progetto che coinvolgeva nell’univoca destinazione universitaria zone abitate e abnor-mi condomini del dopoguerra è stata la causa del suo fallimento” B. GABRIELLI. 54 Gli orti del convento nel 2013, completamente invasi dagli infestanti

53 Le case di fortuna costruite dalle sfollat nel Dopoguerra. Sullo sfondo la chiesa

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Maria di Passione e l’annesso complesso conventuale. Solo nel 1992, Comune di Genova e Comunità Economica Europea finanziano il pro-getto Civis Sistema, per un importo complessivo di 7 milioni di ECU, di cui tre destinati al complesso. “La scadenza per la realizzazione del pri-mo lotto, prevista in origine per il 31 dicembre 1993, grazie alla conces-sione di successive proroghe (motivate da imprevisti prevalentemente di tipo archeologico), è stata via via posticipata fino al 30 giugno1997. [...] Il sottoprogetto 2 del progetto Civis Sistema prevedeva il recupero del complesso conventuale di S. Maria in Passione, attraverso la cre-azione di un parco archeologico e la realizzazione della sede dell’Os-servatorio permanente sull’ambiente urbano. L’intervento previsto avrebbe quindi completato la riqualificazione dell’area con l’obiettivo di non cancellare nessuna delle tracce storico-archeologiche presen-ti”. Afferma tutt’ora il Comune di Genova: “Gli interventi realizzati sono stati la ricostruzione della piazza di S.Maria in Passione nel rispetto degli antichi disegni architettonici, il ripristino di Salita S. Maria in Pas-sione, il consolidamento del campanile e delle strutture della Chiesa, la copertura dell’abside per proteggere dagli agenti atmosferici gli stucchi ancora visibili, il ripristino del giardino del Convento, la copertura del-le rovine delle murature del Convento (realizzando così un parco ar-cheologico), l’edificazione (in fase di completamento) nel rispetto delle tracce architettoniche delle rovine, di alcuni vani che ospitano la sede dell’Osservatorio. 5” La realtà dei fatti è sotto gli occhi di tutti.Il primo lotto descritto è in effetti stato realizzato con un progetto ela-borato da Bruno Gabrielli (per quanto opinabili le scelte delle soluzioni di copertura assolvono alla loro funzione), ma il cantiere dal 1 Gennaio 1997, come attesta il giornale dei lavori, si è fermato per non iniziare più, lasciando inagibile e impraticabile l’area anche per la permanenza del rifiuto delle lavorazioni. Questo intervento va letto come una pri-ma operazione di salvataggio, propedeutico in teoria, ad un meditato intervento futuro di restauro. L’intervento sulla facciata della chiesa è, a mio parere, un “incidente

5 Sito del comune di Genova sezione www.urbancenter.comune.genova.it.55 Gli interni ingobri dal materiale di scarto delle lavorazioni di cantiere

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.9 La Storia di un abbandono

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di percorso”. Gabrielli afferma “nella logica complessiva dell’intervento ci è parso corretto6”. Oggi, a distaza di anni, quei segni “didattici” sugli intonaci, quegli “arconi a vista” del Palazzo Embriaci dicono poco, ol-tre ad avere cancellato i tanti segni che prima segnavano le murature. Sgangherati segni sui muri consegnano un risultato ibrido, ingessato di un manufatto archeologico che, almeno nella facciata sulla Piazza, ha momentaneamente smesso di essere rudere. Come vedremo nel secondo capitolo la controfacciata, ancora allo stato di rovina, permet-te effettivamente una didattica sulle murature ancora perfettamente leggibile nella loro successione stratigrafica. Gli altri interventi anche se non attenti a minimizzare l’impatto va riconosciuto che assolvono pienamente alla loro funzione protettiva, di consolidamento e le co-perture possono effettivamente essere smontate con relativa facilità e celerità.7 La creazione dell’osservatorio CIVIS sul centro storico negli stabili re-cuperati, progetto peraltro di grande valore in quanto avrebbe rico-perto un importante ruolo per lo studio e il monitoraggio dello stato di conservazione del patrimonio edilizio storico genovese, non ha mai avuto luogo; oggi è in parte impiegato da uffici comunali che si occupa-no di tutt’altro settore (assistenza sociale). Le realizzazione del parco archeologico parole sulla carta. Nel 1999 il MURST (Ministero dell’Università e Ricerca) commissiona un progetto di ampliamento della Facoltà di Architettura il cui respon-sabile di progetto è Franz Prati professore alla guida di un team di altri docenti. Il progetto “L’acropoli trasparente” ha effettivamente luci ed ombre, ma ha un carattere eminentemente invasivo rispetto all’esi-stente nonostante si sostenga che “le tracce sono l’esistenza stessa dei luoghi” che il progetto sia concepito per consentire in futuro “la re-versibilità dell’intervento e la possibilità di poter condurre nuove cam-

6 GABRIELLI B. 1993 p. 559. 7 Sistema reticolare con tubolari leggeri da 48 mm diametro tipo Meco GABRIELLI B: 1993. 8 Con Marco Casamonti, Gianluca Peluffo e altri. F.Novi, A.Giacchetta, M.GIberti, A.Magliocco. 58 Planimetria e vista del progetto “L’acropoli trasparente”

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pagne di scavo9”. Desumibilmente dallo stato dei fatti è un progetto rimasto sulla carta. Senza indagare sulla portata estetica in alcune misure10 il progetto non prevedeva un metro quadro lasciato a verde. Vero che l’immagine del centro storico genovese è irreducibilmente legata ad una densa urbanità litica senza soluzioni di continuità, ma eliminare sulla Collina di Castello questo piccolo frammento intatto di verde credo che sia una scelta opinabile, senza considerare che queste aree nel presente hanno permesso la nascita stessa dell’iniziativa og-getto di questa tesi. Dal 1997 al 2014 la Chiesa e gli Orti di Santa Maria in Passione non hanno mai avuto aperture pubbliche se non in un’occasione di una giornata indetta dal Fondo Ambiente Italiano. A detta degli organizza-tori una Domenica del 2005.Questa è la penosa cronaca di un bene su cui il mondo degli studi ge-novese pone già da tempo la sua attenzione e che come recitava il titolo della pubblicazione a cura di Piera Melli è stato per troppo tempo un “edificio dimenticato”.

9 PRATI F., in CIOTTA G., 2009, p.107. 10 Apprezzabile per esempio la copertura in brise-soleil in ardesia, essa avrebbe restituito un immagine più dignitosa alle coperture, soprattutto a scala urbana, istaurando un rap-porto mimetico con i tetti del centro antico, a mio avviso, pregevole. Vedi pubblicazione Archeologia e architettura tutela e valorizzazione progetti in aree antiche e medioevali a cura di G. Ciotta, Firenze, Aion edizioni, 2009.58 La copertura a vela dell’intervento Gabrielli.

La Collina di Castello e il convento di Santa Maria in Passione1.9 La Storia di un abbandono

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La Libera Collina di CastelloIl processo di recupero partecipato messo in atto da una comunità

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Era il 1973 quando Giancarlo De Carlo scriveva l’Architettura della parte-cipazione. In questo scritto sosteneva come ci fosse la necessità di tra-sformare il progetto in processo, il quale è “opera aperta capace di acco-gliere, trasformarsi, osservare”.1 La collettività era ancora convinta che si fosse capaci di trovare dialetticamente insieme la strada per gestire la cosa pubblica, la delega non era messa in discussione e le istituzioni erano portatrici, secondo il pensiero comune, di valori etici e morali, l’attivismo era qualcosa di intrinsecamente presente nella società2. Nel contesto odierno le istituzioni hanno perso legittimità e l’indivi-dualizzazione dei destini è un carattere determinante della contem-poraneità3. La res publica è vista ingestibile dallo stato, incastrato nella burocrazia, vittima consapevole di sé medesimo. E’, pertanto, approva-ta con plauso ogni forma di affidamento al privato, che nel perseguire i propri interessi economici persegue, così si dice, l’interesse dello Stato. Questa è la via più in voga in Italia per occuparsi del BENE COMUNE e, nonostante referendum confermino che per gli Italiani alcuni beni sono inalienabili4, le amministrazioni locali si “liberano” dell’incomben-za, della responsabilità di cui hanno delega, per fronteggiarne la ge-stione5. Queste non sono le uniche pratiche possibili e, a mio avviso, nemmeno quelle sempre auspicabili. La logica dell’interazione diretta, in cui il cittadino, nell’interesse della collettività e delle istituzioni che lo rappresentano, si assume il compito etico e sociale di farsi carico di quello che è di tutti senza un ritorno economico, in nome del buon vi-vere, della salvaguardia di cosa è di tutti, è l’alternativa. Molti comuni e amministrazioni italiane hanno capito che esistono al-tre vie, esistono organizzazioni (private) come ad esempio Labsus, la-boratorio per la sussidiarietà, con sede a Roma, che coordinano e age-

2.0 Iniziativa popolare, tutela del bene, Restauro

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.0 Iniziativa popolare, tutela del bene, Restauro

59 Gli spazi del parco archeologico della “Libera collina di Castello”.

1 DE CARLO G. 1973 p. 54 2 Erano gli anni delle rivendicazioni operaie, della lotta di classe. Molti vedevano nella società collettivista l’orizzonte di una società migliore Sindacati e Partiti di sinistra rappre-sentavano queste volontà senza essere messi in discussione dai più. 3 AUGE’ M. 2004. 4 Referendum abrogativo del 13 giugno 2011. 5 È notizia del 18 Novembre 2015 la volontà del assessorato alla cultura del Comune di Genova di appaltare l’aria in oggetto ai privati, SecoloXIX.

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volano altre vie6. Così recita la stringa di apertura della pagina ufficiale “il nostro obbiettivo è semplice: convincerti che ti conviene prenderti cura dei luoghi in cui vivi, perché dalla qualità dei beni comuni materiali e immateriali dipende la qualità della tua vita. Il tempo della delega è finito. L’Italia ha bisogno di cittadini attivi, responsabili e solidali.7” Altro aspetto non marginale è la potenzialità economica del bene co-mune. Se è portatore di valore economico bisognerà assicurare che sia “collocato fuori mercato per assicurare il suo uso non rivale”8. Ma se esso non è portatore di potenzialità economiche, se il suo valore non è monetizzabile? E’ chiaro che, secondo la logica dell’affidamento al privato, il suo destino è irrimediabilmente l’oblio.9 Il Bene diventa marginale, nel senso che sarà posto sul margine; diventerà residuo di un territorio economicamente sfruttato e che non ha trovato in quel-la frontiera, in quella diversità, un qualcosa da fare. Come argomen-ta Gilles Clement questa può essere la ricchezza. “Terzo Paesaggio”, è la definizione che dà a questi luoghi, che sono qualcosa da tutelare e conservare per quello che sono, immaginando “il progetto come uno spazio che comprenda riserve, domande da porre”10.Il sito archeologico in questione era in abbandono, nessun soggetto ne pubblico ne privato gestiva l’area, nessun progetto interessava questi spazi, prima che un’iniziativa di cittadini lo riguardasse. La “Libera Col-lina di Castello” è, oggi, un processo di recupero in atto, messo in moto dalla volontà di chi abitualmente questi luoghi li vive, li abita. Non è come sembrerebbe una questione meramente politica legata alle mo-dalità di gestione della cosa pubblica, ma è anche un ambito che inte-

6 Si vedano tra tutte www.labsul.org come portale per l’informazione e www.planbee come piattaforma per raccoglie fondi (crowdfunding). 7 www.labsul.org. 8 L’uso di un bene comune da parte di un individuo non implica l’impossibilità per un altro individuo di consumarlo, allo stesso tempo. I beni comuni possono essere sia pubblici sia privati, l’introduzione di questo principio nei codici permetterebbe di eliminare la rivalità dei beni culturali privati obbligando la proprietà a darne uso collettivo. MATTEI U. 2012, RODO-TA’ S. 2012, SETTIs S., 2012. 9 Per altri chiarimenti sul BENE COMUNE vedi il box a fianco pag.71. 10 CLEMENT G, 2004. 60 Copertina del Regolamento (Bologna 2006)

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BENI COMUNI/CULTURALI(di Marco Dezzi Bardeschi in ’ANANKE n. 72, p.35)

Queste due voci in sostanza identificano una medesima nozione fon-damentale, che storicamente rimanda alle vincenti rivendicazioni del diritto di appartenenza, proprietà e gestione unitaria da parte dell’in-tera Comunità e, di conseguenza, fa scattare l’impegno collettivo alla TUTELA, alla PROTEZIONE dal rischio di distruzione e alla VALORIZZA-ZIONE dei Beni, sia pubblici che privati. A partire dalle Assemblee na-zionali costituenti seguite ai moti della Rivoluzione francese dal 1790 (F.Rucker, Les origines de la conservazioni des monuments histori-ques en France, 1790-1830, Paris 1913) si è venuto definendo con chiarezza il concetto di Bene culturale che si basa sulla consapevo-lezza di avere davanti a noi un’eredità presente che, come risorsa ma-teriale, appartenendo a tutti (come proprietà indivisa e socialmente inalienabile e indivisibile) costituisce una ricchezza condivisa che ha il carattere della sua unicità e insostituibilità. E che, pertanto, esige l’im-pegno di tutti ed una forte azione pubblica di garanzia di salvaguardi a nell’interesse della intera collettività produttrice (passata, presente e futura). Questa idea di Bene culturale o PATRIMONIO comune (e so-vranazionale) è stato ufficialmente introdotto e sancito, ad esempio, nelle CONVENZIONI INTERNAZIONALI, la Convention Culturelle Eu-ropéenne (Parigi) ed in quella UNESCO del L’Aja, entrambe del 1954. La nozione, sensibile alle esigenze ed ai doveri della collettività, rinvia alla condivisione, alla partecipazione ed alla cooperazione (tra stato e cittadini). L’obiettivo soprarichiamato, ben sessant’anni dopo la sua formazione comunitaria, mantiene tutta intera la propria attualità di impegno prioritario.

ressa profondamente l’architettura e la conservazione11. Dopo quattro anni, il Processo, di cui daremo delucidazioni in segui-to, malgrado il carattere incostante che ha contraddistinto l’iniziativa popolare (“una reinterpretazione quotidiana delle mutevoli condizioni dell’ambiente12”), ha determinato modifiche considerevoli all’ambien-te in questione. L’azione popolare è “diritto e dovere di resistenza col-lettiva al degrado dei beni artistici, al degrado delle città, delle campa-gne, al sacco del paesaggio”, sostiene S.Settis13, e in questa iniziativa è dimostrato. Un possibile motore di cambiamento del bene materiale portatore di valori storici e artistici, soggetto, come nel caso di San-ta Maria in Passione, a vincolo archeologico. Cambiamento “salutare” per una società in crisi di valori; cambiamento materiale per l’architet-tura degli spazi pubblici.Questa azione popolare, attiva dal 2011, ha vinto l’ABBANDONO e si è presa CURA del BENE COMUNE... Abbandono, cura e bene comune sono parole chiave per l’iniziativa della Libera Collina di Castello come lo sono per “l’Abecedario minimo del Restauro, oggi14”. E’ chiaro a tutti che la permanenza dei valori della collettività è garantita dalla perma-nenza dei suoi monumenti e che l’unica valida alternativa all’interven-to pesante di restauro sia una costante amorevole CURA, attraverso una costante MANUTENZIONE.15, 16

Volgere un luogo ai fini sociali come si è visto in questi anni, riportan-do la pubblica attenzione su un bene di estremo valore non è propo-sto di un progetto ma, diretta conseguenza di un processo, aggiungo un Processo di recupero conservativo (programmato?).

11 “la politica è la forma suprema di architettura” Aristotele nell’Etica Nicomachea. 12 CLEMENT G., 2004, p. 55. 13 SETTIS S., 2010, p.38. 14 Da un’idea di Marco Dezzi Bardeschi, a partire dal numero 72 di maggio/2014 della rivista ‘ANANKE, si è iniziato a pubblicare un prontuario di parole chiave per il restauratore oggi. In questa tesi seguiranno riportate le voci di ABBANDONO, BENI COMUNI/CULTURA-LI, CURA, CULTURA MATERIALE, GESTIONE, MANUTENZIONE. Le voci avvalorano quanto sostenuta e un rimando puntuale ad esse nello svolgimento dei testi contestualizza il discorso all’interno del dibattito contemporaneo sul restauro. 15 ERMENTINI M., Il libretto di manutenzione timida programmata p. 31-35. 16 DELLA TORRE S., 2003.

Prima delle 5 appendici inserite nella tesi, la definizione dei BENI COMU-NI/CULTURALI e’ tratta dall’”Abecedario minimo del restauro, oggi”.Seguono ABBANDONO, CURA, CULTURA MATERIALE, MANUTENZIONE.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.0 Iniziativa popolare, tutela del bene, Restauro

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Nella lingua italiana il termine esprime l’occuparsi attivamente, il prov-vedere alle necessità e alla conservazione, azioni cui si possono ricondurre le derivazioni curatela e di conservatore, con un maggior grado di aderenza di quest’ultimo in relazione all’Amministrazione del patrimonio. Tuttavia il termine non compare nel codice dei Beni Cultutali (dlgs 42, 2004) a diffe-renza di termini quali: assicurare, curatela, conservazione (art. 29), tutela e valorizzazione. Inoltre anche i termini di conservazione, fruizione, e valo-rizzazione, ricompresi con estensione gerarchicamente differenziata nelle attività di Stato, Enti pubblici e privati, sono assoggettati alla dominante normativa individuata nell’azione di tutela. [...]Come traduzione del tedesco Pflege, la cura è radice della Denkmalpflege, cura dei monumenti. Costituisce la quintessenza dell’azione statale per la conservazione del patrimonio. La cura è per cultura di conservazione di lin-gua tedesca ciò che la tutela è per quella italiana. [...] Questa differenza, tra cura e tutela, che potrebbe corrispondere a quella tra Pflege e Schutz, quest’ultimo termine anche col significato di guardia (da cui schutzen, pro-teggere e Schutzen, guardie), tuttavia nell’impianto italiano trova una ca-ratterizzazione particolare perché essa rimanda comunque alla tradizione gerarchica e centralistica del periodo del Fascismo in cui sono state pro-mulgate le leggi fondative di tutela, appunto, del patrimonio e dell’ambiente antropizzato. Mentre in Germania alla cura spetta l’orizzionte istituziona-le più alto, [...] alla tutela quello delle specifiche amministrative nelle loro articolazioni. In Italia [...] il primo aspetto, quello della cura, possiamo dire senza ombra di dubbio, rimane marginale e non istituzionalmente ricono-sciuto. Non a caso costituisce il campo delle libere associazioni e organiz-zazioni di volontari storiche e contemporanee. [...]La cura, come corrispondente dell’inglese care, esprime attenzione e ma-nutenzione costante, si identifica con queste: si contrappone in quanto tale al restauro, così in Ruskin e nel manifesto della SPAB. La cura è l’elemento unificante dei valori e fondamento della possibilità di ponderazione del/nel conflitto dei valori.Nella riforma dei Beni culturali iniziata negli anni Sessanta con l’istrutto-

CURA(di Sandro Scarrocchia in ‘ANANKE n. 72, pp. 57-59)

17 si veda la scheda elaborata da Stefano F. Musso alle pp. 80-85

Perché la Partecipazione è Restauro? Credo che la risposta sia scritta in quanto detto pocanzi; perché, invece, le tematiche della conserva-zione devono essere inserite nell’iniziativa popolare è motivo di appro-fondimento. Riflettere sull’estremo valore che ha il ritorno alla fruizione, alla con-fidenza, all’uso di uno spazio pubblico è doveroso, indipendentemen-te dalla valutazione sul metodo con cui questo è attuato. Però, non è cosa di poco conto la portata, anche negativa, che possono avere le modificazioni operate su un bene, che come in questo caso è portatore in prima istanza di valore testimoniale.E’ qui che viene in soccorso il restauro, più precisamente l’architetto in quanto soggetto consapevole di cosa HA valore, di cosa è testimo-nianza, di quali modifiche un bene deve fare a meno, e come mitigare l’inserimento di modifiche necessarie al suo utilizzo. Questo non vuol dire che vi sia necessità di un supervisore, ma si vuole sottolineare come in questa iniziativa la presenza di persone consapevoli, di ar-chitetti, studenti di architettura abbia determinato la maturazione di una consapevolezza che spesso nemmeno le istituzioni riescono ad avere. È comunque indispensabile la presenza di una figura cosciente della CULTURA MATERIALE17 dei luoghi. Serve una regia che diffonda la conoscenza e formi persone competenti, per renderle, se necessario, tecnicamente capaci di realizzare piccole e semplici operazioni di ma-nutenzione. Consapevolezza e formazione, sono preziosi e indispen-sabili punti di partenza per sviluppare una seria pratica conservativa all’interno di un luogo come questo basata sul rispetto, sulla manu-tenzione e sulla divulgazione.

In sintesi, il progettista/conservatore ha un ruolo importante: dotare di questi strumenti tutte le persone coinvolte nel processo. -Nel campo della conservazione. Come si è detto, chiarire i metodi, tro-vare le soluzioni tecniche e far comprendere il valore della CULTURA MATERIALE.

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-Nel campo della progettazione. De Carlo sosteneva che l’approccio partecipativo non era “adatto a risolvere questioni estetiche18”. Forse non è sempre adatto, forse non è semplice fare una sintesi tra le osserva-zioni di tutti, ma fino ad ora, l’esperienza concreta mi porta a dire che si può indirizzare positivamente a sviluppare al meglio la più adatta delle soluzioni e, con il confronto orizzontale, arrivare ad una sintesi estetica che sia patrimonio di tutti e non solo gesto creativo del progettista. Si parla in questo caso di minimi interventi di adattamento della vivibilità, sia per la ristrettezza dei mezzi economici, sia per la scelta consapevo-le che qualsiasi intervento di grossa portata potrebbe inficiare sull’a-spetto attuale del luogo.-Altro “strumento”, di cui tutti si devono dotare, è la coscienza, la vo-lontà di conservare le tracce e in questo il progettista si deve spende-re. Mettiamo, per esempio, che questo luogo non fosse stato teatro di un’iniziativa che coinvolga i cittadini. Con buona probabilità si avrebbe un’idea completamente diversa delle modalità di conservazione o ad-dirittura non si sentirebbe come prioritario da parte del quartiere pre-servare il monumento, portatore di memoria.

L’essersi presi in carico il bene a posto la comunità di fronte alla ne-cessità di preservarlo. “Migliorare le condizioni di tutela ai fini della fru-izione pubblica del bene19 ”dovrebbe essere tra i compiti dello Stato, dice il Codice dei Beni Culturali. Ma se è lo Stato che abbandona il bene comune di proprietà pubblica? Il cittadino è in dovere di intervenire di-rettamente senza aspettare la delega, operando in modo legittimo, es-sendo un diritto riconosciuto dalla Carta Costituzionale (art.118) e dallo stesso Codice dei Beni Culturali (Art. 6). Il cittadino diventa, dunque, un interlocutore attivo dell’amministrazione locale. Per quanto sia per ta-luni difficile da comprendere siamo nell’ambito del legittimo, anche se valica i confini della consuetudine legalitaria. Questo accade nel comu-ne di Genova, mentre, in uno dei 64 comuni italiani che hanno adottato il “regolamento di collaborazione tra cittadini e amministrazione per la

ria rappresentata dai lavori della Commissione Franceschini (legge istituti-va n. 310, 1964) la cura compare ancora indirettamente. [...] Tuttavia, al pari di quanto accade per la conservazione nel ricordato Art. 29 del codice dei Beni Culturali, l’equivalenza del tutto con le parti riduce la portata dell’agire culturale, disciplinare e sociale in questione. Non a caso un profilo anco-ra più diretto emergente dai lavori della Commissione individua la cura in negativo, come mancanza: dall’insieme della complessa ed approfondita inchiesta che coinvolse tutti i settori del patrimonio essa trasse il convin-cimento che lo stato di generale precarietà e decadenza del patrimonio non può essere attribuito esclusivamentead una deficienza quantitativa di personale e di finanziamento delle competenti Amministrazioni; ma deve essere spiegato, soprattutto, come conseguenza di una basilare difetto d’impostazione del sistema stesso della tutela dei beni culturali, tale da esigere non miglioramenti o perfezionamenti, bensì rimedi di natura ra-dicale. Inoltre il documento stigmatizza che sulla situazione di carenza e deperimento di tutti i beni culturali influisce la scarsa coscienza del loro valore da parte dell’opinione pubblica. L’azione di riforma svoltasi nei suc-cessivi anni Settanta riesce a prospettare un orizzonte di cura ex novo, ottenendo importanti risultati nel campo della valorizzazione, fruizione e diffusione della conoscenza riguardante il patrimonio. Il riformismo degli anni Settanta non è stato troppo ma troppo poco: la cura del patrimonio e dell’eredità culturale rappresenta ancora un orizzonte so-ciale e politico da riconoscere, prima di tutto, acquisire e configurare istitu-zionalmente in modo sistematico. A partire dalla considerazione crescente assunta dai valori immateriali del patrimonio, compresi quelli di conflitto, la cura potrebbe rivelarsi differentemente dalla tutela, più legata alla dimen-sione proprietaria e materiale, maggiormente rispondente alle esigenze di fruizione, condivisione e diffusione della conoscenza dell’eredità culturale. Di fatto il suo principio si identifica con le buone pratiche e agisce già nel movimento sociale e politico in difesa dei beni culturali come beni comuni, cioè in un orizzonte che svincola la tutela del patrimonio dal regime di pro-prietà per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta di lungo periodo. La cura è al centro di questo passaggio a una concezione complessivadel patrimonio in tutte le sue espressioni.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.0 Iniziativa popolare, tutela del bene, Restauro

18 DE CARLO G., 1973, pp. 65 - 66. 19 Sintesi dei concetti enunciati dall’Art. 1 comma 1 del CODICE DEI BENI CULTURALI E DEL PAESAGGIO

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cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”20 (immagine 60 pag. 70)è regolamentato. Il carattere di salvaguardia (di CURA) che l’iniziativa ha assunto negli anni, potrebbe acquisire un valore paradigmatico per la nascita o la continuazione di iniziative simili. Proprio come sottolinea la definizione formulata da Sandro Scarroc-chia20, nell’Abecedario minimo del restauro, oggi: “la Cura, come corrispon-dente dell’inglese care, esprime attenzione e manutenzione costante, si contrappone in quanto tale al restauro, così in Ruskin e nel manife-sto della SBAP, l’Antirestauretion Moviment alla base della moderna cultura della conservazione”. Più avanti, Scarrocchia, concettualizza una considerazione di capitale importanza per i fini di questa ricer-ca: “la CURA potrebbe rivelarsi differentemente dalla tutela, più legata alla dimensione proprietaria e materiale, maggiormente rispondente alla esigenze di fruizione, condivisione e diffusione della conoscenza dell’eredità culturale. Di fatto il suo principio si identifica con le buo-ne pratiche e agisce già nel movimento sociale e politico in difesa dei Beni Culturali come BENI COMUNI, cioè in un orizzonte che svincola la tutela del patrimonio dal regime di proprietà per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta di lungo periodo”. Posso affermare con assoluta certezza che proprio di buone pratiche si parla.

22 Sono stati elaborati progetti che hanno ricevuto finanziamenti dall’istituzione universi-taria, si è preso parte ad un bando, non vinto, della circoscrizione Centro Est. Si progetta in futuro un tavolo di lavoro per parlare di manutenzione cura e affidamento delle aree.

Seguono le tre tematiche principali affrontate nella tesi. (1) Le finalità della ricerca storica e gli importanti risultati ottenuti sul fronte dell’acquisizione della consapevolezza del valore storico docu-mentario.(2) Come vada inteso il progetto di Restauro e di salvaguardia nel sito archeologico di Santa Maria in Passione, quali gli strumenti per ope-rarvi.(3) L’iniziativa della “Libera Collina di Castello” in tutti i sui aspetti met-tendo in risalto anche il carattere programmatico e a lungo termine di cui la comunità si è dotata22 (150 anni si dice scherzando!), quindi non solo patria per iniziative culturali legate alle tematiche dell’autoprodu-zione, dell’autocostruzione e piattaforma di tutte quelle esperienze di “altra economia”, ma luogo della sperimentazione diretta alla custo-dia/CURA attiva del BENE Comune.

20 Il Regolamento e consultabile gratuitamente sul sito del Comune di Bologna. www.comune.bologna.it 21 Vedi la definizione completa di CURA nel box di testo alle pp. 73 - 74.

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L’importanza della consapevolezza storica è da ascriversi tra i doveri deontologici del progettista/restauratore, nel dovere etico dello stes-so in quanto cittadino. È un imprescindibile momento per acquisire le conoscenze necessari e per sottoporre un manufatto architettonico, portatore di valori storici artistici, anche al più modesto degli inter-venti. Compromettere la leggibilità, danneggiare una stratificazione del tempo, impedire la fruizione di qualcosa che ha valore estetico o documentario sono solo alcune delle funeste conseguenze che l’igno-ranza storica, in questo caso di un bene archeologico, può portare con sé. Esponenziale è il danno se il progetto prevede un adeguamento funzionale del manufatto senza conoscere i vincoli derivanti da cosa è necessario conservare e cosa, invece, può essere sacrificato.Il più grande rischio, non dimentichiamoci, non sta nei mutamenti, nei danneggiamenti della materia, bensì nel rischio di dimenticarsi cosa ha valore1, nel pericolo di trovarsi a difendere l’arte e la storia in una società dove sono considerate un peso, un costo economico, un qual-cosa per pochi, un inutile feticcio del passato o addirittura solo mera merce di scambio. Il pericolo che si corre nella contemporaneità è che ci si dimentichi del valore profondo della memoria, che la “pancia degli italiani” non senta prioritaria la tutela e la obliteri col sovrapporsi di nuove esigenze. In assenza di conoscenza e sensibilizzazione è facile immaginare come non si senta affatto l’esigenza di intervenire su un bene in rovina, su un rudere abbandonato. Individuarne un utilizzo nel suo stato è visto come qualcosa di non applicabile e la strada au-spicabile solo quella dell’adeguamento ad altre funzioni. Dunque nella trasformazione della rovina in qualche cosa di differente, diventando un simulacro dei caratteri del passato che fino a quel momento la con-notavano.Conoscere, interrogarsi, investire tempo in attente analisi sulla mate-ria, sulla stratificazione e sulla storia documentaria di un bene artisti-co sono un momento imprescindibile in un processo conservativo in cui lo specialista deve impegnarsi. Parallelamente l’impegno a divul-

2.1 La storia e l’iniziativa popolare: consapevolezza e divulgazione

La.Collina.di.Castello.nella.storia.di.GenovaThe Castello Hill in the history of Genoa

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mostra storica autoprodottaper approfondimenti e bibliografia scrivi al nostro indirizzo mail

I bombardamenti aerei del Secondo Conflitto Mondiale colpirono la Collina come nessun’altra porzione di città, distruggendo e compromettendo ir-reparabilmente più dei due terzi degli edifici. L’obiettivo degli Alleati era ab-battere il Grattacielo di Piazza Dante, primo grattacielo d’Italia, simbolo del potere Fascista.Nel 1945 e negli anni immediatamen-te successivi la Collina era un cumulo di macerie. Dopo le prime speculazio-ni del dopoguerra, un trentennio di investimenti pubblici e privati, riqua-lificazioni di pregio come la Facoltà di Architettura e il restauro e la musea-lizzazione di Santa Maria di Castello, attualmente l’unico frammento citta-dino rimasto in una condizione di ab-bandono è il complesso conventuale di Santa Maria in Passione con le sue aree verdi limitrofe, che costituiscono un incredibile documento storico con-servante tutta la storia millenaria del-la Collina.Mentre sotto questi suoli ora albe-rati e adibiti a giardino giacciono una moltitudine di frammenti degli ultimi cinquecento anni, mischiati alle ma-cerie e ai detriti prodotti dal cantiere di Architettura, le terrazze superiori lasciano affiorare grossi muri in pie-tra, a testimonianza della grandiosità delle costruzioni che una volta carat-terizzavano quest’area, cuore pulsan-te della Storia di Genova.

EFFECTS OF ALLIED BOMBINGS

during 1944 in this area

A. Vista delle rovine con Vico Vegetti, il campanile di Santa Maria in Passione, l’area dei “giardini di Babilonia”B. Vista su stradone Sant’Agostino dal campanile della Facoltà di ArchitetturaC. Effetti dei bombardamenti del 1944 su Stradone S.Agostino in questo puntoD. Il raid del 1944 sulla Collina di Castello: davanti al fumo i grattacieli di Piazza Dante.

tutte le foto provengono dall’archivio storico fotografico del Comunedi Genova

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A

B CC

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A. View of the ruins with Vico Vegetti, the bell tower of Santa Maria in Passione, the area of the “Giardini di Babilonia”B. View of Stradone Sant’Agostino from the Faculty’s steepleC. Effects of the 1944 bombing on Stradone Sant’ Agostino in this placeD. The 1944 raid on Castle Hill: in front of the of smoke, the Piazza Dante skyscrapers.

all photos come from the Comune di Genova historical photo archive

EFFETTI DEI BOMBARDAMENTI del 1944 in quest’area

C

The air raids of the Second World War hit the hill like no other part of the city, destroying and damaging irreparably more than two thirds of the buildings. The goal of the Allies was to bring down the skyscraper in Piazza Dante, the first skyscraper in Italy, the symbol of Fascist’s power. In 1945 and the immediatly following years the Hill was a pile of rubble. After the first post-war speculation, thirty ye-ars of public and private investments, re-development as the Faculty of Architec-ture and the restoration of Santa Maria di Castello, currently the only fragment remained in a state of abandonment is the complex convent of Santa Maria in Passione with its surrounding green areas; an incredible historical document preservative throughout the long histo-ry of the Hill.While plenty of debris from the last five hundread years, mixed with the lefto-vers from the construction of the Facul-ty of Architecture lay under this garden, nowadyas filled with trees, the above terrain exposes large stone walls, as a reminder of the great buildings that once featured this area, true heart of Genoa.

cartelloni.indd 1 12/09/14 21.40 1 Sul concetto di cosa ha valore e sulla percezione del senso del tempo per le masse si vedano gli scritti di Alois Riegl. SCARROCCHIA S., 1995.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.1 La Storia e l’iniziativa popolare: consapevolezza e divulgazione

61 uno dei cartelloni elaborati per essere posti lungo all’interno del parco

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gare la conoscenza ottenuta ed elaborata diventa nodale nel processo di recupero di un bene in ABBANDONO. “La perdita di frequentazione, di confidenza e di uso è all’origine dell’innesco di un fatale processo di degrado che, perdurando, in poco tempo conduce allo stato di Rovi-na dell’opera che può essere solo interrotto da un ritorno d’attenzione d’uso e dall’impegno alla CURA2”. L’impegno alla Cura è un contributo, come si è visto nella definizione di S. Scarrocchia (box a pp. 72 - 73), che si inserisce in una dimensione collettiva di buone pratiche di citta-dinanza attiva. Inquadrato il potenziale del recupero dal basso, diventa di capitale importanza specificare il peso del contributo scientifico che la rilettura delle stratificazioni del tempo, le ricerche storiche e arche-ologiche hanno avuto sulla tutela del bene. Tentare, quindi, di aprire al pubblico la conoscenza, aiutare il contesto sociale a riprendere con-fidenza con il manufatto e il suo valore per legittimarne la cura e per tutelarne la memoria. I risultati sono tangibili, la curiosità suscitata dalla CULTURA MATERIA-LE è molta. Rendere note considerazioni magari ovvie per un addetto ai lavori ha rappresentato un momento importantissimo per dotare di coscienza critica una comunità di persone che progettano in futuro di prendere in custodia un bene culturale comune. Nel caso specifico di Santa Maria in Passione quello qui auspicato è stato introiettato pie-namente, in un luogo dove peraltro si sono raccolti i primi esiti scien-tifici delle ricerche sulla “storia del ripetibile più che dell’irripetibile3”.Per riesumare una definizione celebre (sempre attuale almeno per questo aspetto) di Cesare Brandi un fondatore della disciplina: “il re-stauro è il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella sua istanza estetica e documentaria […]4”. Primo compito del re-stauratore/architetto è compiere questa operazione.

2 DEZZI BARDESCHI M. nell’”Abecedario minimo del restauro, oggi” la voce abbandono nel box alla pag. 78. 3 Con questo si intende lo studio delle tecniche e del “saper fare” artigiano in epoca me-dioevale a discapito delle ricerche folcalizzate sulla creazione artistica. Per approfondire e per eventuali delucidazioni su cosa si intende per CULTURA MATERIALE si veda il box di testo alle pp. 80 - 85 scritto da S. F. Musso. 4 BRANDI 1964, p. 6. 62 Un’immagine dell’area dell’ex convento subito dopo la guerra.

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Eludendo tutte le polemiche che nella storia della conservazione que-sta definizione ha portato con sé, vorrei soffermarmi sull’importanza del concetto di riconoscimento e di educazione alla conoscenza. Il rico-noscimento della creazione artistica, bisogna premettere, va inteso in un senso molto più ampio di quello Brandiano, aggiornando l’oggetto del restauro anche alla cultura materiale. Le tracce sono esse stes-se opera d’arte, forse involontarie, ma comunque segni del saper fare “non più reperibile dell’uomo5”. Di qui la non scontata prima grande considerazione: un’iniziativa po-polare può assumere, se supportata da sensibilità e preparazione cul-turale, un importante ruolo di salvaguardia e valorizzazione del Bene che forse differentemente non avrebbe. La conoscenza è appunto ba-silare per rendere possibile il riconoscimento dei valori estetici e sto-rici (Roberto Pane aggiungerebbe psicologici)6 che un bene porta con sé. Va sottolineato, non di meno, che nel caso del sito archeologico di Santa Maria in Passione è nitido che il bene porti con sé importanti e sostanziosi contributi documentari e artistici, anche se quasi nessun cittadino e residente della zona sa decifrare cosa ha realmente valore. L’impegno nella ricerca storica ha avuto fondamentalmente tre so-stanziali conseguenze.(1) In primo luogo è stato possibile constatare che le persone coinvolte nel processo erano tutte interessate e consapevoli del compito impor-tante di salvaguardia che erano chiamate a ricoprire nel partecipare a questa iniziativa. Il recupero della documentazione storica sull’area è stato agevolato dai numerosi studi che si sono svolti sull’area arche-ologica a partire dal secondo dopoguerra. Una prima sintesi del ma-teriale ha permesso il raggiungimento di una conoscenza di base più che sufficiente per tutti i componenti della comunità tale da diffondere un rispetto assoluto e ossequioso della più minima traccia materiale. Questo è stato possibile con la preparazione di alcune “lezioni” divul-gative sulla Collina di Castello, Santa Maria in Passione e l’ex convento di San Silvestro.

5 A. L. Mariamonti Politi in Restauro timido ERMENTINI M., 2007 p.49. 6 Torsello 2008 p.81.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.1 La Storia e l’iniziativa popolare: consapevolezza e divulgazione

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(2) La consapevolezza maturata, dai più, ha reso evidente l’importan-za della salvaguardia del bene. Si è verificato un assestamento degli obbiettivi dell’iniziativa popolare scaturiti in principio dalle esigenze di riappropriazione di un spazio pubblico abbandonato, su una più matu-ra considerazione dei valori intrinseci dei luoghi, pertanto individuando nella tutela uno dei fini prioritari della comunità. Queste sopraggiunte ragioni hanno avvicinato l’iniziativa alla tematica di come tramandare il manufatto.7 Evidente è che nel sitoallo stato di rovina si hanno per natura problemi di conservazione. Altra acquisizione di consapevolez-za è stato comprendere la fragilità delle tracce ancora presenti e la ne-cessità di alcuni interventi urgenti seguiti da una pianificazione della manutenzione.(3) La creazione di un percorso guidato di alto profilo all’interno delle rovine, realizzato in appendice a quasi tutti gli eventi culturali orga-nizzati (mostre, concerti, cineforum, mercati, workshop). I temi delle visite variano di volta in volta e si focalizzano principalmente su tre aree tematiche: -la storia materiale della Collina di Castello e storia sociale di chi ha abitato per secoli questi luoghi, dalle popolazioni pre-romane ai senza tetto del dopoguerra.-Spiegazione, tramite le varie stratificazioni ancora leggibili nelle rovi-ne, delle tecniche artistiche utilizzate dalle botteghe dei pittori all’in-terno del cantiere medioevale e moderno.-Visita attraverso le rovine alla ricerca delle più evidenti sovrapposi-zioni stratigrafiche insegnando semplici regole di riconoscimento.8 Fo-cus sulla controfacciata della ex chiesa di Santa Maria di Passione e racconto della lenta stratificazione avvenuta nei secoli con il supporto della stratigrafia archeologica realizzata da F. Bonora negli anni ’70 e da quella realizzata dal sottoscritto nell’ambito di un laboratorio uni-versitario tra il 2012 e il 2013.A corredare le visite guidate è presente una cartellonistica di appro-fondimento e un opuscolo divulgativo della storia dei luoghi sempre disponibile all’interno del complesso. In allegato alla tesi vengono pre-sentati i cartelli divulgativi e l’opuscolo storico (allegato 2)

ABBANDONO(di Marco Dezzi Berdeschi in ‘ANANKE n.72, p.21)

ABBANDONO il termine di origine germanica (da band = legge, giu-risdizione ; bandon = in potere di) connota l’azione di andare via, la-sciare, prendere la distanza da un luogo, una cosa o una persona per perduto interesse (affettivo, economico, culturale, ludco). Sinonimo: obsolescenza, caduta in disuso. Per un bene materiale la perdita di frequentazione, di confidenza e di uso è all’origine dell’innesco di un fatale processo di degrado che, perdurando, in poco tempo conduce allo stato di Rovina dell’opera che può essere solo interrotto da un ritorno d’attenzione d’uso e dall’impiego alla CURA, alla conservazione e ad un Riuso, sia pubblico che privato. E’ noto che proprio dalla per-dita di fruizione quotidiana e, appunto, dal primo manifestarsi di uno stato di abbandono che in una fabbrica insorgono le istanze dell’in-tervento di restauro. La letteratura romantica ha indugiato a preve-der gli aspetti catastrofici dell’abbandono. Così le Stone of Venice di Ruskin si aprono con l’impensabile fine (avvenuta e già annunciata) di tre grandi e un tempo potenti regni e civiltà impostisi sulle sabbie dei mari: quella di Tiro, di Venezia e dell’Inghilterra. Con l’abbandono e la sopraggiunta desertificazione, scrive, della prima oggi non resta che la memoria; della seconda, per migrazione di popolo, ridotta ad uno spettro sulle sabbie del mare, si annuncia la rovina, la terza potrà essere tratta a una distruzione meno compiuta se non si adotteranno per tempo le opportune contromisure.[…]

7 Nel paragrafo a seguire vengono enunciate le idee di conservazione assunte nel sito. 8 BOATO A., 2008.

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Abbiamo già accennato all’importanza della fase analitica conoscitiva di un manufatto sia ai fini della presa di coscienza di chi vive un luogo e sia ai fini cosiddetti propedeutici ad un eventuale operazione mirata alla conservazione del bene. La questione che si pone, nel caso speci-fico di Santa Maria in Passione1 è se questa fase conoscitiva sia così condizionante da determinare la rinuncia consapevole all’intervento restauro, rinuncia alla “libido demolitaria”2 (si spiegherà meglio a se-guire cosa si intende con rinuncia). Procedere con cautela, fermarsi ad ascoltare, senza pretendere di dover dire qualcosa per forza, è buona pratica per affrontare un ragionato intervento conservazitivo di manu-tenzione programmata.Secondo Giovanni Carbonara3, detrattore di questa idea timida, il re-stauro è visto come “un di più della conservazione”, un operazione di riproposizione, reinterpretazione dell’opera senza trascurare di dare una forma estetica al proprio intervento; un’opera di “conservazione critica” lui la definisce. “Al di qua” del restauro c’è la conservazione che è un’opera volta esclusivamente a tramandare le tracce al futuro sen-za operazioni di scelta e selezione delle stesse. Carbonara, dal canto suo, non inquadra nemmeno il Riuso e nemme-no la Salvaguardia in quello che è Restauro4. Ammette l’importanza che un ritorno all’uso, una riappropriazione di confidenza con un bene magari per “volgerlo ai fini sociali”, sia un buon sistema per assicura-re la conservazione del manufatto, ma comunque non è materia del restauro bensì della conservazione. Il restauro, secondo Carbonara, è spingersi oltre, avvalersi della creatività dell’architettura5 e ogni inizia-tiva conservativa “troverà unità espressiva e concettuale in una solu-zione anche estetica del problema”. L’idea di Restauro che si ha di questo sito archeologico è lontana dalle posizioni su cui si attesta Carbonara. Il restauro come è inteso da Car-

2.2 Il progetto di conservazione: stratigrafia archeologica, manutenzione, restauro debole

1 Non si vuole con questo sostenere che sia un principio da adottare per tutti gli interventi di restauro. 2 Il Manifesto rosso dell’architettura timida. S.A.A (shy architecture association) ERMEN-TINI M., 2007. 3 In TORSELLO P., 2008, pp. 25 - 28. 4 Ibidem, p. 27. 5 Brandi, come è noto, sosteneva che la “fantasia è la più grande eresia del restauro”.63 Gli orti del convento dopo il lavoro di bonifica.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.2 Il progetto di conservazione: Stratigrafia archeologica, manutenzione, restauro debole

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bonara non è applicabile, non resta che la conservazione. Posizioni legittime, ma se dopo le attente analisi che precedono il re-stauro, si arrivasse alla conclusione che la conservazione critica do-vrebbe passare per la conservazione allo status quo del manufatto? Se proprio quell’unità espressiva e concettuale fosse inverata nella con-servazione dei segni del tempo. Egli stesso sostiene convintamente che “ogni intervento costituisca un episodio a sé, non inquadrabile in categorie […] ma da studiare a fondo ogni volta6”. E se lo studio approfondito delle emergenze stratigrafiche (in questo caso specifico per l’appunto) diventasse la materia stessa del progetto e quindi, il momento analitico dello studio delle stratificazioni stori-che diventasse, non più propedeutico all’intervento, ma motivazione di un’integrale conservazione delle permanenze?Si tratta di mantenere l’edificio nelle condizioni in cui si trova, con la sua identità complessa, della sua stratificazione. Questo non significa che l’edificio debba rimanere inalterato. Piuttosto ogni modificazio-ne che verrà fatta per sostenere la vitalità del luogo e per operare gli adeguamenti necessari non dovrà alterare la materia. La permanenza delle tracce va di pari passo con la permanenza dell’enigma7 che traspira dalle pietre, le necessarie dotazioni dovranno evitare di sottrarre infor-mazioni alla rovina. Sul fronte dell’intervento… Il restauro deve essere Timido. “La manutenzione periodica dei monumenti è l’unica valida al-ternativa all’intervento pesante condotto in situazioni di emergenza. Si tratta di cambiare il tradizionale modo di pensare, il modo di agire e le logiche economiche del restauro8”. Pertanto l’unica via è un piano programmato di manutenzione e prevenzione che concorra a creare le migliori condizioni di conservazione nel tempo, previo intervento sana-torio delle emergenze. L’ipotesi qui esposta acquisisce senso per due questioni principali che riguardano le peculiarità del manufatto e per una terza di ordine ge-nerale. La prima è lo stato di rovina in cui giace il complesso di Santa Maria di Passione e pertanto il valore strettamente storico documen- 6 In TORSELLO P., 2008, pp. 25 - 28. 7 TORSELLO P., 1997 p. 21. 8 ERMENTINI M., 2007 p. 31.

CULTURA MATERIALE(di Stefano Francesco Musso in ‘ANANKE n. 75, pp. 34-37)

Per l’Enciclopedia Treccani, l’espressione Cultura materiale indica: “tut-ti gli aspetti visibili e concreti di una cultura, quali i manufatti urbani, gli utensili della vita quotidiana e delle attività produttive. Gli archeologi hanno fatto della cultura materiale di uno specifico metodo di indagine che ha permesso di ricollocare gli oggetti d’arte e i fenomeni artistici all’interno di un omogeneo tessuto culturale”.Per l’Enciclopedia Einaudi “La nozione di cultura materiale è comparsa nelle scienze umane, e in particolare nella storia, in seguito al costi-tuirsi dell’antropologia e dell’archeologia, e all’influenza esercitata dal materialismo storico”.Per l’Enciclopedia Utet, l’espressione Cultura materiale è stata “coniata dagli studiosi marxisti dell’Europa orientale, a designare l’insieme delle conoscenze e delle pratiche relative ai bisogni e ai comportamenti ma-teriali dell’uomo, come tipo di sapere intenzionalmente contrapposto alla cultura tradizionalmente intesa”, ossia quale espressione “alta” e auto-consapevole, prevalentemente legata alle manifestazioni lette-rarie e poetiche, a quelle artistiche e soprattutto pittoriche e scultoree, a quelle musicali o prettamente scientifiche. Infatti “quella definizio-ne prende le distanze dal concetto di cultura richiamando l’attenzio-ne sugli aspetti non simbolici delle attività produttive degli uomini, sui prodotti e gli utensili nonché sui diversi tipi di tecnica, insomma sui materiali e gli oggetti concreti della vita delle società”.La nascita dell’espressione è posta in stretta relazione con la fonda-zione a Varsavia, nel 1953, dell’Istituto per la storia della cultura mate-riale. Secondo lo storico Witold Kula, la storia della cultura materiale “si occupa dei mezzi e dei metodi praticamente impiegati nella produzio-ne” e, più in generale “di questioni relative alla produzione e al consu-mo, nel più ampio significato di questi termini”. Essa sarebbe distinta sia dalla storia economica sia dalla storia della scienza e della tecnica.

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9 PRATI F., 2009, pp. 102 - 107.

Si affacciava così alla ribalta una nuova disciplina scientifica, distinta dagli altri settori della ricerca storica per il suo “…deciso interesse per l’aspetto materiale dei processi storici e delle azioni sociali…”. […]Con un programma simile a quello dell’Istituto polacco, nel 1976, fu fondato in Italia ISCUM- Istituto per la cultura materiale di Genova. Esso nacque su impulso di Tiziano Mannoni e dall’intensa collabora-zione tra archeologi e studiosi di varia estrazione disciplinare allora impegnati a ricostruire il passato della città, lavorando sulla collina di Castello, luogo dell’insediamento più antico. Essi operarono sulle aree sventrate dai bombardamenti della seconda guerra, tra resti di archi-tetture post-classiche e innumerevoli strati archeologici sottostanti risalenti a epoche pre-istoriche. Anche attraverso questa esperienza furono messi a punto i presupposti disciplinari e teorici, insieme ai me-todi operativi di quella che fu poi definita “Archeologia medievale”, o “dell’elevato”, che tanti legami ha con la cultura materiale. La rivista che accolse gli esiti di quelle prime esperienze fu “Archeologia medie-vale. Cultura materiale, insediamenti, territorio” e il suo primo nume-ro si aprì con un editoriale che recita: “Dobbiamo subito precisare che l’archeologia medievale è qui intesa nel senso più generale di raccolta di informazioni mediante il recupero sistematico di testimonianze ma-teriali della «cultura» post-classica”. Essi cercano così di definire “un campo di ricerca che proponendosi di fare la storia della produzione materiale intende contribuire a superare, anche in Italia, la separazio-ne tra vita materiale, quotidiana e storia”. Il dibattito sulla cultura materiale ebbe cosi grande impulso proprio negli anni Settanta del Novecento quando per coincidenza, più forti si facevano i dubbi di molti archeologi “sull’inesattezza e sulla scarsa efficacia della dicotomia materiale/non materiale”, dal momento che, per essi “l’archeologo si occupa della natura delle cose, cioè non della

tario che lo sostanza. Esso rappresenta nel contesto del centro storico genovese l’ultima testimonianza di “macerie” derivante dai bombar-damenti della Seconda Guerra Mondiale. Storia recente di distruzioni, “conservata” nel centro cittadino da ricostruzioni brutali di condomini, evidentemente offensivi per l’immagine d’insieme della città, ma ormai digeriti nel tessuto e per pochi leggibili come segni della guerra. Il ma-nufatto in rovina, invece, rappresenta un’evidenza più palese e un do-cumento intatto di quegli sconvolgimenti. Per questa ragione può ave-re sia un valore documentario per una triste pagina di storia della città di Genova, memoria di una storia materiale andata irrimediabilmente perduto, sia essere, in quanto vuoto, spazio di aggregazione pubblica, acquisendo una valenza più collettiva in una città il cui centro defice di spazi aggregativi. Lasciare questi vuoti prodotti dalla Guerra come tali, e non ulteriormente saturarli con nuovi interventi e costruzioni come si propugnava di fare con l’ampliamento9 della Facoltà di Architettura, è a mio avviso auspicabile. L’idea di realizzare in sito un parco arche-ologico non era poi cosí sbagliata e le sistemazioni ai fini conservativi eseguite nei lavori tra il 1992 e il 1997, anche se forse opinabili dal punto di vista estetico, assolvono in larga misura al loro compito non alterando il carattere di edificio diruto quale è Santa Maria in Passione rispettando la sovrapposizione lenta dei secoli. L’altro aspetto che sostiene la scelta di valorizzare il più possibile le evidenze stratigrafiche del manufatto è la portata estetica e psicologi-ca che lo stato di rudere trasmette. Operare un restauro per riproporre in qualche misura un’immagine unitaria delle sue eventuali rilevanze artistiche diventa un pericoloso azzardo: quale fase storica valorizza-re? Dove integrare e Cosa in un bene la cui complessità determina il suo valore? In questo caso il restauro sarebbe sottrarre alla materia e all’autenticità dell’opera quella verità schietta che oggi porta con sé. Proporre una mera salvaguardia del bene cercando di azzerare o ri-durre al minimo le fonti del degrado. Un’opera di conservazione e ma-nutenzione ordinaria fatta di somma cautela e consapevolezza della

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cultura materiale, ma della cultura e della società in tutti loro aspet-ti…”. Gli studi di cultura materiale ebbero, da subito e non casualmen-te, forti contatti proprio con l’archeologia pre-classica e poi medievale o post-classica. Anche un archeologo classico come Andrea Carandini, già nel 1979 mostrò grande interesse per quell’elaborazione teorica e per la ricerca sul campo sviluppate in quell’ambito. Egli vide, nello studio della cultura materiale, uno strumento assai utile per superare l’assoluta preminenza fino ad allora esercitata, negli studi archeologi-ci, dai temi del “lavoro improduttivo rispetto a quello produttivo”, mo-strando particolare attenzione “alla storia delle masse senza storia e senza scrittura, ai fenomeni che si ripetono più che non all’avvenimen-to irripetibile...]. Si anticipò così un aspetto essenziale di quelle ricer-che che le imporrà all’attenzione anche del mondo della conservazione e del restauro.Da sempre, l’espressione cultura materiale è stata oggetto di grande interesse e di radicali critiche e contestazioni. Molti studiosi si sono chiesti se lo studio della cultura materiale potesse essere considera-ta un’autonoma disciplina o se non dovesse essere intesa come area di ricerca comune tra diverse discipline contemporanee che, in molti modi e con specifici metodi e strumenti, utilizzano fonti documentate di varia natura, indirette o dirette.[…] Forte e profondo è il legame tra Cultura materiale e Antropologia culturale, per riconoscimento dei rispettivi protagonisti, con innegabili ricadute su tutti gli ambiti disciplinari e operativi sin qui richiamati. Essi sono d’altra parte tutti idealmente accomunati dalla condivisa ap-partenenza all’orizzonte delle scienze umane e dal forte legame che, nel loro intreccio e dialogo reciproco, riconoscono esistere tra l’uomo e le sue varie espressioni individuali e ancor più sociali, senza preventive discriminazioni di origine, natura, grado o valore. Non possiamo nep-pure dimenticare che: “Anche l’uomo è parte della cultura materiale; il 10 Nella sesta lampade dell’architettura “memoria” RUSKIN J., (1849) 1982.

11 ibidem. 12 GABRIELLI B., 1993.

“autenticità rovente10” che persiste nella rovina.Ricapitolando, l’analisi stratigrafica (ma anche una banale osservazio-ne dell’insieme che fa cogliere la molteplicità delle tracce) mette in luce come nel caso specifico di questo manufatto un intervento di restauro sarebbe distruttivo11 di uno spartito architettonico composto di piccoli frammenti che vanno dalla vita quotidiana delle monache, alla sinopia tracciata sul rinzaffo dal capo bottega, alla tessitura muraria a conci quadrati realizzata da scalpellini medioevali. Conservare integralmen-te ogni modifica, rispettando il tempo, la memoria di ciò che è rico-struibile solo nell’immaginario, allontanare l’idea di compimento (è una rovina!) è l’unica strada battibile. CONSERVARE LA CULTURA MATERIALE. “La necessità di conoscenza dei manufatti oggetto di tutela e, poi, il conseguente rigoroso rispetto di ogni traccia materiale pluristratificata che la storia trascorsa ha la-sciato sugli edifici esistenti, di cui il restauro si occupa”.Questa è l’idea di conservazione proposta dalla “scuola milanese” del restauro ben descritta qui a fianco dalla definizione di CULTURA MATERIALE (box 4 pp. 80-85) che ne dà Stefano Francesco Musso. Una strada difficile da obbiettare se si ragiona su quali altri interventi di restauro si possono configurare: intervenire ricostruendo plastica-mente la decorazione a stucco e la partitura architettonica restituendo un manufatto ingessato in artificiose membra senza peraltro restitu-ire un’immagine compiuta di come era (dove sono le volte barocche? Dove l’altare? Dove la quadreria? Dove gli arredi?) comprometterebbe irrimediabilmente la lettura della sua storia. Forse si potrebbe ripen-sare un adeguamento funzionale di certi ambienti ma rispettando la totale integrità di quel che ancora persiste, operazione pressochè già realizzata con i recenti interventi degli anni ’9012. Un esempio di perdita di significato e di senso a seguito di un inter-vento di restauro è il rifacimento della facciata della Chiesa: un into-nacatura uniformante ha cancellato le tracce della storia privilegiando,

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suo corpo, in quanto trasduttore semiotico, è ugualmente importante per ricomporre il quadro generale di una cultura o di una civiltà, allo stesso modo come a partire da ruderi o monete si può delineare la cit-tà, l’industria e il commercio o lo scambio, il tipo di consumo delle varie classi della popolazione. Tuttavia gli oggetti materiali portano con sé altri segni inerenti le arti, il diritto, la religione, la parentela che oggi non sono più sottovalutati”. Anche per questo, come conservatori o re-stauratori, non possiamo ignorare il contributo della Cultura materiale. Per i possibili futuri sviluppi di questa “relativamente giovane discipli-na”, vale infine la pena evidenziare che: “La cultura materiale tende a gettare un ponte verso l’immaginazione dell’uomo e la sua creatività e a considerare proprie tra componenti fondamentali: lo spazio, il tempo e la socialità degli oggetti. […]” Dal momento poi che: “lo studio della cultura materiale appartiene alla ricerca storica […] con essa collabora con metodo proprio a ripercorrere le spirali che ogni rovina del passato porta con sé”, ancora una volta essa non può non riguardare la con-servazione e il restauro, di oggi e di domani. In sostanza, si potrebbe affermare che gli studi della (o le attenzioni per la) cultura materiale pongono l’accento sul “sapere per fare” e, parallelamente, sul “fare per sapere” (quindi anche per conservare). La capacità creativa dell’uomo è d’altra parte sempre intimamente legata alle tecniche di manipola-zione degli oggetti della conoscenza (non solo di quelli materiali) e ciò vale per la scienza, per la tecnica, per le arti e per la storia umana in generale. Per questa ragione fondamentale, la cultura materiale non ha lo sguardo rivolto esclusivamente al passato, ma inevitabilmente interroga e impegna anche le nostre azioni rivolte al futuro, ancor più se compiute sulle tracce materiali dei tanti passati che ci hanno pre-ceduto.Viste le origini dell’espressione e i suoi diversi sviluppi e varie decli-nazioni, si può dunque comprendere come, almeno dagli anni Ottanta

13 Nello studio della controfacciata è stato confutato come le fasi rappresentate con i segni sull’intonaco siano una piccola parte delle sovrapposizioni, in verità molto più articolate e complesse. 14 Questo non è il nome che da Gabrielli al progetto, ma in sostanza il concetto e la realiz-zazione proposta. Provvisorio perché assolve solo alla mera funzione del proteggere, aspet-tando che per le soluzioni archittettoniche arrivi il Progetto. (vedi paragrafo 1.9) 15 PRATI F., 2009. 16 AUGE’ M. 2004 p.103. 17 Bellini A. in TORSELLO P., 2005, P.24. 18 DELLA TORRE S., 2003.

in maniera del tutto arbitraria, la valorizzazione di quelli che sono i resti del palazzo Embriaci, non intonacando la muratura di pietra di promontorio apparecchiata a conci squadrati e segnando sui nuovi in-tonaci solchi che suggeriscono dove si trovavano le aperture superiore del palazzo. Il risultato è poco comprensibile, mediocre e travisatorio della storia dell’edificio13. Anche per queste ragioni si è scelto di studia-re e approfondire il già avviato studio archeologico della controfacciata, testo stratigrafico ancora pienamente leggibile e emblematica testi-monianza storica.Sia l’intervento realizzato da Gabrielli nel ’92 “il progetto provvisorio14” sia il progetto dell’”acropoli trasparente15” affrontano il tema della ro-vina con paradigmi completamente differenti, ma entrambi scelgono l’abbandono totale di velleità ripropositive di qualsiasi sorta. Questo è senza dubbio un buon punto di partenza, ma non “rispettano”, a mio modesto parere, quello che ci affascina delle rovine. Ossia “la loro ca-pacità di fermare il senso del tempo senza riassumere la storia e sen-za concluderla nell’illusione del sapere o della bellezza, la loro capacità di assumere la forma dell’opera d’arte, di un ricordo senza passato16” In altre parole, l’unico modo per farle ancora vivere della loro essenza è rispettarle come tali. La proposta di intervento che si configura nel 2015 è differente, anche se non potrebbe esistere senza prima l’intervento ai fini protettivi di Gabrielli. -Una restauro conservativo delle parti compromesse riducendo i fattori intrinsechi ed estrinsechi di degrado escludendo integrazioni,17 -un piano della manutenzione programmato, 18

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.2 Stratigrafia archeologica, manutenzione, restauro debole

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del secolo scorso, gli studi sulla cultura materiale abbiano avuto un rilevante influsso anche sulle discipline della conservazione e del re-stauro. [...]Molte possono essere a tale riguardo le testimonianze di crescente interesse che gli studiosi impegnati nella conservazione e nel restau-ro del Patrimonio culturale hanno offerto, a loro volta, all’approfondi-mento di quegli studi, seppur con accentuazioni assai diversificate e con ricadute progettuali talvolta radicalmente contrapposte.[...]Si pensi, come semplice richiamo, agli studi sul cantiere borrominia-no che Paolo Marconi iniziò e che ispirarono poi numerose analoghe ricerche rigorosamente documentate dalla rivista “Ricerche di storia dell’Arte”. Sempre a Paolo Marconi dobbiamo i “Manuali” del recupero di Città di Castello e poi di Roma e Palermo, cui molto altri sono seguiti. Certo, quell’interesse per la cultura materiale dei secoli passati, di cui i monumenti sarebbero diretta e insostituibile espressione, è talvolta trasposta sul piano degli interventi in chiave di ripristino o di ripropo-sizione di antiche ricetteattraverso cui restituire completezza, decoro e bellezza a monumenti.E ciò è tuttora oggetto di riflessione e, certo, di non universale accettazione.Non minore interesse verso la cultura materiale, a volte esplicitamen-te richiamata, mosse tuttavia anche numerose ricerche e gli assai diversi interventi dei protagonisti della cosiddetta “scuola milanese” della conservazione. Essa rivendicò, infatti, la necessità di conoscenza dei manufatti oggetto di tutela e, poi, il conseguente rigoroso rispetto di ogni traccia materiale pluristratificata che la storia trascorsa ha la-sciato sugli edifici esistenti, di cui il restauro si occupa.In questa prospettiva, sembrò necessario evitare ogni preventiva se-lezione o discriminazione tra quelle tracce (per epoca, stile, apprez-zamento estetico, valore storico, natura tipologica o per altre ragioni ancora). Ciò rendeva improponibile la riproposizione degli elementi della cultura materiale del passato, di cui pure quei manufatti furono

19 TORSELLO P., 1997, p. 8. 20 ibidem, p 21. 21 Il tempo zero di un edificio e il momento in cui ha avvio il suo esercizio. Tornare al tempo zero, per assurdo, vorrebbe dire probabilmente ricosteuire il palazzo Embriaci. Dobbiamo parlare eventualmente di “punto zero”, momento ideale di cristillizzazione della vicenda conservativa del manufatto in cui ha avvio il Piano di conservazione. CROCE S., 2003. TORSELLO P., 2008.

-Adeguamento tecnologico minimo ai fini della manutenzione delle aree verdi e per realizzare unl’impianto di illuminazione.

A valle di queste considerazioni va ricordato come le indagini prelimi-nari siano considerate un aspetto basilare per ogni progetto di restau-ro da tutto il mondo della conservazione, ma come ricorda P.Torsello “si riducano a rigorose ricerche documentarie, rilievi accurati, appro-fondite analisi sui materiali e sui fenomeni di degradazione […] e la lettura stratigrafica è spesso ignorata e sistematicamente esclusa19”. In questo lavoro di tesi si vuole assumere come punto di partenza l’in-terpretazione stratigrafica per comprendere quale scelte progettuali e quali esigenze conservative ha un manufatto pluristratificato come questo. Ogni indizio materiale della costruzione è in questo sito vei-colo di comprensione delle trasformazioni sia di origine antropica che di origine naturale ed è grazie a questa circostanza che il manufatto in rovina diventa una testimonianza dell’ingegno e della cultura, “non un simbolo di un mitico passato ma luogo dell’apprendimento e della scoperta, occasione di indagine scientifica e di lavoro ermeneutico20”. Non si vuole quindi negare né la fascinazione dell’enigma, né lo stupo-re che discende dalla scoperta. Tramandare al futuro in questo caso significa non compromettere la leggibilità del presente, fermare nei limiti del possibile il degrado della materia, ma parallelamente arren-dersi all’ineluttabile scorrere del tempo sapendo che il tempo non è reversibile, che mai potremmo tornare al “tempo zero21”.Le cogenti parole di Torsello che fanno riferimento all’apprendimento e alla scoperta devono trovare applicazione non solo tra gli addetti ai lavori (non solo “occasione di indagine scientifica”), ma devono eser-citarsi nella società, il manufatto deve poter innescare quel meccani-smo di stupore della conoscenza tra la collettività in grado di restituire

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in parte un prodotto. Quella cultura è ormai scomparsa, la sua conti-nuità attraverso la tradizione è cessata e l’operazione si tradurrebbe in una contestabile riproduzione superficiale di alcuni suoi elementi, in-differente ai criteri di rispetto dell’autenticità che soli assicurano la loro trasmissione al futuro quali affidabili testimoni di civiltà. In ogni area geografica e culturale del Paese, grazie all’impegno di molti studiosi di diversa appartenenza accademica, si sono così accumulate negli ultimi anni molte ricerche che hanno indagato materiali, tecniche costrut-tive e modi dell’abitare del passato, dando vita a repertori, atlanti o cataloghi densi di accurate analisi tecniche e critiche. Queste ricerche dimostrano la fertilità degli indirizzi di lavoro proposti dalla storia della cultura materiale, sia quando si sono sviluppate sulla base di espli-citi richiami ai metodi formalizzati dell’archeologia dell’architettura (o “medievale” o “dell’elevato”), tra cui l’analisi stratigrafica o le tecniche archeometriche di datazione, sia quando hanno fatto appello ai metodi consolidati dell’analisi storica e archeologica tradizionale.Ciò non deve d’altra parte stupire, anche se occorrerebbe approfondire le ragioni di una tale silente adesione di fatto, raramente denunciata. L’espressione cultura materiale, infatti, non compare esplicitamente in alcun documento ufficiale sulla tutela e la conservazione. […]Solo però nella dichiarazione di Nara sull’autenticità (1994), la parola “cultura” compare in modo autonomo ed, anzi, è spesso usato al plura-le, a significare la necessità di riconoscere e rispettare le molte culture del mondo, con le loro diversità e le loro tracce materiali, a garanzia di una futura civiltà umana fondata sul rispetto e la coesistenza tra i po-poli. Il termine “materia”, a sua volta, compare la prima volta nelle carte degli anni Trenta del Novecento, in due diverse varianti: come materia-li, ossia come “insieme di oggetti e manufatti d’arte da non disperdere durante i restauri”, oppure come materiali propriamente detti, esisten-ti e da restaurare appunto, o nuovi, da utilizzare nei restauri. […]

22 Valutare il livello del rischio permette di prevedere e programmare uno o più interventi a sistema. PANDOLFI A., 1998. 23 BELLINI A., in LUMIA C., 2003, p. 35.

di senso al luogo, connotarlo di memoria, rendere possibile ai più la comprensione di questa ricchezza, non chiara a tutti. Lo strumento divulgativo, le visite tematiche nel percorso messo in piedi dalla comu-nità hanno rappresentato un passo importantissimo per fare acqui-sire la consapevolezza di quanto sia importante tutelare la possibilità del comprendere e la stratigrafia archeologica in questo ne è stata lo strumento.Infine, una sistematica mappatura degli elevati del complesso (con-nessa ad una mappatura dei materiali, del degrado e dei rapporti stra-tigrasfici) potrebbe essere lo strumento per monitorare lo stato di conservazione ed elaborare a seguire una Carta del rischio22: una cartà di identità di tutte le tracce del manufatto che fisserebbe sistematica-mente la conoscenza delle stato di esercizio delle tracce.

Si è chiarito come restaurare, “massimizzando le permanenze23”, ma si rimanda ai paragrafi (1.5) successivi per definirne le modalità.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.2 Stratigrafia archeologica, manutenzione, restauro debole

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2.3 I valori fondanti e i principi guida dell’iniziativa popolare“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno, è quello che già è qui. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo è accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo piû. Il secondo è cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è in-ferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Italo Calvino – Le città invisibili

“Monuménto [dal lat. monumentum «ricordo», der. di monere «ricor-dare»], dice il vocabolario Treccani. Questo monumento per vent’anni è stato dimenticato, abbandonato. Passando dal concetto di “spazio di nessuno” a “spazio di tutti”, nasce l’idea di proporre una gestione dell’area; da oggi questo diventa uno spazio comune, ricordato, viven-te. Perché riteniamo che la rassegnazione sia suicidio quotidiano. Il complesso archeologico di Santa Maria in Passione viene aperto con profonda consapevolezza della storia dei luoghi e rispetto per la cultu-ra materiale che ci circonda. Ci assumiamo la responsabilità di questo gesto collettivo, perché abbiamo la necessità di tornare a pensare la società non come insieme di regole e leggi, ma come sistema di valori etici, culturali e politici: stiamo parlando di un’altra dimensione del vi-vere quotidiano, dove le azioni comuni diventino realtà diffusa”. Così recita un testo1 del 2014 e ancora “Questo è un parco di quartiere, luo-go d’incontro e sperimentazione, dove studenti, residenti, lavoratori e cittadini operanti nel mondo dell’artigianato, della cultura e dell’arte, della scienza e della tecnica possono sviluppare il proprio lavoro e con-dividerlo con la città, in modo aperto e orizzontale, attraverso pratiche collaborative. In questi luoghi si mettono al servizio della collettività le proprie esperienze e attitudini personali: di fatto, siamo tante storie diverse che si raccontano in autonomia e nel rispetto reciproco”.Questo, in assoluta sintesi, è quanto proposto, sostenuto da un grup-po di cittadini, soprattutto studenti della vicina Facoltà di Architettura, i quali hanno concentrato le loro energie e cure sugli spazi descritti nel primo capitolo. Lungo il percorso pluriannuale gli obbiettivi sono cambiati, gli orizzonti si sono ampliati, la consapevolezza sul difficile

Il progetto conviviale è la forma di espressione che abbiamo scelto per dare un’interpretazione di questi spazi un tempo abbandonati. L’obiettivo è quello di restituirli progressivamente al quartiere disegnando quindi una nuova accessibilità alla Collina.Il metodo, quando non è puro atto spontaneo, è quello della sperimentazione politica nell’autogestione, nella responsabilizzazione e nell’interazione diretta con lo spazio pubblico, che caratterizza il nostro agire fin dall’inizio.

È fondamentale quindi ricordare che la proposta di recupero di Santa Maria in Passione è la conseguenza naturale di un ragionamento che ci ha portato, dal 28 novembre 2011, a occupare e occuparci degli spazi verdi costretti tra l’imponenza della Facoltà di Architettura, il fitto tessuto edilizio del centro storico e le rovine del convento.

U n a p r o p o s t a d i p r o g e t t o c o n v i v i a l e

La prima edizione del Progetto Conviviale è stata presentata l’11 aprile 2013 all’Università, al Municipio e alla Soprintendenza archeologica. È stata recepita positivamente da tutti gli attori.Le aree verdi di proprietà dell’Ateneo, una volta messe in sicurezza, passeranno in comodato d’uso al Comune. Finalmente si tornerà ad avere una visione d’insieme della Collina di Castello e dei suoi giardini.Il documento completo è scaricabile all’indirizzo: www.inventati.org/spazioliberoÈ un documento aperto, cioè modificabile sia nella forma che nei contenuti.

tra passato, presente e futuro

I Giardini di Castello sono

un territorio di frontiera: tra

l’Università e la Grande Genova, tra

la formazione e il lavoro, tra la crisi

economica e lo sviluppo dei

beni comuni...

1 Comunicato pubblico del 2/12/2014 disponibile online su www.liberacollinadicastello.it 64 Disegno realizzato in occasione del Progetto conviviale 2.0

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“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunita’2.3 I valori fondanti e i principi guida dell’iniziativa popolare

compito a cui si è chiamati è consapevolmente maturata.Procedendo con ordine: l’iniziativa popolare è partita il 28 Novembre 2011 nei cosìdetti “Giardini di Babilonia” individuando in quegli spa-zi un luogo rivolto agli studenti e alla loro autoformazione. La realtà è stata poi diversa e le persone che hanno attraversato fino ad ora questi luoghi sono una piccola rappresentanza della società che li cir-conda: studenti, lavoratori, giovani e meno giovani, professori, dotto-randi, maestre, alunni, bambini, vicini, artisti, tutti uniti dall’esigenza di partecipare attivamente alla formazione di uno spazio con un’identità comune, condivisa, conviviale, informale. Gli intenti iniziali della comunità sono chiari e semplici: “La partecipazio-ne va cercata nell’iniziativa spontanea, individuale o collettiva, delle persone in quanto tali, la vera scommessa è riuscire a coordinarla e sfruttarne le gigante-sche potenzialità. Per questo motivo fino ad ora non c’è stata progettualità, ma solo intenzione2”.Passaggio chiarificatorio sulla partecipazione attiva e interazione di-retta sul bene comune è questo: “Quando parliamo di bene comune non facciamo solo riferimento a qualcosa da difendere e conservare, ma all’affer-mazione dell’autorganizzazione nella cooperazione studentesca, cittadina, so-ciale. Il comune, lungi dall’esistere in natura, va dunque prodotto: è la posta in palio di un processo costituente. La natura umana spinge nella direzione oppo-sta rispetto all’organizzazione democratica e orizzontale, è per questo motivo che la democrazia è un esercizio continuo, impossibile da delegare”. Dopo i primi passi e il sostanziale ritorno alla possibilità di fruizione si è cercato di darsi degli obbiettivi precisi legati alle esigenze maturate dall’analisi del nuovo stato dei fatti:-Funzione. I giardini di Babilonia sono un parco di quartiere, un luogo d’incontro e di sperimentazione. Lo spazio viene gestito dai suoi utenti in modo diretto e orizzontale.-Definizione delle responsabilità. Servirà definire una modalità di ge-stione formale a livello amministrativo. In parallelo, sarà necessario chiarire la questione della proprietà e dell’amministrazione pubblica di quest’area.

65 Il complesso visto dalla piaza di S. Silvestro 2 www.liberacollinadicastello.it

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Il progetto vuole scongiurare qualsiasi altra destinazione d’uso al di fuori di quella di “verde pubblico”-Contesto Grande attenzione sarà posta sull’accessibilità pubblica all’area. Dovranno essere presi in considerazione nel progetto gli ac-cessi, i cancelli, le scale, gli orari di apertura e chiusura.

Le modalità con le quali si sono perseguiti gli obbiettivi vanno su due binari paralleli e complementari, quello dell’azione diretta e quello del dialogo istituzionale essenziale per definire i rapporti proprietari e i vincoli. Ciò ha permesso la formulazione nel 2013 di un “Progetto con-viviale” che riguardava l’area dei giardini, delle terrazze sovrastanti e di piazza San Silvestro, zone per altro liberate dalle reti e bonificate con interventi drastici di pulizia a partire dal Marzo 2012.Il progetto conviviale 1.0, (allegato 4) sintesi delle idee e dei ragiona-menti di una comunità, è un esempio di come una componente sociale consapevole e preparata possa affrontare tematiche e fornire risposte abitualmente delegate alle decisioni di un amministrazione o a un pro-getto di terzi; in entrambi i casi qualcosa di calato dall’alto non frutto dei proponimenti di chi i luoghi li vive. Come vedremo in seguito questa proposta ha reso possibile, dopo diversi anni solo nel Febbraio 2015, la messa in sicurezza degli spazi (indispensabile prerogativa di uno spa-zio ad uso pubblico). Questo non ha impedito ai residenti e agli stu-denti di vivere e ridare identità ai luoghi nella lunga finestra temporale intercorsa tra il 2011 e il 2015.Una seconda edizione del progetto conviviale (allegato 4) viene resa pubblica l’8 Maggio del 2014 e per la prima volta veniva pubblicamente espresso l’obbiettivo di creare un parco verde e archeologico autoge-stito comprendente anche le rovine di Santa Maria in Passione. Dagli intenti si passa ai fatti con l’iniziativa del 5 ottobre 2014 giorno in cui ha inizio l’autogestione e l’apertura al pubblico del sito archeologico. La comunità elabora una carta dell’autogestione, riportata qui in seguito, che segna uno scarto sostanziale con gli esordi, in cui forte era la con-notazione dimostrativa delle iniziative, trasformandosi in una dimen-sione diversa, di gestione del patrimonio comune con delle ricadute

LA ProPoStA Il giardino di Santa Maria in Passione

IL GIARDINO COMEsperimentazione Il disinteressamento verso gli spazi li rende spersona-lizzati, vuoti. Risulta comune, tra le persone, questa re-azione spesso inconscia: i luoghi brutti e abbandonati smettono di essere considerati, diventano invisibili, ven-gono rimossi dalle coscienze.Lo spazio pubblico rimane quindi un tema cruciale per lo sviluppo della città contemporanea. In questo conte-sto, intendere lo spazio pubblico come comune significa passare dal concetto di “spazio di nessuno” a “spazio di tutti”.È questa la finalità prima, anima del progetto.Da qui nasce l’idea di proporre una gestione dell’area, che sia in grado di programmare eventi culturali all’aperto:-rappresentazioni teatrali-cineforum-piccoli concerti-installazioni artistiche-conferenze, dibattiti...

Certamente, per gestire uno spazio del genere serve una consapevolezza profonda della storia dei luoghi, ma so-prattutto un rispetto della cultura materiale che ci cir-conda, concetto che sta alla base del senso civico.Ripartendo dal senso etimologico del termine monumen-to, e la sua derivazione dal latino “monumentum”, me-mento, ricordo, ci sembra opportuna una precisazione: dobbiamo abbandonare l’idea conservatrice della con-servazione. In altre parole, se il bene è dimenticato non viene mantenuto e muore. Non rimane altra strada che valorizzarlo e quindi viverlo.Ora, quali sono le alternative plausibili per il recupero di questo spazio? Forse basterebbe un esposto che verifi-casse le responsabilità penali delle istituzioni sulla man-cata tutela del bene, poi si spenderebbero altri milioni di euro per dare un nuovo vestito a uno spazio morto. Non è questo il modo di agire: non basta una bonifica straordinaria, il ripristino quo ante delle aree. Deve seguire una gestione ordinaria di questi spazi. Con questa riflessione non ci limitiamo a commentare una proposta di uso pubblico di uno spazio complesso, ma piuttosto vogliamo stimolare un dibattito pubblico sul mantenimento dell’immenso patrimonio storico-ar-tistico-paesaggistico del nostro paese.

CuLturALeSoCIALe

PERChÈ PARTIRE DAL GIARDINO?

Il processo di graduale recupero dell’accessibilità della Collina di Castello, già avviato negli ultimi due anni, si concentra proprio sul riconnettere le aree verdi esistenti: è stato questo interesse comune che è riuscito a tessere le relazioni tra studenti e abitanti del quartiere.Dalla cura degli spazi verdi parte quindi la nostra proposta d’intervento, che si articola in tre fasi.

Ogni fase, nel concreto, sarà rappresentata da una giornata di iniziativa popolare, che terminerà con momenti ricreativi.

IL GIARDINO COME SPAzIO DI RITROVO PER IL qUARTIERE

INTERVENTI E COSTI

BONIFICA 700 €

MESSA IN SICUREZZA 800 €

IMPIANTO ELETTRICO 3500 €

ARREDO 700 €

OPERE ARTISTICHE 350 €

MOSTRA E STREETART

Intorno al giardino, decoreremo i muri del quartiere per segnalare i nuovi spazi e valorizzare la storia della collina.

INAUGURAzIONE

I nostri interventi si concluderanno con una due giorni di costruzione e allestimento degli arredi, che terminerà con una grande festa d’inaugurazione.È da questo aspetto che riparte la nostra riflessione sulla vivibilità degli spazi pubblici.

RECUPERO DELLO SPAzIO

A partire dalla bonifica straordinaria di quest’area, dobbiamo immaginare questi spazi come occasione di incontro tra le persone.

VEDI ALLEGATO 1

VEDI ALLEGATO 2

66 Disegno realizzato in occasione del Progetto conviviale 2.0

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ben più importanti sui luoghi. “Giardini e rovine possono essere considerati un parco autogestito:il passaggio e la sosta nel parco sono liberi e incondizionati.1. La partecipazione:l’informalità Qui si rispettano la pluralità e l’informalità degli incontri, delle attività, delle relazioni, che in questi luoghi nascono e mutano nel tempo: non ci sono gestori formali di questi spazi comuni. Nella quotidianità del parco la comunità si autodetermina, nel rispetto di persone e luoghi.Le attività. Ogni attività che si riconosca nei principi contenuti nella carta della convivenza* è benvenuta. Le attività organizzate all’interno degli spazi delle rovine vengono discusse e calendarizzate dall’assemblea di gestione e inseri-te in un archivio della partecipazione. Non si organizzano attività che presup-pongano un biglietto d’ingresso al parco, che rimane per tutti libero e gratuito.2. Organi di autogestione: L’assemblea di gestione: è lo spazio dedicato al confronto, alla proposta, alla critica; è il luogo in cui si programmano i lavori e le attività culturali; è un in-contro pubblico la cui partecipazione è libera. Criteri e tempi di convocazione sono bisettimanali, il martedì dalle 18, nelle rovine. Le decisioni vengono rag-giunte attraverso la pratica del consenso. La pratica del consenso è un me-todo inclusivo e non autoritario, un processo decisionale condiviso: posizioni differenti possono vivere insieme, in autonomia senza essere dissolte in una sintesi unica o in un’opzione prevalente, accogliendo la natura generativa del conflitto e delle contraddizioni. […] Le pratiche di democrazia reale superano la delega e il metodo della maggioranza, evidentemente competitivo. La co-munità, in questo modo, si autodetermina nel corso dell’azione come attua-trice dell’esperienza di un processo aperto e condiviso. (dal Codice politico del Teatro Valle Bene Comune)L’archivio delle partecipazioni: è una testimonianza della pluralità e trasversa-lità d’interessi che attraversano il parco. Chi sceglie di essere inserito nell’ar-chivio non acquisisce maggior potere decisionale.3. Recupero, manutenzione e trasformazione:il buon uso del parco è la prima garanzia della sua conservazione. La comu-nità assume come principio fondante la libertà di trasformazione degli spazi del parco. Ogni intervento di recupero, manutenzione o trasformazione viene discusso, elaborato e documentato dall’assemblea di gestione, che segue i

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunita’2.3 I valori fondanti e i principi guida dell’iniziativa popolare

67 Spettacolo teatrale organizzato nell’aula della chiesa.

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Nella pagina a fianco è sinteticamente descritto l’iter burocratico a confronto con il dispiegarsi delle varie iniziative organizzate nel tempo.Sono evidenti i limiti temporali che il procedimento burocratico por-ta con sé. Attualmente Dicembre 2015 se si fosse atteso l’esito della messa in sicurezza dell’assegnazione degli spazi, della concessione ad usufrutto da parte dell’università al comune (procedimenti di cui si parlerà compiutamente nel paragrafo 2.5) lo spazio non sarebbe anco-ra tornato alla fruizione delle centinaia di persone che lo hanno vissu-to, visitato, utilizzato.

principi del riuso dei materiali, della minimizzazione dell’impatto, dell’autoco-struzione, del rispetto e della valorizzazione della memoria storica.3”.

La carta appena illustrata è un documento aperto, come ancora aper-ta è la strada che definirà le caratteristiche, pressoché nuove, dell’e-sperienza di autogestione del complesso archeologico di Santa Maria in Passione e dei suoi giardini.A conclusione di questa breve, e sicuramente lacunosa, descrizione di quello che il “comitato di cittadini” propone, proverò a dare una defi-nizione degli intenti e degli obiettivi, in quanto membro attivo nell’ini-ziativa:

La Libera Collina di Castello è un insieme di cittadini organizzati che partecipano attivamente per promuovere la valorizzazione, la conser-vazione, la cultura di un parco autogestito sulla Collina di Castello a Genova. La Libera Collina di Castello è un percorso aperto di contaminazione, pratica di autoformazione, di accoglienza delle diversità dove i citta-dini possono sperimentare forme d’arte, di artigianato e di cultura, scienza e tecnica. La Libera Collina di Castello promuove l’idea di un nuovo Parco cultu-rale urbano, promuove la conoscenza del sito archeologico di Santa Maria in Passione e elabora le strade per una cura attiva del bene, nella forma dell’autogoverno e dell’autonomia.

3 estratto della Carta dell’autogestione disponibile sul sito www.liberacollinadicastello.it 68 Momento di pulizia e manutenzione ordinaria

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2013

2014

2015

25/10/2011_ primo confronto studentesco su carenza di attivita’ parallele alla vita universitaria28-30/11_ alcuni studenti valicano nella notte il confine delle aree verdi li-mitrofe a stradone Sant’Agostino e piantando un albero di melograno danno il via al progetto di recupero autogestito ‘‘LIBERI GIARDINI DI BABILONIA’’

15/03/2012 _ L’APERTURA. In orario accademico un gruppo di persone ‘‘sen-za autorizzazione’’ prende l’iniziativa di smontare le reti e il filo spinato che dal 1991 chiudevano piazza S.Silvestro, denunciando lo stato di abbandono dell’intera area di Santa Maria on Passione.

13-14/10/2013_ LA PREMIERE! Grande festa di primavera e presentazione del progetto alla cittadinanza.02/06/2013_ LIBERA REPUBBLICA DI BABILONIA è festa grande: dopo il ri-fiuto di concedere le aperture domenicali, una cinquantina di persone entra-no e banchettano in giardino senza che i vertici se ne accorgano…

15 -17/10/2013_ APERTAMENTE pranzi collettivi in Facoltà, vengono ri-mosse le serrature dei cancelli ancora chiusi e autogestite le aperture per diversi mesi, fino a che non vengono rimessi nuovi lucchetti dall’universita’.

La Primavera è dedicata ai LABORATORI AUTOGESTITI: anche grazie al finan-ziamento dell’Università, portiamo avanti i lavori di sistemazione in giardino05/10/2014_ Viene aperto il giardino del convento di SANTA MARIA IN PAS-SIONE Seguono giorni intensi di lavori, fino alla prima festa di quartiere, il 26/10

8/03/2015_ dopo una prima edizione il 21 dicembre, nasce la RAIBA, mer-cato delle autoproduzioni, animato da oltre 50 banchi, appuntamento che diverra’ mensile. In tutto il periodo continuano vari Laboratori Autogestiti.15/09_TUTTO DA QUI HA INIZIO inaugurazione mostra fotografica sull’area.

APPLICAZIONE DEL DECRETO GELMINI, Architettura viene fusa con Inge-gneria nel Politecnico Genovese.

11/04/2013 _ a seguito di un primo incontro del gruppo autogestito con Universita’, Municipio Centro Est e Soprintendenza , tenutosi a Gennaio, vie-ne presentato il ‘‘progetto conviviale’’ alle varie autorita’ sopracitate. 24/04/2013 _ le varie richieste di apertura dei cancelli superiori, per rendere accessibile l’area, vengono rigettate dal Preside Massardo30/042013 _ il Consiglio di Scuola Politecnica approva i contenuti del proget-to presentato incaricando il Professor Dassori di occuparsi del progetto ese-cutivo di messa in sicurezza seguendo le indicazioni riportate nel ‘‘progetto conviviale”.22/05/2014_ il Preside Massardo rigetta la nostra richiesta di aperture stra-ordinarie domenicali, s’interrompono le relazioni.23/10/2014_ il C.d.a di Ateneo approva il finanziamento del progetto esecu-tivo di messa in sicurezza.

30/10/2014_ a distanza di un anno dall’approvazione viene depositata la SCIA (Segnalazione Certificata Inizio Attività) in Comune. Significa che tutto l’iter amministrativo è concluso e possono iniziare i lavori di messa in sicu-rezza.

1-15/02/2015 vengono eseguiti i lavori di messa in sicurezza.05/11/2015_Da un’articolo uscito sul secolo XIX, l’assessore alla cultura Carla Sibillla preannuncia l’intenzione entro fine anno di affidare la gestione dell’area ad un gruppo privato attraverso gara d’appalto.

questioni amministrative interazione diretta

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunita’2.4 Il processo di trasformazione: da spazio a luogo

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Di per se gli spazi in questione hanno una forte componente identi-ficativa: raro spazio verde nel centro cittadino e al contempo rovina inserita in un contesto urbano compatto. Per essere detto Luogo uno spazio deve essere identitario, relazionale, storico1. È chiaro che questo spazio sia storico, ma non può dirsi identitario e relazionale se non è in uso. Nessuno spazio abbandonato può definirsi identitario. È tornato ad essere luogo con le iniziative di riapertura progressiva degli spazi, con l’inizio delle relazioni tra individui all’interno di uno spazio di tutti. Un Luogo è uno spazio con un identità, oltre a quella storica, deve es-sere un’identità sociale e culturale. Il passaggio avviene quando una comunità diviene solidale attorno ad uno spazio, e si allea per elabo-rare risposte ai bisogni tradizionali di una società di individui (socialità, inclusione, cultura, sperimentazione) Il non-luogo è lo spazio senza un’identità sociale, è uno spazio di nes-suno, vissuto come qualcosa di cui non curarsi. L’abbandono ha per-messo di mantenere un’ immagine di non sfruttamento al sito nel suo

Giardini

28 - 11- 2011

Reti

15 - 03 - 2012

Cancelli

15 - 10 - 2013

Rovine

05 - 10 - 2014

complesso, un valore aggiunto che rende lo spazio libero dalle regole del consumo e lo eleva a luogo esclusivo dello spirito, della socialità senza interesse. Lo spazio oggi è tornato in uso, e questo comporta solo uno “sfruttamento” ai fini culturali, ludici e didattici, lasciando-lo libero da logiche di omologazione di ogni sorta, ma permettendo ai manufatti di tornare oggetto di cura per qualcuno. Assomma a se il valore che hanno le Rovine in quanto non-luoghi e il valore dello spa-zio appena tornato luogo. Le Rovine avrebbero potuto essere e sono invece molteplici, spiazzano2. Al loro interno ci sentiamo persi, lontani dalla real-tà, liberi, anche soli, oppure esaltati. Il Luogo nuovamente identitario è adatto ad essere piattaforma delle più svariate contaminazioni, senza ancora un’identità prestabilita difficile da inscatolare e per questo spe-rimentale e vario.Parliamo di “Libera Collina di Castello”, un luogo per tutti, riserva ideale delle buone pratiche. 1,2 AUGÈ M., 2004, p.32, p. 114.

2.4 Il processo di trasformazione: da spazio a Luogo

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“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunita’2.4 Il processo di trasformazione: da spazio a luogo

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2.5 I progetti elaborati dalla comunità Un confronto durato mesi ha trovato sintesi nel progetto conviviale 1.0 e nel progetto conviviale 2.0. (Allegato 4) che analizzano e svilup-pano le soluzioni spaziali e le modalità di gestione necessarie per dare forma e futuro al bene comune oggetto di questa tesi. La vocazione che questi luoghi devono avere ora e in futuro è la stessa che hanno oggi: un parco di quartiere, aperto alla sperimentazione di ogni sorta (nei limite del rispetto dei luoghi), accessibile facilmente da tutto il centro storico, luogo della didattica e della scoperta delle Rovi-ne di Santa Maria in Passione. Questo però sarà facilitato e migliorato superando i limiti dello stato dei fatti. Nel 2011 nessuna di queste aree era agibile, oggi fine 2015 è possibile, in sicurezza, fruire di tutti gli spa-zi. I limiti derivanti dai varchi di accesso, sono tuttavia determinanti ai fini della fruibilità: acclività, percorsi non chiari, accessi spesso chiusi configurano un parziale isolamento della collina. L’intera area è per di più sottoposta a vincolo archeologico e pertanto ogni modifica dei suoli è impossibilitata, ogni intervento di modifica delle parti affioranti vietato. I problemi del rapporto con il vincolo ar-cheologico sono molteplici: se da un lato il vincolo tiene lontano l’am-ministrazione da scellerate destinazioni d’uso (come possono esse-re ad esempio i parcheggi con verde pubblico a raso. I vicini Giardini Luzzati sono la “oscena” testimonianza di come un sito archeologico possa trasformarsi in un giardino di cemento con annesso parcheggio malgrado le tracce archeologiche) dall’altro impedisce interventi mi-gliorativi sulle quote degli spazi verdi che migliorerebbero la vivibilità. Tutti gli interventi realizzati fino ad oggi sono stati eseguiti rigorosa-mente in appoggio al piano di campagna senza scavare e modificare lo stato dei suoli. I progetti contribuiscono a chiarire quali sono le tre principali proble-matiche da risolvere: messa in sicurezza, accessibilità e mobilità, con-servazione e manutenzione delle rovine.Il primo progetto (Progetto conviviale 1.0) riguarda solo una parte dell’area comprendente i giardini, le terrazze verdi e la piazza di San Silvestro. Questo perché Santa Maria in Passione era ancora abban-donata. Ciò non ha impedito di immaginare una fruizione d’insieme dell’intera collina comprendendo anche la parte delle rovine, immagi- 69 Disegno realizzato in occasione del Progetto conviviale 1.0

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nando di mettere a sistema tutte le aree verdi, anche quella degli Orti (attualmente diventati fulcro delle iniziative). Le aree coinvolte nel pro-getto a differenza delle rovine di proprietà comunale, sono di proprietà dell’Università di Genova. Tra le cause dell’abbandono della collina in questi ultimi venti anni sicuramente la ripartizione della proprietà è stata decisiva. Con la proposta presentata si risolverà questo “con-flitto” alienando le aree di proprietà dell’Università al comune previa messa in sicurezza e permettendo così di affidare l’area ai cittadini attivi. Altro punto è permettere l’accessibilità al di fuori dell’orario ac-cademico. Questi piccoli interventi, importanti per poter fruire in futuro dei luoghi, dopo un lungo iter burocratico sono stati posti in essere dall’Istituto universitario a febbraio 2015.Il Progetto conviviale 2.0 (Allegato 4) è stato presentato in occasione del bando comunale “Partecip@1” e prevedeva la bonifica, la messa in sicurezza, la predisposizione di un impianto elettrico e l’allestimento di nuovi spazi per la sosta nelle rovine di Santa Maria in Passione. Il bando non è stato vinto, ma caparbiamente si è realizzato a distanza di 20 mesi quello che si proponeva nel progetto (autofinanziandoci).Dopo 3 anni di programmazione il processo è in continua evoluzione e sempre stimolo di grande riflessione per un progettista. I limiti sono comunque evidenti: l’autofinanziamento non risponde appieno alle esigenze conservative. L’area presenta anche problematiche struttu-rali, come si è visto al paragrafo 1.4, le quali avrebbero bisogno dell’in-tervento dell’amministrazione comunale. Come far convivere even-tuali interventi manutentivi a carattere straordinario e la continuità di utilizzo sarà una scommessa del futuro prossimo venturo. In ultimo, ma non tale per importanza, l’accessibilità va ripensata proprio da un punto di vista architettonico A questo si rimanda nell’approfondimen-to a fine capitolo. (paragrafo 2.7) Seguono gli aspetti sulla messa in sicurezza, sull’accessibilità, sulle opere di conservazione e manuten-zione.

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1 Pubblicato agli inizi di marzo 2014, il bando del progetto Partecip@ invitava tutti cittadi-ni, senza alcun vincolo di residenza, sia singolarmente che in forma associata, a presentare progetti aventi per oggetto interventi di manutenzione straordinaria e riqualificazione di spazi pubblici e/o edifici comunali, da realizzare nel Municipio I Centro Est.

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L’accessibilità all’area è ineluttabilmente legata agli orari di apertura della Scuola Politecnica. I varchi di accesso che regolano gli ingressi nella zona sono gestiti da una società di guardianaggio che si occupa dell’apertura e chiusura in orario accademico (LUN-VEN 8.00-20.00). Questo rappresenta evidentemente un limite per uno spazio verde che vuole ambire a diventare un parco di quartiere. La chiusura nei pre-festivi e nei festivi limiterebbe lo spazio nei giorni dedicati al tempo libero. Per ovviare a questo problema si sono inseriti due nuovi cancelli che permettono di tenere chiusa in sicurezza la Facoltà di Architettu-ra senza impedire l’utilizzo delle aree verdi aprendo i restanti varchi. Questa proposta è stata recepita, approvata dal consiglio di facoltà, dal consiglio di amministrazione di ateneo, presentata al comune e alla soprintendenza dei beni architettonici e realizzata nel Febbraio del 2015.Per quanto attiene la sicurezza degli ambienti per un uso pubblico era importante inserire delle balaustre protettive lungo i perimetri dell’a-rea in prossimità degli sporti. Anche in questo caso la progettazione delle stesse è stata elaborata seguendo le indicazioni fornite nel pro-getto conviviale 1.0, e realizzate nel Febbraio 2015 senza però man-tenere un disegno congruo con le balaustre esistenti nel complesso di architettura. Il risultato estetico non è convincente soprattutto per quanto concerne le ringhiere affaccianti su vico Amondorla e vico Ve-getti. Interventi per altro considerati non essenziali dal canto nostro visto che in sito era già presente una recinzione dove necessario (non in regola con le normative vigenti) e alcuni monconi assolvevano al ruolo di parapetto, tuttavia risolvere definitivamente la questione si-curezza ci sembra un risultato in linea con la possibilità di fruire libera-mente i luoghi. Le terrazze superiore hanno visto l’inserimento di una balaustra mancante in un punto realmente pericoloso e attualmente sono agibili e fruibili in sicurezza. Una futura modifica degli accessi e l’inserimento di nuovi collegamen-ti verticali e passaggi ponte con piccoli e puntuali interventi potreb-be determinare un sostanziale miglioramento riuscendo a connettere spazialmente i quattro spazi verdi principali (giardini, terrazze, orti, e

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2.5.1 La messa in sicurezza e i cancelli

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Ringhiere nuove

Cancelli preesistenti

Cancelli nuovi

70 Balaustra inserita nel febbraio 201571 Uno dei due cancelli aggiunti a protezione della Facolta’

giardini P.Rotondi) oggi frammentati, difficili anche solo leggerli come un organismo unitario. Il concetto sostanziale è rendere le aree verdi attorno al sito archeologico il meglio fruibili possibile per un utilizzo pubblico impedendo che l’insieme torni nuovamente un luogo dimen-ticato.

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2.5.2 Aspetti di conservazione/manutenzione

La manutenzione e la conservazione sono temi cruciali per il senso stesso di questa iniziativa popolare.-La manutenzione ordinaria delle aree verdi è affidata agli abitanti del quartiere, ai volontari e a chi vuole spendere il suo tempo libero a cu-stodire, a far rispettare la pulizia e il decoro del parco. La manutenzione straordinaria è stata per ora gestita dalla Scuola Politecnica: rimozione dell’alberatura morta di alto fusto, potature di ringiovanimento delle essenze da frutto, rimozione delle spezie pioniere.-La manutenzione ordinaria e straordinaria delle rovine è, invece, un problema complesso, che merita un approfondimento. Si è cercato di intervenire con la massima urgenza sulle questioni che arrecava-no danno agli spazi e ne impossibilitavano l’utilizzo: si è intervenuto per ristabilire la funzionalità di tutte le coperture, lo scolo delle acque meteoriche, il ripristino delle fognature e consolidato i selciati dove disconnessi. Si è operato un importante lavoro di bonifica sulle aree verdi, ripristinato lo scolo dei pluviali e le pendenze delle grondaie e lo scarico delle acque nelle fognature, rimettendole in funzione Si sono sostituiti due pannelli di vetro sulle copertura del convento e si sono inseriti due nuovi infissi per i lucernai sulla copertura della parte su-perstite della chiesa, mai inseriti dal 1997. Tutto questo a spese e con il lavoro volontario delle persone permettendo nell’effettivo di poter ri-utilizzare lo spazio in sicurezza, impedire il deperimento della materia causato dai fenomeni meteorici.Nessuno può mettere in discussione l’importante ruolo che ha as-sunto, dal punto di vista conservativo, il ritorno all’uso, la custodia di questo bene archeologico. Sarebbe altrettanto discutibile negare che alcuni interventi, per fortuna non apparentemente urgenti secondo le valutazioni fatte, siano di una portata che va al di fuori delle economie, delle competenze insite nella comunità della Libera Collina di Castello. E’ pertanto auspicabile che per alcuni interventi sia l’amministrazione pubblica a farsi carico degli oneri per la conservazione o aiutare a tro-vare i mezzi per assistere l’iniziativa. A seguire riportiamo le linee guida per un programma/progetto di interventi conservativi che permette-rebbero in potenza una sostanziale conservazione delle permanenze.

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8bonifica DI ORTI, CHIESA, PIAZZA e TERRAZZE

restauro del Lavatoio esterno del Convento

inserimento coperture nei lucernari presenti

sostituzione vetri della copertura

consolidamento/restauro di pittura muraria IN CORSO D’OPERA

impermeabilizzazione copertura del voltino

rimozione albero infestante tipo Ailanto IN FASE DI STUDIO

rifacimento manto di copertura su terrazzo

REALIZZATO

72 Vetri danneggiati e sostituiti della copertura reticolare in vetro73 Fase di bonifica della piazza di San Silvestro74 Gli orti del convento durante la fase di bonifica.

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MANUTENZIONE(di Stefano Della Torre in ‘ANANKE n.75, pp. 32-33)

L’auspicio di una costante e regolare manutenzione è presente in tutti gli articolati sul restauro dagli albori della disciplina fino alla Carta italiana del 1972, di solito accompagnato dalla considerazione che una buona manuten-zione scongiura la necessità dell’intervento di restauro. In queste afferma-zioni il termine manutenzione è usato in modo non problematico, facendo riferimento a un concetto altrettanto elementare di conservazione come negazione o mitigazione del mutamento. Entro il medesimo ambito seman-tico, il termine assume spesso la valenza di “piccolo restauro”, innocente per la sua minima complessità progettuale e le sue benefiche conseguenze in termini di prevenzione, ed è sullo sfondo di questo pensiero che vennero introdotte le prime disquisizioni più dettagliate sul come fare manutenzione, in particolare con riferimento alle aree archeologiche. I manufatti allo stato di rudere infatti, per le deficienze del loro sistema tecnologico e per la indi-scussa priorità dell’autenticità del materiale tra i criteri per la loro gestione, più degli altri evidenziano la problematicità delle pratiche manutentive e la loro soltanto apparente innocenza.Un salto concettuale rispetto al modo di intendere e praticare la manuten-zione è avvenuto nel momento in cui si è ragionato di essa mutuando l’ap-proccio sistemico con cui i processi manutentivi sono oggetto di ottimiz-zazione in ambito industriale: ciò avvenne dapprima nell’ambito dell’edilizia utilitaristica di nuova costruzione, a prescindere dai valori culturali. Parlare di programmi di manutenzione, di requisiti di manutenibilità, di manutenzio-ne pensata fin dal progetto significa introdurre riflessioni e strumenti nuovi, da una parte trattando la manutenzione nell’ambito di una problematica più vasta, dall’altra configurando la manutenzione come un ambito non sem-plice ma anzi bisognoso di specifiche riflessioni e avvertenze. Si configura infatti un trasferimento tecnologico da un ambito all’altro, con il rischio di fraintendimenti e della trasposizione inconsulta di concetti e pratiche.Ove informata dei valori culturali, la manutenzione assume, oltre all’obiet-tivo di garantire l’integrità e la funzionalità dell’oggetto, anche l’obiettivo di non tradirne l’autenticità. Questo esclude le pratiche di sostituzione preven-tiva programmata, sulla base di valutazioni statistiche della durabilità degli elementi e componenti.

Va ricordato brevemente cosa si intende per conservazione del sito archeologico di Santa Maria in Passione e quale finalità assume un certo tipo di restauro: la risposta è da ricercare nel significato estetico e pedagogico delle rovine. Estetica: Il paesaggio delle rovine, non riproduce integralmente nessun passato e riconduce ad una molteplicità di passati “offre allo sguardo e alla coscienza la duplice prova di una funzionalità perduta e di un’at-tualità massiccia1”. Ferire, mutare questa attualità comporterebbe la perdita del senso del tempo e della storia. E’ chiaro che la conservazio-ne di un bene di questo tipo non passa per l’integrazione dell’immagine e il ritorno ad un dato tempo, ma filtra dalla tutela di un tempo puro di una molteplicità di tempi storici che convivono nelle viscere materiali della rovina. Il godimento estetico deriva dall’incompleto, dal senso di scoperta di quello che immaginiamo manchi di fronte a noi, sapendo che in un dato passato era visto da altri spettatori in una compiutezza che a noi non è dato raggiungere e che si deve in ogni modo rigettare. La percezione di questo scarto è la ragione essenziale del nostro pia-cere, un restauro lo annullerebbe.Pedagogica: nella società contemporanea si è perso il senso della sto-ria e del tempo. Viviamo in un presente che non ha più contatto con il proprio passato e che si vede estraneo da esso, percependo nell’acce-lerazione della storia la causa di questo divario. Nella globalizzazione viviamo a contatto quotidianamente con i Non-luoghi della modernità (spazi senza identità, un Qualsiasi luogo, come già precedentemente ricordato) i luoghi del trasporto e del consumo, nuovi emblemi del si-stema globale. Si oppongono ad essi gli spazi della ”storia, dell’identità e delle relazioni sociali2”e sono le coordinate a disposizione dell’uomo contemporaneo per ristabilire un rapporto con il passato. In questo senso le rovine hanno una vocazione pedagogica secondo l’antropo-logo francese Marc Augè. Aggiungiamo che nel caso specifico di Santa Maria in Passione non sono solo le rovine ad educare la società a sen-tirsi parte di un’identità storica, culturale, ma la partecipazione stessa

2.5.3 Operare e programmare interventi conservativi

1 AUGÈ M., 2004, p. 76. 2 Ibidem.

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del cittadino che si prende cura del parco contribuisce e determina for-me di socialità diversa dal sistema dominante. Massimizzare le permanenze, minimizzando gli interventi è l’unica fi-losofia di restauro praticabile. “I manufatti allo stato di rovine infatti, per la deficienza del loro sistema tecnologico e per la indiscussa prio-rità dell’autenticità materiale più degli altri evidenziano la problemati-cità delle pratiche manutentive3”.

La Manutenzione “croce e delizia“ del restauro contemporaneo è ciò che legittima il cittadino a prendersi cura del manufatto. Spieghiamo brevemente perché. La Proprietà, per giunta se pubblica, dovrebbe garantire la buona cura e conservazione di un bene che è patrimonio collettivo. Nel momento in cui questa prerogativa viene disattesa, la cittadinanza ha il diritto/dovere di prendersi egli stessa cura del bene. Se si hanno le competenze potrebbe essere battuta la strada dell’ap-porto manutentivo praticato dal cittadino stessa, previa formazione e insegnamento di quelle tecniche di base che non richiedono l’interven-to di una maestranza esperta. Immaginiamo una stuccatura di una malta degradata, una risarcitura salvabordo. Operazioni insomma che se sistematizzate e calendarizzate potrebbero scongiurare l’interven-to straordinario di restauro. Come è ovvio queste azioni vanno coordi-nate da persone tecnicamente preparate, ma prima ancora si esige la redazione di un documento tecnico elaborato da diverse competenze (architetto, storico dell’arte, tecnologo, restauratore). Una volta deli-neate le componenti basilari del piano è verosimile che alcune ope-razioni siano affidate al fruitore del bene e non siano delegate ai soli tecnici/restauratori comunque indispensabili per operare su delicate situazioni. Affidare quindi il compito della manutenzione, nei limiti tecnici del possibile, ad alcuni cittadini consapevoli e atti ad eseguire la continuativa opera di monitoraggio e salvaguardia potrebbe essere la risposta concreta al deperimento materiale di molti monumenti: “E’ chiaro a tutti che la permanenza dei valori della comunità è garantita dalla permanenza dei suoi monumenti” E se fossero gli stessi cittadini

Mette conto soltanto accennare, con riferimento ad un annoso dibattito in proposito, che la sostituzione non può essere definita la regola del mondo preindustriale, nel quale di regola invece, per ovvie ragioni economiche, si procedeva a riparare, e la sostituzione era sempre mirata e limitata all’ir-reparabile. In generale, l’obiettivo di salvaguardare l’autenticità conferisce priorità all’efficacia delle pratiche gestionali e manutentive nel prevenire il degrado degli elementi, il che rientra nell’ambito della prevenzione, e ad al-ternative che portino alla riparazione, ed eventualmente al miglioramento, degli elementi esistenti piuttosto che alla loro sostituzione integrale. Va os-servato che anche l’espressione “manutenzione preventiva” comporta una certa ambiguità, perché se da un lato essa ben esprime la fondamentale finalità di evitare le cause i processi di degrado, dall’altra essa coincide con il termine utilizzato in ambito industriale, dove importa solo la funzionalità e non l’autenticità, per le pratiche di sostituzione preventiva in base alla previ-sione statistica del guasto.L’obiettivo dell’autenticità dunque seleziona le pratiche manutentive am-missibili, di fatto imponendo un attento controllo delle condizioni, ed esclu-dendo l’applicazione di rigidi protocolli compilati ex-ante. Poiché i controlli stessi dovrebbero essere programmati, si resta nell’ambito della cosiddetta “manutenzione programmata”. Più che insistere nel programmare la manu-tenzione, il che per certi versi è ovvio in quanto una manutenzione non pro-grammata appare impensabile, e nella realtà dà luogo a situazioni contrad-ditorie, risulta produttivo sottolineare che la manutenzione è coerente con una visione di lungo periodo, in cui le attività sono distribuite e concatenate nel tempo e giocano sulle diverse componenti della sostenibilità, in quanto si privilegia il mantinemento in efficienza degli elementi autentici, con inter-venti di riparazione che richiedono spesso maestria artigianale. Il passaggio decisivo è quello da attività slegate nel tempo e concluse nel progetto di cia-scuna di esse ad una programmazione che, comprendendo la manutenzione ma anche l’impostazione negli interventi di maggior complessità diretti sul bene, le attività rivolte all’interazione e ai rischi del rapporto tra il bene e il contesto, rendono possibile la conservazione e la attuano nel lungo periodo anche grazie al controllo delle risorse necessarie e dei benefici prodotti.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.5 I progetti elaborati dalla comunità

3 Stefano Della Torre nella definizione di MANUTENZIONE che da nello “abecedario mini-mo del Restauro, oggi” riportanta qui a fianco. ‘ANANKE n.74 pp. 32-33

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a prendersi in custodia e a preservare la memoria materiale collettiva?.Il breve documento che segue, scritto a quattro mani con Alessandra Cavalli4 è stato pensato per illustrare, in modo sintetico e schematico, quanto di utile c’è da sapere sugli interventi di restauro conservati che andrebbero attuati per raggiungere una manutenzione stabile delle tracce. il cosidetto “punto zero5” prima di iniziare con un Piano di ma-nutenzione programmato.Il sito di Santa Maria in Passione è attualmente una parte dell’area archeologica della Collina di Castello. Poche sono le tracce artistiche rimaste (stucchi, fregi, ornamenti e lacerti di decorazione pittorica), quindi preservare dal deperimento della materia assume una partico-lare rilevanza. Se teniamo presente quanto scritto nelle fonti antiche (Alizeri nel 1875 scrisse riferendosi alla Chiesa “se ne fornì di tal guisa ch’io non so bene quale altre non abbiano a recarlene invidia”) si apprende che il ciclo decorativo presente in Santa Maria in Passione rappresentava un im-portante esempio del barocco genovese6. Di questa decorazione non rimangono che scomposti e poco leggibili residui, ma in buona misu-ra queste tracce connotano ancora fortemente il sito. Dal dopoguerra non sono note operazioni volte al consolidamento delle pitture murali in loco. Gli unici inteventi noti sono alcuni importanti strappi attual-mente conservati al museo di Sant’Agostino7. Non possiamo quindi accontentarci di una manutenzione ordinaria in un momento in cui il sito avrebbe bisogno di intervento straordinari. Sappiamo che il complesso non è solo stato un luogo di culto: le di-

75 e 76 La decorazione presbiteriale prima del distacco. Lo stucco caduto nella notte tra il 6 e il 7 luglio 2015

4 Alessandra Cavalli è una ex-restauratrice che per diversi decenni ha operato a Genova. E’ attivamente coinvolta nell’iniziativa e ha messo a disposizione le sue conoscenze tecni-che in materia di recupero di pitture murali. 5 Il punto zero è diverso dal termine tecnico usato nell’ambito della manutenzione tradi-zionale “Tempo zero”. Il punto zero sarà il momento temporale in cui si da l’avvio il Piano di conservazione CROCE S. 2003 p.35. 6 Ricordiamo che Valerio Castello, attivo nella decorazione della chiesa, è considerato il più talentuoso dei pittori di scuola genovese del suo tempo 7 Una cartella di affresco raffigurante il Mosè dipinta da Domenico Piola e un medaglione monocromo in terra verde anch’esso attribuito al Piola.

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struzioni belliche, hanno reso possibile leggere con chiarezza la pre-senza di una domus Embriaci (la maggior parte del muro perimetrale di facciata della chiesa appartiene al palazzo Embriaci e non alle fasi costruttive successive).Le superfici pittoriche e la decorazione a stucco stanno irrimediabil-mente degradando a qualcosa di incomprensibile, sono in procinto di perdere la loro valenza artistica. Non vi è dubbio alcuno che la priorità d’intervento nell’intera area è da attribuire al recupero conservativo delle pitture e degli stucchi e ad alcune modeste criticità strutturali Durante l’elaborazione del progetto si è verificato il crollo di una delle urgenze più evidenti. Si tratta degli stucchi del presbiterio di cui una parte in evidente precario stato di equilibro si è distaccata la notte tra il 6 e il 7 luglio. La soprintendenza è state più volte sollecitata ad in-tervenire di “somma urgenza” per puntellare fin dal 2013. Dopo mesi di silenzio viene fissato un incontro per verificare come intervenire: era la mattina del 7 luglio. Dopo due anni di attesa la soprintendenza è giunta in loco il giorno stesso del crollo. Va oggettivamente constatato che gli organi preposti alla tutela e la proprietà non hanno contribuito in nessun modo alla conservazione e cura del bene. Per ragioni lega-te alla responsabilità giuridica la comunità scelse di non intervenire da sola per assicurare il frammento di stucco con una puntellatura di emergenza. È servito da monito e a comprendere che è giusto inter-venire celermente, anche a costo di non ottemperare alle norme e al procedimento se questo implica una perdita del bene. Non si parla di un cantiere già finanziato in cui vanno pensate, descrit-te e progettate tutte le fasi di intervento. Si parla di definire le modalità delle azioni di salvaguardia all’interno di un’ area archeologica abban-donata da decenni all’interno della quale una comunità di persone si sta adoperando per trovare tempo e risorse ai fini della sperimenta-zione sociale più ampia. Questa sperimentazione tra le sue priorità prevede di trovare nell’assenza di interesse e di supporto finanziario dell’amministrazione risorse diverse per la tutela del bene in questio-ne. Restaurare anche una piccola porzione metterebbe di fronte la società civile all’esigenza di intervenire, potrebbe essere il grimaldello che porta ad un sostanziale recupero.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.5 I progetti elaborati dalla comunità

75 e 76 La decorazione presbiteriale prima del distacco. Lo stucco caduto nella notte tra il 6 e il 7 luglio 2015

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rivestimento con intonaco impermiabile tipo Tadelakt

rifacimento testamuraria in mattoni allettati con malta di calce aerea, into-nacatura in grassello di calcerisarcitura dei bordi per consolidare gli intonaci esistenti

Le fasi degli interventi straordinariNell’ottica del minimo intervento si è elaborata una strategia che af-fronti in piccoli lotti le fasi di un ipotetico cantiere permanente, affian-cato dal monitoraggio e della manutenzione sistematica del manufat-to. Obbiettivo portare il bene al “punto zero”.Si è partiti dall’intervento che aveva ricadute immediate sulla messa in uso degli spazi: il restauro della cresta muraria dei lavatoi esterni in modo da ristabilirne la funzionalità delle vasche. [LOTTO 0 realizzato, segue la descrizione]. L’intervento successivo è probabilmente il più urgente, ma meno one-roso [LOTTO1, segue la descrizione] Si tratta di una traccia di decora-zione a fresco che ha una forte connotazione testimoniale.Si prosegue con la cantierizzazione del restauro delle superfici pitto-riche presenti nell’ante-coro. eauspicabile che questo ambiente, sia la sede per una possibile scuola di formazione a cui studenti e aspiranti restauratori possano direttamente assistervi e farvi pratica [Lotto 2].Questi primi interventi potrebbero solo in piccola parte “inficiare” mo-mentaneamente sul normale uso pubblico del parco archeologico. Tu-telare l’uso quotidiano che effettivamente sta avendo luogo è una va-riabile da tener presente anche considerato il rischio che l’area ha di tornare nell’ABBANDONO.Le ultime fasi (il recupero del presbiterio [LOTTO 5] e della cappella [LOTTO 4) avrebbero effettivamente bisogno di una cantierizzazione la cui accessibilità risulterebbe scarsamente praticabile, almeno per l’area interessata, ai non addetti ai lavori. Gli interventi si suddividono:LOTTO 0: il lavatoio lotto realizzato LOTTO 1: l’affresco delle monacheLOTTO 2: la “stanza del tempo” (antecoro)LOTTO 3: decorazioni a fresco nella Chiesa InternaLOTTO 4: la cappella di Lazzaro TavaroneLOTTO 5: la zona presbiteriale (STUCCO CADUTO).Nella tesi vengono descritti i soli lotti 0 e 1 perché sono questi che han-no attinenza con il presente dell’iniziativa.

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LOTTO 0 : Il lavatoio degli OrtiIl recupero conservativo del lavatoio al livello degli Orti delle mo-nache consta principalemtente nel mero rifacimento della cre-sta muraria e nella rimessa in funzione delle vasce. Come si vede nell’immagine n°79 la cresta muraria prima dell’intervento non era consolidata, e un lento processo disgregativo avrebbe irrime-diabilmente compromesso l’esistenza del lavatoio. Le accortezze nell’intervento sono state le più ortodosse. Prima di inserire due nuovi corsi di mattoni per ristabilire il livello originario del vaschea si è interposto uno strato di geo-tessuto per segnalare chiara-mente l’intervento del nuovo. I nuovi corsi sono stati intonacati con una malta a base di calce aerea e successivamente la finitura è stata stesa in Tadelakt. Il tadelakt è una calce di origine maroc-china usata per il rivestimento di superfici. È un materiale, una volta steso e lisciato a ferro, completamente impermeabile che, al tatto, presenta caratteristiche molto simili allo tecnica tradiziona-le dello “stucco lustro” o del Marmorino. È lucido, compatto e lava-bile. Come si vede nel prospetto qui a fianco l’aggiunta del nuovo non intacca minimamente le permanenze al di sotto. L’intonaco originario è consolidato con una risarcitura salva bordo eseguita con grasselo di calce idraulicizzato. La superficie è consolidata con latte di calce. La parte di muratura rimasta senza finitura è stata opportunamente stuccata a calce senza però nascondere del tut-to i laterizi sottostanti. L’intervento è stato compiuto con il lavoro volontario e tramite l’istituzione di un laboratorio per apprendere la tecnica di stesura del Tadelakt. Per i costi si rimanda alla prima scheda del capitolo seguenta (pagina 111)77 Fase di stesura del Tadelekt78 Prospetto del lavatoio80 La vasca realizzata

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.5 I progetti elaborati dalla comunità

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78 80 a L’altezza delle vasche del lavatoio è stata desunta dal lato sud delle stesse che ancora presentava il bordo con la finitura a stucco lustro impermeabile.

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In origine questo affresco era posto in una galleria ed era parte di un grande ciclo decorativo di affreschi presente nel convento realizzati probabilmente a cavallo tra il 1600 il 1630. Queste decorazioni sono testimoniate dalle fonti documentarie e dalla campagna fotografica del Cresta realizzata nel 1942, ma l’affresco in questione non è pre-sente in questa documentazione. Non è quindi collocabile in una parte del ciclo precisa, e non è dato sapere sè fosse parte di un ciclo o fosse una pittura a se stante nel vano (sicuramente un tempo un ambiente distributore del complesso). Oggi non è che un lacerto. STATO DI FATTO. La pittura murale in questione occupa una superficie di circa 2 mq. a 30 cm dal piano di calpestio fino ad 1,80 m. È posta sot-to una volta in laterizio, in parte crollata, la quale negli ultimi interventi è stata ricoperta all’estradosso da una guaina impermeabilizzante. Ciò nonostante è esposta in parte alle acque meteoriche. STATO DI CONSERVAZIONE. È in avanzato stato di degrado e la mag-gior parte dell’affresco oggi non è più visibile. Le parti superstiti soffro-no in larga misura di mancanza di adesione all’intonaco di supporto, e quindi è in fase di distacco. Si nota una patina cristallizzata, sui residui di pellicola pittorica, da far pensare ad uno strato sovrapposto, forse un collante proteico, steso successivamente, che ha procurato questo tipo di degrado con gli sbalzi di temperatura ed umidità. RAGIONI DEL RESTAURO. Come si desume dalla fotografia allegata le parti figurate ancora visibili constano essenzialmente di alcuni volti di monache in atto di portare sulle spalle la croce. Questi sono i volti delle monache che per cinque secoli hanno vissuto in clausura (con regola agostiniana) all’interno del convento, oggi diruto. Quindi questo lacerto di affresco ha una grande importanza storica avendo perso ormai la possibilità di riconoscere in esso una rilevanza estetica. E’ auspicabile che la conservazione di questo affresco avvenga al più presto, al fine di mantenere in concreto la memoria della presenza di un convento claustrale nella zona delle rovine di Santa Maria di Pas-sione e tramandare documento dell’evoluzione di questo sito.

LOTTO 1: l’affresco delle monache

81 L’affresco delle monache

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MODALITA’ DEGLI INTERVENTI. Per fermare l’avanzamento del deterioramento della superficie pitto-rica e impedire l’insorgere di ulteriori fenomeni di degrado è prioritario:-Velinare con un pre-consolidante la superficie pittorica al fine di ga-rantire durante la fase di intervento un adesione migliore delle parti.-Documentazione fotografica, prima e durante le fasi di restauro e dopo l’intervento.-Assicurarsi che non siano in atto infiltrazioni dalla volta sovrastante, ed eventualmente impermeabilizzarla. -Inserire una protezione per schermare la parte più esposta dell’affre-sco dalle acque meteoriche (una piccola tettoia).-Verifica dello stato di conservazione dell’intonaco di supporto ed ese-guire eventuali consolidamenti, previa sondaggi per definire tecniche e materiali.-Eseguire prove per definire tecniche e materiali sull’adesivo da usare nell’intervento di fissaggio.-Far riaderire le parti in fase di distacco al supporto sottostante.-Eseguire prove di pulitura dello strato sovrapposto previa analisi di campioni dello strato pittorico e dove necessario, eseguire la pulitura della superficie pittorica.Dopo queste operazione urgenti per garantire la permanenza del fram-mento pittorico si può procedere con operazioni, ai fini della leggibilità, come velature di colore locale sottotono nelle lacune in prossimità dei volti delle monache.ACCESSIBILITà. Essendo la pittura posta ad una quota non superiore a 1,8 m da terra, l’intervento non prevede nessun allestimento di pon-teggi vista la completa accessibilità. Il piano di calpestio è stato realiz-zato nell’ultimo intervento degli anni “90, è attualmente in buono stato e quindi perfettamente praticabile.CONCLUSIONI. E’ evidente quindi che si tratta di un intervento di mo-destissima entità, ma di relativa difficoltà tecnica a causa della fragilità della superficie pittorica.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.5 I progetti elaborati dalla comunità

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costruzione di un PERGOLO coperto a verde

costruzione di tre PANCHE e selciati

realizzazione COMPOSTIERA di quartiere

realizzazione di un ORTO URBANO di quartiere

piantumazione di un FRUTTETO urbano

costruzione di una CUCINA comunitaria

realizzazione di un IMPIANTO FOTOVOLTAICO

costruzione di un FORNO in terra cruda

adeguamento a SPAZIO ESPOSITIVO

PAVIMENTAZIONE a secco dell’ambiente

realizzazione AREA GIOCHIi per bambini

realizzazione PALCO PER LA MUSICA

IN CORSO D’OPERA

OPERE REALIZZATE

IN FASE DI STUDIO

2.5.4 Gli interventi per la vivibilità dello spazio: realizzazioni, lavori in corso, progetti

Negli spazi si è avviato un processo di co-progettazione, individuando nuove funzioni d’uso a seconda delle peculiarità dell’area e dell’anali-si delle specificità degli interessi e dei bisogni della comunità. Si mira ad un diretto coinvolgimento già nella fase iniziale. Una progettazione partecipata quindi che dia parola sulla realizzazione di questi luoghi ai fruitori stessi, affinché la programmazione degli interventi sia coeren-temente indirizzata a far incontrare le necessità della conservazione e la comunità di persone. La creatività si sviluppa grazie all’incontro tra soggettività diverse. Omogeneità dei punti di vista non produce orizzonti creativi e alter-nativi di gestione: il processo partecipativo risponde alla pluralità delle menti e a trovare soluzioni condivise e non imposte8. Si esce quindi dalla logica tradizionale della “filiera della programma-zione” progetto preliminare, definitivo, esecutivo, gara, affidamento, lavori, collaudo e si sposano logiche più intelligenti, meno ingessate, che avviino le attività in tempi ridotti. Questo è reso possibile dal fatto che i lavori sono di piccola entità, poco onerosi, ma soprattutto rispon-dono alla logica del minimo intervento, basso impatto visivo, senza stravolgere alcunché. Questa pratica banale, se così esposta, è quello che manca ad un paese avvitato intorno al suo reticolo di norme, re-strittive non di per sé, ma per la difficoltà applicativa e interpretativa, che allontana i cittadini dalla vita pubblica. E’ vero che senza una co-scienza critica di fronte a quello che si ha intorno si rischia di valuta-re come piccola modifica quello che in verità è danneggiamento delle tracce documentarie. Nel caso della Libera Collina di Castello nemme-no un chiodo è stato piantato, nessun intervento è stato diverso dal “porsi al di sopra” evitando di danneggiare il contesto archeologico. Il restauro del trogolo ha bloccato il deterioramento di una testa mura-ria non protetta che altrimenti si sarebbe disgregata in un cumulo di sassi e polvere. Il pavimento delle Cucina di Quartiere è una struttura sospesa in tubi innocenti sulla pavimentazione esistente disconnessa

8 LAFFI S. la congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazino-ni. Feltrinelli Milano 2014. 9 Legge LL.PP.

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costruzione di tre PANCHE e selciati

realizzazione COMPOSTIERA di quartiere

realizzazione di un ORTO URBANO di quartiere

piantumazione di un FRUTTETO urbano

costruzione di una CUCINA comunitaria

realizzazione di un IMPIANTO FOTOVOLTAICO

costruzione di un FORNO in terra cruda

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2.5.5 Laboratori di formazione e i principi dell’auto-costruzione

e con in appoggio un impalcato di legno. Il forno di quartiere poggia so-pra un telo di geotessuto che impedisce il contatto della struttura con il sottofondo esistente. E così discorrendo. Questo a testimoniare che è indubbio necessaria la presenza di persone consapevoli, ma una vol-ta edotta una comunità di persone i danni alla materia del bene sono meno consistenti di quelli che si fanno normalmente vivendo, “consu-mando” la pubblica via.

In sintesi si possono individuare soluzioni compatibili, senza danneg-giare in alcun modo la materia sia essa archeologia dell’elevato o giaci-tura archeologica dei suoli, con semplici operazioni di pulizia, riordino e adattamento dei manufatti. L’alternativa sarebbe subire passivamen-te l’avanzamento del degrado che significherebbe l’inesorabile ritorno all’abbandono.Per usare una metafora calzante di Giovanni Campagnoli9 investire risorse ed energie sul Software (arredi/attrezzature) e operare per il mantenimento dell Hardware (contenitore) è una buona pratica per riportare all’uso un bene. Le realizzazioni fatte negli anni negli spa-zi verdi e nelle rovine (in appena un anno) vanno in questa direzione. Una caratteristica delle iniziative è quella di riuscire a contemplare le esigenze dei luoghi con l’esigenze creative e le competenze di chi par-tecipa alla cura e gestione. La sperimentazione e l’utilizzo di tecniche costruttive tradizionali (il non utilizzo di malte cementizie sostituen-do come legante la calce aerea e la terra inquadrano, coerentemente, in che direzione procede l’iniziativa). L’autocostruzione è lo strumento realizzativo di tutte le sperimentazioni, compreso l’impianto fotovol-taico (reso possibile grazie alle competenze altamente specializzate di un cittadino attivo!), compresa la creazione del forno. Quest’ultimo è proceduto con la partecipazione di un “gruppo informale” di architetti che da anni a Genova sono un punto di riferimento per chi vuole avvici-

narsi alla sperimentazione di tecniche alternative. Lo scopo è mettere in comune le proprie competenze in una piattaforma libera, dove ogni iniziativa di modifica o di sperimentazione, se coerente con l’idea co-munitaria del parco, è sostenuta e calendarizzata. La sperimentazione risponde alle esigenze del momento che sono raccolte nella cosiddetta “lista dei desideri” del parco autogestito, pubblicata sul sito internet della comunità. Nel paragrafo seguente saranno analizzate compiutamente quelle che sono le linee guida del progetto, che aiutano a inquadrare perché le cose sono state realizzate e quale vocazione è stata assegnata agli spazi.

Qui a seguire sono riportate le schede informative elaborate per de-scrivere le attività e le realizzazioni principali. Le schede sono esposte in loco accanto alle realizzazioni, questo sia a fini didattici sia di tra-sparenza: vengono infatti riportati i costi realizzativi per rendere con-sapevoli le persone della praticabilità economica dell’autocostruzione. (A questo proposito è volontà della comunità rendere pubblico sul sito internet della Libera Collina di Castello il bilancio dell’anno in corso comprendente tutte le spese di gestione e tutte le entrate derivanti dalle iniziative culturali). La totalita’ degli interventi è stata compiuta a seguito di workshop a cui hanno collaborato persone portatrici del “saper fare” necessario alla realizzazione degli stessi.

9 CAMPAGNOLI G., 2014, p.34.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunità2.5 I progetti elaborati dalla comunità

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il vecchio trogolo Il tadelakt è un rivestimento completamente idrorepellente costituito da una particolare calce proveniente dalla regione di Marrakech.La stesura del materiale richiede abilità e cura ed è scandita da una serie di passaggi dove la calce viene gradualmente levigata seguendo i tempi di asciugatura. La consistenza delle pareti in tadelakt risulta essere compatta, liscia, piacevole al tatto e oltretutto impermeabile. Le variazioni di intensità di colore, qualche lieve imperfezione e il suo aspetto visivamente materico rendono gli ambienti e i manufatti unici.La tecnica del Tadelakt non si distacca molto dalle tecniche tradizionali come lo “stuccolustro”, utilizzate in Italia per impermeabilizzare vasche o superfici murarie.

“Ringrazio il sole che, sebbene abbia accelerato un po’ i tempi facendoci “correre” nella stesura, ha donato calore e colore alla nostra pelle. Ringrazio chi ha partecipato confrontandosi con le proprie capacità, impiegando e unendo le proprie mani nel ritmo con le altre al fine di rivestire parte della superficie del trogolo di S. Maria di Passione.Per rispetto alla bella energia impiegata, in onore alle “rovine edificanti” di questo unico e meraviglioso luogo, si invita chi utilizzerà questa vasca d’acqua ad avvicinarsi con cura, nutrendo un sentimento che celebra l’ecologia della sensibilità.”

Isabella Breda ha coordinato il recupero

tadelakt

Materiali recuperati/donati. Mattoni e ardesie per la ricostruzione del piano del trogolo. Calce marocchina “Tadelakt” per il rivestimentoMateriali acquistati. Calce e sabbia per la ricostruzioneSpesa30 €

giugno2015

rivestimento in tadelakt

arriccio in malta di calce aerea

completamento della testa muraria con mattoni, ardesie e calce

allaccio acqua

Schede delle realizzazioni

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Schede delle realizzazioni

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Schede delle realizzazioni

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Schede delle realizzazioni

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Schede delle realizzazioni

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Schede delle realizzazioni

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Schede delle realizzazioni

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I nuovi mezzi di comunicazione permettono di informare e tenere aggiornato il pubblico sulle iniziative e sulle evoluzioni del processo in atto. Il sito internet è come sempre un’ottima piattaforma per indiriz-zare le persone e per dare la possibilità agli utenti di mettersi in con-tatto anche virtualmete con il progetto. È il modo più intuitivo con cui si ha la possibilità di comunicare con la comunità e dove nella pratica più persone entrano in contatto con le informazioni di base. Se i frui-tori dello spazio non sono ancora totalmente informatizzati, le nuove generazioni vedono nel web il modo piu’ rapido da cui attingere infor-mazioni sul nostro conto. I materiali informartivi, storici e i documenti prodotti negli anni sono scaricabili gratuitamente da tutti tramite il sito. La pagina facebook è il megafono di quello che settimanalmente viene organizzato sulla Libera Collina di Castello. Nell’era del digitale un portale web per dare credibilità all’iniziativa.

2.6 Internet e i social network

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FACEBOOK: Liberi Giardini di Babilonia - spazio libero

SITO WEB: www.liberacollinadicastello.org

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2.7 Gli orizzonti di progetto e il ruolo dell’architetto Il progetto partecipato serve, e in questa tesi è sostenuto e giusti-ficato trasversalmente da più fronti possibili, per evitare che le “idee” siano calate dall’alto e che siano estranee alle reali esigenze del citta-dino. Evitare che siano frutto esclusivamente dell’estro creatore del progettista, creatore di luoghi e situazioni che spesso non si inverano, oppure siano frutto dell’altrettanto fallimentare e debole “piano parti-colareggiato” che una sterile programmazione urbanistica può offrire. Non si parla solo di gestione orizzontale, ma di elaborazione di un pro-getto, di una prospettiva d’insieme, che appartenga alla visione comu-ne sull’area. Non significa abbandonare l’architettura per una strada libera dall’erudizione del progettista. E’ e deve rimanere prerogativa di chi progetta pensare ed elaborare le idee in forma architettonica. È impensabile che un cittadino che non sia un progettista possa trovare soluzioni spaziali complesse e che sia detentore di conoscenze spe-cialistiche proprie dell’esperienza e degli studi. Demandare esclusiva-mente al progettista la parte dell’analisi dei luoghi sarebbe altrettanto miope: chiunque può individuare i problemi che contraddistinguono una spazio, quali sono le problematiche e individuare i bisogni propri di una data situazione urbana. Se parliamo di esigenze di un quartiere chi meglio di chi lo vive è in grado di inquadrarne i limiti reali, percepiti, vissuti?A riguardo è utile parlare dello specifico: il problema dell’accessibilità (aperture/chiusure in orari universitari) è chiaramente una limitazio-ne a cui gran parte dei residenti ha dato molta importanza. Anche la scarsa comunicazione tra le diverse aree del sito è percepita come una limitazione (i Giardini di Babilonia, con le terrazze verdi e il sito arche-ologico di Santa Maria In Passione), che sono di fatto attigue. A questo proposito è evidente che il progetto debba trovare le soluzioni alle esi-genze espresse dalla comunità proponendo soluzioni specifiche: dove eventualmente realizzare nuovi collegamenti, partendo dallo studio planimetrico, altimetrico e da tutti i fattori spaziali che solo chi ha una dimestichezza con lo spazio può realizzare. Ciò non deve compromet-tere l’apporto diretto che viene dalla comunità. Non è impensabile che alcune soluzione progettuali siano ragionate a livello concettuale dal

progettista (rispondendo a indicazioni date), ma poi realizzate dagli stessi fruitori del parco. La realizzazione e il progetto tecnologico pos-sono rimanere una componente cardine del progetto partecipato, ma le soluzioni d’insieme, per esempio questioni legate alla gestione del-le percorrenze e delle accessibilità, hanno oggettivamente bisogno di una “visione creatrice” di un architetto. Accennavo precedentemente una velata critica all’idea decarliana ri-guardante i confini del progetto partecipato. De Carlo sostiene che l’apporto estetico è compito esclusivo dell’architetto e che la progetta-zione partecipata si deve fermare dove inizia il progetto della materia. Credo che questa visione da progettista illuminato quale era De Car-lo sia limitativa. In una fase storica come la nostra dove l’interazione diretta del cittadino con il Bene Comune assume un valore culturale decisivo per le future generazioni osteggiare queste pratiche il meno possibile è un dovere, sempre che questo sia in accordo con i principi del rispetto della memoria storica, dell’arte e appunto dell’interesse comune. In questo processo l’architetto deve essere regista, detentore della conoscenza e conoscitore dei limiti, ma sempre in una posizione dialettica senza imporsi dall’alto, pena la perdita di autorevolezza e la possibilità di giungere a risultati condivisi.Se in effetti una comunità, un’associazione, un comitato o qualsiasi al-tra forma di gestione dal basso di un bene, abbia intrinseche le capacità di poter realizzare i cambiamenti necessari per migliorare e tramanda-re al futuro una forma dello spazio diversa non c’è nessuna necessità di delegare al “progetto” le decisioni, ma si può precedere all’interno del “processo” anche in seno all’estetica, estrapolando questa distinzione proprio da De Carlo (1973).L’autocostruzione rimpiegando i materiali di scarto, o materiali tipici della provvisorietà, tubi e tavole da cantiere, è una delle possibili mo-dalità realizzative di quei miglioramenti che spesso sarebbero oggetto di un In conclusione il progettista all’interno di questo processo interviene come supporto dove finiscono le capacità della comunità, ergo deve fornire suggestioni, offrire visioni su quelle che sono solo idee, mettere

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su carta soluzioni alle questioni poste. Qui a seguire si cerca di fare questo: dare forma a quel-le che sono le esigenze e le suggestioni di un comunità che desidera vivere, salvaguardare e gestire Santa Maria in Passione e le aree verdi limitrofe. Si illustra come si po-trebbe prefigurare un vero parco archeologico urbano al cui interno lo spazio verde è il naturale luogo di accoglien-za delle varie componenti sociali del quartiere.

“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunita’2.7 Gli orizzonti di progetto e il ruolo dell’architetto

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2.7.1 La visione futuraPausa dell’abitato storico genovese dove la densità della città com-patta medioevale lascia spazio ai vuoti generati dagli sconvolgimenti bellici, le rovine di Santa Maria in Passione sono la visibile stratificazio-ne della storia millenaria della Collina di Castello. Raro testo di verde all’interno dell’abitato storico, oasi dalle spiccate caratteristiche medi-terranee.Qualsiasi riassetto dell’area non può eludere dal rapporto che lo spazio istaura con le emergenze archeologiche e la componente verde. Le principali caratteristiche dell’area sono le suddette. Le principali problematiche sono legate, invece, al come arrivarci, al come acceder-vi. Manca una chiara apertura dello spazio al resto della città: muri e cancelli lo delimitano. Sostanziali cambiamenti sono necessari per mi-gliorare l’accessibilità -Bisogna che lo spazio sia accessibile direttamente dalla strada con un varco che sia chiaramente riconducibile ad uno spazio pubblico. I var-chi a loro volta dovrebbero avere un immagine univoca per facilitare da qualsiasi punto di accesso la lettura di un’immagine univoca, evotativa specifica del Parco della Libera Collina di Castello (ricordiamo parco di pietra e parco verde in rapporto sinergico). Pertanto i varchi sono il primo nodo da risolvere.-Il secondo punto fondamentale è creare una spina di attraversamen-to principale che lambisca e comprenda i tre principali varchi, che sia chiaramente tracciata e che sia il percorso cardine di spostamento. Quindi creare un asse est/ovest che da Stradone Sant’Agostino giunga fino al punto di accesso da Salita di Santa Maria di Castello è il secondo obbiettivo. I punti da sviluppare sono il fronte sullo Stradone, il colle-gamento diretto tra l’acceso di Via Mascherona e i giardini sia quelli sottostanti sia quelli sovrastinti, collegando direttamente tra di loro entrambi, un collegamento tra gli orti e i giardini P.Rotondi.-Il terzo obbiettivo è quello di migliorare, sempre operando piccoli in-terventi puntuali, i collegamenti tra le parti complanari del complesso. Raddoppiando, ad esempio, la prima parte pianeggiante dei giardini terrazzati unendoli alla terrazza pensile posta sopra il “podio” sul qua-le si imposta la Stecca Gardella (cioè il palazzo della Facoltà di Architet-

tura) con un passaggio ponte. Questo permetterebbe di avere acces-sibilità a queste aree che ospitano delle vasche verdi già in sicurezza e adatte ad attività didattiche legate alla sperimentazione con la terra, orti urbani gestiti dalle scuole elementari e medie del quartiere (ci è già stata fatta richiesta dalle maestre delle scuole vicine se fosse possibile trovare degli spazi adatti a questo genere di attività e se le terrazze in questione potessero essere il luogo dove svolgerle). Altro passaggio pedonale mancante è tra la Piazza di San Silvestro e gli orti di Santa Maria in Passione: realizzando una piccola passerella so-pra il vicolo che li separa (2,5 m di luce appena) si andrebbe a creare un collegamento visivo e spaziale tra il chiostro interno dell’ex convento del corpo di cristo (attuale facoltà di architettura) e gli Orti. Mettere in più diretta comunicazione il livello chiostro della facoltà con gli orti sa-rebbe determinante per uno maggiore coinvolgimento del corpo stu-denti a vivere consapevolmente anche questi spazi nei quali, all’oggi, si sente mancare la componente studentesca.Il collegamento tra gli orti e gli appena sottostanti Giardini Rotondi l’ul-timo tassello per creare una rete di collegamenti realmente funzionale agli spostamenti collinari.- il quarto, il più importante, è valorizzare tra le maglie di questa nuova struttura pedonale di collegamenti le tracce archeologiche persistenti nell’area. Il vero limite di questi spazi è infatti la mancanza di comuni-cazione con la città, comunicazione anche visiva, troppi muri cancelli e barriere celano la presenza archeologica, storico-documentaria della Collina. Il ripensare i collegamenti pone la necessità di ripensare anche gli assi prospettici.

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“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunita’2.7 Gli orizzonti di progetto e il ruolo dell’architetto

Principali punti di accesso

Nuovo asse distributivo del parco,

Aree da aggiungere nel sistema integrato delle percorrenze.

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2.7.2 I “dispositivi” per l’accessibilitàPer realizzare la nuova rete viaria pedonale sono necessari interventi puntuali in alcuni nodi specifici che siano risolutori di problemi di mobi-lità orizzontale, verticale e di accesso. Ragionare quindi su declinazioni in forme diverse degli stesse problematiche. Dei dispositivi che in sè racchiudano sia la funzione di varco che di distributore o altre funzioni.Definire nuovi passaggi aerei e nuovi collegamenti verticali ristabilen-do quella permeabilità tra i vari corpi di fabbrica presente un tempo nel complesso conventuale, è l’idea generatrice. Niente di diverso dalla permeabilità in quota tipica di un modo di pensare la città nelle tre di-mensioni che ha caratterizzato Genova per secoli. Non solo la strada, ma strade interne percorrevano la collina sotto e sopra essa (le mona-che di Santa Maria in Passione potevano spostarsi dall’aula sacra della chiesa a Stradone di Sant’Agostino senza uscire dall’edificio conven-tuale).Descrizione Dispositivo 1 Il primo intervento prevede una demolizione del muro di contenimento prospiciente stradone Sant’Agostino e un’apertura a partire dal piano strada di una rampa di accesso al parco. Da un lato viene prolungato un setto per accentuare l’importanza di questo ac-cesso a scapito delle scalinate limitrofe all’università che dovranno servire solo a chi velocemente deve raggiungere l’istituto universitario. Questo intervento è di fondamentale importanza da un punto di vista percettivo dell’insieme perché va a creare quel collegamento, non più ideale, tra il piano stradale e le aree verdi della Collina. Si stabilisce così quella diretta relazione tra lo spazio strada e la collina abbattendo un piccolo muro che determinava una barriera ben più consistente della sua rilevanza fisica. Posto sopra il nuovo varco si prevede un palco smontabile segno del carattere ludico culturale che questo spazio ver-de vuole mantenere. I cancelli di accesso saranno nuovamente pensati per essere leggermente arretrati rispetto alla partenza della rampa. Palco e cancello si immaginano auto-costruiti e realizzati in legno trat-tato da cantiere come anche gli altri punti di accesso. C’è bisogno di un immagine organica dei vari punti di accesso in modo che un visitatore possa riconoscere l’accesso al sito anche se proviene da un’altra dire-

zione.Dispositivo 2 Il secondo intervento è un strereometricamente com-piuto al cui interno contiene un corpo scale, due passaggi ponte e un cancello.Serve a mettere direttamente in collegamento gli spazi verdi dei giar-dini, dei giradini terrazzati e delle terrazze pensili. Questo è il principale risolutore di mezza quota della comunicazione negli spazi. Demolisce limiti, muretti e crea continuità facile e veloce tra due luoghi oggi non solo spazialmente ma visivamente distanti. Infatti oltre che risolvere la comunicazione apre una breccia nella quinta di verde che corona nella parte sommitale i Giardini di Babilonia e genera un nuovo asse pro-spettico e logistico degli spostamenti pedonali in collina. Una propag-gine si aggrappa allo zoccolo della facoltà e con un gesto semplice crea un collegamento tra una parte esterna a tetto verde accessibile solo da una porta interna all’istituto universitario. Questo bypass permet-terebbe di rendere il tetto dell’università una piazza pubblica comuna-le rialzata senza interagire effettivamente con l’edificio universitario. Una multifunzionalità della sezione tipica del repertorio genovese, una vocazione contemporanea di vivere gli spazi senza funzioni uniche ma contenitori in funzionalità differenti.Dispositivo 3 L’intervento nella parte alta della collina si insinua tra tre ambienti differenti diventando il nuovo e più importante distributore. Unisce Piazza di San. Silvestro con una passerella (alla quale si innesta un cancello a saracinesca in legno) gli Orti di Santa Maria in Passione. Continua su quasi tutta la lunghezza dello spazio diventando una pas-serella scale che in prossimità dell’incrocio di un camminamento già esistente scarta bucando in parte la balaustra esistente e allungan-dosi aerea sopra i giardini P.Rotondi. Una sosta alla stessa quota degli Orti sopra una struttura in legno tra i glicini ingrovigliati precede una scala di discesa alla quota strada. Un intervento deciso e di impatto ma le modifiche previste per realizzarlo nello spazio di modestissima entità. (appiattimento in tre punti differenti di tre porzioni di balaustre peraltro non storiche e un adeguamento della struttura del pergolato in glicine nei giardini Rotondi.

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2.7.3 La vocazione dei luoghiNon bisogna perdere di vista, nel pensare agli apporti migliorativi, al “sistema dello spazio” il quale deve essere contenitore di socialità, ag-gregazione e culture. Le necessarie nuove dotazioni, necessarie all’uso vitale, debbono aggiungersi al testo con la dovuta delicatezza senza in nessun modo sottrarre informazioni allo stesso.A questo fine in sede di progettazione dei luoghi, si suddividono le su-perfici degli spazi a seconda della loro funzione d’uso.Partendo dal basso, risalendo idealmente la collina, si accede al parco da un nuovo varco, al quale segue un anfiteatro giardino attrezzato con sedute utilizzabili sia per la sosta che come spalti per assistere a concerti all’aperto. Al fondo di questo anfiteatro è sistemato un palco removibile per lo spettacolo. Al livello intermedio, le terrazze verdi ospitano l’area giochi per bambi-ni; un’area appartata del parco, racchiusa in uno spazio recinto. Le terrazze pensili diventano uno spazio per la didattica: orti gestiti dalle vicine scuole elementari e medie sono un occasione per avvicina-re i bambini alla cultura della terra.I restanti spazi aperti sono attrezzati per lo svago e il tempo libero della cittadinanza.Le rovine assommano a sè diverse funzioni: oltre a diventare “museo timido” di loro stesse, raccolgono gli spazi per le attività al coperto. Una sala espositiva, uno spazio per lo studio, una piccola sala per le conferenze, la cucina di quartiere. Il vero e proprio museo, dove è rac-contata la storia del complesso è nell’unico ambiente ricostruito del sito. Questo è un’esplicita volontà: non sovraccaricare di informazio-ni l’esplorazione di chi “scopre” le rovine. Il percorso guidato infatti ri-mane in sordina. L’approfondimento è affrontato dunque in una sede neutra dove le permanenze non si sovrappongono alle tante immagini e informazioni che troveranno posto nel museo.

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“La Libera Collina di Castello” Il processo di recupero messo in atto da una comunita’2.7 Gli orizzonti di progetto e il ruolo dell’architetto

cucina di quartiere

sala lettura studio

Sala assembleare

Sala espositiva

spazio per istallazioni al coperto

spazio museo permanmanente del sito archeologico

Aula della chiesa: palco della musica all’aperto

Orti didattici per le scuole

Arena verde per gli spettacoli all’aperto

Area giochi per bambini

Il frutteto di citta’

I dispositivi di collegamento da inserire nel parco

Le aree verdi per la sosta

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Nell’inquadramento della tematiche del riuso e della conservazione, declinate nella forma comunitaria partecipativa, è necessario tenere presente il contesto generale nazionale. La Conservazione nel pano-rama delle città contemporanee spesso non è considerata, addirittura, ritenuta prevaricatrice di uno sviluppo al quale bisognava lasciare il più libero spazio1. Legittimare il recupero, la salvaguardia dell’esistente a discapito della costruzione del nuovo, non è mai stata cosa semplice. Dove la “valorizzazione” si è realizzata, questa ha determinato, in al-cuni casi, profonde trasformazioni legate alla mercificazione dei centri storici2 e del loro mero consumo, feticci pittoreschi di un’idea di storia e memoria più vicina a Disneyworld che al valore culturale che essi custodiscono. L’azione popolare dal basso è legittimata dal fatto di essere slega-ta dalle logiche di sfruttamento ai fini economici di un bene comune, come può essere inteso per estensione un centro storico di una città italiana. I cittadini sono chiamati a prendersi cura, rinunciando alla de-lega, per senso civico, non per interesse.In queste iniziative non si incorre in problematiche legate al “conflitto di interesse” tra permanenza della testimonianza del passato e sfrut-tamento turistico di un bene culturale comune. È bene anche allargare le prospettive al di fuori dell’ambito della con-servazione e inquadrare le pratiche partecipative, legate al riutilizzo di un bene in abbandono, al di fuori dei soli beni di interesse documenta-rio, storico, artistico, testimoniale ecc. La pratica del riutilizzo, del riuso dell’esistente, è la più importante forma di resistenza alle logiche del consumo sfrenato, della crescita ad ogni costo. Le basi delle “Teorie della conservazione”sono intrise del valore profondo del recupero della materia già esistente. Alla loro base c’è per forza di cose l’idea che con-servare sia giusto e che demolire, umiliare, delegittimare l’esistenza di quel che già c’è, sia sbagliato3.

ApprofondimentiAlcune riflessioni conclusive sul tema della cura/partecipazione/bene comune

3.0 Le ragioni dell’azione popolare in seno al Restauro

1 MUSSO S. F., 2015, p.179. 2 ibidem. 3 Demolire quello che però deturpa il paesaggio o la città significa eliminare quello che già in precedenza ha sottratto dignità al luogo che lo ospita, ed è legittimo. (si pensi ai migliaia di capannoni industriali abbandonati nella campagna veneta dopo l’ultima crisi economica, ai famosi ecomostri, alle villette a schiera che infestano le nostre periferie. SALZANO E. 2005)

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Estensivamente, sulla conservazione del territorio, c’è chi addirittu-ra abbraccia la causa di un serio e legittimo piano delle demolizioni4 dell’immenso ed eccessivo sviluppo di capannoni e condomini nelle aree pianeggianti del nostro paese: limitandosi a commentare l’ob-biettivo “cubatura zero5”, ritenuto realisticamente attuabile, si rende necessario riportare l’attenzione intorno ai principi del recupero dell’e-sistente e dello stop del consumo di suolo6, oramai ridotto al dato merceologico e unificante di metro quadro edificabile7. Oggi l’Italia si trova nella situazione di avere più di 5 milioni di case non utilizzate o sottoutilizzate, mezzo milione di negozi vuoti, migliaia di ex scuole, ex fabbriche, monasteri e caserme abbandonati, spazi comunali chiusi, edifici pubblici dismessi (ENEL, ANAS, case cantoniere, Consorzi agrari), cinema e teatri, luoghi del divertimento dismessi, luoghi della cultura abbandonati.8 Pensare a prendersi cura di questo patrimonio dismes-so è un argine al “sacco del paesaggio”, partendo proprio da quei beni che contribuiscono a formare il Paesaggio del nostro paese, come nel caso specifico un sito archeologico in un centro storico.“Gli strumenti possono essere tanti, ma nell’inerzia della politica della rappresentanza resta solo un soggetto che può formulare i progetti necessari a realizzare le condizioni del recupero: la cittadinanza9”.

4 Vittorio Gregotti , Decostruire e ricostruire, in PEDRETTI B. 1997. 5 La cubatura zero è un principio alla base dei più avanguardisti piani urbanistici in cui non è previsto a scala comunale l’incremento di cubatura, è quindi possibile una ristrutturazione o una nuova costruzione a seguito di una demolizione di un fabbricato della stessa entità dimensionale. SALZANO E. 2012. 6 www.salviamoilpaesaggio.it/blog. 7 AYMONINO C., 1975. 8 Fonti: Agenzia delle Entrate 2012, ConfCommercio, Campagna del w.w.f Riutilizziamo l’i-talia 2013 9 Parafrasando un’osservazione conclusiva al libro di SETTIS S. 2010 p.313. Sull’argomento si leggano scritti di giuristi, storici, membri attivi della società civile quali: MADDALENA P., MATTEI U., LUCARELLI A., CASSANO F.

10 Si parla dell’importanza di elaborare piani di manutenzione che impediscano di dovere ricorrere a interventi straordinari molto costosi e peggiorativi rispetto alla pratica dell’ordi-naria manutenzione. 11 Si veda il paragrafo 2.2 come in questo sito allo stato di rovina sia fortemente sostenuta una conservazione integrale di tutte le sovrapposizioni stratigrafiche, minimizzare le conse-guenza di qualsiasi intervento indispensabile per garantire la fruizione.

3.1 L’Iniziativa popolare e rapporto con il restauroQuesta Tesi è testimonianza di come l’iniziativa popolare, come quel-la in corso in Santa Maria in Passione, porti effetti benefici alla sal-vaguardia e tutela del bene comune, e come certe pratiche possano rispondere ad aspirazioni dalla Conservazione sempre auspicate, ma puntualmente disattese.10 Perché inquadrare questa tesi, se non fosse ancora esplicito, nell’am-bito del restauro?Come diceva Roberto Pane, uno dei protagonisti della disciplina, “la conservazione […], prima di essere una tecnica [...] deve essere una filosofia”. Per quanto mi riguarda la filosofia del riuso, la filosofia della salvaguardia diretta ben si accostano alla filosofia della conservazione: l’azione popolare aspira ad essere esperienza di tutela del bene cultu-rale comune. Se il fine dell’iniziativa, come abbiamo visto, non si esaurisce nella con-servazione, si può affermare che il fine ultimo del restauro, dopo che è stata data lettura di come esso debba essere inteso11, è la conserva-zione stessa.Preservare le rovine di Santa Maria in Passione è prerogativa di questo processo partecipato. Incamerare le tematiche del Restauro all’interno del Progetto conviviale è servito a dare spessore, profondità di vedute e a chiarire lo scopo conservativo dell’iniziativa popolare.Con la mia partecipazione all’iniziativa popolare (nella veste di “tecnico conservatore”) è stata riconosciuta l’importanza delle tematiche della conservazione e la pratica della Cura, che sono state assimilate e poste dalla comunità al centro dei propri bisogni comuni.

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3.2 L’iniziativa popolare e il rapporto con la legislazione in materia di Beni CulturaliIl rapporto con la legislazione, gli aspetti normativi sulla tutela del pa-trimonio archeologico e architettonico, sono il principale “limite” per realizzare le condizioni di riconoscimento legale di questo tipo di ini-ziative. Regolamentare questi processi non è sicuramente cosa sem-plice: si tratta di pura sperimentazione, spesso e volentieri con una profonda specificità difficile da inquadrare nella legislazione. Sappia-mo, oltrettutto, che per tracciare nuove strade, acquisire nuovi diritti e per promuovere nuove pratiche, si ha necessariamente il bisogno di slegarsi dalla consuetudine legalitaria.Dev’essere il legislatore, piuttosto, a trovare la forma di riconoscimen-to di una personalità giuridica, come quella di un comitato o di un as-sociazione, ma anche e soprattutto qualcosa di nuovo, di più collettivo e plurale, che possa accogliere le vertenze cittadine nell’ambito della cura e salvaguardia del patrimonio. Troppo spesso invece i tecnici e gli uffici comunali sono meri applicatori della normativa in una società avvitata attorno all’esiziale giochetto del rimbalzo delle responsabilità. Si dovrebbe invece rileggere il Codice dei Beni Culturali che si esprime chiaramente:All’Articolo 6 Valorizzazione del patrimonio culturale“La valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disci-plina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizio-ne pubblica del patrimonio stesso. Essa comprende anche la promo-zione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale.2. La valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze.3. La Repubblica favorisce e sostiene la partecipazione dei soggetti pri-vati, singoli o associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale.”

Posto che lo Stato, visto il principio espesso al comma n° 3 dell’art. 6 del Codice, dovrebbe trovare le modalità di applicazione, concertare delle forme reali di applicazioni (dei principi costituzionali e del Codice dei beni Culturali) sarà compito e obbiettivo della comunità operante in Santa Maria in Passione. Il vincolo archeologico e quello architettonico, comunemente sono visti come un problema per i proprietari di beni vincolati, qui sono visti come una possibilità. Il cittadino vuole ottemperare al suo dovere civico, vuo-le prendersi cura del patrimonio. Non è obiettivamente facile pensare ad una regolamentazione di certe forme di interazione quando si parla di beni oggetto di vincolo, ma è legittimo pensare a delle soluzioni reali, considerando che di principio costituzionale si tratta.Immaginarsi nuovi orizzonti di gestione di un patrimonio culturale im-mane quale quello italiano è, credo, un’esigenza più che un auspicio.

L’opera di Protezione sui Beni Culturali è un dovere dello Stato al com-ma 2 dell’’articolo 3 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Si recita:“L’esercizio delle funzioni di tutela si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale.”Dunque, il principio di sussidiarietà orizzontale è implicitamente ac-quisito dal codice. Come dice il comma e anche la giurisprudenza, l’am-ministrazione si dovrebbe adoperare per attuare provvedimenti “volti a regolare diritti e comportamenti”.12

ApprofondimentiAlcune riflessioni conclusive sul tema della cura/partecipazione/bene comune

12 LEONE G. e T. LEO A. 2006

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3.2.2 Il principio di sussidiarietà orizzontale“Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autono-ma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarità”13. Tale principio implica che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni necessa-rie per permettere alla persona o alle aggregazioni sociali di agire libe-ramente nello svolgimento della loro attività. La costituzione prevede, dopo la riforma del Titolo V, anche il dovere da parte delle amministra-zioni pubbliche di favorire tale partecipazione nella consapevolezza delle conseguenze positive che ne possono derivare per le persone e per la collettività14. Il processo partecipativo in atto in Santa Maria in Passione, si è dimostrato essere finora un’attività d’interesse genera-le e si sta configurando come un buona pratica di miglioramento del benessere materiale e spirituale della comunità radunata intorno al progetto, nonchè del bene stesso.

3.3.3 Il bene culturale comune: teoria e praticaIn Italia la volontà di legittimare l’azione popolare è stata perseguita senza risultati già a partire dal 1909 con il disegno di legge Racìva: A“ogni cittadino che gode di diritti civili e a ogni ente legalmente riconosciuto” la possibilità di “agire in giudizio nell’interesse del patrimonio comune della Nazione” di fatto quindi riconoscendo la possibilità di azione dove lo Stato tace. Nel 2001 la riforma della costituzione inserisce, dopo 90 anni dal disegno do legge Raciva, il principio di sussidiarietà orizzonta-le nell’ultimo comma dell’artico 11815.La Commissione Rodotà, istituita nel 2007 dal Ministero della Giustizia per proporre una riforma del Codice Civile, formula proposte fortemen-te innovative. Scopo dell’incarico ricevuto dalla Commissione , presie-duta da Stefano Rodotà, era quello di riformare la disciplina dei beni

pubblici, mai modificata dal 1942 nonostante l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e gli sconvolgimenti culturali avvenuti. La Commissione, nel lavorare al progetto normativo, ha inteso tra l’altro valorizzare, in linea con la concezione oggettiva di pubblica ammini-strazione e di attività amministrativa accolta dalla nostra Costituzione nell’articolo 118, la regola per cui la destinazione pubblica dei beni “può essere assicurata mediante la previsione di un vincolo oggettivo di destina-zione gravante sui medesimi beni16”.“I beni comuni sono quei beni a consumo non rivale, ma esauribile, come i fiumi, i laghi, l’aria, i lidi, i parchi naturali, le foreste, i beni ambientali, la fauna selvatica, i beni culturali, etc. (compresi i diritti di immagine sui medesimi beni), i quali, a prescindere dalla loro appartenenza pubblica o privata, esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo delle persone e dei quali, perciò, la legge deve garantire in ogni caso la fruizione col-lettiva, diretta e da parte di tutti, anche in favore delle generazioni future.17” Si è poi stabilito il principio che alla tutela giurisdizionale dei diritti con-nessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni abbia accesso chiunque, oltre a prevedersi una legittimazione dello Stato all’azione risarcitoria per i danni arrecati ai medesimi beni.18 L’introduzione della categoria dei beni comuni appare dunque rispondere all’affermazio-ne del principio di sussidiarietà declinato nella sua dimensione “oriz-zontale”, di cui all’art. 118, ultimo comma, della Costituzione. La com-missione non ha visto esiti di sorta, nemmeno una presentazione di proposta di legge nelle aule parlamentari. Ma i principi espressi e le definizioni date che questa importante rivoluzione ermeneutica della costituzione ha fornito, sono state importante stimolo per un adegua-mento normativo comunale in seno alla regolamentazione del rapporti tra cittadini/amministrazioni/beni comuni.

13 comma 2 Art. 118 della Castituzione Italiana 14 MATTEI U. 2012 15 SETTIS S. 2010 p 296

16 Questo significherebbe che, indipendentemente dalla proprietà del bene comune (pub-blica o privata) ne sarebbe garantita l’utilizzazione alla collettività. 17 Estratto dal testo della Commiione Rodotà 2007 18 Questo doterebbe di strumenti lo Stato legali per perseguire chi effettivamente arreca danno al bene o ne sottrae ingiustificatamente l’uso colletivo. Questa è un aspetto pretta-mente di carattere dissuasivo che impedirebbe a chi ne ha l’interesse ad arrogarsi il diritto di utilizzo esclusivo del bene.

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Un’applicazione di questi principi è sancita nel “Regolamento sulla col-laborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazio-ne dei beni comuni urbani” adottato nel 2006 dal comune di Bologna, in armonia con le previsioni della Costituzione e dello Statuto comu-nale, disciplina le forme di collaborazione dei cittadini con l’ammini-strazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, dando in particolare attuazione agli art.118, 114 comma 2 , e 117 comma 6 Costituzione.All’articolo 6 di questa Carta si legge cosa si intende e cosa è concesso di fare ai cittadini attivi sul bene del patrimonio collettivo.Art. 6 (Interventi sugli spazi pubblici e sugli edifici)1. La collaborazione con i cittadini attivi può prevedere differenti livelli di inten-sità dell’intervento condiviso sugli spazi pubblici e sugli edifici, ed in particola-re: la cura occasionale, la cura costante e continuativa, la gestione condivisa e la rigenerazione.2. I cittadini attivi possono realizzare interventi, a carattere occasionale o continuativo, di cura o di gestione condivisa degli spazi pubblici e degli edifici periodicamente individuati dall’amministrazione o proposti dai cittadini attivi. L’intervento è finalizzato a:- integrare o migliorare gli standard manutentivi garantiti dal Comune o mi-gliorare la vivibilità e la qualità degli spazi;- assicurare la fruibilità collettiva di spazi pubblici o edifici non inseriti nei pro-grammi comunali di manutenzione.3. Possono altresì realizzare interventi, tecnici o finanziari, di rigenerazione di spazi pubblici e di edifici.

Il Consiglio comunale della città di Napoli con delibera n. 24 del 22 set-tembre 2011, ha introdotto nello Statuto del Comune la categoria giu-ridica di “bene comune” all’interno delle “Finalità e valori fondamen-tali”. La struttura “Ex Asilo Filangieri”, rientrando in una più generale strategia tesa a «favorire un percorso per il riconoscimento giuridico nonché socio-economico della cultura come bene comune», con la De-

libera di Giunta n. 400 del 25 maggio 2012 è stata destinata «a luogo di utilizzo complesso in ambito culturale», e che la stessa, «in coe-renza con una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 43 della Costituzione, al fine di agevolare una prassi costitutiva di ‘uso civico’ del bene comune da parte della comunità dei lavoratori e delle la-voratrici dell’immateriale» Gli “usi civici” sono la più antica forma di uso collettivo di beni destinati al godimento e all’uso pubblico e che è lecito considerarli come una «espressione di comodo» con la quale poter indicare istituti e discipline varie presenti sull’intero territorio nazionale e non solo in area agricola (sent. Cort. Cost. n. 142/1972). Visto che l’immobile in questione rientra nel demanio comunale, si configura come una “demanialità rafforzata dal controllo popolare”, nel senso che il bene pubblico in questione, in quanto bene comune, è amministrato direttamente dalla collettività, attraverso forme de-cisionali e di organizzazione fondate su modelli di democrazia parte-cipativa.

È evidente che queste indicazioni, scritte a norma di legge, vadano interconnesse con il vincolo archeologico e architettonico che insiste sul sito di Santa Marina in Passione. Esiste la base giuridica e norma-tiva per scrivere una “Regolamento tra cittadini e amministrazione per la cura e salvaguardia del bene archeologico comune” da applica-re al sito. Non si vuole avere la presunzione di saperlo fare e quindi questa considerazione è più un auspicio che una parte determinante di questa tesi. Le valutazioni espresse in questo paragrafo vogliono essere spunto di riflessione e testimonianza, dalla teoria generale alla pratica del caso particolare, di come sia possibile effettivamen-te inserire l’iniziativa popolare nella dimensione legalitaria e metterla nelle condizioni di essere “curatrice” ella stessa del bene comune. L’apporto dell’architetto è definire con che modalità è messa in pra-tica la cura, e di dotare dei giusti strumenti l’iniziativa per salvaguar-dare attivamente il bene.

ApprofondimentiAlcune riflessioni conclusive sul tema della cura/partecipazione/bene comune

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ConclusioniL’iniziativa popolare è lecita e auspicabile se ha delle ricadute reali e positive sulla conservazione di un bene, la tutela è connaturata alla vo-lontà di prendersi cura del bene comune. Il bene è preservato, traman-dato al futuro se si inverano le condizioni per mantenerlo. In definitiva, l’azione popolare permette che questo accada con le variabili e i limiti dei singoli casi. Grande dramma dei beni storico-artistici italiani è la non attuata ma-nutenzione ordinaria che permetterebbe di risolvere problemi atavici del nostro patrimonio. E’ verosimile pensare che il Piano della manu-tenzione, uno degli aspetti più dibattuti in ambito della conservazione, sia attuabile con la tutela dal basso: il piccolo e continuativo apporto quotidiano a discapito del grande investimento pubblico per sanare situazioni compromesse da una mancata cura. Questo comporterebbe un grande risparmio di risorse pubbliche, una salvaguardia più efficace e accrescerebbe enormemente la consapevolezza del valore del comu-ne. La CURA, non più delegata, ma affidata al cittadino aiuterebbe la collettività a riappropriarsi della sua stessa essenza. Non so se le modalità di intervento, basate sulla partecipazione, siano applicabili in modo generale o piuttosto siano qualcosa di circoscrivi-bile nel solo sito di Santa Maria in Passione. Ogni fenomeno ha le sue variabili e la sua casistica. Credo che ci sia bisogno di ripensare profon-damente come impostare le finalità del progetto e da dove desumerle, superare l’assuefazione ai luoghi comuni, contaminarsi. Solo così l’ar-chitettura sarà “sempre meno la rappresentazione di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa” (DE CARLO G., 1973). Gli stessi fruitori/progettisti, nell’ambito dei Beni Comuni, diventano applicatori e realiz-zatori del progetto, in questo caso, conservatori. Saranno le specifiche del manufatto a determinare gli interventi. La sfida è come “certifica-re/garantire” che iniziative popolari di riappropriazione di beni artistici in abbandono siano dotate delle competenze e della consapevolezza necessaria per non compromettere la trasmissibilità al futuro dei va-lori materiali. Il progettista, il tecnico competente sarà indispensabile e coordinerà le scelte, ma inserendosi orizzontalmente nel processo. I tratti del “processo partecipativo di conservazione” sono delineati, gli obbiettivi e le finalità chiarite, l’attuabilità tutta da verificare.

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Bibliografia

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Arte, storia, archeologia

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Sitografiawww.cartadelrischio.itwww.cittàbenicomuni.itwww.comune.bologna.itwww.comune.bologna.it/comunita/la-carta-di-comunitwww.dirittisocialiecittadinanza.orgwww.doppiozero.comwww.eddyburg.itwww.iperpiano.euwww.labsus.orgwww.liberacollinadicastello.itwww.planbee.bzwww.riusiamolitalia.itwww.salviamoilpaesaggio.itwww.smart-lab.orgwww.treccani.itwww.wichipedia .it

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Carte, Codici, Leggi, Decreti Costituzione della Repubblica Italiana.Codice dei Bene Culturali e del Paesaggio (2004).Carta di Venezia (1964).Carta del Restauro (1972).Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbanI del Comune di Bologna (2006).Testo Unico n.499/1999 Linee guida per la redazione dei Piani di manutenzione e dei consuntivi scientifici per gli interventi su edifici tutelati.Centri di documentazione e archivi:Soprintendenza alle Belle Arti e al PaesaggioSoprintendenza ai Beni Archeologici della LiguriaArchivio conventuale di Santa Maria di CastelloArchivio storico di GenovaArchivio storico fotografico di GenovaCollezione topografica e cartografica di GenovaReferenze fotografiche:Se non specificato le foto raccolte in questa Tesi sono state realizzate durante il Corso Avanzato di fotografia di Federica de Angeli e Sandro Ariu. Tutto da qui ha inizio. Racconto fotografico del complesso conventuale di Santa Maria in Passione, Genova, Tormena, 2015 è la pubblicazione che le raccoglie. Le foto 51, 52 appartengono all’Archivio fotografico della Soprintendenza alle Belle Arti e al Paesaggio.La foto 81è di Alessandra Cavalli.Le foto 3, 16, 17, 18, 19, 21, 25, 26, 27, 28, 70, 71, 72, 75, 76, 78, 80 sono state scattate del candidato.Le foto 54, 55, 73, 77, 79 sono prese dal sito: www.liberacollinadicastello.org.La foto 59 è presa dal sito www.bing.comI disegni presenti nella tesi e negli allegati sono del candidato.

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Non ho mai avuto il dono della sintesi e rischierei di strabordare dal foglio se dovessi ringraziare tutte le persone che mi hanno aiutato, sostenuto in questi anni. Mi fermeró all’essenziale.Ai miei relatori Stefano Musso e Anna Boato per tutto il tempo che mi hanno dedicato, per le loro indispensabili correzioni e i preziosi consigli, un sincero grazie. Grazie a Ferdinando e Alessandra che in Santa Maria in Passione si sono fermati, con passione, a riflettere e pensare insieme a me.Grazie a Noam, Marco, Flavia, Paola e mamma che hanno dato un loro decisivo contribuito quando e stato richiesto (e anche ai tanti che si sono offerti!), grazie a Lorenzo che ha dato il suo contributo anche quando richiesto non era.Grazie ai Babilonesi che, senza di loro, questa tesi semplicemente non sarebbe.Un grazie speciale alla Nonna Mariuccia che, con le sue minacce di pre-matura scomparsa prima del fatidico giorno, mi ha sospinto il piú ve-loce possibile alla meta!

Ringraziamenti

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StampaStudio Stemma

Finito di impagnare il 17/12/2015 alle ore 15:48, a Genova