Racconto di un viaggio - Madagascar

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1 Racconto di un Viaggio Madagascar 26 luglio - 16 agosto 2015 Introduzione Viaggiare ti trasforma, aiuta a vedere in maniera diversa il mondo che ci circonda, a pensare che non tutti viviamo allo stesso modo, ad apprezzare quello che hai e fai quotidianamente e a costatare che tanti non possono vivere le tue stesse emozioni perché immersi in situazioni culturali ed economico-sociali totalmente differenti. Viaggiare in Madagascar significa tutto questo. Partendo da Anakao, sulla costa sud- occidentale e risalendo fino alla capitale, si assiste a una sfaccettatura antropologica impressionante. Le diciotto tribù del paese segnano perfettamente queste diversità. Al sud la gente vive in condizioni al limite della sussistenza. Lungo la Route Nationale 7, partendo da Tulear, i Sakalava vivono in minuscole case di legno e paglia, immerse nell’arida foresta spinosa, somiglianti a degli accampamenti pronti a essere spazzati via dal primo temporale. L’unica risorsa è il mare, per chi vive non lontano dalla costa. Nell’entroterra ci si chiede: “Di cosa si nutre questa gente?” Più avanti, i Bara vivono immersi nella savana. Chilometri e chilometri di praterie secche, dove anche gli zebù sembrano denutriti. Risalendo verso nord le

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Racconto di un Viaggio

Madagascar 26 luglio - 16 agosto 2015

Introduzione

Viaggiare ti trasforma, aiuta a vedere in maniera diversa il mondo che ci circonda, a pensare che non tutti viviamo allo stesso modo, ad apprezzare quello che hai e fai quotidianamente e a costatare che tanti non possono vivere le tue stesse emozioni perché immersi in situazioni culturali ed economico-sociali totalmente differenti. Viaggiare in Madagascar significa tutto questo. Partendo da Anakao, sulla costa sud-occidentale e risalendo fino alla capitale, si assiste a una sfaccettatura antropologica impressionante. Le diciotto tribù del paese segnano perfettamente queste diversità. Al sud la gente vive in condizioni al limite della sussistenza. Lungo la Route Nationale 7, partendo da Tulear, i Sakalava vivono in minuscole case di legno e paglia, immerse nell’arida foresta spinosa, somiglianti a degli accampamenti pronti a essere spazzati via dal primo temporale. L’unica risorsa è il mare, per chi vive non lontano dalla costa. Nell’entroterra ci si chiede: “Di cosa si nutre questa gente?” Più avanti, i Bara vivono immersi nella savana. Chilometri e chilometri di praterie secche, dove anche gli zebù sembrano denutriti. Risalendo verso nord le

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cose cominciano pian piano a migliorare. S’intravvedono le prime risaie nel territorio di Ambalavao, dove vivono i Batsileo. E arrivati a Fianarantsoa, i terreni sono fertili e si producono ortaggi, legumi, frutta. Poi Antsirabe e l’artigianato fiorente di questa parte dell’isola, quindi Tana, la capitale, città difficile, altamente inquinata e non proprio affascinante, dove, tuttavia, la tribù dei Merina che la abita è quella che sicuramente meno degli altri soffre delle difficoltà di questo paese. I malgasci sono accoglienti, ricevono il turista nella propria terra con estrema gentilezza, con i loro modi di fare discreti e sempre col sorriso tra le labbra. Li vedi errare lungo le strade, carichi di ogni cosa sulla testa o sulle spalle, a spingere carri, al pascolo con decine di zebù, al lavoro nei campi, ma sempre allegri, pronti ad alzare una mano al vazaha di turno che passa davanti a loro per augurargli una buona giornata o renderlo partecipi delle loro tradizioni, dei loro riti funebri come il celebre Famadihana. E i bambini, tanti, ovunque, sempre per strada, a qualsiasi età. I neonati sulle spalle delle loro mamme o delle sorelle maggiori, a due anni sono già scalzi a zampettare negli stagni o a correre sul bordo della RN7. Dai quattro in poi li vedi aiutare i loro genitori a lavare i panni nel fiume, a trasportare qualcosa nel villaggio. Alcuni fanno dei lavori troppo duri per la loro età, come sfornare mattoni in una fabbrica di briques o trainare dei rimorchi pieni di legna. Tuttavia, un fattore comune persiste: il sorriso! Non ho mai sentito piangere un bambino in Madagascar, sono sempre allegri e gioiosi, inconsapevoli che altrove la vita dei loro coetanei è totalmente diversa e sicuramente meno faticosa.

Inoltre, questo paese incanta per la straordinaria ricchezza del suo paesaggio e la varietà di piante e animali che vi abitano. I baobab, simbolo del paese, alti, enormi, imponenti, li si ammira dal basso verso l’alto mentre dominano il territorio a essi circostante. I parchi nazionali dell’Isalo e di Ranomafana sono un dono della natura, rocce di forme e dimensioni

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straordinarie, canyon da far pensare al Colorado, foreste pluviali, oasi di palme e piscine naturali. E poi, per incanto, uscendo di poco dai confini del paese, attraversando un lembo di mare sulla costa orientale, eccoci in paradiso… L’Île Sainte Marie, l’Île aux Nattes, isole dal mare turchese, dalle distese di sabbia dorata, dalle alte onde oceaniche della costa orientale, amate dai filibustieri del XVIII secolo che nascosero i loro tesori da qualche parte e che restano ancora oggi misteriosamente da scoprire. Ma è la terra degli animali, i lemuri, in primis, padroni incontrastati delle foreste, con i loro rifugi sulle cime degli alberi o sgambettanti accanto agli uomini per rubacchiare loro qualche rimasuglio del pranzo. È la terra dei camaleonti e della loro capacità di mimetizzarsi per sfuggire dallo sguardo dei curiosi turisti ma soprattutto dei pericolosi predatori. Il Madagascar e le sue acque sono anche luogo prediletto dei mastodonti del mare, le megattere, queste enormi balene che si rifugiano nelle acque calde dell’Ottavo continente per trascorrere il periodo dell’accoppiamento o per partorire i loro balenotteri. Un viaggio affascinante e ricco di emozioni in un paese straordinariamente speciale.

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1 Un viaggio senza fine…

Inizia oggi, dopo una trepidante attesa, questo viaggio in terra d’Africa che si prospetta interessante, particolare, avvincente. Per la prima volta affronto un lungo viaggio (quasi tredici ore, scalo compreso) senza dovermi preoccupare del fuso orario. Tra l’Italia e il Madagascar, infatti, c’è una sola ora di differenza. Tuttavia, non mancheranno occasioni per arrivare sfiancato al termine di questo viaggio di andata. S’inizia con il ritardo di un’ora del volo da Parigi ad Antananarivo annunciatoci da Air France con un giorno di anticipo. Pertanto, la nostra attesa per la coincidenza, a seguito del volo Milano – Parigi delle 7:50, si prolungherà ancora un po’. Al momento della partenza, però, il volo subisce un ulteriore ritardo, di oltre un’ora, per cause ancora da capire. In sintesi, arriviamo ad Antananarivo, dopo le dovute dieci ore e mezzo di volo, all’1:35 anziché alle 22:35 come da programma iniziale. Tenuto conto che la nostra permanenza nella capitale malgascia è di una sola notte, giusto il tempo di riposare e tornare in aeroporto per il volo interno verso il sud del giorno dopo, questi ritardi hanno limitato e non di poco le nostre già prevedibilmente scarse ore di sonno. E come a voler infierire su una situazione già critica di suo, ci si mette anche la consegna bagagli: impiego, infatti, due ore esatte per recuperare la mia valigia, e usciamo dall’aeroporto quasi alle 4! A questo punto, la nostra notte in hotel si riduce a un semplice riposino di un’ora che non è il massimo del confort, vista la giornata massacrante con sveglia alle 4 del mattino e successiva traversata intercontinentale. Ma torno indietro all’atterraggio ad Antananarivo e alla consegna dei bagagli: un delirio totale! Sul nastro girano le stesse valigie per decine di volte, e della mia manco l’ombra! Il tempo passa, la stanchezza si accumula e la pazienza della gente comincia a vacillare. Pertanto assisto a scene di sclero totale di una signora alla quale viene ostacolata la vista sul nastro di consegna; a una coppia di anziani italiani che a ogni giro ritirano sempre la stessa valigia, salvo poi rimetterla su dopo aver scoperto che non è la loro… (posso capire alle prime due tornate, ma dalla terza in poi ho cominciato a pensare che i due signori, probabilmente trentini o friulani dal dialetto che parlavano, dovevano essere un po’ “rimba” o forse solo frastornati dalla lunga attesa); ad una signora, apparentemente anziana, con bambino in fasce, piangente, in braccio, dal cui pannolino esalavano in aria profumi non certo degni delle migliori fragranza africane; e sul più bello, la donna tira fuori dalla sua maglia una “zizza” per la poppata della notte, creando in me una forte confusione, convintomi com’ero che la signora fosse la nonna… E quando finalmente la mia Samsonite fa capolino, timidamente, dal curvone da dove spuntano i bagagli, dietro ad altre valigie ammassate l’una sull’altra, la recupero e provo con coraggio a defilarmi dall’ingorgo di carrelli creatosi attorno al nastro, una cosa da far venire la pelle d’oca anche ai migliori automobilisti di Napoli o Palermo all’ora di punta! Uscito da quel caos, via, alla ricerca di un taxi; ricerca affatto complicata, perché veniamo letteralmente accerchiati da una decina di omini che quasi con forza ci strappano i bagagli e gli zaini di mano e ci conducono verso l’auto parcheggiata. E una volta messe le valigie nel bagagliaio, tutti a tendere una mano e a chiedere una mancia extra ai 60.000 Ariary (circa 20 euro) richiesti dall’autista, con la stessa foga e la stessa fame di una nidiata di passerotti all’arrivo in volo della mamma con l’unico lombrico da ripartire a quelle bocche affamate! Percorriamo per mezzora una strada che attraversa la banlieu della capitale, quest’ultima più simile a uno slum di Mumbai che a semplici villaggi periferici. Noto con stupore il passaggio di persone vaganti per strada, quasi senza meta precisa, tanto da non capire se stessero rientrando a casa o se si preparassero, di buonora, alla loro giornata lavorativa.

Domenica 26 Luglio.

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2 … E il viaggio continua

Sono le 6:30 quando saliamo sul taxi per tornare in aeroporto nonostante un sonno bestia alleviato dalla fresca mattinata malgascia (15° circa) e da qualche zanzara che in un modo o in un altro riusciamo a far uscire dall’abitacolo evitando di farci punzecchiare qua e là e pensare alla malaria ancor prima di cominciare la nostra avventura in questo paese. La strada è la stessa percorsa poche ore prima, adesso illuminata da un timido sole che lentamente prova ad alzarsi. Rispetto a prima, ora è piena di gente, alcuni con carichi di frutta o di legna sulla testa, altri trainano a mano dei grossi carri pieni di ogni cosa, altri ancora vagano a passo rapido verso il posto di lavoro, presumibilmente una bancarella di strada che vende di tutto. Si muovono velocemente, alcuni corrono, c’è frastuono, sembra quasi di essere nella linea 4 della metro di Parigi, direzione Marcadet-Poissonniers, al cambio con Barbès Rochechouard! Arriviamo in aeroporto con largo anticipo, e stavolta bruciamo sul nascere ogni tentativo di farci trasportare le valigie dalla solita équipe di malgasci affamati di mance. Al check-in ci fanno storie per un bagaglio che pesa 4 chili in più del dovuto. Ci mandano a saldare la differenza a uno sportello di cassa di non facile reperibilità (nonostante le dimensioni minimali dell’aeroporto di Tana). All’inizio la ragazza ci dice che ce la saremmo cavata con soli 4 euro, salvo poi ripensarci e dirci che ce ne sarebbero voluti 50 per non so quale cavillo al quale la tipa ha fatto ricorso. Piuttosto che pagare questa cifra, decido di togliere i cinque chili di quaderni, penne e cartoleria varia da consegnare ai bambini di Anakao, se riesco, provando a nasconderli nel bagaglio a mano. A questo punto la valigia può essere imbarcata regolarmente a costo zero; ma ai controlli di sicurezza, un’altra donna ci impone di pesare gli zaini, e a quel punto, il mio eccede e non di poco rispetto al peso massimo consentito. Questa volta, però, ce la caviamo con tanto di savoir faire all’italiana, impietosendo la tipa con la storia dei quaderni e della missione umanitaria prevista; ma la donna, con nonchalance, tira fuori dal cilindro la frase: “Comment on peut faire alors?” rendendo molto fertile il terreno della corruzione… Tiriamo fuori 20.000 Ariary che la donna intasca “Avec discreption” e come per magia il mio zaino pesa come una piuma! Puntualmente, alle 9:30 siamo sul piccolo aereo della Air Madagascar che in un’ora ci conduce a Morondova per uno scalo molto particolare, sia per la vista spettacolare poco prima dell’atterraggio, di distese di baobab tipici di questa regione, sia per lo sbarco dall’aereo, la consegna di un cartoncino con scritto: “Transit – Tulear”, l’ingresso in aeroporto dalla porticina di destra, il tempo di una capatina in bagno e ci fanno uscire dal lato sinistro per reimbarcare a bordo dello stesso aereo, non prima di essere passati, seppur di striscio, dalle due boutique che vendono tutto e niente, un po’ come in autogrill dove t’impongono di fare il tour dei negozietti al fine di lasciarci qualche euro.

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Arrivati a Tulear alle 11:45, impieghiamo poco a uscire dall’aeroporto e a prendere un taxi per farci condurre, al costo di 20.000 Ariary, al porto, dove un motoscafo ci porterà al resort Peter Pan di Anakao. Tutto fin troppo semplice, detto così. Nel frattempo, durante gli 8 km di strada che conducono al porto, cominciamo a scoprire la vera realtà di questa nazione, fatta di gente che vive nei villaggi, lungo le strade e sembra vada in giro a zonzo. Tanti, troppi bambini seminudi che giocano con qualsiasi cosa, senza alcuna necessità di avere tablet o videogiochi in mano.

Al porto, prima sorpresa della giornata: troppo tardi per l’ultimo scafo! Chiamo Dario, il titolare del resort Peter Pan, il quale mi consiglia fortemente di fermarmi a Tulear e partire il giorno dopo con il primo traghetto: non ci sono altre alternative “safe” a quell’ora!

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Trovandoci spaesati in quel punto dell’universo, in mezzo a strade dissestate e piene di fango, dove i bambini sguazzavano e si divertivano a sporcarsi, l’idea di passarci l’intero pomeriggio e la notte, dopo le stanchezze di questo nostro lungo viaggio, non era delle migliori.

Proviamo a chiedere ai locali quale sarebbe stata l’alternativa possibile. L’autista del taxi, nell’impossibilità di accompagnarci in auto perché per via della distanza e dell’impervietà del percorso, ci propone di condurci al porto di Saint Augustin, per 100.000 Ar. da dove partono delle imbarcazioni private per Anakao. Proviamo! Percorriamo trenta km di sentieri sterrati e infangati, attraversiamo paesaggi selvaggi, villaggi di capanne stracolmi di bambini ignudi, salite e discese di ogni genere,

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e un’ora dopo arriviamo al “porto” ovvero un piccolo villaggio di pescatori, dove ci aspettano un gruppo ragazzotti non ancora maggiorenni e le loro piroghe… Sì, piroghe! In legno, perfettamente tenute, sono queste le imbarcazioni che conducono ad Anakao da questo posto! Le scelte sono due: affrontare l’ostico oceano indiano a bordo di queste barche timonate da un sedicenne al costo di 150.000 Ar. o tornare indietro e aspettare il giorno dopo. Troppo stanchi per la seconda opzione, sfidiamo la sorte (e il mare). Temerari!

E così saliamo a bordo e Mattia, il sedicenne al timone, con grande abilità e con massima attenzione alle onde forza 2 del mare, non allontanandosi troppo dalla costa, ci porta da Peter Pan dopo due ore di navigazione, con piccola sosta carburante e salita a bordo di un bambino di 8/9 anni come accompagnatore.

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Arrivati a destinazione, ad accoglierci c’è il già citato Dario, il quale, dopo essersi complimentato con noi per il coraggio avuto, sarcasticamente ci comunica che non tutti sono riusciti a superare, quel tratto di costa con quell’imbarcazione, rendendo gelido il sangue che scorreva nelle mie vene in quel momento, salvo poi riprendersi dicendomi che però, in quei casi, il mare era stato molto più agitato. Dario, appunto, insieme a Valerio, entrambi pressappoco trentenni, che 6 anni fa hanno deciso di lasciare i fasti del mondo occidentale per stabilirsi in questo paradiso, ci accoglie con un ciuffo biondo ossigenato, un viso truccato, gli occhi coperti da un paio di Ray-Ban e un abbigliamento “tie and die”: sembra proprio uscire da un’opera rock degli anni ’70, in perfetto stile Kiss. E una volta installati nel bungalow in riva al mare, ci si concede una lunga e merita siesta. Al risveglio, ci fermiamo nel bar/ristorante dei nostri simpatici osti, da dove si ha anche accesso a internet per comunicare un po’ con la famiglia e con gli amici.

Ci concediamo un aperitivo con un bianco sudafricano e poi ceniamo a base di triglia cucinata dallo stesso Valerio che poche ore prima ci aveva preparato, con le sue mani, dei freschissimi ravioli di formaggio e spinaci, divorati in un attimo dopo il digiuno a causa del viaggio infinito. Al rientro in bungalow scopriamo come vivere in posti come questo ci porta lontani, ma di molto, dalle abitudini quotidiane alle quali siamo da sempre abituati. Intanto la luce, ad energia solare e non sempre e in ogni luogo disponibile; poi l’acqua nel bagno, contenuta in due contenitori, uno grande e uno piccolo, forniti di boccale, da usare e per lo scarico, e per il lavandino e la doccia… Solo nelle puntate dei Flinstons ricordo di aver visto ciò, o nei racconti d’infanzia dei miei nonni! Sono le 10, le fatiche si avvertono, è il momento di dormire, finalmente, e meglio se coperti da un caldo plaid messo a disposizione, visto lo sbalzo termico notturno e il rivestimento del nostro bungalow con tetto in paglia e pareti alte in bambù. E nel silenzio più totale di una notte in riva al mare, dove gli unici rumori provengono dalle onde che si adagiano sul bagnasciuga, e lo fanno piano, quasi a non voler disturbare chi riposa, si sentono da lontano i canti, la musica, le celebrazioni di un rito funebre malgascio.

Lunedì 27 agosto.

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3 Finalmente un po’ di riposo

Giornata dedicata al total relax quella di oggi, dopo le fatiche accumulate nei giorni scorsi. Trascorriamo la mattinata prima nel bar per la colazione a base di caffè e pane grigliato con burro e marmellata di ananas fresco, poi in spiaggia approfittando della splendida giornata di sole e di un mare che sembra caraibico nei colori, non fosse per la temperatura dell’acqua un tantino gelida che lo riporta nel suo naturale status di oceano.

Nel frattempo conosciamo una giovane e simpatica coppia di medici italiani che vivono in Inghilterra. Si chiamano Emanuele e Francesca che, essendo nella fase finale del loro viaggio, ci danno dei tips molto interessanti per le nostre prossime mete. A pranzo Valerio ci cucina degli ottimi primi, con sughi preparati al momento e prodotti rigorosamente freschi. Io ho mangiato delle buonissime penne ai calamari da far invidia ai migliori ristoranti della costiera amalfitana! Ed è tempo di organizzazioni per i giorni futuri qui ad Anakao. Dario ci delucida sulle possibili escursioni nelle isole vicine e pertanto ne prenotiamo due in due giorni diversi che faremo insieme a una coppia di signori milanesi venuti qui al Peter Pan per il pranzo. Conosco anche una famiglia udinese venuta a conoscere il loro bambino in adozione a distanza, Germain. Insieme a loro una guida, Luc, con cui ho il piacere di scambiare due parole e capire quanto sia difficile per un giovane studioso e intelligente come lui fare quel salto di qualità a cui aspirerebbe dopo anni passati sui libri. Nato ad Antsirabe, vive ora ad Antananarivo dove ha studiato, imparando cinque lingue tra le quali il giapponese e il cinese, appassionato di storia medievale e di cultura egiziana e keniana e che aspira a imparare anche

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l’italiano tanto da chiedermi, in punta di piedi e con tanta umiltà, se avessi potuto fornirgli un dizionario italo-francese o italo-inglese perché qui in Madagascar è impensabile trovarne uno. Ho preso il suo contatto, provvederò al mio rientro in Italia. Mi da anche qualche consiglio utile per la nostra successiva visita alla sua città di origine. In un posto così bello e tranquillo, dove il turismo di massa non avrebbe ragione di esistere, dove la spiaggia, priva di ombrelloni o di stabilimenti vari, totalmente isolata o vissuta solo dai locali che hanno esteso i loro villaggi fin in riva al mare, decido di mettere le scarpe e la tenuta da corsa e farmi 6 chilometri di costa nell’ora in cui il sole comincia a calare (tra le 5 e le 6 del pomeriggio).

Durante la corsa incontro tanta gente che per vari motivi m’invita a conversare con loro magari per vendermi un giro in piroga o promuovere qualche ristorante locale. Ne approfitto per scoprire alcune cose sui loro modi di vivere come il radunarsi nelle prime ore del pomeriggio in riva al mare, davanti al villaggio, schierandosi maschi da una parte, donne e

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bambini da un’altra e parlare del più e del meno a fine della loro giornata lavorativa che li ha visti, probabilmente, impegnati in mare per la pesca.

I bambini mi accerchiano e mi chiedono di far loro una foto, che non avranno mai, ma sono fieri di essere immortalati nelle posizioni più strane e simpatiche. Alcuni di essi chiedono anche: “Monsieur, cadeau!” Ma non in maniera pressante e basta dargli appuntamento al giorno dopo per dissuaderli. Altri mi seguono quando riprendo a correre, per qualche centinaio di metri…

E poi ci sono i loro mercatini allestiti con tutte le cose da loro prodotte o pescate e, dulcis in fundo, l’incontro inaspettato, un lemure docile e ben addomesticato da accarezzare e coccolare

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E dopo la corsa è giunto il momento di sfidare la doccia con canna e acqua fredda, un’esperienza molto divertente, direi quasi rigenerante! La sera trascorre in simpatica compagnia dell’affiatato duo Dario e Valerio e dei nuovi amici Francesca ed Emanuele, tra racconti di ogni genere, specie delle avventure e soprattutto disavventure del mitico Dario, un vino argentino da sorseggiare, e l’ottima pizza cucinata in forno a legna dal bravissimo Valerio. Dario, fonte inesauribile di narrazioni varie, di racconti personali e di storie malgasce. È da lui che apprendiamo della corruzione vigente in questo paese. Il primo ministro, ad esempio, eletto dal popolo, che per i primi due anni rubacchia da ogni lato per far rientrare le spese dell’elettorato pagato a suon di riso pur di ottenere il voto. Ci racconta del suo scampato naufragio, al largo di Saint Augustin, con la sua barca alla deriva, due motori in avaria, poco prima di raggiungere Tulear dove ad attenderlo c’era un acquirente cinese del suo stesso battello sgangherato. Solo l’intervento miracoloso e perentorio di alcuni suoi amici malgasci, e assicuro che ne ha tanti in giro per il paese, gli ha salvato la vita. Inoltre, Dario ci mette in guardia su come muoversi in mezzo ai malgasci, evitando di uscire dopo il tramonto, ad esempio. In Madagascar non esiste alcuna legge contro la criminalità. Ognuno potrebbe sentirsi libero di compiere atti criminali, consapevole di non poter essere punito. Nei villaggi o lungo le strade, è meno pericoloso imbattersi in una comitiva di gente che in un singolo individuo. Questi, in preda ad un raptus o a un non so quale istinto e privo di testimoni, potrebbe agire come vorrebbe. D’altronde, sempre dai racconti di Dario, noi europei, gli americani, gli occidentali in genere, siamo considerati bianchi, vazaha (si pronuncia /vazà/) in lingua locale, in altre parole gli strani, un po’ come degli alieni, e tutto potrebbe passare per le loro menti.

Martedì 28 luglio.

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4 Tra mangrovie e lagoon

Prima escursione organizzata in Madagascar: oggi ci spostiamo verso sud a vedere un ecosistema particolare caratterizzato dalla presenza delle mangrovie, specie di piante legnose, che crescono nei paesi tropicali sulle sponde delle lagune salmastre, sulle spiagge basse e fangose, allagate permanentemente o durante l’alta marea, nonché lungo gli estuari dei grandi fiumi. Esse costituiscono una fitta vegetazione, con caratteristiche singolari, per via delle grandi radici aeree e a trampolo, che si ramificano prima di raggiungere la superficie dell’acqua. Si parte poco dopo la colazione, in piroga, facciamo tappa all’Ocean Lodge, un hotel molto carino poco distante, per far salire a bordo i due signori milanesi, Lucia e Roberto, con i quali trascorreremo buona parte della nostra giornata. Arriviamo a destinazione dopo una navigazione di circa un’ora, verso sud, in un oceano dai colori sublimi che vanno dal blu all’azzurro, dal turchese al verde smeraldo.

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Ancoriamo a una cinquantina di metri dalla costa che raggiungiamo a piedi. E iniziamo la nostra passeggiata da un lato all’altro del fiordo che s’interseca nella terraferma e circondato da questa meravigliosa vegetazione caratterizzata, per l’appunto, dalle mangrovie.

Seguiamo le nostre due guide, i due barcaioli che abilmente ci hanno condotto fin qui, che di tanto in tanto ci fanno oltrepassare il fiordo approfittando della classica bassa marea mattutina.

E qui, quantità infinite di stelle marine si nascondono sotto la sabbia, aggrappandosi a piccoli cespuglietti di alghe sottostanti la superficie dell’acqua.

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Un piccolo granchio, con le sue robuste chele, afferra una conchiglia con l’unico intento di mangiarne il succulento contenuto. Mai in vita mia avrei immaginato di immergere i miei piedi e farli sprofondare in questa specie di sabbie mobili strapiene di molluschi di ogni genere. E usciti sulla riva opposta, sotto a degli alberi stranissimi, accanto ad alcuni uccelli simili agli aironi, spunta anche, in mezzo alle foglie secche, un serpentello che se ne sta lì, immobile, e tutto sembra fuorché aver paura di noi.

Finita la nostra escursione in questo splendido paradiso sperduto, ritorniamo a bordo della nostra piroga con la quale i nostri due “Caronti” ci conducono verso Nosy Satrana, in dieci minuti circa.

Incantevole e selvaggia al tempo stesso, con una scogliera, sul lato occidentale, scalfita dalle onde del mare, e un lagoon naturale nel quale ci si bagna approfittando anche per fare un po’ di snorkeling e poter ammirare un tratto della Grande Barriera Corallina.

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Il turchese del mare, il giallo dorato della sabbia, il nero della roccia, il verde della vegetazione: questi i colori che caratterizzano quest’isola apparentemente deserta, anche se, in cima a una collinetta, s’intravedono croci e lapidi di un cimitero monumentale.

Dopo un picnic sulla spiaggia, ci concediamo una sosta sdraiati sotto il caldo sole invernale, nel totale silenzio, eccezion fatta per la meravigliosa colonna sonora delle onde che urtano, prepotenti, sulle rocce. Intanto la marea comincia piano piano a salire, e intorno alle 13:30 decidiamo di rientrare. Durante la via del rientro, conosciamo meglio Roberto e Lucia, i quali ci incantano con i racconti dei loro innumerevoli viaggi in Africa e nel mondo.

Arrivati al Peter Pan, ci fermiamo un momento a mangiare una bruschetta e poi decidiamo di andare a prendere un gelato in un posto molto particolare sulla punta a nord del golfo di Anakao. Passeggiamo lungo la spiaggia per oltre un’ora prima di trovarlo, ma ne è valsa la pena. Lo gestisce una signora malgascia di chiara influenza francese, in questa sua bellissima e molto grande villetta rialzata rispetto al livello del mare con una vista mozzafiato. Il gelato, poi, fresco e fatto in casa. Da gustare! Rientriamo in hotel giusto in tempo per un aperitivo al calar del sole, poi direttamente in sala ristorazione, dove ceniamo e trascorriamo buona parte della serata in compagnia di Dario e Valerio e delle loro mille e una… avventure da raccontare.

Mercoledì 29 luglio.

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5 Balene o non balene?

La mattinata di oggi è dedicata alla nostra seconda escursione in piroga insieme ai simpatici Lucia e Roberto che, come ieri, ci aspettano davanti al loro hotel. Obiettivi del giorno: osservare le balene al largo della costa e visitare l’incontaminata Nosy Ve, l’isola di fronte alla costa dove soggiorniamo.

Alle 8.30 siamo già tutti in piroga. Inizia la nostra traversata e sin dal primo momento si ha la sensazione che il mare oggi non sia così tranquillo come da previsioni. Onda dopo onda, ci ritroviamo velocemente in mare aperto. L’acqua è di un blu cha fa paura e la nostra imbarcazione subisce degli sbalzi ripetuti e non indifferenti tanto da indurci a indossare i giubbottini di salvataggio. Non si sa mai! E man mano ci si allontana dalla costa, ci sembra sempre di più di essere in balia delle onde! “Speriamo di poterla raccontare!” – dico, ridente, a Lucia, la quale mi risponde con un sorriso tra le labbra che nascondeva altrettanta preoccupazione. Tuttavia, siamo temerari e andiamo avanti! A rassicurarci, infatti, è l’atteggiamento a dir poco rilassato delle nostre guide. Oggi sono tre, e li vedi saltare da poppa a prua come degli equilibristi che passano sul filo senza usare l’asta, tutt’altro che preoccupati delle condizioni del mare. A quel punto ho capito che bisognava solo fidarsi dei nostri marinaretti e smettere, al tempo stesso, di guardare i cavalloni che s’infrangono sulla poco distante Grande Barriera Corallina o di visionare l’andamento molleggiante della piroga e mi concentro verso l’orizzonte nel tentativo di avvistare le tanto attese balene. Arrivati a circa cinque miglia dalla costa, il timoniere arresta il motore e gli altri due gettano l’ancora. Ci fermiamo dunque in pieno oceano indiano, dirimpetto al Mozambico, con lo

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sguardo che mirava a fondo, da destra a sinistra, incrociandosi ripetutamente ma inconsciamente con quello degli altri, in attesa che da quell’infinita estensione di acqua potesse uscire qualcosa da farci urlare: “Wow!”. Passa un’ora circa e di balene neanche l’ombra! Siamo quasi sul punto di tornare indietro e delusi, ma al tempo stesso contenti di tornare verso la terraferma quando, da molto lontano, avvisto qualcosa che sembra alzarsi dalle acque, che momentaneamente scambio per un’imbarcazione, salvo poi vedere, pochi istanti dopo, un enorme schizzo fuoriuscire dal mare. Balene! Balene! Gli altri però non l’hanno vista, e non vorrei dare un’allerta per nulla. Passano pochi minuti e la stessa identica scena si ripete e questa volta non sono l’unico ad avvistarla. Ecco allora che si riavviano i motori e ci si sposta più in là, nel tentativo di avvicinarsi il più possibile a uno spettacolo unico. Ma è rimasta una pura illusione! Nessun altro pesce è spuntato dall’acqua e ci arrendiamo del tutto quando uno dei nostri tre marinai, che nei due giorni non aveva mai proferito, né compreso, una sola parola di francese, eccezion fatta per poisson e oiseau, pronuncia, inesorabile: “Fini la saison des baleines”. A quel punto ordiniamo il dietrofront. Come detto, la seconda tappa di oggi è l’isola di Nosy Ve, ma prima di arrivarci ci fermiamo qualche minuto davanti alla Grande Barriera Corallina sulla quale i pescatori, con canne di bambù usate a mo’ di lance, pescano i polpi e i calamari rimasti incastrati tra le rocce a seguito del movimento delle maree. Arriviamo a Nosy Ve e scopriamo subito e con estremo piacere di trovarci su un’isola deserta e incontaminata. Un vero paradiso incantato! I colori del mare sono da favola. Distese di sabbia bianca rendono unico il paesaggio!

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Ma i padroni incontrastati di quest’isola sono loro, i Paille en queue, un uccello simile al gabbiano, dal becco rosso e una lunga coda dorata che tanto somiglia a un filo di paglia. Questi uccelli hanno da tempo stabilito che questo è il posto adatto alla loro sopravvivenza, pertanto è qui che depongono le uova ed è qui che covano i loro piccoli, cosa che fanno in questo periodo dell’anno. È quindi molto facile trovarne accovacciati sotto i cespugli che caratterizzano la vegetazione del centro di quest’isola, divenuta da qualche anno riserva naturale proprio per la protezione di questa specie animale. E mentre le femmine covano, i maschi dall’alto svolazzano e osservano che tutto fili liscio intonando anche dei versi molto belli e sicuramente unici. Clicca per vedere il video su youtube: Il canto dei maschi

Dopo aver fatto il giro di tutta l’isola, averne ammirato la bellezza in lungo e in largo, osservato la pesca del giorno di alcuni pescatori e aver dissetato una gallina che ci è saltata addosso alla vista della nostra bottiglia d’acqua, ritorniamo in piroga verso Peter Pan in punto per l’ora di pranzo.

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Finisce cosi anche la nostra seconda escursione e ci congediamo da Roberto e Lucia, questa coppia di viaggiatori amanti dell’Africa, dai quali abbiamo appreso tante cose e con i quali resteremo piacevolmente in contatto. Nel pomeriggio, al nostro quarto giorno di permanenza ad Anakao, decidiamo di visitare il villaggio. Altra bella avventura! Casupole in legno e bambù e baracche in lamiera si estendono su sentieri di sabbia per circa 2 chilometri lungo la costa e verso l’entroterra. A dominare il villaggio, una serie d’imponenti dune di sabbia dalle quali poter osservare, curiosamente, i movimenti della gente di Anakao.

È dalle dune che osservo come qui è solito radunarsi attorno ad un pozzo per il bagno quotidiano o per caricare l’acqua e condurla in casa con dei grossi contenitori trasportati dalle teste delle donne malgasce.

Tra le altre abitudini delle persone che abitano nei villaggi, noto tristemente come, non avendo servizi igienici, sono costretti (ma per loro è naturale) a fare tutto dove capita, dietro un cespuglio o in riva al mare tra due piroghe.

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Ma come è bello vedere i bambini correre e giocare con qualsiasi cosa passi tra le loro mani…

La giornata è stata ricca di grandi emozioni e molte scoperte interessanti. Adesso non ci rimane che un bicchiere di vino al tramonto e l’ultima cena nella cucina di Valerio. Da domani anche il cibo sarà un’avventura e dovremo cominciare ad abituarci allo zebù e a quant’altro proposto dalla cucina malgascia.

Giovedì 30 luglio.

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6 Chi mal comincia…

È tempo di partire! Il motoscafo per tornare a Tulear passa a prenderci alle 7:30. Facciamo giusto in tempo a sistemare le valigie, a fare colazione, a saldare il conto e a salutare i simpatici Dario e Valerio, ringraziandoli per la loro ospitalità. www.peterpanhotel.com

All’arrivo del motoscafo, mi ritrovo a essere l’ultimo a dover ancora salire a bordo, con alle spalle uno zaino strapieno e in mano la valigia da 20 chili. Lo scafo si ferma in riva, quindi bisogna entrare in acqua per salire su. Una volta affondati i piedi nella sabbia bagnata, con il carico addosso e le ciabatte ai piedi, nel tentativo di passare il mio bagaglio al malgascio sulla barca, la mia stabilità non è delle migliori. Peggio ancora se lo scafo indietreggia (per fortuna a motore spento) e l’elica urta violentemente contro la mia gamba destra, sulla caviglia e poco più in alto, facendomi cadere in acqua (forse è stata la mia fortuna). Risultato: ferita non indifferente alla caviglia e grosso ematoma con immediata tumefazione pretibiale, poco sotto il ginocchio destro. Salgo a bordo claudicante e bagnato come un pulcino e con un gruppo d’imbambolati spettatori canadesi, la cui unica funzione vitale apparente sembrava quella di respirare, più infastiditi per la perdita di tempo che preoccupati per le condizioni di salute di un loro simile quale ero io in quel momento. Per fortuna ci sono a bordo anche Olivia e Antoine, la giovane coppia di Francesi conosciuta al Peter Pan, dai quali ricevo qualche parola d’incoraggiamento; d’altronde, avevo già notato e apprezzato, nei giorni scorsi, la gentilezza e l’educazione di questi due ragazzi. Bene, stringo i denti, disinfetto la ferita con quel che la mia cassetta medica da viaggio possiede, la proteggo con dei cerotti in attesa di arrivare a Tulear, recarmi in farmacia e acquistare quanto serve per una buona medicazione. Nel frattempo, le belle statuine canadesi, possono assistere allo spettacolo di strip-tease da me messo in atto. Non posso certo stare con quei panni zeppi d’acqua e non ci sono spogliatoi in quel motoscafo di 5 metri quadrati! Dunque, via ogni pudore (che con la rabbia di quanto accaduto si era totalmente volatilizzato) e cambio… quasi integrale! Il viaggio dura quaranta minuti circa, durante i quali testo in diversi modi l’integrità del mio arto inferiore. La paura di restare immobile in questo posto m’inquieta, specie ripensando a uno dei racconti di Dario il quale diceva che in Madagascar le strutture ospedaliere sono inefficienti e che in casi d’interventi chirurgici o cure particolari spediscono direttamente

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sull’isola della Réunion. Tuttavia, per fortuna, il pericolo sembra scampato, la mia gamba sembra reagire e, dopo aver provato la mitica esperienza di essere trasportati da un carro trainato da zebù, in acqua, a causa della marea che impedisce alle imbarcazioni di avvicinarsi alla costa, “atterriamo” a Tulear, mi procuro garze, bende e betadine per una medicazione dignitosa della mia ferita e a quel punto sono pronto per iniziare l’avventurosa risalita del Madagascar in 4X4.

Ma le avventure sembrano solo essere iniziate! Il nostro autista, infatti, con cui avevamo appuntamento alle 9, è leggermente in ritardo. Chiamiamo Justin, il responsabile, il quale ci assicura circa il suo prossimo arrivo. Alle 10 si presenta Tina, che a dispetto del nome è un ragazzo, un malgascio che ha le sembianze di tutto fuorché di una guida (la nostra richiesta

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era stata quella di avere un autista-guida). La cosa non mi piace molto ma non è il momento di fare storie. Si parte. Da subito ci comunica, con nostra grande preoccupazione, che il ritardo era stato dovuto a un problema del suo veicolo, un vecchio fuoristrada della Hunday. E presto ci accorgiamo anche che Tina, oltre a non essere una guida, non è neanche un bravo autista, poiché, per condurci al Giardino Botanico dell’Alboreto, poco distante da Tulear, sbaglia ripetutamente percorso e prima di arrivare a destinazione chiede indicazioni ai passanti locali. Il tutto fermandosi anche un paio di volte per verificare lo “stato di salute” della sua macchina. E una volta arrivati al giardino, mentre noi iniziamo il nostro tour guidato, comincia a trafficare sulla sua 4X4, iniziando a smontare una delle due ruote anteriori. Nel frattempo giriamo il parco con una guida molto preparata e attenta a spiegarci tutte le particolarità delle piante, tipicamente malgasce, presenti nel giardino. Peccato non si tratti della giusta stagione per questa visita: essendo inverno, infatti, qui tutto è spoglio e privo di fiori. Ma ahimè, non facciamo il tour da soli: destino crudele ha voluto che a tenerci compagnia fosse proprio la famiglia di mummie canadesi, la cui simpatia si può comparare, tale e quale, a quella di un granellino di sabbia infiltratosi in un occhio! No comment! Usciamo dal giardino e Tina è ancora alle prese con quel mucchio di lamiere sgangherato privo di una ruota. Ma ci da una notizia da un lato sconsolante, dall’altro confortante: Justin ci manda un’altra vettura.

E così, dopo un’attesa fatta coincidere con una pausa rifocillante, arriva Luc e il suo fuoristrada perfettamente integro sul quale carichiamo le nostre cose e finalmente iniziamo a spostarci verso Isalo. Luc è un ottimo autista e anche una guida esperta e ricca d’informazioni da fornirci. Peccato ci comunichi subito che lui ci avrebbe depositato in hotel e non avrebbe potuto continuare il nostro tour perché già impegnato altrove.

Jean Luc Rajaonarivelo – Location Taxi-Ville Tel: 00261320435631 - 00261331264263

E-mail: [email protected]

Justin avrebbe trovato nel frattempo una soluzione. Incrociamo le dita! Sono circa 130 i chilometri da percorrere lungo la RN7, la strada nazionale, che tuttavia si presenta ostica e non sempre ben curata, con buche e pezzetti non asfaltati tanto che le previsioni di arrivo in hotel sono di circa tre ore e mezzo di viaggio. Ma durante il percorso si rimane totalmente incantati dinanzi ad una varietà di paesaggi così diversa e così incredibilmente bella! S’inizia a percorrere un tratto in mezzo alla foresta spinosa, per poi passare a una vegetazione più verde caratterizzata dalla presenza di enormi eucalipti. Poi è il turno dei terreni coltivati a cotone con giganteschi alberi di mango sparsi qua e là.

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Si sale e si scende ripetutamente dalle diverse colline che sovrastano il territorio di quest’angolo di Madagascar, e ogni volta che si arriva in cima a una di esse, ci si affaccia su un paesaggio totalmente diverso. È un susseguirsi continuo di immagini da cartolina. E una di esse, forse la più bella, è quella che ci conduce davanti ad una vasta estensione di terreno dove si ergono, dritti e imponenti, dei maestosi Baobab.

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Giunge poi il momento di incontrare immensi terreni gialli, secche praterie tipiche della savana malgascia per poi arrivare, poco dopo, alle ultime luci del giorno, con un sole calante, alla vista di un meraviglioso spettacolo di palme colorate di rosso dal cielo del tramonto.

Ma questo non è l’unico spettacolo offerto dalla natura circostante a cui assistiamo. Molto interessante è, infatti, osservare cosa fa e come vive l’uomo in questo territorio. Lungo il tragitto, attraversiamo innumerevoli centri abitati; da piccole cittadine con costruzioni in pietra o in mattone, in qualche modo simili alle nostre case, a tanti, tantissimi villaggi di minuscole casupole costruite con legno e paglia, pronte a essere spazzate via al primo venticello. La maggior parte degli abitanti di questi villaggi sono giovani, soprattutto bambini, e fa senso vederne tanti adoperarsi in ogni modo per contribuire al fabbisogno della famiglia, trasportando grandi carri carichi di mattoni, portando capre e zebù al pascolo o con legna e altri pesi sulla testa. Tutte attività inimmaginabili, per noi occidentali, specie se a svolgerle sono bambini di 5 o 6 anni.

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Finalmente, intorno alle 18.00, dopo aver superato anche alcune miniere di zaffiro, arriviamo al Relais de la Reine, la cui posizione, incastrato com’è nel mezzo di una catena rocciosa molto particolare, allieta ogni animo, pure il mio, ampiamente turbato per via delle innumerevoli disavventure odierne.

E per chiudere il cerchio di una giornata iniziata male, prima di un aperitivo indispensabile e di una cena sublime, dopo aver medicato per bene le mie ferite e aver fatto una doccia calda come si deve, ci si mette anche il mio telefono, la cui batteria sembra proprio non aver più alcuna voglia di ricaricarsi. Minore dei mali, me né farò una ragione.

Venerdì 31 luglio.

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7 Colorado malgascio

Honorian, è il nome della guida che ci accompagnerà oggi al Parco Nazionale dell’Isalo, distante una decina di chilometri dall’hotel. Ci rechiamo in biglietteria per scegliere il percorso da fare e pagare i ticket d’ingresso: circa 25 euro a persona, guida compresa. Poi l’autista ci accompagna all’ingresso principale del parco, lungo un sentiero a dir poco ostico, oltrepassando un torrente con la nostra Peugeot, dove un bus, un attimo prima, per poco non rimaneva incastrato in acqua.

Iniziamo la nostra visita che durerà più di metà giornata e ci vedrà percorrere circa dodici chilometri a piedi. Bon courage! S’inizia subito con la risalita di una montagnetta in cima alla quale si estende una vasta pianura folta di vegetazione varia. Hono ci racconta un po’ di storie, come quella riguardante le sepolture degli abitanti dei villaggi sotto a mucchi di pietre per poi essere esumati e risepolti nel bel mezzo di una montagna nel quale vi si arriva con delle liane.

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Iniziamo anche a incontrare alcuni abitanti del parco, come i camaleonti, impossibili da vedere senza l’avvistamento della nostra guida, perfettamente mimetizzati come sono tra rami e foglie degli alberi su cui si adagiano

o gli scorpioni, che riposano sotto i sassi, ma che la nostra guida ha scovato con particolare bravura.

Si vedono anche enormi formicai costruiti ad arte su un tronco d’albero bruciato, o termitai a forme piramidali da fare invidia ai grandi costruttori dell’antico Egitto.

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Vi sono anche bozzoli di bachi da seta, sparsi tra le piante e particolari insetti dalla forma e dal colore identico a quello dei rami delle piante su cui si appoggiano, simili a delle mantidi religiose, avvistabili solo al loro movimento.

Le rocce poi, già enormi di loro, sembrano richiamare immagini che si collegano alla natura di questo paese: ecco spuntare, infatti, la testa di una tartaruga, il corpo di un coccodrillo o immagini umane di vario genere.

E dopo un paio di chilometri, raggiungiamo una vetta dalla quale poter osservare la magnifica vallata del canyon.

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Un altro chilometro e arriviamo alla prima tappa della giornata, la piscina naturale, dove alcuni giovani, molto coraggiosi viste le fresche temperature delle acque invernali, si tuffano e si bagnano divertendosi.

Dopo una meritata pausa di qualche minuto, continuiamo la nostra passeggiata risalendo su un tratto pianeggiante e roccioso, caratterizzato dalla presenza di piante di aloe e della pianta tipica del parco, chiamata pied d’éléphant.

Qualche centinaio di metri e iniziamo la discesa verso la valle che conduce all’interno di una giungla strapiena di piante e con vari ruscelli, lungo stretti sentieri dove il passaggio di più di una persona risulta essere abbastanza rischioso.

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Alla fine della ripida discesa, resa più semplice dai gradini che i guardiani del parco hanno creato per rendere più agevole il percorso anche a persone meno giovani, trascorsi già sei chilometri dall’inizio del nostro cammino, arriviamo a valle a mezzogiorno, dove ci fermiamo per una pausa pranzo. Ma prima di mangiare, non possiamo non approfittare di un momento raro: l’unico lemure bianco rimasto nel parco, a seguito di un incendio che nel 2010 ha ucciso gli altri cinque componenti di questa rara famiglia, saltella tra le piante a noi circostanti, fermandosi a sgranocchiare qualche foglia proprio davanti ai nostri occhi, che lo immortaliamo per rendere unico questo momento!

Ci spostiamo nella zona dell’aria attrezzata, dove a tenerci compagnia è un simpatico gruppo di lemuri marroni, detti “lemuri ladri” proprio per la loro abilità di saltellare sui tavoli e rubacchiare qualcosa da mettere sotto i denti, mentre una famigliola di lemuri dalla coda a strisce bianche e nere osserva dall’alto lo spettacolo offerto dai loro cuginetti.

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Dopo una sosta indispensabile, procediamo insieme al nostro simpatico ed esperto Hono verso la seconda parte della nostra visita che ci condurrà, attraversando torrenti e passando in mezzo alla giungla, fino alla Cascade des Nimphes.

Subito dopo risaliamo ancora e stavolta lo sforzo non è indifferente! Gradini e percorsi ripidi ci conducono in cima a una delle montagne di pietra arenaria dalla cui vetta si assiste a un panorama unico!

Ci concediamo anche una meritata sosta per rilassare le nostre gambe stanche dopo aver percorso oltre 9 km, ma a un certo punto, la vista delle enormi falesie sotto di me comincia a farmi paura. Non avevo mai sofferto di vertigini in vita mia ma questa volta sento la necessità di dovermi spostare! E ancora giù, si scende un’altra volta, attraverso l’ennesimo sentiero con degli erti gradini che mettono in serio rischio la stabilità delle mie ginocchia! A rendere il tutto più complicato, il

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continuo passare e ripassare accanto ai torrenti, le cui acque rendono viscidi i sentieri su cui mettiamo i piedi con alto rischio di scivolare, specie quando si saltella da una roccia a un’altra.

Ma il premio, a conclusione di questa magnifica passeggiata in stile Indiana Jones, è l’arrivo davanti a due altri spettacoli della natura: la Piscine Bleue e la Piscine Noire.

Stanchi ma soddisfatti dalla visita di questo museo naturale, ritorniamo al parcheggio, dove ad attenderci, oltre al nostro autista, c'è anche un gruppo di bambini del villaggio limitrofo che vorrebbero a tutti i costi venderci il loro lemure intagliato nel legno. E uno di essi, dal finestrino della macchina su cui ero già salito, con il suo giocattolino in mano, mi regala un

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meraviglioso sorriso al mio semplice gesto di inviagli un bacio con un dito. Le sue labbra che d’istinto si aprono, i suoi candidi denti e i suoi occhi pieni di gioia sono uno dei ricordi più belli di questa fantastica giornata.

Sabato 1 agosto.

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8 Nella savana

Oggi conosciamo il nostro nuovo accompagnatore: si chiama Mamy e la sua macchina sembra essere in perfette condizioni. Intorno alle 10 gli chiediamo di condurci un po’ in giro, e ci porta a vedere la Finestra dell’Isalo, un’enorme roccia con un grande buco nel mezzo dal quale ci si affaccia davanti ad una splendida vista sulla savana.

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E sì, è la giornata dedicata alla savana oggi. Prima a piedi, seguendo il sentiero dell’hotel, ci immergiamo in questo ecosistema caratterizzato dalla presenza di enormi prati secchi, e qualche albero sparso. Lungo il percorso incontriamo anche dei gruppi di malgasci di rientro verso il villaggio, evidentemente non troppo distante.

Nel pomeriggio, torniamo negli stessi posti, questa volta però a cavallo, approfittando di un servizio proposto dai gestori del Relais de la Reine. E, in effetti, ne vale la pena! L’uscita è totalmente rilassante e in mezzo alla savana, gli unici rumori che si sentono sono quelli del vento che urta violento contro l’erba secca e il soave rumore del passo dei cavalli che con i loro zoccoli lasciano le loro impronte sulla sabbia del sentiero, evidentemente giunta fin lì dall’erosione della pietra arenaria dell’imponente catena rocciosa del parco dell’Isalo. Carambole si chiama il mio cavallo, sicuramente il più birichino del gruppo, vuol sempre star davanti e ogni tanto mi fa galoppare, mettendo in serio pericolo la mia schiena già abbastanza affaticata di suo.

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E finita la cavalcata, è il momento di un buon aperitivo al calar del sole proposto dall’hotel tra le rocce del canyon che passa accanto alla struttura in cui soggiorniamo. Maxence, il direttore, ci accompagna sul posto, dove ad attenderci c’è già un cameriere, una tavola imbandita, cuscinoni e soprattutto una bella bottiglia di vino! Un aperitivo atipico, in un posto unico.

E chiudiamo cosi la nostra bella esperienza in questo fantastico hotel. Domani, infatti, si riparte nel tentativo di trovar posto al Camp Catta in prossimità del parco dell’Andringitra.

Domenica 2 agosto.

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9 In viaggio dalla savana alla foresta pluviale

Finiti i tre giorni dedicati al parco nazionale dell’Isalo, è giunta l’ora di congedarsi dal Relais de la Reine. Soggiornare in questo hotel è stato veramente piacevole. Tutto è perfetto. Incastrato com’è nel bel mezzo di un canyon, contornato dalla savana, questo relais si sposa a meraviglia con le bellezze naturali che lo circondano.

Le camere sono ampie, confortevoli e luminose, la pulizia impeccabile, il personale squisito, sempre a disposizioni in qualsiasi momento e per qualsiasi cosa. Maxence, il direttore, è molto attento ai propri clienti, con cui dialoga spesso, sincerandosi che tutto vada per il meglio. Colazione, pranzo, cena, tutto delizioso. Carino anche il servizio bar per l’aperitivo, così come la possibilità di brindare al tramonto tra le rocce del canyon o la passeggiata a cavallo. www.lerelaisdelareine.com

E alle 8 in punto, Mamy ci aiuta a caricare in nostri bagagli sulla sua Hunday e via, in rotta verso nord-est, destinazione ancora da stabilire. Sì, infatti, l’hotel che avevamo prenotato ad Ambalavao, ci è sconsigliato per la scomoda posizione in cui è situato, lontano dai parchi che si estendono sul territorio. Si pensava al Camp Catta, il miglior hotel della zona, per un’escursione nel parco dell’Andringitra; però, a causa di problemi interni di gestione, sembra sia meglio evitare il soggiorno in questo posto e, oltretutto, l’Andringitra non si differenzia più di tanto dall’Isalo. Ecco perché a quel punto preferiamo risalire ancora più a nord, fino a Ranomafama per concederci una visita guidata all’interno della foresta pluviale. Sulla Lonely leggiamo di un hotel che per caratteristiche potrebbe fare al caso nostro. Si chiama Cristo, speriamo di trovarlo e che abbia ancora qualche disponibilità. I chilometri da percorrere sono 180 circa oggi, e come il viaggio precedente, si resta incantati dalla varietà di paesaggi che questo paese offre spostandosi lungo la RN7. Dopo il lungo tratto

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di savana iniziale, incontriamo un bellissimo altopiano, con delle colline rocciose lucenti al bagliore di un cielo oggi particolarmente blu!

E man mano ci avviciniamo alla regione della tribù dei Batsileo, tra Ambalavao e Fianorantsoa, s’incontrano innumerevoli terreni coltivati a riso misti a colture di vario genere, dalle verdure ai vigneti, gli unici di tutto il Madagascar. Questa regione, proprio per la sua fertilità e i suoi prodotti dell’agricoltura, è definita l’orto del Madagascar. I villaggi, invece, sono diversi da quelli della costa sud occidentale e dell’immediato entroterra. Qui le abitazioni sembrano più stabili, si fa maggiormente uso dei mattoni e meno del legno, e in alcuni di essi ci sono case costruite con un materiale che potrebbe essere simile al nostro cemento.

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La spiegazione sta nel fatto che in questa regione ci sono molto corsi d’acqua, il che permette alla popolazione locale di usarla non solo per il fabbisogno quotidiano, ma anche per le costruzioni. E lungo i fiumi si concentra sempre tanta gente, tra cui molte donne che vanno a lavare i panni che poi stendono sulle rocce circostanti.

Foto di Francesca Seregni

Dopo una sosta imprevista nella cittadina di Ihosy, a causa di un posto di blocco costato 40.000 Ar. al nostro autista per problemi con la sua patente, raggiungiamo Ambalavao all’ora

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di pranzo e ci fermiamo nel ristorante Zongo per un gustoso pranzo malgascio a base di riso, pollo e verdure. Poco dopo ci rimettiamo in cammino verso Fianarantsoa, distante ancora cinquanta chilometri. È una delle più grandi città del Madagascar dopo Tana, si estende su una collina ed è molto caotica!

Certo, pensare di entrare in una grande città e vedere zebù, maiali, galline o anatre in giro, con bambini scalzi e inzaccherati a rincorrerli, conduce molto, ma molto lontani dalla realtà delle nostre città occidentali. Ci fermiamo in centro per un paio di commissioni: comprare altri quaderni e altro materiale scolastico per i bambini di un orfanotrofio che vorremmo visitare nel pomeriggio e scambiare degli euro in Ariary visto che le scorte iniziali stanno per terminare. E quest’ultima commissione viene compiuta attraverso una sorta di missione segreta! Mamy, infatti, ci consiglia un amico che ci avrebbe fatto approfittare di un cambio favorevole. Ci affidiamo al nostro accompagnatore e poco dopo sale in macchina questo tipo, mezzo orientale, forse tailandese, dall’aspetto poco affidabile, con un pugno di denaro in mano che con discrezione barattiamo con i nostri euro. Un vero e proprio riciclaggio di denaro, e anche sporco! A quel punto ci mettiamo alla ricerca dell’orfanotrofio, di cui sappiamo solo che è gestito da suor Maria Josiane Pasqualini. Dopo qualche tentativo a vuoto, finalmente abbiamo un’indicazione corretta e dieci minuti dopo, in macchina, raggiungiamo il posto. Consegnato il nostro carico di cartoleria varia, ci è concesso di vedere i bambini, impegnati in quel momento, con un gruppo di animatori volontari italiani. E, infatti, erano tutti lì, a cantare a squarciagola la canzone del “Cocomero tondo tondo” e a fare salti di gioia non appena ci hanno visto entrare, correndo ad abbracciarci e felici di essere i protagonisti dei nostri selfie.

Sono passate le 16 e, considerato che abbiamo ancora un’ora e mezza di viaggio, e che non è consigliato circolare dopo il tramonto, dobbiamo rimetterci in moto e ripartire.

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La RN7, in questo tratto, non aiuta certo a velocizzare il nostro viaggio. Non avevo mai visto strade peggiori di questa! In alcune buche la macchina ci entra dentro quasi per intero! Ma cosa farà mai questo governo per migliorare le infrastrutture del paese?

Dopo essere usciti dalla RN7, iniziamo un tratto in salita che ci porterà a Ranomafana. E ancora una volta scopriamo un nuovo paesaggio: siamo entrati, infatti, nella foresta pluviale. Tutto è verde, gli alberi coprono interamente la superficie delle montagne. E, ai piedi di esse, un fiume scorre inesorabile e rumoroso, formando delle meravigliose cascate.

Clicca per vedere il video su youtube: Le cascate

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E finalmente, dopo una giornata intera in viaggio, arriviamo a Ranomafama, troviamo l’hotel che avevamo letto sulla guida, dove ad accoglierci c’è una gentilissima donna, di nome Fanza (letteralmente fiore di Pesca). Ceniamo insieme a Mamy, in un tavolo con un bel camino acceso dietro di noi, poi in camera, molto stanchi! E domani dentro la foresta!

Lunedì 3 agosto.

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10 Nella foresta pluviale

Pronti e in macchina alle 8 stamattina, per iniziare la visita della foresta pluviale del parco nazionale di Ranomafana. L’ingresso costa 25.000 Ar. mentre la guida del parco, obbligatoria e indispensabile, costa 40.000. Il nostro accompagnatore si chiama Guy, il suo francese non è impeccabile, ma lo comprendiamo lo stesso. Iniziamo attraversando uno stretto ponte sul torrente che scorre a valle. Subito dopo, entriamo all’interno della massa di alberi e piante di ogni tipo e inizia una di quelle avventure che non capita spesso di vivere. La foresta è molto umida e siamo tanto fortunati di non essere capitati in una giornata di pioggia. Sembra che in questo posto, proprio per il microclima tutto suo, piova circa 300 giorni l’anno! Quelle chance!

All’inizio la passeggiata sembra semplice. Seguiamo un sentiero, in pavé, che non ci fa bagnare più di tanto, tantomeno faticare. Poi, dopo aver incontrato alcune varietà di piante tipiche del luogo come le felci, alcune specie di orchidee (non fiorite, vista la stagione), palme, muschi e boschetti di bambù gigante, e degli animaletti che abitano questo luogo (gechi, insetti vari, topi di foresta), cominciamo ad andare alla ricerca del padrone di casa, il lemure.

È bene precisare che questa foresta ospita ben dodici specie diverse di lemuri sui trentacinque totali esistenti nel mondo (tutti in Madagascar, tranne una sola specie che esiste anche in Australia e un’altra che vive anche in alcune foreste africane). Solo cinque, però, sono visibili di giorno, le altre sette specie popolano la notte della foresta pluviale, insieme con altri amici di altre razze animali come i pipistrelli, rane di ogni tipo, i tanti camaleonti e altri rettili vari. Di giorno, a tenere compagnia agli amici maki, ci sono molte specie di volatili, alcune delle quali tipiche di questo posto. Guy, che nella prima parte ci descrive un po’ la foresta, piano piano, passo dopo passo, comincia a trasformarsi in cane da caccia, fiutando e osservando verso l’alto alla ricerca delle simpatiche scimmiette. Ma in quest’operazione non è il solo. Oltre alle tante altre guide, che come lui accompagnano gli altri visitatori vazaha, vi sono dei ragazzini che si vedono sfrecciare davanti a tutti, infilarsi nei posti più impensabili e quando fiutano qualcosa, contattano le guide al telefono. Sono i rabatteurs, e senza di loro sarebbe meno facile fare degli avvistamenti particolari. Qui, infatti, a differenza del parco dell’Isalo, i lemuri vivono in libertà, non si avvicinano all’uomo per rubar loro del cibo, e quando si sentono osservati e quindi disturbati, dopo poco, saltellando da un ramo all’altro, aggrappandosi alle liane, si spostano sfuggendo alla vista umana e ai loro obiettivi puntati. Vivono sempre in cima agli alberi, alla

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ricerca di un raggio di sole, e scendono solo quando avvistano qualche preda, come dei funghi, o alcune foglie tenere o altro, a seconda della specie. Ebbene, dopo un po’ di trekking su sentieri abbastanza appiccicosi per via dell’umidità perenne in questo posto, finalmente le guide e i rabatteurs avvistano i lemuri e ogni volta è un continuo lasciare il sentiero principale e infilarsi totalmente nella foresta, calpestando di tutto, passando sopra alle tane di migliaia di abitanti della notte o dei serpenti che in questo periodo dell’anno, per fortuna, dormono per il letargo. Le liane aiutano a mantenere l’equilibrio a dir poco precario, e in alcuni punti bisogna fare delle vere acrobazie per superare gli ostacoli come rami di alberi o piante spinose molto pungenti. E qualche scivolone è inevitabile, bagnando e infangando i nostri abiti che, poco alla volta togliamo passando da un rivestimento iniziale a cipolla per via delle fresche temperature fino a rimanere quasi in t-shirt perché i continui sali scendi riscaldano e non poco il nostro corpo.

Foto di Francesca Seregni

Alla fine di questa incredibile esperienza, portiamo a casa un bottino fatto di quattro specie di lemuri avvistate su cinque disponibili, tra cui la più rara e difficile da individuare, l’apalemure dorato (Ranomafana è uno dei due soli habitat in cui è stato finora avvistato).

Clicca per vedere il video su youtube: L'arrampicata - Salto da un albero all’altro

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Un percorso molto stancante ma affascinante al tempo stesso. Alle 11.30 circa, raggiungiamo il punto di partenza e Mamy ci riconduce in hotel, dove una doccia calda diventa indispensabile oltre ad un ottimo pranzo cucinato da Fanza e la sua mamma. Trascorriamo la restante parte della giornata nel segno del riposo, approfittando di una meravigliosa vista sulla vallata al tramonto, di un aperitivo accanto al caminetto della hall e di una cena a base di polpette di zebù, anche questa un’esperienza abbastanza particolare!

E come sempre, non si fa tardi la sera, anzi, come al solito, alle 9 si già a letto. E domani si parte verso Antsirabe, dove assisteremo a un rito malgascio tanto macabro quanto particolare e interessante…

Martedì 4 agosto.

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11 Famadihana

Per lo spostamento di oggi si prevedono quattro ore e mezzo di viaggio, pertanto preferiamo partire molto presto e alle 7:00 siamo già in macchina. Prima però salutiamo e ringraziamo Fanza per l’ottima accoglienza ricevuta in questi due giorni. Lei e la sua famiglia fanno sentire come a casa propria, cucinano dei piatti della cucina malgascia tanto semplici quanto buoni. www.cristohotel.cabanova.fr I bungalow che danno sul fiume sono molto carini e la sera, dopo il tramonto, nel silenzio totale del posto, si sentono solo lo scorrere delle acque, il canto delle cicale e i versi delle rane. Dalla parte superiore, invece, si ha una meravigliosa vista sulla foresta pluviale.

Fatta colazione, pronti per il lungo viaggio che ci condurrà ad Antsirabe. Il percorso di oggi lo trovo molto più ostico dei precedenti, uno per via dei numerosi tornanti, percorrendo quasi interamente una strada collinare che non consente di riposare e crea anche qualche fastidio agli stomaci non troppo forti, ma l’ostacolo maggiore è dato dalla RN7, che per chilometri e chilometri è ridotta a uno stato pietoso! È un continuo entrare e uscire da enormi buche e quando, a un certo punto, troviamo una deviazione di 200 metri per lavori in corso, mi stupisco al punto tale da pensare che la provvidenza divina sia arrivata anche in questo punto sperduto del mondo, finalmente! I paesaggi incontrati sono simili ai precedenti visti nei giorni scorsi: altopiani si alternano a lunghe vallate, con una caratteristica comune: tanti terreni fertili pronti per le coltivazioni della primavera in arrivo. Quanto alla gente, come al solito, traffica i bordi della RN7

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trasportando di tutto, e come sempre si vedono tanti, troppi bambini, impegnati in attività poco consone alla loro età. E a stupirmi maggiormente, stavolta, sono degli adolescenti impegnati nei campi, a piedi scalzi, armati di vanghe, a rivoltare il terreno come fossero degli aratri umani. Arriviamo ad Antsirabe alle 12:30, io con lo stomaco rivoltato ma felice di mettere i piedi a terra. Troviamo anche posto nell’hotel Trianon che, stando ai consigli della nostra fedele Lonely Planet, sembra essere una delle soluzioni migliori per dormire in questa città. Parcheggiamo i bagagli in camera e poi accontentiamo Mamy il quale ci tiene a portarci a mangiare in un ristorante, proprio di fronte all’hotel, dove evidentemente lui percepisce una piccola commissione. Tuttavia, non possiamo lamentarci; anche questa volta, come ad Ambalavao qualche giorno prima, mangiamo discretamente bene. Ma il clou della giornata di oggi deve ancora arrivare. Mamy, infatti, è riuscito ad ottenere per noi, tramite uno dei suoi tanti agganci, un invito per partecipare al famadihana (letteralmente voltare le ossa), o Retournement des morts, la cerimonia tradizionale di esumazione e risepoltura dei cadaveri dei propri familiari, celebrata all’incirca ogni sette anni per avere un contatto diretto con il defunto, festeggiando per giorni e sacrificando qualche zebù. Ci mettiamo in macchina verso le 14, con un nuovo compagno di viaggio, l’aggancio per partecipare al rito. Usciamo dalla città e ci infiliamo in un sentiero che percorriamo per oltre mezzora. Siamo in aperta campagna, oltrepassiamo villaggi sperduti, stradine infangate che sembrerebbero impossibili da percorrere, ma con la nostra Hunday ci sentiamo al sicuro, e il nostro autista ci sembra in grado di gestire la situazione.

E finalmente, da un’insenatura laterale, scorgiamo, in lontananza, una massa di persone ammucchiate, e dall’alto di un edificio (evidentemente la tomba), alcuni di essi gridavano robe incomprensibili a noi vazaha ma molto apprezzate dal pubblico che applaudiva e incitava gli oratori.

Parcheggiamo la macchina e iniziamo la nostra missione. Come detto in precedenza, per partecipare a un rito come questo, la famiglia che organizza la festa deve essere al corrente e deve autorizzarci ad assistere. E per essere riconoscenti, bisogna portate in dono qualcosa: una bottiglia di rum locale (distillato di canna da zucchero) è ben gradita. Ecco che la nostra guida parte in missione: s’infiltra nella folla alla ricerca di un componente della famiglia. Nel frattempo sganciamo 10.000 Ar. per il rum che acquista in una bancarella allestita per l’occasione e che lo vende sfuso, riempendoci una bottiglia di plastica da noi portata. La gente comincia a identificarci e a venirci incontro, molti ubriachi fradici e traballanti, per strapparci una foto o per dirci qualcosa d’incomprensibile. L’unica cosa che capiamo è vazaha, che ripetono di continuo. Poi arriva il grande momento: dalla massa di gente accalcata sbuca fuori, con la guida, un personaggio sulla trentina, ben vestito che ci viene presentato come uno dei membri della famiglia. Ci saluta, ci stringe la mano in segno di benvenuto e ci dà l’autorizzazione ufficiale a partecipare al rito, consentendoci anche di scattare foto e filmare

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quanto vogliamo. Il tutto previa consegna della bottiglia di rum, naturalmente e, inaspettatamente, della cerimonia d’iniziazione alla nostra presenza in quel momento tanto importante per il costume locale: inizia cosi col versare del rum a terra pronunciando qualcosa al tempo stesso. Poi, è qui viene il bello, afferra un bicchiere da whiskey gentilmente offertogli da un signore di mezza età già ubriaco fino all’ultimo capello e dal quale aveva bevuto lui e probabilmente tutti i suoi amici, lo riempie e ce lo porge… In quegli istanti ho pensato che le mie labbra non dovevano assolutamente appoggiarsi a quella circonferenza di vetro, il che era il minimo che avrei potuto fare. Allora ecco, afferrato in mano il bicchiere, guardo il distillato per un secondo, che emana un odore così forte da inebriare la mia mente, giro il collo all’insù, chiudo gli occhi e tracanno il contenuto all’interno del mio corpo, lasciandone cadere, inevitabilmente, parte sul collo e sui vestiti… Fatto! Ora sono uno di loro! Ci infiliamo in mezzo alla folla e assistiamo all’apertura della tomba dalla quale tirano fuori, avvolti in delle specie di stuoie in legno e dentro a delle vecchie lenzuola, i corpi di 7 defunti della famiglia. E ogni volta che un corpo viene portato fuori, una banda di trombettisti suona a festa e la gente canta e balla, incitando i familiari e alzando per aria l’immagine del morto. Clicca per vedere il video su youtube: Inizio del rito

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Poco dopo, i corpi sono stesi a terra, fuori dalla mischia. Si assiste anche ad alcune crisi di pianto, forse per la mamma morta da poco… Poi, in maniera discreta e senza mostrare le ossa al pubblico, il morto viene avvolto in un altro lenzuolo pulito e a quel punto il rito è stato compiuto. E nel frattempo, davanti alla tomba, i trombettisti continuano a suonare, e la gente, il cui alcool è ormai arrivato alle stelle, balla forsennata senza pause. Clicca per vedere il video su youtube: I trombettisti Le danze

Le donne assistono allo spettacolo offerto dai loro mariti, con i loro bimbi in spalla, cappelli e abiti d’occasione. E i tanti bambini ci osservano e ci ammirano, quasi fossimo dei marziani, mentre mangiano il loro ghiacciolo offerto da un venditore molto particolare.

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E dopo essermi anch’io infilato nella mischia e danzato qualche minuto, per rendere indimenticabile questo momento, sia a me sia a loro, per i quali ero la star della giornata, diciamo a Mamy che poteva bastare e piano piano rientriamo in hotel a conclusione di un’altra lunga ma molto interessante giornata malgascia.

Mercoledì 5 agosto.

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12 Verso la capitale

Ultima giornata di viaggio insieme al nostro accompagnatore e lungo la tortuosa RN7. Alle 8 lasciamo Antsirabe e l’hotel Trianion, una bella sorpresa positiva. L’edificio, risalente ai tempi della colonizzazione francese, ha mantenuto intatta la struttura, interna ed esterna. Tipica casa coloniale, con pavimenti e scalinate in legno, pareti decorate con simpatiche immagini di pubblicità Air France degli anni ’70, cartine geografiche d’epoca e, in generale, un ambiente particolare; raggiungerebbero il top se curassero meglio l’accoglienza, un po’ freddina. www.hotel-letrianon-antsirabe.com La tratta di oggi è meno lunga delle altre, circa tre ore, e anche meno traumatizzante per il mio stomaco. Man mano che ci si allontana da Antsirabe e ci si avvicina alla capitale, tutto sembra essere diverso rispetto a quanto visto in precedenza. S’incontrano, come al solito, tanti bambini per strada, ma meno implicati in lavori duri e impegnativi per i loro piccoli corpicini. Si vedono molti zebù, che in Madagascar sono sinonimo di ricchezza (che si misura in quantità di bovini e non in denaro), trasportare carri al posto degli uomini o dei bambini. E anche nei campi, per l’aratura, si vedono questi animali trainare vecchi aratri in legno che mi riportano indietro nel tempo e ai racconti dei miei nonni. È la zona dell’artigianato, e lungo la strada ci sono tante bancarelle che vendono i prodotti degli atelier delle cittadine limitrofe, ognuna delle quali è specializzata in costruzioni tipiche: strumenti musicali come tamburi o violini in legno, modellini di autocarri o macchine da collezione, sempre in legno, statue religiose in gesso o ceste e borse in rafia. Alle 11.30 circa arriviamo ad Antananarivo, una città che si estende su diciotto colline, un po’ come Roma o Lisbona, ma a differenza di queste, Tana non ha lo stesso fascino, anzi! Il traffico, in primis, blocca per ore gli automobilisti, lo smog rende l’aria irrespirabile, le strade del centro non presentano particolari punti d’interesse e in alcuni tratti sono anche un po’ misere. Piccola oasi in questo deserto di squallore, l’hotel Sakamanga, dove Mamy ci accompagna e dove finisce la nostra traversata di questa splendida isola con questo bravo ragazzo che ci ha aiutato a scoprire meglio le bellezze del suo paese. E prima di congedarci, è piacevole averlo reso felice con una meritata mancia e un vecchio paio di Stan Smith che aveva visto ai miei piedi e che aveva dichiarato di non averne mai posseduto uno… Trascorsa la rimanente parte della giornata in Hotel tra qualche brindisi a bordo piscina e dei pasti nei due ristoranti, si va a letto presto giacché la Air Madagascar ci ha fatto il regalino di anticipare il nostro volo (sempre che esso parta) alle 5:30 del mattino. Tutto sommato, considerato che Tana non ha sicuramente deliziato i nostri cuori (ma ce lo si aspettava), rimanere in questo hotel è stato carino. Anch’esso di chiara origine coloniale, soprattutto la parte della reception e del ristorante al primo piano, con corridoi stretti che conducono alla piscina, ornati di suppellettili che rimandano al passato del Madagascar, come oggetti usati per la pesca o nell’agricoltura, vecchie banconote e altro, da rendere l’idea di un museo storico. www.sakamanga.com

Giovedì 6 agosto.

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13 Dall’inferno al… Paradiso!

Sebbene in Madagascar i ritmi delle nostre giornate siano cambiati vertiginosamente rispetto alle normali abitudini, adattandoci alla cultura malgascia che vuole sia sera al calar del sole (5:30 in questo periodo) e notte già dopo le 20, sentire il fastidioso rumore della sveglia alle 2:45 fa uno strano effetto; un senso di repulsione allo scendere dal letto si scatena dentro di me, tanto da rifiutare di svegliarmi, voltandomi e rivoltandomi ancora qualche minuto. Ma è inevitabile, bisogna darsi una mossa, una macchina ci attende giù alle 3:30. Saliamo su una vecchia Reanault 11 degli anni ’80, ricordandomi un momento della mia infanzia quando il mio papà ne comperò una identica, anche nel colore, bianca… Percorriamo la strada che ci porta all’aeroporto in trenta minuti circa, dovendo respirare, per tutto il tempo, i gas tossici dello scarico che non so per quale motivo entrano tutti all’interno, costringendomi ad aprire il finestrino nonostante le temperature per niente torride di una notte ad Antananarivo. Check-in regolato in breve tempo, tutto sembra andar liscio, senza alcuna storia sul peso dei bagagli stavolta. Tuttavia, alle 5:30 siamo ancora in sala d’imbarco e la cosa comincia a farci insospettire. Un annuncio, poco dopo, avvisa che la presenza di brouillard sulla pista, una cosa che a Linate farebbe pensare a una semplice brezza mattutina, senza scomodare affatto la parola “nebbia”, ci impedisce al momento di partire. Passa mezzora, e come per magia iniziamo l’imbarco. Saliamo sull’aereo, ci piazziamo ognuno al proprio posto, classiche procedure per la sicurezza, motori avviati, elica roteante alla mia sinistra che fa anche un po’ paura, tutto sembra pronto… Pochi minuti dopo si spengono i motori. La nebbia disturba ancora la visuale del nostro pilota. Iniziano a servirci la colazione per allietare i nostri animi. Il mio era già ben agitato di suo per via di un gigante davanti a me che a ogni movimento sul suo sedile corrispondeva a un terremoto sul mio, e al papa con figlioletta dietro di me che non ha smesso un attimo di fare il maestro d’asilo, tanto da imparare anch’io, nell’ora in cui siamo rimasti prigionieri del nostro sedile, che la volpe ha la testa quadrata mentre quella del cane è triangolare… mah!!! Verso le 7:30 ci fanno uscire e torniamo in sala d’imbarco. A quel punto pensiamo di essere anche noi vittime di questa compagnia aerea che annulla voli meglio di Trenitalia alle prime nevicate! Intanto la sala d’imbarco è strapiena e più passa il tempo più sembra doversi rassegnare a un ritorno nella “memorabile” Tana. Invece, a un certo punto, come per magia, ecco l’annuncio tanto sperato! La nebbia non fa più paura, si parte! Arriviamo a Sainte Marie dopo un’ora e ad attenderci c’è Agostino, un autista con un vecchio Land Rover di quelli tutti aperti che dici, con questa macchina si può andare ovunque, anche oltrepassare i fiumi o scalare le montagne… E in effetti, per arrivare al Riake Resert, bisogna spostarsi da tutt’altro lato dell’isola, percorrere una cinquantina di chilometri di strada asfaltata per poi deviare su una pista di circa sette. Ed è qui che viene il bello! Il sentiero, oltre ad essere stretto è tortuoso, è scivoloso, pieno di sassi, con enormi pozzanghere… Ecco perché una macchina così! Durante quel tratto cominci a pensare che sicuramente non ti muoverai da solo dall’hotel (svanita dunque l’idea iniziale di affittare degli scooter; impossibile percorrere quella strada) ma eventualmente con le guide e con i loro mezzi e che, per aver scelto di collocare il proprio resort in quel punto dell’isola con una strada così, questo posto deve essere paradisiaco…

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Bene, ci ho proprio visto bene!

Venerdì 7 agosto.

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14 Welcome to Île Sainte Marie

Non ha prezzo correre mezzora a piedi nudi, sulla fresca battigia, dove il mare si appoggia soavemente rendendo la sabbia non troppo morbida da infossare i piedi, né tanto dura da affaticare le caviglie. La musica dei grossi cavalloni generati dall’oceano indiano e l’irruenza con la quale si schiantano in acqua poco prima di arrivare a riva, suona nelle mie orecchie in un tratto di sabbia dorato che sembra quasi infinito, lungo il quale s’incontrano solo due donne alle prese con la raccolta dei frutti di mare nascosti nella sabbia bagnata. Il vento contribuisce a spingermi quando vado verso nord e a rallentarmi, ma anche a rinfrescarmi, quando torno indietro. E alla fine di questo percorso, accaldato e appiccicato com’è giusto che sia, quale miglior premio se non un tuffo nelle acque turchesi e agitate di questo mare?

Come dire, restare un po’ di tempo in questo paradiso significa approfittare di queste piccole cose che la vita di ogni giorno non può certo offrirci. Una notte passata in un bungalow con vista sul mare, ad esempio, ascoltando l’incessante rumore delle onde, o una colazione sotto un gazebo nella spiaggia, o uno spiedino di calamari pescati lo stesso giorno, o ancora una pizza nel forno a legna comu sul a Napule u’ sannu fa’… nonostante i settemila chilometri di distanza. Questo è quello che offre il Riake Resort & Villa in questo meraviglioso angolo del mondo. Maurizio, il proprietario, gestisce i suoi otto bungalow e le tre grandi villette con

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molta dedizione, sincerandosi sempre che tutto vada bene e offre ai suoi clienti tanti servizi per poter approfittare appieno delle bellezze che la natura di quest’isola propone. Una di esse è l’uscita in barca per vedere, il più vicino possibile, le megattere emigrate dall’Antartide e che tra giugno e settembre soggiornano attorno a Sainte Marie, offrendo ai curiosi turisti uno spettacolo fatto di balzi fuori dall’acqua e colpi di coda, generando enormi schizzi visibili a centinaia di metri di distanza. Speriamo domani di poter essere spettatori di questo show dopo la delusione di Anakao di una decina di giorni fa.

Sabato 8 agosto.

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15 Balene o non balene? Parte seconda…

Stamattina è prevista la nostra prima escursione a Sainte Marie e anche la più attesa.

Si parte in quad percorrendo i sette chilometri di sentiero trasandato prima di arrivare dal lato opposto dell’isola al Sainte Marie Lodge dove ci attendono Bertrand, proprietario dell’hotel, nonché nostro tra-

ghettatore che ci porterà, col suo motoscafo, a spasso nel canale che separa l’isola dal Madagascar (un signore sulla sessantina che ha lasciato la Francia sei anni fa per stanziarsi in questo meraviglioso posto).

Insieme a lui Clara, una giovane e molto preparata guida, volontaria presso un’associazione (Cétamada - www.cetamada.org) che studia il comportamento delle baleines à bosses, il loro flusso migratorio e si occupa della protezione dei mammiferi marini e dell’educazione della gente in visita a questi meravigliosi cetacei. Prima di partire ci spiega, infatti, alcune regole di comportamento da seguire a bordo; ci illustra come ci si avvicina a un gruppo di balene, le distanze da mantenere per evitare di disturbare gli animali marini e tutta una serie di regolette relative agli avvistamenti come il soffio d’acqua che spruzzano un attimo prima di spuntare in superficie e la pinna levata che indica un tuffo in profondità e che potrebbe essere il preludio al tanto atteso salto fuori dall’acqua. E quando si avvista una balena, bisogna usare un codice per avvisare gli altri: non urlare dritto, a destra o a sinistra, ma usare l’orologio… alle 12 (se davanti), alle 3 (se a destra), alle 6 (se dietro) e alle 9 (se a sinistra). Armati di lunghi impermeabili gentilmente forniti da Bertrand, iniziamo la nostra navigata alla ricerca delle megattere. Per spostarci al largo della costa andiamo in senso inverso alle onde e inevitabilmente gli schizzi ripetuti ci bagnano dalla testa ai piedi, ma la cosa ci diverte e non poco! Passa una mezzoretta, guardiamo da tutti i lati, ma anche stavolta, come ad Anakao, non sembra esserci ombra di balene. Comincio a pensare che non sono destinato a vederne. Passa qualche altro minuto quando vedo un movimento repentino davanti a me… Al mio fianco qualcuno urla: “À douze heures! À douze heures!” Tutti si voltano, Bertrand al timone comincia a fissare davanti a sé. L’enorme pesce si ripresenta qualche istante dopo, saltando fuori dall’acqua e tuffandosi con estrema agilità! Tuttavia, seppur impressionato dalla vista, non mi sembra così grande come avrei immaginato… o forse è distante e mi sembra piccolo… Ma ecco che Bertrand ci disillude: “Falso allarme, si tratta di un tonno!” Nonostante la delusione, la vista di qualcosa muoversi in acqua ci da speranza. Bertrand dietro di noi sembra fiducioso. Da lontano si vedono due imbarcazioni, vicine alla costa del

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Madagascar, che si spostano rapide nella stessa direzione. Secondo il nostro timoniere possono aver avvistato qualcosa. Ci spostiamo velocemente verso quella rotta, tornando a bagnarci come in precedenza. Man mano che ci si avvicina, comincio ad avere l’impressione che qualcosa di sorprendente sta per accadere davanti ai miei occhi. Non faccio in tempo a finire di pensare che un enorme spruzzo d’acqua fuoriesce dal mare a 150 metri circa dal nostro motoscafo; anche gli altri passeggeri lo vedono e ognuno esprime a parole sue la propria emozione; due secondi dopo, ecco apparire dall’acqua un enorme dorso nero, far capolino per qualche secondo per poi sprofondare giù non prima di averci mostrato in bella vista la sua meravigliosa pinna posteriore… WOW!!!!!

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Siamo in un punto in cui c’è un gruppo di balene, ne vediamo altre, alcune si muovono in coppia e spuntano davanti a noi l’una dietro l’altro. Lo spettacolo è unico; vederne e così numerose, comporta un’emozione pazzesca! Come da codice etico, restiamo sullo stesso punto per un’ora, muovendoci lentamente in base al loro spostamento. Ogni apparizione è un continuo scatto di foto e di zoom per la ripresa migliore. Ormai ci manca solo che ci facciano un bel salto davanti a noi e chiudiamo in bellezza. Tuttavia, quest’ultima emozione non ci viene concessa, ma rientriamo con il bottino pieno per aver assistito a uno spettacolo molto affascinante. Clicca per vedere il video su youtube: Le megattere

Rientriamo in hotel molto soddisfatti, anche se il sentiero collinare in quad preso al ritorno, con ponticiattoli in legno da far venire i brividi anche agli appassionati di bungee jumping, mi ha un po’ scombussolato!

Domenica 9 agosto.

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Picnic… al cardiopalma

Camminando sulla spiaggia, verso sud, dopo due o tre chilometri circa, superate un paio di piccole baie, si arriva a un punto in cui la vicina barriera corallina controlla le onde, impedendo che esse arrivino a urtare contro la sabbia in riva. Questo crea un’enorme piscina naturale che si estende per circa duecento metri ed è larga una trentina. Eravamo già stati ieri, nel pomeriggio, dopo le balene; il mare era piatto e la marea aveva fatto un lavoro talmente preciso da creare un immediato ingresso in acqua profonda almeno un paio di metri tanto che di corsa dalla spiaggia si arrivava al bordo e ci si tuffava dentro. Oggi, decidiamo di armarci di sandwich e partire in picnic. Il bello di questa costa è che si è isolati; raro incontrare altra gente se non i soliti pescatori malgasci o le donne alle prese con la raccolta dei molluschi che si nascondono nella sabbia bagnata. Dopo cinquanta minuti di passeggiata lungo la costa, arriviamo alla nostra piscina. Ci accorgiamo da subito che il venticello di stamattina e l’alta marea l’avevano resa meno attraente rispetto al giorno prima, impedendoci di tuffarci.

E una volta entrati in acqua, ci accorgiamo subito che la corrente spinge verso l’esterno, verso il mare aperto, dove le onde oggi sono particolarmente impressionanti. Facendo molta attenzione, senza scherzare con le acque dell’oceano, passiamo una piacevole mattinata, tra bagni, raccolta di enormi gusci di specie di ostriche che arrivano dalla limitrofa barriera corallina, e la mia solita corsa giornaliera. Incontriamo poco dopo Véronique, la parigina conosciuta il giorno prima in motoscafo in visita alle megattere, una signora di mezz’età, molto simpatica. Dopo aver scambiato due parole, armata di maschera e boccaglio, s’immerge in acqua per un po’ di snorkeling tra la piscina e gli scogli della barriera. In tutta onestà, ho subito pensato che se fosse stata mia sorella glielo avrei impedito, dicendole che non mi sarei fidato di quel mare, sebbene fossimo in un’area apparentemente protetta. Però, per non apparire indiscreto, ho preferito starmene zitto. Ciononostante, ero un po’ inquieto, e durante la sua nuotata, l’ho osservata tutto il tempo. Saranno passati dieci minuti circa quando la vedo allontanarsi e uscire dalla piccola conca e, poco tempo dopo, la corrente spingerla in alto mare. È in balia delle furiose onde e, sebbene il mio istinto fosse quello di tuffarmi, il self control me lo ha impedito. Chi mi avrebbe garantito di riuscire ad avvicinarmi a lei per provare a salvarla? Con un mare così agitato, come riuscire a controllare una nuotata? Provo chiamare soccorso. Passano due giovani malgasci con in mano il loro pescato del giorno. Chiedo di allertare un loro compagno che era in piroga ma un po’ lontano dal luogo dell’incidente. I due corrono e urlano all’altro di

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avvicinarsi. Poi ritorno a guardare in mare. Véronique, nel frattempo, si è resa conto che ci siamo, che possiamo fare qualcosa per aiutarla e questo probabilmente ha ridotto sensibilmente il suo panico, aumentando la sua forza di reazione. La vedo calma nonostante la situazione. Prova a restare a galla, sebbene le onde inevitabilmente la spingano giù parecchie volte. Dopo qualche minuto, qualcosa gioca in suo favore. Due grandi onde la fanno avvicinare alla riva, impedendo alla corrente di spingerla ancora più al largo. A quel punto entro in acqua, mi sporgo il più possibile, sento pronunciare le sue parole: “J’en peux plus” ma, come nei migliori film a lieto fine, la mia mano, tesa verso di lei, riesce ad afferrare la sua, aiutandola a uscire e ponendo fine ad un’avventura a dir poco sconvolgente. E dopo aver tirato un sospiro di sollievo, ci invita all’aperitivo della sera per brindare a questa particolare esperienza.

Lunedì 10 agosto.

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Dolce far niente Seduto sulla battigia a osservare l’impeto delle onde sbattere contro il mare per poi urtarsi tra di loro fino a riva, in uno spumeggiante gioco di schiuma e sabbia che si mischiano nel rumoroso silenzio dell’oceano. Un sole cocente spazza dal cielo le nuvole del mattino rendendolo terso e particolarmente celeste. Lievi folate di vento spostano soavemente i rami delle palme e le foglie degli alberi. Uccelli neri simili alle gazze svolazzano serenamente. Due pescatori lanciano fiduciosi la loro lenza nell’attesa di tirar fuori qualcosa da portare in villaggio e sfamare qualche bocca. Questa è Sainte Marie, “l’isola del tesoro” che ha ispirato Stevenson per il fascino delle celebri vicende dei pirati che hanno reso famoso questo posto incantato.

A rendere ancor più gradevole la nostra vacanza, Maurizio e i suoi collaboratori ci deliziano con la loro cucina, partendo da una ricca colazione a base di crêpes e marmellate esotiche (come quella di litchi) a madeleine preparate da Sonia, la ragazza del ristorante; a pranzo e a cena, per i palati fini, la cucina del Riake offre duplice scelta di antipasti e di piatti principali (oltre a due dessert) a base di ottimo pesce fresco o carne di zebù tipicamente malgascia. Tutto sublime, nessun rimpianto della cucina di casa nostra. Chapeau! È inverno qui, il microclima ha retto fino a stamattina. Nel pomeriggio, il cielo diventa grigio e una pioggia sottile e fastidiosa ci accompagna fino a sera.

Martedì 11 agosto.

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Paradiso nel paradiso

Raggiungere l’Île aux Nattes, soggiornando sul lato nord-est di Sainte Marie, significa attraversare tutta l’isola, e la nostra guida, questa volta, imbocca un sentiero sterrato interno che in alcuni tratti costeggia il litorale orientale. Il nostro 4x4 attraversa foreste di palme di ogni genere, grandi girofliers (le piante di chiodi di garofano), alberi da frutta, villaggi e bambini sempre col sorriso tra le labbra. E poi i paesaggi che si scorgono in cima alle colline, con vista sulla costa e sulle incredibili sfumature di colore che il sole e il mare ci concedono oggi.

L’Île aux Nattes dista pressappoco cento metri dalla punta sud di Sainte Marie. La si raggiunge in piroga, ma se la marea e particolarmente bassa si arriva anche a piedi, meglio se muniti di scarpe da spiaggia per via dei fondali in alcuni tratti rocciosi e per la presenza di centinaia di ricci, alcuni dei quali enormi.

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Amby, la nostra guida, nonché braccio destro di Maurizio, ci riserva una piroga a dir poco “stilosa”, decorata con pois di vari colori. Di fronte a noi, attraversate le acque turchesi, quattro chilometri di isola circondata da palme da cocco. Uno spettacolo!

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Ciò che si vede in superficie è, tuttavia, niente in confronto alle meraviglie offerte dai fondali. Equipaggiati di maschere e tubi, esploriamo la vegetazione e la popolazione sottomarina poco distante dalla costa. Uno show di colori si manifesta davanti ai nostri occhi una volta immersi in acqua. Rocce coralline, enorme quantità di pesci tropicali di ogni forma e dimensione, striati, maculati o tinta unica: un immenso acquario naturale! A chiudere il cerchio di una giornata trascorsa in un luogo quasi surreale, non c’è niente di meglio che un pranzo in riva al mare con pesci e aragoste pescate al mattino e cucinate alla brace. Una delizia!

E sul finire di una giornata molto piacevole e rilassante, passando attraverso un cimitero in riva al mare,

con alcune tombe rivoltate sulla sabbia bagnata per via delle tempeste del periodo dei cicloni, una pioggerellina, diventata in poco tempo battente, allieta il nostro rientro a Sainte Marie in piroga.

Mercoledì 12 agosto.

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19 Onde…

Lasciarsi trasportare dalle onde è un po’ come tornare bambini. Qui, in quest’angolo di natura selvaggia, si gioca con il mare come solo da piccoli si faceva. Ci si butta dentro, nonostante il turbinio impetuoso della massa d’acqua che s’infrange su di noi ogni quattro o forse cinque secondi. E dopo alcune modeste, di quelle che ti strattonano un pochino e ti schizzano un po’ d’acqua ovunque, eccole arrivare, maestose, sovrastare le altre, raggiungerle talvolta, le grandi onde oceaniche che si rovesciano procurando un rumore difficile da descrivere. E man mano che si avvicinano, una alla volta, si pensa a come affrontarle. Ed eccoci tornati piccoli, adolescenti, lì a saltare più in alto possibile oppure girandoci e lasciandoci colpire di spalle, avvertendo la gradevole sensazione di un massaggio, o ancora tuffandoci sott’acqua poco prima del suo arrivo schivandola del tutto, quasi a farle un dispetto. Ma la successiva è lì, pronta a vendicare lo smacco subito dalla sorella, e ti travolge facendoti roteare nella schiuma, spostandoti in avanti, verso riva e, dopo essersi appoggiata sulla sabbia bagnata, torna indietro compiaciuta del suo operato.

Foto di Véronique Laurent

Giovedì 13 agosto.

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20 Momenti finali

Non ci fa mancare nulla l’Ile Sainte Marie. Prima di partire, dopo averci offerto in meglio di sé, con intere giornate di sole, cielo sereno, mare agitato ma sempre limpido e in alcuni punti cristallino, alla fine del nostro soggiorno ci riserva una giornata di pioggia battente e un’altra ventosa e con un mare ai limiti della balneazione. Tuttavia, ripensando a quanto si diceva prima di partire a proposito del meteo in quest’isola, ritengo che si possa sfatare il mito secondo il quale le guide turistiche sconsigliano questo posto durante la stagione invernale per via del tempo, appunto. È vero, e lo abbiamo visto coi nostri occhi, si possono facilmente verificare giornata come le ultime due, ma il micro-clima di Sainte Marie è imprevedibile, quindi meglio non credere ai meteorologi, ma affidarsi all’istinto, come abbiamo fatto noi, e alla voglia di perlustrare questo dono della natura. È ora di partire, di rifare le valigie, salutare e ringraziare Maurizio e la sua splendida équipe per quanto offertoci nel loro resort (http://www.riakeresort.com) e affidarci ad Air Madagascar, sperando di arrivare puntuali a Tana per prendere il volo Air France di ritorno verso Milano.

Domenica 16 agosto.