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r.g. n. […] 1 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte di Appello di Roma S S e e z z i i o o n n e e I I I I I I ^ ^ C C i i v v i i l l e e composta dai signori magistrati Dott. Giuseppe Lo Sinno PRESIDENTE, relatore/est., Dott. Michele Di Mauro CONSIGLIERE, Dott. Fioravante Del Giudice CONSIGLIERE, ha pronunciato la seguente S E N T E N Z A nella causa civile su rinvio disposto dalla Corte Suprema di Cassazione iscritta al N. 4259/2015 del Ruolo Generale degli Affari Civili Contenziosi, posta in decisione ex art.352 c.p.c. all’udienza dell’11.10.2016 (con concessione dei termini ex art.190 c.p.c. di gg. 60 + 20 scaduti il 02.01.2017) e vertente tra BIVONA MARINA, nata a Roma il 13.02.1958 (c.f. BVNMRN58B53H501X), rappresentata e difesa dall’avv. Costantino Francesco Baffa del foro di Roma ed elettivamente domiciliata in Roma, via Giovanni Gentile n. 22, presso lo studio del medesimo avv.to, giusta delega in atti; -ATTRICE in riassunzione (già appellante) - ISTITUTO FIGLIE DI SAN CAMILLO (c.f. 01588540581), in persona del suo legale rapp.te p.t., con sede in Roma, via dell’Acqua Bullicante n.4, e RAVALLESE dott. FERDINANDO, nato (c.f. RVLFDN52D09H501R), entrambi rapp.ti e difesi dall’avv. Raoul Rudel del foro di Roma e dom.ti in Roma, via G. Vasari n. 5, presso lo studio del medesimo avvocato, giusta delega in atti; - CONVENUTI – (già appellati e appellanti incidentali) - nonché Firmato Da: LO SINNO GIUSEPPE Emesso Da: ARUBAPEC S.P.A. NG CA 3 Serial#: f910ef076612ee45d02ac4d33cb6505 Sentenza n. 1345/2017 pubbl. il 28/02/2017 RG n. 4259/2015

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R E P U B B L I C A I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte di Appello di Roma SSeezziioonnee IIIIII^̂ CCiivviillee

composta dai signori magistrati

Dott. Giuseppe Lo Sinno PRESIDENTE, relatore/est.,

Dott. Michele Di Mauro CONSIGLIERE,

Dott. Fioravante Del Giudice CONSIGLIERE,

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nella causa civile su rinvio disposto dalla Corte Suprema di Cassazione iscritta al N. 4259/2015 del Ruolo Generale degli Affari Civili Contenziosi, posta in decisione ex art.352 c.p.c. all’udienza dell’11.10.2016 (con concessione dei termini ex art.190 c.p.c. di gg. 60 + 20 scaduti il 02.01.2017) e vertente

tra

BIVONA MARINA, nata a Roma il 13.02.1958 (c.f. BVNMRN58B53H501X), rappresentata e difesa dall’avv. Costantino Francesco Baffa del foro di Roma ed elettivamente domiciliata in Roma, via Giovanni Gentile n. 22, presso lo studio del medesimo avv.to, giusta delega in atti;

-ATTRICE in riassunzione (già appellante) -

c/

ISTITUTO FIGLIE DI SAN CAMILLO – OSPEDALE MADRE GIUSEPPINA

VANNINI (c.f. 01588540581), in persona del suo legale rapp.te p.t., con sede in Roma, via dell’Acqua Bullicante n.4, e

RAVALLESE dott. FERDINANDO, nato a Roma il 9.04.1952 (c.f. RVLFDN52D09H501R),

entrambi rapp.ti e difesi dall’avv. Raoul Rudel del foro di Roma e dom.ti in Roma, via G. Vasari n. 5, presso lo studio del medesimo avvocato, giusta delega in atti;

- CONVENUTI – (già appellati e appellanti incidentali) - nonché

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GENERALI ITALIA S.p.A. (c.f. 00885351007) già Ina Assitalia S.p.A., in persona del suo legale rapp.te p.t., con sede in Mogliano Veneto (TV), via Marocchesa n.14, rapp.ta e difesa dall’avv. Giuseppe Ciliberti del foro di Roma e dom.ta in Roma, via Monte Zebio n.28, presso lo studio del medesimo avvocato, giusta delega in atti;

- CONVENUTA (già appellata) - Oggetto: Appello avverso sentenza del Tribunale di Roma n. 24619/03 su rinvio disposto dalla Corte di Cassazione con sentenza n.12718/2015 (materia: risarcimento danni per responsabilità sanitaria).

CONCLUSIONI DELLE PARTI: come da rispettivi atti introduttivi richiamati nel verbale

dell’udienza di p.c. dell’11.10.2016.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La signora Bivona Marina aveva convenuto in giudizio, davanti al Tribunale di

Roma, l'Ospedale Maria Giuseppina Vannini dell’Istituto Figlie di San Camillo di

Roma, nonchè quattro medici e quattro infermieri operanti nel medesimo nosocomio

perché venissero riconosciuti responsabili della morte del di lei padre - sig.

Bivona Francesco - che si era suicidato il 13.10.1994 mentre era ricoverato nel

nosocomio a seguito di un precedente tentativo di suicidio; a tal fine aveva

dedotto che, nonostante un ulteriore tentativo suicidario posto in essere il giorno

1.10.1994, il personale medico e paramedico non aveva assunto alcuna misura -

farmacologica e di vigilanza - volta ad evitare che il paziente riuscisse nell'intento

di togliersi la vita; domandò pertanto il risarcimento del danno, quantificandolo

in €. 450.000,00.

I convenuti contestarono la domanda e chiamarono in manleva l'Assitalia -

Le Assicurazioni d'Italia - S.p.a. e la Lloyd Adriatico s.p.a..

Nelle more del giudizio di primo grado, la vedova del defunto, sig.ra Andronico

Silvestra, ed altre due figlie, sigg.re Bivona Antonietta e Doriana, si costituirono

parti civili nel parallelo procedimento penale, che si concluse - in primo grado -

con la condanna del dr. Ravallese Ferdinando ed - in secondo grado - con il

proscioglimento dell'imputato per intervenuta prescrizione, ma con conferma dei

capi civili della sentenza di I grado.

Le predette parti civili adirono successivamente il Tribunale di Roma che liquidò

il risarcimento in oltre 237.000,00 euro in favore della vedova ed in oltre

203.000,00 euro ciascuna in favore delle figlie Antonetta e Doriana Bivona.

Nel frattempo l’altra figlia Bivona Marina (che non si era costituita parte civile

nel procedimento penale) aveva proposto appello avverso la sentenza n.

24619/2003 emessa dal Tribunale Civile di Roma che le aveva negato il

richiesto risarcimento del danno.

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Provvedendo sul così sollevato gravame, la Corte di Appello di Roma aveva

dichiarato l’inammissibilità dell'impugnazione per difetto di specificità dei motivi.

La sig.ra Marina Bivona proponeva ricorso per cassazione e la Suprema Corte,

con sentenza depositata in data 19.06.2015 con il n.12718/15, accoglieva il 1° motivo

del ricorso (dichiarando assorbito il secondo) cassando la sentenza impugnata con

rinvio alla Corte di appello di Roma per il nuovo giudizio ed anche per il regolamento

delle spese del giudizio di legittimità.

Con citazione notificata in data 27-28 marzo 2015 la sig.ra Bivona Marina ha

riassunto il giudizio innanzi a questo giudice di rinvio chiedendo la riforma della

sentenza di I grado e, nel merito, l’accoglimento della domanda già proposta con la

condanna delle parti appellate, da dichiarare responsabili del fatto dedotto, al

pagamento dei danni da essa subiti (sia materiali che non patrimoniali) oltre che

delle spese dei vari gradi di giudizio.

Si sono costituite innanzi a questa Corte:

l’Ospedale Madre Giuseppina Vannini ed il dr. Ravallese per chiedere il rigetto

dell’appello, ritenuto inammissibile ed infondato; ed in via di impugnazione

incidentale, il solo dr. Ravallese, chiedendo l’accoglimento della domanda di

manleva a carico della Compagnia assicuratrice;

nonché Generali Italia S.p.A. (che aveva assorbito Ina Assitalia) per chiedere il

rigetto dell’appello con conferma della sentenza del Tribunale.

All’udienza collegiale dell’11.10.2016, precisate le conclusioni, la causa è stata

trattenuta per la decisione ai sensi dell’art.352 c.p.c. con concessione dei termini

fissati dall’art.190 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

In conseguenza della cassazione della sentenza di II grado (dichiarativa

dell’inammissibilità dell’appello della signora Marina Bivona) a questo Collegio

compete la decisione del merito dell’originaria impugnazione sollevata dalla qui

attrice in riassunzione rilevato che la Cassazione aveva motivato che “alla luce di

un tale quadro giurisprudenziale di riferimento, ritiene il Collegio che dall'atto di

appello emergano chiaramente le censure mosse alla sentenza di primo grado. Deve

rilevarsi, infatti, che i motivi di gravame sono stati formulati mediante espresso

riferimento alle argomentazioni logico-giuridiche contenute nelle due sentenze

penali, sì che non pare dubitabile che il richiamo agli accertamenti di fatto e

alle correlate argomentazioni logico-giuridiche dei giudici penali costituisca

l'argomentata confutazione logico-giuridica della sentenza di primo grado. Più

specificamente, l'appellante ha premesso la trascrizione dei passaggi della

sentenza penale di primo grado che descrivono le misure adottate dal Ravallese

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ed ha evidenziato come entrambe le sentenze penali abbiano ritenuto la "assoluta

inconsistenza" di tali cautele, respingendo altresì la tesi della inevitabilità

dell'atto suicidario. Ciò consente di escludere che l'atto di impugnazione difetti

della necessaria specificità e comporta l'accoglimento del primo motivo e

l'assorbimento del secondo (che censura le affermazioni della sentenza

impugnata in punto di non operatività del giudicato extrapenale, assumendo

che - in ogni caso - la Corte avrebbe dovuto prendere in esame "i fatti

materiali emersi in sede penale costituenti prova certa di responsabilità anche

civile") in quanto attinente ad una questione che la Corte territoriale ha

dichiarato di non poter esaminare in dipendenza della ritenuta genericità

dell'appello”.

Pertanto passando al merito della controversia ed al proposto gravame avverso

la sentenza n. 24613/2003 emessa dal Tribunale di Roma, va innanzitutto

evidenziato come risultino del tutto irrilevanti, inammissibili ed ultronee le nuove

eccezioni di “inammissibilità” sollevate dai convenuti dr. Ravallese ed Istituto Figlie

di San Camillo (da ora in poi Istituto) posto che in sede di giudizio di riassunzione a

seguito di rinvio da parte della Corte di Cassazione non può trovare applicazione né

il novellato art. 348 bis c.p.c. (per ragioni anche, ma non solo, temporali dovendosi

far riferimento all’originario atto di appello e non alla citazione in riassunzione

come atto di impugnazione) né l’art. 342 c.p.c. tanto più in un caso come quello

all’esame di questa Corte di appello, quale giudice di rinvio, adita proprio dopo che il

Supremo Collegio aveva disatteso l’analoga eccezione di inammissibilità basata

sull’art.342 c.p.c. (vigente ratione temporis) e cassato la sentenza d’appello che

aveva ritenuto (errando) che il gravame non rispondesse ai requisiti di specificità

richiesti dalla suddetta norma.

Venendo ora al <<merito>> dell’impugnazione a suo tempo sollevata dalla sig.ra

Marina BIVONA, ed al gravame avverso la decisione di rigetto della sua domanda

di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della morte del padre Francesco,

ritiene questo Collegio che l’impugnazione sia fondata e vada riformata

integralmente la sentenza di I grado.

Al fine di dar conto di questo giudizio di accoglimento è necessario partire da

una considerazione di ordine generale: le sentenze emesse nel parallelo

procedimento penale a carico del dr. Ravallese, pur non avendo efficacia vincolante

in questo giudizio civile, possono fornire elementi di valutazione su cui poter

fondare il giudizio sul risarcimento del danno tanto più dove la sentenza di appello

penale, pur dichiarando l’estinzione del reato contestato per intervenuta

prescrizione, aveva confermato le statuizioni civili che si basavano sulla accertata

presenza di un fatto illecito potenzialmente generatore di un danno a terzi (cfr.

Cass. civ., sez. III, 04-11-2014, n. 23429: <<la condanna generica al risarcimento

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del danno contenuta nella sentenza del giudice penale dichiarativa dell’estinzione

del reato per prescrizione non implica alcun accertamento in ordine alla concreta

esistenza di un danno risarcibile ma postula soltanto l’accertamento della

potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso

di causalità tra questa e il pregiudizio lamentato, restando salva nel giudizio civile

di liquidazione del quantum la possibilità di escludere l’esistenza di un danno

eziologicamente conseguente al fatto illecito>>); inoltre in applicazione del principio

di autonomia e separazione dei giudizi penale e civile, il giudice civile investito della

domanda di risarcimento del danno da reato deve procedere ad un autonomo

accertamento dei fatti e della responsabilità con pienezza di cognizione, non

essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale; nondimeno lo

stesso giudice civile può legittimamente utilizzare come fonte del proprio

convincimento le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata

in cosa giudicata e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con

le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine a diretto esame del

contenuto del materiale probatorio, ovvero ricavando tali elementi e circostanze

dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da

accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico

(così Cass. civ., sez. III, 17-06-2013, n. 15112).

Orbene, tenuto conto delle ragioni specifiche che portarono all’annullamento

della sentenza di secondo grado, non sembrano esservi dubbi che – sulla base della

valutazione qui compiuta dal Collegio dei dati emergenti dal giudizio in ambito

penale ed in difetto di elementi di portata contraria che, in verità, era specifico

onere delle parti convenute, qui appellate, dimostrare – il diritto della sig.ra Bivona

ad essere risarcita per i danni subiti in conseguenza della morte per suicidio del

padre presso il reparto di medicina dell’Istituto convenuto (e dove operava quale

responsabile di reparto il dr. Ravallese), sia fondato e che la sentenza di primo

grado meriti di essere riformata.

Partendo, a tal proposito, proprio dall’analisi del profilo della natura della

responsabilità ascrivibile all’Istituto (qui convenuto in riassunzione), ritiene questa

Corte di rinvio che sussiste senz’altro quella contrattuale (in specie ricollegata alla

natura delle prestazioni assunte direttamente dall’Istituto e dal suo personale

sanitario dipendente che svolgeva anche i compiti di controllo e sorveglianza dei

pazienti ricoverati presso lo stesso).

Non vi è dubbio, infatti, che l’evento dannoso trovasse una sua specifica origine

causale tanto in un inadempimento della struttura sanitaria che in un fatto illecito

(omissivo) del personale che in quella struttura operava alle dipendenze della

prima.

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Può trovare, in questa situazione, applicazione l’orientamento della

giurisprudenza che – pur distinguendo i profili di responsabilità – ne afferma la

comune sussistenza nel caso delle Ospedali o Case di Cura e del personale che in

esse vi opera (nel caso in cui il paziente o cliente non abbia scelto anche il soggetto

che debba assisterlo).

Si è pervenuti, infatti, a un’autonoma valutazione della responsabilità della

struttura sanitaria, la cui fonte non è più da ricercarsi nell’eventuale negligenza dei

singoli operatori, bensì nell’inadempimento delle obbligazioni specificamente

dedotte nel contratto di cui la medesima è diretta parte contraente, impostazione

atta a valorizzare «la complessità e l’atipicità del legame che si instaura, che va

ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a

disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di

medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni»,

poiché in virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una

prestazione assai articolata, definita genericamente di «assistenza sanitaria», che

ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale (assistenziale, medica, ecc.)

anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori; quando un medesimo

danno è provocato da più soggetti, per inadempimenti di contratti diversi,

intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti

debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base

dell’estensione alla responsabilità contrattuale della norma dell’art. 2055 c.c.,

dettata per la responsabilità extracontrattuale, quando perché, sia in tema di

responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico

evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di

tutte nell’obbligo risarcitorio, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso

di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dell’evento (dei

quali, del resto, l’art. 2055 costituisce un’esplicitazione), che le azioni od omissioni

di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo (cfr. Cass. civ., sez. III,

03-02-2012, n. 1620).

Precisato quanto sopra (a confutazione della questione della carenza di domanda verso l’Istituto o della inammissibile modifica delle domanda proposte nei gradi precedenti), deve passarsi alla questione più strettamente collegata alle ragioni dell’appello a suo tempo proposto dalla sig.ra Marina Bivona: e cioè all’esame del fatto accaduto al ricoverato sig. Bivona Francesco ed al nesso di causa tra il danno insorto ed il fatto/comportamento delle parti convenute; a tal riguardo deve procedersi (seguendo la traccia delle due sentenze penali prodotte dalla attrice) ad una distinta ed autonoma valutazione del materiale probatorio comunque acquisito al giudizio, facendo riferimento anche a dati non contestati e, quindi, da considerare “oggettivi”. Tenendo conto di tutto il materiale indicato, e facendo ponderata valutazione di quanto risulta riportato nelle due sentenze penali (del Tribunale di Roma e della

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Corte di Appello di Roma) ritiene questa Collegio che la decisione del primo giudice non sia condivisibile e che la stessa vada riformata dovendosi qui affermare la sussistenza di un fatto illecito ascrivibile alle due parti qui convenute, entrambe responsabili per l’evento accaduto al paziente ricoverato presso la struttura ospedaliera. Prima di analizzare i due profili di rispettiva responsabilità, questa Corte ritiene necessario e doveroso evidenziare come nella specie la situazione vada affrontata partendo da un dato, forse, trascurato o non focalizzato a sufficienza. Nel concreto si trattava di un caso di una persona malata con problemi anche psico/patologici (circostanza che emerge evidente nella ricostruzione dei fatti riportata tanto dalle due sentenze penali, come pure dalle “premesse in fatto” esposte nei rispettivi atti dalle parti in causa) che non venne affidata all’Istituto convenuto per ragioni edonistiche (casa di riposo) o di semplice assistenza (come per le case di cura per anziani soli o non autosufficienti) o di semplice “degenza” (come se si trattasse di un soggetto necessitante di una semplice degenza ospedaliera legata ad una transitoria patologia), ma più concretamente perché necessitante di assistenza specifica per esigenze di terapia, di cura e di assistenza scaturita da un ben preciso episodio di <<autolesionismo>> con finalità suicidiarie. Dall’esame delle sentenza penale del Tribunale di Roma emerge chiaramente come il sig. Bivona il giorno 1° ottobre 1994 fosse giunto al p.s. con accettazione per “ferita da punta emitorace sinistro autoprocurata” e che dopo un secondo tentativo di suicidio, avvenuto in data 12.10.1994 durante il ricovero ospedaliero, il dr. Centracchio (assistente presso il reparto dove il paziente era ricoverato) avesse richiesto per il paziente “una nuova consulenza psichiatrica urgente per eventuale trattamento sanitario obbligatorio all’Ospedale San Giovanni territorialmente competente nel caso di specie”. Era la condizione di salute del sig. Francesco Bivona che imponeva alla struttura sanitaria di svolgere (tramite i suoi dipendenti) i compiti di cura, assistenza e sorveglianza calibrati a quella specifica condizione “psichiatrica” presentata dal paziente senza alcuna possibilità di ritenere i dipendenti dell’Istituto legittimati ad un minor controllo o sorveglianza (o addirittura a nessun controllo) del paziente in relazione ad una asserita non prevedibilità dell’evento (il suicidio) e, soprattutto, alla sua inevitabilità. Poiché il paziente era stato ricoverato presso l’Ospedale Madre G. Vannini in quanto necessitante di cura immediata per la grave ferita al torace (e per questo ricoverato presso il reparto di chirurgia), ma poi ivi trattenuto anche per la diagnosticata (mediante videat neurologico in data 11.10.1994) <<sindrome depressivo-ansiosa ad impronta psicotica>>) necessitante di specifiche cure psichiatriche (poi approntate dal dr. Angelucci al momento della consulenza psicologica da lui effettuata; come risulta dalla sentenza penale del Tribunale a pag.12), non poteva essere messo in dubbio che rientrasse tra i compiti ed i doveri delle parti qui convenute anche quello di sorvegliare il paziente ponendolo in una condizione di “tutela” o “controllo” per poter impedire (anche se nei limiti del prevedibile) atti lesivi non solo verso terzi ma soprattutto verso se stesso (non

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essendo fatto ignoto, anche a chi non è un tecnico del settore psichiatrico, che molto spesso i malati di mente, per sindromi depressive od altre patologie psichiatriche, possono procurare danni a sé stessi anche mediante atti di autolesionismo); tanto più quando uno specifico caso di tentato suicidio era stato sventato il giorno precedente presso lo stesso nosocomio e con modalità identiche a quelle poi funeste del 13.10.1994. A tal proposito (e confermando il giudizio espresso dai giudici penali circa la prevedibilità dell’evento) deve essere posto in evidenza che, trattandosi di un paziente affetto da sindrome ansioso-depressiva ad impronta psicotica e in terapia con farmaci (che il dr. Ravallese aveva ritenuto di dover ridurre per le ragioni evidenziate a pagina 12 della sentenza penale del Tribunale), è lecito aspettarsi che il medico di turno, oltre al personale addetto all’assistenza, supervisionasse lo stato del paziente (non limitandosi agli accorgimenti indicati in sede penale tanto più in presenza di una minore copertura farmacologica antidepressiva), per esempio controllando di continuo il paziente nei momenti in cui non era possibile far più affidamento sulla presenza dei familiari dello stesso. Non vi è dubbio, infatti, che tra i compiti di cura ed assistenza da prestare nei riguardi di un paziente ricoverato – ed in particolare di un paziente affetto da sindrome ansioso-depressiva ad impronta psicotica necessitante di una più specifica assistenza - fosse necessario attuare una più idonea sorveglianza in una fase di riduzione della terapia farmacologica consigliata dallo psichiatra (trattandosi di farmaci con effetto “depressore”) e, quindi, in un contesto che avrebbe dovuto far sorgere la preoccupazione per la possibilità di una ripresa delle spinte psicopatologiche di cui il sig. Bivona era portatore (come del tutto condivisibilmente aveva spiegato il Tribunale nella sentenza penale di condanna del Ravallese). E di fronte ad un episodio eclatante, come quello avvenuto durante il ricovero nell’Istituto convenuto (il gettarsi del paziente dalla finestra della camera dove era ricoverato), vi è una sicura colpa della struttura sanitaria convenuta nell’avere omesso il necessario (nonché doveroso) controllo della condizione complessiva del paziente affetto dalla accertata (in quella stessa sede) “sindrome ansioso/depressiva ad impronta psicotica”; nonché nell’avere collocato il paziente in un luogo non idoneo a prevenire episodi del genere (si rammenta che il sig. Bivona venne collocato in una stanza posta nel reparto di medicina dell’Istituto al terzo piano e con finestre prive di grate o altri sistemi di ritenzione atti ad evitare cadute o gesti similari). Anche per le strutture sanitarie private, come per gli ospedali pubblici, rientra nei compiti specifici di assistenza (oltre che sanitaria) anche quella di sorveglianza del malato implicante l’adozione di tutte quelle cure ed attenzioni volte a prevenire atti e comportamenti che possano portare a conseguenze dannose e negative per sé e per gli altri. Peraltro, in materia di assistenza dei malati, in genere, e di quelli di mente, in particolare, è nota la distinzione tra prestazioni sanitarie in senso stretto (diagnostica, cura, terapia ecc.) ed attività socio-assistenziali (sia intra che extra

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ospedaliere) prive di rilievo sanitario; in queste ultime rientra sicuramente l’attività di assistenza e sorveglianza di cui necessita un soggetto malato di mente o con problemi psichiatrici accertati, al fine di prevenire forme di eteroaggressività e rendergli meno penosa l’esistenza (cfr. Cass. civ., sez. un., 27-01-1993, n. 1003). Rilevava, pertanto, la qualità dell’assistenza che l’Istituto ed il medico convenuti dovevano, in astratto, assicurare al paziente piuttosto che discettare di quale fosse concretamente la sorveglianza ed assistenza da attuare in relazione alle manifestazioni di autolesionismo ed alla condizione psichica del paziente stesso, pur in relazione alle patologie in atto ed alle capacità/dotazioni tecniche dell’ospedale in discorso. E poiché si trattava di un soggetto affetto anche da una sindrome ansioso-depressiva ad impronta psicotica - con comparsa di gravi manifestazioni autolesionistiche nell’arco di pochi giorni - l’assistenza socio-assistenziale che doveva essere prestata al paziente doveva essere spinta sino a quella volta a prevenire danni alla sua stessa persona, prevenendo forme estreme di etero aggressività (come il già tentato episodio del gettarsi dalla finestra da parte del Bivona il giorno 12.10.1994), risultando oltremodo evidente che un ulteriore episodio di autolesionismo fosse sia prevedibile che, in concreto, anche evitabile.

E, come detto in precedenza, l’assistenza sanitaria ordinaria doveva imporre alla

struttura, ed al responsabile del reparto quale medico di turno del medesimo, un

dovere di sorveglianza e di attenzione verso un paziente “particolare” e con

patologia psichiatrica comportante crisi di tipo funzionale su base isterica ad

insorgenza occasionale ma, certamente, ampiamente prevedibili.

A fronte di tale dato fattuale, collegato alla gamma di doveri contrattuali e non contrattuali gravanti sulle parti qui convenute, nessun elemento probatorio è stato dalle stesse fornito sia per consentire di verificare l’esatto adempimento dell’obbligazione contrattuale (ex art.1218 c.c.) che per verificare l’assenza di colpa in coloro i quali svolgevano i concreti compiti di assistenza sanitaria e di sorveglianza del paziente ricoverato (il c.d. “rapporto di cura”), posto che nei giudizi di risarcimento del danno causato da inadempimento dei doveri rientranti nel rapporto di cura ed assistenza (come nel campo dell’attività medica in senso stretto), l’attore ha l’onere di allegare e di provare l’esistenza del rapporto di cura, il danno ed il nesso causale, mentre ha solo l’onere di allegare (ma non di provare) la colpa dell’agente (di colui che aveva in cura il paziente); quest’ultimo, invece, ha l’onere di provare che l’evento dannoso è dipeso da causa a sé in alcun modo imputabile. In presenza di non idonee misure di tipo cautelativo (dettagliatamente indicate a pagina 10 della sentenza penale del Tribunale di Roma), ed in difetto di prove sul come venisse in concreto attuata l’assistenza sanitaria ordinaria nei confronti del Bivona durante il ricovero presso l’Istituto convenuto, e nell’assoluta irrilevanza della non necessità di una sorveglianza continua come causa escludente la responsabilità del sanitario, non vi era altra soluzione se non quella

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dell’affermazione di responsabilità delle parti convenute per la morte del paziente e per i conseguenti danni subiti dalla sua erede (la figlia Marina); risultando “più probabile che non” vi sarebbe stato l’insano gesto del paziente ove il dr. Ravallese avesse predisposto una serie di misure di maggior rigore e controllo del paziente anche chiedendo ai responsabili della struttura sanitaria di autorizzare (sino al momento del trasferimento del paziente presso l’Ospedale San Giovanni dotato di un reparto attrezzato) : - o una sorveglianza 24h/24h; - o il trasferimento del paziente in una stanza di un reparto sito al piano terra o ad una altezza inferiore (onde ridurre il rischio di impatti da caduta). Peraltro, la presenza in ospedale dei familiari del paziente (e della moglie in particolare) rendeva più agevole l’adozione delle misure indicate poiché si trattava di assicurare una maggiore sorveglianza nei lassi temporali durante i quali ad assistere il paziente non vi era nessun parente (ed infatti l’evento tragico avvenne proprio subito dopo che la consorte aveva lasciato l’ospedale). Il giudizio di rinvio deve trovare definizione nel senso sopra indicato con la conseguente dichiarazione di fondatezza dell’appello a suo tempo proposto dalla odierna attrice in riassunzione. Sui danni da risarcire.

Rileva questa Corte che la attrice non ha depositato il suo fascicolo del giudizio innanzi al Tribunale (essendo stati depositati gli atti dei soli grado di appello e di Cassazione) e che nel fascicolo di ufficio del primo grado (qui acquisito) risultano esservi copie della comparsa conclusionale della replica ex art.190 c.p.c.; dall’ultima pagina della comparsa conclusionale datata 14 marzo 2003 a firma avv. Ettore d’Ovidio risulta che la erede del defunto sig. Bivona Francesco aveva chiesto il ristoro della grave sofferenza morale determinata dalla perdita del padre e la sua quota-parte ereditaria (2/9) di indennizzo per il danno biologico subito dal padre sia durante il penoso ricovero sia per effetto della morte che non è stata istantanea alla caduta.

Tali richieste non risultano maggiormente specificate nella citazione in riassunzione fatta eccezione per una indicazione, nelle conclusioni ivi riportate, relativa alla richiesta di “oltre al danno materiale subito anche il lucro cessante poichè il Bivona Francesco era l’unico mezzo di sostentamento della famiglia dell’istante”, che appare del tutto inammissibile.

Di tanto dovrà tenersi conto nella liquidazione che questo giudice di rinvio è chiamato a compiere una volta che si è affermata la responsabilità della struttura sanitaria qui convenuta e del suo sanitario dipendente, ribadendo la natura di “giudizio chiuso” del procedimento azionato dopo il rinvio disposto dalla Suprema Corte di Cassazione (cfr, per tutte Cass. Sez. I, 21.02.2007 n. 4096: <<la riassunzione

della causa - a seguito di cassazione con rinvio della sentenza - dinanzi al giudice di rinvio instaura un

processo chiuso, nel quale è preclusa alle parti, tra l’altro, ogni possibilità di proporre nuove domande,

eccezioni, nonché conclusioni diverse, salvo che queste, intese nell’ampio senso di qualsiasi attività

assertiva o probatoria, siano rese necessarie da statuizioni della sentenza della cassazione;

conseguentemente, nel giudizio di rinvio non possono essere proposti dalle parti, né presi in esame dal

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giudice, motivi di impugnazione diversi da quelli che erano stati formulati nel giudizio di appello

conclusosi con la sentenza cassata e che continuano a delimitare, da un lato, l’effetto devolutivo dello

stesso gravame e, dall’altro, la formazione del giudicato interno>>, nella specie, la suprema corte ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato come domanda nuova inammissibile quella con cui, rispetto ad una originaria domanda di risarcimento del danno, erano state introdotte nuove voci di danno separatamente quantificate).

Ragion per cui alcune delle domande che la attrice ha inteso formulare a pagina 7 della citazione in riassunzione sono sicuramente inammissibili perché mai introdotte nei precedenti gradi del giudizio.

Pertanto, dovrà essere riconosciuto alla attuale attrice il solo danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale legato alla morte del proprio genitore che è una tipica voce di danno a più facce afferente anche le sofferenze di tipo morale subite dalla persona (cfr. tra le più recenti Cass. civ., sez. III, 08-07-2014, n. 15491: <<il danno qualificabile come «edonistico» per la perdita del rapporto

parentale deve essere valutato unitamente al risarcimento del danno morale iure proprio; infatti il

carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. preclude un

risarcimento separato e autonomo per ogni tipo di sofferenza patita dalla persona, fermo l’obbligo del

giudice di tener conto nel caso concreto di tutte le peculiari modalità di manifestazione del danno non

patrimoniale, così da assicurare la personalizzazione della liquidazione>>).

Questa Corte, infatti, ritiene del tutto condivisibile il principio “contenitivo/restrittivo”, affermato dalle sezioni unite della Cassazione nella sentenza dell’11 novembre 2008 n.26974, per cui dà luogo a una duplicazione del risarcimento la congiunta attribuzione, al familiare della persona defunta (o gravemente lesa al punto da determinarne lo stato vegetativo o il coma), del danno morale e del danno da perdita del rapporto parentale, in quanto la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita dai familiari e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subìta non sono ontologicamente diverse e sottendono lo stesso disagio psichico e, dunque, la lesione del medesimo bene della vita; per contro, il danno morale che degeneri in pregiudizio alla sfera psichica - traducendosi in un danno di tipo biologico - non può essere considerato un «mero doppione» del danno da perdita del rapporto parentale ma – tuttavia - necessita di una specifica domanda, oltre che della prova della sua concreta ricorrenza.

Premesso ciò, al fine della concreta determinazione del danno spettante alla

sig.ra Bivona deve farsi uso delle tabelle adottate presso il Tribunale di Milano

(edizione 2014); tali tabelle possono essere applicate in virtù del richiamo che la

Suprema Corte ha inteso fare con la nota sentenza n.12408/2011, con la

precisazione che “le tabelle elaborate dal Tribunale di Milano a partire dal 2009, che la

sentenza Cass. n. 12408/11 ha dichiarato applicabili, da parte dei giudici di merito, su tutto il

territorio nazionale, non hanno mai cancellato la fattispecie del danno morale intesa come

voce integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale; tali tabelle, infatti,

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propongono la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente alla lesione

permanente dell'integrità psicofisica suscettibile di accertamento medico legale e del danno

non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di dolore, sofferenza

soggettiva in via di presunzione in riferimento a un dato tipo di lesione, vale a dire la

liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di danno biologico

standard, personalizzazione del danno biologico, danno morale” (così Cass. 12.9.2011 n.

18641).

Le tabelle in uso presso il Tribunale di Milano prevedono i seguenti importi per il caso di perdita del genitore a favore di ciascun figlio:

una somma tra €. 163.990,00 ed €. 327.990,00;

con una forbice di risarcimento che deve essere colmata facendo ricorso a tutte le circostanze del caso concreto e tenendo conto che: a) la categoria generale del danno non patrimoniale, attinente alla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da valore di scambio, è di natura composita e si articola in una pluralità di aspetti, quali il danno morale (da intendersi nella duplice accezione di patema d’animo e di lesione alla dignità o all’integrità morale), il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale o c.d. esistenziale; b) il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere all’esatta commisurazione del pregiudizio, sicché se ne impone la valutazione equitativa, da condursi con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, dovendosi considerare in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione e facendo ricorso a criteri idonei a consentire la personalizzazione del ristoro, al fine di pervenire a una liquidazione equa, e cioè congrua, adeguata e proporzionata; c) in virtù del principio dell’integralità del ristoro, la liquidazione del danno non patrimoniale non deve essere puramente simbolica o irrisoria o comunque priva di correlazione all’effettiva natura o entità del danno, ma deve tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento e deve comprendere tutti gli aspetti della composita categoria del danno non patrimoniale, pur evitando inammissibili duplicazioni, il giudice, nel liquidare il danno non patrimoniale, deve dare conto del particolare significato che ha attribuito al danno morale, e cioè se lo abbia valutato non solo quale patema d’animo, sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva o interiore (danno morale soggettivo), ma anche in termini di dignità o integrità morale e riconoscere il danno da perdita del rapporto parentale o esistenziale in caso di sconvolgimento della vita subìto da uno dei coniugi per la morte dell’altro (così Cass. civ., sez. III, 23-01-2014, n. 1361).

Nel caso in questione tenuto conto che si tratta di morte dovuta a carente assistenza di un paziente ricoverato presso un ospedale, per un soggetto dell’età di anni 65 (essendo nato il 9.05.1929) che conviveva con la moglie, e che aveva anche tre figlie (la attrice che all’epoca del decesso aveva una età di anni 36) che in difetto di prova positiva devono essere considerate tutte come non conviventi con

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il padre al momento dell’evento, si ritiene di poter riconoscere il danno non patrimoniale per la morte del congiunto nella somma di € 200.000,00 per la odierna parte attrice, con valutazione all’attualità .

Le somme sopra liquidate non possono essere ulteriormente aumentate per

l'incidenza della svalutazione monetaria maturatasi post factum perchè in questa

sede si è proceduto ad una liquidazione con valutazione con moneta attuale, posto

che il criterio tabellare è frutto di liquidazione eminentemente equitativa che

tiene conto dei valori attuali, e che la rivalutazione non è altro che il mezzo di

attualizzazione, alla data della decisione, dell'ammontare del debito di valore fatto

valere dal creditore.

Spettando, invece, gli interessi atti a risarcire il danneggiato per il lucro

cessante, e per effettuare la relativa operazione, seguendo un orientamento ormai

consolidato in giurisprudenza (V. per tutte Cass. Sez. unite 17.02.1995 n.1712), si

fa ricorso a diversi tassi ove sia necessario calcolare gli accessori del credito di

valore (rivalutazione e/o interessi).

Dove il credito sia stato conteggiato già con la rivalutazione (per liquidazione

all’attualità) il ricorso agli indici FOI, indici nazionali dei prezzi al consumo per le

famiglie di operai e impiegati, pubblicati dallo ISTAT e reperibili sul sito web

“istat.it”, vengono in rilievo per il calcolo della c.d. “somma devalutata”.

Per calcolare il lucro cessante, invece, si può fare ricorso o al rendimento medio

dei titolo di stato, sul presupposto che il creditore, se avesse potuto disporre della

somma l’avrebbe investita in titoli di stato (c.d. “rendistato”, pubblicato dalla

Banca d’Italia), ovvero al tasso legale di interesse (in caso di prova mancante, come

nel caso in esame).

Poiché la somma è stata liquidata ai valori attuali, il tasso di rendimento va

applicato sulle somme devalutate dividendo la somma liquidata per i coefficienti

F.O.I, così determinando anno per anno il reddito non percepito dal creditore; e poi

applicati i soli tassi di interesse legale sulle somme anno per anno rivalutate.

Pertanto la somma liquidata all’attualità deve essere ricalcolata per determinare

l’importo c.d. “devalutato” all’ottobre 1994 (per rapportarla ai valori di quell’epoca):

detto nuovo importo è pari a € 130.548,30 e su questa specifica somma deve, in

seguito, essere calcolata la rivalutazione anno per anno con la maggiorazione degli

interessi legali; la somma raggiunge l’importo finale di €. 315.482,17 come risulta

dalla tabella riepilogativa che segue (elaborata facendo uso di un calcolatore

informatico di comune utilizzo reperibile su siti web, e secondo i criteri di cui alla

citata sentenza Sez. Unite n.1712/1995):

I^ operazione: DEVALUTAZIONE

Importo da Devalutare: € 200.000,00

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Dal mese di: Novembre 2016

Al mese di: Ottobre 1994

Indice Istat utilizzato: FOI generale

Indice Novembre 2016: 100

Indice Ottobre 1994: 109,5

Raccordo Indici: 1,678

Indice di Devalutazione: 0,653

Totale Devalutazione: € 69.451,70

Importo Devalutato: € 130.548,30

II^ operazione: Rivalutazione+interessi dal 13.10.1994 all’attualità;

Servizio Richiesto: Calcolo Interessi Legali sul Capitale Rivalutato Annualmente

Data Iniziale: 13/10/1994

Data Finale: 30/11/2016

Capitale Iniziale: € 130.548,30

Interessi Legali: Nessuna capitalizzazione, Anno Civile (365 gg)

Decorrenza Rivalutazione: Ottobre 1994

Scadenza Rivalutazione: Novembre 2016

Indice Istat utilizzato: FOI generale

Dal: Al: Capitale Rivalutato: Tasso: Giorni: Interessi:

13/10/1994 13/10/1995 € 138.120,10 10,00% 365 € 13.812,01

13/10/1995 13/10/1996 € 142.167,10 10,00% 366 € 14.255,66

13/10/1996 31/12/1996 € 144.516,97 10,00% 79 € 3.127,90

01/01/1997 13/10/1997 € 144.516,97 5,00% 286 € 5.661,90

13/10/1997 13/10/1998 € 146.866,84 5,00% 365 € 7.343,34

13/10/1998 31/12/1998 € 149.477,80 5,00% 79 € 1.617,64

01/01/1999 13/10/1999 € 149.477,80 2,50% 286 € 2.928,13

13/10/1999 13/10/2000 € 153.394,25 2,50% 366 € 3.845,36

13/10/2000 31/12/2000 € 157.441,25 2,50% 79 € 851,91

01/01/2001 13/10/2001 € 157.441,25 3,50% 286 € 4.317,77

13/10/2001 31/12/2001 € 161.488,25 3,50% 79 € 1.223,33

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01/01/2002 13/10/2002 € 161.488,25 3,00% 286 € 3.796,08

13/10/2002 13/10/2003 € 165.274,15 3,00% 365 € 4.958,22

13/10/2003 31/12/2003 € 168.146,21 3,00% 79 € 1.091,80

01/01/2004 13/10/2004 € 168.146,21 2,50% 287 € 3.305,34

13/10/2004 13/10/2005 € 171.540,47 2,50% 365 € 4.288,51

13/10/2005 13/10/2006 € 174.412,53 2,50% 365 € 4.360,31

13/10/2006 13/10/2007 € 177.937,33 2,50% 365 € 4.448,43

13/10/2007 31/12/2007 € 183.942,55 2,50% 79 € 995,31

01/01/2008 13/10/2008 € 183.942,55 3,00% 287 € 4.339,03

13/10/2008 13/10/2009 € 184.334,20 3,00% 365 € 5.530,03

13/10/2009 31/12/2009 € 187.467,36 3,00% 79 € 1.217,25

01/01/2010 13/10/2010 € 187.467,36 1,00% 286 € 1.468,92

13/10/2010 31/12/2010 € 193.472,58 1,00% 79 € 418,75

01/01/2011 13/10/2011 € 193.472,58 1,50% 286 € 2.273,97

13/10/2011 31/12/2011 € 198.694,51 1,50% 79 € 645,08

01/01/2012 13/10/2012 € 198.694,51 2,50% 287 € 3.905,84

13/10/2012 13/10/2013 € 200.000,00 2,50% 365 € 5.000,00

13/10/2013 31/12/2013 € 200.261,09 2,50% 79 € 1.083,60

01/01/2014 13/10/2014 € 200.261,09 1,00% 286 € 1.569,17

13/10/2014 31/12/2014 € 200.261,09 1,00% 79 € 433,44

01/01/2015 13/10/2015 € 200.261,09 0,50% 286 € 784,58

13/10/2015 31/12/2015 € 200.000,00 0,50% 79 € 216,44

01/01/2016 13/10/2016 € 200.000,00 0,20% 287 € 314,52

13/10/2016 30/11/2016 € 200.000,00 0,20% 48 € 52,60

Indice alla Decorrenza: 109,5

Indice alla Scadenza: 100

Raccordo Indici: 1,678

Coefficiente di Rivalutazione: 1,532

Totale Rivalutazione: € 69.451,70

Capitale Rivalutato: € 200.000,00

Totale Colonna Giorni: 8084

Totale Interessi: € 115.482,17

Rivalutazione + Interessi: € 184.933,87

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r.g. n. […] 16

Capitale Rivalutato + Interessi: € 315.482,17

La somma determinata, infine, andrà aumentata dei soli interessi al tasso legale

dalla data della sentenza al saldo, con condanna a carico dei soli dr. Ravallese e

dell’Istituto Figlie di San Camillo, in solido, essendo carente la attrice di domanda

nei confronti della Generali Italia S.p.A..

Ed infatti, l’eccezione di carenza di legittimazione attiva è fondata non avendo,

la odierna attrice in riassunzione, azione diretta nei confronti della Compagnia di

assicurazioni che garantiva il dr. Ravallese essendo solo questi titolare di un diritto

in virtù della polizza sottoscritta e trattandosi di garanzia propria non estensibile,

pur su apposita domanda, al terzo danneggiato.

Sulla domanda di manleva del dr. Ravallese.

Il convenuto ha proposto, in via incidentale, domanda di condanna della propria compagnia di assicurazione alla manleva in caso di condanna, e la stessa è ammissibile e fondata.

L’ammissibilità deriva dalla circostanza stessa della natura della domanda di manleva azionata dal convenuto che, in esito al giudizio di I grado, abbia visto respinta la domanda del danneggiato che si era rivolto nei suoi diretti confronti; in tale situazione l’assicurato, a fronte dell’appello del danneggiato soccombente, deve solo riproporre la domanda di manleva innanzi al giudice di secondo grado non essendo necessario l’appello incidentale proprio perché la sentenza di I grado non lo aveva visto affatto soccombente.

La riproposizione della domanda di manleva legittimava il dr. Ravallese a chiedere la garanzia assicurativa in caso di eventuale riforma della decisione di I grado.

Nel merito la domanda di manleva è fondata essendo basata sulla polizza sottoscritta a suo tempo con la Assitalia S.p.A. con il limite del massimale di LIRE 100milioni (e dei già avvenuti pagamenti di provvisionali in sede penale).

Sull’onere delle spese processuali.

In conseguenza dell’esito finale del giudizio (riconsiderato complessivamente dopo il rinvio disposto dalla Cassazione) le parti qui appellate/convenute – parte soccombente - vanno condannate in solido al pagamento delle spese dei vari gradi del giudizio, a favore della attrice in riassunzione; spese liquidate tenuto conto del valore della controversia (il decisum pari alla somma attribuita: valore tra

260.000 e 520.000 euro) e delle attività compiute dal procuratore della parte nel giudizio secondo i parametri ministeriali attualmente in vigore - d.m. 10.3.2014 n.55 (che trovano applicazione per tutti i gradi di giudizio già svolti dovendo darsi rilievo al momento in cui il giudice procede alla loro concreta determinazione; cfr. Cass. civ., sez. un., 12-10-2012, n. 17405).

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r.g. n. […] 17

Per il I° grado (con 3 fasi processuali senza istruttoria) applicandosi i valori

“medi” si ottiene la somma di €. 11.472,00 di compenso + spese vive (€ 400,00 per

contributo unificato).

Per la causa avanti alla Corte di Appello i parametri ministeriali per le fasi processuali n.1 – 2 – 4 di tabella, prevedono un compenso di €. 13.560,00 + spese vive (310,00 contributo unificato + 8,00 per marca bollo).

Per la causa avanti alla Cassazione il compenso è pari a € 10.260,00;

Per il giudizio di rinvio (per le fasi processuali n. 1 – 2 e 4) il compenso è pari a € 13.560,00 oltre spese vive (€ 675,00 per contributo unificato+ 27 per marca bollo).

Infine, sussistono evidenti e giusti motivi per compensare le spese dei vari gradi del giudizio con riferimento alla posizione della Generali Italia SpA; infatti, nonostante la affermata debenza dell’obbligo di manleva, non può non tenersi conto dell’interesse concreto ed autonomo che legittimava l’assicurato ad una difesa in proprio rispetto alle pretese della danneggiata (e tenendo conto che la Compagnia aveva già ampiamente esaurito il massimale con pagamenti delle provvisionali liquidate in sede penale.

P. Q. M.

LA CORTE DI APPELLO DI ROMA

- Terza Sezione Civile -

definitivamente pronunciando su rinvio disposto dalla Suprema Corte di Cassazione

(con la sentenza n. 12718/2015), così decide sull’appello avverso la sentenza del

Tribunale di Roma emessa in data 13.07.2003 (depositata il 21.07.2003 con il N.

24619/03) proposto da Bivona Marina nei confronti dell’Istituto Figlie di San

Camillo - Ospedale Madre Giuseppina Vannini, Ravallese Ferdinando (appellante

incidentale) e di Generali Italia S.p.A.:

a) in accoglimento per quanto di ragione dell’appello proposto, ed in riforma della

sentenza appellata, Dichiara che il decesso di Bivona Francesco, avvenuto in data

13.10.1994, va ascritto a fatto e responsabilità dell’Istituto Figlie di San Camillo-

Ospedale Madre Giuseppina Vannini e del dr. Ferdinando Ravallese;

b) per l’effetto, Condanna l’Istituto Figlie di San Camillo- Ospedale Madre

Giuseppina Vannini, in persona del suo legale rappresentate pro tempore, e

Ravallese Ferdinando, in solido tra loro, al pagamento, in favore di Bivona Marina,

della somma di €. 315.482,17#, con l’aggiunta degli interessi al tasso di legge a

decorrere dalla data della presente sentenza sino al saldo effettivo;

c) Condanna le medesime parti indicate sub b) in solido tra loro, alla rifusione

delle spese processuali sostenute da Bivona Marina nei vari gradi di giudizio,

liquidandole:

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r.g. n. […] 18

per il I° grado in €. 400,00 per spese e €. 11.472,40 per compenso (oltre

rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge),

per il giudizio di appello in €.318,00 per spese ed € 16.272,00 per compenso (oltre

rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge),

per il giudizio avanti alla Cassazione in €. 10.260,00 per compenso (oltre rimborso

forfettario, IVA e CAP come per legge),

e per questo giudizio di rinvio in €. 777,00 per spese ed €. 13.560,00 per

compenso (oltre forfettario, IVA e CAP come per legge);

d) dispone la distrazione delle spese processuali sopra liquidate a favore dell’avv.

Costantino Francesco Baffa che si è dichiarato antistatario;

e) condanna, infine, la Generali Italia S.p.A. a manlevare il dr. Ravallese

Ferdinando da quanto questi sarà chiamato a pagare in esecuzione della presente

sentenza nei limiti del massimale fissato nella polizza sottoscritta e tenendo conto

di quanto già versato dalla stessa Compagnia per il medesimo titolo; compensando

integralmente le spese dei vari gradi nel rapporto Ravallese/Generali Italia S.p.A..

Così decisa in Roma nella camera di consiglio del 24.01.2017.

Il Presidente est.

(dr. Giuseppe Lo Sinno)

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