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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti storici, persone

o luoghi reali è usato in maniera fittizia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono

il frutto dell’immaginazione dell’autore, e qualunque analogia con fatti, luoghi o

persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale.

Titolo originale: In Her Wake

Copyright © 2015 by Kathleen Tucker

Originally published by Atria Books, a Division of Simon & Schuster Inc.

Copyright © 2015 by Kathleen Tucker

All rights reserved, including the rights to reproduce this book or portions thereof in

any form whatsoever.

Traduzione dall’inglese di Lucilla Rodinò

Prima edizione ebook: ottobre 2015

© 2015 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-8744-3

www.newtoncompton.com

Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

K.A. Tucker

Prima di incontrarti

Newton Compton editori

A Lia e Sadie.

Che questa non sia mai la vostra storia

Le ho distrutto la vita e sono rimasto intrappolato nella sua scia.

E ora mi rendo conto che è proprio lì il mio posto.

Capitolo 1

26 aprile 2008

«L’ultima e poi ce ne andiamo».

«Starai scherzando, spero». La voce profonda di Derek viaggia sopra il battito

costante della musica house. Consegna una bottiglia di birra vuota a un tizio di

passaggio in cambio di due piene e me ne lancia una. «Cos’è», dice guardando

l’orologio, «appena mezzanotte. E per arrivare ci abbiamo messo un’ora!».

Svito il tappo e bevo una grossa sorsata, il liquido mi rinfresca come una brezza

gelata in un giorno torrido. Anche se siamo ad aprile in Michigan e fuori la

temperatura supera a malapena lo zero, qui dentro si soffoca dal caldo. «Te l’avevo

detto che non volevo fare tardi. Domattina devo mettermi a studiare come un matto

o sono nella merda». Quattro esami in tre giorni. Sono nella merda in ogni caso.

Forse è per questo che stasera le birre Miller scendono giù che è una bellezza. Sono

decisamente più rilassato di quando sono arrivato.

«Sarai a casa entro domattina. Ma fino ad allora…». Lancia un’occhiata al soggiorno

di suo cugino – stipato di ragazzi del college e autoctoni – indugiando su due bionde

che hanno tutta l’aria di frequentare ancora il liceo.

«Se non ce ne andiamo ora, sarò distrutto e lo sai». Non c’è da stupirsi che Derek mi

stia rompendo le palle per restare. Non si perde mai una festa. Di solito dobbiamo

trascinarlo via a forza. Ma stavolta avevo acconsentito solo a guardare la partita di

hockey – dopotutto i Red Wings sono in finale – e non so come siamo arrivati

a questo. Se non fosse il mio ultimo venerdì sera in Michigan, avrei detto subito di

no. «Ma non hai degli esami anche tu?».

Derek fa spallucce, bevendo un’altra sorsata di birra e poi posando gli occhi sulla

mora incuneata nel minuscolo spazio accanto a me sul divano. Michelle, mi pare

abbia detto di chiamarsi. È dolce e carina e la sua coscia mi ha sfiorato un numero di

volte sufficiente a farmi capire che le piaccio. Ma anche se sono ormai passate sei

settimane dall’ultima volta che è venuta a trovarmi Madison e muoio dalla voglia di

farmi una scopata, non mi va di tradire la mia ragazza. Soprattutto per una botta e

via.

Ignoro il sorrisetto idiota di Derek. «Dov’è Sasha?».

Inclina la testa a sinistra. Seguo la direzione che mi indica e vedo il nostro amico

impegnato in uno scontro verbale con un tipo muscoloso che indossa una maglietta

blu dei Wolverines. Le labbra tese si muovono con rapidità. Sono pronto a

scommettere che la loro amabile “chiacchierata” riguarda la nostra partita di tre

mesi fa contro l’altra squadra universitaria di football del Michigan – vinta da noi – e

le cose stanno trascendendo. Di certo non aiuta che Sasha stasera, pur sapendo che

ci saremmo infiltrati nel territorio dell’Università del Michigan, si sia messo la

maglietta con la scritta: «Spartans al comando, Wolverines allo sprofondo».

«Fantastico», mormoro, sollevando dal divano la mia stazza da uno e novanta. La

stanza ondeggia e io incespico leggermente, zigzagando tra gli spazi vuoti.

Nelle ultime quattro ore ho bevuto molto più di quanto mi fossi prefissato.

Cazzo.

Stasera tocca a me guidare.

Allora mi sa che resteremo qui ancora un bel po’. E probabilmente mi sono fottuto

gli esami.

Mi avvicino a Sasha e gli metto la mano sulla spalla, piuttosto saldamente nel caso

debba tirarlo indietro. Sasha non si può certo definire un nano: è più basso di me di

appena un paio di centimetri e grazie a un intenso programma di allenamento fuori

stagione, ha la mia stessa corporatura. È in grado di cavarsela da solo. E chi può

saperlo meglio di me? È da quando portavamo il pannolino che ne combiniamo

insieme di tutti i colori.

«Tutto bene qui?». Osservo il tizio che gli sta di fronte, un ispanico monociglio con la

pelle olivastra e l’espressione minacciosa. Non ricordo di averlo visto in campo, ma

indossiamo tutti i caschi e di solito non perdo tempo a guardare altro che il numero

da eliminare.

Sasha si passa la mano tra gli scarmigliati capelli castani – il cui colore è quasi

identico al mio – ma non mi risponde, con gli occhi fissi sull’altro ragazzo. L’ho già

visto così. Finisce quasi sempre in una scazzottata.

«Sash? La prossima settimana cominciano gli esami», gli rammento. Saranno difficili

anche senza occhi neri e labbra spaccate. Oltretutto, con la spalla in via di guarigione,

non posso farmi coinvolgere in una rissa.

«Sì», biascica, e poi sorride. «Facciamo i bravi. Solo uno scambio di suggerimenti

utili. Le regole basilari, diciamo, tipo come lanciare un cazzo di pallone al tuo

ricevitore».

Mi frappongo tra i due a mo’ di barriera, mentre l’altro fa per avvicinarsi.

Grazie al cielo, proprio in quel momento arriva dalla cucina Rich, il cugino di Derek,

notevolmente grosso anche lui. «Andatevene fuori, non voglio farmi distruggere

casa».

Sasha alza le mani con i palmi in fuori, in segno di resa. «Non c’è bisogno di andare

fuori. Facciamo i bravi». Colpendo amichevolmente la mano a Rich, mi tira via, non

senza voltare la testa e ammiccare a Monociglio.

Scuoto la testa ridacchiando. «Sei proprio uno stronzo». Quando hai vissuto porta a

porta con un tizio per diciotto anni, ci hai condiviso puck da hockey, nasi ammaccati

e confidenze sulle scopate con le ragazze di scuola, puoi permetterti di dire cose del

genere senza alcuna conseguenza.

Sasha è il fratello che non ho mai avuto.

Quel suo sorriso idiota non è scomparso. «Lo so. E mi sa che ci conviene alzare il

culo da qui perché con quello stronzo ho davvero esagerato. Tra un po’ mi prenderà

a pugni. È sicuramente quello che farei io se fossi in lui».

«Spiacente, caro. Dobbiamo restarcene ancora un po’ qui. Ho perso il conto delle

birre». È una bella rottura. Vorrei davvero tornarmene a casa. Forse Rich conosce

qualche ragazza ancora sobria da cui può andare Sash. Forse…

«Guido io», propone Sasha.

«Sul serio? Sei in grado?». Questo sì che renderebbe tutto più semplice.

«Certo. È un’ora che tracanno acqua. Anche io ho gli esami».

Mi rilasso per il sollievo.

«Dài». Indica con la testa la porta e tende la mano. «Andiamo».

«Va bene». Estraggo dalla tasca dei jeans le chiavi della mia Suburban. In realtà è

il suv di mio padre. Durante le vacanze di primavera ci siamo scambiati le auto in

modo che quando tornerò a casa per l’estate potrò caricare l’essenziale.

Le lancio a Sasha.

Deve tuffarsi per acchiapparle e muove qualche rapido passo per rimettersi in

equilibrio e raddrizzarsi. «Già dimenticato come si lancia?», mormora con un sorriso.

«Resta per i corsi estivi!». Sasha ingrana la quarta mentre dinanzi a noi si allunga il

rettifilo buio e silenzioso verso Lansing e il nostro appartamento vicino al campus. È

ancora incazzato perché me ne tornerò a Rochester fino a luglio. Quando gliel’ho

detto, non mi ha parlato per due giorni.

Saremmo dovuti restare a Lansing, ma poi nell’ultima partita mi sono strappato la

cuffia dei rotatori e mi sono dovuto operare durante le vacanze di primavera e sono

fuori gioco per il prossimo futuro. Forse per sempre.

Sotto sotto, sono contento di tornare a casa per un po’. Sono ancora più contento di

non dover spingere slitte in salita e correre i cento metri ogni giorno alle sei del

mattino. Per quanto sia un bravo giocatore – e lo sono, altrimenti non sarei mai

approdato a una squadra come gli Spartans – non ho particolari ambizioni che mi

spingano ad andare oltre il campionato universitario.

Però, io e Sasha non siamo mai stati separati per più di una settimana.

«No… Madison mi ammazzerebbe se ora cambiassi idea». Appoggio la testa che gira

al poggiatesta e chiudo gli occhi. Potrei quasi addormentarmi qui. Forse dopotutto,

riuscirò a farmi una notte quasi decente di sonno.

«Può venire a trovarti», brontola Sasha.

Dal sedile posteriore, Derek erompe in una grassa risata. «Non vorrai startene sul

serio a sentire Cole che si tromba la tua sorellina nella camera accanto?»

«Chiudi quella cazzo di bocca, Maynard». Apro un occhio e vedo le nocche di Sasha

bianche sul volante. C’è voluto quasi un anno perché si abituasse all’idea di me e

Madison. Dopo quattro anni, ancora s’innervosisce quando qualcuno accenna alle

scopate di sua sorella.

«È solo per qualche mese, fratello. Tornerò in men che non si dica», dico, cercando

di placare l’ira di Sasha.

«Be’, io se non altro sarò felice come un maiale nella merda quando te ne sarai

andato», annuncia Derek. Quando l’ho detto ai ragazzi, Derek ha colto al volo

l’occasione per prendersi la mia stanza. Abita con i genitori in una casetta poco fuori

Lansing e, anche se i suoi sono carini, non lo biasimo per voler avere un po’ di spazio

per sé.

Conosco Derek più o meno da quanto conosco Sasha. La famiglia di Derek per alcuni

anni ha vissuto con i nonni a tre porte da casa nostra, mentre il padre di Derek

cercava di mantenere il lavoro nella ditta informatica in fallimento. Dicono che mia

madre sia andata a salutarli – con un apple pie in mano e me aggrappato a una

gamba – e Derek ci abbia accolto con un abitino a pois rosa. Scelto proprio da lui.

Non me lo ricordo, ma vi assicuro che io e Sasha l’abbiamo preso in giro per anni.

Anzi, mi sorprende che abbia mantenuto i contatti con noi dopo che si sono trasferiti

a Lansing.

Ridacchio. «Serviti pure, ma lasciala pulita».

«Sei proprio sicuro, Cole?», ridacchia a sua volta Sasha. «Hai visto cosa raccatta».

«Ehi dico…». Il tono indignato di Derek non fa che istigare Sasha.

«Come si chiamava l’ultima? Tia? Ria?»

«Sia».

«Sia», fa eco Sasha. «Quella squinzia era…».

Ciao, mi chiamo Tara. Sono un paramedico. Riesci a sentirmi? Hai avuto un

incidente. Siamo qui per aiutarti.

Ciao, mi chiamo Tara. Sono un paramedico. Riesci a sentirmi? Hai avuto un

incidente. Siamo qui per aiutarti.

«Ciao, mi chiamo Tara. Sono un…».

«Cosa?». Quell’unica parola mi gratta la gola. Apro gli occhi e vedo il cielo buio

sopra di me, con la visione periferica luci rosse e blu intermittenti. Il suono di sirene,

lontane e vicine, mi assale le orecchie.

Tantissime sirene.

Una donna è china su di me. Mi guarda negli occhi e parla con tono tranquillo.

«Ciao, sono Tara. Sono un paramedico. Hai avuto un incidente. Andrà tutto bene.

Puoi dirmi come ti chiami?».

Mi sforzo di comprendere le sue parole. «Cole». Inghiottire mi fa male.

C’è qualcun altro che mi sta accovacciato accanto. Cerco di voltare la testa per

vedere chi è, per capire cosa sta succedendo.

Ma non riesco a voltarmi.

«Resta fermo, Cole», dice Tara mentre qualcosa mi stringe il mento. È allora che

noto il tutore rigido che ho attorno al collo.

«Che è successo?»

«Hai avuto un incidente, ma non preoccuparti. Ti portiamo immediatamente in

ospedale». Alle mie spalle, si sente d’improvviso la sirena assordante di

un’ambulanza e uno stridio di freni.

«È grave?». Oltre al dolore al collo, non riesco a sentire molto altro.

«Dobbiamo solo terminare di bloccarti il collo per precauzione», mi spiega, senza

rispondere alla mia domanda, mentre l’altra persona mi stringe una cinghia sulla

fronte.

Macchina.

Ero in macchina.

Con chi ero in…

Sasha.

Derek.

«Dove sono gli altri?». Muovo gli occhi, prima a sinistra e poi a destra, ma non riesco

a vedere niente. «Dove sono i miei amici?»

«Ci stiamo occupando di tutti, Cole. Sai in che mese siamo?».

La prossima settimana ci sono gli esami. Sì, devo rientrare per gli esami. «Aprile».

«Bene. Chi è il presidente del nostro Paese, Cole?»

«Bush».

«E quanti anni hai, Cole?».

Ripete in continuazione il mio nome. Perché lo fa? «Venti. Ventuno a dicembre».

L’altro paramedico finisce con le cinghie. Le mani, che, senza che me ne rendessi

conto, mi sorreggevano la testa, spariscono e Tara mi rivolge un sorriso triste.

«Ricordi dov’eri stasera?»

«A una festa. A casa di Rich». Faccio una pausa. «Dov’è Derek? E Sasha?».

«Sul posto ci sono diversi paramedici. Ci stiamo occupando di tutti». Chiama

qualcuno. «Possiamo portarlo via da qui?».

Un brusco “sì” di risposta e d’improvviso mi muovo. Mi circondano da ogni lato voci

basse e diverse luci d’emergenza. Roteo gli occhi – l’unica parte della testa che posso

muovere oltre alla bocca – per cercare di vedere qualcosa. Qualsiasi cosa. Ma le

cinghie mi bloccano.

«I miei amici li portano nello stesso ospedale?»

«Avranno le migliori cure possibili», dice Tara, salendo dietro con me. Ancora una

volta, non ha risposto alla mia domanda.

Mentre gli sportelli dell’ambulanza si stanno chiudendo, sento una voce gracchiare

da una radio della polizia nelle vicinanze.

Prima che venga chiusa la sicura, riesco a captare: «Deceduto durante il trasporto».

Capitolo 2

Macchie marroni sulle piastrelle del soffitto.

È questa la prima cosa che vedo.

Il volto di mia madre, con le mani giunte e premute contro le labbra come se

pregasse, è la seconda.

«Cole, tesoro?». Si raddrizza sulla sedia e sgrana leggermente gli occhi. Ha i capelli

biondi sciolti che le ricadono attorno al viso. Sono anni che non glieli vedo così

scomposti in pubblico.

Batto le palpebre per snebbiarmi la vista e mi guardo intorno. Pareti bianche e

tende azzurre. Semplici lenzuola in flanella bianca a righine blu. Macchinari… Mi

trovo in una stanza di ospedale, questo è chiaro. Ma non ricordo di esserci arrivato.

So però che il dolore mi sta uccidendo. Mi hanno preso a calci sul petto? Ogni

respiro mi fa talmente male che ho voglia di trattenere il successivo. Se giro

leggermente il collo mi arrivano terribili ondate di dolore in tutta la parte destra.

Probabilmente c’entra questo sospensore che mi regge il braccio.

«Carter, si è svegliato!», grida la mamma mentre una mano fredda mi stringe le dita.

Uno scalpiccio sul pavimento e da dietro la tenda compare alle sue spalle mio padre,

nella sua vecchia felpa con la scritta “Stanford Law” tutta spiegazzata e con una

macchia di caffè in bella mostra sul davanti.

Le occhiaie violacee sotto i loro occhi mi dicono che non dormono da un bel po’.

«Cos’è successo?». Ho la gola troppo secca per poter parlare. Comincio a tossire e

faccio una smorfia per il dolore alla spalla. Anche fare le smorfie fa male.

«Tieni, Cole. Bevi un po’ d’acqua». Mia madre mi avvicina una tazza alle labbra. «A

piccoli sorsi per ora».

Mio padre non perde tempo e pigia il bottone rosso sulla sbarra del letto. «I dottori

ti daranno qualcosa contro il dolore».

Faccio dei brevi respiri e riprovo: «Cos’è successo?».

Si scambiano un’occhiata, e poi mio padre deglutisce a fatica e il pomo d’Adamo gli

sobbalza. «Hai avuto un incidente».

«Sì». Ora ricordo il paramedico. È quello che mi ripeteva in continuazione. Hai avuto

un incidente. Siamo qui per aiutarti. Il puzzle comincia a ricomporsi. La festa, il

ritorno a casa in macchina…

«Andrà tutto bene, Cole». Mia madre mi stringe le dita. «Hai qualche contusione e

qualche osso rotto, ma andrà tutto bene. Solo qualche giorno qui e poi potremo

portarti a casa». Ripete in un bisbiglio. «Andrà tutto bene». Non so se sta

rassicurando me o se stessa, visto che ha gli occhi gonfi di lacrime.

Stringo i denti per il dolore, piego la testa a sinistra e vedo un letto vuoto. «Dov’è

Sasha? Avrebbero dovuto metterci vicini». L’ultima volta che sono stato ricoverato

avevo undici anni. Io e Sasha avevamo deciso di correre con le nostre bici bmx per il

campo crivellato di buche di un vicino. Siamo finiti ingessati in stanza assieme. Non

abbiamo mai fatto niente separati.

La porta si apre ed entra un’infermiera in divisa colorata, che fa il giro attorno al

letto. «Come sta il nostro paziente?», chiede, concentrata sul trespolo della flebo

accanto al letto, controllando una miriade di sacche e staccando e riattaccando

tubicini.

«Sente molto dolore», risponde per me mia madre, mentre entra un tipo basso con

una calvizie incipiente e uno stetoscopio attorno al collo. Solleva una cartella appesa

ai piedi del letto. «Salve. Sono il dottor Stoult. E tu sei Cole Reynolds… vent’anni…

incidente automobilistico». Alza un foglio per esaminare le informazioni e

familiarizzare con me. «Come ti senti, Cole?»

«Di merda».

In una situazione normale, la mamma mi avrebbe rimproverato. Ora, si limita a

tenermi la mano come se avesse paura di lasciarla.

«È normale. Gli airbag ti hanno spezzato tre costole e provocato gravi contusioni sul

lato sinistro del busto e della faccia. Hai la clavicola rotta…», per chiarire meglio mi

indica il collo, poi torna alla cartella. «Hai subito anche una leggera commozione

cerebrale. Verosimilmente per aver sbattuto la testa contro lo sportello del

passeggero».

«È per questo che mi fa così male la testa?». Per via del resto, fino a questo

momento non avevo notato la sorda pulsazione alla nuca. È micidiale.

«Probabile. Avevi anche parecchio alcol nel sangue, quindi potrebbe anche essere

effetto della disidratazione. Ti somministreremo molti liquidi». Riappendendo la

cartella all’estremità del letto, il dottor Stoult estrae una sottile torcia. Mia madre è

costretta a lasciarmi la mano e a ritirarsi dietro la tenda.

«Le fratture alla clavicola per guarire possono impiegare oltre dodici settimane. Ti

raccomando di tenere il più a lungo possibile il sospensore». Mi appoggia al petto lo

stetoscopio.

«Dove sono i due ragazzi arrivati insieme a me?»

«Cerca di fare un respiro profondo», ordina lui.

Obbedisco e mi esce un lamento. Sistemandomi le bende, il dottore fa un cenno

all’infermiera, che in fretta regola qualcosa nella flebo. «Non c’è molto che possiamo

fare per te, se non aiutarti a stare un po’ meglio. Aumenteremo gli antidolorifici e ti

daremo un sedativo per aiutarti a dormire».

«Può dirmi dove sono i miei amici?»

«Cercherò di informarmi, okay?». Spalanca la tenda ed esce dalla stanza prima che

possa dire “Grazie, dottore”.

La mamma si precipita nuovamente sulla sua sedia, riafferrandomi la mano e

scostandomi i capelli dalla fronte. «Quanto ci vuole perché faccia effetto il

sedativo?», chiede all’infermiera.

«Pochissimo». Prima di uscire dalla stanza, l’infermiera mi rivolge un sorriso a labbra

strette, proprio mentre le medicine cominciano a operare la loro magia e mi sento il

corpo sprofondare nel materasso.

«Papà? Puoi scoprire dove sta Sasha?», pronuncio a fatica con la lingua impastata.

«Il dottore probabilmente l’ha già dimenticato».

La mia richiesta è accolta dal silenzio.

Lotto contro la forza magnetica delle palpebre e intravedo due volti distorti dal

dolore. Le guance di mia madre si rigano di lacrime. Mio padre abbassa la testa, con

gli occhi lucidi.

Senza che dicano una sola parola, sento la risposta.

Mi sfugge un singhiozzo, anche se mi sento scivolare in uno stato di incoscienza.

Ma ho il tempo di rendermi conto che la mia vita non sarà mai più la stessa.

Capitolo 3

Il dolore che mi opprime il petto adesso ha poco a che fare con le contusioni.

E mi soffoca.

Quando sono rinvenuto l’orologio appeso alla parete di fronte segnava le 15:05.

Sono ormai quasi venti minuti che guardo muoversi scatto dopo scatto la lancetta dei

minuti.

Senza dire una sola parola.

I miei migliori amici sono morti da quasi trentasei ore.

Mentre dormivo, mia madre si è cambiata: ora al posto della maglia bianca ne

indossa una verde e alle occhiaie scure sotto gli occhi ha aggiunto guance rigate di

lacrime. «Cole. Ti prego, di’ qualcosa», mi implora. Non ha mai amato i lunghi silenzi,

ha sempre preferito “tirar fuori le cose”. In questo ho preso da lei e perciò il mio

silenzio è ancora più inquietante. Mio padre, invece, si accontenta di stare seduto

alle sue spalle sul letto vuoto, con le braccia conserte, la faccia tirata. Muto.

«Cos’è successo?».

Mia madre si schiarisce ripetutamente la gola. «Sono stati catapultati fuori dal

veicolo». Una pausa. «Non capisco perché non avessero la cintura. Quante volte ve

l’abbiamo detto? Proprio non…». S’interrompe quando mio padre le appoggia la

mano sulla spalla. Stringe le labbra per un momento come per ricomporsi, prima di

continuare. «Da quello che abbiamo saputo finora, sono morti sul colpo. È… è

qualcosa, almeno». Le scappa un singhiozzo e si copre la bocca.

Alla base della gola mi si forma un nodo strettissimo.

Fine dell'estratto Kindle.

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