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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: LettereAUTORE: Seneca, Lucius AnnaeusTRADUTTORE: Caro, AnnibaleCURATORE: Dalmistro, AngeloNOTE:

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828101499

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: [elaborazione da] "La muerte de Séneca"(1871) di Manuel Domínguez Sánchez - Museo del Pra-do, Madrid - https://it.wikipedia.org/wiki/File:Ma-nuel_Dom%C3%ADnguez_S%C3%A1nchez_-_El_suicidio_de_S%C3%A9neca.jpg - Pubblico Dominio.

TRATTO DA: Lettere di L. Anneo Seneca recate in ita-liano dal commendatore Annibal Caro e per la primavolta pubblicate nelle nozze Michiel e Pisani. - InVinegia : dalla Tipografia Palesiana, 1802. - xxiv,LXXVII, [3] p. : ill. ; 8o.

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TITOLO: LettereAUTORE: Seneca, Lucius AnnaeusTRADUTTORE: Caro, AnnibaleCURATORE: Dalmistro, AngeloNOTE:

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828101499

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: [elaborazione da] "La muerte de Séneca"(1871) di Manuel Domínguez Sánchez - Museo del Pra-do, Madrid - https://it.wikipedia.org/wiki/File:Ma-nuel_Dom%C3%ADnguez_S%C3%A1nchez_-_El_suicidio_de_S%C3%A9neca.jpg - Pubblico Dominio.

TRATTO DA: Lettere di L. Anneo Seneca recate in ita-liano dal commendatore Annibal Caro e per la primavolta pubblicate nelle nozze Michiel e Pisani. - InVinegia : dalla Tipografia Palesiana, 1802. - xxiv,LXXVII, [3] p. : ill. ; 8o.

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CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 27 gennaio 20092a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 6 luglio 2017

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:PHI000000 FILOSOFIA / Generale

DIGITALIZZAZIONE:Alberto Mello, [email protected]

REVISIONE:Sandra Zanatta, [email protected] Santamaria

IMPAGINAZIONE:Alberto Mello, [email protected] Rosa, [email protected] (ePub)Rosario Di Mauro (revisione ePub)

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected] Santamaria

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SOGGETTO:PHI000000 FILOSOFIA / Generale

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IMPAGINAZIONE:Alberto Mello, [email protected] Rosa, [email protected] (ePub)Rosario Di Mauro (revisione ePub)

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Liber Liber

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4LETTERE.......................................................................6

Alle loro eccellenze....................................................7Discorso preliminare dell’Editore.............................11

Lettera I................................................................21Lettera II...............................................................25Lettera III..............................................................37Lettera IV..............................................................46Lettera V...............................................................53Lettera VI..............................................................56Lettera VII............................................................59Lettera VIII...........................................................64Lettera IX..............................................................75Lettera X...............................................................80Lettera XI..............................................................84

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4LETTERE.......................................................................6

Alle loro eccellenze....................................................7Discorso preliminare dell’Editore.............................11

Lettera I................................................................21Lettera II...............................................................25Lettera III..............................................................37Lettera IV..............................................................46Lettera V...............................................................53Lettera VI..............................................................56Lettera VII............................................................59Lettera VIII...........................................................64Lettera IX..............................................................75Lettera X...............................................................80Lettera XI..............................................................84

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LETTERE

diL. ANNÉO SENECA

recate in italianodal commendatoreANNIBAL CARO

e per la prima volta pubblicateNELLE NOZZE

MICHIEL E PISANI.

IN VINEGIAdalla tipografia palesiana

MDCCCII.con licenza de’ superiori.

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LETTERE

diL. ANNÉO SENECA

recate in italianodal commendatoreANNIBAL CARO

e per la prima volta pubblicateNELLE NOZZE

MICHIEL E PISANI.

IN VINEGIAdalla tipografia palesiana

MDCCCII.con licenza de’ superiori.

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ALLE LORO ECCELLENZE

CARLO MICHIELE

CATERINA PISANI

___*****___

FRANCESCO PISANIE

MADDALENA MICHIEL.

Bene impertanto e saggiamente adoperarono in questiultimi tempi quegli uomini, i quali a’ soliti ammassi dirime, che Raccolte s’appellano, l’edizione sostituironodi alcuni Opuscoli o inediti, o, comechè altra voltastampati, renduti rarissimi: della qual cosa nel paesenostro ci porse un luminoso esempio, tra gli altri, ilChiariss. Ab. Morelli, ch’io nomino volentieri per ca-gion d’onore. E’ pare esser venuto il tempo di togliereal tutto di mezzo l’inveterato uso, pessimo già diventa-to, di biscantare per checcessia; mentre accade talorache quei medesimi, a loda de’ quali tesseansi Sonetti abizzeffe e Madriali e Canzoni, ricusino oggidì l’obbla-zione di tali insipide cantilene, che accomunavanli conun numero immenso di dissennati e superbi, andanti acaccia di plausi. Di fatti qual più ridicola costumanzadella già invalsa tra noi di pregare, ed anco di pagar

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ALLE LORO ECCELLENZE

CARLO MICHIELE

CATERINA PISANI

___*****___

FRANCESCO PISANIE

MADDALENA MICHIEL.

Bene impertanto e saggiamente adoperarono in questiultimi tempi quegli uomini, i quali a’ soliti ammassi dirime, che Raccolte s’appellano, l’edizione sostituironodi alcuni Opuscoli o inediti, o, comechè altra voltastampati, renduti rarissimi: della qual cosa nel paesenostro ci porse un luminoso esempio, tra gli altri, ilChiariss. Ab. Morelli, ch’io nomino volentieri per ca-gion d’onore. E’ pare esser venuto il tempo di togliereal tutto di mezzo l’inveterato uso, pessimo già diventa-to, di biscantare per checcessia; mentre accade talorache quei medesimi, a loda de’ quali tesseansi Sonetti abizzeffe e Madriali e Canzoni, ricusino oggidì l’obbla-zione di tali insipide cantilene, che accomunavanli conun numero immenso di dissennati e superbi, andanti acaccia di plausi. Di fatti qual più ridicola costumanzadella già invalsa tra noi di pregare, ed anco di pagar

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gente, che strimpelli un colascion posto a prezzo, persentirsi grattato soavemente l’orecchio dal suono dellelaudi propie? Dolce, nol niego, è l’armonia de’ versi,quando sieno ben temprati alla faticosa incudine; mapiù dolce riesce d’assai, quando offerti vengano sponta-neamente da un cuor sincero, poichè gli encomj, cheaccattansi eziandio presso i gran Poeti, tornano biasmi,e creano vitupero, anzi che gloria, sempre che non giun-gasi a meritarli. Ma siccome del propio merito nissunoesser puote giudice competente, e siccome un uom mo-desto rifugge dal credersi da più degli altri, e sdegnad’ascoltare le mellite voci degli assentatori non solo,ma quelle eziandio de’ candidi lodatori, nè punto inva-nisce per quanti gli si tessano panegirici; debbesi dallato nostro chiuder l’entrata nel campo delle nostrelodi, e non già altrui invitar follemente ad entrarvi.Voi sì che la conoscete una sì fatta verità, ECCELLEN-TISSIMI SPOSI, i quali a me vago di mettere insiemeper le applaudite vostre felicissime nozze alcune sceltecomposizioni de’ migliori Italici Cigni, le quali, lungidal confondersi colle vulgari Raccolte, degne fusserodel cedro e del minio, proibiste severamente di farlo,acconsentendo unicamente ch’io (per secondare inqualche guisa il corrente andazzo, che nelle nuziali ce-lebrità vuol che s’abbiano non solo a sgretolar candìtia josa, ma a scorrer anco con rapid’occhio curiosogentilmente legato uno di que’ volumi preziosi, de’ qualipiù sopra parlai) imprimer facessi un libro, che sututt’altro, che sovra le vostre qualitadi e le virtù vostre

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gente, che strimpelli un colascion posto a prezzo, persentirsi grattato soavemente l’orecchio dal suono dellelaudi propie? Dolce, nol niego, è l’armonia de’ versi,quando sieno ben temprati alla faticosa incudine; mapiù dolce riesce d’assai, quando offerti vengano sponta-neamente da un cuor sincero, poichè gli encomj, cheaccattansi eziandio presso i gran Poeti, tornano biasmi,e creano vitupero, anzi che gloria, sempre che non giun-gasi a meritarli. Ma siccome del propio merito nissunoesser puote giudice competente, e siccome un uom mo-desto rifugge dal credersi da più degli altri, e sdegnad’ascoltare le mellite voci degli assentatori non solo,ma quelle eziandio de’ candidi lodatori, nè punto inva-nisce per quanti gli si tessano panegirici; debbesi dallato nostro chiuder l’entrata nel campo delle nostrelodi, e non già altrui invitar follemente ad entrarvi.Voi sì che la conoscete una sì fatta verità, ECCELLEN-TISSIMI SPOSI, i quali a me vago di mettere insiemeper le applaudite vostre felicissime nozze alcune sceltecomposizioni de’ migliori Italici Cigni, le quali, lungidal confondersi colle vulgari Raccolte, degne fusserodel cedro e del minio, proibiste severamente di farlo,acconsentendo unicamente ch’io (per secondare inqualche guisa il corrente andazzo, che nelle nuziali ce-lebrità vuol che s’abbiano non solo a sgretolar candìtia josa, ma a scorrer anco con rapid’occhio curiosogentilmente legato uno di que’ volumi preziosi, de’ qualipiù sopra parlai) imprimer facessi un libro, che sututt’altro, che sovra le vostre qualitadi e le virtù vostre

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versasse. Ammirabil modestia ella si è questa, e d’imi-tazione degnissima, della quale, finchè sia in pregio, elo sarà sempre, la classica version delle Lettere, chestampate v’offero colla più rispettosa devozione nel vo-lume presente, durerà la ricordanza. A tale insigne vir-tù, che l’ultima certo non è dell’altre molte, ond’iteadorni, reputerassi debitrice l’Italia d’un tesoretto infatto del suo gentile idioma, che stette finora ascoso; eve ne sapran buon grado tutti gli amatori dell’amenaletteratura, come professerebbevisi grata per simil ser-vigio, ove tuttora esistesse, quell’illustrissima Accade-mia, che abburattava le tosche voci, e il più bel fior necogliea. Non vi sien pertanto disgradevoli, o SPOSIECCELLENTISSIMI, le attente cure da me usate intor-no a un’opera, la cui pubblicazione, comechè picciolaella siasi di mole, riuscita sarebbe impossibile, quandocon men che paziente mano stata fosse assistita. Possoassicurarvi d’essermi con tutto l’ impegno occupato,ond’essa la luce vedesse del Pubblico, che l’aspetta, ve-stita d’un abito alla odierna pompa non disdicevole. Hocercato che nitida ne fusse la stampa, ed esatta la cor-rezione, e spero d’avere in ambe queste cose il mio in-tento ottenuto. Quand’io abbia la sorte di veder, se noncommendata, compatita almeno da Voi, a’ quali da meconsecrata viene, la mia qualunque fatica, reputerommiun avventuroso uomo quant’altri mai. Qui mi si apri-rebbe l’adito a discorrere delle belle prerogative, cheadornano Voi tutti insieme, e ciaschedun di Voi in parti-colare. Che non potrei dire senz’ombra di menzogna di

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versasse. Ammirabil modestia ella si è questa, e d’imi-tazione degnissima, della quale, finchè sia in pregio, elo sarà sempre, la classica version delle Lettere, chestampate v’offero colla più rispettosa devozione nel vo-lume presente, durerà la ricordanza. A tale insigne vir-tù, che l’ultima certo non è dell’altre molte, ond’iteadorni, reputerassi debitrice l’Italia d’un tesoretto infatto del suo gentile idioma, che stette finora ascoso; eve ne sapran buon grado tutti gli amatori dell’amenaletteratura, come professerebbevisi grata per simil ser-vigio, ove tuttora esistesse, quell’illustrissima Accade-mia, che abburattava le tosche voci, e il più bel fior necogliea. Non vi sien pertanto disgradevoli, o SPOSIECCELLENTISSIMI, le attente cure da me usate intor-no a un’opera, la cui pubblicazione, comechè picciolaella siasi di mole, riuscita sarebbe impossibile, quandocon men che paziente mano stata fosse assistita. Possoassicurarvi d’essermi con tutto l’ impegno occupato,ond’essa la luce vedesse del Pubblico, che l’aspetta, ve-stita d’un abito alla odierna pompa non disdicevole. Hocercato che nitida ne fusse la stampa, ed esatta la cor-rezione, e spero d’avere in ambe queste cose il mio in-tento ottenuto. Quand’io abbia la sorte di veder, se noncommendata, compatita almeno da Voi, a’ quali da meconsecrata viene, la mia qualunque fatica, reputerommiun avventuroso uomo quant’altri mai. Qui mi si apri-rebbe l’adito a discorrere delle belle prerogative, cheadornano Voi tutti insieme, e ciaschedun di Voi in parti-colare. Che non potrei dire senz’ombra di menzogna di

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Voi, che delle vetustissime, non meno che nobilissimeFamiglie vostre, che finalmente de’ vostri respettiviMaggiori tanto, e tanto a ragione famigerati! Ma quellamodestia, che m’impedì di cogliere poesie lodatrici del-le distinte doti che fregianvi a dovizia, quella disdegnaanco ch’io le commendi e magnifichi in isciolta orazio-ne. Mi sia lecito almeno qui su la fine di congratularmivivissimamente con essovoi de’ bei vostri nodi, che pos-son ben credersi, per valermi d’un’espressione poetica,orditi in Cielo, se vi riempiono a vicenda di quell’inef-fabil contento, che chiaro su le serene fronti vi si appa-lesa e traspare. Da vincoli sì fausti e sì bene stretti ioposso a Voi presagire un tenor di vita pacatissima etranquilla per inalterabile felicità, e posso del par pre-sagirvi generosa prole, erede dell’indole aureadegl’integri costumi, e delle morali e sociali vostre vir-tù. Oh! S’avveri un presagio, che l’interna esultazione,ch’io provo vedendo Voi giunti a riva de’ vostri fervidivoti, a formare m’induce. Sono dell’E. E. V. V. colla più profonda venerazione

Vinegia 30 Agosto 1802.

Umiliss. Devot. Obbl. Serv.Angelo Dalmistro.

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Voi, che delle vetustissime, non meno che nobilissimeFamiglie vostre, che finalmente de’ vostri respettiviMaggiori tanto, e tanto a ragione famigerati! Ma quellamodestia, che m’impedì di cogliere poesie lodatrici del-le distinte doti che fregianvi a dovizia, quella disdegnaanco ch’io le commendi e magnifichi in isciolta orazio-ne. Mi sia lecito almeno qui su la fine di congratularmivivissimamente con essovoi de’ bei vostri nodi, che pos-son ben credersi, per valermi d’un’espressione poetica,orditi in Cielo, se vi riempiono a vicenda di quell’inef-fabil contento, che chiaro su le serene fronti vi si appa-lesa e traspare. Da vincoli sì fausti e sì bene stretti ioposso a Voi presagire un tenor di vita pacatissima etranquilla per inalterabile felicità, e posso del par pre-sagirvi generosa prole, erede dell’indole aureadegl’integri costumi, e delle morali e sociali vostre vir-tù. Oh! S’avveri un presagio, che l’interna esultazione,ch’io provo vedendo Voi giunti a riva de’ vostri fervidivoti, a formare m’induce. Sono dell’E. E. V. V. colla più profonda venerazione

Vinegia 30 Agosto 1802.

Umiliss. Devot. Obbl. Serv.Angelo Dalmistro.

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DISCORSO PRELIMINAREDELL’EDITORE.

Chi allo studio della lingua nostra s’è dato, o vi si dà diproposito, niun libro prende in mano più volentieri diquelli, che scritti sono con purità, e gentilezza di stile.Costui delle opere più pregiate per la sublimità de’ pen-sieri, onde son concepute, e per le peregrine cose checontengonsi in esse, o non fa verun conto, o fanne poco,ove inelegante siane la locuzione. Per lo contrario nonlegge no, ma divora egli avidamente quelle, che sparsevanno d’una cotal dolcezza deliziosa di voci, d’una co-tal leggiadria e proprietà di traslati e di maniere vive,nobili, spiccate dal fondo della natura e della sostanzadelle cose, che voglionsi significare: nel che sta il mara-viglioso carattere d’una lingua, che se tutte le morte nongiunge a superare, non la cede al certo in bellezza e innobiltà a veruna delle viventi. Hansi quindi marcio tortocoloro tra’ nostri, i quali s’avvisano di trovar nelle stra-niere, che più comunemente conosconsi alla giornata,certi impareggiabili pregi, e certe squisitezze, e certo le-nocinio, di cui esser contendono scevera quasi affattol’italiana favella. Ciò procede per avventura dalla niuna,o scarsa cognizione che si ha di quest’ultima, la qualedovrebbesi per noi possedere in tutta la sua estensione,siccome quella, che, per esser la nostra, obbligati siamdi sapere perfettamente, attenendosi nell’impararla alleregole, e agli esempli che ne lasciarono i più forbiti

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DISCORSO PRELIMINAREDELL’EDITORE.

Chi allo studio della lingua nostra s’è dato, o vi si dà diproposito, niun libro prende in mano più volentieri diquelli, che scritti sono con purità, e gentilezza di stile.Costui delle opere più pregiate per la sublimità de’ pen-sieri, onde son concepute, e per le peregrine cose checontengonsi in esse, o non fa verun conto, o fanne poco,ove inelegante siane la locuzione. Per lo contrario nonlegge no, ma divora egli avidamente quelle, che sparsevanno d’una cotal dolcezza deliziosa di voci, d’una co-tal leggiadria e proprietà di traslati e di maniere vive,nobili, spiccate dal fondo della natura e della sostanzadelle cose, che voglionsi significare: nel che sta il mara-viglioso carattere d’una lingua, che se tutte le morte nongiunge a superare, non la cede al certo in bellezza e innobiltà a veruna delle viventi. Hansi quindi marcio tortocoloro tra’ nostri, i quali s’avvisano di trovar nelle stra-niere, che più comunemente conosconsi alla giornata,certi impareggiabili pregi, e certe squisitezze, e certo le-nocinio, di cui esser contendono scevera quasi affattol’italiana favella. Ciò procede per avventura dalla niuna,o scarsa cognizione che si ha di quest’ultima, la qualedovrebbesi per noi possedere in tutta la sua estensione,siccome quella, che, per esser la nostra, obbligati siamdi sapere perfettamente, attenendosi nell’impararla alleregole, e agli esempli che ne lasciarono i più forbiti

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Scrittori antichi e moderni, giacchè de’ moderni molti ven’ha che la maneggiano con avvedimento, e dettano inessa col gusto finissimo del buon secolo. Piena zeppa dinative grazie, di terse frasi, e di purgati e scelti modi didire vivaci immaginosi, che coloriscono ogni scrittura, edanle anima ed evidenza, è del par fluida, quasi fonte diperenne vena, e di leggieri si accomoda ad esprimerechecchessia con dilettosa eleganza, sol che colui, che ascriverla imprende, non sia tanto ospite nel vastissimodi lei regno. Per la qual cosa ognun vede quanto errativadan coloro, i quali gratuitamente asseriscono non es-ser ella atta granfatto a servir di veste alle scienze piùastruse, come tant’altre lo sono. Questi tali bisogna con-chiudere che letto non abbiano nè l’opere dell’immortalGalilei, nè i Saggi d’Esperienze della celebre Accade-mia del Cimento, nè altre assai opere scientifiche diqueste ancor più vetuste, nelle quali vanno del pari ac-coppiate la gravità delle cose, che vi si trattano, e la ve-nusta chiarezza dello stile, che vi si adopera.Chi sa la lingua nostra fondatamente, non prova grandestento a vestir d’essa i propj concetti, sieno pure elevatie sublimi; siccome chi la ignora quasi al tutto, o in mas-sima parte, trovasi nel maggiore imbroglio a scriverecorrettamente anche una semplice lettera familiare; dellaqual cosa può rendermi ognun testimonianza, che vedequale scrivasi oggidì per tanti e tanti de’ nostri. L’assi-duo studio degli stranieri idiomi, e la poca, o niuna sol-lecitudine, ond’il patrio s’apprende, hanno ingenerato inseno all’Italia stessa un guazzabuglio di parole barbare e

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Scrittori antichi e moderni, giacchè de’ moderni molti ven’ha che la maneggiano con avvedimento, e dettano inessa col gusto finissimo del buon secolo. Piena zeppa dinative grazie, di terse frasi, e di purgati e scelti modi didire vivaci immaginosi, che coloriscono ogni scrittura, edanle anima ed evidenza, è del par fluida, quasi fonte diperenne vena, e di leggieri si accomoda ad esprimerechecchessia con dilettosa eleganza, sol che colui, che ascriverla imprende, non sia tanto ospite nel vastissimodi lei regno. Per la qual cosa ognun vede quanto errativadan coloro, i quali gratuitamente asseriscono non es-ser ella atta granfatto a servir di veste alle scienze piùastruse, come tant’altre lo sono. Questi tali bisogna con-chiudere che letto non abbiano nè l’opere dell’immortalGalilei, nè i Saggi d’Esperienze della celebre Accade-mia del Cimento, nè altre assai opere scientifiche diqueste ancor più vetuste, nelle quali vanno del pari ac-coppiate la gravità delle cose, che vi si trattano, e la ve-nusta chiarezza dello stile, che vi si adopera.Chi sa la lingua nostra fondatamente, non prova grandestento a vestir d’essa i propj concetti, sieno pure elevatie sublimi; siccome chi la ignora quasi al tutto, o in mas-sima parte, trovasi nel maggiore imbroglio a scriverecorrettamente anche una semplice lettera familiare; dellaqual cosa può rendermi ognun testimonianza, che vedequale scrivasi oggidì per tanti e tanti de’ nostri. L’assi-duo studio degli stranieri idiomi, e la poca, o niuna sol-lecitudine, ond’il patrio s’apprende, hanno ingenerato inseno all’Italia stessa un guazzabuglio di parole barbare e

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mostruose, non conosciuto ne’ secoli trascorsi, nè nelpresente tampoco da quegli uomini, che non si scorda-ron d’essere nati italiani, e d’avere una lingua da tenerneil maggior conto per la sua ricchezza, che la mette fuoridella necessità di accattare, ad adornarsene, gemme evezzi dall’altre. Non bastano però a far fronte all’allu-vion ridondante degli scritti franco-italo-irocchesi, chehave soverchiato argini e sponde, quegli in numeromeno spessi, in istile più rari, i quali, sendo parti felicidi gente usa a dettare con buon sapore di lingua vera-mente italica, regger possono al martello d’una sana cri-tica in fatto di ciò; mentre il neologismo, che da granpezza trionfa tra noi pel soverchio favore già ad esso ac-cordato, di fresco più che mai prese forza, e imbandalzìper la sopravvegnenza fatal delle guerre, distruggitricicome dell’altre cose, così della purezza delle respettivefavelle de’ paesi.Insipido omai a’ palati delle italiane menti divenuto èquel soave cibo oggidì, che porto ci viene nell’aureo suoDecamerone dal facondo Novellator Certaldese: insipi-do quello, che ne imbandisce il famoso Secretario Fio-rentino nelle sue svariate scritture, e nel suo stringatovolgarizzamento l’emulo di Tacito il coltissimo Davan-zati, e il Casa ne’ suoi Uffizj e nelle sue Orazioni, e ilVarchi e il Segni nelle loro Storie, e a finirla, passandosotto silenzio infiniti altri prodi Scrittori, il Caro nellesue Lettere. A que’ bennati e gentili ingegni, che non la-sciaronsi affatturare dal calice del neologismo, e che te-nendosi dietro l’orme da’ grandi maestri segnate, non

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mostruose, non conosciuto ne’ secoli trascorsi, nè nelpresente tampoco da quegli uomini, che non si scorda-ron d’essere nati italiani, e d’avere una lingua da tenerneil maggior conto per la sua ricchezza, che la mette fuoridella necessità di accattare, ad adornarsene, gemme evezzi dall’altre. Non bastano però a far fronte all’allu-vion ridondante degli scritti franco-italo-irocchesi, chehave soverchiato argini e sponde, quegli in numeromeno spessi, in istile più rari, i quali, sendo parti felicidi gente usa a dettare con buon sapore di lingua vera-mente italica, regger possono al martello d’una sana cri-tica in fatto di ciò; mentre il neologismo, che da granpezza trionfa tra noi pel soverchio favore già ad esso ac-cordato, di fresco più che mai prese forza, e imbandalzìper la sopravvegnenza fatal delle guerre, distruggitricicome dell’altre cose, così della purezza delle respettivefavelle de’ paesi.Insipido omai a’ palati delle italiane menti divenuto èquel soave cibo oggidì, che porto ci viene nell’aureo suoDecamerone dal facondo Novellator Certaldese: insipi-do quello, che ne imbandisce il famoso Secretario Fio-rentino nelle sue svariate scritture, e nel suo stringatovolgarizzamento l’emulo di Tacito il coltissimo Davan-zati, e il Casa ne’ suoi Uffizj e nelle sue Orazioni, e ilVarchi e il Segni nelle loro Storie, e a finirla, passandosotto silenzio infiniti altri prodi Scrittori, il Caro nellesue Lettere. A que’ bennati e gentili ingegni, che non la-sciaronsi affatturare dal calice del neologismo, e che te-nendosi dietro l’orme da’ grandi maestri segnate, non

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deviaron punto da quelle, sedotti dall’amor del Mirabile;a que’ bennati e gentili ingegni sien grazie, e ne riporti-no la mercè meritata. Senonchè la riporteranno sì, edampia riporteranla, quando, fatta una baldoria ditant’opere vergate nello spurio linguaggio, di cui par-lammo, quelle solamente saranno in pregio, nelle qualiappajata vedrassi alla sodezza delle cose la gioconda ve-nustà della lingua.Io so che alcuni rideranno maligni, e vorrannosi la bertadel fatto mio, perchè con tanta serietà pongomi a ragio-nare del detrimento sofferto dal volgar nostro per letroppo carezzevoli accoglienze usate agli estranei idio-mi, massimamente al francioso, che, per essere di mendifficile apprendimento, si diffuse con più rapidità, chegli altri non fecero, e andò in voga di modo, che resesipressochè universale. Rinverrassi sibbene tra le personesedicentisi di spirito chi mal saprà tessere volgarmenteun periodo, che non zoppichi da qualche parte, ma traloro non si rinverrà chi non sappia, all’uopo, rompere alprossimo suo il timpano dell’orecchio con un turbin fu-rioso di chiacchiere francesche.Se nella Satira VI. Giuvenale mena alto scalpore, e que-rele, perchè in Roma di que’ tempi le patrie usanze, dal-la veneranda antichità consecrate, e il bel sermone delLazio, e gli abiti pur anco e gli adornamenti nazionali daque’ sazievoli e imbastarditi nepoti di Romolo aveansi aschifo per malnata cacoete, che quasi epidemico maloreappiccossi a maschi e a femmine, di grecizzare in tutto,talchè disdicevole e in certa guisa indecente reputata

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deviaron punto da quelle, sedotti dall’amor del Mirabile;a que’ bennati e gentili ingegni sien grazie, e ne riporti-no la mercè meritata. Senonchè la riporteranno sì, edampia riporteranla, quando, fatta una baldoria ditant’opere vergate nello spurio linguaggio, di cui par-lammo, quelle solamente saranno in pregio, nelle qualiappajata vedrassi alla sodezza delle cose la gioconda ve-nustà della lingua.Io so che alcuni rideranno maligni, e vorrannosi la bertadel fatto mio, perchè con tanta serietà pongomi a ragio-nare del detrimento sofferto dal volgar nostro per letroppo carezzevoli accoglienze usate agli estranei idio-mi, massimamente al francioso, che, per essere di mendifficile apprendimento, si diffuse con più rapidità, chegli altri non fecero, e andò in voga di modo, che resesipressochè universale. Rinverrassi sibbene tra le personesedicentisi di spirito chi mal saprà tessere volgarmenteun periodo, che non zoppichi da qualche parte, ma traloro non si rinverrà chi non sappia, all’uopo, rompere alprossimo suo il timpano dell’orecchio con un turbin fu-rioso di chiacchiere francesche.Se nella Satira VI. Giuvenale mena alto scalpore, e que-rele, perchè in Roma di que’ tempi le patrie usanze, dal-la veneranda antichità consecrate, e il bel sermone delLazio, e gli abiti pur anco e gli adornamenti nazionali daque’ sazievoli e imbastarditi nepoti di Romolo aveansi aschifo per malnata cacoete, che quasi epidemico maloreappiccossi a maschi e a femmine, di grecizzare in tutto,talchè disdicevole e in certa guisa indecente reputata

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un’azion’era, che fatta non fusse alla greca: perchè nonpotrò io lamentare a mio beneplacito la foja, onde fatal-mente van sopraffatti tanti di noi, degeneri dagl’Itali pri-schi, non tanto di adottare stranj nel viver usi, e stranienel vestir fogge, quanto di apparare, col sagrifizio dellabellissima nostra, della quale sentono noja, qual la tede-sca, qual l’inghilese, tutti la gallica lingua? Di questa ul-tima ambisce ognuno di mostrarsi intelligente; e, nonche i dotti uomini, e i semidotti, non che le donne, allequali dà grado la nascita, e l’educazione, la parlano, e lascrivono, la fante oggimai, lo staffiere, il cuoco, il botte-gajo, il sarte, tutti fino a’ fanciulletti che ancor si scom-pisciano, fino alle più sdrucite zambracche amano dicincischiarne qualche paj’ di parole.Io non sono sì bestia di prenderlami generalmente con-tra tutti coloro, che la francese favella coltivano, biasi-mando senza pietà chi allo studio di essa dà opera. Conquegl’Italiani la voglio, i quali, siccome parmi aver det-to di sopra, pospongono a quella la lor propia, che nonsi vergognano di non sapere, o di saperla malissimamen-te. Sappia pur uno ogni genere di linguaggio, che ciò glisi attribuirà a loda, ma in ispezieltà il natio non ignori,anzi lo apprenda con solerte cura ed impegno, facendosia conoscerlo per principj, e lontano tenendosi atutt’uomo dalla fanghiglia del neologismo. Ciò otterràdalla indefessa lettura de’ buoni Autori, e dalla pondera-ta e matura meditazione delle lor opere più celebrate,dopo aver consegnate alla memoria, perchè ben le riten-ga, le precipue regole grammaticali, senza cui e’ move-

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un’azion’era, che fatta non fusse alla greca: perchè nonpotrò io lamentare a mio beneplacito la foja, onde fatal-mente van sopraffatti tanti di noi, degeneri dagl’Itali pri-schi, non tanto di adottare stranj nel viver usi, e stranienel vestir fogge, quanto di apparare, col sagrifizio dellabellissima nostra, della quale sentono noja, qual la tede-sca, qual l’inghilese, tutti la gallica lingua? Di questa ul-tima ambisce ognuno di mostrarsi intelligente; e, nonche i dotti uomini, e i semidotti, non che le donne, allequali dà grado la nascita, e l’educazione, la parlano, e lascrivono, la fante oggimai, lo staffiere, il cuoco, il botte-gajo, il sarte, tutti fino a’ fanciulletti che ancor si scom-pisciano, fino alle più sdrucite zambracche amano dicincischiarne qualche paj’ di parole.Io non sono sì bestia di prenderlami generalmente con-tra tutti coloro, che la francese favella coltivano, biasi-mando senza pietà chi allo studio di essa dà opera. Conquegl’Italiani la voglio, i quali, siccome parmi aver det-to di sopra, pospongono a quella la lor propia, che nonsi vergognano di non sapere, o di saperla malissimamen-te. Sappia pur uno ogni genere di linguaggio, che ciò glisi attribuirà a loda, ma in ispezieltà il natio non ignori,anzi lo apprenda con solerte cura ed impegno, facendosia conoscerlo per principj, e lontano tenendosi atutt’uomo dalla fanghiglia del neologismo. Ciò otterràdalla indefessa lettura de’ buoni Autori, e dalla pondera-ta e matura meditazione delle lor opere più celebrate,dopo aver consegnate alla memoria, perchè ben le riten-ga, le precipue regole grammaticali, senza cui e’ move-

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rebbe tentone, ed a caso per lo vasto campo della linguanostra doviziosissima. Non si dia a credere di poter im-padronirsene in pochi mesi, come avvien della Gallica:un’impresa si è questa, al cui intero eseguimento sudarefa duopo per anni ed anni.Ma a qual fine, dirannomi, raggrinzando il naso certi ri-cadiosi frinfini, a’ quali nulla, che non esca del lor cer-vello, par buono, a qual fin per gli Dei vuoi tu pedante-scamente spacciare tanta saccenteria? Se’ forse d’avvisoche le cose che ci narri sien nuove, o non piuttosto chele siensi le mille fiate dette, o scritte per altri? Nonémmi ascoso che altri mi precorsero nell’aringo, e cheper lo motivo stesso, ond’io agramente querelomi, me-nato hanno l’altissimo schiamazzo; ma avendo io granvoglia di rifriggere questa frittata, e di sfogar dal miocanto la bile, che contro i novatori sì fatti mangiamil’interiora, e avendola da un pezzo, non potei rattenermidal darla per mezzo a cotestoro, procacciando così unosfogo al mio sdegno. Nè certo, a farlo, miglior occasio-ne cogliere io potea dell’odierna, in cui (per rispettatocomandamento di due giovani Cavalieri, che nella cele-brazione di lor Nozze rifiutaron l’omaggio di que’ versistucchevoli, che non rifinan mai di esaltar la possanzad’Amore, già fino alla nausea magnificata, e di presagi-re Eroi d’ogni maniera, quasi nascessero come i funghiper le foreste del mio Maséro) debb’io pubblicare a be-nefizio comune degl’Italiani ingegni, del patrio idiomastudiosi, alcune Lettere di Seneca volgarizzate dallamaestra penna del Commendatore Annibal Caro, le qua-

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rebbe tentone, ed a caso per lo vasto campo della linguanostra doviziosissima. Non si dia a credere di poter im-padronirsene in pochi mesi, come avvien della Gallica:un’impresa si è questa, al cui intero eseguimento sudarefa duopo per anni ed anni.Ma a qual fine, dirannomi, raggrinzando il naso certi ri-cadiosi frinfini, a’ quali nulla, che non esca del lor cer-vello, par buono, a qual fin per gli Dei vuoi tu pedante-scamente spacciare tanta saccenteria? Se’ forse d’avvisoche le cose che ci narri sien nuove, o non piuttosto chele siensi le mille fiate dette, o scritte per altri? Nonémmi ascoso che altri mi precorsero nell’aringo, e cheper lo motivo stesso, ond’io agramente querelomi, me-nato hanno l’altissimo schiamazzo; ma avendo io granvoglia di rifriggere questa frittata, e di sfogar dal miocanto la bile, che contro i novatori sì fatti mangiamil’interiora, e avendola da un pezzo, non potei rattenermidal darla per mezzo a cotestoro, procacciando così unosfogo al mio sdegno. Nè certo, a farlo, miglior occasio-ne cogliere io potea dell’odierna, in cui (per rispettatocomandamento di due giovani Cavalieri, che nella cele-brazione di lor Nozze rifiutaron l’omaggio di que’ versistucchevoli, che non rifinan mai di esaltar la possanzad’Amore, già fino alla nausea magnificata, e di presagi-re Eroi d’ogni maniera, quasi nascessero come i funghiper le foreste del mio Maséro) debb’io pubblicare a be-nefizio comune degl’Italiani ingegni, del patrio idiomastudiosi, alcune Lettere di Seneca volgarizzate dallamaestra penna del Commendatore Annibal Caro, le qua-

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li prima d’ora non vider la luce. Saprannomi, io spero,buon grado cotest’ingegni bennati del dono che viensi afar loro, e benediranno le mie fatiche nell’ammannir-glielo, quando gustato avranno un volgarizzamento, cheper la sua amena eleganza e per una cotal fedeltà nonservile va al di sopra d’ogni altro, che lavorato siasidell’originale medesimo, non eccettuato quello, che ci-tano gli Accademici della Crusca, stampato in Firenzel’anno 1717. vago et elegante sì per le forme del dire,ma in istile ampio e largo, nel quale quel morale Filoso-fo per lo più non si trova, o vi si trova distemperato, edilavato sì fattamente, che somiglievol direbbesi a vinodi sua natura piccante, il quale esibiscasi a bere conmolt’acqua mesciuto: lo che potrà chiunque a suobell’agio toccar con mano, sol che ne instituisca un po’di confronto. Io avea in pensiero di trarre da queste duetraduzioni qualche squarcio d’una medesima Lettera, eporlo qui sotto, onde venisse a rilevarsi la diversità, chepassa tra loro; ma poi, meglio riflettendovi, pensai benedi soprassedere, e di lasciar ch’altri da se prenda a farnetale disamina.Non riuscirà però ingrata cosa a’ leggitor cortesi l’inten-dere il come giunto siami alle mani il prezioso autografodi queste undici Lettere, delle quali ignoravasi onnina-mente l’esistenza, perchè non trovasi fatto cenno dachicchessia nè che il Caro a tradurre si desse mai l’Epi-stole di Seneca, nè in qual tempo facesselo. Del picciolcodice adunque io mi professo debitore alla generosaamicizia dell’Ornatissimo Abate Daniele D.r Francesco-

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li prima d’ora non vider la luce. Saprannomi, io spero,buon grado cotest’ingegni bennati del dono che viensi afar loro, e benediranno le mie fatiche nell’ammannir-glielo, quando gustato avranno un volgarizzamento, cheper la sua amena eleganza e per una cotal fedeltà nonservile va al di sopra d’ogni altro, che lavorato siasidell’originale medesimo, non eccettuato quello, che ci-tano gli Accademici della Crusca, stampato in Firenzel’anno 1717. vago et elegante sì per le forme del dire,ma in istile ampio e largo, nel quale quel morale Filoso-fo per lo più non si trova, o vi si trova distemperato, edilavato sì fattamente, che somiglievol direbbesi a vinodi sua natura piccante, il quale esibiscasi a bere conmolt’acqua mesciuto: lo che potrà chiunque a suobell’agio toccar con mano, sol che ne instituisca un po’di confronto. Io avea in pensiero di trarre da queste duetraduzioni qualche squarcio d’una medesima Lettera, eporlo qui sotto, onde venisse a rilevarsi la diversità, chepassa tra loro; ma poi, meglio riflettendovi, pensai benedi soprassedere, e di lasciar ch’altri da se prenda a farnetale disamina.Non riuscirà però ingrata cosa a’ leggitor cortesi l’inten-dere il come giunto siami alle mani il prezioso autografodi queste undici Lettere, delle quali ignoravasi onnina-mente l’esistenza, perchè non trovasi fatto cenno dachicchessia nè che il Caro a tradurre si desse mai l’Epi-stole di Seneca, nè in qual tempo facesselo. Del picciolcodice adunque io mi professo debitore alla generosaamicizia dell’Ornatissimo Abate Daniele D.r Francesco-

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ni, cima de’ letterati nostrali, che con altre parecchie ra-rità bibliografiche dissotterrollo in Roma, non so perquale accidente. Egli a me il concesse di buon grado,quando gli significai che avevo in animo di renderlo dipubblica ragion colle stampe, ove potuto io avessi usciredel pecoreccio, trascrivendolo diligentissimamente dimio pugno, giacchè tanti erano i pentimenti, gli sgorbj,le varianti lezioni, oltre a qualche laguna, che parevaimpossibile ch’io avessi a venire a capo del mio divisa-mento. Colla pazienza, virtù necessaria in checchè fac-ciasi, con un po’ di criterio, e col giovarmi continuo deltesto originale latino per l’intelligenza perfetta della ver-sione (dovuto avendo alle volte pescarne il senso a granfatica tra pel carattere del Commendatore, che non è adir vero molto felice, tra per le frequenti cancellature, esostituzion di parole, e più perchè i fogli scritti erano adotta ad otta per salto, e portavano in se impresse le notedelle ingiurie sofferte dal tempo) condussi ad effetto sìmalagevole intrapresa. Quello, di che posso assicurare ilPubblico, si è che religiosamente io sonomi attenuto alMss. del mio Autore, nè hollo alterato d’un jota, neppurquando m’avvenni a qualche voce, che non leggesi regi-strata nel gran Dizionario, e che arei facilmente potutomutare, e forse bene. Detesto il barbaro gusto che alcunihanno di far man bassa, alterandole con gotico pensa-mento, sovra le altrui scritture; e crederei un sacrilegio ilfarla sovra quelle d’un classico Autore venerato da tuttel’età, quale si è Annibal Caro. Abbiasi pure egli qualchenon più intesa voce: ciò che monta? Sarà per questo

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ni, cima de’ letterati nostrali, che con altre parecchie ra-rità bibliografiche dissotterrollo in Roma, non so perquale accidente. Egli a me il concesse di buon grado,quando gli significai che avevo in animo di renderlo dipubblica ragion colle stampe, ove potuto io avessi usciredel pecoreccio, trascrivendolo diligentissimamente dimio pugno, giacchè tanti erano i pentimenti, gli sgorbj,le varianti lezioni, oltre a qualche laguna, che parevaimpossibile ch’io avessi a venire a capo del mio divisa-mento. Colla pazienza, virtù necessaria in checchè fac-ciasi, con un po’ di criterio, e col giovarmi continuo deltesto originale latino per l’intelligenza perfetta della ver-sione (dovuto avendo alle volte pescarne il senso a granfatica tra pel carattere del Commendatore, che non è adir vero molto felice, tra per le frequenti cancellature, esostituzion di parole, e più perchè i fogli scritti erano adotta ad otta per salto, e portavano in se impresse le notedelle ingiurie sofferte dal tempo) condussi ad effetto sìmalagevole intrapresa. Quello, di che posso assicurare ilPubblico, si è che religiosamente io sonomi attenuto alMss. del mio Autore, nè hollo alterato d’un jota, neppurquando m’avvenni a qualche voce, che non leggesi regi-strata nel gran Dizionario, e che arei facilmente potutomutare, e forse bene. Detesto il barbaro gusto che alcunihanno di far man bassa, alterandole con gotico pensa-mento, sovra le altrui scritture; e crederei un sacrilegio ilfarla sovra quelle d’un classico Autore venerato da tuttel’età, quale si è Annibal Caro. Abbiasi pure egli qualchenon più intesa voce: ciò che monta? Sarà per questo

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men classico? Perderà per questo il merito delle grazie,ond’è cosperso, il presente volgarizzamento? Alla finde’ conti due sole, o tre sono coteste voci, e potrei indi-carle, ma non voglio, appunto perchè son poche, e per-chè usate da tant’uomo deggionsi rispettare.Non negherò d’essermi fatto lecito, non senza domandarprima parere ad alcun mio dotto Amico, di riformare untal poco l’ortografia dell’Autore, la quale spesso inesattaera, sempre ineguale, e di renderla uniforme e più mo-derna, affinchè l’opera fusse di più agevol lettura, la-sciandole però qualche tinta d’antichità. Così osservoaver adoperato i Sigg. Volpi nelle replicate edizioni del-le Lettere originali del Caro, eseguite con quella perfe-zione, che ognun sa, dal diligentissimo de’ Stampatoridel secol nostro Giuseppe Comino. Chi amasse poi divedere l’autografo di questa bellissima traduzione, onderiscontrare, se vero sia quel che ne ho detto, lo troveràquindinnanzi nella insigne sceltissima Biblioteca Pisani,alla quale, fattone l’uso ch’io volea, l’Egregio Ab. Fran-cesconi mi commise di rassegnarlo in suo nome. Infattiera convenevol cosa, ch’esso sen rimanesse a perpetuamemoria presso uno degli assennati nobilissimi odierniSposi, che sì benemeriti sono dell’edizione presente, peravermi fornito con quella generosità, ch’è propia delloro animo, i mezzi di mandarla ad effetto.Restami ora a dire qualmente la Lettera II. e la VIII. era-no mancanti nel fine, nè parvemi opportuno lasciarlecorrer così. Però fu per me supplito alla mancanza,come potei il meglio, avvisandomi che ciò non tornereb-

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men classico? Perderà per questo il merito delle grazie,ond’è cosperso, il presente volgarizzamento? Alla finde’ conti due sole, o tre sono coteste voci, e potrei indi-carle, ma non voglio, appunto perchè son poche, e per-chè usate da tant’uomo deggionsi rispettare.Non negherò d’essermi fatto lecito, non senza domandarprima parere ad alcun mio dotto Amico, di riformare untal poco l’ortografia dell’Autore, la quale spesso inesattaera, sempre ineguale, e di renderla uniforme e più mo-derna, affinchè l’opera fusse di più agevol lettura, la-sciandole però qualche tinta d’antichità. Così osservoaver adoperato i Sigg. Volpi nelle replicate edizioni del-le Lettere originali del Caro, eseguite con quella perfe-zione, che ognun sa, dal diligentissimo de’ Stampatoridel secol nostro Giuseppe Comino. Chi amasse poi divedere l’autografo di questa bellissima traduzione, onderiscontrare, se vero sia quel che ne ho detto, lo troveràquindinnanzi nella insigne sceltissima Biblioteca Pisani,alla quale, fattone l’uso ch’io volea, l’Egregio Ab. Fran-cesconi mi commise di rassegnarlo in suo nome. Infattiera convenevol cosa, ch’esso sen rimanesse a perpetuamemoria presso uno degli assennati nobilissimi odierniSposi, che sì benemeriti sono dell’edizione presente, peravermi fornito con quella generosità, ch’è propia delloro animo, i mezzi di mandarla ad effetto.Restami ora a dire qualmente la Lettera II. e la VIII. era-no mancanti nel fine, nè parvemi opportuno lasciarlecorrer così. Però fu per me supplito alla mancanza,come potei il meglio, avvisandomi che ciò non tornereb-

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be discaro a’ leggitori, i quali ameran più presto di ve-derle comunque compiute, che imperfette lasciate. Talmio supplemento a bella posta fu impresso in caratterecorsivo, onde distinguasi il dove esso comincia, e ildove a finir va.Possano tante mie cure riscuotere alcun benigno compa-timento dagli studiosi della lingua nostra, al vantaggiode’ quali furon dirette; ed abbiansi grazie, e plaudasi alticchio ch’émmi saltato in capo di mettere in luce nelledoppie odierne Sponsalizie in luogo d’una poetica Rac-colta, che morta sarebbe al par dell’ultima gazzetta, untal monumento, che nel gener suo vale un tesoro, e chenon vedrà l’estremo giorno, fino a che fioriranno gli ot-timi studj, e saranno in onore le amenissime lettere Ita-liane.

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be discaro a’ leggitori, i quali ameran più presto di ve-derle comunque compiute, che imperfette lasciate. Talmio supplemento a bella posta fu impresso in caratterecorsivo, onde distinguasi il dove esso comincia, e ildove a finir va.Possano tante mie cure riscuotere alcun benigno compa-timento dagli studiosi della lingua nostra, al vantaggiode’ quali furon dirette; ed abbiansi grazie, e plaudasi alticchio ch’émmi saltato in capo di mettere in luce nelledoppie odierne Sponsalizie in luogo d’una poetica Rac-colta, che morta sarebbe al par dell’ultima gazzetta, untal monumento, che nel gener suo vale un tesoro, e chenon vedrà l’estremo giorno, fino a che fioriranno gli ot-timi studj, e saranno in onore le amenissime lettere Ita-liane.

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LETTERA IConsilio tuo accedo etc. Ep. LXVIII.

Io concorro nel tuo parere, che tu ti debbi asconderenell’ozio; ma voglio che tu lo facci anco per modo, chel’ozio resti ascoso. Et ancorchè tu sappi di far questonon per precetto de’ Stoici, ma ad imitazion loro; tu devianco farlo per precetto, perchè il ritirarti del tutto lo po-trai far quando vorrai. Ora ti verrà fatto facilmente, poi-chè non solemo mandar i tuoi pari in ogni governo, nèd’ogni tempo, nè senza proposito alcuno. Oltre di questoavendo noi assignato al sapiente una Republica degna dilui, che è il Mondo, non si potrà dir ch’ei sia fuor dellaRepublica, ancorchè s’allontani da essa: e forse anco la-sciando questo solo angolo, passa a molto maggiori epiù ample cose, per le quali salito poi in cielo, conosceapertamente in quanto umil loco sia seduto, mentre egliascendeva la sedia, o il tribunale. E di più ti dico, chequando il Sapiente con la meditazione s’adduce avantigli occhi tutte le cose divine, et umane; allora è ch’egliopera più che possa fare. Ora torno a quel che avevo co-minciato a persuaderti che tu facci, che il tuo ozio nonsia conosciuto. E per ciò fare non accade che tu facciprofession di filosofo: io voglio che tu battezzi questotuo proposito con altro nome; e che tu dichi di ritirartiper infermità, o per stanchezza, o se vuoi anco chiamar-la poltroneria. Il gloriarsi dell’ozio, è una pigra ambizio-

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LETTERA IConsilio tuo accedo etc. Ep. LXVIII.

Io concorro nel tuo parere, che tu ti debbi asconderenell’ozio; ma voglio che tu lo facci anco per modo, chel’ozio resti ascoso. Et ancorchè tu sappi di far questonon per precetto de’ Stoici, ma ad imitazion loro; tu devianco farlo per precetto, perchè il ritirarti del tutto lo po-trai far quando vorrai. Ora ti verrà fatto facilmente, poi-chè non solemo mandar i tuoi pari in ogni governo, nèd’ogni tempo, nè senza proposito alcuno. Oltre di questoavendo noi assignato al sapiente una Republica degna dilui, che è il Mondo, non si potrà dir ch’ei sia fuor dellaRepublica, ancorchè s’allontani da essa: e forse anco la-sciando questo solo angolo, passa a molto maggiori epiù ample cose, per le quali salito poi in cielo, conosceapertamente in quanto umil loco sia seduto, mentre egliascendeva la sedia, o il tribunale. E di più ti dico, chequando il Sapiente con la meditazione s’adduce avantigli occhi tutte le cose divine, et umane; allora è ch’egliopera più che possa fare. Ora torno a quel che avevo co-minciato a persuaderti che tu facci, che il tuo ozio nonsia conosciuto. E per ciò fare non accade che tu facciprofession di filosofo: io voglio che tu battezzi questotuo proposito con altro nome; e che tu dichi di ritirartiper infermità, o per stanchezza, o se vuoi anco chiamar-la poltroneria. Il gloriarsi dell’ozio, è una pigra ambizio-

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ne. Certi animali per non esser ritrovati, guastano le lorpedate intorno alla tana. Il medesimo tu devi fare: per-chè facendo altrimente, non mancheranno chi ti perse-guitino. Molti passano via le cose aperte, e cercano, emirano per le fessure le serrate et ascose. Le segnatespingono il ladro. Ciò che apparisce par vile: un rompi-tor di case lascia indietro quelle che sono aperte. Questoè comun costume del popolo, e d’ignoranti che desideri-no di penetrar nelle cose secrete. È dunque ben fatto dinon far mostra temerariamente del suo ozio; et il mododi vantarsene è lo star troppo ritirato, et allontanarsi dalcospetto degli uomini. Quel tale s’è ascoso in Tarento;quell’altro s’è rinchiuso in Napoli: e quello giàmolt’anni sono non ha passato la porta della sua casa.Chiunque fa che l’ozio suo dia occasion di parlare consimili favole, non fa altro che raunar la turba. Ritirando-ti tu, non hai da aver cura che gli uomini parlino di te;ma sì ben di ragionar con te stesso. E di che devi tu ra-gionare? Quel che gli uomini volentier fanno degli altri,fa tu di te stesso, e questo è giudicar teco medesimo maldi te. Assuefatti a dire, et a sentir il vero; e rivolgi, epensa sopra tutto a quello che conoscerai che sia più de-bole in te. Ciascheduno conosce i vizj e i difetti del suocorpo: e di qui viene che vedemo che molti col vomitoalleggeriscono il loro stomaco, altri lo sostentano col ci-barlo spesso, et altri col digiuno votano, e purgano ilcorpo. Quelli che patiscono de’ dolori de’ piedi, s’asten-gono o dal vino, o dal bagno; e disprezzando ogni altracosa, cercano solo di rimediare a questo che gli tormen-

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ne. Certi animali per non esser ritrovati, guastano le lorpedate intorno alla tana. Il medesimo tu devi fare: per-chè facendo altrimente, non mancheranno chi ti perse-guitino. Molti passano via le cose aperte, e cercano, emirano per le fessure le serrate et ascose. Le segnatespingono il ladro. Ciò che apparisce par vile: un rompi-tor di case lascia indietro quelle che sono aperte. Questoè comun costume del popolo, e d’ignoranti che desideri-no di penetrar nelle cose secrete. È dunque ben fatto dinon far mostra temerariamente del suo ozio; et il mododi vantarsene è lo star troppo ritirato, et allontanarsi dalcospetto degli uomini. Quel tale s’è ascoso in Tarento;quell’altro s’è rinchiuso in Napoli: e quello giàmolt’anni sono non ha passato la porta della sua casa.Chiunque fa che l’ozio suo dia occasion di parlare consimili favole, non fa altro che raunar la turba. Ritirando-ti tu, non hai da aver cura che gli uomini parlino di te;ma sì ben di ragionar con te stesso. E di che devi tu ra-gionare? Quel che gli uomini volentier fanno degli altri,fa tu di te stesso, e questo è giudicar teco medesimo maldi te. Assuefatti a dire, et a sentir il vero; e rivolgi, epensa sopra tutto a quello che conoscerai che sia più de-bole in te. Ciascheduno conosce i vizj e i difetti del suocorpo: e di qui viene che vedemo che molti col vomitoalleggeriscono il loro stomaco, altri lo sostentano col ci-barlo spesso, et altri col digiuno votano, e purgano ilcorpo. Quelli che patiscono de’ dolori de’ piedi, s’asten-gono o dal vino, o dal bagno; e disprezzando ogni altracosa, cercano solo di rimediare a questo che gli tormen-

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tano. Così anco nell’animo nostro sono delle parti infer-me, le quali si devono curare. E che faccio io in questoozio? Io curo la mia piaga. S’io ti mostrassi un piede en-fiato, una mano livida, o gli nervi secchi d’una ritiratagamba, tu mi concederesti ch’io mi giacessi in un loco,per rimediare a questa mia infermità. Or molto maggiormale è questo che non ti posso mostrare. Io ho nel pettogli umori raunati, e la postema che causa il mio male.Non voglio che tu mi lodi; non voglio che tu dichi: Ogrand’uomo! che disprezzato ogni cosa, e dannate lepazzie di questa umana vita, se n’è fuggito. Io non hodannato altro che me; nè accade che tu desideri di venira trovarmi per far profitto. Ti gabbi se speri di aver ajutoalcuno di qua. Qui non abita medico; ma sì ben infermo.Io voglio piuttosto che partendoti tu dichi: io tenevoquest’uomo beato, et erudito: stavo tutto attento perascoltarlo; ma alfin mi trovo gabbato, non ho veduto, nèudito cosa che desiderassi, e che mi spinga a ritornarvi.E se giudichi, e se dirai così, si sarà fatto qualche profit-to. Io mi contento che tu perdoni a quest’ozio mio, piut-tosto che gli porti invidia. Mi dirai: dunque, o Seneca, tumi lodi l’ozio? Tu cadi ne l’opinion d’Epicuri. Io ti lodol’ozio, nel quale tu facci molto maggiori, e più bellecose di quelle che tu hai lasciate. L’aver adito nelle su-perbe case de’ potenti, il tessere il catalogo de’ vecchibarbogi che non han reda, il poter assai nel foro, èun’invidiosa e breve potenza, e sordida anco, se vuoigiudicar il vero. Quel tale è meglio voluto nel foro,quell’altro m’avanza di provisioni nell’arte militare, e di

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tano. Così anco nell’animo nostro sono delle parti infer-me, le quali si devono curare. E che faccio io in questoozio? Io curo la mia piaga. S’io ti mostrassi un piede en-fiato, una mano livida, o gli nervi secchi d’una ritiratagamba, tu mi concederesti ch’io mi giacessi in un loco,per rimediare a questa mia infermità. Or molto maggiormale è questo che non ti posso mostrare. Io ho nel pettogli umori raunati, e la postema che causa il mio male.Non voglio che tu mi lodi; non voglio che tu dichi: Ogrand’uomo! che disprezzato ogni cosa, e dannate lepazzie di questa umana vita, se n’è fuggito. Io non hodannato altro che me; nè accade che tu desideri di venira trovarmi per far profitto. Ti gabbi se speri di aver ajutoalcuno di qua. Qui non abita medico; ma sì ben infermo.Io voglio piuttosto che partendoti tu dichi: io tenevoquest’uomo beato, et erudito: stavo tutto attento perascoltarlo; ma alfin mi trovo gabbato, non ho veduto, nèudito cosa che desiderassi, e che mi spinga a ritornarvi.E se giudichi, e se dirai così, si sarà fatto qualche profit-to. Io mi contento che tu perdoni a quest’ozio mio, piut-tosto che gli porti invidia. Mi dirai: dunque, o Seneca, tumi lodi l’ozio? Tu cadi ne l’opinion d’Epicuri. Io ti lodol’ozio, nel quale tu facci molto maggiori, e più bellecose di quelle che tu hai lasciate. L’aver adito nelle su-perbe case de’ potenti, il tessere il catalogo de’ vecchibarbogi che non han reda, il poter assai nel foro, èun’invidiosa e breve potenza, e sordida anco, se vuoigiudicar il vero. Quel tale è meglio voluto nel foro,quell’altro m’avanza di provisioni nell’arte militare, e di

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dignità acquistata per questa via, e questi ha maggiormoltitudine di clienti. Or ecco di quanta importanza èl’esser superato dagli uomini: io, pur che possa superarla fortuna, agli travagli della quale non son eguale, terròche mi sia stata concessa maggior grazia. Volesse Iddioche tu già un tempo fa avessi avuto animo di seguir que-sto proposito; e che potessimo trattar della vita beata inaltro tempo, che ora che siamo in faccia alla morte! Contutto ciò non è nè anco questo tempo da perdere. Per-ciocchè molte cose ora crederemo all’esperienza, cheper innanzi le averemmo tenute fuor di proposito, e con-trarie alla ragione. Sproniamo, come quelli che si metto-no tardi in viaggio, e vogliono racquistar il tempo collaprestezza. Questa età è molto a proposito a questi studj.Perocchè ella ha già contrastato, già ha stancato almeno,se non ha potuto vincere i vizj nel primo fervor dellagioventù: et ora non vi manca troppo ch’ella gli sterpi. Equando, mi dirai, in che cosa ti potrà apportar giova-mento alcuno questo che impari ora che sei nel fine? Inquesta: A farmi uscir di questa vita miglior ch’io non sa-rei. Or non t’immaginare che altra età sia più atta a for-mar la mente buona, di quella che s’è domata con moltaesperienza, e con lunga et assidua pazienza delle cose; eche, vinti gli affetti, è pervenuta alla cognizione dellecose salutifere. Questo è il breve tempo di questo bene.E chiunque perviene alla saviezza in vecchiezza, può dird’esservi pervenuto per il mezzo degli anni. Sta sano.

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dignità acquistata per questa via, e questi ha maggiormoltitudine di clienti. Or ecco di quanta importanza èl’esser superato dagli uomini: io, pur che possa superarla fortuna, agli travagli della quale non son eguale, terròche mi sia stata concessa maggior grazia. Volesse Iddioche tu già un tempo fa avessi avuto animo di seguir que-sto proposito; e che potessimo trattar della vita beata inaltro tempo, che ora che siamo in faccia alla morte! Contutto ciò non è nè anco questo tempo da perdere. Per-ciocchè molte cose ora crederemo all’esperienza, cheper innanzi le averemmo tenute fuor di proposito, e con-trarie alla ragione. Sproniamo, come quelli che si metto-no tardi in viaggio, e vogliono racquistar il tempo collaprestezza. Questa età è molto a proposito a questi studj.Perocchè ella ha già contrastato, già ha stancato almeno,se non ha potuto vincere i vizj nel primo fervor dellagioventù: et ora non vi manca troppo ch’ella gli sterpi. Equando, mi dirai, in che cosa ti potrà apportar giova-mento alcuno questo che impari ora che sei nel fine? Inquesta: A farmi uscir di questa vita miglior ch’io non sa-rei. Or non t’immaginare che altra età sia più atta a for-mar la mente buona, di quella che s’è domata con moltaesperienza, e con lunga et assidua pazienza delle cose; eche, vinti gli affetti, è pervenuta alla cognizione dellecose salutifere. Questo è il breve tempo di questo bene.E chiunque perviene alla saviezza in vecchiezza, può dird’esservi pervenuto per il mezzo degli anni. Sta sano.

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LETTERA II.Epistola tua delectavit me etc. Ep. LXXIV.

L’Epistola tua m’è sommamente dilettata, e m’ha eccita-to dal sonno, in ch’io ammarcivo, e ravvivato la memo-ria, che in me è già pigra e lenta. E perchè non devi tucredere, Lucilio mio, che un gran mezzo, et instrumentodi pervenire alla vita beata sia il persuadersi che è unben solo, e questo è quel che è onesto? Colui che circon-scrive, e diffinisce ogni bene con l’onesto, può ben dird’esser felice tra se medesimo. Perocchè chi giudica chel’altre cose sian beni, viene in poter della fortuna, e sisottopone al voler d’altri. Questi di questo parere sonquelli, che nella morte de’ figliuoli s’attristano: questinell’infermità son travagliati; questi nel patir ignominia,o qualche infamia son mesti. Altri vedrai tormentatidall’amor della moglie d’altrui, altri della sua medesi-ma. Quanti sono addolorati per la ripulsa che vien lordata, quanti son crucciati dal dolore istesso! Ma la mag-gior moltitudine de’ miseri travagliati, tra tutto il restodella turba de’ mortali, è di quelli che del continuo sonmolestati dal pensiero della morte, che ad ogni bandasoprastà loro. Perocchè non vi è cosa, donde non glivenga. Dimodochè, come quelli che essendo in paesed’inimici, bisogna che sempre si guardino d’ogn’intor-no, e ad ogni poco di strepito voltino il capo; se nonscacciano dal petto questa paura, viveran sempre tre-

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LETTERA II.Epistola tua delectavit me etc. Ep. LXXIV.

L’Epistola tua m’è sommamente dilettata, e m’ha eccita-to dal sonno, in ch’io ammarcivo, e ravvivato la memo-ria, che in me è già pigra e lenta. E perchè non devi tucredere, Lucilio mio, che un gran mezzo, et instrumentodi pervenire alla vita beata sia il persuadersi che è unben solo, e questo è quel che è onesto? Colui che circon-scrive, e diffinisce ogni bene con l’onesto, può ben dird’esser felice tra se medesimo. Perocchè chi giudica chel’altre cose sian beni, viene in poter della fortuna, e sisottopone al voler d’altri. Questi di questo parere sonquelli, che nella morte de’ figliuoli s’attristano: questinell’infermità son travagliati; questi nel patir ignominia,o qualche infamia son mesti. Altri vedrai tormentatidall’amor della moglie d’altrui, altri della sua medesi-ma. Quanti sono addolorati per la ripulsa che vien lordata, quanti son crucciati dal dolore istesso! Ma la mag-gior moltitudine de’ miseri travagliati, tra tutto il restodella turba de’ mortali, è di quelli che del continuo sonmolestati dal pensiero della morte, che ad ogni bandasoprastà loro. Perocchè non vi è cosa, donde non glivenga. Dimodochè, come quelli che essendo in paesed’inimici, bisogna che sempre si guardino d’ogn’intor-no, e ad ogni poco di strepito voltino il capo; se nonscacciano dal petto questa paura, viveran sempre tre-

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mando. Verran loro sempre avanti gli occhi quei chemandati in esilio, son privati degli lor beni; quei che sonpoveri nelle ricchezze, molestissima sorte di povertà;quei che han patito naufragio, o travaglio simile a que-sto; quei che dall’ira, o dall’invidia popolare, perniciosacosa agli buoni, sono alla sprovista, e fuor d’ogni lorpensiero buttati al basso, non altrimente che suol far unaprocella, la quale suol sorgere quando il sereno è mag-giore; o come un subito folgore, al colpo del quale tre-mano anco le cose, che son vicine al luogo dove cade. Ecome quel, che era più lontano dal fuoco, resta anco stu-pido al par di quello che è da lui percosso: così in questecose, che accadono per altrui violenza, un solo è oppres-so dalla calamità, e gli altri dal timore; e l’immaginazio-ne che possa intervenir loro di patir il medesimo, gli ge-nera ugual tristezza che han quei che patiscono il male.Il subito mal d’altrui travaglia gli animi di tutti: e comegli uccelli sono anco spaventati da un vano rumor difronda, così noi siamo commossi non solo dalla percos-sa, ma anco dallo strepito. Non può dunque esser beatoun che sia dato in preda a questa opinione: perocchè labeatitudine non può essere senza l’intrepidezza; e tra glisospetti malamente si vive. Chi s’è molto dato a questecose fortuite, s’ha acquistato una grande et inestricabileoccasione di perturbazioni. Una sola strada ci è ad unche voglia camminar per il sicuro, e questa è disprezzarle cose esterne, e contentarsi dell’onesto. Però chi giudi-ca che vi sia cosa miglior della Virtù, o che vi sia altrobene oltra questa, apre il seno a queste cose, che sono

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mando. Verran loro sempre avanti gli occhi quei chemandati in esilio, son privati degli lor beni; quei che sonpoveri nelle ricchezze, molestissima sorte di povertà;quei che han patito naufragio, o travaglio simile a que-sto; quei che dall’ira, o dall’invidia popolare, perniciosacosa agli buoni, sono alla sprovista, e fuor d’ogni lorpensiero buttati al basso, non altrimente che suol far unaprocella, la quale suol sorgere quando il sereno è mag-giore; o come un subito folgore, al colpo del quale tre-mano anco le cose, che son vicine al luogo dove cade. Ecome quel, che era più lontano dal fuoco, resta anco stu-pido al par di quello che è da lui percosso: così in questecose, che accadono per altrui violenza, un solo è oppres-so dalla calamità, e gli altri dal timore; e l’immaginazio-ne che possa intervenir loro di patir il medesimo, gli ge-nera ugual tristezza che han quei che patiscono il male.Il subito mal d’altrui travaglia gli animi di tutti: e comegli uccelli sono anco spaventati da un vano rumor difronda, così noi siamo commossi non solo dalla percos-sa, ma anco dallo strepito. Non può dunque esser beatoun che sia dato in preda a questa opinione: perocchè labeatitudine non può essere senza l’intrepidezza; e tra glisospetti malamente si vive. Chi s’è molto dato a questecose fortuite, s’ha acquistato una grande et inestricabileoccasione di perturbazioni. Una sola strada ci è ad unche voglia camminar per il sicuro, e questa è disprezzarle cose esterne, e contentarsi dell’onesto. Però chi giudi-ca che vi sia cosa miglior della Virtù, o che vi sia altrobene oltra questa, apre il seno a queste cose, che sono

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sparse dalla fortuna, e con travaglio sta aspettando que-sti suoi doni. Proponti nell’animo questa similitudine,che la Fortuna faccia i giochi, e che butti in questa mol-titudine d’uomini onori, ricchezze, e grazia, parte dellequali cose si sono rotte tra le mani di quei che cercanodi rapirle, parte son divise per infedel compagnia, e par-te prese con gran detrimento di quei, in poter de’ qualieran venute: e delle quali cose alcune son cadute in chinon vi pensava, alcune, perchè troppo vi s’uccellava,son perdute, e mentre che con rapidità si rapiscono, glisi levano dalle mani; et a nessuno, con tutto che gli siafelicemente successa la rapina, l’allegrezza della predadurò mai più d’un giorno. E però un vero prudente, tostoche vede presentarsegli questi piccoli doni, si fugge dalteatro; e sa che un uomo magnanimo signoreggia ancoqueste cose piccole. Nessun vien alle mani con un che siparta dalla grappiglia, nessuno cerca di ferir chi n’esce:ma tutta la questione è intorno al premio. Il medesimoavviene in queste cose, che di sopra ci son gittate dallaFortuna; per le quali, miseri, sudiamo, e ci travagliamo,e desideriamo d’aver molte mani: ora miriamo ad una,ora ad un’altra; e ci par che ci siano date troppo tardiquelle, che sono ambite dalla nostra cupidità, le qualiaspettate, e desiderate da tutti, devono però toccare apochi. Desideriamo, mentr’elle cadono mandate giù dal-la Fortuna, d’andar loro incontro; et occupandonequalch’una, ci rallegriamo. Molti restano gabbati dallavana speranza, e ricompensiamo una vil preda con qual-che grand’incomodo, o ne restiamo del tutto gabbati.

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sparse dalla fortuna, e con travaglio sta aspettando que-sti suoi doni. Proponti nell’animo questa similitudine,che la Fortuna faccia i giochi, e che butti in questa mol-titudine d’uomini onori, ricchezze, e grazia, parte dellequali cose si sono rotte tra le mani di quei che cercanodi rapirle, parte son divise per infedel compagnia, e par-te prese con gran detrimento di quei, in poter de’ qualieran venute: e delle quali cose alcune son cadute in chinon vi pensava, alcune, perchè troppo vi s’uccellava,son perdute, e mentre che con rapidità si rapiscono, glisi levano dalle mani; et a nessuno, con tutto che gli siafelicemente successa la rapina, l’allegrezza della predadurò mai più d’un giorno. E però un vero prudente, tostoche vede presentarsegli questi piccoli doni, si fugge dalteatro; e sa che un uomo magnanimo signoreggia ancoqueste cose piccole. Nessun vien alle mani con un che siparta dalla grappiglia, nessuno cerca di ferir chi n’esce:ma tutta la questione è intorno al premio. Il medesimoavviene in queste cose, che di sopra ci son gittate dallaFortuna; per le quali, miseri, sudiamo, e ci travagliamo,e desideriamo d’aver molte mani: ora miriamo ad una,ora ad un’altra; e ci par che ci siano date troppo tardiquelle, che sono ambite dalla nostra cupidità, le qualiaspettate, e desiderate da tutti, devono però toccare apochi. Desideriamo, mentr’elle cadono mandate giù dal-la Fortuna, d’andar loro incontro; et occupandonequalch’una, ci rallegriamo. Molti restano gabbati dallavana speranza, e ricompensiamo una vil preda con qual-che grand’incomodo, o ne restiamo del tutto gabbati.

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Allontaniamoci dunque un poco da questi giuochi, ediamo luogo a questi che ne fan rapina. Lasciamo checon attenzion mirino questi beni sospesi, anzi lasciamoche stiano molto più lor medesimi sospesi. Chi fa propo-sito di voler esser beato, deve pensar che sia un bensolo, cioè l’onesto. Perciocchè giudicando che ve ne siapiù d’uno, o che altra cosa sia bene, prima giudica maldella provvidenza d’Iddio, perchè accadono molti inco-modi agli uomini giusti, e perchè tutto quel ch’ella n’hadato, è poca e breve cosa, mettendola a comparazioneall’età lunga di tutto il mondo. E da questo lamento na-sce che noi siamo ingrati a Dio, e malamente interpretia-mo le cose divine: lamentandoci che non ci dia di conti-nuo, e che ci dia poche cose, e quelle incerte e fuggitive.Di qui viene che non ci risolvemo nè di vivere, nè dimorire, perocchè per un canto odiamo la vita, per l’altrotememo la morte. Tutti gli nostri consigli sono irresolutie dubbj: nè felicità alcuna per grande ch’ella sia ci puòsaziare. E la cagione è, perchè non semo anco pervenutia quello immenso et inseparabile bene, dove la volontànostra è forzata a fermarsi, non essendovi cosa maggiordel sommo. Mi dimanderai donde venga che la Virtùnon ha bisogno di cosa alcuna? Perchè gode delle pre-senti, e non desidera le assenti. Non è cosa che non siagrande a lei, perchè gli basta. E se ti parti da questo giu-dizio, non vi sarà nè pietà, nè fede: perocchè chi vuolmostrare l’una e l’altra di queste due virtù, bisogna chesoffrischi molte cose di quelle, che noi tenemo per buo-ne. Perirà la Fortezza, non facendo prova di se stessa,

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Allontaniamoci dunque un poco da questi giuochi, ediamo luogo a questi che ne fan rapina. Lasciamo checon attenzion mirino questi beni sospesi, anzi lasciamoche stiano molto più lor medesimi sospesi. Chi fa propo-sito di voler esser beato, deve pensar che sia un bensolo, cioè l’onesto. Perciocchè giudicando che ve ne siapiù d’uno, o che altra cosa sia bene, prima giudica maldella provvidenza d’Iddio, perchè accadono molti inco-modi agli uomini giusti, e perchè tutto quel ch’ella n’hadato, è poca e breve cosa, mettendola a comparazioneall’età lunga di tutto il mondo. E da questo lamento na-sce che noi siamo ingrati a Dio, e malamente interpretia-mo le cose divine: lamentandoci che non ci dia di conti-nuo, e che ci dia poche cose, e quelle incerte e fuggitive.Di qui viene che non ci risolvemo nè di vivere, nè dimorire, perocchè per un canto odiamo la vita, per l’altrotememo la morte. Tutti gli nostri consigli sono irresolutie dubbj: nè felicità alcuna per grande ch’ella sia ci puòsaziare. E la cagione è, perchè non semo anco pervenutia quello immenso et inseparabile bene, dove la volontànostra è forzata a fermarsi, non essendovi cosa maggiordel sommo. Mi dimanderai donde venga che la Virtùnon ha bisogno di cosa alcuna? Perchè gode delle pre-senti, e non desidera le assenti. Non è cosa che non siagrande a lei, perchè gli basta. E se ti parti da questo giu-dizio, non vi sarà nè pietà, nè fede: perocchè chi vuolmostrare l’una e l’altra di queste due virtù, bisogna chesoffrischi molte cose di quelle, che noi tenemo per buo-ne. Perirà la Fortezza, non facendo prova di se stessa,

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come deve. Perirà la Magnanimità, non potendo signo-reggiare, se non si disprezzano come minime tutte quel-le cose, che il vulgo suol desiderare agli suoi prossimi.Perirà la grazia, che si deve avere, e lo rendere che sideve far d’essa grazia. Sarà in prezzo la fatica, tenendoche vi sia cosa più preziosa della fede, e non avendo lamira alle cose ottime. Ma per lasciar da parte questecose: o questi che si chiamano beni, non sono beni, ol’uomo è più felice d’Iddio; perciocchè Iddio non usaqueste cose, che sono al servizio nostro, non apperte-nendo a lui nè libidine, nè delicatezza de’ cibi, nè le ric-chezze, nè alcuna di queste cose che adescano gli uomi-ni, e con vil piacer gli guidano. Dunque o che è cosa in-credibile che Iddio sia privo degli beni; o questo è segnoet argumento manifestissimo, che le cose, delle qualiDio è privo, non sono beni. A questo s’aggiunge, chemolte cose, che vogliono parer d’esser buone, sono piùpienamente concesse agli animali, che agli uomini; pe-rocchè quelli più avidamente magnano, non sono tantomolestati dalla lussuria, et hanno maggiore, e più egualfermezza di forze. Seguita dunque che siano molto piùfelici dell’uomo, perciocchè vivono senza iniquità, esenza fraudi, e godono i piaceri che si pigliano moltopiù dell’uomo, e con più facilità, senza paura alcuna nèdi vergogna, nè d’aversene poi a pentire. Or considera tumedesimo se si debbia chiamar bene quello, di chel’uomo vince Iddio. Costituimo dunque il sommo benenell’animo; perocchè manca, se dalla miglior parte dinoi vien alla peggiore, e se lo transferemo ai sensi, i

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come deve. Perirà la Magnanimità, non potendo signo-reggiare, se non si disprezzano come minime tutte quel-le cose, che il vulgo suol desiderare agli suoi prossimi.Perirà la grazia, che si deve avere, e lo rendere che sideve far d’essa grazia. Sarà in prezzo la fatica, tenendoche vi sia cosa più preziosa della fede, e non avendo lamira alle cose ottime. Ma per lasciar da parte questecose: o questi che si chiamano beni, non sono beni, ol’uomo è più felice d’Iddio; perciocchè Iddio non usaqueste cose, che sono al servizio nostro, non apperte-nendo a lui nè libidine, nè delicatezza de’ cibi, nè le ric-chezze, nè alcuna di queste cose che adescano gli uomi-ni, e con vil piacer gli guidano. Dunque o che è cosa in-credibile che Iddio sia privo degli beni; o questo è segnoet argumento manifestissimo, che le cose, delle qualiDio è privo, non sono beni. A questo s’aggiunge, chemolte cose, che vogliono parer d’esser buone, sono piùpienamente concesse agli animali, che agli uomini; pe-rocchè quelli più avidamente magnano, non sono tantomolestati dalla lussuria, et hanno maggiore, e più egualfermezza di forze. Seguita dunque che siano molto piùfelici dell’uomo, perciocchè vivono senza iniquità, esenza fraudi, e godono i piaceri che si pigliano moltopiù dell’uomo, e con più facilità, senza paura alcuna nèdi vergogna, nè d’aversene poi a pentire. Or considera tumedesimo se si debbia chiamar bene quello, di chel’uomo vince Iddio. Costituimo dunque il sommo benenell’animo; perocchè manca, se dalla miglior parte dinoi vien alla peggiore, e se lo transferemo ai sensi, i

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quali sono più agili negli animali muti. Non si deve col-locar la somma della nostra felicità nella carne: i veribeni sono quelli, che ne dà la Ragione, fermi e sempiter-ni, che non posson nè cadere, nè mancare, o diminuirsi.Gli altri sono beni per opinione, et hanno il nome comu-ne con quelli che sono veramente beni; ma non hanno laproprietà, e l’effetto del bene. Si devono dunque chia-mar comodi, e (per parlar in lingua nostra) prodotti. Nelresto dovemo sapere che sono nostri servi, e non parti dinoi medesimi; e che devono essere appresso di noi, maper modo che ne ricordiamo, che sono fuor di noi. Etancorchè stiano appresso di noi, averle dovemo nel nu-mero delle cose suggette e vili, per causa delle qualinessun si debbia insuperbire. Perciocchè che cosa piùstolta può essere in uno, che compiacersi delle cosech’egli non ha fatte? Tutte queste cose devono accederee venir in conseguenza nostra, e non aderirsi a noi; ac-ciocchè se avvien che ci siano tolte, si levino da noi sen-za punto lacerarne. Serviamocene, non ci gloriamod’esse; e serviamocene anco parcamente, come quelleche ci son date in deposito et in guardia, e che si devonopartir da noi. Chiunque l’ha possedute senza ragione,non l’ha godute lungo tempo; perciocchè la felicità me-desima, se non si tempera, opprime se stessa: e s’ella sidà in preda a questi fugacissimi beni, tosto resta abban-donata, e però anco s’affligge. A pochi è stato concessodi deponer questa lor felicità leggiermente, e senza fasti-dio d’animo: tutti gli altri cadono al basso insieme conle cose, per le quali sono stati grandi et eminenti; e le

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quali sono più agili negli animali muti. Non si deve col-locar la somma della nostra felicità nella carne: i veribeni sono quelli, che ne dà la Ragione, fermi e sempiter-ni, che non posson nè cadere, nè mancare, o diminuirsi.Gli altri sono beni per opinione, et hanno il nome comu-ne con quelli che sono veramente beni; ma non hanno laproprietà, e l’effetto del bene. Si devono dunque chia-mar comodi, e (per parlar in lingua nostra) prodotti. Nelresto dovemo sapere che sono nostri servi, e non parti dinoi medesimi; e che devono essere appresso di noi, maper modo che ne ricordiamo, che sono fuor di noi. Etancorchè stiano appresso di noi, averle dovemo nel nu-mero delle cose suggette e vili, per causa delle qualinessun si debbia insuperbire. Perciocchè che cosa piùstolta può essere in uno, che compiacersi delle cosech’egli non ha fatte? Tutte queste cose devono accederee venir in conseguenza nostra, e non aderirsi a noi; ac-ciocchè se avvien che ci siano tolte, si levino da noi sen-za punto lacerarne. Serviamocene, non ci gloriamod’esse; e serviamocene anco parcamente, come quelleche ci son date in deposito et in guardia, e che si devonopartir da noi. Chiunque l’ha possedute senza ragione,non l’ha godute lungo tempo; perciocchè la felicità me-desima, se non si tempera, opprime se stessa: e s’ella sidà in preda a questi fugacissimi beni, tosto resta abban-donata, e però anco s’affligge. A pochi è stato concessodi deponer questa lor felicità leggiermente, e senza fasti-dio d’animo: tutti gli altri cadono al basso insieme conle cose, per le quali sono stati grandi et eminenti; e le

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cose istesse, che gli aveano innalzati, gli abbassano. Eperò si dovrà aggiungervi la prudenza, che ponga a que-ste cose modo e parsimonia. Perciocchè la licenza èquella, che precipita e spinge le sue proprie ricchezze;nè le cose senza modo durorno mai, se non moderatedalla ragione. Questo ti può esser mostrato dal fine, edal successo di molte città, le quali per lussurioso e smi-surato imperio, allorchè maggiormente fiorivano, soncadute al basso: e ciò che in esse era acquistato per vir-tù, ruinò per intemperanza. Contra questi casi dovemonoi fortificarci; e perchè non vi è muro, che contra lafortuna non si possa espugnare, ordiniamoci e preparia-moci di dentro; e se questa parte è sicura, può ben esserbattuto l’uomo, ma non già preso. Tu desideri di saperche instrumento sia questo da fortificarsi? Non si sdegnil’uomo per cosa che gli avvenga; e tenga per fermo chequelle cose, dalle quali par ch’egli sia offeso, sono quel-le che appertengono alla conservazione dell’universo, edel numero di quelle, che consumano questo corso, equesto officio del mondo. Piaccia all’uomo quel ch’èpiaciuto a Dio, e faccia conto di se e delle cose sue nonper altro, se non perchè non può esser vinto, perchè si-gnoreggia e tien sotto di se i mali, e perchè soggioga ilcaso, il dolore, e l’ingiuria con la ragione, della qualenon vi è cosa più valorosa. Ama la ragione; perciocchèl’amor di questa t’armerà contra ogni durissima cosa.L’amor de’ propj figliuolini spinge a dar nell’armi lefere, che sono per la fierezza, e per l’inconsiderato im-peto indomite. Il desiderio della gloria accende i giove-

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cose istesse, che gli aveano innalzati, gli abbassano. Eperò si dovrà aggiungervi la prudenza, che ponga a que-ste cose modo e parsimonia. Perciocchè la licenza èquella, che precipita e spinge le sue proprie ricchezze;nè le cose senza modo durorno mai, se non moderatedalla ragione. Questo ti può esser mostrato dal fine, edal successo di molte città, le quali per lussurioso e smi-surato imperio, allorchè maggiormente fiorivano, soncadute al basso: e ciò che in esse era acquistato per vir-tù, ruinò per intemperanza. Contra questi casi dovemonoi fortificarci; e perchè non vi è muro, che contra lafortuna non si possa espugnare, ordiniamoci e preparia-moci di dentro; e se questa parte è sicura, può ben esserbattuto l’uomo, ma non già preso. Tu desideri di saperche instrumento sia questo da fortificarsi? Non si sdegnil’uomo per cosa che gli avvenga; e tenga per fermo chequelle cose, dalle quali par ch’egli sia offeso, sono quel-le che appertengono alla conservazione dell’universo, edel numero di quelle, che consumano questo corso, equesto officio del mondo. Piaccia all’uomo quel ch’èpiaciuto a Dio, e faccia conto di se e delle cose sue nonper altro, se non perchè non può esser vinto, perchè si-gnoreggia e tien sotto di se i mali, e perchè soggioga ilcaso, il dolore, e l’ingiuria con la ragione, della qualenon vi è cosa più valorosa. Ama la ragione; perciocchèl’amor di questa t’armerà contra ogni durissima cosa.L’amor de’ propj figliuolini spinge a dar nell’armi lefere, che sono per la fierezza, e per l’inconsiderato im-peto indomite. Il desiderio della gloria accende i giove-

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nili ingegni talvolta a disprezzar, per acquistarla, ancocosì il ferro, come il foco. Una sola immagine, etun’ombra sola di virtù conduce alcuni ad uccidersi vo-lontariamente. Or quanto è più potente, quanto è più for-te, quanto è più costante di tutte queste cose la ragione,tanto più animosamente passando per mezzo i timori e ipericoli, n’uscirà fuori. Voi non fate niente, un ne potràdire, negando che non vi sia altro bene, che l’onesto.Questa fortificazione non vi renderà liberi dalla Fortuna.Perchè dicendo voi che tra le cose buone è l’aver pietosifigliuoli, ben accostumata patria e padre e madre buoni,voi non potrete sicuramente veder i pericoli di questitali, perchè l’assedio della patria, la morte de’ figliuoli, ela servitù de’ genitori vi turberanno. Dirò prima quel checomunemente si suol rispondere a costoro in favor vo-stro: dipoi aggiungerò la risposta, che secondo l’opinionmia si deve lor dare. Diversa condizione è in quellecose, che essendoci tolte sustituiscono in lor luogo qual-che dispiacere: come dire, la sanità, essendo infetta, nelascia l’infermità; l’estinto lume degli occhi ne lasciaciechi; tagliate le garrette, non solo manca la velocità,ma in luogo di quella vien la debolezza. Questo non av-viene in quelle cose, che poco avanti avemo riferito; pe-rocchè se pur io perdo un buono amico, non però mi re-sta l’ostinazione di dolermene sempre; e restando privode’ figliuoli buoni, non mi succede in lor luogo l’impie-tà di piangerli continuamente. Oltra di questo non muo-jono a questi nostri nè gli amici, nè gli figliuoli, ma so-lamente i corpi di questi, e ’l bene non può perir fuor

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nili ingegni talvolta a disprezzar, per acquistarla, ancocosì il ferro, come il foco. Una sola immagine, etun’ombra sola di virtù conduce alcuni ad uccidersi vo-lontariamente. Or quanto è più potente, quanto è più for-te, quanto è più costante di tutte queste cose la ragione,tanto più animosamente passando per mezzo i timori e ipericoli, n’uscirà fuori. Voi non fate niente, un ne potràdire, negando che non vi sia altro bene, che l’onesto.Questa fortificazione non vi renderà liberi dalla Fortuna.Perchè dicendo voi che tra le cose buone è l’aver pietosifigliuoli, ben accostumata patria e padre e madre buoni,voi non potrete sicuramente veder i pericoli di questitali, perchè l’assedio della patria, la morte de’ figliuoli, ela servitù de’ genitori vi turberanno. Dirò prima quel checomunemente si suol rispondere a costoro in favor vo-stro: dipoi aggiungerò la risposta, che secondo l’opinionmia si deve lor dare. Diversa condizione è in quellecose, che essendoci tolte sustituiscono in lor luogo qual-che dispiacere: come dire, la sanità, essendo infetta, nelascia l’infermità; l’estinto lume degli occhi ne lasciaciechi; tagliate le garrette, non solo manca la velocità,ma in luogo di quella vien la debolezza. Questo non av-viene in quelle cose, che poco avanti avemo riferito; pe-rocchè se pur io perdo un buono amico, non però mi re-sta l’ostinazione di dolermene sempre; e restando privode’ figliuoli buoni, non mi succede in lor luogo l’impie-tà di piangerli continuamente. Oltra di questo non muo-jono a questi nostri nè gli amici, nè gli figliuoli, ma so-lamente i corpi di questi, e ’l bene non può perir fuor

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che in un modo, e questo è, se si converte in male; il chenon comporta la natura d’esso, perchè tutte le virtù, etutte l’opere delle virtù sono incorrottibili. Et ancorchègli amici, ancorchè i figliuoli approvati e conformi aldesiderio del padre perischino, vi è non dimeno chi suc-cede in luogo loro. Perchè se mi dimandi chi abbia fattoquesti tali così buoni, ti rispondo, che è la Virtù. E que-sta Virtù non patisce che luogo alcuno resti vacuo, occu-pa tutto l’animo, e toglie il desiderio di tutte le cose,perchè sola basta e supplisce per tutte. Perciocchè la po-tenza e l’origine di tutte le cose è in essa virtù. Che im-porta, che l’acqua che corre, sia intercetta, e portata via,se il fonte, dond’è sortita, è salvo? Tu non dirai che unuomo da bene sia più giusto vivendo i figliuoli, che poiche gli ha perduti; nè tampoco che sia più ordinato, nèpiù prudente, nè più onesto: adunque nè anco dirai chesia migliore. L’aver degli amici non fa che un sia più sa-vio, e la perdita d’essi non lo rende più stolto: adunquenon lo fa ne più beato, nè più misero. Mentre la Virtùsarà salva, tu non conoscerai quel che ti manchi. Chedunque? mi dirai: non è più beato un che sia carco ed’amici, e di figliuoli? E perchè deve esser più beato?Poichè il sommo bene non si può nè diminuire, nè cre-scere, e sta sempre fermo nel suo termine, in qualunquemodo si porti la Fortuna; o che gli si dia lunga vecchiez-za, o che vicino ad essa vecchiezza si finischi, la mede-sima natura è del sommo bene, ancorchè sia diversaquella dell’età. Che gli si proponga maggiore, o minorcircolo, questo appertiene allo spazio, non alla forma di

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che in un modo, e questo è, se si converte in male; il chenon comporta la natura d’esso, perchè tutte le virtù, etutte l’opere delle virtù sono incorrottibili. Et ancorchègli amici, ancorchè i figliuoli approvati e conformi aldesiderio del padre perischino, vi è non dimeno chi suc-cede in luogo loro. Perchè se mi dimandi chi abbia fattoquesti tali così buoni, ti rispondo, che è la Virtù. E que-sta Virtù non patisce che luogo alcuno resti vacuo, occu-pa tutto l’animo, e toglie il desiderio di tutte le cose,perchè sola basta e supplisce per tutte. Perciocchè la po-tenza e l’origine di tutte le cose è in essa virtù. Che im-porta, che l’acqua che corre, sia intercetta, e portata via,se il fonte, dond’è sortita, è salvo? Tu non dirai che unuomo da bene sia più giusto vivendo i figliuoli, che poiche gli ha perduti; nè tampoco che sia più ordinato, nèpiù prudente, nè più onesto: adunque nè anco dirai chesia migliore. L’aver degli amici non fa che un sia più sa-vio, e la perdita d’essi non lo rende più stolto: adunquenon lo fa ne più beato, nè più misero. Mentre la Virtùsarà salva, tu non conoscerai quel che ti manchi. Chedunque? mi dirai: non è più beato un che sia carco ed’amici, e di figliuoli? E perchè deve esser più beato?Poichè il sommo bene non si può nè diminuire, nè cre-scere, e sta sempre fermo nel suo termine, in qualunquemodo si porti la Fortuna; o che gli si dia lunga vecchiez-za, o che vicino ad essa vecchiezza si finischi, la mede-sima natura è del sommo bene, ancorchè sia diversaquella dell’età. Che gli si proponga maggiore, o minorcircolo, questo appertiene allo spazio, non alla forma di

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esso bene. Et ancorchè uno sia lungamente stato in vita,l’altro sia subito coperto, e finito in quel suggetto, oveegli era impresso; ambi sono stati d’una medesima for-ma. Quel ch’è Retto, non si può stimar nè per grandez-za, nè per numero, nè per tempo: nè si può aggrandirpiù, di quel che si può diminuire. Restringi l’onesta vitadi cent’anni in quanto spazio tu vuoi, e riducila anco adun giorno, egualmente sarà onesta. La Virtù ora più dif-fusamente si spande, reggendo le città, i regni, e le pro-vincie; dando leggi, coltivando l’amicizie, e dispensan-do gli officj fra gli parenti, e fra’ figliuoli: ora è circon-data da un stretto fine di povertà, d’esilii, e di morte de’suoi. Non è però punto minore, se ben da un regale etalto stato si conduce in un privato et umile, e se da unpublico e spazioso dominio si riduce nella strettezzad’una casa, o d’un angolo. Egualmente è grande, ancor-chè esclusa da ogni banda si ristringa in se medesima:perocchè essendo d’egual grandezza di spirito, di pru-denza esatta, e di giustizia incorrottibile, seguita cheegualmente sia beata; poichè in un sol luogo, cioè nellamente è posta quella beatitudine stabile, grande e tran-quilla, che non può essere senza la scienza delle divine edelle umane cose. Resta ora, ch’io dica la risposta miasopra di questo, come ho promesso. Dico dunque chenon s’affligge il savio nella perdita de’ figliuoli, od’amici, perchè sopporta la morte di questi tali con quel-la medesima grandezza d’animo, con la quale aspetta lasua, nè più teme questa, che si doglia di quella. Percioc-chè la virtù non può essere senza convenevolezza; e con

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esso bene. Et ancorchè uno sia lungamente stato in vita,l’altro sia subito coperto, e finito in quel suggetto, oveegli era impresso; ambi sono stati d’una medesima for-ma. Quel ch’è Retto, non si può stimar nè per grandez-za, nè per numero, nè per tempo: nè si può aggrandirpiù, di quel che si può diminuire. Restringi l’onesta vitadi cent’anni in quanto spazio tu vuoi, e riducila anco adun giorno, egualmente sarà onesta. La Virtù ora più dif-fusamente si spande, reggendo le città, i regni, e le pro-vincie; dando leggi, coltivando l’amicizie, e dispensan-do gli officj fra gli parenti, e fra’ figliuoli: ora è circon-data da un stretto fine di povertà, d’esilii, e di morte de’suoi. Non è però punto minore, se ben da un regale etalto stato si conduce in un privato et umile, e se da unpublico e spazioso dominio si riduce nella strettezzad’una casa, o d’un angolo. Egualmente è grande, ancor-chè esclusa da ogni banda si ristringa in se medesima:perocchè essendo d’egual grandezza di spirito, di pru-denza esatta, e di giustizia incorrottibile, seguita cheegualmente sia beata; poichè in un sol luogo, cioè nellamente è posta quella beatitudine stabile, grande e tran-quilla, che non può essere senza la scienza delle divine edelle umane cose. Resta ora, ch’io dica la risposta miasopra di questo, come ho promesso. Dico dunque chenon s’affligge il savio nella perdita de’ figliuoli, od’amici, perchè sopporta la morte di questi tali con quel-la medesima grandezza d’animo, con la quale aspetta lasua, nè più teme questa, che si doglia di quella. Percioc-chè la virtù non può essere senza convenevolezza; e con

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essa Virtù concordano e convengono tutte le operazioni.Questa concordia perisce, se l’animo, che convien chesia grande et invitto, si sottomette al pianto, o al deside-rio. Disonesta cosa è il temere, et il travagliarsi, e la pi-grizia senza azione alcuna. Perciocchè l’onesto è sicuro,e libero, et intrepido, e sempre è in ordine. Che dunque?mi dirai: non sentirà almeno un motivo simile alla per-turbazione? Non se gli muterà il colore? non se gli com-moverà il volto? non se gli agghiaccieranno le membra?e non gli verranno tutti gli altri segni, che sogliono veni-re non già dall’animo, ma da un inconsiderato instinto,et impeto di natura? Io lo confesso: ma gli resterà la me-desima persuasione et impressione, che niuna di questecose sia male, nè degna che la mente sana manchi di co-stanza per sua cagione. Tutto quel che doverà fare, faràanimosamente e prontamente. Perocchè chi è che neghiche non sia proprio della pazzia il far quel, che si devefare, con viltà, e con contumacia, e col corpo esser in unluogo, con l’animo in un altro, e l’esser distratto da di-versissimi moti? Questa pazzia vien disprezzata perquelle cose medesime, per le quali s’innalza, e s’aggran-disce; e nè anco fa volentieri quelle, delle quali ella sigloria. E se teme di qualche male, è da quello molestatoaspettandolo, non altrimente che se fusse venuto; e pati-sce già con la paura ciò, che teme di non patire. E comenei corpi vengono prima i segni del futuro male, venen-do una certa pigrizia nei nervi, una stanchezza senza fa-tica alcuna, uno spannecitare, et un orror, che corre perle membra: così l’animo infermo, molto prima che sia

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essa Virtù concordano e convengono tutte le operazioni.Questa concordia perisce, se l’animo, che convien chesia grande et invitto, si sottomette al pianto, o al deside-rio. Disonesta cosa è il temere, et il travagliarsi, e la pi-grizia senza azione alcuna. Perciocchè l’onesto è sicuro,e libero, et intrepido, e sempre è in ordine. Che dunque?mi dirai: non sentirà almeno un motivo simile alla per-turbazione? Non se gli muterà il colore? non se gli com-moverà il volto? non se gli agghiaccieranno le membra?e non gli verranno tutti gli altri segni, che sogliono veni-re non già dall’animo, ma da un inconsiderato instinto,et impeto di natura? Io lo confesso: ma gli resterà la me-desima persuasione et impressione, che niuna di questecose sia male, nè degna che la mente sana manchi di co-stanza per sua cagione. Tutto quel che doverà fare, faràanimosamente e prontamente. Perocchè chi è che neghiche non sia proprio della pazzia il far quel, che si devefare, con viltà, e con contumacia, e col corpo esser in unluogo, con l’animo in un altro, e l’esser distratto da di-versissimi moti? Questa pazzia vien disprezzata perquelle cose medesime, per le quali s’innalza, e s’aggran-disce; e nè anco fa volentieri quelle, delle quali ella sigloria. E se teme di qualche male, è da quello molestatoaspettandolo, non altrimente che se fusse venuto; e pati-sce già con la paura ciò, che teme di non patire. E comenei corpi vengono prima i segni del futuro male, venen-do una certa pigrizia nei nervi, una stanchezza senza fa-tica alcuna, uno spannecitare, et un orror, che corre perle membra: così l’animo infermo, molto prima che sia

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oppresso, è travagliato dal male. Perocchè immaginan-doselo prima, cade avanti il tempo. E che cosa piùsciocca può essere, che crucciarsi delle cose future, nèriservarsi per quando verrà il tormento; et andar a cer-carsi le miserie, e moverle, essendo meglio di differirlealmeno, non potendosi fuggire? Vuoi tu sapere il perchènessuno debbe prendersi pena dell’avvenire? Suppon-gasi ch’abbia uno sentito a dirsi che dopo cinquant’anni egli andrà soggetto a’ supplizj: questi non turbe-rassi, se non avrà passato la metà almeno di questospazio, e non vorrà spontaneamente gittarsi inquell’amarezza, che non è per provare che mezzo secolodopo. Per la stessa ragione addiviene, che certi spiriti,che di buona voglia si tormentano, e van ricercandomotivi d’addolorarsi, rimangano contristati da cose giàvecchie e passate in obblio. Quanto passò, quanto saràper avvenire attualmente non ci molesta, nè sentiamo oquesto, o quello: ora non si genera in noi dolore, se nonda ciò, che ci cagiona una sensazione presente. Stasano.

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oppresso, è travagliato dal male. Perocchè immaginan-doselo prima, cade avanti il tempo. E che cosa piùsciocca può essere, che crucciarsi delle cose future, nèriservarsi per quando verrà il tormento; et andar a cer-carsi le miserie, e moverle, essendo meglio di differirlealmeno, non potendosi fuggire? Vuoi tu sapere il perchènessuno debbe prendersi pena dell’avvenire? Suppon-gasi ch’abbia uno sentito a dirsi che dopo cinquant’anni egli andrà soggetto a’ supplizj: questi non turbe-rassi, se non avrà passato la metà almeno di questospazio, e non vorrà spontaneamente gittarsi inquell’amarezza, che non è per provare che mezzo secolodopo. Per la stessa ragione addiviene, che certi spiriti,che di buona voglia si tormentano, e van ricercandomotivi d’addolorarsi, rimangano contristati da cose giàvecchie e passate in obblio. Quanto passò, quanto saràper avvenire attualmente non ci molesta, nè sentiamo oquesto, o quello: ora non si genera in noi dolore, se nonda ciò, che ci cagiona una sensazione presente. Stasano.

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LETTERA III.Post longum intervallum etc. Ep. LXX.

Dopo tanto tempo ho riveduto i tuoi luoghi Pompei; enel rivedergli m’è tornato avanti gli occhi la mia giova-nezza, e mi parea che mi fusse ancor lecito di fare tuttoquel, che ivi nella gioventù facevo, e che pur jeri l’aves-si fatto. Già noi avemo navigato questo mar della vita,Lucilio mio: e come a chi per mar va pare, al dir del no-stro Virgilio,

Che fuggan via le terre e le cittadi;così nel corso di questo rapidissimo tempo avemo primaascosa la puerizia, dipoi l’adolescenza, dipoi quel tempoch’è in mezzo tra gli confini della gioventù, e della vec-chiezza: et ora per l’ultimo ci si comincia a scoprire ilcomun fine della generazione umana. Noi sciocchissimitenemo che questo fine sia uno scoglio? Anzi egli è unclementissimo porto, che talvolta si deve desiderare, nègiammai ricusare. Nel qual porto se alcuno è posto neglianni primi, non si deve lamentar più di quel che si la-menta colui, che ha tosto navigato. Perchè, come tu sai,altri sono intrattenuti e burlati dalla tardanza de’ venti, efastiditi dalla pigra noja della tranquillità; altri dalla per-tinacia d’esso vento con gran prestezza son condotti afine del viaggio. Il medesimo immaginati che intervengaa noi: perciocchè altri sono stati condotti velocementeda questa vita a quel termine, al quale doveano perveni-

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LETTERA III.Post longum intervallum etc. Ep. LXX.

Dopo tanto tempo ho riveduto i tuoi luoghi Pompei; enel rivedergli m’è tornato avanti gli occhi la mia giova-nezza, e mi parea che mi fusse ancor lecito di fare tuttoquel, che ivi nella gioventù facevo, e che pur jeri l’aves-si fatto. Già noi avemo navigato questo mar della vita,Lucilio mio: e come a chi per mar va pare, al dir del no-stro Virgilio,

Che fuggan via le terre e le cittadi;così nel corso di questo rapidissimo tempo avemo primaascosa la puerizia, dipoi l’adolescenza, dipoi quel tempoch’è in mezzo tra gli confini della gioventù, e della vec-chiezza: et ora per l’ultimo ci si comincia a scoprire ilcomun fine della generazione umana. Noi sciocchissimitenemo che questo fine sia uno scoglio? Anzi egli è unclementissimo porto, che talvolta si deve desiderare, nègiammai ricusare. Nel qual porto se alcuno è posto neglianni primi, non si deve lamentar più di quel che si la-menta colui, che ha tosto navigato. Perchè, come tu sai,altri sono intrattenuti e burlati dalla tardanza de’ venti, efastiditi dalla pigra noja della tranquillità; altri dalla per-tinacia d’esso vento con gran prestezza son condotti afine del viaggio. Il medesimo immaginati che intervengaa noi: perciocchè altri sono stati condotti velocementeda questa vita a quel termine, al quale doveano perveni-

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re, ancorchè avessero più indugiato; altri son macerati ecotti con la lunghezza della vita, la quale, come sai, nonsi può perpetuamente ritenere. Perocchè non il vivere,ma il ben vivere è bene: e però il Savio vive non quantopuò, ma quanto deve. Egli considererà sempre, in cheluogo debbia far la sua vita, con chi doverà vivere, et inche modo, e quel che doverà fare vivendo; e pensa sem-pre quale sia la vita sua, e non quanta. Ma se gli occor-rono cose, che lo molestino, e che gli turbino la tranquil-lità della vita, volontariamente se ne leva; e non soloquando egli è forzato dall’ultima necessità volentier sene toglie; ma, tosto che la fortuna di questo mondo glicomincia ad esser sospetta, considera diligentemente sesia bene di finirla. Nè fa differenza alcuna di porgli fineegli medesimo, o che essendovi posto da Dio, di accet-tarlo; e che questo fine si faccia o più tardi, o più pertempo; ne d’esso teme punto, come se gli dovesse ap-portar gran danno. Niuno può molto perdere per le goc-cie, che cadono dai tetti. Non importa più che tanto ilmorir più presto, o più tardi; ma quel che importa è ilmorir bene, o male: e il morir bene è fuggir il pericolodi viver male. Laonde io giudico effemminatissimo ildetto di quel Rodio; il quale essendo messo dal Tirannoin una fossa, et essendo come un fiero animal nudrito,persuadendogli uno che per finir questo tormento s’aste-nesse dal cibo, disse: Ogni gran cosa può sperarl’uomo, purch’egli viva. Ma per fare che questo sia vero,non si deve stimar tanto la vita, che si compri per ognigran prezzo. Alcune cose sono, che ancorchè siano

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re, ancorchè avessero più indugiato; altri son macerati ecotti con la lunghezza della vita, la quale, come sai, nonsi può perpetuamente ritenere. Perocchè non il vivere,ma il ben vivere è bene: e però il Savio vive non quantopuò, ma quanto deve. Egli considererà sempre, in cheluogo debbia far la sua vita, con chi doverà vivere, et inche modo, e quel che doverà fare vivendo; e pensa sem-pre quale sia la vita sua, e non quanta. Ma se gli occor-rono cose, che lo molestino, e che gli turbino la tranquil-lità della vita, volontariamente se ne leva; e non soloquando egli è forzato dall’ultima necessità volentier sene toglie; ma, tosto che la fortuna di questo mondo glicomincia ad esser sospetta, considera diligentemente sesia bene di finirla. Nè fa differenza alcuna di porgli fineegli medesimo, o che essendovi posto da Dio, di accet-tarlo; e che questo fine si faccia o più tardi, o più pertempo; ne d’esso teme punto, come se gli dovesse ap-portar gran danno. Niuno può molto perdere per le goc-cie, che cadono dai tetti. Non importa più che tanto ilmorir più presto, o più tardi; ma quel che importa è ilmorir bene, o male: e il morir bene è fuggir il pericolodi viver male. Laonde io giudico effemminatissimo ildetto di quel Rodio; il quale essendo messo dal Tirannoin una fossa, et essendo come un fiero animal nudrito,persuadendogli uno che per finir questo tormento s’aste-nesse dal cibo, disse: Ogni gran cosa può sperarl’uomo, purch’egli viva. Ma per fare che questo sia vero,non si deve stimar tanto la vita, che si compri per ognigran prezzo. Alcune cose sono, che ancorchè siano

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grandi, e certe; non dimeno io non mi curerò d’averle,se per ottenerle mi bisognerà confessar d’essere un de-bole, e di poco animo. Dunque devo io pensare che inun che vive, la fortuna possa far ogni cosa; più tosto checonsiderare che in colui, che sa morir bisognando, lafortuna non abbia poter alcuno? Nondimeno talvolta,ancorchè un sia vicino a una morte certa e determinata,et ancorchè sappia che gli sia ordinato il supplizio, noncercherà con le sue mani ammazzandosi di torsi a quellapena. È sciocchezza il morir per timor della morte: è ve-nuto chi ti doverà far morire. Aspetta dunque: perchè pi-gli tu tratto avanti? Perchè prendi ad amministrar la cru-deltà, che altri deve amministrare? Porti tu forse invidiaal tuo boja, o pur gli perdoni? Socrate potè con l’asti-nenza finir la vita, e morir più tosto di fame, che di vele-no; volse non dimeno star trenta giorni in prigioneaspettando la morte, non con animo che ogni cosa potes-se essere, e che così lungo spazio di tempo potesse ad-dur seco molte speranze della vita; ma per far che la leg-ge avesse il suo luogo anco sopra di se, e per far ancogodere agli amici quell’estremo essere di Socrate. Checosa più scioccamente potea egli fare, che, disprezzandola morte, temer il veleno? Scribonia, donna piena di gra-vità, fu zia di Drusio Libone, giovane non meno integroche nobile, e di maggior espettazione, che altro che fus-se di quel secolo. Costui essendo ricondotto a casa inlettica dal Senato, con molto poco favore, empiamenteabbandonato da tutti suoi parenti, et amici; già non piùreo, ma certo di dover morire, cominciò a consigliarsi,

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grandi, e certe; non dimeno io non mi curerò d’averle,se per ottenerle mi bisognerà confessar d’essere un de-bole, e di poco animo. Dunque devo io pensare che inun che vive, la fortuna possa far ogni cosa; più tosto checonsiderare che in colui, che sa morir bisognando, lafortuna non abbia poter alcuno? Nondimeno talvolta,ancorchè un sia vicino a una morte certa e determinata,et ancorchè sappia che gli sia ordinato il supplizio, noncercherà con le sue mani ammazzandosi di torsi a quellapena. È sciocchezza il morir per timor della morte: è ve-nuto chi ti doverà far morire. Aspetta dunque: perchè pi-gli tu tratto avanti? Perchè prendi ad amministrar la cru-deltà, che altri deve amministrare? Porti tu forse invidiaal tuo boja, o pur gli perdoni? Socrate potè con l’asti-nenza finir la vita, e morir più tosto di fame, che di vele-no; volse non dimeno star trenta giorni in prigioneaspettando la morte, non con animo che ogni cosa potes-se essere, e che così lungo spazio di tempo potesse ad-dur seco molte speranze della vita; ma per far che la leg-ge avesse il suo luogo anco sopra di se, e per far ancogodere agli amici quell’estremo essere di Socrate. Checosa più scioccamente potea egli fare, che, disprezzandola morte, temer il veleno? Scribonia, donna piena di gra-vità, fu zia di Drusio Libone, giovane non meno integroche nobile, e di maggior espettazione, che altro che fus-se di quel secolo. Costui essendo ricondotto a casa inlettica dal Senato, con molto poco favore, empiamenteabbandonato da tutti suoi parenti, et amici; già non piùreo, ma certo di dover morire, cominciò a consigliarsi,

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se dovea darsi la morte da se, o pur aspettar che gli fus-se data. Al quale Scribonia, Che dunque, disse, ti piacedi pigliarti i fastidj che toccano altrui? Non potè contutto ciò persuaderglielo: egli s’uccise, nè senza cagioneil fece; perciocchè in questo caso chi deve fra due, o tregiorni morire ad arbitrio dell’inimico, vivendo, non èdubbio che fa più tosto il fatto d’ altri, che il suo. Non sipuò dunque determinatamente far una proposizion gene-rale, se essendo un forzato per violenza d’altrui di mori-re, debbia prima darsi la morte, o aspettarla: perciocchèmolte cose vi sono che ti possono tirare così dall’una,come dall’altra parte. Se di queste due specie di mortil’una è con tormento, e l’altra è senza, e facile, perchènon si deve dar di mano a questa? E come, dovendo ionavigare, eleggerò sempre una buona nave, e per abita-re, una buona casa; così anco dovendo uscir di questavita, eleggerò la miglior morte che potrò. Oltra di questocome la vita più lunga non è migliore, così anco è peg-giore una morte più lunga. In niuna altra cosa noi dove-mo assecondare, et obbedir l’animo nostro più che nellamorte. Lasciamo pur che eschi per quella via, per laquale ha cominciato a far impeto, o che appetisca il fer-ro, o il laccio, o pur bevanda che occupi le vene; seguitipur innanzi, e rompa gli legami di questa servitù. Cia-scheduno deve lodar la vita anco agli altri, et a se mede-simo la morte; e la migliore è quella che piace. Sciocca-mente pensiamo tra noi stessi e dicemo: altri dirà ch’ioabbia fatto troppo fortemente, altri troppo temeraria-mente, altri che si potea far altra morte più animosa.

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se dovea darsi la morte da se, o pur aspettar che gli fus-se data. Al quale Scribonia, Che dunque, disse, ti piacedi pigliarti i fastidj che toccano altrui? Non potè contutto ciò persuaderglielo: egli s’uccise, nè senza cagioneil fece; perciocchè in questo caso chi deve fra due, o tregiorni morire ad arbitrio dell’inimico, vivendo, non èdubbio che fa più tosto il fatto d’ altri, che il suo. Non sipuò dunque determinatamente far una proposizion gene-rale, se essendo un forzato per violenza d’altrui di mori-re, debbia prima darsi la morte, o aspettarla: perciocchèmolte cose vi sono che ti possono tirare così dall’una,come dall’altra parte. Se di queste due specie di mortil’una è con tormento, e l’altra è senza, e facile, perchènon si deve dar di mano a questa? E come, dovendo ionavigare, eleggerò sempre una buona nave, e per abita-re, una buona casa; così anco dovendo uscir di questavita, eleggerò la miglior morte che potrò. Oltra di questocome la vita più lunga non è migliore, così anco è peg-giore una morte più lunga. In niuna altra cosa noi dove-mo assecondare, et obbedir l’animo nostro più che nellamorte. Lasciamo pur che eschi per quella via, per laquale ha cominciato a far impeto, o che appetisca il fer-ro, o il laccio, o pur bevanda che occupi le vene; seguitipur innanzi, e rompa gli legami di questa servitù. Cia-scheduno deve lodar la vita anco agli altri, et a se mede-simo la morte; e la migliore è quella che piace. Sciocca-mente pensiamo tra noi stessi e dicemo: altri dirà ch’ioabbia fatto troppo fortemente, altri troppo temeraria-mente, altri che si potea far altra morte più animosa.

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Vuoi tu dunque credere che sia sottoposto al volere, et aiconsigli degli uomini quello, a che non appertien puntoil grido, e la fama? Abbi solamente questa mira di levar-ti quanto più presto potrai dalle mani della fortuna; per-chè avendo altro scopo, non mancheranno quelli, chegiudichino male del fatto tuo. Troverai anco di quelli,che han fatto professione di Savii, che neghino che nonsi debbia far violenza alla sua vita propria, e che giudi-chino cosa nefanda l’essere omicida di se stesso; e di-chino che si deve aspettar il fine ordinato dalla natura.Ma chiunque così dice, non vede ch’egli serra la via del-la libertà. La miglior cosa, che abbia fatto l’eterna legge,è che n’ha dato una sola via per entrar in questa vita; maper uscirne, molte. Doverò io aspettar la crudeltà d’unainfermità, o d’un uomo che mi toglia di questo mondo,potendo uscirne per mezzo dei tormenti, lasciando que-ste avversità? Questo solo fa che noi non ne possiamolamentar della vita; ch’ella non tien per forza alcuno. Èin buon essere questo stato umano, poichè niuno è mise-ro, se non per colpa sua propria. Ti piace di vivere, vivi;se non ti piace, tu puoi ritornar là, donde sei venuto.Molte volte per alleggierirti il dolor della testa, t’hai ca-vato il sangue; e per estenuar il corpo si suol percoterela vena. Non accade con ismisurata ferita aprirsi il petto:perocchè con ogni picciola rottura s’apre la via a quellagran libertà; e la sicurezza sta solo in un punto. Chedunque è che ne fa così pigri e tardi? È che nessun dinoi pensa che una volta ne convien uscir di questo alber-go. Così anco interviene a quelli, che lasciando la lor

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Vuoi tu dunque credere che sia sottoposto al volere, et aiconsigli degli uomini quello, a che non appertien puntoil grido, e la fama? Abbi solamente questa mira di levar-ti quanto più presto potrai dalle mani della fortuna; per-chè avendo altro scopo, non mancheranno quelli, chegiudichino male del fatto tuo. Troverai anco di quelli,che han fatto professione di Savii, che neghino che nonsi debbia far violenza alla sua vita propria, e che giudi-chino cosa nefanda l’essere omicida di se stesso; e di-chino che si deve aspettar il fine ordinato dalla natura.Ma chiunque così dice, non vede ch’egli serra la via del-la libertà. La miglior cosa, che abbia fatto l’eterna legge,è che n’ha dato una sola via per entrar in questa vita; maper uscirne, molte. Doverò io aspettar la crudeltà d’unainfermità, o d’un uomo che mi toglia di questo mondo,potendo uscirne per mezzo dei tormenti, lasciando que-ste avversità? Questo solo fa che noi non ne possiamolamentar della vita; ch’ella non tien per forza alcuno. Èin buon essere questo stato umano, poichè niuno è mise-ro, se non per colpa sua propria. Ti piace di vivere, vivi;se non ti piace, tu puoi ritornar là, donde sei venuto.Molte volte per alleggierirti il dolor della testa, t’hai ca-vato il sangue; e per estenuar il corpo si suol percoterela vena. Non accade con ismisurata ferita aprirsi il petto:perocchè con ogni picciola rottura s’apre la via a quellagran libertà; e la sicurezza sta solo in un punto. Chedunque è che ne fa così pigri e tardi? È che nessun dinoi pensa che una volta ne convien uscir di questo alber-go. Così anco interviene a quelli, che lasciando la lor

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patria vanno ad abitare altrove, donde, ancorchè sianodagli abitatori ingiuriati, non si sanno però partire, trat-tenuti dalla piacevolezza del luogo, e dall’usanza. Vuoitu contra questo corpo esser libero? Abitavi come quelloche ne debbi uscire: presupponi nell’animo che tu debbiesser privo, quando che sia, di questo ricetto; e quandosarai forzato d’uscirne, ti troverai più animoso. Macome può cader nel pensiero il lor fine a quelli, che de-siderano ogni cosa senza fine? Di niuna altra cosa è piùnecessaria la meditazione, che di questa. Perciocchè ilpensare all’altre cose è forse un esercitarsi fuor di pro-posito; perchè se ci accomodiamo l’animo a sopportar lapovertà, continuandoci le ricchezze, non bisogna: se ciarmiamo per disprezzar il dolore, perseverando la sani-tà, l’integrità, e la felicità del corpo, non accaderà maiche noi mettiamo in opera questa virtù. Se ci proponia-mo di patir fortemente la perdita degli nostri; conservan-doci in vita la fortuna tutti quelli che noi amiamo, e fa-cendoli sopravvivere a noi, non sarà necessaria quelladeliberazione. Ma verrà ben fermamente il giorno, cherichiederà l’uso di questa sola meditazione. Non bisognache ti dii ad intendere, che questo valore di romperequesta claustra della servitù umana, sia stato solo in que’grand’uomini; nè che giudichi che questo non si possafar se non da un Catone, il quale cacciò dal petto con lesue mani proprie l’anima, che non have potuto mandarfuori col ferro. Perocchè molti uomini anco di vilissimacondizione, spinti da grandissimo impeto, uscendo diquesti travagli, si sono dati alla vera sicurezza e quiete:

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patria vanno ad abitare altrove, donde, ancorchè sianodagli abitatori ingiuriati, non si sanno però partire, trat-tenuti dalla piacevolezza del luogo, e dall’usanza. Vuoitu contra questo corpo esser libero? Abitavi come quelloche ne debbi uscire: presupponi nell’animo che tu debbiesser privo, quando che sia, di questo ricetto; e quandosarai forzato d’uscirne, ti troverai più animoso. Macome può cader nel pensiero il lor fine a quelli, che de-siderano ogni cosa senza fine? Di niuna altra cosa è piùnecessaria la meditazione, che di questa. Perciocchè ilpensare all’altre cose è forse un esercitarsi fuor di pro-posito; perchè se ci accomodiamo l’animo a sopportar lapovertà, continuandoci le ricchezze, non bisogna: se ciarmiamo per disprezzar il dolore, perseverando la sani-tà, l’integrità, e la felicità del corpo, non accaderà maiche noi mettiamo in opera questa virtù. Se ci proponia-mo di patir fortemente la perdita degli nostri; conservan-doci in vita la fortuna tutti quelli che noi amiamo, e fa-cendoli sopravvivere a noi, non sarà necessaria quelladeliberazione. Ma verrà ben fermamente il giorno, cherichiederà l’uso di questa sola meditazione. Non bisognache ti dii ad intendere, che questo valore di romperequesta claustra della servitù umana, sia stato solo in que’grand’uomini; nè che giudichi che questo non si possafar se non da un Catone, il quale cacciò dal petto con lesue mani proprie l’anima, che non have potuto mandarfuori col ferro. Perocchè molti uomini anco di vilissimacondizione, spinti da grandissimo impeto, uscendo diquesti travagli, si sono dati alla vera sicurezza e quiete:

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e non essendo lor concesso di morir comodamente, nè dieleggere a lor piacere instrumenti per darsi la morte, sisono attaccati a quel ch’è lor venuto innanzi; e dellecose, che per lor natura non erano nocive, per forza nefecero armi per lor medesimi. Pochi giorni sono nelgiuoco di quei, che son condannati a combatter con lebestie, un Germano mettendosi in ordine per lo spetta-colo della mattina, si discostò per deponere il soverchiopeso del corpo, non concedendoglisi altro luogo segretosenza la guardia. Ivi quel legno, che con una sponga at-taccata è posto per nettar le parti oscene, tutto si cacciònella gola, per la quale serrata mandò fuor lo spirito.Questo fu un far ingiuria alla morte: così poco dilicata-mente, e poco convenevolmente morì. Che cosa piùscioccamente si può fare, che morir fastidiosamente? Ouomo veramente forte, e degno che gli fusse stato con-cesso d’eleggersi la morte! Con che fortezza d’animoegli si sarebbe servito del ferro; quanto animosamenteegli si sarebbe gittato nella profondità del mare, onell’altezza d’una fenduta rupe! D’ogn’intorno abban-donato ritrovò la via, e l’arme di darsi la morte: perchèsappi che al morir non è altro che ne retardi che il vole-re(*). Faccisi pur quel giudizio che si vorrà del fatto di

(*)Un Filosofo Cristiano non ragionerebbe con questi principj; e la Morale diCristo, che non è quella di Seneca, vieta sotto pena degli eterni gastighi il sui-cidio, per qualunque cagione esso venga commesso. Qui vuolsi dunque riflet-tere che parla un Etnico, al quale non toccò la bella sorte d’essere illuminatodalla luce della Religion Rivelata, e che empj sono e al tutto anti-Cristiani co-tali sentimenti, i quali non che sieno da attendersi, metton ribrezzo ne’ leggitoridalla ragione, e dalla Religione guidati. Nota dell’Editore.

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e non essendo lor concesso di morir comodamente, nè dieleggere a lor piacere instrumenti per darsi la morte, sisono attaccati a quel ch’è lor venuto innanzi; e dellecose, che per lor natura non erano nocive, per forza nefecero armi per lor medesimi. Pochi giorni sono nelgiuoco di quei, che son condannati a combatter con lebestie, un Germano mettendosi in ordine per lo spetta-colo della mattina, si discostò per deponere il soverchiopeso del corpo, non concedendoglisi altro luogo segretosenza la guardia. Ivi quel legno, che con una sponga at-taccata è posto per nettar le parti oscene, tutto si cacciònella gola, per la quale serrata mandò fuor lo spirito.Questo fu un far ingiuria alla morte: così poco dilicata-mente, e poco convenevolmente morì. Che cosa piùscioccamente si può fare, che morir fastidiosamente? Ouomo veramente forte, e degno che gli fusse stato con-cesso d’eleggersi la morte! Con che fortezza d’animoegli si sarebbe servito del ferro; quanto animosamenteegli si sarebbe gittato nella profondità del mare, onell’altezza d’una fenduta rupe! D’ogn’intorno abban-donato ritrovò la via, e l’arme di darsi la morte: perchèsappi che al morir non è altro che ne retardi che il vole-re(*). Faccisi pur quel giudizio che si vorrà del fatto di

(*)Un Filosofo Cristiano non ragionerebbe con questi principj; e la Morale diCristo, che non è quella di Seneca, vieta sotto pena degli eterni gastighi il sui-cidio, per qualunque cagione esso venga commesso. Qui vuolsi dunque riflet-tere che parla un Etnico, al quale non toccò la bella sorte d’essere illuminatodalla luce della Religion Rivelata, e che empj sono e al tutto anti-Cristiani co-tali sentimenti, i quali non che sieno da attendersi, metton ribrezzo ne’ leggitoridalla ragione, e dalla Religione guidati. Nota dell’Editore.

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questo fortissimo uomo, purchè si tenga per fermo chesi deve preferire una sporchissima morte a una purissi-ma servitù. E poichè ho cominciato a servirmi di questisordidi esempi, voglio continuar con essi: perocchèognuno si riprometterà molto più di se stesso, vedendoche questa morte si può disprezzar anco da quelli, i qua-li sono disprezzatissimi. Non pensiamo che gli Catoni,gli Scipioni, e quegli altri che con ammirazione solemoudir nominare, siano quelli che dovemo in questa partesopra tutti imitare. Or io mostrerò che questa virtù ha dimolti esempi così ne’ Giuochi Bestiarii, come nei Capi-tani delle guerre civili. Conducendosi, non molti giornisono, un certo allo spettacolo della mattina, cintod’ogn’intorno dalla guardia, finse di dormire, e comeche nel sonno gli cadesse giù la testa, l’abbassò tanto,che giunse con essa alle ruote del carro; e si tenne tantofermo nel luogo, dov’egli sedea, finchè col girar dellaruota si fracassò il capo: e così con quel medesimo car-ro, col quale era condotto al supplizio, lo fuggì. Non ècosa che impedisca un che desidera di fuggire ed uscirdel mondo. Nell’aperto la Natura è quella che ha cura dinoi. A chi è permesso dalla sua necessità con dargli tem-po, pensi a più dolce morte; e chi alle mani ha più coseda potersi torre di servitù, facciane la scelta, et elegganeuna, con la quale se liberi. Ma chi ha poca comodità, edifficilmente può pigliar l’occasione, attacchisi a qua-lunque gli è più vicina, pigliandola per buona, ancorchèsia inaudita, et ancorchè sia nova. A chi non mancheràl’animo, non mancherà nè anco l’ingegno per trovar via

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questo fortissimo uomo, purchè si tenga per fermo chesi deve preferire una sporchissima morte a una purissi-ma servitù. E poichè ho cominciato a servirmi di questisordidi esempi, voglio continuar con essi: perocchèognuno si riprometterà molto più di se stesso, vedendoche questa morte si può disprezzar anco da quelli, i qua-li sono disprezzatissimi. Non pensiamo che gli Catoni,gli Scipioni, e quegli altri che con ammirazione solemoudir nominare, siano quelli che dovemo in questa partesopra tutti imitare. Or io mostrerò che questa virtù ha dimolti esempi così ne’ Giuochi Bestiarii, come nei Capi-tani delle guerre civili. Conducendosi, non molti giornisono, un certo allo spettacolo della mattina, cintod’ogn’intorno dalla guardia, finse di dormire, e comeche nel sonno gli cadesse giù la testa, l’abbassò tanto,che giunse con essa alle ruote del carro; e si tenne tantofermo nel luogo, dov’egli sedea, finchè col girar dellaruota si fracassò il capo: e così con quel medesimo car-ro, col quale era condotto al supplizio, lo fuggì. Non ècosa che impedisca un che desidera di fuggire ed uscirdel mondo. Nell’aperto la Natura è quella che ha cura dinoi. A chi è permesso dalla sua necessità con dargli tem-po, pensi a più dolce morte; e chi alle mani ha più coseda potersi torre di servitù, facciane la scelta, et elegganeuna, con la quale se liberi. Ma chi ha poca comodità, edifficilmente può pigliar l’occasione, attacchisi a qua-lunque gli è più vicina, pigliandola per buona, ancorchèsia inaudita, et ancorchè sia nova. A chi non mancheràl’animo, non mancherà nè anco l’ingegno per trovar via

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di morire. Mira come anco gli più infimi servi stimolatidal dolore si risentono, e si destano per modo, che gab-bano anco quelli, che diligentissimamente fanno loro laguardia. Grand’uomo è quello, che non solo si propone,e si delibera di morire; ma ancora si trova il modo diconseguir la morte. E poichè t’ho promesso di darti piùesempi di questa sorte: nel secondo spettacolo dellaguerra navale un Barbaro, passandosi la gola con quellalancia, che avea presa contra gli avversarj, perchè disse,non devo io tormi quanto più presto al tormento, et allostrazio? E perchè devo armato aspettar la morte? Spetta-colo veramente tanto più degno, quanto più onesta cosaè agli uomini il morire, che l’uccidere altrui. Che dun-que? La virtù, che hanno questi animi perduti, e pieni ditormenti, non averanno quelli che contra questi casisono ammaestrati et instrutti dalla lunga meditazione, edalla Ragione maestra di tutte le cose? Questa è quellache n’insegna che vi son molte strade da pervenire allamorte, le quali però tutte hanno un medesimo fine. Enon rilieva che principio s’abbia quel che viene. Questane ammonisce, che concedendocisi, si debbia morir sen-za dolore; e non potendosi, che si faccia come si può, eche si pigli quello che ne viene innanzi per levarsi lavita. È cosa ingiuriosa il vivere a chi si deve per violen-za tor di vita; e per il contrario è bellissima cosa il mori-re a chi lo deve far per forza. Sta sano.

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di morire. Mira come anco gli più infimi servi stimolatidal dolore si risentono, e si destano per modo, che gab-bano anco quelli, che diligentissimamente fanno loro laguardia. Grand’uomo è quello, che non solo si propone,e si delibera di morire; ma ancora si trova il modo diconseguir la morte. E poichè t’ho promesso di darti piùesempi di questa sorte: nel secondo spettacolo dellaguerra navale un Barbaro, passandosi la gola con quellalancia, che avea presa contra gli avversarj, perchè disse,non devo io tormi quanto più presto al tormento, et allostrazio? E perchè devo armato aspettar la morte? Spetta-colo veramente tanto più degno, quanto più onesta cosaè agli uomini il morire, che l’uccidere altrui. Che dun-que? La virtù, che hanno questi animi perduti, e pieni ditormenti, non averanno quelli che contra questi casisono ammaestrati et instrutti dalla lunga meditazione, edalla Ragione maestra di tutte le cose? Questa è quellache n’insegna che vi son molte strade da pervenire allamorte, le quali però tutte hanno un medesimo fine. Enon rilieva che principio s’abbia quel che viene. Questane ammonisce, che concedendocisi, si debbia morir sen-za dolore; e non potendosi, che si faccia come si può, eche si pigli quello che ne viene innanzi per levarsi lavita. È cosa ingiuriosa il vivere a chi si deve per violen-za tor di vita; e per il contrario è bellissima cosa il mori-re a chi lo deve far per forza. Sta sano.

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LETTERA IV.Subito hodie nobis Alexandrinæ naves etc. Ep. LXXVII.

Oggi in un subito sono comparse da noi le navi Alessan-drine, le quali si sogliono mandar innanzi a far intenderela venuta del restante dell’armata, e però le dimandanocorsiere. Queste sono volentier vedute da quei di Terradi Lavoro: e la gente di Pozzuolo tutta corre all’alto pervederle, e dalla sorte di vele conosce le Alessandrine,ancorchè fussero tra mille navi. Perciocchè a queste soleè permesso di spiegar la vela della gabbia, che perl’ordinario hanno tutte le navi: non essendovi cosa cheajuti più il corso, che la più alta parte della vela, dallaquale la nave è sopra tutto spinta. E però vedemo chequando cresce il vento, e vien maggior che non bisogna,s’abbassa l’antenna, perchè al basso ha manco forza ilvento. E poichè cominciano ad entrar nell’Isola Caprea,et a toccar il promontorio, donde

Da l’alta sommità Pallade mira,i capi dell’armata comandano che tutte l’altre portinosolo le vele maestre, e però quelle della gabbia son ma-nifesti indizj dell’Alessandrine. In questo comun discor-so di tutti che corrono al lito, ho preso gran piacere dellapigrizia mia, che dovendo ricever lettere degli miei, nonaffrettai d’intendere in che stato fussero di là le cosemie, e quel che mi portassero di novo. Già lungo tempofa io non posso nè perdere, nè acquistar cosa alcuna; e

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LETTERA IV.Subito hodie nobis Alexandrinæ naves etc. Ep. LXXVII.

Oggi in un subito sono comparse da noi le navi Alessan-drine, le quali si sogliono mandar innanzi a far intenderela venuta del restante dell’armata, e però le dimandanocorsiere. Queste sono volentier vedute da quei di Terradi Lavoro: e la gente di Pozzuolo tutta corre all’alto pervederle, e dalla sorte di vele conosce le Alessandrine,ancorchè fussero tra mille navi. Perciocchè a queste soleè permesso di spiegar la vela della gabbia, che perl’ordinario hanno tutte le navi: non essendovi cosa cheajuti più il corso, che la più alta parte della vela, dallaquale la nave è sopra tutto spinta. E però vedemo chequando cresce il vento, e vien maggior che non bisogna,s’abbassa l’antenna, perchè al basso ha manco forza ilvento. E poichè cominciano ad entrar nell’Isola Caprea,et a toccar il promontorio, donde

Da l’alta sommità Pallade mira,i capi dell’armata comandano che tutte l’altre portinosolo le vele maestre, e però quelle della gabbia son ma-nifesti indizj dell’Alessandrine. In questo comun discor-so di tutti che corrono al lito, ho preso gran piacere dellapigrizia mia, che dovendo ricever lettere degli miei, nonaffrettai d’intendere in che stato fussero di là le cosemie, e quel che mi portassero di novo. Già lungo tempofa io non posso nè perdere, nè acquistar cosa alcuna; e

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di questo parer dovevo essere, ancorchè io non fussivecchio come sono. Ma ora molto più devo averquest’animo, perchè per poco ch’io avessi, non dimenom’avanzerebbe molto più del viatico, che di via; massi-mamente essendoci noi messi per una strada, al fin dellaquale non siamo forzati di venire. Il viaggio sarà imper-fetto, e ti fermerai o nel mezzo, o poco di qua dal luogo,dove disegni d’andare. Ma la vita non si può dimandarimperfetta, ognivolta che sia onesta. In qualunque termi-ne finischi la vita, purchè la finischi bene, puoi dirch’ella sia tutta; e molte volte si deve finir con fortezzad’animo, senza che s’abbia anco gran cagioni(*): percioc-chè non sono tampoco grandi queste che ritengono noi.Tullio Marcellino, che tu conoscerai, giovane riposato, evecchio avanti il tempo, assalito da un’infermità, nongià incurabile, ma lunga e fastidiosa, e che richiedevamolte cose; cominciò a deliberar s’egli si dovea uccide-re; e raunò molti amici, ciascheduno de’ quali, o perchèera timido, gli persuadeva quel che averebbe persuaso ase medesimo; o perchè era adulatore, gli dava quel con-siglio, che s’immaginava che potesse esser più grato a

(*) Pare impossibile che Seneca tenti, magnificandole, di ribadire con tantaforza in capo all’amico, a cui scrive, le frivole ragioni, onde bello ed utileè il fatale eroismo del suicidio, che noi più veramente dimandiam la peg-gior pazzia, che appiccarsi possa a cervello umano; quel Seneca che, cadu-to in disgrazia del suo Scolare e Tiranno Nerone, non ebbe poi cuore diprevenire, comunque uccidendosi, il supplicio capitale, a cui stato era con-dannato. Perchè non venne a questo filosofo il suo Stoicismo in soccorso,e perchè ciò non fece, di che vuole altrui persuadere? Tanto è vero che pas-sa divario immenso tra il predicar una massima, e il metterla in esecuzio-ne. Nota dell’Editore.

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di questo parer dovevo essere, ancorchè io non fussivecchio come sono. Ma ora molto più devo averquest’animo, perchè per poco ch’io avessi, non dimenom’avanzerebbe molto più del viatico, che di via; massi-mamente essendoci noi messi per una strada, al fin dellaquale non siamo forzati di venire. Il viaggio sarà imper-fetto, e ti fermerai o nel mezzo, o poco di qua dal luogo,dove disegni d’andare. Ma la vita non si può dimandarimperfetta, ognivolta che sia onesta. In qualunque termi-ne finischi la vita, purchè la finischi bene, puoi dirch’ella sia tutta; e molte volte si deve finir con fortezzad’animo, senza che s’abbia anco gran cagioni(*): percioc-chè non sono tampoco grandi queste che ritengono noi.Tullio Marcellino, che tu conoscerai, giovane riposato, evecchio avanti il tempo, assalito da un’infermità, nongià incurabile, ma lunga e fastidiosa, e che richiedevamolte cose; cominciò a deliberar s’egli si dovea uccide-re; e raunò molti amici, ciascheduno de’ quali, o perchèera timido, gli persuadeva quel che averebbe persuaso ase medesimo; o perchè era adulatore, gli dava quel con-siglio, che s’immaginava che potesse esser più grato a

(*) Pare impossibile che Seneca tenti, magnificandole, di ribadire con tantaforza in capo all’amico, a cui scrive, le frivole ragioni, onde bello ed utileè il fatale eroismo del suicidio, che noi più veramente dimandiam la peg-gior pazzia, che appiccarsi possa a cervello umano; quel Seneca che, cadu-to in disgrazia del suo Scolare e Tiranno Nerone, non ebbe poi cuore diprevenire, comunque uccidendosi, il supplicio capitale, a cui stato era con-dannato. Perchè non venne a questo filosofo il suo Stoicismo in soccorso,e perchè ciò non fece, di che vuole altrui persuadere? Tanto è vero che pas-sa divario immenso tra il predicar una massima, e il metterla in esecuzio-ne. Nota dell’Editore.

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colui che deliberava. L’amico nostro Stoico, uomo raro,e forte, e strenuo, per lodarlo con quelle parole ch’eimerita, parmi che l’esortasse molto bene. Perciocchècosì gli cominciò a dire: “Non ti tormenta, Marcellinomio, di questo, come se tu deliberassi d’una gran cosa.Non è gran cosa il vivere, perchè anco gli servi tuoi tuttivivono, e tutti gli animali: gran cosa è il morir onesta-mente, prudentemente, e fortemente. Considera quantolungo tempo è che non fai altro, che mangiare, dormire,et attendere alla libidine; nè s’esce mai di questo giro.Può risolversi di voler morire non solo un prudente, etun forte, ovvero un misero, ma ancora un fastidioso.”Egli non avea però bisogno di chi lo persuadesse, masolo d’un che lo ajutasse a mandar ad effetto l’animosuo, perchè i servi non lo voleano in questo obbedire.Però prima tolse loro la paura, e mostrò che allora puòcader in pericolo la famiglia, quando fusse dubbio, se lamorte del padrone fusse volontaria, o no: e che essendocerto che sia di sua volontà, di tanto mal esempio sareb-be l’impedir il padrone che non s’uccida, quanto am-mazzarlo. Poi esortò Marcellino, dicendogli che, comefinita la cena si suol dividere quel che resta agli circo-stanti, così non esser cosa inumana, che nel finir dellavita si doni qualche cosa a quelli, che sono stati ministrid’essa vita, mentr’ella è durata. Era Marcellino faciled’animo, e liberale anco del suo medesimo: sì che distri-buì certe piccole somme di danari a’ servi che piangeva-no, e si mosse anco per se medesimo a consolarli. Nongli bisognò già oprar il ferro, nè spargere il sangue. Per-

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colui che deliberava. L’amico nostro Stoico, uomo raro,e forte, e strenuo, per lodarlo con quelle parole ch’eimerita, parmi che l’esortasse molto bene. Perciocchècosì gli cominciò a dire: “Non ti tormenta, Marcellinomio, di questo, come se tu deliberassi d’una gran cosa.Non è gran cosa il vivere, perchè anco gli servi tuoi tuttivivono, e tutti gli animali: gran cosa è il morir onesta-mente, prudentemente, e fortemente. Considera quantolungo tempo è che non fai altro, che mangiare, dormire,et attendere alla libidine; nè s’esce mai di questo giro.Può risolversi di voler morire non solo un prudente, etun forte, ovvero un misero, ma ancora un fastidioso.”Egli non avea però bisogno di chi lo persuadesse, masolo d’un che lo ajutasse a mandar ad effetto l’animosuo, perchè i servi non lo voleano in questo obbedire.Però prima tolse loro la paura, e mostrò che allora puòcader in pericolo la famiglia, quando fusse dubbio, se lamorte del padrone fusse volontaria, o no: e che essendocerto che sia di sua volontà, di tanto mal esempio sareb-be l’impedir il padrone che non s’uccida, quanto am-mazzarlo. Poi esortò Marcellino, dicendogli che, comefinita la cena si suol dividere quel che resta agli circo-stanti, così non esser cosa inumana, che nel finir dellavita si doni qualche cosa a quelli, che sono stati ministrid’essa vita, mentr’ella è durata. Era Marcellino faciled’animo, e liberale anco del suo medesimo: sì che distri-buì certe piccole somme di danari a’ servi che piangeva-no, e si mosse anco per se medesimo a consolarli. Nongli bisognò già oprar il ferro, nè spargere il sangue. Per-

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ciocchè tre giorni s’astenne dal mangiare; e comandòche si ponesse nel letto il tabernacolo, dopo il quale fuportata anco la cassa da mettere il cadavere, dove egligiacque pur assai, e mancando il calor naturale a poco apoco venne meno, non senza un certo piacere, com’eglidiceva, che suole apportare un leggier mancamentod’animo, che noi solemo provare, ai quali talvolta suolmancar l’animo per debolezza. Io ho dato in una favola,che a te doverà esser grata, intendendo per essa l’esitodell’amico tuo nè difficile, nè misero. Perciocchè contutto ch’egli s’abbia dato la morte; non dimeno è uscitodi vita dolcissimamente, e piacevolissimamente. Ma nonne sarà però inutile questa favola; perchè molte volte lanecessità richiede un simile esempio. Molte volte noidovemo morire, e non volemo; moremo, e non volemo.Niuno è tanto ignorante, che non sappia che una voltagli convien morire, e non dimeno, quando s’avvicina lamorte, si difende, e trema, e piange. Non giudicherai tupiù d’ogn’altro pazzo, un che pianga di non esser vissu-to mill’anni avanti? Or egualmente è pazzo, chi piangeche non sia per vivere dopo mill’anni. Il dover essere, eil non essere stato van del pari; perchè l’uno, e l’altro diquesti tempi è d’altrui. Tu sei stato mandato in questopunto presente: e per allungar questo punto, fin dovepensi d’allungarlo? Che piangi? Che desideri? Tu perdil’opera:

Pon fine al tuo sperar ch’unqua con prieghiSi pieghino gli fati de gli Dei;

perciocchè sono fermi, e stabili, e son guidati con gran-

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ciocchè tre giorni s’astenne dal mangiare; e comandòche si ponesse nel letto il tabernacolo, dopo il quale fuportata anco la cassa da mettere il cadavere, dove egligiacque pur assai, e mancando il calor naturale a poco apoco venne meno, non senza un certo piacere, com’eglidiceva, che suole apportare un leggier mancamentod’animo, che noi solemo provare, ai quali talvolta suolmancar l’animo per debolezza. Io ho dato in una favola,che a te doverà esser grata, intendendo per essa l’esitodell’amico tuo nè difficile, nè misero. Perciocchè contutto ch’egli s’abbia dato la morte; non dimeno è uscitodi vita dolcissimamente, e piacevolissimamente. Ma nonne sarà però inutile questa favola; perchè molte volte lanecessità richiede un simile esempio. Molte volte noidovemo morire, e non volemo; moremo, e non volemo.Niuno è tanto ignorante, che non sappia che una voltagli convien morire, e non dimeno, quando s’avvicina lamorte, si difende, e trema, e piange. Non giudicherai tupiù d’ogn’altro pazzo, un che pianga di non esser vissu-to mill’anni avanti? Or egualmente è pazzo, chi piangeche non sia per vivere dopo mill’anni. Il dover essere, eil non essere stato van del pari; perchè l’uno, e l’altro diquesti tempi è d’altrui. Tu sei stato mandato in questopunto presente: e per allungar questo punto, fin dovepensi d’allungarlo? Che piangi? Che desideri? Tu perdil’opera:

Pon fine al tuo sperar ch’unqua con prieghiSi pieghino gli fati de gli Dei;

perciocchè sono fermi, e stabili, e son guidati con gran-

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de, et eterna necessità. Io vado, tu anderai dove van tuttele cose. E come questo t’è novo, sapendo che sei natocon questa legge, e che il medesimo è avvenuto a tuopadre, a tua madre, il medesimo agli tuoi maggiori, ilmedesimo a tutti quelli che sono stati innanti a te, et ilmedesimo avverrà a tutti quelli, che saran dopo di te?Questo ordine insuperabile, e che non si può mutar conrimedio alcuno, lega, e tira ogni cosa. Quanta moltitudi-ne di mortali ti seguirà; quanta ti terrà compagnia? Iom’immagino che tu crederesti di morir più animosamen-te, se teco moressero molte migliaja di persone. Or sap-pi che molte migliaja d’uomini, e d’animali in quellostesso momento, che tu dubiti di morire, mandano fuoril’anima con varie sorti di morti. Ma tu non pensavi didover pervenire una volta a quello, a che te n’andavi dicontinuo? Non è viaggio alcuno senza fine. Tu pensiforse ch’io ti voglia ora riferir gli esempi d’uomini gran-di in questo proposito; ma io ti voglio solo addur de’putti. Si tien memoria di quel Lacone sbarbato ancora, ilquale essendo fatto prigione gridava in quella sua linguadorica: Io non servirò mai; e congiunse anco la fede alleparole: di maniera che essendogli imposto che facesseun mestier da servo, e ignominioso, comandandoglisiche portasse il vaso osceno; battendo la testa nel muro,se la ruppe. Dunque uno è sì vicino alla libertà, e purserve? Così tu non vorresti che tuo figliuol morisse inquesto modo, più tosto che invecchiasse per poltroneria?Perchè dunque turbarti, se il morir con fortezza d’animoè anco cosa puerile? Pensa pur di non voler seguitar gli

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de, et eterna necessità. Io vado, tu anderai dove van tuttele cose. E come questo t’è novo, sapendo che sei natocon questa legge, e che il medesimo è avvenuto a tuopadre, a tua madre, il medesimo agli tuoi maggiori, ilmedesimo a tutti quelli che sono stati innanti a te, et ilmedesimo avverrà a tutti quelli, che saran dopo di te?Questo ordine insuperabile, e che non si può mutar conrimedio alcuno, lega, e tira ogni cosa. Quanta moltitudi-ne di mortali ti seguirà; quanta ti terrà compagnia? Iom’immagino che tu crederesti di morir più animosamen-te, se teco moressero molte migliaja di persone. Or sap-pi che molte migliaja d’uomini, e d’animali in quellostesso momento, che tu dubiti di morire, mandano fuoril’anima con varie sorti di morti. Ma tu non pensavi didover pervenire una volta a quello, a che te n’andavi dicontinuo? Non è viaggio alcuno senza fine. Tu pensiforse ch’io ti voglia ora riferir gli esempi d’uomini gran-di in questo proposito; ma io ti voglio solo addur de’putti. Si tien memoria di quel Lacone sbarbato ancora, ilquale essendo fatto prigione gridava in quella sua linguadorica: Io non servirò mai; e congiunse anco la fede alleparole: di maniera che essendogli imposto che facesseun mestier da servo, e ignominioso, comandandoglisiche portasse il vaso osceno; battendo la testa nel muro,se la ruppe. Dunque uno è sì vicino alla libertà, e purserve? Così tu non vorresti che tuo figliuol morisse inquesto modo, più tosto che invecchiasse per poltroneria?Perchè dunque turbarti, se il morir con fortezza d’animoè anco cosa puerile? Pensa pur di non voler seguitar gli

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altri, che ad ogni modo sarai condotto per forza. Fa chesia in potestà tua quel ch’è sottoposto ad altri; non tiverrà lo spirito di quel putto, sì che dichi: non serviròmai? Infelice che tu sei, poichè servi agli uomini, servialle cose del mondo, e servi anco alla vita; perciocchèlevando la virtù del morire, la vita è una servitù. E checosa ti spinge ad aspettar tanto? Tu hai già consumatitutti quei stessi piaceri, che ti ritardano, e ti ritengono:nessuno t’è più novo, e niuno è che non ti sia in odio perl’esserne già sazio. Già tu sai che sapor abbia il vino, equale è il mulso: non è differenza alcuna, che per la tuavessica passino cento, o mille anfore, perchè ella è unsacco. Tu sai molto ben che sapor abbino l’ostriche, e ibarbi: la tua lussuria non t’ha lasciato cosa intatta perquesti anni che seguono; e non dimeno queste son quel-le cose, dalle quali tanto mal volentieri ti spicchi. Per-ciocchè che altro ti puoi doler di lasciare? Gli amici for-se, e la patria? Dunque tien tanto conto di questi, chet’adduchi a cenar più tardi che non devi, e che per essercon essi estinguessi anco, se tu potessi, il sole? Perchèche cosa hai mai fatto, che sia degna di luce? Confessapur, confessa, che il voler esser così tardo a morire nonvien dal desiderio, che abbi nè della corte, nè del foro,nè delle cose della natura; ma solo perchè mal volentierlasci il macello, nel quale non hai lasciato cosa alcuna.E se temi la morte, come la disprezzi nel mezzo della re-creazione? Vuoi vivere, perchè sai vivere, e temi di mo-rire. E che? Forse che questa vita non è morte? Cesare,passando per la via Latina, essendo pregato da uno della

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altri, che ad ogni modo sarai condotto per forza. Fa chesia in potestà tua quel ch’è sottoposto ad altri; non tiverrà lo spirito di quel putto, sì che dichi: non serviròmai? Infelice che tu sei, poichè servi agli uomini, servialle cose del mondo, e servi anco alla vita; perciocchèlevando la virtù del morire, la vita è una servitù. E checosa ti spinge ad aspettar tanto? Tu hai già consumatitutti quei stessi piaceri, che ti ritardano, e ti ritengono:nessuno t’è più novo, e niuno è che non ti sia in odio perl’esserne già sazio. Già tu sai che sapor abbia il vino, equale è il mulso: non è differenza alcuna, che per la tuavessica passino cento, o mille anfore, perchè ella è unsacco. Tu sai molto ben che sapor abbino l’ostriche, e ibarbi: la tua lussuria non t’ha lasciato cosa intatta perquesti anni che seguono; e non dimeno queste son quel-le cose, dalle quali tanto mal volentieri ti spicchi. Per-ciocchè che altro ti puoi doler di lasciare? Gli amici for-se, e la patria? Dunque tien tanto conto di questi, chet’adduchi a cenar più tardi che non devi, e che per essercon essi estinguessi anco, se tu potessi, il sole? Perchèche cosa hai mai fatto, che sia degna di luce? Confessapur, confessa, che il voler esser così tardo a morire nonvien dal desiderio, che abbi nè della corte, nè del foro,nè delle cose della natura; ma solo perchè mal volentierlasci il macello, nel quale non hai lasciato cosa alcuna.E se temi la morte, come la disprezzi nel mezzo della re-creazione? Vuoi vivere, perchè sai vivere, e temi di mo-rire. E che? Forse che questa vita non è morte? Cesare,passando per la via Latina, essendo pregato da uno della

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squadra della guardia, che avea per vecchiezza la barbabianca fin al petto, che gli desse la morte; che, disse,ora credi tu di vivere? Questo si deve rispondere a co-storo, ai quali vien in ajuto la morte: Temi di morire?perchè credi tu ora di vivere? Ma io (mi dirà) voglio vi-vere, perchè faccio molte cose onestamente; e perchèmalvolentieri abbandono questi debiti della vita, chefaccio fedelmente, e con industria. E che? Dunque nonsai tu, che uno degli debiti della vita è anco il morire?Tu non lasci officio alcuno, perchè non si prescrive maicerto numero, che si debbia compire. Non è vita che nonsia lunga. Perchè se averai considerazione alla naturadelle cose, la vita anco di Nestore, e di Statilia è breve,la quale comandò che si scrivesse nel suo monumento,ch’ella era vissuta nonantanove anni. Vedi che vi è purchi si gloria d’una lunga vecchiezza: or chi l’averebbepotuta comportare, se gli fusse stato per sorte concessodi giungere al centesimo? Come nella favola, così anconella vita importa non quanto lungo tempo sia durata,ma quanto bene. Non rilieva punto in che luogo resti divivere: lascia pur dove vorrai, purchè vi metti un buonfine. Sta sano.

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squadra della guardia, che avea per vecchiezza la barbabianca fin al petto, che gli desse la morte; che, disse,ora credi tu di vivere? Questo si deve rispondere a co-storo, ai quali vien in ajuto la morte: Temi di morire?perchè credi tu ora di vivere? Ma io (mi dirà) voglio vi-vere, perchè faccio molte cose onestamente; e perchèmalvolentieri abbandono questi debiti della vita, chefaccio fedelmente, e con industria. E che? Dunque nonsai tu, che uno degli debiti della vita è anco il morire?Tu non lasci officio alcuno, perchè non si prescrive maicerto numero, che si debbia compire. Non è vita che nonsia lunga. Perchè se averai considerazione alla naturadelle cose, la vita anco di Nestore, e di Statilia è breve,la quale comandò che si scrivesse nel suo monumento,ch’ella era vissuta nonantanove anni. Vedi che vi è purchi si gloria d’una lunga vecchiezza: or chi l’averebbepotuta comportare, se gli fusse stato per sorte concessodi giungere al centesimo? Come nella favola, così anconella vita importa non quanto lungo tempo sia durata,ma quanto bene. Non rilieva punto in che luogo resti divivere: lascia pur dove vorrai, purchè vi metti un buonfine. Sta sano.

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LETTERA V.Longum mihi comitatum etc. Ep. LIV.

Lungamente ero stato assediato dall’indisposizione,quando di novo in un subito m’assalì. Di che sorte indi-sposizione, mi dirai. Ragionevolmente in vero me ne ri-cerchi, poichè non vi è male, ch’io non conosca peresperienza: non dimeno a uno particolarmente par ch’iosia dato in preda, e questo non so perchè me lo battezzicon nome Greco, perchè convenevolmente si può chia-mar difficultà di respirare. Questo è un impeto assaibreve, e simile a una procella, e dura intorno a un’ora;perciocchè chi è che lungamente stenti in mandar fuorail fiato? Io ho bonamente provato tutti gl’incomodi, etutti gli pericoli che può aver un corpo umano; ma nes-suno mi par che sia più fastidioso di questo. E come puòessere altrimente? perchè ogn’altro mal che s’abbia è unstar male; ma aver questo è un morire. E per questo iMedici sogliono dimandar questa infermità pensier dimorte. Conduce talvolta ad effetto quel spirito, quel chemolte volte s’è sforzato di fare. Ma che? Pensi tu forseche ora, scrivendoti, io sia allegro per averla scappata?Certamente s’io mi compiaccio di questo fine della sani-tà, faccio cosa non men da ridersene che fa colui, che sipersuade d’aver vinto, per aver differito il comparire ingiudizio. Ma io nel punto che stavo per affocarmi, nonlasciai mai di darmi pace co’ pensieri pieni d’allegrezza,

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LETTERA V.Longum mihi comitatum etc. Ep. LIV.

Lungamente ero stato assediato dall’indisposizione,quando di novo in un subito m’assalì. Di che sorte indi-sposizione, mi dirai. Ragionevolmente in vero me ne ri-cerchi, poichè non vi è male, ch’io non conosca peresperienza: non dimeno a uno particolarmente par ch’iosia dato in preda, e questo non so perchè me lo battezzicon nome Greco, perchè convenevolmente si può chia-mar difficultà di respirare. Questo è un impeto assaibreve, e simile a una procella, e dura intorno a un’ora;perciocchè chi è che lungamente stenti in mandar fuorail fiato? Io ho bonamente provato tutti gl’incomodi, etutti gli pericoli che può aver un corpo umano; ma nes-suno mi par che sia più fastidioso di questo. E come puòessere altrimente? perchè ogn’altro mal che s’abbia è unstar male; ma aver questo è un morire. E per questo iMedici sogliono dimandar questa infermità pensier dimorte. Conduce talvolta ad effetto quel spirito, quel chemolte volte s’è sforzato di fare. Ma che? Pensi tu forseche ora, scrivendoti, io sia allegro per averla scappata?Certamente s’io mi compiaccio di questo fine della sani-tà, faccio cosa non men da ridersene che fa colui, che sipersuade d’aver vinto, per aver differito il comparire ingiudizio. Ma io nel punto che stavo per affocarmi, nonlasciai mai di darmi pace co’ pensieri pieni d’allegrezza,

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e di fortezza. Che sarà questo? dicevo: così spesso lamorte fa prova di me? Ma faccia pure, ch’io già lungotempo ho provato lei. Quando? mi dirai. Prima ch’io na-scessi. La morte è il non essere: e questo già so comestia; perchè quel medesimo sarà dopo di me, che è statoinnanzi a me. Se tormento alcuno è in questa cosa, è ne-cessario che fusse anco prima che nascessimo al mondo.Oh non sentimmo allora affanno alcuno, mi dirai. Digrazia non tener per pazzia, se un giudica che sia peggioda poi che la lucerna s’estingue, che prima che s’accen-desse. Noi anco e n’accendemo, e n’estinguemo, et inquel mezzo di tempo patimo qualche cosa. Ma l’una el’altra di queste cose è grandissima sicurezza; perocchèin questo, s’io non mi gabbo, il mio Lucilio, erriamo chepensiamo che la morte ne seguiti, dov’ella n’ha prece-duti, et è per seguirne. Ciò che avanti noi è stato, è mor-te; perciocchè che importa o che tu non cominci, o chefinischi, essendo, che dell’una, e dell’altra di questecose l’effetto sia il non essere? Con queste e simili esor-tazioni tacite, poichè parlar non potevo, posi fine al ra-gionar con me medesimo: dopo a poco a poco il sospi-rio, che avea già cominciato a convertirsi in anelare,prese maggiori intervalli, a tal che ritardando cessò deltutto; e quantunque sia mancato, non però lo spirito cor-re secondo il suo ordinario. Sento ancor non so che didifficoltà, e di tardanza di lena. Alfin faccia com’eglivuole, purchè io non ne suspiri nell’animo. Benchè vo-glio che tu ti riprometti questo di me, ch’io all’estremonon temerò punto: già son preparato di modo, ch’io non

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e di fortezza. Che sarà questo? dicevo: così spesso lamorte fa prova di me? Ma faccia pure, ch’io già lungotempo ho provato lei. Quando? mi dirai. Prima ch’io na-scessi. La morte è il non essere: e questo già so comestia; perchè quel medesimo sarà dopo di me, che è statoinnanzi a me. Se tormento alcuno è in questa cosa, è ne-cessario che fusse anco prima che nascessimo al mondo.Oh non sentimmo allora affanno alcuno, mi dirai. Digrazia non tener per pazzia, se un giudica che sia peggioda poi che la lucerna s’estingue, che prima che s’accen-desse. Noi anco e n’accendemo, e n’estinguemo, et inquel mezzo di tempo patimo qualche cosa. Ma l’una el’altra di queste cose è grandissima sicurezza; perocchèin questo, s’io non mi gabbo, il mio Lucilio, erriamo chepensiamo che la morte ne seguiti, dov’ella n’ha prece-duti, et è per seguirne. Ciò che avanti noi è stato, è mor-te; perciocchè che importa o che tu non cominci, o chefinischi, essendo, che dell’una, e dell’altra di questecose l’effetto sia il non essere? Con queste e simili esor-tazioni tacite, poichè parlar non potevo, posi fine al ra-gionar con me medesimo: dopo a poco a poco il sospi-rio, che avea già cominciato a convertirsi in anelare,prese maggiori intervalli, a tal che ritardando cessò deltutto; e quantunque sia mancato, non però lo spirito cor-re secondo il suo ordinario. Sento ancor non so che didifficoltà, e di tardanza di lena. Alfin faccia com’eglivuole, purchè io non ne suspiri nell’animo. Benchè vo-glio che tu ti riprometti questo di me, ch’io all’estremonon temerò punto: già son preparato di modo, ch’io non

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penso di aver a vivere tutto un giorno intiero. Lauda, etimita colui, al quale non incresce di morire, piacendoglidi vivere. Perciocchè che virtù è l’uscire, quando seicacciato? Non dimeno anco in questo caso è virtù; per-chè son cacciato veramente, ma non altrimenti che s’ion’uscissi per me medesimo. E di qui viene che non sipuò dir che un savio sia scacciato; perchè l’esser scac-ciato è l’esser per forza levato, donde contra tua vogliati parti. Il Savio non fa cosa alcuna sforzatamente: fuggela necessità, perchè vuol per se medesimo quello, a chela necessità lo sforzerebbe. Sta sano.

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penso di aver a vivere tutto un giorno intiero. Lauda, etimita colui, al quale non incresce di morire, piacendoglidi vivere. Perciocchè che virtù è l’uscire, quando seicacciato? Non dimeno anco in questo caso è virtù; per-chè son cacciato veramente, ma non altrimenti che s’ion’uscissi per me medesimo. E di qui viene che non sipuò dir che un savio sia scacciato; perchè l’esser scac-ciato è l’esser per forza levato, donde contra tua vogliati parti. Il Savio non fa cosa alcuna sforzatamente: fuggela necessità, perchè vuol per se medesimo quello, a chela necessità lo sforzerebbe. Sta sano.

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LETTERA VI.Jam tibi iste persuasit etc. Ep. XLVII.

Già cotesto amico tuo t’ha persuaso, ch’egli è un uomoda bene: ma avverti che un uomo da bene così prestonon solo non si può fare, ma nè anco comprendere. Saitu di qual uomo da bene ora io ti parli? Di quello, chevien compreso sotto questa seconda nota. Perocchèquell’altro forse, non altrimenti che una fenice, nasceogni cinquecento anni una volta; nè ci dovrà maraviglia-re, che da così lungo intervallo si generino sì gran cose.Le mediocri e che volgarmente nascono, spesso son daFortuna prodotte; ma le grandi sono con la rarità istessacommendate. Ora costui è ancor molto lontano da quel-lo, di chi egli fa professione: e se sapesse quel ch’è esseruomo da bene, non si persuaderebbe d’esserlo ancora, eforse anco si despererebbe di poterlo mai essere. Oh glidispiacciono i tristi. Il medesimo avvien nei tristi istessi,i quali non han pena maggiore della scelleratezza loro,che il dispiacere a se medesimo, et ai suoi pari. Oh ha inodio quelli, che per subita grandezza s’insolentiscono. Ilmedesimo egli farebbe, quando avesse il medesimo po-tere. I vizj di molti sono ascosti, perchè non han più for-ze che tanto, i quali però non avrebbono meno ardire, serispondessero loro le forze, che abbiano quelli che sonoscoperti dalla felicità. A quelli mancano i mezzi egl’instrumenti di manifestar la lor malignità. Così anco

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LETTERA VI.Jam tibi iste persuasit etc. Ep. XLVII.

Già cotesto amico tuo t’ha persuaso, ch’egli è un uomoda bene: ma avverti che un uomo da bene così prestonon solo non si può fare, ma nè anco comprendere. Saitu di qual uomo da bene ora io ti parli? Di quello, chevien compreso sotto questa seconda nota. Perocchèquell’altro forse, non altrimenti che una fenice, nasceogni cinquecento anni una volta; nè ci dovrà maraviglia-re, che da così lungo intervallo si generino sì gran cose.Le mediocri e che volgarmente nascono, spesso son daFortuna prodotte; ma le grandi sono con la rarità istessacommendate. Ora costui è ancor molto lontano da quel-lo, di chi egli fa professione: e se sapesse quel ch’è esseruomo da bene, non si persuaderebbe d’esserlo ancora, eforse anco si despererebbe di poterlo mai essere. Oh glidispiacciono i tristi. Il medesimo avvien nei tristi istessi,i quali non han pena maggiore della scelleratezza loro,che il dispiacere a se medesimo, et ai suoi pari. Oh ha inodio quelli, che per subita grandezza s’insolentiscono. Ilmedesimo egli farebbe, quando avesse il medesimo po-tere. I vizj di molti sono ascosti, perchè non han più for-ze che tanto, i quali però non avrebbono meno ardire, serispondessero loro le forze, che abbiano quelli che sonoscoperti dalla felicità. A quelli mancano i mezzi egl’instrumenti di manifestar la lor malignità. Così anco

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sicuramente si maneggia un pestifero serpe, mentre egliè agghiacciato dal freddo: non è ch’egli sia privo di ve-leno, ma è di sorte abbattuto, che non ha forza. La cru-deltà, l’ambizione, e la lussuria di molti non può al parde’ più tristi aver ardire, perchè non ha il favor della for-tuna: ma se tu darai loro poter quanto vogliono, cono-scerai apertamente che saranno di quel medesimo vole-re. Sovvienti, che dicendomi tu di poter disponere dinon so chi, io ti risposi che quel tale era volubile e leg-giero, e che tu non lo tenessi per li piedi, ma per le pen-ne. Ma io mentei, perocchè era solo attaccato per la piu-ma, la quale, fuggendosi, ha rimessa. Tu sai quantospasso egli poi t’abbia dato, e quante cose abbia tentato,che sarebbono poi cadute sopra di lui. Non vedeva cheper por altri in pericoli, egli rovinava se stesso: non pen-sava di che peso fussero le cose, che dimandava, ancor-chè non fussero soverchie. Dovemo dunque considerareche in quelle cose, le quali con ogni affetto cerchiamo, econ gran fatica contendiamo, o non vi è comodo alcuno,o l’incomodo avanza molto più. Molte cose son super-flue, e molte non bastano. Ma non consideriamotant’oltre, e pensiamo che ci sian date in grazia le cose,che ci costano carissimo. E di qui si può conoscerel’ignoranza nostra, che pensiamo che solo quelle cose sicomprino, per le quali paghiamo danari: e dimandiamodateci senza prezzo quelle, per le quali spendemo noimedesimi; le quali non compreremmo, se ci convenissedar per averle la nostra casa, o qualche ameno e fruttife-ro podere, e non dimeno per possederle non guardiamo

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sicuramente si maneggia un pestifero serpe, mentre egliè agghiacciato dal freddo: non è ch’egli sia privo di ve-leno, ma è di sorte abbattuto, che non ha forza. La cru-deltà, l’ambizione, e la lussuria di molti non può al parde’ più tristi aver ardire, perchè non ha il favor della for-tuna: ma se tu darai loro poter quanto vogliono, cono-scerai apertamente che saranno di quel medesimo vole-re. Sovvienti, che dicendomi tu di poter disponere dinon so chi, io ti risposi che quel tale era volubile e leg-giero, e che tu non lo tenessi per li piedi, ma per le pen-ne. Ma io mentei, perocchè era solo attaccato per la piu-ma, la quale, fuggendosi, ha rimessa. Tu sai quantospasso egli poi t’abbia dato, e quante cose abbia tentato,che sarebbono poi cadute sopra di lui. Non vedeva cheper por altri in pericoli, egli rovinava se stesso: non pen-sava di che peso fussero le cose, che dimandava, ancor-chè non fussero soverchie. Dovemo dunque considerareche in quelle cose, le quali con ogni affetto cerchiamo, econ gran fatica contendiamo, o non vi è comodo alcuno,o l’incomodo avanza molto più. Molte cose son super-flue, e molte non bastano. Ma non consideriamotant’oltre, e pensiamo che ci sian date in grazia le cose,che ci costano carissimo. E di qui si può conoscerel’ignoranza nostra, che pensiamo che solo quelle cose sicomprino, per le quali paghiamo danari: e dimandiamodateci senza prezzo quelle, per le quali spendemo noimedesimi; le quali non compreremmo, se ci convenissedar per averle la nostra casa, o qualche ameno e fruttife-ro podere, e non dimeno per possederle non guardiamo

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nè a fastidj, nè a pericolo, nè a perdita d’onore, di liber-tà, e di tempo. Tanto tenemo poco conto di noi, che nonvi è cosa a ciascheduno più vile di se medesimo. Faccia-mo dunque in tutte le deliberazioni, e in tutte le cose no-stre quel che solemo far con questi, che vendono mer-canzie; e vediamo quel che noi desideriamo quanto sivenda. Molte volte vi son cose di grandissimo prezzo,che s’han poi per niente. Io ti posso mostrare che moltecose, dopo averle acquistate e tenute, n’hanno tolto la li-bertà. Noi saremmo nostri senza dubbio, se queste cosenon fussero nostre. Considera dunque tra te medesimoqueste ragioni, non solo nell’accrescimento di questibeni di fortuna, ma ancora nella perdita; e risolviti chetutti siano caduchi. E poichè sono avventizj, tanto facil-mente vivrai senza essi, come vivevi prima che ti fusse-ro dati dal caso. Se lungamente gli hai posseduti, puoidir d’avergli perduti, dopo che te ne sei saziato: se gligodi poco tempo, tu gli perdi prima che tu vi facci l’uso.Se averai minor somma di danari, averai anco minor fa-stidio: se sarai manco in grazia del mondo, sarai ancormanco invidiato. Considera di grazia tutte queste cose,che ci fanno impazzire, e la perdita delle quali ci causaanco fin alle lacrime; e conoscerai apertamente che nonè il danno che ne tormenta, ma l’opinion del danno.Nessuno s’accorge ch’elle siano perite, ma lo pensa. Chiha se medesimo, non può dir d’aver perduta cosa alcu-na. Ma quanto avvien ch’altri sia patron di se stesso?Sta sano.

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nè a fastidj, nè a pericolo, nè a perdita d’onore, di liber-tà, e di tempo. Tanto tenemo poco conto di noi, che nonvi è cosa a ciascheduno più vile di se medesimo. Faccia-mo dunque in tutte le deliberazioni, e in tutte le cose no-stre quel che solemo far con questi, che vendono mer-canzie; e vediamo quel che noi desideriamo quanto sivenda. Molte volte vi son cose di grandissimo prezzo,che s’han poi per niente. Io ti posso mostrare che moltecose, dopo averle acquistate e tenute, n’hanno tolto la li-bertà. Noi saremmo nostri senza dubbio, se queste cosenon fussero nostre. Considera dunque tra te medesimoqueste ragioni, non solo nell’accrescimento di questibeni di fortuna, ma ancora nella perdita; e risolviti chetutti siano caduchi. E poichè sono avventizj, tanto facil-mente vivrai senza essi, come vivevi prima che ti fusse-ro dati dal caso. Se lungamente gli hai posseduti, puoidir d’avergli perduti, dopo che te ne sei saziato: se gligodi poco tempo, tu gli perdi prima che tu vi facci l’uso.Se averai minor somma di danari, averai anco minor fa-stidio: se sarai manco in grazia del mondo, sarai ancormanco invidiato. Considera di grazia tutte queste cose,che ci fanno impazzire, e la perdita delle quali ci causaanco fin alle lacrime; e conoscerai apertamente che nonè il danno che ne tormenta, ma l’opinion del danno.Nessuno s’accorge ch’elle siano perite, ma lo pensa. Chiha se medesimo, non può dir d’aver perduta cosa alcu-na. Ma quanto avvien ch’altri sia patron di se stesso?Sta sano.

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LETTERA VII.Moleste fers decessisse Flaccum etc. Ep. LXIII.

Ti rincresce che Flacco Amico tuo sia morto; ma nonvorrei però che tu te ne rammaricassi più del dovere. Ionon ti dico già che non ti dogli di questa perdita, che ap-pena avrei tanto ardire di richiedertene; e so ben che sa-rebbe il meglio. Ma chi sarà mai che abbia tanta costan-za d’animo, se non forse un che signoreggi la Fortuna?E questo tale ancora sarà punto da questa passione; manon più oltre che punto. A noi si può perdonare il darnelle lagrime, purchè non sian soverchie, e purchè conla prudenza le conteniamo. Gli occhi nostri nella perditadell’Amico non devono essere asciutti del tutto, nè sìmolli, che a guisa di fiume corrano. Si deve lagrimar,non piangere. Ti parerà forse ch’io ti ponga una duralegge in questa cosa: poichè il gran poeta Greco par checonceda, che per un sol giorno sia lecito il piangere, di-cendo che ancora Niobe pensò al mangiare. Mi diman-derai donde procedano questi lamenti, e questi smisuratipianti? Ti rispondo, che per il mezzo delle lagrime cer-chiam di mostrare segni del desiderio, che avemodell’Amico; e però noi non facciamo quel che ne detta ildolore, ma solo il dimostriamo. O felice pazzia, che fache nel dolore ancora sia qualche poca d’ambizione.Che dunque? mi dirai: mi devo dimenticar io dell’Ami-co? Tu prometti di serbar una breve memoria di lui, se

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LETTERA VII.Moleste fers decessisse Flaccum etc. Ep. LXIII.

Ti rincresce che Flacco Amico tuo sia morto; ma nonvorrei però che tu te ne rammaricassi più del dovere. Ionon ti dico già che non ti dogli di questa perdita, che ap-pena avrei tanto ardire di richiedertene; e so ben che sa-rebbe il meglio. Ma chi sarà mai che abbia tanta costan-za d’animo, se non forse un che signoreggi la Fortuna?E questo tale ancora sarà punto da questa passione; manon più oltre che punto. A noi si può perdonare il darnelle lagrime, purchè non sian soverchie, e purchè conla prudenza le conteniamo. Gli occhi nostri nella perditadell’Amico non devono essere asciutti del tutto, nè sìmolli, che a guisa di fiume corrano. Si deve lagrimar,non piangere. Ti parerà forse ch’io ti ponga una duralegge in questa cosa: poichè il gran poeta Greco par checonceda, che per un sol giorno sia lecito il piangere, di-cendo che ancora Niobe pensò al mangiare. Mi diman-derai donde procedano questi lamenti, e questi smisuratipianti? Ti rispondo, che per il mezzo delle lagrime cer-chiam di mostrare segni del desiderio, che avemodell’Amico; e però noi non facciamo quel che ne detta ildolore, ma solo il dimostriamo. O felice pazzia, che fache nel dolore ancora sia qualche poca d’ambizione.Che dunque? mi dirai: mi devo dimenticar io dell’Ami-co? Tu prometti di serbar una breve memoria di lui, se

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ha da essere accompagnata col dolore: perocchè questotuo volto, che ora è sì mesto, sarà facilmente rivoltato inriso da qualunque cosa che avvenga. Non dirò cosa al-cuna della lunghezza del tempo, il quale ogni gran desi-derio mitiga, et ogni gran pianto toglie via. Non più pre-sto lasserai d’osservar queste tue passioni, che l’imma-gine di cotesto dispiacere ti si leverà d’avanti gli occhi.Ora tu medesimo sei, che serbi, e custodisci questo tuodolore: con tutto ciò a quelli anco, che il custodiscono,fugge via, e quanto è maggiore, tanto più presto manca.Facciamo dunque che la memoria delle cose perdute cisia gioconda; perchè nessuno volentieri torna col pen-siero a quello, a che sa di non poter pensare senza tor-mento. E questo s’ha da far per modo, ch’il nome diquelli che amandoli avemo perduti, ne torni a memoriacon qualche rimordimento d’animo: il quale rimordi-mento ha ancora il suo piacere. Perocchè, come soleadire Attalo nostro, come negli vini troppo vecchi ci suolpiacer quella amarezza che hanno: e come anco vi sonode’ pomi, l’asprezza de’ quali n’è soave, così la ricor-danza degli morti amici ci è gioconda. Ma intervenen-dovi poi spazio di tempo, tolto via ciò che ne tormenta-va, ne resta solo il puro piacer che ne viene da questa ri-cordanza. E se volemo credere a quest’Attalo, il pensareagli amici sani, è un godere, come si suol dire, a mele efogaccia; e il ragionar di quei, che sono stati, piace an-corchè non senza qualche poco d’acerbezza. E chi saràche neghi che ancora queste cose acerbe, e che hannonon so che dell’austero, faccino stomaco? Io son di con-

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ha da essere accompagnata col dolore: perocchè questotuo volto, che ora è sì mesto, sarà facilmente rivoltato inriso da qualunque cosa che avvenga. Non dirò cosa al-cuna della lunghezza del tempo, il quale ogni gran desi-derio mitiga, et ogni gran pianto toglie via. Non più pre-sto lasserai d’osservar queste tue passioni, che l’imma-gine di cotesto dispiacere ti si leverà d’avanti gli occhi.Ora tu medesimo sei, che serbi, e custodisci questo tuodolore: con tutto ciò a quelli anco, che il custodiscono,fugge via, e quanto è maggiore, tanto più presto manca.Facciamo dunque che la memoria delle cose perdute cisia gioconda; perchè nessuno volentieri torna col pen-siero a quello, a che sa di non poter pensare senza tor-mento. E questo s’ha da far per modo, ch’il nome diquelli che amandoli avemo perduti, ne torni a memoriacon qualche rimordimento d’animo: il quale rimordi-mento ha ancora il suo piacere. Perocchè, come soleadire Attalo nostro, come negli vini troppo vecchi ci suolpiacer quella amarezza che hanno: e come anco vi sonode’ pomi, l’asprezza de’ quali n’è soave, così la ricor-danza degli morti amici ci è gioconda. Ma intervenen-dovi poi spazio di tempo, tolto via ciò che ne tormenta-va, ne resta solo il puro piacer che ne viene da questa ri-cordanza. E se volemo credere a quest’Attalo, il pensareagli amici sani, è un godere, come si suol dire, a mele efogaccia; e il ragionar di quei, che sono stati, piace an-corchè non senza qualche poco d’acerbezza. E chi saràche neghi che ancora queste cose acerbe, e che hannonon so che dell’austero, faccino stomaco? Io son di con-

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trario parere, et il pensare agli amici defonti a me è cosadolce e gioconda: perocchè io gli ebbi, come quello chegli dovevo perdere; e gli ho perduti, come s’io gli aves-si. Fa dunque, il mio Lucilio, quel che si conviene allatua equità. Non voler pigliar in mala parte il benefiziodella natura, che se te l’ha levato, te lo diede anco. Eperò godiamone avidamente gli amici, perchè egli è in-certo quanto tempo gli possiamo godere. Pensiamoquante volte ne siamo stati senza, per qualche lungoviaggio che abbiano fatto; quante volte stando nel mede-simo loco, non gli abbiamo veduti; e conosceremo aper-tamente che molto più tempo noi gli avemo perduti,mentre erano vivi. Sopporta costoro, che essendo negli-gentissimi in goder gli amici, gli piangono poi miserissi-mamente; nè amano alcuno, se non dopo che l’hannoperduto: e però allora molto maggiormente se ne attri-stano. E perchè dubitano che non si revochi in dubbio segli abbiano amati, o no, cercano questi tardi indizj delloro affetto. Se noi avemo altri amici, ci portiamo e giu-dichiamo anco male d’essi, a stimargli tanto poco, chetutti insieme non ne possino consolare nella perdita d’unsolo: se non n’avemo più, noi facemo maggior ingiuria anoi medesimi, di quella che ricevemo dalla Fortuna; pe-rocchè quella n’ha tolto un solo, e noi non n’avemo ac-quistato alcuno. Oltra di questo non si può dir che abbiaamato troppo anco un solo, colui che più d’un solo nonha potuto amare. Se uno spogliato, perduta quella vesteche solamente avea, vuol piuttosto star a piangere la suamiseria, che provveder da poter fuggire il freddo, e da

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trario parere, et il pensare agli amici defonti a me è cosadolce e gioconda: perocchè io gli ebbi, come quello chegli dovevo perdere; e gli ho perduti, come s’io gli aves-si. Fa dunque, il mio Lucilio, quel che si conviene allatua equità. Non voler pigliar in mala parte il benefiziodella natura, che se te l’ha levato, te lo diede anco. Eperò godiamone avidamente gli amici, perchè egli è in-certo quanto tempo gli possiamo godere. Pensiamoquante volte ne siamo stati senza, per qualche lungoviaggio che abbiano fatto; quante volte stando nel mede-simo loco, non gli abbiamo veduti; e conosceremo aper-tamente che molto più tempo noi gli avemo perduti,mentre erano vivi. Sopporta costoro, che essendo negli-gentissimi in goder gli amici, gli piangono poi miserissi-mamente; nè amano alcuno, se non dopo che l’hannoperduto: e però allora molto maggiormente se ne attri-stano. E perchè dubitano che non si revochi in dubbio segli abbiano amati, o no, cercano questi tardi indizj delloro affetto. Se noi avemo altri amici, ci portiamo e giu-dichiamo anco male d’essi, a stimargli tanto poco, chetutti insieme non ne possino consolare nella perdita d’unsolo: se non n’avemo più, noi facemo maggior ingiuria anoi medesimi, di quella che ricevemo dalla Fortuna; pe-rocchè quella n’ha tolto un solo, e noi non n’avemo ac-quistato alcuno. Oltra di questo non si può dir che abbiaamato troppo anco un solo, colui che più d’un solo nonha potuto amare. Se uno spogliato, perduta quella vesteche solamente avea, vuol piuttosto star a piangere la suamiseria, che provveder da poter fuggire il freddo, e da

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coprirsi il dosso; non lo giudicherai stoltissimo? Quello,che tu amavi, hai perduto: cerca ora chi debbi amare. Èmolto meglio acquistarsi un amico, che piangerlo. Soncerto che questo, che son per dire, è volgatissimo, nondimeno poichè è anco detto d’uomini, non lo voglio las-sar indietro; e questo è che col tempo si trova fine al do-lore, ancorchè altri non vi pensi. Vergognosissimo rime-dio del dolore è in un uomo prudente, la stanchezzad’esso dolore. Io voglio che tu lassi l’affanno, piuttostoch’egli ti lasse; e che tu resti quanto più presto puoi difar quello, che quando ben volessi, non potresti far lun-gamente. I nostri maggiori ordinorno alle femmine unanno a piangere, non perchè piangessero tanto tempo,ma perchè non potessero piangere più tempo di quello.Gli uomini non han tempo ordinato dalla legge, perchèin nessun tempo è onesto che pianghino. Ma qual don-nicciuola mi troverai di quelle, che appena si son potuteritirar dal Rogo, et appena si son levate di sopra al cada-vero, alla quale sian durate le lagrime un mese intiero?Nessuna cosa ne vien più presto in odio, che il dolore: ilquale mentre è fresco, trova chi lo consola, e tira ancoqualcuno a dolersi seco; ma poichè s’è invecchiato, vienderiso, e ragionevolmente, perocchè o che è finto, o cheè pazzo. Io che ti scrivo queste cose son quello, chepiansi così smisuratamente Anneo Sereno mio carissi-mo; e di sorte che posso anco esser addutto per esempio(che non vorrei però) per un di coloro, che sono stativinti dal dolore: non dimeno oggi io riconosco il mio er-rore, e conosco apertamente che la cagione di tanto

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coprirsi il dosso; non lo giudicherai stoltissimo? Quello,che tu amavi, hai perduto: cerca ora chi debbi amare. Èmolto meglio acquistarsi un amico, che piangerlo. Soncerto che questo, che son per dire, è volgatissimo, nondimeno poichè è anco detto d’uomini, non lo voglio las-sar indietro; e questo è che col tempo si trova fine al do-lore, ancorchè altri non vi pensi. Vergognosissimo rime-dio del dolore è in un uomo prudente, la stanchezzad’esso dolore. Io voglio che tu lassi l’affanno, piuttostoch’egli ti lasse; e che tu resti quanto più presto puoi difar quello, che quando ben volessi, non potresti far lun-gamente. I nostri maggiori ordinorno alle femmine unanno a piangere, non perchè piangessero tanto tempo,ma perchè non potessero piangere più tempo di quello.Gli uomini non han tempo ordinato dalla legge, perchèin nessun tempo è onesto che pianghino. Ma qual don-nicciuola mi troverai di quelle, che appena si son potuteritirar dal Rogo, et appena si son levate di sopra al cada-vero, alla quale sian durate le lagrime un mese intiero?Nessuna cosa ne vien più presto in odio, che il dolore: ilquale mentre è fresco, trova chi lo consola, e tira ancoqualcuno a dolersi seco; ma poichè s’è invecchiato, vienderiso, e ragionevolmente, perocchè o che è finto, o cheè pazzo. Io che ti scrivo queste cose son quello, chepiansi così smisuratamente Anneo Sereno mio carissi-mo; e di sorte che posso anco esser addutto per esempio(che non vorrei però) per un di coloro, che sono stativinti dal dolore: non dimeno oggi io riconosco il mio er-rore, e conosco apertamente che la cagione di tanto

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pianto fu, che non avevo mai pensato ch’egli potea mo-rir prima di me; e solo mi cadeva nel pensiero ch’egliera minor di tempo, e molto minor di me, come se glifati serbassero l’ordine. Sicchè dovemo assiduamenteaver avanti gli occhi la fragilità non solo nostra, maanco di tutti quelli che amiamo. E però allor io dovevodire: se ben è minor il mio Sereno, che rilieva però que-sto? Per ragione deve morir dopo di me; ma può moriranco prima: e perchè non considerai tant’oltre, in un su-bito la Fortuna, trovandomi sprovvisto, mi percosse. Oraio ho fermato nel pensiero che tutte le cose di questomondo siano mortali, et incerte. La legge della mortepuò eseguire oggi, quel che può fare in tutto il restantedel tempo. Consideriamo dunque, Lucilio mio carissi-mo, che noi anco semo per arrivar tosto al fine, al qualci dolemo che sia pervenuto questo tuo amico: e forse(se però è vero quel che de’ Savj si suol dire, e se vi èloco alcuno che ne riceva) quello, che noi pensiamo chesia morto, è stato mandato avanti a godere. Sta sano.

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pianto fu, che non avevo mai pensato ch’egli potea mo-rir prima di me; e solo mi cadeva nel pensiero ch’egliera minor di tempo, e molto minor di me, come se glifati serbassero l’ordine. Sicchè dovemo assiduamenteaver avanti gli occhi la fragilità non solo nostra, maanco di tutti quelli che amiamo. E però allor io dovevodire: se ben è minor il mio Sereno, che rilieva però que-sto? Per ragione deve morir dopo di me; ma può moriranco prima: e perchè non considerai tant’oltre, in un su-bito la Fortuna, trovandomi sprovvisto, mi percosse. Oraio ho fermato nel pensiero che tutte le cose di questomondo siano mortali, et incerte. La legge della mortepuò eseguire oggi, quel che può fare in tutto il restantedel tempo. Consideriamo dunque, Lucilio mio carissi-mo, che noi anco semo per arrivar tosto al fine, al qualci dolemo che sia pervenuto questo tuo amico: e forse(se però è vero quel che de’ Savj si suol dire, e se vi èloco alcuno che ne riceva) quello, che noi pensiamo chesia morto, è stato mandato avanti a godere. Sta sano.

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LETTERA VIII.Vexari te distillationibus crebris etc. Ep. LXXVIII.

Che tu sii spesso travagliato dal catarro, e da febbric-ciuole, che vengono per ordinario in conseguenza d’essocatarro fatto famigliare, mi rincresce tanto più, quanto ioso per esperienza quel che sia questo male, che nel prin-cipio disprezzai. Potea già quell’età della gioventù sop-portar quest’ingiurie, et esser poco obbediente all’infer-mità; ma crescendo poi di tempo fui sottomesso, e mi ri-dussi a tale, che mi distillavo tutto: dimaniera che este-nuato quanto poteva essere, molte volte mi venne vogliadi troncar lo stame della mia vita; ma la vecchiezza delmio troppo amorevol padre mi ritenne. Perchè conside-rai, non quanto fortemente io potessi morire, ma quantopoco fortemente egli potesse sopportar questo esser pri-vo di me: così mi disposi a voler vivere, perchè tal voltail vivere è anco portarsi fortemente. Io ti dirò quel chemi apportasse alleggiamento, e spasso in quello affanno,se prima ti dirò che quelle istesse cose, con le quali midavo pace, ebbero anco forza di medicina. Perciocchèqueste oneste consolazioni si convertono in rimedj; e ciòche solleva l’animo, giova anco al corpo. I nostri studjfurno causa della mia salute; e che mi sia riavuto, e chemi sia risanato, lo riconosco solo, e n’ho obbligo alla Fi-losofia: a lei devo la vita, e questo è il minor debitoch’io abbia seco. A racquistar la sanità mi giovorno pur

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LETTERA VIII.Vexari te distillationibus crebris etc. Ep. LXXVIII.

Che tu sii spesso travagliato dal catarro, e da febbric-ciuole, che vengono per ordinario in conseguenza d’essocatarro fatto famigliare, mi rincresce tanto più, quanto ioso per esperienza quel che sia questo male, che nel prin-cipio disprezzai. Potea già quell’età della gioventù sop-portar quest’ingiurie, et esser poco obbediente all’infer-mità; ma crescendo poi di tempo fui sottomesso, e mi ri-dussi a tale, che mi distillavo tutto: dimaniera che este-nuato quanto poteva essere, molte volte mi venne vogliadi troncar lo stame della mia vita; ma la vecchiezza delmio troppo amorevol padre mi ritenne. Perchè conside-rai, non quanto fortemente io potessi morire, ma quantopoco fortemente egli potesse sopportar questo esser pri-vo di me: così mi disposi a voler vivere, perchè tal voltail vivere è anco portarsi fortemente. Io ti dirò quel chemi apportasse alleggiamento, e spasso in quello affanno,se prima ti dirò che quelle istesse cose, con le quali midavo pace, ebbero anco forza di medicina. Perciocchèqueste oneste consolazioni si convertono in rimedj; e ciòche solleva l’animo, giova anco al corpo. I nostri studjfurno causa della mia salute; e che mi sia riavuto, e chemi sia risanato, lo riconosco solo, e n’ho obbligo alla Fi-losofia: a lei devo la vita, e questo è il minor debitoch’io abbia seco. A racquistar la sanità mi giovorno pur

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assai gli amici; l’esortazioni, le vigilie, e gli ragiona-menti de’ quali m’alleggierivano assai dolore. Non ècosa, Lucilio mio da bene, che conforte, e che ajute piùl’infermo, quanto fa l’affetto e l’amorevolezza degliamici; nè cosa più di questa toglie via l’espettazione, ela paura della morte. Perciocchè non giudicavo di mori-re, lasciando loro in vita dopo di me: pensavo, dico, divivere non con essi, ma per il mezzo d’essi; nè mi pare-va di mandar fuori lo spirito, ma di tirarlo in lungo.Queste son le cose, che mi diedero animo d’ajutar memedesimo, e di patir ogni tormento: perciocchè altri-mente è gran miseria, essendoci tolto l’animo di morire,non averlo di vivere. Piglia dunque questi rimedj. Il me-dico ti mostrerà quanto dovrai camminare, quanto eser-citarti; come fuggir l’ozio, al qual sempre inclina l’indi-sposizione; come debbi leggere più chiaramente, e comedebbi esercitar lo spirito, la via e lo recettacolo del qualeè infermo; come debbi navigare, et esercitare con leg-gier travaglio le membra; che cibi debbi usare, quandobevere il vino per riaver le forze, e quando interlassarlo,perchè non inciti, e non commova la tosse. Io ti vogliodar un altro precetto, che sarà rimedio non solo a questainfermità, ma anco a tutta la vita; e questo è: disprezzala morte. Tuttavolta che saremo liberi da questa paura,non sarà cosa, che n’attristi. Tre cose sono gravi in ognisorte d’infermità: il timor della morte, il dolor del corpo,e l’aver interlassato i piaceri. Della morte s’è detto ab-bastanza, però dirò solo, che questa paura non procededall’infermità, ma dalla natura; perchè l’infermità ha

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assai gli amici; l’esortazioni, le vigilie, e gli ragiona-menti de’ quali m’alleggierivano assai dolore. Non ècosa, Lucilio mio da bene, che conforte, e che ajute piùl’infermo, quanto fa l’affetto e l’amorevolezza degliamici; nè cosa più di questa toglie via l’espettazione, ela paura della morte. Perciocchè non giudicavo di mori-re, lasciando loro in vita dopo di me: pensavo, dico, divivere non con essi, ma per il mezzo d’essi; nè mi pare-va di mandar fuori lo spirito, ma di tirarlo in lungo.Queste son le cose, che mi diedero animo d’ajutar memedesimo, e di patir ogni tormento: perciocchè altri-mente è gran miseria, essendoci tolto l’animo di morire,non averlo di vivere. Piglia dunque questi rimedj. Il me-dico ti mostrerà quanto dovrai camminare, quanto eser-citarti; come fuggir l’ozio, al qual sempre inclina l’indi-sposizione; come debbi leggere più chiaramente, e comedebbi esercitar lo spirito, la via e lo recettacolo del qualeè infermo; come debbi navigare, et esercitare con leg-gier travaglio le membra; che cibi debbi usare, quandobevere il vino per riaver le forze, e quando interlassarlo,perchè non inciti, e non commova la tosse. Io ti vogliodar un altro precetto, che sarà rimedio non solo a questainfermità, ma anco a tutta la vita; e questo è: disprezzala morte. Tuttavolta che saremo liberi da questa paura,non sarà cosa, che n’attristi. Tre cose sono gravi in ognisorte d’infermità: il timor della morte, il dolor del corpo,e l’aver interlassato i piaceri. Della morte s’è detto ab-bastanza, però dirò solo, che questa paura non procededall’infermità, ma dalla natura; perchè l’infermità ha

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molte volte prolungato la vita a molti, a’ quali l’immagi-narsi di morire è stato salute. Tu morirai, non perchè seiammalato, ma perchè vivi; e questa morte t’aspetta ancoquando sarai risanato, sebbene allora non cercherai difuggir la morte, ma solo l’infermità. Or ritorniamoall’incomodo, ch’è proprio del male. Gran tormenti ap-porta l’infermità; ma sono però tollerabili, perchè fannodegl’intervalli. Perciocchè un intenso dolore tosto ritro-va il fine: niuno può patir gran dolore, e lungamente; dimaniera ci ha ben ordinati la natura affezionatissima no-stra, che ha fatto ch’il dolor sia o tollerabile, o breve. Igran dolori consistono nelle più magre parti del corpo: inervi, gli articoli, e gli altri membri tenui si sdegnanofortemente, quando generano nella lor strettezza qualchedifetto. Ma tosto queste parti si fanno stupide; e col do-lor istesso perdono il sentir d’esso dolore. E questo av-viene o perchè lo spirito, distolto dal suo corso naturale,e mutato in peggiore, perde quella forza, con che ne dàvigore, e n’ammonisce; o perchè il corrotto umore, poi-chè non ha più dove corra, opprime se stesso, e toglie ilsenso a quelle parti, le quali ha troppo empìto di se. E diqui viene che la Podagra, e la Chiragra, e tutti i dolorid’ossi, e di nervi, facendo tregua, dan qualche riposo,dopo che hanno addormentato quelle parti, che tormen-tavano; et in tutti questi mali quel che travaglia, è quelprimo assalto del dolore; ma quest’empito s’estinguecon la lunghezza, e il fin del dolore è l’aver perduto ilsenso. Per questa medesima cagione il dolor de’ denti,degli occhi, e degli orecchi è acutissimo, nascendo

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molte volte prolungato la vita a molti, a’ quali l’immagi-narsi di morire è stato salute. Tu morirai, non perchè seiammalato, ma perchè vivi; e questa morte t’aspetta ancoquando sarai risanato, sebbene allora non cercherai difuggir la morte, ma solo l’infermità. Or ritorniamoall’incomodo, ch’è proprio del male. Gran tormenti ap-porta l’infermità; ma sono però tollerabili, perchè fannodegl’intervalli. Perciocchè un intenso dolore tosto ritro-va il fine: niuno può patir gran dolore, e lungamente; dimaniera ci ha ben ordinati la natura affezionatissima no-stra, che ha fatto ch’il dolor sia o tollerabile, o breve. Igran dolori consistono nelle più magre parti del corpo: inervi, gli articoli, e gli altri membri tenui si sdegnanofortemente, quando generano nella lor strettezza qualchedifetto. Ma tosto queste parti si fanno stupide; e col do-lor istesso perdono il sentir d’esso dolore. E questo av-viene o perchè lo spirito, distolto dal suo corso naturale,e mutato in peggiore, perde quella forza, con che ne dàvigore, e n’ammonisce; o perchè il corrotto umore, poi-chè non ha più dove corra, opprime se stesso, e toglie ilsenso a quelle parti, le quali ha troppo empìto di se. E diqui viene che la Podagra, e la Chiragra, e tutti i dolorid’ossi, e di nervi, facendo tregua, dan qualche riposo,dopo che hanno addormentato quelle parti, che tormen-tavano; et in tutti questi mali quel che travaglia, è quelprimo assalto del dolore; ma quest’empito s’estinguecon la lunghezza, e il fin del dolore è l’aver perduto ilsenso. Per questa medesima cagione il dolor de’ denti,degli occhi, e degli orecchi è acutissimo, nascendo

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nell’estremità del corpo: non meno che fa anco il dolordella testa; ma quanto è più intenso, tanto più presto sene va via, e si converte in stupidezza. Quel che dunquene consola in un smisurato dolore è, che è necessarioche tu lasci di sentirlo, se lo senti troppo. E quel chetratta male gl’ignoranti nel tormento del corpo, è chenon si sono accostumati di contentarsi nell’animo; et ilpiù hanno avuto da fare col corpo. E però l’uomo gran-de e prudente divide l’animo dal corpo, e conversa assaicon quella migliore, e più divina parte; e con questa do-lorosa, e fragile, quanto è bisogno. Ma è fastidiosa cosa,mi dirai, esser privo degli soliti piaceri, l’astenersi dalcibo, e il patir fame, e sete. Io lo confesso che l’astenersida queste cose nel principio dà noja; ma poi quel deside-rio, che avemo d’esse, si raffredda; stancandosi da lorostesse, e mancando le cose, desideriamo. E di qui proce-de il fastidio dello stomaco, di qui nasce che l’aviditàdel cibo in un che l’abbia desiderato, si converte in odio,perchè i desiderj periscono. E non è dura cosa il privarsidi quello, che hai lasciato di desiderare. A questos’aggiunge che non è dolore, che talvolta non s’interlas-si, o che del tutto non si toglia via. Oltra di questo puòl’uomo guardarsi dal dolor, che debbia venire; et oppo-nersi con rimedj a quello, che gli soprastà; perchè ognidolore manda innanzi i segni prima che venga, comequello, che ritorna sempre al suo solito. Il patir l’infer-mità è tollerabile; se disprezzerai quel che minaccia perl’ultimo. Non voler far i tuoi mali più gravi di quel chesono, e caricarti di lamenti. Il dolor è leggiero, se l’opi-

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nell’estremità del corpo: non meno che fa anco il dolordella testa; ma quanto è più intenso, tanto più presto sene va via, e si converte in stupidezza. Quel che dunquene consola in un smisurato dolore è, che è necessarioche tu lasci di sentirlo, se lo senti troppo. E quel chetratta male gl’ignoranti nel tormento del corpo, è chenon si sono accostumati di contentarsi nell’animo; et ilpiù hanno avuto da fare col corpo. E però l’uomo gran-de e prudente divide l’animo dal corpo, e conversa assaicon quella migliore, e più divina parte; e con questa do-lorosa, e fragile, quanto è bisogno. Ma è fastidiosa cosa,mi dirai, esser privo degli soliti piaceri, l’astenersi dalcibo, e il patir fame, e sete. Io lo confesso che l’astenersida queste cose nel principio dà noja; ma poi quel deside-rio, che avemo d’esse, si raffredda; stancandosi da lorostesse, e mancando le cose, desideriamo. E di qui proce-de il fastidio dello stomaco, di qui nasce che l’aviditàdel cibo in un che l’abbia desiderato, si converte in odio,perchè i desiderj periscono. E non è dura cosa il privarsidi quello, che hai lasciato di desiderare. A questos’aggiunge che non è dolore, che talvolta non s’interlas-si, o che del tutto non si toglia via. Oltra di questo puòl’uomo guardarsi dal dolor, che debbia venire; et oppo-nersi con rimedj a quello, che gli soprastà; perchè ognidolore manda innanzi i segni prima che venga, comequello, che ritorna sempre al suo solito. Il patir l’infer-mità è tollerabile; se disprezzerai quel che minaccia perl’ultimo. Non voler far i tuoi mali più gravi di quel chesono, e caricarti di lamenti. Il dolor è leggiero, se l’opi-

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nione non v’aggiunge cosa alcuna: e per il contrario secomincierai a farti buon animo, e dire: questo è niente,o poco, sopportiamolo, mancherà pure; lo farai leggie-ro, pensando che sia così. Ogni cosa vien sospesadall’opinione, la quale non è particolar dell’ambizione,nè della lussuria, nè dell’avaría. Ci dolemo secondol’opinione, e ciascheduno è tanto misero, quantos’immagina d’esserlo. Io giudico che si debbiano tor viaqueste condoglienze degli passati dolori, e quelle paroleche si sogliono dire: Non fu mai uomo, che avesse peg-gio di me. Che tormenti! quanti mali ho patiti! Niuno sicredè ch’io mi dovessi levar di letto: quante volte sonostato pianto dai miei; quante volte abbandonato daiMedici! Non si travagliano tanto coloro, che sono messial supplicio. Che contutto che queste cose, che si dico-no, siano vere, sono non dimeno passate. Che giova rin-novar gli passati dolori, et esser misero, perchè sei sta-to? E che non vi sia uomo, che non aggiunga pur assaiagli suoi mali, e che non menta di se medesimo? Oltradi questo è dolce cosa il raccontare le cose, che sonostate acerbe; perchè è cosa naturale l’allegrarsi del finedel suo male. Si devono dunque stirpar due cose, il ti-mor del futuro, e la memoria del passato danno, perchèquesto non mi tocca più, e quello non mi tocca ancora.E colui, ch’è posto negli travagli, dica:

Forse verrà ancor tempo,Che di ciò ricordarmi sia piacere.

Combatta contr’il dolore, in ch’egli è, con tutto l’animo;perchè, cedendogli, resterà vinto, e vincerà, mostrando-

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nione non v’aggiunge cosa alcuna: e per il contrario secomincierai a farti buon animo, e dire: questo è niente,o poco, sopportiamolo, mancherà pure; lo farai leggie-ro, pensando che sia così. Ogni cosa vien sospesadall’opinione, la quale non è particolar dell’ambizione,nè della lussuria, nè dell’avaría. Ci dolemo secondol’opinione, e ciascheduno è tanto misero, quantos’immagina d’esserlo. Io giudico che si debbiano tor viaqueste condoglienze degli passati dolori, e quelle paroleche si sogliono dire: Non fu mai uomo, che avesse peg-gio di me. Che tormenti! quanti mali ho patiti! Niuno sicredè ch’io mi dovessi levar di letto: quante volte sonostato pianto dai miei; quante volte abbandonato daiMedici! Non si travagliano tanto coloro, che sono messial supplicio. Che contutto che queste cose, che si dico-no, siano vere, sono non dimeno passate. Che giova rin-novar gli passati dolori, et esser misero, perchè sei sta-to? E che non vi sia uomo, che non aggiunga pur assaiagli suoi mali, e che non menta di se medesimo? Oltradi questo è dolce cosa il raccontare le cose, che sonostate acerbe; perchè è cosa naturale l’allegrarsi del finedel suo male. Si devono dunque stirpar due cose, il ti-mor del futuro, e la memoria del passato danno, perchèquesto non mi tocca più, e quello non mi tocca ancora.E colui, ch’è posto negli travagli, dica:

Forse verrà ancor tempo,Che di ciò ricordarmi sia piacere.

Combatta contr’il dolore, in ch’egli è, con tutto l’animo;perchè, cedendogli, resterà vinto, e vincerà, mostrando-

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gli la faccia. Ma ora la maggior parte degli uomini si tiraaddosso la ruina, alla quale dovrebbono opponersi. Quelche ti preme, che ti soprastà, e che ti spinge, se comin-cierai a cercar di schivarlo, ti seguirà, e più gravementeti verrà addosso; e se gli resisterai, e vorrai far sforzo adifenderti da lui, si ributterà indietro. Gli Atleti quantepercosse ricevono e col volto, e con tutto il corpo? Enon dimeno sopportano ogni tormento, per il desideriod’acquistarsi gloria. E non patiscono queste cose solonel combattere, ma anco prima per poter combatterel’esercizio che fanno è per se stesso un tormento. Cosìnoi ancora dovemo vincere ogni cosa. Il premio dellaqual vittoria non è corona, nè palma, nè tromba che to-sto ponga silenzio al nostro nome; ma la virtù, e la fer-mezza dell’animo, e la pace acquistata per sempre, seuna volta in qualche abbattimento si vincerà la fortuna.Io sento un gran dolore, mi dirai. E che maraviglia è chetu ’l senti, se lo sopporterai come fan le donne effemmi-natamente? Come l’inimico apporta maggior danno aquei che fuggono, così ogn’incomodo di fortuna trava-glia molto più un che gli ceda, e che gli volta le spalle.Ma è grave cosa a sopportare, puoi dire. E che? avemonoi forse la fortezza, per sopportar le cose leggiere?Che? vuoi tu piuttotosto che l’infermità sia lunga, o chesia grande e breve? Se è lunga, ha gl’intervalli, e dàtempo da potersi riavere; e dando tempo assai, è neces-sario che si riabbia, e che manchi. Il breve, e precipitosomale un degli due farà, o che s’estinguerà, o che teestinguerà. E che differenza è, o ch’egli non sia, o che

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gli la faccia. Ma ora la maggior parte degli uomini si tiraaddosso la ruina, alla quale dovrebbono opponersi. Quelche ti preme, che ti soprastà, e che ti spinge, se comin-cierai a cercar di schivarlo, ti seguirà, e più gravementeti verrà addosso; e se gli resisterai, e vorrai far sforzo adifenderti da lui, si ributterà indietro. Gli Atleti quantepercosse ricevono e col volto, e con tutto il corpo? Enon dimeno sopportano ogni tormento, per il desideriod’acquistarsi gloria. E non patiscono queste cose solonel combattere, ma anco prima per poter combatterel’esercizio che fanno è per se stesso un tormento. Cosìnoi ancora dovemo vincere ogni cosa. Il premio dellaqual vittoria non è corona, nè palma, nè tromba che to-sto ponga silenzio al nostro nome; ma la virtù, e la fer-mezza dell’animo, e la pace acquistata per sempre, seuna volta in qualche abbattimento si vincerà la fortuna.Io sento un gran dolore, mi dirai. E che maraviglia è chetu ’l senti, se lo sopporterai come fan le donne effemmi-natamente? Come l’inimico apporta maggior danno aquei che fuggono, così ogn’incomodo di fortuna trava-glia molto più un che gli ceda, e che gli volta le spalle.Ma è grave cosa a sopportare, puoi dire. E che? avemonoi forse la fortezza, per sopportar le cose leggiere?Che? vuoi tu piuttotosto che l’infermità sia lunga, o chesia grande e breve? Se è lunga, ha gl’intervalli, e dàtempo da potersi riavere; e dando tempo assai, è neces-sario che si riabbia, e che manchi. Il breve, e precipitosomale un degli due farà, o che s’estinguerà, o che teestinguerà. E che differenza è, o ch’egli non sia, o che

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non sia io? poichè nell’uno, e nell’altro caso il dolore hafine. Gioverà anco pur assai rivoltar l’animo ad altripensieri, e distorlo dal dolore. Va pensando a quel che tuabbi fatto onestamente, e fortemente: tratta teco delleparti buone; et impiega tutta la memoria nelle cose, chehai ammirato, e fa che allora ti venghino avanti gli occhitutti quelli, che sono stati forti, e che han vinto il dolore:come dir colui, che sporgendo il corpo, perchè gli fusse-ro segate le vene, perseverò di leggere il libro, che aveanelle mani; colui, che non lasciò di ridere; ancorchè ma-ravigliandosi di questo quelli che lo tormentavano, espe-rimentassero in lui tutti gl’instrumenti di crudeltà. Dun-que non si vincerà con la ragione il dolore, ch’è statovinto col riso? Dì pur quel che vuoi, esagera quanto saila molestia d’un catarro che continuo tossir ne faccia,che ne faccia recere parte delle viscere; quella d’unafebbre, che abbrugiando ci vada tutto l’interno; quellad’una sete ardentissima che affannosa smania ne ap-porti; magnifica pure a talento il dolore, onde siam so-praffatti quantunque volte ne vengano stiracchiate lemembra per la contrazione de’ muscoli: ch’io dirò esse-re un non so che di più la fiamma ad arrostire, l’eculeoa tagliare, e le infuocate lamine, le quali fanno che viemaggiormente si gonfino le ferite; e questo di più vienesempre aumentato di grado, e, a proporzione della du-rata del tempo, più profonda ne cagiona e più vival’impression del dolore. Eppure in mezzo a questi tor-menti v’ebbe un qualcheduno, il quale non mandò fuorinemmeno un gemito solo, nemmeno un sospiro; e que-

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non sia io? poichè nell’uno, e nell’altro caso il dolore hafine. Gioverà anco pur assai rivoltar l’animo ad altripensieri, e distorlo dal dolore. Va pensando a quel che tuabbi fatto onestamente, e fortemente: tratta teco delleparti buone; et impiega tutta la memoria nelle cose, chehai ammirato, e fa che allora ti venghino avanti gli occhitutti quelli, che sono stati forti, e che han vinto il dolore:come dir colui, che sporgendo il corpo, perchè gli fusse-ro segate le vene, perseverò di leggere il libro, che aveanelle mani; colui, che non lasciò di ridere; ancorchè ma-ravigliandosi di questo quelli che lo tormentavano, espe-rimentassero in lui tutti gl’instrumenti di crudeltà. Dun-que non si vincerà con la ragione il dolore, ch’è statovinto col riso? Dì pur quel che vuoi, esagera quanto saila molestia d’un catarro che continuo tossir ne faccia,che ne faccia recere parte delle viscere; quella d’unafebbre, che abbrugiando ci vada tutto l’interno; quellad’una sete ardentissima che affannosa smania ne ap-porti; magnifica pure a talento il dolore, onde siam so-praffatti quantunque volte ne vengano stiracchiate lemembra per la contrazione de’ muscoli: ch’io dirò esse-re un non so che di più la fiamma ad arrostire, l’eculeoa tagliare, e le infuocate lamine, le quali fanno che viemaggiormente si gonfino le ferite; e questo di più vienesempre aumentato di grado, e, a proporzione della du-rata del tempo, più profonda ne cagiona e più vival’impression del dolore. Eppure in mezzo a questi tor-menti v’ebbe un qualcheduno, il quale non mandò fuorinemmeno un gemito solo, nemmeno un sospiro; e que-

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sto è poco: il quale non dimandò mercè, nè altrui pregòd’alcun sollievo; è poco ancora: il quale non risposeverbo; anche questo è poco: il quale anzi sen rise, e dibuon cuore. Vorrestu dopo tali esempi che sia da tenersiil gran conto del dolore, o non piuttosto che sia da far-sene beffe? Mi si replica: l’infermità non mi permetted’operare qualunque cosa: ella mi rese incapaced’esercitare i miei doveri. Ma la malattia impedisce lefunzioni del tuo corpo, non quelle dell’animo. Ella ri-tarda il corso dei lacchè, lega le mani del calzolajo, edel fabbro. Se sei tu solito a far esercizio di spirito, an-che in tal situazione potrai persuadere, insegnare,ascoltare, apparare, ricercare, rammentarti? E che? ticredi forse di nulla operare, se anche ammalato ti di-mostrerai sofferente? darai a divedere potersi o supera-re, o almeno certamente sostener con pazienza i disagidella malattia. Credilo: havvi luogo alla virtù anche nelletto. Non sono già l’armi indossate, le truppe poste inordine di battaglia che dieno contrassegni sicuri d’ani-mo intrepido, e che non si lascia sopraffar dal terrore:anche le stesse vesti dànno indizio del coraggio d’unuomo. Hai materia da esercitarti; combatti valorosa-mente contra il malore: se nulla giungerà a farti piega-re a debolezza per forza, se nulla arriverà ad ottenereda te una qualche cosa per insistenza, porgerai unesempio il più luminoso di virtù. Qual soggetto di glorianon sarebbe per noi, se fossimo veduti ammalati conqueste disposizioni! Ebbene: tu stesso sii spettacolo a testesso, e sii lodatore di te medesimo. Oltra di questo ci

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sto è poco: il quale non dimandò mercè, nè altrui pregòd’alcun sollievo; è poco ancora: il quale non risposeverbo; anche questo è poco: il quale anzi sen rise, e dibuon cuore. Vorrestu dopo tali esempi che sia da tenersiil gran conto del dolore, o non piuttosto che sia da far-sene beffe? Mi si replica: l’infermità non mi permetted’operare qualunque cosa: ella mi rese incapaced’esercitare i miei doveri. Ma la malattia impedisce lefunzioni del tuo corpo, non quelle dell’animo. Ella ri-tarda il corso dei lacchè, lega le mani del calzolajo, edel fabbro. Se sei tu solito a far esercizio di spirito, an-che in tal situazione potrai persuadere, insegnare,ascoltare, apparare, ricercare, rammentarti? E che? ticredi forse di nulla operare, se anche ammalato ti di-mostrerai sofferente? darai a divedere potersi o supera-re, o almeno certamente sostener con pazienza i disagidella malattia. Credilo: havvi luogo alla virtù anche nelletto. Non sono già l’armi indossate, le truppe poste inordine di battaglia che dieno contrassegni sicuri d’ani-mo intrepido, e che non si lascia sopraffar dal terrore:anche le stesse vesti dànno indizio del coraggio d’unuomo. Hai materia da esercitarti; combatti valorosa-mente contra il malore: se nulla giungerà a farti piega-re a debolezza per forza, se nulla arriverà ad ottenereda te una qualche cosa per insistenza, porgerai unesempio il più luminoso di virtù. Qual soggetto di glorianon sarebbe per noi, se fossimo veduti ammalati conqueste disposizioni! Ebbene: tu stesso sii spettacolo a testesso, e sii lodatore di te medesimo. Oltra di questo ci

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sono due specie di piaceri: la malattia ci sospende ipiaceri del corpo, non però ce li toglie per sempre;anzi, se vogliamo stare alla verità, piuttosto ce li eccita.Uno che ha sete, bee con più piacere: e il cibo riescepiù saporito a chi ha più fame. Si gusta con maggioravidità ciò, che dato ci viene dopo una lunga astinenza.Ma quegli altri piaceri di spirito, i quali sono e piùgrandi e più sicuri, nessun medico li niega ad un amma-lato. Chiunque corre dietro a questi, e ne conosce ilpregio, disprezza tutti gli allettamenti de’ sensi. Ohl’infelice ammalato! e perchè? Perchè non istempra laneve nel vino: perchè il freddo di quella bevanda, chemeschiò colla neve in amplo bicchiere, non lo accrescedi più col farvi in esso disciogliere anco il ghiaccio:perchè non gli vengono aperte, durante la stessa mensa,l’ostriche del lago Lucrino: perchè al tempodell’imbandigione del pranzo non ci sia un andirivienicontinuo de’ cuochi, che trasportano le vivande aventisottoposte le brage, essendo anche questo un novello ri-trovato della gola presente. Perchè non ci sia cibo cheperda il suo calore, perchè non ci sia vivanda, che nonsi conservi bollente per un palato già fatto calloso, sitrasporta la cucina su la tavola stessa. Oh l’infelice am-malato! ei mangierà quanto può digerire. Non giaceràsotto i suoi occhi negletto il cinghiale, mandato fuori ditavola come una vile carnaccia; nè si riporranno sullacredenziera affastellati i petti degli uccelli, giacchè ca-gionerebbe nausea il vederli posti sul piatto tutti intieri.Che mal quinci ti avvenne? Cenerai da ammalato; anzi

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sono due specie di piaceri: la malattia ci sospende ipiaceri del corpo, non però ce li toglie per sempre;anzi, se vogliamo stare alla verità, piuttosto ce li eccita.Uno che ha sete, bee con più piacere: e il cibo riescepiù saporito a chi ha più fame. Si gusta con maggioravidità ciò, che dato ci viene dopo una lunga astinenza.Ma quegli altri piaceri di spirito, i quali sono e piùgrandi e più sicuri, nessun medico li niega ad un amma-lato. Chiunque corre dietro a questi, e ne conosce ilpregio, disprezza tutti gli allettamenti de’ sensi. Ohl’infelice ammalato! e perchè? Perchè non istempra laneve nel vino: perchè il freddo di quella bevanda, chemeschiò colla neve in amplo bicchiere, non lo accrescedi più col farvi in esso disciogliere anco il ghiaccio:perchè non gli vengono aperte, durante la stessa mensa,l’ostriche del lago Lucrino: perchè al tempodell’imbandigione del pranzo non ci sia un andirivienicontinuo de’ cuochi, che trasportano le vivande aventisottoposte le brage, essendo anche questo un novello ri-trovato della gola presente. Perchè non ci sia cibo cheperda il suo calore, perchè non ci sia vivanda, che nonsi conservi bollente per un palato già fatto calloso, sitrasporta la cucina su la tavola stessa. Oh l’infelice am-malato! ei mangierà quanto può digerire. Non giaceràsotto i suoi occhi negletto il cinghiale, mandato fuori ditavola come una vile carnaccia; nè si riporranno sullacredenziera affastellati i petti degli uccelli, giacchè ca-gionerebbe nausea il vederli posti sul piatto tutti intieri.Che mal quinci ti avvenne? Cenerai da ammalato; anzi

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da uomo, che una volta, o l’altra sarà per risanarsi. Matutte queste cose le sopporteremo facilmente, ciò sono ilcentellare l’acqua calda, e tutto quel, che può sembrareintollerabile ai nostri di soverchio dilicati, e dati total-mente alla ghiottoneria, al lusso, e ad altre simili di-stemperatezze, ed infermi più nell’animo, che nel corpo:purchè giugniamo a tralasciare d’inorridirsi all’ideadella morte. Tralascieremo di temerla, se arriveremo aconoscere qual sia il sommo nostro bene, e il nostrosommo male: e in questa guisa nè ci sarà più di noja lavita, nè ci causerà ribrezzo la morte. Non può giammaidivenir di fastidio a se stessa una vita occupata nel rap-presentarsi tanto numerosi e diversi, tanto grandi, etanto divini oggetti: suole bensì renderla odiosa a sestessa l’abbandonarsi ad un ozio infingardo. Ad unospirito, che va scorrendo la natura di tutte le cose, nonriescirà giammai fastidioso l’esame della verità: lo sa-zieranno bensì le cose false, alle quali si dà in preda. Dipiù, se ci sopraggiunge, e ci chiama la morte, quantun-que sia ella immatura, quantunque ci rapisca alla metàdel nostro corso di vivere, sarà abbondantissimo nonper tanto il frutto, che ne avremo raccolto: avrà cono-sciuto quest’uomo la natura in gran parte; e saprà chenon crescono già l’idee dell’onestà, e i piaceri dellamedesima a ragguaglio del tempo della vita. A colorosoltanto si rende necessario il credere che ogni spaziodi vita sia breve, i quali lo misurano coi vani piaceri, ein conseguenza infiniti. Vatti consolando con questipensieri, e col leggere attentamente le nostre lettere:

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da uomo, che una volta, o l’altra sarà per risanarsi. Matutte queste cose le sopporteremo facilmente, ciò sono ilcentellare l’acqua calda, e tutto quel, che può sembrareintollerabile ai nostri di soverchio dilicati, e dati total-mente alla ghiottoneria, al lusso, e ad altre simili di-stemperatezze, ed infermi più nell’animo, che nel corpo:purchè giugniamo a tralasciare d’inorridirsi all’ideadella morte. Tralascieremo di temerla, se arriveremo aconoscere qual sia il sommo nostro bene, e il nostrosommo male: e in questa guisa nè ci sarà più di noja lavita, nè ci causerà ribrezzo la morte. Non può giammaidivenir di fastidio a se stessa una vita occupata nel rap-presentarsi tanto numerosi e diversi, tanto grandi, etanto divini oggetti: suole bensì renderla odiosa a sestessa l’abbandonarsi ad un ozio infingardo. Ad unospirito, che va scorrendo la natura di tutte le cose, nonriescirà giammai fastidioso l’esame della verità: lo sa-zieranno bensì le cose false, alle quali si dà in preda. Dipiù, se ci sopraggiunge, e ci chiama la morte, quantun-que sia ella immatura, quantunque ci rapisca alla metàdel nostro corso di vivere, sarà abbondantissimo nonper tanto il frutto, che ne avremo raccolto: avrà cono-sciuto quest’uomo la natura in gran parte; e saprà chenon crescono già l’idee dell’onestà, e i piaceri dellamedesima a ragguaglio del tempo della vita. A colorosoltanto si rende necessario il credere che ogni spaziodi vita sia breve, i quali lo misurano coi vani piaceri, ein conseguenza infiniti. Vatti consolando con questipensieri, e col leggere attentamente le nostre lettere:

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verrà una volta quel tempo, il quale di bel nuovo ci riu-nirà insieme. Qualunque esso si sia, lo ci renderà lungol’aver appresa l’arte di ben servircene, sendo vero queldetto di Possidonio: avere più durata un giorno solo dipersone erudite, e scienziate, di quello che l’età, quan-tunque lunghissima, degl’ignoranti e degli sciocchi. In-tanto abbi tu sempre presenti queste massime di nondarti vinto alle avversità, di non creder troppo alla pro-sperità, e di aver sempre avanti gli occhi la smodata li-cenza della fortuna, come se ella fusse per fare riguar-do a te tutto ciò, che può fare. Qualunque sinistro, cheda lunga pezza si sta aspettando, ci torna men grave, epiù sopportabile. Sta sano.

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verrà una volta quel tempo, il quale di bel nuovo ci riu-nirà insieme. Qualunque esso si sia, lo ci renderà lungol’aver appresa l’arte di ben servircene, sendo vero queldetto di Possidonio: avere più durata un giorno solo dipersone erudite, e scienziate, di quello che l’età, quan-tunque lunghissima, degl’ignoranti e degli sciocchi. In-tanto abbi tu sempre presenti queste massime di nondarti vinto alle avversità, di non creder troppo alla pro-sperità, e di aver sempre avanti gli occhi la smodata li-cenza della fortuna, come se ella fusse per fare riguar-do a te tutto ciò, che può fare. Qualunque sinistro, cheda lunga pezza si sta aspettando, ci torna men grave, epiù sopportabile. Sta sano.

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LETTERA IX.Ut a communibus initium faciam etc. Ep. LXVII.

Per dar principio al parlare dalle cose comuni, la prima-vera ha cominciato a mostrarsi; ma inclinando già versol’estate, quando dovea far caldo, solamente ha comin-ciato ad intepidirsi. Nè però ancor gli si può credere,perchè spesso si converte in inverno: e se vuoi saperquanto sia instabile, basteti solamente questo, ch’io nonmi fido ancora della sua freddezza, et ancor contrastocon la sua rigidezza. Questo, mi dirai, è non patir nè cal-do, nè freddo. Così è, il mio Lucilio. Già a questa miaetà basta pur troppo il freddo suo naturale, che appena sipuò riscaldare a mezza estate: di maniera che la maggiorparte d’essa son forzato di passarla carco di vestimenti.Io ringrazio la vecchiezza che m’abbia piantato in que-sto letto: e perchè non la debbo ringraziare per questacagione? Poichè tutto quello ch’io dovevo fuggire, ellafa che quando ben volessi, non possa fare. Me ne sto perla maggior parte a ragionar con i libri: e se talvolta so-praggiungono epistole tue, mi par d’esser teco; e mi di-spongo nell’animo non come io ti rescriva, ma come separlandomi tu, io ti rispondessi. E così di quel che tu orami dimandi, quasi ragionando teco, insieme discorrere-mo come stia. Mi dimandi, se tutto quel ch’è bene sideve desiderare: e dici, se è bene il tormentarsi forte-mente, e l’abbruciarsi animosamente, e pazientemente

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LETTERA IX.Ut a communibus initium faciam etc. Ep. LXVII.

Per dar principio al parlare dalle cose comuni, la prima-vera ha cominciato a mostrarsi; ma inclinando già versol’estate, quando dovea far caldo, solamente ha comin-ciato ad intepidirsi. Nè però ancor gli si può credere,perchè spesso si converte in inverno: e se vuoi saperquanto sia instabile, basteti solamente questo, ch’io nonmi fido ancora della sua freddezza, et ancor contrastocon la sua rigidezza. Questo, mi dirai, è non patir nè cal-do, nè freddo. Così è, il mio Lucilio. Già a questa miaetà basta pur troppo il freddo suo naturale, che appena sipuò riscaldare a mezza estate: di maniera che la maggiorparte d’essa son forzato di passarla carco di vestimenti.Io ringrazio la vecchiezza che m’abbia piantato in que-sto letto: e perchè non la debbo ringraziare per questacagione? Poichè tutto quello ch’io dovevo fuggire, ellafa che quando ben volessi, non possa fare. Me ne sto perla maggior parte a ragionar con i libri: e se talvolta so-praggiungono epistole tue, mi par d’esser teco; e mi di-spongo nell’animo non come io ti rescriva, ma come separlandomi tu, io ti rispondessi. E così di quel che tu orami dimandi, quasi ragionando teco, insieme discorrere-mo come stia. Mi dimandi, se tutto quel ch’è bene sideve desiderare: e dici, se è bene il tormentarsi forte-mente, e l’abbruciarsi animosamente, e pazientemente

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esser infermo; seguita che queste cose si debbiano desi-derare. Io per me non veggo che tra queste sia cosa de-gna che altri ne faccia voto per ottenerla: nè so che niu-no fin a quest’ora abbia satisfatto a voto, per essere statobattuto, o tormentato dalla podagra, o da altri tormenticonciato. Or distingui, il mio Lucilio, e conoscerai quelche si deve desiderare in queste cose. Io vorrei sempreesser lontano dagli tormenti; ma se pur s’hanno da pati-re, desidererò di poterli sopportare fortemente, onesta-mente, et animosamente. Io mi contenterei che non fus-sero mai guerre; ma se si faranno, desidererò di potersoffrir generosamente le ferite, la fame, e tutti gl’inco-modi, che suol apportar la necessità della guerra. Nonsono sì sciocco, ch’io desideri d’essere infermo: ma sela fortuna vorrà ch’io cada ammalato, desidererò di nonfar cosa intemperantemente et effemminatamente. Nonson dunque gl’incomodi che si devono desiderare, ma lavirtù, con la quale si sopportano gl’incomodi. Alcuni de’nostri giudicano, che noi non dovemo desiderare unaforte tolleranza in tutte le cose nostre, ma che non la do-vemo nè anche abborrire: perciocchè dicono che si deveper voto chiedere un puro bene, tranquillo, e fuor d’ognitravaglio. Io son di contrario parere. E perchè? Prima,perchè non può essere, che una cosa sia buona, e chenon si debbia desiderare: e se la virtù si deve desiderare,e non può esser bene senza virtù; dunque ogni cosa buo-na è desiderabile. Oltre di questo se una forte pazienzanegli tormenti si deve desiderare; dimmi di grazia: nonsi doverà anco desiderar la fortezza, come quella che

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esser infermo; seguita che queste cose si debbiano desi-derare. Io per me non veggo che tra queste sia cosa de-gna che altri ne faccia voto per ottenerla: nè so che niu-no fin a quest’ora abbia satisfatto a voto, per essere statobattuto, o tormentato dalla podagra, o da altri tormenticonciato. Or distingui, il mio Lucilio, e conoscerai quelche si deve desiderare in queste cose. Io vorrei sempreesser lontano dagli tormenti; ma se pur s’hanno da pati-re, desidererò di poterli sopportare fortemente, onesta-mente, et animosamente. Io mi contenterei che non fus-sero mai guerre; ma se si faranno, desidererò di potersoffrir generosamente le ferite, la fame, e tutti gl’inco-modi, che suol apportar la necessità della guerra. Nonsono sì sciocco, ch’io desideri d’essere infermo: ma sela fortuna vorrà ch’io cada ammalato, desidererò di nonfar cosa intemperantemente et effemminatamente. Nonson dunque gl’incomodi che si devono desiderare, ma lavirtù, con la quale si sopportano gl’incomodi. Alcuni de’nostri giudicano, che noi non dovemo desiderare unaforte tolleranza in tutte le cose nostre, ma che non la do-vemo nè anche abborrire: perciocchè dicono che si deveper voto chiedere un puro bene, tranquillo, e fuor d’ognitravaglio. Io son di contrario parere. E perchè? Prima,perchè non può essere, che una cosa sia buona, e chenon si debbia desiderare: e se la virtù si deve desiderare,e non può esser bene senza virtù; dunque ogni cosa buo-na è desiderabile. Oltre di questo se una forte pazienzanegli tormenti si deve desiderare; dimmi di grazia: nonsi doverà anco desiderar la fortezza, come quella che

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sprezza, e provoca anco i pericoli? Bellissima certamen-te, e mirabil parte di questa fortezza è quella di non ce-dere al foco, e d’andare incontro alle ferite, e talvoltanon solo non schivar un’asta che venga per ferirti, maanco incontrarla col petto. Se dunque si deve desiderarla fortezza, si deve anco desiderare il sopportar pazien-temente i tormenti; e non il sopportargli solamente per-chè questo è parte della fortezza. Ma dividi, come t’hodetto, queste cose, e non vi sarà errore alcuno. Percioc-chè non si deve desiderar il soffrir de’ tormenti, ma ilsoffrirgli con fortezza d’animo: io vi desidero quella for-tezza, ch’è virtù. Ma chi sarà che desideri questo per semedesimo? Alcuni voti son chiari, e apertamente fatti; eson quelli che si fanno in particolare: alcuni altri sonascosti, come quando sotto un voto se ne comprendonomolti; come sarebbe a dire, io desidero la vita onesta; ela vita onesta costa di molte, e varie azioni. Sotto questavita vien compresa l’arca di Regolo; la ferita di Catonestracciata con le sue proprie mani; l’esilio di Rutilio, e ilvenenato calice di Socrate, che togliendolo di prigionelo trasportò in Cielo. Di sorte che desiderando io la vitaonesta, intendo anco di desiderar queste cose simili, sen-za le quali molte volte non può essere onesta:

O tre volte beatiQuelli, a ch’in faccia ai padri sotto l’alteMura di Troja già toccò morire.

Che differenza fai o che tu desideri questo ad altri, o checonfessi che sia stato da desiderarsi? Decio si die’ allamorte per la Republica; e spingendo il cavallo si gettò in

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sprezza, e provoca anco i pericoli? Bellissima certamen-te, e mirabil parte di questa fortezza è quella di non ce-dere al foco, e d’andare incontro alle ferite, e talvoltanon solo non schivar un’asta che venga per ferirti, maanco incontrarla col petto. Se dunque si deve desiderarla fortezza, si deve anco desiderare il sopportar pazien-temente i tormenti; e non il sopportargli solamente per-chè questo è parte della fortezza. Ma dividi, come t’hodetto, queste cose, e non vi sarà errore alcuno. Percioc-chè non si deve desiderar il soffrir de’ tormenti, ma ilsoffrirgli con fortezza d’animo: io vi desidero quella for-tezza, ch’è virtù. Ma chi sarà che desideri questo per semedesimo? Alcuni voti son chiari, e apertamente fatti; eson quelli che si fanno in particolare: alcuni altri sonascosti, come quando sotto un voto se ne comprendonomolti; come sarebbe a dire, io desidero la vita onesta; ela vita onesta costa di molte, e varie azioni. Sotto questavita vien compresa l’arca di Regolo; la ferita di Catonestracciata con le sue proprie mani; l’esilio di Rutilio, e ilvenenato calice di Socrate, che togliendolo di prigionelo trasportò in Cielo. Di sorte che desiderando io la vitaonesta, intendo anco di desiderar queste cose simili, sen-za le quali molte volte non può essere onesta:

O tre volte beatiQuelli, a ch’in faccia ai padri sotto l’alteMura di Troja già toccò morire.

Che differenza fai o che tu desideri questo ad altri, o checonfessi che sia stato da desiderarsi? Decio si die’ allamorte per la Republica; e spingendo il cavallo si gettò in

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mezzo agl’inimici, desideroso di morire. L’altro dopocostui, emulo della paterna virtù, dopo che ebbe solen-nemente e familiarmente parlato, si diede ad un copio-sissimo esercito, non pensando ad altro, che a placar iDei col suo sacrifizio; giudicando che la buona mortesia cosa da dover essere desiderata. A che dunque dubi-ti, se sia bene di morir memorabilmente, et in qualchefazione virtuosa? Quando un sopporta fortemente i tor-menti, mette in opra tutte le virtù; e questo forse perquell’una, ch’è in atto, e che apparisce, della pazienza.Ivi è la Fortezza, dalla quale si vede uscir, come suoirami, la pazienza, il sopportare, e la tolleranza. Ivi è laPrudenza, senza la quale non si fa consiglio alcuno; epersuade sopportar con gran fortezza quel che non sipuò fuggire. Ivi è la Costanza, la quale non si può mo-vere di loco, nè cangia di proposito per violenza che glisi faccia. Ivi finalmente è quella inseparabile compagniadi Virtù. Ciò che si fa onestamente, è operazione d’unaVirtù, ma questa operazione è secondo il parere delConsiglio: e quel, ch’è approvato da tutte le Virtù, an-corchè paja che sia effetto d’una sola, si deve non dime-no desiderare. E che? pensi tu forse che si debbiano solodesiderar quelle cose, che procedono dal piacere, edall’ozio? che si sogliono ricevere con le porte ornate?Vi sono certi piaceri mesti, e certi voti, i quali son cele-brati non già da quelli, che attendono all’allegrezze, mada quelli, che adorano, e riveriscono la Virtù. Così tunon crederai forse che Regolo desiderasse di ritornar da-gli Cartaginesi; ma véstiti dell’animo d’un grande

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mezzo agl’inimici, desideroso di morire. L’altro dopocostui, emulo della paterna virtù, dopo che ebbe solen-nemente e familiarmente parlato, si diede ad un copio-sissimo esercito, non pensando ad altro, che a placar iDei col suo sacrifizio; giudicando che la buona mortesia cosa da dover essere desiderata. A che dunque dubi-ti, se sia bene di morir memorabilmente, et in qualchefazione virtuosa? Quando un sopporta fortemente i tor-menti, mette in opra tutte le virtù; e questo forse perquell’una, ch’è in atto, e che apparisce, della pazienza.Ivi è la Fortezza, dalla quale si vede uscir, come suoirami, la pazienza, il sopportare, e la tolleranza. Ivi è laPrudenza, senza la quale non si fa consiglio alcuno; epersuade sopportar con gran fortezza quel che non sipuò fuggire. Ivi è la Costanza, la quale non si può mo-vere di loco, nè cangia di proposito per violenza che glisi faccia. Ivi finalmente è quella inseparabile compagniadi Virtù. Ciò che si fa onestamente, è operazione d’unaVirtù, ma questa operazione è secondo il parere delConsiglio: e quel, ch’è approvato da tutte le Virtù, an-corchè paja che sia effetto d’una sola, si deve non dime-no desiderare. E che? pensi tu forse che si debbiano solodesiderar quelle cose, che procedono dal piacere, edall’ozio? che si sogliono ricevere con le porte ornate?Vi sono certi piaceri mesti, e certi voti, i quali son cele-brati non già da quelli, che attendono all’allegrezze, mada quelli, che adorano, e riveriscono la Virtù. Così tunon crederai forse che Regolo desiderasse di ritornar da-gli Cartaginesi; ma véstiti dell’animo d’un grande

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uomo; allontànati per un poco dall’opinion del volgo:piglia quanto dei dell’immagine della bellissima, e ma-gnificentissima Virtù, la quale noi dovemo onorare noncon le corone, ma col sudore, e col sangue. Mira MarcoCatone, che si mette le purissime mani nel sacrato petto,e che allarga le poco aperte ferite. Che gli dirai tu piut-tosto, o: Io vorrei quel che tu vorresti, e duolmi di quelche ti duole; ovvero: Felicemente fai a far così? A que-sto proposito mi sovvien di quel che dice il nostro De-metrio, il quale chiama la vita sicura, e libera dagli em-piti di Fortuna, un mar morto, nel quale non vi sia cosa,che t’inciti, e dove t’impieghi; e con i pericoli e travaglidel quale tu possi far esperienza della fermezza dell’ani-mo tuo. Et il giacer in ozio riposato non è tranquillità,ma piuttosto bonaccia. Attalo Stoico solea dire: io micontento piuttosto che la Fortuna mi tenga tra i travaglisuoi, che tra le delizie: che se son tormentato, lo soppor-to però con fortezza d’animo, onde avvien che sia bene;e se son ammazzato, moro fortemente, onde è ancobene: e se udirai l’Epicuro, ti dirà che sia anco cosa dol-ce; ma io non porrò mai così effemminato nome a sìonesta, e severa cosa, e dirò che, se sono abbrugiato,sarò con animo invitto. E perchè non si deve desiderare,non che il fuoco m’abbrugi, ma che non mi possa vince-re? Non vi è cosa più prestante, nè più bella della Virtù;e ciò che si fa per ordine, e comandamento d’essa, èbene, e si deve anco desiderare. Sta sano.

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uomo; allontànati per un poco dall’opinion del volgo:piglia quanto dei dell’immagine della bellissima, e ma-gnificentissima Virtù, la quale noi dovemo onorare noncon le corone, ma col sudore, e col sangue. Mira MarcoCatone, che si mette le purissime mani nel sacrato petto,e che allarga le poco aperte ferite. Che gli dirai tu piut-tosto, o: Io vorrei quel che tu vorresti, e duolmi di quelche ti duole; ovvero: Felicemente fai a far così? A que-sto proposito mi sovvien di quel che dice il nostro De-metrio, il quale chiama la vita sicura, e libera dagli em-piti di Fortuna, un mar morto, nel quale non vi sia cosa,che t’inciti, e dove t’impieghi; e con i pericoli e travaglidel quale tu possi far esperienza della fermezza dell’ani-mo tuo. Et il giacer in ozio riposato non è tranquillità,ma piuttosto bonaccia. Attalo Stoico solea dire: io micontento piuttosto che la Fortuna mi tenga tra i travaglisuoi, che tra le delizie: che se son tormentato, lo soppor-to però con fortezza d’animo, onde avvien che sia bene;e se son ammazzato, moro fortemente, onde è ancobene: e se udirai l’Epicuro, ti dirà che sia anco cosa dol-ce; ma io non porrò mai così effemminato nome a sìonesta, e severa cosa, e dirò che, se sono abbrugiato,sarò con animo invitto. E perchè non si deve desiderare,non che il fuoco m’abbrugi, ma che non mi possa vince-re? Non vi è cosa più prestante, nè più bella della Virtù;e ciò che si fa per ordine, e comandamento d’essa, èbene, e si deve anco desiderare. Sta sano.

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LETTERA X.Amicum tuum hortare, ut etc. Ep. XXXVI.

Esorta pur l’amico tuo, che animosamente sprezzi questiche lo riprendono, che datosi all’ombra, et all’ozio, siamancato all’onore, et alla dignità sua, e che abbia prefe-rito la quiete a tutto quello, che averebbe potuto acqui-star di più. Or faccia toccar con mani ogni giorno a que-sti tali con quanto suo utile egli si sia governato. Quelli,ai quali si porta invidia, non resteranno però d’andareinnanzi: gli altri o che saranno dissipati, o che caderan-no. La roba è un’inquieta felicità; per se medesima sitormenta, turba l’ingegno, e con varie sorti di perturba-zioni; incita gli altri a diverse cose; questi a’ potentati,quelli a lussuria; questi insuperbisce, quelli umilia, e tut-ti insieme al fin gli risolve in niente. Si trova peròqualch’uno, che l’usa bene, non altrimente che il vino:sicchè non accade che questi si diano ad intendere, checolui ch’è da molti assediato, sia felice; perocchè a que-sto tale, quasi a un lago si corre, il quale seccano e tur-bano. Vano e pigro lo dimandano: e certi altri, che mala-mente parlano, e mostrano il contrario, tu sai che glichiamavano felici. Che dunque diremo? Era egli cosìveramente? Io non faccio nè anco conto di quel che amolti pare, che sia d’un animo troppo orrendo e severo.Aristone solea dire ch’egli più tosto volea un giovinemalanconico, che allegro et amator di perturbazioni:

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LETTERA X.Amicum tuum hortare, ut etc. Ep. XXXVI.

Esorta pur l’amico tuo, che animosamente sprezzi questiche lo riprendono, che datosi all’ombra, et all’ozio, siamancato all’onore, et alla dignità sua, e che abbia prefe-rito la quiete a tutto quello, che averebbe potuto acqui-star di più. Or faccia toccar con mani ogni giorno a que-sti tali con quanto suo utile egli si sia governato. Quelli,ai quali si porta invidia, non resteranno però d’andareinnanzi: gli altri o che saranno dissipati, o che caderan-no. La roba è un’inquieta felicità; per se medesima sitormenta, turba l’ingegno, e con varie sorti di perturba-zioni; incita gli altri a diverse cose; questi a’ potentati,quelli a lussuria; questi insuperbisce, quelli umilia, e tut-ti insieme al fin gli risolve in niente. Si trova peròqualch’uno, che l’usa bene, non altrimente che il vino:sicchè non accade che questi si diano ad intendere, checolui ch’è da molti assediato, sia felice; perocchè a que-sto tale, quasi a un lago si corre, il quale seccano e tur-bano. Vano e pigro lo dimandano: e certi altri, che mala-mente parlano, e mostrano il contrario, tu sai che glichiamavano felici. Che dunque diremo? Era egli cosìveramente? Io non faccio nè anco conto di quel che amolti pare, che sia d’un animo troppo orrendo e severo.Aristone solea dire ch’egli più tosto volea un giovinemalanconico, che allegro et amator di perturbazioni:

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perchè diceva non comportar il tempo, che il vino, cheessendo novo parve grosso, et aspro, si faccia buono,per aver piaciuto poi nella botte. Ma se lo dimanderannomesto et inimico de’ suoi progressi, ben gli si converrànella vecchiezza questa mestizia: perseveri pur ora adamar la virtù, et a sorbirsi gli studj liberali, non quellistudj, de’ quali basta assai esserne solamente sparso; maquesti, de’ quali si deve tingere l’animo. Oh che dun-que? vi è tempo che non si deve imparare? Non; ma sic-come è cosa lodevole di studiare in tutti gli anni; così èonesto che non sia lecito in tutti gli anni d’essere insti-tuito. Brutta e ridicola cosa è veder un vecchio, che co-minci ad imparar i primi elementi delle lettere. I giovanidevono acquistare, et i vecchi servirsi dell’acquistato.Farai dunque a te medesimo cosa utilissima, se farai luiun uomo da bene. Questi veramente sono i benefizj, masenza dubbio de’ maggiori che siano, che si suol dir chesi devono desiderare, et anco fare, i quali non men gio-vano a fargli, che a ricevergli. Finalmente egli non è piùin sua libertà, ha promesso: e men vergognosa cosa èl’esser creditore, che venir mancando della buona spe-ranza. Per pagar quel che altrui si deve, a un mercantebisogna prospera navigazione, a un agricoltore la fertili-tà della terra, che coltiva, et il favor de’ cieli: ma costuipuò con la sola volontà satisfare a quel che deve. Neglicostumi la Fortuna non ha possanza. Questi dispongagliper modo, che il tranquillo animo suo venga a quellaperfezione, che suol essere d’un animo perfetto, che nonsente passione alcuna per dare, o per torre che gli si fac-

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perchè diceva non comportar il tempo, che il vino, cheessendo novo parve grosso, et aspro, si faccia buono,per aver piaciuto poi nella botte. Ma se lo dimanderannomesto et inimico de’ suoi progressi, ben gli si converrànella vecchiezza questa mestizia: perseveri pur ora adamar la virtù, et a sorbirsi gli studj liberali, non quellistudj, de’ quali basta assai esserne solamente sparso; maquesti, de’ quali si deve tingere l’animo. Oh che dun-que? vi è tempo che non si deve imparare? Non; ma sic-come è cosa lodevole di studiare in tutti gli anni; così èonesto che non sia lecito in tutti gli anni d’essere insti-tuito. Brutta e ridicola cosa è veder un vecchio, che co-minci ad imparar i primi elementi delle lettere. I giovanidevono acquistare, et i vecchi servirsi dell’acquistato.Farai dunque a te medesimo cosa utilissima, se farai luiun uomo da bene. Questi veramente sono i benefizj, masenza dubbio de’ maggiori che siano, che si suol dir chesi devono desiderare, et anco fare, i quali non men gio-vano a fargli, che a ricevergli. Finalmente egli non è piùin sua libertà, ha promesso: e men vergognosa cosa èl’esser creditore, che venir mancando della buona spe-ranza. Per pagar quel che altrui si deve, a un mercantebisogna prospera navigazione, a un agricoltore la fertili-tà della terra, che coltiva, et il favor de’ cieli: ma costuipuò con la sola volontà satisfare a quel che deve. Neglicostumi la Fortuna non ha possanza. Questi dispongagliper modo, che il tranquillo animo suo venga a quellaperfezione, che suol essere d’un animo perfetto, che nonsente passione alcuna per dare, o per torre che gli si fac-

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cia, ma sempre sia nel medesimo abito, ovunque le cosecadino. Al quale o che si aggiunghino questi beni delvolgo sopra le cose sue, o che parte di questi, o anco tut-ti dal caso gli sian tolti, non si diminuisce punto dellasua grandezza. Se tra’ Parti fusse nato, subito da puttocomincierebbe a tirar l’arco: se nella Germania, inconta-nente negli teneri anni vibrerebbe l’asta: se fusse stato altempo de’ nostri avi, in un subito averebbe imparato dicavalcare, e di ferir l’inimico. Queste cose a ciaschedu-no detta e comanda la disciplina della sua gente. Or chedunque si farà? Convien che costui con tutto l’animopensi quello, che contra ogni sorte di armi, e contra ognisorte d’inimici è saldissimo scudo, e questo è il disprez-zar la morte: la quale che non abbia in se un non so chedi spavento tale, che offenda anco gli animi nostri for-mati dalla natura affezionati di lor medesimi, non vi èchi dubiti; nè sarebbe necessario che noi ci accomodas-simo, e c’ingegnassimo a quello, al quale per un certoinstinto di volontà anderemmo, come ciascuno è tiratoalla conservazione di se medesimo. Nessuno impara digiacer pazientemente sopra ai spini, bisognando: ma faben ogni sforzo di non mancar di fede per tormenti, dimodo che, se bisogno sia, in piedi, e talvolta anco feritoun stia vigilante per difension del forte, nè s’appoggipur all’asta; perchè suole, a chi in qualche cosa si ripo-sa, di nascosto e tacitamente venir il sonno. La mortenon ha incomodo alcuno; perciocchè per voler che unacosa abbia danno in se, bisogna che abbia anco l’essere.Che se pur ti vien desiderio di viver più lungamente,

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cia, ma sempre sia nel medesimo abito, ovunque le cosecadino. Al quale o che si aggiunghino questi beni delvolgo sopra le cose sue, o che parte di questi, o anco tut-ti dal caso gli sian tolti, non si diminuisce punto dellasua grandezza. Se tra’ Parti fusse nato, subito da puttocomincierebbe a tirar l’arco: se nella Germania, inconta-nente negli teneri anni vibrerebbe l’asta: se fusse stato altempo de’ nostri avi, in un subito averebbe imparato dicavalcare, e di ferir l’inimico. Queste cose a ciaschedu-no detta e comanda la disciplina della sua gente. Or chedunque si farà? Convien che costui con tutto l’animopensi quello, che contra ogni sorte di armi, e contra ognisorte d’inimici è saldissimo scudo, e questo è il disprez-zar la morte: la quale che non abbia in se un non so chedi spavento tale, che offenda anco gli animi nostri for-mati dalla natura affezionati di lor medesimi, non vi èchi dubiti; nè sarebbe necessario che noi ci accomodas-simo, e c’ingegnassimo a quello, al quale per un certoinstinto di volontà anderemmo, come ciascuno è tiratoalla conservazione di se medesimo. Nessuno impara digiacer pazientemente sopra ai spini, bisognando: ma faben ogni sforzo di non mancar di fede per tormenti, dimodo che, se bisogno sia, in piedi, e talvolta anco feritoun stia vigilante per difension del forte, nè s’appoggipur all’asta; perchè suole, a chi in qualche cosa si ripo-sa, di nascosto e tacitamente venir il sonno. La mortenon ha incomodo alcuno; perciocchè per voler che unacosa abbia danno in se, bisogna che abbia anco l’essere.Che se pur ti vien desiderio di viver più lungamente,

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considera che nessuna di quelle cose si consuma, cheson lontane dagli occhi, e che son riposte nella natura,dalla quale sono uscite, ovver usciranno di mano inmano. Cessano queste cose, non mojono: e la morte, chetememo, e ricusiamo, interlassa la vita, non la toglie deltutto. Verrà di nuovo il giorno che ci ritornerà in vita, laqual molti recuserebbono, se non ci riducesse dimenti-cati del passato. Ma mi riserbo per un’altra volta di mo-strarti qualmente tutte quelle cose, che a noi par che pe-rischino, si mutino. Volentieri deve ciascun uscire, do-vendo ritornare. Osserva questo giro delle cose, che ri-tornano in lor medesime, e vederai che in questo mondocosa alcuna non s’estingue, ma a vicenda descende, e ri-sorge. L’estate se ne va, ma l’altr’anno ne la riconduce;manca l’inverno, ma gli suoi mesi lo ritorneranno: lanotte offusca il sole, et il giorno incontanente scaccialei. Questo viaggio di stelle ritorna di novo a quel che hapassato: una parte del Cielo s’innalza del continuo, etuna parte si sommerge. Finalmente mi basta dir per ulti-mo, che se nè bambini, nè putti, nè pazzi temono lamorte, è bruttissima cosa, se la ragione non ci dà quellasicurezza, alla quale ci conduce la pazzia. Sta sano.

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considera che nessuna di quelle cose si consuma, cheson lontane dagli occhi, e che son riposte nella natura,dalla quale sono uscite, ovver usciranno di mano inmano. Cessano queste cose, non mojono: e la morte, chetememo, e ricusiamo, interlassa la vita, non la toglie deltutto. Verrà di nuovo il giorno che ci ritornerà in vita, laqual molti recuserebbono, se non ci riducesse dimenti-cati del passato. Ma mi riserbo per un’altra volta di mo-strarti qualmente tutte quelle cose, che a noi par che pe-rischino, si mutino. Volentieri deve ciascun uscire, do-vendo ritornare. Osserva questo giro delle cose, che ri-tornano in lor medesime, e vederai che in questo mondocosa alcuna non s’estingue, ma a vicenda descende, e ri-sorge. L’estate se ne va, ma l’altr’anno ne la riconduce;manca l’inverno, ma gli suoi mesi lo ritorneranno: lanotte offusca il sole, et il giorno incontanente scaccialei. Questo viaggio di stelle ritorna di novo a quel che hapassato: una parte del Cielo s’innalza del continuo, etuna parte si sommerge. Finalmente mi basta dir per ulti-mo, che se nè bambini, nè putti, nè pazzi temono lamorte, è bruttissima cosa, se la ragione non ci dà quellasicurezza, alla quale ci conduce la pazzia. Sta sano.

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LETTERA XI.Magnam ex epistola tua percepi voluptatem etc. Ep.

LIX.

Gran piacere ho preso dalla tua epistola: concedimich’io mi serva di questo modo di parlar comune, nè lotirare a quel senso che lo tirano gli Stoici. Perchè contutto che noi crediamo, che il piacer sia vizio, e sia ancocosì, non dimeno il solemo usare per dimostrare un alle-gro affetto dell’animo. Io non dubito punto che, se noireferiamo il parlare al nostro corpo, il piacere è cosa in-fame; e che l’allegrezza non può cadere se non nel sa-piente. Perchè è una grandezza d’animo, che si confidanegli beni, e nelle forze sue; non dimeno vulgarmente sisuol dir così: avemo sentito gran piacere del Consolato,delle nozze, e del parto della moglie del tale. Le qualicose però non ne apportan tanta allegrezza, che moltevolte non sian principio d’un futuro dolore. E l’allegrez-za vera non manca mai, nè si può convertire nel suocontrario. Laonde dicendo il nostro Virgilio:

E le triste allegrezze de la mente;parla in vero elegantemente, ma però poco propriamen-te; perocchè non si ritrova trista allegrezza. È ben il veroche battezzando i piaceri con questo nome, espressemolto ben quel ch’egli aveva in animo, volendo mostra-re come gli uomini si rallegrino del loro male. Non èperò ch’io senza causa abbia detto d’aver preso gran

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LETTERA XI.Magnam ex epistola tua percepi voluptatem etc. Ep.

LIX.

Gran piacere ho preso dalla tua epistola: concedimich’io mi serva di questo modo di parlar comune, nè lotirare a quel senso che lo tirano gli Stoici. Perchè contutto che noi crediamo, che il piacer sia vizio, e sia ancocosì, non dimeno il solemo usare per dimostrare un alle-gro affetto dell’animo. Io non dubito punto che, se noireferiamo il parlare al nostro corpo, il piacere è cosa in-fame; e che l’allegrezza non può cadere se non nel sa-piente. Perchè è una grandezza d’animo, che si confidanegli beni, e nelle forze sue; non dimeno vulgarmente sisuol dir così: avemo sentito gran piacere del Consolato,delle nozze, e del parto della moglie del tale. Le qualicose però non ne apportan tanta allegrezza, che moltevolte non sian principio d’un futuro dolore. E l’allegrez-za vera non manca mai, nè si può convertire nel suocontrario. Laonde dicendo il nostro Virgilio:

E le triste allegrezze de la mente;parla in vero elegantemente, ma però poco propriamen-te; perocchè non si ritrova trista allegrezza. È ben il veroche battezzando i piaceri con questo nome, espressemolto ben quel ch’egli aveva in animo, volendo mostra-re come gli uomini si rallegrino del loro male. Non èperò ch’io senza causa abbia detto d’aver preso gran

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piacere della tua epistola. Perchè sebbene il rallegrarsiper questa cagione è più tosto da ignorante, che altri-mente: non dimeno il debole affetto di questo tale, chesubito è per inclinare nel contrario, io lo chiamo piaceresfrenato, e soverchio, causato dall’opinione che ha delfalso bene. Ma ritornando a proposito, odi quel che misia dilettato nella tua epistola. Tu hai le parole in tuo po-tere; il parlare non ti leva fuor di proposito, nè ti fa esserpiù lungo di quel che hai determinato. Molti sono, chetratti dalla bellezza di qualche dolce parola, son traspor-tati a dir cose, che non aveano proposto di scrivere. Ilche a te non avviene, perocchè tutte le cose tue sonstringate, e convenienti alla materia, di che tratti. Ragio-ni quanto vuoi; e sei tanto abbondante di sentimento,che significhi molto più, che non parli. Questi sono indi-zj di molto maggior cose; perocchè ci mostrano comel’animo tuo non ha punto nè del soverchio, nè del gon-fiato. Vi trovo non dimeno certe traslazioni di parole, lequali come non son fuor di proposito, così non son nèanco men belle, come quelle che hanno già fatto provadi loro. Vi trovo figure, l’uso delle quali se niuno è chelo proibisca a noi, giudicando che sia solamente conces-so agli Poeti: questo tale non mi par che abbia letto al-cuno degli scrittori antichi, appresso i quali ancor nons’andava uccellando al parlar soave. Quelli, che sempli-cemente parlavano, solo per dimostrar la cosa, che vo-leano, vedrai che son pieni di comparazioni: le quali iogiudico necessarie non per le cagioni, per le quali le de-vono usar i poeti, ma per ajutar la debolezza degli nostri

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piacere della tua epistola. Perchè sebbene il rallegrarsiper questa cagione è più tosto da ignorante, che altri-mente: non dimeno il debole affetto di questo tale, chesubito è per inclinare nel contrario, io lo chiamo piaceresfrenato, e soverchio, causato dall’opinione che ha delfalso bene. Ma ritornando a proposito, odi quel che misia dilettato nella tua epistola. Tu hai le parole in tuo po-tere; il parlare non ti leva fuor di proposito, nè ti fa esserpiù lungo di quel che hai determinato. Molti sono, chetratti dalla bellezza di qualche dolce parola, son traspor-tati a dir cose, che non aveano proposto di scrivere. Ilche a te non avviene, perocchè tutte le cose tue sonstringate, e convenienti alla materia, di che tratti. Ragio-ni quanto vuoi; e sei tanto abbondante di sentimento,che significhi molto più, che non parli. Questi sono indi-zj di molto maggior cose; perocchè ci mostrano comel’animo tuo non ha punto nè del soverchio, nè del gon-fiato. Vi trovo non dimeno certe traslazioni di parole, lequali come non son fuor di proposito, così non son nèanco men belle, come quelle che hanno già fatto provadi loro. Vi trovo figure, l’uso delle quali se niuno è chelo proibisca a noi, giudicando che sia solamente conces-so agli Poeti: questo tale non mi par che abbia letto al-cuno degli scrittori antichi, appresso i quali ancor nons’andava uccellando al parlar soave. Quelli, che sempli-cemente parlavano, solo per dimostrar la cosa, che vo-leano, vedrai che son pieni di comparazioni: le quali iogiudico necessarie non per le cagioni, per le quali le de-vono usar i poeti, ma per ajutar la debolezza degli nostri

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ingegni, e perchè con questi mezzi si mostri sì ben lacosa a chi impara, et intende, che gli paja d’averla avan-ti gli occhi. Ogni volta ch’io leggo Sestio, uomo vera-mente acuto, e filosofo, di lingua Greco, e di costumiRomano, mi muove oltra modo quella similitudine postada lui dell’esercito, il quale, quando vi è sospetto daogni parte de’ nemici, va in ordinanza, et è sempre appa-recchiato a combattere. Il medesimo, dice, deve fare ilSavio. Distribuisca le sue virtù d’ogn’intorno; e dove sadi poter essere assaltato, et offeso, abbia sempre in ordi-ne gente alla difesa: la qual gente risponda senza tumul-to ad un sol cenno del capitano. Il che vedemo che si fanegli eserciti ordinati da grandi Imperatori, che tutto ilcorpo d’essi sente in un subito l’ordine dato dal capo,per modo che un segno dato da un solo corra subito pertutta la fanteria, e cavalleria insieme. Questo avverti-mento dice Sestio esser molto più necessario a noi. Pe-rocchè i soldati spesse volte temono senza causa, e per ilpiù trovano la strada sicurissima, che aveano per sospet-tissima. La pazzia loro non ha in se cosa tranquilla; e lapaura gli è tanto di sopra, come di sotto; teme dell’uno,e l’altro lato; i pericoli gli vengono dinanzi, e dietro;d’ogni poca cosa si sbigottisce, è sprovvista: e moltevolte è spaventata da quelli, che gli vengono in ajuto.Ma il Savio è sempre fortificato, et attento contra tuttigli assalti: nè volterà mai faccia per impeto nè di pover-tà, nè di pianto, nè d’ignominia, nè di dolore. Intrepidoanderà contra di loro, e vi passerà anco per mezzo. Noimolte cose ci tengono legati, molte ci togliono le forze;

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ingegni, e perchè con questi mezzi si mostri sì ben lacosa a chi impara, et intende, che gli paja d’averla avan-ti gli occhi. Ogni volta ch’io leggo Sestio, uomo vera-mente acuto, e filosofo, di lingua Greco, e di costumiRomano, mi muove oltra modo quella similitudine postada lui dell’esercito, il quale, quando vi è sospetto daogni parte de’ nemici, va in ordinanza, et è sempre appa-recchiato a combattere. Il medesimo, dice, deve fare ilSavio. Distribuisca le sue virtù d’ogn’intorno; e dove sadi poter essere assaltato, et offeso, abbia sempre in ordi-ne gente alla difesa: la qual gente risponda senza tumul-to ad un sol cenno del capitano. Il che vedemo che si fanegli eserciti ordinati da grandi Imperatori, che tutto ilcorpo d’essi sente in un subito l’ordine dato dal capo,per modo che un segno dato da un solo corra subito pertutta la fanteria, e cavalleria insieme. Questo avverti-mento dice Sestio esser molto più necessario a noi. Pe-rocchè i soldati spesse volte temono senza causa, e per ilpiù trovano la strada sicurissima, che aveano per sospet-tissima. La pazzia loro non ha in se cosa tranquilla; e lapaura gli è tanto di sopra, come di sotto; teme dell’uno,e l’altro lato; i pericoli gli vengono dinanzi, e dietro;d’ogni poca cosa si sbigottisce, è sprovvista: e moltevolte è spaventata da quelli, che gli vengono in ajuto.Ma il Savio è sempre fortificato, et attento contra tuttigli assalti: nè volterà mai faccia per impeto nè di pover-tà, nè di pianto, nè d’ignominia, nè di dolore. Intrepidoanderà contra di loro, e vi passerà anco per mezzo. Noimolte cose ci tengono legati, molte ci togliono le forze;

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e per esser lungo tempo giaciuti in questi vizj, il levarse-ne è difficil cosa: perciocchè non siamo solamente im-brattati, ma anco infetti; per non passar da una figura adun’altra. Ora io dimando a te quel che molte volte pensofra me medesimo: donde avvenga che noi siamo tantopertinacemente dati a questa pazzia, che prima non cer-chiamo di levarnela d’attorno, e di fare uno sforzo perrisanarci; poi che le cose, che da sapienti uomini sonostate trovate, non credemo abbastanza, nè ci apriamo ilpetto per sorbircele tutte; e che così leggiermente insi-stemo a così gran cosa. E come può uno imparar quantobisogna per resistere contra gli vizj, non imparando senon in quel tempo ch’egli è lontano da’ vizj? Niun di noipesca al fondo, pigliamo solamente i principj, et occu-pandoci in ogn’altra cosa, ci par d’aver fatto assai, aven-do speso una piccola particella di tempo nella filosofia.E sopra tutto, quel che più d’ogn’altra cosa n’impedisce,è che tosto ne compiacemo di noi medesimi: e se trovia-mo chi ne dica che noi siamo uomini da bene, e pruden-ti, e santi, ci tenemo, e ci riconoscemo per tali. Non cicontentiamo di mediocre laude. Tutto quello, che da unasfacciata adulazione ci è attribuito, ce lo pigliamo comedebitamente datoci; et assecondiamo coloro, che ci pre-dicano per buoni, e per savj, con tutto che certamentesappiamo, che quelli tali dicono molte volte gran bugie:e compiacemo anco di sorte a noi stessi, che vogliamoesser lodati di quello, del quale noi facemo il contrario,et allor che maggiormente il facemo. Quando uno è neltormentar altri con supplicj, allor è che volentier ascolta

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e per esser lungo tempo giaciuti in questi vizj, il levarse-ne è difficil cosa: perciocchè non siamo solamente im-brattati, ma anco infetti; per non passar da una figura adun’altra. Ora io dimando a te quel che molte volte pensofra me medesimo: donde avvenga che noi siamo tantopertinacemente dati a questa pazzia, che prima non cer-chiamo di levarnela d’attorno, e di fare uno sforzo perrisanarci; poi che le cose, che da sapienti uomini sonostate trovate, non credemo abbastanza, nè ci apriamo ilpetto per sorbircele tutte; e che così leggiermente insi-stemo a così gran cosa. E come può uno imparar quantobisogna per resistere contra gli vizj, non imparando senon in quel tempo ch’egli è lontano da’ vizj? Niun di noipesca al fondo, pigliamo solamente i principj, et occu-pandoci in ogn’altra cosa, ci par d’aver fatto assai, aven-do speso una piccola particella di tempo nella filosofia.E sopra tutto, quel che più d’ogn’altra cosa n’impedisce,è che tosto ne compiacemo di noi medesimi: e se trovia-mo chi ne dica che noi siamo uomini da bene, e pruden-ti, e santi, ci tenemo, e ci riconoscemo per tali. Non cicontentiamo di mediocre laude. Tutto quello, che da unasfacciata adulazione ci è attribuito, ce lo pigliamo comedebitamente datoci; et assecondiamo coloro, che ci pre-dicano per buoni, e per savj, con tutto che certamentesappiamo, che quelli tali dicono molte volte gran bugie:e compiacemo anco di sorte a noi stessi, che vogliamoesser lodati di quello, del quale noi facemo il contrario,et allor che maggiormente il facemo. Quando uno è neltormentar altri con supplicj, allor è che volentier ascolta

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d’esser chiamato mansueto: quando ruba, liberalissimo:quando è sepolto nel vino, e nella libidine, temperantis-simo. Seguita dunque che la cagione, per la quale nonne curiamo di mutar natura, è perchè ci persuademod’esser bonissimi. Alessandro, vagando già nell’India, efacendo guerra a genti non ben conosciute nè anco daifinitimi, nell’assedio d’una città, mentre circondando lemuraglie andava cercando dove fussero più deboli, feri-to da una saetta, e fermatosi alquanto, seguitò quelch’egli avea cominciato. Ma poichè, stagnato il sangue,cominciò a crescere il dolore dell’asciutta ferita, e lagamba appesa al cavallo a poco a poco s’addormentò,costretto dalla necessità di togliersi dall’impresa, Tutti,disse, giurano ch’io son figliuol di Giove: ma questa fe-rita grida apertamente ch’io son uomo. Il medesimoconvien che noi facciamo. Quando l’adulazione cerca difar impazzire ciaschedun di noi per la sua parte, dicia-mo: voi mi dite ch’io son prudente; et io veggo quantecose inutili io desideri, e quante ne brami, che non miponno apportar altro, che nocumento: e non conosco an-cora che la saturità mostra agli animali quanto si debbiabevere, e mangiare; et io non so quanto mi debbia desi-derare. Or io ti voglio insegnare come facilmente ti po-trai accorgere di non esser savio. Savio è colui, che pie-no d’allegrezza, giocondo, e placido, et intrepido viveeguale agli Dei. Ora esamina te stesso: e se nè mestizia,nè speranza alcuna di cosa, che tu aspetti, ti tormental’animo elevato, e che compiace a se medesimo è inquesta disposizione egualmente il giorno, come la notte,

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d’esser chiamato mansueto: quando ruba, liberalissimo:quando è sepolto nel vino, e nella libidine, temperantis-simo. Seguita dunque che la cagione, per la quale nonne curiamo di mutar natura, è perchè ci persuademod’esser bonissimi. Alessandro, vagando già nell’India, efacendo guerra a genti non ben conosciute nè anco daifinitimi, nell’assedio d’una città, mentre circondando lemuraglie andava cercando dove fussero più deboli, feri-to da una saetta, e fermatosi alquanto, seguitò quelch’egli avea cominciato. Ma poichè, stagnato il sangue,cominciò a crescere il dolore dell’asciutta ferita, e lagamba appesa al cavallo a poco a poco s’addormentò,costretto dalla necessità di togliersi dall’impresa, Tutti,disse, giurano ch’io son figliuol di Giove: ma questa fe-rita grida apertamente ch’io son uomo. Il medesimoconvien che noi facciamo. Quando l’adulazione cerca difar impazzire ciaschedun di noi per la sua parte, dicia-mo: voi mi dite ch’io son prudente; et io veggo quantecose inutili io desideri, e quante ne brami, che non miponno apportar altro, che nocumento: e non conosco an-cora che la saturità mostra agli animali quanto si debbiabevere, e mangiare; et io non so quanto mi debbia desi-derare. Or io ti voglio insegnare come facilmente ti po-trai accorgere di non esser savio. Savio è colui, che pie-no d’allegrezza, giocondo, e placido, et intrepido viveeguale agli Dei. Ora esamina te stesso: e se nè mestizia,nè speranza alcuna di cosa, che tu aspetti, ti tormental’animo elevato, e che compiace a se medesimo è inquesta disposizione egualmente il giorno, come la notte,

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tu potrai dire d’essere pervenuto alla perfezione delbene umano. Ma se ritroverai in te da ogni banda appeti-to d’ogni sorte di piaceri; sappi che tu sei tanto lontanodalla saviezza, quanto sei anco dalla vera allegrezza:alla quale so ben che tu desideri di pervenire; ma sei inerrore, credendo di potervi arrivare per via delle ricchez-ze. Tu cerchi d’avere questo contento d’animo tra glitravagli, e tra gli onori di questo mondo? Queste cose,che tu ricerchi, come t’abbino ad arrecare allegrezza, epiacere, son cagioni di dolore. Tutti tirano a questa alle-grezza, ma non sanno però donde se la possino conse-guire, che sia stabile e grande. Altri pensano d’ottenerlaper conviti, e per darsi alla lussuria: altri per l’ambizio-ne, e per aver d’ogni intorno gran numero di clienti: altriper l’esser ben voluto dalla sua amica: altri per una vanadimostrazione degli studj liberali, e delle lettere, chenon apportano rimedio alcuno all’infermità dell’animo.Questi tali tutti son gabbati da fallaci e brevi dilettazio-ni: non altrimente che l’ebbrezza, la quale ricompensal’allegra pazzia d’un’ora col fastidio d’un lungo tempo;e come anco il plauso, e il grido favorevole, che congran fastidio s’acquista, e si purga anco. Tu ti devi dun-que immaginare, che l’effetto della saviezza, e la qualitàdella vera allegrezza sia tale, che faccia divenir l’animodel Savio nello stato, nel quale è il Cielo dal giro dellaluna in su, dove regna perpetua serenità. Or tu intendiquel che deve spingerti a voler esser sapiente, perchè lasaviezza non può essere senza l’allegrezza; e quest’alle-grezza non può nascere, se non dalla vera scienza delle

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tu potrai dire d’essere pervenuto alla perfezione delbene umano. Ma se ritroverai in te da ogni banda appeti-to d’ogni sorte di piaceri; sappi che tu sei tanto lontanodalla saviezza, quanto sei anco dalla vera allegrezza:alla quale so ben che tu desideri di pervenire; ma sei inerrore, credendo di potervi arrivare per via delle ricchez-ze. Tu cerchi d’avere questo contento d’animo tra glitravagli, e tra gli onori di questo mondo? Queste cose,che tu ricerchi, come t’abbino ad arrecare allegrezza, epiacere, son cagioni di dolore. Tutti tirano a questa alle-grezza, ma non sanno però donde se la possino conse-guire, che sia stabile e grande. Altri pensano d’ottenerlaper conviti, e per darsi alla lussuria: altri per l’ambizio-ne, e per aver d’ogni intorno gran numero di clienti: altriper l’esser ben voluto dalla sua amica: altri per una vanadimostrazione degli studj liberali, e delle lettere, chenon apportano rimedio alcuno all’infermità dell’animo.Questi tali tutti son gabbati da fallaci e brevi dilettazio-ni: non altrimente che l’ebbrezza, la quale ricompensal’allegra pazzia d’un’ora col fastidio d’un lungo tempo;e come anco il plauso, e il grido favorevole, che congran fastidio s’acquista, e si purga anco. Tu ti devi dun-que immaginare, che l’effetto della saviezza, e la qualitàdella vera allegrezza sia tale, che faccia divenir l’animodel Savio nello stato, nel quale è il Cielo dal giro dellaluna in su, dove regna perpetua serenità. Or tu intendiquel che deve spingerti a voler esser sapiente, perchè lasaviezza non può essere senza l’allegrezza; e quest’alle-grezza non può nascere, se non dalla vera scienza delle

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virtù. Non può veramente allegrarsi uno, che non sia oforte, o giusto, o temperato. Che dunque? Gli stolti, e glitristi non s’allegrano: mi dirai. Sì; ma non più di quelche fanno i leoni, quando han fatto preda. Questi talistracchi dal vino, e dalle libidini, poichè la notte mancaloro in mezzo a’ vizj, e poichè i piaceri, ingeriti nel pic-colo corpo più di quel ch’egli potea capire, comincianoa impatronirsi di lui, gridando dicono que’ versi di Vir-gilio:

Che poi che questa oscura ultima notteTra le false allegrezze avrem passata ec.

E tu sai molto bene, che non fanno altro, che consumarlascivamente tra false allegrezze tutta la notte, non altri-mente che se quella fusse l’ultima. L’allegrezza, ch’ècongiunta con gli Dei, e con gli emuli d’essi, non puòessere interrotta, nè vien mai meno, che mancherebbecertamente, se avesse altro principio, che non ha. Maperchè non è dono d’altri, non è nè anco in arbitriod’altrui. La Fortuna non toglie quel, che non ha dato.Sta sano.

IL FINE.

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virtù. Non può veramente allegrarsi uno, che non sia oforte, o giusto, o temperato. Che dunque? Gli stolti, e glitristi non s’allegrano: mi dirai. Sì; ma non più di quelche fanno i leoni, quando han fatto preda. Questi talistracchi dal vino, e dalle libidini, poichè la notte mancaloro in mezzo a’ vizj, e poichè i piaceri, ingeriti nel pic-colo corpo più di quel ch’egli potea capire, comincianoa impatronirsi di lui, gridando dicono que’ versi di Vir-gilio:

Che poi che questa oscura ultima notteTra le false allegrezze avrem passata ec.

E tu sai molto bene, che non fanno altro, che consumarlascivamente tra false allegrezze tutta la notte, non altri-mente che se quella fusse l’ultima. L’allegrezza, ch’ècongiunta con gli Dei, e con gli emuli d’essi, non puòessere interrotta, nè vien mai meno, che mancherebbecertamente, se avesse altro principio, che non ha. Maperchè non è dono d’altri, non è nè anco in arbitriod’altrui. La Fortuna non toglie quel, che non ha dato.Sta sano.

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