QUESTIONE La tecnica opprime o libera l’uomo? Heidegger ...in Saggi e discorsi, trad. it. di G....

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1 QUESTIONE La tecnica opprime o libera l’uomo? Heidegger, Marcuse filosofia politica / sociologia PARTIAMO DA “ECHELON” Echelon” (dal francese échelon, che significa “gradino”, “scaglione”) è il nome comunemente usato per indicare una complessa organizzazione che si occupa di raccolta e analisi dei segnali elettromagnetici (Signal Intelligence) per conto di cinque paesi: Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Concepita al termine della Seconda guerra mondiale per controllare l’Unione Sovietica, alla fine della “guerra fredda” Echelon si è trasformata in una sorta di “agenzia di spionaggio” di livello planetario, potenzialmente in grado di intercettare milioni di comunicazioni che viaggiano via cavo o via satellite: telefonate, fax, e-mail ecc. Una tale capacità di violazione della privacy ha destato le preoccupazioni dell’Unione Europea, che, a partire dal 1996, ha istituito diverse commissioni di studio per trovare il modo di limitare il potere di questa organizzazione. Il timore di fondo è che le tecnologie usate da Echelon – che si avvale di sofisticati strumenti di intercettazione e di elaborazione dati – possano configurare una sorta di “prigione virtuale”, nella quale siamo tutti controllabili e “schedabili” in base alle nostre convinzioni politiche e religiose: una situazione estremamente rischiosa, poiché, sulla base di simili schedature, in caso di conflitto potremmo essere additati come potenziali “nemici”. Un impianto di Echelon a Menwith Hill (Gran Bretagna). Il fatto che un tale timore sia diventato una possibilità concreta è apparso chiaro nel 2013, quando Edward Snowden, ex-informatico della NSA (National Security Agency, l’agenzia governativa statunitense per la sicurezza nazionale) e della CIA (Central Intelligence Agency), ha rivelato che, soprattutto a partire dall’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, i servizi

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QUESTIONE La tecnica opprime o libera l’uomo? Heidegger, Marcuse

filosofia politica / sociologia PARTIAMO DA “ECHELON” “Echelon” (dal francese échelon, che significa “gradino”, “scaglione”) è il nome comunemente usato per indicare una complessa organizzazione che si occupa di raccolta e analisi dei segnali elettromagnetici (Signal Intelligence) per conto di cinque paesi: Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Concepita al termine della Seconda guerra mondiale per controllare l’Unione Sovietica, alla fine della “guerra fredda” Echelon si è trasformata in una sorta di “agenzia di spionaggio” di livello planetario, potenzialmente in grado di intercettare milioni di comunicazioni che viaggiano via cavo o via satellite: telefonate, fax, e-mail ecc. Una tale capacità di violazione della privacy ha destato le preoccupazioni dell’Unione Europea, che, a partire dal 1996, ha istituito diverse commissioni di studio per trovare il modo di limitare il potere di questa organizzazione. Il timore di fondo è che le tecnologie usate da Echelon – che si avvale di sofisticati strumenti di intercettazione e di elaborazione dati – possano configurare una sorta di “prigione virtuale”, nella quale siamo tutti controllabili e “schedabili” in base alle nostre convinzioni politiche e religiose: una situazione estremamente rischiosa, poiché, sulla base di simili schedature, in caso di conflitto potremmo essere additati come potenziali “nemici”.

Un impianto di Echelon a Menwith Hill (Gran Bretagna). Il fatto che un tale timore sia diventato una possibilità concreta è apparso chiaro nel 2013, quando Edward Snowden, ex-informatico della NSA (National Security Agency, l’agenzia governativa statunitense per la sicurezza nazionale) e della CIA (Central Intelligence Agency), ha rivelato che, soprattutto a partire dall’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, i servizi

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segreti americani controllano massicciamente (si parla del 75% del traffico Internet) le comunicazioni di milioni di cittadini statunitensi e non, tra cui molti membri di governi stranieri, inclusi quelli europei: La NSA è in grado di accedere ai dati personali dagli smartphone, inclusi i BlackBerry, i dispositivi che usano Android e l’iPhone. Lo rivelano nuovi documenti di Edward Snowden, secondo i quali la NSA può accedere ai dati sensibili contenuti negli smartphone, inclusi i contatti, il traffico sms e le informazioni di localizzazione. Lo riporta Der Spiegel, che spiega che questo non significa che NSA abbia effettuato un maggiore controllo sugli utenti, ma che queste tecniche spesso sono state usate per intercettare specifici individui.

(da “la Repubblica”, 8 settembre 2013) Il quadro delineato da queste vicende appare inquietante, perché, facendo intravedere la possibilità di un controllo totale sulle persone, perdipiù esercitato a loro insaputa, rende drammaticamente concreto l’incubo dei sistemi totalitari descritto da molti romanzi di fantapolitica (ad esempio 1984 di George Orwell). Ma un simile stato di cose invita anche a un’altra riflessione. Un controllo delle comunicazioni così pervasivo è reso possibile non soltanto dall’uso di tecnologie altamente sofisticate da parte di organismi come Echelon, ma anche dal fatto che tali tecnologie (ad esempio gli smartphone a cui si fa riferimento nell’articolo de “la Repubblica”) sono in fondo le stesse utilizzate dalla gente comune, la quale grazie ad esse è in grado di compiere per via telematica le operazioni più svariate. È innegabile, quindi, che gli strumenti tecnologici abbiano in molti casi reso la nostra vita più semplice e libera, facilitando e velocizzando molte operazioni che prima richiedevano più tempo e più fatica: dal comunicare con persone lontane all’effettuare movimenti bancari, dallo scambiarsi materiali di lavoro all’aggiornarsi su quanto accade nel mondo, dal prenotare aerei all’inviare messaggi e foto... Ma, allora, la tecnologia opprime e ingabbia, oppure libera e aiuta? Questa domanda non nasce oggi, ma accompagna da sempre le riflessioni sulla tecnica e sui suoi possibili usi (pensiamo ad esempio alla rivoluzione industriale e ai suoi sviluppi nel primo Novecento, che hanno per certi versi alleggerito il lavoro degli operai nelle fabbriche, mentre per certi altri lo hanno “spersonalizzato”, costringendo a gesti ripetitivi e “alienanti”).

La tecnica opprime o libera l’uomo? Sulla base delle tue convinzioni personali,

rispondi a questo interrogativo scegliendo tra le opzioni che seguono. 1. La tecnica è essenzialmente uno strumento di manipolazione: ogni ritrovato tecnico (dall’aratro alla macchina a vapore, dalla luce elettrica al computer) comporta una manipolazione della natura e un tentativo di dominarla. Ma, in quanto parte della natura, anche gli esseri umani possono essere “tecnicamente” manipolati e oppressi. Ci sono quindi fondati motivi per ritenere che, quanto più la tecnica pervade la nostra vita quotidiana, tanto più essa diventa manipolabile e controllabile, soprattutto se la pervasività delle tecnologie assume la forma di un automatismo di cui non siamo del tutto consapevoli. 2. In se stessa, la tecnica non può che avere una funzione positiva: quella di affrancare l’uomo da una serie di fatiche che rendono la sua vita difficile e penosa. Ogni nuovo ritrovato tecnico porta una semplificazione nella vita umana, e quindi costituisce un passo in avanti: così è stato per

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l’aratro, per le auto, per gli elettrodomestici, per il calcolatore. E questa funzione liberante è di gran lunga prevalente rispetto a quella manipolante e opprimente, la quale infatti non è legata agli strumenti tecnologici in sé, bensì all’uso distorto che se ne fa.

Illustra brevemente le ragioni che ti hanno indotto a prendere questa posizione. ................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................

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APPROFONDIAMO LA QUESTIONE Dal senso comune alla filosofia 1. Per Martin Heidegger (1889-1976) la tecnica costituisce il compimento della metafisica, intesa come progetto volto a dominare il reale con il pensiero e, conseguentemente, con l’agire. Essa è Gestell, cioè “imposizione”, una sorta di “intelaiatura” imposta al reale per organizzarlo e sfruttarlo. L’assolutizzazione della tecnica che caratterizza il mondo contemporaneo è perciò qualcosa che si può comprendere (e limitare) solo tornando alle sue implicazioni metafisiche, al modo in cui l’uomo, a partire soprattutto dalla modernità, ha compreso l’essere e il mondo. Se la tecnica è coessenziale alla scienza moderna, la forma di pensiero che permette di superarla è invece rappresentata dall’arte, in particolare dalla poesia. 2. Herbert Marcuse (1898-1979) ha visto nella tecnica un problema squisitamente politico e sociale: l’organizzazione tecnica nasce dall’esigenza degli uomini di vivere in società e di ovviare alla loro costitutiva incapacità di soddisfare da soli i propri bisogni primari. Una tale organizzazione impone il cosiddetto “principio di realtà”, che limita e reprime il “principio di piacere”, cioè l’estrinsecazione della libido. Ora, sebbene nelle società industriali la tecnologizzazione sia diventata uno strumento di controllo sulla vita degli individui e un automatismo fine a se stesso, tuttavia la tecnica, ricondotta al suo fine proprio, può condurre a una liberazione degli esseri umani, i quali grazie ad essa possono dedicarsi maggiormente alla propria realizzazione personale, e quindi a una nuova forma di razionalità non inconciliabile con il principio di piacere. 1. La tecnica è un esito della metafisica: Heidegger La “svolta” metafisica cartesiana: il mondo come rappresentazione Per Heidegger la rilevanza assunta dalla tecnica nel mondo contemporaneo non è solo la manifestazione di una peculiare capacità dell’uomo, ma l’espressione di una visione del mondo ben precisa. In altre parole, per Heidegger la tecnica cioè non costituisce un problema antropologico, bensì metafisico, nel senso che rimanda a una concezione metafisica che si è affermata nella storia della filosofia a partire dalla modernità, ma che affonda le sue radici nel pensiero platonico. Il momento determinante in questo percorso è costituito da Cartesio. In una conferenza del 1938, intitolata L’epoca dell’immagine del mondo e poi pubblicata in Sentieri interrotti, Heidegger descrive il percorso della metafisica come un continuo e inarrestabile processo di “soggettivizzazione” del mondo, fino alla sua riduzione, da parte di Cartesio, a immagine e rappresentazione. Per Cartesio, infatti, il “soggetto” del reale (cioè il suo “fondamento”, secondo il significato del termine greco hypokeímenon e del termine latino subiectum, “ciò che sta sotto”) è l’io, o la coscienza (il cogito): un’idea, questa, che era del tutto estranea al mondo greco. Con Cartesio il mondo diventa un oggetto per un soggetto, cioè “rappresentazione”, qualcosa che “sta di fronte” all’uomo: è questo, non a caso, il significato del termine tedesco per dire “oggetto”, cioè Gegen-stand. Ridotto a rappresentazione, il mondo diventa disponibile per la manipolazione, cioè per il dominio da parte dell’uomo.

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La tecnica come “imposizione” La rivoluzione metafisica realizzata da Cartesio è la radice, da una parte, della definizione della conoscenza come oggettivazione e, dall’altra, dell’intimo nesso che lega la scienza alla tecnica. Infatti, secondo Heidegger, la nascita della scienza sperimentale è coessenziale alla moderna concezione della scienza: l’esperimento implica la possibilità di “controllare” l’esperienza mediante un apparato tecnico con cui si effettuano misurazioni e calcoli. Con l’esperimento l’operatività (cioè l’importanza delle procedure metodiche per l’accertamento della verità) diventa l’essenza della scienza, al punto che, scrive Heidegger, «nell’attrezzatura meccanica necessaria alla scomposizione dell’atomo è contenuta tutta la fisica dalle origini a oggi» (L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 80). In questo senso la tecnica costituisce il compimento della metafisica: essa porta a compimento la concezione del reale come oggettualità manipolabile e dominabile dall’operare umano: «La tecnica meccanica è il primo frutto dell’essenza della tecnica moderna, che fa tutt’uno con l’essenza della metafisica moderna» (ibidem, p. 72). Il dispiegarsi contemporaneo del potere della tecnica costituisce un ulteriore passo in questa direzione: il procedimento tecnico assume la sua più completa valenza metafisica, diventando totalmente meccanico. Heidegger designa questa condizione della tecnica nel mondo contemporaneo con il termine Gestell. Questo termine in tedesco significa “intelaiatura”, “scaffale”, “struttura portante”: nell’uso heideggeriano assume quindi il significato di una “imposizione”, di una violenza che la tecnica fa al mondo e all’uomo stesso, perché, anziché “far essere” il mondo per quel che è, lo “provoca”, facendo in modo che esso risponda alle sue esigenze, alle sue modalità operative puramente meccaniche. La natura diventa così un semplice “risorsa” da sfruttare, e l’uomo stesso un elemento dell’ingranaggio tecnico: La centrale elettrica è impiantata [gestellt] nelle acque del Reno. Questo è richiesto per fornire la pressione idrica che mette all’opera le turbine perché girino e così spingano quella macchina il cui movimento produce la corrente elettrica che la centrale di un certo distretto e la sua rete sono impiegati a produrre per soddisfare la richiesta di energia. Nell’ambito di questo successivo concatenarsi dell’impiego dell’energia elettrica anche il Reno appare come qualcosa di bestellte, di “impiegato”.

(M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 11-12)

La natura e l’uomo come elementi di un processo produttivo Il fine della tecnica è lo sfruttamento della natura (questo è quanto intende Heidegger con l’espressione “provocazione”), che presuppone che la natura sia un semplice oggetto di manipolazione e l’uomo un soggetto che impone le sue finalità alla natura. Senonché, al di la di questa comprensione antropologica della tecnica, essa prende il sopravvento e diventa Gestell, un apparato di cui sia la natura sia l’uomo sono semplici elementi, in quanto impiegati in un processo produttivo. Essa non è dunque soltanto un’attività dell'uomo, né un puro e semplice mezzo all’interno di tale attività. La concezione puramente strumentale, puramente antropologica, della tecnica, diventa caduca nel suo principio; né si può completarla mediante la semplice aggiunta di una spiegazione religiosa o metafisica.

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Resta vero, comunque che l’uomo dell’età della tecnica è pro-vocato al disvelamento in un modo particolarmente rilevante. Tale disvelamento concerne anzitutto la natura come principale deposito di riserve di energia.

(M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit., pp. 15-16)

L’ambiguità della tecnica Tuttavia, la condizione di compimento della metafisica nella tecnica è per Heidegger anche l’annuncio di una nuova e diversa condizione. Il Gestell, portando a compimento la metafisica, ne sancisce anche la fine. Quest’idea è espressa da Heidegger con parole dal suono profetico, che egli riprende dal poeta tedesco Hölderlin: Ma là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva. Nell’estremizzazione del pericolo costituito dalla totale tecnicizzazione del mondo si possono ritrovare anche i prodromi del suo superamento. L’epoca del Gestell, infatti, pone fine al soggettivismo del mondo moderno, all’idea dell’uomo dominatore, in grado di assoggettare e controllare la natura. Per questo, secondo Heidegger, l’unico atteggiamento contro questo pericolo non è tanto la ribellione, quanto l’abbandono (Gelassenheit), ovvero un atteggiamento di meditazione e raccoglimento (Ge-) che “lascia essere” (lassen) l’ente, piuttosto che dominarlo. Così – contrariamente a ogni nostra aspettativa – ciò che costituisce l’essere della tecnica alberga in sé il possibile sorgere di ciò che salva. Per questo, ciò che importa è che noi meditiamo su questo sorgere e lo custodiamo rimemorandolo. In che modo? Anzitutto, bisogna che cogliamo nella tecnica ciò che ne costituisce l’essere, invece di restare affascinati semplicemente dalle cose tecniche. Fino a che pensiamo la tecnica come strumento, restiamo anche legati alla volontà di dominarla.

(M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit., p. 25)

Per questo motivo Heidegger può dire che «L’essenza della tecnica è in alto grado ambigua» (ibidem). E tale ambiguità consiste nel fatto che, come ogni evento della storia dell’essere, la tecnica manifesta una particolare condizione storica della metafisica e nello stesso tempo occulta nuove possibilità che possono successivamente estrinsecarsi, e che occorre “lasciar essere”. Il ruolo dell’arte Queste possibilità non vengono, secondo Heidegger, esplicitate dalla tecnica stessa, che nel suo fondo resta legata all’epoca della metafisica. Il superamento del Gestell e della metafisica è piuttosto affidato all’arte, che non a caso i Greci chiamavano téchne: Poiché l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvenga in un ambito che da un lato è affine all’essenza della tecnica e, dall’altro, né è tuttavia fondamentalmente distinto.

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Tale ambito è l’arte. S’intende solo quando la meditazione dell’artista, dal canto suo, non si chiude davanti alla costellazione della verità riguardo alla quale noi poniamo la nostra domanda.

(M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit., p. 27)

Solo l’arte è per Heidegger capace di quell’abbandono che, mentre “lascia essere” il mondo, è in grado di creare e prospettare nuove possibilità, ponendo domande anche più radicali di quelle della filosofia. 2. La tecnica libera l’uomo: Marcuse La “repressività” della società Diversamente da Heidegger, Marcuse legge il fenomeno della tecnica in termini esclusivamente politici e psico-sociologici. La tecnica, infatti, e in generale una determinata struttura organizzativa, non è che il risultato della nascita stessa della società. Richiamandosi al saggio di Sigmund Freud Totem e tabù, Marcuse afferma infatti che alla nascita della società sia coessenziale una limitazione del desiderio di auto-affermazione degli individui, cioè una limitazione di quello che Freud chiamava “principio di piacere”. Queste strutture limitative – che ad esempio impongono all’individuo di tenere a freno i propri istinti sessuali e di conciliare le sue esigenze e i suoi bisogni con quelli degli altri – sono ciò che Freud chiamava “principio di realtà”. Il contrasto tra principio di piacere e principio di realtà diventa così un contrasto strutturale di ogni società: quanto più crescono le imposizioni che la società richiede all’individuo, anche sotto forma di divieti morali e di proibizioni culturali, tanto più il principio di piacere viene represso, e quindi diminuiscono le possibilità di auto-realizzazione (ovvero di libertà) dell’individuo. Una società retta completamente dal principio di realtà è pertanto una società repressiva, segnata dal dominio. Il principio di realtà e la repressione addizionale In Eros e civiltà (1955) Marcuse elabora una teoria dei meccanismi repressivi che in parte si discosta da quella freudiana e che costituisce anche il punto su cui si innesta la sua riflessione sulla tecnica e sul suo ruolo ai fini del dominio o dell’emancipazione. Grazie all’introduzione del principio di realtà e alla sua organizzazione repressiva, l’individuo entra a far parte della società e ne riceve sostegno e difesa ai fini della propria sopravvivenza. Il principio di realtà, in questo senso, è conseguenza della “penuria”, ovvero della necessità umana di “adattarsi al mondo” per soddisfare i propri bisogni, di lavorare, rinunciando quindi al soddisfacimento immediato del proprio piacere. Da questo punto di vista, «il principio di piacere è incompatibile con la realtà, e gli istinti devono sottomettersi a un regime repressivo» (Eros e civiltà, trad. it. di G. Jervis, Einaudi, Torino 2001, p. 80). Ma questo meccanismo tende a estendersi oltre questo scopo originario, introducendo delle “repressioni addizionali” che tendono a trasformare il principio di realtà in dominio organizzato, perdipiù facendo apparire il meccanismo stesso, che è in tutto e per tutto storico, come un carattere biologico, ovvero naturale (come se fosse, cioè, un dato immodificabile delle

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società umane). Le “repressioni addizionali” sono rappresentate dalle istituzioni, che introducono delle richieste ulteriori rispetto alla repressione del principio di realtà necessaria per la vita sociale: mentre ogni forma di principio della realtà esige comunque un grado e una misura notevole di indispensabile controllo repressivo degli istinti, le istituzioni storiche specifiche del principio della realtà e gli specifici interessi del dominio introducono controlli addizionali al di là e al di sopra di quelli indispensabili all’esistenza di una comunità civile. Questi controlli addizionali che provengono dalle specifiche istituzioni del dominio costituiscono ciò che noi chiamiamo repressione addizionale.

(H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di G. Jervis, Einaudi, Torino 2001, p. 81)

La degenerazione del progetto tecnico: «l’uomo a una dimensione» Nel quadro dell’organizzazione sociale in funzione del soddisfacimento dei bisogni e della conseguente repressione degli istinti, la tecnica gioca un ruolo di primo piano. Infatti, se da una parte il progetto tecnico ha una precisa base esistenziale e materiale, in quanto nasce per l’incapacità umana di abolire la “penuria” e promuovere la felicità, ed è quindi funzionale al dominio e al controllo della natura e dell’uomo, dall’altra parte esso può degenerare in puro dominio, assumendo cioè una consistenza del tutto svincolata da questi scopi e diventando puro automatismo. Nella società capitalistica la produzione di massa richiede un onnipresente apparato tecnico che «integra», in accordo con gli interessi che controllano l’apparato, tutte le sfere dell’esistenza pubblica e privata. La repressione addizionale diventa allora omnipervasiva, assoggettando completamente l’uomo all’apparato tecnologico. Essa inoltre viene interiorizzata attraverso le forme istituzionali, in maniera tale da non essere più neanche avvertita come repressione: Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico.

(H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, trad. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 1961, p. 21)

Il risultato di questa tecnologizzazione della vita – del fatto, cioè, che l’organizzazione tecnica viene spacciata come l’essenza stessa della razionalità e quindi fatta coincidere con il principio di realtà, in maniera da non lasciar intravedere più alcuna alternativa o diversa possibilità – è quel che Marcuse chiama «l’uomo a una dimensione»: un uomo ridotto alla sola dimensione del reale e della sua organizzazione tecnologica, spacciata per “razionalità”. La tecnica come possibile via di liberazione Tuttavia, accanto a questa impietosa descrizione delle società industriali avanzate, Marcuse vede nella tecnica anche una possibile fonte di liberazione. Lo scopo della tecnica, infatti, non è l’assoggettamento dell’uomo, ma il suo affrancamento dal lavoro e quindi la liberazione delle sue potenzialità più originarie e profonde. Se il progresso tecnico venisse portato a compimento e non deviato da questo suo scopo originario, si potrebbe quindi realizzare una società in cui l’uomo, anziché essere sottomesso alle macchine, sarebbe da esse “liberato”, trovandosi così a disporre di più tempo per la propria realizzazione personale.

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In questo senso, a Marcuse l’automazione integrale del lavoro appare addirittura come un prerequisito della liberazione dal lavoro, perché in tal modo si potrebbe arrivare a una trasformazione del principio di realtà che contempli la sua conciliabilità con il principio di piacere, e al “ritorno” a una condizione in cui il primo non era funzionale alla repressione del secondo: Sarebbe sempre un rovesciamento del processo di civilizzazione, un sovvertimento della cultura – ma dopo che la cultura ha terminato la sua opera e creato un’umanità e un mondo atti ad essere liberi. Sarebbe sempre ancora una “regressione” – ma alla luce di una coscienza matura e guidata da una razionalità nuova.

(H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 216) Questa nuova razionalità sarebbe una razionalità “estetica” o “libidica”, «non soltanto compatibile col progresso verso forme superiori di libertà civile, ma anche atta a promuovere queste ultime» (ibidem). La differente visione rispetto a Heidegger Diversamente da quanto accade in Heidegger, quindi, in Marcuse la tecnica non costituisce un problema “metafisico” o “ontologico”: essa, piuttosto, è saldamente ancorata a una dimensione storico-sociale, all’interno della quale è sicuramente fonte di progresso materiale, ma anche, nella misura in cui si confonda con il principio di realtà e ne rafforzi la repressione addizionale, di dominio e autoritarismo, di incremento del lavoro alienante e spersonalizzante. Tutto sta a ribaltare la situazione, facendo della tecnica uno strumento di liberazione, che promuove l’abbondanza e l’emancipazione dell’uomo dal lavoro.

Ora che hai ascoltato le ragioni dei filosofi, decidi se intendi rimanere fedele alla tua idea iniziale o se preferisci cambiarla,

e indica in sintesi gli argomenti che ti hanno indotto a questa decisione. ................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................ ................................................................................................................................................................

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UNA QUESTIONE APERTA... Per quanto l’ottimismo espresso da Marcuse in Eros e civilità sia stato poi alquanto ridimensionato ne L’uomo a una dimensione, le sue idee hanno comunque animato un vasto dibattito. In particolare, la discussione ha riguardato le possibilità emancipative delle nuove tecnologie informatiche, le quali, come abbiamo visto, permettono di controllare non soltanto la vita privata dei cittadini (si pensi a come il semplice uso del telefonino consenta di essere localizzati e seguiti nei propri spostamenti), ma anche la vita pubblica, ad esempio rendendo facilmente accessibile ogni tipo di documento, e quindi più trasparenti l’amministrazione e il governo dello Stato. Molte delle discussioni che, a partire dagli scorsi anni Ottanta, hanno riguardato il cosiddetto “postmoderno” concernevano proprio questo aspetto, e la possibilità di avere libero accesso alle memorie e alle banche-dati, o di suscitare dibattiti a cui i cittadini possono prendere parte in maniera diretta, è stata vista come una grande spinta verso una società più libera e democratica. A questi elementi va poi aggiunto il fatto che, nei paesi industrializzati, la tecnicizzazione si è ormai spinta fino al controllo della vita e della morte. Non sono rari, infatti, i casi di persone tenute in vita artificialmente, contro il decorso naturale della loro esistenza: al di là delle credenze morali o religiose che inevitabilmente sono implicate in una tale questione, il problema è se il semplice potere tecnico di agire in questo modo sia di per sé una giustificazione del fatto che si agisca così. Chi decide, cioè, della legittimità dell’uso di una tecnologia? Si può pensare che questo potere decisionale spetti alla politica. In realtà, l’estrema complessità delle tecnologie contemporanee fa sì che tale potere sia nelle mani di quei pochissimi che conoscono a fondo il loro funzionamento: «la tecnica è usata da tutti, ma segnata profondamente dal potere, che la rende segreta, esoterica, criptica, nota solo a chi è in comunicazione diretta con il potere stesso» (M. Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 300). Non si può nascondere che, anche quando in Internet partecipiamo a sondaggi e votazioni, è lecito il dubbio che il meccanismo di raccolta di questi dati possa essere manipolato da chi ha il potere (cioè la competenza) di gestire le piattaforme digitali... Chi controlla questi sistemi? Non è un caso che una delle forme più efficaci di ribellione – e cioè di opposizione ai sistemi politici ed economici nel mondo contemporaneo – sia quella degli hackers, ossia di coloro che riescono a introdursi nelle banche-dati e a bloccarne il funzionamento o diffonderne i contenuti segreti. E tutto questo ripropone, a un livello ancora più radicale, il problema che aveva animato il dibattito politico sin dai tempi di Platone: quello del nesso tra politica e conoscenza...