Quel che resta di Reagan

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Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009 Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno V - n. 6 - novembre/dicembre 2010 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso www.farefuturofondazione.it Quel che resta di Reagan

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Quel che resta di Reagan

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liane S.p.a. - Spedizion

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ento postale - 70

% /Rom

a/Aut. N°140/

2009

Nuova serie A

nno V - N

umero 6 - novem

bre/dicembre 2010

Quel che resta di R

EAGAN

Siamo tutti figlidi Ronald Reagan

EDITORIALEDI BARBARA MENNITTI

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiet-tivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergereuna nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della glo-balizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, dicultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dellosviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, svilup-pare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello.Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestraitaliano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nelquadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in si-nergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idead’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale vi-sione dell’Occidente.La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113.Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientificae dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scien-tifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro chene finanziano l’attività con donazioni private.

Presidente

Gianfranco FINI fini@ farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO urso@ farefuturofondazione.it

Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA [email protected]

Consiglio di fondazioneAlessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI,

Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi

SCIBETTA, Adolfo URSO

Segreteria organizzativa fondazione FarefuturoVia del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132

[email protected]

Direttore scientificoAlessandro [email protected]

Direttore relazioni internazionaliFederico [email protected]

DirettoreMario [email protected]

Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno V - n. 6 - novembre/dicembre 2010 - Euro 12

Direttore Adolfo Urso

«Non molto tempo fa due miei amici parlavano con un rifugiatocubano, un imprenditore che era fuggito da Castro e, nel mezzodella storia, uno dei miei amici si rivolse all’altro, dicendo: “Nonci rendiamo nemmeno conto di quanto siamo fortunati”. Al che ilcubano si fermò e disse: “Quanto siete fortunati voi? Io avevo unposto dove fuggire”. E questa frase ci dice tutto. Se perdiamo la li-bertà qui, non ci sarà più un posto in cui fuggire.» In questo breve stralcio tratto dal celeberrimo discorso A time forchoosing – Il momento delle scelte –, affidato all’etere da RonaldReagan nel 1964 (cioè sedici anni prima del suo ingresso alla Ca-sa Bianca), in occasione della candidatura alla presidenza di BarryGoldwater, ritroviamo già la cifra politica che ha caratterizzatotutta l’esperienza di quello che a nostro avviso è stato uno dei pre-sidenti più grandi degli Stati Uniti. Al contrario dei suoi prede-cessori, al contrario anche dei cosiddetti realisti del suo stesso par-tito e di chi si era ormai rassegnato ad una politica di appeasement,il presidente Reagan credeva fortemente che ci fosse una differen-za sostanziale fra il mondo libero occidentale e il regime sovieti-co, che si fondava sull’oppressione e sulla negazione del diritto

fondamentale dell’essere umano, quello al-la libertà. Di più, fra l’uno e l’altro versan-te della cortina di ferro c’era una differenzamorale che impediva di deviare dall’unicoobiettivo accettabile: la sconfitta dell’“im-

pero del male”. Per noi europei, infatti, Ronald Reagan rimarràprima di tutto il presidente che ha vinto la Guerra Fredda. Quelloche, mentre l’Europa era affetta dalla Gorbymania e si rallegrava diun segretario generale del Pcus dal volto umano, gettò alle ortichela diplomazia e alzò la posta. «Mr. Gorbaciov, se davvero vuoi lapace, vieni a questa porta! Mr. Gorbaciov, apri questa porta! Mr.Gorbaciov, butta giù questo Muro!». Sono parole che fanno ancorascorrere un brivido sulla pelle di chi ricorda cos’era il nostro conti-nente ai tempi della cortina di ferro e com’era la vita nei paesidell’Europa dell’est. Le piazze di Berlino erano gremite di giovaniche contestavano il presidente americano per la sua politica di riar-mo, i soliti “utili idoti” della storia che non riuscivano a capire chefu proprio l’impossibilità dell’Unione Sovietica di stare al passocon gli Usa a metterla alle corde. Il sistema sovietico stava mar-cendo dall’interno, è vero, ma ci voleva qualcuno con tanta lungi-miranza da dare la spallata alla porta marcia. Lo fece Ronald

Per Reagan esistevauna differenza moralefra il mondo occidentalee il regime sovietico

www.farefuturofondazione.i t

Quel che restadi Reagan

Siamo tutti figli di Ronald ReaganBARBARA MENNITTI - EDITORIALE

Reagan, il presidente della svolta - 2ALDO DI LELLO

Alla ricerca della rivoluzione liberale interrotta - 10BENEDETTO DELLA VEDOVA e LUCIO SCUDIERO

L’uomo che cambiò il volto all’America - 18INTERVISTA a MASSIMO TEODORI di Federico Brusadelli

Come la new right divenne maggioranza culturale - 24ANDREA MARCIGLIANO

Vi spiego il Grande comunicatore - 34INTERVISTA a KLAUS DAVI di Domenico Naso

Gli strani alfieri italiani del reaganismo - 46CARMELO PALMA

La linea intransigente contro l’Evil Empire - 54PIERLUIGI MENNITTI

L’Europa tra missili e prove di disgelo - 62MASSIMO AMOROSI

La più bella vittoria di Ronald Reagan - 68INTERVISTA a JOHN HULSMAN di Barbara Mennitti

Idealismo e realismo per la politica estera - 74PAOLO QUERCIA

Due uomini con un solo obiettivo - 80MICHELE TRABUCCO

E la destra italiana incontrò la modernità - 90ALDO DI LELLO

Da Goldwater a Reagan, così rinacque il Gop - 96BRUNO TIOZZO

Un radicalismo illuminato al servizio del singolo - 102GIUSEPPE PENNISI

SOMMARIONUOVA SERIE ANNO V - NUMERO 6 - NOVEMBRE/DICEMBRE 2010

L’economia scommette sull’individuo - 110PIERCAMILLO FALASCA

La rivoluzione nel segno della libertà - 118GIAMPIERO RICCI

Il liberismo, trent’anni dopo - 126CARLO STAGNARO

E la cultura pop sposò il reaganismo - 134DOMENICO NASO

STRUMENTII discorsi di Ronald Reagan - 140

MINUTABosnia, la nuova frontiera è l’Europa - 164STEFANO CALICIURI

Usa, nella patria del federalismo - 170RODOLFO BASTIANELLI

Riconquistare il senso civico perduto- 182ANGELICA STRAMAZZI

APPUNTAMENTIA CURA DI BRUNO TIOZZO

Direttore Adolfo Urso [email protected]

Direttore responsabile Barbara [email protected]

Collaboratori:Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Federico Brusadelli, Stefano Caliciuri, Rosalinda Cappello, DilettaCherra, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini,Alessandro Marrone, Pierluigi Mennitti,Cecilia Moretti, Domenico Naso, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia,Bruno Tiozzo, Pietro Urso.

Direzione e redazioneVia del Seminario, 113 - 00186 RomaTel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: [email protected]@gmail.com

Segreteria di [email protected]

Grafica ed impaginazioneGiuseppe Proia

Editrice Charta s.r.l.Abbonamento annuale € 60, sostenitore da €200Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776intestato a Editrice Charta s.r.l. -C.c. postale n. 73270258Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unicoGianmaria Sparma

Segreteria amministrativaSilvia Rossi

TipografiaTipografica-Artigiana s.r.l. - Roma

Ufficio abbonamentiDomenico Sacco

www.farefuturofondazione.i t

www.chartaminuta.it

SIMI VALLEYPerspectives on Leadership ForumL’ex Presidente George W Bush pre-senta il libro autobiografico DecisionPoints a una cena presso la Ronald Rea-gan Presidential Foundation and Li-brary.Giovedì 18 novembre

BERLINOInternationale Konferenz für PolitischeKommunikationConferenza internazionale della KonradAdenauer Stiftung sulla comunicazionepolitica. Un approfondimento partico-lare viene dedicato al movimento TeaParty negli Usa. Domenica 21 novembre

STOCCOLMAMedierna, SD och valet – vad händeegentligen?Tavola rotonda presso il centro studiTimbro sull’affermazione della for-mazione xenofoba dei Democraticisvedesi alle recenti elezioni politiche.Lunedì 22 novembre

WASHINGTONSoutheast Asian Economic Communityand American InterestsSeminario di studio della HeritageFoundation sulle relazioni politiche ecommerciali tra gli Usa e l’Asean.Martedì 23 novembre

LONDRAThe Rational OptimistPresentazione presso il think-tank Pol-icy exchange (vicino a David Cameron)del libro di Matt Ridley sull’impattostorico dell’ottimismo.Mercoledì 24 novembre

OTTAWAEthical OilL’opinionista conservatore Ezra Levantinterviene presso il Fraser Institute infavore dell’estrazione di petrolio dallesabbie bituminose canadesi.Martedì 30 novembre

SCHLOSS EICHOLZCorso di tre giorni della Konrad Ade-nauer Stiftung sull’Ue, con escursione aBruxelles.Martedì 30 novembre – Giovedì 2 dicem-bre

PARIGIDe Gaulle et l’Afrique. La décolonisa-tion de l’Afrique francophone subsa-harienneConvegno della Fondation Charles DeGaulle sul ruolo svolto dal generale nelprocesso di decolonizzazione africana.Intervengono Bernard Boucault, diret-tore dell’Ena e l’ex ministro YvesGuéna. Giovedì 2 dicembre

WASHINGTONTheodore Roosevelt, the ProgressiveParty and the Ascendance of the "Liv-ing Constitution"Presentazione presso l’American Enter-prise Institute del libro omonimo di Sid-ney M. Milkis sui paralleli tra ilriformismo di Theodore Roosevelt equello di Barack Obama. Lunedì 13 dicembre

Quel che restadi REAGAN

Siamo tutti figli di Ronald ReaganBARBARA MENNITTI - EDITORIALE

Reagan, il presidente della svolta - 2ALDO DI LELLO

Alla ricerca della rivoluzione liberale interrotta - 10BENEDETTO DELLA VEDOVA e LUCIO SCUDIERO

L’uomo che cambiò il volto all’America - 18INTERVISTA a MASSIMO TEODORI di Federico Brusadelli

Come la new right divenne maggioranza culturale - 24ANDREA MARCIGLIANO

Vi spiego il Grande comunicatore - 34INTERVISTA a KLAUS DAVI di Domenico Naso

Gli strani alfieri italiani del reaganismo - 46CARMELO PALMA

La linea intransigente contro l’Evil Empire - 54PIERLUIGI MENNITTI

L’Europa tra missili e prove di disgelo - 62MASSIMO AMOROSI

La più bella vittoria di Ronald Reagan - 68INTERVISTA a JOHN HULSMAN di Barbara Mennitti

Idealismo e realismo per la politica estera - 74PAOLO QUERCIA

Due uomini con un solo obiettivo - 80MICHELE TRABUCCO

E la destra italiana incontrò la modernità - 90ALDO DI LELLO

Da Goldwater a Reagan, così rinacque il Gop - 96BRUNO TIOZZO

Un radicalismo illuminato al servizio del singolo - 102GIUSEPPE PENNISI

SOMMARIONUOVA SERIE ANNO V - NUMERO 6 - NOVEMBRE/DICEMBRE 2010

L’economia scommette sull’individuo - 110PIERCAMILLO FALASCA

La rivoluzione nel segno della libertà - 118GIAMPIERO RICCI

Il liberismo, trent’anni dopo - 126CARLO STAGNARO

E la cultura pop sposò il reaganismo - 134DOMENICO NASO

STRUMENTII discorsi di Ronald Reagan - 140

MINUTABosnia, la nuova frontiera è l’Europa - 164STEFANO CALICIURI

Usa, nella patria del federalismo - 170RODOLFO BASTIANELLI

Riconquistare il senso civico perduto- 182ANGELICA STRAMAZZI

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WASHINGTONSoutheast Asian Economic Communityand American InterestsSeminario di studio della HeritageFoundation sulle relazioni politiche ecommerciali tra gli Usa e l’Asean.Martedì 23 novembre

LONDRAThe Rational OptimistPresentazione presso il think-tank Pol-icy exchange (vicino a David Cameron)del libro di Matt Ridley sull’impattostorico dell’ottimismo.Mercoledì 24 novembre

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SCHLOSS EICHOLZCorso di tre giorni della Konrad Ade-nauer Stiftung sull’Ue, con escursione aBruxelles.Martedì 30 novembre – Giovedì 2 dicem-bre

PARIGIDe Gaulle et l’Afrique. La décolonisa-tion de l’Afrique francophone subsa-harienneConvegno della Fondation Charles DeGaulle sul ruolo svolto dal generale nelprocesso di decolonizzazione africana.Intervengono Bernard Boucault, diret-tore dell’Ena e l’ex ministro YvesGuéna. Giovedì 2 dicembre

WASHINGTONTheodore Roosevelt, the ProgressiveParty and the Ascendance of the "Liv-ing Constitution"Presentazione presso l’American Enter-prise Institute del libro omonimo di Sid-ney M. Milkis sui paralleli tra ilriformismo di Theodore Roosevelt equello di Barack Obama. Lunedì 13 dicembre

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Nuova serie A

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Siamo tutti figlidi Ronald Reagan

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Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiet-tivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergereuna nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della glo-balizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, dicultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dellosviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, svilup-pare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello.Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestraitaliano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nelquadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in si-nergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idead’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale vi-sione dell’Occidente.La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113.Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientificae dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scien-tifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro chene finanziano l’attività con donazioni private.

Presidente

Gianfranco FINI fini@ farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO urso@ farefuturofondazione.it

Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA [email protected]

Consiglio di fondazioneAlessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI,

Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro PICCINETTI, Pierluigi

SCIBETTA, Adolfo URSO

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Direttore scientificoAlessandro [email protected]

Direttore relazioni internazionaliFederico [email protected]

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Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno V - n. 6 - novembre/dicembre 2010 - Euro 12

Direttore Adolfo Urso

«Non molto tempo fa due miei amici parlavano con un rifugiatocubano, un imprenditore che era fuggito da Castro e, nel mezzodella storia, uno dei miei amici si rivolse all’altro, dicendo: “Nonci rendiamo nemmeno conto di quanto siamo fortunati”. Al che ilcubano si fermò e disse: “Quanto siete fortunati voi? Io avevo unposto dove fuggire”. E questa frase ci dice tutto. Se perdiamo la li-bertà qui, non ci sarà più un posto in cui fuggire.» In questo breve stralcio tratto dal celeberrimo discorso A time forchoosing – Il momento delle scelte –, affidato all’etere da RonaldReagan nel 1964 (cioè sedici anni prima del suo ingresso alla Ca-sa Bianca), in occasione della candidatura alla presidenza di BarryGoldwater, ritroviamo già la cifra politica che ha caratterizzatotutta l’esperienza di quello che a nostro avviso è stato uno dei pre-sidenti più grandi degli Stati Uniti. Al contrario dei suoi prede-cessori, al contrario anche dei cosiddetti realisti del suo stesso par-tito e di chi si era ormai rassegnato ad una politica di appeasement,il presidente Reagan credeva fortemente che ci fosse una differen-za sostanziale fra il mondo libero occidentale e il regime sovieti-co, che si fondava sull’oppressione e sulla negazione del diritto

fondamentale dell’essere umano, quello al-la libertà. Di più, fra l’uno e l’altro versan-te della cortina di ferro c’era una differenzamorale che impediva di deviare dall’unicoobiettivo accettabile: la sconfitta dell’“im-

pero del male”. Per noi europei, infatti, Ronald Reagan rimarràprima di tutto il presidente che ha vinto la Guerra Fredda. Quelloche, mentre l’Europa era affetta dalla Gorbymania e si rallegrava diun segretario generale del Pcus dal volto umano, gettò alle ortichela diplomazia e alzò la posta. «Mr. Gorbaciov, se davvero vuoi lapace, vieni a questa porta! Mr. Gorbaciov, apri questa porta! Mr.Gorbaciov, butta giù questo Muro!». Sono parole che fanno ancorascorrere un brivido sulla pelle di chi ricorda cos’era il nostro conti-nente ai tempi della cortina di ferro e com’era la vita nei paesidell’Europa dell’est. Le piazze di Berlino erano gremite di giovaniche contestavano il presidente americano per la sua politica di riar-mo, i soliti “utili idoti” della storia che non riuscivano a capire chefu proprio l’impossibilità dell’Unione Sovietica di stare al passocon gli Usa a metterla alle corde. Il sistema sovietico stava mar-cendo dall’interno, è vero, ma ci voleva qualcuno con tanta lungi-miranza da dare la spallata alla porta marcia. Lo fece Ronald

Per Reagan esistevauna differenza moralefra il mondo occidentalee il regime sovietico

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Quel che restadi Reagan

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Reagan, che vinse la Guerra Fredda sostanzialmente senza spara-re un colpo. Come dice John Hulsman intervistato su questo nu-mero, “una meravigliosa vittoria geostrategica”.Ma la presidenza Reagan è stata anche molto altro. Economisti epolitici approfondiscono il tema della reaganomics, la ricetta dellesistematiche (ma non selvagge, come precisa Andrea Marcigliano)

liberalizzazioni economiche, dei tagli fiscali,dello smantellamento dell’apparato federale edella promozione del ceto medio che il presi-dente e il suo staff operarono per rivitalizzarel’economia di un paese sfiduciato e in crisi di

identità. «Lo Stato non è la soluzione, è il problema», è un’altradelle frasi celebri di Ronald Reagan, convinto sostenitore dellanecessità di uno small government, che lasciasse più libertà possibi-le ai suoi cittadini. Il presidente-attore portò una ventata di aria fresca anche nellagrigia retorica istituzionale, adottando uno stile diretto e ottimi-sta in grado di arrivare ai cittadini senza bisogno di intermedia-zione. Si guadagnò il titolo di “grande comunicatore” e cambiòper sempre la comunicazione politica. Non solo. Sotto la sua presidenza, la new right portò a compimen-to quella che può essere a buon titolo definita la rivoluzione cultu-rale avviata da Barry Goldwater e che riuscì a destabilizzare l’ege-monia culturale liberal, grazie anche a un fiorire di fondazioni,think-tank e centri studi di altissimo livello.L’intento di questo numero di Charta minuta, però, non è – o nonè solo – quello di celebrare Ronald Reagan a trent’anni dalla suaprima elezione, rendendo giustizia a un presidente che, per uncerto snobismo tutto europeo, fu ciecamente sottovalutato daisuoi omologhi d’Oltreoceano. Ma è anche e soprattutto quello di

analizzare cosa il centrodestra italiano ha ap-preso da quell’esperienza americana, ricor-dando che è sicuramente al cowboy venuto daHollywood che si devono le prime riflessio-ni sul liberalismo, in economia e in politica,

temi guardati a lungo con sospetto da una destra italiana che fati-cava a scrollarsi di dosso le eredità del passato. Cosa è stato davve-ro fatto in Italia in nome del liberalismo e cosa invece è rimastoun vuoto slogan di facciata? C’è ancora bisogno nel nostro paesedella tanto invocata “rivoluzione liberale”? E come conciliarla conla crisi che stiamo attraversando? A queste domande cercheremodi rispondere in questo numero nella certezza che, volenti o no-lenti, siamo tutti un po’ figli di Ronald Reagan.

Reagan sosteneva lo small governmentper lasciare il massimodi libertà ai cittadini

Nel nostro paesec’è ancora bisogno della tanto invocata “rivoluzione liberale”?

DI ALDO DI LELLO

Il trentennale dell’insediamentodi Ronald Reagan alla Casa Bianca offrespunti di riflessione, anche amari,

per l’attualità. Nel nostro paese siamo ancorain attesa di una vera “rivoluzione liberale”che ci metta in grado di raccogliere le sfidedi un’economia globale.

REAGAN, IL PRESIDENTEDELLA SVOLTA

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Trent’anni fa l’elezione di RonaldReagan alla presidenza degli Sta-ti Uniti. Non è un evento cometanti altri che compaiono nell’al-manacco del Novecento. È unaricorrenza importante, in questotravagliato 2010. Lo è non soloper l’America, ma anche perl’Europa. E lo è in modo partico-lare, ancorché possa sembrarestrano, per l’Italia.Per spiegare perché è necessaria,innanzi tutto, una sintetica rico-struzione storica. E cominciamodalla domanda che Reagan rivol-se agli americani durante la cam-pagna per le presidenziali del1980: «State meglio oggi o quat-tro anni fa?». Il candidato repub-blicano sapeva di toccare un ner-vo scoperto nel corpo elettorale.L’ultima fase degli anni Settanta,dominata dalla presidenza del de-mocratico Jimmy Carter, si era

infatti rivelata particolarmentedifficile, se non addirittura dram-matica. Inflazione alta, bassa cre-scita, disoccupazione in aumento,costo del denaro altissimo. Il tra-dizionale ottimismo stars andstripes risultava piuttosto sbiaditoin quei primi, difficili mesi delnuovo decennio. Sempre più for-te era il timore che gli Usa do-vessero rassegnarsi a una espan-sione economica inferiore aglistandard del passato. La Great Society realizzata neglianni Sessanta, cioè la grande alle-anza tra Stato, imprenditori esindacati, ai fini dell’inclusionesociale (ma ai fini anche del do-minio imperiale), mostrava inquel tempo la corda e si presenta-va a molti come un ostacolo aldinamismo dell’economia. Cosìun pensatore libertario comeMurray Rothbard stroncava il

QUEL CHE RESTA DI REAGANAldo Di Lello

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welfare realizzato dal democraticoJohnson e mantenuto dal repub-blicano Nixon nonché, nel post-Watergate, dal presidente-cireneoGerald Ford: «Nella retorica,l’America è la terra della libertàe della generosità, che gode dellebenedizioni di un mercato liberotemperato da una montante assi-stenza sociale, che distribuiscericcamente la sua abbondanza aimeno fortunati nel mondo. Nellapratica reale, l’economia della li-bera impresa virtualmente è fini-ta, sostituita da uno Stato Levia-tano imperiale e corporativo cheorganizza, ordina,sfrutta il restodella società e, ef-fettivamente, ilresto del mondo,per il suo potereed il suo arricchi-mento». Il punto di crisi sirivelò quando i costi dell’appara-to pubblico americano comincia-rono ad accompagnarsi a vistosiarretramenti in campo geopoliti-co. Negli anni Sessanta e Settan-ta, il welfare, negli Usa, andavainfatti a braccetto con il warfare(il famoso “apparato militar-in-dustriale”). E gli insuccessi mili-tari e geostrategici rendevanopiù gravoso il peso politico dellamacchina pubblica. Dopo lasconfitta in Vietnam nel 1975seguirono cinque anni di lacrimee sangue. Gli Usa (e l’Occidente)parevano un po’ ovunque in riti-rata. Dal Corno d’Africa, all’An-gola, al Mozambico, al MedioOriente, al Sudest asiatico: nonc’era scacchiere strategico ove

l’Unione Sovietica non avesseesteso la sua influenza. Anche nelcosiddetto “cortile di casa”, gliUsa cominciavano a perdere col-pi. In Nicaragua, un’insurrezionepopolare guidata dai sandinistiaveva deposto nel 1979 il ditta-tore Somoza, appoggiato da Wa-shington (gli Stati Uniti, per laverità, si erano sempre sceltiamici assai discutibili in Ameri-ca latina). La situazione si stava facendo pe-ricolosa anche in Europa. Nel1976 i sovietici avevano comin-ciato il dispiegamento degli SS-

20, meglio noticome euromissili.Fu l ’operazionepiù sofisticata (etemibile) mai ten-tata da Mosca perdisarticolare l’Al-leanza atlantica e“ f in l and i z z a r e ”

l’Europa. L’obiettivo era quellodi creare, a ovest della cortina diferro e fino all’Atlantico e al Me-diterraneo, un’immensa area“neutrale”. I sovietici scommet-tevano sul ripiegamento america-no, da una parte, e sul national-neutralismus dell’Europa socialde-mocratica e socialcomunista, dal-l’altra; c’è però da dire che fu uncoraggioso statista socialdemo-cratico, il cancelliere tedescoHelmut Schmidt, a lanciare perprimo l’allarme SS-20, pagandopoi un pesante scotto politicopresso la base dell’Spd.Dulcis in fundo (si fa per dire), gliStati Uniti avevano ricevuto, du-rante gli ultimi mesi del 1979,due tremendi schiaffi in Asia

Il punto di crisi arrivòquando ai costi dell’apparato pubblicosi accompagnaronoarretramenti geopolitici

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1981-1989: i conservatori americani tor-nano al potere con Reagan e danno inizio auna delle più imponenti rivoluzioni culturalie politiche della storia americana. In Con-servatives in Power, gli autori Jacobs e Ze-lizer ripercorrono quegli anni tra successiclamorosi e difficoltà in attese, attraversosessanta documenti organizzati per temiche fanno luce sugli sforzi dei Repubblicaniper far svoltare a destra l’America degli anniOttanta.Tra tagli delle tasse, anticomunismo, corsaagli armamenti e scandali, il libro è un veroe proprio vademecum in 240 pagine sul de-cennio decisivo per la storia mondiale. Epoi, ancora, fotografie, cronologie, biblio-grafia e domande mirate a scopo informa-tivo e di studio. è una perfetta guida perneofiti della rivoluzione reaganiana o perchi vuole saperne di più su quegli anni cosìimportanti e che ancora oggi fanno sentirei loro effetti in ambito politico, culturale edeconomico.

Conservatives in powerMeg Jacobs, Julian E. ZelizerBedford/St. Martin’s, 2010

I LIBRI

Ripensare la destra in Europa

La destra non ha bisogno di rinunciarealla propria "anima" per risultare credibi-le. La schizofrenia della sinistra non la ri-guarda. Postcomunisti, neosocialisti eneolaburisti sono costretti a faticosi eser-cizi di equilibrismo, tra pragmatismo eideologismo, per non essere travolti dallamodernizzazione. Il risultato è l'immobi-lismo, in Italia come nel Vecchio Conti-nente. Il rischio è la decadenza. Dalla ne-cessità di reagire a questa decadenza na-sce la rivoluzione blu, la rivoluzione deipartiti liberali e conservatori che puntanoa riconquistare il governo d'Europa. Il li-bro propone diversi itinerari in questoprocesso etico-politico e lancia un mani-festo culturale per una destra protagoni-sta delle trasformazioni storiche in corso.Il libro, scritto a più mani da giornalisti estudiosi del pensiero conservatore, è sta-to uno dei primi contributi culturali al ri-pensamento dell’identità della destra po-litica in Italia.

Rivoluzione bluG. Cannella, A. Di Lello, M. Respinti, F. TorrieroKoinè, 1999

QUEL CHE RESTA DI REAGANAldo Di Lello

L’era dei conservatorimade in Usa

centrale. L’Armata rossa avevainvaso l’Afghanistan nel dicem-bre di quello stesso anno, impri-mendo un’inquietante accelera-zione all’espansionismo delCremlino. Ma l’oltraggio più pe-sante Washington l’aveva ricevu-to il 4 novembre a Teheran. Cen-tinaia di scalmanati avevano datoassalto all’Ambasciata Usa pren-dendone in ostaggio il personale. Quando, nel novembre del 1980,gli americani si recarono a votareper scegliere tra Reagan e Carter,gli ostaggi erano ancora nellemani dei mullah, i quali esibiva-no le immagini diquegli sventuraticome trofei perumiliare la super-potenza dell’Occi-dente. Fu proprioin quei mesi – siadetto per inciso –che l’AyatollahKhomeini definì gli Usa il“grande Satana”. Fin qui i fatti, utili a definirequale fosse la condizione storicadegli Usa e dell’Occidente al-l’inizio del ventennio finale delXX secolo. E non si poteva certodire che fosse una condizione al-legra. Almeno così sembrava. Sembrava, già. Perché la realtà,fino a quel momento invisibile aipiù, la realtà dei processi struttu-rali che cambiano il volto dellesocietà nel giro di pochi anni, eradiversa. Processi giganteschi era-no in atto nel campo della tecno-logia, dell’economia, della comu-nicazione, del pensiero politicoed economico, arrivando sinoagli ambiti del costume e della

cultura di massa. Di lì a breve,quei processi avrebbero cambiatoin profondità il senso comune e ivalori diffusi nell’emisfero norddel mondo.Ebbene, con l’elezione di RonaldReagan, quei processi compionovelocissimamente l’ultimo trattodi strada, quello che mancava:assumono forma politica; si ad-densano in un’icona rivoluziona-ria; si fanno visione e promessa.Non sono quindi elezioni qual-siasi (ammesso e non concessoche possa essere definita “qual-siasi” l’elezione di un presidente

americano) quelledel primo lunedìdi novembre 1980.E non sono cosìperché segnano unpassaggio crucialenella storia delNovecento, allostesso modo in cui,

con un altro significato e sottoaltri aspetti, era avvenuto dueanni prima con l’ascesa di KarolWojtyla al Soglio pontificio. Reagan si presenta fin dall’iniziocome il presidente della svolta.Realizza subito la riduzione fi-scale e poi riforma in manierastrutturale la tassazione. Quellache è stata definita la reaganomicsribalta l’impostazione keynesia-na: l’aumento della spesa pubbli-ca e l’inflazione controllata (mapermanente) non sono più consi-derati fattori di sviluppo. Il nuo-vo canone lo si desume, tra glialtri, dalle tesi monetariste e li-beriste di Milton Friedman. «Ilgoverno (inteso come apparatopubblico, ndr) non è la soluzione

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L’elezione di Reagannel novembre del 1980segna un passaggiocruciale nella storiadel Novecento

del problema. Il governo è il pro-blema», dirà Reagan con una diquelle battute shock che terremo-tano la paludata comunicazionepolitica di quegli anni. Sullaspinta della nuova onda atlanti-ca, in Europa prendono piedenuove parole (e nuovi concetti)come deregolamentazione e libe-ralizzazione. Nuovo è anche l’approccio in po-litica estera. Il confronto conl’Urss non è più solo geostrategi-co ma ideologico. Torna a esserela contrapposizione tra mondo li-bero e totalitarismo comunista,con buona pace de-g l i ammirator idell’appeasement ni-xonian-kissinge-riano. Reagan si presentainoltre come ilGrande comunica-tore e sperimentacon grande successo un linguag-gio semplice e immediato conl’opinione pubblica della nuovasocietà di massa. E completiamoil quadro ricordando la circostan-za che il nuovo presidente Usaentra alla Casa Bianca dopo esse-re stato a lungo il governatoredella California, proprio lo StatoUsa da dove sta per partire lagrande rivoluzione della tecnolo-gia informatica che cambierà inpochi anni la vita di tutti. Come si fa quindi a non ricorda-re il trentennale dell’ascesa diReagan? Ricordare, beninteso,non per celebrare, ma per riflet-tere. A questo, del resto, dovreb-bero servire le ricorrenze: non atrasformare il passato in mito,

ma a capire come e perché ilmondo è cambiato. Ricordare perricostruire il filo della memoriapolitica contemporanea. Ricordare anche per fare un ne-cessario confronto tra ieri e oggi.Un confronto magari anche unpo’ amaro, perché giocato tral’ottimismo che dominò per tut-to il decennio degli Ottanta (eanche oltre) e la presente incer-tezza; o perché svolto tra l’arric-chimento dei ceti medi di allorae il loro impoverimento di oggi;o perché imposto dalla constata-zione che dalla società affluente

stiamo passandoalla società decli-nante. R ip en s a r e a l -l’ascesa di Reaganci spinge soprat-tutto a formularealcuni fondamen-tali quesiti: per-

ché, trent’anni fa, il capitalismosi fece democratico e diffuso (elo fece motu proprio, non perl’azione livellatrice dello Statoredistributore), mentre oggi ilturbocapitalismo a trazione fi-nanziaria sta nuovamente allar-gando la distanza tra ricchi, su-per-ricchi e nuovi poveri? Perchéla mobilità sociale è in discesa inquasi tutto l’Occidente e in Ita-lia in particolare?Sono domande enormi che ri-guardano il modello di globaliz-zazione che si è imposto negli ul-timi dieci-quindici anni e che ri-manda alle scelte politiche chene hanno favorito l’affermazione.E qui il discorso ci porterebbeassai lontano.

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Reagan realizza subitola riduzione fiscalee riforma in manierastrutturale la tassazione

QUEL CHE RESTA DI REAGANAldo Di Lello

È opinione comunque diffusa chequalsiasi politica economica rige-neratrice non potrà mai prescin-dere dalle idee di libero mercato,bassa fiscalità, liberalizzazioniche si imposero trent’anni fa eche oggi hanno resistito alla crisieconomica mondiale, con buonapace di chi ha intravisto del“neokeynesismo” nelle politichedi Obama e nel salvataggio pub-blico delle banche americane piùspericolate. Ciascun paese potrà trovare le so-luzioni meglio adatte alla pro-pria economia e alla propria so-cietà. È comunquecerto che i paesiche, in passato,hanno liberalizza-to con maggioreconvinzione, si so-no aperti seria-mente alla concor-renza, sono me-glio riusciti a liberare le energieimprenditoriali al proprio inter-no, questi stessi paesi, si trovanooggi meglio attrezzati a rispon-dere in modo strategico alle cri-ticità della globalizzazione. Un programma di riforme libe-rali (ma vere, non meramentedeclamatorie) continua a esserenecessario, soprattutto in unpaese come l’Italia (e qui venia-mo al punto per noi dolente) cheal liberalismo ha aderito con nu-merosi retropensieri. L’ondatareaganiana ci investì negli anniOttanta senza purtroppo arrivarein profondità. E la “rivoluzioneliberale” promessa nel 1994spesso è rimasta uno slogan eniente più.

Non c’è stata alcuna rivoluzione,ma solo un gigantesco reset, cheha finito per impoverire l’offertapolitica. Nell’odierno contesto italiano, laglobalità e il libero mercato sonopercepiti più come fenomeni na-turali a cui rassegnarsi che comevalori a cui aderire. Al di sottodel comune riferimento al libera-lismo non troviamo, spesso,niente altro che un pragmatismoimmemore e inconsapevole. Tornare a Reagan potrebbe in-somma comportare la scoperta(da parte di una fetta consistente

della classe diri-gente italiana) che,alla base della “ri-voluzione liberale”non c’è solo uncalcolo razionaledell’utilità, ma,prima ancora, unavisione morale del-

l’uomo e della società: quella vi-sione che attribuisce a ogni per-sona il diritto di costruire la pro-pria vita nella libertà. La prospettiva morale di Reaganè ancora più evidente in politicaestera, soprattutto nel modo incui egli condusse e vinse il con-fronto con l’Urss. Molti rimasero sbigottiti quandoil presidente degli Stati Uniti,parlando ai veterani dell’Ameri-can Legion, definì l’Urss l’“impe-ro del male”. Era il 1983 e nes-suno era abituato a un linguag-gio simile. Non fu la semplicetrovata mediatica del Grande co-municatore. Fu qualcosa di più edi diverso: l’espressione forte del-la “moralità” di non dare tregua

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La prospettiva moraledi Reagan è evidentein politica economicae ancor di piùin politica estera

all’Urss. «Reagan – ha scrittoWalter Russel Mead – giunse al-la conclusione che il grande sfor-zo della Guerra Fredda control’Unione Sovietica richiedeva unadimensione etica. Imbevutodell’anticomunismo della destraamericana, Reagan si era spazien-tito mentre Nixon e Kissingertentavano di gestire i rapportiUsa-Urss sulla base della Realpo-litik. Che il comunismo fosse unmale non era soltanto una dellesue convinzioni personali: ram-mentarne i mali agli americaniera – riteneva a ragione Reagan –un modo per rafforzare la lorodecisione, e quella dei loro alleatinel mondo, a portare avantiquello che si rivelò essere l’ulti-mo atto di una lunga battaglia».Gli Stati Uniti non avrebberoprobabilmente mai vinto laGuerra Fredda (o l’avrebberovinta chissà quando) se si fosserolimitati alla Realpolitik e al merocalcolo delle utilità. La vinsero(così come l’hanno vinta) per unrisveglio morale e per un saltovisionario. «State meglio oggi o quattro an-ni fa?». Il Presidente ripetè que-sta domanda agli americani nelleelezioni del 1984. E l’elettoratorispose: «Meglio oggi». Ne ave-va ben donde. In quattro anniReagan aveva abbattuto l’infla-zione, aumentato l’occupazione,semplificato il carico legislativo.Dal 1982, quando la cosiddettareaganonics produsse i suoi primirisultati, l’economia americanasarebbe cresciuta a ritmi elevati eininterrottamente per quasi setteanni. Al termine di quel periodo

di grazia si sarebbe registratocomplessivamente un più venti-cinque per cento. Così MargaretThatcher ha sinteticamente defi-nito il capolavoro di Reagan:«Restituita la fiducia in se stessoal popolo americano, il presiden-te ne liberò subito anche le ener-gie imprenditoriali». Mi viene in mente, in conclusio-ne, un malinconico paragone conl’Italia. Nessun governo uscenteha mai chiesto agli italiani: «Sta-te meglio oggi o cinque annifa?». Forse sarebbe meglio retro-datare e riformulare la domanda:«Italiani, la speranza di vivereuna vita migliore è, in voi, piùforte oggi o quindici anni fa?». È con questa domanda che puòforse ripartire la politica. Ancheoggi, soprattutto oggi, occorronoun risveglio morale e un salto vi-sionario.

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aldo di lello

Giornalista e scrittore. Ha diretto le pagine

culturali del Secolo d’Italia. Nel 2003 ha fon-

dato la rivista di geopolitica Imperi.

L’Autore

QUEL CHE RESTA DI REAGANAldo Di Lello

DI BENEDETTO DELLA VEDOVA E LUCIO SCUDIERO

Il centrodestra italiano deve compiere due salti: assimilare definitivamente la lezione politica di Reagan

e poi superarla, allineandosi alle esperienzecontemporanee della destra europea.

Alla ricerca della rivoluzione liberaleINTERROTTA

QUEL CHE RESTA DI REAGANBenedetto Della Vedova e Lucio Scudiero

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Nel 1980 Ronald Wilson Rea-gan, candidato del Partito repub-blicano americano alla carica dipresidente degli Stati Uniti, du-rante uno dei dibattiti televisivi acui stava prendendo parte, rivolsela seguente domanda ai telespet-tatori: «State meglio oggi, oquattro anni fa?». Gli elettori risposero eleggendoloalla Casa Bianca, dando il benservi-to a Jimmy Carter, che sarebbe di-ventato l’ultimo dinasta del “mon-do antico” pre-reaganiano, quelloin cui government si scriveva con la“G” maiuscola e liberty era una con-seguenza della sua espansione. Quattro anni dopo, nel 1984,Reagan rivolse ancora, di nuovoin Tv, la stessa domanda agliamericani, i quali risposero ricon-fermandolo alla guida del paese.

La missione era compiuta. GliStati Uniti avevano sterzato. Quell’esperienza, che si conclude-rà al termine del suo secondomandato scaduto nel 1988 imposealla politica occidentale una nuovacarta dei valori e un nuovo lin-guaggio di riferimento. Esatta-mente in quella scia promettevadi inserirsi Silvio Berlusconi, conla sua discesa in campo, di cui tut-ti apprezzammo il coraggio visio-nario individuandolo come coluiche poteva raccogliere il testimo-ne di quel revirement culturale av-venuto nella destra anglofona (ac-canto a Reagan, forse sopra di lui,c’era infatti Margareth Tatcher). Per misurare il livello di aderenzadella nostra esperienza politica aquella appena menzionata, do-vremmo porre agli italiani la do-

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manda che Reagan rivolse duevolte ai suoi concittadini: «Statemeglio oggi, o quindici annifa?». Ma questo ci porterebbefuori tema… Resta il dato che ilvalore di quelle idee è stato in-controvertibilmente dimostratoper decenni dai risultati prodottinegli States (e in Gran Bretagna). «Lo Stato non è la soluzione delnostro problema, lo Stato è il pro-blema».L’ascesa di Ronald Reagan allaCasa Bianca si innestò nella di-scussione sul ruolo dello Statoche aveva investito la societàamericana neglianni immediata-mente precedenti. Già durante tuttigli anni Settanta,infatti, gli Usaavevano sperimen-tato una congiun-tura politico-eco-nomica che aveva sedimentatonell’opinione pubblica le premes-se per la diffusione del libertari-smo. Ronald Reagan, che primadi diventare presidente aveva go-vernato la California per duemandati (dal 1966 al 1974), ave-va contribuito, con i suoi accentimarcatamente libertari, a tenerealta la temperatura della riflessio-ne pubblica su tasse, welfare eruolo dell’America nel mondo. A preparare il terreno contribui-rono un’inflazione che nel dispie-garsi del decennio 1970-80 avevagaloppato in doppia cifra, i falli-menti militari e di politica esteradelle amministrazioni che dal1960 si erano avvicendate allaguida della Federazione, e l’in-

gresso degli Stati Uniti, nel1979, nel tunnel della recessioneeconomica. L’incapacità del governo di gui-dare e pianificare l’economia eragià apparsa in tutta la sua eviden-za al volgere del primo lustro de-gli anni Settanta. Da un lato, in-fatti, era miseramente fallito ilpiano di Nixon per controllaresalari e prezzi. Dall’altro, invece,l’imprevedibilità dell’economiaaveva assestato una sberla mici-diale al canone della teoria keyne-siana: iniezioni di spesa pubblicaanticiclica durante le fasi recessi-

ve, politiche fiscalirestrittive durantei boom inflazionari.Siccome recessionee inflazione, inquegli anni, cam-minavano a brac-cetto, Keynes e isuoi epigoni bran-

colavano nel buio. La gente no, e infatti si era diffu-so un sentimento antitasse di va-sta portata che aveva condotto nel‘78 a quello che fu il momentopiù esaltante e genuino del liber-tarismo americano: l’approvazio-ne referendaria della famigerataProposition 13, che introdussenella costituzione della California(reduce dai due mandati a guidaReagan) un cap all’imposizionetributaria sulle proprietà immo-biliari e all’aumento della pres-sione fiscale e delle spesa pubbli-ca in quello Stato. Un’esperienza di cui Reagan fecetesoro durante tutta la sua vitapolitica di lì in poi, che impegnòperché il “peso dello Stato scen-

L’ascesa di Reagan si innestò nella discussione sul ruolo dello Stato nella società americana

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desse dalle spalle degli america-ni”, in parte riuscendoci, sicura-mente provocando uno scartodella politica successiva.Questa temperie di eventi, nellaquale si era inserita l’elaborazioneculturale dei Chicago Boys, sututti Milton Friedman, avevadunque determinato l’eruzionespontanea, nella base della popola-zione, di un sentimento libertario. Da questo trasse spunto MurrayRothbard, fondatore della corren-te anarco-capitalista della Scuolaaustriaca d’economia, per scriverepagine memorabili ed infuocatecontro la politicacondotta dalla pre-sidenza Reagan. Loaccusava di aver di-strutto il riflessopopolare antistata-lista emerso negliStati Uniti durantegli anni Settanta,di avere mancato ciascuna e tuttele promesse di riduzione del pesodello Stato, né tagliando le impo-ste né frenando la spesa, che neisuoi anni al potere era passata da591 a 990 miliardi di dollari, e diavere, per giunta, collezionatouna serie di scelte sbagliate in po-litica estera: «La cosa migliorefatta da Reagan – scriveva sarca-sticamente il filosofo – è stataquella di non aver dato inizio allaterza guerra mondiale». Valeva la pena menzionare questacritica per due ragioni. In primis,perché è divertente e curioso chementre mezzo mondo ha accusatoquella presidenza di eccessivo li-berismo e di avere creato le pre-messe di tutte le crisi economiche

successive, compresa l’attuale,Rothbard contestava Reagan peri motivi opposti, bollandolo co-me il più grande bluff nella storiadel liberalismo. Ma – e qui sta la seconda ragione– è utile sottolineare i limiti piùo meni manifesti di quell’espe-rienza liberale, per sottolineareche essa è definitivamente conse-gnata ad una dimensione di criti-ca e analisi svincolata dalla con-tingenza. Infatti, nonostante tutto, nono-stante gli insuccessi in questa oin quell’azione di governo, nono-

stante le accuse diimpurità liberaleda una parte e dicriminalità “socia-le” dall’altra, Rea-gan dimostrò almondo che la li-bertà e lo Statominimo esercita-

vano ancora un appeal irresistibilenei confronti del suo paese, chealla fine della sua permanenza al-la Casa Bianca era rinvigorito efiducioso nel proprio futuro. Il suo ciclo si concludeva con unsalto di paradigma, e quelli venu-ti dopo di lui trovarono un paesemigliore e un migliore livello didiscussione pubblica con cui con-frontarsi. La forza dirompente di questonuovo paradigma si è conservatanel tempo e nello spazio. In Italiaè un merito indiscusso del Berlu-sconi della prima ora l’aver intro-dotto nel dibattito pubblico laquestione fiscale. Prima di lui, letasse erano una variabile indipen-dente dell’economia, la firma au-

Il reaganismo ha dimostrato che lo Stato minimoesercitava ancora un forte appeal

QUEL CHE RESTA DI REAGANBenedetto Della Vedova e Lucio Scudiero

tografa della politica in calce alpatto consociativo di quella Pri-ma Repubblica che aveva prodot-to uno dei debiti pubblici piùspaventosi al mondo. Dopo dilui, la pressione fiscale avrebbeassunto i connotati che più le siaddicono, quelli di rilevatore del-l’invadenza dei pubblici poterinella vita privata dei cittadini. Ma al di là della nuova epistemo-logia economica e fiscale, il por-tato più consistente, maturo ecompiuto di quella fase della po-litica americana è stato, per la de-stra italiana, di natura metodolo-gica, ed è consistito nella sostitu-zione dell’ideologia con la pras-seologia. Questo mutamento hainciso il Dna del nostro centrode-stra anche grazie all’apertura lun-gimirante di quella sua parte chedall’abbandono del retroterraideologico aveva più da rischiare,cioè l’ex Msi. Perciò, se a Berlu-sconi va riconosciuto un pezzodel merito per aver tradotto il vo-cabolario della reagonomics nel no-stro paese, a Fini, per usare untermine noto alla pubblicisticaitaliana, va il merito di aver sdo-ganato fin da Fiuggi l’idea di unadestra possibile oltre l’ideologiadel passato e oltre l’agnosticismofunzionale di quella fase di tran-sizione. Ciò, per la prima volta nella sto-ria della Repubblica, ha reso pos-sibile al centrodestra italiano ilraggiungimento di due obiettivi:legittimarsi come area politicaautonoma iscritta in una tradu-zione – inedita per l’Italia – delliberalconservatorismo; quindi,di conseguenza, arrivare al gover-

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IL PERSONAGGIO

Rothbard, il padre del libertarismoEconomista , filosofo, politico, storico eteorico giusnaturalista, è stato il mag-gior interprete della teoria libertarianae dell’anarcocapitalismo. Laureato inmatematica (1945) e storia economica(1956) alla Columbia University, è statoallievo di Ludwig von Mises alla NewYork University. Tra gli anni Settanta egli anni Ottanta ha avuto un ruolo fon-damentale nella creazione del Partitolibertario americano, appoggiò nel1980 la candidatura alla presidenza de-gli Stati Uniti di Ed Clark e nel 1977 so-stenne Edward H Crane III nella crea-zione del Cato Institute, una delle piùimportanti associazioni libertarie delmondo. È stato vicepresidente del Lud-wig von Mises Institute, cofondatoredel Center for Libertarian Studies, re-dattore della Rewiev of Austrian Eco-nomics, ha scritto molte opere fonda-mentali del liberalismo classico e del li-bertarismo novecentesco. Tra i suoi la-vori maggiori: Man, Economy and Sta-te, Power and Market, For A New Li-berty, The Ethics of Liberty, EconomicThought before Adam Smith e ClassicalEconomics.

no in un contesto sostanzialmen-te bipolare. Il primo, in effetti, rappresentaancora oggi un obiettivo mobile,nel senso che è un approdo ancoramalfermo di un processo di avvi-cinamento durato gli ultimiquindici anni e non ancora con-cluso. Se da un lato, infatti, è sta-to possibile ribaltare sul centrosinistra quel sentimento di mino-rità culturale che aveva attana-gliato la metà non comunista del-l’arco politico nazionale durantela Prima Repubblica, dall’altroperò il fallimento del Popolo del-la libertà impedi-sce ancora di rite-ne r e matu ro ecompiuto il dise-gno del nuovo cen-trodestra italiano. Ma è sul piano delgoverno che si con-suma tuttora loscarto maggiore tra le premesse ei risultati di quella che doveva es-sere, anche per l’Italia, una sta-gione di riformismo autentica-mente liberale. In questa fase di crisi economicainternazionale, accompagnata co-me tutte da una richiesta di mag-giore intervento pubblico in ri-sposta al presunto fallimento delmercato, è difficile, ma proprioper questo più giusto e più utile,continuare a sostenere le ragionidella superiorità del mercato co-me mezzo di creazione e distribu-zione di ricchezza e della riduzio-ne del peso dello Stato nella vitacivile ed economica del paese. Lacomprensione del liberalismo (edel liberismo, che da esso non

può esser scisso) è controintuiti-va, e necessita di attenzione intel-lettuale e attitudine all’analisi. Sularga scala, dunque, è molto faci-le che la propaganda prevalga neldescrivere come inique e social-mente indesiderabili le conse-guenze di un approccio che vi siispiri. Ciò è accaduto anche con lacrisi economica in corso, presen-tata come l’effetto collaterale dianni di liberismo “selvaggio”, de-regolamentazione, e arretramentodello Stato. In breve, oggi sarem-mo in crisi per colpa di Reagan.Ovviamente non è così, casomai è

vero l’inverso. Per stare all’Italia,c’è un filo di con-tinuità che legagli ultimi tre lu-stri della sua vitapolitica: la rivolu-z i one l i b e r a l emancata. Quando

Reagan arrivò nel nostro paese at-traverso la “rottura”di Silvio Ber-lusconi, eravamo nel pieno di unacrisi sistemica, che coinvolgeval’economia tanto quanto la politi-ca. Sul primo versante, il 1992era stato l’anno di un potente at-tacco speculativo alla lira, che fuallo stesso tempo una conseguen-za e una cartina al tornasole del-l’insostenibilità del nostro debitopubblico, prodotto da politichemiopi che per decenni avevanoscaricato sulle generazioni futureil prezzo di spese presenti. Sul se-condo versante, quello politico, lacrisi deflagrò l’anno successivocon Tangentopoli, che fu la rispo-sta virulenta e demolitrice di unpotere dello Stato, la magistratu-

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Gli ultimi tre lustri della politica italianasono accomunati dalla rivoluzione liberale mancata

QUEL CHE RESTA DI REAGANBenedetto Della Vedova e Lucio Scudiero

ra, alla corruzione sistemica incui viveva un altro potere delloStato. Si trattava, allora come og-gi, di una corruzione ingeneratadall’opacità che accompagna lagestione di una spesa pubblicacarsica e pervasiva. Perciò, se fu possibile uscire dalprimo tunnel, quello monetario emacroeconomico, agganciandocon grandi sacrifici il paese al pri-mo treno per l’Europa, non siamoancora usciti dal secondo, quellopolitico. E soprattutto, con la cri-si economica degli ultimi due an-ni, è risultato evidente che le tarestrutturali del tessuto produttivoed economico italiano sono anco-ra quelle del biennio ‘92-‘94: cre-scita economica asfittica causatada una produttività bassa, pres-sione fiscale alta e incidenza spro-porzionata della spesa pubblicasul Pil.Nel corso degli ultimi quindicianni è stata prodotta un’unica ri-forma di struttura, peraltroanch’essa incompiuta: quella delmercato del lavoro, con la leggeBiagi, che ha agito sul lato deglieffetti, cioè sulla struttura di unmercato del lavoro rigido e ineffi-ciente, senza incidere sulle cause,che restano la rigidità insosteni-bile dei contratti standard (artico-lo 18 e non solo).Nel contempo, la pressione fisca-le non si è ridotta, ma è anzi au-mentata, fino al 43,2% del Pilnel 2009; la spesa pubblica com-prensiva degli interessi passivisul debito, nello stesso anno, hasuperato la metà del Prodotto in-terno lordo; siamo il paese euro-peo con la più alta tassazione sul

lavoro, con le tasse e i contributisociali che pesano il 44% dellabusta paga. Questi dati dimostrano che se daun lato la retorica reaganiana hasicuramente segnato la culturapolitica e la politica italiana, dal-l’altro ad essa non ha fatto segui-to un’azione di governo che inci-desse sul piano della reale trasfor-mazione del paese. Nella sua infinita transizione ilnostro centrodestra deve dunquecompiere due salti in uno: assimi-lare definitivamente una lezionepolitica, quella di Reagan, di cuiha recepito solo la parte propa-gandistica, e poi superarla, alline-andosi alle esperienze contempo-ranee della destra europea e statu-nitense, che di Reagan sono figliormai maggiorenni.

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benedetto della vedova

Presidente dell’associazione Libertiamo e vi-

cepresidente viccario del gruppo Fli alla Ca-

mera dei deputati.

lucio scudiero

Redattore di Libertiamo.it, fellow dell’Istituto

Italiano Privacy, ha collaborato alla stesura

del volume Next Privacy (Rizzoli).

L’Autore

INTERVISTA A MASSIMO TEODORIDI FEDERICO BRUSADELLI

L’uomo che cambiò il volto all’America

Dopo la crisi morale e sociale degli anniSettanta, la presidenza Reagan ha segnato una svolta decisiva

per gli Usa, nel segno della fiducia e della promessa di un ritorno al benessere.

Ronald Reagan è stato un buonpresidente. E, al di là delle tifose-rie, lo dicono gli storici, dati allamano. È stato un buon presidenteperché ha saputo fronteggiare consuccesso (in buona parte anchegrazie al suo abile vice, Bush se-nior) il “nemico” sovietico. Ma èstato un buon presidente soprat-tutto – come ci spiega MassimoTeodori, storico, giornalista e pro-fessore universitario che proprioalle vicende statunitensi dedicagran parte dei suoi studi e dei suoilibri (Storia degli Usa, Maledettiamericani, Benedetti americani,L’Europa non è l’America, Racconta-re l’America) – perché ha riportatoa un’America reduce dai terribilianni Settanta (il Vietnam, la crisisociale) la fiducia, l’ottimismo esoprattutto la crescita economica.Fu «un ritorno agli “antichi valo-ri americani”, in un certo senso».E fu anche un modo innovativo diintendere il conservatorismo re-pubblicano. Un modo che, pur-troppo, sembra – soprattutto a ve-dere certe «cadute reazionarie eclericali», da Bush junior In poi -sempre più lontano…

Cos’è stato davvero il reaganismo?È sempre difficile parlare di coseastratte, in particolare se finisco-no per “ismo”. Insomma, io pre-ferisco parlare da storico. E prefe-risco parlare, dunque, della presi-denza Reagan, e di ciò che questiotto anni (dal 1980 al 1988) han-no significato per l’America. Equello che da storico posso certa-mente dire, è che si trattò davve-ro di una presidenza di svolta ri-spetto agli anni precedenti.

E come si declinò questa svolta?L’America degli anni Ottantacambia volto rispetto al decennioprecedente. Non si può dimenti-care che gli anni Settanta, infatti,erano stati anni di crisi. E di crisiper due fattori. Per la sconfittastatunitense in Vietnam, innan-zitutto. E poi per lo scandalo delWatergate e delle dimissioni diNixon, primo e unico presidentedegli Stati Uniti a essere statoimpeached. Quindi, da quel de-cennio era venuta fuori un’Ame-rica poco fiduciosa in se stessa,poco ottimista. Anche in terminisociali ed economici gli Usa era-no cambiati, la popolazione eraaumentata notevolmente (da 200a 250 milioni) e questo grandeaumento demografico aveva vistosoprattutto un balzo in avantidelle percentuali dei cittadini co-siddetti non-white (ispanici, neri,asiatici). Insomma, per riassume-re, dopo i turbolenti anni Sessan-ta (con i movimenti giovanili edi rivendicazione di diritti civili)e dopo la crisi (morale e sociale)degli anni Settanta, Ronald Rea-gan riuscì a imprimere una svol-ta nel segno della fiducia e dellapromessa di un ritorno al benes-sere, alla stabilità, all’ottimismo.E ci riuscì. Perché i suoi otto an-ni di presidenza (cui aggiungereianche i quattro anni di mandatodi quello che era il suo vicepresi-dente, Bush senior) furono indub-biamente anni di grande espan-sione economica e di stabilità po-litica e sociale.

Una frattura netta, dunque. Anche dalpunto di vista delle politiche economi-

QUEL CHE RESTA DI REAGANintervista a Massimo Teodori

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che? O gli storici, a suo avviso, esagera-no l’importanza della svolta reaganiana?No, non esagerano. Perché ci fusenz’altro una frattura. E si trattadi una rottura che si regge pro-prio sui cardini della presidenzaReagan. A partire, ovviamente,dai tagli alle tasse che, se fino al1982 portarono a una breve re-cessione, dal 1984 in poi reseropossibile per gli Usa il maggiorperiodo di crescita economica daitempi della seconda guerra mon-diale: il Pil aumentò di circa il4% l’anno con un’inflazione con-tenuta tra il 3 e il 5%, e furonocreati almeno dieci milioni dinuovi posti di lavoro. Un cicloeconomico molto positivo, senzaalcun dubbio. E fu una crescitadovuta, appunto, alla politica fi-scale e al taglio dell’interventopubblico.

Meno Stato…Sì, la filosofia di Reagan risponde-va essenzialmente a una richiestadella società americana: secondo icittadini, il governo aveva invasotroppo la sfera individuale e occor-reva quindi tagliare le spese socia-li ed eliminare gli sprechi e gliabusi. Sono le basi di quella dere-gulation che è andata avanti neglianni successivi. E che poi è arriva-ta al suo punto più basso con la re-cente crisi finanziaria, una tempe-sta che ha proprio origine in quel-la eliminazione dei controlli e deilimiti al mercato finanziario, ini-ziata proprio con Reagan.

E infatti qualcuno dà la colpa della crisiproprio alle politiche di Reagan e dellaThatcher. Semplificazioni?

Attenzione, perché è insidioso,quando si parla di storia, scaricarele colpe e le responsabilità suqualcuno. Certamente, quella po-litica reaganiana che possiamochiamare di deregulation, creò perun lungo periodo un’espansioneeconomica, che poi è proseguitadurante la presidenza Clinton.Però, probabilmente, il fatto cheGeorge W. Bush nel dopo-Clin-ton abbia portato quelle politicheall’eccesso, ha contribuito a inne-scare la crisi.

A proposito di Bush junior: quanto c’èstato di reaganiano nella sua presi-denza?Bisogna essere, anche qui, moltospecifici e poco astratti. E nonpossiamo non analizzare il conte-sto. I problemi principali di Ro-nald Reagan erano due: la stabi-lizzazione della società america-na, come abbiamo detto prima,che aveva attraversato due decen-ni di fermenti; e dall’altra il con-fronto con l’Unione Sovietica. Enon possiamo dimenticare che trale due presidenze che stiamo pa-ragonando, c’è la caduta del Mu-ro, successiva alla fine del secon-do mandato di Reagan. Così, gliscenari internazionali cambianoradicalmente proprio in queglianni. Insomma, tutta la presiden-za Reagan vede gli Usa giocareuna confrontation con l’Urss sulloscacchiere internazionale. Mentrelo scenario su cui agisce GeorgeW. Bush è completamente diver-so, e non si può leggere e analiz-zare la sua presidenza se non par-tendo dall’elemento iniziale sucui essa si è interamente confor-

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mata: l’11 settembre 2001, gior-no in cui il terrorismo islamista èdivenuto protagonista essenzialedella scena internazionale. In-somma, non possiamo confronta-re due presidenze che vivono inun contesto assolutamente diffe-rente. Posso aggiungere però unanotazione sul diverso rapportocon la fede. Perché certamentel’amministrazione Reagan fuispirata dal conservatorismo, manon si trattò mai di un conserva-torismo così tradizionalista e rea-zionario come quello di GeorgeW. Bush. Non ci furono, insom-ma, quegli episodi di tradiziona-lismo clericale cui abbiamo spes-so assistito dal 2000 al 2008.

Oggi com’è il giudizio degli storici ame-ricani su Reagan? Lo ritiene equilibrato?Gli storici americani, che sonosoliti classificare i presidenti se-condo tutta una serie di parame-tri che guardano al consenso, allapolitica estera, a quella economi-ca e culturale, giudicano RonaldReagan come un presidente di“fascia alta”. Anzi, come uno deimigliori presidenti del secondodopoguerra. E questo non in ba-se a un giudizio sulle teorie rea-ganiane, ma in base ai risultaticoncreti e oggettivi conseguitidal presidente nel corso dei suoidue mandati.

Passiamo a noi. Come sono stati irapporti tra Usa e Italia negli anni diReagan?Sono stati sempre molto stretti.E per una semplice ragione: ilnostro paese è legato al quadrodell’Alleanza atlantica, un qua-

dro assolutamente stabile e indi-pendente dall’alternanza dellepresidenze americane e dei go-verni italiani. E va detto che, piùin generale, tutto il quadro deirapporti bilaterali economici,commerciali e culturali è an-ch’esso indipendente dalle diver-se amministrazioni che si succe-dono. Per quanto riguarda glianni di Reagan, c’è da dire chedal momento che – come abbia-mo già sottolineato – la lotta almondo comunista era la prioritàdelle priorità in politica estera,l’Italia – che “ospitava” il mag-gior partito comunista del mon-do occidentale – godeva di parti-colari attenzioni, da parte degliambasciatori e del dipartimentodi Stato, proprio per controllarel’azione del Pci in quel contesto,a Muro non ancora crollato.

Quali sono stati, oltre al presidente ov-viamente, gli altri protagonisti che han-no plasmato l’amministrazione Reagan?Durante l’amministrazione Rea-gan fanno la loro “prima prova”molti esponenti di quei gruppineoconservatori che prenderannopoi il potere con la presidenza diGeorge W. Bush. Però io direiche una funzione molto impor-tante in politica estera fu svoltada George Bush padre. Un uomoche veniva dall’intelligence e cheaveva una formazione repubblica-na di tipo tradizionale, diversa daquella di Reagan. E fu lui, in pra-tica, a governare il rapporto conl’Unione Sovietica, alternando ilbastone e la carota. Alternandoatteggiamenti aggressivi, come laminaccia dello scudo spaziale, a

QUEL CHE RESTA DI REAGANintervista a Massimo Teodori

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incontri con i leader sovietici perdiscutere della diminuzione degliarmamenti. Insomma, una saggiapolitica di dimostrazione di forzae contemporaneamente di dimo-strazione di dialogo.

In definitiva, quanto ha inciso Reagansulla storia del Partito repubblicano? Loha cambiato?Questo presuppone che esista unPartito repubblicano, ed è un er-rore… Nel senso che ogni candi-dato presidente, nel sistema ame-ricano, è l’espressione di una coa-lizione di tendenze, di forze, digruppi locali, di gruppi intellet-tuali che attorno a lui si formano econ lui finiscono. Certamente, pe-rò, è innegabile che Ronald Rea-gan abbia portato alla luce ten-denze e sensibilità diverse daquelle dei repubblicani classici,che avevano piuttosto trovato laloro espressione in Eisenhower,Nixon e soprattutto in Ford. Inquesto senso, Reagan fu un inno-vatore del repubblicanesimo ame-ricano, soprattutto per il suo at-teggiamento antistatalista e anti-Washington che riuscì a rappre-sentare con grande fermezza.

L’Intervistato

federico brusadelli

Giornalista di Ffwebmagazine. Collabora con

il Secolo d’Italia. è laureato in Lingue e civiltà

orientali.

L’Autore

massimo teodori

Storico, politico e scrittore, è stato dirigente e

parlamentare del Partito radicale. Ha insegnato

Storia e istituzioni degli Stati Uniti all’Università di

Perugia e, precedentemente, alla Luiss di Roma

e alla John Hopkins University di Bologna.

è stato presidente della Fondazione Italia USA e

ha pubblicato oltre trenta volumi di storia contem-

poranea e americana e di sociologia politica. Il

suo ultimo libro, edito da Mondadori, è dedicato a

Mario Pannunzio.

Quando nel 1981 Ronald Rea-gan conquistò la Casa Bianca,sconfiggendo con ampio margineil povero Jimmy Carter, in molti,dal lato europeo dell’Atlanticorestarono sorpresi. E molti di piùcominciarono a dare la stura a fa-cili ironie, ricordando che il nuo-vo presidente degli States era sta-to un mediocre attore hollywoo-diano, spalla in molti film di Er-rol Flynn o, peggio ancora, diBonzo la scimmia sapiente. Igno-ravano, o fingevano di ignorare,che l’ormai sessantanovenneRonnie – per inciso il più vec-chio presidente della storia ame-ricana – da quel tempo di stradane aveva fatta molta, divenendoprima il leader della Screen ActorGuild – il potente sindacato de-gli attori – poi, dopo essere pas-sato dalle giovanili simpatie de-mocratiche ad una decisa mili-

tanza in campo repubblicano, perben due volte governatore dellaCalifornia. Che, all’epoca, eranon solo lo Stato più ricco degliUsa, ma costituiva di per sé lasettima potenza industriale delmondo. E da governatore avevafatto bene, divenendo sempre piùpopolare, sino a tentare un primavolta di conquistare la nominationrepubblicana nel 1976, sfidandoil presidente uscente GeraldFord. Sfida, ovviamente, impos-sibile – ed eccezionale, visto chepraticamente mai un presidentein carica si trova a dover affron-tare nelle primarie un concorren-te del suo stesso partito – manon priva di significato. PerchéReagan rappresentava già allorala new right emergente nel Parti-to repubblicano, contrapposta alvecchio establishment schieratodietro lo scialbo Ford. Un establi-

DI ANDREA MARCIGLIANO

Fusionismo

Come la new rightdivenne maggioranzaculturaleDalla sconfitta di Barry Goldwater nel 1964, la destraamericana prese lo spunto per dare vita ad una nuova,grande corrente politica, che fondesse insieme le varieanime del conservatorismo a stelle e strisce. E che in breve soppiantò l’egemonia culturale liberal.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANAndrea Marcigliano

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shment indebolito dallo scandaloWatergate e dalla caduta rovino-sa di un Nixon ancora potente.Ronnie, tuttavia, pur nella scon-fitta annunciata, colse un risulta-to di tutto rispetto, vincendo leprimarie oltre che in California,in altri Stati chiave, come il Te-xas e il North Carolina. E allaconvention di Kansas City diedefilo da torcere a Ford, che si af-fermò solo per 1187 delegaticontro i 1070 che si schieraronocon Reagan. Che ringraziò la con-vention con un grande discorso, incui tracciava già le linee dellastrategia politicache lo avrebbeportato, appenaquattro anni do-po, alla conventiondi Detroit, ad ot-tenere a valanga lan omina t i o n de lGop. I l pr imopasso per conquistare, di lì a po-chi mesi, lo Studio Ovale. Dovesarebbe rimasto per due interimandati, ottenendo grandi suc-cessi in campo economico conuna sistematica – ma non selvag-gia – liberalizzazione dell’econo-mia, la famosa reaganomics, la ri-duzione delle tasse, lo smantella-mento di parte dell’apparato fe-derale reso troppo invasivo daisuoi predecessori, la promozionedel ceto medio e, soprattutto, re-stituendo ad un’America che an-cora pagava pesantemente la fa-mosa/famigerata “sindrome delVietnam” l’orgoglio di essere unagrande potenza, ed andando asfidare a muso duro il rivale so-vietico in tutti i teatri geopoliti-

ci del globo. Da Grenada – cele-brata nel film Gunny di Clint Ea-stwood, in certo qual modo l’at-tore/regista che meglio incarnòla nuova età reaganiana – all’Af-ghanistan. Sfidando Mosca so-prattutto nella prospettiva di fu-ture (e futuribili) guerre stellari.Come poi andarono le cose, è sto-ria. L’impero sovietico – l’imperodel male in un famoso discorsodello stesso Reagan – implose,squassato dal peso delle sue stes-se contraddizioni interne, ma an-che perché incapace di affrontareda pari la sfida di quella nuova,

giovane ed aggres-siva America.

Una RivoluzioneCulturaleIn Europa, in Ita-lia soprattutto, lasolita intellighentsiaprogressista – cro-

nicamente incapace di compren-dere la realtà – parlò sprezzantedi fortuna. E bollò tutta l’epocache si apriva con l’appellativo,per lei ingiurioso, di “edonismoreaganiano”. Ancora una voltadimostrazione di una profondaincomprensione (ed ignoranza)degli scenari culturali, oltrechépolitici, d’oltre Atlantico. PerchéReagan non era solo un grandecomunicatore e – piaccia o meno– un grande politico, ma anche,e forse soprattutto, la puntaemergente di un’autentica rivo-luzione culturale che stava stra-volgendo gli States. Una rivolu-zione che era stata avviata primadi lui da Barry Goldwater, l’au-tentico padre nobile della new

Il presidente Reagan era la punta emergente di una rivoluzioneculturale che avrebbestravolto gli States

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right americana, e che, dopo dilui avrebbe trasformato gli Statesin quella che è stata molti annidopo, definita The Right Nation.Che, giocando con la traduzione,può essere letta sia come la na-zione giusta che come la nazionedi destra; ambivalenza semanti-ca, per altro, molto significativa.In effetti dagli anni di Reagan inpoi, non solo nel Partito repub-blicano fu completamente spaz-zata via l’ala liberal – storicamen-te rappresentata al più alto livel-lo da Nelson Rockefeller – ediniziò l’egemonia dei conservati-ves, ma anche a li-vello più generaletutta la politicastatunitense svoltòa destra. Tant’è ve-ro che anche quan-do i democraticiriuscirono – sfrut-tando una difficilecontingenza economica – a ri-conquistare Washington dopo 12anni di predominio repubblicano– otto di Reagan e quattro delprimo Bush – lo fecero con BillClinton. Che tutto era meno cheun liberal, incarnando i new demo-crats, ovvero dei democratici cherifuggivano dal radicalismo pro-gressista, sposavano una conce-zione liberista dell’economia edavevano un forte senso della su-premazia geopolitica dell’Ameri-ca. Poi, come si sa, venne l’era diGeorge W. Bush, e solo dopo al-tri otto anni di questi, i liberal,ovvero i grandi clan della politi-ca democratica di sinistra, Ken-nedy in testa, sono riusciti a ri-conquistare il palcoscenico della

Casa Bianca con Barack Obama.E anche in questo caso solo inforza di una crisi economica epo-cale, tale da far impallidire quel-la leggendaria del 1929. In pra-tica per quasi un trentennio, dal1980 sino al 2008 gli Usa sonostati governati da tre presidentiRepubblicani – di cui due, lostesso Reagan e George W. Bushdecisamente conservatori, e unaltro George H.W. Bush conser-vatore “moderato” – e da un de-mocratico Bill Clinton di orien-tamento non certo di sinistra. Se-gno, appunto, di una rivoluzione

che aveva rove-sciato la vecchiaegemonia della si-n i s t r a l i b e r a lsull’America, eportato ad emer-gere una nuova,complessa, culturadi destra. La new

right, appunto, che, prima ancorache un fenomeno politico, fu unagrande corrente culturale.

Il fusionismo di Barry GoldwaterTutto ebbe inizio con Barry Gol-dwater. O meglio con la sconfittada questi subita, nelle presiden-ziali del 1964, contro LyndhonB. Johnson. Sconfitta dalla quale,però, il senatore dell’Arizonaprese spunto per cominciare adare vita ad una nuova correnteinterna al Partito repubblicano.Una corrente capace di coedereed organizzare le diverse anime,sino ad allora disperse, del con-servatorismo a stelle e strisce.Anime che non sempre, e non

Dopo la sconfitta del ‘64,Goldwater diede vitanel Gop ad una correnteche riuniva diverse animedel conservatorismo

QUEL CHE RESTA DI REAGANAndrea Marcigliano

ovunque votavano per il Gop; iconservatori del Sud, ad esempio,che, ancora memori della guerradi secessione, preferivano dare illoro suffragio ai democratici,piuttosto che votare per quelliche ritenevano gli eredi di Lin-coln. E poi tutta quell’Americaprofonda, popolare, la piccolaborghesia del Midwest e gli agri-coltori del sud, la working classdelle grandi città industriali e ifondamentalisti religiosi – i co-siddetti social conservatives – chesino ad allora non si erano potutiriconoscere in un Partito repub-blicano egemoniz-zato da un establi-shment che eraespressione di éliteeconomiche so-stanzialmente le-gate all’alta finan-za e, soprattutto,alle multinaziona-li petrolifere. Questa fusione – einfatti si può parlare di fusioni-smo, o meglio di conservatori-smo fusionista – di diverse istan-ze e diverse culture portò alla na-scita della new right. E alla vitto-ria, sedici anni dopo la sconfittadi Goldwater, di Ronald Reagan.

I molti volti della new rightMa che cos’era, in sostanza, que-sta new right che segnò l’età rea-ganiana e che infranse l’egemo-nia culturale dei liberal che per-durava, sostanzialmente, daglianni di F. D. Roosevelt? Sostan-zialmente, come dicevamo, il ri-sultato – per molti versi eccezio-nale ed irripetibile – della fusio-ne fra diverse anime, o più preci-

samente diverse componenti del-la società e della cultura america-na. Intendendo, però, per cultu-ra, quella viscerale, popolare,quella che urgeva nel ventre pro-fondo dell’America, e non quellache si esprimeva nelle élite, ingran parte liberal di New York edi Los Angeles, che dominaval’editoria, sostanzialmente ege-monizzava Hollywood, e trovavaespressione sulle grande stampa esui principali media nazionali.Cultura, o meglio ancora culture,che affondavano le loro radicinelle origini stesse della storia

americana e nerappresentavano(ed ancora, a benvedere, ne rappre-sentano) i caratterifondativi e pecu-liari. Aggregandointorno a sé settoridella società che,

sino al sorgere della new right,erano restati sostanzialmente pri-vi di rappresentanza politica.

Social-conservativese telepredicatoriDiverse, dunque, le componenticulturali di quella che è stata poichiamata new right. Alcune rap-presentavano fenomeni socialidiffusi, in particolare i social con-servatives, espressione politicadella cultura protestante, parti-colarmente di quel fondamenta-lismo radicato nella cosiddettaBible belt, la cintura della Bibbia,o sun belt, cintura del sole, il pro-fondo sud, in sostanza, dalla Ca-lifornia sino alla Florida. I socialconservatives erano diffusi, però,

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La new right fu una grande correnteche riuscì a scalzarel’egemonia culturaledei liberal

anche negli Stati agricoli delMidwest; espressione di alcunedelle più popolose chiese prote-stanti, la Conferenza dei battistidel sud (capace di muovere oltre20 milioni di elettori), le chiesepentecostali, e, soprattutto inUtah ed Indiana, i mormoni.Tutte riunificate intorno all’ideo-logia della difesa dei valori tradi-zionali e, in particolare, della fa-miglia. Cementate dalla batta-glia pro life, contro l’aborto, bat-taglia nella quale trovavano pun-ti di incontro con i cattolici –italiani, irlandesi, latinos – sino aque l momentoschierati sul ver-sante dei democra-tici. E con settoridella stessa Chiesapresbiteriana, for-tissima nel NewEngland. A questomondo afferivano– ed ancor oggi afferiscono – i fa-mosi telepredicatori, fenomenotutto americano, a metà tra ilmediatico ed il religioso vero eproprio. Uomini come Pat Ro-bertson, che esercitavano un’in-credibile influenza su un’ampiafascia di americani, soprattuttonei piccoli centri agricoli dell’in-terno.

Gli antecedenti dei Tea partyNucleo forte, anzi essenziale diquesta new right – o se vogliamo,in senso più lato, dell’ideologiadell’età di Reagan – era quelloche potremmo definire la prote-sta fiscale, anche se tale defini-zione suona irrimediabilmenteriduttiva. E questo perché l’op-

posizione diffusa alla crescitadelle imposte federali – crescitaesponenziale dagli anni di Ken-nedy in poi – non traeva origineesclusivamente da interessi eco-nomici. Non era – come fu spes-so interpretata sulla nostra spon-da dell’Atlantico – mera espres-sione dell’egoismo sociale dei ce-ti abbienti. Anzi, rappresentava,piuttosto, uno stato d’animo edanche una cultura diffusa nellamiddle class ed persino nei cetipiù popolari di vaste zone del-l’Unione; soprattutto, anche qui,nel Midwest, agricolo ed im-

prenditoriale, chevedeva nel big go-vernment federaleun processo di ri-duzione e sostan-ziale compressionedelle autonomielocali, nonché diquelle libertà in-

dividuali su cui si fondano le ori-gini del federalismo americano.Una protesta, dunque, culturaleprima ancora che economica, eche muoveva da un blocco socialeestremamente vitale. In qualchemisura lo stesso blocco socialeche anima, oggi, i famosi Teaparty che stanno progressiva-mente erodendo il consenso diBarack Obama. E che, per altro,vedono un saldarsi al loro internodelle istanze libertarie con quelledei social conservatives. E fu pro-prio con la new right che questeistanze – scaturite dal ventreprofondo della storia e della cul-tura americana – si coniugaronocon nuove, emergenti, élite intel-lettuali. In primo luogo gli eco-

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La protesta fiscale era culturale prima ancora che economica e muoveva dal bloccosociale della middle class

QUEL CHE RESTA DI REAGANAndrea Marcigliano

nomisti allievi di Milton Frid-man, divenuti famosi come iChicago boys, che muovevano al-l’assalto dell’egemonia accademi-ca dei liberal keynesiani. E che –non potendo controllare le Uni-versità – diedero vita, progressi-vamente, ad una serie di fonda-zioni ed istituti di cultura chedivennero, in breve tempo, i cen-tri propulsivi di una nuova cul-tura. Fondazioni come l’HeritageFoundation e il Cato Institute, ilCarnegie ed altri ancora, che for-marono nel tempo i quadri diri-genti dell’età di Reagan prima,di quella di Geor-ge W. Bush poi. Eche ancor oggiegemonizzano lap roduz ione d iidee, progetti estrategie, mentrela cultura liberal –nonostante la vit-toria elettorale di Obama – restachiusa nelle Università, dandoper lo più la sensazione di essereavulsa dalla realtà del paese.

Gli ultimi vecchi conservatoriVi erano, poi, due componentipiù decisamente intellettuali,con minore presa popolare edelettorale, in quanto rappresenta-vano sostanzialmente due culturepolitiche e non blocchi sociali.Componenti, comunque, impor-tantissime per comprendere nonsolo la complessità culturale del-la new right, ma anche le ragionidel nuovo slancio dato da Reaganalla politica estera statunitense,la sua decisa volontà di alzare illivello della sfida con l’impero

del male sovietico, e, infine, lasua capacità di vincerla. Duecomponenti fra loro fortementeconcorrenziali, per molti versiantitetiche, destinate addiritturaa confliggere fra loro. Tanto che,dopo l’era Reagan, entrarono incollisone, al punto che solo unadi queste – gli ormai famosi neo-conservatives – si ritroverà, poi,nella cultura del periodo dellanuova destra di George W. Bush.L’altra, quella che venne chiama-ta degli old-conservatives – o spre-giativamente dei paleoconservatives– finirà invece per trovarsi all’op-

posizione – da de-stra – della politi-ca di George W.Bush, consideratatroppo imperiali-stica, dispendiosae, sostanzialmente,un tradimento del-la tradizione con-

servatrice e repubblicana. Vecchiconservatori che, all’epoca, sischierarono tuttavia decisamentenella new right, portando il con-tributo della difesa dell’identitànazionale americana, e contri-buendo al recupero dell’orgogliodi un paese ancora ferito dal di-sastro del Vietnam e fortementeprovato sul piano morale dal Wa-tergate prima, dalla debole con-duzione degli affari esteri di Car-ter poi. Tra di loro sarebbe, poi,emerso Pat Buchanan, già spee-chwriter di Nixon e destinato, in-fine, a lasciare il Gop per parteci-pare all’effimero tentativo di unaterza forza conservatrice, isola-zionista e liberista con il miliar-dario Ross Perot.

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La new right diede vitaa fondazioni e istitutiche divennero in brevei centri propulsividi una nuova cultura

I primi vagiti dei neo-conQuanto ai neocon, nell’era di Rea-gan muovevano i loro primi pas-si, ed erano ancora lontani dallefortune e dai fasti cui assurseronella stagione di George W.Bush. Si trattava, in buona so-stanza, di un manipolo di intel-lettuali, tutti provenienti dallefile della sinistra liberal e radica-le, alcuni con trascorsi addirittu-ra fra i trotzkisti, sovente appar-tenenti alla comunità ebraica,tradizionalmente schierata con idems. Un gruppo di intellettualiestremamente agguerriti, che sierano convertiti alla destra per-ché sorpresi dalla realtà, comescrisse poi nella sua Autobiografiadel neoconservatorismo Irving Kri-stol, l’autentico padre nobile delmovimento neocon. E proprioKristol, insieme a Norman Po-dhorenz portò in dote alla newright una visone complessiva del-la politica estera fortemente in-novativa, in parte estranea allatradizione squisitamente realistapropria della cultura repubblica-na. Una visione ispirata ad unasorta di messianismo democrati-co: l’America destinata a diffon-dere nel mondo il modello de-mocratico-liberale e a farsi ga-rante dei diritti umani e civili alivello globale. Dietro a loro lalezione di Leo Strauss – il Plato-ne post-moderno che veniva dal-la scuola tedesca di Heidegger –e, soprattutto, del suo allievo Al-len Bloom, il feroce critico del-l’involuzione della cultura acca-demica liberal nel polemico, ediffusissimo, saggio La chiusuradella mente americana. Un’élite ri-

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QUEL CHE RESTA DI REAGANAndrea Marcigliano

FOCUS

La Scuola di economia di Chicago èuna scuola di pensiero, elaborata daalcuni professori dell’università di Chi-cago, basata su una descrizione delleistituzioni economiche pubbliche e pri-vate contemporanee, che promuoveipotesi di riforme in senso liberale e li-berista dell’economia. È osservabileuna tendenza al libero mercato manon è esclusa, in costanti e determina-te situazioni, l’azione dell’interventogovernativo e statale. I maggiori espo-nenti di tale scuola furono i premi No-bel Milton Friedman e George Stigler.L’atteggiamento economico di talescuola fa da ponte tra la scuola neo-classica e la scuola austriaca. Gli inse-gnamenti della scuola di Chicago sonoanche chiamati neoliberisti e caratte-rizzarono le politiche economiche deigoverni statunitensi del presidente Ro-nald Reagan e del governo inglese delprimo ministro Margaret Thatcher. Lacrisi avviata negli ultimi giorni di set-tembre 2008, con gran parte delleBanche del mondo in attesa di falliresenza intervento dello Stato e con leborse di tutto il globo in caduta libera(Orso), che riducevano drasticamenteil valore delle azioni e delle pensionilegate ai fondi di investimento, secon-do alcuni critici dimostrerebbe la fragi-lità della teoria della scuola di Chicago.A tali critiche è stato ribattuto che gliinterventi distorsivi dello Stato hannocreato le condizioni per l’esplosionedella bolla immobiliare e che la teoriadei mercati efficienti si limitava a par-lare delle informazioni “disponibili” sulmercato.

La rivoluzione dei Chicago boys

stretta, ma destinata ad esercitareun’influenza crescente ben oltrel’era Reagan soprattutto in cam-po di strategie politiche interna-zionali. Un gruppo cui era vicino– anche se non propriamente or-ganico – il politologo nippo-americano Francis Fukuyama checon La fine della storia e l’ultimouomo, divenne poi il più famosoapologeta teorico della vittoriadel reaganismo.

Una lezione per il presente?Della cultura o e si vuole ideolo-gia dell’età di Reagan ben poco,in effetti, riverberò davvero oltreAtlantico, e ancor meno qui inItalia. Più che altro vennero rece-pite – ancorché marginalmente –le istanze dei movimenti di pro-testa antifiscali e le tesi delloStato minimo care ai Chicagoboys, che finirono per influenzare,almeno in parte, la nuova ten-denza liberista della destra – mameglio forse sarebbe parlare didestre – europee degli anni Ot-tanta e Novanta. Troppo lontanele altre componenti culturali del-la new right per venire davverocomprese alle nostre latitudini.Troppo estranei alla nostra realtài blocchi sociali tipicamente sta-tunitensi cui tali culture faceva-no – ed in parte ancora fanno –riferimento. Pur tuttavia dall’etàdi Reagan e dalla genesi dellanew right è possibile trarre unutile insegnamento. La compren-sione che la cultura della destradeve radicarsi nella realtà socialenel ventre profondo di un popo-lo, e rappresentarne, facendoleemergere, le diverse componenti.

Una cultura molteplice, che solotrovando un punto di coesione –e senza perdere di vista il proprioessere plurale – può davveroaspirare a rappresentare un con-traltare credibile e, soprattutto,vincente all’egemonia intellet-tuale della sinistra e delle sue éli-te, vere o presunte che siano.

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andrea marcigliano

Giornalista, ha collaborato con Imperi e varie

riviste di cultura politica.

L’Autore

Da Hollywood alla Casa Bianca, eccoperché Ronald Reagan ha innovato la comunicazione politica

ed è entrato nell’immaginario collettivo a stelle e strisce. Nell’epoca della Tv e dell’immagine, convinse gli americani chepotevano tornare a essere grandi.

QUEL CHE RESTA DI REAGANintervista a Klaus Davi

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Il padre degli anni Ottanta

Vi spiego il Grande comunicatore

INTERVISTA A KLAUS DAVIDI DOMENICO NASO

Dici “massmediologo” e pensisubito a lui, a quel Klaus Daviche imperversa su giornali e Tvcon il solito piglio da primodella classe che infastidisce tan-to i suoi interlocutori. Però Da-vi è primo della classe davvero,perché prima di parlare di unargomento lo sviscera, lo stu-dia, lo analizza sotto tutti ipunti di vista.Ha fatto lo stesso per questa in-tervista e alla fine il risultato èun fiume in piena di analisi e pa-role sul reaganismo, sull’influen-za che ha avuto nell’immagina-rio collettivo degli anni Ottanta

e nella comunicazione politica.Un’influenza, che per Davi è an-cora ben presente in politica enella società. E che in Italia, tan-to per cambiare, ha avuto in Sil-vio Berlusconi l’emulo più credi-bile. Nel bene e nel male.

Ronald Reagan ha indubbiamente in-novato la comunicazione politica negliStati Uniti. L'irruzione dello stile holly-woodiano ha soppiantato il grigioredella presidenza Carter. Cosa ha com-portato l'avvento del reaganismo nelsettore della comunicazione politica?«Ronald Reagan? L’attore? Sup-pongo che Marilyn Monroe sia la

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First Lady!» Così l’eccentricoscienziato in Ritorno al futuro ri-spondeva a Michael J. Fox chegli spiegava chi fosse l’inquilinodella Casa Bianca negli anni Ot-tanta, e non c’è da stupirsi. Mol-to prima che il Terminator ArnoldSchwarzenegger diventasse go-vernatore della California, Rea-gan ha stupito il mondo coglien-do tutti di sorpresa. L’avvento di Ronald Reagan sul-la scena politica americana è sta-ta una vera ventata d’aria fresca,termine piuttosto ironico se siconsidera che fu eletto alla CasaBianca all’età di 69 anni, ma chesottolinea come quest’uomo fossein grado di attrarre anche i gio-vani parlando un linguaggio sen-za tempo. Lo stile soporifero diCarter, la depressione per i po-stumi della guerra in Vietnam eun clima economico incerto, ave-vano fatto si che gli americanifossero alla ricerca di qualcunoche rappresentasse una rotturacon il passato, una sorta di nuovoinizio. Curati dall’esperto Pat Bu-chanan, i suoi discorsi erano creatiper comunicare con immediatezzaun’idea ottimista e condivisadell’identità americana. Dalla re-torica dell’“Impero del Male” du-rante l’escalation della corsa agliarmamenti con l’Urss, alla poeticadell’elogio funebre per la mortedegli astronauti del Challenger, ilsuo semplice stile che diceva “iosono con voi”, arrivava al bersa-glio. Nel 2004, in occasione dellamorte dell’ex presidente, LouCannon su Usa Today coglie nelsegno: «Reagan si guadagnò il so-prannome di “grande comunica-

tore” grazie alla sua abilità di par-lare in maniera evocativa usandoaneddoti semplici, comprensibiliall’uomo comune. Aveva inoltre ildono dell’ottimismo e parlavasempre del futuro. Inoltre Reaganrappresentava un paese, di lui sipuò dire che la sua grandezza nonfu di vivere in America, ma chel’America viveva in lui». Reagannon prestava solo attenzione aisuoi discorsi, ma anche alla rea-zione dell’audience, era consapevo-le dell’efficacia dei suoi discorsi e,quando non lo erano, li cambiavaper farli arrivare al pubblico. Exattore sopravvalutato, trasformò lapresidenza dandole un ruolo sim-bolico che trascendeva la politica,restituendo quell’alone mitico allacarica e entrando a far parte dellacultura popolare. Reagan entrònei salotti americani come unaspecie di nonno della nazione, im-perturbabile figura patriottica fe-lice di affrontare tempi difficili.Reagan rassicurava tutti che eranuovamente giusto essere ameri-cani, anche i ragazzini che cresce-vano in famiglie divise o che ve-devano la preoccupazione dipintasul volto dei genitori.

Ronald Reagan è figlio degli anni Ot-tanta o gli anni Ottanta sono figli diReagan?È come chiedere se è nato primal’uovo o la gallina. Tra RonaldReagan e gli anni Ottanta vi èun legame complesso, simbioti-co, che merita uno studio appro-fondito.Ancora più di JFK per gli anniSessanta, Ronald Reagan ha in-carnato gli anni Ottanta con tut-

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to quello che questo ha compor-tato. Potere dei media, spettaco-larizzazione della vita politica econtrapposizioni ideologiche,ma, se egli stesso riconobbe dinon aver creato questa situazio-ne, non si può negare che sia sta-ta la sua genialità e l’abilità nel-l’incanalare queste forze cultura-li, rendendole proprie, la chiavedel suo successo. Nel 2007 GilTroy, autore di Morning in Ameri-ca: Come Ronald Reagan ha inven-tato gli anni Ottanta, è riuscito ariassumere perfettamente questodilemma: «Reagan non si puòprendere il merito di essere l’ini-ziatore di questa tendenza, mainventò gli anni Ottanta coop-tando queste forze, facendoleproprie e in modo tipicamenteanni Ottanta, impacchettandolein maniera esperta».Reagan certamente imparò daJFK e Roosevelt come superare iconfini politici e culturali dellanazione e come affermare unaleadership simbolica nella presi-denza moderna. Ma Reagan riu-scì anche a portare questo model-lo di leadership a un livello supe-riore perché la nazione, grazie so-prattutto al potere della televi-sione, era molto più connessa.Negli anni Ottanta la Tv nonriuscì solo a dettare l’agenda na-zionale, ma contribuì anche aconfondere i confini fra politica ecultura, fra informazione e in-trattenimento. I trascorsi holly-woodiani di Reagan si adattaro-no alla cultura politica emergen-te meno seria e più integrata.Roberto d’Agostino, in un arti-colo per Modà, inventò la defini-

zione di edonismo reaganiano.Con esso si vorrebbe indicare latendenza spiccatamente indivi-dualista che la società occidenta-le assunse negli anni Ottanta, incui le dottrine politico-economi-che dominanti propugnavanol’autosufficienza economica del-l’individuo dallo Stato assisten-zialista, il libero mercato, i taglialla spesa pubblica e la riduzionedelle imposte. In tale contesto,l’edonismo reaganiano rappre-senta una sorta di “legge dellagiungla” economica, in cui nonc’è spazio per la solidarietà socia-le; la competizione per emergereeconomicamente, e quindi so-cialmente, è senza esclusione dicolpi e trova la sua espressionecinematografica in una serie difilm a tema. Il segreto del mio suc-cesso, Wall Street, Una donna incarriera, tutti esempi di come ilsogno americano fosse alla porta-ta di tutti coloro che fossero di-sposti a sacrificare famiglia e va-lori a questo scopo. L’edonismoreaganiano è il marchio di fab-brica degli anni Ottanta, e lasmania di tutti quei giovani chefanno di tutto pur di raggiunge-re la fama, che sia televisiva opolitica, ci fa capire come il feno-meno sia presente anche nella so-cietà moderna.

Trent’anni dopo, cosa è rimasto dello sti-le comunicativo reaganiano in politica?Con il passare dei decenni, quellache era stata l’intuizione reaga-niana è diventata la regola. I me-dia sono fondamentali per garan-tire il successo di un uomo poli-tico, e negli Usa questa dicoto-

QUEL CHE RESTA DI REAGANintervista a Klaus Davi

mia è elevata all’ennesima poten-za. Sia Bill Clinton che GeorgeW. Bush hanno imparato comeessere presidenti guardando Ro-nald Reagan. Forse la lezione piùpreziosa che hanno imparato èstata la nozione di presidenza conun grande progetto. Se la tuaamministrazione ha un grandetema predominante, che sia lapace e la prosperità o la guerra alterrorismo, questo progetto puòeclissare problemi “minori”, sitratti dello scandalo Iran-Contra,Monica Lewinsky, Katrina o laguerra in Iraq. I media potrannodissentire, il Congresso indaghe-rà, ma una percentuale sorpren-dente di americani probabilmen-te risponderanno a questo grandeprogetto e, se a loro piace, dimo-streranno una notevole capacitàdi dimenticare o ignorare errorianche drammatici. Anche SarahPalin, l’ex candidata alla vice-presidenza per i repubblicani, sirifa al reaganismo per raccogliereconsensi. Forse ancora più delPartito repubblicano, il fenome-no dei Tea party trae la proprialinfa vitale dallo stile di Reagan.Abbassamento delle tasse e libe-rismo sfrenato, ma probabilmen-te lo stesso Reagan, dopo unacrisi mondiale causata propriodalla deregolamentazione deimercati, avrebbe cambiato slogan.La Palin vuole essere il nuovoReagan invitando le folle al ri-torno ai principi reaganiani, manon è la sola. Il gruppo repub-blicano Citizens for the Republicha prodotto uno spot dal titoloMourning in America, fortementeispirato allo spot storico di Rea-

gan del 1984 Morning in Ameri-ca, e lo stesso Barack Obama haripreso lo stile rassicurante diquello spot, pur con un messag-gio profondamente diverso, pro-ponendo un presidente timonie-re di una barca in difficoltà, checonosce però perfettamente larotta da seguire.

Qualcuno dice che il più “reaganiano”dei politici italiani sia Berlusconi, capa-ce di parlare al cuore e alla pancia dellagente. È un paragone che regge?Che Berlusconi sia il più “reaga-niano” tra i politici italiani cre-do che sia fuor di dubbio, anchese le loro somiglianze sono tantoimportanti quanto le differenze.Come Reagan, Berlusconi è unuomo di spettacolo. Se l’ex pre-sidente americano veniva daHollywood dopo una carriera daattore, anche il Cavaliere ha ilpalcoscenico nel sangue. Dalleserate sulle navi da crociera finoalla realizzazione di un imperomediatico, le luci dei riflettorisono sempre state fondamentalisia per il Berlusconi imprendito-re che per il Berlusconi politico.Se Reagan ha sfruttato la sua po-polarità per fare breccia nei cuoridegli americani proponendosicome modello del sogno ameri-cano, Berlusconi ha fatto del ci-nema e della Tv strumenti, armiper affermare il proprio credopolitico e buttare le basi di uncambiamento radicale della cul-tura italiana. Creando prima Fi-ninvest, e poi Mediaset, il premierpiù odiato e amato nella storiadel nostro paese ha veicolato at-traverso le schermo un messag-

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IL PERSONAGGIO

Nancy, la first lady perfettaEleanor Roosevelt e Nancy Reagan: quan-do pensi alle first lady più amate nellastoria americana vengono in mente subitoloro. E Nancy Davis Reagan ha davvero ri-lanciato il ruolo della moglie dell’uomopiù potente del mondo nel corso di ottoanni vissuti intensamente alla Casa Bian-ca. Attrice come il marito Ronald, si spo-sano nel 1952 e solo quattro anni dopoabbandonerà per sempre le scene. Il per-ché lo ha spiegato lei stessa, con una fraseche ben testimonia la filosofia di vita diquesta donna: “Ho lasciato il cinema peressere la moglie che volevo essere. La pie-nezza e la vera felicità di una donna arrivatra le mura domestiche, con il marito e ifigli”. Donna tradizionale, Nancy, ma nonper questo distante e distaccata dalla re-altà contemporanea. Basti pensare al suoimpegno per l’arte e i giovani talenti, con-cretizzatosi addirittura in un programmatelevisivo (In performance at the WhiteHouse) che raccontava le esposizioni diartisti in erba nell’Executive Mansion dellaCasa Bianca. Ma gli otto anni di vita presi-denziale hanno un marchio predominan-te: la lotta alle droghe. Nancy Reagan halanciato la campagna Just say no e orga-nizzato, nel 1985, una conferenza interna-zionale di diciassette first lady da tutto ilmondo, accorse a Washington per parlaredi lotta alla droga. Ma l’etichetta di perso-naggio cult degli anni Ottanta non è arri-vata grazie all’impegno politico e sociale.Quello che è rimasto scolpito nell’imma-ginario collettivo è soprattutto lo stile hol-lywoodiano di una donna sempre elegan-te, nei modi come nell’abbigliamento, inun decennio che era molto attento ai fe-nomeni di moda e costume, che era per-corso dall’esplosione dell’Alta moda (so-prattutto italiana). I Reagan, entrambi at-tori ed entrambi belli, hanno vinto anchesul piano dell’immagine il confronto conun’altra coppia mitica di quegli anni: Mi-

khail e Raissa Gorbaciov. Il rapporto tra ledue first lady, però, non è stato di compe-tizione. Anzi, il loro ruolo nell’avvicina-mento umano tra i leader dei due blocchiè importante, se non fondamentale. Nan-cy e Raissa hanno rappresentato il ver-sante femminile di un cambiamento epo-cale che è passato anche attraverso il loroesempio. Mentre i mariti portavano avantidifficili ed estenuanti trattative politiche,strategiche e militari, loro si presentavanoal mondo come due donne diverse nel-l’esteriorità ma accomunate da un forteimpegno nel lento ma inarrestabile pro-cesso di disgelo tra i blocchi. E Nancy,donna che sulla scena ci sapeva stare allagrande, ha messo il suo allure hollywoo-diano al servizio della causa tanto cara almarito, la dimostrazione chiara e lampan-te di una superiorità occidentale che pas-sava anche attraverso un ruolo emancipa-to e indipendente delle donne. DopoNancy, però, il ruolo delle first lady ameri-cane è tornato un po’ nell’ombra, almenofino all’arrivo alla Casa Bianca di MichelleObama. Che però, ne siamo certi, nonriuscirà a scalzare Nancy Reagan dal po-dio di first lady più amata del dopoguerra.

QUEL CHE RESTA DI REAGANintervista a Klaus Davi

gio forte e chiaro: «Saprò gestirel’Italia con la stessa efficacia conla quale ho garantito il primatodelle mie imprese». E gli italia-ni gli hanno dato fiducia. Natu-ralmente, dagli anni Ottanta adoggi sono molte le cose che sonocambiate e, se allora il cinemaaveva un peso nella formazionedell’opinione pubblica, oggi è latv a dettare le regole e la scalettapolitica.

E l’antipolitica quanto li accomuna?L’ingresso sulla scena politica diquesti due politici rubati ad altrimestieri ha rappresentato unpunto di rottura con il passato.Al politico di professione, inges-sato e soporifero, il cittadino pre-ferisce qualcuno che ha dimo-strato di capire quali sono i loroproblemi, o che almeno sembrafarlo. Il linguaggio di Berlusco-ni, così distante dal politichese acui eravamo abituati, è molto si-mile allo stile diretto e senza pelisulla lingua di Reagan che facevaleva sulle paure, sugli interessi esul senso di frustrazione di unacittadinanza che voleva un cam-biamento radicale. Con le suegaffe, le corna nelle foto di grup-po al G8, le barzellette spinte ele urla, Berlusconi ha saputo pre-sentarsi come l’uomo del cam-biamento pur incarnando i valoriconservatori della destra. AncheReagan ha puntato su un nuovopatriottismo, una nuova esalta-zione del ruolo dell’America nelmondo con tutti gli eccessi chene sono susseguiti, ma che l’han-no reso uno dei presidenti piùpopolari della storia americana.

Il bene contro il male, l’amorecontro l’odio, l’ottimismo adogni costo, ecco i cavalli di bat-taglia di questi due uomini poli-tici che hanno fatto della retoricail condimento ad un piatto di ri-forme estremamente conservatri-ci. Se Berlusconi e Reagan hannodiversi punti in comune, vi è unadifferenza particolarmente evi-dente che risiede proprio nel ca-rattere di questi due personaggi.L’ex attore hollywoodiano, purriuscendo a esprimere un mes-saggio proprio, appariva comel’espressione dell’establishementeconomico e finanziario che dete-neva le redini della sua azionepolitica. Dal taglio alle tasse peri più ricchi alla corsa agli arma-menti, Reagan dava l’impressio-ne di voler fare gli interessi dicoloro che l’avevano fatto sederesulla poltrona, ma con Berlusco-ni la questione è decisamente di-versa. Il Cavaliere, entrato in po-litica per sfuggire ai processi, se-condo alcuni, o per salvare l’Ita-lia, secondo altri, non avrebbemai potuto accedere alla CasaBianca a causa del suo ruolo diimprenditore. A Washington ilconflitto di interessi è preso mol-to sul serio, solo in Italia è consi-derato un particolare trascurabi-le. Più simile a un regnante che aun primo ministro nella gestionedel suo partito-azienda, Berlu-sconi prende in prima personaogni decisione e porta avanti leproprie battaglie. Su di lui in-combe l’ombra del conflitto d’in-teressi, dei processi, delle leggiad personam e così via, ma in ognicaso non sembra eseguire gli or-

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dini di nessuno se non quelli dise stesso. Reagan, come tutti ipresidenti americani, asseconda-va le lobby, Berlusconi è la lobbydi se stesso. Pur essendo entram-bi conservatori, la situazione fa-miliare dei due non potrebbe es-sere più diversa. Reagan sposatoda sempre con l’onnipresenteNancy, mentre Berlusconi, tradivorzi, scappatelle ed escort ve-re o presunte, non è certo unmodello, ma non sembra turbaregli italiani, nemmeno i più cat-tolici. Berlusconi e Reagan par-lano la stessa lingua, usano frasisemplici, fanno battute di spiri-to e non nascondono di sentirsi adisagio tra i politici professioni-sti, e questo, agli occhi diun’opinione pubblica satura deiraggiri di palazzo, li rende meri-tevoli di fiducia. La maggioranzasilenziosa tanto decantata da Ni-xon o il fantomatico ceto medionostrano restano affascinati dallanovità e, se il volto di Reagan èormai inciso nella memoria col-lettiva degli americani, Berlu-sconi ha lasciato un segno chenon sarà facile da cancellare, nelbene e nel male.

Che ruolo ha avuto nel successo di im-magine di Reagan, la moglie Nancy?Come si spiega la scarsa importanzache le first ladies hanno nel panoramapolitico italiano?Una volta Nancy Reagan ha det-to: «Il ruolo della first lady è evi-tare che un presidente si isoli». Eindubbiamente lei ha svolto ilruolo di accompagnatrice, maanche di consigliera, in modoineccepibile. È innegabile che

negli Usa le first lady abbianoavuto un’enorme influenza sia inpolitica che nella società, anchese, tradizionalmente, l’elettoratoamericano vede con maggiorsimpatia le first lady che non sioccupano di politica. Così comeJacqueline Kennedy ha conqui-stato gli americani mostrando,vestita in maniera impeccabile,come aveva arredato la CasaBianca, il ruolo svolto da Mi-chelle Obama nella lotta all’obe-sità infantile è visto come ade-guato per l’agenda di una first la-dy. Anche la campagna di LauraBush nella promozione della let-tura o quella di Nancy Reagannella lotta alla droga erano moltoapprezzate, mentre la riforma delsistema della salute di HillaryClinton era stata invece criticataaspramente perché considerataun’ingerenza in campo politico. Per quanto riguarda l’Europa, ildiscorso è molto diverso. Il ruolosecondario che hanno le first ladyin politica non credo sia un feno-meno italiano, ma piuttosto unatendenza europea. Se l’onnipre-sente Nancy ha contribuito note-volmente al successo di Reagan(anche quando irrompeva nellostudio del marito e si faceva con-sigliare da un astrologo per aiu-tarlo a prendere le decisioni piùdifficili), nel Vecchio continentele mogli dei premier o dei presi-denti non hanno avuto lo stessoruolo. In Francia, ad esempio,prima dell’avvento della ex topmodel Carla Bruni, le inquilinedell’Eliseo si limitavano a qual-che comparsata rifugiandosi al-l’interno della propria famiglia.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANintervista a Klaus Davi

Oltralpe, una tradizione di mari-ti infedeli, da Chirac a Mitté-rand, ha spinto le first lady a na-scondersi dagli occhi dell’opinio-ne pubblica. In Spagna, le rispet-tive consorti di Zapatero e Aznarsono relativamente conosciute alivello popolare, ma non hannorappresentato quel valore ag-giunto che invece in Inghilterra,sempre a traino degli Stati Uniti,è stato incarnato da Cherie Blair,prima, e Samantha Cameron, og-gi. In Italia, il discorso è un po’più complesso. Non essendocil’elezione diretta del capo delloStato o del governo, come par-zialmente avviene in Francia, enon avendo una cultura anglofi-la, le nostre first lady patiscono ilmachismo della nostra società,oltre che la fragilità dei governi.Il rapido susseguirsi degli esecu-tivi ha contribuito a non crearemai un legame tra queste donnee le istituzioni. La schiacciantemaggioranza maschile in Parla-mento ha poi fatto il resto, e cosìla riservatezza di queste donneappare quasi come una necessitàdel marito che non vuole vedermessa in discussione la propriavirilità da una compagna troppocarismatica. In Italia, le first ladyservono solo durante le campa-gne elettorali per mostrare l’uni-tà della famiglia e rassicurare imoderati. In Italia è la paura de-gli uomini a impedire che le firstlady rivestano un ruolo all’ameri-cana e, finché non ci sarà una ri-voluzione, non avremo mai lanostra Michelle Obama.

Il reaganismo è stato un fenomeno più

politico o più di immagine? Insomma,arrosto o fumo?Quasi sempre, dove c’è del fumo,c’è anche dell’arrosto, e Reagandi carne al fuoco ne ha messa pa-recchia. In un’intervista rilasciatanel 1998, Robert Redford dichia-rava: «L’era Reagan ci ha fattomolto male con la sua ossessioneper l’individualismo sfrenato»,ma, a distanza di più di trent’an-ni, le cose non sono cambiate poimolto. Sono in molti, a torto, aconsiderare la presidenza Reagancome una parentesi chiusa dellastoria americana, ma le scelte delpresidente, i suoi errori e i suoisuccessi, continuano ancora a in-fluenzare la politica mondiale.La celebre reaganomics, ovverol’insieme di scelte di politicaeconomica adottate dagli StatiUniti dal gennaio 1981 al gen-naio 1989, sono guardate connostalgia ancora oggi dai repub-blicani.Reagan deve gran parte del suosuccesso alla scelta di tagliarel’imposizione fiscale. In tal modosi invertiva la tendenza decenna-le di far crescere l’imposizione fi-scale e contemporaneamente ilruolo dello Stato nell’economia.Reagan venne convinto dall’eco-nomista Laffer che una riduzionedell’imposizione fiscale avrebbeavuto effetti benefici sia sullacrescita economica che sull'im-posizione fiscale perché un’ecces-siva tassazione spingeva i lavora-tori a rinunciare a lavorare dipiù. Alle scelte fiscali si sono ag-giunte politiche di forti libera-lizzazioni, scelte fortemente anti-sindacali, culminate nel licenzia-

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mento di migliaia di controlloridi volo in sciopero, e di forti ta-gli alla spesa sociale, controbi-lanciati tuttavia da un forte au-mento della spesa pubblica perarmamenti. Grazie al taglio dellapressione fiscale, la produzioneindustriale aumentò decisamen-te, come del resto l’occupazione,avviando però quella deregola-mentazione del mercato cheavrebbe finito con lo strangolarela classe media portando alla crisieconomica attuale. Per quanto ri-guarda la politica estera, man-tenne le sue promesse di rapidarappresaglia contro gli attacchiterroristici e i paesi accusati didare loro appoggio come il regi-me di Gheddafi. Grazie alla celebre dottrina Rea-gan, l’Amministrazione appog-giava le forze che si opponevanoai governi filo-sovietici comel’Afghanistan, il Nicaragua,l’Angola, e, nonostante Reagansia ricordato per il suo tenace an-ticomunismo, fu proprio lui adare l’inizio al disgelo. Il primosummit tra Reagan e Gorbaciov sitenne a Ginevra nel novembre1985 e segnò l’inizio del disarmobilaterale. Come vede, di arrostoce ne è stato parecchio, e il fattodi puntare molto sull’immaginenon ha impedito al presidente diagire. La sua politica ha anchecausato un aumento della popo-lazione povera, ha inasprito ilclima tra aziende e sindacati con-tribuendo alla precarizzazionedel mondo del lavoro e alla co-siddetta flessibilità. Questo cli-ma teso ha scatenato molte rea-zioni, e se Reagan poté dire di

essere stato più fortunato di JFKsfuggendo a un attentato, inAmerica o si amava o si odiavaprofondamente questo presiden-te. Un contesto che dovrebbe es-serci molto familiare.

C'è qualcosa che i politici italiani di oggidovrebbero recuperare da quello stile?Se sì, cosa?Credo che i politici italiani, diogni schieramento, dovrebberorecuperare lo stile diretto e popo-lare di Reagan. A prescindere daicontenuti e dalle ideologie, Rea-gan sapeva parlare alla gentementre i nostri politici appaionodistanti anni luce. Parlano discudo, di case a Montecarlo, dilodo Alfano e di magistrati poli-ticizzati, mentre i cittadini subi-scono ancora una crisi che introppi hanno negato e ignoratofino all’ultimo. Gli italiani vo-gliono sentir parlare di occupa-zione, di federalismo e riduzionedelle tasse, cose di cui parlavaReagan e il primo Berlusconi,ma che ora sembrano dimentica-te tra una faida politica e l’altra.Il disgusto verso la politica, ilqualunquismo, queste sono leconseguenze della deriva populi-sta della nostra classe dirigenteche non sa più parlare di coseconcrete e che dovrebbe recupe-rare quella simbiosi con il popoloche Reagan aveva con gli ameri-cani. Come è ormai evidente, ilreaganismo ha contribuito anchea rendere la politica schiava deimedia e dei sondaggi. Ormaitutti dicono di parlare di coseconcrete, vanno in Tv, nei talkshow mettendo in mostra il pro-

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QUEL CHE RESTA DI REAGANintervista a Klaus Davi

prio lato umano, ma ormai i no-stri concittadini non ci credonopiù. A 69 anni Reagan era moltopiù giovane dei nostri elefantiche occupano le poltrone per de-cenni senza lasciare spazio allenuove generazioni che faticanoad imporsi, schiacciate da un cli-ma sociale depresso e da un’eco-nomia che langue. Nei manifestielettorali del Pd Bersani si rifà aPeron mostrandosi con la cami-cia con le maniche rimboccate,ma, se il messaggio è confuso, suuna cosa ha ragione: gli italianihanno perso la pazienza.

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L’Intervistato

domenico naso

Giornalista, si occupa di politica, televisionee cultura pop. Scrive per il Secolo d’Italia eFfwebmagazine, per il quale cura anche larubrica di critica televisiva Television Repu-

blic. Ha lavorato per la rivista Ideazione.

L’Autore

klaus davi

Giornalista, scrittore, esperto di comunicazione,

nel 1994 ha fondato l’agenzia Klaus Davi & Co.

Ha creato il canale KlausCondicio su YouTube,

sul quale intervista i protagonisti dell’attualità,

della politica, della cultura e dell’economia.

Ha scritto i saggi Di' qualcosa di sinistra (2004),

I contaballe (2006) e Fallocrazia (2007).

è anche opinionista tv ed esperto di costume e

dal 2006 è ospite fisso a L’Arena, in onda su

Rai Uno la domenica pomeriggio. è Advisor

strategico di 21 Investimenti, società del gruppo

Benetton.

La reaganomics in Italia arrivò conun decennio di ritardo e non en-trò dalla porta della politica con-servatrice, ma dalla finestra del-l’eresia radicale. «Il mio riferi-mento economico? Milton Fried-man, che ritengo un economistalibertario. E in Italia AntonioMartino, che è in grado di daresuggerimenti a qualsiasi uomo digoverno». A dirlo, in un’intervi-sta del marzo del 1992 a MF, èMarco Pannella. Nessun leaderpolitico italiano, fino ad allora, siera dichiarato così orgogliosa-mente reaganiano. E nessuno loaveva mai fatto dopo aver sedutoostentatamente sui banchi del-l’estrema sinistra, contesi al Pci,secondo la paradossale logicapannelliana, in nome dei valoridella destra storica. Pannella, nell’intervista rilasciataa Franco Bechis, non si ferma aiprincìpi, ma si diffonde in esem-pi provocatoriamente precisi. Di-

chiara guerra all’organizzazionecorporativa dell’economia e dellavoro e propone, con la sfronta-tezza dell’outsider, la completa li-beralizzazione del commercio,l’abolizione della cassa integra-zione straordinaria e un pianomonumentale di investimenti in-frastrutturali, sottratto all’ipote-ca “delle cooperative bianche,rosse e biancorosse” e riservatoalle “maggiori imprese interna-zionali”. Parla di sé come di unaspirante “superministro del-l’economia”, pur guidando unalista – la Lista Pannella, ovvia-mente – che lottava disperata-mente per ottenere il quorum eper garantire l’accesso alla Came-ra ad una pattuglia radicale, orfa-na di molti parlamentari uscentinel frattempo confluiti in altripartiti, secondo la logica pannel-liana della “disseminazione”.L’outing reaganiano di Pannellanon giunge in realtà inaspettato.

DI CARMELO PALMA

Liberismo e anti-proibizionismo

Gli strani alfieri italianidel reaganismoA introdurre la reaganomics in Italia non fu una grande forza di centrodestra, ma il Partito radicale di Marco Pannella. Che vi trovò le ricette giusteper la sua battaglia contro la partitocrazia.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANCarmelo Palma

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All’inizio degli anni Novanta eragià maturata, nell’analisi radica-le, la persuasione che la partito-crazia non costituisse solo unparticolare e anomalo regime po-litico, ma un peculiare regimeeconomico. Non solo le istituzio-ni, ma anche il mercato andavaliberato dal velenoso intreccio traspesa pubblica e intermediazionepolitica, che, insieme al debitopubblico (non a caso esploso pro-prio durante gli anni dell’unitànazionale), costringeva l’econo-mia italiana ad accettare umi-lianti padrinaggi politici o a di-pendere dal ca-priccio arbitrariodi un legislatoreche aveva ormaiperso il senso del-la misura. In questo quadro,non è un caso chesiano stati i radi-cali i primi a raccogliere e pro-muovere politicamente i refe-rendum ideati da Massimo Seve-ro Giannini, per smontare alcu-ni tra i principali dispositividello “Stato padrone”: gli istitu-ti di credito pubblico, il super-conglomerato delle partecipa-zioni statali e la Cassa per ilmezzogiorno.Da un punto di vista strettamen-te dottrinario i radicali tutto po-tevano definirsi fino ad allora,fuorché dei liberisti ortodossi.Pannella, tra gli anni Settanta eOttanta sembrava assai più affa-scinato dai modelli di program-mazione economica di WassilyLeontief, che vinse il Nobel perl’Economia nel 1973 (tre anni

prima di Friedman) e che i radi-cali avevano incrociato nella bat-taglia contro lo sterminio per fa-me (fu tra i 53 premi Nobel asottoscrivere nel 1981 l’appelloradicale), frequentandolo nellebattaglie anti-militariste e affi-liandolo infine nel 1987, quandol’economista russo-americano siiscrisse, con altre prestigiose fi-gure della comunità scientificainternazionale, al Partito radica-le. Non è però una riflessioneteorica, ma un’analisi stretta-mente politica a condurre i radi-cali ad un’intransigenza liberista

e anti-statalistache nella politicaitaliana aveva benpochi precedenti. Peraltro, durantegli anni del trapas-so tra la prima e laseconda Repubbli-ca (1992-1994),

nel cosiddetto “Parlamento degliinquisiti”, tenuto sotto scacco unpo’ dalla magistratura, un po’dall’opposizione e dal rischiodella bancarotta finanziaria delpaese, i radicali sono gli alfieripiù intransigenti della politicadel rigore, dei tagli e delle rifor-me. Per la prima volta da quandosono in Parlamento, i radicali vo-tano a favore di una legge finan-ziaria, quando nel 1992 Amatopropone una manovra “lacrime esangue” da 80mila miliardi epromuove la riforma del sistemapensionistico. Tornano poi a vo-tare contro quella di Ciampi,giudicata insufficiente, nel 1993.In quel periodo, mentre il siste-ma politico sbanda e non si pro-

Fu un’analisi politicaa condurre i radicaliad un’intransigenzaliberista che non avevaprecedenti in Italia

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fila ancora la discesa in campo diBerlusconi, sono i radicali diPannella l’avversario della sini-stra. Come nessuno avrebbe maipensato possibile, sul Corriere del-la Sera Giorgio Meletti scrive nelfebbraio del 1993: «Arrivati aquesto punto non ci sarebbe dasorprendersi se fosse proprioMarco Pannella quel supermini-stro dell’Economia che l’Italiavagheggia da tempo», e accosta,un po’ agiograficamente, la suafigura a quella di Silvio Spaventae Quintino Sella. Si potrebbe discutere a lungo seil Pannella “rigori-sta” di allora fossedavvero, in termi-ni culturali, liberi-sta e reaganiano.La sua idea di ri-voluzione liberaleaveva forse pocheparentele teorichecon la rivoluzione “offertista”della supply side economy, ma que-sto contava poco, a maggior ra-gione in un partito che si facevavanto di un programmaticopragmatismo ideologico. I radi-cali, insomma, diventano anti-statalisti perché anti-partitocra-tici, anti-interventisti perchénon solo diffidenti, ma sfiduciatidella capacità di “governo eco-nomico” di una classe politicache vedevano votata alla rapina eal suicidio. Se si pensa a quanto pervasivofosse allora il potere dei partiti,si comprende l’originalità dellarisposta radicale, che non punta,come poi avrebbero fatto la sini-stra e la destra dei “Forza Toni-

no”, sulla questione morale, masu di una riforma profonda delleistituzioni politiche ed economi-che del paese. Così i radicali di-ventano reaganiani: senza com-plessi, e senza farsi soverchie pre-occupazioni di coerenza ideologi-ca. Perché il reaganismo “servi-va” la causa anti-partitocratica. Ereaganiani lo diventano sul serio,trascrivendo tra il 1994 e il 1999in numerose proposte referenda-rie una vera e propria piattafor-ma di riforma liberista dell’eco-nomia italiana, che la Corte Co-stituzionale decimò e che il siste-

ma politico italia-no in larga misuradisinnescò, con lostrumento del-l’astensione. Perricordarne solo al-cune, in quel pe-riodo viene richie-sta per via referen-

daria l’abrogazione del sostitutod’imposta, del monopolio pub-blico sulle assicurazioni sanitariee per gli infortuni sul lavoro,della cassa integrazione straordi-naria, dell’articolo 18 dello Sta-tuto dei lavoratori…Quando nel 1994 i radicali in-crociano e per qualche mese con-dividono il cammino berlusco-niano, di tutte le aree politico-culturali che il Polo della libertàe del buongoverno riesce ad ag-gregare, quella radicale è sicura-mente la più consonante con i te-mi e i toni della rivoluzione libe-rale che Berlusconi prometteva alpaese. I radicali liberisti e “di de-stra” diventano subito un tabùper la sinistra, che li sdogana

I radicali diventano anti-statalisti perchéanti-partitocratici,anti-interventisti persfiducia nella politica

QUEL CHE RESTA DI REAGANCarmelo Palma

nuovamente dodici anni dopo,quando si sistemano nella coali-zione prodiana, tentando di ca-valcare il liberal-socialismo euro-peo (Blair-Zapatero) e gli idealidi una sinistra che aveva comun-que digerito la lezione thatche-rian-reaganiana.Parte della fascinazione per ilreaganismo – ma mai, a dire ilvero, per Reagan – dei radicalianni Novanta si deve al “sognoamericano” di un partito che an-che sui temi internazionali stavamuovendo il proprio pacifismoliberale verso un atlantismo assaipiù tradizionale.Si pensi alle posi-zioni tutt’altroche neutralistesulla prima guerrain Iraq e all’inter-ventismo dichia-rato sul fronte ju-goslavo, ben di-stanti da quelle che avevano por-tato i radicali, all’inizio degli an-ni Ottanta, a lottare – insieme alPci – contro l’installazione deglieuromissili a Comiso e a teoriz-zare, nello stesso periodo, l’uscitadell’Italia dalla Nato. Sugliaspetti più propriamente strate-gici della presidenza di Reagan,a partire dalla competizione sulpiano militare, i radicali sbaglia-no completamente le previsioni.E con il senno di poi si può dire:fortunatamente.Sempre nei primi anni Ottanta,vedono nel processo di riarmoreaganiano un fenomeno internoagli Usa, guidato dagli interessidell’industria militare, non unodei fronti di competizione politi-

ca con l’Urss, che avrebbe porta-to allo schianto dell’intero bloccosovietico. Scriveva a questo pro-posito nel 1981 l’allora “mini-stro della Difesa” del Pr, France-sco Rutelli, su Notizie Radicali:«È giusta questa scelta? L’espe-rienza ci insegna il contrario. Ilterreno su cui l’Urss ha dimo-strato di non perdere un colpo èquello della competizione strate-gica con l’altra superpotenza. Ingenerale, è sul terreno militare(si veda l’Afghanistan, come ilCorno d’Africa, come lo Yemen)che una struttura come quella so-

vietica sa dare lesue risposte». An-che allora, da partedei radicali non viera alcuna equidi-stanza tra i blocchie il nemico erachiaramente indi-viduato oltre la

cortina di ferro. Lo stesso Rutellichiariva: «Noi riteniamo che perla sua natura e struttura l’Ursscostituisca oggi il maggior peri-colo soggettivo e oggettivo perlo scatenamento della guerra» e,citando Pannella, aggiungeva:«L’Occidente – ha dichiaratoPannella – rischia di comportarsicon l’Urss di oggi come già feceall’epoca di Monaco con la Ger-mania nazista». Però per i radi-cali, che in questo si dimostrano– come molti, non solo a sinistra– ostili al “militarismo” del cow-boy che aveva espugnato la CasaBianca, Reagan non è né un mo-dello, né un riferimento politico.In termini generali si può allorasostenere, neppure troppo para-

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Il reaganismo radicaleè stato più libertariane friedmaniano che politicamentereaganiano

dossalmente, che il reaganismoradicale è stato più culturalmen-te friedmaniano e libertarian chepoliticamente reaganiano. Infat-ti, non casualmente, il primo ap-proccio con Friedman da partedei radicali, nella seconda metàdegli anni Ottanta, avviene su diun tema in cui l’economista ame-ricano era “all’opposizione” dellapresidenza Reagan: il proibizio-nismo sulle droghe. Friedman era un antiproibizioni-sta assoluto: per ragioni etiche –fedele ad un ideale di libertà ne-gativa di impronta più libertariache liberale – e per ragioni eco-nomiche. Il mercato delle dro-ghe, come mercato “drogato”dall’intervento pubblico e crimi-nalizzato dalla proibizione, di-venta in Friedman un esempioparadigmatico dell’illusione sta-talista. Il problema della droga,per come lo conosciamo (le vio-lenze, la microcriminalità diffu-sa, il potere politico delle narco-mafie…) è, nella sostanza, un gi-gantesco effetto inintenzionaledel proibizionismo. Le droghe,invece, sono un’altra cosa: se fos-sero legali, continuerebbero a fa-re male a chi le usa, ma non “am-malerebbero” la società di unamalattia contagiosa e inguaribi-le, con cui l’Occidente fa politi-camente i conti – con un grandedispendio di risorse politiche edeconomiche – dalla prima Con-venzione internazionale sulladroga nel 1961. La proibizionenon si limita a socializzare i dan-ni e a privatizzare i profitti delladiffusione delle droghe, facendopagare agli “innocenti” (i non

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Ogni generazione va al di là dellagenerazione che la precede perchési trova sulle spalle di quella gene-razione. Avrete opportunità al di làdi qualsiasi cosa abbiamo mai co-nosciuto.

Come si fa a definire un comuni-sta? Beh, è qualcuno che leggeMarx e Lenin. E come si fa a defini-re un anticomunista? È qualcunoche capisce Marx e Lenin.

Il primo dovere del governo è diproteggere il popolo, non di gestirela sua vita.

Il contribuente è uno che lavora perlo Stato senza essere un impiegatostatale

Non sono preoccupato per il debi-to pubblico americano. È così gran-de che può badare a se stesso.

La politica è stata definita la secon-da più antica professione del mon-do. Certe volte trovo che assomiglimolto alla prima.

Margaret Thatcher? È il miglior uo-mo d'Inghilterra.

L'altro giorno qualcuno mi ha spie-gato la differenza tra democrazia edemocrazia popolare. È la stessadifferenza che passa tra una cami-cia e una camicia di forza.

IPSE DIXIT

Le frasi più celebridi Ronald Reagan

QUEL CHE RESTA DI REAGANCarmelo Palma

consumatori di droga) i costiche, in un mercato libero, paghe-rebbero solo i “colpevoli” (i con-sumatori di droga). Istituisce an-che un incentivo economico chemoltiplica le dimensioni e la ric-chezza del mercato criminale, in-quinando l’economia legale. A spingere Friedman ad una po-sizione antiproibizionista non eraperò la sua dottrina, ma l’analisidi un fenomeno che una politicaperbenistica si rifiutava (e tutto-ra si rifiuta) di considerare –malgrado l’esempio del proibi-zionismo sull’alcool degli anniTrenta – anche come un proble-ma di mercato. Non è il liberi-smo “individualista”, insomma, aportare Friedman all’antiproibi-zionismo, ma l’idea stessa di ana-lizzare il problema della drogasecondo categorie economiche. Adimostrarlo è il fatto che neglistessi anni i radicali coinvolgononella Lega internazionale anti-proibizionista Lester Thurow, uneconomista liberal molto lontanoda Friedman, che condivide peròcon lui l’idea che le droghe“proibite” diventino un proble-ma molto più grande e pericolo-so delle droghe in sé.Friedman ha una grande influen-za sui radicali, il cui anti-proibi-zionismo diventa – per così dire– più di destra. La legalizzazionesi impone non solo per rispettoalla libertà individuale, ma – so-prattutto – come argine al disor-dine sociale e al potere criminale.Gli slogan diventano molto lon-tani dal “Free joint!” dei giovani“alternativi” e prendono una in-tonazione pragmatica: “L’unica

politica anti-droga è anti-proibi-zionista”. Non c’è nessuna cultu-ra dello sballo e del lassismo. El’icona dell’antiproibizionismoradicale, insieme all’assai pocolassista Friedman, diventa il vec-chio ex-capo della squadra narco-tici di New York, Ralph Salerno. Dopo quasi venti anni da quel-l’inizio eccentrico che aveva se-gnato l’avvicinamento radicale alguru della rivoluzione conserva-trice, per un caso della storia letruppe pannelliane svoltano a si-nistra, accettando l’alleanza conla coalizione più comunistad’Europa, nel 2006, propriomentre Berlusconi e il centrode-stra iniziano la sterzata anti-rea-ganiana, che culminerà tra il2007 e il 2008 nelle filippicheanti-mercatiste e anti-liberiste diTremonti. È una coincidenza, so-lo una coincidenza. Ma non losembra. Bye bye, Reagan.

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carmelo palma

Direttore dell’associazione Libertiamo e di Li-

bertiamo.it. Giornalista pubblicista, è stato di-

rigente politico radicale, consigliere comuna-

le di Torino e regionale del Piemonte. è tra i

fondatori dei Riformatori Liberali.

L’Autore

L’accordo lo abbiamo fatto con te.No al contrabbando.

British American Tobaccoe l’Unione Europea combattonoinsieme il contrabbando dei prodotti del tabacco.

British American Tobacco ha sottoscritto un Accordo di collaborazione con la Commissione Europea e gli Stati membri dell’Unioneper combattere insieme il contrabbando e la contraffazione dei prodotti del tabacco.

Il contrabbando in Europa rappresenta circa il 13% del mercato totale del tabacco, pari a circa 75 miliardi di sigarette. Il mercato illecito crea ognianno perdite per gli Stati membri di circa 10 miliardi di euro.

In Italia, questo fenomeno ha registrato una recrudescenzapassando dalle 124 tonnellate di sigarette sequestrate nel 2007 alle 297 tonnellate del 2009.

Il commercio illecito, inoltre, facilita la diffusione del fumo tra i minori a causa dei mancati controllialla vendita e dei prezzi più accessibili.

L’accordo sottoscritto da BritishAmerican Tobacco, la CommissioneEuropea e gli Stati membri confermal’impegno dell’Azienda a dialogare e collaborare con le Istituzioni per combattere l’illegalità e garantire il rispetto delle normative sul prodotto.

Assieme vogliamo inviare un messaggiomolto forte alle organizzazioni criminali,le cui attività sono finanziate anche daiproventi del contrabbando: le loro azioni non saranno tollerate.

DI PIERLUIGI MENNITTI

La linea intransigentecontro l’Evil Empire

Riaffermare gli Stati Uniti come paeseleader del blocco occidentale fu la priorità dell’Amministrazione

Reagan, perseguita senza concessoni anche attraverso una aggressiva politica di riarmo.

QUEL CHE RESTA DI REAGANPierluigi Mennitti

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Nei giorni in cui la Germania hacelebrato il ventennale della riu-nificazione, un frammento di Ro-nald Reagan è tornato a Berlino.A pochi passi dalla porta diBrandeburgo, dove il 12 giugno1987 pronunciò il discorso cheanticipò di due anni la caduta delMuro, la libreria Dussmann haesposto all’ultimo piano, quellodella saggistica, un pezzo delvecchio “vallo antifascista”. Nonuno qualsiasi ma un pezzo che ilpresidente americano autografòqualche anno più tardi, dopoaverci scritto la frase che tutti ri-cordano, «Mr. Gorbachev, teardown this Wall!». Una grafia tre-molante, dovuta al ruvido pas-saggio del pennello nero sulla su-perficie grinzosa del cemento,che rende meno perentorioquell’invito fatto all’allora con-troparte sovietica, che molti pre-sero come un azzardo di retoricae che invece fu una profezia.Il pezzo è pregiato. I titolari dellalibreria, una delle più grandi diBerlino, lo hanno messo sotto ve-tro, di fronte alla grande vetratache dà sul cortile interno dove siaffacciano i quattro piani di que-sto emporio della cultura. Ma iclienti passano e guardano un po’distratti, senza mostrare un’emo-zione particolare. Un rapportostrano, quello che lega RonaldReagan alla città che più di tutteha sperimentato le conseguenzedella sua azione politica. A Berli-no è rimasta più impressa nellamemoria la visita di un altro pre-sidente americano, John Fitzge-rald Kennedy, che rincuorò gliabitanti della metà occidentale

della città, rimasta intrappolatadentro la muraglia innalzata daWalter Ulbricht per impedirel’emorragia di giovani e forza la-voro che stava dissanguando laneonata Germania popolare.L’uomo della “nuova frontiera”arrivò in una Berlino ovest terro-rizzata, fece una puntata di frontealla Porta di Brandeburgo allorasbarrata dal Muro e oscurata dadrappi rossi che impedivano diguardare dall’altra parte, si dires-se in corteo fra ali di folla nellapiazza del municipio di Schöne-berg, che allora fungeva da mu-nicipio della metà occidentale, epronunciò con un trascurabile er-rore grammaticale la famosa frase«Ich bin ein Berliner».Una consolazione. Ma Kennedyera giunto a Berlino due anni do-po la costruzione del Muro, nonquello che si direbbe una visitatempestiva, e il suo discorso fualto e sentimentale, ma non ebbealcun effetto sul corso della sto-ria, se non quello di certificarequanto era già scritto nei trattatifra le due grandi potenze: che gliamericani e i loro alleati sarebbe-ro rimasti a Berlino ovest e nonavrebbero messo il naso Oltrecor-tina, nelle faccende che accadeva-no nelle regioni di competenzasovietica. E tuttavia, il messaggioberlinese di Kennedy, che pren-deva atto del colpo di forza diMosca e Berlino est, getta ancorala sua ombra su quello di Rea-gan, che spinse Mosca e Berlinoest un passo più in là, fin sull’or-lo di quel precipizio nel quale, dilì a poco, tutto il mondo comu-nista sarebbe caduto.

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Mai presidente americano fu tan-to sottovalutato dagli europei,prima, durante e dopo il suomandato politico. Fu un presi-dente ideologico, uno degli ulti-mi esponenti di quel mondo diidee ferme e chiare che si muove-vano nella cornice della GuerraFredda: dopo di lui, negli Usa,completò l’opera George Bush se-nior e poi venne l’era di un leaderpragmatico. E proprio quella ci-fra ideologica, così forte ancoranegli edonistici anni Ottanta, glinegò l’apprezzamento di chi ave-va altre idee. Nel giugno berline-se del 1987, la visitadi Reagan fu movi-mentata da continuemanifestazioni dipiazza, giovani anar-chici e di sinistrache ingrossavano lefile dei movimentipacifisti e che, neltimore dell’apocalisse nucleare, siponevano oggettivamente (conconsapevolezza o meno) dallaparte dei sovietici. Se si vuole tirare la storia per i ca-pelli, e paragonare Reagan aKennedy sul piano politico e nonsolo su quello caratteriale (duepresidenti di grande fascino e for-te capacità comunicativa), biso-gnerà uscire dalle similitudinigeografiche e paragonare il di-scorso di Reagan a Berlino conquello che Kennedy fece a Wa-shington, quando gli Stati Unitilanciarono ai sovietici la sfida lu-nare. Presentando in Congresso ilprogetto Apollo, disse: «Nessunanazione che aspiri ad essere allaguida della altre può pensare di

rimanere indietro nella corsa perlo spazio […] Abbiamo scelto diandare sulla Luna e di fare altrecose, non perché sono facili, maperché sono difficili». Così Rea-gan, di fronte alla porta di Bran-deburgo, dopo aver pronunciatola famosa frase, «Mister Gorba-ciov, tiri giù questo Muro», si ri-volse ai manifestanti che agitava-no i quartieri di Berlino ovest di-cendo: «Invito coloro che oggiprotestano a rimarcare questo fat-to: è perché siamo rimasti fortiche i sovietici sono tornati al ta-volo delle trattative ed è perché

siamo rimastiforti che oggiabbiamo rag-giunto la possi-bilità non solodi limitare lacrescita delle ar-mi ma di elimi-nare, per la pri-

ma volta, un’intera classe di arminucleari dalla faccia della terra».Se l’appello a Gorbaciov fu laprofezia che rimarrà per semprenei libri di storia (così come agliatti rimarranno gli scetticismi ele ironie di quanti, in America ein Europa, giudicarono quellafrase una retorica irrealistica), ledichiarazioni rivolte ai manife-stanti – e per loro tramite a tutticoloro che avevano avversato lapolitica di riarmo – rappresenta-no il cuore dell’azione reaganiananella Guerra Fredda.Quando Ronald Reagan arrivòalla Casa Bianca, gli Stati Unitierano in preda a una crisi diidentità. Lo smacco della cacciatadello Shah da Teheran e il falli-

Le dichiarazioni rivoltea chi aveva avversatoil riarmo sono il cuoredell’azione reganiananella Guerra Fredda

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mento dell’operazione di libera-zione degli ostaggi americani,così come l’invasione dell’Afgha-nistan da parte sovietica sembra-vano segnali inequivocabili delfatto che l’Urss avesse ripreso inmano il pallino del gioco. Riaf-fermare gli Stati Uniti come pae-se leader del blocco occidentale fula priorità della sua amministra-zione. Poche, semplici paroled’ordine per ristabilire i terminidel confronto, abbandonare le di-sponibilità che Carter aveva ma-nifestato e sbarrare il passo anchealla recente tradizione repubbli-cana della Realpoli-tik, che aveva se-gnato la stagionedi Nixon e Kissin-ger: si imposero laretorica propagan-distica antisovieti-ca, nella quale ilnuovo presidentefu un maestro tanto da guada-gnarsi l’appellativo di Grandecomunicatore, una politica esterapiù aggressiva e determinata, loslancio liberista nell’economia enella società, un massiccio pro-gramma di riarmo militare.Nel 1982, di fronte ai membridell’Associazione nazionale deglievangelici a Orlando, in Florida,Reagan pronunciò un altro di-scorso storico, scritto da Antho-ny Dolan, il suo leggendarioghost writer, nel quale coniò il ter-mine di “impero del male” cherappresentò la stella polare dellasua azione di politica estera. Sel’Urss era l’evil empire, nessun ac-cordo sarebbe stato possibile pri-ma di aver raggiunto una posi-

zione di supremazia. Solo parten-do da uno stato di superiorità,sarebbe stato possibile intavolaretrattative con Mosca, con l’obiet-tivo di strappare risultati concre-ti invece che accordi simbolicitesi a salvaguardare il primatostrategico e tattico russo. Il can-didato Reagan aveva già denun-ciato in campagna elettorale gliaccordi Salt, conclusi nel giugno1979, con i quali veniva fissatoun tetto al numero complessivodi missili intercontinentali e dimissili dotati di testate nuclearimultiple. Un accordo che lascia-

va inalterato losquilibrio a favoredi Mosca. Al con-trario la nuovaAmministrazionestatunitense avviòuna crescita degliinvestimenti nelcampo delle armi

nucleari e convenzionali, inaugu-rando una sorta di keynesismomilitare che, pur accrescendo ildeficit federale e i tassi d’interes-se, rappresentò una sorta di se-condo motore per l’economiaamericana, accanto a quello ali-mentato dall’esplosione della so-cietà liberista.Nella sua monumentale Storiadelle relazioni internazionali, lostorico Ennio Di Nolfo riassumeil senso della sfida reaganiana:«Era necessario costruire unaimprendibile fortezza america-na, capace di esaltare sia il pri-mato economico sia quello mili-tare degli Stati Uniti e capace diimporre all’Unione Sovietica,cioè alla Russia comunista, una

L’Urss era l’evil empiree le trattative potevanoavere come obiettivo solo risultati concreti, non accordi simbolici

QUEL CHE RESTA DI REAGANPierluigi Mennitti

sfida così poderosa da costringe-re i suoi dirigenti a scegliere, inun momento di crisi economicacrescente, fra la priorità dell’im-pegno globale (politico e milita-re) e la necessità di rimediare al-le disfunzioni della società so-vietica, sempre più evidenti esempre meno tollerabili per icittadini dell’Urss».Il Dipartimento di Stato ameri-cano aveva diffuso un rapportospeciale (Soviet Military Power)che confermava la superiorità so-vietica in quella fase e i rischi in-siti in una scelta unilaterale degliUsa. Reagan simosse così su duefronti. Da un lato,rilanciò la propo-sta di aprire unnuovo negoziatosugli armamentistrategici, dopo lamancata ratificadegli accordi Salt II, che chiamòcon il beneaugurante acronimodi Start (Strategic Arms ReductionTalks), e che presero il via il 29giugno 1982 in parallelo con inegoziati sugli euromissili.Dall’altro, proseguì con la politi-ca di rimilitarizzazione: Washin-gton confermò la decisione adot-tata in sede Nato di stanziare sulterritorio europeo missili nuclea-ri di media gittata (i Pershing e iCruise), in risposta al dispiega-mento negli anni Settanta in Eu-ropa di missili intermedi SS20sovietici, ristrutturò le strutturedi comando militari, potenziò laflotta di 145 unità e, soprattutto,lanciò nel 1983 il progetto di unsistema di difesa strategica che

avrebbe dovuto proteggere gliStati Uniti dai rischi di un attac-co nucleare, la Strategic DefenseInitiative.Nel libro Germany unified andEurope transformed, scritto nellametà degli anni Novanta a quat-tro mani da Philip Zelikow eCondoleezza Rice, la futura se-gretaria di Stato di George W.Bush e allora professoressa diScienze politiche alla StanfordUniversity, la strategia reagania-na è riassunta in poche, seccheparole: «Il presidente assunseuna posizione negoziale da tutto

o niente, insisten-do sull’opzione ze-ro per gli arma-menti nucleari amedia distanza inEuropa e mettendoin chiaro che gliUsa avrebbero pro-seguito lo sviluppo

e la collocazione dei propri mis-sili nucleari, se Mosca non avesserimosso gli oltre quattrocentoSS20 istallati a minaccia dell’Eu-ropa occidentale».Tutto o niente. Furono mesi diforti tensioni politiche, con pro-teste giovanili nei paesi europei,in parte genuine, in parte finan-ziate da Mosca. Si consolidò inquei mesi l’immagine del Rea-gan militarista, accompagnatadal facile parallelo con il suopassato di attore cowboy. Nelbraccio di ferro con i russi, gliamericani avevano dalla loroparte il riarmo che riequilibravai rapporti di forza e la carta pro-pagandistica dello scudo stella-re, un progetto in realtà indefi-

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Reagan rilanciò la proposta di aprire un nuovo negoziato sugliarmamenti strategici che darà vita allo Start

nito nelle sue coordinate tecni-che, ma di straordinaria pressio-ne psicologica.L’aggravarsi dei problemi econo-mici e sociali all’interno delblocco sovietico (l’esplosione diSolidarnosc in Polonia è del1982) e la crisi politica e genera-zionale nella dirigenza delCremlino resero il doppio bina-rio americano più facilmentepercorribile. Mentre Mosca ritar-dava il ricambio, bloccandosisulle scelte degli ottuagenariAndropov e Cernenko, gli Usarecuperavano lo svantaggio stra-tegico, sia sul piano militare chesu quello industriale. La ripresaeconomica, favorita oltre chedall’industria militare da una so-cietà modellata sui criteri di li-beralizzazione, concorrenza, in-novazione tecnologica e produt-tività, capovolse in pochi anni irapporti di forza e quando, infi-ne, a Mosca emerse la figura delcinquantaquattrenne MikhailGorbaciov, la sfida si proponevain termini del tutto diversi. Ilfallimento della politica di con-fronto con l’America aveva pro-dotto anche un’ulteriore conse-guenza: l’approccio puramentemilitaristico ai problemi dellasicurezza sovietica. L’economiaera entrata in una fase di reces-sione, le società comuniste inun’era di apatia. La guerra eraperduta, si trattava ormai di ne-goziare un dignitoso armistizio.«Il crollo del comunismo è unavera e propria rivoluzione», rac-conta Tiziano Terzani in Buona-notte signor Lenin, un reportage inpresa diretta dalle periferie asiati-

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QUEL CHE RESTA DI REAGANPierluigi Mennitti

Questo bellissimo libro illustratocommemora la vita e la presidenzadi Ronald Reagan, che ha rinnovatoil senso di ottimismo dell’America,ha ravvivato la sua economia e havinto la Guerra Fredda senza spa-rare un solo colpo.Peter Robinson, speechwriter e as-sistente di Reagan, ha scritto il testoe le didascalie e il libro ospita fotomolto famose e altre meno cono-sciute. Inoltre, sono presenti i sei di-scorsi più famosi dell’ex presidentedegli Stati Uniti d’America, tra cuiquello del 1987 pronunciato a Ber-lino, davanti la Porta di Brande-burgo. L’introduzione è di Newt eCallista Gingrich.David Elliott Cohen, autore dellibro, ha venduto più di 5 milioni dicopie delle sue opere precedenti, tracui A day in the life of the SovietUnion e America 24/7. Le sue fotosono spesso apparse sulle copertinedi Time e Newsweek.

Ronald Reagan. A life in photographsDavid A. Cohen, Peter RobinsonSterling, 2011

IL LIBRO

Reagan, un viaggioper immagini

che dell’impero del male in disfa-cimento «ma questa, stranamen-te, non ha nessuno dei drammi edei ribaltoni che le rivoluzioniportano di solito con sé. È forseperché i fatti degli ultimi giornisono la conclusione di un proces-so incominciato tanto tempo fa?È possibile che questa rivoluzionesia invisibile perché in verità nonè avvenuta ora, perché il comuni-smo non è morto la settimanascorsa, ma è morto lentamente, atappe? Questo comunismo co-minciò a morire con la morte diStalin, continuò a morire con ilrapporto segreto di Chrusciov, eavanti, con frenate e accelerazio-ni, fino all’ascesa al potere diGorbaciov e al suo editto di scio-glimento del partito. Alla fine, ilcomunismo sovietico era come lacassetta col lucchetto di questopiccolo villaggio sull’Armur:c’era, ma dentro non contenevapiù nulla». Anche la Cecoslovac-chia comunista, che visitai duemesi prima della rivoluzione divelluto del novembre 1989, pare-va un contenitore vuoto. Nellestrade e nei ristoranti, i signoridel cambio in nero si facevanobeffe dei tassi di cambio ufficiali,alimentando un’economia paral-lela che non aveva più alcun ag-gancio con quella legale. Al ripa-ro di pub e locali, i giovani speri-mentavano già divertimenti mo-dellati sugli standard occidentali.La povertà, la miseria e le lunghefile davanti ai negozi alimentarivuoti erano il risultato visibile diun’economia giunta allo sfascio edi una vita quotidiana di stenti.Solo la polizia incuteva ancora

qualche timore, ma la società leera già sfuggita e quando l’auto-rità venne meno, sparì anche lapaura, i cittadini abbandonaronole loro esistenze nel mondo dellamenzogna e ritornarono alla vitareale.Ma nell’‘89 cecoslovacco o nel‘91 sovietico tutto questo era vi-sibile e scontato, più difficile emeno scontato era pensarlo al-l’inizio degli anni Ottanta.Quando, già nel 1987, RonaldReagan invitò Mikhail Gorba-ciov a venire a Berlino e a tiraregiù il Muro, i pacifisti sfilavanoancora per le strade e i commen-tatori lo presero per un pazzo.Era invece un visionario, che sa-peva individuare le strategie con-crete per rendere possibili quellevisioni.

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pierluigi mennitti

Giornalista, vive a Berlino e si occupa preva-

lentemente di Germania ed Europa centro-

orientale, Scandinavia e Balcani. è co-autore

del sito East Side Report (www.esreport.net).

Su questi temi collabora con diversi quotidia-

ni e riviste italiane.

L’Autore

Le due crisi che si svilupparonoparallelamente fra il 1979 e il1980, quella degli euromissili equella afghana, sembrarono af-fossare le speranze generate dalladistensione fra i blocchi, segnan-do una decisa inversione di ten-denza e un ritorno a quelle ten-sioni che avevano caratterizzatogli anni Cinquanta e Sessanta.In particolare, la disputa suglieuromissili, e la cosiddetta “dop-pia decisione” presa dall’Alleanzaatlantica il 12 dicembre 1979,aveva radici profonde, essendol’esito di un lungo e travagliatopercorso interno alla Nato e nonsolo una reazione al programmasovietico di ammodernamentodelle forze nucleari di teatro a

lungo raggio, che interessavacioè l’area europea. Un program-ma cominciato agli inizi deglianni Settanta, con il primo im-piego operativo nel 1974 delbombardiere Tupolev TU-22Backfire e soprattutto, nello stes-so anno, con la prima prova involo del nuovo missile balisticodi raggio intermedio (Irbm) SS-20, che permetteva all’Urss unsalto tecnologico rispetto ai pre-cedenti vettori SS-4 e SS-5 ga-rantito dalla più lunga gittata edalla capacità di veicolare testatemultiple. Il piano di spiegamen-to prevedeva l’introduzione dicirca dieci Backfire e settanta SS-20 ogni anno. Lo schieramentodella nuova generazione di missi-

DI MASSIMO AMOROSI

Le politiche militari della Nato

L’Europa tra missili e prove di DISGELO

Dalle difficoltà del rapporto euroatlantico durante la presidenzaCarter al riarmo dei primi anni

Ottanta, ecco come è cambiato il ruolo del Vecchio Continente con l’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca.

QUEL CHE RESTA DI REAGANMassimo Amorosi

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li fu, come riconobbe l’ambascia-tore sovietico negli Stati Uniti,Anatoly Dobrynin, una decisione“particolarmente disastrosa”. Es-sa infatti mise in moto il proces-so che sfociò nella scelta atlanticadi installare, sui territori dei pae-si Nato che avessero acconsentitoad ospitarli, 108 vettori balisticiPershing-2 e 464 missili da cro-ciera Tomahawk, ossia nel primocaso di sistemi considerati quin-dici volte più accurati degli SS-20 e il cui tempo di volo fino aMosca era di circa 10-12 minuti(paragonato ai 45 minuti che sistimava impiegas-sero i missili dagliStati Uniti allecittà dell’Urss), enel secondo dimissili che eranodifficilmente rile-vabili dai radar inquanto seguivanoil profilo del terreno a quotemolto basse. Ma in realtà lo schieramento deinuovi sistemi sovietici aveva ef-fetti ben più amplificati, perchése da un lato faceva riaffiorarecontenziosi mai chiusi in seno al-l’Alleanza atlantica, dall’altro da-va una brusca accelerazione aprocessi tecnologici già avviati ea scelte politiche che stavanogradualmente maturando fra glialleati.Il dibattito fra americani ed eu-ropei riguardante l’efficacia deisistemi nucleari della Nato el’opportunità di dare il via aduna loro modernizzazione nonera infatti nuovo e anzi si stavasviluppando indipendentemente

dalla percezione di una accresciu-ta minaccia sovietica. Ne è la ri-prova la collaborazione instaura-tasi fra tedeschi occidentali e in-glesi con l’obiettivo di migliora-re l’efficacia della dottrina dellarisposta flessibile ufficializzatanel 1967, che era al tempo stessouna strategia di difesa e di dis-suasione, mentre sull’altra spon-da dell’Atlantico le iniziative delcapo del Pentagono James Schle-singer, favorite peraltro da unaserie di innovazioni tecnologichecome lo sviluppo di missili dacrociera più precisi che in passato

si muovevano inuna direzione pres-soché analoga. Irapporti fra gli al-leati cominciaronoinvece a compli-carsi con l’insedia-mento a Washin-gton dell’ammini-

strazione Carter, giudicata daglieuropei debole e vacillante oltreche troppo incline ad individuaresoluzioni di compromesso con isovietici a spese del continentenel settore del controllo degli ar-mamenti. I timori in Europa occidentaleerano legati alle ambiguità della“risposta flessibile”, che aveva ri-mosso la certezza dell’automati-smo della risposta americana.Gli americani ne sottolineavanogli aspetti difensivi, anche con-venzionali, non escludendo unaguerra nucleare limitata alla solaEuropa, mentre gli europei pun-tavano a salvaguardare per quan-to possibile il coupling strategicocon Washington evidenziando le

I rapporti tra Usa e alleati della Nato si complicarono quando alla Casa Biancaarrivò Jimmy Carter

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capacità dissuasive delle arminucleari tattiche, da essi consi-derate non mezzi di guerra bensìstrumenti volti a realizzare uncollegamento strategico fra ledifese avanzate europee e il de-terrente strategico americano.Timori che si erano acuiti allor-ché apparve chiaro che la paritàstrategica fra le superpotenze,codificata dagli accordi sulla li-mitazione degli armamenti nu-cleari strategici Salt I e quelliSalt II in via di definizione, po-tesse determinare un effettivodecoupling allargando le differen-ze fra gli arsenalidelle due parti nelteatro europeo. Adenunciarne il ri-schio fu il cancel-liere tedesco Hel-mut Schmidt inun discorso pub-blico rimasto cele-bre, con cui egli volle in partico-lare mettere l’accento sulla ne-cessità di includere nelle tratta-tive con i sovietici anche le forzesub-strategiche di teatro. Sem-pre Schmidt fu protagonista diun duro scontro con Carter, cheaveva per oggetto l’introduzionedella bomba al neutrone o a ra-diazione rinforzata (Erw), conce-pita per un suo uso sul campo dibattaglia, specie contro forze co-razzate, con effetti tali da nonprovocare danni permanenti alterritorio e alle popolazioni civi-li. La riluttanza manifestata da-gli alleati della Nato convinseCarter ad accantonare il progettonel 1978 ma nel contempo in-crinò la loro fiducia nel presi-

dente americano e, in particola-re, nella sua capacità di afferma-re una leadership credibile nel-l’ambito dell’Alleanza. Tali problematiche, unitamenteall’allarme accresciuto dalloschieramento degli SS-20, cheavrebbe ulteriormente messo arepentaglio il collegamento fra ledifese europee e le forze nuclearistrategiche degli Stati Uniti (po-sto che la Nato non disponeva al-lora di vettori di analoga gittatae precisione), spiegano perchél’Alleanza scelse di optare per lospiegamento dei Pershing e dei

Cruise. La decisio-ne “a doppio bina-rio” che venneadottata e che pre-vedeva la disloca-zione in Europadei missili e con-testualmente l’av-vio di negoziati

con Mosca per la limitazione de-gli armamenti di teatro, uscì dalvertice a quattro alla Guadalupanel gennaio 1979 e prese le mos-se da una proposta fatta dal pre-sidente francese Giscard nel ten-tativo di superare le resistenze diSchmidt e di conciliare le posi-zioni divergenti di coloro cheavevano preso parte all’incontro,ossia, oltre a Schmidt, di Carter edel premier britannico Callaghan. Significativamente, nello stessovertice, in cui fu esclusa l’Italia,il cancelliere tedesco caldeggiò lacosiddetta clausola della “non-singolarità” della Germania, inbase alla quale il paese avrebbeaccettato di schierare i missili so-lo se a questa scelta avessero ade-

QUEL CHE RESTA DI REAGANMassimo Amorosi

Nel 1978 gli Stati Unitirinunciarono alla bomba al neutrone per il forte contrastocon la Germania ovest

rito altri governi dell’Europacontinentale. La posizione italia-na, in questa circostanza, si rive-lò determinante, dato che al mo-mento della decisione dell’Alle-anza, se si esclude la Gran Breta-gna, gli altri due paesi candidati,vale a dire il Belgio e l’Olanda,erano apparsi molto incerti al ri-guardo. L’unico distinguo era da-to dalla richiesta avanzata da Ro-ma sin dalle prime fasi del nego-ziato per lo spiegamento dei mis-sili, che riguardava la loro ge-stione congiunta secondo il mec-canismo della “doppia chiave”sulla falsariga diquanto era statofatto con i Jupiterdispiegati in Pu-glia nei primi an-ni Sessanta, disco-standosi dalla vo-lontà tedesca dilasciare il control-lo delle armi alle sole forze arma-te americane.In sostanza, dal momento che lascelta tedesca era appesa ad unfilo, fu proprio l’iniziativa italia-na ad aver sbloccato l’impasse ereso attuabile l’intero disegnoatlantico. Tutto ciò non senza ri-percussioni sulle dinamiche po-litiche italiane e nonostante leproteste inscenate contro l’in-stallazione delle nuove armi, acui non furono immuni neppurealtre nazioni dell’Europa occi-dentale. Complessivamente, laposizione di prima fila assuntadal nostro paese sulla vicendadegli euromissili coincise con unrinnovato attivismo in politicaestera, scandito anche dalla par-

tecipazione italiana alle due spe-dizioni multinazionali in Libanofra il 1982 e il 1984.Se fu il governo del repubblicanoSpadolini ad approvare la deci-sione di installare i 112 missiliamericani BGM-109 Gryphon edei relativi lanciatori assegnatiall’Italia nell’aeroporto VincenzoMagliocco di Comiso, in Sicilia,toccò al primo esecutivo guidatoda un socialista nella storia del-l’Italia repubblicana pronunciarsisull’attuazione della decisionedel 1979. Bettino Craxi si dimo-strò capace, in particolare, di tro-

vare un delicatoequilibrio fra la fe-deltà alle scelteatlantiche e la ri-cerca di spazi ne-goziali con i sovie-tici, seppur angu-sti in quella fase,non lesinando le

proprie energie in una febbrileattività diplomatica che lo portòsia a visitare le principali capitalieuropee sia a intrattenere una fit-ta corrispondenza con Reagan eil segretario del Pcus Andropov. I tentativi intrapresi da Craxi diampliare i margini di flessibilitàdella Nato si scontrarono peròcon la rigidità sovietica: il presi-dente del Consiglio italiano, nona caso, era rimasto negativamen-te sorpreso dalla chiusura oppo-sta da Andropov alla disponibili-tà di Reagan di attestare il di-spiegamento dei missili alleati aldi sotto del tetto stimato di 420testate degli SS-20, rinunciandoa controbilanciare per intero loschieramento sovietico, posto che

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L’impegno in prima fila dell’Italia sugli euromissili rilanciò il nostro ruolo a livello internazionale

tale proposta era per Mosca senzadubbio più attraente della cosid-detta “opzione zero” precedente-mente formulata dal presidenteamericano. Quest’ultima richie-deva lo smantellamento totaledegli SS-20 in cambio della ri-nuncia a dispiegare i Pershing e iCruise. Anche in quell’occasione,la dirigenza sovietica rimase ar-roccata sulla richiesta del pareg-gio dei vettori sovietici con i si-stemi nucleari posseduti da Pari-gi e Londra. Le esternazioni diCraxi a Lisbona (in cui dichiaròche “i missili francesi e inglesinon sono sulla Luna”) miravanoproprio a persuadere i sovietici arinunciare alla loro linea pregiu-diziale e a negoziare con la Natoun equilibrio concordato delleforze di teatro al più basso livellopossibile, laddove l’obiettivoprincipale restava quello di per-venire all’“opzione zero” se Mo-sca si fosse convinta che le arminucleari francesi e britannichedovessero essere annoverate in se-de di trattative fra le armi strate-giche. Solo allora gli alleatiavrebbero proceduto a sospende-re lo schieramento programmatodei missili.La ragionevole mossa del leadersocialista non era d’altronde incontraddizione con l’interesse oc-cidentale di scongiurare il rischioche il conteggio dei sistemi fran-co-britannici avvenisse in rela-zione alle trattative sulle forzeintermedie. Sul punto, va ricor-dato che l’impostazione di Mo-sca, ribadita anche da Breznevnel 1980, era quella di ritenereche le forze nucleari francesi e

britanniche avessero natura stra-tegica e non dovessero quindi es-sere comprese nei negoziati sulleforze di teatro, posizione tuttaviaradicalmente capovolta due annipiù tardi da Andropov.Alla fine, quelle dichiarazioni,con cui Craxi da un lato ritaglia-va all’Italia uno spazio di mano-vra nei rapporti fra est e ovest edall’altro cercava di far emergerepalesemente a quale parte eranoda imputare le responsabilità perlo stallo nelle trattative, risulta-rono il vero punto di iniziodell’Ostpolitik del governo a gui-da socialista, le cui premesse era-no state precedentemente gettatedall’esecutivo presieduto da Cos-siga con la fondamentale apertu-ra ad accogliere le sollecitazionidel cancelliere Schmidt sull’op-portunità di non lasciare sola laGermania federale nel disloca-mento dei missili. Un’iniziativatattica e ben ponderata quella diCraxi ma che non riuscì ad aprireun varco nel muro opposto daisovietici. Fra il marzo e l’apriledel 1984, i primi Cruise infattisarebbero stati operativi nella ba-se di Comiso.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANMassimo Amorosi

massimo amorosi

Analista strategico-militare, ha collaborato

con il ministero degli Esteri e la commissione

Difesa del Senato. Ha scritto, con Germano

Dottori, La Nato dopo l’11 settembre. Stati

Uniti ed Europa nell’epoca del terrorismo glo-

bale (Rubbettino). Collabora con riviste di

geopolitica e analisi militare.

L’Autore

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Quella della Guerra Fredda èstata per Ronald Reagan una“splendida vittoria geostrategi-ca”, ottenuta, per di più, in mo-do relativamente pacifico e senzaricorrere all’uso delle armi nu-cleari. Questo è il maggior suc-cesso della presidenza Reagan inpolitica estera secondo JohnHulsman, uno dei più autorevoliesperti di relazioni fra Stati Uni-ti ed Europa. Attualmente seniorresearch fellow del Centro di studistrategici de l’Aia, Hulsman si èoccupato, fra l’altro, di relazioniinternazionali per l’HeritageFoundation a Washington, ha in-segnato Studi sulla sicurezza eu-ropea alla Scuola di studi inter-nazionali avanzati Johns Hopkins.È anche autore di numerosi sag-gi di natura geopolitica, fra iquali ricordiamo Ethical Realism:

a vision for America’s role in theworld.

Il presidente Reagan ha dedicato tempoe sforzi all’Europa. Durante la sua presi-denza, infatti, il nostro continente era loscacchiere sul quale si decidevano gliequilibri e i rapporti di forza globali. Co-me descriverebbe la politica europea diRonald Reagan?Il presidente Reagan è stato sottomolti aspetti una rivelazione. Lesue capacità politiche sono statemolto sottovalutate, gli europeisembrano considerare stupiditutti i presidenti repubblicani,Ford, Nixon, Eisenhower. Questaè un difetto di analisi terribile,perché, comunque si valuti la suapolitica – e io la valuto molto po-sitivamente – , il presidente Rea-gan è stato uno dei presidentipiù efficaci che si possano imma-

Mai presidente americano fu così sottovalutato e incompreso dagli europei. Eppure fu proprio Ronald Reagan a intuire prima di tutti che l’Unione Sovietica, nonostante gli sfoggi di forza,era ormai alle corde. E fu lui a dare la spallata definitivaad un sistema ormai marcio.

La più bella vittoriadi Ronald Reagan

La politica per l’Europa

INTERVISTA A JOHN HULSMAN DI BARBARA MENNITTI

QUEL CHE RESTA DI REAGANintervista a John Hulsman

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ginare. In realtà Ronald Reaganera un grande giocoliere, questoè uno dei principali segreti dellasua politica. Intanto è stato mol-to più duro con l’Unione Sovieti-ca dei suoi predecessori. Egli la-vorò su due livelli: da una partelasciò in piedi gli accordi che giàesistevano, continuando a dialo-gare e cercare un terreno d’intesacon i sovietici; dall’altra, nei di-scorsi pubblici, ha sempre evi-denziato che esistevano delle dif-ferenze morali fra l’Occidente e ilmondo comunista, che nonostan-te tutti i suoi difetti, quello occi-dentale era un sistema di granlunga migliore e in questo mododava speranza a tutti i dissidentisparsi per l’Europa orientale. Ri-teneva anche che fosse molto im-portante coinvolgere gli alleati,perché, per quanto forti e potentisiano gli Stati Uniti, non poteva-no vincere la Guerra Fredda dasoli. Quindi il presidente avevadue immagini fra loro contra-stanti, da una parte estremamen-te duro e dall’altra molto prag-matico. Il suo slogan era “Trust,but verify”, come dire: «Presiden-te Gorbaciov è bellissimo sentir-le dire queste cose, ma bisognaverificarle». Questo miscuglio dipragmatismo e di idealismo èstata la grande peculiarità diReagan ed ha funzionato in ma-niera straordinaria.

Infatti in Europa tutti ricordano il famo-so discorso del 1987 davanti al Muro diBerlino, quando il presidente Reaganesortò il suo omologo sovietico Gorba-ciov a “buttare giù questo muro”. Moltiritengono che quello sia stato il punto di

non ritorno che ha segnato la vittoriacontro “l’impero del male” dell’UnioneSovietica. Qual è la sua opinione?Questo è l’esempio perfetto di co-me Reagan riusciva ad essere pra-tico e simbolico allo stesso tem-po. Quando Gorbaciov arrivò alpotere in tutto il mondo scoppiòla Gorbymania. Se finalmente i so-vietici avevano un leader non cri-minale come Stalin, si pensava,forse significava che quel sistemasi stava evolvendo. Il presidenteamericano, invece, riteneva che sitrattasse di un ottimismo ancheun po’ pericoloso e lo espresse nelfamoso discorso. Lì è entrato dav-vero in gioco l’attore hollywoo-diano! Si può immaginare unoscenario migliore di quello? IlMuro alle spalle, Reagan lo guar-da, lo indica e dice: «PresidenteGorbaciov, se sei così bravo, vieniqui e buttalo giù». È un ottimoesempio di quanto dicevo prima.Dal punto di vista pratico, Rea-gan sapeva che l’Unione Sovieticabarcollava e che, dopo il grandeazzardo della guerra allo spazio,Gorbaciov aveva spiegato ai suoicolleghi anziani che non si pote-vano più spendere soldi per stareal passo con gli americani. Quin-di si esercitava pressione sui so-vietici sia concretamente chesimbolicamente con il discorsodel Muro. In questo modo Rea-gan è riuscito a conciliare le spin-te idealiste della politica esteraamericana, in un certo senso la vi-sione wilsoniana, con la visionepiù realista, la Realpolitik di Kis-singer, Nixon e Eisenhower. E ilgrande fascino di Reagan è statoproprio quello di mettere insieme

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queste due forze, che prima di luinessuno era riuscito a coniugare.

Alcuni critici, invece sostengono chel’Unione Sovietica era comunque unsistema marcio che sarebbe crollatoda solo.Ma questa è la visione determini-stica del mondo, che è semplice-mente il modo in cui funziona lastoria. Il sistema era marcio, maqualcuno doveva dargli la spinta.Visto che la porta era marcia,Reagan ha dato la spinta. Ha ca-pito che l’implosione relativa-mente pacifica di una superpo-tenza che aveva assassinato la suastessa gente si poteva raggiunge-re senza ricorrere alle armi nu-cleari. Che splendida vittoriageostrategica! E proprio perché èandata a finire così bene, è moltofacile dopo dire che doveva finireper forza così. Ma la storia nonfunziona così, non ci sono coseche devono succedere per forza.Servono persone per fare la storiae il presidente Reagan lo ha capi-to e ha fatto la storia.

L’Europa era importante solo per laGuerra Fredda?C’erano ovviamente anche altreragioni. Per il Partito repubbli-cano l’economia è estremamenteimportante e l’Europa era e rima-ne il principale investitore stra-niero negli Stati Uniti, quellocon cui abbiamo i legami com-merciali, politici e militari piùstretti. Reagan però rintracciavaun ulteriore livello: i paesi del-l’Europa occidentale erano de-mocratici, applicavano lo Statodi diritto, credevano nei diritti

umani fondamentali. Vedeva cheavevamo dei legami concreti, maanche dei legami morali e tuttiandavano nella stessa direzione.Quindi, è vero, l’Europa era im-portante per motivi geostrategi-ci, ma Reagan apprezzava e giu-dicava importanti anche questilegami morali.Le faccio un esempio: durantel’attentato dell’11 settembre2001 ero a Washington, alla He-ritage Foundation, e ricordo che,dopo aver parlato con i miei col-leghi democratici della Broo-kings Institution, istintivamenteho chiamato i miei amici in Eu-ropa. Ero sotto shock, non avevoavuto il tempo di pensare, ma lamia reazione istintiva è stataquella di parlare con gli europeiper scambiare alcune opinioni:abbiamo gli stessi valori e abbia-mo lavorato insieme per sessan-t’anni. Non abbiamo questo rap-porto con nessun altro al mondo.

C’era qualche politico italiano con cuiReagan aveva un rapporto particolare?Nessuno in particolare. Reaganapprezzava molto come l’Italiaaveva fronteggiato il terrorismonegli anni Settanta ed era moltodifficile perché si trattava di unterrorismo interno, come in Ger-mania. La complessità della poli-tica italiana forse si è tradotta nellavorare pragmaticamente contutti. Ma Reagan ha fatto nascerel’idea che la destra europea dove-va farsi avanti e parlare con unasola voce, unificando i valori e imercati e spiegando che le duecose andavano insieme. Ed era co-stantemente alla ricerca di perso-

QUEL CHE RESTA DI REAGANintervista a John Hulsman

ne in Europa che condividesseroquesta visione. Un’eredità che halasciato ai repubblicani.

Reagan è stato importante anche per lamodernizzazione della destra italiana,che grazie a lui ha iniziato a incorporarealcuni elementi di liberismo e liberali-smo. Ricordiamo che la destra del no-stro paese proveniva dal fascismo, ave-va dei retaggi di antiamericanismo edera in gran parte centralista anche ineconomia.Sì, certo. Il presidente Reaganpensava che fosse ora di cambiarepagina e di mettersi a costruireuna nuova destra in Italia, che sibasasse sui valori, sui mercati,sulla libertà individuale, sullaimprenditorialità, sui dirittiumani, sulla sacralità del lavoro edegli sforzi individuali. E questapuò essere una cosa emotivamen-te e moralmente molto positiva,soprattutto per un paese comel’Italia, dove, come lei diceva, ladestra aveva sofferto il fascismo.Era un meraviglioso salvagenteper gli europei superare la storia eguardare alle cose che univano ladestra in un modo ideologica-mente coerente. E anche in gradodi attrarre consensi.

La sensazione è che oggi l’Europa abbiaperso il suo ruolo centrale nella politicaestera americana. È così? E perché?Sì, non c’è dubbio che sia così.Di solito i presidenti americanisi dedicano alla politica internaprima delle elezioni di mid term,anche Reagan ha operato i taglifiscali e i grossi cambiamenti neiprimi tre anni e poi si è dedicatoalla Guerra Fredda. Seguirà que-

sto modello anche il presidenteObama, ma non guarderà all’Eu-ropa, questa è la differenza. Ri-volgerà la sua attenzione ai paesidel Bric, all’India, alla Cina, alprocesso di pace in Medio Orien-te (e noti bene cosa non sto men-zionando) e questo è un allonta-namento definitivo. DopotuttoObama, al contrario di altri pre-sidenti, non ha legami diretticon l’Europa. La Cina diventerà,dunque, sempre più importante,così come il cerchio dell’OceanoIndiano. I legami con l’Europa siallenteranno, ma non è detto chesia una catastrofe. L’Europa è ilprimo investitore straniero negliUsa e lo rimarrà fin quando è da-to di prevedere, la Nato rimarràl’alleanza più forte del mondo,abbiamo collaborato per ses-sant’anni e nessuno vuole buttareil bambino con l’acqua sporca.Credo che sia molto importantecredere nell’eredità del transa-tlantismo, perché se è vero che laCina e il cerchio dell’Oceano in-diano diventano importanti, noicontinuiamo a contare sulle rela-zioni transatlantiche che restanola fonte principale di forza e disostegno e di influenza per gliStati Uniti.

Quindi sbaglia chi in Europa teme che siinstauri una relazione privilegiata fraUsa e Cina, il cosiddetto G2, che finiscaper escludere tutti gli altri paesi?Sì, penso che sia un timore esage-rato. Probabilmente la popolazio-ne cinese diventerà vecchia primadi diventare ricca e probabilmen-te nel 2020 gli imprenditori in-diani avranno superato i cinesi, e

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questo già archivia il G2. E co-munque sarebbe una cosa che ta-glierebbe fuori l’Europa, il Brasi-le, il Sudafrica, la Turchia e il re-sto del mondo. Non è così facile.Certo, la Cina sta crescendo e saràuna grande potenza e gli Usa do-vranno occuparsi di lei. Ma con-centrarsi sulla Cina dimenticandoil resto del mondo sarebbe unapolitica estera stupida.

Ma alla fine, qual è secondo lei il mag-gior successo della vita politica di Ro-nald Reagan?In realtà la guerra fredda fu vintada due presidenti che compreseroalcune cose fondamentali. En-trambi provenivano dal Midweste non è stata loro riconosciuta al-cuna gloria intellettuale, puravendo passato la vita intera apreoccuparsi del mondo: sto par-lando di Harry Truman e RonaldReagan. I due capirono in che di-rezione stava andando la storia.Ma la storia non sarebbe andatain quella direzione se non ci fossestato qualcuno a spingerla inquella direzione. Entrambi riu-scirono a creare un saldo frontecontro la Guerra Fredda. Trumanriuscì a mettere d’accordo destrae sinistra politica, mentre Reaganmobilitò l’opinione pubblica,spingendo i cittadini a chiederepolitiche più dure. Oggi molti lohanno dimenticato, ma questidue presidenti si sono rimboccatile maniche e sono riusciti a fartrionfare la politica estera ameri-cana. E Ronald Reagan è quelloche ha messo fine alla GuerraFredda, dando la spallata alla por-ta marcia e facendola crollare.

barbara mennitti

Direttore responsabile di Charta minuta.

Giornalista, è stata direttore del quotidiano

online Ideazione.com. Collabora con Ffweb-

magazine.

L’Autore

john hulsman

Senior research fellow presso il Centro di studi

strategici de l’Aia e membro permanente del

Council on Foreign Relations, John C. Hulsman

è presidente e cofondatore della John C. Hul-

sman Enterprises, azienda di consulenza sui ri-

schi politico-economici nel campo delle relazioni

internazionali. è stato Senior research fellow in

relazioni internazionali presso l’Heritage Foun-

dation e fellow in studi europei presso il Centre

for Strategic and International Studies a Washin-

gton. Ha insegnato Studi sulla sicurezza euro-

pea presso la Johns Hopkins School of Advan-

ced International Studies e Politica mondiale e

Politica estera americana presso l’Università St.

Andrews in Scozia. Commentatore ed editoriali-

sta per testate ed emittenti televisive internazio-

nali, ha all’attivo diverse pubblicazioni, fra cui

Ethical Realism: a Vision for America’s Role in

the World (2006), The Godfather Doctrine: a Fo-

reign Policy Parable (2009), To Begin the World

over again; Lawrence of Arabia, from Damascus

to Baghdad (2009).

L’intervistato

QUEL CHE RESTA DI REAGANintervista a John Hulsman

75«Mr. Gorbaciov, raggiungici aquesta porta. Mr Gorbaciov, apri-la! Mr. Gorbaciov butta giù que-sto muro!». Così, il 12 giugno1987 Ronald Reagan si rivolgevadalla Porta di Brandeburgo al se-gretario generale del Partito co-munista sovietico di fronte aduna folla di 50mila persone. Al-l’apogeo della Guerra Fredda ilpresidente della maggiore poten-za mondiale parlava dal confinedi quello che lui stesso aveva de-finito essere “l’impero del male” egettava il guanto di sfida finaleoltre la cortina di ferro. Due annidopo la storia gli avrebbe dato ra-gione, anche se la Porta di Bran-deburgo non sarebbe stata apertaper una decisione politica delCremlino, bensì avrebbe cedutosotto la pressione delle masse po-polari dell’Europa dell’est la cuivoglia di libertà e di benesserenon poteva più essere arrestata

dalle guardie di frontiera e dal fi-lo spinato. Il modello comunistadell’Unione Sovietica e dei suoisatelliti era giunto al collasso,imploso sulle sue drammatichecontraddizioni interne provocatedalla sfida globale mossagli dagliStati Uniti del presidente Rea-gan. Ma se il fatidico ‘89 giunseproprio nel 1989, e non dieci do-po o addirittura mai, si deve rico-noscere che gran parte del meritopolitico proprio al presidente-cowboy e a quella che molti hannovoluto chiamare Dottrina Reagannelle relazioni internazonali, mache in realtà rappresenta l’appli-cazione coerente e costante di unmisto di idealismo e realismo eche può essere definito come unageopolitica dell’ideologia. Sosti-tuire la dottrina realista del con-tenimento dell’impero sovieticocon una strategia globale di con-trasto attivo alla minaccia in

Abbandonando la fase di contenimento dei realisti,l’Amministrazione Reagan inaugurò un nuovoapproccio alla politica estera, basato sull’obbligostrategico e morale del roll-back del comunismodal sistema internazionale.

Idealismo e realismoper la politica estera

Dottrina Reagan

DI PAOLO QUERCIA

QUEL CHE RESTA DI REAGANPaolo Quercia

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espansione del comunismo inter-nazionale ha rappresentato unadelle più significative attualizza-zioni portate da Reagan alla poli-tica estera statunitense. Il presi-dente Usa ha avuto il grande me-rito storico di capire che gli anniOttanta sarebbero potuti esseregli anni del potenziale collassodel sistema imperiale sovietico eche, per favorire questo processo,era necessario portare la sfidaideologica su ogni quadrantegeopolitico, dall’America Latinaall’Africa, all’Asia, all’Europaorientale. La politica estera diReagan si è fonda-ta e realizzata sullafusione e sullaideologizzazionedi due concettiimportanti nel si-s tema po l i t i coamericano, quellodi libertà e quellodi sicurezza. La grande operazio-ne culturale negli anni Ottantareaganiani è stata quella di colle-gare in maniera stretta il rilanciodell’economia del paese, resa pos-sibile da una politica economicadi ampie riduzioni fiscali, con lanecessità internazionale di scon-figgere la negazione di tale mo-dello economico, ovverosia il co-munismo internazionale. Il colle-gamento libertà economica inter-na-sicurezza internazionale non èmai stato così stretto come du-rante la presidenza Reagan, comeè dimostrato anche dall’impulsoregistrato in quegli anni nel set-tore dell’industria di sicurezza edifesa. E come spesso accade nellapragmatica e mutevole politica

estera statunitense, per vincere laGuerra Fredda era necessario in-cludere, trasformandoli ed inse-rendoli in una visione coerente edil più possibile onnicomprensiva,tutte le principali forze vive chenella società americana sottendo-no alla politica estera Usa, legan-dole nello sforzo di vincere ilgrande impero del male, garanti-re allo stesso tempo gli interessinazionali di sicurezza e, nel perse-guire questo grande disegno disicurezza e libertà, aprire le portedel mondo “liberato” al sistemaeconomico americano. Ciò è stato

fatto da RonaldReagan a partire daun approccio poli-tico di destra so-s t a n z i a l m e n t ejacksoniano, carat-terizzato da un pa-triottismo popola-re di massa, ten-

denzialmente scettico ed isolazio-nista e che lascia poche concessio-ni alla politica estera, ritenutaspesso un intuile spreco di risorsesenza un vero collegamento con ilbenessere reale del paese. Era ne-cessario, dunque, che Reagan co-struisse, in una situazione storicafavorevole, un grande nuovo dise-gno di interventismo americanoche identificasse nella fase termi-nale della Guerra Fredda unanuova finestra di crisi/opportuni-tà per gli Usa. Una nuova sfidaglobale capace di spiegare alla na-zione americana come fosse ne-cessario combattere il comuni-smo internazionale da Grenadaall’Angola, passando per il Nica-ragua e l’Afghanistan e farlo non

La politica estera di Reagan si fondasulla fusione dell’ideadi libertà con quelladella sicurezza

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tanto in nome degli interessi geo-politici o di un freddo realismopolitico quanto piuttosto nel no-me dell’ideologia della libertà edella prioritarizzazione della si-curezza. Lo fece con il minimo ri-corso allo strumento militare di-retto, con una grande corsa agliarmamenti e con un ampio utiliz-zo del sostegno economico e poli-tico ai nemici regionali del suonemico strategico. Nel fare ciòReagan fa appello, in manieranon priva di contraddizioni, aduna dimensione morale dellaGuerra Fredda e alla necessità eti-ca di combattere ilcomunismo; e dicombatterlo nonsolo nel nome dellasalvaguardia degliintertessi di sicu-rezza americani maanche dei dirittide l l ’uomo, chevengono riscoperti e sottratti alruolo secondario in cui spesso ca-dono quando prevale un approc-cio puramente realista alle rela-zioni internazionali. Interventi-smo militare, ideologia della li-bertà, realismo etico, patriotti-smo economico sono tutti ingre-dienti che conflusicono nella po-litica estera americana dell’eraReagan. Questa politica ha com-portato anche la necessità di com-piere scelte innovative rispetto alpassato. L’aver ridato particolarevalore ai diritti dell’uomo nellescelte fondamentali di politicaestera su scala globale implicavaanche un certo necessario revisio-nismo di alcune relazioni statuni-tensi con molti regimi autoritari

del Terzo Mondo, portando al di-stanziamento dell’amministrazio-ne Reagan dal Cile di Pinochet,dal regime sudafricano dell’apar-theid o dalle Filippine di Marcos. Naturalmente questi cambia-menti non si sono verificati per ilsemplice effetto del reaganismoin politica estera, ma sono ancheil prodotto necessario del diversocontesto storico in cui si è trovatoad agire il nuovo presidente ame-ricano. Il suo predecessore Carterdoveva fare i conti, tra le altre co-se, con l’eredità di una guerra an-ticomunista andata drammatica-

mente male, comefu i l Vietnam,mentre Reaganpoteva contare sulrinnovato pericolosovietico dimo-strato dall’invasio-ne dell’Afghani-stan. Sacrificando

una buona dose di realismo nelnome di una riscopertà del ruolodell’ideologia e dell’etica ameri-cana nelle relazioni internaziona-li, Reagan costruirà progressiva-mente, sullo sfondo del declinodell’impero sovietico, un nuovoapproccio alla politica estera ba-sato sull’obbligo strategico e mo-rale del roll-back del comunismodal sistema internazionale, ab-bandonando la fase del contenie-mento realista. La teoria dell’ot-tenimento della pace attraverso laforza era un concetto che potevaessere venduto bene ad un’Ame-rica che vedeva avvicinarsi l’op-portunità di usare vantagiosa-mente l’eccesso di forza della su-perpotenza mondiale americana

Sacrificando il realismoall’ideologia e all’etica,Reagan costruì un nuovo approccioalla politica estera

QUEL CHE RESTA DI REAGANPaolo Quercia

nelle aree periferiche ma strategi-che di un impero sovietico in ne-cessario declino. Un declino se-gnato dal fallimento del modellosociale ed economico sovieticoche era de facto già stato sconfitonei decenni precedenti, ma cherestava in piedi grazie al più este-so ed efficace sistema di oppres-sione dei diritti dell’uomo. Rea-gan si accorse che i tempi eranomaturi per osare di più e per rive-dere il classico atteggiamentoconservatore degli Stati che tradi-zionalmente sono portati a teme-re il vuoto e preferiscono spesso ilpeggiore dei regi-mi al rischio di in-serire anarchia ecaos nel sistemainternazionale. Fulo stesso principiodi effettività che,nello stesso tempoin cui veniva por-tata la sfida finale all’impero so-vietico, spinse l’amministrazioneReagan ad abbandonare ogni vel-leitario sostegno a Taiwan e ad af-frontare politicamente il rapportocon la Cina comunista, ove si recòin una storica visita nel 1984.Reagan non fu dunque un falcodell’anticomunismo globale, mail grande sfidante del comunismosovietico nel cui declino identifi-cò la possibilità di riscatto degliStati Uniti d’America dopol’esperienza della tragica guerradel Vietnam e l’affermazione delmodello sociale ed economicoamericano da lui rilanciato in pa-tria. Per vincere la sua GuerraFredda aveva bisogno di coniuga-re il realismo dei conservatori con

l’etica della libertà della nazioneamericana, portando la destraamericana ad assumersi l’oneredelle grandi sfide globali, dimo-strando agli americani che pote-vano vincere perché erano più for-ti. Ed erano più forti perché eranopiù liberi. L’Unione Sovieticanon fu sconfitta in una disastrosaguerra, ma in una campale sfidaideologica per i cuori, le menti edil benessere materiale. La corsaagli armamenti rappresentò soloil terreno in cui dimostrare l’in-capacità del modello totalitariosovietico di poter produrre più

potenza di quantapotesse essere ge-nerata da quellafrazione minimaledelle proprie risor-se che uno Stato li-berale e minimodedicava alla com-petizione militare,

lasciando nel contempo godere aipropri cittadini le massime liber-tà politiche ed economiche. Co-me ogni grande presidente ame-ricano riuscì a cogliere lo spiritodei tempi e a mescolare nelle giu-ste dosi quegli elementi fonda-mentali di ogni politica estera,realismo, idealismo, potenza mi-litare, tensione morale, forza eco-nomica, soft power. Sarà sempre ri-cordato come the man who beatcommunism e, come spesso accade,la sua esperienza politica è irripe-tibile, perché irripetibile è la fasestorica in cui essa è maturata. An-che se ancora oggi nella politicaamericana continuano ad usarsi leetichette di reganiano o di anti-reganiano, nessuno dei presidenti

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Reagan identificònella sfida al comunismoun possibile riscatto per gli Stati Unitidopo il Vietnam

successori, che hanno tutti co-struito le proprie fortune o sfor-tune proprio sul mondo reso pos-sibile dalla vittoria dell’Americadi Reagan sul comunismo sovie-tico, ha seguito l’esempio traccia-to da Ronald Regan. Non furonoreganiani Bush senior e Bill Clin-ton, presidenti degli anni Novan-ta ossessionati dalla supremaziaamericana e desiderosi di esporta-re, anche con il ricorso alla forzamilitare, il sistema liberal-demo-cratico, costruire un proprio nuo-vo ordine internazionale, detro-nizzare un tiranno infedele, pro-teggere una selezionata e privile-giata minoranza nazionale. Tuttociò in assenza di un grande nemi-co strategico capace di minacciareinteressi vitali americani e che so-lo avrebbe potuto dare un sensodi necessità etica superiore o diinteresse strategico nazionale aquel specifico regime change, allacaduta di quello specifico tiran-no, alla protezione di quella spe-cifica minoranza. Ma non fu rega-niano neanche George W. Bush,il presidente dell’11 settembre,che tentò di giustificare e di riat-tualizzare l’interventismo milita-re degli anni Novanta con la nuo-va pallida veste di guerra globaleal terrore. Potrebbe paradossal-mente dimostrarsi più reganianadelle precedenti la fin qui scialbae confusa presidenza Obama, so-prattutto se la svolta a destra nel-le ultime elezioni di midterm pro-durrà cambiamenti siginficativinella linea politica del presidenteUsa. Non vivono oggi gli Usa néle sfide strategiche bipolari deglianni Ottanta, né le apparenti vi-

sioni di onnipotenza unipolaredegli anni Novanta, né il dram-matico mondo asimmetrico delpost 11 settembre. Vivono peròuna nuova fase di potenziale de-clino del ruolo americano nelmondo, in cui nuove potenzeemergenti o di ritorno contestanoda più parti il primato geopoliti-co statunitense. Anche questa èuna sfida strategica che meritauna ricomposizione della forza edelle potenzialità della societàamericana in un’unica visionecoerente che riesca a contribuirealla creazione di un sistema inter-nazionale. Un sistema che sia ba-sato sul bilanciamento dei rap-porti di forza tra Occidente emondi emergenti piuttosto chesul declino del primo a beneficiodei secondi, lungo il piano incli-nato di un mondo piatto. È unasfida reaganiana per un presiden-te democratico.

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paolo quercia

Analista di relazioni internazionali ed esperto

di questioni di sicurezza. Consulente del Cen-

tro alti studi di difesa, è responsabile degli Af-

fari internazionali della fondazione Farefutu-

ro.

L’Autore

QUEL CHE RESTA DI REAGANPaolo Quercia

Dicono che fosse stato colpitomolto positivamente fin dalleprime immagine viste in tv du-rante la visita pastorale in Messi-co nel 1979, con le sue forti pa-role contro la teologia troppo vi-cina al marxismo. Lo aveva capi-to dalle sue origini e dalla suaesperienza personale, imbevutadella storia di un popolo scalpi-tante di riottenere la libertà dalgiogo sovietico. Lo aveva intuitodalle violente reazioni della no-menklatura russa il giorno dellasua elezione al soglio di Pietro.L’allora governatore della Cali-fornia Ronald Reagan, poi futuropresidente degli Stati Unitid’America, ebbe fin dall’iniziouna particolare sintonia con ilpapa “venuto da lontano”, Gio-

vanni Paolo II. Entrambi si tro-varono, senza un piano prestabi-lito e programmato, a combatte-re lo stesso nemico: il sistema co-munista sovietico. Entrambi sitrovarono sulla stessa lunghezzad’onda nel cercare tutti i mezzileciti per abbattere quel regime.Entrambi si smarcarono l’un l’al-tro nel momento di portare avan-ti le proprie idee, in nome dei ri-spettivi popoli: quello americanoe quello di Dio. Per motivi di-versi, entrambi ebbero una visio-ne che si potrebbe dire profeticadella storia, avendo visto e com-battuto fin dall’inizio del loro ri-spettivo mandato quell’iniqua eassurda impalcatura ideologicache aveva creato tanta sofferenzae ingiustizia. Così negli anni Ot-

DI MICHELE TRABUCCO

I rapporti con il Vaticano

Due uominicon un solo obiettivo

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Ronald Reagan e Giovanni Paolo II si trovarono accanto a fronteggiarelo stesso avversario: il comunismo

sovietico. Due protagonisti a cui la storiaha dato ampiamente ragione.

QUEL CHE RESTA DI REAGANMichele Trabucco

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tanta ci furono momenti in cui ilpresidente Reagan e papa Wojty-la si trovarono alleati e conver-genti e altri in cui furono distan-ti e diversi. Certamente furono idue uomini che, più di altri,contribuirono al collasso del-l’Unione Sovietica, ed effettiva-mente furono complici: una for-tuna per decine di milioni di cat-tolici oppressi al di là della Cor-tina di Ferro, e non solo per loro.La terra natale del papa, la Polo-nia, fu il principale terreno d’in-contro tra “i due imperi paralle-li”, così come Massimo Franco liha definito nel suoultimo libro .La politica esteradi Reagan e quel-la di GiovanniPaolo II si incon-trarono ufficial-mente il 7 giugno1982 , quandoReagan ebbe udienza dal Papa euna politica comune nei confron-ti della Polonia fu, in un certosenso, formalizzata. Il vicesegre-tario di Stato William Clarkespose ai funzionari del Vaticanoquale fosse la linea politica uffi-ciale statunitense nei confrontidel regime di Varsavia: fermezzanella condanna della repressione,ma mantenimento di un canaledi trattativa aperto, per evitareche Jaruzelski si spingesse ulte-riormente nelle braccia dell’Urss.Una politica che era stata bensintetizzata da Reagan nella suadichiarazione rilasciata il 7 giu-gno 1982: «Attraverso secoli disofferenze, la Polonia è semprestata un bastione della fede e del-

la libertà, per il cuore della suagente, ma non per quello di chila governa. Noi auspichiamo unprocesso di riconciliazione e ri-forma che faccia sorgere una nuo-va alba per il popolo polacco».Cooperarono veramente? Dal 1981 al 1989, vi fu una cer-ta, indiretta cooperazione fra Ciae Vaticano per proteggere la dis-sidenza in Polonia. Questo èquanto si deduce dalle testimo-nianze raccolte dal giornalistastatunitense Peter Schweizer.Appena insediatosi alla CasaBianca, Reagan si convinse che

sarebbe stato Gio-vanni Paolo II adeterminare il fu-turo della Polonia.Lo aveva intuitoper vari motivi:vedendo milionidi polacchi cheerano accorsi ad

accogliere il pontefice nel corsodella sua prima visita oltre-corti-na, ascoltando il discorso del pa-pa in Messico contro la teologiadella liberazione (la branca dellaChiesa più vicina al marxismoche in Nicaragua appoggiava ilregime comunista e nel Salvadorera dalla parte della guerriglia fi-losovietica) e soprattutto leggen-do le pubblicazioni cariche diodio nei confronti del Vaticanoche venivano diffuse dal regimesovietico, come il pamphlet Alservizio dei neofascisti, diffuso inUcraina, che attaccava frontal-mente il nuovo pontefice con pa-role di fuoco e argomenti cospi-rativi: «Revanscisti e nemicidella democrazia e del sociali-

Reagan era convintoche Giovanni Paolo IIsarebbe stato determinante nel futurodella Polonia

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smo guardano con speranza alnuovo papa per il suo sforzo diriunificare i cattolici di tutto ilmondo in un’unica forza antico-munista. E questo non è dettatodall’ansia per il futuro dell’uma-nità, ma per imporre l’autoritàreligiosa in tutto il pianeta».La storia delle relazioni diploma-tiche tra Santa Sede e Stati Unitid’America a partire dalla fine delXVIII secolo è segnata da rap-porti conflittuali: amore e odio,attrazione e indifferenza, stima ediffidenza. Due realtà che si cer-cano e si studiano da lontano finoa incontrarsi defi-nitivamente con lostabilimento di re-lazioni diplomati-che al più alto li-vello nel 1984,grazie all’accordotra Giovanni PaoloII e Ronald Rea-gan. In effetti il 1984 ha segnatoun momento particolare, dovutosoprattutto alla volontà di questidue grandi protagonisti del seco-lo scorso. Secondo MassimoFranco «ci fu tra di loro una con-vergenza oggettiva, non un’alle-anza, sul problema del rapportocon l’impero sovietico. In fondo,Reagan ha visto nel papa polaccouna delle massime autorità mo-rali, in grado di incidere indiret-tamente anche sul piano politicosulla caduta dell’impero sovieti-co. Si è parlato di santa alleanza,sebbene sia stata una santa alle-anza non “voluta” ma semplice-mente “accaduta”. Giovanni Pao-lo II e Reagan si sono trovati og-gettivamente alleati. Certamente

ciò consentì a Reagan di superarele ultime resistenze nel Congres-so e quindi di acconsentire final-mente all’invio di un ambascia-tore in Vaticano».Reagan arrivò alla Casa Bianca alculmine di un periodo di delu-sione della società americana,sintetizzato dalla crisi della guer-ra americana in Vietnam e dallosmacco del rapimento dei cin-quanta diplomatici dell’amba-sciata a Teheran, dando voce, inquesto modo, al bisogno di unariaffermazione dei valori patriot-tici e di un rafforzamento degli

Stati Uniti control’Unione Sovieticae il terrorismo in-t e r n a z i o n a l e .Quando venneeletto, l’attore diHollywood pre-stato alla politica,non aveva espe-

rienza di politica estera, ma cer-tamente aveva già visto con isuoi occhi la pressione intrusivadei sovietici nell’ambiente cine-matografico americano e per que-sto si era definitivamente convin-to dell’aberrazione di tale siste-ma ideologico.La sua elezione, e ciò che essa ri-chiama dal punto di vista deirapporti tra religione e politica,si inserisce in un contesto inter-nazionale di risveglio religiosoavvenuto nelle tre grandi religio-ni monoteistiche. Nel 1977 inIsraele i laburisti non riuscironoper la prima volta ad avere abba-stanza seggi per formare un go-verno. Fino a quel momento lostato d’Israele si basava su valori

Fra i due uomini vi fu una convergenzaoggettiva, non un’alleanzasu un unico problema

QUEL CHE RESTA DI REAGANMichele Trabucco

laici e socialisti. Il potere passò alpartito Likud che dipendevadall’appoggio dei partiti rappre-sentanti il giudaismo ortodosso.L’elezione di Karol Wojtyla ven-ne letta come un ritorno alla dot-trina cattolica tradizionale, so-prattutto sulla morale sessuale,con la lotta all’ateismo e tuttociò che diminuiva la dimensioneumana e religiosa dell’uomo.Durante il suo pontificato hannoavuto grande sviluppo e appog-gio i movimenti carismatici, chevolevano ripristinare nella societàsecolarizzata i valori cristiani.Anche nel protestantesimo uffi-ciale ci furono segni di rinnova-mento. Già l’elezione di JimmyCarter, un fervente battista, erain linea con questo revival, e lostesso Reagan arrivò al poterecon l’appoggio dei gruppi reli-giosi conservatori, che puntavanosu di lui per ricristianizzare lasocietà americana. La Moral Ma-jority, fondata nel 1979, fu unasocietà che concepì la sua missio-ne come riscatto dell’Americadalla depravazione dell’umanesi-mo secolare, della sregolatezza edel permissivismo sessuale. Ilmovimento incarnò la volontà diabbattere il “muro della separa-tezza” fra Chiesa e Stato. Reagan,però, dopo la sua elezione, dabuon pragmatico, deluse leaspettative di questi movimentie in qualche modo si rimangiò lesue promesse elettorali.Nel 1979, a seguito del crollodel regime dello scià di Persia,l’ayatollah Khomeini rientrò intrionfo a Teheran e proclamò lafondazione della repubblica isla-

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IL PERSONAGGIO

Il prossimo 6 febbraio cade il centesi-mo anno dalla nascita di Ronald Rea-gan. Per ricordare la figura dell’ex pre-sidente, il figlio Ron ha scritto My fa-ther at 100, uno sguardo intimo e per-sonale nella vita di uno dei più popola-ri presidenti della storia degli StatiUniti d’America. Crescendo al fianco di un uomo cosìimportante, Ron ha osservato le quali-tà che trasformano un uomo qualun-que in un leader carismatico e amato.Dalle passeggiate a cavallo alle partitedi football, dal cinema alla carriera po-litica, viene fuori un ritratto umanissi-mo di un uomo enigmatico, amato,che ha trasformato i dispiaceri e le tri-bolazioni dei primi anni in una lungaserie di successi irripetibili. Ron Reagan, poi, torna alle origini diquelle esperienze di vita che hanno co-struito il patrimonio ideale e valorialeche sarebbe diventato la guida moraledel Reagan presidente.

My father at 100Ron Reagan Viking, 2011

Mio padre centoanni dopo

mica. Per quanto emblematico,non fu un caso isolato. In MedioOriente, in Asia e nell’alloraUrss si sviluppò un Islam politi-cizzato in senso radicale. Esso ac-cusava i regimi postcoloniali didiffondere i valori degeneratidell’Occidente in nome di unamodernizzazione.Il revival religioso-conservatore,quindi, è avvenuto sullo sfondodi una crisi della modernità edelle sue attese, e Reagan ne èstato uno dei segni.Non deve sorprendere, quindi,come la religione negli StatiUniti occupi unruo lo cent ra l e ,p r o b a b i l m e n t emaggiore di quan-to non ne abbianella nostra Euro-pa odierna. Secon-do Bell, si parlapiuttosto di una“religione civile”, nel senso cheimpregna le istituzioni, e le im-pregna proprio per il fatto cheogni religione è messa sullo stes-so piano e dunque garantisce enon limita la libertà. I suoi dog-mi sono abbastanza generici: lacredenza in Dio, la credenza nel-la vita dopo la morte e la convin-zione che la virtù sarà premiata eil vizio punito. Una società buo-na si impegna anche a praticarela tolleranza religiosa. Questa re-ligione civile pervade tutta la vi-ta pubblica che esiste indipen-dentemente dall’appartenenza al-le rispettive chiese. I cittadinigodono di libertà religiosa nellaloro vita privata e nel loro impe-gno volontario. La religione civi-

le pervade la sfera pubblica, e simanifesta nelle ricorrenze delRingraziamento e del quattro lu-glio; in cerimonie come l’inse-diamento di un nuovo presiden-te. In America la religione civilefornisce un pacchetto di simboliche integrano una società diffe-renziata geograficamente, etnica-mente e religiosamente. C’è unavarietà di fedi, di persone checambiano più volte religione, co-sa che a noi sembra molto strana,ma che in America lo è moltomeno. C’è chi passa da una deno-minazione protestante a un’altra;

oppure dal prote-stantesimo al cat-tolicesimo o ancheviceversa. La reli-gione è qualcosache attraversa lostesso tessuto gio-vanile della socie-t à . Commenta

Franco: «La Chiesa cattolicaguarda a questa realtà come a unpossibile serbatoio di ispirazione,sebbene sappia bene che il catto-licesimo americano è imbevutodi protestantesimo: estremizzan-do forse un po’, si può dire che icattolici statunitensi si sentonoprima americani e poi cattolici».Guardando i discorsi di insedia-mento dei presidenti, vediamocome siano sempre impregnati dirichiami religiosi, propri di unareligione civile, piuttosto che diuna confessionale. La religiositàamericana è davvero un formida-bile catalizzatore delle differenzee fondamento dell’orgoglio pa-triottico. In effetti la nazioneamericana ha la speciale convin-

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Negli Stati Unitiesiste, come dice Bell,una “religione civile”che impregna tutte le istituzioni

QUEL CHE RESTA DI REAGANMichele Trabucco

zione e missione di liberare tuttal’umanità dalla servitù – unaconvinzione che aveva l’Inghil-terra ai tempi d’oro dell’impero.L’America è la nuova Sion, il po-polo eletto di Dio. Washingtonfu il Mosè che liberò il popolodalla schiavitù fino alla terrapromessa. Lincoln è come Cristo,si è sacrificato per il bene di tut-ti. Come Israele l’America giocaun ruolo decisivo nel piano divi-no di redenzione della specieumana. Questo tema risultò neldiscorso di Reagan del 1981, alculmine della Guerra Freddacontro quello chelui stesso definiva“l’impero del ma-le”. Sicuro che gliamericani godes-sero di più libertàdi qualsiasi altropopolo, Reaganaggiunse: «Noisiamo una nazione che ha un go-verno – non come gli altri in gi-ro. E questo ci rende speciali frale nazioni della Terra». Su que-sta visione semi-biblica dellamentalità americana, la politicaestera di Reagan divenne domi-nata dall’anticomunismo, ri-prendendo l’atteggiamento as-sunto dai suoi predecessori Tru-man, Dulles e Kennedy, descri-vendo l’Unione Sovietica come“il focolaio del male nel mondocontemporaneo”.È certo che Wojtyla abbia com-preso appieno il significato del-l’anatema lanciato da Reagancontro l’impero del male sovieti-co, avendone sperimentato diret-tamente per più di 30 anni la

perversità e inumanità. Era quin-di normale che tra i due si stabi-lisse una giusta chimica e chel’azione dell’uno influenzasse erafforzasse l’impegno dell’altro.Come analizza bene GeorgeWeigel nella sua preziosa bio-grafia di Giovanni Paolo II, Te-stimone della speranza, il Papa e ilPresidente condividevano alcuneconvinzioni.Entrambi credevano che il comu-nismo fosse un male morale, enon solo un sistema economicosbagliato; entrambi avevamo fi-ducia nella capacità degli indivi-

dui liberi di sfidareil comunismo; en-trambi erano con-vinti che la lotta alcomunismo potes-se sfociare in unavittoria , e nonsemplicemente inun compromesso;

entrambi, infine, avvertivano ladrammaticità della storia del tar-do Novecento, e credevano cheun messaggio di verità potesserompere l’equilibrio statico e fa-sullo del comunismo e scuoterela gente dal suo acquiescente sta-to di soggezione.Per alcuni aspetti – in primoluogo per formazione e spessoreculturale – sono quanto di piùdiverso si possa immaginare. Peraltri, sono sorprendentemente si-mili: grandi comunicatori, ex at-tori, sportivi, fermi sostenitoridelle proprie idee e convinzioni,bestie nere della sinistra mondia-le. Presto sono accomunati dauna drammatica esperienza: a di-stanza di un mese e mezzo, nel

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Entrambi credevanoche il comunismofosse un male morale,non solo un sistemaeconomico sbagliato

1981, sono vittime di attentatiche solo per miracolo non sorti-scono effetti mortali.Probabilmente lo stesso papa po-lacco aveva capito quale ruolofondamentale potevano svolgerela potenza e la forza degli StatiUniti. Forse non è un caso che apochi mesi dall’elezione egli fecepraticamente il suo primo viag-gio negli Stati Uniti, dopo quel-lo in Messico, che era già statoprogrammato da Paolo VI. E si-gnificative le prime parole pro-nunciate all’arrivo in terra statu-nitense: «Oggi varco la sogliadegli Stati Uniti, edi nuovo salutotutta l’America.Perché questo po-polo, dovunque sitrovi, occupa unpo s to spe c i a l enell’amore del pa-pa... Desidero direa ciascuno che il papa è vostroamico e servo della vostra umani-tà». Nel suo saluto d’indirizzonon nasconde ciò che ha nel cuo-re e dichiara apertamente: «Inquesto primo giorno della miavisita desidero esprimere la miastima e il mio amore all’Ameri-ca, per l’esperimento iniziato duesecoli fa e che porta il nome diStati Uniti d’America; per lepassate realizzazioni di questaterra e per il suo impegno per unfuturo più giusto e umano; per lagenerosità con la quale questopaese ha offerto asilo, libertà epossibilità di miglioramento aquanti sono approdati ai suoi li-di; e per l’umana solidarietà, laquale vi spinge a collaborare con

tutte le altre Nazioni affinché lalibertà venga salvaguardata evenga reso possibile il pieno svi-luppo umano. Io ti saluto, oAmerica bella!». Altre espressio-ni, di quel viaggio del 1979, in-dicano la predilezione di Wojtylaper questo popolo. A Chicago af-ferma l’ammirazione per la capa-cità di aver accolto ed integratola diversità: «Nei primi due se-coli della vostra storia nazionale,avete compiuto un lungo cam-mino, sempre alla ricerca di unavvenire migliore, di una stabili-tà sicura, di un focolare. I vostri

antenati arrivaro-no da molti diffe-renti paesi attra-verso gli oceaniper incontrarsiqui con popoli didiverse comunitàche si erano stabi-lite nel paese. Il

processo s’è ripetuto in ogni ge-nerazione: nuovi gruppi arrivano,ognuno con una storia diversa, esi impianta qui diventando partedi qualcosa di nuovo... E pluribusunum: voi siete diventati unanuova identità, un nuovo popolo,la cui vera natura non si puòspiegare adeguatamente con lasemplice sovrapposizione dellevarie comunità. Perciò, guardan-do a voi, io vedo il popolo che hatessuto insieme il proprio desti-no e ora scrive una storia comu-ne. Nonostante la vostra diffe-renza, avete deciso di accettarvil’un l’altro, qualche volta in mo-do imperfetto e anche fino alpunto di assoggettarvi l’un l’al-tro a vari tipi di discriminazione;

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Il papa polacco avevacompreso quale ruolopotevano svolgerela potenza e la forzadegli Stati Uniti

QUEL CHE RESTA DI REAGANMichele Trabucco

a volte solo dopo un lungo perio-do di incomprensione e di riget-to; anche se ora andate svilup-pando il senso della comprensio-ne e dell’apprezzamento delledifferenze reciproche. Questa èl’America nel suo ideale e nellasua decisione: “una nazione, sot-to Dio, indivisibile, con libertà egiustizia per tutti”. Così è stataconcepita l’America; questo èquanto essa è stata chiamata adessere. E per tutto questo noi di-ciamo grazie al Signore». Inquella lunga visita GiovanniPaolo II aveva colto i caratterifondamentali di un popolo chedavvero poteva assumere la mis-sione di libertà e rispetto pertutti i popoli oppressi: «Salutoin voi l’intero popolo america-no, un popolo che basa le pro-prie convinzioni di vita su valorispirituali e morali, su un pro-fondo senso religioso, sul rispet-to del dovere, e sulla generositànel servizio all’umanità; nobiliqualità che s’incarnano in modoparticolare nella capitale dellanazione, con i suoi monumentidedicati a figure tanto rappre-sentative, come Giorgio Wa-shington, Abramo Lincoln eTommaso Jefferson». Non sipuò non pensare che queste pa-role siano state una indiretta,velata, ma altrettanto forte, ri-chiesta d’aiuto e di collaborazio-ne per le sorti del mondo afflit-to dal male e dall’ingiustizia.Secondo l’ex consigliere naziona-le alla sicurezza William Clark,Reagan e Giovanni Paolo II con-divisero un’unità di intenti spiri-tuali e un’unità di vedute sul-

l’impero sovietico: diritto e giu-stizia avrebbero infine trionfatonel piano divino.In questa prospettiva il papa po-lacco, pur riconoscendo l’unità diintenti per la lotta contro le si-tuazioni di ingiustizia, non na-scose la sua preoccupazione e an-che contrarietà per la cosiddettacorsa agli armamenti: «Conoscoe apprezzo gli sforzi compiuti daquesto paese per la limitazionedelle armi, soprattutto di quellenucleari», ma disse anche che«ognuno è consapevole del terri-bile rischio che l’aumento diqueste armi implica per l’umani-tà». Wojtyla era convinto che«come una delle nazioni piùgrandi del mondo», gli StatiUniti avessero un «ruolo partico-larmente importante nella richie-sta di una maggiore sicurezza nelmondo e di una più stretta colla-borazione internazionale». La suasperanza era che «gli Usa noncessassero di impegnarsi per ri-durre il rischio di una fatale e di-sastrosa guerra mondiale, e digarantire una prudente e pro-gressiva riduzione della forza di-struttiva degli arsenali militari».Molte aspettative vennero ripostesulla capacità degli «Stati Uniti,grazie alla loro speciale posizio-ne, di influenzare le altre nazioniad unire i propri sforzi, in unacontinua azione per il disarmo».La caduta del Muro fece allonta-nare il rischio di una guerramondiale e il diffondersi del-l’ideologia comunista, ma daparte del papa polacco non si al-lentò l’attenzione per il persegui-mento del bene comune, princi-

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pio supremo della dottrina catto-lica, spostando così lo sguardosul ruolo degli organismi inter-nazionali e su quello che sarebbediventato un nuovo fronte di lot-ta, seppur non così impegnativoe pericoloso come quello sovieti-co, delineato nella sua esortazio-ne apostolica Ecclesia in America,nel 1999: «In America, come inaltre parti del mondo, sembraoggi profilarsi un modello di so-cietà in cui dominano i potenti,emarginando e persino eliminan-do i deboli: penso qui ai bambininon nati, vittime indifese del-l’aborto; agli anziani ed ai malatiincurabili, talora oggetto di eu-tanasia; ed ai tanti altri esseriumani messi ai margini dal con-sumismo e dal materialismo. Néposso dimenticare il non necessa-rio ricorso alla pena di morte,quando altri mezzi incruenti so-no sufficienti per difendere dal-l'aggressore e per proteggere lasicurezza delle persone». Per nonparlare del «sistema noto comeneoliberismo; sistema che, facen-do riferimento ad una concezioneeconomicista dell’uomo, conside-ra il profitto e le leggi del merca-to come parametri assoluti a sca-pito della dignità e del rispettodella persona e del popolo. Talesistema si è tramutato, talvolta,in giustificazione ideologica dialcuni atteggiamenti e modi diagire in campo sociale e politico,che causano l’emarginazione deipiù deboli. Di fatto, i poveri so-no sempre più numerosi, vittimedi determinate politiche e strut-ture spesso ingiuste».Certamente il contesto politico

ed economico americano e mon-diale erano profondamente muta-ti. La fine della Guerra Fredda edello scontro tra due blocchi ave-vano aperto nuovi scenari, e iprotagonisti di questa svoltaepocale non si erano più incon-trati. «Le polemiche, le accuse, lecalunnie, gli attacchi con i qualisono stati bersagliati – commen-ta Franco Oliva su Ideazione delgiugno 2004 – questi due grandiprotagonisti della storia del XIXsecolo, in buona o cattiva fede,nel corso della loro azione nonhanno lasciato traccia. La Storiaha dato loro ragione e li ha pre-miati con una tale ampiezza diconsenso, simpatia e affetto cheha spiazzato e imbarazzato anchei loro più indefessi detrattori».

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Michele trabucco

Giornalista free lance, laureato in Teologia e

in Scienze dello sviluppo e della cooperazio-

ne internazionale.

L’Autore

QUEL CHE RESTA DI REAGANMichele Trabucco

Via Milano, redazione del Secolod’Italia, un giorno imprecisatodel 1983. Sono sceso in tipogra-fia, insieme con altri giovani re-dattori della “nidiata” del gran-de Alberto Giovannini per se-guire l’impaginazione del gior-nale. A quel tempo, anche se levecchie, gloriose linotype eranoandate in pensione, una partedella composizione avveniva an-cora manualmente. Faccio il praticante al servizioesteri. Sul pannello luminosodove viene realizzata grafica-mente la pagina è appoggiatauna foto di Reagan. È a due co-lonne, né grande né piccola. So-no mesi importanti e delicati. InEuropa, governi e parlamenti so-

stengono il programma difensi-vo contro gli SS-20 sovietici. Mal’opinione pubblica è divisa. E inegoziati di Ginevra non decol-lano. In Urss, la misteriosa “in-fluenza” di Andropov lascia im-maginare una complessa lottaper il potere all’interno del Polit-buro. E la circostanza crea ap-prensione. Perché non si sa chieffettivamente comandi a Mosca.Si temono i possibili colpi di co-da di un potere in crisi. Il Msi-Dn sostiene convintamen-te le posizioni atlantiche. Non èuna novità. Ma non è neanche ri-tualità. L’America di Reagan edei repubblicani suscita consensie accende speranze assai piùdell’America di Carter e dei de-

DI ALDO DI LELLO

QUEL CHE RESTA DI REAGANAldo Di Lello

E la destra italiana incontrò la modernità

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Fin dai primi anni Ottanta, la destra politica italiana aprì un confronto con le istanze liberali ed euroatlantiche

provenienti da America e Inghilterra. Un percorso lungo e ragionato che ha plasmato le idee della destra di oggi.

mocratici. Però la prospettiva ri-mane essenzialmente quella dellapolitica estera e non risultanocoinvolti altri piani “ideologici”o storico-politici. Reagan è unformidabile campione dell’anti-comunismo. Evviva. Però libera-lismo fa sempre rima con capita-lismo. E tanto basta.«Ma perché, per un discorso diReagan così importante, metteteuna foto così piccola?». Nel pun-to in cui impaginiamo la paginadegli esteri si è avvicinato un al-tro praticante. «Una foto a duecolonne non mi sembra poi tantopiccola», rispondoun po’ infastiditoper il consigliografico non richie-sto. E poi, di ri-mando: «Senti unpo’, mi dici perchéti appassioni tantoa Reagan?». La ri-sposta è immediata: «Perchéquella è la mia destra». E poi girai tacchi e se ne va: un tipografol’ha chiamato per risolvere unproblema insorto nella pagina dalui curata.Io torno a seguire l’impaginazio-ne. La foto di Reagan è subito do-po collocata nello spazio segnatosul menabò. «La sua destra?Mah!». Però comincio a grattar-mi il mento. Negli anni successivi avrei com-piuto sempre più spesso la stessaoperazione. E con me tanti altridella mia generazione (altret-tanti, per la verità, no). Qualco-sa di importante arrivava dagliStati Uniti di Reagan e dallaGran Bretagna di Margaret

Thatcher. Non era solo la batta-glia, vincente, sul comunismo.Era anche e soprattutto un recu-pero di produttività e di effi-cienza dell’economia occidenta-le. Era il proletariato che scom-pariva e diventava ceto medio.Era l’affermarsi della società deidue terzi (la netta maggioranzadella popolazione se la passavabene, e il resto aveva comunquesperanze di ascesa sociale). Era ilridimensionamento (al di fuoriperò dall’Europa continentale)del potere sindacale diventatopotere conservatore. Era l’esplo-

sione delle tecno-logie informati-che. E tante altrecose ancora.Anche a destra, so-prattutto in vastisettori giovanili,c’è voglia di guar-darsi intorno e di

aprire le porte a quello stranovento di Ponente. Non si beneancora che cosa sia, ma appare de-cisivo. In quegli anni, due giova-ni dirigenti nonché redattori an-ch’essi al Secolo d’Italia, AdolfoUrso e Maurizio Gasparri, scrivo-no a quattro mani un libro che fa-rà discutere e avrà una discretacircolazione nell’ambito della de-stra giovanile. Si intitola L’etàdell’intelligenza e reca il cubo diRubik in copertina. Non c’entramolto con il reaganismo in sensoproprio, però ha comunque a chefare con il mondo di Reagan insenso lato, cioè con il nuovo mitodella California di Silicon Valley,con la rivoluzione informatica,con le nuove tecnologie in svilup-

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Reagan e Thatcher avviarono un recupero di produttività ed efficienza economicain Occidente

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po. È una gigantesca onda cheavanza, che eccita l’immaginazio-ne e che conduce a domande e in-teressi nuovi.Quel libro svela uno sguardo in-curiosito e fiducioso alla moder-nità. E si tratta di una novità al-l’interno di un mondo giovanileche troppo spesso osserva il mo-derno con l’occhio cupo del tradi-zionalismo. Attenzione, non si poteva co-munque dire che il rapporto tradestra e modernità si fosse maiinterrotto. Ma diciamo che risen-tiva molto della cultura del “ro-manticismo del-l’acciaio” dei primidecenni del ‘900.Nella cultura uffi-ciale del Msi, il“modernismo didestra” si nutrivadi frequenti richia-mi alla storica ico-nografia futurista e al culto deimodernizzatori della prima metàdel secolo. Il resto era cronaca,suggestione del momento, curio-sità e studi individuali. Il resto erano anche gli influssidel “post-moderno”, una delleformule cult degli anni Ottanta,che incontravi regolarmente adogni capoverso di ogni dotto arti-colo di quel decennio. Nella suaapplicazione migliore, il “post-moderno” era un modo per deco-struire le vecchie “metanarrazio-ni” filosofiche (Lyotard) avviate al“modernariato”: o in vista di nuo-ve e più ragionevoli sintesi (cheperò non sono mai arrivate) op-pure, meno ambiziosamente, nel-la linea dell’estetica del fram-

mento e dell’etica dell’istante(che hanno comunque contribui-to, e non poco, a dettare lo stile diun’epoca). Diciamo in generale che il dibat-tito non approfondisce più ditanto il modello di destra che ar-riva da Oltreoceano e da Oltre-manica. Le motivazioni sono di-verse. E riguardano innanzi tuttola fase particolare che sta vivendoil Movimento sociale: sono gli ul-timi anni di Almirante e gli inte-ressi risultano concentrati sulleprospettive future del partito. La difesa dello Stato sociale è del

resto un punto fer-mo indiscusso e siinnesta nella tra-dizione del sinda-calismo nazionalee della cultura sor-ta intorno allaCarta del Lavorodel 1927, con nu-

merosi e frequenti riferimenti al-la dottrina sociale della Chiesa.Basterà dire che il Msi dà indica-zione, insieme solo al Pci, di vo-tare contro il taglio dei punti del-la scala mobile in occasione delreferendum del 1985. Non giure-rei però sul fatto che, nel segretodell’urna, gli elettori missini ab-biano massicciamente ed entusia-sticamente seguito le indicazionidei vertici. C’è comunque da dire che, a ri-manere sostanzialmente refratta-ria al verbo liberal-liberista èl’Italia politica in generale, alme-no nelle sue componenti ideolo-gico-culturali egemoni. È refrat-taria l’Italia comunista, per ovvieragioni. È refrattaria quella de-

Il rapporto tra destra e modernità risentivamolto del novecentesco“romanticismo dell’acciaio”

QUEL CHE RESTA DI REAGANAldo di Lello

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mocristiana, egemonizzata dallevisioni culturali di sinistra quan-to immemore dell’insegnamentodi Sturzo. È più incuriosita, masempre e comunque distante,l’Italia socialista, che tiene fermi isuoi stretti legami con la social-democrazia europea. Qualcosa, daquelle parti, comunque si muove,almeno a livello culturale. E permerito soprattutto della rivistaMondoperaio di Luciano Pellicani,un intellettuale che individuanell’incontro tra liberalismo e so-cialismo una possibilità di rinno-vamento per la sinistra europea.In un modo onell’altro, le parole“deregolamenta-zione” e “liberaliz-zazione” sono co-munque entrare incircuito. E qualchedibattito si produ-ce. Le idee del rea-ganismo vanno in incubazione.Bisognerà attendere la metà deglianni Novanta, al termine di unquinquennio di terremoti politicinazionali e internazionali, affin-ché l’evoluzione in senso liberaledella cultura politica della destraitaliana si consolidi e si affermi,producendo i primi rilevanti ef-fetti politici.È superfluo fare la storia deglieventi e dei passaggi più signifi-cativi. Quello che mi interessasottolineare è il lavoro svolto insede di elaborazione culturale. Equi va innanzi tutto ricordata laseminagione operata dalle rivisteche nascono in quegli anni. Pensoin modo particolare a Charta mi-nuta e a Ideazione. Di notevole ri-

lievo è anche la collana di classicidel pensiero liberale e conservato-re promossa dalla rivista fondatada Domenico Mennitti. Penso,tra le altre, a opere come Storiadella libertà di Lord Acton e Ri-flessioni sulla Rivoluzione in Fran-cia di Edmund Burke, oppure avolumi più agili ma non menoformativi come Liberalismo di Au-gust von Hayek, L’oppio degli in-tellettuali di Raymond Aron, Cat-tolici e mercato, che reca un carteg-gio tra Luigi Sturzo e Giorgio LaPira. Al dialogo tra cultura liberale e

cultura conserva-trice si dedica an-che la rivista Per-corsi, fondata nel1997 da GennaroMalgieri.Ci sarebbero da ci-tare altre esperien-ze e altre iniziati-

ve, ma credo di aver reso a suffi-cienza l’idea di come, la vivacitàculturale che si registra a destra edintorni nella seconda metà deglianni Novanta, porti a selezionaree ad approfondire quanto di me-glio era rimasto, sul terreno dellacultura politica, dopo il ritirodell’onda reaganiana e dopo ilcambio della guardia ai verticipolitici degli Usa e dei maggioripaesi europei. È il periodo in cui idemocratici di Clinton sono tor-nati alla guida degli Stati Unitimentre i laburisti di Blair e i so-cialdemocratici di Schröder han-no riconquistato il governo, ri-spettivamente, in Gran Bretagnae in Germania.Nessuno di costoro si sogna però

Bisognerà attendere la metà degli anni Novanta affinché si consolidi l’evoluzioneliberale della politica

di riproporre le vecchie ricettesocialiste. Il vento degli anniOttanta ha cambiato in profon-dità anche laburisti e socialde-mocratici. E in Italia che accade? Difficiledare una risposta esauriente. Di-ciamo che il travaglio è stato piùlungo, sofferto, complesso. E, percerti versi, è ancora in corso. Adestra come a sinistra, hanno alungo agito alcuni riflessi pavlo-viani del tempo che fu.Su tali riflessi posso rendere unapiccola, personale testimonianza. Nel 1999 decisi con tre amici checondividevano la mia prospettiva(Fabio Torriero, Giampiero Can-nella, Marco Respinti) di pubbli-care una sorta di libro-manifestoper una destra liberal-conservatri-ce. Lo chiamammo Rivoluzioneblu, in onore per l’appunto del-l’ondata reaganiana del decennioprecedente. Il volume voleva es-sere di divulgazione e mobilita-zione. Mettemmo molto impe-gno a redigerlo. Ma i risultati, intermini di consensi di pubblico,non furono all’altezza delle nostreaspirazioni. Il libro ebbe certo la sua circola-zione, ma non come era nelle no-stre attese. Forse avevamo sba-gliato qualcosa, o forse no. Rima-ne però il fatto che, salvo qualcherara eccezione, la stampa snobbòil volume. Il motivo? E chi lo sa?Il prodotto non era onestamentepeggiore di quanto in quel perio-do arrivava in libreria con il mar-chio di destra. Il problema era probabilmente chela nostra Rivoluzione blu non rien-trava in alcuno stereotipo e non

poteva pertanto contare su nessunriflesso pavloviano in suo favore. Ripresi per un po’ a grattarmi ilmento. Questa volta, però, non acausa delle domande portatedall’avanzata del nuovo, ma per leperplessità prodotte dalla soprav-vivenza del vecchio. Le idee, inItalia, si affermano assai più len-tamente delle mode. Comunque ne è valsa la pena.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANAldo Di Lello

aldo di lello

Giornalista e scrittore. Ha diretto le pagine

culturali del Secolo d’Italia. Nel 2003 ha fon-

dato la rivista di geopolitica Imperi.

L’Autore

Non sono tanti i presidenti ame-ricani che finiscono per diventaredelle vere e proprie icone nazio-nali anche agli occhi di coloroche si riconoscono nel partito av-versario. Ancora più raro è checiò avvenga già nell’arco del loromandato presidenziale, ma Ro-nald Reagan rientra a pieno tito-lo in questo gruppo esclusivo.Il suo nome è per sempre legatoa un decennio che ridiede agliamericani la fiducia in se stessi enella loro nazione dopo gli annibui della guerra nel Vietnam, loscandalo Watergate e le umiliazio-ni in politica estera subite sottol’amministrazione Carter.La destra risoluta, ma allo stessotempo pragmatica, che caratte-rizzò l’amministrazione Reaganviene tuttora – a 30 anni dal-

l’inizio del suo mandato presi-denziale – ritenuta un punto diriferimento imprescindibile dalsuo schieramento politico di ap-partenenza. Anche al di fuori de-gli Stati Uniti. Mentre, con il passare degli anni,l’importanza storica di un leadercontemporaneo a lui molto vici-no quale Margaret Thatcher, permolti aspetti è stata ridimensio-nata dal proprio partito, Reaganrimane un modello a cui tutti gliesponenti repubblicani dicono diispirarsi. Negli anni precedenti alla vitto-ria di Reagan alle presidenzialidel 1980, furono in pochi ascommettere sulla forza di pro-pulsione della destra all’internodel quadro politico statunitense.L’agenda politica veniva infatti

DI BRUNO TIOZZO

La parabola del Partito repubblicano

Da Goldwater a Reagan,così rinacque il GopNonostante la diffidenza che lo accolse a Washington, l’ex presidente riuscì a ridare fiducia ai repubblicani, mai così in crisi e senza idee. Tante anime, un solo partito: ecco la lezione reaganiana che può servire alla destra americana per tornare alla Casa Bianca dopo Obama.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANBruno Tiozzo

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fin dalla presidenza di FranklinD. Roosevelt, dettata dai liberal enel 1950 l’intellettuale LionelTrilling scrisse: «Al momento,negli Stati Uniti, il liberalismo ènon solo la tradizione intellettua-le dominante, ma anche l’unicaesistente. È infatti chiaro a tuttiche non ci sono idee conservatricio reazionarie in circolazione».I repubblicani riuscirono in se-guito a conquistare la CasaBianca con Dwight “Ike” Ei-senhower (nel 1952 e nel1956) e con Richard Nixon(nel 1968 e nel 1972). Ma, no-nostante entram-bi apparissero al-l’epoca piuttosto“destrorsi”, so-prattutto agli oc-chi dell’opinionepubblica euro-pea, si trattava inf o n d o d i d u epragmatici. La delusione della base repubbli-cana per una politica che permolti versi non si discostava daquella portata avanti dai demo-cratici, portò negli anni Cin-quanta a una rinascita intellet-tuale del movimento conservato-re grazie all’opera di intellettualicome Russell Kirk (autore nel1953 di The Conservative mind) eWilliam F. Buckley jr (fondatorenel 1955 della rivista di destraNational Review). L’obiettivo era di portare il Parti-to repubblicano a destra, vincen-do la sfida delle idee, e una pri-ma affermazione in tal senso ven-ne in occasione delle presidenzia-li del 1964. Le primarie repub-

blicane di quell’anno videro in-fatti l’ala destra, con la candida-tura del senatore Barry Goldwa-ter, prevalere su Nelson Rocke-feller, esponente di punta dell’alamoderata dell’East Coast. Goldwater, autore nel 1960 dellibro The Conscience of a Conserva-tive (pubblicato in Italia con il ti-tolo Il vero conservatore) ebbe unruolo determinante nel formulareuna visione politica alternativa aquella liberal dei democratici,che, dopo Franklin Roosevelt,avevano trovato una nuovo mo-dello di riferimento in John F.

Kennedy. Tra i so-stenitori di Gol-dwater c’era ancheReagan. Il consen-so riscosso da uncelebre discorsoche tenne in favoredi Goldwater, de-nominato A time

for choosing, contribuì due annidopo a far eleggere l’ex attoregovernatore della California. Il clima politico-sociale non eraperò ancora maturo per una de-stra più combattiva e Goldwaterperse le presidenziali. Il senatoredell’Arizona era fortemente anti-comunista e veniva bollato comereazionario e guerrafondaio, an-che se aveva delle posizioni liber-tarie su molti temi ed era fautoredi uno Stato minimo e poco in-trusivo nella vita delle persone.

I successi della presidenza ReaganIl seme gettato dagli intellettualiconservatori e da Goldwater ne-gli anni Cinquanta e Sessantainiziò finalmente a germogliare

Reagan è consideratoil secondo presidenterepubblicano più importante dopo Abraham Lincoln

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negli anni Ottanta con la presi-denza di Ronald Reagan. Considerato il secondo presiden-te repubblicano più importantedopo Abraham Lincoln, Reaganfu in politica interna come inquella estera l’uomo giusto nelmomento giusto. Dopo il giuramento nel gennaio1981 entrò alla Casa Bianca conun’economia in caduta libera:l’inflazione si aggirava intorno al12,5%, la disoccupazione stavaal 7,5%. Quando otto anni dopopassò le consegne a George Bushl’inflazione era stata ridotta al4,4% mentre la disoccupazioneera scesa al 5,3%. Reagan mandò definitivamentein soffitta il modello del New De-al con una liberalizzazione del-l’economia, la cosiddetta reagano-mics, che puntava a diminuire lapressione fiscale e si avvalse deiconsigli di economisti liberisticome Milton Friedman. Anche nei rapporti internazionalila presidenza Reagan segnòun’inversione di tendenza positi-va per gli Stati Uniti. Nel 1980sembrava infatti che i nemici de-gli Usa avanzassero su tutti ifronti; dalla sconfitta in Vietnamall’invasione sovietica dell’Af-ghanistan e la crisi degli ostaggiin Iran. La posizione ferma tenu-ta dall’amministrazione Reagannei confronti del cosiddetto “im-pero del male” (per citare lo stes-so Reagan) fu determinante peril successivo collasso dell’UnioneSovietica e la liberazione dell’Eu-ropa centroorientale. Importanti al riguardo furono gliinvestimenti nel settore della di-

QUEL CHE RESTA DI REAGANBruno Tiozzo

IL LIBRO

Goldwater, il padredella destra nuovaLe elezioni presidenziali americane del1964, che seguirono l’assassinio di JohnF. Kennedy, videro l’emergere di una fi-gura atipica nel panorama politico ame-ricano, il senatore dell’Arizona Barry M.Goldwater, che sfidò, perdendo, l’erededi Kennedy e della politica newdealista,Lyndon B. Johnson. Nonostante la seccasconfitta, Goldwater ebbe il merito diaver operato una vera rivoluzione nelGrand old party, il Partito repubblicano. Goldwater impresse al Partito repubbli-cano un segno conservatore che restòsottotraccia per più di un quindicennio,per poi emergere prepotentemente conil trionfo di Ronald Reagan nel 1980. Insostanza, il successo di Reagan non puòessere spiegato se non alla luce delle in-tuizioni e del programma politico messoin campo nel 1964 da Goldwater e da luiesplicitato in The Conscience of a Con-servative del 1960 (un successo edito-riale senza precedenti) e in Why NotVictory? del 1962, opere in cui il sena-tore dell’Arizona mise a punto in modochiaro e diretto i principi del suo conser-vatorismo: l’antistatalismo, il recuperodei principi del liberalismo americanodelle origini, il decentramento dei poteri,i diritti degli Stati, l’individualismo; e, inpolitica estera, la lotta senza compro-messi nei confronti del comunismo.

Barry Goldwater. Valori americani e lotta al comunismoAntonio DonnoLe Lettere, 2008

fesa (come deterrente nei con-fronti dell’Urss) che aumentaro-no del 40% nel primo mandatopresidenziale di Reagan in lineacon la formula Peace throughstrength (pace attraverso la forza).Altro elemento fondamentaledella “dottrina Reagan” in poli-tica estera fu il determinato so-stegno fornito a Solidarnosc inPolonia e ad altri movimenti an-ticomunisti. Nel discorso alla fi-ne del mandato presidenzialedisse infatti: «Volevamo cambia-re una nazione, ma abbiamocambiato il mondo». Nel 1984 fu rie-letto per un se-condo mandatocon un record digrandi elettori(525 su 538) e unimpress ionante58,8% nel votopopolare. «È dinuovo mattina in America»,amava ripetere durante la campa-gna elettorale e c’era proprio lapercezione che gli Usa si fosserolasciati alle spalle gli anni pro-blematici per guardare al futurocon maggiore fiducia.

L’impatto sui repubblicaniReagan riuscì ad estendere la ba-se elettorale del cosiddettoGrand old party repubblicano asettori che in precedenza avevanovotato democratico, i cosiddettiReagan democrats. Questi eranoinnanzitutto operai bianchi cheapprezzavano le posizioni di Rea-gan sulla sicurezza, sulla politicaestera e sui temi di natura eticacome l’aborto.

All’interno dei repubblicani,diede vita a quella coalizione travarie destre sulla quale tuttorasi regge l’equilibrio del partito.Nella propria politica Reaganincarnò infatti le tre animeprincipali del conservatorismoamericano: la destra economicae liberista (contraria all’ingeren-za dello Stato nella sfera priva-ta), la destra religiosa (fautricedi una moralizzazione della so-cietà) e la destra law and order(che invoca misure per garantirela certezza della pena e la sicu-rezza dei cittadini).

L’equilibrio concui Reagan nelsuo operato presi-denziale prendevain considerazionele diverse animedei repubblicani,torna adesso ad es-sere un interessan-

te modello di possibile ricon-quista della Casa Bianca per irepubblicani, dopo l’esperienzadel conservatorismo compassio-nevole di George W Bush, damolti ritenuto troppo schiaccia-to sulle posizioni della destra re-ligiosa.

Non un antipoliticoSoprattutto all’inizio della suapresidenza, si tendeva spesso (piùin Europa che negli Usa) a deri-dere Reagan per il suo passato daattore. Una quindicina di anni fa andavaanche di moda, in alcuni settoridel centrodestra italiano, presenta-re Silvio Berlusconi come una ver-sione italiana del presidente ame-

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I repubblicani hanno rivalutato il modelloequilibrato di Reagan, abbandonando quellocompassionevole di Bush

ricano. Si tratta per molte ragionidi un paragone che non regge. È vero che Reagan arrivò tardiall’impegno politico diretto (ave-va già compiuto 50 anni), maprima di vincere le presidenzialidel 1980 era già stato governato-re della California per ben duemandati (dal 1967 al 1975). Inquel senso possedeva un’espe-rienza di responsabilità politicain un ruolo esecutivo addiritturasuperiore a molti altri presidentiUsa, come per esempio BarackObama. Inoltre si era già presen-tato alle primarie repubblicanedue volte (nel 1968 e nel 1976)senza ottenere la nomination. Masoprattutto nutriva un grande ri-spetto per le istituzioni e non sipresentava come un antipolitico. Era un grande comunicatore conla battuta sempre pronta (maivolgare però). Lui stesso fu il pri-mo a precisare che veniva ritenu-to tale perché aveva importanticose da dire.

La fondazione ReaganIl ricordo e lo studio dell’operatopolitico di Reagan viene oggicurato principalmente dalla Ro-nald Reagan Presidential Foun-dation and Library (www.rea-ganlibrary.org). La biblioteca-fondazione è stata inaugurata nel1991 e si trova a Simi Valley inCalifornia. Contiene milioni didocumenti e fotografie collegatial mandato presidenziale di Rea-gan, oltre a oggetti come il Bo-eing 707 utilizzato come AirForce One da Reagan e l’abitoche indossò il giorno del giura-mento. Dopo la morte, avvenuta

nel giugno 2004, lo stesso Rea-gan è stato sepolto nei sotterra-nei della fondazione. Il museo della fondazione che ri-ceve in media oltre 300 mila vi-sitatori all’anno, organizza anchedegli eventi di attualità politica,come per esempio un confrontotra i candidati repubblicani alleprimarie nel 2008. Attualmente la fondazione è im-pegnata nei preparativi per lemolte celebrazioni che avrannoluogo nel 2011 per commemora-re il centesimo anniversario dellanascita di Ronald Reagan. Leiniziative mirano al futuro, pro-prio come avrebbe voluto il pre-sidente, convinto com’era che igiorni migliori per l’Americastiano ancora per arrivare.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANBruno Tiozzo

bruno tiozzo

Autore di numerosi articoli per riviste come

Charta minuta, Con, Imperi e Millennio. La-

vora come esperto per il ministero delle Poli-

tiche comunitarie.

L’Autore

DI GIUSEPPE PENNISI

Mentre in Europa ancora oggi si falargo l’approccio colbertista, nell’America di trent’anni fa

i Chicago boys rivoluzionavano un sistema impaludato. E in Italia il reaganismo economico è sempre stato troppo timido.

Un radicalismo illuminatoal servizio del singolo

QUEL CHE RESTA DI REAGANGiuseppe Pennisi

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Il pensiero e l’azione economicadelle due amministrazioni Rea-gan si distinsero dalle altre perun “radicalismo liberale” tutt’al-tro che tipico del Partito repub-blicano Usa in generale e dellastessa cultura liberista americanain particolare. Tale cultura hasempre avuto radici moderate incui il favore per le libertà dimercato era accompagnato da unforte senso d’intervento pubbli-co (a livello federale) in materiadi difesa, di ordine pubblico e ditutela delle risorse naturali,nonché (a livello dei singoli Sta-ti dell’Unione ed ancora di piùdi enti territoriali decentrati co-me le contee) di afflati “comuni-tari” (che in Europa continentaleverrebbero, invece, consideraticaratteristici della sinistra) perla produzione e la gestione dibeni sociali come la scuola. Il“radicalismo” del pensiero e del-l’azione reaganiana si allacciava,in gran misura, alla visione li-bertaria di Murray Rothbard, si-no ad allora fortemente minori-taria negli stessi ambienti poli-tico culturali più liberisti o, perusare un termine coniato di re-cente, mercatisti. Lo si vede in due tratti poco notiin Europa continentale, ed inparticolare in Italia. Il primo è ilconfronto con la rivoluzione li-berale che, nello stesso arco ditempo, Margaret Thatcher stavaportando avanti in Gran Breta-gna: mentre nel Regno Unitopochi aspetti di grande visibilità(ad esempio, lo scontro con isindacati dei minatori) venivanoaccompagnati da molti piccoli

passi nelle materie più sensibiliche costituivano i nervi ed ilcuore dell’economia e della so-cietà (ad esempio, come ricorda-to da Paul Pielson in un suo li-bro fondamentale sulle esperien-ze Reagan-Thatcher in materiadi riassetto del welfare state, lemodifiche della legislazione sullavoro vennero annidate nellepandette di una quarantina dileggi e leggine che unicamentegiuristi davvero esperti sarebbe-ro stati in grado di scoprire ecomprendere), negli Stati Unitisin dal primo messaggio sulloStato dell’Unione di RonaldReagan venne iniziato un “nuo-vo federalismo” spostando com-petenze dall’amministrazione fe-derale agli Stati dell’Unione,con l’invito che questi ultimi, aloro volta, li passassero alle con-tee e così via. Un ritorno “radi-cale”, quindi, agli Stati Unitiquali concepiti dai Padri fonda-tori – molto più spinto di qual-siasi principio di sussidiarietà,mutuato dalla Repubblica fede-rale tedesca, introdotto alla finedegli anni Ottanta tra i cardinidell’Unione europea. Ciò avreb-be consentito ai poteri federalidi concentrarsi sui “compiti pro-pri”: difesa internazionale, sicu-rezza interna (in caso di reati in-ter-statuali), tutela delle risorsenaturali. Tranne che in pochematerie integrate per motivitecnici (ad esempio, i mercati fi-nanziari), la tutela della concor-renza, le liberalizzazioni e viadiscorrendo diventano compe-tenza dei singoli Stati dell’Unio-ne e, spesso, trasferiti da questi

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ultimi alle contee. Ciò venne at-tuato non con una riforma dellaCostituzione, ma attuando radi-calmente quanto definito nel1787 a Philadelphia. Un ritor-no, quindi, al futuro.Il secondo tratto “radicale” ful’attenzione alla microeconomia,ossia al corretto funzionamentodei mercati e dello stesso inter-vento pubblico, quando chiama-to a correggere quelle che noieconomisti chiamiamo “imper-fezioni di mercato” (esistenza dibeni pubblici e di beni sociali,asimmetrie informative e posi-z ional i , e f fett iesterni, interdi-pendenze e viadiscorrendo). Neiprimi mesi dopol’ insediamento,l’Amministrazio-ne Reagan adottòuna misura, ap-provata rapidamente (e senza ac-corgersi della portata) dal Con-gresso. Da allora (sono passatitrent’anni) nessun presidente enessun Congresso ha proposto dimodificarla: qualsiasi provvedi-mento federale (leggi, regola-menti, investimenti) deve essereaccompagnato da un’attentaanalisi dei costi e dei benefici fi-nanziari ed economici. Non si“affamava la bestia”, ma si met-teva una camicia di forza a buro-crazie con l’innata tendenza adiventare tentacolari, con inevi-tabili conseguenze per la dilata-zione della spesa pubblica. Nelsuo “totalitarismo” (si applicavae si applica ancora anche al re-golamento più minuto) era, ed

è, una misura radicale di limita-zione dell’intervento pubblico acampi, grandi o piccoli, in cuinon si riesce a dimostrare, inmodo quantitativo, che i benefi-ci della mano pubblica superanoi costi.Questi due aspetti non furono ilfrutto di elaborazioni di cenaco-li di economisti – quali i Chica-go boys – ma del gruppo diamici con cui David Stockman,deputato a 31 anni e ministrodel Bilancio a 34, si riuniva lasera non nel proprio disordina-tissimo miniappartamento, ma

in un saletta di unbar-trattoria, ineffetti la ricostru-zione di un saloontexano (Mr. Smith)di Georgetown, apochi passi dallaCa s a B i an c a .Stockman (che si

sarebbe dedicato alla finanza,una volta lasciata la politica) eraun clean-cut red-blooded texano dibell’aspetto e vivace cordialità,aveva studiato all’Università delMichigan un po’ tutto ed un po’niente ma aveva preso un dotto-rato in teologia a Harvard. Ma-sticava poco di economia macon una forte intelligenza intui-tiva e la destrezza analitica chesi acquista diventando un teolo-go, aveva, con i suoi giovaniamici, afferrato i punti essenzia-li per una “rivoluzione liberaleradicale”.Meno radicali gli altri aspettidella politica economica reaga-niana, pur se più noti in Europa,ed affidati al Tesoro ed alla Fede-

Il “radicalismo” economico di Reagan siè realizzato attraversoil rispetto totale della Costituzione

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ral Reserve. La strategia macro-economica di base adottata nel1981 si rifaceva ad un teoremaelaborato da Robert Mundellquando, negli anni Sessanta, vi-veva a Bologna dove insegnava atempo pieno all’UniversitàJohns Hopkins. Il teorema –chiamato “del ragù alla bologne-se” – dimostrava, matematica-mente, la possibilità di dilatareil disavanzo pubblico, al fine dipromuovere la crescita, senza ge-nerare inflazione in presenza diuna politica monetaria restritti-va, come quella adottata negliUsa dall’ottobre1979. La dilata-zione del disavan-zo avvenne, sem-pre seguendo ilteorema “del ragùalla bolognese”,non per aumentodella spesa pubbli-ca ma per drastica, radicale, ri-duzione delle tasse. Il deficit del bilancio federale as-sunse dimensioni tali che nel1985 v enne app rova to i lGramm-Rudman-Hollings Ba-lanced Budget and EmergencyDeficit Control Act, che postu-lava il pareggio di bilancio (pe-raltro mai ottenuto) con stru-menti analoghi a quelli mutuatiin Europa qualche anno dopocon il Trattato di Maastricht e,successivamente, con il patto dicrescita e di stabilità (ora in cor-so di revisione). Come da teore-ma, il “ragù alla bolognese” eb-be gli effetti auspicati: la ridu-zione della pressione fiscale e ladilatazione del disavanzo, neu-

tralizzate da una politica di ri-gore monetario, furono la levadella forte crescita macroecono-mica Usa dalla metà degli anniOttanta alla crisi del 2007.Quasi contemporaneamente alvaro della legge Gramm-Rud-man-Hollings sul pareggio di bi-lancio, il primo agosto 1985Stockman diede le dimissioni dalproprio incarico. Le due misureradicali da lui proposte – il“nuovo federalismo” e l’analisidei costi e dei benefici finanziaridi qualsiasi misura di politicapubblica – sarebbero rimaste e

sarebbero diventa-te parte del Dnadell’Amministra-zione Usa, qualeche fosse la conno-tazione politicadell’inquilino del-la Casa Bianca e lamaggioranza pre-

valente in Congresso.

La matrice colbertista della destra liberale dell’Europa continentaleJean-Baptiste Colbert non ha la-sciato alcuno scritto di economia;ministro delle Finanze di LuigiXVI, ha però firmato decine edecine di decreti, i quali hannoformato il corpus del colbertismo,una scuola di pensiero favorevoledapprima all’intervento pubblicoin materia di commercio conl’estero e gradualmente nel restodell’economia. In Europa conti-nentale il liberismo è stato unamerce che ha avuto una brevestagione di popolarità in quantoanche la fase dell’industrializza-

In Europa il liberismoè stata una parentesitra il colbertismodelle varie “destre” el’avvento del socialismo

QUEL CHE RESTA DI REAGANGiuseppe Pennisi

zione trionfante nel diciannovesi-mo secolo è stata marcata da unapresenza dello Stato tanto forte etanto pregnante quanto la capa-cità d’imporre tributi e regola-menti e di farli osservare. In li-nea di massima, in Europa conti-nentale il liberismo è stato unaparentesi tra il colbertismo dellevarie “destre” e l’allora nascentemovimento socialista (nelle suepiù diverse configurazioni), pa-rentesi associata alla prima glo-balizzazione convenzionalmentedefinita tra il 1870 ed il 1910 espinta dalla rivoluzione tecnolo-gica nella manifattura e nei tra-sporti e dalle innovazioni dovuteall’elettricità. I Padri fondatoridegli Stati-nazioni europei (Fran-cia, Germania ed anche Italia)erano colbertisti senza saperlo: inItalia, ad esempio, la breve espe-rienza liberale dell’età giolittianaterminò con lo scandalo dellaBanca romana a cui la stessa De-stra storica reagì con misure for-temente interventiste; in Franciala fase liberista della Terza Re-pubblica affondò con lo scandaloStavisky.Interessante notare le profondedifferenze con cui Europa conti-nentale e Stati Uniti risposero al-la grande depressione degli anniTrenta. In Europa, venne perse-guita una politica di salvataggiodi imprese e di banche in diffi-coltà; in Italia, dove era al gover-no la destra, ciò portò alla crea-zione dell’Iri; in Germania alcontrollo dello Stato su gran par-te dell’industria pesante e a pri-vatizzazioni selettive per ingra-ziarsi alcuni settori della finanza;

in Francia, andò al governo ilFronte popolare che teorizzò edattuò una strategia di nazionaliz-zazioni; in Spagna, dopo unaguerra cruenta, non si tornò alpassato liberismo monarchico,ma venne messo in piedi un siste-ma economico “corporativo”, conintervento pubblico pregnante,ad imitazione di quello italiano.Negli Stati Uniti, invece, quandoandò al governo la “sinistra” roo-selvetiana, il New deal portò uni-camente alla creazione di un si-stema federale di autostrade (an-cora in vigore e ben funzionante)e ad una rete di accordi tra Statied enti locali (simili ai “patti ter-ritoriali” dell’Italia del primoscorcio del ventunesimo secolo)per la valorizzazione di alcunearee (quali quella del Tennessee). Se non si tiene conto di questeprofonde differenze, non si com-prende perché gli economisti li-beristi di Vienna e di Losannaemigrarono prima in Gran Bre-tagna e poi negli Usa. Non sicomprende, a maggior ragione,perché, pur affascinati dalla rivo-luzione reaganiana, le destre eu-ropee non ne percepirono il radi-calismo e non ne compresero ipassaggi fondamentali.In Italia, in particolare, il proble-ma centrale della politica econo-mica degli anni Ottanta era bendifferente da quelli che preoccu-pavano l’Amministrazione Rea-gan: riguardava il rientro dall’in-flazione (che alla fine degli anniSettanta aveva toccato tassi an-nuali a due cifre) mantenendo unsaggio adeguato di crescita ed unbuon grado di coesione sociale

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per evitare di ricadere in unanuova “notte della Repubblica”.Vennero tentate varie misure difreno alla spesa pubblica con ri-sultati alterni sull’avanzo prima-rio (essenziale a ragione del fortepeso del servizio del debito pub-blico), ma le misure essenziali ri-guardarono la riforma dell’indi-cizzazione salariale, su cui venneanche fatto un referendum. Si cercò, in vario modo, di trova-re una versione all’italiana dellal egge Gramm-Rudman-Hollings, con i vari piani di rien-tro (iniziati a cavallo tra gli anniSettanta e gli anni Ottanta) daldeficit e dallo stock di debito pub-blico, ma il governo cadde nel-l’estate 1986 proprio quando siera giunti ad un accordo tecnicotra gli specialisti dei cinque par-titi allora all’esecutivo, e il suc-cessivo non ne fece più nulla inquanto, sostanzialmente, ebbepochi mesi di vita prima di unanuova tornata elettorale. Il tenta-tivo di introdurre l’analisi costi-benefici per l’analisi di una picco-lissima parte dell’investimentopubblico (con il progetto diestenderlo gradualmente al restodella spesa pubblica in conto ca-pitale), finì miseramente. Curio-samente in Francia, dove, pergran parte degli anni della reaga-nonomics, l’inquilino dell’Eliseoera un socialista e si nazionalizza-rono banche ed alcune grandi im-prese, uno degli aspetti radicalidella “rivoluzione reaganiana”venne recepito (e restò in vigoreper una quindicina d’anni): ilProgramme des choix budgettaires(Programma delle scelte di bilan-

cio) in cui si mettevano a con-fronto (anche pubblico) ministerisulla base della qualità delle pro-prie analisi economiche sotto-stanti le scelte di bilancio. In bre-ve, qualcosa molto simile a quan-to Reagan, sotto l’impulso diStockman, aveva introdotto nellapubblica amministrazione federa-le americana. Ciò non vuol dire,però, che l’esperienza non lasciòneanche un seme. Il vento dal-l’Atlantico soffiava e sarebbe ar-rivato, anche se in ritardo, in Eu-ropa e nella stessa Italia. Ren-dendo meno colbertista la destra.

La reaganomicsa scoppio ritardato. A dare l’avvio a programmi di ri-forme, in parte modellati sul-l’esperienza americana, fu la de-cisione di dare vita all’unionemonetaria e di trovare regole co-muni in materia di bilancio e diconcorrenza (la politica moneta-ria veniva trasferita ad un’autori-tà sovranazionale, il Sistema eu-ropeo di banche centrali con pro-prio perno la Banca centrale eu-ropea) e la successiva crisi finan-ziaria che travolse Stati (in parti-colare l’Italia) non ritenuti, daimercati internazionali, in gradodi fare fronte agli impegni assun-ti con il Trattato di Maastricht.In effetti, le misure adottate dalgoverno Amato tra il luglio1992 e il gennaio 1993 recepiva-no in parte il vento provenientedall’Atlantico, specialmente inmateria di drastiche riforme allaspesa sociale (in particolare allaprevidenza) e di regolazione delmercato del lavoro.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANGiuseppe Pennisi

Il radicalismo della reaganomicsplasmava in buona misura ilprogramma del Polo che, con undoppia alleanza di Forza Italia(al nord con la Lega, al centro-sud con il Msi) vinse inaspetta-tamente le elezioni – un segnaleche la società italiana era prontaa recepire aspetti di fondo dellareaganomics più di quanto nonpensassero i think-tank prevalen-ti e soprattutto quella che venivadefinita la grande stampa bor-ghese. La stagione fu breve e ter-minò proprio su un test da rea-ganomics: ulteriori riforme previ-denziali tanto necessarie da esse-re successivamente varate da unesecutivo formalmente tecnicoma con il supporto parlamentaredella sinistra.Nel periodo 1996-2001 in cui le“destre” erano all’opposizione,presero vita cenacoli di varia in-tonazione (dalla Fondazione Idea-zione all’Osservatorio Parlamentare,dall’Istituto Bruno Leoni, all’ActonInstitute), in cui le caratteristicheradicali della reaganomics diventa-rono oggetto di analisi e di dibat-tito, con particolare attenzione acome potessero essere trasferitenel pensiero e nella politica eco-nomica italiana. Il Patto con gliitaliani del 2001 e “le sette mis-sioni” del 2008, pur se non “radi-cali” quanto il succinto ma densoprogramma elettorale del 1994,mostravano un centrodestra libe-ral-liberista (pur se con sfumatu-re contrarie al mercatismo) anchein quanto aveva subito una scis-sione da parte della componentepiù marcatamente colbertiana. I nodi di politica economica

dell’Italia (il divario nord-sud,l’elevato stock di debito pubblico,le conseguenze dell’invecchia-mento della popolazione, la bassaproduttività) restavano profonda-mente differenti da quelli degliStati Uniti, caratterizzati da po-polazione giovane, alta produtti-vità, fortissimo indebitamentodelle famiglie e delle imprese, di-vari sociali non chiaramente con-nessi ad aree territoriali, un dila-gante disavanzo dei conti conl’estero. Ciò nonostante, alcuniaspetti della reaganomics incisero(tardivamente) non solo sui pro-grammi ma anche sull’azione dipolitica legislativa.I settori nei quali stanno lascian-do maggiormente il segno ri-guardano le denazionalizzazioni(o privatizzazioni) e le riformedel welfare. Hanno inciso, anchein parte, sulle riforme della pub-blica amministrazione (in speciequelle per migliorarne efficienzaed efficacia). Non hanno avutoeffetti di rilievo sulla politica dibilancio (data la profonda diffe-renza di problemi da affrontare) enon hanno avuto che effetti de-clamatori i tentativi di introdur-re misure di analisi microecono-mica (quali l’analisi costi-benefi-ci) come strumento per valutaree selezionare l’azione pubblica.In sintesi, in materia di denazio-nalizzazioni, occorre distingueredue fasi: quella dal 1992 al 1995di preparazione degli strumenti equella dal 1995 ad oggi di effet-tiva realizzazione delle privatiz-zazioni. Nonostante le profondedifferenze di ruolo del settorepubblico nell’economia america-

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na e italiana e di assetto istitu-zionale in generale, la fase 1992-1995 ha mutuato alcuni aspetti(non necessariamente quelli radi-cali) da esperienze d’Oltreatlanti-co e d’Oltremanica. Seguo indettaglio la materia dal 2001pubblicando ogni anno un sag-gio nel rapporto dell’associazioneSocietà Libera Processi di liberaliz-zazioni in Italia – a cui rimando.Mentre le partecipazioni statalisono sostanzialmente terminate,molto resta da fare in materia diservizi pubblici locali, special-mente di capitalismo municipa-le. Il provvedimento più marcatodalla reaganomics è la recente Leg-ge Ronchi in cui sostanzialmentesi recepisce una normativa del-l’Ue (non molto differente daquella adottata negli anni Ottan-ta negli Usa).In materia di welfare, le successi-ve riforme della previdenza pub-blica, soprattutto le più recentiche collegano spettanze all’aspet-tativa di vita alla nascita, vannonella direzione del full fundingdella social security Usa, una parteintegrante della reaganomics, con-fermata anche dall’Amministra-zione Obama.In materia di mercato del lavoro,le varie leggi di riassetto (dalpacchetto Treu alla legge Biagi)possono considerarsi una premes-sa per una più vasta riforma cheelimini gli steccati tra “chi èdentro” (con contratti a tempoindeterminato) e “chi è fuori”(con i contratti a termine previstidalla legge Biagi) – passo impor-tante per ridurre discriminazionied offrire a tutti le stesse oppor-

tunità. L’aspetto più importante,però, è ancora in itinere: riguardail federalismo. Con trent’anni diritardo vale la pena guardare alnuovo federalismo del messaggiosullo Stato dell’Unione del 1981,con il suo afflato sulla devoluzio-ne e sul capitale sociale a livellocomunitario e sui relativi vincolie controlli all’azione pubblica,posti là dove meglio funzionano.

De Vroey M. Gettinng Rido of Keynes? A Sur-vey of the History of Macroeconomics from Keynesto Lucas and Beyond, National Bank of Bel-gium Working Paper No. 187, Bruxelles2010Edwards Ch. Downsizing the Federal Gover-nment Cato Policy Analysis No. 515, Wa-shington 2009Gaoven A.B., A-Niaz Z. The Global EconomicCrisis and the Future of Neoliberal Globaliza-tion: Rupture Versus Continuity Koc Universi-ty, 2010Malloy R.P. Adam Smith in the Courts of theUnited States Loyola Law Review No. 32010Meeropol, Michael Surrender: How the Clin-ton Administration Completed the Reagan Revo-lution: University of Michigan Press, AnnArbor 2000Powell B., Stringham Economics in Defense ofLiberty, University of Suffolk, 2010Sill, Igor Looking at Reaganomics, Yet One Mo-re Time Topix, 2009Tushnet M. What Consequences do Ideas Have?Harvard Public Law Working Paper No 09-03, 2009

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QUEL CHE RESTA DI REAGANGiuseppe Pennisi

giuseppe pennisi

Consigliere del Cnel e professore emerito

della Scuola Superiore della Pubblica Ammi-

nistrazione, è docente all’Università Europea

di Roma ed al Link Campus dell’Università di

Malta. è consigliere scientifico di varie istitu-

zioni, tra cui la Cassa Depositi e Prestiti.

L’Autore

«Per Reagan – scrisse MiltonFriedman nel 2004 sul Wall StreetJournal, all’indomani della mortedell’ex presidente – controllare laspesa pubblica era un mezzo pergiungere ad un fine, non un finein sé. Quel fine era la libertà, la li-bertà umana, il diritto di ogni in-dividuo di perseguire i propriobiettivi e valori finché questinon interferiscono con quelli de-gli altri». Il fine era liberare lacrescita economica, mettendo fineall’illusorio tentativo di affidareallo Stato il compito di produrrericchezza. Un’illusione costante,una chiave di lettura del Nove-cento, il secolo in cui lo Stato-na-zione ha assunto dimensioni mairaggiunte in passato, in cui l’in-termediazione e l’interposizionepubblica nelle dinamiche umanesi è fatta pervasiva.Un autorevole studio di Vito Tan-

zi e Ludger Schuknecht1 mostracome intorno al 1870 la spesapubblica assorbisse circa un deci-mo del Prodotto interno lordo deipaesi a più alto livello di indu-strializzazione2. Centodieci annidopo, nel 1980, il peso del settorepubblico nei paesi più avanzatiraggiunse in media il 42% circadel Pil3. Il numero di lavoratoriassorbiti dalla macchina pubblicariflette la stessa tendenza: nel1870 i dipendenti pubblici deipaesi più avanzati rappresentava-no il 2,4% degli occupati, mentrenel 1980 lavorava per l’ammini-strazione pubblica ben il 17,5%di chi aveva un impiego. Quando lo Stato finisce per assor-bire un pezzo così cospicuo dellasocietà, realizzando quasi metàdel reddito nazionale annuo spen-dendo risorse prelevate ai privati4,si riduce lo spazio per l’autonomia

QUEL CHE RESTA DI REAGANPiercamillo Falasca

DI PIERCAMILLO FALASCA

Politica economica

L’economia scommettesull’individuoLa reaganomics fu il più serio tentativo di cambiare il corso della politica economicaamericana dal New Deal in poi. L’iniziativa privata soppianta l’interventismo statale e restituisce al singolo la centralità dell’azione economica.

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privata di decidere cosa e quantoprodurre e risparmiare, su cosa in-vestire e scommettere. Nelle ma-ni e nelle menti di un numero ri-stretto di persone si concentranole scelte che, in un’economia me-no intermediata, sono lasciate allaspontanea interazione di milionidi individui, ognuno con le pro-prie aspettative e preferenze, lapropria creatività e propensione alrischio5. Cosa è successo, nel No-vecento, perché alla vigilia del-l’epopea reaganiana il mondoavesse scelto (anche dove nonsventolava il vessillo rosso dellafalce e del martel-lo) lo Stato comesoggetto principedelle relazioni eco-nomiche? Sempli-cemente, si erapersa fiducia nel-l’uomo e negli uo-mini.Le due guerre mondiali e le spintetotalitariste della prima metà delsecolo avevano certamente deter-minato un salto marcato nei livel-li di spesa pubblica. In più, tral’Ottocento e il Novecento lo Sta-to ha cambiato mestiere: non hamai smesso di occuparsi delle suefunzioni tradizionali – la difesa, latutela dell’ordine, la giustizia e legrandi opere infrastrutturali – maa queste ha affiancato, fino a ren-derli magna pars della sua attività,robusti compiti di welfare, di in-termediazione e redistribuzionedel reddito e della ricchezza. Setale redistribuzione è accettabile oaddirittura opportuna quandofunge da meccanismo di contrastodella povertà assoluta o di valoriz-

zazione del capitale umano(l’istruzione o la formazione pro-fessionale), lo è molto meno quan-do è il frutto dell’azione parassita-ria di un gruppo sociale a scapitodi un altro. Ancora Friedman usa-va parole tanto semplici quantopregnanti a riguardo6:«Qualsiasiprogramma assistenziale (…) do-vrebbe essere strutturato al fine diaiutare gli individui in quanto in-dividui, e non perché appartengo-no ad un determinato gruppo(scelto in base all’occupazione, al-l’età o al salario), o a particolariorganizzazioni sindacali o specifi-

ci comparti pro-duttivi». Moltospesso, purtroppo,la dinamica demo-cratica finisce perpremiare l’apparte-nenza a una delleopposte e politiciz-zate bande d’inte-

ressi, ciascuna animata dalla ricer-ca della propria rendita. Questopilastro debole del sistema demo-cratico (base della riflessione dellateoria economica della public choi-ce, per inciso) è stato probabil-mente un fattore sistemico deter-minante dell’espansione della spe-sa pubblica e del peso dello Stato. Ma c’è ancora dell’altro: il Nove-cento è stato più che ogni altra co-sa l’era del keynesianesimo, l’ideasecondo la quale, come ha scrittoquell’eccellente anti-keynesianodi Antonio Martino7, solo «l‘ac-corta manipolazione degli aggre-gati monetari e soprattutto delsaldo del bilancio pubblico daparte di responsabili della politicaeconomica potesse impedire l’in-

Nel Novecento il mondo aveva scelto lo Stato come soggettoprincipe delle relazionieconomiche

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stabilità, le fluttuazioni cicliche,le crisi tipiche del capitalismo».Nel secolo scorso John MaynardKeynes ha fatto da profeta alla hy-bris dei governanti – il “numeroristretto di persone” di cui si so-pra – che si ritenevano tanto illu-minati da poter rimediare discre-zionalmente alle supposte stortu-re del mercato degli uomini conprogrammi pubblici di spesa ocon la creazione di nuova moneta.L’apogeo delle politiche keynesia-ne si raggiunse negli anni Sessan-ta e Settanta. Sebbene la gran par-te dei paesi avanzati non fosse im-pegnata in sforzibellici e la demo-grafia fosse ancoramolto favorevole(tanti giovani e po-chi anziani, ergopoche pensioni ebassa spesa sanita-ria), si realizzò trail 1960 e il 19808 un aumentospettacolare di spesa pubblica, ac-compagnato inevitabilmentedall’aumento della pressione fi-scale, dei deficit di bilancio e dallacrescita degli stock di debito pub-blico. Tutto ciò rifletteva un mu-tato atteggiamento culturale ver-so il potere pubblico: i governivenivano da molti percepiti comelo strumento più efficiente – ad-dirittura il più benevolo e legitti-mo – di allocazione e distribuzio-ne delle risorse, una mano visibi-lissima capace di stabilizzareun’economia considerata ontolo-gicamente instabile. In Europa, inparticolare, Keynes era di fattol’ispiratore di tutte le politicheeconomiche “a destra di Marx”,

mentre le tesi di economisti (allo-ra viventi) come von Hayek, Bu-chanan e Friedman – sostenitoridella libertà individuale, del libe-ro mercato e dell’opportunità eco-nomica, politica e filosofica di unruolo limitato dello Stato nel-l’economia – erano relegate alcampo delle speculazioni intellet-tuali.Ad un certo punto, però, la galop-pata della spesa pubblica subì unafrenata. Negli anni Ottanta il rit-mo di crescita della spesa pubbli-ca fu decisamente inferiore rispet-to al passato: per il 1990 la media

della spesa deipaesi più indu-strializzati fu di“appena” un puntopercentuale supe-riore al valore didieci anni prima(43%). Il fenome-no non fu omoge-

neo (l’Italia si comportò in con-trotendenza, ad esempio) e avven-ne anzitutto nel Regno Unito, do-ve nel decennio in questione laspesa pubblica in relazione al Pilcalò, e negli Stati Uniti, dove unleggero aumento fu dovuto esclu-sivamente alle spese militari9. Co-sa accadde?Man mano che l’interventismoiniziò a mostrare performance sca-denti (il fallimento delle politichedi stabilizzazione durante il pe-riodo della stagflazione degli anniSettanta10), nuove e vecchie ideealternative al keynesianesimo, piùfiduciose nella natura umana e neibenefici di un’economia libera,iniziarono a germogliare. Era «unnuovo scetticismo sul governo

Negli anni Ottanta il ritmo di crescita della spesa pubblica fu inferiore rispetto al passato

QUEL CHE RESTA DI REAGANPiercamillo Falasca

“benevolente” che compie le “giu-ste” scelte di politica economica»,scrivono Tanzi e Schuknecht. Par-tì dalle università americane –Chicago in primis – un vento cul-turale diverso, una sfiducia neiconfronti della legittimità, del-l’efficienza e della stessa moralitàdel potere pubblico, corroboratodai risultati di numerosi studieconometrici tesi a dimostrare glieffetti perversi di imposte tropposalate, degli eccessivi deficit e de-biti pubblici e delle iniquità cheun elevato tasso d’inflazione pro-duce. Quelle idee e quelle teorieebbero bisogno diqualche alfiere chedonasse loro appealpolitico e legitti-mità democratica.E nel volgere di unbiennio, tra i l1979 e il 1980, net rova rono dued’eccezione, sulle sponde del-l’Atlantico: la signora MargaretThatcher e il cowboy Ronald Wil-son Reagan. A trent’anni dallatornata elettorale che fece di que-st’ultimo il 40esimo presidenteUsa, il resto dell’articolo vuol par-lare della sua spettacolare cavalca-ta culturale contro il Big gover-nment e il government spending, conun occhio alla lezione che oggipossiamo trarne.La reaganomics fu il più serio tenta-tivo di cambiare il corso della po-litica economica americana dalNew Deal in poi, scommettendosull’uomo e non più sullo Stato.Già da governatore della Califor-nia11, Reagan aveva compreso chesolo riducendo la crescita del set-

tore pubblico si poteva consentireuna solida crescita dell’economiaprivata. Tasse eccessive (nel 1980l’aliquota marginale sul redditopersonale negli Usa era il 70%)deprimevano la creatività e l’im-prenditorialità degli americani,indotti a credere – dall’elevatapressione fiscale e dall’aspettativadi un aumento costante del publicspending – che lavorare di più sa-rebbe stato poco utile, perché loStato avrebbe chiesto per sé unaparte molto cospicua del guada-gno realizzato. Più lo Stato chie-deva, meno riceveva: come Arthur

Laffer aveva spiega-to al candidato pre-sidente Reagan,esiste una soglia diprelievo fiscale ol-tre la quale l’attivi-tà economica di-venta man manomeno conveniente;

e il gettito fiscale, di conseguen-za, diminuisce. Accanto alla tassa-zione, Reagan vedeva chiari gli ef-fetti distorsivi di una pesante in-termediazione statale sulle regoledel gioco economico, attraversoun uso discrezionale della politicamonetaria ed un eccesso di regola-zione sul funzionamento dei prin-cipali settori industriali12 e sugliscambi commerciali con il restodel mondo.Il Program for Economic Recovery del1981 ebbe quattro principaliobiettivi: frenare appunto la cre-scita della spesa pubblica; ridurrela tassazione sul lavoro e sul capi-tale; contenere l’inflazione attra-verso un maggior controllo del-l’offerta di moneta13; ridurre la re-

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Reagan vedeva chiari gli effetti distorsivi di una pesante intermediazione statalesul gioco economico

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IL PERSONAGGIO

Keynes, l’avversario del liberismo economicoJohn Maynard Keynes, pur essendo li-berale e anticomunista, rappresenta undeciso superamento del liberalismoclassico. La sua opera principale, TheGeneral Theory of Employment. Inte-rest and Money, basa la critica del lais-sez faire sulle esperienze della depres-sione del 1929. Essa eveva dimostratocome il mercato della domanda e del-l’offerta non era, di per sé, in grado dimantenere l’equilibrio tra risparmi e in-vestimenti, in maniera da garantire unlivello di domanda effettiva (globale) efar sì che il reddito nazionale restasse allivello del pieno impiego delle risorseproduttive. Come rimedio alle carenzedel meccanismo del mercato e sulla ba-se di una nuova teoria del saggio d’inte-resse e della moneta, Keynes ritiene su-perabili le crisi cicliche attraverso un at-tivo intervento pubblico, diretto aespandere la spesa globale (e quindi ladomanda) mediante consistenti investi-menti pubblici. Egli riconosce inoltrel’utilità dell’emissione di carta monetadel tutto disancorata dal sistema aureo,dimostrando come il processo inflazio-nistico non può aprirsi fino a quandonon sia raggiunto e superato il punto dipieno impiego.

QUEL CHE RESTA DI REAGANPiercamillo Falasca

golazione dei principali settoridell’economia14. Tra molte luci equalche ombra15, nei suoi otto an-ni alla Casa Bianca Ronald Rea-gan riuscì nell’intento che si eraprefissato: stabilizzare la spesanon-militare, frenare l’inflazione,aprire il mercato riducendo l’in-terposizione normativa (e ridu-cendo le barriere al commercio in-ternazionale) e, infine, tagliare ro-bustamente le aliquote (quellamassima sul reddito personalepassò dal famigerato 70 al 28%) ela pressione fiscale nel suo com-plesso. Si può dire molto sugli ef-fetti della cura, ma un dato è evi-dente: durante gli anni della Rea-ganomics la crescita economica ac-celerò, fu del 3,2% in media tra il1981 e il 1989, mentre era statadel 2,8 negli otto anni precedenti.E dopo la presidenza dell’ex attoredi Hollywood partì una faseespansiva proseguita almeno finoall’11 settembre 2001, il più lun-go periodo di crescita economicadal dopoguerra in poi.Con Reagan, così come con laThatcher, il mondo sperimentòun altro modo di intendere la po-litica economica del governo. I li-bri impolverati di Keynes lascia-rono il posto alle tesi degli econo-misti liberali, ed il ‘lungo perio-do’ non fu più l’epoca in cui tuttisarebbero morti, tanto da renderepoliticamente inopportuna ogniriforma che comportasse costi nel-l’immediato e benefici nel tempo.Il futuro diventò, nella retorica enella visione reaganiana, una cittàsopra una collina16, una promessache orienti il cammino quotidia-no e che tenga gli occhi lontani

dalla pochezza del breve periodo.E cioè, più concretamente, dal-l’uso della spesa pubblica – ossiadella tassazione, del deficit, del de-bito e dell’inflazione – come levagestionale del potere politico.È questa probabilmente la piùimportante lezione che oggi pos-siamo trarre dall’avventura reaga-niana: il lungo periodo come me-todo di governo. E accanto a que-sto, c’è da fare propria la diffiden-za nei confronti della politica edello Stato come deus ex machinadell’economia. Appena due annifa, in piena crisi finanziaria, trop-pi ebbero fretta (e gusto) nel defi-nire crisi “del” mercato quella cheera una crisi “nel” mercato17, pro-dottasi non per assenza di regole,ma per la presenza di regole sba-gliate, di scelte politiche azzarda-te che avevano creato l’illusione inmolti risparmiatori che il denarofosse ormai un bene a buon mer-cato e che indebitarsi oltre le pro-prie possibilità fosse poco rischio-so. Alla recessione economica e aifallimenti di alcune istituzioni fi-nanziarie i governi dei maggioripaesi del pianeta hanno reagitocome molto spesso – nel corso delNovecento – la politica ha reagi-to: pensando di “commissariare”la realtà, spendendo fiumi di de-naro pubblico per il salvataggiodi banche sull’orlo del collasso edi imprese ormai decotte18. E cosìla bolla del debito privato si è pre-sto trasformata in una nuova bolladel deficit e del debito pubblico,da cui oggi i maggiori paesi fannofatica a rientrare19, con conse-guenze negative sulla capacitàdell’economia occidentale di ri-

trovare il sentiero della crescita.Ancora, l’invecchiamento dellapopolazione all’orizzonte rendeinevitabile un futuro in cui unaporzione sempre più rilevante direddito nazionale sarà destinato aigrandi comparti di spesa della sa-lute e della previdenza: pezzi delPil oggi in gran parte in manopubblica, spesso svincolati daogni criterio di responsabilizza-zione personale e gestiti secondologiche burocratiche. Difficilecredere che sistemi pubblici dalcarattere universalistico, finanzia-ti dalla fiscalità generale, possanoa lungo reggere l’urto demografi-co dell’età che avanza e dei nuovi“barbari” che premono alle portedell’Occidente. Infine, è una pre-sunzione fatale quella di credereche alla sfida economica prove-niente dall’Asia orientale, dal-l’America del sud e presto dal-l’Africa si possa rispondere confi-dando sulla capacità dei vecchiapparati statali di proteggere lasocietà occidentale, la sua indu-stria, il suo benessere. C’è nuova-mente da scommettere – in Occi-dente – sull’uomo e sulla sua crea-tività, non sullo Stato. Oggi, perfarlo, Reagan farebbe esattamentequello che fece.

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piercamillo falasca

Vicepresidente di Libertiamo, fellow dell’Istitu-

to Bruno Leoni. Ha scritto con Carlo Lottieri

Come il federalismo può salvare il Mezzogior-

no (Rubbettino, 2008). Ha curato Dopo! - Ri-

cette per il dopocrisi (Ibl Libri, 2009).

L’Autore

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QUEL CHE RESTA DI REAGANPiercamillo Falasca

Note

1 Vito Tanzi e Ludger Schuknecht, La spesapubblica nel XX secolo. Una prospettiva glo ba-le, Firenze, Firenze University Press, 2007.2 Australia (18,3%), Austria (10,5), Ca-nada (nd), Francia (12,6), Germania(10,0), Italia (13,7), Irlanda (nd), Giap-pone (8,8), Nuova Zelanda (nd), Norve-gia (5,9), Svezia (5,7), Svizzera (16,5),Regno Unito (9,4), Stati Uniti (7,3).3 Australia (34,1), Austria (48,1), Cana-da (38,8), Francia (46,1), Germania(47,9), Italia (42,1), Irlanda (28,9),Giappone (32,0), Nuova Zelanda(38,1), Norvegia (43,8), Svezia (60,1),Svizzera (32,8), Regno Unito (43,0),Stati Uniti (31,4).4 Sia nella forma della tassazione che ri-correndo al mercato del debito: nel primocaso il settore pubblico preleva una partedella ricchezza privata, nel secondo casoassorbe una parte del risparmio privato.5 Friedrich von Hayek parlava di catallas-si (dal greco katallasso, scambiare riconci-liare), per indicare un sistema auto-orga-nizzativo di cooperazione volontaria.6 Milton Friedman, Capitalism and Free-dom, University of Chicago Press, 1962– In italiano: Capitalismo e libertà, IBLLibri, 2010.7 Antonio Martino, Semplicemente liberale,Liberilibri, 2004.8 Nei paesi sopra considerati si passa inmedia dal 28 al 42% del Pil.9 C’era la guerra fredda e gli Usa di fattosussidiavano l’Occidente fornendo dife-sa comune.10 “Labour is not working” diceva unfortunato slogan elettorale del partitoconservatore britannico alla vigilia delleelezioni parlamentari del 1979, quelleche portarono Margaret Thatcher aDowning Street. Nei manifesti prepara-ti dalla società di comunicazione Saat-chi&Saatchi si vedeva una lunga fila didisoccupati in attesa di un colloquiopresso gli uffici di collocamento.11 Nel 1975 tentò di far approvare la co-siddetta Proposition 1, un emendamen-to della costituzione dello Stato che im-ponesse un limite alla soglia massima di

spesa annua che il governo della Califor-nia potesse permettersi.12 La liberalizzazione del mercato aereoaprì le porte dello sviluppo del settore:in qualche modo, anche il fenomeno deivoli low cost nasce grazie alla maggioreconcorrenza tra compagnie aeree impo-sta dai provvedimenti dell’Amministra-zione Reagan..13 Quale altro presidente – ci si è chiestipiù volte – avrebbe assecondato la poli-tica della Fed di Paul Volcker?14 La quale è spesso una forma subdola ditassazione normativa.15 Per un’analisi approfondita della Rea-gonomics si rimanda a: Supply-side TaxCuts and the Truth about the Reagan Econo-mic Record, William A. Niskanen e Ste-phen Moore – Policy Analysis n. 261 –Cato Institute (disponibile in rete all’in-dirizzo: http://www.cato.org/pub_di-splay.php?pub_id=1120).16 “I’ve spoken of the shining city all my po-litical life, but I don’t know if I ever quitecommunicated what I saw when I said it.But in my mind it was a tall proud citybuilt on rocks stronger than oceans, wind-swept, God-blessed, and teeming with peopleof all kinds living in harmony and peace, acity with free ports that hummed with com-merce and creativity, and if there had to becity walls, the walls had doors and the doorswere open to anyone with the will and theheart to get here. That’s how I saw it and seeit still”. Ronald W. Reagan, discorso diaccettazione della candidature a presi-dente per il Partito Repubblicano nel1984 e discorso di commiato alla nazio-ne nel 1989.17 Il gioco di parole è di Benedetto Del-la Vedova, che mi scuserà per il furto.18 Avrebbero potuto e dovuto lasciarlefallire: con molte meno risorse si sareb-be potuto sostenere il reddito e la riqua-lificazione professionale del personale diquelle aziende.19 Si pensi al nuovo budget del GovernoCameron, con tagli draconiani ad unaspesa discrezionalmente lievitata neglianni passati.

119Ci sono personaggi nella storiache pur nascendo uomini o donne“di parte” e non facendo nulla nelcorso della loro carriera politicaper evitare di apparire tali, alla fi-ne del proprio percorso si trovanoaccreditati e osannati da plateebipartisan. In tali platee in primafila al taglio dei nastri di mauso-lei, monumenti, statue equestri aloro intitolate, spesso e volentierisi ritrovano oppositori senzaquartiere, acerrimi nemici di untempo, poco importa se sul ringdella sfida della politica e delleidee ci si era trovati ad incrociareaspramente i guantoni.Ronald Reagan è stato uno diquesti personaggi, lui, il cam-pione del Gop, del Grand oldparty, dei repubblicani, un altropresidente del partito dell’ele-fantino, “recuperato” alla patriasul letto di morte o quasi dalmondo liberal .

Reagan fu colui che più di ognialtro nel passato recente delle de-mocrazie occidentali, riuscì a tra-durre compiutamente in azionepolitica di successo una visioneorganica del mondo dove di fron-te all’uomo, creatura di Dio, ilgoverno e lo Stato dovevano fareun passo indietro nel nome dellalibertà di esercizio dei suoi dirittinaturali, ma allo stesso tempo do-vevano sentirsi pronti a farne duein avanti, senza paura alcuna néambiguità, quando si trattava didifendere, da minacce militari oideologiche, l’esercizio e l’esi-stenza di quegli stessi diritti.Su quella stagione, sul culminedella stagione del fusionismoaperta da Barry Goldwater, la riu-scita miscela delle quattro animedella destra americana (nazionali-smo, libertarismo, movimenti-smo cristiano e neoconservatori-smo) che i mandati dell’Ammini-

Nazionalismo, libertarismo, movimentismo cristianoe neoconservatorismo: le quattro anime del Partito repubblicano hanno giocato la stessa partita per portareavanti il cambiamento reaganiano. Una vittoria del fusionismo e della destra plurale.

La rivoluzione nel segno della libertà

Non solo reaganomics

DI GIAMPIERO RICCI

QUEL CHE RESTA DI REAGANGiampiero Ricci

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strazione Reagan hanno rappre-sentato, la letteratura di genere siè sbizzarrita e si sbizzarrisce madi questi tempi, con mezzo mon-do che annaspa nel tentativo diuscire dalla peggiore crisi econo-mica a partire dal 1929, quel-l’eredità politica viene celebrataquasi unicamente nella comodis-sima retorica anti-sovietica.Pochi, infatti, hanno il coraggiodi raccontare come il pilastro fon-damentale del successo di qualcu-no che per molti era semplice-mente un ex attore di serie B diHollywood, giunto alla CasaBianca per la biz-zarria dell’Ameri-ca profonda, fu larealizzazione diun’agenda econo-mica basata suprincipi, idee eprovvedimenti “li-beristi”. Il lettore, messo da parte l’imba-razzo e lo sconcerto alla letturadell’aggettivo virgolettato, vorràconvenire con chi scrive che suldisastrato panorama politico cul-turale occidentale, da qualche an-no il pensiero liberista ha ricoper-to – a torto o a ragione – la partedel nemico perfetto, prendendonei dibatti politici ed economiciun ruolo simile a quello dei sol-dati tedeschi o delle SS nei filmsulla seconda guerra mondiale:un “ismo” che in quanto tale eper le conseguenze ferali della suadiffusione – per alcuni importan-ti maîtres à penser soltanto legger-mente meno gravi della diffusio-ne del pensiero filosofico-politiconazionalsocialista degli anni

Trenta o della lunga stagione no-vecentesca del socialcomunismodell’Uomo Nuovo – dovrebbe es-sere bandito e relegato alla dam-natio memoriae.Il fatto è che quella parola – libe-rismo – per eventi mediatici, spe-culazioni, disinformazione o me-ro utilitarismo politico, ha, a par-tire dagli anni Novanta, assuntoconnotazioni autonome rispettoalla sua iniziale definizione didottrina economia del liberali-smo. Ed uno dei motivi per cuiciò è accaduto risiede proprio nel-la eco e nel successo di quel perio-

do in cui a Pen-nsylvania Avenuec’era Ronald Rea-gan.Durante la campa-gna elettorale del1980, su 76 consi-glieri economici diReagan, 22 appar-

tenevano alla Mont Pelerin Socie-ty, organizzazione globale cheaveva ed ha l’obiettivo di perse-guire il liberalismo economico(liberismo), istituita il 10 apriledel 1947 su impulso di 36 illu-stri personalità dal mondo acca-demico: economisti, storici, filo-sofi e altri che si riunirono pressola spa svizzera di Mont Pelerin.In pratica un’élite di studiosi au-todeputatasi alla realizzazione distrategie globali in difesa del ca-pitalismo, quale baluardo dellademocrazia secondo l’assunto delcapostipite Friedrich von Hayek:«Democrazia vuol dire libertàeconomica».Arthur Laffer, Milton Friedman,William Niskanen sono tra i no-

A partire dagli anni Novanta, il liberismo haassunto connotazioniautonome rispetto alla dottrina liberale

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mi più prestigiosi di quel gruppo.Quanto le elaborazioni di questogruppo di consiglieri economicipossano essere state fondamenta-li, non solo per la fortuna politicadel reaganismo ma anche per lacostruzione delle piattaformeprogrammatiche delle cancelleriedi mezzo Occidente, salta imme-diatamente agli occhi se si consi-dera che fu coniato dal giornalistadel Wall Street Journal Jude Wan-niski il termine “curva di Laffer”,da quel leggendario incontro del1980 con l’allora candidato presi-dente che Laffer ebbe in un risto-rante dove l’econo-mista, per convin-cere Reagan dellabontà della suateoria, scaraboc-chiò la curva su untovagliolo. La cur-va ipotizzava che sela pressione fiscaleera troppo alta, le entrate fiscalicalavano, perché meno convenien-te l’aumento di produttività inpresenza di aliquote fiscali eleva-te: in pratica si aprivano le porteper ripensare il livello fiscale ca-pace di raccogliere il maggior vo-lume possibile di entrate e il belloera che questo livello si teorizzavapotesse essere molto più basso deltasso tendenziale al 100% chemetteva (e mette) d’accordo glieconomisti di scuola kelsenianaprima e keynesiana poi.Dal premio Nobel Milton Fried-man e la sua scuola di Chicago, siprese la teoria di politica moneta-ria, basata sul controllo ferreodella crescita della massa moneta-ria per sconfiggere l’inflazione

ereditata. Fu un successo, da par-te della Federal Reserve, ma a dir-la tutta, ancora oggi, la nostraBce e la tenuta dell’euro devonopiù di qualcosa al contributo delgrande intellettuale newyorkese,capace anche di sconfessare l’effi-cacia della curva di Phillips, teo-ria in base alla quale alla discesadell’inflazione corrispondeva l’in-cremento della disoccupazione eviceversa, in pratica aprendo lastrada alla ricerca libera della pie-na occupazione.Da William A. Niskanen prese ilvia una rielaborazione teorica e

poi pratica delruolo della buro-crazia nelle ammi-nistrazioni gover-native contempo-ranee basata sumodelli di massi-mizzazione di bud-get, intanto indivi-

duando le funzione che il buro-crate massimizza (salari, preroga-tive della pubblica amministra-zione, reputazione del settorepubblico, potere, patronage, risul-tato della burocrazia). Niskanenaveva pubblicato nel 1971 il suoBureaucracy and representative go-vernment, libro che ebbe un gran-de impatto sul mondo accademi-co e del management pubblicoQuesto era lo staff dei consiglierieconomici liberisti che affiancava-no il cowboy californiano e la rea-lizzazione di quella che è passataalla storia come la reaganomics.Se oggi il liberismo è diventatosinonimo di irresponsabilità nonlo dobbiamo certamente a Ro-nald Reagan: quando andò alla

QUEL CHE RESTA DI REAGANGiampiero Ricci

Friedman e la scuola di Chicago ispiraronouna politica monetariaper sconfiggere l’inflazione ereditata

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Il Boston Tea Party fu un atto di protesta dei coloni americani contro le tasse del governobritannico. Accadde giovedì 16 dicembre 1773 nel porto di Boston. Un gruppo di giovaniamericani, appartenenti al gruppo patriottico dei Sons of Liberty, si travestì da indiani earmate di asce si imbarcarono a bordo della navi inglesi ancorate nel porto di Boston.Una volta a bordo furono gettate in mare le casse di té trasportate dalle navi. Il Tea Partyfu un atto di protesta dei coloni americani contro il continuo innalzamento delle tasse in-glesi nelle colonie. Dal 1764 il governo inglese del re Giorgio III aveva aumentato le tassesullo zucchero, sul caffè e sul vino, sulla carta. Le tasse inglesi erano finalizzate a reperi-re i fondi necessari per finanziare le guerre della Corona e le numerose imprese militari. Icoloni americani reagirono alla pressione fiscale boicottando il consumo del tè, che iniziòad essere acquistato di contrabbando dai mercanti olandesi senza pagare tasse di impor-tazione, causando ingenti perdite al commercio della Compagnia delle Indie. Su pressio-ne di quest’ultima il governo inglese eliminò la tassazione sul tè emanando nel 1773 il TeaAct. In tal modo il prezzo del tè inglese venduto in America divenne più conveniente diquello dei contrabbandieri americani-olandesi. La rimozione della tassa sul tè fu inter-pretata dagli abitanti delle colonie come un tentativo di infierire perdite alle compagnieamericane che fino a quel momento trassero profitto dal contrabbando, finanziando an-che attività di propaganda patriottica. Molti coloni occuparono per protesta il porto, im-pedendo alle navi inglesi di scaricare le casse di tè. Dinnanzi alle rimostranze dei coloni, icapitani delle navi inglesi arrivate in porto di Boston decisero di non scaricare il tè ingle-se e riportarlo in Inghilterra. Il governatore Hutchinson però decise di bloccare il porto diBoston e di vietare alle navi di salpare senza aver scaricato il tè. I coloni risposero alla de-cisione scaricando in mare le casse di tè. Il governo inglese reagì duramente al Tea Partyimponendo nuove leggi restrittive e accusando di alto tradimento alcuni cittadini dellecolonie americane. Il Tea Party fu considerato da molti come la scintilla della rivoluzioneamericana. In realtà, l’evento ebbe soltanto un grande impatto mediatico e contribuì, in-sieme ad altri fatti, all’escalation che condusse alla guerra d’indipendenza americana.

FOCUS

La rivolta del Boston Tea Party

Casa Bianca e si trovò a dover farfronte ad una situazione dei contidisastrata ad un paese che stavaperdendo colpi nei confronti del-la cortina di ferro, con l’inflazioneall’11,83% e la disoccupazione al7,5%, al primo anno del suo pri-mo mandato, convocò una confe-renza stampa a reti unificate dovespiegò al suo paese che se il go-verno dell’economia avesse conti-nuato nel senso interventista esoffocante con cui i precedentigoverni si erano mossi, per gliUsa e per il blocco occidentalenon vi sarebbe stato futuro, il de-stino avrebbe par-lato russo e le loro(le nostre) libertàpiù elementari nonsarebbero statesemplicemente arischio, ma sareb-bero state né piùné meno cancella-te, alla stregua di come il bolsce-vismo aveva operato sulla societàrussa uscita dalle amministrazio-ni zariste. Lui no, non si sarebbereso responsabile di un tale abo-minio, avrebbe rigato dritto perla sua strada, comminando la curada cavallo che sarebbe servita.Nel 1981 riuscì a far approvare alCongresso una riduzione delletasse del 25% in quattro anni e iltaglio di 25 miliardi di dollaridestinati a politiche assistenziali.Uno Stato che faceva il passo in-dietro e un governo che si autodi-chiarava limitato alle funzioni co-stituzionali per cui era stato pre-visto, tra le quali non rientravaquella di fare business.I risultati immediati dell’azione

di liberalizzazioni a pioggia, tagliorizzontali, verticali, obliqui, va-rati collateralmente alla riduzio-ne delle aliquote fiscali secondolo schema della curva di Laffer,produssero una crescita economi-ca che in meno di quattro anni fucapace, a parità di gettito, di rias-sorbire la disoccupazione che ine-vitabilmente si era creata per larealizzazione della cura dima-grante promessa.Alla fine del suo mandato i nume-ri della finanza pubblica riporta-vano una crescita economica inin-terrota e florida per otto anni ad

un tasso medio su-periore all’8,5%,l’inflazione era sce-sa sotto il 4%, e siera registrata lacreazione di 60milioni di nuoviposti di lavoro. Sembra incredibi-

le, ma da qui parte la cattiva pub-blicità di cui oggi gode il liberi-smo. Cinema d’autore, pubblici-stica liberal, scrittori, cantanti, fi-losofi post-marxisti in quegli an-ni così cruciali non fecero altroche sbandierare le immagini deitelegiornali americani che ripren-devano le code dei senza tetto airicoveri di fortuna, le manifesta-zioni sindacali, lo smarrimento diuna società costretta a mettere lecose a posto, omettendo però dimandare in onda e di narrare poil’America che da lì in poi fiorivanell’economia, nella scienza, nellacultura, in tutto, salvo parlare,gli accademici keynesiani, di“miracolo” (sic), per la crescita inassenza di inflazione.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANGiampiero Ricci

Alla fine del mandato di Reagan i numeri indicavano una crescitaininterrotta a un tassomedio dell’8,5% annuo

Da quella stagione mediaticaprende il via la narrativa del libe-rista cattivo, freddo calcolatoresulla pelle dei più deboli, un mar-chio toccato anche al grande pre-sidente americano che però ripe-teva a testa alta: «Lo Stato non èla soluzione, è il problema».Ciò detto, non si deve cadere nel-l’errore di considerare il reagani-smo una mera declinazione delladottrina economica liberista, èinvece esatto il contrario. «We hold these things to be self evi-dent, that all men are created equal,endowed by their creator of some una-lienable rights andthat among othersare Life, Libertyand the Pursuit ofHappiness», i versidel poema costitu-zionale redatti daWilliam Jefferson,la loro pedissequarealizzazione pratica attraversocomportamenti e provvedimentigovernativi era l’obiettivo princi-pe dell’amministrazione Reagan,non lo sdoganamento di leggi chedisarticolavano la tradizione delpaese, non l’appalto a burocratisenza responsabilità di parti si-gnificative della responsabilitàpersonale di ogni cittadino, nonuno stile governativo proprio del-le merchant bank. Si dà il caso che lo strumento egli uomini più adatti per opporsiad una tale deriva erano il liberi-smo e i liberisti e i risultati sonopassati alla storia.Sono passati però alla storia, esotto la voce “disastri”, anchequei teorici economisti di larga

fama, anch’essi liberisti, che que-sto retaggio hanno pensato benedi sperperare compiendo il pecca-to luciferino di ritenere di poterinvertire l’ordine degli addendi:non doveva essere più il pensieropolitico ad ispirare la dottrinaeconomica, bensì il contrario.L’esperimento nasce sotto i man-dati Clinton, il quale, democrati-co, aveva ben compreso che ilsuccesso della reaganomics non po-teva essere archiviato sotto nuovetasse o programmi governativi,ovvero agenzie statali.Venne lanciata, in uno stile go-

vernativo simile aquello oggi adotta-to da Steve Jobs, lavisione clintonianadi un’economia sìlibera, ma globale,che gli Usa avreb-bero dovuto caval-care forti delle pro-

messe della new economy e quindidi una forma di produzione dellavoro molto meno faticosa dellavecchia economia brick and stonedei dinosauri delle precedentiamministrazioni.Era poi arrivato il momento dellaproposta di nuovi diritti comequello alla casa di proprietà (inquegli anni la nascita delle agen-zie parastatali Fannie Mae e Fred-die Mac divenute tristemente fa-mose ai giorni nostri). È proprio in questa stagione chei tecnici economici (liberisti)iniziano il loro impegno nellacostruzione di modelli validi alsostegno del disegno immobi-liarista (una casa per tutti) delgiovane presidente (vedi i con-

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L’esperienza reaganiana non fu una mera declinazionedel liberismo, ma l’esatto contrario

tratti swap, antesignani dei fa-migerati derivati). Il risultato immediato fu la nasci-ta della prima bolla speculativache si ricordi nel passato recente,quella della new economy, che an-che, grazie all’azione dell’alloragovernatore della Fed Greenspan,verrà scaricata sulle borse delsud-est asiatico. È innegabile che i successi del-l’era reaganiana abbiano avutol’effetto di armare il senso di on-nipotenza di certa parte del mon-do intellettuale liberista, esem-plari in tal senso le dichiarazionirese da Alan Greenspan davantiad una commissione del Con-gresso nel pieno della crisi segui-ta al crollo dei crediti legati aimutui subprime: «L’intero edifi-cio intellettuale (...) è collassatonell’estate dell’anno scorso per-ché i dati inseriti nei modelli(…) avevano una copertura gene-ralmente valida solo con riferi-mento alle ultime due decadi, unperiodo di euforia». In pratical’intero edificio del diritto allacasa coniato negli anni clintonia-ni era basato su costosi errori divalutazione.La pecca del mondo liberista èstata quella di aver dimenticatola lezione degli anni reaganianiladdove il senso della ricerca deivari Laffer, Friedman e Niska-nen risiedeva nella realizzazionepratica di un disegno che siascriveva pienamente nel detta-to costituzionale dei Padri fon-datori ovvero nell’assunto haye-kiano secondo cui non ci può es-sere democrazia senza un’econo-mia libera.

Il fatto che il mondo intellettua-le liberista non si sia battuto inalcun modo, negli anni pre-crisiper la diffusione delle ragioniextra-economicistiche che sonodietro la visione di un liberali-smo senza compromessi e di unadeontologia professionale legataal perseguimento di obiettiviautenticamente liberali e nonmeramente utilitaristici, ha fini-to per far defluire quelle ideenello stesso buco nero in cui ilsistema economico contempora-neo occidentale è drammatica-mente scivolato.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANGiampiero Ricci

Giampiero ricci

Giornalista pubblicista, si occupa di letteraru-

ra, cinema e cultura pop. Collabora con il

quotidiano Liberal, il Domenicale, l’Occiden-

tale e Ffwebmagazine.

L’Autore

Solo un anno fa, il liberismo pa-reva essere la vittima più eccel-lente, e più frettolosamente sep-pellita, della crisi economica.Oggi le cose si pongono in unaprospettiva diversa. Il dibattitose la crisi sia la prova del falli-mento del capitalismo oppure laconseguenza di una regolamenta-zione eccessiva e malfatta puòsembrare ancora aperto. Di certo,alla discussione si è aggiunto unnuovo convitato: l’insostenibilitàdella spesa pubblica allegra negliStati occidentali. In fondo, se iltema dominante non è più il sal-vataggio delle banche o l’oppor-tunità di nuovi stimoli all’econo-mia, ma la possibilità – pratica econcreta, non meramente teorica– del fallimento degli Stati (Bal-cerowitz 2010), non stiamo assi-stendo solo al decorso di una cri-si più profonda e più vasta delprevisto: siamo al capolinea di

un modello di organizzazione so-ciale. Quel modello non è l’eco-nomia di mercato, ma la presun-zione di intermediare attraversole decisioni pubbliche una quotapreponderante del Prodotto in-terno lordo.Negli scorsi decenni, si è afferma-to – sia pure attraverso un percor-so incoerente, fatto di frenate eaccelerazioni – un rapporto tra loStato e l’economia che vede nelprimo non solo il soggetto incari-cato di scrivere le regole e, al più,agevolare la produzione dei benipubblici, ma addirittura l’im-prenditore di ultima istanza –quello che investe nelle attivitàche il mercato non vuole sostene-re allo scopo di perseguire obiet-tivi extraeconomici, a partire dalsostegno dell’occupazione e perarrivare alla sostenibilità ambien-tale. Lo Stato ha coniugato que-sto suo nuovo ruolo non più (o,

DI CARLO STAGNARO

Tra successi e critiche

Il liberismo, trent’anni dopoFino allo scorso anno, troppi avevano dato alle teorie liberiste tutte le colpe della crisi economica globale. Ma forse è vero l’esatto contrario: la recessione è figlia di una regolamentazione eccessiva e malfatta.

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QUEL CHE RESTA DI REAGANCarlo Stagnaro

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meglio, non solo) attraverso l’in-tervento diretto, per mezzo di so-cietà possedute o partecipate, mapiù spesso con l’uso aggressivodelle due principali leve a dispo-sizione dei decisori pubblici:quella regolatoria e quella fiscale.La sostanziale equivalenza di re-golazione e tassazione (Posner1971) fa sì che, all’atto pratico,non vi sia una reale differenzanell’esito dell’intervento pubbli-co: definendo regole opportune, ointroducendo tasse ad hoc, il go-verno può ottenere il risultato de-siderato (in termini di prezzi equantità) riguardola produzione diun qualunque be-ne o servizio. Così,alcune produzionivengono incenti-vate e altre disin-centivate; alcuneindustrie vengonopremiate e altre punite; la capaci-tà produttiva tende a essere so-vra- o sotto-dimensionata e ilconsumo eccessivo o troppo scar-so, rispetto ai livelli di mercato, aseconda delle preferenze dei deci-sori pubblici. La crisi finanziaria prima, econo-mica poi, del debito sovrano infi-ne (Friedman 2009) ha introdot-to un constraint alla libertà deidecisori pubblici. In primo luo-go, è oggi chiaro – mentre nonlo era fino a pochissimo tempofa, e anzi era esplicitamenteescluso dalla regolazione finan-ziaria – che i titoli sovrani sonoaltrettanto rischiosi di quelli or-dinari. Se un paese può essere co-stretto a ristrutturare il suo debi-

to, o addirittura se viene seria-mente considerata la possibilitàdi indurlo al fallimento, allorasignifica che i buoni del tesoronon sono più privi di rischio. Sela dimensione del rischio entraanche nelle finanze pubbliche,allora esse non sono più un pozzosenza fondo a cui attingere perfinanziare una spesa dissennata.In altre parole, per la prima voltaanche lo Stato deve sottostare aun vincolo di bilancio in sensoforte, che non è dettato solo (al-meno in Europa) dal vago timoreche Bruxelles potrebbe erogare

delle sanzioni peril mancato rispettodei parametri diMaastricht. Inol-tre, per la primavolta il pubblicosembra pronto agiudicare i gover-nanti anche sulla

base della performance delle finan-ze pubbliche. Indirettamente, loprova anche il successo dell’“oro-logio contadebito” sul sitowww.brunoleoni.it.Un secondo elemento di sclerosidel modello “welfarista” europeoderiva dal fatto che, proprio acausa della crescente consapevo-lezza del vincolo di bilancio, si èaperta una discussione pubblicasu quali siano le spese utili equali inutili; e su come rendereefficienti le prime e tagliare leseconde. In pratica, quasi nessu-no propone più la spesa pubblicacome panacea di tutti i mali: larisposta keynesiana alla crisi, chesolo un anno fa pareva coagulareconsensi virtualmente unanimi,

La risposta keynesianaalla crisi economica è già screditata perchéritenuta inefficace e insostenibile

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oggi è screditata, in quanto rite-nuta inefficace e insostenibile. Ilrigetto del keynesismo è un feno-meno interessante e per moltiversi imprevisto, che testimoniaanche a favore della maturità de-gli elettorati. E ciò a dispettoche, in assenza di vincoli, il key-nesismo sia naturalmente più at-trattivo rispetto alle sue alterna-tive. Diversi studi hanno dimo-strato (Buchanan 2001, Pel-tzman 1980) che il naturale for-marsi di coalizioni sociali el’asimmetria tra gli interessi con-centrati dei percettori della spesapubblica e gli in-teressi diffusi deibeneficiari dei tra-sferimenti pubbli-ci tendono a favo-rire l’aumento del-la spesa. La confu-sione dei bilancipubblici e l’inca-pacità (o impossibilità) dei più acapire quanto realmente essi be-neficino da, e quanto paghinoper, la spesa pubblica dà luogo alparadosso del churning (De Jasay1998), cioè all’incomprensibilitàdegli effetti netti della presenzadello Stato. Sicché tutti speranodi vivere alle spalle di tutti glialtri (Bastiat 2005, p.159).In tutto questo, la risposta libe-rista sembra non avere speranze –o, almeno, sembra uscire sfavori-ta nelle scommesse democrati-che. In realtà non è così. In par-te, perché periodicamente si im-pone – attraverso sentieri miste-riosi, o attraverso sentieri che in-terrogano più il sociologo e loscienziato politico dell’economi-

sta – un’etica pubblica favorevoleal mercato e critica verso lo Sta-to, favorevole all’impegno priva-to e critica verso il settore pub-blico, favorevole alla responsabi-lità individuale e critica verso laderesponsabilizzazione collettiva.In parte perché le circostanze dasole non bastano a dare piena-mente conto degli esiti politici:conta anche l’esistenza di unaleadership forte, determinata, edefficace, come è stato per Marga-ret Thatcher (Thatcher 1995,Blundell 2008) in Gran Breta-gna e Ronald Reagan negli Stati

Uniti (Hayward2009, Hayward2010). Occorre chiarireun punto: se nellasua manifestazio-ne più recente – econtraddittoria es-sa stessa, beninte-

so – il “liberismo al potere” si ècollocato sulla destra dello spet-tro politico, tale posizionamentonon va dato né per scontato, néper immutabile (Mingardi2009). Peraltro, in Italia posizio-ni liberiste sono state (tentativa-mente) articolate sia a destra, siaa sinistra: con l’una più attenta altema fiscale ma senza grandi ri-sultati pratici, l’altra incaricatadalla storia e dal caso (Romano2009) di avviare il processo diprivatizzazioni e liberalizzazioni.Qui va aperta un’ulteriore paren-tesi: le privatizzazioni sono statesoprattutto uno strumento perfare cassa e dunque hanno soven-te prodotto risultati subottimali,in termini di competizione. Con-

In Italia, il liberismo economico è stato articolato sia a destra che a sinistra, ma senzagrandi risultati pratici

QUEL CHE RESTA DI REAGANCarlo Stagnaro

temporaneamente, le liberalizza-zioni sono state più subite chepromosse, più il portato degliobblighi europei – e dunque ilprodotto di una ricerca tecnocra-tica dell’efficienza – che il risul-tato di una convinzione vera epropria. Dunque, si può sostene-re con ragionevole certezza che illiberismo, almeno in Italia, non èdi nessuno. In fin dei conti, però, tutto que-sto non è altro che il prodottodelle circostanze, non spiega per-ché un’etica liberista in alcunimomenti sia diffusa, in altri li-mitata a un ri-stretto circolo dipersone; e perchéin alcuni paesi siapresente più chein altri. Olson(1989) aiuta acomprendere laquestione coniu-gando le riflessioni sul poteredelle idee (una convinzione cheaccomunava Maynard Keynes aFriedrich Hayek) con le scopertedella public choice sulle dinamichesociali: se l’ideologia è una sortadi scorciatoia per la comprensio-ne del mondo da parte del citta-dino che non ha alcun incentivoa uscire dalla sua condizione di“ignoranza razionale”, in ultimaanalisi la vittoria di un’ideologiadipende dalla sua capacità di sal-darsi con gli interessi di alcunespecifiche coalizioni distributive.Dunque, il liberismo ha trionfatodove e quando – e potrà trionfaredove e quando – il suo ethos si ri-velerà conveniente per una coali-zione di interessi sufficientemen-

te coesa e sufficientemente ampia(due caratteristiche tra le quali, aparità di altri elementi, tende asussistere una correlazione inver-sa). Il caso paradigmatico di que-sta dinamica è l’Anti-Corn LawLeague di Richard Cobden eJohn Bright, che riuscì a ottene-re l’abolizione delle corn laws nel-la Gran Bretagna del Dicianno-vesimo secolo.Si arriva, così, alla stretta attuali-tà. Come si diceva, la rispostakeynesiana alla crisi si è rapida-mente rivelata insoddisfacente:non ha prodotto i benefici pro-

messi, mentre ri-schia di aggravareproblemi che oggisono sotto gli oc-chi di tutti. Inquesto frangente –che, in modo e perragioni e attraver-so storie diverse,

accomuna l’Europa e gli StatiUniti, entrambi alle prese conuna recessione che non accenna arientrare e l’esplosione di deficit edebito pubblico – emerge peròuna radicale differenza nella ri-sposta politica. Negli Usa, ilconfronto – un po’ stilizzato –tra democratici e repubblicani èstato del tutto spiazzato dallacomparsa dei Tea party: polariz-zando il dibattito coi panni nondi una destra populista e anti-tasse, ma di una controrivoluzio-ne liberista che è ugualmente an-ti-tasse e anti-spesa (Armey eKibbe 2010a, Armey e Kibbe2010b). In Europa, questo tipodi sentimeno fatica a trovare tra-duzione politica, vuoi per la di-

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Non può essercisviluppo senza rigore,ma il rigore senzasviluppo è lo statalismodei poveri

versa cultura nazionale – negliUsa tendenzialmente più indivi-dualista e scettica verso il big go-vernment – vuoi per la minorecontendibilità del potere e deipartiti (Hannan 2010). È proba-bile che i Tea party non si riveli-no un fuoco di paglia perché essihanno mosso una sfida troppoforte al ceto politico; anche se ilpersonale dei Tea party uscissesconfitto dalle elezioni di mid-term – assai improbabile, dato ilterremoto provocato alle prima-rie – essi hanno imposto la que-stione dello small government neldibattito quotidiano. L’aspettointeressante è che, se Bill Clin-ton si collocava nel paradigmadi Ronald Reagan allo stessomodo in cui Tony Blair stava inquello di Margaret Thatcher,Barack Obama si pone in conti-nuità – ma con ben maggioreintensità – rispetto a George W.Bush. Bush ha fatto esploderespesa e debito pubblico, Obamacon le sue riforme non ha indot-to un change quanto un upgraderispetto al bushismo. La pecu-liarità dei Tea party sta nel fattoche non hanno portato la gentein piazza contro il “lato oscuro”delle riforme – cioè l’aumentodella pressione fiscale che, nelmedio termine, dovrà pareggia-re l’incremento della spesa – macontro le riforme stesse. Per glieuropei può apparire incom-prensibile, ma per una volta gliamericani non si sono scagliati(solo) contro le tasse: si sonoscagliati contro la riforma sani-taria, la riforma finanziaria, e la(mancata) riforma verde.

131

IL LIBRO

Negli ultimi decenni l'antipolitica, ovve-ro il discorso di leader che si oppongo-no a un establishment politico tacciatodi immobilismo, inettitudine e corruzio-ne, si è diffusa in modo così rilevanteche sembra ormai rientrare nella "nor-malità" della democrazia. Ciò induce achiedersi se l'antipolitica sia solo un ef-ficace esercizio di demagogia o possainvece diventare un vero e proprio stru-mento di governo, al servizio di un pro-getto capace di trasformare il sistemapolitico. Il confronto fra tre leader – deGaulle, Reagan e Berlusconi – che, pre-sentatisi come outsider, hanno poi rico-perto le massime cariche di governo elasciato una traccia profonda nella vi-cenda politica dei rispettivi paesi, per-mette non solo di comprendere meglioil fenomeno dell'antipolitica, ma anchedi tracciare un bilancio inedito del per-corso politico di Silvio Berlusconi e del-la sua vera o presunta eccezionalità.

L’antipolitica al governoDe Gaulle, Reagan, BerlusconiDonatella CampusIl Mulino, 2006

QUEL CHE RESTA DI REAGANCarlo Stagnaro

Antipolitica, populismo o innovazione?

Da qui, derivano due probabiliorientamenti. Se negli Stati Uni-ti (e, in modo peculiare, in GranBretagna) è possibile che il di-battito subisca uno spostamentoverso un liberismo dal basso,nell’Europa continentale lo sce-nario è più confuso. Da un latoil ceto politico appare collocarsiall’interno del paradigma keyne-siano, dall’altro le condizioni alcontorno rendono questo para-digma decisamente impraticabi-le. La spesa pubblica non può es-sere aumentata ma deve essereridotta, la regolamentazione ègià talmente pervasiva da costi-tuire un oggettivo impedimentoper le imprese senza produrresensibili benefici, il prelievo fi-scale rappresenta un’enorme za-vorra per la crescita economicache è impensabile far crescere ul-teriormente. Eppure, almeno alivello di slogan, tutti riscono-scono che la priorità europea è losviluppo. Non può esserci svi-luppo senza rigore, ma il rigoresenza sviluppo – cioè il conteni-mento della spesa una riduzionedel perimetro pubblico – è lostatalismo dei poveri.

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carlo stagnaro

Direttore energia e ambiente dell’Istituto Bru-

no Leoni. Collabora con Il Foglio e con varie

pubblicazioni italiane e straniere. Fa parte

della redazione della rivista Energia e ha

pubblicato articoli su testate specializzate

quali Oil & Gas Journal ed Energy Tribune.

L’Autore

135Mentre Ronald Reagan era allaCasa Bianca, nel mondo milioni emilioni di giovani vivevano dareaganiani, molto spesso senza sa-perlo nemmeno. E forse nemme-no lui, il vecchio Ronnie, sapevadi aver innescato un fenomenoculturale a livello globale, cheavrebbe permeato di se ogni partedella società degli anni Ottanta.I critici del reaganismo, quelliche già allora parlavano di esage-rata tendenza ai beni materiali eal disimpegno, avevano coniato ilnoto “edonismo reaganiano”, in-teso come estensione moderna delvecchio concetto filosofico “chepone il fine della vita nel piacereinteso come assenza di sofferenzafisica e di turbamento morale” (ladefinizione è del Sabatini-Colet-ti). Per chi, invece, ha vissutoquegli anni come vera (e forseprima) rivoluzione borghese e li-berale, il giudizio è molto menonegativo. Per loro, infatti, la de-

clinazione culturale (e sottocultu-rale) del reaganismo si concretiz-zò in un accrescimento delle li-bertà dell’individuo dopo i lun-ghi anni dell’impegno politico edel comunitarismo a tutti i costi,in una visione della vita che nonera egoistica o strafottente ma so-lo più attenta ai sogni e ai bisognidi ognuno, convinti come si erache solo realizzando ogni singoloobiettivo si poteva raggiungere ilbenessere della “società”.Per questo, gli anni Ottanta rap-presentano ancora oggi un mo-dello di rigoglio culturale e crea-tivo, criticabile e “emendabile”quanto si vuole ma centrale percomprendere il mondo così comelo conosciamo oggi. In fondo, itempi che stiamo vivendo sonofigli legittimi e riconosciuti diquegli anni: dalla moda alla mu-sica, dal boom tecnologico e infor-matico alla televisione, viene tut-to da lì, da quell’embrione di vi-

Gli anni Ottanta rappresentano ancora oggi un modello di rigoglio culturale e creativo, criticabilequanto si vuole ma centrale per comprendere la società come la conosciamo oggi. Siamo tutti figli di Reagan, volenti o nolenti.

E la cultura pop sposò il reaganismo

Rivoluzione di costume

DI DOMENICO NASO

QUEL CHE RESTA DI REAGANDomenico Naso

136

talità sanamente e fieramente in-dividuale che ha contribuito, enon è un’esagerazione, a far pre-valere il modello occidentale suquello comunista e sovietico.In meno di dieci anni (dal 1980al 1989) esplosero miriadi di ten-denze, mode, nuovi stili di vita.L’uomo occidentale smetteva ipanni del ribelle a tutti i costi,del rivoluzionario antisistema, epuntava, al contrario, a entrare inquel sistema, a cambiarlo secondoi propri bisogni, a mandare via lapolvere accumulata negli ultimidue decenni e innescare un nuovocircolo virtuoso diintrapresa e inizia-tiva.I profeti del primoreaganismo socio-culturale erano gliyuppies, i giovanirampanti che al-l’inizio degli Ot-tanta furono i protagonisti asso-luti del boom economico (o sareb-be meglio definirla bolla?). Gliyoung urban professionals (questo ilsignificato del nomignolo) aveva-no più o meno le stesse caratteri-stiche: età compresa tra 25 e 39anni, laurea, conto in banca cor-poso, indole egocentrica, iperatti-vità, ossessione per la cura delproprio aspetto, fissazione per lemode del momento. Il settimana-le Newsweek aveva dedicato loro lacopertina del 31 dicembre 1984,decretandoli i protagonisti asso-luti di quell’anno. New York erail loro regno, Wall Street il loroinespugnabile castello. Eppure,in pochi anni, gli yuppies hannovisto crollare il loro mondo. Nel

1987, con il crollo della borsa diNew York, si chiudono gli anniOttanta finanziari, quelli dellaspeculazione, del profitto, deitorbidi giochi di potere all’ombradella Statua della Libertà. Manemmeno la degenerazione borsi-stica, né una cattiva pubblicitàche li voleva arroganti, ignorantie materialisti, potranno cancella-re un fenomeno come quello yup-pie, che voleva essere simbolo de-gli Ottanta così come gli antite-tici hippies lo erano stati dei duedecenni precedenti. In parte cisono riusciti, ma il rinnegamento

degli anni del di-simpegno nei de-cenni successivi liha trasformati inesempi negativi, insquali spietati asse-tati di sangue.Nella cultura po-polare, due film

hanno raccontato in manieraesaustiva quell’universo: WallStreet (1987) e Una donna in car-riera (1988). Nel primo, MichaelDouglas incarna tutti gli stravizidello yuppie newyorkese avido didenaro, senza remore morali néscrupoli. Nel secondo, invece, lagioventù carrierista di quegli an-ni ha lo sguardo dolce e l’orgogliofiero di Melanie Griffith, anoni-ma segretaria che riesce a scalare ivertici della finanza usando am-bizione e talento, insieme a unpaio di trucchetti poco ortodossi.Tra le due rappresentazioni diquell’universo, è forse quest’ulti-ma che ci permette di analizzarecon obiettività il substrato popdel fenomeno yuppie. Nel film di

I profeti del primo reaganismo erano gli yuppies, giovanirampanti protagonistidel boom economico

137

Mike Nichols, forse un po’ trop-po zuccheroso e buonista, c’è co-munque l’essenza migliore diquel periodo: il giusto mix traambizione e talento, i desideri diuna generazione che vuole arriva-re al top, anche partendo daglistrati più bassi della società. Èl’American way of life che incontral’American dream. È Doris Day chesmette i panni di casalinga e vuo-le sfondare a Wall Street. È il rea-ganismo puro, senza deviazionidi sorta. È l’individuo che credenelle proprie capacità e vuole far-le fruttare. Senza chiedere aiuto anessuno, tantome-no allo Stato. Solicontro il Moloch.Soli contro le ren-dite di posizione.E ogni tanto va afinire bene, conMelanie Griffithche si gode, incre-dula, il suo ufficio ai piani alti,mentre le sue ex colleghe segreta-rie, nell’angusto open space che leaccoglie tutte come api operaie,esultano e un po’ la invidiano,perché in fondo quello è il sognodi tutte.Ma la pop culture di stampo reaga-niano non è solo affarismo e car-rierismo. Anzi, spesso è tutt’al-tro. Spesso è proprio qualcosa chenasce contro ciò che Reagan rap-presentava, per finire poi a incar-narne appieno il senso profondo,il sottotesto. È il caso di Madon-na, giusto per citare il più clamo-roso fenomeno di cultura popola-re degli anni Ottanta. Se qualcu-no andasse oggi da Madonna e lechiedesse: «Lei è stata il simbolo

dell’America reaganiana?», lasuddetta popstar reagirebbe malis-simo. E invece, volente o nolente,la material girl italoamericana èstata davvero l’icona di quegli an-ni. Una ragazza indipendente,controversa, trasgressiva, ma an-che simbolo di un individualismospinto che puntava al soddisfaci-mento dei piaceri personali. Traseni puntuti e aneliti libertari,quella ragazza era, ed è, un sim-bolo di un periodo irripetibile eincancellabile della storia dellacultura popolare. Così come lo èstato, forse addirittura di più,

que l Michae lJackson che piùvolte ha incontra-to Reagan, che conil presidente haintrattenuto addi-rittura un carteg-gio. Ronnie, adesempio, aveva

scritto al Re del pop dopo il biz-zarro incidente con il fuoco du-rante la registrazione di uno spotper la Pepsi, ricordando come“milioni di americani” vedesseroin lui un simbolo anche perché,rimarcava con enfasi il presidenteamericano, la sua «profonda fedein Dio e l’adesione ai valori tradi-zionali sono un’ispirazione pernoi tutti, specialmente per i gio-vani che cercano qualcosa di realein cui credere». L’uomo più po-tente del mondo, in buona so-stanza, scrive all’uomo più famo-so del mondo, e lo esalta comemodello tradizionale. Jackson, infondo, era davvero l’uomo piùreaganiano del globo, in quantoself made man, ma veramente però,

Al cinema, la Griffithincarna il volto miglioredell’American dream. È l’individuo che credenelle proprie capacità

QUEL CHE RESTA DI REAGANDomenico Naso

non solo in senso figurato. Perappagare i propri bisogni indivi-duali, la popstar non aveva esitatoa modificare radicalmente il suocorpo, perché nell’epoca dell’edo-nismo reaganiano, se non facciomale a nessuno io sono libero diperseguire la mia felicità. Sempree comunque.E nell’Italia craxiana di queglianni, il reaganismo è arrivato? Sìe no, perché quando ciò è succes-so, gli effetti sono stati annacqua-ti, modificati, adeguati alle no-stre esigenze provinciali. La ver-sione milanese degli yuppies, adesempio, era greve, volgare, cafo-na, arricchita. Si ostentava unaricchezza effimera come statussymbol e, peggio ancora, chiaveper aprire le porte del paradisopolitico. Erano gli anni della Mi-lano da bere, dominata da nani eballerine e ragazzotti su autosportive, con Rolex costosissimirigorosamente sul polsino (Avvo-cato docet). Non c’era slancio idea-lista ma voglia di accumulare,possedere e spendere. Il “lavoro,guadagno, pago, pretendo” (dettocon forte inflessione meneghina)nasce in quegli anni e presenta almondo la versione riveduta e cor-retta del “cummenda” dei decen-ni precedenti. E, per quanto ri-guarda i riferimenti cinematogra-fici, noi dobbiamo accontentarcidi Yuppies, film del 1986 di CarloVanzina, con il solito cast da cine-panettone: Massimo Boldi, Chri-stian De Sica, Jerry Calà, EzioGreggio e Sergio Vastano. E trauna battutaccia e uno sketch vol-gare, veniva rappresentata quel-l’Italia stracafonal che solo sei an-

138

IL FILM

New York 1985. A Wall Street l’unicacosa che conta è il potere del denaro.Giovani e rampanti yuppies, laureatinelle business school più prestigiosedel mondo speculano in borsa conl’unico obiettivo di guadagnare molto esubito. Bud Fox (per gli amici Buddy) èun brillante ed anonimo broker prontoa tutto per raggiungere la gloria. «Il suc-cesso si condensa in pochi attimi», èquesto il motto di Buddy e quando l’oc-casione gli si presenta non se la lasciasfuggire. Il suo destino cambierà drasti-camente dopo l’incontro con il cinico espregiudicato finanziere d’assalto Gor-don Gekko, idolo dei “ragazzi” di WallStreet. Molto presto il giovane brokercapirà con chi ha a che fare e, come inborsa ad immense fortune guadagnatein poche ore si susseguono rovinosi fal-limenti, anche nella vita di Buddy almomento di gloria seguirà la rovina.“Gekko il grande”, lo squalo del NewYork Stock Exchange, non si fermeràdavanti a niente e a nessuno per rag-giungere il suo scopo. I sogni di Buddyverranno infranti e si dissolveranno co-me i numeri delle quotazioni che appa-iono sui monitor di Wall Street.

Gli squali di Wall Street

139

ni dopo crollerà sotto i colpi delpool di Milano. Ma il vero fenomeno italiano diquegli anni, che da Milano (alloradavvero capitale morale d’Italia)si irradierà in tutto il mondo, èquello dei “paninari”. Figli deldisimpegno e del benessere, i pa-ninari non volevano sentir parlaredi politica, società, impegno etutto ciò che nel decennio prece-dente aveva dominato il panora-ma italiano. Bomber Schott, scar-pe Timberland ai piedi, tutto Naj-Oleari per le ragazze, hamburger apranzo e a cena, Duran Duran co-me miti musicali. È la gioventùdel Drive In di Italia 1, di DeejayTelevision, di Sposerò Simon Le Bon,di Cioè e Il Paninaro come pubbli-cazioni di riferimento. E lo slangdi Enzo Braschi, che rilanciò lasubcultura paninara in Tv, avevaperfettamente riproposto un vo-cabolario buffo, divertente e tre-mendamente milanese che la faràda padrone per tutto il decennio.Ma torniamo in America, e ten-tiamo di volare un po’ più alto.Gli anni Ottanta sono ancheun’esplosione moderna e sfaccia-ta dell’arte contemporanea. NewYork è il centro di un mondo ar-tistico maledetto e disordinato,dominato da Andy Warhol e dal-la sua pop art, e arricchito dallebrevi ma indimenticabili parabo-le di due giovani deviati e de-vianti (secondo i benpensanti),creativi e rivoluzionari (secondochi li ha apprezzati) come KeithHaring e Jean-Michel Basquiat.L’arte si fa in serie, tutto è incommercio. I quadri diventanobrand, gli omini di Haring sono

il simbolo ultrapop di un’epoca.E Keith Haring è anche l’esem-pio migliore del decennio del-l’Aids, la nuova peste che proprionegli anni Ottanta esplode e spa-venta milioni di persone in tuttoil mondo. I Warhol boys sono, ov-viamente, l’antitesi dell’ideolo-gia politica reaganiana. Eppure,anche in questo caso il paradossosta proprio nell’assoluta aderenzaal reaganismo dell’antireagani-smo artistico e culturale. È que-sto che nessuno, né loro né, tan-tomeno, Ronald Reagan, aveva-no capito. Tutti gli anni Ottantasono figli (legittimi o meno) del-l’attore che si fece presidente,dell’uomo dai saldi principi mo-rali e che invece, volente o nolen-te, ha partorito un decennio irre-golare e fuori dagli schemi che,tra soldi, droghe, Aids, arte e di-simpegno, ha costruito la societàdi oggi. Noi seguaci e nostalgicidell’era d’oro della pop culture,siamo tutti figli suoi. Chissà sene sarebbe contento.

domenico naso

Giornalista, si occupa di politica, televisione e

cultura pop. Scrive per il Secolo d’Italia e

Ffwebmagazine, per il quale cura anche la ru-

brica di critica televisiva Television Republic.

Ha lavorato per la rivista Ideazione.

L’Autore

QUEL CHE RESTA DI REAGANDomenico Naso

In tre discorsi pubblici che hanno lasciato il segno, ripercor-

riamo la storia politica di Ronald Reagan e della sua presi-

denza. Pubblichiamo qui di seguito in lingua originale A Time

for Choosing, l’appello che Reagan affidò all’etere in occasione

della candidatura alla presidenza di Barry Goldwater nel 1964.

Nel discorso di insediamento, il 20 gennaio del 1981, il neo-

presidente cerca di scuotere un paese sfiduciato e in crisi

d’identità. Infine il discorso, celeberrimo e profetico, tenuto

sotto la Porta di Brandeburgo, in una Berlino ancora sfregiata

dal Muro. Quando, rivolgendosi al suo omologo sovietico, Mi-

khail Gorbaciov, lo incalzò con parole passate alla storia: «Ge-

neral Secretary Gorbachev, if you seek peace, if you seek

prosperity for the Soviet Union and Eastern Europe, if you

seek liberalization: come here to this gate! Mr. Gorbachev,

open this gate! Mr. Gorbachev, tear down this wall!» Era il 12

giugno del 1987 e in tanti lo presero per un visionario. Due

anni e cinque mesi più tardi, il Muro non c’era più.

gli strumenti di

STRUMENTI

A Time for Choosing(Discorso televisivo tenuto il 27 otto-bre 1964, in occasione della candi-datura di Barry Goldwateralla presi-denza degli Stati Uniti)

Thank you. Thank you very much.Thank you and good evening. Thesponsor has been identified, but un-like most television programs, theperformer hasn’t been provided witha script. As a matter of fact, I havebeen permitted to choose my ownwords and discuss my own ideas re-garding the choice that we face in thenext few weeks.I have spent most of my life as a De-mocrat. I recently have seen fit to fol-low another course. I believe that theissues confronting us cross partylines. Now, one side in this campaignhas been telling us that the issues ofthis election are the maintenance ofpeace and prosperity. The line hasbeen used, “We’ve never had it sogood.”But I have an uncomfortable feelingthat this prosperity isn’t something onwhich we can base our hopes for thefuture. No nation in history has eversurvived a tax burden that reached athird of its national income. Today, 37cents out of every dollar earned in thiscountry is the tax collector’s share,and yet our government continues tospend 17 million dollars a day morethan the government takes in. Wehaven’t balanced our budget 28 out ofthe last 34 years. We’ve raised ourdebt limit three times in the last

twelve months, and now our nationaldebt is one and a half times biggerthan all the combined debts of all thenations of the world. We have 15 bil-lion dollars in gold in our treasury; wedon’t own an ounce. Foreign dollarclaims are 27.3 billion dollars. Andwe’ve just had announced that thedollar of 1939 will now purchase 45cents in its total value.As for the peace that we would pre-serve, I wonder who among us wouldlike to approach the wife or motherwhose husband or son has died inSouth Vietnam and ask them if theythink this is a peace that should bemaintained indefinitely. Do theymean peace, or do they mean we justwant to be left in peace? There can beno real peace while one American isdying some place in the world for therest of us. We’re at war with the mostdangerous enemy that has ever facedmankind in his long climb from theswamp to the stars, and it’s been saidif we lose that war, and in so doinglose this way of freedom of ours, his-tory will record with the greatest as-tonishment that those who had themost to lose did the least to preventits happening. Well I think it’s time weask ourselves if we still know the free-doms that were intended for us by theFounding Fathers.Not too long ago, two friends of minewere talking to a Cuban refugee, abusinessman who had escaped fromCastro, and in the midst of his storyone of my friends turned to the otherand said, “We don’t know how lucky

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we are.” And the Cuban stopped andsaid, “How lucky you are? I had some-place to escape to.” And in that sen-tence he told us the entire story. If welose freedom here, there’s no place toescape to. This is the last stand onearth.And this idea that governmentis beholden to the people, that it hasno other source of power except thesovereign people, is still the newestand the most unique idea in all thelong history of man’s relation to man.This is the issue of this election:whether we believe in our capacity forself-government or whether we aban-don the American revolution andconfess that a little intellectual elite ina far- distant capitol can plan our livesfor us better than we can plan themourselves.You and I are told increasingly wehave to choose between a left orright. Well I’d like to suggest there isno such thing as a left or right. There’sonly an up or down: [up] man’s old –old-aged dream, the ultimate in indi-vidual freedom consistent with lawand order, or down to the ant heap oftotalitarianism. And regardless oftheir sincerity, their humanitarianmotives, those who would trade ourfreedom for security have embarkedon this downward course.In this vote-harvesting time, they useterms like the “Great Society,” or aswe were told a few days ago by thePresident, we must accept a greatergovernment activity in the affairs ofthe people. But they’ve been a littlemore explicit in the past and among

themselves; and all of the things I nowwill quote have appeared in print.These are not Republican accusa-tions. For example, they have voicesthat say, “The cold war will endthrough our acceptance of a not un-democratic socialism.” Another voicesays, “The profit motive has becomeoutmoded. It must be replaced by theincentives of the welfare state.” Or,“Our traditional system of individualfreedom is incapable of solving thecomplex problems of the 20th centu-ry.” Senator Fulbright has said atStanford University that the Consti-tution is outmoded. He referred tothe President as “our moral teacherand our leader,” and he says he is“hobbled in his task by the restric-tions of power imposed on him bythis antiquated document.” He must“be freed,” so that he “can do for us”what he knows “is best.” And SenatorClark of Pennsylvania, another articu-late spokesman, defines liberalism as“meeting the material needs of themasses through the full power of cen-tralized government.”Well, I, for one, resent it when a rep-resentative of the people refers toyou and me, the free men and womenof this country, as “the masses.” Thisis a term we haven’t applied to our-selves in America. But beyond that,“the full power of centralized govern-ment” – this was the very thing theFounding Fathers sought to minimize.They knew that governments don’tcontrol things. A government can’tcontrol the economy without control-

143

STRUMENTI

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ling people. And they know when agovernment sets out to do that, itmust use force and coercion toachieve its purpose. They also knew,those Founding Fathers, that outsideof its legitimate functions, govern-ment does nothing as well or as eco-nomically as the private sector of theeconomy.Now, we have no better example ofthis than government’s involvementin the farm economy over the last 30years. Since 1955, the cost of thisprogram has nearly doubled. One-fourth of farming in America is re-sponsible for 85% of the farm sur-plus. Three-fourths of farming is outon the free market and has known a21% increase in the per capita con-sumption of all its produce. You see,that one-fourth of farming – that’sregulated and controlled by the feder-al government. In the last three yearswe’ve spent 43 dollars in the feedgrain program for every dollar bushelof corn we don’t grow.Senator Humphrey last week chargedthat Barry Goldwater, as President,would seek to eliminate farmers. Heshould do his homework a little bet-ter, because he’ll find out that we’vehad a decline of 5 million in the farmpopulation under these governmentprograms. He’ll also find that theDemocratic administration hassought to get from Congress [an] ex-tension of the farm program to in-clude that three-fourths that is nowfree. He’ll find that they’ve also askedfor the right to imprison farmers who

wouldn’t keep books as prescribed bythe federal government. The Secre-tary of Agriculture asked for the rightto seize farms through condemnationand resell them to other individuals.And contained in that same programwas a provision that would have al-lowed the federal government to re-move 2 million farmers from the soil.At the same time, there’s been an in-crease in the Department of Agricul-ture employees. There’s now one forevery 30 farms in the United States,and still they can’t tell us how 66shiploads of grain headed for Austriadisappeared without a trace and BillieSol Estes never left shore.Every responsible farmer and farmorganization has repeatedly asked thegovernment to free the farm econo-my, but how – who are farmers toknow what’s best for them? Thewheat farmers voted against a wheatprogram. The government passed itanyway. Now the price of bread goesup; the price of wheat to the farmergoes down.Meanwhile, back in the city, under ur-ban renewal the assault on freedomcarries on. Private property rights[are] so diluted that public interest isalmost anything a few governmentplanners decide it should be. In a pro-gram that takes from the needy andgives to the greedy, we see such spec-tacles as in Cleveland, Ohio, a mil-lion-and-a-half-dollar building com-pleted only three years ago must bedestroyed to make way for what gov-ernment officials call a “more com-

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patible use of the land.” The Presi-dent tells us he’s now going to startbuilding public housing units in thethousands, where heretofore we’veonly built them in the hundreds. ButFHA [Federal Housing Authority] andthe Veterans Administration tell usthey have 120,000 housing unitsthey’ve taken back through mortgageforeclosure. For three decades, we’vesought to solve the problems of un-employment through governmentplanning, and the more the plans fail,the more the planners plan. The latestis the Area Redevelopment Agency.They’ve just declared Rice County,Kansas, a depressed area. Rice Coun-ty, Kansas, has two hundred oil wells,and the 14,000 people there haveover 30 million dollars on deposit inpersonal savings in their banks. Andwhen the government tells you you’redepressed, lie down and be de-pressed.We have so many people who can’tsee a fat man standing beside a thinone without coming to the conclusionthe fat man got that way by taking ad-vantage of the thin one. So they’regoing to solve all the problems of hu-man misery through government andgovernment planning. Well, now, ifgovernment planning and welfare hadthe answer – and they’ve had almost30 years of it – shouldn’t we expectgovernment to read the score to usonce in a while? Shouldn’t they betelling us about the decline each yearin the number of people needinghelp? The reduction in the need for

public housing?But the reverse is true. Each year theneed grows greater; the programgrows greater. We were told fouryears ago that 17 million people wentto bed hungry each night. Well thatwas probablytrue. They were all on a diet. But nowwe’re told that 9.3 million families inthis country are poverty-stricken onthe basis of earning less than 3,000dollars a year. Welfare spending [is]10 times greater than in the darkdepths of the Depression. We’respending 45 billion dollars on wel-fare. Now do a little arithmetic, andyou’ll find that if we divided the 45billion dollars up equally among those9 million poor families, we’d be ableto give each family 4,600 dollars ayear. And this added to their presentincome should eliminate poverty. Di-rect aid to the poor, however, is onlyrunning only about 600 dollars perfamily. It would seem that someplacethere must be some overhead.Now – so now we declare “war onpoverty,” or “You, too, can be a BobbyBaker.” Now do they honestly expectus to believe that if we add 1 billiondollars to the 45 billion we’re spend-ing, one more program to the 30-oddwe have – and remember, this newprogram doesn’t replace any, it justduplicates existing programs – dothey believe that poverty is suddenlygoing to disappear by magic? Well, inall fairness I should explain there isone part of the new program that isn’tduplicated. This is the youth feature.

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We’re now going to solve the dropoutproblem, juvenile delinquency, by re-instituting something like the old CCCcamps [Civilian Conservation Corps],and we’re going to put our youngpeople in these camps. But again wedo some arithmetic, and we find thatwe’re going to spend each year just onroom and board for each young per-son we help 4,700 dollars a year. Wecan send them to Harvard for 2,700!Course, don’t get me wrong. I’m notsuggesting Harvard is the answer tojuvenile delinquency.But seriously, what are we doing tothose we seek to help? Not too longago, a judge called me here in Los An-geles. He told me of a young womanwho’d come before him for a divorce.She had six children, was pregnantwith her seventh. Under his question-ing, she revealed her husband was alaborer earning 250 dollars a month.She wanted a divorce to get an 80dollar raise. She’s eligible for 330 dol-lars a month in the Aid to DependentChildren Program. She got the ideafrom two women in her neighbor-hood who’d already done that verything.Yet anytime you and I question theschemes of the do-gooders, we’re de-nounced as being against their hu-manitarian goals. They say we’re al-ways “against” things – we’re never“for” anything.Well, the trouble with our liberalfriends is not that they’re ignorant;it’s just that they know so much thatisn’t so.

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Now – we’re for a provision that des-titution should not follow unemploy-ment by reason of old age, and to thatend we’ve accepted Social Security asa step toward meeting the problem.But we’re against those entrustedwith this program when they practicedeception regarding its fiscal short-comings, when they charge that anycriticism of the program means thatwe want to end payments to thosepeople who depend on them for alivelihood. They’ve called it “insur-ance” to us in a hundred millionpieces of literature. But then they ap-peared before the Supreme Courtand they testified it was a welfareprogram. They only use the term “in-surance” to sell it to the people. Andthey said Social Security dues are atax for the general use of the govern-ment, and the government has usedthat tax. There is no fund, becauseRobert Byers, the actuarial head, ap-peared before a congressional com-mittee and admitted that Social Secu-rity as of this moment is 298 billiondollars in the hole. But he said thereshould be no cause for worry becauseas longas they have the power to tax, theycould always take away from the peo-ple whatever they needed to bailthem out of trouble. And they’re do-ing just that.A young man, 21 years of age, workingat an average salary – his Social Secu-rity contribution would, in the openmarket, buy him an insurance policythat would guarantee 220 dollars a

month at age 65. The governmentpromises 127. He could live it up untilhe’s 31 and then take out a policy thatwould pay more than Social Security.Now are we so lacking in businesssense that we can’t put this programon a sound basis, so that people whodo require those payments will findthey can get them when they’re due –that the cupboard isn’t bare?Barry Goldwater thinks we can.At the same time, can’t we introducevoluntary features that would permita citizen who can do better on hisown to be excused upon presentationof evidence that he had made provi-sion for the non-earning years?Should we not allow a widow withchildren to work, and not lose thebenefits supposedly paid for by herdeceased husband? Shouldn’t youand I be allowed to declare who ourbeneficiaries will be under this pro-gram, which we cannot do? I thinkwe’re for telling our senior citizensthat no one in this country should bedenied medical care because of a lackof funds. But I think we’re againstforcing all citizens, regardless of need,into a compulsory government pro-gram, especially when we have suchexamples, as was announced lastweek, when France admitted thattheir Medicare program is now bank-rupt. They’ve come to the end of theroad.In addition, was Barry Goldwater soirresponsible when he suggested thatour government give up its programof deliberate, planned inflation, so

that when you do get your Social Se-curity pension, a dollar will buy a dol-lar’s worth, and not 45 cents worth?I think we’re for an international or-ganization, where the nations of theworld can seek peace. But I thinkwe’re against subordinating Americaninterests to an organization that hasbecome so structurally unsound thattoday you can muster a two-thirdsvote on the floor of the General As-sembly among nations that representless than 10 percent of the world’spopulation. I think we’re against thehypocrisy of assailing our allies be-cause here and there they cling to acolony, while we engage in a conspira-cy of silence and never open ourmouths about the millions of peopleenslaved in the Soviet colonies in thesatellite nations.I think we’re for aiding our allies bysharing of our material blessings withthose nations which share in our fun-damental beliefs, but we’re againstdoling out money government to gov-ernment, creating bureaucracy, if notsocialism, all over the world. We setout to help 19 countries. We’re help-ing 107. We’ve spent 146 billion dol-lars. With that money, we bought a 2million dollar yacht for Haile Selassie.We bought dress suits for Greek un-dertakers, extra wives for Kenya[n]government officials. We bought athousand TV sets for a place wherethey have no electricity. In the last sixyears, 52 nations have bought 7 bil-lion dollars worth of our gold, and all52 are receiving foreign aid from this

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country.No government ever voluntarily re-duces itself in size. So, governments’programs, once launched, never dis-appear.Actually, a government bureau is thenearest thing to eternal life we’ll eversee on this earth.Federal employees – federal employ-ees number two and a half million;and federal, state, and local, one outof six of the nation’s work force em-ployed by government. These prolif-erating bureaus with their thousandsof regulations have cost us many ofour constitutional safeguards. Howmany of us realize that today federalagents can invade a man’s propertywithout a warrant? They can impose afine without a formal hearing, letalone a trial by jury? And they canseize and sell his property at auctionto enforce the payment of that fine. InChico County, Arkansas, James Wierover-planted his rice allotment. Thegovernment obtained a 17,000 dollarjudgment. And a U.S. marshal soldhis 960-acre farm at auction. Thegovernment said it was necessary as awarning to others to make the systemwork.Last February 19th at the Universityof Minnesota, Norman Thomas, six-times candidate for President on theSocialist Party ticket, said, “If BarryGoldwater became President, hewould stop the advance of socialismin the United States.” I think that’sexactly what he will do.But as a former Democrat, I can tell

you Norman Thomas isn’t the onlyman who has drawn this parallel tosocialism with the present adminis-tration, because back in 1936, Mr. De-mocrat himself, Al Smith, the greatAmerican, came before the Americanpeople and charged that the leader-ship of his Party was taking the Partyof Jefferson, Jackson, and Clevelanddown the road under the banners ofMarx, Lenin, and Stalin. And hewalked away from his Party, and henever returned til the day he died –because to this day, the leadership ofthat Party has been taking that Party,that honorable Party, down the roadin the image of the labor Socialist Par-ty of England.Now it doesn’t require expropriationor confiscation of private property orbusiness to impose socialism on apeople. What does it mean whetheryou hold the deed to the – or the titleto your business or property if thegovernment holds the power of lifeand death over that business or prop-erty? And such machinery already ex-ists. The government can find somecharge to bring against any concern itchooses to prosecute. Every busi-nessman has his own tale of harass-ment. Somewhere a perversion hastaken place. Our natural, unalienablerights are now considered to be a dis-pensation of government, and free-dom has never been so fragile, soclose to slipping from our grasp as it isat this moment.Our Democratic opponents seem un-willing to debate these issues. They

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want to make you and I believe thatthis is a contest between two men –that we’re to choose just betweentwo personalities.Well what of this man that theywould destroy – and in destroying,they would destroy that which herepresents, the ideas that you and Ihold dear? Is he the brash and shal-low and trigger- happy man they sayhe is? Well I’ve been privileged toknow him “when.” I knew him longbefore he ever dreamed of trying forhigh office, and I can tell you person-ally I’ve never known a man in my lifeI believed so incapable of doing a dis-honest or dishonorable thing.This is a man who, in his own busi-ness before he entered politics, insti-tuted a profit-sharing plan beforeunions had ever thought of it. He putin health and medical insurance for allhis employees. He took 50 percent ofthe profits before taxes and set up aretirement program, apension plan for all his employees. Hesent monthly checks for life to an em-ployee who was ill and couldn’t work.He provides nursing care for the chil-dren of mothers who work in thestores. When Mexico was ravaged bythe floods in the Rio Grande, heclimbed in his airplane and flew med-icine and supplies down there.An ex-GI told me how he met him. Itwas the week before Christmas dur-ing the Korean War, and he was at theLos Angeles airport trying to get aride home to Arizona for Christmas.And he said that [there were] a lot of

servicemen there and no seats avail-able on the planes. And then a voicecame over the loudspeaker and said,“Any men in uniform wanting a rideto Arizona, go to runway such-and-such,” and they went down there, andthere was a fellow named Barry Gold-water sitting in his plane. Every day inthose weeks before Christmas, all daylong, he’d load up the plane, fly it toArizona, fly them to their homes, flyback over to get another load.During the hectic split-second timingof a campaign, this is a man who tooktime out to sit beside an old friendwho was dying of cancer. His cam-paign managers were understandablyimpatient, but he said, “There aren’tmany left who care what happens toher. I’d like her to know I care.” This isa man who said to his 19-year-oldson, “There is no foundation like therock of honesty and fairness, andwhen you begin to build your life onthat rock, with the cement of the faithin God that you have, then you have areal start.” This is not a man whocould carelessly send other people’ssons to war. And that is the issue ofthis campaign that makes all the otherproblems I’ve discussed academic,unless we realize we’re in a war thatmust be won.Those who would trade our freedomfor the soup kitchen of the welfarestate have told us they have a utopiansolution of peace without victory.They call their policy “accommoda-tion.” And they say if we’ll only avoidany direct confrontation with the en-

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emy, he’ll forget his evil ways andlearn to love us. All who oppose themare indicted as warmongers. They saywe offer simple answers to complexproblems. Well, perhaps there is asimple answer – not an easy answer– but simple: If you and I have thecourage to tell our elected officialsthat we want our national policybased on what we know in our heartsis morally right.We cannot buy our security, our free-dom from the threat of the bomb bycommitting an immorality so great assaying to a billion human beings nowenslaved behind the Iron Curtain,“Give up your dreams of freedom be-cause to save our own skins, we’rewilling to make a deal with your slavemasters.” Alexander Hamilton said,“A nation which can prefer disgrace todanger is prepared for a master, anddeserves one.” Now let’s set therecord straight. There’s no argumentover the choice between peace andwar, but there’s only one guaranteedway you can have peace – and youcan have it in the next second – sur-render.Admittedly, there’s a risk in anycourse we follow other than this, butevery lesson of history tells us thatthe greater risk lies in appeasement,and this is the specter our well-mean-ing liberal friends refuse to face – thattheir policy of accommodation is ap-peasement, and it gives no choice be-tween peace and war, only betweenfight or surrender. If we continue toaccommodate, continue to back and

retreat, eventually we have to face thefinal demand – the ultimatum. Andwhat then – when Nikita Khrushchevhas told his people he knows whatour answer will be? He has told themthat we’re retreating under the pres-sure of the Cold War, and somedaywhen the time comes to deliver the fi-nal ultimatum, our surrender will bevoluntary, because by that timewe will have been weakened fromwithin spiritually, morally, and eco-nomically. He believes this becausefrom our side he’s heard voices plead-ing for “peace at any price” or “betterRed than dead,” or as one commenta-tor put it, he’d rather “live on hisknees than die on his feet.” Andtherein lies the road to war, becausethose voices don’t speak for the restof us.You and I know and do not believethat life is so dear and peace so sweetas to be purchased at the price ofchains and slavery. If nothing in life isworth dying for, when did this begin –just in the face of this enemy? Orshould Moses have told the childrenof Israel to live in slavery under thepharaohs? Should Christ have refusedthe cross? Should the patriots at Con-cord Bridge have thrown down theirguns and refused to fire the shotheard ‘round the world? The martyrsof history were not fools, and ourhonored dead who gave their lives tostop the advance of the Nazis didn’tdie in vain. Where, then, is the road topeace? Well it’s a simple answer afterall.

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To a few of us here today this is asolemn and most momentous occa-sion, and yet in the history of our na-tion it is a commonplace occurrence.The orderly transfer of authority ascalled for in the Constitution routine-ly takes place, as it has for almost twocenturies, and few of us stop to thinkhow unique we really are. In the eyesof many in the world, this every-4-year ceremony we accept as normal isnothing less than a miracle.Mr. President, I want our fellow citi-zens to know how much you did tocarry on this tradition. By your gra-cious cooperation in the transitionprocess, you have shown a watchingworld that we are a united peoplepledged to maintaining a political sys-tem which guarantees individual lib-erty to a greater degree than any oth-er, and I thank you and your peoplefor all your help in maintaining thecontinuity which is the bulwark of ourRepublic.The business of our nation goes for-ward. These United States are con-fronted with an economic affliction ofgreat proportions. We suffer from thelongest and one of the worst sustainedinflations in our national history. Itdistorts our economic decisions, pe-nalizes thrift, and crushes the strug-gling young and the fixed-income eld-erly alike. It threatens to shatter thelives of millions of our people.Idle industries have cast workers intounemployment, human misery, andpersonal indignity. Those who dowork are denied a fair return for their

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You and I have the courage to say toour enemies, “There is a price we willnot pay.” “There is a point beyondwhich they must not advance.” Andthis – this is the meaning in thephrase of Barry Goldwater’s “peacethrough strength.” Winston Churchillsaid, “The destiny of man is not meas-ured by material computations.When great forces are on the move inthe world, we learn we’re spirits – notanimals.” And he said, “There’s some-thing going on in time and space, andbeyond time and space, which,whether we like it or not, spells duty.”You and I have a rendezvous with des-tiny.We’ll preserve for our children this,the last best hope of man on earth, orwe’ll sentence them to take the laststep into a thousand years of dark-ness.We will keep in mind and rememberthat Barry Goldwater has faith in us.He has faith that you and I have theability and the dignity and the right tomake our own decisions and deter-mine our own destiny.Thank you very much.

Inaugural Address(Dicorso di insediamento dopol’elezione alla carica di presidentedegli Stati Uniti, 20 gennaio, 1981)

Senator Hatfield, Mr. Chief Justice,Mr. President, Vice President Bush,Vice President Mondale, Senator Bak-er, Speaker O’Nei l l , ReverendMoomaw, and my fellow citizens:

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labor by a tax system which penalizessuccessful achievement and keeps usfrom maintaining full productivity.But great as our tax burden is, it hasnot kept pace with public spending.For decades we have piled deficit up-on deficit, mortgaging our future andour children’s future for the tempo-rary convenience of the present. Tocontinue this long trend is to guaran-tee tremendous social, cultural, polit-ical, and economic upheavals.You and I, as individuals, can, by bor-rowing, live beyond our means, butfor only a limited period of time. Why,then, should we think that collective-ly, as a nation, we’re not bound bythat same limitation? We must act to-day in order to preserve tomorrow.And let there be no misunderstand-ing: We are going to begin to act, be-ginning today.The economic ills we suffer havecome upon us over several decades.They will not go away in days, weeks,or months, but they will go away.They will go away because we asAmericans have the capacity now, aswe’ve had in the past, to do whateverneeds to be done to preserve this lastand greatest bastion of freedom.In this present crisis, government isnot the solution to our problem; gov-ernment is the problem. From time totime we’ve been tempted to believethat society has become too complexto bemanaged by self-rule, that gov-ernment by an elite group is superiorto government for, by, and of the peo-ple. Well, if no one among us is capa-

ble of governing himself, then whoamong us has the capacity to governsomeone else? All of us together, inand out of government, must bear theburden. The solutions we seek mustbe equitable, with no one group sin-gled out to pay a higher price.We hear much of special interestgroups. Well, our concern must be fora special interest group that has beentoo long neglected. It knows no sec-tional boundaries or ethnic and racialdivisions, and it crosses political partylines. It is made up of men andwomen who raise our food, patrol ourstreets, man our mines and factories,teach our children, keep our homes,and heal us when we’re sick – profes-sionals, industrialists, shopkeepers,clerks, cabbies, and truck drivers.They are, in short, “We the people’,’this breed called Americans.Well, this administration’s objectivewill be a healthy, vigorous, growingeconomy that provides equal oppor-tunities for all Americans with no bar-riers born of bigotry or discrimina-tion. Putting America back to workmeans putting all Americans back towork. Ending inflation means freeingall Americans from the terror of run-away living costs. All must share inthe productive work of this ``new be-ginning,’’ and all must share in thebounty of a revived economy. Withthe idealism and fair play which arethe core of our system and ourstrength, we can have a strong andprosperous America, at peace with it-self and the world.

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So, as we begin, let us take inventory.We are a nation that has a govern-ment – not the other way around.And this makes us special among thenations of the Earth. Our govern-ment has no power except that grant-ed it by the people. It is time to checkand reverse the growth of govern-ment, which shows signs of havinggrown beyond the consent of thegoverned.It is my intention to curb the size andinfluence of the Federal establish-ment and to demand recognition ofthe distinction between the powersgranted to the Federal Governmentand those reserved to the States orto the people. All of us need to be re-minded that the Federal Governmentdid not create the States; the Statescreated the Federal Government.Now, so there will be no misunder-standing, it’s not my intention to doaway with government. It is rather tomake it work – work with us, not overus; to stand by our side, not ride onour back. Government can and mustprovide opportunity, not smother it;foster productivity, not stifle it.If we look to the answer as to why forso many years we achieved so much,prospered as no other people onEarth, it was because here in this landwe unleashed the energy and individ-ual genius of man to a greater extentthan has ever been done before.Freedom and the dignity of the indi-vidual have been more available andassured here than in any other placeon Earth. The price for this freedom

at times has been high, but we havenever been unwilling to pay thatprice.It is no coincidence that our presenttroubles parallel and are proportion-ate to the intervention and intrusionin our lives that result from unneces-sary and excessive growth of govern-ment. It is time for us to realize thatwe’re too great a nation to limit our-selves to small dreams. We’re not, assome would have us be l ieve ,doomed to an inevitable decline. I donot believe in a fate that will fall onus no matter what we do. I do be-lieve in a fate that will fall on us if wedo nothing.So, with all the creative energy at ourcommand, let us begin an era of na-tional renewal. Let us renew our de-termination, our courage, and ourstrength. And let us renew our faithand our hope.We have every right to dream heroicdreams. Those who say that we’re in atime when there are not heroes, theyjust don’t know where to look. Youcan see heroes every day going in andout of factory gates. Others, a hand-ful in number, produce enough foodto feed all of us and then the worldbeyond. You meet heroes across acounter, and they’re on both sides ofthat counter. There are entrepreneurswith faith in themselves and faith inan idea who create new jobs, newwealth and opportunity. They’re indi-viduals and families whose taxes sup-port the government and whose vol-untary gifts support church, charity,

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culture, art, and education. Their pa-triotism is quiet, but deep. Their val-ues sustain our national life.Now, I have used the words ``they’’and ``their’’ in speaking of these he-roes. I could say ``you’’ and ``your,’’because I’m addressing the heroes ofwhom I speak – you, the citizens ofthis blessed land. Your dreams, yourhopes, your goals are going to be thedreams, the hopes, and the goals ofthis administration, so help me God.We shall reflect the compassion thatis so much a part of your makeup.How can we love our country and notlove our countrymen; and lovingthem, reach out a hand when theyfall, heal them when they’re sick, andprovide opportunity to make themself-sufficient so they will be equal infact and not just in theory?Can we solve the problems con-fronting us? Well, the answer is anunequivocal and emphatic ``yes.’’ Toparaphrase Winston Churchill, I didnot take the oath I’ve just taken withthe intention of presiding over thedissolution of the world’s strongesteconomy.In the days ahead I will propose re-moving the roadblocks that haveslowed our economy and reducedproductivity. Steps will be takenaimed at restoring the balance be-tween the various levels of govern-ment. Progress may be slow, meas-ured in inches and feet, not miles, butwe will progress. It is time to reawak-en this industrial giant, to get govern-ment back within its means, and to

lighten our punitive tax burden. Andthese will be our first priorities, andon these principles there will be nocompromise.On the eve of our struggle for inde-pendence a man who might havebeen one of the greatest among theFounding Fathers, Dr. Joseph War-ren, president of the MassachusettsCongress, said to his fellow Ameri-cans, “Our country is in danger, butnot to be despaired of . . . . On youdepend the fortunes of America. Youare to decide the important questionsupon which rests the happiness andthe liberty of millions yet unborn. Actworthy of yourselves.”Well, I believe we, the Americans oftoday, are ready to act worthy of our-selves, ready to do what must bedone to ensure happiness and libertyfor ourselves, our children, and ourchildren’s children. And as we renewourselves here in our own land, wewill be seen as having greater strengththroughout the world. We will againbe the exemplar of freedom and abeacon of hope for those who do notnow have freedom.To those neighbors and allies whoshare our freedom, we will strengthenour historic ties and assure them ofour support and firm commitment.We will match loyalty with loyalty. Wewill strive for mutually beneficial rela-tions. We will not use our friendshipto impose on their sovereignty, forour own sovereignty is not for sale.As for the enemies of freedom, thosewho are potential adversaries, they

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will be reminded that peace is thehighest aspiration of the Americanpeople. We will negotiate for it, sacri-fice for it; we will not surrender for it,now or ever.Our forbearance should never bemisunderstood. Our reluctance forconflict should not be misjudged as afailure of will. When action is re-quired to preserve our national secu-rity, we will act. We will maintain suf-ficient strength to prevail if need be,knowing that if we do so we have thebest chance of never having to usethat strength.Above all, we must realize that no ar-senal or no weapon in the arsenals ofthe world is so formidable as the willand moral courage of free men andwomen. It is a weapon our adver-saries in today’s world do not have. Itis a weapon that we as Americans dohave. Let that be understood by thosewho practice terrorism and prey upontheir neighbors.I’m told that tens of thousands ofprayer meetings are being held onthis day, and for that I’m deeplygrateful. We are a nation under God,and I believe God intended for us tobe free. It would be fitting and good, Ithink, if on each Inaugural Day in fu-ture years it should be declared a dayof prayer.This is the first time in our historythat this ceremony has been held, asyou’ve been told, on this West Frontof the Capitol. Standing here, onefaces a magnificent vista, opening upon this city’s special beauty and his-

tory. At the end of this open mall arethose shrines to the giants on whoseshoulders we stand.Directly in front of me, the monumentto a monumental man, George Wash-ington, father of our country. A manof humility who came to greatness re-luctantly. He led America out of revo-lutionary victory into infant nation-hood. Off to one side, the stately me-morial to Thomas Jefferson. The Dec-laration of Independence flames withhis eloquence. And then, beyond theReflecting Pool, the dignified columnsof the Lincoln Memorial. Whoeverwould understand in his heart themeaning of America will find it in thelife of Abraham Lincoln.Beyond those monuments to heroismis the Potomac River, and on the farshore the sloping hills of ArlingtonNational Cemetery, with its row uponrow of simple white markers bearingcrosses or Stars of David. They addup to only a tiny fraction of the pricethat has been paid for our freedom.Each one of those markers is a monu-ment to the kind of hero I spoke ofearlier. Their lives ended in placescalled Belleau Wood, The Argonne,Omaha Beach, Salerno, and halfwayaround the world on Guadalcanal,Tarawa, Pork Chop Hill, the ChosinReservoir, and in a hundred rice pad-dies and jungles of a place called Viet-nam.Under one such marker lies a youngman, Martin Treptow, who left his jobin a small town barbershop in 1917 togo to France with the famed Rainbow

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Division. There, on the western front,he was killed trying to carry a messagebetween battalions under heavy ar-tillery fire.We’re told that on his body wasfound a diary. On the flyleaf under theheading, ``My Pledge,’’ he had writtenthese words: ``America must win thiswar. Therefore I will work, I will save, Iwill sacrifice, I will endure, I will fightcheerfully and do my utmost, as if theissue of the whole struggle dependedon me alone.’’The crisis we are facing today doesnot require of us the kind of sacrificethat Martin Treptow and so manythousands of others were called uponto make. It does require, however, ourbest effort and our willingness to be-lieve in ourselves and to believe in ourcapacity to perform great deeds, tobelieve that together with God’s helpwe can and will resolve the problemswhich now confront us.And after all, why shouldn’t we be-lieve that? We are Americans. Godbless you, and thank you.

Remarks on East-West Relations (Porta di Brandeburgo, Berlino est, 12 giugno 1987)

Thank you very much. ChancellorKohl, Governing Mayor Diepgen,ladies and gentlemen: Twenty fouryears ago, President John F. Kennedyvisited Berlin, speaking to the peopleof this city and the world at the cityhall. Well, since then two other presi-dents have come, each in his turn, to

Berlin. And today I, myself, make mysecond visit to your city.We come to Berlin, we AmericanPresidents, because it’s our duty tospeak, in this place, of freedom. But Imust confess, we’re drawn here byother things as well: by the feeling ofhistory in this city, more than 500years older than our own nation; bythe beauty of the Grunewald and theTiergarten; most of all, by yourcourage and determination. Perhapsthe composer, Paul Lincke, under-stood something about AmericanPresidents. You see, like so manyPresidents before me, I come here to-day because wherever I go, whatever Ido: “Ich hab noch einen koffer inBerlin.” [I still have a suitcase inBerlin.]Our gathering today is being broad-cast throughout Western Europe andNorth America. I understand that it isbeing seen and heard as well in theEast. To those listening throughoutEastern Europe, I extend my warmestgreetings and the good will of theAmerican people. To those listening inEast Berlin, a special word: Although Icannot be with you, I address my re-marks to you just as surely as to thosestanding here before me. For I joinyou, as I join your fellow countrymenin the West, in this firm, this unalter-able belief: Es gibt nur ein Berlin.[There is only one Berlin.]Behind me stands a wall that encirclesthe free sectors of this city, part of avast system of barriers that divides theentire continent of Europe. From the

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Baltic, south, those barriers cut acrossGermany in a gash of barbed wire,concrete, dog runs, and guardtowers.Farther south, there may be no visible,no obvious wall. But there remainarmed guards and checkpoints all thesame–still a restriction on the right totravel, still an instrument to imposeupon ordinary men and women thewill of a totalitarian state. Yet it is herein Berlin where the wall emerges mostclearly; here, cutting across your city,where the news photo and the televi-sion screen have imprinted this brutaldivision of a continent upon the mindof the world. Standing before theBrandenburg Gate, every man is aGerman, separated from his fellowmen. Every man is a Berliner, forced tolook upon a scar.President von Weizsacker has said:“The German question is open as longas the Brandenburg Gate is closed.”Today I say: As long as this gate isclosed, as long as this scar of a wall ispermitted to stand, it is not the Ger-man question alone that remainsopen, but the question of freedom forall mankind. Yet I do not come here tolament. For I find in Berlin a messageof hope, even in the shadow of thiswall, a message of (Pg. 635) triumph.Inthis season of spring in 1945, the peo-ple of Berlin emerged from their airraid shelters to find devastation. Thou-sands of miles away, the people of theUnited States reached out to help.And in 1947 Secretary of State–asyou’ve been told-George Marshall an-nounced the creation of what would

become known as the Marshall plan.Speaking precisely 40 years ago thismonth, he said: “Our policy is directednot against any country or doctrine,but against hunger, poverty, despera-tion, and chaos.”In the Reichstag a few moments ago, Isaw a display commemorating this40th anniversary of the Marshallplan. I was struck by the sign on aburnt-out, gutted structure that wasbeing rebuilt. I understand thatBerliners of my own generation canremember seeing signs like it dottedthroughout the Western sectors ofthe city. The sign read simply: “TheMarshall plan is helping here tostrengthen the free world.” A strong,free world in the West, that dreambecame real. Japan rose from ruin tobecome an economic giant. Italy,France, Belgium–virtually every na-tion in Western Europe saw politicaland economic rebirth; the EuropeanCommunity was founded.In West Germany and here in Berlin,there took place an economic miracle,the Wirtschaftswunder. Adenauer,Erhard, Reuter, and other leaders un-derstood the practical importance ofliberty–that just as truth can flourishonly when the journalist is given free-dom of speech, so prosperity cancome about only when the farmerand businessman enjoy economicfreedom. The German leaders re-duced tariffs, expanded free trade,lowered taxes. From 1950 to 1960alone, the standard of living in WestGermany and Berlin doubled.

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Where four decades ago there wasrubble, today in West Berlin there isthe greatest industrial output of anycity in Germany-busy office blocks,fine homes and apartments, proud av-enues, and the spreading lawns ofpark land. Where a city’s cultureseemed to have been destroyed, todaythere are two great universities, or-chestras and an opera, countless the-aters, and museums. Where there waswant, today there’s abundance–food,clothing, automobiles-the wonderfulgoods of the Ku’damm. From devasta-tion, from utter ruin, you Berlinershave, in freedom, rebuilt a city thatonce again ranks as one of the greateston Earth. The Soviets may have hadother plans. But, my friends, therewere a few things the Soviets didn’tcount on Berliner herz, Berliner hu-mor, ja, und Berliner schnauze.[Berliner heart, Berliner humor, yes,and a Berliner schnauze.] [Laughter]In the 1950’s, Khrushchev predicted:“We will bury you.” But in the Westtoday, we see a free world that hasachieved a level of prosperity andwell-being unprecedented in all hu-man history. In the Communist world,we see failure, technological back-wardness, declining standards ofhealth, even want of the most basickind-too little food. Even today, theSoviet Union still cannot feed itself.After these four decades, then, therestands before the entire world onegreat and inescapable conclusion:Freedom leads to prosperity. Free-dom replaces the ancient hatreds

among the nations with comity andpeace. Freedom is the victor.And now the Soviets themselves may,in a limited way, be coming to under-stand the importance of freedom. Wehear much from Moscow about a newpolicy of reform and openness. Somepolitical prisoners have been re-leased. Certain foreign news broad-casts are no longer being jammed.Some economic enterprises havebeen permitted to operate withgreater freedom from state control.Are these the beginnings of profoundchanges in the Soviet state? Or arethey tokengestures, intended to raise falsehopes in the West, or to strengthenthe Soviet system without changingit? We welcome change and open-ness; for we believe that freedom andsecurity go together, that the advanceof human liberty can only strengthenthe cause of world peace.There is one sign the Soviets can makethat would be unmistakable, thatwould advance dramatically the causeof freedom and peace. General Secre-tary Gorbachev, if you seek peace, ifyou seek prosperity for the SovietUnion and Eastern Europe, if you seekliberalization: Come here to this gate!Mr. Gorbachev, open this gate! Mr.Gorbachev, tear down this wall!I understand the fear of war and thepain (Pg. 636) of division that afflictthis continent–and I pledge to you mycountry’s efforts to help overcomethese burdens. To be sure, we in theWest must resist Soviet expansion. So

we must maintain defenses of unas-sailable strength. Yet we seek peace;so we must strive to reduce arms onboth sides. Beginning 10 years ago,the Soviets challenged the Westernalliance with a grave new threat, hun-dreds of new and more deadly SS- 20nuclear missiles, capable of-strikingevery capital in Europe. The Westernalliance responded by committing it-self to a counter-deployment unlessthe Soviets agreed to negotiate a bet-ter solution; namely, the eliminationof such weapons on both sides. Formany months, the Soviets refused tobargain in earnestness. As the al-liance, in turn, prepared to go forwardwith its counter-deployment, therewere difficult days–days of protestslike those during my 1982 visit to thiscity–and the Soviets later walkedaway from the table.But through it all, the alliance heldfirm. And I invite those who protestedthen–I invite those who protest to-day–to mark this fact: Because we re-mained strong, the Soviets came backto the table. And because we re-mained strong, today we have withinreach the possibility, not merely oflimiting the growth of arms, but ofeliminating, for the first time, an en-tire class of nuclear weapons from theface of the Earth. As I speak, Natoministers are meeting in Iceland to re-view the progress of our proposals foreliminating these weapons. At thetalks in Geneva, we have also pro-posed deep cuts in strategic offensiveweapons. And the Western allies

have likewise made far-reaching pro-posals to reduce the danger of con-ventional war and to place a total banon chemical weapons.While we pursue these arms reduc-tions, I pledge to you that we willmaintain the capacity to deter Sovietaggression at any level at which itmight occur. And in cooperation withmany of our allies, the United Statesis pursuing the Strategic Defense Ini-tiative-research to base deterrencenot on the threat of offensive retalia-tion, but on defenses that truly de-fend; on systems, in short, that willnot target populations, but shieldthem. By these means we seek to in-crease the safety of Europe and allthe world. But we must remember acrucial fact: East and West do notmistrust each other because we arearmed; we are armed because wemistrust each other. And our differ-ences are not about weapons butabout l iberty. When PresidentKennedy spoke at the City Hall those24 years ago, freedom was encircled,Berlin was under siege. And today,despite all the pressures upon thiscity, Berlin stands secure in its liberty.And freedom itself is transformingthe globe.In the Philippines, in South and Cen-tral America, democracy has beengiven a rebirth. Throughout the Pacif-ic, free markets are working miracleafter miracle of economic growth. Inthe industrialized nations, a techno-logical revolution is taking place–arevolution marked by rapid, dramatic

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advances in computers and telecom-munications.In Europe, only one nation and thoseit controls refuse to join the commu-nity of freedom. Yet in this age of re-doubled economic growth, of infor-mation and innovation, the SovietUnion faces a choice: It must makefundamental changes, or it will be-come obsolete. Today thus representsa moment of hope. We in the Weststand ready to cooperate with theEast to promote true openness, tobreak down barriers that separatepeople, to create a safer, freer world.And surely there is no better placethan Berlin, the meeting place of Eastand West, to make a start. Free peo-ple of Berlin: Today, as in the past, theUnited States stands for the strict ob-servance and full implementation ofall parts of the Four Power Agree-ment of 1971. Let us use this occasion,the 750th anniversary of this city, tousher in a new era, to seek a still fuller,richer life for the Berlin of the future.Together, let us maintain and developthe ties between the Federal Republicand the Western sectors of Berlin,which is permitted by the 1971 agree-ment.And I invite Mr. Gorbachev: Let uswork to bring the Eastern and West-ern parts of the city closer together, sothat all the inhabitants of all Berlin canenjoy the benefits that come with lifein one of the great cities of the world.To open Berlin still further to (Pg. 637)all Europe, East and West, let us ex-pand the vital air access to this city,

finding ways of making commercial airservice to Berlin more convenient,more comfortable, and more econom-ical. We look to the day when WestBerlin can become one of the chiefaviation hubs in all central Europe.With our French and British partners,the United States is prepared to helpbring international meetings to Berlin.It would be only fitting for Berlin toserve as the site of United Nationsmeetings, or world conferences onhuman rights and arms control orother issues that call for internationalcooperation. There is no better way toestablish hope for the future than toenlighten young minds, and we wouldbe honored to sponsor summer youthexchanges, cultural events, and otherprograms for young Berliners fromthe East. Our French and Britishfriends, I’m certain, will do the same.And it’s my hope that an authoritycan be found in East Berlin to sponsorvisits from young people of the West-ern sectors.One final proposal, one close to myheart: Sport represents a source ofenjoyment and ennoblement, and youmany have noted that the Republic ofKorea–South Korea-has offered topermit certain events of the 1988Olympics to take place in the North.International sports competitions ofall kinds could take place in both partsof this city. And what better way todemonstrate to the world the open-ness of this city than to offer in somefuture year to hold the Olympic gameshere in Berlin, East and West?

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In these four decades, as I have said,you Berliners have built a great city.You’ve done so in spite of threats–theSoviet attempts to impose the East-mark, the blockade. Today the citythrives in spite of the challenges im-plicit in the very presence of this wall.What keeps you here? Certainlythere’s a great deal to be said for yourfortitude, for your defiant courage.But I believe there’s something deep-er, something that involves Berlin’swhole look and feel and way of life–not mere sentiment. No one could livelong in Berlin without being complete-ly disabused of illusions. Somethinginstead, that has seen the difficultiesof life in Berlin but chose to acceptthem, that continues to build thisgood and proud city in contrast to asurrounding totalitarian presencethat refuses to release human ener-gies or aspirations. Something thatspeaks with a powerful voice of affir-mation, that says yes to this city, yesto the future, yes to freedom. In aword, I would submit that what keepsyou in Berlin is love–love both pro-found and abiding.Perhaps this gets to the root of thematter, to the most fundamental dis-tinction of all between East and West.The totalitarian world produces back-wardness because it does such vio-lence to the spirit, thwarting the hu-man impulse to create, to enjoy, toworship. The totalitarian world findseven symbols of love and of worshipan affront. Years ago, before the EastGermans began rebuilding their

churches, they erected a secularstructure: the television tower atAlexander Platz. Virtually ever since,the authorities have been working tocorrect what they view as the tower’sone major flaw, treating the glasssphere at the top with paints andchemicals of every kind. Yet even to-day when the Sun strikes thatsphere–that sphere that towers overall Berlin– the light makes the sign ofthe cross. There in Berlin, like the cityitself, symbols of love, symbols ofworship, cannot be suppressed.As I looked out a moment ago fromthe Reichstag, that embodiment ofGerman unity, I noticed words crude-ly spray-painted upon the wall, per-haps by a young Berliner, “This wallwill fall. Beliefs become reality.” Yes,across Europe, this wall will fall. For itcannot withstand faith; it cannotwithstand truth. The wall cannotwithstand freedom.And I would like, before I close, tosay one word. I have read, and I havebeen questioned since I’ve been hereabout cer ta in demonstrat ionsagainst my coming. And I would liketo say just one thing, and to thosewho demonstrate so. I wonder ifthey have ever asked themselvesthat if they should have the kind ofgovernment they apparently seek, noone would ever be able to do whatthey’re doing again.Thank you and God bless you all.

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MinutaEsteriBosnia, la nuova frontiera è l’EuropaStefano Caliciuri

EsteriUsa, nella patria del federalismoRodolfo Bastianelli

IstituzioniRiconquistare il senso civico perdutoAngelica Stramazzi

Dayton, Ohio. 21 novembre1995. Base militare statunitense diWright-Patterson Air Force. In unastanza isolata e blindata tre perso-ne stanno sedute attorno un tavolo.Si guardano con circospezione.Uno sorride, uno si gratta l’orec-chio, uno sospira. Tre stati d’animodiversi ma un unico comune obiet-tivo: trovare un’intesa per conclu-dere la guerra civile, teatro di ecci-di e stermini di massa, stupri e de-capitazioni, deportazioni e geno-cidi, in quella che ormai era giàdiventata la ex Jugolavia. Sapeva-no che quella era l’ultima possibili-tà. Se non avessero abbandonatoogni velleitaria pretesa di ridise-gnare i confini della nuova Europaa loro immagine e somiglianza, lacomunità internazionale non avreb-be potuto far altro che annientarlitutti e tre. I protagonisti di quello

che prese il nome di Accordo diDayton si chiamavano SlobodanMiloševic (presidente della Serbiae rappresentante degli interessi deiserbo-bosniaci al posto del recalci-trante Karadzic), Franjo Tudjman(presidente della Croazia) e AlijaIzetbegovic (presidente della Bo-snia Erzegovina).Il quindicesimo anniversario del-l'Accordo di pace di Dayton delnovembre 1995 offre dunqueuna buona opportunità per rive-derne successi e difetti e per valu-tare le sfide che, sia la comunitàinternazionale che la Bosnia (epiù in generale l’intera regionebalcanica), dovranno affrontarenei prossimi anni. I dissidi tra croati, serbi e bosgnac-chi (i musulmani di Bosnia) hannoorigini molto lontane, sin dalle pri-me espansioni ottomane. I Balca-

Stefano Caliciuri

Bosnia, la nuovafrontiera è l’EuropaA quindici anni dalla firma dell’Accordo di Dayton, il piccolo paese balcanico stenta ancora a ripartire a causa di un sistemapolitico paralizzante e delle troppe feriteancora aperte. Ma se si provasse a percorrere la strada dell’integrazione europea?

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ESTERI

ni, proprio per la posizione geo-grafica, per centinaia di anni sonostati considerati il bonus di scam-bio tra le potenze del momento.Basti pensare a tutti coloro che sisono succeduti: turchi, austriaci, te-deschi, italiani, russi. Ed ognunoha lasciato qualche traccia del pro-prio passaggio. Il prodotto di tantiavvicendamenti è Sarajevo, finoagli anni Ottanta città simbolo delmulticulturalismo globale. Chiama-ta la Gerusalemme d’Europa, alsuo interno ancora oggi convivonole tre religioni monoteiste del mon-do: quella cristiana, divisa fra cat-tolici e ortodossi, quella musulma-na e quella ebraica. I templi princi-pali sono edificati in un raggio di

quattrocento metri, sulle rive dellaMiljacka si incrociano gli sguardidi studenti e ragazze velate, di po-pe e rabbini; camminano fasciatida jeans o avvolti in tuniche; leg-gono bibbie e corani, trattati teolo-gici o manuali d’architettura. Sipuò andare nella Bascarsija per fu-mare il narghilè bevendo kafa op-pure, proseguendo oltre, ordinareun espresso all’italiana sulla TitovaUlica. Ma basta voltarsi, alzare losguardo, per essere violentementetrasportati senza pietà in quel re-centissimo passato in cui avere labarba non fatta da tre giorni pote-va diventare una condanna a mor-te, poteva voler dire essere bersa-glio dei cecchini. Della Vijecnica,

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Stefano Caliciuri

la biblioteca nazionale universita-ria, maestoso palazzo in stile pseu-domoresco, realizzato dagli au-stro-ungarici, non rimane pressochénulla. Eretto ai piedi delle collinedove, nel medioevo, nacque Sara-jevo, custodiva prima della guerraoltre due milioni di volumi, deiquali 200 mila preziosi e un mi-gliaio di manoscritti. Venne bersa-gliata dalle bombe incendiarie ser-be per tre giorni di seguito e peraltrettanto tempo bruciò, inceneren-do inesorabilmente l’intero patrimo-nio storico e culturale in essa con-tenuto. Vano ogni ten-tativo di salvare qual-cosa: i proiettili veni-vano indirizzati an-che verso la catenaumana che cercavadi affrettare il recupe-ro dei libri. Era l’uni-co archivio nazionaledi tutti i periodici pub-blicati in o sulla Bosnia Erzegovi-na. Straziante il ricordo di queigiorni di Kemal Bakarsic, bibliote-cario del tempo: «Tutta la città eraricoperta di pezzi di carta brucia-ta. Volavano in aria le pagine fra-gili di carta bruciata, cadendo giùcome neve nera. Afferrandola, perun attimo fu possibile leggere unframmento di testo, che un istantedopo si trasformava davanti ai tuoiocchi in cenere». Oggi Sarajevosta cercando di risollevarsi, di ri-svegliarsi dall’incubo e ritornare,come se nulla fosse successo, agliantichi fasti. Ma la Vijecnica staancorà lì, annerita e addormenta-

ta, avvolta ormai da anni in quelloche pare essere il suo sudario, or-nato soltanto dalle sbiadite bandie-re di quelli che dovevano essere ifinanziatori del restauro. Sarà an-che per questo che ancora oggicampeggiano in ogni angolo i sim-boli delle Olimpiadi invernali del1984, ultimo grande evento ospi-tato in città, ultimo grande momen-to di orgoglio identitario. E non im-porta se a quell’epoca esisteva an-cora la Jugoslavia titina.Ripartire, però, non è un’operazio-ne semplice. Quello che Dayton

ha dato, si puòanche dire che lastessa Dayton ab-b ia to l to . Daquell’accordo ènato un paese, laBosnia-Erzegovi-na, formato dadue entità che sisovrappongono

nelle intenzioni ma non combacia-no negli interessi, già diviso insom-ma per Costituzione. La Republikasrpska (Repubblica serba), cui èstato assegnato il 49% del territo-rio, corre lungo i confini settentrio-nali, orientali e occidentali, senzaavere però alcuno sbocco sul ma-re. Circonda la Federazione croa-to-musulmana della Bosnia e del-l’Erzegovina (51% del territorio).Dotate di poteri autonomi in vastisettori, le due entità sono inserite inuna cornice statale unitaria. La pre-sidenza del paese unitario (che ri-calca il modello della vecchia Ju-goslavia post-titina) è formata da

La Serbia ha decuplicatola taglia su Mladicper dare un chiarosegnale di collaborazionenei confronti della Bosnia

ESTERI

un serbo, un croato e un bosgnac-co che a turno si alternano nellacarica di presidente, primus interpares, mentre gli altri due ne di-ventano i vice. Ciascuna entità èdotata di un parlamento locale: laRepubblica serba di un’assemblealegislativa unicamerale, mentre laFederazione croato-musulmana diun organo bicamerale. A livellostatale vengono invece eletti ogniquattro anni gli esponenti della Ca-mera dei rappresentanti del Parla-mento, (42 deputati, 28 eletti nellaFederazione e 14 nella Rs) e dellaCamera dei popoli (5serbi, 5 croati e 5 mu-sulmani). Le elezionisono fortemente con-trassegnate da un ca-rattere nazionalistico.Ogni cittadino votauna lista e un rappre-sentante della propriaappartenenza. Per da-re una voce anche a chi non èrappresentato (ebrei, rom) esisteanche la definizione di “others”,sotto cui si rientra quando non siappartiene ad una delle tre etnie oreligioni dominanti. Una definizio-ne voluta dagli organismi interna-zionali per evitare ogni forma didiscriminazione; sono in molti, pe-rò, a non riconoscersi in questa ca-tegoria ma che preferiscono inve-ce definirsi ancora “jugoslavi” (let-teralmente, slavi del sud). A garan-zia degli accordi di Dayton, la Bo-snia è sotto il protettorato dell’Ohr,l'agenzia internazionale a cui nespetta l’implementazione, la super-

visione e la gestione, disponendodi considerevoli poteri che la auto-rizzano a censurare o rimuoveregli ufficiali eletti e a redigere – espesso imporre – le leggi necessa-rie alle dinamiche di normalizza-zione interna.L’ufficio dell’Ohr è ormai da annial centro di un acceso dibattito:quanto dovrà ancora essere man-tenuto? I poteri passeranno diretta-mente in mano ai bosniaci oppuredovrà esserci un periodo di transi-zione europea? Bisognerà creareuna figura analoga (e dunque, for-

se, inutile) o nuo-va (e dunque, tut-ta da sperimenta-re). Nel frattem-po i politici bo-sniaci devono su-perare le lorocontrapposizioninazionaliste, reli-giose e culturali

per iniziare il processo di riformacostituzionale che possa accompa-gnarli davvero all’interno dell’Euro-pa. Ma perché questo accada cidovrà essere un impegno totaledella Ue, capace di convinceredefinitivamente i bosniaci che l’uni-ca bandiera in grado di tutelarli eproteggerli sia quella con le dodicistelle su campo azzurro. Purtroppola Bosnia è però bloccata da unostruzionismo delle forze etno-na-zionaliste a cui bisogna aggiunge-re un’economia di tipo mafioso-clientelare e una diffusa corruzioneistituzionale. Il processo di integrazione euro-

167Ora l’obiettivo è trasformareil processo di peaceimplementationin european transition

Stefano Caliciuri

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pea e le dinamiche di allargamen-to stanno creando un vero e pro-prio paradosso all’interno dell’inte-ra regione balcanica. Tutti i paesiinteressati ruotano infatti attorno al-la cosiddetta “questione serba” ealle pendenze bilaterali che prati-camente coinvolgono tutti controtutti. La controversia croato-slovenasul confine e sullo sbocco sul maresembra essere a buon punto; piùdifficile sbrigare la matassa in cuisi sono ingarbugliate la Grecia ela Macedonia, relativamente al no-me di quest’ultima; è di pochi mesifa, infine, la decisione dell’Onu diriconoscere l’indipendenza del Ko-sovo, seppure siano in molti anco-ra a dubitarne la legittimità. Infine,la Serbia. Legata a doppio filo colsuo passato recente, l’ingresso inEuropa è drasticamente condizio-nato dalla consegna del ricercatonumero uno per delitti contro l’uma-nità: Ratko Mladic, capo di Statomaggiore dell’esercito della Repub-blica serba in Bosnia-Erzegovina,comunemente chiamato “il boia diSrebrenica”. Per dare un chiaro se-gnale di collaborazione, il gover-no serbo ha decuplicato la tagliasu Mladic, portandola a dieci mi-lioni di euro. La speranza è chel’esca economica possa consegna-re il più grosso dei pesci serbi an-cora in libertà direttamente nellarete della giustizia internazionale.Oggi Belgrado ha sicuramente vol-tato pagina nella sua storia, po-nendo fine “agli sporchi giochi diguerra”, puntando invece a diven-tare lo Stato trainante della regio-

ne balcanica. Non a caso è il ca-pofila in materia di questioni ener-getiche (ad esempio le nuove con-dut tu re che raggiungerannol'Adriatico attraverso il Montene-gro), sia per i suoi legami con laRussia, sia perché è la vera portad'Oriente per l'Europa. Forse, die-tro la cessione della Republikasrpska prima e del Kosovo poi,c’era un disegno a lunga scaden-za che gli organismi internazionalinon sono stati in grado di interpre-tare per tempo. I più approfonditi studi accademicisui processi di transizione suggeri-scono che quindici anni di massic-cio intervento esterno dovrebberoessere sufficienti per il consolida-mento degli accordi post-bellici eper stabilire un ordine costituziona-le permanente. Proprio per questol’attenzione mondiale nel 2011nei confronti della Bosnia potrebbeessere focalizzata su un sempliceobiettivo: trasformare il processo dipeace implementation in europeantransition. Un banale gioco di pa-role dietro però cui si nasconde ilfuturo di un continente.

l’autorestefano caliciuri

Giornalista professionista, già consulente per la

comunicazione del ministro degli Affari esteri, lavo-

ra attualmente al ministero della Funzione pubbli-

ca. Collabora con Il Giornale, Il Secolo d’Italia e

Ffwebmagazine. ha pubblicato il volume Giovani

nel merito per I tipi di Rubbettino Editore

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LA RUSSIADOPO IL MURO

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Rodolfo Bastianelli

Usa, nella patria del federalismoAnalisi ragionata del sistema federale americano, tra divisione dei poteri e delle competenze e contrappesi a garanzia dell’equilibrio istituzionale.

ESTERI

Il sistema federale degli Stati Uni-ti è uno dei più complessi ed arti-colati nonché quello che più attri-buisce maggiore autonomia aigoverni statali. Dalle origini adoggi, l’assetto del federalismostatunitense, in virtù anche deiprofondi cambiamenti storici av-venuti nel Paese, si è però sensi-bilmente modificato, riorientandoa favore dell’Amministrazione fe-derale la ripartizione delle com-petenze stabilite tra questa ed igoverni statali.

La ripartizione di competenze trai governi statali e l’amministrazio-ne federaleSul piano della divisione dei pote-ri, la Costituzione statunitense fissauna netta ripartizione di prerogati-ve tra il governo federale e quellidei diversi Stati, anche se, sia pereffetto della clausola dei poteri im-pliciti che di alcune sentenze pro-nunciate dalla Corte suprema non-chè dell’approvazione di una seriedi emendamenti costituzionali, ilruolo dell’amministrazione centralesi è andato progressivamente am-pliando. Si pensi in proposito al-l’importanza assunta dalla commer-ce clause, la disposizione costitu-zionale con la quale si attribuiva alCongresso la prerogativa di rego-lare il commercio internazionale etra gli Stati dell’Unione ma che,grazie all’interpretazione data dal-la Corte suprema, ha contribuitoad espandere notevolmente il ruolodel governo federale, attribuendo-gli anche le competenze indiretta-mente collegate alle attività com-merciali. In base al dettato costitu-zionale (art. 1, sez. 8) tra i vari po-teri spettanti al Congresso vi sonoquello di raccogliere le imposte, re-golare il commercio e mantenere leForze armate, mentre alle autoritàstatali e locali, secondo quantoenunciato dal X emendamento cheattribuisce i poteri residui non eser-citati dal governo federale ai sin-goli Stati, compete la prerogativadi garantire ed assicurare una seriedi servizi pubblici, tra i quali vannoannoverati la polizia, l’istruzione, i

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Rodolfo Bastianelli

trasporti e l’assistenza sociale uni-tamente ad una serie di funzioni inmateria di politiche agricole edambientali, settori nei quali il legi-slativo federale si limita a fissaresolo alcuni aspetti regolamentarilasciando ai governi dei diversiStati la possibilità di determinaretutti gli altri punti in questione. Inmerito alla divisione di competen-ze fissata dalla Costituzione si de-ve poi precisare come l’attribuzio-ne al Congresso di una specificaprerogativa non impedisce comun-que ai singoli Stati di adottare deiprovvedimenti legisla-tivi, come avviene inmateria di imposte,istituzioni di tribunali,costruzioni di infra-strutture stradali e pre-stiti monetari. Questa competenzadi tipo concorrente in-contra però un limitenel fatto che, qualora il Congressodecidesse di varare in propositodei provvedimenti legislativi, questi,per effetto della supremacy clause,verrebbero ad annullare le disposi-zioni introdotte dalle amministrazio-ni statali. Passando ad esaminarele diverse prerogative spettanti aisingoli Stati, emerge come uno deisettori dove il decentramento è sta-to realizzato in maniera più ampiaè quello riguardante l’istruzione.Negli Stati Uniti non esiste una leg-ge che regoli la politica scolasticaa livello nazionale, limitandosi ilDepartment of education federalea controllare che vengano rispetta-

te le norme sui diritti civili riguar-danti l’istruzione e ad amministrarei programmi federali di assistenzavarati dal Congresso, mentre spettaesclusivamente ai governi statali fi-nanziarie gli istituti scolastici prima-ri e secondari presenti sul loro terri-torio, fissare i programmi d’istruzio-ne e procedere all’assunzione delpersonale insegnante, senza di-menticare come un importante ruo-lo sia svolto dalle autorità munici-pali, le quali non solo provvedonoal mantenimento delle strutture sco-lastiche attraverso la raccolta delle

imposte locali,ma anche a svi-luppare autonomiprogrammi in ma-teria d’istruzione.Un’altra importan-te funzione attri-buita agli Stati èpoi quella in ma-teria elettorale da-

to che, a differenza di quanto av-viene negli altri paesi, negli StatiUniti l’organizzazione delle consul-tazioni presidenziali, legislative edelle stesse primarie rientra tra lecompetenze dei governi statali, iquali stabiliscono i criteri per laconcessione dell’elettorato attivo epassivo, avendo anche la preroga-tiva di disegnare i collegi elettoraliper la Camera dei rappresentanti.Tuttavia, dopo la fine della guerracivile, il governo federale ha ap-provato alcuni provvedimenti legi-slativi allo scopo di eliminare le di-sposizioni discriminatorie presentinegli Stati ex confederati, prima in-

Spetta solo ai governistatali l’intera politica finanziariaed educativa della scuola

ESTERI

troducendo nel 1870 il XV emen-damento con cui si proibiva al go-verno nazionale ed a quelli statalidi limitare il diritto di voto dei citta-dini sulla base di motivi razziali edopo varando nel 1965 il VotingRights Act, in base al quale si intro-duceva il controllo federale sul pro-cedimento elettorale obbligandoquegli Stati, dove in passato eranostati utilizzati degli strumenti legisla-tivi per limitare la partecipazionedella popolazione afroamericana,a ricevere l’approvazione del Di-partimento della giustizia prima diattuare ogni modificadella legge elettorale.

Gli aspetti fiscali delfederalismoAssai complessa sipresenta negli StatiUniti la ripartizione dicompetenze in mate-ria fiscale tra ammini-strazione federale e governi statali.Stando a quanto esposto dal detta-to costituzionale, al Congressospetta la facoltà di imporre e rac-cogliere le imposte anche se taleprerogativa non deve intendersicome esclusiva, in quanto pure i le-gislativi statali possono introdurretasse, nel rispetto di quanto fissatodalla Costituzione federale e daquelle dei singoli Stati. Questa di-versificazione di competenze tragoverno centrale ed autorità stataliappare evidente osservando lacomposizione delle entrate tributa-rie, dalla quale emerge come l’am-ministrazione federale ricavi oltre

la metà del gettito fiscale dalle im-poste esistenti sui redditi individualie sulle imprese (corporate tax) epiù di un terzo dai contributi versatidalle aziende per garantire la so-cial security ai loro dipendenti,mentre le entrate dei governi stataliderivano principalmente dalle tas-se sulle proprietà e le attività com-merciali, nonché da quelle prove-nienti dai tributi sulle vendite (salestax) e dalle accise. A detta deicommentatori, però, il ruolo didell’amministrazione federale daglianni successivi al secondo conflitto

mondiale sareb-be andato pro-g ress i vamen teespandendosi,rendendo di fattoil governo centra-le la sola autoritàesistente in mate-ria fiscale. Se fi-no agli anni Tren-

ta, in linea con i principi del dualfederalism, la Corte suprema ave-va interpretato il federalismo comeuna rigida divisione di competen-ze tra il governo centrale e quellistatali, con l’avvento delle politichedel New Deal attuate dall’Ammini-strazione Roosevelt in risposta allaGrande depressione, che compor-tarono un sempre più esteso ruolodelle autorità federali, la teoriaprevalente divenne invece quellaper cui i poteri del governo nazio-nale potessero includere ancheuna serie di funzioni più ampie diquelle precedentemente enunciate.Tuttavia, con l’Amministrazione Ni-

173La Costituzione federale permette sia al Congresso che agli Stati di legiferarein materia fiscale

Rodolfo Bastianelli

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xon si inizierà ad assistere ad unacritica dell’espansione del governofederale e, parallelamente, all’op-portunità di attribuire un maggiornumero di competenze agli esecu-

tivi statali. Indi-cato con il no-me di new fe-deralism, que-sto nuovo ap-proccio nelle re-

lazioni tra Washington ed i variStati si andrà affermando nel corsodella presidenza di Ronald Rea-gan durante la quale un crescentenumero di imposte verrà devolutoalle autorità statali e municipali. Lastessa Corte suprema dagli anniOttanta inizierà nuovamente a rive-dere in senso più favorevole ai go-verni statali le sue pronunce, anchese, è opinione condivisa dagli os-servatori, il livello di integrazioneeconomica e di interazione oggiesistente in materia regolamentaretra l’amministrazione federale ed igoverni statali non potrà riportarealla radicale ripartizione di compe-tenze del dual federalism. Ed aconferma della tendenza verso la

decentralizza-zione, negli ulti-mi anni gli ese-cutivi statali, pa-rallelamente adun’accresciuta

autonomia in campo tributario,hanno anche assunto delle impor-tanti iniziative riguardo all’ambien-te, ai temi dei diritti civili ed allepolitiche bancarie e creditizie, tuttisettori dove il ruolo dell’amministra-

zione federale era stato semprepreponderante. Questo nuovoorientamento ha contribuito adaprire una discussione su un ulterio-re aspetto della politica fiscale,quello relativo ai crediti che il go-verno federale concede ai diversiStati per la realizzazione di operepubbliche e l’attuazione di pro-grammi di assistenza sociale e sa-nitaria. Iniziato negli anni Trenta quando,per fronteggiare l’impatto dellagrave recessione che stava col-pendo il paese, Washington deci-se di accordare ai governi stataliuna serie di crediti per consentirglidi mantenere in attività i program-mi di assistenza sociale e la rea-lizzazione di infrastrutture, l’uso

Solo con la presidenzaNixon si inizierà a criticare l’espansionedel governo federale

Negli ultimi anniè accresciuta l’autonomia degli esecutivi statali

dei federal grants in aid è statoperò sempre visto con sfiducia dairepubblicani, per i quali questirappresentavano solo uno strumen-to con cui l’amministrazione fede-rale cercava di estendere la suaposizione sugli Stati dell’Unione,limitandone l’autonomia, ed in-fluenzarne le scelte politiche. Inol-tre, i critici sottolineano come l’usodella spending clause, per mezzodella quale il governo federalepone delle condizioni agli Statiper la concessione dei prestiti,rappresenti un mezzo con cui ilgoverno nazionale cerca indiretta-mente di aggirare i limiti impostialle sue competenze. L’istituto èstato quindi al centro di alcuniprogetti di riforma che le varie

Amministrazioni del Grand oldparty succedutesi negli ultimi qua-rant’anni alla Casa Bianca hannocercato di promuovere e realizza-re. Tra questi vanno ricordati pri-ma la propo-sta avanzatada Richard Ni-xon tesa a fa-vorire una de-centralizzazio-ne che attribuisse maggiori com-petenze alle autorità statali e poiquella promossa da Ronald Rea-gan per limitare il controllo del go-verno centrale sull’uso dei fondidestinati agli Stati ed attribuire aquest’ultimi un maggior ruolo deci-sionale nella scelta dei piani darealizzare con i fondi federali.Inoltre, molti ritengono che il siste-ma federal grants in aid, il cuiammontare raggiunge attualmenteal cifra di 467 miliardi di dollari,così com’è strutturato non reca al-cun vantaggio a quegli Stati dovemaggiori sono le necessità, ma fi-nisce invece solo per contribuireal clientelismo, favorire la realiz-zazione di programmi di scarsautilità appoggia-ti da determinatigruppi di pres-sione ed alimen-tare la crescitade l l ’appara toburocratico, senza contare poi co-me questo ignori le diverse realtàche presentano i vari Stati, i qualivedono limitate le loro prerogativedai vincoli imposti dall’amministra-zione federale.

I presidenti repubblicanida Nixon a Reagan hanno

cercato di limitare il controllo del governo

In molti ritengono che il federal grant in aid

favorisca clientelismoe la burocrazia

ESTERI

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L’organizzazione della giustiziaL’assetto giudiziario degli Stati Unitipresenta una struttura del tutto parti-colare, esistendo un sistema stataleed un altro federale le cui compe-tenze divergono profondamente traloro. Stando a quanto previsto dal-la Costituzione, a quest’ultimo spet-ta il compito di giudicare sui casiespressamente enunciati dalla Co-stituzione (art. 3, sez. 2), ovvero lecontroversie derivanti da un trattatointernazionale del quale gli StatiUniti siano parte, quelle sorte inmateria navale oppure tra cittadiniappartenenti a duediversi Stati dell’Unio-ne, le liti in cui sianocoinvolti diplomatici,consoli ed altre per-sonalità appartenentiad un paese stranieroed infine su una listadi crimini stabilita dalCongresso che com-prende il terrorismo, lo spionaggioed il traffico di stupefacenti. A livel-lo federale la funzione inquirente èesercitata dai procuratori federali(federal prosecutors) presenti inognuno dei distretti giudiziari, men-tre quella giudicante è svolta in pri-mo grado da 649 giudici dislocatinelle novantatrè U.S. district courtse in appello da 179 magistratistanziati nelle dodici U.S. appella-te courts in cui è suddiviso il Paese.Al vertice del sistema giudiziario èposta la Corte suprema degli StatiUniti, che si compone di otto giudi-ci più un Chief justice la cui nomi-na, al pari di quella di tutti gli altri

magistrati federali, è effettuata dalpresidente e successivamente sotto-posta ad un voto di approvazioneda parte del Senato. Nella sceltadei giudici, il ruolo presidenzialetuttavia differisce notevolmente aseconda se la nomina riguarda ungiudice di un qualsiasi Tribunale fe-derale oppure un membro dellaCorte suprema. Se nella designa-zione dei membri di quest’ultimal’influenza della Casa Bianca assu-me un’importanza notevole perchéal presidente, visto il rilevante pesopolitico che rivestono le sue senten-

ze, risulta vantag-gioso avere unaCor te supremaorientata favore-volmente verso lasua Amministra-zione, nella nomi-na dei giudicidelle Corti distret-tuali di primo gra-

do il peso presidenziale appare in-vece più limitato, esercitando inquesto caso un ruolo determinantegli esponenti politici dello Stato incui il magistrato andrebbe ad assu-mere l’incarico. La stragrande mag-gioranza dei reati rientra quindinelle competenze delle autorità giu-diziarie dei singoli Stati i quali di-spongono di un proprio codice ci-vile e penale, tanto che ognunopuò contemplare o meno la presen-za dell’istituto della pena di morte,tuttora applicata in trentacinqueStati e non prevista invece nell’ordi-namento di altri quindici e del Di-strict of Columbia. Alla testa della

I giudici della Cortesuprema sono sceltidal presidente, ma è il Senato che deveapprovare la nomina

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torità federali e statali esiste per lapolizia. Negli Stati Uniti non vi èun corpo organizzato a livello na-zionale in quanto le funzioni inve-stigative e di ordine pubblico sonosvolte dalle diverse polizie statali,cittadine e di contea, avendo leagenzie nazionali operanti l’autori-tà di effettuare indagini solo suireati classificati come federali, co-me avviene per l’Fbi, oppure dicompiere dei servizi particolari ri-guardanti l’attività del dipartimentodal quale dipendono.

La struttura istitu-zionale dei di-versi StatiSul piano istitu-zionale ogni Sta-to è organizzatocon una propriaCostituzione chepuò es se reemendata indi-

pendentemente da quella federale,disponendo, come si è visto nelparagrafo precedente, di un pro-prio ordinamento giudiziario, non-ché di organi legislativi ed esecuti-vi, alla testa dei quali è posto ilgovernatore che costituisce la per-sonalità più importante del panora-ma politico dello Stato. La sua fi-gura negli ultimi anni si è però pro-fondamente trasformata, non limi-tandosi solo a svolgere una funzio-ne a livello statale ma assumendouna rilevanza politica anche sulpiano nazionale, tanto che moltigovernatori hanno aperto degliappositi uffici a Washington pro-

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ESTERI

struttura è posto il procuratore ge-nerale (general attorney), il qualeha il compito di fornire la consu-lenza legale ai vari uffici governa-tivi statali, di trattare le cause civiliin cui lo Stato è coinvolto nonchédi assistere i vari procuratori distret-tuali nelle inchieste penali e chegeneralmente viene eletto dai citta-dini o, come però avviene solo inun numero limitato di Stati, nomi-nato dal governatore oppure, masolo in un caso, designato dallaCorte suprema. A svolgere la funzione inquirenteprovvedono normal-mente proprio i procu-ratori distrettuali (di-strict attorneys) presen-ti nelle diverse conteedello Stato e scelti diso l i t o a t t rave r soun’elezione popolare,mentre a livello giudi-cante i compiti sonoesercitati dai tribunali di primo gra-do, di appello, presenti tuttavia so-lo in trentanove Stati, e dalle Cortisupreme, le quali hanno l’ultimaistanza su tutti i ricorsi presentatinei vari procedimenti legali. I giu-dici di ogni grado sono, di norma,eletti dai cittadini oppure nominatidalle locali assemblee legislative odal governatore, mentre in alcuniStati quest’ultimo procede alla de-signazione scegliendoli da una li-sta diversi candidati che in seguitovengono confermati o meno nell’in-carico con un voto popolare. Al pari della giustizia, un’analogadifferenziazione di funzioni tra au-

Negli Stati Uniti un intero corpo per le investigazioni è decentratoalle polizie locali

prio per sensibilizzare meglioi membri del Congresso fe-derale sulle necessità e le ri-chieste degli Stati. I gover-natori sono eletti per unmandato di quattro anni –solo in New Hampshire e

Vermont questo è di due anni– e possono essere riconfermati

per il numero di volte fissato dalledisposizioni costituzionali statali. Leprerogative di cui dispongono pos-sono essere riassunti come segue.Poteri nel legislativo: nei rapporticon le assemblee legislative stata-li, il governatore dispone di unaserie di strumenti che rendono ilsuo peso determinante nel proces-so di approvazione delle leggi. Ilgovernatore può proporre alcuniprovvedimenti illustrandoli nel cor-so dello state of State Message –l’equivalente statale di quello cheè lo state of the Union message alivello federale – oppure usare ilsuo peso politico per facilitarel’approvazione di quei disegni dilegge ritenuti di particolare impor-tanza per la realizzazione delprogramma di governo. Inoltre, alpari di quanto attribuito al presi-dente sul piano nazionale, il go-vernatore dispone del diritto diopporre il veto sui testi approvatidal legislativo, mentre è sempresua prerogativa quella di prepara-re e presentare davanti alle came-re la legge di bilancio. Spetta infi-ne al governatore anche la facol-tà di richiedere la convocazionedi una sessione straordinaria delleassemblee legislative.

Rodolfo Bastianelli

Poteri di nomina agli incarichidell’amministrazione: in questo ruo-lo, il governatore dispone dellaprerogativa di nominare tutta unaserie di personalità all’internodell’amministrazione e di procede-re alla riorganizzazione degli ufficicosì da disporre di una struttura bu-rocratica che gli agevoli il lavoro. Poteri in situazioni di emergenza:Per fronteggiare delle eccezionalisituazioni di crisi, al governatore èconsentito di prendere tutte le mi-sure necessarie quali richiederel’intervento della guardia naziona-le ed impegnare allo scopo il per-sonale dei vari uffici governativi,nonché di ricorrere se necessarioa l’uso di proprietà private, so-spendere le leggi statali, utilizzarei fondi di emergenza ed autorizza-re eventuali evacuazioni della po-polazione da determinate areedello Stato.Poteri nella giustizia: se si escludeil potere di procedere alla nominadei giudici dei tribunali statali cheperò è previsto solo in alcuni Stati,la funzione più importante esercita-ta in ambito giudiziario dal gover-natore è quella di concedere lagrazia, commutare le sentenze ca-pitali e ridurre la durata delle con-danne penali. Si deve tuttavia ri-cordare come solo in trentatrè Statiquesta prerogativa sia attribuitaesclusivamente al governatore, es-sendo in altri assegnata invece adei Pardon boards ai quali spettail compito o di raccomandargli leeventuali richieste di clemenza, op-pure di decidere autonomamente

sulla loro eventuale concessione.Poteri militari: il governatore dispo-ne dell’uso della guardia naziona-le, una forza paramilitare il cui in-tervento può essere richiesto in ca-so di emergenza, disastri naturali ogravi disordini. Formalmente, il co-mando spetta al governatore quan-do la guardia nazionale svolgedei compiti a livello statale mentreinvece questo è attribuito al presi-dente se i reparti vengano impie-gati in ambito nazionale, visto chela guardia nazionale costituisce uncorpo delle Forze armate statuni-tensi partecipando in questo ruolopure alle missioni militari all’estero. Poteri in materia elettorale: in casodi dimissioni o scomparsa di un se-natore eletto nello Stato il governa-tore può effettuare in sostituzioneuna nomina temporanea, mentre inalcuni Stati deve invece convocareuna special election per colmarela vacanza del seggio senatoriale. Poteri esercitati come rappresentan-te dello Stato: si tratta di quelle fun-zioni essenzialmente cerimonialicome inaugurazioni, discorsi cele-brativi o ricevimenti che sono usatedal governatore soprattutto perpubblicizzare la sua immagine da-vanti all’opinione pubblica ma inalcuni casi anche per sosteneredelle iniziative politiche. In caso di decesso o dimissioni delgovernatore dall’incarico le suefunzioni vengono assunte dal lieu-tenant governor il quale, negli Statidove questa figura è costituzional-mente prevista, spesso riveste an-che il ruolo di speaker del Senato

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ESTERI

statale. Questo può essere o elettoassieme allo stesso governatoreoppure in due votazioni separate,con la conseguenza in questo ca-so che le due cariche potrebberoessere ripartite tra esponenti di op-posto colore politico. All’internodell’esecutivo statale particolareimportanza assumono poi le figuredel procuratore generale – di cui siè accennato sopra – e del secreta-ry of State, che può essere elettooppure nominato dal governatoreo dal legislativo statale ed al qualecompetono l’organizzazione e lasupervisione delle diverse consulta-zioni elettorali che si tengono nelloStato. Riguardo al legislativo, que-sto in tutti gli Stati è di tipo bicame-rale – solo in Nebraska il suo as-setto è monocamerale – compostoda una camera bassa e da un Se-nato i quali svolgono a livello sta-tale pressappoco le stesse funzioniesercitate dal Congresso sul pianofederale. La visibilità delle assem-blee legislative risulta essere peròmolto più defilata rispetto a quelladel governatore, per il suo più rile-vante peso politico, ma soprattuttoperché questo, ricoprendo anche ilruolo di leader del partito, vienead assumere un ampio controllosui suoi parlamentari, riduce sensi-bilmente il margine di manovra.Nei confronti del governatore, il le-gislativo dispone comunque dellostrumento dell’impeachment, men-tre si deve ricordare che le decisio-ni dei parlamenti statali in alcunicasi producono degli effetti a livel-lo nazionale, come quando sono

chiamate a votare gli emendamen-ti costituzionali approvati dal Con-gresso federale oppure a decidereil sistema di voto per la designa-zione dei Grandi elettori dello Sta-to in occasione delle elezioni presi-denziali. A proposito della strutturaistituzionale delle amministrazionistatali, non va dimenticato comeuno dei suoi tratti più caratteristicisia il largo uso che consente degliistituti di democrazia diretta. A se-conda di quanto disposto dalleleggi dei diversi Stati, possono te-nersi referendum abrogativi, propo-sitivi o confermativi, come avvienequando un provvedimento od unamodifica costituzionale varati dalleassemblee legislative vengono sot-toposti al voto dei cittadini per de-ciderne o meno l’entrata in vigore. In conclusione, si può quindi affer-mare come, pur avendo il governocentrale assunto competenze piùestese di quelle che originariamen-te gli erano state attribuite, il siste-ma federale degli Stati Uniti garan-tisce tuttora ampie prerogative alleamministrazioni statali, le quali sitrovano così a gestire gran partedegli aspetti che interessano la vitaquotidiana dei cittadini americani.

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Rodolfo Bastianelli

l’autoreRodolfo bastianelli

Esperto di questioni internazionali, collabora con

la rivista dello Stato Maggiore della Difesa Infor-

mazioni della difesa. Collabora inoltre con Liberal,

Affari esteri, Rivista Marittima ed il periodico dello

Iai Affari internazionali. Ha collaborato anche con

Ideazione e la rivista Acque & Terre.

attualità politica economia esteri cultura rubriche

Il periodico online della fondazione Farefuturo

WEB MAGAZINE

Riconquistare il senso civico perdutoIl radicarsi di una cultura politica in Italia ha stentato ad affermarsi, non riuscendo del tuttoad attecchire nelle coscienze e nelle esistenze della comunità sociale nel suo complesso.

Società e partecipazione politica

DI ANGELICA STRAMAZZI

Angelica Stramazzi

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La costruzione di un moderno e fun-zionante sistema democratico nonpuò prescindere dal riconoscimen-to, da parte di tutti gli attori che locompongono e rappresentano, dinorme, regole, principi e valoricondivisi. La “routinizzazione” diprocedure e meccanismi decisio-nali, insieme alla sedimentazionedi tecniche e prassi generalmenteaccettate, costituisce l’inizio di unpiù ampio processo, incarnato, co-me è noto, dall’edificazione di unacompiuta (e completa) democra-zia. La conoscenza del funziona-mento, pratico e concreto, di un re-gime democratico si pone, quindi,come elemento essenziale per po-ter manovrare e gestire compiuta-mente le leve del potere, di un po-tere che, dopo aver affrontato ilmomento della discussione e delladeliberazione, si trasforma e sfociain decisione, in provvedimento, inlegge dotata di cogenza ed effica-cia normativa.Un’adesione passiva e abitudina-ria, quasi scontata, al principiodella rule of law non può di per sébastare alla costruzione di un siste-ma che sia democratico e organi-camente efficace non solo a livelloformale, ma soprattutto a livello so-stanziale. La fissazione, entro sche-mi e cornici ben definiti, di regolee procedure, così come il ricono-scimento del concetto del rulingand being ruled, rappresenta ilpunto di avvio di un più vasto e ar-ticolato fenomeno che vede nelcoinvolgimento degli attori socialiuno snodo fondamentale e strategi-

co. L’individuazione di soggettipartecipanti, totalmente inseriti nel-la vita e nell’esperienza della polisdi appartenenza, la determinazio-ne cioè di cittadini–agenti in gradodi contribuire alla politicizzazionedella società, costituisce un tasselloirrinunciabile se l’obiettivo resta –sia per chi governa, ma soprattuttoper chi è governato – quello delmiglioramento delle odierne struttu-re democratiche. Dalle istituzionipolitiche, passando per quelle sco-lastiche ed universitarie: in ognunadi queste realtà, non può venir me-no la formazione di una cultura de-finita, lato sensu, politica, dal mo-mento che è proprio quest’ultima agenerare, oggi più di prima, la lin-fa vitale, necessaria ed indispensa-bile, affinché una democrazia pos-sa dirsi davvero moderna, funzio-nante e capace di stare al passocon i tempi.Tuttavia, nel nostro paese, il radi-carsi di una cultura politica, unita-mente alla costruzione di un forte eprofondo senso civico, ha stentatoad affermarsi, non riuscendo del tut-to ad attecchire nelle coscienze enelle esistenze della comunità so-ciale nel suo complesso. Le ragionidel mancato inserimento, sia nellementi, ma in primo luogo nei cuoridi ogni singolo cittadino, di creden-ze valoriali confluenti nell’idea dinazione, ritenute essenziali per riu-scire a vivere il presente, vannosenza dubbio rintracciate nella ge-stione, da parte dell’allora classedirigente, di quel processo che de-terminò la nascita della nostra Re-

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ISTITUZIONI

pubblica, stabilendo, de facto, icontorni e le caratteristiche di unanuova e più democratica forma digoverno rispetto a quella che si eraaffermata nel periodo precedente. Iprincipali interpreti e fautori dellaneonata democrazia postbellicanon seppero, più per volontà cheper caso, tracciare una esaustivadescrizione della storia nazionaleche fosse il più possibile inclusiva,ossia adeguata a narrare e a rap-presentare l’intero complesso di at-tori che contribuirono a determinareil radicale cambio di regime. Si op-tò invece per il ricorsoalla manipolazioneideologica, con l’in-tento di presentare lastoria non come ununiverso di principi evalori comuni, quantopiuttosto come un pro-dotto di esclusivo do-minio di pochi eletti.La conseguenza, inevitabile quantodisastrosa, di tale atteggiamento,fu quella di presentare la Costitu-zione – che dell’esperienza repub-blicana resta di fatto il principale,se non addirittura il più importantefrutto – come la più alta elaborazio-ne teorico–politica legata alla vi-cenda dell’antifascismo resistenzia-le, determinando a tutti gli effettinon solo una pesante riduzione alsilenzio di voci “altre”, ma soprat-tutto – ed è questo il punto che vaevidenziato – una democrazia co-stituzionale scarsamente inclusiva eincapace, a volte, di attuare un se-rio sforzo di riappacificazione in

grado di archiviare la dicotomia trafascismo e antifascismo. L’impossi-bilità di riconoscersi in un insiemedi principi e valori comuni, costituti-vi di quello che J�rgen Habermasdefiniva “patriottismo costituziona-le”, ha determinato una “partitizza-zione” dell’idea di nazione, deri-vante da una precedente e ben piùmarcata “partitizzazione” della Co-stituzione. Si tratta di un passaggioimportante, destinato a creare neltempo un insieme di fratture e cesu-re spesso difficili da cementificare,con la conseguenza che il distacco

tra società e istitu-zioni è finito perdiventare ancorpiù evidente e in-controvertibile. Insostanza, si è get-tata all’aria un’oc-casione unica edirripetibile: quelladi costruire uno

spazio di interessi prevalenti in tut-ta la collettività, un’area sponta-nea e sottratta alle logiche delloscontro ideologico, da utilizzare,da parte di chi governa, come ser-batoio di consenso e sostegno neimomenti di crisi. �proprio questa ri-serva di natura culturale, compo-sta da elementi di carattere costitu-zionale e repubblicano, a costitui-re la fonte di legittimazione per ilsistema politico-istituzionale nelsuo complesso1.Se la debolezza del dato naziona-le sembra ancora oggi mostrarsicome un fenomeno incontestabile eassai difficile da sradicare, non va

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Angelica Stramazzi

I protagonisti della democrazia postbellicanon seppero tracciareuna descrizione esaustivadella storia nazionale

dimenticato che un filone di studi,legato soprattutto alle teorie dellascuola di Gabriel Almond, ha cer-cato di tener conto della nozione dicultura politica – delle sue sfaccet-tature e principali caratteristiche –nell’interpretare il rapporto che le-ga la società al mondo delle istitu-zioni e della politica in generale.Mentre in passato, molti tra studiosie analisti dei processi politici si era-no soffermati esclusivamente sul-l’analisi del momento elettorale,considerandolo come fattore rias-suntivo ed esemplificativo di ulterio-ri stadi di un ben piùvasto e articolato con-cetto di partecipazio-ne sociale, Almond eVerba hanno conferitoopportuna rilevanzaanche all’aspetto cultu-ra le, recuperandol’approccio behaviori-sta e funzionalista se-condo cui la scienza politica dove-va studiare anche gli orientamenticulturali degli individui, sofferman-dosi in particolare sul loro atteggia-mento nei confronti della democra-zia. Essi arrivarono ad ipotizzare,in tal modo, che una cultura politi-ca apatica e frammentata, alienatae scarsamente partecipativa, fini-rebbe per generare un sistema de-mocratico instabile e mal funzio-nante, riducendo drasticamente lepossibilità di riuscita, nonché disuccesso, dello stesso. Riprenden-do una delle numerose teorizzazio-ni di Montesquieu, ossia quella se-condo cui ogni forma di governo ri-

chiede, per potersi nutrire e quindiper poter durare, la presenza di unpreciso modello culturale e valoria-le, reiterato nel tempo e costante-mente condiviso dalla maggioran-za della popolazione, è essenzialeper la buona riuscita di ogni siste-ma democratico che si candidi adivenire tale. La traslazione delloschema relativo all’identità sociale– ossia di quel processo in base alquale tutta una serie di credenzenormative solo legate al comporta-mento di una determinata collettivi-tà, solo se queste sono condivise

con un gruppo,definendo quindiuna importanteidentità – su unpiano meramen-te politico, com-porta l’affermarsidella dimensioneculturale, non so-lo sui momenti

principali della vita di un regimedemocratico, ma sulla stabilità del-la democrazia nella sua integrità ecompiutezza. Prima di delinearecosa debba intendersi, stricto sen-su, per cultura politica, sia Almondche Verba concordano nel sostene-re che in ogni sistema politico chesi rispetti esiste sempre una culturapolitica, generata dall’insieme diatteggiamenti e credenze condivisedalla maggioranza della popola-zione. Se quindi «la cultura politicadi una nazione consiste nella parti-colare distribuzione di atteggia-menti esistenti nella popolazionenei confronti di “oggetti” politici»,

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ISTITUZIONI

Le teorie di Almondhanno cercato di tenereconto della nozione di cultura politica e delle sue sfaccettature

ne consegue che «quando parlia-mo della cultura politica di una so-cietà ci riferiamo al sistema politicocosì come esso è interiorizzato nel-

le conoscenze,sentimenti e va-lutazioni dellapopolazione»2.Interiorizzare unsistema politico

significa anzitutto far sì che il singo-lo cittadino/elettore si impadroni-sca non solo di norme, prassi e pro-cedure tecniche, ma che soprattuttoincorpori quell’insieme di valori eprincìpi cardine per la costruzionedi una democrazia funzionante,che punti alla stabilità e alla sua ri-cezione presso la gran parte dellasocietà. La creazione di meccani-smi virtuosi, caratterizzati da lealtàe fiducia verso le istituzioni demo-cratiche, nonché dalla convinzioneche le élites al potere agiscano nelrispetto della rule of law e in con-formità ai principi democratici, rap-presenta uno dei più importanti ri-medi al pericolo dell’instaurazionedella“tirannia” della maggioranza,ossia di quella particolare modalitàd’agire che raramente punta alla

socializzazionedel potere, prefe-rendo a questaa t t egg iamen t iscarsamente dia-

loganti e di chiusura dei rappresen-tanti nei confronti dei rappresentati.A tal proposito, occorre ribadirecon fermezza che la sola presenzadi istituzioni democratico-rappre-sentative non garantisce di per sé

la realizzazione, concreta e reale,di un regime democratico. L’aspet-to formale della democrazia – com-prensivo di norme, procedure eprassi – è quindi condizione neces-saria ma non sufficiente per lo svi-luppo di moderne strutture capacidi inglobare il più possibile richie-ste di partecipazione, derivanti daquei settori della cittadinanza mag-giormente inclini alla socializzazio-ne del potere. Il valore aggiunto – ilsurplus necessario a far sì che una

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Per Almond, la culturapolitica è formata dagliatteggiamenti condivisidalla maggioranza

Lealtà e fiducia verso le istituzioni sono i rimedi alla tiranniadella maggioranza

Angelica Stramazzi

democrazia sia davvero tale – èdato dalla possibilità che ha a di-sposizione il rivestimento esterno(aspetto formale) di tradursi in real-tà concreta e tangibile, ponendosicome parte integrante di un model-lo istituzionale e costituzionale chenon può essere formato solo daprecetti astratti e fissati su carta. Intale contesto, notevole importanzariveste la dimensione culturale che,attraverso la diffusione di un’ade-guata cultura, è l’unica che riesce a

conferire contenuto e sostanza rea-le alla democrazia nel suo com-plesso.Il passaggio immediatamente suc-cessivo all’interiorizzazione, daparte degli atto-ri sociali, diuna certa cultu-ra politica, èdato dall’indivi-duaz ione d iquello spirito civico (civicness) chealtro non è se non l’humus e la linfavitale di ogni sistema democratico–rappresentativo. Se la cultura politi-ca – la cui prima formulazione av-viene, da parte di Almond, nel1956 – è data da credenze e va-lori di base diffusi e largamentecondivisi dalla stragrande maggio-ranza della popolazione, la culturacivica rappresenta un tipo partico-lare di cultura politica, essendo ca-ratterizzata da atteggiamenti ten-denti alla cooperazione e alla fidu-cia tra diversi soggetti agenti all’in-terno della stessa realtà istituzionalee sociale. Non a caso, Robert Put-nam include, tra le diverse articola-zioni e sfaccettature del concetto dicivic culture, la quota di partecipa-zione ai referen-dum, insieme al-la tiratura deiquo t id ian i egiornali nazio-nali e al tasso di vita associativo.Occorre ricordare che già Tocque-ville, studiando il funzionamentodella democrazia americana, rite-neva l’associazionismo – le sue re-ti, i suoi scopi, le sue finalità – un

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Già Tocqueville riteneval’associazionismo

il cardine delle societàdemocratiche

L’aspetto formale è condizione necessaria

ma non sufficiente per una democrazia

ISTITUZIONI

elemento cardine e senza dubbiocostitutivo dell’esperienza sociopo-litica di ogni realtà democratica, inparticolare di quella statunitense.Se il momento associativo rientra apieno titolo tra quelle che lo stessoTocqueville definiva “abitudini delcuore”, indicando, con tale espres-sione, uno dei tanti atteggiamenti ecomportamenti che animavano lavita dei cittadini americani, ne con-segue che l’impegno civico, unita-mente alla solidarietà e alla coope-razione, finisce per consentire (egarantire) un miglior funzionamentodell’intera macchinagovernativa. Al con-trario, la diffusione diprassi e modalitàcomportamentali incli-ni all’autorealizzazio-ne, legate tout courtal raggiungimentodella soddisfazionepersonale, produco-no un sistema politico carente ezoppicante, scarsamente capacedi intessere reti di relazioni (e di as-sociazioni) sociali che leghino i di-versi strati della cittadinanza intor-no ad un progetto di ampio respi-ro, fatto di credenze e valori condi-visi, percepiti e sentiti come indi-spensabili per la creazione del-l’arendtiano essere in comune.A più riprese è stato ricordato chela creazione e lo sviluppo di una ef-ficace cultura civica deve necessa-riamente passare attraverso l’indivi-duazione di momenti (e sentimenti)di aggregazione e sociale e politi-ca, in grado di legare il singolo cit-

tadino al mondo delle istituzioni,dando vita ad un sistema di rap-presentanza degli interessi e delleistanze sociali organicamente estrutturalmente stabile, ben articola-to al suo interno e funzionante nelsuo complesso. Per questo motivo,è necessario far leva sugli orienta-menti soggettivi dei singoli individuinei confronti della realtà politica,nel tentativo di realizzare una diffu-sa adesione (commitment) a certivalori politici, tale da influire positi-vamente sulle prestazioni e sui risul-tati prodotti dalle stesse istituzioni

democratiche. Sela cultura politicaè l’anello di con-giunzione tra cit-tadino/elettore esistema politico,la cultura civica èl’humus culturaledella democra-zia; è, in altri ter-

mini, quel valore aggiunto, neces-sario quanto indispensabile, per lacompiuta genesi e realizzazione diuna democrazia funzionante, ca-pace, proprio perché altamentecoesa al suo interno, di resistere apossibili ed eventuali derive, primafra tutte quella rappresentata dalpresentismo. Infatti, solo attraversola condivisione di regole in gradodi oltrepassare la logica del conflit-to e dello scontro politico, è possi-bile favorire il radicarsi di compor-tamenti e atteggiamenti tendenti aldialogo, idonei alla costruzione diuna coscienza della cittadinanzache sia conciliativa delle diverse

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Angelica Stramazzi

Lo spirito civico è l’humus e la linfa vitale di ogni sistemademocratico e rappresentativo

fratture e divisioni presenti all’inter-no del corpo sociale.Restringendo il campo di analisi efocalizzando l’attenzione sulla real-tà italiana, va ricordato che tra il1954 e il 1955, cioè quasi unbiennio prima della teorizzazionedel concetto di cultura politica daparte di Almond, Edward Banfieldsosteneva che in Italia si fosse diffu-sa e sedimentata nel corso deglianni una cultura familista, divenuta,con il trascorrere del tempo, il prin-cipale e dominante paradigma cul-turale di riferimento, caratterizzatoda modalità di azioneincapaci di generareun clima di fiducia ecooperazione recipro-ca in grado di supera-re il classico e tradizio-nale orizzonte familia-re. Si tratta, in estremasintesi, di quel partico-lare sottotipo di culturapolitica definita da Almond e Verba“parrocchiale”, contrapposta aquella “partecipante”, rispettosadell’autorità, impegnata e raziona-le, incline, per sua stessa natura, al-la partecipazione politica. Non acaso, l’impegno civico (civicness) sipone come l’esatto contrario delconcetto di “familismo amorale”teorizzato dallo stesso Banfield,che altro non è se non la rinunciaaprioristica – e in certi casi, condi-zionata – allo sviluppo di virtù civiliin grado di contribuire al riconosci-mento e al perseguimento del benepubblico, anche a costo di rinun-ciare alla massimizzazione degli

special interests, cioè di interessi in-dividuali e privati, settoriali e noncollettivi. Il tentativo di spiegare il perché inItalia abbia attecchito, trovandoampi spazi di diffusione, una cultu-ra di tipo parrocchiale o provincia-le, non può prescindere dal recupe-ro delle modalità in base alle qualiavvenne, e successivamente fu rea-lizzata, l’unificazione nazionale inseguito alle profonde fratture e con-trapposizioni sociali generate dalsecondo conflitto mondiale. Nelnostro paese, l’edificazione di un

sistema democra-tico, unitamentealla costruzionedi un “pacchetto”di memorie e va-lor i condivis i ,non è avvenutaattraverso la miseen p lace diun’azione di ca-

rattere pedagogico mirante alla dif-fusione, in tutte le varie articolazio-ni del corpo sociale, di prassi ementalità comunemente accettate ereiterate nel tempo, finendo inveceper generare un vulnus importante,determinato dal fatto che, dopo lacaduta del regime fascista, il paesesi sia trovato sprovvisto di un’ade-guata cultura civica. Quest’ultimadoveva essere conquistata attraver-so un processo di democratizzazio-ne inaugurato dalle neonate istitu-zioni rappresentative, ossia da que-gli organismi deputati alla diffusio-ne di “oggetti” democratici all’inter-no della società nel suo complesso.

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ISTITUZIONI

L’impegno civicoè l’esatto contrario del concetto di “familismo amorale”teorizzato da Banfield

In Italia, invece, il ritorno alla de-mocrazia – al dibattito, seppure avolte aspro, alla discussione, alconfronto tra parti – ha finito percoincidere con il ritorno, nell’agonepubblico, dei partiti politici, sosti-tuendo, fin dagli albori, una visioneconflittuale e dicotomica a prospet-tive dialoganti e di reciproco rispet-to. La ri-socializzazione degli italia-ni è quindi avvenuta non solo in as-senza di istituzioni repubblicaneben radicate e interiorizzate, ma èstata in gran parte pilotata da duegrandi (e ampiamente diffuse) cultu-re di massa, quellacattolica e quella dimatrice comunista,caratterizzate da unaforte identità di partee organizzate in basea logiche di naturaconflittuale e correnti-zia. La tardiva (e piut-tosto inefficace) intro-duzione dell’educazione civica nel-le scuole, unitamente allo scarsocoinvolgimento popolare rispettoalla nascita della Repubblica (cfr.Scoppola, 1998, 49), hanno de-terminato la nascita di una culturapolitica democratica intesa fonda-mentalmente in negativo, come ri-fiuto del fascismo, come sostanzia-le defascistizzazione. Anziché pun-tare sulla diffusione di un unico econdiviso sistema di credenze e va-lori unificanti, ricchi di spunti ricon-ciliativi e privi di elementi disgre-ganti, si è preferito fortificare situa-zioni caratterizzate dalla protezio-ne di privilegi particolaristici e di ti-

po corporativo, finendo così peralimentare quella linea di pensieroche rinuncia alla condivisione diorizzonti comuni, preferendo inve-ce curare il proprio universo parroc-chiale, all’interno di un contesto incui la memoria (e la cultura) è volu-tamente tenuta divisa e giammaicondivisa. Premesso che la culturacivica è, ex definitione, sempre plu-ralistica, orientata sì al consenso,ma al tempo stesso rispettosa dellediversità, occorre ribadire che essavive e sopravvive negli anni solo seriesce a porsi in un rapporto di stret-

ta interazione conil mondo delle isti-tuzioni, svolgen-do, nei confrontidelle stesse, unafunzione cataliz-zatrice delle di-verse issues pro-venienti dalla so-cietà. In tal mo-

do, si conferma quanto affermatoin precedenza, ossia il fatto che iltrait d’union tra realtà politico–istitu-zionale e sfera sociale è dato ap-punto dall’esistenza (e dallo svilup-po) di un forte senso civico, orienta-to alla partecipazione e alla legitti-mazione delle strutture democrati-co–rappresentative. Di fronte ad at-teggiamenti di disaffezione e asten-sionismo elettorale, di allontana-mento e distacco del cittadino/elet-tore nei confronti di chi governa, lacarenza di “approvazione sociale”verso i valori e le istituzioni demo-cratiche rischia di far svanire – oquantomeno affievolire – l’elemento

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Angelica Stramazzi

La cultura civica, orientata al consenso, rimane sempree comunque rispettosadelle diversità

della responsiveness, con il risultatoche l’eletto finisce sempre più perrender conto a sé stesso (e ai suoifedelissimi) e sempre meno all’elet-tore, ossia a colui che è chiamatoa pronunciarsi e a esprimersi, in ter-mini di consenso e sostegno eletto-rale, a favore o contro l’operatodei governanti democraticamentedesignati.A lungo si è scritto e riflettuto circal’esistenza di fratture – di tipo cultu-rale, politico, ideologico, economi-co e sociale – all’interno della real-tà italiana, fratture e divisioni chespesso e volentieri fini-scono per acuirsi e al-largarsi anziché ridursie riassorbirsi. Non èun caso se il dibattitoriguardante le “milleItalie”3, inerente cioèalla messa in eviden-za di realtà “altre” ri-spetto a quella nazio-nale, è a tutti gli effetti ancora aper-to. Tuttavia, sarebbe non del tuttocorretto pensare che la creazionedi subculture – di un particolare si-stema politico, caratterizzato da unelevato grado di consenso nei con-fronti di quei gruppi capaci di rea-lizzare un’aggregazione (e una me-diazione) dei diversi interessi a li-vello locale (cfr. Trigilia, 1986, 47)– generi sempre e comunque forzecentrifughe in grado di attentare al-la coesione delle istituzioni sociali.Se infatti il concetto di subculturadesigna un’entità distinta rispetto alresto della società, non coincideperò con la nozione di controcultu-

ra, che, invece, fa riferimento adun sistema di valori opposti o alter-nativi a quelli dominanti. La forma-zione di enclave subculturali, carat-terizzate da un alto grado di ade-sione intorno ad interessi di tipo lo-cale, non è, come invece si potreb-be immaginare, sempre dannosa. Illocalismo, se non distorto e viziatoda logiche di parte, potrebbe costi-tuire una risorsa per la creazione diuna certa quantità di fiducia inter-soggettiva, mirante alla valorizza-zione delle diverse appartenenzeterritoriali. Il rischio, tanto pericolo-

so quanto danno-so, si ha invecequando tra le dif-ferenti subculturesi creano spintealla frammenta-zione e alla com-partimentazione,rinunciando al-l’obiettivo virtuo-

so della compresenza e dell’interre-lazione. In tal senso, l’Italia rappre-senta un caso di cultura politicasegmentata e non omogenea, incui permangono e si fortificano di-visioni di tipo essenzialmente geo-grafico. Se il nord del paese ha fi-nito sempre più per riconoscersi,grazie soprattutto all’azione svoltasul territorio dalla Lega, in un siste-ma valoriale e culturale legato allaquestione del federalismo e dell’au-tonomia regionale rispetto al cen-tralismo burocratico–amministrativodi Roma, al sud si afferma e domi-na un tipo di mentalità family orien-ted piuttosto che una cultura com-

191Se l’Italia del nord si riconosce nella Lega,al sud si afferma una mentalità family oriented

ISTITUZIONI

munity oriented. Uno scenario diquesto tipo, caratterizzato da fortilegami familisti e vincoli localistici,ha come sbocco naturale, nonchéinevitabile, quello della creazionedi sacche di resistenza che ostaco-lano la produzione di momenti diaggregazione, non consentendodi colmare il ritardo che tuttora esi-ste nel processo di costruzione del-la nazione. Sulla scia di quantoappena ricordato, la società italia-na finisce per essere consideratauna realtà a “capitale sociale” va-riabile, in cui singoli cittadini impe-gnano le risorse a loro disposizio-ne solo se il raggiungimento e lasoddisfazione dei loro bisogni enecessità è realizzabile nel breveperiodo e senza che questo com-porti un grande dispendio di tem-po e di energie.La volontà di arginare spinte e for-ze centrifughe, che minano un giàdebole e flebile sentimento di coe-sione nazionale (e sociale), passainevitabilmente attraverso la costru-zione di un adeguato spirito civi-co, inteso anzitutto come adesionecostante ad un insieme di valori ecredenze, riconosciuti da tutta lacomunità quali elementi fondativi ecostitutivi di un moderno patriotti-smo repubblicano. La sola indivi-duazione di procedure e prassi de-mocratiche non è di per sé suffi-ciente alla realizzazione di unidem sentire che parta dal presup-posto che le istituzioni necessitanodi una cultura civica che le sosten-ga e supporti costantemente, so-prattutto nei momenti di crisi come

quello che stiamo vivendo. In taleprospettiva, i giovani – spesso con-siderati “incerti paladini” della cul-tura politica – dovranno impegnar-si a creare dei momenti di socializ-zazione e aggregazione che con-sentano loro di andare oltre il sem-plice e tanto desiderato orizzontedell’autodefinizione e autorealizza-zione. In sostanza, occorre un mu-tamento di mentalità, tale da rivolu-zionare un sistema in cui a domi-nare sono ancora il “familismoamorale” e particolarismi di ognigenere ed entità.

1 Cfr. E. Galli della Loggia, La morte della pa-tria, Ed. Laterza, 1996.2 G. Almond e S. Verba, Un approccio allostudio della cultura politica, in G. Sartori (a cu-ra di), Antologia di scienza politica, Il Mulino,Bologna 1970, pp 215-222.3 Cfr. E. Galli della Loggia, L’identità italiana,Il Mulino, Bologna 1998.

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Angelica Stramazzi

l’autoreangelica stramazzi

Specializzanda in Sistemi e modelli politici all’Uni-

versità di Perugia. Collabora con Spinning Politics,

testata online di comunicazione politica, e con di-

verse testate locali del Lazio. Svolge attività di

consulente politico, occupandosi di comunicazio-

ne pubblica.