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614 Quattro aviatori italiani in Croazia 7 gennaio 1992 In Iugoslavia c’è finalmente la tregua. La Comunità europea ci manda come osservatori. Il nostro elicottero vie- ne colpito da tre raffiche di cannoncino sparate da un Mig 21, dall’arma- ta federale. E solo molto dopo Belgrado ammetterà: «Siamo stati noi, scusate». La fine giunge a noi anzitempo, dunque, sotto forma di fuoco amico. Siamo morti per la pace. Eppure… Eppure agli italiani di quello che sta succedendo in Bosnia, in Croazia e in Slovenia non frega nulla: i profughi, le case sventrate, le città distrutte sem- brano non suscitare interesse, nemmeno un po’ di pietà. Un anno fa, nel 1991, sarebbero partiti tutti volontari per il Kuwait, per di- fendere la libertà di un Paese che aveva il nome di un distributore di ben- zina. I nomi dell’ex Iugoslavia sono forse più difficili… Il capitano Maurizio Cocciolone è tornato dall’Iraq con un occhio nero ed è diventato un eroe. I nostri nomi – colonnello Venturini, sergente mag- giore Natta, marescialli Ramacci e Silvani – agli italiani non dicono nulla. I settimanali che hanno fatto le «inchieste» sulle torture di Saddam, la setti- mana dopo la nostra morte pubblicano in copertina questi titoli: «Stephanie di Monaco: aspetto un figlio dalla mia guardia del corpo», oppure «Lorella Cuccarini e Marco Columbro condurranno ancora Paperissima?», «A scuo- la di trucco con Rosanna Lambertucci».

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Quattro aviatori italiani in Croazia7 gennaio 1992

In Iugoslavia c’è �nalmente la tregua.

La Comunità europea ci manda come osservatori. Il nostro elicottero vie-

ne colpito da tre ra�che di cannoncino sparate da un Mig 21, dall’arma-

ta federale.

E solo molto dopo Belgrado ammetterà: «Siamo stati noi, scusate».

La �ne giunge a noi anzitempo, dunque, sotto forma di fuoco amico.

Siamo morti per la pace.

Eppure…

Eppure agli italiani di quello che sta succedendo in Bosnia, in Croazia e in

Slovenia non frega nulla: i profughi, le case sventrate, le città distrutte sem-

brano non suscitare interesse, nemmeno un po’ di pietà.

Un anno fa, nel 1991, sarebbero partiti tutti volontari per il Kuwait, per di-

fendere la libertà di un Paese che aveva il nome di un distributore di ben-

zina. I nomi dell’ex Iugoslavia sono forse più di�cili…

Il capitano Maurizio Cocciolone è tornato dall’Iraq con un occhio nero ed

è diventato un eroe. I nostri nomi – colonnello Venturini, sergente mag-

giore Natta, marescialli Ramacci e Silvani – agli italiani non dicono nulla.

I settimanali che hanno fatto le «inchieste» sulle torture di Saddam, la setti-

mana dopo la nostra morte pubblicano in copertina questi titoli: «Stephanie

di Monaco: aspetto un �glio dalla mia guardia del corpo», oppure «Lorella

Cuccarini e Marco Columbro condurranno ancora Paperissima?», «A scuo-

la di trucco con Rosanna Lambertucci».

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Una valigetta17 febbraio 1992

C’era il trucco, e quel Mario Chiesa ci cascò in pieno.

Mi stringeva in mano Luca Magni, giovane imprenditore titolare di una

piccola impresa di pulizie, che lavorava anche per il Pio albergo Trivulzio,

la casa di riposo di Milano della quale Chiesa era presidente in quota Psi.

Ero piena di soldi. La tangente per Chiesa: sette milioni, cash.

Avevo una microspia. Magni aveva denunciato tutto ai Carabinieri, stanco

di dover pagare mazzette ai politici per poter lavorare.

Ero un valigetta-trappolone.

Spuntano i Carabinieri.

«Questi soldi sono miei» azzarda Chiesa.

«No, ingegnere» replicano gli uomini in divisa «questi soldi sono nostri.»

Allora lui scappa in bagno, e butta nel cesso 37 milioni di lire, il ricavato

di un’altra tangente.

Lo portano a San Vittore.

Così fu beccato il «mariuolo», come lo de�nirà Craxi. Uno straniamento

inatteso, il suo.

Così è cominciata Tangentopoli.

Per Bettino, per tutti, un cataclisma.

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Valentino Bompianieditore, 23 febbraio 1992

Per fortuna non ho fatto in tempo ad assistere al cataclisma dell’editoria.

Detestavo la tirannia del marketing, la ricerca del best seller, credevo sem-

plicemente nel libro, e basta.

Capii che arrivavano tempi tristi quando vidi aggirarsi nei corridoi del-

le case editrici una generazione di direttori editoriali che anziché parlare

di romanzi parlava di tirature, si occupava dell’organizzazione di squallidi

cocktail, comprava vino scadente per bicchieri di plastica, camminava con

vestiti gri�ati e scarpe dai tacchi alti. Il rumore dei loro passi era il crepi-

tio del tramonto.

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Salvo Limapolitico, 12 marzo 1992

Non mi sono accorto che vivevo, perché la mia vita fu tutta un’equazio-ne: elezioni, appalti, ancora elezioni, riunioni, riunioni, riunioni, comitati, persone da incontrare all’ombra, persone da incontrare in pubblico, il caro Giulio, elezioni, appalti, Roma, Palermo, Bruxelles, persone amiche, per-sone non più amiche. La mia fu l’esatto contrario di una morte annunciata. Perché ero un intoc-cabile, e tutti lo sapevano.Ma ero diventato – improvvisamente – l’amico caro di un amico che ha tradito, e che doveva essere avvertito, con un cadavere fatto trovare nel suo parco giochi sotto casa, la Sicilia. Quando a Palermo mi uccisero, tutti pensarono che fosse un delitto di ma-�a. Ma ci fu chi disse: «È molto di più. È come l’assassinio di John Kenne-dy: non si saprà mai chi è stato davvero…».Sul mio cadavere, sulle strade di Mondello, a Palermo scende una cappa come di afa, di umidità appiccicosa. Non è solo caldo. Non è solo scirocco. E infatti la mia uccisione fu solo l’inizio: il Sessantotto di Riina, e di quelli che di lui si servivano. Venticinque anni dopo, lo slogan era sempre quel-lo: «Ce n’est qu’un début…».Però a mia �glia hanno dato i fondi per le vittime di ma�a, un milione e ottocentomila euro.

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Giuliano Guazzellimaresciallo, 4 aprile 1992

Mi chiamano «il Mastino». Sono in Sicilia dal 1954. Non do tregua alla ma-�a. Non ho tregua. Sono la memoria storica della lotta alla ma�a in Sicilia: droga, appalti, po-litica, tutto.In quarant’anni di servizio ho archiviato nella mia mente la radiogra�a del-le cosche, da Palermo a Trapani, da Caltanissetta ad Agrigento. Come ogni giorno prendo la Agrigento-Men� con la mia Ritmo. Sono sul viadotto Morandi. Un Fiorino mi sorpassa. È arrivata l’ora, è l’ultima cosa che penso. Si apre il portellone. Scaricano colpi di mitra. È la famiglia Capizzi di Ribera che manda questi picciotti. Li ha pagati cin-que milioni di lire. È la stessa mano che ha ucciso il giudice Livatino. Sto indagando sulla sua morte. Sul posto arrivano centinaia di curiosi, i miei colleghi, Paolo Borsellino.Gli avevo promesso che avrei collaborato con lui su alcune importanti in-chieste sulla ma�a trapanese che voleva portare avanti.

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Il Caf5 aprile 1992

Cominciò tutto nell’estate del 1986. La Dc obbligò Craxi alla sta�etta, che

nel 1987 portò alle elezioni anticipate e ai governi della sinistra democri-

stiana di De Mita. Craxi �utò il malcontento e formò un’alleanza, la fami-

gerata triade: Craxi-Andreotti-Forlani.

Ero il patto che consentiva ai leader del Psi e della Dc di spartirsi il potere

e di continuare a governare. O, se preferite, una riedizione dei famigerati

triumvirati nel crepuscolo dell’impero romano.

E anche in questo caso di �ne impero si trattava.

Fui travolto da Tangentopoli e dalla lotta tra i leader per chi doveva fare

il presidente della Repubblica al posto di Francesco Cossiga, quel mattac-

chione che si era dimesso improvvisamente, perché aveva capito che tut-

to stava per crollare.

Valevo mille, valevo l’Italia intera.

Improvvisamente valevo zero.

La ma�a si preparava alla resa dei conti.

La magistratura indagava sui conti.

Lo spavento era supremo.

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L’Ora9 maggio 1992

I lettori furono salutati con un «Arrivederci» in prima pagina. L’ultimo nu-

mero ripercorreva un secolo di storia del giornale, con articoli �rmati da

vecchi redattori e interviste a storici e studiosi per raccontare l’unicità di

quell’esperienza, non solo siciliana, ma italiana.

Perché il giornalismo è un mestiere di responsabilità, specialmente in un

territorio «di frontiera» come la Sicilia, martoriato dalla presenza ingom-

brante della ma�a e delle clientele.

Chiedevo ai giornalisti un’ostinazione che altrove non sarebbe stata neces-

saria per informare. Loro accettavano in partenza le conseguenze che que-

sto avrebbe comportato. Tre di loro – Cosimo Cristina, Mauro De Mauro

e Giovanni Spampinato – sono stati uccisi perché, pur essendo consapevo-

li della peculiarità del territorio in cui operavano e dei rischi che correva-

no, prima di tutto avevano voluto informare.

Cesso le pubblicazioni due settimane prima della strage di Capaci e due

mesi prima di quella di via D’Amelio. Il ’92 sarà per Palermo e per la Sicilia

l’anno della «rivolta dei lenzuoli» e della «primavera siciliana».

Mi è stata tolta la possibilità di fare per la prima volta il mio lavoro con al

�anco una popolazione attiva. Dall’altra parte, la primavera siciliana ven-

ne privata dell’appoggio di un giornale indipendente che ne rappresentas-

se la voce.

Sarei forse stato uno strumento indispensabile, un collante per il movimen-

to, che invece si spense in pochi mesi. Fu un’occasione mancata.

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Sorelle d’Italia – Capaci23 maggio 1992

Dove sono Giovanni, il giudice, e sua moglie Francesca?Dove sono Vito, Rocco, Antonio?Il poliziotto, il poliziotto, il poliziotto…Cercateli, cercateli in quel pezzo di autostrada di fronte la collina di Capa-ci, davanti al mare di Palermo.

Io sono la bomba che vi fa una cortesia: non vi stava così antipatico quel magistrato troppo prima donna?

Io sono la bomba che tutto accelera: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica come la �ne di Borsellino.Borsellino muore a Capaci, non lo capite?È come un immenso movimento di terra, che poi è la specialità della ma�a.

Sono la bomba del tempo perfetto, dei lunghi preparativi, del cronopro-gramma. Dei dettagli. C’è stato un uomo che si è fatto scivolare su uno skateboard lungo un tunnel, per piazzare cinque quintali di tritolo e pol-vere T4.

Poi, quel sabato, alle 17 e 04 squilla un cellulare.«Pronto…»«Pronto, Mario?»«No, ha sbagliato.»

È il segnale.

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Alle 17 e 40 il giudice e la moglie scendono dall’aereo, e salgono su una del-

le auto. Le altre seguono, di scorta.

Sulla collina, altri sorvegliano.

Alle 17 e 58 vado in scena io: l’attentatuni.

In molti mi aspettano già in piedi.

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Giovanni Falconemagistrato, 23 maggio 1992

Avviso per tutti coloro che oggi dicono o pensano: «Voglio essere come

Giovanni Falcone». Sappiate che Giovanni Falcone non voleva essere Gio-

vanni Falcone, ma uno che faceva bene il suo mestiere. E basta.

Sono stato la prima torre gemella a essere abbattuta, sull’autostrada, un sa-

bato pomeriggio, vicino a Capaci.

Poi, il 19 luglio, Paolo Borsellino fu la seconda torre a cadere, bombardata.

Sapevamo molte cose, Paolo.

Il legame profondo tra ma�a, economia e settori dello Stato, quel doppio-

fondo che è l’anima stessa dell’Italia. Ci pensi? Io lo chiamavo il gioco gran-

de, questo dòmino che era diventata la ma�a. Si indaga sugli assegni e si

arriva alle armi, poi di nuovo alle banche, e agli appalti, le tangenti, i poli-

tici, la massoneria, i servizi segreti. E un muro. Da qualunque punto si ini-

ziava, si andava sempre a sbattere.

Ci fu un tempo, Paolo, in cui anche da morti ci sentivamo vivi. Fu subito

dopo il nostro strazio, quando avvertimmo una scossa sincera, nel Paese.

Non eravamo solo icone, ma simboli di un riscatto. La lotta alla ma�a co-

minciò a diventare la ragione di vita quotidiana di molti, soprattutto gio-

vani. Davano una lezione di dignità a tutta l’Italia.

Poi, cosa sia successo non so.

Dove abbiamo sbagliato, Paolo?

Se nei primi anni c’era speranza che qualcosa cambiasse ora è prevalso un

altro sentimento. Che non è la disillusione, perché molte cose sono cambia-

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te, molte battaglie sono state vinte. Forse sono tutti disorientati. Non san-

no più cosa fare, dove cercare.

Ricordano noi: Falcone, Borsellino, i poliziotti della scorta, sì. Ma sentono

promesse che non vengono mai mantenute, annunci di leggi fondamenta-

li nella lotta alla ma�a che non vengono mai approvate.

Sono disorientati, per questo e per altri motivi. Perché prima sapevamo ri-

conoscere il nemico. Riina, Provenzano, Brusca e tutti gli altri. Oggi, che i

boss della ma�a che fu sono in carcere, vittima dell’Alzheimer oltre che del

carcere duro, non hanno più nemici. La ma�a è cambiata e non sanno ri-

conoscerla più. E non sapendola indicare, non la sanno lottare.

Forse per capire l’Italia, la ma�a, l’antima�a e tutto – no, non per capire,

per tentare di capire, perché capire non si può, ma avvicinarsi sì – forse,

allora, per cercare un �lo, devo tornare a quella sera di sabato 23 maggio

1992. Su Rai Uno fanno Scommettiamo che…?. Fabrizio Frizzi in smoking

spunta in televisione, e dice: «Siamo qua, in questo programma di scherzi

e lazzi, è l’ultima puntata, non volevamo andare in onda ma alla �ne abbia-

mo deciso che andiamo in onda lo stesso». Prima, un minuto di silenzio per

Falcone. Applauso del pubblico, tutti in piedi al Teatro delle Vittorie. Stacco

musicale dell’orchestra del maestro Mazza. Frizzi che rientra sul palco del-

lo studio (perché prima non era sul palco, forse non era neanche in quello

studio, e forse non era sullo schermo, Frizzi: era nella vita vera, spiacevole

parentesi della vita televisiva) e come se niente fosse, elaborato già il lutto,

palleggia con un pallone da basket e dà inizio alla trasmissione.

Ecco, nel corso di questi anni, si è fatta la stessa cosa: prima lo spavento,

l’orrore. Poi la posa, sull’attenti. Il caloroso saluto alle vittime. In�ne, se-

duti. C’è stato lo stacchetto. Adesso si palleggia.

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Francesca Morvillomagistrato, 23 maggio 1992

Il nostro viatico sono state le conversazioni radio dalle sale operative di Po-

lizia e Carabinieri, che inviavano sul posto uomini e mezzi:

Ci sono un sacco di feriti…

… il fatto si è verificato poco prima dello svincolo di Capaci, c’è tutto il ter-

reno sventrato, il ferito lo stanno portando via in questo momento… non so

esattamente in quali degli ospedali lo vogliono portare…

… dovete controllare tutti… tutti… perché… a seguito di attentato avvenu-

to in Palermo, attentato dinamitardo avvenuto a Palermo… controllare tut-

ti quelli che escono dall’autostrada…

… quanti colleghi c’erano a bordo? Se mi date la targa… il tipo e la targa…

… lascia stare il tipo, se era una Giulietta o altro tipo di autovettura…

… confermano altri colleghi del nucleo scorte che trattasi di tre colleghi no-

stri, quindi del nucleo scorte…

… sono tutti frastornati… uno si dovrebbe chiamare un certo Montinari…

l’auto dovrebbe essere una Croma quindi accertatevi…

Io sono al Civico, la personalità è qui, le condizioni sono abbastanza gravi, i

medici lo stanno visitando…

Abbastanza gravi che significa… che è cosciente… che…?

Ci ha le caviglie rotte, entrambe… gli stanno facendo un massaggio cardiaco…

Il procuratore desidera sapere se ci sta pure la moglie…

Morvillo… signora Morvillo… che presenta ferite abbastanza gravi alla gam-

ba destra…

Dovresti dirmi quanti morti e quanti feriti ci sono lì…

Io qui morti non ne ho. Ho circa… ho tre militari di scorta lievemente feriti,

più almeno cinque o sei civili… persone rimaste coinvolte occasionalmente…

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eh… inoltre c’è anche la moglie di Fox… dovrebbero essere nel complesso no-

ve, complessivamente nove… dovrebbero essere…

I feriti sono tanti…

Hanno estratto il secondo corpo dall’equipaggio… e mi confermano che an-

che questo è deceduto…

… dati precisi non ne abbiamo… Per adesso al Civico ci sono tre morti e due

feriti… Noi abbiamo altri dati…

Abbiamo scortato l’autoambulanza su cui c’era la nota personalità… Fox

Trot iniziale…

Le condizioni della signora?

Abbastanza serie. Neurochirurgia. Tra pochi secondi passa da qui…

Mi confermate che si tratta della moglie della nota personalità?

Ti confermo. Assolutamente lei. E abbiamo l’orologio… l’orologio fermo al-

le 17 e 58.

La nota personalità è deceduta.

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Antonio Montinaro, Rocco di Cillo, Vito Schifanipoliziotti, 23 maggio 1992

… Tornate ad essere cristiani… Per questo preghiamo nel nome del Signore

che ha detto sulla croce: padre, perdona loro perché loro non lo sanno quello

che fanno… ma loro lo sanno quello che fanno… lo sanno… pertanto vi…

vi chiediamo… vi chiediamo per la città di Palermo… Signore… che avete

reso città di sangue, troppo sangue… di operare anche voi per la pace, la giu-

stizia, la speranza e l’amore per tutti… non c’è amore… non ce n’è amore…

non c’è amore per niente…

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Sorelle d’Italia – Via Mariano D’Amelio, Palermo19 luglio 1992

Dov’è Paolo, il giudice, che da 57 giorni aveva perso il sorriso?

Dove sono Agostino, Vincenzo, Walter, Claudio.

Il poliziotto, il poliziotto, il poliziotto, il poliziotto.

Dov’è Emanuela? Ci teneva tanto a essere la prima donna assegnata a un

servizio di scorta.

Cercateli, cercateli nell’imbuto di via D’Amelio, a Palermo.

Suona il citofono.

Chi è?

Consueta la domanda.

Fragorosa la risposta.

Io sono la bomba che completa il lavoro. Non sono la copia di Capaci, so-

no un’altra cosa, un altro pezzo di frase nello stesso discorso, nello stesso

ragionamento.

Io sono la bomba che tutto ferma: c’è un nuovo capo dello Stato, non c’è più

il pool antima�a – è fatto a pezzi, nel senso pieno della parola –, la Prima

Repubblica batte i piedi come un malato agli ultimi strazi, il signore delle

televisioni ha già deciso di fare un partito tutto suo.

Cento chili di tritolo, in una Fiat 126, posteggiata davanti al civico 21.

La terra è stata smossa.

Serviva a coprire delle fosse.

Una per i giudici, i loro tronchi smembrati.

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Una per gli agenti, i loro pezzi sparsi sull’asfalto bruciato di sole.

La fossa grande, invece, è un buco nero. Per l’Italia tutta.

Sono la bomba delle mille verità, del gioco di specchi, dei �nti pentiti che

racconteranno di �nti preparativi, �nte riunioni, �nte strategie, �nti motivi.

Tutto �nto.

Borsellino Bis, Borsellino Ter, Borsellino Quater. Troppi numeri romani

per mascherare l’incapacità a trovare un brandello di luce.

Di vero c’è solo il botto.

Ancora oggi.

Di vero c’è solo il botto, e nulla più.

Non sono le stalle dello zio Totò quelle da perquisire per trovare la verità,

sono i corridoi tirati a lucido di certi palazzi.

Pensavate che la notte fosse scampata, vero? Che ci fosse una nuova alba e

un nuovo inizio.

Io sono l’incubo che sorprende al mattino quando dolce dovrebbe essere il

sonno del risveglio.

In molti mi aspettavano già svegli.

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Paolo Borsellinomagistrato, 19 luglio 1992

Dove abbiamo sbagliato, Giovanni? Non lo so. Quando ti ho visto morire mi sono rassegnato. Ho avuto poco tempo a di-sposizione. Nulla e nessuno avrebbe potuto salvarmi.E �niva così la nostra lotta d’amore per liberare Palermo e l’Italia.Come l’imperatore Adriano, sono entrato nella morte vivendo. E anche un po’ ridendo. Chi ha visto il mio corpo martoriato – solo la testa e il tron-co, le braccia e le gambe erano state strappate – ha riconosciuto sotto i miei ba� come una specie di sorriso. Come a dire: lo sapevo.

È stata la ma�a a ucciderci, certo. Ma non è stata solo la ma�a a volere la nostra morte.

Forse lo sai dove abbiamo sbagliato? A fare quella foto. Quella che ci vede insieme, vicini e complici, sorridere, parlare dei fatti nostri. È la foto che hanno tutti. Sta nelle scuole, all’ingresso, dietro la scrivania di sindaci e po-litici, in molte chiese, in aule di giustizia.Tutti hanno quella foto. Si fanno magliette, poster, portachiavi. Di noi tutti sanno a memoria i nostri slogan: «Chi ha paura muore ogni giorno», «Un giorno questa terra sarà bellissima», «Fresco profumo della libertà».Ma di noi in pochi seguono l’impegno. Tanto, in quella foto, ci parliamo tra noi, Giovanni.

Quella foto è sbagliata.Avremmo dovuto farne un’altra, invece. Dove, insieme, alziamo lo sguar-do. E siamo noi a guardare negli occhi chi ci osserva.

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Non so in quanti l’avrebbero appesa una foto così. Non è una foto da eroi morti da venerare.È una foto di persone vive che si interrogano. Non è una foto che ha come didascalia la parola «Antima�a».Ha come didascalia la parola «Responsabilità».

Ma quella foto, purtroppo, non c’è.

E la lotta alla ma�a è nata sui nostri corpi straziati ed è �nita subito do-po, so�ocata dalla retorica e dal merchandising. I cineforum, le �accolate, i cortei. Le �ction, i �lm, i fumetti, i romanzi, le miniserie in tv. Le inti-tolazioni: biblioteche, scuole, aeroporti, piste di sci, strade, viali, piazze…

Chi lo poteva dire: lottare ogni giorno senza riposo, morire da eroi, diven-tare simboli di una ribellione. E poi riempire le pagine di Tuttocittà.

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Un’agenda di colore rosso19 luglio 1992

Sì, la lotta alla ma�a è �nita.

Io lo so. Perché sono un simbolo dell’antima�a: l’agenda rossa di Paolo Bor-

sellino.

Mi sognate la notte: dov’è? chi l’ha presa? dove l’hanno portata?

Sono stati i servizi deviati, un carabiniere infedele, un passante, un ma�o-

so a portarmi via?

A un certo punto a qualcuno è sembrato di vedermi in un �lmato di�u-

so tempo fa con le riprese dei vigili del fuoco nell’immediatezza della stra-

ge di via D’Amelio.

Eccola, l’agenda inseparabile del giudice Paolo, eccola lì! Allora esiste! Poi i periti hanno detto: è una cosa rossa, sì, ma non è un’agenda, è un pa-rasole. Mi sembra di essere in quel quadro di Magritte: «Ceci n’est pas une pipe». Questa non è una pipa. L’agenda è un parasole è un pezzo di cartone è un ombrellino da cocktail è il coniglio di Alice. Forse sarebbe l’ora di liberarvi di me. Ero l’agenda di Paolo Borsellino, certo.Contenevo i suoi appunti più importanti, ovvio.Ma di sicuro non l’appuntamento con i suoi assassini. E siete così presi dalla ricerca che vi sfugge tutto il resto: il clamoroso de-pistaggio delle indagini, il coinvolgimento di pezzi delle istituzioni, le ulti-me indagini di Borsellino.

Il punto morto della lotta alla ma�a, oggi.

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Emanuela Loipoliziotta, 19 luglio 1992

Un parco.

Una targa.

Sono stata la prima donna a far parte di una squadra di agenti addetta al-

la protezione di obiettivi a rischio e anche la prima poliziotta a morire in

servizio.

Una medaglia.

Tante strade: da Quartu Sant’Elena a San Giuseppe Jato, da Iglesias a Ca-

tanzaro.

Qualche piazza.

Una via.

Un asilo.

Un istituto tecnico commerciale.

Un istituto tecnico industriale.

Un premio.

Un torneo di calcio a sette.

Ritrovarono quel che restava del mio corpo in un giardino. Un pezzo di se-

no, come un �ore grifagno, dolorosa pianta.

La bara viaggiò leggerissima – vuota – da Palermo in Sardegna, a casa mia.

Lo Stato fece pagare ai miei genitori le spese del trasporto.

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Gli agenti di scorta vittime della violenza ma�osa19 luglio 1992

Eppure lo sapevamo anche noi, il silenzio di certe strade semideserte, l’a-ria gialla di tufo intorno.

E pensare che ci eravamo abituati: palette, lampeggianti, turni. Tutti intor-no al magistrato, a fare da corona, neanche fosse il bocciolo di un �ore e noi come api a ronzare intorno. Guardare sempre nello specchietto retro-visore, l’auto che chiude il corteo, l’altra troppo vicina. Chi ci sorpassa? Chi mette la freccia? Chi ci cammina accanto?

Sì, pensavamo di averlo capito, come strappare nei territori della ma�a pic-cole zone franche di sicurezza, quasi di pace. E avevamo giurato di non dirla mai, quella parola che era una bestemmia: pace.

Saltare il tra�co, la strada come una pista, la gente che si lamenta. Questo parlare piano, indicando con gli occhi qualcuno o qualcosa. Tutte le do-mande da fare prima di visitare luoghi non conosciuti e dunque, per de�-nizione, ostili.

Ci siamo abituati, ci ripetevamo. È la nostra vita, ci consolavamo. Ormai siamo preparati, ci incoraggiavamo: non può capitarci nulla.

Invece no, non ci si abitua mai.

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Rita Atriaragazza, 26 luglio 1992

Anche se non ho ancora 18 anni ho un viso da adulta. Mio padre era un ma�oso. È stato ucciso a Partanna, il mio paese, quan-do avevo 11 anni. Nel 1991 uccidono mio fratello. Io ho 17 anni ma so già molte cose e decido di raccontarle a Paolo Borsellino.Mi sono legata a lui come a un padre. Io sono una picciridda, e ora che è morto Borsellino, nessuno può capire il vuoto che c’è nella mia vita.Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato ma�o-so vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento sa-ranno uccisi.Prima di combattere la ma�a devi farti un esame di coscienza e poi, do-po aver scon�tto la ma�a dentro di te, puoi combattere la ma�a che c’è nel giro dei tuoi amici: la ma�a siamo noi e il nostro modo sbagliato di com-portarci.Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta.

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Giovanni Lizzioispettore capo di polizia, 27 luglio 1992

Anch’io credevo di saperlo. Ero il responsabile della sezione antiestorsioni

della Questura di Catania.

Anch’io pensavo di essermi abituato. Ma le stragi di Capaci e via D’Amelio

hanno mandato in tilt schemi conosciuti e vecchi regole, creando fermen-

ti nuovi, imprevedibili.

Anch’io sono stato sorpreso. Due sicari mi spararono a bordo di una moto

di grossa cilindrata mentre ero fermo al semaforo.

Con la sensazione amara di morire nel periodo più intasato di dolore e la-

crime per poter essere degnamente ricordato.

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Antonio Di Bonaagricoltore, 6 agosto 1992

Io ero tenuto a sapere altre cose: come organizzarsi per la raccolta delle pe-

sche, di quanto aumenta il gasolio, quanto tempo ci vuole per riparare il

trattore che si è guastato. Non bisogna perdere tempo, perché fa caldo, e i

pomodori non aspettano, e ci sono tante cose da fare in campagna…

Faccio il contadino. Sono in o�cina, a Villa Litero, aspetto che mi conse-

gnino il trattore. Arrivano i killer per uccidere il titolare, Nicola Palumbo,

e un altro meccanico che lavora lì, Antonio Diana. Sono mandati dal boss

Francesco Schiavone, Sandokan.

Io questo non lo so. So solo che nell’agguato muoio anch’io. Perché non ho

il tempo di fuggire.

Cosa avrei dovuto fare?

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Giorgio Perlascacommerciante di carni, 15 agosto 1992

Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?

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Quelli che si sono suicidati durante Mani pulite2 settembre 1992

Parla per noi tutti Sergio Moroni, tesoriere del Psi in Lombardia. Prima di

spararsi in bocca un colpo di fucile, scrive al presidente della Camera, Gior-

gio Napolitano:

… È indubbio che stiamo vivendo mesi che segneranno un cambiamento ra-dicale sul modo di essere nel nostro Paese, della sua democrazia, delle isti-tuzioni che ne sono l’espressione. Al centro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle «decimazioni» in uso presso alcuni eserciti…… esiste un diritto d’informazione, ma esistono anche i diritti delle perso-ne e delle loro famiglie. A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticano di essere stati per molti versi protagonisti di un sistema rispetto al quale oggi si ergo-no a censori.

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Ignazio Salvomafioso, 17 settembre 1992

I soldi vanno con i soldi, e i pidocchi fanno i pidocchi. Così, con mio cugi-

no Nino diventammo i «potentissimi esattori di Salemi». Lui è morto pri-

ma della rovina, io mi sono fatto il carcere.

Quando uscii dal carcere Riina mi fece fare la stessa �ne di Salvo Lima, per

dare un messaggio ad Andreotti e perché le cose non si erano messe a po-

sto come chiedeva lui.

Ero ancora molto ricco, quando fui ucciso, forse l’uomo più ricco d’Italia.

In una chiesa di Palermo c’è una targa in mia memoria: «Dono di fede e

d’amore in perpetua benedizione e memoria di Ignazio Salvo». Qualche fe-

dele ha chiesto la rimozione, ma il prete ha risposto: «La nostra posizione

deve essere equanime».

Dio è giusto.

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Augusto Daoliocantante, 7 ottobre 1992

Dio è morto.

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Giovanni Panunzioimprenditore, 6 novembre 1992

No. Dio è vivo, ma è distratto, e non ci salva per questo.

Così come distratti sono gli uomini, quelli che potrebbero fare qualcosa.

O forse sono proprio menefreghisti, quando non sono complici.

C’era una seduta del consiglio comunale a Foggia, quella sera. I politici liti-

gavano sul piano regolatore. Ognuno aveva un parente da accontentare, un

amico da privilegiare. Del resto non gli importava nulla.

Il sindaco interruppe i lavori. «Mentre noi qui discutiamo, hanno sparato

a un costruttore.»

Il costruttore ero io.

Tra l’altro ero stato in consiglio comunale, me ne ero appena andato. Sem-

bravano dei fossili, quei politici. Dimenticavano i drammi che a�iggeva-

no la nostra esistenza. Senza piano urbanistico non ci sono regole, senza

regole vince la ma�a.

Avevo presentato un memoriale sul giro delle estorsioni a Foggia, era scat-

tato un blitz con 14 arresti.

I consiglieri si fermano un attimo. Poi votano il piano regolatore.

«Avete fatto ammazzare un uomo…!», «Siamo in guerra!» urlano altri im-

prenditori alle loro spalle.

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Giulio Carlo Argancritico d’arte, 12 novembre 1992

La guerra l’ho schivata. Troppo giovane per la prima, troppo adulto per la

seconda.

Sono nato nel 1909, l’anno in cui Marinetti pubblicò sul Figaro il Manife-

sto del Futurismo. Non potevo non diventare un testimone delle vicende

artistiche del Novecento; qualcuno che quel secolo non lo ha solo vissuto,

ma anche in!uenzato.

Nel 1976 sono diventato sindaco di Roma. Il primo sindaco laico dopo il

mazziniano Ernesto Nathan, nel 1907. La città era lacerata dal terrorismo,

per salvarla non c’era altro modo che farla sognare, recuperare la sua bel-

lezza. Con il mio giovane assessore Renato Nicolini inventammo l’«estate

romana».

Ma io per molti sono soprattutto un manuale. Sono l’«Argan». Sui miei li-

bri di storia dell’arte hanno studiato generazioni di ragazzi delle superiori.

E pazienza se la storia dell’arte è materia da ultima ora del sabato, buona

solo per farsi interrogare quando c’è da fare media, o per passare minuti di

letargo inde$nito a scuola…

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Severino Gazzelloniflautista, 21 novembre 1992

Il mio Haynes d’oro 14 K era un vero e proprio pezzo d’arte.

Sono stato una delle nostre glorie nazionali insieme con gli spaghetti, la

pizza napoletana e Rodolfo Valentino.

Grazie a me, però, la musica di Berio, Nono, Messiaen, Boulez, Stockhau-

sen risuona ancora nelle vostre orecchie.

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Domenico Signorinomagistrato, 3 dicembre 1992

Ci fu un tempo in cui anche noi magistrati «antima�a» eravamo delle glo-

rie nazionali, come la pizza o Rodolfo Valentino. E un po’ ci sentivamo dei

divi, perché eravamo uomini, avevamo la nostra preparazione, una buona

dose di coraggio, ma anche – ed è normale – vanità, debolezze, tic.

Ero amico fraterno di un altro magistrato, Giuseppe Ayala. Con lui avevo

diviso l’onere dell’accusa al maxiprocesso di Palermo a Cosa Nostra.

Ma poi il pentito Gaspare Mutolo mi accusò di essere stato amico, molto

amico, di un vecchio capoma�a, di aver avuto tra�ci poco puliti di appar-

tamenti, di essermi venduto alla ma�a per i debiti di gioco.

I giornali spararono la notizia: zone d’ombra, connessioni.

Io mi sparai.

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Franco Franchicomico, 9 dicembre 1992

Ciccio, Cicciuzzo,

eravamo palermitani, prima ancora che attori. Maschere antropologiche

cittadine. La coppia comica per de�nizione. Per smettere di dare del tu al-

la fame. Tu, con quei ba� ben curati, eri il tipico siciliano dal volto sarace-

no. Tanto io ero incontenibile, eccessivo, smisurato tanto tu eri il mio �lo

di piombo, essenziale. Le smor�e, i gesti, le battute, i «soprassediamo»…

Eravamo popolarissimi.

Chi riesce più a spiegare cosa siamo stati?

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Gianni Breragiornalista, 19 dicembre 1992

Cosa sono stato?

Contropiede, uccellare, centrocampista, corner, ri�nitura, cursore, meli-

na, pretattica.

Ma anche Eupalla, l’Abatino, la Beneamata, Rombo di tuono, Bonimba, Pi-

scinin, Vecchio balordo.

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Mario Agenobiofisico, 23 dicembre 1992

Ho applicato la �sica alla biologia, creato modelli matematici per raccon-

tare la crescita dei batteri, cercato le origini della vita, ma «resta, non toc-

cato, il mistero del perché siamo qui, del signi�cato di tutto ciò, del come

mai esiste qualcosa». La mia è la curiosità dello scienziato.