Quaranta poesie sulla lettera asma gherib adeeb kamal ad deen italia 2011

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1 Adeeb Kamal Ad-Deen Quaranta poesie sulla lettera A cura di Asma Gherib

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عنوان الكتاب: أربعون قصيدة عن الحرف للشاعر أديب كمال الدين ترجمته إلى اللغة الإيطالية: الدكتورة أسماء غريب ونشرته لدى: نووفا إيبسا إيديتوره إيطاليا 2011

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Adeeb Kamal Ad-Deen

Quaranta poesie sulla lettera

A cura di

Asma Gherib

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ISBN 978-88-7676-463-9

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PREMESSA

L’imperatrice e il poeta

Asma Gherib

Non è facile leggere le opere di Adeeb Kamal Ad-Deen e non lo è neanche tradurle! Bisogna innamorarsi del suo alfabeto e soprattutto imparare, prima di decidere di tuffarvisi dentro, ad ammirare da lontano le coste e le onde del suo mare.

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Mi avvicinai ai suoi scritti con grande timidezza e grande stupore e lì incontrai quella bambina edenica, una bambina che emergeva dalle parole del poeta e mi tendeva la mano invitandomi a giocare, a ridere e a piangere con lei. E ogni volta, prima di scomparire, mi sussurrava questi versi:

La lettera insignificante farà scoppiare una guerra altrettanto insignificante, una guerra che mangerà il frumento e il latte. Una volta realizzato questo scopo, essa costringerà tutte le altre lettere a essere partecipe di quella sua guerra

stupida, fino a quando non le si sottometteranno tutti gli alfabeti e fino a quando la scrittura non si sia

trasformata in un delirio gigantesco.1

Versi che, a sentirli, accesero dentro il mio cuore e la mia mente mille interrogazioni: Cosa vorrà da me questa bambina? E perché sul suo capo vengono

1 Adeeb Kamal Ad-Deen, Arba‘ūna qaṣīdatah ‘An al-ḥarf, Dār Azminah,

Amman, 1ªed. 2009. p.g. 75.

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fuori i rami di un albero, fatti di zolfo rosso e i cui frutti generano delle lettere verdi, come il colore dello smeraldo? Non fu facile neanche rispondere a queste domande. Si trattava di percorrere un cammino preciso: dal semplice ascolto, passare alla lettura e dunque alla traduzione! Si! Perché in tutti questi anni trascorsi a tradurre testi di letteratura araba e italiana ho imparato, tra le varie cose, che se davvero si vogliano aprire le serrature di un testo che si preannuncia impossibile sin dal primo rigo, bisogna tradurlo in un’altra lingua, smembrarlo parte per parte e, a quel punto, non si sarà più dei semplici traduttori, ma ci si trasformerà in un alchimista. Credo questo sia l’esatto modo in cui mi sentii quando iniziai a tradurre Adeeb Kamal Ad-Deen: un alchimista che modellava il fuoco, l’argento, l’oro, i rubini; cercavo di plasmare quel fuoco che generava lettere arabe che pensavo di conoscere ma che, in un secondo momento, mi fecero realizzare la mia assoluta ignoranza! A quel punto m’interrogai se fosse il caso di riprendere lo studio dell’alfabeto arabo e ritornare indietro nel tempo, in Marocco, quando ero ancora una bambina. Forse dovevo solo perseverare con la traduzione perché comunque

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avevo percepito che dietro quelle lettere si celava qualcosa di più sublime, di più forte, qualcosa che dovevo condividere e gustare insieme al lettore italiano. Ma come sarei riuscita a raccontare a questo lettore qualcosa che, partendo da lettere, consonanti e vocali arabe trattasse la creazione dell’Uomo, del cosmo, della felicità e della tristezza esistenziale di Caino e Abele?

Ed ecco apparire di nuovo quella bambina con quegli occhi spalancati e sorridenti: l’albero di alfabeto è ancora sulla testa, ma stavolta tiene Due cavalli, uno rosso e uno nero nella mano destra2 e Divertente, strano e stupendo nella sinistra3. Lo stupore e l’angoscia aumentano, ma l’angoscia questa volta mi spinse finalmente ad abbandonare la costa e a tuffarmi dentro il mare dei versi del poeta, dalle cui profondità riemersi tenendo fra le mani

2 Poesia che tradussi nel 2006 ed è tratta dalla raccolta poetica di Adeeb

Kamal Ad-Deen intitolata Mā qabla al-ḥaqrf mā ba‘da an-nuqṭah, edita da Dār Azminah, Amman, 1ªed. 2006. P.g. 90. 3 La traduzione della poesia è stata da me curata nel 2006. Nel 2009, è

entrata a far parte dell’antologia di poesia araba, pubblicata sul sito della casa editrice Clepsydra (http://www.clepsydraedizioni.com/?p=165), in collaborazione con la rivista culturale e letteraria “Nostalgia” (http://643768966491021667.weebly.com/)/(http://issuu.com/clepsydraedizioni/docs/poesiaaraba/1 ). Il testo inoltre è tratto da Šağrat al-ḥrūf, Dār Azminah, Amman, 1ªed. 2007. P.g. 69.

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Arba‘ūna qaṣīdatah ‘An al-ḥarf4, il titolo dell’opera che in prima analisi tradussi con Quaranta poesie sull’alfabeto, pensando che il poeta intendesse con il termine ḥarf tutte le lettere dell’alfabeto arabo, visto che la sua raccolta cita tutte le lettere dell’alfabeto5. Ma addentratami nella traduzione, mi resi conto che dietro il termine “ḥarf” c’era qualcosa di più grande e interessante della semplice banalizzazione del significato dell’alfabeto e mi apparve di nuovo quella bambina allegra e gioconda, ma questa volta con un piccolo pennello in mano! Cosa vorrà dirmi stavolta? Suggerirmi di fare la pittrice? Ma cosa avrei dovuto dipingere? Qualcosa che senz’altro mi

4 Adeeb Kamal Ad-Deen, Arba‘ūna qaṣīdatah ‘An al-ḥarf, Dār Azminah,

Amman, 1ªed. 2009. 5 “Lettera” è la traduzione approssimativa di “ḥarf “, ma non è la

traduzione scontata, tanto è vero che quando alcuni lessicografi italiani decisero di dare una definizione al termine, concordarono all’unanimità di affermare che la “lettera” è un “carattere dell’alfabeto convenuto tra gli uomini per intendersi”, oppure “un segno scritto di suono consonantico o vocalico”. I loro colleghi arabi, Ibn Manzūr ad esempio, in lisān al-‘arab, sotto la voce “ḥarf” scrive che questo termine può indicare il lembo o l’estremità di una cosa. Afferma inoltre che vi è un ḥadīth narrato dal profeta Muḥammad (Ṣ ‘A, W. S) dove egli disse: “il Corano è stato rivelato secondo sette ḥurūf” voleva dire sette lingue. “Ḥarf”, indica anche una cammella magrissima e la figura retorica fa riferimento alla snellezza della “alif”, prima lettera dell’alfabeto arabo, che somiglia a uno stecchino lungo, sottile e verticale. Al-Fairūz Ābādī , in al-Qāmūs al-Muḥīṭ, mette in risalto il termine “ḥarf” e afferma che esso vuol dire un elemento dell’alfabeto arabo.

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avrebbe portato a risolvere il dilemma del titolo della raccolta, qualcosa che mi avrebbe aiutato a capire perché Adeeb aveva scelto per il termine “ḥarf” la traduzione inglese Letter, e perché quando gli parlai in una delle mie lettere della mia scelta di tradurre “ḥarf” con “Alfabeto”, rispose con un profondo silenzio, non quel silenzio che conosciamo noi, ma quello degli uomini ṣūfī, riflessivo e precauzionale. La bambina continua a giocare con quel pennello ed io sono sempre più smarrita, forse dovrò davvero mettermi a dipingere, a dipingere i testi della raccolta che ho tra le mani? Decisi dunque di convertire i titoli in colori e immagini, non è forse vero che il titolo è l’ingresso di un testo, una chiave per leggere il contenuto? Trasformerò questa chiave in colori, essi mi aiuteranno a capire cosa vuol comunicare Adeeb Kamal Ad-Deen attraverso il suo silenzio e in che modo questo suo atteggiamento mi sarebbe servito per scoprire il mistero del titolo dell’opera. Il risultato è una serie infinita di quadri dei quali ho scelto i più significativi che vi invito ad esaminare insieme a me con grande cura. Il primo titolo che disegnai fu Ğā’a Nūḥ wa maḍà (Noè è arrivato e se n’è andato). A prima vista questo titolo rimanderebbe a tre immagini: Noè, il

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mare e l’arca. Noè sarà disegnato come qualcosa di molto piccolo, quasi invisibile in mezzo all’immensità delle acque agitate dentro le quali si dondolava la sua arca. Quindi il quadro sarà più o meno così: Noè è quel cerchietto che forma un punto, posto al centro dell’arca:

Figura1: Ğā’a Nūḥ wa maḍà (Noè è arrivato e se n’è andato)

Andiamo ora a verificare l’altro titolo della seconda poesia ossia Darāhim Kelkamesh, che tradussi con Le monete di Gilgamesh. Quale forma possono avere

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le monete di un re, se non quella di piccoli cerchietti d’oro? Il mio disegno dunque, si presenta così:

Figura2: (Darāhim Kelkamesh) oppure (Le monete di Gilgamesh) .

Il terzo titolo è Al-mubḥir munfaridan, tradotto in italiano con: Il navigante solitario e rappresentato come segue:

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Figura3: Al-mubḥiru munfaridan/ Il navigante solitario.

Raqṣah sirriyyah, ossia Ballo segreto è il titolo della poesia che, considerato il numero dei movimenti circolari caldi e appassionati descritti (settanta), che la ballerina del tempio si accinse a compiere con amore, ho rappresentato così:

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Figura 4: Raqṣah sirriyyah / Ballo segreto.

L’ultimo titolo degno di ogni osservazione è Al-bayḍah wa al-baḥr wa al-qamar, ossia L’uovo, il mare e la luna rappresentato in questo modo:

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Figura 5: Al-bayḍah wa al-baḥr wa al-qamar/ L’uovo, il mare e la luna.

Ecco terminato il gioco della bambina che portava un albero di alfabeto sulla propria testa; ed eccomi qui che scopro che tra le cinque figure illustrate vi sono degli elementi di forte e sorprendente connessione: il cerchio che, in termini alfabetici, diventa “il punto” o il centro di un’entità tutta da scoprire; il punto è Noè, le sette monete di Gilgamesh, la testa del navigante solitario, il luogo da cui e in cui la ballerina del tempio inizia e chiude il suo ballo circolare, ed è anche l’uovo e la luna,

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ossia il sole che tramonta ai confini del mare e la luna al suo fianco, che sta per sorgere6. L’altro elemento di unione è il colore dorato quasi rosso: infatti, dorato è l’uovo, dorate sono le monete di Gilgamesh e dorato è anche il ballo segreto, durante il quale la ballerina, attraverso i giri e il suo amore, accende il tempio del suo corpo sino all’estasi e l’annientamento. Il terzo elemento altrettanto importante è il mare, luogo di Purificazione, di Salvezza, di Sapienza ma anche di Dannazione. L’arca di Noè nella prima figura è la prima testimonianza, ma c’è dell’altro. Se il lettore conoscesse la lingua araba, noterebbe subito che quell’arca con Noè dentro simboleggiato da un punto assomiglia ad una delle lettere più importanti dell’alfabeto arabo: la Nūn, che in arabo si scrive così ن ed è sempre la stessa lettera che si ripete nel resto delle figure ma in forme diverse, persino nella figura con le monete di Gilgamesh, che a prima vista sembrano solo dei piccoli cerchietti d’oro, e nella figura 5, che simboleggia una “nūn” capovolta sul mare il cui “punto” è il sole al tramonto e il mezzo

6 Cfr. gli ultimi sei versi della seconda parte di Un ballo segreto, Adeeb Kamal Ad-Deen, Arba‘ūna qaṣīdatah ‘An al-ḥarf, Dār Azminah, Amman, 1ªed. 2009. p.g. 20.

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cerchio è la luna che sta per sorgere, solo che questa volta il semicerchio della “nūn” è capovolto verso il basso e ricorda la famosa lettera dell’alfabeto

sanscrito ङ con il “punto” sopra, ed è la stessa che si

evolve nella n latina che conosciamo. Se unissimo i due semicerchi, quello della “nūn” araba e della “n” latina, otterremmo senza dubbio un cerchio intero con il punto al centro, che in astrologia rappresenta il sole, in alchimia l’oro. Non a caso Aš-šaykh al-akbar Ibn ‘Arabī7, il famoso ṣūfī detto anche il defunto di Damasco, più volte nelle sue opere come al-Futūḥāt al-Makkiyyah, al-mīm wa al-wāw wa an-nūn, e Fuṣūṣ al-ḥikam8, affermò che se la “alif”9 è la

7 Nato il 1165 in Andalusia, discendente di una famiglia pia e ricca,

composta da molti uomini ṣūfī, nei suoi primi anni di giovinezza era appassionato di letteratura e di caccia, fin quando si sposò con la nobile Maryam Bint Muhạmmad Ibn ‘Abdūn, una donna ṣūfī. Questo matrimonio cambiò la sua vita e lo portò insieme ad altri eventi (come la morte di suo padre) sul sentiero del ṣufismo e ad intraprendere dei lunghi viaggi in diverse parti del mondo: Tunisia, Marocco, Algeria, Iraq, Arabia Saudita e infine in Siria, dove si stabilì definitivamente a Damasco e ivi morì nel 1240, lasciando un patrimonio ṣūfī composto da quasi quattrocento libri. ‘Abd Al-Raḥīm Mardīnī, Lo šeikh Muḥyī Ad-Dīn Ibn ‘Arabī Dār Al-Maḥabbah, Damasco, 2001, pgg 5-23. 8 Ibn ‘Arabī, al-Futūḥāt al-Makkiyyah, a cura di ‘Uthmān Yaḥyà, e

Ibrāhīm Madkūr, Il Consiglio Supremo Della Cultura in collaboarzione con l’Istituto degli studi superiori della Sorbona, Egitto, 1985/ al-Mīm wa al-wāw wa an-nūn, a cura di ‘Abd ar-Raḥīm al-Mārdīnī, Dār Āyah, Beirut 2002/ e Fuṣūṣ al-ḥikam a cura di Abū al-‘Al ā’ ‘Af īfī, Dār al-Kitāb al-‘Arabī, Beirut (senza data di edizione).

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prima lettera dell’alfabeto arabo, la “nūn” è l’ultima della sua prima metà, facendo riferimento alla prima forma dell’alfabeto detta abğad10. Della “alif” si vede tutto, della “nūn” invece si vede solo il semicerchio e il punto che compare al centro non è altro che la traccia dell’intero cerchio, questa stessa “nūn”, se viene collegata alla “Kāf” 11 ci dà l’imperativo del verbo arabo della Creazione “Kun” ossia “Sii”. Ibn ‘Arabī collega questa parola allo “ ‘Ilm al-‘ īsawī”, ossia “la Scienza di Gesù” detta

9 La alif è la prima lettera dell'alfabeto arabo. Corrisponde a un semplice

tratto verticale; il suo valore numerico secondo la numerazione abjad è 1. A differenza delle altre 27 lettere dell'alfabeto arabo, l'alif non corrisponde ad un suono consonantico, ma è un segno che viene impiegato in diversi usi, tra cui quello di indice di lunghezza della vocale a, oppure come "sostegno" della hamza. 10

Indica le sei parole che componevano l’alfabeto arabo, che elenco come segue: Abğad, Hawwaz, Ḥuṭṭay, Kalamun, Sa‘faṣ, Qarashit. A queste parole gli arabi hanno aggiunto negli anni altre due parole: Thakhadha, ḍaẓagha. Nei paesi del Maghreb, l’ordine di questi termini cambia. A queste parole corrisponde una tabella numerica che gli arabi hanno stabilito dando a ogni lettera un numero specifico, che a sua volta cambia dall’oriente all’occidente arabo. In al-Qāmūs al-Muḥīt, al-Fairūz Ābādī, sotto la voce di “Hağā”, dice che “al-hiğā’iyyah”, deriva dal verbo trilittero “Hağā”, e vuol dire leggere, in un altro passo, riguardando sempre lo stesso termine, Ibn Manzūr, in Lisān al-‘arab, dice, che il termine, fa riferimento alla lettura sillabata delle parole. 11

È la ventiduesima lettera dell'alfabeto arabo, foneticamente corrisponde all’occlusiva velare sorda (k). Per questo motivo è assimilabile alla “c” dura dell'alfabeto latino (ad esempio la c in casa).

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diversamente “la Scienza dell’alfabeto”! Cosa intende dunque Ibn ‘Arabī con questa osservazione? Poiché a Gesù fu dato il potere di soffiare l’aria che esce dalla cavità del cuore, aria che è il soffio di Dio tramite lo Spirito Santo, quando quest’aria viene bloccata dalla bocca in un determinato punto, quel punto diviene una “lettera”, ciò significa la realizzazione del primo aspetto dell’esistenza divina e del verbo imperativo di Dio -Sii/Kun- nel cosmo. Ciò spiega in che modo Gesù dava la vita e risuscitava i morti con il permesso di Dio12.

12“Come il Padre risuscita i morti e li vivifica, così anche il Figlio vivifica

chi Egli vuole Come, infatti, il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” Giov:5/ 21- 29. La Sacra Bibbia, Società Biblica, 5ªed.1999. Pg. 1055. / “E quando Iddio disse: “ O Gesù figlio di Maria, ricorda il mio favore verso di te e verso la madre tua, quando io ti confermai con lo Spirito Santo, e tu parlavi alla gente dalla culla come un adulto, e quando ti insegnai il Libro e la Sapienza e la Tōrāh e dell’Evangelo, e quando plasmavi dal fango come una figura d’uccello, col Mio permesso, e quando tu guaristi il cieco nato e il lebbroso, col Mio permesso, e quando risuscitavi i morti, col Mio permesso.” Il Corano, La sura della Mensa, Versetto 110.

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Inoltre, la “nūn, è anche simbolo di Salvezza, basta pensare al profeta Giona, e ai sette dormienti di Efeso.

Giona e la balena - Guazzo su carta - Raš īd ad-Dīn - Quattrocento circa - Iran

I sette dormienti nella spelonca, maestro emiliano, sec. XVI, tempera su tela Museo

camuno (foto Arrighetti e Tomasoni)

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Nel Corano oltre alla sura che porta proprio il nome di Giona, ve ne sono altre, dove il profeta è chiamato “Dhā an-Nūn” o “Ṣāḥib al-ḥūt” cioè l’uomo del pesce gigante”13, ossia della balena, che a sua volta assume lo stesso valore della nave di Noè14, e della caverna dei sette dormienti15. Noè,

13 al-Fairūz Ābādī , in al-Qāmūs al-Muḥīt dice che “nūn” in lingua araba,

ha più di un significato, essa oltre ad essere intesa come una delle varie lettere dell’alfabeto arabo, è anche il nome della balena, del calamaio, del tirabaci che si può trovare nel mento di un bambino, e di un tipo particolare di una spada a forma di pesce lungo. 14

Giona come Noè è il simbolo della Salvezza, della Misericordia e della Clemenza di Dio. Il Signore dice a Giona: “Va’a Ninive, rimprovera ai suoi abitanti la loro iniquità e poi ritorna a Me”. Giona si alza, e invece di obbedire fugge lontano da Dio, in direzione opposta a Ninive verso Tarsis, nella Spagna meridionale, allora estremo limite della navigazione mediterranea. Giona si vedeva sminuito nella sua dignità profetica, essendo stato egli trasferito presso i pagani in Assiria, a Ninive! Giona, discepolo di Elia, sapeva che Dio è onnipresente, ma pensava che, in virtù del Patto stipulato con Abramo, non sarebbe mai intervenuto fuori della Giudea. Egli pensava che, una volta fuori della Giudea, Dio lo avrebbe lasciato in pace, ma accadde il contrario, una volta era sulla nave insieme ai passeggeri tutti pagani, Dio fa sollevare una grande tempesta. Tutti i passeggeri, furono presi dal panico, mentre solo Giona restava indifferente, poiché, tormentato dal rimorso di aver disobbedito a Dio, era noncurante di ciò che succedeva attorno a lui e per la tristezza si addormentò. I pagani pensarono che quella tempesta era l’effetto dell’ira della Divinità offesa e tirarono a sorte per sapere chi fosse il colpevole. La sorte cadde più di una volta su Giona. I marinai gli chiesero che cosa dovessero fare per calmare la collera di Dio, ed egli rispose: “prendetemi e gettatemi in mare. Infatti, so che è a causa del mio peccato che la tempesta si è sollevata”. I marinai, pur se addolorati, lo gettarono in mare, che immediatamente si calmò e una balena inghiottì il profeta. Giona, nel ventre della balena, prega Dio, gli chiede perdono e promette di fare la sua volontà. Dio allora comanda alla balena di “sputare” Giona sulla riva

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del mare. Giona, questa volta, si reca a Ninive e predica la penitenza per i peccati che vi si commettono. e durante la sua “marcia” non cessava di gridare: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”. I Niniviti, impressionati sia dal messaggio, che dalla gravità del messaggero, si pentirono e fecero penitenza dei loro peccati e credettero insieme al loro re in Dio. Giona, dopo aver terminato la sua missione di tre giorni, scappa da Ninive, ha paura di essere distrutto assieme ad essa, si rifugia su una collina abbastanza, ma non troppo, lontana per vedere al sicuro il castigo della città. Passano quaranta giorni e Ninive non è distrutta. Allora Giona si rattrista e s’incollerisce, teme di fare la figura del falso profeta. Giona sapeva bene che Dio è misericordioso, ed è proprio per questo che non voleva andare a Ninive, per paura che, qualora si fosse pentita, Dio l’avrebbe perdonata e lui avrebbe fatto una brutta figura, come egli stesso spiega a Dio. Il profeta ha paura delle umiliazioni, e chiede a Dio di farlo morire. Dio, allora, gli dà una piccola lezione: fa nascere un albero di ricino che lo ripari dal sole; in una sola notte spunta e diventa alto e frondoso, in modo da poter far ombra al profeta che lo apprezza grandemente; però il giorno dopo, Dio manda un verme che, rodendo le radici dell’arbusto, lo fa seccare. Il sole sorge implacabile, un vento di scirocco caldo comincia a soffiare e rende l’aria insopportabile. Giona ne è talmente “sciroccato” che di nuovo comincia a pregar Dio di ritirarselo da questo brutto mondo. Dio lo interroga: “Credi che tu possa indignarti perché un alberello si è seccato?”. Il profeta risponde di sì. Dio lo rimprovera dicendogli: “Tu sei in collera perché un alberello che è nato in una notte, senza alcuna tua fatica, è seccato in un giorno. E tu vorresti che Io assista, indifferente, alla distruzione di questa enorme città con i suoi abitanti che si son pentiti?” Le sure coraniche, dove si parla di Giona proprio con il suo vero nome sono le seguenti: La sura delle Donne, versetto 163/ dei Greggi, Versetto 86/ di Giona, Versetto 98/ degli Angeli a schiere, versetto 139. Le sure invece in cui il profeta è stato citato con l’attributo, dell’uomo del pesce gigante o dhā al-nūn sono: la sura del Calamo, versetto 48/ e la sura dei profeti, Versetto 87. 15

La vicenda leggendaria dei Sette dormienti è narrata principalmente nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, da Gregorio di Tours e da Paolo Diacono nella sua "Historia Langobardorum". Si narra che durante la persecuzione cristiana dell'imperatore Decio (250 circa) sette giovani cristiani di Efeso furono chiamati davanti ad un

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Giona e i sette dormienti sono il “punto”, l’arca, la balena, e la caverna sono la “Nūn” sia in forma di semicerchio che di cerchio intero. Resta di grande importanza sottolineare, che, come questi elementi sono stati considerati simbolo di Salvezza e di

tribunale a causa della loro fede. Essi, rifiutando di sacrificare agli idoli pagani, furono condannati ma momentaneamente rilasciati. Per evitare nuovamente l'arresto si nascosero in una grotta sul monte Celion, dalla quale uno di essi, Malco, vestito da mendicante, andava e veniva per procurare il cibo. Scoperti, vennero murati vivi nella grotta stessa. I sette giovani si addormentarono nella loro prigione nell'attesa della morte. Furono risvegliati da un gruppo di muratori che, sfondata la parete, volevano costruire un ovile. Erano passati duecento anni: Malco, tornato ad Efeso, scoprì con stupore che il Cristianesimo non solo era ormai tollerato, ma era divenuto persino la religione dell'Impero. Il giovane, scambiato dapprima per pazzo, venne poi creduto quando il vescovo e i cittadini salirono alla grotta avvalorando il racconto. I sette giovani costituirono viva testimonianza della resurrezione dei corpi; perirono lo stesso giorno del loro risveglio e furono in seguito sepolti, per ordine dell'imperatore Teodosio II, in una tomba ricoperta di pietre dorate. La tradizione dei dormienti non è esclusiva del mondo cristiano. Anche nell'Islam essa ha un ruolo centrale, essendo il racconto che dà il titolo a una sura del Corano, la diciottesima, detta per l'appunto "sura della caverna". La sura, tra le più rilevanti anche per il lettore non musulmano, contiene altri due importanti nuclei narrativi: uno dedicato al profeta (al-Khiḍr) e un’altroa (Dhū al-Qarnayn). « E li avresti creduti svegli, mentre invece dormivano, e li voltavamo sul lato destro e sul sinistro, mentre il loro cane era accucciato con le zampe distese, sulla soglia. [...] Rimasero dunque nella loro caverna trecento anni, ai quali ne aggiunsero nove».(Corano, XVIII. 18, 25). Riguardo il numero dei dormienti, il Corano non dà indicazioni precise: «Diranno alcuni: "Erano tre, e quattro col cane". Altri: "Cinque erano, e sei col cane". Altri ancora: "Sette, e otto col cane". Rispondi: "Il mio Signore sa meglio qual fosse il loro numero; non lo conoscono che pochi" » (Corano, XVIII. 22)

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rinascita, possono anche essere ritenuti simbolo di morte e di sepoltura e non in vano il poeta Adeeb Kamal Ad-Deen, parla spesso nella sua opera della morte considerata una compagna di vita16. Adeeb Kamal Ad-Deen mi fece capire col suo silenzio che dietro il termine “ḥarf” si celava ben altro rispetto al significato banale dell’alfabeto di una determinata lingua: si nascondeva un’imperatrice di nome “Nūn” e un poeta di nome “punto”!

Ecco dunque risolto il dilemma della traduzione del titolo, ed ecco ripresentarsi quella bambina che, camminando sulle acque di un mare limpido, m’invita a tuffarmi un’altra volta per raccogliere due gemme fondamentali nel mio percorso di traduzione di Quaranta poesie sulla lettera: altre due raccolte dell’autore, Nūn17 e an-nuqṭah18.

16 Si prega di leggere ad esempio i testi seguenti della raccolta: Noè è

arrivato e se ne andato, Le monete di Gilgamesh, Simmetria con la morte, Insieme sopra il letto, Eri compiaciuto dalla tua morte. 17

Adeeb Kamal Ad-Deen, Nūn, Maṭba‘at al-Ğāḥiẓ, Bagdad, 1993. 18 Adeeb Kamal Ad-Deen, an-nuqṭah, Maṭba‘at al-Ğāḥiẓ, Bagdad 1ªed. 1999. Al-mu’assasah al-‘arabiyya li ad-dirāsāt wa an-našr, Amman, 2ªed. 2001.

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Dalla dedica con la quale il poeta introduce la raccolta Nūn, deduco quanto è grande l’amore che egli nutre per la sua imperatrice: “Al mio punto e alla mia mezzaluna, per essere rimasto vivo sino a oggi.”. Indubbiamente, con “mezzaluna” egli intende la “Nūn”, tanto è vero che il libro inizia proprio con la citazione del famoso versetto che introduce la sura de il Calamo, in cui Dio dice: “Nūn, per il Calamo e quel che scrivono!”19. Dell’imperatrice che ha infatuato il poeta, Adeeb dice:

“A tutti coloro che non intendono cosa sia la lettera dico:

la Nūn, è una cosa grandiosa,

una cosa difficile da raggiungere,

lei è tutto ciò che mi è rimasto della mia imperatrice,

19 Queste parole sono anche chiamate introduttive, si trovano in ventinove

sure del Corano, numero che corrisponde a quello delle lettere dell’alfabeto arabo, considerando la hamzah come una lettera a se stante. Si scopre, grazie ad una profonda e acuta osservazione della scrittura sacra del Corano, che il numero di queste lettere introduttive è quattordici, esattamente la metà delle lettere dell’alfabeto arabo, considerando in questo caso la hamzah e l’alif come un’unica lettera.

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della mia memoria che una volta dimenticai,

durante un incidente nūnī,

un incidente privo di ogni verità,

e con il nocciolo della verità rovesciato al contrario.

Penso ora vi è tutto chiaro,

non chiedetemi allora con grande stupidità

cosa sia il significato della nūn!”20

É impossibile non porsi delle domande sull’imperatrice del poeta, sarebbe come non interrogarsi sul Maestro e il suo novizio, sul grembo e il suo embrione, sulla culla e il suo neonato, sul semicerchio e il suo punto! Solo sentirsi inermi davanti alla grande esperienza alfabetica di, Adeeb Kamal Ad-Deen legittima ogni tipo di ricerca e di navigazione per intraprendere l’avventura di capire le varie sfumature e le identità delle lettere del poeta, lettere non soltanto ammantate dal velo della simbologia e del sufismo

20 Adeeb Kamal Ad-Deen , Nūn, Maṭba‘at al-Ğāḥiẓ, Bagdad, 1993. Pg. 4.

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musulmano ma anche teatralizzate con una maestria che ci fa ricordare quella di tre pilastri della letteratura italiana: Gabriele D’Annunzio, Primo Levi e Luigi Pirandello.21 “Stai morendo adesso,

lo so, che stai morendo adesso, amica mia la lettera,

il tuo “punto”, più pulito della rugiada di una rosa,

non può più sopportare tutta quest’afflizione magica,

queste insidie dentro il buio

e questa solitudine delle sette fruste.

E tu, lettera semplice come me,

smarrita come me

e ingenua come me, non ce la fai più a sopportare

21 Per maggiori dettagli a tal proposito, si rimanda alla sua nota opera

poetica intitolata Ğīm edita a Bagdad nel 1998 da Dār aš-Šu’ūn ath-thaqāfiyyah al-‘āmmah, e al suo articolo “Luigi Pirandello e la teatralizzazione del dolore”, pubblicato in lingua araba sul suo sito ufficiale.

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la tristezza di questo viaggio,

Pel quale non abbiamo preparato nulla

e delle sue catastrofe infinite,

nessuno ci aveva parlato.

Avevamo aspettato –io e te- a lungo l’arca di Noè,

Noè però, era già arrivato e andato via!

Lo avevamo chiamato a lungo,

con le nostre mani,

le nostre camicie,

i nostri vestiti

e con le nostre lacrime calde,

lo avevamo chiamato con il nostro eterno essere orfani,

con la nostra infanzia nuda,

e con il nostro sole il cui sapore era cambiato

e il cui volume si era rimpicciolito

diventando quanto un piccolo limone appassito.

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L’avevamo chiamato con ogni cosa visibile

e invisibile,

lui non si era accorto di noi,

era buono e pacifico,

era occupato dalla sua arca, di suo figlio e degli uccelli.

E noi non chiedevamo nulla se non il soccorso!

Il soccorso!

Sì, amica mia la lettera,

lasci che gridassimo adesso:

A……..I ……. U…..T…..O

forse ci sentirebbe quel bravo uomo

e quello che lo mandò nella sua strana missione.

Lasci che gridassimo o buona lettera,

forse si renderebbe conto di noi:

Ti prego, non morire adesso!

Guarda, questo pane è per te

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e questo è un sorso d’acqua.

Guarda, questo è il nostro sole ancora sorto,

anche se è piccolo quanto un chicco di grano,

ma in ogni caso è sole!

Non arrenderti!

Tieni forte il tuo sogno, anche se è leggero quanto la polvere!

Ti prego io ancora non ho perso la speranza!

Ti prego

A……..I ……. U…..T…..O!

A……..I ……. U…..T…..O!

A……..I ……. U…..T…..O!”22

22 A.D.K, Arba‘ūna qaṣīdatah ‘An al-ḥarf, Dār Azminah, Amman, 1ªed.

2009. p.g. 7.

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Noè è arrivato e se n’è andato

Stai morendo adesso.

Lo so, che stai morendo adesso, amica mia la lettera,

il tuo “punto”, più pulito della rugiada di una rosa,

non può più sopportare tutta quest’afflizione magica,

queste insidie dentro il buio,

e questa solitudine inflitta dalle sette fruste23.

E tu lettera, semplice come me,

23 Sette è il numero della completezza e della perfezione; i popoli antichi

come i Semiti e i popoli dell’estremo oriente, lo collegavano al sole e alla forza della luce. Per i Babilonesi questo numero veniva chiamato anche “kull” ovvero “tutto”, espressione di onnipotenza e onniscienza. Per i musulmani al numero viene attribuita la medesima importanza. La sura Aprente del corano è composta da sette segni o versetti e per tale ragione viene chiamata anche surah dei “Sette mathānī”. Le sure del Corano in cui si cita il numero sette sono molteplici, per citarne alcune: La Vacca (29), Al-Ḥiğr (87), I fedeli (17), Luqmān (27), Giuseppe (47/49).

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smarrita come me,

ingenua come me, non riesci più a sopportare

la tristezza di questo viaggio,

per il quale non abbiamo preparato nulla,

delle cui catastrofi infinite,

nessuno ci aveva mai parlato.

Avevamo aspettato –io e te- a lungo l’arca di Noè,

Noè però, era già arrivato e se ne era già andato!

Lo avevamo chiamato a lungo,

con le nostre mani,

le nostre camicie,

i nostri vestiti

e con le nostre lacrime calde.

Lo avevamo chiamato con l’anima insanguinata dal nostro eterno essere orfani,

con la nostra infanzia nuda

e con il nostro sole, il cui sapore era cambiato,

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le cui dimensioni si erano rimpicciolite

tanto da diventare un piccolo limone appassito.

L’avevamo chiamato con ogni cosa visibile

e invisibile,

ma lui non si era accorto di noi,

era buono e pacifico,

era preso dalla sua arca, da suo figlio e dagli uccelli.

E noi non chiedevamo nient’altro che il soccorso!

Il soccorso!

Sì, amica mia la lettera,

lascia che io e te gridiamo adesso:

A……..I ……. U…..T…..O

forse quel bravo uomo ci sentirà

e anche colui il quale lo inviò in quella sua strana missione.

Lascia che io e te gridiamo oh buona lettera,

forse si egli si accorgerà di noi:

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Ti prego, non morire adesso!

Guarda, questo pane è per te!

e lo è anche questo sorso d’acqua.

Guarda, questo è il nostro sole, sorto un’altra volta

anche se è piccolo quanto un chicco di grano,

ma è pur sempre il sole!

Non arrenderti!

Tieni forte il tuo sogno, anche se è leggero quanto la polvere!

Ti prego io non ho ancora perso la speranza!

Ti prego

A……..I ……. U…..T…..O!

A……..I ……. U…..T…..O!

A……..I ……. U…..T…..O!

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Le monete di Gilgamesh

-1-

In un giardino più piccolo del dovuto,

dentro il museo iracheno

e di fronte alla barba di Gilgamesh24,

24 Sembra che l’ordine scelto dal poeta per i suoi testi non sia casuale, il fatto che la prima poesia è seguita da questo testo, il cui titolo e contenuto, parlano di Gelgamesh, conferma questa ipotesi. La tradizione del diluvio è comune alle culture di tutti i popoli della Terra, il best-seller mondiale “Civiltà sepolte”, di C.W.Ceram, ci parla di un diluvio in particolare, il diluvio della zona mesopotamica citato nel l’epopea di Gilgamesh e il cui eroe immortale è Utnapishtim. Gilgamesh nell’epopea ha un amico carissimo, Enkidu, un uomo selvaggio che non conosce la civiltà, con cui ha diviso le sue imprese, tra cui l'uccisione del demone Kumbaba sulle montagne della Siria. I due sembrano veramente inseparabili; a un certo punto, però, Enkidu muore di peste, e di fronte al suo cadavere gelido, Gilgamesh decide che lui non farà quella fine, che lui non morirà. Compie allora un viaggio lunghissimo fino ai confini del mondo, dove abita il suo antenato Utnapishtim, che gli racconta come si è salvato dal.diluvio! Utnapishtim è dunque il Noè babilonese! Ciò che più colpisce a una prima lettura del poema di Gilgamesh è proprio questo fatto: la somiglianza che c’è tra i due nomi. Il nome di Noè può essere ricondotto a una radice semitica che significa "colui che prolunga". Ebbene, anche il nome di Utnapishtim dovrebbe avere lo stesso significato! E identico è anche il senso del nome sumerico Ziusudra, protagonista di un'epopea simile, ma ancora più antica. L'analogia è evidente anche nella forma, tanto che "Noè" appare addirittura come un diminutivo di Utnapishtim! Del resto, l'ebraico e il caldeo sono entrambe lingue semitiche, con notevoli punti di convergenza tra di loro.

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sopra un prato consumato dalla nostalgia umida

e strappato dalle lacrime.

Sotto un tramonto più pesante della pietra,

c’era un bambino che perdendo le sue sette monete,

si mise a piangere.

Dio mio, perché piange questo bambino?

(2)

Quella chiamata vita,

avvolta con il mantello dell’oscurità e del sogno,

con il mantello della povertà e della disperazione,

è stata lei a darmi le monete che furono subito perse.

Era un incontro passeggero,

Coincidenze come queste tra leggende composte in epoche tanto distanti fra di loro ha del prodigioso, se si pensa alla velocità con cui la fantasia umana rielabora ed aggiorna le sue storie; tuttavia, non bisogna affatto credere che gli autori biblici si sono ispirati dal poema di Gilgamesh per scrivere il racconto del diluvio universale, perché tra l'epopea babilonese e quella ebraica ci sono anche delle differenze abissali.

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simile a una vita passeggera

e Enkidu era anche lui passeggero,

come un serpente altrettanto passeggero,

un serpente che rubò come presumono,

il segreto.

Un serpente, che assomiglia a Gilgamesh, passeggero pure lui.

Dio mio, ma perché piange questo bambino?

Sarà veramente per le monete?

(3)

Il giardino divenne piccolo,

(in realtà esso è più piccolo del dovuto)

il bambino divenne grande,

si sposò,

emigrò,

scrisse una lettera strana,

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e poi morì o quasi,

egli però è ancora lì, sta guardando il giardino:

Dove sono le monete, oh mio Dio?

Ogni moneta portava il nome della letizia.

Ogni moneta si chiamava festa,

nuvola,

sole,

oppure mare,

o anche, il bacio di una madre avvolta con il nero.

Ogni moneta,

era un segreto, che Gilgamesh aveva trovato

e poi perso insieme a me dentro il giardino.

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(4)

Dopo quarant’anni25

scrissi lettere sollecite a Gilgamesh,

volevo che egli mi aiutasse a trovare le monete perdute.

Trovai la sua statua di pietra,

senza la lunga barba che gli copriva il petto

e mi resi conto che Gilgamesh aveva contraffatto la sua statua,

25 Nella Bibbia e nel Corano, questo numero ricorre molte volte, spesso per indicare un periodo cronologico di prova e isolamento; quaranta è spesso simbolo di periodo di purificazione e di maturità: si consultino, La surah di Giuseppe, versetto 22, la surah al-Qaṣaṣ, versetto 14 e la surah di al-Aḥqāf, versetto 15. Il diluvio universale è durato quaranta giorni e quaranta notti (Genesi 7, 4.12.17) L'esodo del popolo Israelita si è concluso dopo quaranta anni (Esodo 16, 35; Numeri 14, 33-34; 32, 13; Deuteronomio 8, 2.4; 29, 4; Giosuè 5, 6) I centoventi anni della vita di Mosé si possono suddividere in tre periodi di quaranta anni. Mosè è rimasto sul monte Sinai per quaranta giorni e quaranta notti (Esodo 24, 18; 34, 28; Deuteronomio 9, 9.11.18.25; 10, 10) Il profeta Elia ha dovuto attraversare il deserto per quaranta giorni prima di giungere al monte Oreb (1Re 19, 8) Il profeta Giona ha annunciato la distruzione di Ninive per quaranta giorni (Giona 3, 4) Gesù si è ritirato nel deserto per quaranta giorni prima d'iniziare la sua predicazione pubblica (Luca 4, 1-2 || Marco 1, 12-13 || Matteo 4, 1-2).

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forse per vivere lontano dal segreto,

o lontano dalla disperazione,

ma non lontano dalle mie sette monete.

(5)

Dio mio, chi conosce il segreto?

Chi sa in che modo Gilgamesh ha perso il suo segreto?

E chi fu a rubargli questo segreto?

Chi potrebbe sapere in che modo persi le mie sette monete

vicino al giardino che si trova sotto o davanti

la barba di Gilgamesh?

Chi ha rubato le mie monete, oh mio Dio?

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(6)

Perfino Enkidu che è morto in circostanze oscure,

non conosceva il segreto

e neanche Utnapishtim

e nemmeno la proprietaria della taverna,

oh che maledizione!

Nessuno sapeva nulla del segreto.

(7)

Ero solo io

a saperlo;

poiché per quarant’anni,

avevo vissuto dinanzi la barba di Gilgamesh,

sopra un prato consumato dalla nostalgia umida

e strappato dalle lacrime,

e sotto un tramonto più pesante della pietra

e fino a stremarmi, cercai

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le sette monete che persi

nel corso di una vita passeggera,

come la pelle di un serpente passeggero,

come la barba di Gilgamesh, anch’essa passeggera,

verso un tramonto più pesante di una pietra.

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Il navigante solitario

(1)

Oh tu lettera,

ti combatterà il pirata rosso;

il pirata che ha distrutto il trono

e l’ha consegnato ai vili;

ti combatterà, perché nel tuo cuore

vi è una onda per le lune dell’infanzia.

Ti combatterà il pirata blu;

il pirata che mise tutte le cose

dentro il vortice della morte

dopo che aveva ucciso i suoi fratelli

e venduto i suoi figli dentro i mercati degli schiavi;

ti combatterà perché dentro il tuo cuore

vi è una onda di astri.

Ti combatterà il pirata giallo,

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il pirata dei pazzi, dei gai

e dei mangiatori di corpi morti.

Ti combatterà il pirata nero,

il pirata dei miscredenti lussuriosi.

E ti combatterà il pirata del vento

quello che cambia direzione,

ogni volta che cambia il vento.

(2)

Sì,

questa è la tua gloria oh lettera.

Tutti i pirati sono abili nell’odiarti;

perché hai proposto un “punto”

come simbolo di bellezza e amore

e hai tentato di fondare

-anche se solo nella fantasia-

un nuovo mare

dove i pirati non sanno navigare.

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Sì,

questa è la tua gloria,

oh, tu che navighi da solo,

privo di tutto, eccetto il tuo “punto”:

un pezzo di legno nudo in balia delle onde

per tutta l’eternità.

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L’uomo velato

Sulle mie spalle, sopra un corpo senza testa,

i miei antenati gettarono la terra

e dissero: Benedetto sei!

Sì! disse l’uomo velato con la profezia,

questa è K.H.Y,‘A, ṣ 26 segno del tuo sentiero.

26 Queste sono le lettere lucenti, che introducono la sura di Maria, lo studioso egiziano Sa‘ad ‘Abd Al-Muṭṭalib, nel libro Al-Hīrūghlīfiyya tufassir Al-Qur’ān (Maktabat Madbūlī, Cairo 2000) afferma che Kāf: in geroglifico, significa “ti sveleremo un segreto e una sicura verità”. Hā: “attento a ciò che scende dal cielo”. Yā: “a te” ‘Ayn: “uomo pio, bello, sincero e buono”. Sād: “colui che narra una storia”. Il significato unico, ricavato dall’unione delle cinque frasi, può essere espresso in questa maniera: «Ti sveleremo uno dei nostri segreti scesi dal cielo, attento, o tu uomo buono, ad ascoltare la vera storia». «Ricordo della misericordia del Signore verso il suo servo Zaccaria» è la prima frase della Sura che segue questo gruppo di lettere, essa, è una frase nominale al nominativo, considerato come un incoativo posticipato al predicato della frase precedente, ovvero le lettere introduttive. Quest’analisi grammaticale rafforza la teoria di Sa‘ad ‘Abd Al-Muttalib, in quanto una frase nominale non può essere retta semplicemente da lettere senza significato e queste stesse essere predicato anticipato.

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L’altro uomo velato disse con eloquenza:

questa è la terra,

da essa sei stato generato e ad essa tornerai.

L’uomo velato con il sangue del martirio disse:

La tua testa è come la mia,

solo che la mia fu scagliata dalle frecce

La surah narra come il ruolo di profeta sia giunto a Gesù attraverso i suoi avi, a partire da Zaccaria il quale, in età avanzata e dopo numerose richieste, ebbe come erede delle sue doti profetiche Giovanni detto il Battista. Prevedendo che questi ultimi venissero uccisi, Dio compì il miracolo dell’Immacolata Concezione, ma anche Gesù fu perseguitato e torturato dai sacerdoti. Questo scatenò l’ira di Dio, che lo spinse a togliere il dono profetico alla stirpe di Giacobbe e a donarlo a quella di Ismaele, per tener fede alla promessa sul patto di profezia fatta ad Abramo, dai cui discendenti nacque Muḥammad. Si svela in questa maniera il segreto della surah di Maria. La domanda da fare invece è: perché il poeta l’ha citata in questo testo? Nella surah di Maria, si parla di due importanti profeti: Zaccaria, Giovanni, il figlio morto a causa della sua predicazione. Egli condannò pubblicamente la condotta di Erode Antipa, che conviveva con la cognata Erodiade; il re lo fece prima imprigionare, poi, per compiacere la bella figlia di Erodiade, Salomè, che aveva ballato a un banchetto, lo fece decapitare. La morte per decapitazione ha fatto sì che San Giovanni Battista sia divenuto famoso anche come San Giovanni Decollato, il ché ci fa ricordare un altro decollato appartenente a ahl al-Bayt, ossia la famiglia del profeta Muḥammed (Ṣ. ‘A. W. S), intendo al-Ḥussein (Medina, 626 – Karbalā', 680) fu il secondo figlio di ‘Alī ibn Abī Tālib e della figlia del profeta Muḥammad, Fātima, nonché terzo Imām dello Sciismo, morto durante la battaglia di Karbalā’.

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dai miscredenti spudorati,

tu invece porterai la tua testa tra le mani,

la porterai tagliata tra le tue mani,

per tutta la vita.

E la terra,

tutta la terra,

sarà piantata sulle tue spalle

capisci adesso ciò che farai?!

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Un ballo segreto

(1)

Mio Dio,

disse la donna del tempio

cantando l’amore, tutto l’amore,

ballando il sogno, tutto il sogno,

e scrivendo sulla tavola dell’esistenza

il segreto, tutto il segreto.

Mio Dio,

potrò mai avere un cuore

capace di sopportare tutta questa bellezza

e tutta questa follia?!

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(2)

Ballò e cantò,

e con lei ballò il violino del corpo,

elevandosi come fosse un serpente.

E suonò il tamburo, il tamburo del corpo,

come fosse un sacerdote impegnato,

nella recitazione del Segno del Terremoto27,

un innamorato che stava tentando il

suicidio buttandosi

nelle acque del Tigre durante il tramonto.

Sorrise il flauto, il flauto del corpo,

come fosse una sorgente da cui scaturisce

27 Il poeta fa riferimento alla surah coranica intitolata il Terremoto: “Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso! 1 Quando sarà scossa di scossa grande la terra. - 2 Quando getterà i suoi pesi morti la terra, - 3 e dirà l’uomo: “che cos’ha mai?” - 4 in quel giorno la terra racconterà la sua storia- 5 Ché gli la rivelerà il Signore. – 6 In quel giorno gli uomini a frotte staccate verranno a farsi mostrare le opere loro. – 7 E chi ha fatto un grano di bene lo vedrà. – 8 E chi ha fatto un grano di male lo vedrà.”

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acqua fatta di rose e di letizia,

di cui si dissetano i bambini.

Ballò il tamburello: il tamburello del corpo,

come fosse un mago

che acconsentiva ad un mare di estasi e di baci.

E ballò la luce, la luce del corpo,

come fosse un poeta che scriveva la nūn

e la chiudeva con il “punto” dell’universo,

soffiando il suo segreto sino al più remoto luogo della terra

e lanciando il passero dello spirito

verso i tuoi settimi cieli!

(3)

Mio Dio,

la donna del tempio ballò per un’ora,

ed io ballai dalla felicità e dalla follia

per settant’anni

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e su di lei scrissi settanta libri

e mi pentì settanta volte

e morì settanta volte

e ancora ballo con lei,

o con la sua voce o con il suo sogno,

come fossi un darwīsh28, fatto di fuoco e di terra.

28 Darāwīsh sono coloro i quali, giunti ad un livello avanzato e maturo del percorso per diventare Ṣufī, hanno il cuore fermamente ancorato nel ricordo di Dio, coloro i quali né il vendere né il comprare li distoglie dalla loro risoluzione interiore (cfr. Corano 24,37). Nella tradizione il darwīsh è frequentemente visto come una persona che vive mestamente o come un girovago religioso, o eremita, senza ambizioni per gli affari. Queste sono solo descrizioni esteriori che possono variare con l’andare del tempo. È lo stato interiore che rende l’uomo un darwīsh, non i suoi abiti né la sua condotta.

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Simmetria con la morte

(1)

Mentre camminavo verso la morte,

la morte antica e sacra

fui sorpreso da un’altra morte,

dolce dal gusto velenoso,

una morte che non mi diede un appuntamento

e per la quale non preservai una sedia.

(2)

In presenza della musica che si versava

per scrivere la “ḥā’” e la “bā’” del ḥubb29

29 La Ḥā’ è la sesta lettera dell'alfabeto arabo. Secondo la numerazione abğad questa lettera corrisponde al numero 8. Foneticamente corrisponde alla fricativa faringale sorda ([ħ]). La Bā’ invece è la seconda lettera dell'alfabeto arabo. Il suo valore numerico è pari a 2. Da un punto di vista

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dovevo scrivere una poesia

colma di mare e di uccelli.

Ma e per un motivo non chiaro

scrissi sulla morte.

Forse perché la morte è il mio unico compagno,

o amico che sarebbe capace di ballare piacevolmente vicino a me,

se io dovessi crollare in mezzo al sentiero.

(3)

“Allegria”, dissi alla morte!

Lo dissi davvero?

O forse fu la morte a dirmi con freddezza:

“benvenuto”?

fonetico Bā’ corrisponde all'occlusiva bilabiale sonora (/b/), configurandosi quindi come la “b” dell'alfabeto latino. ḥubb in italiano vuol dire AMORE. Troveremo più avanti una poesia il cui titolo è ḥā’ bā’ .

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(4)

In Africa si suonano i tamburi

quando arriva la morte.

In Alaska gli eschimesi lanciano i passeri;

nel Paese del canguro suonano

della bella e gioiosa musica,

forse perché pensano che la morte

fosse solo dei tamburi

e degli uccelli,

oppure solo della dolce musica

che rallegra gli ascoltatori!

(5)

Chi potrà mai credere,

che proprio la lettera che riuscì a custodire il miracolo,

sarebbe crollata un giorno davanti alla morte

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in questa maniera?

E chi potrebbe mai credere che il punto,

il punto che aveva affrontato i tornado,

il fuoco e il terremoto,

si sarebbe messo a piangere un giorno

davanti alla morte

come un cieco che ha perso la strada

che conduce a casa?

(6)

Gloria a te, oh Signore!

Hai creato la morte e hai fatto in modo

che essa ci abiti con una calma sospettosa.

Gloria a te, oh Fine.

(7)

La lettera mi disse:

non preoccuparti più di tanto

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moriremo tutti,

morirà anche la morte!

Questo me l’aveva detto la lettera

e distendendo le ali,

volò come un’aquila raggiungendo il centro del cielo.

Il punto invece si trasformò in una nuvola gigante,

che viaggiò verso il mare lontano.

Speravo che mi portassi via con lei

e che non mi lasciassi tra le mani degli spettri,

gli spettri che mi circondavano come quei ladri,

che avevano circondato un darwīsh

mezzo nudo e mezzo pazzo!

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Insieme sopra il letto

C’è un mare,

che porto nella mano destra

e c’è una morte,

che porto nella mano sinistra

e quando mi stanco metto il mare

nella mano sinistra

e la morte nella destra.

Quando dormo,

il mare dorme tranquillo accanto a me sopra il letto

la morte invece finge di dormire

e rimane sveglia, sdraiata anche lei accanto a me

sopra il letto,

per contare i miei respiri

e guardarmi con sospetto e dubbio!

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Una canzone dal cuore triste

Smise l’alfabeto di guardare lo specchio

per non vedere il futuro senza mani

e il passato senza maschere.

Smise l’alfabeto di mandarmi lettere di minacce,

di rimprovero, di biasimo

e lettere di speranza e di non speranza.

Smise di mandarmi lettere d’amore,

intendo lettere della colomba bianca.

L’alfabeto smise di chiamarmi con il mio nome,

di paragonarmi con le cose,

di codificarmi,

o di divinizzarmi,

o di considerarmi un ingresso,

o un polo, oppure un tempio.

L’alfabeto smise di farmi ricordare

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la mia gioventù ferita e sanguinante,

la mia infanzia scalza,

le mie amanti traditrici e ingrate,

i miei amici vili, espatriati e ingenui

e le poesie che scrissi per non piangere

come fa un orfano alla soglia di un orfanotrofio,

o come un folle perseguitato da bambini

che gli lanciano pietre a dosso

per ridere e passare il tempo,

o come un mendicante il cui pane

fu rubato dagli ubriachi,

perché il senso dell’ubriachezza

venga portato al massimo

e la morte del mendicante venga portata a termine.

In quel momento il sole stava sorgendo

e la lettera era seduta davanti a me come un fiume

che canta una canzone molto leggera,

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molto dolce,

e dal cuore triste.

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Rosso fuoco

Avresti potuto essere molto più ricca,

molto più bella e allegra,

se solo avessi permesso al passero,

che volava dietro la finestra

con lacrime negli occhi

e con ali innocenti,

di volare anche

sopra il tuo letto nudo:

e potevi essere più azzurra di un cielo

e con più lune,

se tu mi avessi permesso

di avvicinarmi alla tua nuvola appetitosa,

affinché io potessi prostrarmi con follia certa

al tuo Eufrate segreto, che mi aveva stregato

per tutta una vita,

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buttandomi nel più lontano posto della terra,

riducendomi in una lettera che acquisisce un senso,

solo quando si presta nel raccontare

la tua leggenda appesa nelle cime,

e in un punto che non conosce

se non le canzoni dell’amore rosso fuoco,

intendo il rosso posseduto

dalla passione e dal delirio.

Tu però,

hai scelto di consegnare il tuo Eufrate segreto

e i granai del tuo orzo dorato

alla maschera nascosta sotto il ruolo

di un corvo marito,

intendo al corvo mascherato da marito

intendo il marito mascherato da corvo

che non sa che divorare la tua carne burrosa

senza pietà

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e spingerti

piano piano

verso la secchezza delle sorgenti

anzi verso il pozzo nero

e verso il tuo dito

che vidi un giorno piangere,

il dolore del piacere

e la canzone della privazione.

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I treni di Sydney

(1)

I treni di Sydney,

corrono dall’alba all’alba,

corrono una volta verso il mare

una volta verso le discoteche

e molte volte verso la morte.

(2)

I treni di Sydney,

sono gremiti dal delirio dei dollari:

dollari neri, o dollari il cui colore è nero

come più correttamente avrebbero detto i linguisti,

ma se i linguisti fossero venuti qui, i loro volti

sarebbero diventati neri a forza di sognare i dollari.

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(4)

Ma che salto pauroso!

I dollari volano nell’aria

e le genti prendono i treni per raggiungerli.

Guardali come fanno:

Escono le teste dai finestrini veloci,

escono le mani, i piedi e i genitali,

cercando di afferrare i dollari!

(4)

Sì, dollari magici,

che volano nell’aria!

E tutti combattono con grande follia:

Il cinese con le sue sembianze di un gatto

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in procinto di piangere

tende le mani,

l’australiano dal corpo gigante insulta,

l’indiano con il suo turbante bisbiglia,

il povero iracheno ironizza sul fatto,

la tailandese tira su i polpacci nudi verso l’alto,

la giapponese s’inchina con rispetto,

la turca si batte la testa con le mani,

e l’africana grida a squarcia gola

come se stesse chiedendo aiuto!

(5)

Volano e volano i dollari

e a volte s’imbattono contro i finestrini del treno,

a volte con la sua parte anteriore

e a volte con la parte posteriore,

per poi finire in alto,

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come una tempesta di biglietti di colore giallo o verde

oppure biglietti gialli o verdi,

come avrebbero preferito dire i linguisti,

ma se questi scienziati della lingua

avessero preso i treni qui

i loro volti sarebbero diventati

gialli per ciò che avrebbero visto

(6)

I dollari volano ancora

gli studenti universitari li seguono

con passione infantile,

gli uomini d’affari ne discutono con severità,

i falsificatori parlano a squarcia gola

nei loro telefonini,

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gli operai fischiano,

le prostitute scoppiano in risate argentine,

i folli si scambiano gli insulti,

i malati lamentano i dolori,

e i turisti giunti da dietro i mari

si chiedono perplessi il motivo di tutto ciò.

Solo i morti, nei treni di Sydney,

contemplavano la scena con grande e completa fermezza

mentre io, in momenti, li vedevo

respirare con difficoltà,

e sorridere, o così mi era sembrato!

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Adesso ti bacio

L’alba è violenta.

L’alba è piena di sole

e il sole è forte quanto una spada che penetra l’occhio.

L’alba è separazione.

Non chiamarmi con il mio nome

e non dire che prima forse mi chiamavo mela o bacio.

Non lo so!

Adesso però ti bacio,

tu chi sei?

L’amore del mio cuore?

La mia donna?

La mia seduttrice?

La mia assassina?

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La mia più grande illusione?

Colei che ha messo il veleno dentro il mio calice?

Colei che ha consumato i miei giorni e la mia gioventù

e sparpagliato le mie ceneri nel vento?

Colei che ha imprigionato il mio alfabeto?

Colei che ha gettato la mia memoria

dentro il mare delle tenebre?

Non conosco il tuo nome,

ma so che sei molto confusa

e che io sono la confusione in persona.

Ti bacio, adesso.

Cosa sarà mai successo perché l’alba diventi così violenta,

da far annegare una nave?

Cosa sarà mai successo perché l’alba

diventi un cadavere,

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che i marinari dovranno buttare in mezzo al mare?

L’alba è separazione.

Ti devo salutare adesso.

Una cosa è certa:

Che tu sei la causa della mia morte

e che la morte mi aveva circondato

come i soldati fanno con un folle disarmato.

Addio dunque.

L’alba è violenta

come un cielo oscurato dai peccati delle genti,

come un cielo confuso, frantumatosi e caduto in mare,

pezzo per pezzo.

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Scuse

(1)

Quando si sciolse la neve dell’inverno della poesia,

il foglio bianco traboccò di

lettere e di punti.

(2)

Provai di tutto pur di guarire dal tuo amore:

iniziai con la cauterizzazione e il fuoco,

diventai dipendente dal vino e dal vagabondare

nelle strade marginate,

cominciai a ricorrere

ai talismani di magia

dei suoi spiriti, della sua follia e del suo fumo

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e indossai il tessuto del taṣawwuf30,

fin quando non raggiunsi la morte,

la porta di ferro della morte,

ma nonostante ciò, non guarii!

Che cosa strana!

30 Il Sufismo detto in arabo taṣawwuf, non si contraddistingue né per riti particolari, né per lo studio di una particolare scienza. Esso invece consiste in “un comportamento elevato” (khuluq). Là dove si trovino consuetudini particolari, esse sono frutto dello sforzo (al-muğāhadah) e là dove si trovi lo studio e la conoscenza, esso è frutto dell'istruzione. Il Sufismo, tuttavia, consiste nell'assumere le qualità di Dio (akhlāq-Allāh). ‘Abd al-qādi al-Ğīlānī disse nella sua nota opera intitolata Sirr al-asrār fī at-taṣawwuf, che in arabo la parola "taṣawwuf", è composta da quattro consonanti: T, S, W, F, che significano: La prima lettera T stà per Tawba, ovvero "pentimento", che è il primo passo sulla Via. La seconda S e sta per Safà, gioia e purezza del cuore. La terza lettera W, sta per la parola walāya, che indica lo stato di santità degli amanti di Dio e dipende dalla purezza interiore. Dio menziona i Suoi “amici” (awliyā’) nel Sacro Corano: "No! Per gli amici di Dio nessun timore, nessuna tristezza! Coloro che hanno creduto e che temono Dio, avranno la Buona novella in questa terra e nell’altra. Non mutano le parole di Dio! Questo è il successo Supremo!" (Cor. 10 - 62,64). La quarta lettera F, sta per fanā’, l'estinzione dell'io, lo stato di annientamento in Dio, ovvero a tutto ciò che non è Dio. Quando gli attributi della natura umana si estinguono e il falso io svanisce assieme alla molteplicità degli attributi e delle forme di questo mondo, allora non sussistono più che gli Attributi dell'Unità (sifāt al-aḥadiyyah). Questa è la stazione dei Profeti e dei Santi, gli Amici di Dio, situata nel dominio della Natura divina (lāhūt).

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ho provato di tutto

per guarire dal tuo amore,

ma neanche una volta provai

a vederti!

(3)

In quel Paese lontano,

mi sedevo in un bar buio e isolato,

per rievocare la tua immagine che seppellii

con le mie mani

quarant’anni fa

in mezzo alle ceneri,

in mezzo al fuoco della fornace,

che improvvisamente si accese

e stava per uccidermi per sempre.

(4)

Nel corso della mia vita

lessi molte poesie di poeti defunti

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finché non mi sentii avvolto dalla depressione e da un senso di morte

e quindi morii anch’io.

In un’altra vita leggerò tantissimo,

le poesie di poeti ancora non nati,

forse riuscirò a capire una volta per tutte

i motivi della vita.

(5)

Avevo paura di vederti,

di vedere il tuo letto

perché sapevo che è partito da destra

a sinistra

e che i suoi passeri sono morti ormai da lungo tempo

e non è rimasto che un corvo che da quarant’anni

gracchia emettendo soltanto il suono della “p” di perdita e di polvere

e della “t” di tradimento e di tramonto.

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(6)

E così prima di morire

Mi reputati abbastanza intelligente da poter chiedere scusa al corvo

e all’inverno, e al foglio bianco

e per chiedere scusa al vino, al vagabondaggio,

alla magia, e a at-taṣawwuf,

e per chiedere scusa al paese lontano, al bar buio e isolato,

ai poeti defunti e a quelli vivi

e per chiedere perdono alla disperazione

e al letto che mi condusse

da un esilio all’altro

e da una lettera all’altra

e per chiedere scusa ai passeri che morirono

da molto tempo

e alla vita e ai perché dell’esistenza

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e per chiedere definitivamente scusa alla morte!

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Simmetria con l’alfabeto

Quando un giorno l’alfabeto volle giocare

venne da me

mi trovò smarrito più del dovuto

e quindi mi lasciò.

Dopo, andò dalla mia amante

e la trovò più primitiva di lui,

più nuda di lui

e quindi la lasciò.

Andò da Dio

e non riuscì a scoprire il segreto della sua enigmaticità

e della sua onnipotenza.

Quindi andò dal profeta

e non potè scoprire il segreto del suo ascetismo

e del suo silenzio.

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E quindi andò dall’eremita

e non riuscì a capire il segreto del suo digiuno,

della sua preghiera e del suo glorificare

all’infinito il nome di Dio.

E quindi andò dall’uomo ṣūfī

e una volta da lui

non gli piacque il suo ricercare l’ignoto.

E quindi andò dall’ignoto

e lì incontrò la morte che gli diede un colpo sulla testa,

un solo colpo che lo trasformò in un pezzo di carbone.

Vennero i bambini e scrissero sul muro

i loro nomi con il carbone,

vennero gli innamorati e scrissero

i loro sogni sugli alberi con il carbone,

e giunsi anch’io,

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presi l’alfabeto incenerito e con esso

scrissi poesie nere che non smettono mai

di ballare e di delirare!

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L’uovo, il mare e la luna

(1)

Cadde il passato,

si ribellò il presente

e uscì il futuro in una affollatissima manifestazione.

(2)

Cadde l’uovo

e l’uccello che stava seduto sull’albero,

cominciò a piangere il suo uovo rotto.

I vermi invece fecero festa sulla terra

per il leggendario banchetto.

(3)

Cadde il mare,

le navi si capovolsero,

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le streghe uscirono completamente nude

sulla spiaggia con in mano i lumi, i crani e i tamburi

e ballarono fino all’alba.

(4)

Cadde la luna,

il sole scomparve.

Piansero tutti gli innamorati,

con lacrime di languore e di rammarico

per tutto quello sciagurato giorno.

(5)

Cadde il poeta: il clown

e il suo gusto letterario putrefatto

si versò sul marciapiede

e si ruppe il vetro del suo animo sporco.

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(6)

Cadde il tiranno,

pianse la sua poltrona dorata,

piansero i suoi cani feroci,

e piansero i portoni della sua gigantesca prigione.

(7)

Cadde l’alfabeto,

e velocemente arrivò il punto

e lo prese per curare le sue ferite,

i suoi dolori e la sua estraneità

con la sua pazienza giacobbiana31,

31 Si fa riferimento alla pazienza del profeta Giacobbe che era diventato cieco per avere pianto a lungo la scomparsa del caro figlio, Giuseppe. Dopo molti anni i suoi dodici fratelli furono costretti dalla carestia a uscire dal deserto per trovare frumento in Egitto. Giuseppe era diventato il viziro del Faraone e il suo ministro dell’agricoltura e consigliere privato. Loro non lo riconobbero ma lui si. Alla fine rivelò la propria identità nel loro secondo viaggio in Egitto e disse: “Andate di nuovo da nostro padre e gettate questa mia camicia sulla sua faccia. Recupererà la sua vista.”.

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con la sua bellezza giuseppiana32

e la sua divina segretezza.

Così, quando la carovana si avvicinò alla tenda di Giacobbe, questo disse: “Riesco a sentire l’odore di Giuseppe”. E vero che l’odorato delle persone cieche diventa particolarmente acuto, ma non fino a questo punto. Giacobbe era un profeta e, come Gesù o Salomone poteva sentire odori che gli altri non possono sentire. I suoi figli dissero: “E’ la tua follia e la tua fissazione su Giuseppe”. Ma arrivarono i figli che erano stati da Giuseppe in Egitto e quando gettarono la camicia sulla sua faccia, la sua cecità svanì. Così l’olfatto può riuscire a curare alcuni mali. Un grande dolore lo aveva reso cieco. Il naso può veicolare potenti emozioni e l’odore di Giuseppe gli procurò una gioia così grande che curò la cecità causata dal dispiacere della sua perdita. 32 Si fa riferimento alla bellezza del profeta Giuseppe il figlio prediletto di Giacobbe, del quale si era follemente innamorata la moglie di Potifar. Per ulteriori chiarimenti si prega di consultare la parte 39:1-20 della Genesi e la Surah di Giuseppe nel Corano.

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Un aquilone

(1)

Quando ero bambino,

fabbricai con il mio alfabeto un aquilone,

un aquilone che non appena i bambini lo videro

volare in cielo, rubarono il suo filo lungo.

Non diedi molta importanza a ciò che accadde

e cominciai a girare felice i mercati,

con l’ aquilone in mano.

E quando divenni giovane

mi baciò una donna più bella del piacere,

e prima di andarsene mi rubò la coda del mio aquilone.

Non diedi molta importanza a ciò che accadde,

perché mi stava aspettando la guerra

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che alla fine mi rubò il bastoncino centrale

del mio aquilone.

(2)

Così il mio aquilone si trasformò

in un pezzo di carta, nient’altro che

un pezzo di carta, che presi e portai con me

per attraversare il mare,

ma il mare con un movimento violento ed improvviso,

fece cadere il mio aquilone dentro le sue acque salate

e per recuperarlo dovetti morire ogni notte

per quaranta anni, e quando lo tirai fuori

era solo un pezzo di carta bagnato,

della cui solarità infantile non era rimasto

che il colore, il colore sbiadito e spento!

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Sulla pioggia e sull’amore

(1)

Scriverò una poesia sulla pioggia che parli di te.

Scriverò una poesia sull’amore che parli di te.

Scriverò una poesia sulla morte che parli di te.

E ti chiederò con l’innocenza di un bambino:

Sarà la pioggia più forte dell’amore?

Sarà l’amore più forte della morte?

O sarà la morte più forte della pioggia?

(2)

Ti chiederò dunque,

un bacio sotto la pioggia.

E ti chiederò dunque,

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un bacio nell’amore.

E ti chiederò dunque,

un bacio nella morte!

(3)

Lo so che non ci starai,

le mie richieste sono puramente folli,

fanno confondere il tuo cuore freddo e rassegnato

e il mio fuoco è nero come il fuoco degli zoroastriani,

divampa tutto e non lascia nulla.

Lo so che non ci starai,

per questo mi sono ormai abituato al tuo sole acido.

E quando ti bacio scompare la pioggia del tuo cuore,

scompare persino il tuo cuore impaurito

come un piccolo coniglio,

e quando stai per piovere,

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la tua pioggia scende

accompagnata purtroppo dai terremoti,

perché coincide con la bassa marea

e con il calare della morte

sul cielo nudo del mare.

(4)

Ti chiederò dunque,

una morte tranquilla in mezzo alla pioggia

e un amore in mezzo al mare

quando il battello della passione

e della mancanza ci dondolerà

lentamente in mezzo all’azzurro

della bassa e dell’alta marea.

Ti chiederò di scrivere con il segreto della pioggia,

il mio straziato alfabeto

così che io possa scrivere con il segreto del segreto

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il tuo punto enigmatico.

(5)

Ti farò queste domande per tutta la vita

e so che non vi sarà risposta,

e ripeterò la domanda ogni giorno,

perché la poesia è l’amore

e l’amore è la pioggia

e la morte è la pioggia e il mare.

(6)

Scriverò dunque su di te,

la poesia della morte:

la poesia il cui alfabeto è il mare e l’amore

e il cui punto è la pioggia.

Scriverò dunque su di te,

la poesia dell’amore

Oh tu mia innamorata, il cui nome cambia

ogni giorno.

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Scriverò su di te

con grandissima pazienza

la poesia del mare,

quando quest’ultimo annega pian pianino

dentro la pioggia!

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Profondità

Nelle mie profondità

vi è un uccello bianco,

che cade sgozzato dentro le profondità del teatro.

Dentro le profondità del teatro vi sono

grida, lamento e vestiti strappati.

Nelle profondità dei vestiti strappati vi è un sogno

e dentro le profondità del sogno vi è un fiume.

Dentro le profondità del fiume vi è un bambino.

Dentro le profondità del bambino vi è un cuore.

Dentro le profondità del cuore vi è una poesia.

Dentro le profondità della poesia vi è una lettera.

Dentro le profondità della lettera vi è un punto.

Dentro le profondità di un punto vi è un eremita.

Dentro le profondità dell’eremita vi è Dio,

Dio che guarda con occhi pieni di lacrime

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il mio uccello sgozzato.

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Luna nera e cane grigio

(1)

Forse tu sei una poesia senza titolo

o una poesia senza senso

o forse sei una lettera, che non appartiene a nessuno

se non a me.

Alla fine del sentiero camminammo insieme

dentro la città della fame e dei letamai notturni.

Eravamo in tre,

e la luna nera ci faceva da guardia

con la sua assurdità nera.

Ci proteggeva da noi stessi,

dall’inganno in cui ti avevo trovato

mentre dondolavi come le fiamme dell’inferno.

Avrei voluto che non ci facesse da guardia.

Avrei voluto che non fosse stata con noi

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e che io non fossi stato insieme a te.

E per raggiungerti,

avrei voluto che fossi rimasto ingannato

senza luna nera

e che fossi rimasto io stesso la luna nera

senza un cane grigio.

(3)

Tremavi?

Eri presa da violento panico?

Chiedevi rifugio da me presso un cane grigio?

Eri trafitta dal colpo per la sorpresa?

O per il dopo sorpresa?

E nonostante ciò eri tra le mie braccia tremolanti

e sorridevi attraverso le lettere del desiderio!

Perché ti avevo dunque tirata fuori

dal paradiso del cane?

Il cane ansimava quando stavamo

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per denudarci nel letto!

Perché ti avevo dunque tirata fuori

dal paradiso dell’inganno?

Per perderti dopo?

E perdermi insieme a te dentro il parco

degli animali umani?

Sei un incubo?

Un incubo sacro e grigio?

Il rigo si sta allungando come la “b” di una bara.

Senza dubbio il pianto e le lacrime,

non serviranno a nulla.

Senza dubbio non servirà a nulla l’ansimare di un cane.

E senza dubbio non servirà a nulla

il parco degli animali umani:

il parco della luna nera e del cane grigio.

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Il somigliante

Sarà con te:

il suo nome si ripeterà spesso davanti a te,

come le tue sciagure che non smettono mai

di presentarsi.

Respirerà con te:

il suo respiro sarà pesante, più pesante

del fumo nero della morte,

e il suo aspetto sarà depresso

come un cranio lasciato nel deserto.

Sarà forse un tuo collega

oppure un tuo somigliante

chi lo sa!

Forse è come te, anche a lui piace fare l’attore,

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per questo presumerà che egli abbia fatto l’attore prima

e che abbia giocato il ruolo di Amleto o di Macbeth

oppure di al-Ḥallāğ , di al-Niffarī33

o di Zorba il greco.

Non infastidirti,

perché sarà lui forse l’attore vero

33 È Muḥammad Ibn ‘Abd al-Ğabbār Ibn Ḥasan Ibn Aḥmad al-Niffarī, nacque a Niffara (Nippur): Non si sa quasi nulla sulla data di nascita e morte. É certo però che egli visse durante il periodo del grande ṣūfī e martire al-Ḥallāğ, la cui feroce e violenta morte influenzò molti dei ṣūfī dell’epoca spingendoli ad adottare vie di riservatezza e grande cautela per il loro cammino e condotta spirituale, al-Niffarī era uno di loro e aveva scelto la scrittura come unico mezzo di comunicazione con l’altro. La lingua e lo stile di questo ṣūfī sono simili a quelli delle scritture sacre. Tra di lui e la lingua araba c’è un forte legame di puro amore e stima, come quello che di solito nasce tra il maestro e il novizio. I suoi testi hanno un carattere stizzoso, riescono a consumare la pazienza del lettore e a rompere il filo di piacere che quest’ultimo può approvare durante il suo contatto con le parole di al-Niffarī, come se quest’ultimo facesse questo di proposito, divertendosi a tenere sospeso il fiato del suo lettore, che non sa a quel punto se continuare la lettura oppure lasciarsi andare tra le mani della lingua di al-Niffarī, che in un modo o in un altro saprà come assorbirlo svuotando al contempo la sua memoria dalle cose vecchie ed inutili per riempirla di nuove idee senza che essa perdesse la sua sensibilità e la sua musicalità, lasciandolo infine immerso in un mare di estasi e di gioia nonostante il dolore dello stupore. Solo chi legge le opere di Adeeb Kamal Ad-deen, (anche egli poeta iracheno ma contemporaneo), capirebbe quanto al-Niffarī abbia potuto influenzare il suo stile e le sue tecniche letterarie.

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e tu il falso!

Sarà forse lui il regista

e tu l’attore secondario

o lo spettatore pigro

o l’uomo che vende i falafel34 all’ingresso del teatro,

chi lo sa!

Per questo dovrai rispettare le sue bugie abbaglianti,

anzi dovrai anche tu diventare

bravissimo nell’arte della menzogna

tanto da dargli, quando da te chiederà il suo nuovo

ruolo teatrale, il ruolo di leone,

-anche se sai che egli è un rinoceronte-

e forse continuerai a chiamarlo leone

34 I Falafel sono una pietanza araba mediorientale, costituita da polpette fritte e speziate, a base di fave o ceci tritati con cipolla, aglio e coriandolo. I falafel vanno serviti a scelta caldi o freddi su un letto di verdura oppure su del pane tostato con verdure e hummus. I felafel sono diventati uno dei piatti orientali più graditi e diffusi nei paesi occidentali, alla pari quasi dell'ormai internazionale kebab.

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anche dopo la fine dello spettacolo.

e per riprenderti un po’,

lo chiamerai elefante,

e gli darai con estrema felicità il ruolo di elefante

anche se tu sai che egli è una scimmia

che saltella davanti a te

ogni giorno sopra gli alberi alti

e riempie l’aria con i suoi gridi.

Sarà lui a dividere con te la costa, il mare e la nave,

forse anche il rifugio nel deserto

e forse prenderà con te anche il treno della paura

o l’aereo dell’ignoto

e forse se sarai fortunato,

si siederà con te,

enigmatico e spaventoso,

come un cadavere mummificato

in mezzo al gigante ipostilo dell’attesa!

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Su di te sia la pace Amman!

Su di te sia la pace Amman,

pace oh cestino dei sogni e della privazione!

Pace su di te oh tu che sedesti sulla collina

lasciando dietro di te ballare i poveri dentro la valle

e gli stranieri seduti nella piazza hashimita,

e i dispersi piangere davanti alle porte

delle ambasciate gelide quanto la neve,

e i privati e gli sciacalli disoccupati

cercare il tuo pane secco!

Pace sia su di te, tu che piangi l’acqua,

la nuvola ,il godimento e il corpo del piacere.

Pace sulla tua bellezza selvatica

e sulla tua povertà eterna!

Pace su i tuoi stranieri che si sono persi tutti,

uno dopo l’altro.

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Pace su i tuoi ladri che rubarono

la mia lacrima

in pieno giorno

e su i tuoi privati che vagabondano come i darāwīsh

dentro le tue vie strette.

Pace su i tuoi disoccupati che aumentano

come se si prolificassero!

Pace sulle tue donne dolci come il brillante,

sui tuoi anni pieni di paglia e di attesa

e sui tuoi bar,

sui tuoi ristoranti,

sui tuoi palazzi,

sulle tue rovine,

sui tuoi miti

e sulle tue tragedie che non smettono di ballare

dentro la valle mentre le guardi una volta piangendo,

una volta ridendo e un’altra sprofondando

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dentro le nuvole.

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Letti

(1)

Il letto di Dio,

loro lo chiamano: Trono.

Il letto degli innamorati,

loro lo chiamano: Amore.

Il letto del corpo

lo chiamano: Desiderio.

Il letto del bacio

lo chiamano: Voluttà

Il letto della maternità

lo chiamano: Sole

Il letto dell’infanzia

lo chiamano: festa o i vestiti della festa.

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(2)

Il letto dell’uccello

lo chiamano: uovo

Il letto dell’ansia

lo chiamano: l’estraneità

e il letto del mare

lo chiamano: la donna o la nuvola

(3)

Dimenticavo di parlare del letto dell’alfabeto

lo chiamano: la parola

ma io lo chiamo: il punto!

(4)

Cosa altro c’è?

C’è il letto dei ricordi

lo chiamano –per errore- la poesia.

E cosa ci dici sul letto della vita?

È la morte.

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loro lo chiamano la morte

ma secondo quello che la morte stessa mi rivelò,

una volta quando, insieme, sedevamo sul letto,

questo è un errore comune!

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I comandamenti

(1)

Oh tu lettera,

nel momento in cui sarai nuda dentro il teatro,

come un pesce dentro l’acqua,

rimarrai sorpresa dalle lettere che ti circonderanno:

Saranno lettere di sciacalli e di miserabili,

di persone folli e fanfaroni,

di amici di Dio, di innamorati e di profeti.

Ti sorprenderanno mentre stai per salire nuda

sul palcoscenico come un neonato,

le lacrime di quelle lettere

o il loro rammarico

oppure la loro confusione,

le loro bugie

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o il loro delirio

oppure il loro perdersi.

(2)

Per catturare la nuvola dello spirito sul palcoscenico

e lanciarla verso il cielo di Dio,

dovrai tener duro mentre sei nel circo,

riflettere e contemplare,

mentre sei dentro il giardino del punto,

rallegrarti mentre sei in mezzo alla pista,

cantare fuori e dentro il coro

e ballare su aṣ-ṣirāṭ35

(4)

35 La strada escatologica, per i musulmani è qualcosa di più della semplice "Retta Via". È infatti, una strada concreta che, nel "Giorno finale del Giudizio", porterà il defunto al suo destino ultimo: la condanna infernale (Ğahannam) o la salvezza eterna paradisiaca (Ğannah ). Tra le sure coraniche in cui il termine è stato citato più di una volta, vi sono: La surah Aprente, versetto (6), la surah di Ṭaha, versetto (135), la surah degli Angeli a schiere, versetto (118), la surah di Ṣād, versetto (22), la surah dei Fedeli, versetto (74) , e infine la surah di Yā-Sīn.

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111

Quando avrai finito il tuo ruolo difficile,

- con grande successo o con fallimento memorabile-

e mentre stai per andare verso l’ingresso d’uscita

ricordati,

oh tu lettera

di quelle lettere che avevi incontrato

dentro il circo o sulla pista,

dentro il coro o in giardino

o sul aṣ-ṣirāṭ,

rammendati dei loro dolori strazianti e delle loro gioie false.

Ricordati di come hai scoperto con il segreto dei sapienti

e con la passione degli innamorati,

le loro lacrime,

i loro rammarichi,

la loro confusione,

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le loro bugie,

i loro deliri

e il loro smarrimento eterno.

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Il lamento della mia lettera

e la supplica del mio punto

Dio,

ti ho amato più di quanto i profeti e i tuoi amici ti hanno amato,

loro ti amarono perché li hai affascinati con i miracoli del fuoco

e dalla luce,

io invece ti amai perché sei il mio inizio e la mia fine,

sei il mio essere esteriore e il mio essere interiore,

perché sei il mio unico tetto, che mi protegge

dalla pioggia, dalla fame e dai fulmini,

dalla solitudine, dalla fuga della terra e della memoria.

E perché sei l’unico che sente il mio pianto ogni notte,

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senza stancarsi dei lamenti del mio alfabeto

e dalle suppliche del mio punto.

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Una bambina

(1)

Lei, come una foglia, era caduta

da un albero giocoliere,

e come una piuma era stata strappata

dall’ala di un uccello.

La bambina trovò se stessa così:

il suo nome non coincide con la sua memoria.

Suo padre assomiglia a un uccello

No, era un uccello vero,

che fu sgozzato dal collo sino al cuore,

e lei è la piuma che cadde dalla sua ala spezzata,

sua madre era giocoliera: quell’albero giocoliere.

(2)

Dopo secoli di smarrimento,

la foglia trovò l’albero da dove cadde una volta

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116

e quindi lo chiamò chiedendo aiuto:

io sono tua figlia!

La bambina, la foglia e la piuma!

L’albero disse: sì, figlia mia.

La bambina replicò:

madre dimmi chi era mio padre?

Che passero era?

L’albero pronunciò gridando il nome del padre,

ma il nome fu perso

dentro l’aria nera e dura.

Il cielo era molto piovoso,

e i fulmini riempivano la terra,

anche i tuoni erano felici

da pazzi!

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Un tiranno

La lettera insignificante

farà scoppiare una guerra altrettanto

insignificante,

una guerra che mangerà il frumento e il latte.

Una volta realizzato questo scopo,

essa costringerà tutte le altre lettere

a essere partecipe di quella sua guerra stupida,

fino a quando non le si sottometteranno

tutti gli alfabeti,

e fino a quando la scrittura non si sia trasformata

in un delirio gigantesco.

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Un viandante

Ogni anno,

veniva in città

per incontrare un poeta.

La prima volta incontrò il poeta della stranezza

e delle risate argentine,

era un poeta che assomigliava ad una palma senza testa.

Allora la città si affacciava su un mare di mondezze.

La seconda volta, incontrò il poeta dello smarrimento,

era un poeta mezzo nudo e mezzo pazzo.

Allora, la città si affacciava sul mare della fame,

della crudeltà e della violenza.

La terza volta incontrò il poeta dei rei ingiusti,

lo trovò brutto con quella sua testa gigante e calva,

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con la sua pistola enorme

e con il fiume dei suoi insulti che non finivano mai.

A quei tempi, tutta la città si affacciava su un mare di cannoni,

di bombe e di fari,

e quando i cannoni, le bombe e i fari cessarono,

egli tornò nuovamente in città

dove incontrò il poeta della stupidità eterna

e della futilità contemporanea,

e trovò un cane a forma di un orso,

e un miserabile a forma di un clown.

La città allora, si affacciava su un mare di cadaveri,

di topi e di fantasmi,

si affacciava?

No!

si annegava, invece, ogni giorno,

dentro il mare dei cadaveri, dei ratti e dei fantasmi.

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Per tale ragione il viandante non entrò in questa città,

mai più!

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Eri compiaciuto di essere morto

Durante l’ultimo addio,

mi meravigliai dalla moltitudine delle persone,

che ti piansero:

che hanno presunto di amarti per poi versare lacrime e lettere.

A questo corteo di tristezza, io non potevo aggiungere nulla.

Mi accontentai di un lungo silenzio.

Prima di morire mi ero ricordato di te

- e dire che io muoio profondamente ogni giorno-

e quindi decisi di chiamare Noè,

con la speranza che ci sentisse questa volta

o di chiamare la sua colomba o il suo corvo

oppure uno dei sopravvissuti della sua nave.

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Decisi di chiamare anche

i tuoi dolori coraggiosi:

di chiamare il tuo Baudelaire,

il tuo Mutanabbī e il tuo Sayyāb36

la tua rovina eterna,

le tue sette taverne

e le tue perdite enormi.

Scoprì che eri felice di essere morto!

Sì, perché la crocifissione ti aveva calpestato e schiacciato,

36 Nato nel 1926 a Bassora, di salute fragile, infermo, i suoi ultimi anni furono enormemente difficili e dolorosi, morì nel 1964.As-Sayyab è considerato il caposcuola della poesia libera non solo in Iraq , ma in tutto il mondo arabo. Nel far poesia, ha rappresentato, il profondo dramma del suo periodo; partecipava soffrendo, alla lotta del suo popolo per la conquista del progresso intellettuale e letterario ribellandosi, anche alla propria sofferenza per la sua personale condizione: la perdita di tutti i suoi cari e la progressiva malattia che lo condusse alla morte. Questa sofferenza intima, mescolata al dramma popolare dell’epoca, crearono un poeta idealista e le sue poesie sono il vero passaggio dalla poesia di tendenza romantica al realismo nella letteratura araba contemporanea. Tra le sue numerose opere ricordiamo: ”Leggende” 1950; “Le armi e i bambini” 1954; “Il canto della pioggia” 1960; “La casa degli schiavi” 1963.

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spossato l’alfabeto e deluso il punto

e ti aveva rovinato l’esilio e venduto il mare

e in mezzo al grande deserto ti avevano derubato i ladri

e i poeti ideologizzati.

Fu così che mi sentì confuso mentre ero dentro il ballo,

perplesso mentre ero dentro la lacrima

dove vidi lo spettacolo della mia morte.

Solo.

Privo di tutto,

tranne dalla mia bara che era lunga

quanto l’arca di Noè.

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Un cranio

Ogni volta che il poeta viene

circondato dalla paura e dalla noia

o la sua memoria viene accarezzata da un pensiero

di nostalgia verso un passato morto,

si precipita per leggere dentro

il libro di un folle saggio.

Un pazzo saggio, accusato di seduzione,

e di forte delirio

e di aver ucciso se stesso

con la lama della sua infanzia nuda.

Accusato di aver ucciso suo padre,

la sua compagna e i suoi figli

e di aver ucciso la sua memoria

dai mille e mille buchi.

Il libro era voluminoso

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e le sue righe erano scritte in due lingue:

una morta e una estinta.

Ma il poeta quando prese con sé il libro,

verso il paese lontano,

le sue righe diventarono di sangue e carbone

mentre strane urla si sollevavano.

Piuttosto, il libro si trasformò durante una sera intensa,

in un cranio!

Non vi era scelta allora:

il poeta indossò il cranio!

La sua paura, la sua noia e la sua passione si trasformarono

in piccoli crani scritti in arabo classico

chiaro ed eloquente!

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Lo scimpanzé del deserto

Quando lo portarono dal deserto al re,

quest’ultimo ne rimase stupito,

poiché non aveva mai visto ballare un scimpanzé

con sì tanta leggerezza e maestria!

Per tale ragione, l’animale era divenuto

il passatempo preferito del re,

giorno e notte,

anzi, il re organizzava esibizioni

per le sue mogli grasse

o per i suoi ospiti buffi, senza personalità e senza carattere.

Ma lo scimpanzé cominciò ad annoiarsi

e per questo lo portarono nella foresta

Per incontrare le altre scimmie,

e lì, lo scimpanzé, con fierezza mostrò loro

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i regali del re:

banane d’oro,

mele d’oro,

pere d’oro.

E le scimmie, non appena videro questi frutti strani,

si rallegrarono

e tentarono di masticare

le banane d’oro,

le mele d’oro,

e le pere d’oro.

E quando non riuscirono a farlo

buttarono i frutti d’oro

sulla terra

e arrampicandosi sugli alberi,

cominciarono a lanciare gridi di malizia

e di sarcasmo, ridendo dello scimpanzé del re

che in quel momento provava vergogna,

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vergogna di se stesso e dei suoi amici

e del re e dei suoi regali:

le banane d’oro,

le mele d’oro,

e le pere d’oro!

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Ḥā’ bā’

Della mia morte

nessuno riferì alle lettere dell’alfabeto.

Nessuno raccontò la notizia dolorosa,

tranne la ḥā’, che aveva intuito l’accaduto

e la bā’, che aveva visto in sogno ciò che sarebbe successo.

Quindi, entrambe decisero con tenacia di accompagnarmi

sino all’ultima ed eterna dimora

nei più reconditi continenti dell’acqua e del buio.

Piangevano

ed erano sconvolti

come una barca di rifugiati,

che sta per annegare in un mare di tenebre.

Sì! È così, perché la ḥā’ è il compagno

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della mia infanzia mummificata dal freddo e dalla privazione,

e della mia gioventù che assomiglia

ad un cammello smarrito nel deserto.

E la bā’ è il compagno della mia vecchiaia,

che spesi sulla costa lontana

Per contemplare il blu del mare

e le sue bugie,

intendo le sue poesie nude

che per sempre continueranno

a morire e a delirare.

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Coloquintide

(1)

Nella casa di fango e nella patria di fango,

ti daranno un piatto di melone per dimenticare,

melone dolce che non appena degusterai

ti sembrerà amaro quanto la coloquintide .

(2)

Lo spettacolo è senza dubbio duro,

il garage delle macchine è isolato e buio

e tu scappi da un sole nero verso un altro verde.

Dovrai mentre sei nel profondo della tua infanzia quotidiana,

nascondere i nomi delle tue piogge,

e il raggio dell’anima dentro il tuo cuore

e dovrai stare attento all’autista sospettoso

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e all’orrendo uomo, che stacca i biglietti,

e ai passeggeri che assomigliano a carcerati

portati alla ghigliottina.

(3)

Il viaggio non era che un viaggio giuseppiano,

perché inghiottire il melone si era ripetuto un’altra volta

anzi accadeva sotto la minaccia

ed era diventato sintomo della putrefazione dei luoghi,

dell’inutilità del pozzo

e del ritardo della pioggia!

Sì,

perché l’amarezza del melone aveva un altro nuovo gusto,

quello dell’ideologia,

della polizia segreta e quella ufficiale

e il gusto dei clown uomini e donne

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e il gusto delle città approvate dalla fame

e dai letamai notturni.

(4)

Cambierai il melone con un altro.

L’amarezza conduce alla morte.

L’amarezza si ripete.

L’amarezza è accompagnata dalla solitudine,

dal glossario degli errori,

e dalle stupidità del desiderio e dell’amore.

(5)

Stai attento, sta arrivando la morte,

e la frusta dell’ideologia rende gli uomini

ubriachi o quasi,

cambierai allora il melone del fango

con il melone del mare

intendo il melone del paese del mare,

non importa,

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gli equivoci sono diventati eterni

come dicono i filosofi

e cronici come dicono i medici

attento, il mare sta arrivando.

(6)

Oh mio Signore

il viaggio è molto più duro del previsto.

Le mie piogge stagionali mi stanno circondando

e dentro i sogni mi rallegro per attimi,

e nel Paese del mare incontro

il maiale, il servo dei rei ingiusti

e con il rinoceronte, il mangiatore delle mondezze

e con lo scrittore degli articoli della spazzatura

e con la scimmia che passò tutta la vita

dentro il carcere del deserto.

Oh mio Signore,

il viaggio è più duro del previsto

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e la M O R T E è diventata la cosa

che mi caratterizza

La M O R T E con la quale tendo di cambiare

il posto delle lettere, mettendo a volte la “E”

al posto della “R”,

e la “R” con la “M”

senza ottenere nulla

e quindi mi metto a scrivere la “Alif”

usando il mio sangue come inchiostro,

e gli chiedo di volare,

ma lui non ci riesce.

E poi mi rendo conto della “dāl”: la “dāl” dell’infanzia,

la “dāl” delle piogge stagionali,

la “dāl” dell’inchiostro verde e del sole verde

e dell’abito verde dell’amata,

gli ordino di venire,

Page 136: Quaranta poesie sulla lettera asma gherib adeeb kamal ad deen italia 2011

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ma non ci riesce.

La “yā’” è “bā’”

E la “bā’” è l’ultima cosa che mi è rimasta

E la “bā’” è la tua oh mio Signore!

(7)

Oh mio Signore,

il melone è amaro come la coloquintide.

E la coloquintide è diventata come un coltello che taglia la faringe,

e tu sei più vicino che la vena del collo

cosa devo fare dunque?

Oh mio Signore,

il melone è diventato più amaro della morte,

la morte che è scomparsa in un passato che sapeva

come mascherarsi e camminare in mezzo al buio,

e in un presente che sa come fare la compagnia

alle scimmie e ai maiali

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e in un futuro che nasconde un sole nero,

che i filosofi chiamano il sole del nulla

e i poeti chiamano il sole della verità

e i sognatori chiamano il sole delle piogge stagionali.

E che lui chiama, o loro chiamano, o che tu chiami…

insomma a che scopo?

L’unico frutto qui è il melone

il melone è oscuro e orrido,

affetto dall’ideologia degli equivoci

e della sfortuna,

anzi la fortuna è il melone

il melone è l’infanzia

il melone è la festa e gli abiti della festa,

il melone è l’Eufrate,

il melone è l’abito verde della donna

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e il sole verde di Dio.

Oh mio Signore,

il viaggio è più duro del previsto.

Lo chiamano, e lo chiamo, o lo chiami ,viaggio…

Insomma a che scopo?

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In una lontana primavera

In una lontana primavera,

le lettere misero sù una mostra all’aria aperta,

la “bā’” dipinse una donna nuda,

che vendeva le uova al mercato;

la “ḥā’” dipinse del sangue gorgogliante

e dei boia che si ammazzavano tra di loro come delle bestie feroci;

la “rā’” , nel cambiare il suo suono in una “gha” ,

dal suo bicchiere cadde l’infanzia dell’Eufrate

e nei suoi occhi sorsero i colori della festa lontana

ed era così che risero delle sue tasche strappate dal tempo,

producendo film d’amore e di vendetta;

la “sīn” invece dipinse con splendore

la scena del fango e dell’acqua.

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Il “punto” colorò invece la scena

della confusione e della perplessità;

la scena che raffigura i profeti,

gli amici di Dio e i poeti

mentre si scambiano le condoglianze,

sullo sfondo di uno spettacolo funebre

affollato di angeli,

e dalle grida dei seguaci, dei peccatori,

dei fedeli e degli apostati.

L’unica a rimanere ferma lì,

nel suo altissimo balcone era l’“alif”,

osservava la mostra con stupore,

aveva passato tutta la vita a contemplare

la scena della donna nuda,

del sangue gorgogliante, delle grida dei boia,

dell’infanzia dell’Eufrate,

dei filmi dell’amore e della vendetta

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e la scena della confusione

affollata di profeti, di angeli, di peccatori e degli apostati.

L’unica a rimanere ferma lì, a osservare la scena tragi-comica

era l’“alif”.

L’“alif”, però, in una primavera strana

cadde dal suo balcone alto.

(si era detto che fu un gruppo di angeli a incoraggiarla a volare, e si era anche detto che fu Satana a sedurla e a spingerla a buttarsi dal balcone.)

Ma quando giunse a terra,

la hamzah si staccò dalla sua nobile testa.

E a quel punto, svegliandosi, ella cominciò a gridare dicendo: perché?

Come?

Da cosa?

Per cosa?

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E a che cosa?

Le lettere non diedero alcuna importanza alle sue domande importanti,

e neanche alle sue lacrime calde.

Rimasero lì, a curarsi della loro mostra,

all’ aria aperta ogni primavera.

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Non era servito a nulla

Quando nacque l’alfabeto

(serviva forse a qualcosa

la sua nascita?)

scese per nuotare dentro il mare della lingua,

tanto da rischiare di annegare in mezzo

a quel mare agitato e strano

Gli fu detto: Oh, tu! mettiti a cercare il “punto”!

e lui rispose: A che scopo?

E gli fu detto: stai attento, non avrai senso senza il “punto”.

E quando iniziò il viaggio della ricerca

fu colpito da tutte le catastrofi del mare:

la sfortuna,

la pessima valutazione,

la pessima scelta

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e la pessima gestione delle cose.

L’alfabeto non si perse d’animo

il suo cuore era allegro come un sole tropicale .

gli fu detto: Non cedere,

la lingua è un mare caparbio,

essa non è un festa oppure un battello di festa.

E così che egli continuò a combattere per settant’anni,

anni, che erano tutta la sua vita

fino a quando non fu colpito da una brutta fine!

Che peccato!

Tutto ciò non era servito a nulla!

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145

Una poesia senza titolo

(1)

Quando sparsi le lettere sopra un foglio,

vidi una stranissima scena:

Vidi una lettera che provocava incendi

in tutti i luoghi.

E vidi un’altra lettera che soffocava il passato

e sparpagliava le ceneri del futuro.

E vidi la terza frustrata da se stessa

e la quarta che sognava una nuvola d’amore

che poteva portarla lontano, lontano,

dove i corpi sono morbidi come il burro

e i baci hanno il gusto dell’incontro.

E vidi la quinta che truffava, divertendosi

con le bugie e le futilità.

E vidi la sesta piangere la sua infanzia.

E la settima scossa dal suo “punto”.

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E l’ottava immersa nella “yā’” e nella “sīn”,

E la nona persa dentro il suo calice e il suo vino.

(2)

La scena era grigia:

la poesia,

intendo la frase,

intendo la parola

con le sue none lettere,

non riusciva a nascere

visto che non era capace di raggiungere

se stessa, alla fine della corsa.

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Tu sei tu, ed io sono io

Disse l’alfabeto:

oh, tu “punto”,

tu eri me

ed io ero te

quando eravamo in mezzo al bacio,

in mezzo al letto stretto,

in mezzo alla primavera dell’amore,

in mezzo al sogno dell’uccello volante sopra il mare.

Cosa successe allora al bacio,

al letto stretto,

alla primavera del mare,

perché tu diventassi tu,

ed io diventassi io?

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Un Paese magico

Dentro il Paese del canguro

dovrai volare senza testa,

senza ali e senza bussola

o orientamento.

E mentre attraversi l’oceano

con il tuo legno galleggiante

dovrai dormire,

e dovrai attraversare l’oceano

e scomparire pian pianino mentre

ancora galleggi sul tuo legno

e dovrai scomparire mentre sogni

e dovrai sognare mentre stai prendendo fuoco

e dovrai bruciarti mentre dormi

intendo, in un maestoso silenzio,

dovrai prendere fuoco mentre dormi!

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Tolstoj, amico mio

Non hai il diritto Tolstoj, mio grande amico,

di gettare Anna Karenina

- la protagonista del tuo romanzo -

sotto le ruote del treno!

Come hai permesso alle ruote del treno

di spezzare le dita raffinate di Anna,

il suo volto reso radioso dalla dolcezza, dalla finezza e dalla bellezza,

i suoi capelli seducenti

e il suo corpo, di cui si sono innamorati tutti quelli

che l’hanno visto?

Non hai il diritto, mio caro amico,

di uccidere Anna

davanti ai miei occhi appesantiti dalle lacrime

e il mio cuore annegato in mezzo al pianto,

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e il mio corpo che si consumava lentamente

nei posti estremi della terra

per fare di me un testimone muto,

incapace di fare qualsiasi cosa,

se non chiedere scusa ad Anna Karenina,

ogni notte,

con parole senza senso,

senza forma,

per un delitto

che non aveva mai commesso!

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La caduta dell’alfabeto e l’ascesa del “punto”

Quando iniziammo a bere il vino

dentro la taverna della gioia,

felici in mezzo alla musica stupenda

e ubriachi come dovevano esserlo gli uomini mortali come noi,

cadde l’alfabeto,

cadde svenuto sulla terra,

dal suo trono alto

e dal suo corpo si sparpagliarono uccelli, passeri

sangue, lacrime

preghiere e grida.

E quando voltai la testa verso il “punto”

vidi quest’ultimo alzarsi

e salire sul palcoscenico della taverna della letizia

cominciando a denudarsi e a ballare,

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a ballare e denudarsi

con tutto il desiderio possibile

e con tutta la passione e la follia.

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Perché

Dio mio

la morte ha portato via l’innamorato e l’amato,

il cantante,

la canzone,

e gli ascoltatori, uno dopo l’altro.

Poi ha portato via il proprietario del bar, che mandava

la canzone dalla sua radio antica ogni giorno.

E ha portato via la radio antica,

le sedie e i grandi specchi del bar

e infine senza introduzione dotata di significato

o di senso,

la morte portò via il fiume enigmatico,

quello che dava al bar,

alla canzone,

al cantante,

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agli ascoltatori,

al proprietario del bar e alla sua radio antica,

la magia della vita.

Dio mio,

solo io ero rimasto lì, l’unico sopravvissuto,

l’unico testimone di ciò che accadde

cioè l’unico rimasto vivo che sta scrivendo queste lettere

con la sua penna maledettamente confusa

e che si ferma ogni minuto

per accertarsi se le sue dita sono ancora

capaci di scrivere!

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Pianto

(1)

Il bambino si sedette in mezzo

ad una folla immensa di poeti

che piangevano suo padre che mori all’improvviso

senza premessa e senza basmalah ,

lasciando il bambino in preda ad una solitudine ed estraneità colma di tristezza.

I poeti esageravano nel lodare suo padre,

ne parlarono con parole eloquenti

di cui il bambino non ne aveva capito neanche una .

Dissero che il padre era un poeta,

bravo ed illustre,

che con la sua poesia aveva sempre vinto

i più bravi poeti, classici e moderni.

Il bambino disse fra se e sé:

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(che vuol dire bravo ed illustre?

E cosa significa aveva sempre vinto

i più bravi poeti, classici e moderni?)

i poeti procedettero con la loro serata

mangiando una cena di lusso preparata da una

persona benefattrice e straniera,

e poi iniziarono a parlare di vino e di calici,

anzi alcuni di loro si misero a ridere con bocche senza denti,

con un altro che stava raccontando

a voce bassa una barzelletta spinta.

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(2)

E quando i poeti andarono via

verso la fine della serata,

il bambino si mise a piangere amaramente suo padre,

a piangere il suo separarsi di lui,

a piangere parole dalle quali non aveva capito niente

e a piangere anche quella cena,

della quale non aveva assaggiato

neanche un boccone!